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LA MENTE ORIENTALE

Nella superficiale atmosfera sincretica che caratterizza la cultura contemporanea, un’attenta rilettura del
saggio di Christopher Bollas offre spunti che fanno la differenza.
Nell’ambito dell’atmosfera sincretica che permea la cultura dell’occidente contemporaneo,torna utile recuperare un
recente testo di psicoanalisi che affronta in maniera non banalizzante la valenza emancipatoria dell’incontro culturale
tra occidente e oriente, “La mente orientale” di Christopher Bollas.

Spesso oggi un soggetto smarrito, perso nello sradicamento di un cosmopolitismo promosso per motivi economici dalle
élite mondialiste, si rivolge a religioni “altre” nella speranza che un “altrove” in cui l’uomo venga pensato come totalità
ancora esista. Per fortuna, quell’altrove c’è. Anche se, come affermerebbe il filosofo cinese Zhuangzi (369-328 a. C)
(assieme a parecchi altri), non occorrerebbe neppure varcare la soglia di casa per trovarlo. Intendo cioè dire che, per
sfuggire allo svilimento dell’umano promulgato dalla visione meccanicista e riduzionista dello scientismo e di certe
psicologie, per le quali la nostra mente sarebbe ridotta a meccanismi di stimolo-risposta codificati da impulsi elettrici
neuronali, basterebbe rivolgersi alla tridimensionalità con cui i grandi sistemi culturali da sempre hanno guardato
all’uomo, ivi incluso lo straordinario patrimonio simbolico e sapienziale della “nostra” religione… ma anche quello
delle “nostre” arti e della “nostra” filosofia.

“La mente orientale” di Christopher Bollas, pubblicato da Routledge nel 2013, si pone al crocevia tra psicoanalisi,
critica letteraria, riflessione filosofica e antropologia, nel solco di una tradizione di psicoanalisti appassionati d’oriente
che annovera tra le sue fila nomi come Carl Gustav Jung, Erich Fromm, Wilfred Bion, Masud Khan, Nina Coltart.

SPECIFICITÀ DELLA MENTE ORIENTALE


Categorie come mente orientale, mente europea, mente occidentale, possono apparire arbitrarie o poco precise,
tuttavia forse uno dei fattori chiave alla radice dell’isolamento in cui Cina, Corea, Giappone sono rimasti, nonostante
fossero aperti ai viaggiatori provenienti dal mondo occidentale e da altri mondi per oltre 4000 anni, è dovuto al fatto che
gli orientali pensano diversamente dagli occidentali.

L’ipotesi dell’Autore è che la differenza tra modo di pensare orientale e occidentale non sia tra menti diverse, ma tra le
diverse parti della mente valorizzate e sviluppate dalle due culture. Il pensiero orientale propenderebbe per forme di
pensiero basate sull’ordine materno, mentre il pensiero occidentale rifletterebbe forme di pensiero provenienti
dall’ordine paterno.

Per ordine materno l’autore intende le conoscenze comunicate in forma “presentazionale” al sé prima che venga
sviluppato il linguaggio. Il mondo viene presentato all’infans dalla madre, oppure esso si gli presenta e lascia molteplici
impressioni “inarticolate” e “non concettualizzate” sul sé. Sempre prescindendo dalla parola, la madre trasmette al
bambino innumerevoli assiomi sul modo di essere e di relazionarsi attraverso la semplice “logica” delle sue azioni, che
vengono assimilate dall’io per poi diventare veri e propri paradigmi formativi che letteralmente “danno forma”
all’essere.

L’ordine materno conferisce una forma di conoscenza che permane, negli adulti, accanto a quello paterno, che si
riferisce invece a categorie che dipendono dal linguaggio e comunicano la “volontà del padre”, i presupposti e le leggi
della società.

Il pensiero orientale preferisce le forme dell’essere, del pensare e del relazionarsi preverbali o non verbali tipiche del
primo ordine, mentre il pensiero occidentale si basa su espressioni verbali articolate per comunicare se stesso e funziona
in conformità con il secondo.

