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Dopo i libri del Cortegiano, con il passare dei decenni del Cinquecento, i
vari trattati non appaiono più, o non solo, «delle costruzioni intellettuali finaliz-
zate all’institutio di un perfetto uomo di corte in quanto armonico insieme di
competenze, [...] ma dei semplici manuali di comportamento settoriale, serie di
regole concrete applicabili a situazioni determinate e limitate dalla realtà»1. La
discendenza castiglionesca si declina così lungo due assi principali: la «singola
occasione sociale (giardinaggio, ballo, banchetto, caccia, conversazione, amore
galante, scherma, duello)»; e «il singolo ruolo sociale [...] (amante, marito,
padre, studioso, mercante, soldato, diplomatico, funzionario, con le varianti
ecclesiastiche del vescovo e del cardinale)»2.
Anche il cuoco, lo scalco, il trinciante, insomma gli addetti alla res gastrono-
mica – «gastronomia» significa propriamente «regola dello stomaco» – diventa-
1
R. RINALDI, Il «saper vivere» del gentiluomo: interessi figurativi, tecniche mondane e stra-
tegie editoriali nella trattatistica specializzata, in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da
G. Bárberi Squarotti, to. II, Umanesimo e Rinascimento, Torino, UTET, 1993, p. 1679. Acquisita
ormai da vari anni la nozione di «genere letterario (o almeno di un sottogenere)» per la trattatisti-
ca sul comportamento (Cfr. G. PATRIZI, Il libro del Cortegiano e la trattatistica sul comportamen-
to, in Letteratura Italiana Einaudi, diretta da A. Asor Rosa, vol. III, Torino, Einaudi, 1984, p.
855), come noteremo in seguito, le «grammatiche» che organizzano l’universo dei cibi, del modo
di prepararli, di come servirli e soprattutto dei molteplici mestieri della cucina obbediscono
senz’altro ai principi dell’institutio specifica; accanto al «mestiere» delle armi, delle lettere, del
segretario, sempre nel medesimo orizzonte aristocratico e nobiliare, si forma, si specializza – e
perciò si formalizza – quello del cuoco, del mastro di casa, del vivandiere ecc.
2
Ibid.
113
Matteo Lefèvre
3
Cfr. soprattutto M. MONTANARI, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in
Europa, Roma-Bari, Laterza, 1993.
4
Numerosi sono, ad esempio, gli studi di carattere socio-economico consacrati alle moda-
lità e ai problemi dell’alimentazione nel Medioevo. Tra questi, negli ultimi anni, segnaliamo
soprattutto Food in the Middle Ages: a book of essays, a cura di M. Weiss Adamson, New York
–London, Garland, 1995; ma anche, limitatamente alla realtà francese, L. STOUFF, La table pro-
venzale: boire et manger en Provence à la fin du Moyen Age, Avignon, Barthemy, 1996.
5
Basti pensare al cambio di alimentazione e gusti dovuto alla scoperta dell’America, con
l’introduzione di cibi esotici, tuberi, cioccolato, the, caffè nella dieta europea. Per questo
discorso, cfr. M. G. PROFETI, Dal grado zero al simbolo: ricette di lettura, in Codici del
gusto, a cura di M. G. Profeti, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 9.
6
Al di là dell’accettabilità o meno di certe vivande all’interno della precettistica di ogni
credo – per il contesto europeo, naturalmente, in relazione ai tre grandi culti monoteistici: in
rigoroso ordine di apparizione, ebraismo, cristianesimo e islamismo –, si considerino i divieti
dettati, nel secondo caso, dal tempo liturgico (Quaresima) o dalle festività più importanti (la
cena “di magro” della vigilia di Natale o del venerdì santo). L’alimentazione diventa così
indicatore inesorabile di distinzione sociale, etnica e religiosa. Per questo discorso, cfr. diret-
tamente Homo edens. Regimi, miti e pratiche dell’alimentazione nella civiltà del mediterra-
neo. Atti del Convegno di Verona, Verona, 1989, pp. 25-30; e per descrivere il caso della
realtà ispanica, in cui convivono tutt’altro che pacificamente usi, costumi e pratiche culinarie
appartenenti alle tre religioni nominate, M. CICERI, Lo smascheramento del “converso” e i
suoi stereotipi nei canzonieri spagnoli, in Miscellanea in onore di Aurelio Roncaglia,
Modena, Mucchi, 1989, passim.
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Res culinaria e Ars coquinaria
no umanisticamente, sia per la forma che per i contenuti, ad alcuni testi capitali
dell’età classica: il riferimento è chiaramente al De re coquinaria di Apicio,
ristampato ad inizio secolo dall’editore Giovanni Tacuini (Venezia, 1503)7, ma
altresì al Banchetto dei savi di Ateneo, tradotto in volgare e pubblicato anch’es-
so al principio del Cinquecento dalla tipografia di Aldo Manuzio (Venezia,
1514), che parla diffusamente di cuochi famosi dell’antichità, di costumi dei
conviti, ma anche di proprietà di carni, verdure e vini 8. E accanto a questi “clas-
sici”, ancora in età e atmosfera umanistica, vanno segnalati almeno il De mori-
bus puerorum et regimine mensae di Sulpicio da Veroli (L’Aquila, 1483), che
ebbe numerose ristampe; il De honesta uoluptate & ualitudine di Bartolomeo
Sacchi, il Platina (Roma, Ulrich Han, 1473-75) 9; e, nel pieno del secolo XVI, il
De civilitate morum puerilium di Erasmo da Rotterdam (Parigi, 1530), che fu
edito anche in Italia negli anni successivi 10. In particolare, nel testo del Platina,
tra una dotta disquisizione culinaria e l’altra, interessante è la presenza di un
embrionale ricettario: oltre al modo di preparare la mensa e alle diete più oppor-
tune, si parla di come cucinare lessi, arrosti, pesci, pasticci, dolci ecc., e anche
di vini. Questo filone gastronomico-erudito continuerà fino alla fine del
Cinquecento, e nella seconda metà del secolo ne proseguono la tradizione due
compendi significativi, che permettono di verificare ulteriormente le linee guida
e le ramificazioni della tipologia di cui stiamo parlando. In primo luogo, ricor-
diamo il Libro de’ pesci romani di Paolo Giovio (Venezia, Gualtieri, 1560):
all’interno di un’opera di ittiologia, in cui predomina la descrizione minuziosa
di numerosi pesci, Giovio non si sofferma solo sui loro nomi antichi e attuali e
sulle loro specie e varietà, ma argomenta anche dei loro pregi alimentari e della
maniera di cucinarli. Il trattato affianca così, senza troppi problemi, le digressio-
ni sull’onomastica latina della fauna ittica, e sulle usanze dei romani antichi di
7
Cfr. soprattutto G. FLORIO, La cucina degli Antichi Romani: appunti per una tradizione,
in Le cucine della memoria. Testimonianze bibliografiche e iconografiche dei cibi tradiziona-
li italiani nelle Biblioteche Pubbliche Statali, vol. I, Roma, Edizioni De Luca, 1995, pp. 13-
25; ma anche, in generale, L’alimentazione nel mondo antico. Cibi e libri, Roma, Istituto
poligrafico dello Stato, 1987. Nel saggio di Florio sono appunto catalogate le edizioni cinque-
centesche presenti nella Biblioteca Casanatense di Roma – pubblicate da tipografi di chiara
fama, come Aldo Manuzio a Venezia o Antonio Blado a Roma – dei trattatisti latini che,
occasionalmente (Varrone, De re rustica) o espressamente (Apicio, De re coquinaria), parla-
rono di cibo e cucina.
