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L’uomo è un essere che si differenzia da ogni altro nel mondo per una sola cosa: il
pensiero. Ogni altra qualità è condivisa con gli altri esseri viventi, ma il pensiero
costituisce un’esclusiva dell’essere umano, il quale può essere quindi definito come
una creatura pensante o essere pensante. Di conseguenza, il pensiero è per
definizione umano. Tutti i viventi hanno un corpo e diverse istanze ad esso
correlate (tutti proviamo dolore fisico, piacere fisico, e così via), ma nessuna
creatura eccetto noi nel mondo vivente dispone di un intelletto ed è in grado di
pensare. Il pensiero o Nous, allora, costituisce l’essenza dell’uomo. Tutti gli altri
aspetti della vita sono comuni all’uomo quanto alle altre creature ma il pensiero,
l’intelletto, è un aspetto unico dell’uomo ed è ciò che ci rende umani. Essere un
umano significa essere una creatura pensante. Così, il Nous è la radice più
profonda dell’essere umano, dell’umanità. Noi siamo umani perché vi è in noi il
Nous.
Quindi indagare sul Nous – Noologia – significa esplorare non un tipo di oggetto
alienato ma noi stessi. Riflettere sul Nous significa riflettere su noi stessi, sulla
nostra più profonda natura. Non si tratta di qualcosa di astratto, bensì di una sorta
di introspezione volta a conoscere le più remote profondità del nostro essere,
l’essenza dell’uomo.
• storia delle religioni, anch’essa molto importante per la Noologia dal momento
che la religione si basa sulle premesse del pensiero. Senza conoscere le differenti
religioni non potremmo comprendere la Noologia in quanto la religione è
anch’essa lo specchio del pensiero: in essa proiettiamo le nostre concezioni della
realtà divina, della ragione per cui siamo stati creati, della fonte della creazione,
degli dèi, del tempo e molto altro ancora, e tutto ciò riflette la struttura stessa del
Nous;
• storia del mondo: la conoscenza della storia di tutti i popoli e le culture della terra
costituisce un tema centrale per la Noologia;
Non c’è pensiero al di fuori dei tre Logos. I quali, inoltre, possono essere rintracciati
in ogni cultura. Questo è il risultato a cui sono giunto nei miei lavori di ricerca.
All’inizio questa era ovviamente solo un’ipotesi, di cui dunque non potevo avere la
certezza, ma lo studio di ogni cultura nel mondo, incluse quelle più arcaiche – in
Oceania, Africa, India, Sudamerica, Nordamerica e così via – ha confermato questa
mia ipotesi. Così, in ogni cultura – sia essa arcaica, moderna o postmoderna, tanto
europea quanto non europea – in ogni epoca, in ogni forma di società, noi
possiamo rintracciare questi tre Logos. In differenti proporzioni, in diverse
combinazioni – essi possono combinarsi in milioni di modi diversi – ma sono
presenti ovunque. Nessuna cultura, nessun popolo, nessuna religione, nessuna
regione del globo può affermare di possedere solo uno o due di questi tre Logos.
Tutte le cultura possiedono tutti e tre i Logos.
Un altro punto fondamentale è che non esiste, né può esistere, una gerarchia tra
culture o popoli poiché i tre Logos si combinano tra loro in modi del tutto specifici
e peculiari e il modo in cui lo fanno è proprio a ciascuna cultura. La nostra storia, la
nostra identità, l’identità profonda di un popolo appartenente ad una cultura o
religione corrisponde precisamente a questa combinazione, ad un particolare
equilibrio di questi tre Logos. E poiché esiste un numero praticamente infinito di
combinazioni, di mutamenti nelle proporzioni tra le forme dei tre Logos, il numero
di società umane possibili è virtualmente illimitato. Ne consegue l’impossibilità di
creare qualsivoglia tipo di gerarchia. Le società arcaiche vedranno la dominazione
di uno dei tre Logos, le moderne di un altro, e viceversa, ma in ogni caso non vi è
alcuna norma generale o universale.
“C’è solo una cultura, solo un Logos, il nostro”. Questa sorta di ipertrofia di noi
stessi costituisce un approccio completamente sbagliato e illegittimo.
Sbaglieremmo pensando che riguarda solo il razzismo biologico esplicito; anche il
moderno liberalismo, il comunismo e il globalismo sono assolutamente razzisti
poiché si fondano sull’universalismo di esperienze storiche che riguardano solo
una parte dell’umanità. Agli occhi dei globalisti, ad esempio, l’uomo africano è solo
un uomo in procinto di diventare “bianco”, cioè moderno, capitalista, liberale,
europeo, eurocentrico. Non è un rappresentante della propria cultura africana
incamminato in uno specifico percorso di sviluppo civilizzazionale, ma un europeo
non ancora del tutto sviluppato, che dunque va “tollerato”: l’idea moderna della
“tolleranza” deriva proprio dalla considerazione che abbiamo di lui, dal ritenerlo
imperfetto, cioè qualcuno sulla strada per essere come noi ma che non lo è ancora,
in definitiva un “handicappato”. Nel far ciò, noi non riconosciamo gli altri come
esseri umani come completi e perfetti, benché diversi da noi, ma come esseri
inferiori che devono seguire il nostro percorso di sviluppo, che sono costretti a
farlo perché non vi è altro percorso possibile, e ciò ci induce ad avere pietà di loro.
Tutto ciò è profondamente razzista. C’è un film molto bello di Werner Herzog,
“Dove sognano le formiche verdi”, in cui si mostra non solo come i popoli nativi
dell’Australia non possano seguire il modello occidentale, ma che costoro non lo
desiderino affatto. Essi seguono il proprio percorso, differente certamente da
quello occidentale, e questa è una loro decisione, dettata dalla propria cultura. In
questo specifico caso abbiamo a che fare con uno scontro tra la visione razzista
anglosassone della storia e la visione aborigena australiana della propria identità.
Oserei dire che questo costituisce l’aspetto etico della Noologia. La Noologia
rappresenta una lotta per la dignità umana in ogni società, senza gerarchie o
proiezioni universalistiche. Da questo punto di vista, la Noologia costituisce la base
di una metafisica anticoloniale.
Questo è il motivo per cui la Noologia è così importante. Essa costituisce la base
filosofica e metafisica del mondo multipolare. E i tre Logos e le loro molteplici
combinazioni mostrano le differenze esistenti nelle diverse culture.
4. I tre Logos
Ora è giunto il momento di capire quali sono i tre Logos. Qui, è utile richiamare i
concetti nicciani di Apollo e Dioniso. Due dèi greci che Nietzsche interpreta non
come oggetti di culto o adorazione, bensì come metafore, una sorta di simboli, di
figure: non è necessario adorare Apollo per essere apollinei, né bisogna venerare
Dioniso e partecipare alle orge in suo onore per essere definiti dionisiaci. Apollineo
e dionisiaco per Nietzsche hanno un significato completamente differente. Essere
apollineo significa essere gerarchico, avere un modo logico di comprendere il
mondo che rappresenta il modo di pensare appartenente al giorno. Essere
dionisiaco significa invece essere irrazionale, avere una comprensione intuitiva del
mondo, che rappresenta il modo di pensare della notte.
Nel tentativo di scoprire di più sul Logos di Dioniso, ho scritto una sorta di prequel
a Noomachìa – lo si potrebbe considerare il “volume zero” – intitolato “Alla ricerca
del Logos nero”. La mia idea era di considerare la storia della filosofia non dal
punto di vista apollineo, che è predominante, ma dal punto di vista del secondo
Logos. Creare, in altri termini, una sorta di contro-storia della filosofia basata su
una lettura dionisiaca. Conosciamo perfettamente in cosa consiste la lettura
apollinea della storia della filosofia. Essa è per l’appunto la storia della filosofia che
noi tutti studiamo. La mia idea era di capire come Dioniso avrebbe considerato le
stesse questioni, le stesse categorie, le stesse posizioni e relazioni.
Lavorando a questa ricerca del Logos nero – l’ho chiamato così dal momento che il
Logos bianco, chiaro, è quello apollineo: Apollo è luce – e cercando di leggere con
gli occhi del Logos nero Hegel, Heidegger, Kant, Platone, Aristotele e così via,
lavorando in questo campo di ricerca metafisico, immaginando una storia
alternativa della filosofa basata sull’approccio dionisiaco, ho scoperto alcuni
fenomeni, molto importanti e basilari per Noomachìa, appartenenti a cultura,
religione, filosofia, storia della filosofia, scienza, arte, psicologia umana, che non
possono in alcun modo rientrare nel campo del Logos dionisiaco. Alcuni elementi vi
rientrano, ma vi sono nuovi campi che ne rimangono fuori; si tratta di elementi che
non possono chiaramente rientrare nel Logos apollineo ma che non possono
essere ascritti neanche a quello dionisiaco. La si potrebbe definire una scoperta
empirica nel campo della metafisica; vi sono campi concettuali – ad esempio la
filosofia di Eraclito o Democrito, la teoria atomistica o le teorie della scienza
moderna – che non sono in nessun modo apollinei e che non possono neppure
essere definiti dionisiaci. Nella ricerca del Logos nero, sono quindi giunto alla
conclusione che vi è qualcosa al di là di questi due Logos, che ve ne è un terzo. Al di
là del Logos dionisiaco si nasconde qualcos’altro. All’ombra di Apollo vi è Dioniso,
ma all’ombra di Dioniso vi è dell’altro. L’ho battezzato il Logos di Cibele.
Cibele è il nome di un antichissimo dio anatolico, la Grande Madre degli Hatti, un
popolo pre-indoeuropeo del tutto particolare abitante l’antica Anatolia prima degli
Ittiti, i quali in seguito hanno fatto propria tale divinità, integrandola nel loro
pantheon religioso. Dopo di loro, il culto di Cibele è stato sviluppato anche dalla
popolazione indoeuropea dei Frigi, la cui dea principale era appunto la “Grande
Madre”.
Il culto della Grande Madre si basava sulla castrazione rituale dell’uomo. I sacerdoti
di Cibele venivano castrati diventando eunuchi e questa era parte della grande
visione del matriarcato, del regno della Grande Madre, dove il ruolo dell’uomo è
completamente differente da quello che conosciamo. Una posizione
completamente differente dalla posizione dionisiaca dacché il culto di Dioniso era il
centro attrattivo delle baccanti, delle donne, ma anche degli uomini, e in questo
caso è l’uomo al centro dell’esistenza umana. Il dionisiaco non è trascendente, è
immanente ma centrato sull’uomo, è l’immanenza di un uomo-dio. La si può
definire una forma di presenza immanente della trascendenza. Non si tratta
dunque dell’oscurità totale: non è Dioniso il Logos nero. Dioniso è la presenza della
luce nell’oscurità. Una sorta di “sole della notte”. L’uomo al centro dell’esistenza
ctonica immanente. Il punto maschile nella realtà femminile. Una sorta di raggio di
sole che attraversa l’oscurità e giunge al centro dell’oscurità al fine di creare una
nuova alba. Questo è il dionisiaco e non può essere identificato con l’oscurità, con il
caos tout court.
Le orge, i culti, le cerimonie, tutti gli aspetti legati al dionisiaco non vanno
interpretati come un rovesciamento dell’ordine apollineo. Il dionisiaco non è un
capovolgimento dell’apollineo, esso piuttosto è l’apollineo che proviene non dal
giorno bensì dalla notte. È la luce nell’oscurità. È il sole che cala la sera per poi
risorgere il mattino seguente: quando oltrepassa l’istante di mezzanotte, il sole è
invisibile, è nascosto, non è presente al centro della notte, però esso esiste; se esso
fosse assolutamente assente, non ci sarebbe né l’alba né il mattino. Allo stesso
modo, Dioniso non è il sole di giorno (Apollo), né la notte, ma il sole di notte.
Dov’è il sole quando non c’è alcun sole? Dov’è il paradiso quando non c’è traccia del
paradiso, dov’è l’elemento virile quando non vi sono uomini, quando vige l’oscurità,
la terra, l’immanente, la materia, il principio femminile? Esso è nascosto, ma esiste.
Questo è il Logos di Dioniso. Si tratta di un nuovo tipo di visione, di una visione
dinamica, una sorta di equilibrio tra i generi, tra l’immanenza e la trascendenza, tra
il cielo e la terra. Dioniso è il paradiso sulla terra, una terra paradisiaca. Il Logos
dionisiaco è una combinazione dialettica di opposti. Ma al fine di comprenderlo
correttamente, è necessario introdurre un terzo Logos, e questo è un qualcosa che
cambia completamente tutti i concetti e le teorie esistenti finora.
Il terzo Logos, che è ciò in cui consiste la mia scoperta, è l’elemento propriamente
innovativo e che rappresenta il tratto essenziale della Noologia. Esso è il Logos
nero, il Logos di Cibele.
Perché il Logos di Cibele è stato scoperto così tardi? Perché nessuno prima d’ora ha
mai parlato di tre Logos? Quando ho iniziato a cercare di comprendere e risolvere
questo problema metafisico, ho scoperto una cosa molto interessante: per il Logos
dominante di Apollo, questo terzo Logos non può esistere poiché guardando la
situazione da un punto di vista puramente apollineo non vi possono essere altri
Logos oltre lo stesso Logos di Apollo. Questo perché il concetto apollineo è
esclusivista, puramente maschile e basato su un tipo di uguaglianza tra l’uomo
inteso come maschio e l’uomo inteso come umano. Così, essere uomo e essere
umano è la stessa cosa e tutto ciò che non rientra in questa definizione non ha il
diritto di pretendere di essere Logos. L’unico Logos è Apollo, l’uomo e l’umano.
Tutto ciò che non è maschio, non è logico, non appartiene al Logos, non appartiene
all’umano e quindi può essere solo una sorta di bestia o di oggetto, non un
soggetto; il soggetto può essere solo apollineo.
L’idea nicciana di allargare lo status del Logos conferendo lo status di Logos anche
a Dioniso era già rivoluzionaria, in quanto mostrava la possibilità di un approccio
diverso al Logos. Con Dioniso scopriamo che non c’è solo l’approccio apollineo ma
che ve ne può essere un altro. Tuttavia, insieme l’approccio apollineo e l’approccio
dionisiaco non possono lasciare che vi sia un terzo Logos perché entrambi sono
metafisicamente maschili. Aperto (Apollo) o nascosto (Dioniso), esclusivo (Apollo) o
inclusivo (Dioniso), ma entrambi Logos maschili. Il Logos di Cibele non è maschile. E
dal punto di vista maschile, che è prevalente, non potrebbe essere un Logos,
passerebbe quasi sotto traccia, come fosse una sorta di rumore e non un discorso.
Dal punto di vista dell’uomo metafisico, ciò che la donna metafisica dice è un
rumore, non un discorso. Qualcosa come il suono della natura, ad esempio.