Per sintetizzare, l’Oriente sviluppa un pensiero:

 presentazionale, in cui la realtà viene semplicemente presentata e non spiegata, poiché concepita come
“autoevidente”: se un uomo cinese deve parlare è perché ha fallito nella sua presentazione esemplare di sé;
 preverbale, in continuità con il “primo mondo” a noi conosciuto, quello del nostro debutto nella vita (cui si
succede quello paterno e post-edipico, di tutt’altra configurazione, che in occidente soppianta in toto il primo,
rendendolo una vaga e nebulosa realtà conosciuta e mai pensata);
 collettivo, in cui il singolo ben poco deve importare: “l’individuo esiste come umile presenza all’interno di un
ordine più ampio; posizione questa che non incoraggia l’insidioso orgoglio dell’umiltà o della sottomissione,
promuovendo invece un senso di libertà interiore che è subordinato al proprio grado di accordo con il mondo.
Se un uomo è parte del gruppo, senza un rilievo personale, allora il “bene interiore” di cui parla Confucio
diventa una dimora mentale”;
 correlativo, in cui i fenomeni vengono letti come in una relazione non di causalità l’uno rispetto all’altro, ma
di correlazione sulla base dei parametri più disparati – di analogia, di somiglianza, di simultaneità o di altro;
 sincronico, in cui i fenomeni hanno una relazione temporale di successione non lineare, ma co-occorrente e
vengono attenzionati nella loro co-emergenza;
 metaforico, in cui il significato emozionale di un oggetto viene presentato attraverso un altro oggetto.

L’Occidente sviluppa, di contro, un pensiero:

 rappresentazionale, in cui la realtà non viene approcciata tal quale, ma già attraverso il filtro della sua
concettualizzazione in parola;
 verbale, in continuità con il “secondo mondo” a noi conosciuto, quello simbolico e post-edipico, l’unico con
cui abbiamo in occidente dimestichezza;
 individuale, in cui l’individualità ha il predominio, in spietata continuità con il darwinismo sociale della
sopravvivenza del più adatto impostosi a giustificazione e guida del capitalismo;
 causale, in cui i fenomeni vengono collegati da nessi di causalità lineare;
 diacronico, in cui la temporalità è sequenziale;
 metonimico, in cui un singolo caso, la “pars pro toto”, esemplifica quanto di vuol dire.

LE RADICI DEL PENSIERO OCCIDENTALE E DI QUELLO ORIENTALE


Nel rintracciare i fondamenti storici dello sviluppo di un pensiero orientale differente da quello occidentale, l’Autore
esplora i capisaldi del pensiero, della letteratura, della filosofia, della poesia cinesi, poi giapponesi e coreani, nel corso
dei millenni. Il mondo orientale si fonda su cinque testi classici, tre dei quali incarnano la mente cinese: Il libro delle
odi o Classico della poesia, il Libro dei riti e Il libro dei mutamenti (I- Ching). Essi sono il fondamento intellettuale
degli scritti di Lao Tsu, Confucio, Mo Tsu, Mencio, Zhuang-Zi e i post confuciani, le cui opere sono giunte fino a noi
sotto forma di commentari composti nei secoli destinati a guidare il popolo cinese attraverso la vita.

I testi madre orientali e i loro interpreti valorizzano l’appartenenza dell’individuo alla comunità, mentre il pensiero
occidentale subisce fin dagli esordi il fascino di colui che sfida la tradizione, l’individuo separato dal gruppo.

Laddove i poemi epici occidentali si basano sulle avventure dell’uomo nel mondo esterno, per testare la forza, il
coraggio e l’intelligenza dell’eroe, i testi orientali sottolineano gli ordinari istanti fugaci di quel viaggio che è la vita.

Il linguaggio è lo strumento emblematico della scelta di campo di ciascuna delle due culture, quella orientale e quella
occidentale. L’occidente si affida all’autorappresentazione per mezzo delle parole, tanto da far diventare il linguaggio
verbale lo scambio privilegiato dell’intelletto. Il linguaggio verbale è democratico, consente un contatto condiviso ed è
aperto a esami critici. L’oriente adotta invece l’autopresentazione, che consiste nel vivere se stessi come forma
esemplare. Meno si dice, meglio è: il linguaggio verbale è un fallimento dell’autoevidenza attraverso il proprio modo di
essere. “A Occidente si parla per coinvolgere; a oriente si parla per respingere.”

Inoltre, lo stesso discorso verbale orientale è ambiguo, cosa che consente di co-costruire la comunicazione, mentre il
discorso occidentale favorisce la chiarezza, la delimitazione, la de-finizione, oltre alla netta distinzione tra chi parla e
chi ascolta.

La “presentazione” è un modo di essere, mentre la “rappresentazione” si riferisce al contenuto di una comunicazione.