8
Su Ateneo, si veda soprattutto L. FIRPO, La gastronomia del Rinascimento, Torino,
UTET, 1974, p. 9.
9
Cfr. soprattutto J.-L. F LANDRIN , Chronique de Platine. Pour une gastronomie
historique, Paris, Odile Jacob, 1992. Il trattato del Platina fu comunque presto tradotto e pub-
blicato in italiano: De honesta voluptate & valitudine vulgare, Venezia, s. n., 1508.
10
Ricordiamo almeno le due edizioni giolitine del 1545 e del 1547.
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Matteo Lefèvre
consumarla, a una parte che illumina sui pesci più “gettonati” con cui a Roma
«si apparecchiano buoni bocconi». Come secondo esempio di un approccio
ancora erudito e antiquario, negli anni novanta del secolo, va segnalato invece,
sul fronte della cultura enologica, l’ampio lavoro di Andrea Bacci, De naturali
vinorum historia, de vinis Italiae et de conuiuis antiquorum libri septem (Roma,
Nicola Muzio, 1596), che consiste in un compendio dei vini europei, antichi e
moderni, ma che non funziona come un manuale di arte del vino 11.
Al lato di queste summae di gastronomia antica e moderna, che non rinuncia-
no all’indagine di carattere antiquario, sempre sul versante dell’analisi della
«natura de’ cibi» si collocano le opere di dietetica. Queste ultime si distanziano e
differenziano da quelle di erudizione culinaria, operando ormai a livello pretta-
mente medico, e sul finire del Cinquecento, dopo vari scritti con tale impostazio-
ne, il processo è portato a compimento dal medico bolognese Baldassarre Pisa-
nelli, che nel suo Trattato della natura de’ cibi e del bere, a dispetto del titolo
“ambiguo”, si limita esclusivamente a rilievi di carattere terapeutico e igienico12.
In aperta contrapposizione rispetto ai repertori e ai compendi storico-eruditi
dedicati a indagare e illustrare nomi e peculiarità di ogni sorta di alimento, non-
ché distanti anche dai lavori di impostazione medica, nel corso del secolo XVI
vedono la luce diversi trattati specialistici di ars coquinaria realizzati da «addet-
ti ai lavori». Anche all’interno di quest’ambito, tuttavia, è opportuno operare
un’immediata distinzione di base. In primo luogo, inseriamo nella categoria i
trattati sull’organizzazione e l’apparato dei banchetti nobiliari, la cui particola-
rità è esemplificata dai precetti del «conte» Cristoforo Messisbugo13, il quale
11
A quest’opera sembra fare il controcanto, sempre in ambito romano, un singolare trat-
tato sulla salubrià dell’acqua del Tevere: A. PETRONIO, De aqua tiberina. Opus quidem
nouum, sed ut omnibus qui hac aqua utuntur utile, ita et necessarium..., Roma, Valerio e
Aloisio Dorico, 1552.
12
B. PISANELLI, Trattato della natura de’ cibi et del bere... nel quale non solo tutte le
virtù, & vitij di quelli minutamente si palesano; ma anco i rimedij per correggere i loro difet-
ti copiosamente s’insegnano: tanto nell’apparecchiarli per l’uso; quanto nell’ordinare il
modo di riceuerli..., Roma, Bartholomeo Bonfadino, & Tito Diani, 1583. Per l’impianto sem-
plice e schematico questo manuale di dietetica godette di un certo successo anche nel secolo
successivo. Affini al progetto di Pisanelli, ricordiamo comunque anche Il libro di Galeno de i
buoni e tristi cibi dal greco per M. Francesco Imperiale, & à beneficio di ciascuno, che desi-
dera di vivere sano, mandato in luce in lingua volgare, Genova, Antonio Belloni, 1560; ma
anche C. DURANTE, Il tesoro della sanità, di Castor Durante da Gualdo, medico, & cittadino
romano. Nel quale s’insegna il modo di conseruar la sanità, & prolungar la vita, et si tratta
della natura de’ cibi, & de’ rimedij de’ nocumenti loro. Con la tauola delle cose notabili,
Venezia, Andrea Muschio, 1586; e G. CARNIGLIA, Tractatus de modo cibi sumendi, Genova,
Hieronymi Bartoli, 1594.
