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MATTEO LEFÈVRE

Res culinaria e Ars coquinaria:


distinzioni, analisi di genere
ed esperienze specifiche nell’ambito
dei trattati di cucina del Cinquecento

Dopo i libri del Cortegiano, con il passare dei decenni del Cinquecento, i
vari trattati non appaiono più, o non solo, «delle costruzioni intellettuali finaliz-
zate all’institutio di un perfetto uomo di corte in quanto armonico insieme di
competenze, [...] ma dei semplici manuali di comportamento settoriale, serie di
regole concrete applicabili a situazioni determinate e limitate dalla realtà»1. La
discendenza castiglionesca si declina così lungo due assi principali: la «singola
occasione sociale (giardinaggio, ballo, banchetto, caccia, conversazione, amore
galante, scherma, duello)»; e «il singolo ruolo sociale [...] (amante, marito,
padre, studioso, mercante, soldato, diplomatico, funzionario, con le varianti
ecclesiastiche del vescovo e del cardinale)»2.
Anche il cuoco, lo scalco, il trinciante, insomma gli addetti alla res gastrono-
mica – «gastronomia» significa propriamente «regola dello stomaco» – diventa-

1
R. RINALDI, Il «saper vivere» del gentiluomo: interessi figurativi, tecniche mondane e stra-
tegie editoriali nella trattatistica specializzata, in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da
G. Bárberi Squarotti, to. II, Umanesimo e Rinascimento, Torino, UTET, 1993, p. 1679. Acquisita
ormai da vari anni la nozione di «genere letterario (o almeno di un sottogenere)» per la trattatisti-
ca sul comportamento (Cfr. G. PATRIZI, Il libro del Cortegiano e la trattatistica sul comportamen-
to, in Letteratura Italiana Einaudi, diretta da A. Asor Rosa, vol. III, Torino, Einaudi, 1984, p.
855), come noteremo in seguito, le «grammatiche» che organizzano l’universo dei cibi, del modo
di prepararli, di come servirli e soprattutto dei molteplici mestieri della cucina obbediscono
senz’altro ai principi dell’institutio specifica; accanto al «mestiere» delle armi, delle lettere, del
segretario, sempre nel medesimo orizzonte aristocratico e nobiliare, si forma, si specializza – e
perciò si formalizza – quello del cuoco, del mastro di casa, del vivandiere ecc.
2
Ibid.

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no pertanto protagonisti di mestieri e occupazioni degni e bisognosi di «regole»,


di una serie di norme teorico-pratiche specifiche. E il generale processo di spe-
cializzazione si ripercuote anche nell’ambito più ristretto della trattatistica sulle
vivande e in quello dei manuali di cucina, che determinano la storia dell’alimen-
tazione italiana ed europea di Antico Regime 3 e che, nello stesso tempo, costi-
tuiscono un compendio delle implicazioni ideologiche connesse con la distribu-
zione e la fruizione del cibo, dalle ovvie ragioni di carattere economico-sociale 4
a quelle storico-geografiche 5 a quelle di carattere culturale e religioso6.
Alcune distinzioni di partenza, forse discutibili ma senz’altro funzionali, nel-
l’ambito di questi manuali e trattati sono necessarie per procedere e per fissare
gli estremi delle nostre analisi.
Innanzitutto, pur essendo entrambi inquadrabili all’interno del genere dida-
scalico, occorre distinguere tra le dissertazioni e i repertori, eruditi e/o scientifi-
ci, di res culinaria – cioè quegli scritti che si occupano eminentemente della
natura di particolari cibi, della loro provenienza, salubrità e opportunità e perfi-
no dell’aneddotica costruita intorno ad essi – e i trattati veri e propri di ars
coquinaria – operanti soprattutto sul versante, assolutamente specialistico, del
magistero professionale, dal cerimoniere al cuoco allo scalco.
Nel primo caso, le sistemazioni erudite sulla gastronomia antica e moderna
che illustrano nomi e peculiarità di ogni sorta di alimenti e bevande si richiama-

3
Cfr. soprattutto M. MONTANARI, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in
Europa, Roma-Bari, Laterza, 1993.
4
Numerosi sono, ad esempio, gli studi di carattere socio-economico consacrati alle moda-
lità e ai problemi dell’alimentazione nel Medioevo. Tra questi, negli ultimi anni, segnaliamo
soprattutto Food in the Middle Ages: a book of essays, a cura di M. Weiss Adamson, New York
–London, Garland, 1995; ma anche, limitatamente alla realtà francese, L. STOUFF, La table pro-
venzale: boire et manger en Provence à la fin du Moyen Age, Avignon, Barthemy, 1996.
5
Basti pensare al cambio di alimentazione e gusti dovuto alla scoperta dell’America, con
l’introduzione di cibi esotici, tuberi, cioccolato, the, caffè nella dieta europea. Per questo
discorso, cfr. M. G. PROFETI, Dal grado zero al simbolo: ricette di lettura, in Codici del
gusto, a cura di M. G. Profeti, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 9.
6
Al di là dell’accettabilità o meno di certe vivande all’interno della precettistica di ogni
credo – per il contesto europeo, naturalmente, in relazione ai tre grandi culti monoteistici: in
rigoroso ordine di apparizione, ebraismo, cristianesimo e islamismo –, si considerino i divieti
dettati, nel secondo caso, dal tempo liturgico (Quaresima) o dalle festività più importanti (la
cena “di magro” della vigilia di Natale o del venerdì santo). L’alimentazione diventa così
indicatore inesorabile di distinzione sociale, etnica e religiosa. Per questo discorso, cfr. diret-
tamente Homo edens. Regimi, miti e pratiche dell’alimentazione nella civiltà del mediterra-
neo. Atti del Convegno di Verona, Verona, 1989, pp. 25-30; e per descrivere il caso della
realtà ispanica, in cui convivono tutt’altro che pacificamente usi, costumi e pratiche culinarie
appartenenti alle tre religioni nominate, M. CICERI, Lo smascheramento del “converso” e i
suoi stereotipi nei canzonieri spagnoli, in Miscellanea in onore di Aurelio Roncaglia,
Modena, Mucchi, 1989, passim.

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no umanisticamente, sia per la forma che per i contenuti, ad alcuni testi capitali
dell’età classica: il riferimento è chiaramente al De re coquinaria di Apicio,
ristampato ad inizio secolo dall’editore Giovanni Tacuini (Venezia, 1503)7, ma
altresì al Banchetto dei savi di Ateneo, tradotto in volgare e pubblicato anch’es-
so al principio del Cinquecento dalla tipografia di Aldo Manuzio (Venezia,
1514), che parla diffusamente di cuochi famosi dell’antichità, di costumi dei
conviti, ma anche di proprietà di carni, verdure e vini 8. E accanto a questi “clas-
sici”, ancora in età e atmosfera umanistica, vanno segnalati almeno il De mori-
bus puerorum et regimine mensae di Sulpicio da Veroli (L’Aquila, 1483), che
ebbe numerose ristampe; il De honesta uoluptate & ualitudine di Bartolomeo
Sacchi, il Platina (Roma, Ulrich Han, 1473-75) 9; e, nel pieno del secolo XVI, il
De civilitate morum puerilium di Erasmo da Rotterdam (Parigi, 1530), che fu
edito anche in Italia negli anni successivi 10. In particolare, nel testo del Platina,
tra una dotta disquisizione culinaria e l’altra, interessante è la presenza di un
embrionale ricettario: oltre al modo di preparare la mensa e alle diete più oppor-
tune, si parla di come cucinare lessi, arrosti, pesci, pasticci, dolci ecc., e anche
di vini. Questo filone gastronomico-erudito continuerà fino alla fine del
Cinquecento, e nella seconda metà del secolo ne proseguono la tradizione due
compendi significativi, che permettono di verificare ulteriormente le linee guida
e le ramificazioni della tipologia di cui stiamo parlando. In primo luogo, ricor-
diamo il Libro de’ pesci romani di Paolo Giovio (Venezia, Gualtieri, 1560):
all’interno di un’opera di ittiologia, in cui predomina la descrizione minuziosa
di numerosi pesci, Giovio non si sofferma solo sui loro nomi antichi e attuali e
sulle loro specie e varietà, ma argomenta anche dei loro pregi alimentari e della
maniera di cucinarli. Il trattato affianca così, senza troppi problemi, le digressio-
ni sull’onomastica latina della fauna ittica, e sulle usanze dei romani antichi di

7
Cfr. soprattutto G. FLORIO, La cucina degli Antichi Romani: appunti per una tradizione,
in Le cucine della memoria. Testimonianze bibliografiche e iconografiche dei cibi tradiziona-
li italiani nelle Biblioteche Pubbliche Statali, vol. I, Roma, Edizioni De Luca, 1995, pp. 13-
25; ma anche, in generale, L’alimentazione nel mondo antico. Cibi e libri, Roma, Istituto
poligrafico dello Stato, 1987. Nel saggio di Florio sono appunto catalogate le edizioni cinque-
centesche presenti nella Biblioteca Casanatense di Roma – pubblicate da tipografi di chiara
fama, come Aldo Manuzio a Venezia o Antonio Blado a Roma – dei trattatisti latini che,
occasionalmente (Varrone, De re rustica) o espressamente (Apicio, De re coquinaria), parla-
rono di cibo e cucina.
8
Su Ateneo, si veda soprattutto L. FIRPO, La gastronomia del Rinascimento, Torino,
UTET, 1974, p. 9.
9
Cfr. soprattutto J.-L. F LANDRIN , Chronique de Platine. Pour une gastronomie
historique, Paris, Odile Jacob, 1992. Il trattato del Platina fu comunque presto tradotto e pub-
blicato in italiano: De honesta voluptate & valitudine vulgare, Venezia, s. n., 1508.
10
Ricordiamo almeno le due edizioni giolitine del 1545 e del 1547.