La mente orientale dà maggiore importanza al presentazionale e tende a evitare il rappresentazionale, mentre per la
mente occidentale il compito della comunicazione è veicolare il contenuto.

Ovviamente, queste distinzioni non sono mai assolute, anzi: la struttura della mente occidentale e di quella orientale
ebbero e ancora hanno elementi in comune, tanto che si può postularne una matrice originaria comune, ma le due
tradizioni hanno sottolineato aspetti diversi dell’essere umano. Per riassumere, mentre la tradizione orientale affonda le
sue radici nei capolavori filosofici di cui abbiamo parlato prima, la mente occidentale affonda le sue radici in una prima
opera pubblicata in Mesopotamia nel 2800 a.C., il primo poema epico chiaramente occidentale, l’Epopea di Gilgamesh.
Essa narra della volontà del singolo di conquistare il mondo lasciando un segno di sé duraturo. Enkidu, un selvaggio
allevato da animali, viene sedotto da una donna e costretto alla civiltà. Siamo a 2000 anni prima della comparsa dei
poemi omerici, che risalgono all’VIII secolo a.C. circa, ma c’è una chiara linea di pensiero che va dal periodo sumerico
a quello omerico: per entrambi il mondo naturale dev’essere conquistato, l’uomo deve lasciare un segno. Una visione
individualista che conduce l’uomo a una realizzazione tragica, dal momento che la vita, anche quella più intensa, finisce
con la morte.

Possiamo individuare le due linee di pensiero anche pensando che, mentre nella Grecia di Platone e Aristotele incentrata
sulla polis gli editti religiosi erano stati secolarizzati e trasformati in oggetto di dibattito e le leggi venivano
continuamente esaminate in controversie democratiche, in Cina grandi popolazioni venivano tenute insieme attraverso
la religione e la sottomissione e un’etica che valorizzava la cooperazione. Andando verso la centralizzazione, i cinesi
rifuggivano idee che avrebbero potuto sminuire l’autorità. Troviamo una cerniera tra mentalità occidentale e quella
orientale in India.

L’induismo ha fede in Brahma, l’anima universale, ma riconosce che questo principio universale esiste in ogni
individuo in modo unico. Riconosce un’interrelazione tra il Dharma, l’ordine mitico, etico, sociale e divino delle cose, e
il Karma, l’azione individuale. Anticipa e struttura il conflitto tra il sé individuale e il gruppo che in Cina verrà dibattuto
nel corso dei secoli.

ISTANTI E L’I CHING


Il concetto cinese di istante richiede la descrizione di un intero scenario complesso.

Esso riassume una visione sopra-determinata e non casuale degli eventi. L’istante viene così a coincidere, per la cultura
orientale, con una molteplicità di eventi tutti copresenti che richiede la descrizione del più minuto dettaglio, perché
l’istante osservato è l’insieme di tutti gli ingredienti del presente. Per Jung, l’esagramma (ottenuto nel lancio dei
bastoncini di achillea per ottenere il responso dell’oracolo dell’I Ching) “era l’esponente del momento in cui lo si
otteneva (…) in quanto lo si comprendeva come un indicatore della situazione essenziale prevalente al momento della
sua origine.” Questa caratteristica gli ricorda il concetto di “sincronicità”, diametralmente opposto a quello della
causalità, poiché considera la coincidenza degli eventi frutto di una peculiare interdipendenza tra loro e con le
condizioni soggettive dell’osservatore.

L’I Ching è il capolavoro che meglio dà conto di questo concetto diverso di temporalità, per via del quale il tempo non è
quanto necessario per giungere a una meta o a un obiettivo come in occidente, bensì una concatenazione infinita
d’istanti capaci di stornare, nel loro affastellarsi, la paura della morte e di fungere da lenitivo per il senso di caducità che
pervade la cultura orientale. I cinesi non hanno alcun interesse per la sequenzialità lineare degli eventi, per la loro
continuità. L’enfasi è sull’istante, anziché sulla durata.