13
C. MESSISBUGO, Banchetti compositioni di vivande, et apparecchio generale, dI
Christoforo di Messi Sbugo, allo illustrissimo et reverendissimo signor il signor don
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Res culinaria e Ars coquinaria
esercitava realmente tale funzione presso gli Estensi. In secondo luogo, nell’a-
nalisi dei ruoli sociali connessi con la preparazione e il servizio del cibo sorge
una trattatistica specializzata sul comportamento di cuochi, «scalchi», «trincian-
ti» e di altri «ofiziali» della cucina e della tavola, e gli esempi più autorevoli di
questa didattica dell’«arte vivandiera» sono senza dubbio costituiti dai manuali
“autobiografici” di Domenico Romoli14, Giovan Battista Rossetti15 e Vincenzio
Cervio16: tutti e tre, tra l’inizio degli anni sessanta e la prima metà degli anni
ottanta, vedono pubblicati i propri lavori dedicati rispettivamente alla formazio-
ne del «perfetto scalco» e del «perfetto trinciante». Infine, ascriviamo natural-
mente al gruppo di testi compilati da “gente del mestiere” il genere ricettario, di
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Matteo Lefèvre
1) I libri di res culinaria, di tipo sostanzialmente erudito e compilati perciò da non addetti
ai lavori (ad es., Platina, Erasmo ecc.)
2) I libri sul cibo dal punto di vista della sanità e della medicina (Pisanelli)
3) I trattati sull’organizzazione e l’apparato dei banchetti (Messisbugo)
4) L’Institutio dello scalco (o del trinciante) ad opera di professionisti del mestiere
(Romoli, Rossetti, Cervio)
5) Il ricettario (Scappi)
17
B. SCAPPI, Opera di M. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di Papa Pio V, divisa in sei li-
bri... Con il discorso funerale che fu fatto nelle essequie di Papa Paulo III. Con le figure che fan-
no bisogno nella cucina, & alli Reuerendissimi nel Conclaue, Venezia, Michele Tramezzino, 1570.
18
Tra le pubblicazioni dedicate alla cucina dei secoli XIV-XV, segnaliamo soprattutto J.
L. FLANDRIN- O. REDON, Les livres de cuisine italiens des XIV et XV siècles, in «Archeologia
medievale», VIII, 1981, pp. 393-408; B. LAURIOUX, I libri di cucina italiani alla fine del
Medioevo: un nuovo bilancio, in «Archivio Storico Italiano», CLIV, 1996, pp. 33-58; e, dello
stesso, Les livres de cuisine italiens à la fin du XV et au début du XVI siècle, expressions d’un
syncrétisme culinaire méditerranéen, in La Mediterrània, àrea de convergència de sistemes
alimentaris (segles V-XVIII), Palma, Institut d’Estudis Balearics, 1996, pp. 73-88.
19
Vale inoltre la pena ricordare un altro manoscritto napoletano del XV secolo, il cosi-
detto Cuoco Napoletano, studiato recentemente da T. SCULLY, Cuoco Napoletano. The
Neapolitan Recipe Collection (New York, Pierpont Morgan Library, Ms. Buhler, 19). A
118
Res culinaria e Ars coquinaria
compilato da un Anonimo toscano verso al fine del Trecento, ma, per l’interna-
zionlità della lingua di composizione (latino), anche numerosi trattati europei di
poco successivi. Questo singolare manoscritto concepito in seno alla corte
angioina rispecchia la realtà di appartenenza, e per ciò che concerne le ricette si
limita «a indicazioni [...] “libere” che presuppongono di rivolgersi a professioni-
sti del mestiere anziché a cuochi domestici»20, professionisti ovviamente inseriti
in modo organico nel sistema cortigiano. Nella seconda metà del Quattrocento
compare invece Martino de Rossi, «la prima “firma” importante nella storia
della cucina italiana, a cui si deve un Libro de arte coquinaria (Roma, 1464-65)
che costituisce un vero salto di qualità (contenutistica oltre che formale) rispetto
alla precedente letteratura sul tema»21. E dal plagio di questo testo, rimasto
manoscritto, nasce il primo autentico ricettario del Cinquecento, l’Epulario di
Giovanni de’ Rosselli, che ebbe uno straordinario successo di vendita22.
Sorvolando sul Refugio del ferrarese Colle 23 e sul Refettorio di Eustachio
Celebrino24, per alludere a un altro testo che non affronta espressamente, cioè
Critical Edition and English Translation by Terence Scully, initially with the collaboration of
Rudolf Grewe, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2000.
20
Per un breve ma preciso excursus storico, con tutti i riferimenti bibliografici del caso,
cfr. direttamente A. CAPATTI-M. MONTANARI, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-
Bari, Laterza, 1999, in particolare pp. 8-13 (la citazione è a p. 8). Al contrario del Liber, altri
trattati del XIV secolo danno luogo ad una seconda specie di ricettari italiani orientati non più
intorno all’hortus conclusus e “privilegiatus” dell’aristocrazia, bensì alla scena cittadina,
indugiando così sulla «precisione – tutta “borghese” nel suo riferirsi a quantità, costi e previ-
sioni – [...]» (ibid.). Per il Libro della cucina e altri testi trecenteschi, cfr. comunque Il Libro
della cucina del sec. XIV: testo di lingua non mai fin qui stampato, Bologna, Commissione
per i testi di lingua, 1968 (Rist. fotom. dell’ed. Bologna, Romagnoli, 1863); e Libro di cucina
del secolo XIV, a cura di L. Frati, Livorno, R. Giusti, 1899.
21
Ivi, p. 13. Il libro è importante perché «[...] ha un’impostazione fortemente interregiona-
le, contribuendo in maniera decisiva alla definizione di un modello “italiano” di cucina», ibid.
Ancora nel Quattrocento, proprio il Platina si richiamerà esplicitamente ai preziosi suggerimenti
di «Maestro Martino». Comunque, per uno sguardo sulla storia della cucina italiana del secolo
quindicesimo, cfr. anche M. BENPORAT, Cucina italiana del quattrocento, Firenze, Olschki,
1996; ma anche, sebbene limitato all’area piemontese, A. SALVATICO, Il principe e il cuoco:
costume e gastronomia alla corte sabauda nel Quattrocento, Torino, Paravia Scriptorium, 1999.
22
Opera nova chiamata Epulario la quale tracta il modo de cucinare ogni carne, ucelli,
pesci de ogni sorte et fare sapori, torte, pastelli, al modo de tutte le prouincie, & molte altre
gentilezze. Composta per maestro Giouanne de Rosselli francese, Venezia, Zoppino, 1518.
L’opera conobbe ben quindici ristampe nel solo Cinquecento e almeno undici nel Seicento
(l’ultima è la veneziana del 1682) e detiene un significativo record: «non abbiamo migliore
esempio della durata di un genere didattico prima e dopo l’invenzione della stampa», sempre
CAPATTI-MONTANARI, La cucina italiana, cit., p. 186.