Bellissimo, ma dal punto di vista apollineo, ad esempio platonico – il platonismo è
pura filosofia apollinea: le idee sopra tutto, la verticalità, il Padre che è il
paradigma o l’esempio eterno, il sole che ne è una sorta di imitazione
fenomenologica, la materia che non ha qualità –, al di là del Logos non vi è nulla;
oltre il Padre c’è il sole e poi la materia senza qualità, che quindi rappresenta il
nulla, l’oscurità, dacché senza qualità non c’è Logos. Esiste quindi il Logos del Padre
che è apollineo, il Logos solare, immanente, che è dionisiaco, e poi null’altro,
poiché la tradizione patriarcale non consente che l’altra parte della realtà abbia un
Logos. Questo è il motivo per cui il terzo Logos è rimasto finora così nascosto.
Solo iniziando ad applicare un tipo di approccio dionisiaco alla storia della filosofia
scopriamo che vi è qualcosa al di sotto di entrambi i Logos, perché l’approccio
dionisiaco non corrisponde alla castrazione, al tipo di dissoluzione della Grande
Madre. L’idea dionisiaca è il raggiungimento delle profondità dell’ade al fine di
risorgere, discendere al fine di ascendere, procedere dall’alto verso il basso al fine
di ritornare in alto. Possiamo considerare il Logos dionisiaco la versione estrema
del Logos apollineo, certo completamente differente da quest’ultimo, generatore di
strutture completamente differenti, rappresentante un’altra declinazione del
Nous. Tuttavia, iniziando ad operare seriamente con il Logos dionisiaco ho
scoperto che c’è qualcos’altro e sono giunto alla conclusione che possiamo
riconoscerlo come una terza forma del Nous o terzo Logos, segnatamente il Logos
di Cibele. Dopo questa operazione concettuale, avremo finalmente una
spiegazione davvero completa di tutte le possibili versioni delle culture, delle
filosofie, delle religioni e delle relazioni tra di esse.
Possiamo immaginare che il Nous sia diviso in tre Logos e che ognuno di questi crei
uno o più mondi; così, noi possiamo vivere in diversi mondi apollinei, in molteplici
mondi dionisiaci o in molti altri mondi cibeliani, dacché non vi è un solo mondo, ma
vi è una moltitudine, una molteplicità, una pluralità di mondi apollinei, dionisiaci e
cibeliani incastonati uno nell’altro, rappresentanti contenuti così ricchi di cultura,
pensiero, arte, storia da potervi scorgere immediatamente il tesoro spirituale della
mente umana.
Ogni cultura, che entri in contatto con il platonismo o meno, avrà una sua versione
apollinea; l’ho scoperto studiando ad esempio la tradizione arcaica di popolazioni
nilo-sahariane prive di alcun collegamento con i greci. Il Logos di Apollo ovunque
rappresenta la stessa idea: vi è il dio-padre che ha creato tutto, il popolo è il figlio
del dio-padre, noi discendiamo dal cielo-paradiso e siamo destinati a ritornarvi;
non vi è alcuna dimensione terrestre, o meglio, la terra è la linea più bassa di
questa discesa che precede l’ascesa.
Il platonismo non consiste solo nelle opere, nei dialoghi di Platone; esso è una
forma del Logos apollineo, il quale si presenta in molteplici culture che non hanno
contatti diretti con Platone. La tradizione faraonica egizia, ad esempio, si basa
ugualmente sul sole proveniente dall’alto, che scende in basso e crea questa sorta
di versione piramidale del mondo, una costruzione puramente apollinea che parte
dalla base squadrata per arrivare al vertice unitario. E il fuoco, in greco π ῦρ (pŷr),
viene presentato in Platone proprio come piramidale, una sorta di fuoco che va
verso l’alto. Il fuoco è dunque sacro, la luce è sacra, noi siamo figli della luce; segue
il patriarcato, l’assoluta dominazione del principio maschile e la sottomissione del
principio femminile, e tutti gli altri elementi apollinei.
In altri termini, il Logos di Apollo non deriva da persone che leggono Platone e
applicano i suoi scritti alla propria società; in parte è così, ma non possiamo
spiegare ogni società apollinea attraverso la lettura di Platone. Il Logos apollineo è
platonico ma Platone è un riflesso di questo Logos, costituisce una forma
eccellente, la più completa in cui tale Logos si esprime, rappresenta in altri termini
l’introduzione migliore al Logos apollineo, il quale tuttavia non è una creazione di
Platone, è una creazione del Nous. Il platonismo è uno dei modo in cui il Logos
apollineo opera nel Nous, si rivela, si manifesta.
Il Logos apollineo, dicevamo, non è una creazione artificiale di una singola mente
umana ma del Nous. La nostra mente umana può seguire la linea apollinea, può
essere platonica, il platonismo può essere un qualcosa che dall’atto della nascita è
presente in noi, se questo Logos domina in noi, nella nostra cultura, nella nostra
religione, nel nostro sistema valoriale, se definisce il nostro mondo. Esso in effetti
domina nel nostro mondo tradizionale: noi prestiamo attenzione al cielo più che
alla terra, siamo fatti di luce, adoriamo creature alate (angeli o uccelli), i nostri dèi
vivono in cielo o in paradiso. Per noi la tradizione è completamente apollinea.
Platone è parte di questa cultura. Praticamente tutta la cultura greca, prima di
Platone e dopo Platone, la cultura romana, iranica, indiana, slava, tutte queste
tradizioni sono apollinee e per noi è assolutamente chiaro che il mondo è così, che
non è possibile nessun altro mondo, poiché noi viviamo nel mondo apollineo, le
nostre tradizioni si basano sulla visione apollinea.
Il mondo definito dal Logos di Apollo si basa su idee corrispondenti a parole che noi
usiamo nei nostri discorsi come se la loro essenza fosse esterna. Noi non
denominiamo ogni volta cose differenti ma simili con nuovi nomi; per indicare due
o più libri simili, usiamo sempre la parola “libro” perché il libro esiste come
concetto e si tratta di un concetto eterno – nella nostra religione vi è una sorta di
proiezione di questo, vi è la Bibbia come libro eterno, creato e scritto nell’eternità:
tutto ciò che è scritto nel libro è eterno, il libro stesso è eterno; così, ogni nome che
noi menzioniamo è eterno di per sé. Questo è il mondo apollineo, e si tratta di un
mondo a noi molto familiare, visto che noi pensiamo che il mondo sia apollineo
nella nostra educazione tradizionale, siamo stati educati alla cultura apollinea,
assumiamo la logica di Aristotele la quale si basa precisamente sulle leggi
dell’eternità (i tre princìpi della logica classica: principio di identità, di non
contraddizione e del terzo escluso).
Tuttavia, nel mondo che ci circonda non esiste una cosa del genere, tutto è duplice,
qualcosa esiste e al contempo non esiste, muore e nasce. Nella fisica non esiste la
logica classica, quella logica che è per noi assolutamente naturale, trascendente,
che è l’essenza del Logos apollineo operante all’interno delle nostre menti umane
dacché esso opera all’interno della nostra cultura formando il paradigma
semantico del nostro pensiero; quella logica per cui A è A, Dio è Dio, la logica che
descrive il mondo apollineo, il mondo con cui diamo per scontato di avere a che
fare ma che in realtà non esiste. Non vi è alcun punto nell’universo in cui A è A.
Noi possiamo certamente vivere nel mondo, nella cultura, nella religione afferente
all’approccio dionisiaco dialettico – due nature in Gesù Cristo, divina e umana –,
qualcosa di irrazionale, un approccio dialettico che crea simmetrie completamente
nuove nella religione, nell’arte e nella filosofia. Questo Logos dionisiaco è
naturalmente possibile, ma si presenta più nella mitologia, nella poesia, nella
letteratura, nel sacro, nell’arte e nel linguaggio che nella filosofia; si tratta di un
linguaggio umanistico, retorico, non logico o matematico (che invece è apollineo),
perché le figure retoriche comportano precisamente una violazione delle leggi
della logica. Il campo privilegiato del Logos dionisiaco è in altri termini la mitologia
più che la filosofia.
Il Logos di Cibele è l’idea che la Grande Madre crea e uccide tutto. Non è l’eternità
(Apollo) o il cerchio (Dioniso), ma qualcosa che agisce a suo modo con cieco e
assoluto potere. Una forma di progresso: la crescita dal basso verso l’alto. In ottica
apollinea, Cibele conduce la battaglia titanica delle forze ctoniche contro il cielo e il
regno del Logos maschile di Apollo. Il Logos cibeliano è la creazione di un nuovo
mondo che è titanico, ctonico e in un certo senso femminista, non perché ci sia
uguaglianza tra uomo e donna – idea molto più dionisiaca – ma perché vi è
l’assoluta dominazione della Madre su tutto il resto.
Cibele non appartiene ad epoche arcaiche, il Logos di Cibele è qualcosa con cui
abbiamo a che fare ogni giorno. Oggigiorno, viviamo in una situazione sempre più
schizofrenica in cui la nostra cultura e la nostra tradizione sono apollinee e
dionisiache, mentre la nostra scienza, la nostra politica, la nostra tecnologia è
cibeliana. Stiamo vivendo l’attacco finale di Cibele, della Grande Madre risorta, con
il femminismo, l’intelligenza artificiale, la globalizzazione, la democrazia, il
liberalismo, e così via. Si tratta dell’attacco definitivo dei titani della società
cibeliana al fine di purificare la Modernità dai resti della Tradizione, della cultura
indoeuropea, in definitiva del Logos apollineo, instaurando il “governo mondiale”
retto dei titani rappresentanti la Grande Madre. Ciò ovviamente non toglie che
possiamo rintracciare questa visione del mondo cibeliana in epoche antiche, sia
nella nostra civiltà che in altre civiltà. Si presti però attenzione al fatto che non
esiste una “civiltà cibeliana” dacché in ogni civiltà possiamo rintracciare tutti e tre i
Logos, ovunque in lotta tra loro. Noi viviamo all’interno di questa Noomachìa, che
non è qualcosa di puramente teoretico ma si manifesta nella nostra politica, nella
nostra cultura, nella nostra scienza, nella nostra identità.
Conclusione
In conclusione, nella Noologia noi non osserviamo il mondo attraverso uno di
questi tre Logos. Se osservassimo il mondo attraverso Apollo, dovremmo dedurre
che esiste un solo Logos e che tutto il resto è perversione; nella Noologia invece
non parteggiamo per un Logos particolare, ci limitiamo a studiare la situazione, a
comprendere i tre Logos – riconoscendo a tutti il diritto di esistere – e il loro
conflitto nel Nous. Attraverso questo processo noologico, saremo in grado di
interpretare tutto ciò che avviene nel mondo, nella cultura, nella politica, e così via.
L’uomo moderno occidentale ritiene che vi sia un solo mondo, il mondo fisico, e
una sola cultura in grado di comprenderlo correttamente, la cultura europea
occidentale moderna. Si tratta di una sorta di “verità” che implica un genocidio a
tutti gli effetti delle altre culture, poiché coloro i quali non riconoscono questa
verità e non seguono questa specifica cultura sono considerati sottosviluppati e
dunque soggetti a colonizzazione e obbligati a conformarsi al modello dell’uomo
bianco. Una visione prettamente coloniale, a cui si oppongono i multiculturalisti o
postmodernisti, i quali asseriscono che vi è sì un solo mondo ma molteplici modi di
interpretarlo. Rispetto alla visione puramente coloniale, questa impostazione
concede la possibilità ad altri di pensarla in modo differente, ma alcuni antropologi
hanno rilevato come la base ontologica di quest’unico mondo, che per i
multiculturalisti ammette differenti interpretazioni, sia comunque la proiezione del
pensiero europeo occidentale moderno sulla natura, cioè la concezione scientifica
della natura europea che si assume essere la realtà oggettiva, interpretata poi
soggettivamente e differentemente. In ciò consiste il multiculturalismo.
La Geosofia si fonda sul principio che ogni cultura crea un proprio mondo a sé
stante. Così, non si può dare per scontato che per tutti il mondo sia fisicamente
costituito da un geoide in rotazione attorno al proprio asse, poiché possono esservi
altre idee del mondo – per alcune culture la Terra può essere piatta, per altre
magari concava – e se coloro che appartengono a una determinata cultura
pensano realmente di vivere in un mondo del genere, noi dobbiamo accettarlo, e
non giudicarlo fin dall’inizio come un’interpretazione non corretta della realtà che
noi supponiamo conoscere meglio di loro.
La Geosofia si basa su quest’idea che non esiste un solo spazio e una sola
linea temporale; essa rifiuta l’approccio multiculturale per cui si
permette ai popoli di differenti culture di interpretare il proprio territorio
e la propria storia in modi diversi assumendo tuttavia che noi ne
possediamo una comprensione migliore. Secondo la Geosofia, nel
passaggio dalla nostra civiltà, dal nostro popolo, dalla nostra cultura, ad
altri popoli, è necessario prima di tutto indagare su come questi ultimi
concepiscano il mondo, guardandosi bene dal pretendere di spiegar loro
come il mondo “nella realtà” sarebbe costituito.
La Geosofia non coincide con la nostra concezione della terra – “geo” – ma è l’idea
che in ogni punto dello spazio vi sono diversi mondi coesistenti nello stesso
contesto. Deleuze e Guattari hanno cercato di applicare quest’idea parlando di
“geofilosofia”, ma l’hanno fatto dal loro punto di vista postmodernista
occidentalecentrico liberal. Al fine di rimarcare la differenza fra il loro approccio
eccessivamente dogmatico e l’approccio aperto della Noologia, ho pertanto
introdotto il termine Geosofia.
L’idea della Geosofia è che al fine di studiare le altre culture sia necessario
assumere completamente la loro concezione del mondo. In altri termini, non si
dovrebbe in alcun modo proiettare su di esse la propria visione degli aspetti
soggettivi e oggettivi della realtà ma cercare di comprendere cosa per tali culture
(siano esse arcaiche o moderne, nordamericane o australiane e così via) è il mondo
oggettivamente e soggettivamente – ammettendo che esse possiedano una
distinzione del genere, il che non può esser dato per scontato dacché potrebbero
esservi culture prive dei concetti di soggetto o di oggetto. Ad esempio, nei miei
lavori di ricerca ho scoperto alcune culture molto particolari caratterizzate
dall’assenza del concetto di soggetto, come i popoli arcaici abitanti l’estremo nord
della Čukotka e della Kamčatka o alcune tribù nordamericane. Si tratta di qualcosa
di incredibile per noi, come pure per gli africani, dal momento che la maggior parte
delle culture africane si basa sul soggetto, sebbene di un tipo totalmente diverso
dal nostro. In definitiva, esiste una grande varietà di culture, molte delle quali ben
oltre la nostra capacità di immaginazione; cionondimeno occorre accettarle tutte
come tali, nel modo in cui esse concepiscono se stesse, senza giudicarle né
gerarchizzarle come fa l’antropologia evoluzionista.