Elaborato in centinaia di anni – la leggenda vuole che abbia avuto origine con Fu Xi, che regnò nel 2500 A.C. – L’I
Ching è capace di esprimere la visione dell’uomo di un intero popolo, che curiosamente appartiene al regno del gioco.
E’ costituito da 64 esagrammi, ciascuno dei quali è accompagnato da un commento articolato nel corso dei secoli.
Ognuno di essi rappresenta un diverso aspetto dell’esperienza di vita: il creativo, il ricettivo, la difficoltà iniziale, la
stoltezza, l’attesa, la lite, l’esercito, la solidarietà, la forza domatrice piccola, il procedere, per ricordare i primi dieci.
Gli uomini viaggiano attraverso queste esperienze, che caratterizzano la vita. Gli stati d’animo interiori e le
caratteristiche esterne del mondo convergono poi, dunque la loro copresenza non è casuale, benché non sia causale,
poiché istanti simili ci raggiungono, ci mettono in moto e poi ci abbandonano. Scrive il poeta Li Po (701- 762
A.C.): “Siamo vivi, siamo viaggiatori di passaggio.”

L’I Ching è un universo in miniatura. Il mondo in cui viviamo è sempre in movimento e tuttavia immutabile come da
filosofia taoista.

I bastoncini possono essere spezzati o interi. Queste linee, per ricavare un’immagine o un’idea, si trasformano di volta
in volta in ciò che a un occidentale appare una strofa di tre versi, un trigramma. Il trigramma è un insieme di idee o
associazioni che in nessun momento potrebbe voler dire soltanto una cosa. Un trigramma è una forma di pensiero, o un
pensiero come forma

Nel regno di queste immagini che si sovrappongono l’una con l’altra, una persona che utilizza l’I Ching considererà
unici i suoi pensieri, poiché l’interpretazione che essi hanno è assolutamente personale, data l’estrema plurivocità dei
simboli. Quando i trigrammi sono stati messi insieme per formare esagrammi, il loro significato è divenuto ancora più
mutevole. Se il trigramma è il modo per pensare l’esperienza vissuta, l’esagramma diventa troppo complesso per il solo
pensiero cosciente. Esso si apre a linee di pensiero inconsce e ramificate.

Sebbene io sia laica ed afflitta da incurabile ateismo, quando personalmente consulto l’oracolo vengo catapultata in un
mondo che favorisce in maniera sorprendente l’introspezione e la meraviglia: l’incontro con risposte simboliche e
plurivoche, mai saturanti, bensì aperte a ogni mia interpretazione, favorisce il mio pormi ulteriori domande. Questa è
vera introspezione, poiché, come ricorda lo psicoanalista Wilfred Bion citando Blanchot, “la risposta è l’assassina della
domanda”, così come “la conoscenza è il killer della curiosità”. In maniera orientale dunque, mi pongo in uno scenario
in cui il già conosciuto non serve a nulla, conta il nuovo che dev’essere visto, trovato in maniera attiva, come da un
bambino che “scopre” gli oggetti poiché li irrora della sua emozione. Paradossalmente, il “nuovo” che emerge, la
“chiave di lettura inedita” agli eventi sui cui mi interrogo viene poi riletto dalla saggezza millenaria dell’oracolo,
collocandolo nel sistema di credenze taoiste legate all’eterna ciclicità degli opposti nell’infinita e insondabile armonia
del cosmo. L’angoscia che sospinge alla domanda viene accolta dall’oracolo, non trova in esso precoci pacificazioni,
bensì uno specchio simbolico in cui gli eventi vengono ripresentati, si prestano alla lettura nuova del consultante, che
infine viene aiutato dall’oracolo a trovare una soluzione che sia in armonia con le eterne leggi del cosmo.
Il sapere taoista offre alla mente occidentale ferita dal suo eterno arrabattarsi nei flutti della storia, del divenire, offrendo
serene e luminose razionalizzazioni: “se sarai tra la schiera dei saggi, se saprai guadare ai mutamenti e alle conseguenze
della tue azioni ora (e l’oracolo da’ istruzioni su come fare per essere saggi), nessuna macchia, tutto ritroverà salute”.
Trovo dunque in questo sistema di pensiero la ritualità di un appuntamento sia con me stessa e con il mio inconscio
(primario, materno, “non rimosso”), sia con un sapere “paterno” codificato. Quest’ultima esperienza può esser fatta
nella nostra religione ad ogni appuntamento domenicale, quando un prete maestro che possa dirsi tale ci pone a
confronto con la saggezza millenaria del Cristo riattualizzata, fatta rinascere nel qui e ora.