23
G. F. COLLE, Refugio de pouero gentilhuomo composto per Io. Francisco Colle,
Ferrara, Laurentio di Russi da Valentia, 1520.
24
E. CELEBRINO, Opera noua che insegna a parecchiar una mensa a uno conuito &
etiam a tagliar in tauola de ogni forte carne & dar li cibi secondo l’ordine che usano gli
119
Matteo Lefèvre
scalchi per far honore a forestieri intitulata Refettorio. Appresso aggiuntoui alcuni secreti
apertinenti al cucinare & etiam a conseruar carne e frutti longo tempo, Brescia, [Ludovico il
vecchio & Benedetto Britannico], 1532.
25
Lo pseudonimo non è casuale: lo stesso Lando aveva tradotto in italiano, nel medesi-
mo 1548, Utopia di Thomas More.
26
CAPATTI-MONTANARI, La cucina italiana, cit., in particolare p. 160. L’onorificenza gli
venne addirittura dall’imperatore Carlo V, che era rimasto colpito dalla sua perizia nell’alle-
stimento di un banchetto in suo onore. Comunque, per ulteriori notizie su Messisbugo, cfr. L.
C HIAPPINI , La corte estense alla metà del Cinquecento. I compendi di Cristoforo di
Messisbugo, Ferrara, Belriguardo, 1984, pp. 42-50; e sul linguaggio della sua opera, M.
CATRICALÀ, La lingua dei Banchetti di Cristoforo Messisbugo, in «Studi di lessicografia ita-
liana», IV, 1982, passim.
27
A. CORONGIU, Cucina e alimentazione romana nelle opere a stampa dei secoli XV e
XVI, in Le cucine della memoria..., cit., vol. II, p. 29. Anche il motto «Omnia mea mecum»,
che accompagna il volume, allude esplicitamente a tutti i segreti dell’arte che un “mestieran-
te” portava con sé.
120
Res culinaria e Ars coquinaria
di varie & diverse vivande dalla diligenza dalla industria & dalla esperienza del
mio basso & rozzo ingegno ritrouate & composte & in effetto fatte [...]»28. Sul
piano del genere, l’opera di Messisbugo si presenta come un insieme composito
e la partizione interna al volume lo conferma. Il libro è infatti scrupolosamente
strutturato: la prima parte consiste in una descrizione delle masserizie, degli
utensili, insomma dell’oggettistica della cucina, compresa di minuziosa rasse-
gna degli «offitiali» necessari alle varie attività e sottoposti agli ordini di un
«Siniscalco generale»; la seconda parte, storico-descrittiva, è dedicata al raccon-
to di cene e conviti vari tenutisi presso la corte ferrarese 29; nell’ultima e più
ampia parte del volume si trova invece un ricettario vero e proprio. Dal punto di
vista delle nostre analisi, la presenza del ricettario conferma la natura fortemen-
te tecnica e specialistica dell’intero trattato: se nella seconda sezione Messisbu-
go inclina verso l’encomio e sottolinea attraverso il pranzo il mecenatismo del
principe, le 315 ricette che costituiscono l’ultima parte del testo sono un funzio-
nale compendio non tanto teso a dare ulteriore lustro in sé alla magnificenza dei
signori, quanto a fornire indicazioni precise a cuochi, scalchi e attendenti vari,
insomma a coloro che devono rendere piacevoli e indimenticabili i pasti e le
feste di questi ultimi. La stesura di un ricettario è sentita quindi come dovere da
parte dell’autore, come dimostrazione, pratica oltre che teorica, della «maniera»
in cui furono organizzati i fastosi banchetti estensi: nella breve premessa che
introduce quest’ultima parte del trattato – che s’intitola coscientemente «Com-
positione delle più importanti vivande» e che si estende con nuova e indipen-
dente numerazione per circa centoquaranta pagine – si annunciano altresì alcuni
segreti del mestiere (come quello di usare, per risparmiare sullo zucchero, salvo
che per i «mangiari bianchi», il miele); e si ribadisce anche la «dignità» dell’uf-
ficio gastronomico, non soffermandosi perciò sulle ricette troppo semplici, su
quelle «cose, che da qualunque vile feminuccia ottimamente si sapriano fare»30.
La precisione nella guida alla confezione dei numerosi piatti – che spesso si
impreziosiscono anche di denominazioni esotiche («alla francese», «all’ingle-
28
MESSISBUGO, Dedicatoria, in Banchetti..., cit., f. 2r n.n.
29
In questa sezione si punta soprattutto sul dettaglio che metta in luce la magnificenza
del Principe: si descrivono gli illustri invitati, completi di tutte le cariche, si accenna alla bel-
lezza del luogo dove il convito si tiene e all’apparato festoso messo in piedi per l’occasione e
ovviamente si indugia sul menù proposto dal «Maestro di casa» Messisbugo. A proposito
degli spettacoli connessi con l’occasione festosa e fastosa, dal resoconto della «Cena di carne,
et pesce che fece lo Illustrissimo Signor Don Hercole [...]» della domenica 23 gennaio 1529,
sappiamo che l’“antipasto” che introduceva il banchetto estense era costituito addirittura dalla
recita della Cassaria di Ariosto: «Primieramente era adornata la Sala grande di Corte [...]
dove innanzi la Cena si rappresentò una Comedia di M. Lodouico Ariosto, chiamata la
Cassaria [...]», ivi, p. 4r.
30
Compositione delle più importanti vivande, ivi, ff. 31v-32r.