Questo approccio ci conduce ad una nuova visione della Terra e dell’umanità, non
più costituita da civiltà che cercano tutte allo stesso modo di ottenere potere e
risorse e da popoli che combattono gli uni contro gli altri tutti secondo modalità
conformi ai nostri modelli, ma da popoli totalmente diversi tra loro, alcuni dei quali
saranno inclini alla guerra a differenza di altri che invece saranno pacifici, dove ad
esempio alcuni adopereranno nel combattimento dardi e loro derivati mentre altri
si rifiuteranno di usarli per considerazioni di ordine morale dettate dalla loro
specifica cultura – si pensi agli aborigeni australiani, per i quali è immorale tutto
ciò che viola la reciprocità uccidere-essere ucciso simboleggiata dal boomerang;
pensare che un oggetto così banale come un dardo possa essere vietato sulla base
di considerazioni morali è indicativo del fatto che ci troviamo di fronte a Logoi
completamente differenti, e dunque a popoli che vivono in mondi diversi. Esistono
dunque tanti popoli che pensano in modi completamente differenti e vivono in
mondi così diversi che il loro studio – uno studio il cui obiettivo non è giudicarli
distinguendoli in più o meno sviluppati ma comprende il loro modo di concepire il
mondo – ci lascia attoniti.
Cos’è una civiltà? Per civiltà intendiamo una comunità collettiva che
condivide una medesima visione del mondo e vive in uno stesso mondo:
un popolo, un’entità geosofica o una comunità organica che condivide gli
aspetti principali di una cultura e vive approssimativamente in uno
stesso mondo i cui confini sono legati alla lingua, alla religione, ai valori,
ad una comune visione del mondo e così via. A volte si tratta di un
mondo davvero piccolo, come una tribù, altre di un mondo costituito da
milioni di uomini.
Nello studio di ognuna di queste entità geosofiche, al fine di redigerne una sorta di
rassegna, noi scorgiamo ovunque il “momento della Noomachìa”. Cos’è il momento
della Noomachìa? Si tratta del punto di equilibrio nel conflitto tra i tre Logoi. Essi
sono in lotta, e il momento tangibile di questa lotta corrisponde precisamente
all’identità reale della specifica cultura o civiltà. Ad esempio, la cultura greca si
basa sul dominio e sulla vittoria del Logos apollineo sul Logos di Cibele. Alla
tradizione pelasgica pre-ellenica della Madre di tutti gli dèi – la Madre greca
rappresentata nella cultura micenea e minoica – fa seguito l’invasione ellenica con
valori apollinei completamente differenti. L’identità della cultura greca, il momento
della Noomachìa, è precisamente il Logos di Apollo nelle sembianze di Zeus che
sconfigge Crono, l’oracolo della Grande Madre. Il momento in cui il Logos apollineo
prevale sul Logos della Grande Madre rappresenta una vittoria nella titanomachìa
e la civiltà greca si basa precisamente su questo momento vittorioso. I titani, figli
della Grande Madre, attaccano gli dèi; questi reagiscono e prevalgono, ma non è
sempre così. Nel caso della civiltà greca, gli dèi olimpici vincono, Apollo vince su
Cibele. Questa è anche una guerra del pensiero – Noomachìa –, un conflitto nel
quale in questo caso il patriarcato vince sul matriarcato. La civiltà greca non è
l’unica a basarsi su questo momento della Noomachìa. Anche la civiltà iranica ad
esempio si basa su un’idea molto simile a quella greca perché c’è la vittoria di
Ohrmazd, il dio della luce, su Ahriman, il dio delle tenebre. Due nomi diversi, ma la
stessa simmetria, la stessa titanomachìa e la stessa vittoria. Due tipi di civiltà
diversi fondate su momenti della Noomachìa simili. Lo stesso può dirsi per altre
culture.
3. L’orizzonte esistenziale
La Geosofia si oppone all’approccio etnocentrico e colonialista dominante non dal
punto di vista etico ma metodologico dacché il prospettivismo si basa sullo studio
attento delle civiltà senza alcun pregiudizio. Ad esempio, noi che siamo russi e
ortodossi, descriviamo negativamente le società cannibali poiché la pratica del
cannibalismo per noi è satanica, demoniaca e indice di sottosviluppo; tuttavia, nel
far questo noi non le stiamo esaminando in prima persona, interpellando i loro
membri, ma le stiamo modificando attraverso la nostra particolare concezione. Si
tratta della stessa pratica che utilizziamo con i popoli che ci circondano. E questo è
fonte di malintesi, di equivoci. Tale approccio va dunque cambiato. L’idea della
Geosofia è di studiare le società accettando ciò che i loro membri pensano essere
la realtà, i valori, la natura, il soggetto e l’oggetto della storia.
Ho cercato di rintracciare altri criteri utili nello studio delle civiltà e, seguendo
Heidegger e la fenomenologia, ho introdotto in primo luogo il concetto
dell’orizzonte esistenziale o spazio esistenziale.
Husserl identificava il tempo con una melodia, cioè una sequenza di note musicali
che sottende una logica, una tonalità per cui una nota è in qualche modo
predefinita dalle note precedenti e la presenza di una nota stonata turba
l’ascoltatore; allo stesso modo, la storia, o meglio la sfera dell’istoriale, non
rappresenta una semplice sequenza temporale di fatti sconnessi ma una
successione di eventi che ha una sua logica. La storia è musica, ma solo il relativo
popolo o Dasein può comprendere appieno questa musica istoriale. In altri termini,
essa non è universale; l’istoriale di ciascun popolo opera ad una particolare
frequenza sonora tale per cui nessun altro è in grado di sentire e comprendere
perfettamente la propria melodia. Non potendo quindi ascoltare perfettamente
una melodia dall’esterno, risulta particolarmente difficoltoso esprimere delle
valutazioni sulla condizione di uno specifico popolo, se esso stia vivendo una fase
positiva o negativa, se si stia sviluppando o stia decadendo, ecc. Non ci sono criteri
universali nell’ambito dell’istoriale, perché la relazione con tempo è una proprietà
esistenziale del Dasein.
5. La misura
Qui ci troviamo difronte ad una contraddizione molto interessante. Abbiamo a che
fare con molti mondi, culture, identità, che si sviluppano in varie direzioni,
secondo differenti modalità e con diversi risultati. Ma come possiamo
comprendere realmente tutte queste realtà, se siamo totalmente definiti dal
nostro specifico Dasein, se apparteniamo al nostro orizzonte esistenziale, se
viviamo in un momento della nostra melodia, del nostro istoriale? In altri termini,
come posso io valutare ciò che sta succedendo al di fuori della Russia, possedendo
io unicamente una visione russa delle cose, essendo io definito dal Dasein russo? Si
tratta di un aspetto etnocentrico inevitabilmente incorporato nella mente umana.
Come possiamo, in questo contesto, risolvere il problema di essere al contempo
definiti dal proprio Dasein e di doverci occupare del Dasein degli altri? Si tratta di
una questione metodologica molto interessante e al contempo molto complessa,
senza risolvere la quale l’intera architettura della Geosofia perderebbe di senso.
Noi non possiamo pertanto dirci universalisti, ma d’altro canto non possiamo
neanche assumere una prospettiva totalmente etnocentrica, altrimenti l’indagine
sulla Noomachìa si ridurrebbe alla storia del nostro specifico Dasein. Come
risolvere questo dilemma? La soluzione passa dal riconoscimento dei limiti naturali
dello spazio esistenziali e dall’approvazione del Dasein degli altri, il che non vuol
dire essere disposti a scambiare il proprio Dasein con quello di altri, ma
riconoscere agli altri il diritto a essere completamente diversi senza instaurare
alcuna gerarchia. Non dovremmo eliminare le diversità procedendo nella direzione
universalista, ma nemmeno imporre la nostra identità sugli altri in una prospettiva
totalmente etnocentrica. Il concetto di confine assume qui una importanza
cruciale. Per inciso, ciò di cui sto parlando non sono confini stabiliti una volta per
sempre; in questo contesto i confini possono cambiare poiché i popoli possono
svilupparsi, la loro identità può mutare e il momento della Noomachìa in cui si
trovano può modificarsi, trattandosi di entità dinamiche all’interno del processo
istoriale. Si tratta dunque di rigettare tanto l’universalismo quanto le posizioni
scioviniste, riconoscendo il diritto ad essere etnocentrici, un diritto che però non
può oltrepassare i confini dello spazio esistenziale. Questo significa essere legati
alla propria identità, difendendola quando le possibilità lo permetto e le
circostanze lo richiedono, ma riconoscendo al contempo l’innato diritto alla
diversità. In questo modo, noi non superiamo l’etnocentrismo, né lo glorifichiamo
eccessivamente.
Quella di cui sto parlando è una metodologia prettamente apollinea. L’essenza del
titanismo o del Logos cibeliano, come descritta da Friedrich Georg Jünger nel suo
famoso libro sugli dèi e i titani, è di non conoscere la misura. Sia il puro
etnocentrismo che l’universalismo sfociano nell’imperialismo e nel colonialismo,
cioè in un approccio smisurato in cui si manifesta per l’appunto l’essenza del
titanismo. Contrariamente a ciò, la metodologia apollinea prevede che si rimanga
all’interno dei propri confini, non esercitando alcuna supremazia al di fuori di essi,
senza cadere nell’etnocentrismo sconfinato da un lato o nell’universalismo
dall’altro, senza pretendere di essere il centro del mondo, o meglio l’unico centro
del mondo: noi siamo il centro del nostro mondo – se non lo fossimo non saremmo
centrati nel Dasein, nella nostra identità, nel nostro sacro territorio, nelle nostre
tradizioni, nei nostri simboli e così via, in definitiva non saremmo un popolo – ma al
contempo dobbiamo riconoscere agli altri il diritto di essere egualmente il centro
del mondo, ai loro occhi, dei loro mondi, nei loro confini esistenziali. Possiamo
chiamarlo etnocentrismo autoriflettente o misurato: noi siamo il centro del mondo
ma riconosciamo agli altri il diritto a pensare a ad essere la medesima cosa
all’interno dei loro confini esistenziali. Confini che pure non dovrebbero essere
intesi in senso titanico, cioè come barriere assolutamente chiuse e invalicabili,
trattandosi di confini tra spazi esistenziali viventi: come la pelle dell’essere umano
non è impermeabile ma traspirante, così il confine esistenziale è aperto.
Dovremmo lottare per i nostri confini, ma al contempo dovremmo permettere che
qualcosa possa entrare e uscire da essi. Cionondimeno essi devono esistere e
devono essere esplicitamente riconosciuti in senso non solo fisico ma anche e
soprattutto metafisico, come confini tra orizzonti esistenziali.
Ciò di cui stiamo discutendo ora non è qualcosa di astratto. Ad esempio, nella
stesura e nella pubblicazione del volume di Noomachìa dedicato al Logos del
Nordamerica, ho seguito precisamente la strada dell’etnocentrismo misurato.
Potete immaginare quale sia la mia relazione con la cultura nordamericana: io
semplicemente la odio. Occuparmene ha rappresentato una vera e propria sfida
per me. Se avessi scritto una critica dell’imperialismo americano dal punto di vista
russo, il risultato sarebbe stato caricaturale, sarei fuoriuscito dall’ambito della
Noomachìa e non avrei ottenuto una descrizione del Logos nordamericano. Invece,
scavando nelle profondità del Logos nordamericano, ho scoperto cose
completamente diverse, a me totalmente estranee, e ho iniziato a comprenderlo.
Non lo approvo, ma ora lo capisco, e comprendo da dove scaturisce la mentalità e
il comportamento di quel popolo: nel loro titanismo, nella loro creazione di una
civilizzazione artificiale post-tradizionale, nel loro tentativo di edificare una sorta di
società americana su scala globale, essi sono consequenziali al loro Logos, che si
basa sull’universalismo sin dall’inizio. Ripeto, non approvo tutto ciò, ma questo è
perfettamente logico. Vi è un mondo americano, e vi è un Logos proprio del mondo
americano che ho identificato nella filosofia pragmatica – una filosofia del tutto
particolare, molto diversa dalla filosofia europea, fondata sull’inesistenza
dell’oggetto e del soggetto, una filosofia molto interessante – da cui discende
logicamente tutto il resto.
Un altro esempio: dopo questo volume, ho indagato i Logoi croato e polacco e, con
grande stupore, ho scoperto che a dare inizio alle tendenze tradizionali slavofile
non sono stati i russi ma i croati. I croati sono stati i primi slavofili. Davvero
strano…
Nella seconda lezione abbiamo visto che possiamo definire popoli e culture, oltre che
per mezzo del loro orizzonte esistenziale, anche attraverso il loro istoriale. È dunque
corretto parlare di storia indoeuropea, o meglio di istoriale indoeuropeo. Vedremo in
seguito in cosa consiste questa generale sequenza istoriale di eventi e quali versioni
essa ammette. Ora invece ci focalizzeremo sulle principali caratteristiche
dell’orizzonte esistenziale indoeuropeo, per poter definire il Dasein indoeuropeo.
Qual è allora il suo significato? Conosciamo Firdūsī, poeta persiano del Medioevo,
autore di un’epopea concernente l’istoriale iranico intitolata Shāh-Nāmeh. Shāh-
Nāmehsi fonda sul conflitto tra Iran e Turan, un dualismo mutuato dall’Avesta, le
antiche fonti preislamiche. L’Iran qui sta ad indicare le popolazioni sedentarie di
discendenza iranica abitanti la regione della Media, a nord della Persia; il Turan era
invece lo spazio in cui vivevano le popolazioni nomadi. Il significato originario di
questa parola indoeuropea è “tribù” o “popolo” (come nel caso di “deutschen” o del
lituano “tautos”). Turan indica quindi il popolo delle steppe; rappresenta lo spazio
abitato dalle tribù indoeuropee nomadi.
Questa era anche l’idea dell’ultimo Oswald Splengler. Vi è uno scritto postumo e
incompiuto di Splengler, pubblicato recentemente, intitolato The Epic of Man,nel
quale l’autore de Il tramonto dell’Occidenteipotizza l’esistenza di tre proto-civiltà:
Atlantis (con la sua cultura megalitica), Kush (che copre l’area afroasiatica tra il Nord
Africa e il Vicino oriente) e Turan (che copre l’area dall’Europa centrale alla Cina).
Questa teoria si adatta perfettamente con l’ipotesi kurganica di Marjia Gimbutas e
con gli studi linguistici sul proto-indoeuropeo, poiché l’origine comune delle lingue
indoeuropee viene individuata nella medesima area turanica indicata da Spengler, la
quale a sua volta coincide con l’Urheimatproto-indoeuropea da cui, secondo la teoria
kurganica, provengono i progenitori dei popoli indoeuropei. Spengler, Gimbutas,
archeologi, linguisti: tutti indicano la medesima area, il Turan.