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consumarla, a una parte che illumina sui pesci più “gettonati” con cui a Roma
«si apparecchiano buoni bocconi». Come secondo esempio di un approccio
ancora erudito e antiquario, negli anni novanta del secolo, va segnalato invece,
sul fronte della cultura enologica, l’ampio lavoro di Andrea Bacci, De naturali
vinorum historia, de vinis Italiae et de conuiuis antiquorum libri septem (Roma,
Nicola Muzio, 1596), che consiste in un compendio dei vini europei, antichi e
moderni, ma che non funziona come un manuale di arte del vino 11.
Al lato di queste summae di gastronomia antica e moderna, che non rinuncia-
no all’indagine di carattere antiquario, sempre sul versante dell’analisi della
«natura de’ cibi» si collocano le opere di dietetica. Queste ultime si distanziano e
differenziano da quelle di erudizione culinaria, operando ormai a livello pretta-
mente medico, e sul finire del Cinquecento, dopo vari scritti con tale impostazio-
ne, il processo è portato a compimento dal medico bolognese Baldassarre Pisa-
nelli, che nel suo Trattato della natura de’ cibi e del bere, a dispetto del titolo
“ambiguo”, si limita esclusivamente a rilievi di carattere terapeutico e igienico12.
In aperta contrapposizione rispetto ai repertori e ai compendi storico-eruditi
dedicati a indagare e illustrare nomi e peculiarità di ogni sorta di alimento, non-
ché distanti anche dai lavori di impostazione medica, nel corso del secolo XVI
vedono la luce diversi trattati specialistici di ars coquinaria realizzati da «addet-
ti ai lavori». Anche all’interno di quest’ambito, tuttavia, è opportuno operare
un’immediata distinzione di base. In primo luogo, inseriamo nella categoria i
trattati sull’organizzazione e l’apparato dei banchetti nobiliari, la cui particola-
rità è esemplificata dai precetti del «conte» Cristoforo Messisbugo13, il quale

11
A quest’opera sembra fare il controcanto, sempre in ambito romano, un singolare trat-
tato sulla salubrià dell’acqua del Tevere: A. PETRONIO, De aqua tiberina. Opus quidem
nouum, sed ut omnibus qui hac aqua utuntur utile, ita et necessarium..., Roma, Valerio e
Aloisio Dorico, 1552.
12
B. PISANELLI, Trattato della natura de’ cibi et del bere... nel quale non solo tutte le
virtù, & vitij di quelli minutamente si palesano; ma anco i rimedij per correggere i loro difet-
ti copiosamente s’insegnano: tanto nell’apparecchiarli per l’uso; quanto nell’ordinare il
modo di riceuerli..., Roma, Bartholomeo Bonfadino, & Tito Diani, 1583. Per l’impianto sem-
plice e schematico questo manuale di dietetica godette di un certo successo anche nel secolo
successivo. Affini al progetto di Pisanelli, ricordiamo comunque anche Il libro di Galeno de i
buoni e tristi cibi dal greco per M. Francesco Imperiale, & à beneficio di ciascuno, che desi-
dera di vivere sano, mandato in luce in lingua volgare, Genova, Antonio Belloni, 1560; ma
anche C. DURANTE, Il tesoro della sanità, di Castor Durante da Gualdo, medico, & cittadino
romano. Nel quale s’insegna il modo di conseruar la sanità, & prolungar la vita, et si tratta
della natura de’ cibi, & de’ rimedij de’ nocumenti loro. Con la tauola delle cose notabili,
Venezia, Andrea Muschio, 1586; e G. CARNIGLIA, Tractatus de modo cibi sumendi, Genova,
Hieronymi Bartoli, 1594.
13
C. MESSISBUGO, Banchetti compositioni di vivande, et apparecchio generale, dI
Christoforo di Messi Sbugo, allo illustrissimo et reverendissimo signor il signor don

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esercitava realmente tale funzione presso gli Estensi. In secondo luogo, nell’a-
nalisi dei ruoli sociali connessi con la preparazione e il servizio del cibo sorge
una trattatistica specializzata sul comportamento di cuochi, «scalchi», «trincian-
ti» e di altri «ofiziali» della cucina e della tavola, e gli esempi più autorevoli di
questa didattica dell’«arte vivandiera» sono senza dubbio costituiti dai manuali
“autobiografici” di Domenico Romoli14, Giovan Battista Rossetti15 e Vincenzio
Cervio16: tutti e tre, tra l’inizio degli anni sessanta e la prima metà degli anni
ottanta, vedono pubblicati i propri lavori dedicati rispettivamente alla formazio-
ne del «perfetto scalco» e del «perfetto trinciante». Infine, ascriviamo natural-
mente al gruppo di testi compilati da “gente del mestiere” il genere ricettario, di

Hippolito da Este, cardinale di Ferrara, Ferrara, Giovanni de Buglhat et Antonio Hucher


Compagni, 1549. Di questa prima e rarissima edizione di un’opera che si pone all’origine
della tradizione della cucina italiana, e che ebbe numerose ristampe fino ai primi decenni del
Seicento, esiste ora anche un’edizione moderna: Vicenza, Neri Pozza, 1992.
14
D. ROMOLI, La singolare dottrina di M. Domenico Romoli sopranominato Panunto,
Dell’ufficio dello Scalco, de i condimenti di tutte le viuande, le stagioni che si conuengono a
tutti gli animali, vccelli, & pesci, Banchetti di ogni tempo, & mangiare da apparecchiarsi di
dì, in dì, per tutto l’anno a Prencipi. Con la dichiaratione della qualità delle carni di tutti gli
animali, & pesci, & di tutte le viuande circa la sanità. Nel fine segue un breue trattato del
reggimento della sanità. Opera sommamente utile a tutti, Venezia, Michele Tramezzino,
1560. L’opera del Romoli, «gentiluomo fiorentino», ebbe varie dizioni nel Cinque e nel
Seicento.
15
G. B. ROSSETTI, Dello scalco del sig. Gio. Battista Rossetti, Scalco della Serenissima
Madama Lucretia da Este Duchessa d’Urbino, Nel quale si contengono le qualità di uno
Scalco perfetto, & tutti i carichi suoi, con diuersi vfficiali à lui sottoposti: Et gli ordini di una
casa da Prencipe, e i modi di servirlo, così in banchetti, come in tauole ordinarie. Con gran
numero di banchetti alla Italiana, & alla Alemana, di varie, e bellissime inuentioni, e desina-
ri, e cene familiari per tutti i mesi dell’anno, con apparecchi diuersi di tauole non via[!]ti, et
con molte varietà di viuande, che si possono cauare di ciascuna cosa atta à mangiarsi. Et
con tutto ciò che è buono ciascun mese: & con le provisioni da farsi da esso Scalco in tempo
di guerra, Ferrara, Domenico Mammarello, 1584. Maestro di casa e perciò degnamente inse-
rito nell’apparato cortigiano, Rossetti fu maggiordomo di Lucrezia d’Este, duchessa
d’Urbino. Il trattato rispecchia la consapevolezza da parte dell’autore del ruolo di ammini-
stratore oculato e servitore raffinato da lui ricoperto presso i principi. Descrive banchetti all’i-
taliana, alla francese, alla tedesca, e fornisce l’elenco dei cibi che si possono preparare con
ogni tipo di animale e verdura.
16
V. CERVIO, Il trinciante di M. Vincenzo Cervio, ampliato et a perfettione ridotto dal
Caualier Reale Fusoritto da Narni, Già Trinciante dell’Illustrissimo, & Reuerendissimo
Signor Cardinal Farnese, & al presente dell’illustriss. Signor Cardinal Mont’alto. Con diuer-
se aggiunte fatte dal Caualier Reale, & dall’istesso in questa vltima Impressione, aggiuntoui
nel fine un breue Dialogo detto il Mastro di Casa, per gouerno d’vna casa di qual si voglia
Principe con li Offitiali necessarij, vtile & gioueuole à ogni Cortigiano, Roma, Giulio
Burchioni, 1593, 2a ed. (ma già Venezia, 1581). Citiamo direttamente la seconda edizione
perché più interessante della prima in virtù delle aggiunte.