121
Matteo Lefèvre
31
Con l’avvento della Controriforma le restrizioni nei confronti di cibi e bevande saran-
no stabiliti dai capitoli delle diverse diocesi in modo perentorio e preciso e saranno spesso
raccolte in pubblicazioni specifiche. Molto attiva nel settore delle bolle ecclesiastiche in
materia di “cibi proibiti” si dimostrò la diocesi di Bologna, che negli ultimi decenni del
secolo pubblicò varie volte la sua Prohibitione, e bando di monsignor illustrissimo, et reue-
rendissimo cardinale... contra li cucinieri, & magnatori di carne li tempi prohibiti de santa
madre chiesa, Bologna, Alessandro Benaccio, 1565. Ancora più interessante è pero il feno-
meno della “spiritualizzazione” dell’institutio coquinaria: sempre nell’ambito del proibizio-
nismo cattolico post-tridentino, accanto ai trattati professionali sullo scalco “mondano”, tro-
viamo anche uno Scalco spirituale (Napoli, Roncagliolo, 1644), ad opera di Henrico da San
Bartolomeo del Gaudio, il cui intento è quello di fornire i metodi per reprimere cristiana-
mente l’appetito e che imita anche nel titolo un ricettario. Come sostengono CAPATTI-
MONTANARI, il ricettario si trasforma qui in una serie di «esercizi di inappetenza, astinenza,
digiuno che riducono il pranzo a qualche boccone recato alla bocca con la mano e ripropon-
gono l’immagine dell’uomo solo davanti al cibo e davanti a Dio», La cucina italiana..., cit.,
p. 156.
32
RINALDI, Il «saper vivere» del gentiluomo..., cit., p. 1693.
122
Res culinaria e Ars coquinaria
Tramezzino, nel cui nome sembra già scritto il destino di editore di trattati di
gastronomia del Cinquecento33. Nella dedicatoria «A M. Francesco Rustica
nobile padovano», anch’egli dedito alla «scalcaria» presso la corte romana, il
tipografo in prima persona informa i lettori che l’autore fu «al suo tempo Scalco
di un Papa, & si dilettò molto di intendere minutamente i documenti di questo
mestiero [...]»34. Oltre che per l’abilità nel trasmettere i rudimenti della sua pro-
fessione, Romoli è lodato perché ha mostrato anche «la qualità, perfettione, &
imperfettione de i cibi di tutte le sorti, la ragione de i condimenti di ebi quanto
alla sanità, quali sieno utili, & dannosi, secondo le complessioni di tutti gli huo-
mini [...]»35: con la specializzazione progressiva dell’ars coquinaria, i diversi
professionisti dell’alimentazione si preoccupano perciò sempre di più anche
della certificazione della qualità-sanità dei cibi, forse tenendo conto dei contem-
poranei e sempre più diffusi trattati di dietetica36. In base all’avvertimento di
Tramezzino, se l’orizzonte di produzione appare quello della curia pontificia, i
destinatari dell’opera di Romoli sembrano comunque essere prettamente altri
“potenziali” (o “attuali”) scalchi e perciò colleghi dell’autore stesso: siamo dun-
que nell’orizzonte tipicamente rinascimentale in cui autore e pubblico partecipa-
no di esperienze socio-culturali e referenti comuni, siano essi in posizione di
preminenza sociale, come principi o cortigiani d’alto rango, o semplici e più o
meno gratificate «genti meccaniche» dedite all’arte della gastronomia.
La «Tavola» posta all’inizio del volume illustra la complessa struttura del
testo. In particolare, il primo libro è dedicato espressamente al mestiere dello
scalco: egli è propriamente il sovrintendente della cucina e del banchetto, è colui
da cui dipendono i vari addetti al convito, tra i quali deve assicurarsi il servizio e
la fiducia di «tre oficiali al meno [...] che sieno pratichi, & sofficienti, che sono
Cuoco, Credenziere, & Spenditore»37. Romoli, in virtù della sua «lunga esperien-
za», vuole «mostrare, & insegnare le faccende, che si ricercano nell’officio d’un
Scalco secreto di questi nobilissimi Signori, e Reuerendissimi Cardinali[...]»38. È
33
Il veneziano Tramezzino dà alle stampe nel 1570 la princeps del ricettario di Scappi e i
suoi eredi pubblicarono anche la prima edizione del Trinciante di Cervio (Venezia, 1581),
nonché, nel medesimo anno, almeno una ristampa dello stesso Scappi (Venezia, 1581).
34
M. TRAMEZZINO, A M. Francesco Rustica nobile padovano, in D. ROMOLI, La singolare
dottrina, cit., passim.
35
Ibid.
36
A partire dal sesto libro, con cui inizia la «seconda parte» dell’opera, l’autore fornisce
soprattutto consigli circa la qualità e «sanità de’ cibi», consigli che culminano nel libro XIII
che consiste espressamente in un autentico trattato sulla salute: Breve et notabile trattato del
reggimento della sanità ridotto dalla sostanza della medicina di Roberto Groppetio, con
alcune cose notabili aggionte (pp. 359-376).
37
ROMOLI, La singolare dottrina, cit., p. 2.
38
Ivi, p. 1.
123
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Sia Giovan Battista Rossetti che Vincenzo Cervio, rispetto al progetto onni-
comprensivo del Romoli, rivolgono invece le loro attenzioni al singolo «addetto
ai lavori», e cioè rispettivamente allo scalco e al trinciante.
Rossetti fu anch’egli scalco professionista e perciò perfettamente inserito
nell’apparato cortigiano, giungendo alla carica di maggiordomo di Lucrezia
d’Este, duchessa d’Urbino. Il trattato dello Scalco, in tre libri, la cui prima edi-
zione esce per i tipi di Domenico Mammarello a Ferrara nel 1584, rispecchia la
consapevolezza dell’autore relativamente al ruolo di amministratore oculato e
servitore raffinato da lui ricoperto presso i principi: descrive anch’egli banchetti
all’italiana, alla francese, alla tedesca, e fornisce l’elenco dei cibi che si possono
preparare con ogni tipo di animale e verdura. Nella dedicatoria Rossetti compie
la consueta rivendicazione dell’ufficio dello scalco:
Confesso, che questa mia fatica, non è una delle sette arti liberali; ma ella è ben però di
tanta importanza, che senza quello, ch’è il suo soggetto [cioè l’institutio dello scalco], non si
può né viuere, né ben viuere; & tuttauia tale, che quanto gli huomini son più grandi, tanto
maggiore è il beneficio, che ne riceuono: & per dirla in poche parole, ella è veramente cosa
da Prencipi 39.
39
G. B. ROSSETTI, Alla Serenissima Madama mia Signora, et Patrona colendissima,
Madama Lucretia da Este Dùchessa d’Urbino, in ID., Dello scalco..., cit., p. 4 n.n.
40
Ibid. (corsivo mio).