Ora, cosa possiamo dire sulla struttura noologica della società turanica proto-
indoeuropea? Qui, ci viene in aiuto un autore molto importante, Georges Dumézil, di
cui consiglio caldamente la lettura. Dumézil è stato uno storico francese che ha
dedicato la sua intera vita ad una brillante indagine sulla cultura indoeuropea,
effettuando uno scrupoloso esame comparativo tra tutti i tipi di mitologie, religioni,
leggende, canti, simbolismi, ecc., appartenenti alle tradizioni scritte e orali dei popoli
indoeuropei. Tra i numerosi libri che ha scritto, raccomando la lettura di un testo
molto importante intitolato L’Idéologie tripartie des Indo-Européens[4], che
costituisce una sorta di sinossi dei suoi studi su questo tema.
Il principale risultato delle sue ricerche sulla struttura della società indoeuropea è
la teoria trifunzionale. Dumézil arrivò alla conclusione che tutti i tipi di culture
indoeuropee, siano esse antiche o moderne, si basavano su di una tripartizione
funzionale. In sostanza, cioè, ogni società indoeuropea è costituita da tre caste:
• la prima casta, corrispondente alla funzione della sovranità religiosa, è quella
dei re-sacerdoti; essi non erano considerati uomini ma esseri divini o sacri: re sacri o
sacerdoti sacri. I re-sacerdoti possedevano una propria etica, una propria metafisica,
uno speciale tipo di spirito fatto di luce, e il loro ruolo si basava sull’idea stessa del
Sole; in altri termini, essi rappresentavano il «Sole sulla Terra», la luce, venendo
considerati come figli di una divinità celeste. Questa casta può essere confrontata con
la casta indiana dei Bramini;
• la seconda casta, corrispondente alla funzione della forza, della potenza bellica, è la
casta dei guerrieri. Nel sistema iranico, i guerrieri erano aurighi, i quali costituivano
il simbolo principale dell’espansione nello spazio turanico delle tribù indoeuropee.
Nel sistema indiano, la casta dei guerrieri corrisponde a quella degli Kshatriya;
• infine abbiamo la terza casta, quella dei semplici pastorio allevatori di animali
(bovini, cavalli, ecc.).
Tutta la società rappresentava una sorta di esercito, un esercito che si muoveva nello
spazio al fine di combattere e di morire. A differenza nostra, per loro la morte
rappresentava una forma di “elevazione”. Essi consideravano l’anima come una
scintilla celeste discesa sulla terra per fare ritorno in cielo. Di conseguenza, il
traguardo massimo di un guerriero non era di sopravvivere ma di morire giovane in
battaglia; allo stesso modo, il compito del sacerdote non era di vivere a lungo ma di
vivere saggiamente, di divenire saggio, puro, di purificare sé e gli altri, mentre lo
scopo del pastore era di essere federe e coraggioso, e di possedere molti bovini, ovini
e cavalli.
Tale società si caratterizzava per una rigorosa gerarchia verticale, con i sacerdoti al
vertice, i guerrieri nel mezzo e i pastori alla base. I semplici pastori si trovavano in
basso poiché essi avevano a che fare con gli aspetti più materiali della vita, dunque
erano considerati meno “puri” e meno perfetti, ma essi cercavano ugualmente di
essere saggi come i re-sacerdoti e coraggiosi come i guerrieri. Il sistema valoriate,
dunque, non si basava sui semplici pastori e sui loro obiettivi, ma al centro vi erano i
sacerdoti e i guerrieri, i quali definivano i valori etici della terza casta.
Il secondo punto della teoria di Dumézil su cui vorrei soffermarmi è ciò che egli
chiama «ideologia indoeuropea» [5]. L’ideologia indoeuropea è una struttura
immutabile, immarcescibile, che è rappresentata nel linguaggio, nella cultura, nei
simboli, nella mentalità dei popoli indoeuropei che è esattamente la stessa dal tempo
dell’Urheimat. In altri termini, vi sono princìpi costanti che influenzano la nostra
concezione del cosmo, della società politica, della storia. Consideriamo la società per
come noi la immaginiamo: in cima poniamo un’intellighenzia o classe di filosofi,
seguono le forze armate, quindi il resto della popolazione. Si tratta di una visione
verticale, gerarchica, con al vertice il presidente o leader come una sorta di antico re
sacro, cui segue la classe amministrativa o militare corrispondente alla casta dei
guerrieri, e infine il resto della popolazione rappresentante la terza casta. Tale visione
è insita in noi in modo inconsapevole, ma se analizziamo ogni società indoeuropea –
tanto moderna quanto antica, sia essa cristiana o pagana, orientale (indiana, turanica)
o occidentale (celtica, germanica, slava, francese, latina, ecc.) – troveremo che essa è
costruita precisamente attorno a questo asse trifunzionale. Secondo Dumézil, si tratta
di un’ideologia invariata attraverso cui possiamo interpretare la storia di fondazione
di qualsiasi Stato indoeuropeo: vi era sempre un mandatario della divinità, qualche re
sacro proveniente dall’esterno (da qualche parte nel Turan) a fondare la città capitale,
la quale costituiva una sorta di fortezza presidiata militarmente al fine di difenderne
la postazione; questo rappresentava lo scenario principale, alla cui base vi era dunque
una logica militare di conquista da parte di eroi sacri provenienti dal di fuori.
Successivamente, si andava a costituire una società trifunzionale, al cui interno le
relazioni tra sacerdoti e guerrieri da una parte e la massa della popolazione dall’altra
a volte erano conflittuali; tuttavia negli svariati miti, cronache, storie, racconti
religiosi, antichi canti di folklore e così via, troviamo descritte in molti modi diversi
le stesse tre funzioni, le quali costituiscono il contenuto principale della tradizione
indoeuropea, attraverso cui viene a stabilirsi la verticalità caratterizzante questo tipo
di società.
3. Aniliginia
Veniamo ora alla relazione tra sessi. In un’altra occasione, per designare
l’organizzazione sociale antecedente il patriarcato, esistita in Europa prima
dell’espansione indoeuropea e caratterizzata dall’uguaglianza tra sessi, Gimbutas ha
coniato il termine gilania. La gilanianon corrisponde alla dominazione della donna
sull’uomo, delinea una sostanziale equivalenza ma nel contesto di una società
matriarcale. In altri termini, la gilaniaè l’uguaglianza tra uomo e donna ma vista dal
punto di vista femminile. Per studiare la relazione tra sessi nella società nomadica
indoeuropea, io propongo un neologismo opposto: aniliginia, che indica parimenti
una sostanziale equivalenza tra uomo e donna ma dal punto di vista maschile,
turanico. Abbiamo dunque a che fare con due neologismi: gilania, dal greco antico
γυνή (gynē, la donna), e aniliginia, dal greco ἀνδρός (andròs, l’uomo). Entrambi
indicano l’uguaglianza tra sessi, ma Gimbutas mette al primo posto la donna, mentre
nella società turanica patriarcale e patrilineare, pur rimanendo nell’ambito di una
eguaglianza tra sessi, è il sesso maschile quello scelto come elemento strutturante.
Nella società turanica gli uomini erano sempre in guerra, mentre le donne
normalmente venivano lasciate negli accampamenti con la prole. Ma la vita non era
pacifica, poiché ovunque vediamo lo stesso tipo di società dai tratti molto aggressivi
ed espansivi. Di conseguenza, le donne erano obbligate a difendersi e a difendere la
propria tribù, dunque esse dovevano essere ugualmente eroiche, guerriere. In caso
contrario, sarebbero state oggetto di conquista. A loro modo, anch’esse erano
guerriere e possedevano gli stessi valori degli uomini. Questo si rifletteva in molte
tradizioni turaniche della società nomade, ad esempio nel matrimonio, prima del
quale vi era una sorta di lotta tra l’uomo e la donna e, se l’uomo non riusciva a
sopraffare la donna, il matrimonio non poteva aver luogo. Era una lotta in cui l’uomo
doveva testimoniare la sua forza, la sua possanza, e nel caso in cui veniva sopraffatto,
la donna poteva anche ucciderlo. Non stiamo parlando quindi di una società in cui
vige la sottomissione della donna all’uomo, ma di un’amicizia militaresca tra uomo e
donna che costituisce un tratto caratteristico dell’aniliginiae che si basa sul
riconoscimento del valore normativo del patriarcato. Uomo e donna sono sullo stesso
piano poiché entrambi si basano sulla dominazione di questo concetto solare della
natura umana. Un caso estremo è il tipo di società delle amazzoni. Tale società non
era affatto «femminista» come si potrebbe immaginare, poiché abbiamo a che fare
con una proiezione di un tipo di valori e di cultura maschili – coraggio, forza,
potenza, ecc. – su di una società femminile. Non si tratta dunque di una forma di
matriarcato ma di una forma limite di patriarcato, dacché le amazzoni avevano
accettato ogni genere di comportamento maschile.
Non vi erano molte divinità nelle mitologie indoeuropee, e quando erano presenti
avevano anch’esse caratteristiche maschili. Consideriamo la divinità greca Atena.
Essa era vergine, saggia come i sacerdoti e coraggiosa come i guerrieri. Non si tratta
di un tipo di donna «materno» ma turanico. Atena riflette valori maschili: la sapienza,
caratteristica più importante della prima casta, della prima funzione nella teoria
duméziliana, e il coraggio, lo spirito eroico, principale attributo dei guerrieri
appartenenti alla seconda casta. Non c’è spazio in questo immaginario per la
maternità, per il destino puramente terreno della donna.
Nel Timeo, possiamo vedere come la cosmologia platonica sia basata su tre specie, tre
γένος (genos). In primo luogo vi sono gli esempi o i paradigmi (il Padre), seguono le
immagini o le icone (il Figlio), e per finire abbiamo il non ben definito concetto della
materia, la Chōra. Quest’ultima non corrisponde alla materia per come noi la
intendiamo, alla «sostanza», ma allo spazio. Così, all’origine vi è il paradigma, in
Padre; viene poi il Figlio come riflesso del Padre, quindi una sorta di spazio, che
corrisponde non tanto alla figura della Madre quanto della Nutrice, la quale fornisce
il luogo in cui avviene quest’atto di riflessione. Esistono tre livelli di realtà in Platone
e l’ultimo, Chōra, è solamente spazio e nient’altro; non rappresenta la madre che
partorisce, ma qualcosa che accoglie l’influenza proveniente dal vertice della
gerarchia, dal paradigma, e la rimanda indietro. Questa è una versione della
cosmologia prettamente indoeuropea; possiamo considerarla una tipologia
cosmologica puramente apollinea, accolta come tale nel cristianesimo, nel medioevo,
nella cultura romana, ecc. In altri termini, la cosmologia contenuta nel Timeo
platonico è normativa per ogni tradizione indoeuropea. Possiamo individuarne ad
esempio un modello similare nei Veda, oltre che nella tradizione iranica. Nella
cosmologia platonica abbiamo sostanzialmente tre mondi: il più alto, quello di
mezzo, e il terzo che costituisce la superficie terrestre da cui ha inizio il «ritorno»:
ogni cosa proviene dal cielo, discende dal Padre celestiale, quindi ascendendo fa
ritorno all’origine. Si tratta di un ciclo verticale, di cui il ritorno non costituisce
tuttavia la fine, poiché quando siamo immanifesti sulla terra significa che esistiamo in
una condizione superiore. Detto altrimenti, la terra costituisce il punto più basso della
discesa dalla nostra posizione paradigmatica interiore, dal nostro stesso spirito
(l’ātmannell’induismo): la nostra anima immortale discende al fine di ascendere, per
fare ritorno all’origine, al vertice.
Lo stesso Platone, nel dialogo del Fedro, dà una descrizione tripartita dell’anima
utilizzando il mito della «biga alata». L’anima, nella teoria platonica, si compone di
tre elementi: vi è un cavallo nero rappresentante l’επιθυμία (epithymía), la
concupiscenza, la tendenza verso gli aspetti più bassi e materiali del mondo corporeo
(relazioni sessuali, nutrimento e così via); vi è poi un cavallo bianco che coincide con
il θυμός (thumos), cioè il desiderio di gloria, di riconoscimento, un valore proprio dei
guerrieri e collegato non ad aspetti materiali ma spirituali; abbiamo infine l’auriga
che rappresenta il νοῦς (nous), cioè la ragione, la parte intellettiva centrale
dell’anima, e il cui compito è quello di riuscire a dominare e guidare i due destrieri, il
bianco diretto verso il mondo delle idee e il nero diretto verso il mondo sensibile, al
fine di giungere all’iperuranio. È interessante notare come in questa metafora
del Fedroancora una volta siano presenti l’auriga, il carro e i cavalli, cioè gli elementi
di quella cultura proto-indoeuropea di cui abbiamo discusso inizialmente.
Così, in modo analogo alla tripartizione funzionale della società, anche l’anima è
costituita da tre parti disposte verticalmente, dove l’auriga corrisponde al sacerdote (il
bramino nella tradizione indiana), il cavallo bianco al glorioso guerriero (lo
kshatriya) mentre l’inclinazione materiale del cavallo nero, rappresentante gli aspetti
peggiori secondo Platone, corrisponde alla terza ed ultima casta.
Anima, sistema politico e cosmo: possiamo affermare, dopo aver esaminato il Fedro,
la Repubblicae il Timeo, che tanto la psicologia quanto la politologia e la cosmologia
platonica si basano sullo stesso schema tripartito indoeuropeo. Non è un caso che il
filosofo britannico Whitehead abbia affermato che la filosofia europea è solo «una
serie di note a margine di Platone». Platone è il filosofo par excellance. Critiche di
Platone, sviluppi di Platone, dibattiti con Platone (come nel caso di Aristotele): tutto
ruota attorno a lui.
5. Conclusione
Per concludere, vorrei fare alcune considerazioni. Nella cultura indoeuropea, il Logos
apollineo verticale non si presenta in un’unica forma. Il Logos di Apollo può
manifestarsi in differenti modalità; possiamo ad esempio comparare due delle sue
forme principali: la forma platonica e la forma vedica.