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cui è rappresentante e interprete d’eccellenza Bartolomeo Scappi17, «cuoco


secreto» dei pontefici.
In base a queste indicazioni di massima possiamo dunque individuare cinque
categorie principali di testi che si occupano di alimentazione:

1) I libri di res culinaria, di tipo sostanzialmente erudito e compilati perciò da non addetti
ai lavori (ad es., Platina, Erasmo ecc.)
2) I libri sul cibo dal punto di vista della sanità e della medicina (Pisanelli)
3) I trattati sull’organizzazione e l’apparato dei banchetti (Messisbugo)
4) L’Institutio dello scalco (o del trinciante) ad opera di professionisti del mestiere
(Romoli, Rossetti, Cervio)
5) Il ricettario (Scappi)

Due sono perciò gli ambiti privilegiati della riflessione gastronomico-ali-


mentare della trattatistica di Antico Regime: quello della res culinaria (i primi
due punti, a cui abbiamo rapidamente accennato) e quello che già Apicio defini-
va dell’ars coquinaria.
In una cultura ad alto grado di formalizzazione quale quella del Rinasci-
mento, il cibo, ma soprattutto il suo confezionatore, il cuoco, rientra senza troppe
riserve tra le figure selezionate dalla precettistica e dall’indagine didascalica
dedicata ai protagonisti della società cortigiana. L’arte del cucinare viene affron-
tata dalla trattatistica del periodo alla stessa stregua del mestiere delle armi o del-
l’eleganza della conversazione, e il desiderio di «grammatiche» sempre più set-
toriali risponde organicamente all’attitudine istitutiva propria di tutto il secolo,
ampliando così al contempo i confini del genere e della categoria dell’institutio.
Ricostruendo sommariamente la tradizione dei libri di cucina italiani dal
Medioevo al Rinascimento18, il primo testo importante è senza dubbio il Liber
de coquina, in latino, scritto probabilmente a Napoli tra la fine del XIII secolo e
l’inizio del seguente19, da cui sembrano derivare non solo il Libro della cucina,

17
B. SCAPPI, Opera di M. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di Papa Pio V, divisa in sei li-
bri... Con il discorso funerale che fu fatto nelle essequie di Papa Paulo III. Con le figure che fan-
no bisogno nella cucina, & alli Reuerendissimi nel Conclaue, Venezia, Michele Tramezzino, 1570.
18
Tra le pubblicazioni dedicate alla cucina dei secoli XIV-XV, segnaliamo soprattutto J.
L. FLANDRIN- O. REDON, Les livres de cuisine italiens des XIV et XV siècles, in «Archeologia
medievale», VIII, 1981, pp. 393-408; B. LAURIOUX, I libri di cucina italiani alla fine del
Medioevo: un nuovo bilancio, in «Archivio Storico Italiano», CLIV, 1996, pp. 33-58; e, dello
stesso, Les livres de cuisine italiens à la fin du XV et au début du XVI siècle, expressions d’un
syncrétisme culinaire méditerranéen, in La Mediterrània, àrea de convergència de sistemes
alimentaris (segles V-XVIII), Palma, Institut d’Estudis Balearics, 1996, pp. 73-88.
19
Vale inoltre la pena ricordare un altro manoscritto napoletano del XV secolo, il cosi-
detto Cuoco Napoletano, studiato recentemente da T. SCULLY, Cuoco Napoletano. The
Neapolitan Recipe Collection (New York, Pierpont Morgan Library, Ms. Buhler, 19). A

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compilato da un Anonimo toscano verso al fine del Trecento, ma, per l’interna-
zionlità della lingua di composizione (latino), anche numerosi trattati europei di
poco successivi. Questo singolare manoscritto concepito in seno alla corte
angioina rispecchia la realtà di appartenenza, e per ciò che concerne le ricette si
limita «a indicazioni [...] “libere” che presuppongono di rivolgersi a professioni-
sti del mestiere anziché a cuochi domestici»20, professionisti ovviamente inseriti
in modo organico nel sistema cortigiano. Nella seconda metà del Quattrocento
compare invece Martino de Rossi, «la prima “firma” importante nella storia
della cucina italiana, a cui si deve un Libro de arte coquinaria (Roma, 1464-65)
che costituisce un vero salto di qualità (contenutistica oltre che formale) rispetto
alla precedente letteratura sul tema»21. E dal plagio di questo testo, rimasto
manoscritto, nasce il primo autentico ricettario del Cinquecento, l’Epulario di
Giovanni de’ Rosselli, che ebbe uno straordinario successo di vendita22.
Sorvolando sul Refugio del ferrarese Colle 23 e sul Refettorio di Eustachio
Celebrino24, per alludere a un altro testo che non affronta espressamente, cioè

Critical Edition and English Translation by Terence Scully, initially with the collaboration of
Rudolf Grewe, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2000.
20
Per un breve ma preciso excursus storico, con tutti i riferimenti bibliografici del caso,
cfr. direttamente A. CAPATTI-M. MONTANARI, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-
Bari, Laterza, 1999, in particolare pp. 8-13 (la citazione è a p. 8). Al contrario del Liber, altri
trattati del XIV secolo danno luogo ad una seconda specie di ricettari italiani orientati non più
intorno all’hortus conclusus e “privilegiatus” dell’aristocrazia, bensì alla scena cittadina,
indugiando così sulla «precisione – tutta “borghese” nel suo riferirsi a quantità, costi e previ-
sioni – [...]» (ibid.). Per il Libro della cucina e altri testi trecenteschi, cfr. comunque Il Libro
della cucina del sec. XIV: testo di lingua non mai fin qui stampato, Bologna, Commissione
per i testi di lingua, 1968 (Rist. fotom. dell’ed. Bologna, Romagnoli, 1863); e Libro di cucina
del secolo XIV, a cura di L. Frati, Livorno, R. Giusti, 1899.
21
Ivi, p. 13. Il libro è importante perché «[...] ha un’impostazione fortemente interregiona-
le, contribuendo in maniera decisiva alla definizione di un modello “italiano” di cucina», ibid.
Ancora nel Quattrocento, proprio il Platina si richiamerà esplicitamente ai preziosi suggerimenti
di «Maestro Martino». Comunque, per uno sguardo sulla storia della cucina italiana del secolo
quindicesimo, cfr. anche M. BENPORAT, Cucina italiana del quattrocento, Firenze, Olschki,
1996; ma anche, sebbene limitato all’area piemontese, A. SALVATICO, Il principe e il cuoco:
costume e gastronomia alla corte sabauda nel Quattrocento, Torino, Paravia Scriptorium, 1999.
22
Opera nova chiamata Epulario la quale tracta il modo de cucinare ogni carne, ucelli,
pesci de ogni sorte et fare sapori, torte, pastelli, al modo de tutte le prouincie, & molte altre
gentilezze. Composta per maestro Giouanne de Rosselli francese, Venezia, Zoppino, 1518.
L’opera conobbe ben quindici ristampe nel solo Cinquecento e almeno undici nel Seicento
(l’ultima è la veneziana del 1682) e detiene un significativo record: «non abbiamo migliore
esempio della durata di un genere didattico prima e dopo l’invenzione della stampa», sempre
CAPATTI-MONTANARI, La cucina italiana, cit., p. 186.
23
G. F. COLLE, Refugio de pouero gentilhuomo composto per Io. Francisco Colle,
Ferrara, Laurentio di Russi da Valentia, 1520.
24
E. CELEBRINO, Opera noua che insegna a parecchiar una mensa a uno conuito &
etiam a tagliar in tauola de ogni forte carne & dar li cibi secondo l’ordine che usano gli

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tecnicamente, la tematica culinaria, va infine ricordata poco prima della metà


del Cinquecento l’opera curiosa di Ortensio Lando, che si può ascrivere ancora,
per contenuti e modalità di esposizione, al genere erudito. Nel Commentario
delle più notabili e mostruose cose d’Italia e altri luoghi (Venezia, 1548), a
nome di «Messer Anonimo di Utopia»25, Lando racconta il fittizio viaggio di un
aramaico per l’Italia, e la situazione gli permette così di descrivere varie curio-
sità tra cui anche quelle alimentari: a un certo punto un oste presso cui è allog-
giato il protagonista decanta le specialità gastronomiche ed enologiche del
paese, formando in questo modo una sorta di guida alla scoperta delle cucine
d’Italia sul modello degli itinerari della Slow Food.

La trattatistica specialistica sull’arte della cucina prodotta da addetti ai lavori


entra nel vivo intorno alla metà del secolo. Messisbugo, «assunto fra i nobili,
come il conte palatino Cristoforo»26, con la descrizione dei Banchetti celebra
pertanto la gloria dei suoi signori e di tutto l’apparato cortigiano di cui lo stesso
autore è parte integrante. Diversamente da altri compilatori di libri di cucina,
questo fiammingo italianizzato fu dunque, a tutti gli effetti, un «gentiluomo cui
l’abilità nell’arte culinaria, la conoscenza e la frequentazione dell’ambiente di
corte, le vaste conoscenze nel campo della dietetica, valsero l’incarico di mastro
di casa alla corte Estense»27. Nella dedica al Cardinale Ippolito d’Este, di cui
egli si dichiara «fedele sincero & affettionatissimo seruidore», la fedeltà al suo
«officio» si riflette anche nell’aderenza delle descrizioni dei conviti ferraresi
alla sua concreta esperienza di gran cerimoniere: non essendogli stato concesso
di scrivere un’opera in cui il banchetto risultasse «tutto ombra, sogno, chimera,
fittione, mettafora, e allegoria», cioè un’opera di finzione, l’autore non ha tutta-
via voluto mancare di consacrare al Monsignore «alcuni couitti veri, abondanti

scalchi per far honore a forestieri intitulata Refettorio. Appresso aggiuntoui alcuni secreti
apertinenti al cucinare & etiam a conseruar carne e frutti longo tempo, Brescia, [Ludovico il
vecchio & Benedetto Britannico], 1532.
25
Lo pseudonimo non è casuale: lo stesso Lando aveva tradotto in italiano, nel medesi-
mo 1548, Utopia di Thomas More.
26
CAPATTI-MONTANARI, La cucina italiana, cit., in particolare p. 160. L’onorificenza gli
venne addirittura dall’imperatore Carlo V, che era rimasto colpito dalla sua perizia nell’alle-
stimento di un banchetto in suo onore. Comunque, per ulteriori notizie su Messisbugo, cfr. L.
C HIAPPINI , La corte estense alla metà del Cinquecento. I compendi di Cristoforo di
Messisbugo, Ferrara, Belriguardo, 1984, pp. 42-50; e sul linguaggio della sua opera, M.
CATRICALÀ, La lingua dei Banchetti di Cristoforo Messisbugo, in «Studi di lessicografia ita-
liana», IV, 1982, passim.
27
A. CORONGIU, Cucina e alimentazione romana nelle opere a stampa dei secoli XV e
XVI, in Le cucine della memoria..., cit., vol. II, p. 29. Anche il motto «Omnia mea mecum»,
che accompagna il volume, allude esplicitamente a tutti i segreti dell’arte che un “mestieran-
te” portava con sé.