124
Res culinaria e Ars coquinaria
[...] i presenti tre libri, del Signor Rossetti, conteneano materie, & ordini diuersissimi de’
conuiti, marauigliosi per la varietà, e moltitudine, e bellezza, restando sempre fra termini di
Scalco, e non trapassando mai à carica del cuoco, e insomma trattando cose non più trattate
da altri41.
41
D. MAMMARELLO, Ai benigni lettori, ivi, p. 6 n.n. E, come sempre, il libro è frutto della
lunga esperienza maturata dall’autore nel suo mestiere («certe cose osseruate da lui in 27 anni
ch’egli essercita questo mestiere», ivi, p. 7 n.n.).
42
Ragionamento di Vincenzo Cervio. Già trinciante dell’Illustriss. & Reuerendiss. Sig.
Cardinale Farnese, fatto sopra l’offitio del Trinciante, à Reale Fusorito da Narni suo
Scolare, in CERVIO, Il trinciante..., cit., pp. 1-82.
43
Aggiunta fatta al Trinciante del Cervio dal Cavalier Reale Fusoritto da Narni, trin-
ciante illustriss. Et rever. Sig. Cardinale Mont’alto, ivi, pp. 83-138. Cfr. anche la versione
moderna di R. FUSORITTO DA NARNI, Aggiunta fatta al Trinciante del Cervio, Firenze, Il
Portolano, 1979.
44
Il Mastro di casa. Ragionamento del Cavalier Reale Fusoritto da Narni trinciante del-
l’illustriss. Et reverend. Mo signor Cardinal Mont’alto: con il signor Cesare Pandini Mastro
di casa dell’Illustriss, & Reuerendissimo Signor Cardinal Farnese, ivi, pp. 142-162. Come
sostiene la Corongiu, del resto, quella del trinciante e del mastro di casa sono «due arti spe-
cializzate ma complementari», CORONGIU, Cucina e alimentazione..., cit., p. 31.
125
Matteo Lefèvre
[...] tre sono gli officij honorati, che sogliono dare li Principi grandi per la cura della
bocca loro; cioè dello Scalco, del Coppiero, & del Trinciante: & ogni uno di questi non si
suol dare se non à persone molto nobili, fidate, & domestiche45.
[...] ti mostrerò ancora come si deuono trinciare alcune cose nuouamente ritrouate da me,
come dire, cardi, Carcioffi, Pere, & Mele, & Gambari come al suo luogho si dirà [...]47
45
Ragionamento di Vincenzo Cervio..., cit., p. 1. L’ambito settoriale del progetto è con-
fermato dalla successiva lamentela per come sono spesso trattati economicamente i trincianti
presso le corti italiane, che appare un’autentica rivendicazione di categoria.
46
Ragionamento del Cavalier Reale Fusoritto da Narni, in CERVIO, Il trinciante..., cit.,
p. 87.
47
Ibid.
126
Res culinaria e Ars coquinaria
48
Della biografia di Scappi ci informa sommariamente l’autore stesso nella sua opera:
sebbene ricordi il suo servizio a Venezia sotto il cardinale Grimani, gli anni cruciali della sua
carriera si svolgono a Roma a partire dal 1536. Per un’analisi dei costumi delle corti romane
cinquecentesche, cfr., comunque, direttamente, G. FRAGNITO, Buone maniere e professiona-
lità nelle corti romane del Cinque e Seicento. Educare il corpo educare la parola nella tratta-
tistica del Rinascimento, a cura di G. Patrizi-A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 77-109,
che rimanda a numerosi altri saggi sull’argomento.
49
FIRPO, La gastronomia del Rinascimento, cit., p. 17.
50
I libro: «Ragionamento, che fa l’Autore M. Bartolomeo Scappi, con Giovanni suo
discepolo»: enumerazione delle qualità necessarie al cuoco; nozioni per la scelta degli ali-
menti; tecniche di preparazione e conservazione del cibo; masserizie e strumenti da cucina
funzionali.
II libro: come cucinare la carne, «sì di quadrupedi, come di volatili».
III libro: come cucinare i pesci
IV libro: «liste del presentar le uiuande in tavola, così di grasso come di magro»
V libro: cucinare paste, crostate, torte, fritti e pasticci di ogni genere.
VI libro: cibi adatti a infermi e convalescenti.
127
Matteo Lefèvre
[il miscere utile dulci] si può con verità affermare essere auuenuto à M. Bartolomeo
Scappi, autore della presente opera, hauendo preso per suo soggetto così necessaria materia
alla salute de’ corpi, & trattandola poi col maggior artificio, che alcuno da gli antichi in quà
habbia saputo fare, sì come ogni persona di sano intelletto potrà chiaramente comprendere
dal metodo dell’opera istessa, non meno utile, che diletteuole a tutti gli huomini, che la uor-
ranno leggere, e seruirsene ne i bisogni della uita loro [...]51.
51
Ai lettori, in SCAPPI, Opera..., cit., p. 10 n. (corsivo mio).
52
B. SCAPPI, All’illustre, et molto rever. Sig. il Sig. Don Francesco de Reinoso, scalco, et
cameriere secreto della Santità di N. S. Pio Quinto, in ID., Opera..., cit., p. 7 n.n.
53
Ibid.
54
Ivi, p. 8 n.n.
55
Dal punto di vista strutturale, CAPATTI-MONTANARI offrono una definizione convincen-
te del genere ricettario: «Il ricettario è a un tempo una raccolta di brevi testi didattici e la loro
disposizione in un certo ordine. Questo ordine ha tre variabili: le derrate principali che entra-
no nella ricetta, la tipologia della preparazione gastronomica, il servizio delle vivande», in
particolare, Comunicare la cucina: i ricettari, in ID., La cucina italiana..., cit., pp. 185-220
(la citazione è a p. 202).
128
Res culinaria e Ars coquinaria
[Ho] sempre messo ogni mio ingegno per farui huomo esperto, & intelligente in tal’arte,
acciò dopo la morte mia in uoi rimanessero tutte le mie fatiche, & pratiche, che ho fatto con
più Illustriss. Sig. Hora conoscendo io, che uoi sete gionto all’età di discernere il bene & il
male (appresso alle fatiche che ho durate in alleuarui, & ammaestrarui) mi sono disposto [...]
darui interamente l’ordine, & il modo, come ui haverete a gouernare nell’ebercitare tale offi-
cio, acciò prudentemente possiate seruire ogni Illustriss. Prencipe, & fare honore a chi con
tanta sua fatica si è pigliato cura che ne siate uenuto in pratica [...] 56.