Riassumendo, sia quella platonica che vedica sono forme non dualistiche del Logos
apollineo (ciò a volte chiamo platonismo advaita). Tuttavia, accanto ad esse, vi è
un’altra formulazione del Logos di Apollo, rintracciabile nella tradizione iranica, che
è problematica. Anche la tradizione iranica, come quella greca e indiana, affonda le
sue radici nella cultura proto-indoeuropea, nel Turan, e costituisce una forma in cui si
manifesta il Dasein indoeuropeo. Tuttavia, essa considera le forze oppositrici della
luce in modo diverso. In quello che possiamo chiamare platonismo dvaita(duale),
l’oscurità non è semplicemente assenza o oscuramento della luce, ma qualcosa di più;
in altri termini, il male esiste di per sé. Ciò dà luogo ad una sorta di titanomachìa
molto intensa, una lotta tra luce e tenebre. Se nella prospettiva platonica advaita(non
duale) non c’è una vera e propria opposizione ma si tratta piuttosto di disvelare
un’illusione, nella concezione platonica dvaita(duale) al contrario dobbiamo
fronteggiare e sopraffare un vero e proprio «nemico» perché il male esiste di per sé,
non è solo un’illusione, un oscuramento; abbiamo dunque a che fare con una vera e
propria guerra, un conflitto molto serio poiché le forze dell’oscurità, o di ciò che si
oppone al Logos apollineo, questa volta sono rilevanti e combattive. In questo
approccio dualistico possiamo vedere qualcosa che si avvicina al Logos di Cibele. Al
contrario, nel puro Logos di Apollo, nel caso del platonismo advaita, non si ha
contezza del Logos di Cibele. Esso non viene considerato degno di attenzione, poiché
vi è solo la superficie della terra su cui si discende al fine di ascendere e non si ha
accesso alla dimensione sotterranea della «tana del topo (o del serpente)» situata al di
sotto della superficie. La forma non dualistica rappresenta qualcosa di molto
arcaico…
1. Europa Antica
Seguendo la teoria di Marija Gimbutas a cui abbiamo accennato nella precedente
lezione, esisteva in Europa, prima della venuta degli indoeuropei, la civiltà della
«Grande Dea», una civiltà molto antica i cui primi poli furono situati nei Balcani e in
Anatolia. Lepenski Vir e Vinča in Serbia, Çatalhöyük in Turchia e altri siti
archeologici ci parlano di una civiltà della Grande Madre sorta circa 7-8 mila anni
prima di Cristo; le prime ondate migratorie delle popolazioni turaniche, per contro,
avvennero attorno al 3000 a.C. La Grande Madre aveva nomi differenti ma lo stesso
Logos, e per indicare tale civiltà paleo-europea – i cui più antichi resti sono stati
rivenuti nei siti archeologici situati in Serbia, Bulgaria, e in altri territori balcanici –
Marija Gimbutas ha introdotto la dizione di «Europa Antica».
Anzitutto, quella parlo-europea era una civiltà ctonica e mondana: non vi era l’idea
del «Padre celeste» o della luce che discende, al contrario vi era l’idea del «parto»
della Grande Madre rappresentante terra e acqua, la quale dà la vita a tutto ciò che
esiste. Si tratta di una logica sostanzialmente opposta a quella apollinea: vi è una
sorta di sostanza primordiale che dà alla luce ogni cosa. A sottolineare questa
concezione, le figure più antiche della Madre hanno la parte inferiore del corpo
descritta in modo realistico ma non c’è testa, non c’è volto, non ci sono mani: la
parte superiore del corpo viene tralasciata proprio perché il centro della sacralità,
il perno attorno al quale ruota tutto è il ventre gravido della Madre, che
corrisponde all’origine e allo stesso tempo alla fine di tutto, alla culla e alla tomba
di ogni cosa.
Tale civiltà si caratterizzava per lo sviluppo di alcune grandi città, con siti sacrali al
centro ma prive di mura. Si tratta di insediamenti molto diversi da quelli
indoeuropei, i quali erano al contrario tutti dotati di mura, a indicare la loro natura
di costruzioni militari. Il tipico insediamento indoeuropeo non era sviluppato a
partire da uno o più villaggi stanziali, ma costituiva una costruzione artificiale
edificata al fine di conquistare il territorio nel quale andava a sorgere. Possiamo
dunque individuale due tipologie di città: con le mura (indoeuropee, turaniche) e
senza mura (pacifiche, sedentarie, agricole), le quali costituivano una pura
manifestazione del Logos di Cibele.
Nella visione del mondo puramente matriarcale rappresentata nel mito della dea
Cibele – la «frigia madre» – è centrale il concetto dell’androgino femmineo,
Agdistis. Essendo un essere androgino, Agdistis non necessitava di accoppiarsi per
il concepimento, dunque diede alla luce da sola l’eroe anatolico Attis, di cui si
invaghì – abbiamo pertanto a che fare con la relazione incestuosa tra madre e
figlio, una caratteristica fondamentale di questo ciclo matriarcale. Tuttavia,
quando Attis crebbe, egli volle sposare una normale donna umana, e ciò generò
una grande gelosia nella Grande Madre, che fece diventare pazzo Attis, il quale si
evirò e morì. Ma a quel punto, Cibele si affranse così tanto per la perdita di Attis
che lo fece risorgere prendendolo al suo servizio ed egli diventò un suo sacerdote.
Da qui segue un altro tratto caratteristico di questa cultura, ossia quello dei
sacerdoti eunuchi della dea Cibele, i cosiddetti «galli», e dei sacrifici sanguinosi ad
essi connessi, poiché il sangue dei sacerdoti maschi rappresentava una sorta di
nutrimento per la terra, e favoriva il raccolto. Ma questo mito ci dice anche qual
era il destino generale dell’uomo nel mondo cibeliano.
L’immagine del mondo è il ventre della donna. Il mondo stesso è dunque concepito
differentemente: il suo centro non è situato sopra la terra ma al disotto, nel
sottosuolo. La terra difatti non è caratterizzata da una superficie dura, brulla, volta
a favorire l’ascensione, il «ritorno» all’origine celeste di ciò che vi discende, come
nel caso del mondo platonico; in questa immagine del mondo le radici non sono
nel cielo ma affondano nella terra, una terra che, al contrario di quella delle
steppe, è adatta alla semina e alla piantumazione, una terra da cui crescono
vegetali e alberi. Pertanto, si basa tutto fondamentalmente su una costruzione che
procede da un livello sotterraneo verso la superficie. Analogamente, mentre i riti
funebri degli indoeuropei erano caratterizzate dalla cremazione, il cui scopo era di
favorire il «ritorno all’origine solare», al fuoco, alla luce, in questo caso i riti funebri
si basano sulla sepoltura nelle tombe.
Anche in Anatolia e nell’Asia Minore, così come ad ovest, in Italia, in Spagna e nelle
isole britanniche, troviamo lo stesso tipo di civiltà paleo-europea matriarcale. I
popoli preindoeuropei della Persia e dell’India, invece, erano di tipo diverso. Qui
troviamo i Drāviḍa, genti paleo-indiane che tuttavia, sebbene differiscano dai
paleo-europei per fenotipo, erano anch’essi di tipo matriarcale; in altri termini, dal
punto di vista noologico, le popolazioni paleo-indiane condividevano con i paleo-
europei lo stesso Logos di Cibele, un tipo di Logos che possiamo scorgere sotto il
livello della civiltà indoeuropea indiana, dove vi è una tradizione esplicita, palese,
che è quella vedica, e poi una celata che è pre-vedica, matriarcale e ctonica.
3. Assimilazione di Cibele
La sedentarizzazione ha tuttavia influito in modo diverso sulle tre caste costituenti
la struttura trifunzionale verticale delle tribù turaniche. I sacerdoti e i guerrieri di
queste tribù diventarono, per così dire, la «classe dirigente» delle società
indoeuropee sedentarie, ma fino ad oggi le nostre forze armate e la nostra classe
sacerdotale sono fondamentalmente rimasti «turanici». La sedentarizzazione non
ne ha alterato la morale. Essi hanno continuato a creare fortezze, a rinnovare il
culto del Dio solare, del Padre, e a difendere la struttura gerarchica che
caratterizza i nostri sistemi politici e che è la continuazione della stessa struttura
verticale indoeuropea. Metafisicamente, essi sono stati toccati in modo molto
limitato dalla sedentarizzazione. Hanno anzi imposto la propria ideologia
indoeuropea (Dumézil), oltre che il proprio linguaggio, ai popoli conquistati, difatti
noi oggi parliamo tutti lingue indoeuropee. Per millenni abbiamo vissuto sotto
l’ideologia indoeuropea e con una classe dominante costituita dai continuatori di
quella civiltà a cui appartenevano i conquistatori turanici. Detto altrimenti, dopo
l’assoggettamento delle genti paleo-europee e la conseguente sedentarizzazione
delle tribù turaniche, i popoli europei hanno vissuto in una società formalmente
apollinea in tutto: nella cultura, nell’educazione, nella filosofia, nell’etica,
nell’estetica, e così via.
Un discorso diverso va fatto per la «terza funzione», ossia per la casta dei
produttori che nella società trifunzionale indoeuropea era adibita agli aspetti
economici, concernenti cioè la produzione materiale. Nella società turanica, in cui
si manifesta il Logos apollineo nella sua forma più pura, la terza funzione
duméziliana era assolta dai pastori nomadi. Si trattava di uomini che avevano a
che fare con grandi animali (buoi, bovini, cavalli), che dunque necessitavano dei
vasti spazi turanici per sfamare il bestiame e dovevano esprimere una forza fisica
non indifferente per domesticarlo e controllarlo, e che pertanto dovevano essere
piuttosto nerboruti. Tuttavia, quando le tribù turaniche conquistarono le società
sedentarie e si sedentarizzarono a loro volta, la terza casta a differenza delle prime
due subì una notevole influenza da parte della società sedentaria,
interiorizzandone molti aspetti.
Non dovremmo dunque dare per scontato la vittoria degli dèi sui titani. Esiste
peraltro più di un esempio nel passato che ci mostra come in una società
indoeuropea i titani possano prevalere. È il caso dei Frigi, popolo indoeuropeo
anatolico che ha continuato e rinnovato il culto della Grande Madre
preindoeuropea. Lo stesso può dirsi per i Lidi, altro popolo indoeuropeo anatolico
matriarcale che praticava il culto della Grande Madre, o per i Lici, continuatori della
tradizione indoeuropea ittita, i quali si caratterizzavano per una società
matrilineare.
Anche in Grecia abbiamo casi in cui la Grande Madre vince. Bachofen riporta molti
esempi di questo genere. Le tribù elleniche degli Ioni e degli Eoli sperimentarono
una parziale sopraffazione da parte della tradizione pre-greca. I Dori, l’ultima delle
quattro tribù elleniche che invasero la Grecia, erano integralmente androcratici e
turanici, ma le precedenti tribù elleniche furono grossomodo assimilate nella
civiltà minoica e micenea, dove vediamo mura attorno alla città, caratteristica
questa turanica, ma con templi della Grande Madre al centro, come nelle antiche
città micenee. Si trattava dunque di una commistione tra i due orizzonti in cui la
Grande Madre aveva ottenuto una sorta di «vendetta», che durò sostanzialmente
fino alla discesa dei Dori, tribù portatrice di una serie di elementi decisivi
caratterizzanti il patriarcato e incline a nessun compromesso con il Logos di Cibele.
Ma la loro invasione dal nord dei Balcani ebbe luogo intorno al 1200 a.C., molto
dopo le ondate migratorie delle prime tribù elleniche.
Tutti questi esempi ci dicono che nel contesto indoeuropeo il potere della Grande
Madre può essere così soverchiante da trasformare e reinterpretare le figure
dell’ideologia indoeuropea in modo completamente diverso. La continua
Noomachìa caratterizzante la nostra civiltà costituisce infatti un conflitto
semantico, che dunque non si manifesta semplicemente nella sostituzione di una
divinità maschile con una femminile o di una divinità celeste con una terrena. La
questione è molto più complessa. Si tratta di una «guerra dell’interpretazione»
relativa alle stesse figure e agli stessi simboli. Per esempio, accanto al Zeus grande
e potente dio degli dèi figlio del patriarcato, troviamo la leggenda dello Zeus
cretese che appartiene ad una tradizione completamente matriarcale. Si tratta
dello stesso dio, ma reinterpretato in modo diverso, in senso matriarcale. Un altro
esempio, di senso opposto, lo fornisce la dea Atena, divinità dai lineamenti
femminili ma di tipo maschile essendo interpretata in senso turanico: una dea
vergine, coraggiosa e saggia, senza legami con la maternità e con il potere della
Terra, e con nessuna relazione ctonica con il serpente. Così, un elemento
dell’orizzonte di Cibele può essere reinterpretarlo nel segno del Logos di Apollo, ma
può accadere anche l’opposto, come nel caso dello Zeus cretese. Questi esempi
sono tratti dalla mitologia, ma questo discorso può essere esteso ad ogni altro
ambito. Vi è una guerra di interpretazione che è connaturata a tutte le società
europee sedentarie, un processo conflittuale continuo dovuto alla presenza
all’interno della nostra cultura del Logos di Cibele, dal quale invece erano libere le
tribù turaniche che vivevano nello spazio nomadico eurasiatico.
4. Conclusione
L’analisi noologica della sedentarizzazione degli indoeuropei, della quale in questa
lezione abbiamo toccando i punti salienti, ci fornisce gli elementi per comprendere
la struttura esistenziale di tutte le società indoeuropee. Ora sappiamo che vi sono
due orizzonti esistenziali sovrapposti l’uno all’altro, ed è solo partendo da questo
risultato che è possibile addentrarsi nello studio approfondito di ogni specifica
società indoeuropea – dell’Europa occidentale, est-europea, iraniana o indiana. Ho
dedicato a ciascuna di queste società – al Logos francese, germanico, latino, greco,
inglese, iraniano, indiano – diversi volumi del progetto Noomachìa, applicando il
concetto dei «due orizzonti» per poter testare come opera questa ermeneutica,
questa interpretazione nei casi specifici rappresentati da ciascuna di queste
culture, e come questa sovrapposizione di due livelli influisce sui contenuti e sulla
semantica di ciascuno di questi popoli. Posso affermare con assoluta certezza che
ovunque possiamo individuare entrambi gli orizzonti esistenziali, le loro interazioni
e gli aspetti in cui prevale un orizzonte piuttosto che l’altro nei più svariati contesti
– nella mitologia, nella religione, nella scienza, nella stessa visione del mondo –
dacché il Logos coinvolge e influisce su ogni cosa.
Nella precedente lezione [1] abbiamo individuato e analizzato un momento molto importante
nell’istoriale europeo [2], che definisce la struttura principale della Noomachìa europea. La
struttura del momento della Noomachìa è la chiave per comprendere il nostro essere storico, per
capire chi siamo. Abbiamo visto come la chiave per interpretare la storia europea nella sua
dimensione ontologica ed esistenziale consista nel seguire e osservare come si sviluppa nelle varie
epoche il processo di interazione conflittuale di due orizzonti esistenziali contrapposti. Abbiamo
altresì osservato come tale conflitto sia basato sulla mutua reinterpretazione delle stesse strutture
simboliche, mitologiche e religiose da due prospettive tra loro opposte – in ciò si manifesta
precisamente la Noomachìa nel suo senso più autentico, cioè come conflitto semantico. Il Logos di
Cibele cerca di reinterpretare le stesse figure o di imporne delle proprie nel contesto della
commistione culturale risultante dalla sovrapposizione dei due Logoi apollineo e cibeliano.
Possiamo definirla la lotta per il genere della divinità, la quale può essere interpretata nella
prospettiva cibeliana e materialistica, oppure in modo spiritualistico, patriarcale, celeste,
verticale, in definitiva indoeuropeo nel suo senso originario [3].