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di varie & diverse vivande dalla diligenza dalla industria & dalla esperienza del
mio basso & rozzo ingegno ritrouate & composte & in effetto fatte [...]»28. Sul
piano del genere, l’opera di Messisbugo si presenta come un insieme composito
e la partizione interna al volume lo conferma. Il libro è infatti scrupolosamente
strutturato: la prima parte consiste in una descrizione delle masserizie, degli
utensili, insomma dell’oggettistica della cucina, compresa di minuziosa rasse-
gna degli «offitiali» necessari alle varie attività e sottoposti agli ordini di un
«Siniscalco generale»; la seconda parte, storico-descrittiva, è dedicata al raccon-
to di cene e conviti vari tenutisi presso la corte ferrarese 29; nell’ultima e più
ampia parte del volume si trova invece un ricettario vero e proprio. Dal punto di
vista delle nostre analisi, la presenza del ricettario conferma la natura fortemen-
te tecnica e specialistica dell’intero trattato: se nella seconda sezione Messisbu-
go inclina verso l’encomio e sottolinea attraverso il pranzo il mecenatismo del
principe, le 315 ricette che costituiscono l’ultima parte del testo sono un funzio-
nale compendio non tanto teso a dare ulteriore lustro in sé alla magnificenza dei
signori, quanto a fornire indicazioni precise a cuochi, scalchi e attendenti vari,
insomma a coloro che devono rendere piacevoli e indimenticabili i pasti e le
feste di questi ultimi. La stesura di un ricettario è sentita quindi come dovere da
parte dell’autore, come dimostrazione, pratica oltre che teorica, della «maniera»
in cui furono organizzati i fastosi banchetti estensi: nella breve premessa che
introduce quest’ultima parte del trattato – che s’intitola coscientemente «Com-
positione delle più importanti vivande» e che si estende con nuova e indipen-
dente numerazione per circa centoquaranta pagine – si annunciano altresì alcuni
segreti del mestiere (come quello di usare, per risparmiare sullo zucchero, salvo
che per i «mangiari bianchi», il miele); e si ribadisce anche la «dignità» dell’uf-
ficio gastronomico, non soffermandosi perciò sulle ricette troppo semplici, su
quelle «cose, che da qualunque vile feminuccia ottimamente si sapriano fare»30.
La precisione nella guida alla confezione dei numerosi piatti – che spesso si
impreziosiscono anche di denominazioni esotiche («alla francese», «all’ingle-

28
MESSISBUGO, Dedicatoria, in Banchetti..., cit., f. 2r n.n.
29
In questa sezione si punta soprattutto sul dettaglio che metta in luce la magnificenza
del Principe: si descrivono gli illustri invitati, completi di tutte le cariche, si accenna alla bel-
lezza del luogo dove il convito si tiene e all’apparato festoso messo in piedi per l’occasione e
ovviamente si indugia sul menù proposto dal «Maestro di casa» Messisbugo. A proposito
degli spettacoli connessi con l’occasione festosa e fastosa, dal resoconto della «Cena di carne,
et pesce che fece lo Illustrissimo Signor Don Hercole [...]» della domenica 23 gennaio 1529,
sappiamo che l’“antipasto” che introduceva il banchetto estense era costituito addirittura dalla
recita della Cassaria di Ariosto: «Primieramente era adornata la Sala grande di Corte [...]
dove innanzi la Cena si rappresentò una Comedia di M. Lodouico Ariosto, chiamata la
Cassaria [...]», ivi, p. 4r.
30
Compositione delle più importanti vivande, ivi, ff. 31v-32r.

121
Matteo Lefèvre

se», «all’alemanna») – è confermata dall’attenzione e dalla perizia che il compi-


latore spende altresì nell’apparato paratestuale: alla fine del volume, compare
infatti la tavola delle ricette descritte divisa accuratamente in capitoli tematici:
«Di diverse vivande di pasta, da Grasso, e da Magro»; «Torte di varie, e diverse
sorti»; «Robbe per antipasti, o tramezi, come Polpette, Ceruelati, Salcicie,
Dobbe, & altre simili, come disotto apparerà» ecc. E l’incombente Concilio di
Trento – la princeps dei Banchetti è del 1549 – fa sì che le scadenze e i precetti
dell’anno liturgico si facciano sentire anche in cucina: «Paste per dì di Quaresi-
ma, e gran Vigilie, delle Quali Anche se ne puote servire per tramezi, ne gli altri
giorni»; «Minestre per, dì di, Quaresima, o gran Vigilie, Magre in tutto» ecc.31
Ambito privilegiato della specializzazione della trattatistica è senza dubbio
l’institutio dello «scalco» o del «trinciante». A queste figure fondamentali del-
l’ars coquinaria dedicano infatti i loro lavori alcuni autori che succedono cro-
nologicamente e anche metodologicamente al conte Messisbugo. Sulla falsariga
di quest’ultimo, il quale fissa le coordinate per la messa in piedi e la valorizza-
zione di tutto l’apparato conviviale nel contesto dell’intero fasto cortigiano,
organizzano il proprio discorso i tredici libri della Singolar dottrina di
Domenico Romoli, detto il Panonto, che anch’essi descrivono e prescrivono le
regole del banchetto e del cerimoniale, a cui i vari intendenti devono prendere
rigorosamente parte, «con un gusto psicologico, un’ironia e un’attenzione alle
forme dell’eleganza che ricordano il recente Galateo»32. L’opera monumentale
del «gentiluomo fiorentino», il quale consegna ai posteri le memorie di una vita
passata come scalco presso «illustri signori», ha anch’essa un’evidente struttura
composita, e la dignità e l’esperienza dell’autore nonché l’utilità dei precetti in
essa contenuti sono sanciti, in apertura, dall’editore stesso, quel Michele

31
Con l’avvento della Controriforma le restrizioni nei confronti di cibi e bevande saran-
no stabiliti dai capitoli delle diverse diocesi in modo perentorio e preciso e saranno spesso
raccolte in pubblicazioni specifiche. Molto attiva nel settore delle bolle ecclesiastiche in
materia di “cibi proibiti” si dimostrò la diocesi di Bologna, che negli ultimi decenni del
secolo pubblicò varie volte la sua Prohibitione, e bando di monsignor illustrissimo, et reue-
rendissimo cardinale... contra li cucinieri, & magnatori di carne li tempi prohibiti de santa
madre chiesa, Bologna, Alessandro Benaccio, 1565. Ancora più interessante è pero il feno-
meno della “spiritualizzazione” dell’institutio coquinaria: sempre nell’ambito del proibizio-
nismo cattolico post-tridentino, accanto ai trattati professionali sullo scalco “mondano”, tro-
viamo anche uno Scalco spirituale (Napoli, Roncagliolo, 1644), ad opera di Henrico da San
Bartolomeo del Gaudio, il cui intento è quello di fornire i metodi per reprimere cristiana-
mente l’appetito e che imita anche nel titolo un ricettario. Come sostengono CAPATTI-
MONTANARI, il ricettario si trasforma qui in una serie di «esercizi di inappetenza, astinenza,
digiuno che riducono il pranzo a qualche boccone recato alla bocca con la mano e ripropon-
gono l’immagine dell’uomo solo davanti al cibo e davanti a Dio», La cucina italiana..., cit.,
p. 156.
32
RINALDI, Il «saper vivere» del gentiluomo..., cit., p. 1693.