56
B. SCAPPI, Ragionamento che fa l’autore M. Bartolomeo Scappi, con Giovanni suo
discepolo, in ID., Opera..., cit., p. 1r (corsivo mio).
57
Sul piano geografico, è interessante notare come il ricettario di Scappi mantenga una
solida prospettiva genericamente italiana: «Non solo le dettagliate «liste» di menù del quarto
libro, ma l’opera nel suo insieme è sostenuta da un respiro ampio, che, accentuando l’impo-
stazione comparativa già proposta da Platina, disegna un’immagine tendenzialmente comple-
ta del patrimonio culinario “italiano”, consapevolmente percepito come tale e come tale
129
Matteo Lefèvre
ne raggiunto dal ricettario di Scappi si riverbera anche, per ciò che riguarda le
zone paratestuali, nell’indice dettagliatissimo, che raccoglie le singole ricette in
ordine alfabetico sotto un’indicazione tematica comprensiva («Per far diuerse
minestre, e stufati di carne»; «per fare orzata»; «per far diuerse minestre d’her-
be» ecc.); nella scrupolosa «Tavola» degli argomenti, che è situata alla fine di
ogni singolo libro; ma soprattutto nell’appendice illustrata che chiude il volume.
L’impianto iconografico delle ventisette tavole delle illustrazioni, accompagnate
generalmente da didascalie esplicative, mostra infatti un catalogo di oggettistica
e utensileria che non solo serve a spiegare meglio la natura degli “attrezzi del
mestiere”, ma che non può nemmeno mancare a chi aspiri a trovar posto nel
Parnaso dei cuochi.
Prima di passare alle conclusioni, non bisogna dimenticare che i trattati culi-
nari fin qui analizzati fungono inoltre da modello per la riflessione gastronomi-
ca degli altri paesi europei “colonizzati” direttamente dalla cultura italiana del
Rinascimento. Accennando, per ragioni di economia espositiva, al solo caso ibe-
rico – del resto la Spagna e l’Italia nel corso del Cinquecento formano un unico
blocco politico, economico e culturale –, nello stesso modo in cui le ragioni del
classicismo rinascimentale sono esportate dall’Italia, attraverso pittori, scultori e
letterati, fino alle frontiere occidentali del Mediterraneo, così anche la trattatisti-
ca alimentare – redatta da un altro tipo di artisti, quelli dei “fornelli” e dell’«ap-
parecchio» – rientra nel repertorio italianizante venerato e imitato all’interno
delle montagne di Castiglia. Adeguandosi pienamente alla politesse castiglione-
sca, ad esempio, fu l’imperatore Carlo in persona a dettare nel 1545 le Etique-
tas, a cui doveva conformarsi tutto il personale di corte e che investivano ovvia-
mente anche la sfera del cibo. In prospettiva assolutamente cortigiana, le esigen-
ze del cerimoniale trasformano un atto meramente materiale e fisico come il
mangiare nell’ennesima occasione, da un lato, per perpetuare e mettere in prati-
130
Res culinaria e Ars coquinaria
58
Cfr. M. del C. SIMÓN PALMER, Comer, charlar, reír, in Codici del gusto, cit., pp. 116-
128. Soprattutto sull’esempio generale del De civitate morum puerilium di Erasmo alcuni
trattati spagnoli dell’epoca sul comportamento di principi e cortigiani contengono al loro
interno anche una «grammatica» dello stare a tavola: tra gli altri, segnaliamo F. MONZÓN,
Libro primero del Espejo del Príncipe christiano..., Lisboa, 1544; A. de GUEVARA, Aviso de
privados y doctrina de cortesanos..., Valladolid, 1539; ma anche, più vicini per ambiente e
destinatari all’orizzonte cittadino del Galateo dellacasiano, i due libri di L. PALMIRENO, El
estudioso en la aldea, Valencia, Casa Ioan Mey, 1568; e El estudioso cortesano, Valencia,
Petrus de Huete, 1573.
59
L’espressione «códices del gusto» è utilizzata nella prima parte del saggio di M. de los
A. PÉREZ SAMPER, Los recetarios de cocina (siglos XV-XVIII), in Codici del gusto, cit., pp.
152-184, a cui facciamo riferimento. La stessa autrice segnala due testi di area iberica che
ricostruiscono una storia del gusto: N. LUJÁN, Historia de la gastronomía, Barcelona, Plaza y
Janés, 1988; e J. F. REVEL, Un festín de palabras. Historia literaria de la sensibilidad
gastronómica de la Antigüedad a nuestros días, Barcelona, Tusquets, 1980; nonché alcuni
saggi dedicati espressamente alla cucina cortesana, tra cui ricordiamo M. C. SIMÓN PALMER,
La alimentación y sus circunstancias en el Real Alcázar de Madrid, Madrid, Instituto de
Estudios madrileños, 1982; della stessa autrice, La cocina de palacio 1561-1931, Madrid,
Castalia, 1997; e J. ALLARD, La cuisine espagnole au siècle d’Or, in Mélanges de la Casa de
Velázquez, t. XXIV, 1988, pp. 177-190.
In Spagna il genere del ricettario “cortigiano” prende piede fin dal secolo XV e si svilup-
pa naturaliter nel successivo. Per un panorama bibliografico dei ricettari nei diversi secoli,
cfr. il contributo fondamentale sempre di M.C. SIMÓN PALMER, Bibliografía de la gastro-
nomía española, Madrid, Velázquez, 1977. Per sottolineare ancora di più i legami tra cultura
gastronomica italiana e iberica, il primo ricettario pubblicato in Spagna è il già ricordato trat-
tato, quattrocentesco e inedito, del «cuoco napoletano» al servizio di Ferrante d’Aragona,
Roberto da Nola, tradotto in catalano con il titolo di Llibre de doctrina per a ben servir, de
tallar y el Art del Coch, ço és de qualsevol manera de potatges y salses, Barcelona, 1520.