Un altro aspetto interessante dell’I Ching è che esso riproduce in forma di gioco – e la psicoanalisi sa che ogni gioco
conferisce al giocatore un’illusione di controllo sul mondo immaginario riprodotto nel gioco stesso – il fato, cioè
l’incontro del destino con il caso. Per Bollas, il destino di un uomo è lo sviluppo del suo idioma personale (cioè
l’espressione massima, attraverso tutti i linguaggi che la vita mette a disposizione, delle proprie potenzialità originarie).
Come rappresentato nella Ur - opera dell’occidente, l’Edipo, il fato di un uomo non può essere che tragico, poiché
l’attuazione della pulsione che conduce all’espressione massima del proprio idioma cozza contro le leggi del mondo
esterno. C’è conflitto tra l’idioma del sé, la cui pulsione viene realizzata dall’esperienza vissuta, e il fato che lo
contrasta sempre. Per i cinesi no. Esso è un aspetto della vita che si unisce a tutti gli altri – uomini e ambiente - in un
momento di passaggio.

Per concludere questa prima parte della disamina, diremo che il fascino del pensiero orientale per noi stia tutto nel
baluginare di un mondo dimenticato, quello che si colloca prima della “scoperta”, da parte del bambino, della parola; è
una realtà in cui vigono leggi diverse, prima fra tutte un senso del tempo diametralmente opposto al nostro, in cui
anziché il divenire irreversibile della storia è “l’eterno presente” dell’istante, nella sua epifanicità, a dominare il campo.
Un mondo che ovviamente anche la mente orientale arricchisce per volgerlo agli utilizzi adulti della realtà, ma con cui
noi occidentali perdiamo quasi completamente il contatto, a favore del pensiero retto dalla separazione tra gli enti
imposta dalla parola, in cui la relazione tra gli oggetti è causale, lineare e poco spazio si dà alla soggettività o a
relazionalità diverse, di tipo ad esempio affettivo, tra gli oggetti. Un mondo, infine, in cui il fare è un’operazione di
scarso valore rispetto all’essere: un concetto interessante, in una cultura come la nostra in cui il nostro fare, sempre di
fretta, sempre in fuga, sempre malvolentieri, è volto a conferire prestigio non già all’essere, ma all’apparire.

Nell’intento di sondare l’incontro tra oriente e occidente cui assistiamo nelle sempre più frequenti ricerche di filosofie e
religioni altre da parte di un soggetto occidentale smarrito, alla ricerca di un senso per sé e la sua storia, proponiamo
anche in questa seconda puntata la rilettura di una piccola perla della psicoanalisi contemporanea, “La mente Orientale”
di Christopher Bollas (2014). Cosa troviamo, quando ci affacciamo sul taoismo o sul buddhismo zen? Cosa cerchiamo
davvero? Non è che per caso quanto cerchiamo sia non la novità, ma un significato perduto di noi e della nostra
umanità? E se si tratta di qualcosa di nuovo, non è che per caso questo contenuto mancante sia all’origine dell’attuale
deriva della mente occidentale? Come altre discipline tra arte e scienza, la psicoanalisi ha preso in carico alcuni nuclei
di funzionamento del sapere orientale e ha tentato una sintesi riparatrice.

IL SE È POESIA
In Cina il “Libro delle odi”, risalente al 1000 a.C. e composto nei secoli raccogliendo le poesie (inizialmente 3000
canti) che celebrano la vita delle persone comuni, era compilato per la maggior parte dal sovrano regnante, che inviava
scribi nei villaggi affinché mettessero per iscritto i canti, gli inni e le poesie del popolo lavoratore. Esso, che divenne un
testo fondamentale per la Cina e stabilì un modello di pensiero per la mente orientale, dà conto di come la poesia fosse
considerata una “casa per il sé”, altrimenti regolato come parte di una volontà collettiva. Data l’ambiguità intrinseca alla
lingua cinese, priva di pronomi e di tempi verbali, ognuno poteva interpretare a modo proprio ogni componimento,
benché questo appartenesse alla collettività costituendo, per così dire, anche un contenitore del sentire collettivo.

Per Confucio, che curò l’edizione del “Libro delle odi” che conosciamo oggi, il giusto sentiero riguarda il modo in cui
si vive anziché ciò che si realizza.

Una priorità della forma sul contenuto che si trasmette attraverso l’estetica della struttura poetica. È quella forma,
quell’estetica della struttura a costituire il mezzo silenzioso per guidare il sé attraverso la Via, il Tao.