122
Res culinaria e Ars coquinaria

Tramezzino, nel cui nome sembra già scritto il destino di editore di trattati di
gastronomia del Cinquecento33. Nella dedicatoria «A M. Francesco Rustica
nobile padovano», anch’egli dedito alla «scalcaria» presso la corte romana, il
tipografo in prima persona informa i lettori che l’autore fu «al suo tempo Scalco
di un Papa, & si dilettò molto di intendere minutamente i documenti di questo
mestiero [...]»34. Oltre che per l’abilità nel trasmettere i rudimenti della sua pro-
fessione, Romoli è lodato perché ha mostrato anche «la qualità, perfettione, &
imperfettione de i cibi di tutte le sorti, la ragione de i condimenti di ebi quanto
alla sanità, quali sieno utili, & dannosi, secondo le complessioni di tutti gli huo-
mini [...]»35: con la specializzazione progressiva dell’ars coquinaria, i diversi
professionisti dell’alimentazione si preoccupano perciò sempre di più anche
della certificazione della qualità-sanità dei cibi, forse tenendo conto dei contem-
poranei e sempre più diffusi trattati di dietetica36. In base all’avvertimento di
Tramezzino, se l’orizzonte di produzione appare quello della curia pontificia, i
destinatari dell’opera di Romoli sembrano comunque essere prettamente altri
“potenziali” (o “attuali”) scalchi e perciò colleghi dell’autore stesso: siamo dun-
que nell’orizzonte tipicamente rinascimentale in cui autore e pubblico partecipa-
no di esperienze socio-culturali e referenti comuni, siano essi in posizione di
preminenza sociale, come principi o cortigiani d’alto rango, o semplici e più o
meno gratificate «genti meccaniche» dedite all’arte della gastronomia.
La «Tavola» posta all’inizio del volume illustra la complessa struttura del
testo. In particolare, il primo libro è dedicato espressamente al mestiere dello
scalco: egli è propriamente il sovrintendente della cucina e del banchetto, è colui
da cui dipendono i vari addetti al convito, tra i quali deve assicurarsi il servizio e
la fiducia di «tre oficiali al meno [...] che sieno pratichi, & sofficienti, che sono
Cuoco, Credenziere, & Spenditore»37. Romoli, in virtù della sua «lunga esperien-
za», vuole «mostrare, & insegnare le faccende, che si ricercano nell’officio d’un
Scalco secreto di questi nobilissimi Signori, e Reuerendissimi Cardinali[...]»38. È

33
Il veneziano Tramezzino dà alle stampe nel 1570 la princeps del ricettario di Scappi e i
suoi eredi pubblicarono anche la prima edizione del Trinciante di Cervio (Venezia, 1581),
nonché, nel medesimo anno, almeno una ristampa dello stesso Scappi (Venezia, 1581).
34
M. TRAMEZZINO, A M. Francesco Rustica nobile padovano, in D. ROMOLI, La singolare
dottrina, cit., passim.
35
Ibid.
36
A partire dal sesto libro, con cui inizia la «seconda parte» dell’opera, l’autore fornisce
soprattutto consigli circa la qualità e «sanità de’ cibi», consigli che culminano nel libro XIII
che consiste espressamente in un autentico trattato sulla salute: Breve et notabile trattato del
reggimento della sanità ridotto dalla sostanza della medicina di Roberto Groppetio, con
alcune cose notabili aggionte (pp. 359-376).
37
ROMOLI, La singolare dottrina, cit., p. 2.
38
Ivi, p. 1.

123
Matteo Lefèvre

presente una dissertazione su tutti i mestieri coinvolti nell’allestimento dei ban-


chetti: oltre ai tre menzionati, si va dal «bottigliere» al «panattiere», dal «sopra-
stante del piatto» al «coppiere» e «al trinciante». Nel quarto libro, «del mangia-
re ordinario di dì in dì», di gran lunga il più vasto dei tredici, si contiene invece
un’infinità di menù adatti ai vari giorni, stagioni e tempi liturgici dell’anno;
mentre nel quinto è contenuta una grande quantità di ricette. Anche in questa
«singolare dottrina», dunque, il momento dei suggerimenti pratici e settoriali è
alla base della scrittura stessa, che trova la sua ragione d’essere proprio nell’alta
funzionalità, nel suo proporsi come un autentico manuale di categoria.

Sia Giovan Battista Rossetti che Vincenzo Cervio, rispetto al progetto onni-
comprensivo del Romoli, rivolgono invece le loro attenzioni al singolo «addetto
ai lavori», e cioè rispettivamente allo scalco e al trinciante.
Rossetti fu anch’egli scalco professionista e perciò perfettamente inserito
nell’apparato cortigiano, giungendo alla carica di maggiordomo di Lucrezia
d’Este, duchessa d’Urbino. Il trattato dello Scalco, in tre libri, la cui prima edi-
zione esce per i tipi di Domenico Mammarello a Ferrara nel 1584, rispecchia la
consapevolezza dell’autore relativamente al ruolo di amministratore oculato e
servitore raffinato da lui ricoperto presso i principi: descrive anch’egli banchetti
all’italiana, alla francese, alla tedesca, e fornisce l’elenco dei cibi che si possono
preparare con ogni tipo di animale e verdura. Nella dedicatoria Rossetti compie
la consueta rivendicazione dell’ufficio dello scalco:

Confesso, che questa mia fatica, non è una delle sette arti liberali; ma ella è ben però di
tanta importanza, che senza quello, ch’è il suo soggetto [cioè l’institutio dello scalco], non si
può né viuere, né ben viuere; & tuttauia tale, che quanto gli huomini son più grandi, tanto
maggiore è il beneficio, che ne riceuono: & per dirla in poche parole, ella è veramente cosa
da Prencipi 39.

Avvertendo dedicatari e lettori, ribadisce quanto costi la sua «arte», anzi la


sua «vocatione», alludendo all’opera proprio come «testimonio di queste, qua-
lunque esse si siano, [...] fatiche»40. E sempre tra le soglie del volume, prima
della consueta «Tavola delle cose più notabili», anche l’epistola dello stampato-
re Ai benigni lettori si perita soprattutto di evidenziare l’alta specializzazione
del trattato di Rossetti, il quale intende dedicarsi esclusivamente all’«ufficio
dello scalco», senza sconfinare in altre professioni tangenziali:

39
G. B. ROSSETTI, Alla Serenissima Madama mia Signora, et Patrona colendissima,
Madama Lucretia da Este Dùchessa d’Urbino, in ID., Dello scalco..., cit., p. 4 n.n.
40
Ibid. (corsivo mio).

124
Res culinaria e Ars coquinaria

[...] i presenti tre libri, del Signor Rossetti, conteneano materie, & ordini diuersissimi de’
conuiti, marauigliosi per la varietà, e moltitudine, e bellezza, restando sempre fra termini di
Scalco, e non trapassando mai à carica del cuoco, e insomma trattando cose non più trattate
da altri41.

Infine, sul piano strutturale ma anche contenutistico, approfondisce ulterior-


mente la specificità del genere coquinario anche l’ultima sezione dell’opera:
accanto all’ormai consueta preoccupazione per la salubrità dei cibi e per la sta-
gione in cui ogni vivanda è raccomandata, troviamo le «provisioni da farsi in
tempo di guerra». Colpisce il fatto che si parli esplicitamente di una circostanza,
la guerra, naturaliter invisa al sereno consesso di principi e cortigiani, che co-
munque, nel caso, il «perfetto scalco» deve contribuire a rendere meno faticosa.
Il libro del perfetto Trinciante di Vincenzo Cervio si segnala per l’alto grado
di specializzazione e per il proposito eminentemente didascalico conseguito
brillantemente e attraverso un linguaggio spesso tecnico, ma nell’insieme raffi-
nato e cosciente, in ossequio alle norme dell’institutio rinascimentale.
Nell’ambito di questo trattato, che si inoltra tra gli strumenti propri del mestiere,
le tecniche di taglio delle vivande e di servizio a tavola, è significativa la com-
presenza dell’autore e del suo allievo e successore, Fusoritto da Narni, i quali
mettono a frutto i decenni passati ricoprendo tale ufficio principalmente al ser-
vizio del cardinale Alessandro Farnese. Anche la struttura del Trinciante è mar-
catamente complessa: al Ragionamento 42 di Cervio al suo «scolare» Fusoritto
seguono, dapprima, l’Aggiunta 43 dello stesso Narni, e poi, sempre di quest’ulti-
mo, il discorso sul Mastro di casa 44. Laddove, come vedremo tra breve, nel-
l’Opera di Scappi soltanto il primo libro suona come ragguaglio didattico per il
suo discepolo, il trattato di Cervio è tutto raccolto sotto il titolo di Ragionamen-
to. In primo luogo, come premessa rispetto ai precetti pratici che sono analizzati

41
D. MAMMARELLO, Ai benigni lettori, ivi, p. 6 n.n. E, come sempre, il libro è frutto della
lunga esperienza maturata dall’autore nel suo mestiere («certe cose osseruate da lui in 27 anni
ch’egli essercita questo mestiere», ivi, p. 7 n.n.).
42
Ragionamento di Vincenzo Cervio. Già trinciante dell’Illustriss. & Reuerendiss. Sig.
Cardinale Farnese, fatto sopra l’offitio del Trinciante, à Reale Fusorito da Narni suo
Scolare, in CERVIO, Il trinciante..., cit., pp. 1-82.
43
Aggiunta fatta al Trinciante del Cervio dal Cavalier Reale Fusoritto da Narni, trin-
ciante illustriss. Et rever. Sig. Cardinale Mont’alto, ivi, pp. 83-138. Cfr. anche la versione
moderna di R. FUSORITTO DA NARNI, Aggiunta fatta al Trinciante del Cervio, Firenze, Il
Portolano, 1979.
44
Il Mastro di casa. Ragionamento del Cavalier Reale Fusoritto da Narni trinciante del-
l’illustriss. Et reverend. Mo signor Cardinal Mont’alto: con il signor Cesare Pandini Mastro
di casa dell’Illustriss, & Reuerendissimo Signor Cardinal Farnese, ivi, pp. 142-162. Come
sostiene la Corongiu, del resto, quella del trinciante e del mastro di casa sono «due arti spe-
cializzate ma complementari», CORONGIU, Cucina e alimentazione..., cit., p. 31.