1. Il regno di Dioniso
La struttura puramente apollinea non ha alcun contatto con la materia che caratterizza
il Logos di Cibele. È completamente vergine, incontaminata. Appartiene al Cielo, al
giorno, alla luce. L’ordine di Apollo è l’ordine del Padre, della bellezza, del rigore
metafisico. È la legge del Paradiso, delle idee platoniche, delle stelle. Ma quando il
Sole giunge sulla Terra, si apre una nuova dimensione, che corrisponde precisamente
al livello di Dioniso. Abbiamo dunque a che far con un campo completamente nuovo
della realtà, in cui si manifesta un nuovo Logos. Quest’ultimo può essere considerato
il prodotto dell’incontro tra l’orizzonte turanico e quello preindoeuropeo, ma esso
può anche manifestarsi in modo del tutto autonomo, come un terzo Logos a se stante
che non deriva dall’incontro di altri due Logoi. Questo è il caso di alcune culture non
europee, ad esempio cinese o pigmea. I cinesi e i pigmei africani hanno una società
puramente dionisiaca, caratterizzata da una struttura noologica originale e autonoma
che non è data dalla sovrapposizione di due orizzonti esistenziali pregressi. Così,
mentre nella società indoeuropea Dioniso scaturisce da e rappresenta il teatro di
scontro di due Logoi contrapposti, è possibile che in alcune società non indoeuropee
esistano al contrario strutture fondate sulla piena e assoluta dominazione del Logos
dionisiaco, che sorge in modo completamente autonomo dagli altri. Ecco
perché parliamo di tre Logoi, e non di due [4].
Il regno di Dioniso è costituito dal mondo agricolo. Egli è il dio del vino, oltre che dei
sacrifici animali. E nei misteri eleusini, viene sempre accompagnato da Demetra, che
gioca in essi un ruolo centrale. Dioniso e Demetra sono entrambi divinità e figure del
mondo agricolo e costituiscono un’importante dualità. I misteri eleusini ruotano
infatti attorno al pane e al vino, il vino d’uva rappresentato da Dioniso e la spiga di
grano rappresentato da Demetra. Questa coppia costituita dalla Madre e dal Figlio
celeste – il quale rappresenta il seme patriarcale non creato da lei ma posto in lei, al
centro della Terra, al fine di risorgere e tornare all’origine celeste – rappresenta un
nuovo modo di interpretare l’agricoltura, una concezione patriarcale dell’agricoltura
stessa.
Nei misteri eleusini di origine tracica, osserviamo dunque una transizione dallo
spazio esistenziale puramente cibeliano allo spazio patriarcale demetrico della società
agricola indoeuropea. Ed è qui che appare Dioniso, una figura completamente nuova
che rappresenta la trascendenza immanente – non è Apollo, ma non si tratta neanche
di Attis nel ciclo cibeliano –, qualcosa che proviene dal Cielo e giungere al centro
della Terra al fine di «salvarla» dai suoi aspetti caotici, gravosi, cibeliani,
purificandola con il vino, il cui mistero rimanda al mistero del sangue di Dio, disceso
sulla Terra per la Salvezza del mondo. Così, il vino rappresenta Dioniso in quanto
liberatore dalla Grande Madre. La liberazione dalla Grande Madre e il conseguente
«ritorno» – l’ascensione all’origine celeste – è ora possibile, ed è incarnata
precisamente da Dioniso. Noi possiamo morire, ma con Dioniso ascendiamo. Si tratta
di una dimensione trascendente molto importante, che fa il suo ingresso nel contesto
della società matriarcale sedentaria agricola.
Ciò si deve non solo al fatto che il sostrato cibeliano sia stato inglobato con la
sedentarizzazione degli indoeuropei, ma anche all’origine del culto dionisiaco stesso,
da rintracciarsi precisamente in una tradizione matriarcale preindoeuropea. Questa è
una delle ragioni per cui non vi è alcun particolare testo o mito dedicato
esclusivamente a Dioniso. La maggior parte delle pratiche, dei miti e delle figure del
culto dionisiaco sono state mutuate da pratiche e culti specifici della Grande Madre.
Ciò è ampiamente descritto in due libri di cui consiglio la lettura: Dioniso[5] di Karl
Kerényi e Dioniso e i culti predionisiaci[6] di Vjačeslav Ivanov (in lingua russa).
Quando Karl Kerényi, autore ungherese e amico di Mircea Eliade, cerca di rivelare le
fonti del culto di Dioniso, egli arriva alla conclusione che prima di questa figura
esisteva qualcosa di molto simile, con pressoché i medesimi cortei di baccanti
invasate, gli stessi riti, le stesse orge, e così via, ma il tutto era inserito in un contesto
completamente differente, nell’ambito di un culto puramente matriarcale.
Occorre prestare particolare attenzione a questo punto. Nel campo dei riti, delle
leggende e dei miti di Dioniso, alle origini vi è una tradizione matriarcale,
successivamente trasformata dall’arrivo del nuovo orizzonte esistenziale
indoeuropeo. Ciò implica che il culto di Dioniso, e il relativo Logos nel contesto
indoeuropeo, scaturisca dalla metamorfosi che la struttura e il culto della Grande
Madre subiscono a seguito della discesa del principio patriarcale trascendente. Le
pratiche e i simboli dionisiaci appartengono originariamente ad una tradizione
predionisiaca matriarcale. Non a caso, a volte Dioniso appare nelle fattezze di un
serpente, o circondato dalle figure di satiri metà uomini metà bestia, normalmente
associati alla Grande Madre; allo stesso modo, anche i cortei dionisiaci
rappresentavano la continuazione dei cortei legati alla Grande Madre, con gli stessi
rituali e simboli. Questo implica che gli indoeuropei turanici non hanno conquistato
solo uno spazio fisico – villaggi, insediamenti, popolazioni, ecc. – ma anche il
territorio del mito, con la trasformazione semantica della figura di Cibele – insieme a
tutti i simboli e le pratiche di adorazione che la circondano – nelle figure di Demetra
e Dioniso. Detto altrimenti, i conquistatori indoeuropei si sono appropriati di uno
spazio mitologico preindoeuropeo originariamente ad essi estraneo, imponendovi la
propria interpretazione.
La figura di Dioniso nella società indoeuropea è dunque instabile: il centro del Logos
di Dioniso nella nostra cultura è normalmente spostato verso il Logos apollineo,
dimodoché noi indoeuropei non ci raffrontiamo con Dioniso in quanto tale, ma come
abbiamo già detto lo conosciamo in prospettiva esclusivamente apollinea, come
fratello di Apollo. Per capire la natura problematica di Dioniso possiamo affermare
che, in termini figurativi, il centro della concezione dionisiaca del mondo è di norma
traslato verso l’alto, appartiene all’universo apollineo che domina la cultura
indoeuropea, e ciò rende Logos di Dioniso una sorta di continuazione o
«immanentizzazione» di Apollo, la dimensione immanente del Logos apollineo. Non
si tratta una regola o legge universale, ma di una caratteristica che attiene
esclusivamente alla civiltà indoeuropea. Nella nostra cultura, Dioniso è spostato in
alto. Non è dunque puro Logos di Dioniso, ma sarebbe più corretto
denominarlo Logos apollin-dionisiaco.
Quello che abbiamo appena descritto è un caso «classico» nella cultura indoeuropea.
Tuttavia, rappresentando Dioniso il terreno di scontro e lo spazio intermedio tra due
Logoi, vi è sempre la possibilità di una lettura opposta. Nei miei volumi del progetto
Noomachìa, ho identificato questo come probabilmente il principale problema
metafisico di tutta la cultura e la storia indoeuropea. Vi è sempre il tentativo da parte
di qualcosa presente all’interno della nostra stessa cultura di collocare il centro del
Logos di Dioniso in un’altra direzione, al di sotto della linea che separa il Logos di
Apollo dal Logos di Cibele. Ho chiamato questa ipotesi il «doppio nero» di Dioniso.
Non si tratta del Dioniso che conosciamo di norma nella nostra tradizione
indoeuropea, ma del prodotto della reinterpretazione o riappropriazione cibeliana di
Dioniso, corrispondente alle figure di Adone o di Attis, di Lucifero o del titano
Prometeo, comunque di una figura molto prossima a Dioniso. La figura del doppio
nero non corrisponde al caso classico, alla norma, è totalmente opposta alla visione
del mondo indoeuropea, ma è sempre presente, come un’ombra metafisica di
Dioniso, e forse è anche più antica di Dioniso stesso, appartenendo all’universo della
Grande Madre.
In definitiva, abbiamo a che fare con due spazi ermeneutici integrati nella figura di
Dioniso e il «conflitto delle interpretazioni» (per usare una terminologia cara a Paul
Ricœur) è aperto, dacché vi è sempre la possibilità di una sostituzione, di una
particolare perversione o deviazione metafisica della struttura semantica.
3. Logoi e regimi dell’immaginario
Gilbert Durand è stato un autore francese molto importante, fondatore di una vera e
propria sociologia dell’immaginazione, avendo egli sviluppato una versione davvero
originale della struttura dell’immaginario. Detto in termini sintetici, secondo Durand
l’uomo è immaginazione. Tutto ciò con cui abbiamo a che fare è costituito da
strutture immaginarie. Durand ha studiato le radici dell’immaginario e come
l’immaginazione opera in noi, essendo essa non il riflesso di oggetti esistenti ma
piuttosto il contrario – gli oggetti sono il prodotto della nostra immaginazione.
Inizialmente noi immaginiamo qualcosa, dopodiché ci raffrontiamo con ciò che
abbiamo appena immaginato. Vale pressoché lo stesso per la fenomenologia. Questo
ci porta ad Husserl e al suo concetto dell’intenzionalità. Secondo Husserl, l’atto
intenzionale è l’atto diretto verso qualcosa che esiste al di fuori della nostra mente ma
non ha qualità in sé, poiché ogni qualità con cui abbiamo a che fare è all’interno della
nostra mente. Husserl chiama questo «noema». Il processo dell’atto intenzionale è
«noesi», mentre «noema» è ciò che viene pensato. Così, le qualità degli oggetti con
cui abbiamo a che fare sono intrinseche al nostro processo del pensiero e non esterne
ad esso. Durand si avvicina in modo differente a questo approccio fenomenologico.
Egli parla di regimi dell’immaginario affermando che la nostra immaginazione lavora
con tre regimi, e ciò è molto simile al concetto dei tre Logoi. Ora vedremo perché.
3.1 Il diurno
Il regime dell’immaginario è una sorta di stato intrinseco della struttura mentale che
crea differenti sequenze di immagini, simboli e strutture di base. Il primo regime è
il regime diurno. Si tratta del regime del giorno, della luce, basato sul concetto di una
stringente dualità e sugli archetipi del «distinguere»: vi è una rigorosa e assoluta
differenziazione, dacché il regime del diurno separa, non unisce. Tutto è chiaro come
la luce diurna. A questo regime è strettamente connessa la verticalità, legata secondo
Durand al riflesso posturale del bambino. L’atto del porsi in piedi, in posizione
verticale, viene considerato nell’immaginario come un volo, una sorta di ascensione
eroica, ecco perché questo è il regime dell’orientazioneverticale.
Il regime diurnoè anche il regime guerriero, del patriarcato. Ciò che abbiamo detto
sul Logos di Apollo può facilmente essere applicato a questo regime
dell’immaginario. Difatti, secondo Durand, esso rappresenta la lotta contro la notte, la
morte, l’oscurità; una sorta di guerra apollinea perpetua. Nel campo dell’infermità
mentale, tale regime corrisponde allo stato paranoico. La paranoia è
l’assolutizzazione del diurno, in cui tutto viene separato fino al livello atomico, con
una continua distruzione dell’oggetto parallelamente al consolidamento del soggetto.
Così agisce il guerriero, combattendo senza sosta e distruggendo con la sua spada
tutto ciò che incontra; la spada è il diurno, ciò che separa, non uccide ma divide,
distruggendo l’oggetto e consolidando il soggetto.
Ma nel campo del notturno, vi sono due forme. La prima forma è quella radicale,
chiamata notturno misticoda Durand, e rappresenta la traslazione completa
dell’oggetto in soggetto. Lo si potrebbe definire il tradimento completo di sé. Tutto è
al di fuori. Al proprio interno non vi è nulla, se non la riflessione di ciò che è posto al
di fuori. La luce è notte, l’alto è basso, il maschile è femminile, morire è vivere, e
viceversa. Pura retorica. Si chiama qualcosa con un nome completamente differente,
contraddittorio, e si è felici di ciò.
1. L’Urheimat balcanica
Per iniziare l’analisi noologica della civiltà europea, sarà opportuno partire da uno
dei suoi poli principali, costituente la vera e propria Urheimat delle tradizioni
agricole europee, cioè l’Europa orientale, a torto considerata periferica.
Il primo popolo indoeuropeo a farvi la sua comparsa è stato quello tracico. I Traci
sono discesi nei Balcani prima degli Slavi, attorno al 1200 a.C., insediandosi
inizialmente nei Balcani settentrionali, per poi occupare pressappoco la grande
area dell’Europa orientale. Ciò che è importante rilevare è che i territori in cui la
civiltà tracica si espanse erano i centri o poli della civiltà della Grande Madre –
Lepenski Vir, la cultura di Vinča, la cultura di Cucuteni-Trypillia, ecc. – la quale andò
così a costituire il sostrato dell’orizzonte esistenziale tracico. Per inciso, noi non
possiamo affermare con certezza che i Traci siano stati i primi popoli indoeuropei a
fare la loro comparsa in quei territori, ma essi sono i più antichi di cui abbiamo
conoscenza.
Ad ogni modo, il dato saliente è che nello spazio est-europeo, prima che divenisse
predominante l’orizzonte slavo a seguito delle invasioni del V e VI secolo d.C.,
sussisteva una civiltà tracica indoeuropea in cui verosimilmente ha avuto luogo per
la prima volta l’incontro tra i Logoi di Apollo e Cibele. Se così fosse, ciò
significherebbe che il mondo agricolo sedentario europeo ha avuto origine e si è
espanso a partire dallo spazio balcanico, il quale dunque costituirebbe la patria
originaria – l’Urheimat – non solo del contadino est-europeo ma di tutto il mondo
rurale europeo, dacché la tradizione agricola si sarebbe venuta a sviluppare
anzitutto nei territori balcanici, abitati da una società matriarcale ben prima che vi
giungesse la cultura turanica.
Come abbiamo già detto nella terza lezione, esiste l’enorme spazio turanico
indoeuorpeo che include sostanzialmente tutta l’Eurasia, dalle isole britanniche
all’India, e che costituisce l’immenso orizzonte esistenziale indoeuropeo. Ad ovest
di tale orizzonte si estende il Grande spazio europeo ma, scendendo ad un livello
noologico e geosofico inferiore, incontriamo al suo interno diversi sotto-spazi. Si
tratta delle singole società indoeuropee, le cui specifiche culture derivano da come
ciascuna di esse ha risolto il problema di Dioniso. Nel tentativo di comprendere
ermeneuticamente una o l’altra cultura europea, noi individuiamo precisamente
l’equilibrio noologico e il momento della Noomachìa che caratterizza ciascuna
società.