Mentre la letteratura occidentale trasmette contenuti e messaggi, per esempio il viaggio e le prove cui viene sottoposto
l’eroe e come le supera, sia esso Ulisse o Enea, la poesia orientale sembra voler trasmettere strutture mentali.
L’obiettivo non è raccontare una storia, ma esperire quella forma particolare.
Si tratta cioè di strutture musicali di parole che catturano l’essere con esperienze intense che lo coinvolgono tutto. Esse
mantengono lo stile del modo di essere della madre con il bambino. Per i cinesi, ascoltare una poesia significa poter
pensare esperienze note e non pensate. Se per gli occidentali la maggior parte dei pensieri non è pensabile senza
linguaggio a livello conscio, per i cinesi non si poteva pensare all’esperienza della propria vita senza l’idioma della
poesia. Nella poesia la mente orientale non ha lo scopo di raggiungere un obiettivo, ma quello di creare una realtà prima
inesistente. I versi non sono destinati a venir collegati in un’unica struttura sintattica. La natura autonoma di
un’immagine, l’affiancamento di oggetti gli uni agli altri, hanno di per sé una completezza emotiva. Le poesie sono più
simili a sculture, a punti di vista mobili sul percepire. I poeti cinesi danno enorme importanza alla rappresentazione di
oggetti visibili e di eventi lasciando che vengano spiegati dal loro emergere coesistente e coestensivo alla natura. Alle
prese, poi, con la transitorietà da millenni, i poeti orientali hanno conferito ai componimenti l’intensità dell’evanescente.
Un albero, un pesce, un ruscello diventano dense immagini cariche di emotività proiettata. In questo modo, l’oggetto
diviene uno “scrigno per il sé”. L’essenza della persona si trasforma, coerentemente con la rinuncia all’ego prescritta
dal buddhismo zen, nei suoi rappresentanti del mondo naturale. La poesia presenta così l’essere del poeta senza
direttamente parlarne. Obiettivo della poesia è, tuttavia, non rappresentare nulla, ma letteralmente presentare qualcosa
che non è mai esistito prima. La forma della poesia e cioè una realtà nuova. Quanto sostiene il critico letterario Maurice
Blanchot è applicabile correttamente alla poesia orientale: “L’arte ha uno scopo, e questo scopo stesso non è un
semplice modo di esercitare lo spirito, essa è lo spirito. L’opera è lo spirito, e lo spirito è il passaggio, nell’opera, dalla
suprema indeterminazione all’estremamente determinato; nell’opera vediamo la nostra mente, perché l’opera è
soltanto la realizzazione di quel che c’è di più nello spirito, che a sua volta non vede in essa che l’occasione di
riconoscersi e di esercitarsi infinitamente. Lo spirito allora vede ancora una volta soltanto nell’opera un’opportunità
per riconoscere ed esercitare se stesso all’infinito.” Per la mente orientale la poesia rappresenta dunque il luogo in cui
la mente realizza se stessa.
Essa ha profondità non paragonabili a quelle del romanzo, tanto è vero che i primi romanzieri cinesi pubblicarono sotto
pseudonimo, per evitare la vergogna di utilizzare una forma denigrata di banalità verbale. Il romanzo cinese subì poi un
processo di estetizzazione per via del quale la narrativa divenne, alla fine, simile alla poesia.