125
Matteo Lefèvre

nel dettaglio nei diversi paragrafi – preceduti sempre da un’indicazione didasca-


lica introdotta dalla formula «Come si trincia...» (ad es., «Come si trincia un
gallo d’India»; «Come si trincia il capretto dal mezo indreto» ecc.) – e che ren-
dono proficua e di assoluto interesse l’opera per ciò che concerne le cerimonie
conviviali, Cervio illustra al suo allievo, e poi erede, Fusoritto l’onorabilità del-
la professione del trinciante. Come degno è considerato nel Cinquecento il me-
stiere della spada, così è tenuto in grande considerazione anche il “mestiere del-
lo spiedo”: nel capitolo I, dedicato a ricordare «quanto l’officio del Trinciante
sia honorato fra tutti li Principi, & gran Signori», Cervio afferma infatti:

[...] tre sono gli officij honorati, che sogliono dare li Principi grandi per la cura della
bocca loro; cioè dello Scalco, del Coppiero, & del Trinciante: & ogni uno di questi non si
suol dare se non à persone molto nobili, fidate, & domestiche45.

Al termine delle pagine di Cervio segue l’Aggiunta dello «scolare» Narni, il


quale – ricorrendo perfettamente al topos dell’affettazione di modestia – si pre-
senta comunque, soprattutto, come raccoglitore e curatore dell’opera del mae-
stro. Impegnato al momento della stesura nell’ufficio di trinciante presso il
Cardinal Montalto (Alessandro Peretti), anche Narni inaugura i suoi suggeri-
menti con un Ragionamento: questa volta è lui a voler tramandare i segreti del
mestiere a «Giovan Battista Fusoritto, Suo scolare & nipote». L’Aggiunta – al
cui termine sono inserite alcune illustrazioni degli attrezzi del mestiere che
informano anche visivamente sugli strumenti adatti all’ufficio richiesto – amplia
la prospettiva didascalica, sorvolando sui dettami dell’arte di «trinciare» («[...]
in quanto al Trinciare delle carni, uccelli, & pesci, mi pare che sia detto à
bastanza nel primo libro») e concentrandosi per lo più sulle indicazioni relative
ai «[...] banchetti & nozze, & il modo che si è tenuto, & che si deue tenere in
ricettare un Papa, un Rè, & qual si voglia gran Prencipe con alcuni Cardinali &
con tutta la sua corte, & famiglia [...]»46. Ma accanto a queste descrizioni, non
vuole rinunciare a tramandare anche qualche trovata personale, frutto dell’inge-
gno del suo «officio»:

[...] ti mostrerò ancora come si deuono trinciare alcune cose nuouamente ritrouate da me,
come dire, cardi, Carcioffi, Pere, & Mele, & Gambari come al suo luogho si dirà [...]47

45
Ragionamento di Vincenzo Cervio..., cit., p. 1. L’ambito settoriale del progetto è con-
fermato dalla successiva lamentela per come sono spesso trattati economicamente i trincianti
presso le corti italiane, che appare un’autentica rivendicazione di categoria.
46
Ragionamento del Cavalier Reale Fusoritto da Narni, in CERVIO, Il trinciante..., cit.,
p. 87.
47
Ibid.

126
Res culinaria e Ars coquinaria

Interessante, in ultima analisi, sebbene esuli dal discorso prettamente ali-


mentare, è anche la sezione che riguarda il «Mastro di casa», dedicata dal Narni
a «Monsignor Giustiniano Orsino Maiordomo» presso la medesima corte del
Cardinal Montalto e, soprattutto, suo superiore nel «maneggio & gouerno» della
casa. La trattazione della figura del «Mastro di casa» si confà anch’essa agli sta-
tuti prevalenti della trattatistica specializzata, organizzandosi infatti, sul piano
formale, in forma di dialogo con un altro illustre collega, il «Signor Cesare
Pandini» a servizio presso il Cardinal Farnese.

Bartolomeo Scappi, «cuoco segreto», cioè privato, personale, di papa Pio V e,


precedentemente, di Paolo III, con il suo ricettario compone un’opera che per la
sua impostazione vasta e precisa oltrepassa i limiti del libro di cucina, illustrando
la complessa organizzazione di questo settore nella “corte” papale romana48.
Anch’egli, come i precedenti, fa parte dunque di quegli autori i quali «tra spiedi e
tegami, [...] appartengono di pieno diritto a quell’operosa famiglia di artefici laici
e popolani, educati alla spregiudicatezza profana della ricerca [...]»49, che in que-
sto caso consiste nel costante perfezionamento e aggiornamento dei «codici» del
gusto di tutta un’epoca. L’Opera, in sei libri50, sembra obbedire in modo organico
alla forma del trattato cinquecentesco: la trattazione della materia, per esempio, è
definita «non meno utile che dilettevole», rispettando in questo il precetto orazia-
no dell’utile dulci, fatto proprio e ipostatizzato da tutta la cultura rinascimentale;
l’autore invoca i concetti di «ordine» ed «esperienza» per la cura delle vivande; e
ancora, paragona il lavoro di preparazione del cibo a quello dell’architetto.
All’inizio del volume, nell’epistola Ai lettori, presumibilmente a cura dell’editore,
troviamo proprio la lode per il conseguimento del principio oraziano:

48
Della biografia di Scappi ci informa sommariamente l’autore stesso nella sua opera:
sebbene ricordi il suo servizio a Venezia sotto il cardinale Grimani, gli anni cruciali della sua
carriera si svolgono a Roma a partire dal 1536. Per un’analisi dei costumi delle corti romane
cinquecentesche, cfr., comunque, direttamente, G. FRAGNITO, Buone maniere e professiona-
lità nelle corti romane del Cinque e Seicento. Educare il corpo educare la parola nella tratta-
tistica del Rinascimento, a cura di G. Patrizi-A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 77-109,
che rimanda a numerosi altri saggi sull’argomento.
49
FIRPO, La gastronomia del Rinascimento, cit., p. 17.
50
I libro: «Ragionamento, che fa l’Autore M. Bartolomeo Scappi, con Giovanni suo
discepolo»: enumerazione delle qualità necessarie al cuoco; nozioni per la scelta degli ali-
menti; tecniche di preparazione e conservazione del cibo; masserizie e strumenti da cucina
funzionali.
II libro: come cucinare la carne, «sì di quadrupedi, come di volatili».
III libro: come cucinare i pesci
IV libro: «liste del presentar le uiuande in tavola, così di grasso come di magro»
V libro: cucinare paste, crostate, torte, fritti e pasticci di ogni genere.
VI libro: cibi adatti a infermi e convalescenti.

127
Matteo Lefèvre

[il miscere utile dulci] si può con verità affermare essere auuenuto à M. Bartolomeo
Scappi, autore della presente opera, hauendo preso per suo soggetto così necessaria materia
alla salute de’ corpi, & trattandola poi col maggior artificio, che alcuno da gli antichi in quà
habbia saputo fare, sì come ogni persona di sano intelletto potrà chiaramente comprendere
dal metodo dell’opera istessa, non meno utile, che diletteuole a tutti gli huomini, che la uor-
ranno leggere, e seruirsene ne i bisogni della uita loro [...]51.

Il precetto dell’armonica relazione tra forma e contenuto, tra prodesse e


delectare, non si limita pertanto alla trattatistica e alla letteratura alta, ma si
estende anche a quella specialistica che, come stiamo constatando, prende sem-
pre più piede nel corso del secolo.
Scappi consacra il suo vasto ricettario all’ammaestramento del discepolo
Giovanni e fin dalla dedicatoria mostra, da un lato, la competenza in materia, le
sue credenziali, dall’altro, la sua precisa collocazione in seno all’entourage del
pontefice, all’interno della macchina non tanto del potere quanto del manteni-
mento quotidiano della Curia. L’epistola introduttiva è emblematicamente indi-
rizzata «All’illustre, et molto rever. Sig. il Sig. Don Francesco de Reinoso, scal-
co, et cameriere secreto della Santità di N. S. Pio Quinto»: la sodalitas tra due
addetti ai lavori dell’arte domestica è perciò dichiarata fin dall’inizio. Secondo
Scappi, infatti, è «[...] natural obligo tra gli uomini [...] di giovarsi l’un l’altro,
& a beneficio di questo commun uiuere mettere ogn’un le sue fatiche, mostran-
do a gli altri quel tanto, ch’egli ò con la consideratione delle cose, ò con l’ispe-
rienza hà ritrouato»52; egli vuol far conoscere i suoi segreti e considera «[…]
maligni, & nemici del ben comune [...] coloro, che tenendo celati i lor secreti
non solo col mezzo della penna ricusano publicarli, ma anco con la parola uerso
a particolari, auari se ne mostrano»53. L’accusa a coloro che tengono per sé i
segreti della propria perizia suona così come lode nei confronti del suo lavoro e
del libro, che egli offre a cotanto collega al quale «è stata meritamente commes-
sa la cura della vita d’un tanto Principe»54.
Il carattere prettamente didascalico del genere ricettario 55 si esplicita, all’in-
terno del primo libro, occupato integralmente dal Ragionamento... con Giovanni

51
Ai lettori, in SCAPPI, Opera..., cit., p. 10 n. (corsivo mio).
52
B. SCAPPI, All’illustre, et molto rever. Sig. il Sig. Don Francesco de Reinoso, scalco, et
cameriere secreto della Santità di N. S. Pio Quinto, in ID., Opera..., cit., p. 7 n.n.
53
Ibid.
54
Ivi, p. 8 n.n.
55
Dal punto di vista strutturale, CAPATTI-MONTANARI offrono una definizione convincen-
te del genere ricettario: «Il ricettario è a un tempo una raccolta di brevi testi didattici e la loro
disposizione in un certo ordine. Questo ordine ha tre variabili: le derrate principali che entra-
no nella ricetta, la tipologia della preparazione gastronomica, il servizio delle vivande», in
particolare, Comunicare la cucina: i ricettari, in ID., La cucina italiana..., cit., pp. 185-220
(la citazione è a p. 202).