L’opera ebbe grande successo nel corso del Cinquecento e ricevette varie edizioni sia in cata-
lano che in castigliano. Nel Cinquecento, sulla scia di Scappi, è degno di nota il trattato “alto”
e “ufficiale” di D. GRANADO, Libro del arte de cozina, Madrid, Luis Sánchez, 1599; e nel
secolo successivo, quello di F. MARTÍNEZ MONTIÑO, Arte de cocina, pastelería, vizcochería y
conservería, Madrid, Luis Sánchez, 1611, nel cui Prólogo al lector l’autore si dichiara
anch’egli un addetto ai lavori, in quanto «Cocinero Mayor» sotto Filippo III e IV.
131
Matteo Lefèvre
In base alle considerazioni fin qui annotate e in virtù delle analisi compiute
proviamo a tracciare schematicamente alcune caratteristiche fondamentali di
genere evidenziabili nell’ambito della trattatistica gastronomica così come essa
si manifesta nel corso del Cinquecento.
1. Il primo dato che emerge, e con il quale abbiamo aperto questo nostro saggio,
è l’attitudine fortemente specialistica e didascalica che orienta forme e contenuti di
questi manuali: materie prime, strumenti e operazioni proprie dell’ars coquinaria
sono analizzati in senso tecnico e funzionale; e i preziosi suggerimenti e ordina-
menti sono comunicati e tramandati a «discipuli», allievi vari e perfino «nipoti».
2. Altro aspetto chiaramente individuabile e altamente connotante è quello
dell’apologia dell’esperienza: gli autori da noi analizzati sono professionisti del
“mestiere dello spiedo”, sono addetti ai lavori dell’apparato cerimonioso dei
banchetti principeschi. Da Messisbugo a Scappi, tutti definiscono il contenuto
dei propri volumi come frutto della loro militanza nell’arte della cucina, di cui
sono divenuti smaliziati e insindacabili interpreti. E ulteriore dimostrazione che
questi trattati sono frutto dell’esperienza di una vita sta anche nel fatto che in
alcuni casi queste opere escono postume.
3. L’inserimento organico di questi trattati nella realtà cortigiana è conferma-
to dal fatto che, nonostante la settorialità dell’argomento e dei compilatori, spes-
so l’impostazione e la forma dei testi di ars coquinaria rispettano in pieno i pre-
cetti e le esigenze della cultura rinascimentale: principi quali quello dell’utile
dulci, dell’equilibrio tra le parti interne ai vari volumi, ma anche l’idea del
lustro che il principe riceve dall’omaggio del suo cuoco o scalco di turno rien-
trano a tutti gli effetti nel sistema del Classicismo.
4. Sul piano delle finalità di questi testi, dobbiamo osservare che perfino in
un autore come Messisbugo, il quale fin dal titolo intende lodare i suoi mecenati
attraverso l’occasione del banchetto, lo scopo principale risiede fondamental-
mente in un’alta funzionalità. Anche se non mancano, come in Scappi, «artifizi»
che rendono piacevole e brillante il dettato dell’institutio coquinaria, l’ottica
pragmatica sembra comunque predominare: ciò che preme a Romoli come a
Cervio è effettivamente la facilità di consultazione dei propri manuali e l’effica-
cia delle indicazioni ivi contenute.
60
M. de los A. PÉREZ SAMPER, Los recetarios..., cit., p. 161. Diego Granado copia addi-
rittura la ricetta «Para hacer platos de macarrones a la Romana»!
132
Res culinaria e Ars coquinaria
5. In tutti questi trattati una grande attenzione è riservata alle zone parate-
stuali. Il primo esempio è fornito dall’abbondanza di «Tavole» riassuntive e
indici, che rientra nell’ottica funzionale e didascalica di questi testi. Sul piano
editoriale e commerciale, invece, i termini «libro» o «opera» che contraddistin-
guono i titoli dei ricettari seguono l’uso generalmente in voga nei frontespizi
cinquecenteschi: secondo le consuetudini dell’epoca tipografica, il titolo, il
frontespizio appunto, chiarisce immediatamente – con tutte le specifiche e l’e-
stensione del caso – ciò di cui si tratterà nel testo, si tratti delle “confidenze” del
«cuoco segreto» Scappi o delle tecniche del «Trinciante» di Cervio. Anche il
Panonto, Domenico Romoli, nel suo vademecum per lo scalco, non lesina nel-
l’elencare il contenuto e la natura dei suggerimenti destinati agli addetti ai lavo-
ri dell’apparato conviviale e non si astiene neppure dall’indicare chi sono i
destinatari di cotanta perizia e attenzione, cioè i «Prencipi».
6. Un ultimo rilievo, di natura prettamente storico-culturale, riguarda l’osse-
quio riservato nei confronti delle prescrizioni sanitarie e religiose. I trattati di
gastronomia da noi analizzati, tutti del secondo Cinquecento, vanno in parte
inquadrati nell’orizzonte della Controriforma: da Messisbugo a Cervio a Scappi
– che è addirittura cuoco personale di Sua Santità – la preoccupazione per i
pasti “di magro” e i “cibi proibiti” (analogo gastronomico dei libri) diventa
quasi ossessiva. Intere sezioni delle loro opere sono infatti dedicate al tempo di
Quaresima (cioè, indirettamente, alla «censura» delle vivande in determinati
periodi dell’anno liturgico); e questi autori, nel loro scrupolo, non fanno altro
che assecondare la precettistica ufficiale di Santa Romana Chiesa, che negli
stessi anni consacrava digiuni e astinenze attraverso editti perentori e pubblica-
zioni ufficiali, complete di anatemi ed elenchi di pene per chiunque si sottraesse
al regime dietetico imposto dalla Curia. Inoltre, strettamente legato all’universo
ideologico post-tridentino è anche il discorso sulla «sanità» dei cibi. La «salute»
dell’uomo a tavola ha infatti un duplice risvolto: da una parte, la salubrità del
mangiare diventa – lo abbiamo notato nelle prime pagine – un principio caro
alla medicina e alla scienza, e da lì anche alla maestria dei cuochi più aggiorna-
ti; dall’altra, la «sanità» nel campo dell’alimentazione allude anche alla morige-
ratezza, che deve contraddistinguere l’atteggiamento del cristiano di fronte alla
mensa, un atteggiamento rispettoso che rifugga dall’eccesso e dalla smodatezza.
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