FELICE OZIO
Zhuang-zi (369-382 a.C.), è uno dei quattro grandi filosofi cinesi insieme al Lao-Zi, Confucio e Mencio. La sua
riflessione assembla una rigorosa richiesta di pensiero lucido con un chiaro sentimento della natura insondabile
dell’esperienza umana. Alla domanda “Esiste davvero la felicità?” risponde: “Prendo l’inazione per vera
felicità”. Contro la monotonia del quotidiano, Zhuang-zi esorta a trovare appagamento nella “non azione”. Troviamo
assonanze nella psicoanalisi di Donald Winnicott, capofila della scuola degli “indipendenti britannici” che più d’ogni
altra corrente enfatizzò l’importanza della relazione madre-bambino dei primi anni di vita. Egli sosteneva che quasi
tutto quanto i pazienti dicevano fossero “chiacchiere”, disordine mentale camuffato da super-adattamento. Anche la
libera associazione, il libero concatenarsi dei pensieri che fu strumento tecnico principe della psicoanalisi a partire da
Freud, è per lui un ostacolo, poiché produce un filo di idee come atti di onnipotenza difensiva, in ultima analisi segno di
ansia. Semplicemente, egli chiedeva al paziente di stare tranquillo e adottava una modalità prevalentemente silenziosa
con comunicazioni occasionali brevi, di carattere onirico. Per Winnicott “l’esperienza del sé in essere è l’analisi”. Con
lui, la psicoanalisi si sposta dal paradigma “epistemologico”, volto a perseguire la conoscenza dell’inconscio (“ciò che
era Es deve diventare Io”, asserì Freud) a quello “ontologico”, volto a tessere le trame del sé attraverso l’esperienza del
proprio essere (la definizione è di Thomas Ogden).
Solo in un ambiente “privo di propositi”, in cui la personalità “tira avanti” in uno stato non integrato, informe e “nella
dipendenza dall’altro”, che ripristina e ripara l’esperienza della dipendenza primitiva dalla madre non andata a buon
fine, può emergere un senso di essere. Dice Winnicott in “Gioco e realtà”: “In queste condizioni altamente
specializzate, l’individuo può raccogliersi ed esistere come una unità, non come una difesa contro l’angoscia, ma come
un’espressione di “io sono”, io sono vivo, io sono me stesso. Da questa posizione ogni cosa è creativa”.
CULTURA
Il pensiero Zen nasce in Cina, Corea e Giappone forse anche in risposta alle disposizioni neo-confuciane formali. Esso
trova nella natura della mente l’origine dei comportamenti distruttivi, del pensiero malato, delle idee tossiche, dunque
prescrive di… smettere del tutto di pensare. Una mente senza contenuto è una mente aperta, disponibile alla comunione
con l’energia della Via o con lo spirito del Buddha. Se paragoniamo le idee tossiche della mente al concetto di “falso
sé” del geniale psicoanalista Winnicott, comprenderemo come sia analoga alle prescrizioni Zen la teoria di Winnicott
del necessario smantellamento del falso sé. Per conseguirlo, Winnicott richiede al paziente in analisi che venga
abbandonato il sé che parla, essendo il silenzio l’unica posizione dalla quale i moti del vero sé siano possibili.
Sospendere il lavoro adattivo della mente, così connesso all’uso fuorviante della parola, è per lui necessario al fine di
accedere alla creatività spontanea. In “Gioco e realtà”, infatti, egli sostiene che “E’ l’appercezione creativa, più di ogni
altra cosa, a far sì che l’individuo abbia l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta. Ma non vi è questa
possibilità nel regime della compiacenza, dal quale il soggetto guarda alla realtà non come a qualcosa con cui giocare,
ma come a un qualcosa in cui ci si deve inserire o cui tocca adattarsi.” L’analista, dunque, non deve interferire con il
paziente, dev’essere “tranquillo”. Se non ci si attende nulla da lui, il paziente non dovrà adattarsi. La mente adattiva,
il falso sé, cessa di funzionare e questo suscita uno stato “informe”. Vale a dire, uno stato in cui le strutture
precostituite, ereditate e adattate per compiacenza non ci sono più. L’area dell’informe ha una posizione di rilievo nella
teoria di Winnicott: per lui il neonato nasce in uno stato non integrato, da cui emergono l’essere e il potenziale per la
vita del vero sé. Uno degli obiettivi dell’analisi è farlo tornare lì. “L’esperienza è quella di trovarsi in una condizione
priva di particolari propositi, come una sorta, potremmo dire, di funzionamento al minimo della personalità non
integrata”.
Dunque, Winnicott espone una visione del cambiamento ottenibile in analisi molto diversa da quelle precedenti, che
implica un rifiuto profondo dell’aspetto verbale della tradizione psicoanalitica classica. Come la mente orientale, la
teoria e la pratica di Winnicott conferiscono un ruolo centrale al mondo preedipico del bambino e della madre, che
precede la caduta edipica che infrange la prima infanzia con le potenti tossine dell’invidia, della rivalità e dell’odio.

La mente orientale non assiste allo sviluppo di una letteratura psicologica per via di un “rifugio” che trova nell’ordine
materno che permette di aggirare i tormenti, le doppiezze, la corruzione del periodo edipico. Alla tradizione orientale
manca, cioè, un riconoscimento o interesse per ciò che in occidente sarebbe considerato un ordinario “conflitto
mentale”. La cultura occidentale, viceversa, presuppone che il sé sia in conflitto perenne. Partendo da Sofolce e Eschilo,
passando per la Confessioni di Agostino a per il genio di Shakespeare, questa consapevolezza ha dato origine a romanzi
e opere teatrali che studiano la mente e il conflitto umani. Questo è il tradizionale assillo che si riflette nella teoria della
mente di Freud.
Nell’operare dello psicoanalista Winnicott rinveniamo assiomi dominanti nella visione orientale della vita e della salute
mentale. Ma costruire un modello di psicoanalisi esclusivamente sulle ipotesi da lui promosse è improponibile per
Bollas, dal momento che si fondano su un radicale abbandono del discorso, del conflitto e della “mente pensante”.
E se, dice, il modello del Sé privo di mente e quello del Sé preoccupato dal conflitto intrapsichico potessero
armonizzarsi senza eliminarsi l’un l’altro?