128
Res culinaria e Ars coquinaria

suo discepolo, nell’intento principale di ammaestramento del giovane cuoco,


affinché questi raggiunga la «perfettione» nella sua «professione» e si acquisti
perciò «honore». Due spunti emergono immediatamente: per prima cosa, l’idea-
le della «perfettione» rientra anch’esso nelle consuetudini generali della trattati-
stica rinascimentale (così come si desidera «formar con parole un perfetto corti-
giano», si vuole qui forgiare, sempre attraverso la pagina scritta – ma a seguito
di decenni di pratica ed esperienza! –, un «perfetto cuoco»); in secondo luogo,
si mette in risalto la condizione essenziale del servizio di «cuoco secreto», cioè
la professionalità. Il magistero raggiunto da Scappi non si esercita perciò in
modo dilettantesco, ma estremamente specialistico; nessun accenno è fatto alla
«sprezzatura» come ricercata facoltà di nascondere l’«arte»: proprio all’inizio
dell’opera, l’autore stesso ci tiene anzi a sottolineare la «fatica» costata per il
perfezionamento del suo mestiere (nel brano riportato poco più sotto il termine
«fatica» ritorna tre volte in poche righe) e a rimarcare il suo statuto di addetto ai
lavori, che solo gli permette di essere realmente competente ed esauriente in
materia. La sua particolarissima «arte» è stata acquisita con la «pratica» (anche
il termine «pratica» ricorre due volte nel breve passo seguente), e tramandarne
al suo «discepolo» i segreti è una necessità affinché quest’ultimo possa conti-
nuare a servire degnamente il pontefice. Dichiara infatti Scappi al suo giovane
aiutante:

[Ho] sempre messo ogni mio ingegno per farui huomo esperto, & intelligente in tal’arte,
acciò dopo la morte mia in uoi rimanessero tutte le mie fatiche, & pratiche, che ho fatto con
più Illustriss. Sig. Hora conoscendo io, che uoi sete gionto all’età di discernere il bene & il
male (appresso alle fatiche che ho durate in alleuarui, & ammaestrarui) mi sono disposto [...]
darui interamente l’ordine, & il modo, come ui haverete a gouernare nell’ebercitare tale offi-
cio, acciò prudentemente possiate seruire ogni Illustriss. Prencipe, & fare honore a chi con
tanta sua fatica si è pigliato cura che ne siate uenuto in pratica [...] 56.

L’obiettivo didattico e l’abilità del professionista si concretizzano poi nel


fatto che, pur mantenendo un linguaggio sostanzialmente ricco, elaborato e pia-
cevole, le ricette sono descritte con minuzia di particolari: non enumerano sem-
plicemente gli ingredienti, ma seguono la preparazione della vivanda passo
dopo passo fino alla presentazione del piatto 57. E l’alto grado di specializzazio-

56
B. SCAPPI, Ragionamento che fa l’autore M. Bartolomeo Scappi, con Giovanni suo
discepolo, in ID., Opera..., cit., p. 1r (corsivo mio).
57
Sul piano geografico, è interessante notare come il ricettario di Scappi mantenga una
solida prospettiva genericamente italiana: «Non solo le dettagliate «liste» di menù del quarto
libro, ma l’opera nel suo insieme è sostenuta da un respiro ampio, che, accentuando l’impo-
stazione comparativa già proposta da Platina, disegna un’immagine tendenzialmente comple-
ta del patrimonio culinario “italiano”, consapevolmente percepito come tale e come tale

129
Matteo Lefèvre

ne raggiunto dal ricettario di Scappi si riverbera anche, per ciò che riguarda le
zone paratestuali, nell’indice dettagliatissimo, che raccoglie le singole ricette in
ordine alfabetico sotto un’indicazione tematica comprensiva («Per far diuerse
minestre, e stufati di carne»; «per fare orzata»; «per far diuerse minestre d’her-
be» ecc.); nella scrupolosa «Tavola» degli argomenti, che è situata alla fine di
ogni singolo libro; ma soprattutto nell’appendice illustrata che chiude il volume.
L’impianto iconografico delle ventisette tavole delle illustrazioni, accompagnate
generalmente da didascalie esplicative, mostra infatti un catalogo di oggettistica
e utensileria che non solo serve a spiegare meglio la natura degli “attrezzi del
mestiere”, ma che non può nemmeno mancare a chi aspiri a trovar posto nel
Parnaso dei cuochi.

Prima di passare alle conclusioni, non bisogna dimenticare che i trattati culi-
nari fin qui analizzati fungono inoltre da modello per la riflessione gastronomi-
ca degli altri paesi europei “colonizzati” direttamente dalla cultura italiana del
Rinascimento. Accennando, per ragioni di economia espositiva, al solo caso ibe-
rico – del resto la Spagna e l’Italia nel corso del Cinquecento formano un unico
blocco politico, economico e culturale –, nello stesso modo in cui le ragioni del
classicismo rinascimentale sono esportate dall’Italia, attraverso pittori, scultori e
letterati, fino alle frontiere occidentali del Mediterraneo, così anche la trattatisti-
ca alimentare – redatta da un altro tipo di artisti, quelli dei “fornelli” e dell’«ap-
parecchio» – rientra nel repertorio italianizante venerato e imitato all’interno
delle montagne di Castiglia. Adeguandosi pienamente alla politesse castiglione-
sca, ad esempio, fu l’imperatore Carlo in persona a dettare nel 1545 le Etique-
tas, a cui doveva conformarsi tutto il personale di corte e che investivano ovvia-
mente anche la sfera del cibo. In prospettiva assolutamente cortigiana, le esigen-
ze del cerimoniale trasformano un atto meramente materiale e fisico come il
mangiare nell’ennesima occasione, da un lato, per perpetuare e mettere in prati-

comunicato al lettore», CAPATTI-MONTANARI, La cucina italiana..., cit., p. 16. L’Italia appare


divisa in quattro macrorealtà geografiche: la «Lombardia» (la zona della pianura padana), la
Repubblica di Venezia, l’Italia centrale (con Roma come centro), e il «Regno» (il Sud).
L’asse verticale di questa divisione è poi intersecato in tutta la sua estensione dall’«opposi-
zione est-ovest, importante soprattutto per il discorso gastronomico sui pesci, che diviene
spesso occasione di un confronto fra i due mari che disegnano la penisola da nord a sud», ivi,
p. 17. Interessanti, poi, e assolutamente attuali le indagini che l’autore compie sui mercati del
pesce: il confronto tra le città italiane permette di osservare i diversi modi di assicurarsi e
conservare le risorse ittiche e soprattutto di compararne qualità e anche convenienza. E sem-
pre l’attenzione al mercato consente di individuare una cucina «italiana» proprio in virtù di
un circuito di scambi, laddove, per le ben note vicende storico-politiche, non esiste alcun pre-
supposto unitario. Accanto alla koiné linguistica si sviluppa dunque una sorta di koiné culina-
ria, composta anch’essa di tante realtà locali (cfr. sempre ivi, pp. 18-19).