2. La tradizione greca
Inizieremo questa disamina partendo dalla tradizione greca [2].
La tradizione greca si basa sulla piena vittoria del Logos di Apollo. Tuttavia, tale
vittoria, come ho accennato nella quarta lezione, non è stata immediata. Le tribù
elleniche degli Ioni e degli Eoli giunsero attraverso le prime ondate migratorie nei
Balcani e nel Peloponneso sopraffacendo la civiltà matriarcale esistente. Ma,
mentre alcuni territori greci mantennero la struttura indoeuropea verticale
trifunzionale puramente patriarcale, altri la persero del tutto o in parte. Nelle
culture minoica e micenea si venne pertanto a creare una commistione tra
elementi patriarcali e matriarcali. Fu solo con l’ultima ondata migratoria delle tribù
elleniche dei Dori – provenienti dal nord, dai territori macedoni, e portatori di
essenziali elementi apollinei e pastorali – che la cultura micenea venne distrutta e
fu introdotto uno stile puramente turanico. Tutto questo si riflette nel dualismo
della cultura greca tra la dorica Sparta e la ionica Atene, un dualismo che
rispecchia l’equilibrio della Noomachìa all’interno dello spazio esistenziale greco,
dato che il Logos apollineo si manifesta in Sparta in modo chiaro e marcato a
differenza che in Atene e nelle colonie greche anatoliche, dove invece esso è meno
preponderante. Tale dualismo per inciso ha un ruolo chiave anche nella
geopolitica.
Nella filosofia greca, troviamo dunque presenti tutti e tre i Logoi. Ma è importante
sottolineare come il Logos normativo sia quello di Apollo – platonismo su tutto, ma
in parte anche Aristotele ed Eraclito (sebbene in quest’ultimo si rifletta
principalmente il «Logos oscuro» di Dioniso). Logos apollineo che viene però
rigettato da Democrito, Epicuro e Lucrezio. Non è un caso che Platone suggerisse di
bruciare i libri di Democrito, considerandoli espressione di una pericolosa eresia. In
tutto ciò vediamo chiaramente la continuazione della titanomachìa o Noomachìa
indoeuropea. Il momento della Noomachìa greco si basa in definitiva sulla vittoria
del Logos di Apollo coadiuvato dal Logos apollin-dionisiaco o del «Dioniso
apollineo», sul Logos materialistico di Cibele.
3. Il Dasein ellenistico
È sostanzialmente questa la lettura noologica della tradizione ellenica. Le cose
però cambiano in era ellenistica. Sotto Alessandro Magno, i greci espandono il
proprio dominio su uno spazio esistenziale completamente nuovo.
Essere iraniani significa infatti essere latori di luce, figli della luce mandati nel
campo dell’oscurità al fine di combatterla. L’autocoscienza e l’identità iranica
zoroastriana si basano precisamente sul concetto che solo gli iraniani sono il
popolo puro della luce, mentre tutti gli altri sono popolo dell’oscurità – una sorta di
razzismo metafisico che tra l’altro crea le basi per legittimare il matrimonio fra
consanguinei e l’incesto come vie per salvaguardare la purezza del sangue e dello
spirito dei figli della luce. Questa è la tradizione iranica; una tradizione che tuttavia
nell’evoluzione iranistica diventa meno esclusivista poiché l’inclusione dei popoli
semiti, egiziani, babilonesi, ecc., segna la transizione della qualità di essere figli
della luce ad un livello meno materiale e più simbolico o metaforico, dimodoché il
concetto di «guerra della luce» viene accettato in senso più ampio.
E ciò che avviene in questo ciclo sublunare non ha alcuna importanza, è privo di
significato, di direzione. Non ha tempo né storia. Detto altrimenti, la storia
platonica è la «storia dell’eternità»: nel tempo si riflette l’eternità, dunque esso non
esiste nel senso a noi familiare.
4. Il Logos latino
Con il passaggio dalla dominazione greca alla dominazione romana, il Dasein
ellenistico si diffuse nel resto d’Europa.
Dal punto di vista noologico, tale ellenismo era caratterizzato dal Logos di Apollo
riflesso nella tradizione greca platonica, dal Logos di Dioniso riflesso nella
tradizione greca misteriosofica eraclitea, dal Logos di Apollo nella sua versione
iranica dualistica – con i concetti di tempo, di escatologia e di «guerra della luce» –
e infine da un nuovo Logos di Cibele, presente nelle profondità di questo spazio
esistenziale ma non rappresentato chiaramente. Possiamo rintracciare
quest’ultimo forse in qualche profezia legata alla pietra nera di Pergamo
appartenente a Cibele nel contesto delle guerre puniche [4], ma si tratta di aspetti
marginali. Esisteva una sorta di culto matriarcale nell’impero romano ellenistico
ma esso non era dominante. A dominare erano le culture apollinea greca, apollinea
iranica e dionisiaca greca.
Tale forma di ellenismo romano, con la dominazione del Logos di Apollo unito ad
alcuni tratti culturali dionisiaci, rappresenta precisamente il Logos latino [5], e si è
preservato sostanzialmente intatto fino alla Modernità. Il Logos latino, ossia il
Logos dell’Impero Romano, è romano nel suo livello più profondo, cui si aggiunge
un soprastato ellenistico con alcuni aspetti dualistici correlati all’iranismo e al
manicheismo – Agostino di Ippona fu manicheo, e il manicheismo è una forma di
iranismo, il quale è di natura dualistica come abbiamo visto –, questi ultimi
presenti a Roma in maniera più marcata che a Bisanzio, dove invece esisteva una
forma di platonismo non dualistico – nell’Ortodossia identifichiamo una forma non
dualistica di platonismo, al contrario del Cattolicesimo romano che ne rappresenta
invece una dualistica.
Comunque sia, l’Impero romano cattolico si è basato sul Logos di Apollo, con
aspetti più dualistici e forse anche meno dionisiaci di Bisanzio, ma nonostante ciò
puramente indoeuropeo. E questo è stato il destino dell’Italia. Fino all’età
contemporanea, essa ha mantenuto questo Logos, conservando questo specifico
momento della Noomachìa italiana. L’Italia è stata il luogo dove ha avuto origine
Roma, è stata il centro dell’Impero romano, è stata invasa da tribù germaniche
indoeuropee, ha creato nuovi stati, ma rimanendo fedele a questa versione
cristianizzata dell’ellenismo fino alla fine. L’ultima forma di questo Logos, in una
versione molto modernizzata e in un certo senso perversa, è stata quella del
Fascismo. Nel Fascismo vi sono stati certamente aspetti caricaturali della
tradizione romana – tutto nella Modernità è caricaturale – ma allo stesso tempo
esso ha rappresento la continuazione di questo approccio sostanzialmente
apollineo, verticale, gerarchico. Il Fascismo ha rappresentato l’ultima nota di una
medesima melodia. E prima di esso ci fu il Concilio di Trento, dove il Cattolicesimo
rifiutò di intraprendere la via protestante. La difesa di questa identità apollinea
romana ha rappresentato dunque il destino dell’orizzonte esistenziale italiano.
5. Il Logos celtico
Dal Medioevo in poi, i poli principali della costruzione dialettica della civiltà
europea diventano Francia e Germania. Sono stati questi due poli infatti a
determinare la semantica storica, politica e culturale dei processi più importanti
della storia dell’Europa occidentale dell’ultimo mezzo millennio. Il prossimo
orizzonte esistenziale europeo che andremo ad esaminare è dunque quello
francese o più in generale della tradizione celtica.
6. Il Logos germanico
A differenza del Logos celtico, il Logos germanico [8] è di tipo apollineo ma ne
costituisce una versione eroica, guerriera. Qui ritroviamo la lotta contro le forze
ctoniche che caratterizza la tradizione iranica. Essere germanico significa essere in
preda ad una perenne lotta: la guerra degli eroi germanici contro i giganti ctonici.
Si tratta di una cultura di tipo paranoico nell’accezione che abbiamo dato a questo
termine discutendo nella precedente lezione dei regimi dell’immaginario in Gilbert
Durand, con tratti fortemente patriarcali e caratterizza da una spiccata aniliginia –
le donne germaniche possiedono caratteristiche culturali più prossime agli uomini
che in altre culture (si pensi alle valchirie, a Brunilde).
Abbiamo dunque a che fare con una società eroica destinata a combattere i Titani.
Tuttavia i germanici, nel seguire il loro fato, combattono così sentitamente che non
riescono a rilevare il momento in cui la loro lotta diventa a sua volta titanica. Essi
sono così devoti alla loro causa, che travalicano i limiti naturali – iniziano a
distrugge chiunque intorno a loro, e infine loro stessi – e ciò costituisce qualcosa di
titanico. Questo aspetto titanico dello spirito germanico è evidente in Hitler: se
creare la Grande Germania può essere di per sé una buona idea, non lo è invece il
tentativo di annientare ogni cosa intorno a sé per poi, alla fine, distruggere la
Germania stessa. C’è un termine greco per questo genere di attitudine: ὕβϱις
(hybris), che significa sostanzialmente eccesso, assenza di misura. Ad esempio il
guerriero che uccide i suoi nemici in battaglia ha un ethos eroico, ma se egli dopo
averli uccisi si accanisce sui loro figli e violenta le loro donne, nello sforzo di
proseguire questa guerra e di umiliare i nemici sconfitti, diviene preda della hybris.
Si tratta sempre di una componente della guerra, ma non è più eroica.
Nella tradizione iranica vi è l’idea che l’esercito della luce sia più debole
dell’esercito delle tenebre. E che la sconfitta dell’esercito della luce sia un elemento
necessario per la resurrezione e la vittoria finale. Così, al fine di vincere, si
dovrebbe sopportare una sconfitta. Detto altrimenti, se la luce dovesse morire, è
preferibile perire con essa che vincere schierandosi con le tenebre, dacché l’ultima
parola non l’avrà la forza delle tenebre ma la verità della luce. Ne consegue che se
travalichiamo il confine, superiamo il limite, oltrepassiamo la misura lottando in
modo titanico, saremo infine condannati alla disfatta e finiremo col distruggere
ogni cosa, compresi noi stessi.
7. La schizofrenia albionica
Veniamo all’Inghilterra e all’orizzonte britannico [9]. Dopo aver studiato la storia
inglese, sono arrivato alla conclusione che non avrei potuto intitolare il libro della
collana Noomachìa dedicato a questo spazio «il Logos britannico», poiché non ho
in effetti rinvenuto alcun Logos. Ho al contrario scoperto una profonda e instabile
dualità nella cultura inglese. In essa sono presenti sostanzialmente due poli. Il
primo è il polo celtico rappresentato da Galles, Irlanda, Scozia, nazioni celtiche e
dunque parte dell’orizzonte esistenziale celtico, caratterizzate dalla stessa
fascinazione del principio femminile, dalla stessa idea di discesa agli inferi, dallo
stesso romanticismo nero e così via. Ma gli elementi celtici non sono rintracciabili
unicamente in Irlanda, Galles e Scozia; essi sono parte anche della società inglese e
dell’identità inglese – ad esempio la dinastia degli Stuart era celtica – poiché in
effetti la maggior parte della popolazione delle isole britanniche è costituita da
celti nel corso del tempo germanizzati. Il secondo polo è dunque quello germanico.
8. Il Nuovo Mondo
A ridosso del sedicesimo secolo gli europei hanno scoperto e iniziato a colonizzare
il continente americano, da essi ribattezzato «Nuovo Mondo» [10]. Pertanto,
sebbene Nordamerica e Sudamerica presentaino due Logoi diversi, in entrambi i
casi abbiamo a che fare con Logoi che nella loro origine sono coloniali, poiché
rappresentano proiezioni transatlantiche dell’Europa che hanno trasformato i
tratti originari delle culture locali.
Lo stesso non può dirsi per il Nordamerica. Qui gli anglosassoni hanno portato con
sé la loro malattia. Come conseguenza, anziché integrare nella loro società i popoli
autoctoni, essi hanno iniziato a distruggere gli indiani e hanno dato vita ad una
società nordamericana malata, per molti aspetti affetta dalle stesse problematiche
anglosassoni. Tuttavia, a differenza della Gran Bretagna, qui possiamo individuare
un Logos.
9. Il Logos slavo
Al termine di questa analisi noologica per sommi capi dei differenti orizzonti
esistenziali costituenti la civiltà europea, ci resta da trattare lo spazio slavo.
Anzitutto, gli slavi costituiscono senza dubbio una società indoeuropea; nell’ultimo
secolo i popoli slavi hanno subito una grande influenza da parte dell’Occidente,
pertanto in parte condividono con tedeschi, francesi, britannici, greci, latini, alcune
problematiche metafisiche, ma in parte posseggono caratteristiche peculiari.
Cosa possiamo dire sul Logos slavo? Esso è chiaramente parte dello spazio
culturale ellenistico, così come lo sono tutti gli altri Logoi che abbiamo descritto, i
quali scaturiscono tutti dal cristianesimo ellenistico di cui rappresentano differenti
combinazioni; tuttavia, è allo stesso tempo evidente che il Logos slavo a differenza
di altri Logoi non costituisce qualcosa di compiuto. Si tratta cioè di un Logos
aperto, e questo costituisce una sfida per noi slavi.
Per quanto concerne il Logos russo, o meglio la sua possibilità, ad esso sono
dedicati gli ultimi libri della collana Noomachìa (ad oggi non tutti ancora pubblicati)
[11], ma ho studiato anche in altri libri esterni al progetto Noomachìa la possibilità
di una filosofia russa, basandomi su Heidegger [12]. Circa il Logos slavo esteuropeo
[13], esso è sicuramente possibile e in alcuni momenti storici gli slavi vi si sono
avvicinati – ad esempio sotto l’imperatore serbo Stefano Dušan, nel Primo e nel
Secondo Impero Bulgaro, in alcuni frangenti nella Confederazione polacco-lituana,
così come nella Grande Moravia, in alcune tendenze filosofiche particolari – ma noi
slavi finora non siamo mai riusciti a raggiungere la versione definitiva di questo
Logos slavo, né in Europa Orientale né in Russia.
Questo rende per noi slavi più difficile descrivere il nostro Logos che
studiare i Logoi di altre culture, poiché tale attività richiede un’analisi
introspettiva della nostra stessa cultura molto profonda e impegnativa.
In sincerità, sono molto pessimistico per quanto concerne lo stato della società
slava moderna, ma allo stesso tempo nutro molto ottimismo in relazione alla
possibilità di questo Logos slavo. Esso è ancora incompiuto, ma ciò costituisce la
sfida principale per una nuova generazione dell’élite intellettuale slava, che è
chiamata a compiere il passo finale portando a compimento tutta l’esperienza
istoriale della nostra presenza ontologica nel mondo.