Bollas precisa che a suo modo di vedere il conflitto edipico è il primo conflitto di gruppo, che dimostri al soggetto come
sia doloroso venir guidati da una psicologia di gruppo non interessata ai desideri del sé onnipotente infantile dei primi
anni di vita, indifferente alla sua origine e insensibile al nome di qualsiasi padre. Dunque, se è vero che il potere
assoluto e l’effetto irreversibile del padre simbolico separa il bambino dalla relazione onnipotente con la madre e lo
costringe alla socializzazione, è anche vero che, come Freud stesso presagisce in “Psicologia delle masse e analisi
dell’Io”, non è l’introduzione del nome del padre che scioglie questo complesso in ultima analisi, ma l’effetto
inesorabile della vita di gruppo. Bollas indica nell’approfondimento della psicologia dei gruppi, non influenzati dallo
ieratico sistema di pensiero dell’ordine paterno, ma da un sistema di pensiero orizzontale mosso da affetti potenti, una
via potenziale peraltro presagita nella storia del pensiero orientale, ma non condotta a termine, forse ancora in inconscia
incubazione.

Quella che ci fa compiere Christopher Bollas in “La mente orientale” è una vera e propria immersione nelle modalità in
cui sono avvenuti millenni di evoluzione e stratificazione del pensiero cinese (per l’autore anche alle radici di quello
coreano e giapponese), dandoci modo di cogliere nel dettaglio la trasmissione generazionale dell’impegno di costruire
un’alleanza collettiva che consenta l’armonia tra il singolo e la comunità.

Il mezzo per giungere a quest’impresa fu quello (non certo estraneo anche alla mente occidentale) di forgiare menti
attrezzate per risolvere il “problema vita” attraverso soluzioni che, elaborate collettivamente, fornissero ai singoli
“strutture mentali” capaci di guidarli nel quotidiano.

Attraverso un capolavoro di sintesi, l’autore riesce a presentarci come la sua mente singola di psicoanalista sia riuscita
ad abbracciare il lavoro della “mente di gruppo” orientale, che affonda le sue radici nelle profondità del tempo, da prima
di quel caposaldo enigmatico risalente a 2500 anni fa e poi rivisitato e modificato nel corso di secoli che è l’I
Ching. L’incantevole complessità di questo testo già presenta al lettore occidentale modalità di concettualizzazione
della realtà che costituiscono la specificità della mente orientale: l’istante anziché la durata, la sincronicità anziché la
causalità, la presentazione anziché la rappresentazione, l’immagine, il gesto o la presenza anziché la parola, l’inconscio
rispetto al conscio, l’ambiguità anziché la chiarezza, la copresenza anziché la sequenza. Sono tratti su cui incide,
potremo dire per retroazione, anche la lingua cinese stessa, contraddistinta dalla presentazione sequenziale di sostantivi
priva di sintassi, di verbi, pronomi, congiunzioni.

La stessa scrittura ideografica cinese, in cui ogni segno contiene in sé molteplici significati evocati sia dalla storia di
quel carattere nella cultura, che dell’esperienza emotiva dello scrivente con le componenti di visive parziali e
complessive del carattere, favorisce questo tipo di pensiero.

Soltanto una visione dall’esterno, però, riesce davvero a cogliere il valore e il significato che può avere per l’intera
umanità la specifica prospettiva orientale. Solo in quanto occidentale, cioè, Bollas può scontrarsi con “l’integrità”
dell’oggetto “cultura cinese”, con la sua reale differenza che prescinde dalle proiezioni dell’altro e può suscitare in lui,
provocandolo con la sua alterità, un pensiero nuovo.

Il fatto, cioè, che Bollas auspichi che l’occidente apprenda la “lezione orientale” per arricchire la “mente del mondo” di
strumenti capaci di alimentare il pensiero, cioè la capacità di partorire pensieri utili a risolvere i problemi del futuro,
convive con la fiducia nella necessità che una cultura altra vi sia e continui a sussistere.

Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org

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