130
Res culinaria e Ars coquinaria

ca anche a tavola la «regula universalissima», dall’altro, per dimostrare la ma-


gnificenza/munificienza del principe, la sua «grazia»58. È a corte, e cioè nello
scenario privilegiato del potere e della ricchezza, che la cucina diviene occasio-
ne di espressione di queste due caratteristiche, assurgendo per quantità e qualità
a specchio del Principe e, soprattutto, a forma d’arte. Un’analisi sommaria dei
ricettari spagnoli del Cinquecento mostra come anche questi ultimi rappresenti-
no i codici del gusto dell’epoca, un gusto che tuttavia deriva direttamente dalla
realtà e dall’esperienza gastronomica italiana59. I trattati di cucina più celebri e
diffusi nella penisola iberica nel XVI secolo si richiamano infatti, con un’evi-
denza nettissima, ampiamente all’interno dei confini del plagio, ai loro omolo-
ghi e modelli italiani:

58
Cfr. M. del C. SIMÓN PALMER, Comer, charlar, reír, in Codici del gusto, cit., pp. 116-
128. Soprattutto sull’esempio generale del De civitate morum puerilium di Erasmo alcuni
trattati spagnoli dell’epoca sul comportamento di principi e cortigiani contengono al loro
interno anche una «grammatica» dello stare a tavola: tra gli altri, segnaliamo F. MONZÓN,
Libro primero del Espejo del Príncipe christiano..., Lisboa, 1544; A. de GUEVARA, Aviso de
privados y doctrina de cortesanos..., Valladolid, 1539; ma anche, più vicini per ambiente e
destinatari all’orizzonte cittadino del Galateo dellacasiano, i due libri di L. PALMIRENO, El
estudioso en la aldea, Valencia, Casa Ioan Mey, 1568; e El estudioso cortesano, Valencia,
Petrus de Huete, 1573.
59
L’espressione «códices del gusto» è utilizzata nella prima parte del saggio di M. de los
A. PÉREZ SAMPER, Los recetarios de cocina (siglos XV-XVIII), in Codici del gusto, cit., pp.
152-184, a cui facciamo riferimento. La stessa autrice segnala due testi di area iberica che
ricostruiscono una storia del gusto: N. LUJÁN, Historia de la gastronomía, Barcelona, Plaza y
Janés, 1988; e J. F. REVEL, Un festín de palabras. Historia literaria de la sensibilidad
gastronómica de la Antigüedad a nuestros días, Barcelona, Tusquets, 1980; nonché alcuni
saggi dedicati espressamente alla cucina cortesana, tra cui ricordiamo M. C. SIMÓN PALMER,
La alimentación y sus circunstancias en el Real Alcázar de Madrid, Madrid, Instituto de
Estudios madrileños, 1982; della stessa autrice, La cocina de palacio 1561-1931, Madrid,
Castalia, 1997; e J. ALLARD, La cuisine espagnole au siècle d’Or, in Mélanges de la Casa de
Velázquez, t. XXIV, 1988, pp. 177-190.
In Spagna il genere del ricettario “cortigiano” prende piede fin dal secolo XV e si svilup-
pa naturaliter nel successivo. Per un panorama bibliografico dei ricettari nei diversi secoli,
cfr. il contributo fondamentale sempre di M.C. SIMÓN PALMER, Bibliografía de la gastro-
nomía española, Madrid, Velázquez, 1977. Per sottolineare ancora di più i legami tra cultura
gastronomica italiana e iberica, il primo ricettario pubblicato in Spagna è il già ricordato trat-
tato, quattrocentesco e inedito, del «cuoco napoletano» al servizio di Ferrante d’Aragona,
Roberto da Nola, tradotto in catalano con il titolo di Llibre de doctrina per a ben servir, de
tallar y el Art del Coch, ço és de qualsevol manera de potatges y salses, Barcelona, 1520.
L’opera ebbe grande successo nel corso del Cinquecento e ricevette varie edizioni sia in cata-
lano che in castigliano. Nel Cinquecento, sulla scia di Scappi, è degno di nota il trattato “alto”
e “ufficiale” di D. GRANADO, Libro del arte de cozina, Madrid, Luis Sánchez, 1599; e nel
secolo successivo, quello di F. MARTÍNEZ MONTIÑO, Arte de cocina, pastelería, vizcochería y
conservería, Madrid, Luis Sánchez, 1611, nel cui Prólogo al lector l’autore si dichiara
anch’egli un addetto ai lavori, in quanto «Cocinero Mayor» sotto Filippo III e IV.

131
Matteo Lefèvre

La influencia italiana en los recetarios de cocina españoles de la época moderna fue


importantísima. Comenzando por el Maestro Rupert de Nola, formado en la corte napolitana,
siguiendo por Granado, que incorpora multitud de platos italianos copiados del recetario de
Bartolomé Scappi, cocinero del Papa Pio V, [...] y terminando por Martínez Montiño, que
también cita algunas recetas de la misma procedencia60.

In base alle considerazioni fin qui annotate e in virtù delle analisi compiute
proviamo a tracciare schematicamente alcune caratteristiche fondamentali di
genere evidenziabili nell’ambito della trattatistica gastronomica così come essa
si manifesta nel corso del Cinquecento.
1. Il primo dato che emerge, e con il quale abbiamo aperto questo nostro saggio,
è l’attitudine fortemente specialistica e didascalica che orienta forme e contenuti di
questi manuali: materie prime, strumenti e operazioni proprie dell’ars coquinaria
sono analizzati in senso tecnico e funzionale; e i preziosi suggerimenti e ordina-
menti sono comunicati e tramandati a «discipuli», allievi vari e perfino «nipoti».
2. Altro aspetto chiaramente individuabile e altamente connotante è quello
dell’apologia dell’esperienza: gli autori da noi analizzati sono professionisti del
“mestiere dello spiedo”, sono addetti ai lavori dell’apparato cerimonioso dei
banchetti principeschi. Da Messisbugo a Scappi, tutti definiscono il contenuto
dei propri volumi come frutto della loro militanza nell’arte della cucina, di cui
sono divenuti smaliziati e insindacabili interpreti. E ulteriore dimostrazione che
questi trattati sono frutto dell’esperienza di una vita sta anche nel fatto che in
alcuni casi queste opere escono postume.
3. L’inserimento organico di questi trattati nella realtà cortigiana è conferma-
to dal fatto che, nonostante la settorialità dell’argomento e dei compilatori, spes-
so l’impostazione e la forma dei testi di ars coquinaria rispettano in pieno i pre-
cetti e le esigenze della cultura rinascimentale: principi quali quello dell’utile
dulci, dell’equilibrio tra le parti interne ai vari volumi, ma anche l’idea del
lustro che il principe riceve dall’omaggio del suo cuoco o scalco di turno rien-
trano a tutti gli effetti nel sistema del Classicismo.
4. Sul piano delle finalità di questi testi, dobbiamo osservare che perfino in
un autore come Messisbugo, il quale fin dal titolo intende lodare i suoi mecenati
attraverso l’occasione del banchetto, lo scopo principale risiede fondamental-
mente in un’alta funzionalità. Anche se non mancano, come in Scappi, «artifizi»
che rendono piacevole e brillante il dettato dell’institutio coquinaria, l’ottica
pragmatica sembra comunque predominare: ciò che preme a Romoli come a
Cervio è effettivamente la facilità di consultazione dei propri manuali e l’effica-
cia delle indicazioni ivi contenute.

60
M. de los A. PÉREZ SAMPER, Los recetarios..., cit., p. 161. Diego Granado copia addi-
rittura la ricetta «Para hacer platos de macarrones a la Romana»!

132
Res culinaria e Ars coquinaria

5. In tutti questi trattati una grande attenzione è riservata alle zone parate-
stuali. Il primo esempio è fornito dall’abbondanza di «Tavole» riassuntive e
indici, che rientra nell’ottica funzionale e didascalica di questi testi. Sul piano
editoriale e commerciale, invece, i termini «libro» o «opera» che contraddistin-
guono i titoli dei ricettari seguono l’uso generalmente in voga nei frontespizi
cinquecenteschi: secondo le consuetudini dell’epoca tipografica, il titolo, il
frontespizio appunto, chiarisce immediatamente – con tutte le specifiche e l’e-
stensione del caso – ciò di cui si tratterà nel testo, si tratti delle “confidenze” del
«cuoco segreto» Scappi o delle tecniche del «Trinciante» di Cervio. Anche il
Panonto, Domenico Romoli, nel suo vademecum per lo scalco, non lesina nel-
l’elencare il contenuto e la natura dei suggerimenti destinati agli addetti ai lavo-
ri dell’apparato conviviale e non si astiene neppure dall’indicare chi sono i
destinatari di cotanta perizia e attenzione, cioè i «Prencipi».
6. Un ultimo rilievo, di natura prettamente storico-culturale, riguarda l’osse-
quio riservato nei confronti delle prescrizioni sanitarie e religiose. I trattati di
gastronomia da noi analizzati, tutti del secondo Cinquecento, vanno in parte
inquadrati nell’orizzonte della Controriforma: da Messisbugo a Cervio a Scappi
– che è addirittura cuoco personale di Sua Santità – la preoccupazione per i
pasti “di magro” e i “cibi proibiti” (analogo gastronomico dei libri) diventa
quasi ossessiva. Intere sezioni delle loro opere sono infatti dedicate al tempo di
Quaresima (cioè, indirettamente, alla «censura» delle vivande in determinati
periodi dell’anno liturgico); e questi autori, nel loro scrupolo, non fanno altro
che assecondare la precettistica ufficiale di Santa Romana Chiesa, che negli
stessi anni consacrava digiuni e astinenze attraverso editti perentori e pubblica-
zioni ufficiali, complete di anatemi ed elenchi di pene per chiunque si sottraesse
al regime dietetico imposto dalla Curia. Inoltre, strettamente legato all’universo
ideologico post-tridentino è anche il discorso sulla «sanità» dei cibi. La «salute»
dell’uomo a tavola ha infatti un duplice risvolto: da una parte, la salubrità del
mangiare diventa – lo abbiamo notato nelle prime pagine – un principio caro
alla medicina e alla scienza, e da lì anche alla maestria dei cuochi più aggiorna-
ti; dall’altra, la «sanità» nel campo dell’alimentazione allude anche alla morige-
ratezza, che deve contraddistinguere l’atteggiamento del cristiano di fronte alla
mensa, un atteggiamento rispettoso che rifugga dall’eccesso e dalla smodatezza.

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