Alexander Dugin
In secondo luogo, non è un caso che questa tradizione si sia sviluppata nel mondo
indoeuropeo, anzitutto a Roma e in Grecia. Il Cristianesimo ha costituito una
tradizione normativa per la parte occidentale della società indoeuropea, dove il
concetto del Dio Padre cristiano nelle sue caratteristiche principali era
sostanzialmente corrispondente alle divinità maschili dell’era pre-cristiana come
Zeus e Giove. Nella coscienza popolare di greci, latini, germanici, celti, slavi è stato
quindi facile sostituire un Padre celeste con un’altro, poiché la rispettiva Gestalt
era la medesima. La cristianizzazione ha rappresentato una trasformazione che
non ha intaccato la struttura della visione del mondo dei popoli indoeuropei, ma
che al contrario ha garantito la continuità tra le tradizioni pre-cristiana e cristiana.
Sin dalle prime fasi di elaborazione della dottrina cristiana, vi era la consapevolezza
che il Cristianesimo avesse due fonti, non solo giudaica ma anche ellenica, cioè
indoeuropea – questo è stato spiegato nella filosofia di alcuni tra i primi apologeti
cristiani e santi, ad esempio il filosofo Giustino o Clemente Alessandrino, i quali
hanno affermato l’esistenza non di uno ma di due rami tradizionali pre-cristiani,
segnatamente giudaico ed ellenico. Ciò è evidente soprattutto nel platonismo
cristiano. Il platonismo cristiano non ha avuto inizio con la tradizione esegetica ma
con gli apostoli stessi: il Vangelo di Giovanni inizia affermando che «in principio era
il Verbo», cioè il Logos, che però non è solo «verbo» nel senso di parola, ma è
intelletto, Nous per certi versi, un concetto molto complesso della filosofia greca.
Tali vangeli sono stati inoltre scritti originariamente in greco, la koinè ellenistica
diffusa nell’ecumene mediterranea, e ciò corrobora la tesi che vede il Cristianesimo
come fenomeno nato in un contesto ellenistico.
Abbiamo già discusso nelle passate lezioni [1] della relazione tra il Logos di Apollo e
l’insegnamento di Platone. Essi sostanzialmente si equivalgono. Detto altrimenti, il
platonismo è la più compiuta e perfetta espressione del Logos apollineo. Ciò si
riflette anche nell’elaborazione del dogmatismo cristiano, il quale essendo in
continuità culturale con la tradizione pre-cristiana risulta centrato
sull’apollonismo.
Tuttavia, accanto alla pura logica celestiale di Apollo, in alcuni dogmi cristiani
possiamo rintracciare aspetti dionisiaci. Ad esempio nella cristologia, poiché Cristo
unisce in sé due nature – umana e divina – e ciò costituisce qualcosa di dionisiaco,
di dialettico. Anche nella Santa Trinità riscontriamo qualcosa di simile, essendo
essa una e trina al contempo, presentando dunque una dialettica al suo interno. Lo
stesso può dirsi per la relazione esistente tra Creatore e Creato: anch’essa è in
qualche modo dialettica, giacché Creatore e Creato non rappresentano
rispettivamente solo la causa e l’effetto ma sono intrecciati; Dio è presente
all’interno della Creazione, e l’incarnazione di Cristo ne costituisce il momento più
importante, rappresentando peraltro un ciclo marcatamente dionisiaco, con il
Figlio di Dio che discende sulla Terra, muore, giunge al centro dell’Inferno, lo vince,
libera le anime sante degli avi, quindi risorge e ascende insieme ad esse al Cielo.
Non vi è traccia del Logos di Cibele in questo contesto. La figura della Santa
Vergine, la Madre di Gesù Cristo, richiama Demetra rappresentando la natura
femminile purificata dagli aspetti terreni e ctonici – uno dei titoli che le vengono
attribuiti è infatti quello di Madonna degli Angeli. La venerazione della Santa
Madre, con la sua purezza e la sua verginità, costituisce dunque un altro elemento
del tutto indoeuropeo.
Abbiamo in definitiva a che fare con una religione e una teologia nella sostanza
indoeuropee, caratterizzate dalla vittoria del patriarcato sul Logos di Cibele.
Questo, come abbiamo già accennato, è anche il motivo per cui il Cristianesimo ha
potuto affermarsi come tradizione europea: gli europei hanno potuto abbracciare
il Cristianesimo poiché è come se essi fossero in qualche modo già cristiani prima
di Cristo. Essi erano preparati alla Rivelazione. Il Cristianesimo si differenzia dalla
tradizione pre-cristiana, ma in esso è evidente una certa continuità strutturale. La
cristianizzazione non ha alterato l’orizzonte esistenziale della società europea,
questo era anzi pronto a ricevere la Buona Novella. Nell’orizzonte esistenziale
ellenistico tutto era pronto per abbracciare il Cristianesimo. Questo è un punto
molto importante.
Da ciò che abbiamo detto, discende che il Cristianesimo non va inteso come una
tradizione completamente nuova emersa nel corso degli ultimi duemila anni, ma
come il proseguimento dell’antica tradizione indoeuropea. Certo, con ogni riforma
della religione, della mitologia, della tradizione, della chiesa stessa, hanno fatto la
loro comparsa nuovi elementi. Ma, nonostante tutto, l’essenza è rimasta la
medesima. Con la Comunione, ad esempio, si è passati dal pane di Demetra e dal
vino di Dioniso al pane e al vino eucaristici, rappresentanti il sangue e il corpo di
Cristo. Dunque, sebbene sia certamente legittimo vedere una prefigurazione di
Cristo nel Vecchio Testamento, possiamo altresì vedere – come fanno il filosofo
Giustino, Clemente Alessandrino e Origene Adamanzio – una prefigurazione o
meglio un’anticipazione dei misteri cristiani nei misteri greci.
Vi è una continuità anche nella struttura sociale, dal momento che nella società
cristiana ritroviamo la stessa struttura trifunzionale indoeuropea, con i sacerdoti e
i patriarchi, i re e i guerrieri, e infine i contadini – una struttura che per inciso si è
preservata intatta fino all’alba della Modernità. Tale continuità ha riguardato
anche i riti e le pratiche di culto, come pure in un certo senso la forma politica
imperiale, su cui ci soffermeremo più avanti. Possiamo in sintesi affermare che
strutturalmente esiste una unità e una continuità tra orizzonte esistenziale pre-
cristiano e orizzonte esistenziale cristiano.
2. Alessandria e Antiochia
Allo stesso tempo, nel primo Cristianesimo esistono due centri di elaborazione
della dottrina cristiana tra loro contrapposti: la scuola alessandrina e la scuola
antiochena.
Qui è opportuno aprire una breve parentesi sul Logos semitico. Il Logos semitico è
qualcosa di piuttosto differente da ciò che abbiamo visto finora. Esso si basa su
una sorta di titanismo che si manifesta nel culto pre-giudaico di Baal, la principale
divinità adorata dai cananei, una divinità titanica che richiedeva sacrifici di infanti.
All’orizzonte culturale della Cananea si opponeva il giudaismo, che in un certo
senso possiamo considerare anti-semitico. Alla tradizione semitica occidentale
incentrata sul culto di Baal, i giudei contrapponevano il loro antico Dio,
considerando Baal come una specie di divinità minore che lo aveva detronizzato.
Ma né Baal, né l’antico Dio del primo giudaismo hanno a che fare col Cristianesimo.
Nella scuola antiochena non ho in effetti rintracciato questo dramma intrasemitico
tra tradizione semitica occidentale (siriana, aramaica, ecc.) e giudaica, ma qualcosa
di completamente differente: la tradizione iranistica, l’iranismo nella sua pura
forma.
È pertanto presente nel Cristianesimo una sorta di conflitto tra due poli: il
platonismo greco advaita (non dualistico) rappresentato dalla scuola alessandrina,
con una lettura delle Sacre Scritture allegorica, e una versione del Cristianesimo
iranistica dvaita (dualistica), con una lettura storica e messianica. Entrambi questi
poli possiedono inoltre versioni eretiche, che si collocano al di fuori dall’ortodossia
dogmatica cristiana. La scuola di Antiochia ha generato Ario e Nestorio, mentre il
radicalismo del platonismo alessandrino ha generato un estremismo opposto,
l’eresia monofisita. Il monofisismo («una sola natura»), elaborato nel V secolo dal
monaco bizantino Eutiche, negava la duplice natura di Cristo riconoscendo in Lui la
sola natura divina; ciò costituiva una versione estremista del platonismo greco. Per
contro, nel nestorianesimo troviamo una versione estremista dell’iranismo, che
predica la totale separazione delle due nature di Cristo, per cui i nestoriani credono
che Maria abbia generato solo l’uomo Gesù e non Dio. Si tratta di due estremismi
eretici relativi a due legittimi orientamenti ortodossi, rappresentati da un lato dai
padri cappadoci come Basilio Magno e San Gregorio (scuola alessandrina), e
dall’altro da teologi e filosofi come Giovanni Crisostomo (scuola antiochena).
Ciò che è importante rilevare è che nel Cristianesimo abbiamo a che fare con la
continuazione dell’orizzonte esistenziale ellenistico mediterraneo, con due poli –
greco e iranistico. Esso rappresenta dunque una nuova forma dell’ideologia del
tradizionale spazio indoeuropeo.
In questo contesto, le forze ctoniche sono rappresentate dalla figura di Satana, così
come Babilonia la Grande rappresenta la Grande Madre, Cibele. Troviamo inoltre il
serpente, che tradizionalmente è il consorte della Grande Madre. Queste forze
cercano di rovesciare l’Impero cristiano, posto sotto il potere della figura spirituale
del Patriarca e dell’Imperatore sacro. Simbolicamente, dunque, nel contesto
cristiano sono presenti tutti e tre i Logoi. Il Cristianesimo si basa sulla vittoria su
Satana, che viene incatenato e messo sotto il controllo dell’Impero. La civiltà
cristiana non è stata infatti costruita sul nulla; è stata costruita sulle spalle di
Satana, sulle spalle del potere ctonico domesticato e sottomesso dal Logos di
Apollo. La figura dell’Imperatore, del Czar, costituisce una sorta di suggello a
questa vittoria della Chiesa cristiana sul mondo satanico e cibeliano. Ma Satana,
incatenato agli Inferi, è sempre vivo. E quando l’Imperatore diverrà troppo debole
per resistervi – questo è anche il soggetto del racconto classico iranico – apparirà
l’Anticristo: con la rimozione del Catéchon, il figlio della perdizione si libererà dalle
catene che lo tengono imprigionato agli Inferi e giungerà nella società umana. E ciò
rappresenterà l’esplosione del sottosuolo, il ritorno della dominazione di Cibele, la
restaurazione di Babilonia la Grande, ecc., che distruggerà la Chiesa e creerà una
civiltà completamente nuova appartenente ad un altro livello esistenziale.
Tuttavia, con un atto che ai nostri occhi ortodossi appare un’usurpazione, nell’800
Carlo Magno viene da Papa Leone III incoronato imperatore, titolo che non era
stato mai più usato in Europa Occidentale dopo la destituzione di Romolo Augusto
nel 476. Noi non riconosciamo lo status di imperatore a Carlo Magno, poiché al
tempo riconoscevamo l’imperatrice bizantina Irene d’Atene, considerando l’Impero
bizantino l’unico e legittimo discendente dell’Impero Romano; ma il fatto che il
trono romano fosse occupato da una donna spinse il Papa a considerarlo vacante,
e questo portò a quella che noi definiremmo una usurpazione del trono imperiale.
In questa sede però non stiamo discutendo su chi in tale disputa fosse nel giusto e
chi nel torto; ci interessa piuttosto rimarcare come anche nel mondo cristiano
dell’Europa Occidentale abbia fatto il suo ingresso con Carlo Magno la figura
dell’Imperatore accompagnata da una certa idea di Catéchon e come questa
tradizione catecontica cristiana occidentale si sia rinnovata dall’inizio del IX secolo
nella tradizione imperiale dei Re dei Franchi fino all’Impero Asburgico, considerato
l’ultima manifestazione del Catéchon in Europa Occidentale.
Così, abbiamo due versioni della civiltà cristiana. In quella Orientale, più vicina alla
versione originale, tutte le proporzioni si sono conservate fino ad oggi; in questa
ininterrotta tradizione cristiana orientale, il retaggio indoeuropeo di provenienza
ellenistica si è preservato fissandosi nella forma dei primi sette concili ecumenici.
Vi è poi la oserei dire più contraddittoria tradizione cristiana occidentale. Mentre
Bisanzio rimane più in linea con il platonismo, a Roma prevale l’eredità dualistica
(non dimentichiamo che Sant’Agostino era un ex manicheo). Ma nonostante ciò,
nel complesso la tradizione cristiana si è preservata in entrambe le versioni
orientale e occidentale (nel Cattolicesimo al più fino al Concilio Vaticano II).
6. Protestantesimo
Il collasso avviene col Protestantesimo, terzo ramo del Cristianesimo. È
interessante notare come all’origine del Protestantesimo vi siano idee corrette.
Anzitutto, vi era la denuncia della totale corruzione che albergava nella Chiesa
romana e di come essa avesse «usurpato» la relazione tra Uomo e Cristo. Questo è
un riflesso di come la Chiesa viene concepita nel Cattolicesimo: essa viene fatta
corrispondere alla comunità dei soli sacerdoti, escludendo di fatto tutti gli altri, i
quali vanno a costituire una sorta di circolo esterno attorno alla Chiesa costituito
dai «quasi-cristiani». A noi ortodossi una tale immagine risulta bizzarra, poiché per
la concezione dogmatica ortodossa la Chiesa è la comunità non solo dei sacerdoti
ma di tutti i battezzati. Nella tradizione cattolica al contrario è presente una sorta
di gerarchia, intesa in senso spirituale, che interrompe la relazione diretta tra il
cristiano ordinario e Dio facendola passare attraverso il clero e il Papa romano, che
in questa relazione funge da intermediario. Gli anticipatori di quella che poi venne
denominata Riforma Protestante, in particolar modo i mistici tedeschi come
Meister Eckhart, Enrico Suso e altri, affermarono per contro l’esistenza di una
relazione intima e diretta tra il cuore dell’uomo e Cristo, relazione che non
dovrebbe passare per il tramite di un’istanza esterna.
Nella tradizione ortodossa questo problema non si pone poiché in essa, data la
diversa concezione della Chiesa nell’Ortodossia, vengono riconosciute sia la
completa autorità della Chiesa sia la relazione diretta tra uomo e Cristo. Al
contrario, nella tradizione cristiana occidentale, questo problema è effettivamente
presente. A questo, i mistici pre-protestanti risposero affermando la diretta
relazione tra noi e Dio, che Dio può parlare dentro di noi e che ciò costituisce la
nostra dimensione interna. In questo essi furono effettivamente platonici e in un
certo senso più vicini agli ortodossi, ed è tale concetto radicale del rapporto
personale tra l’uomo e Cristo, da alcuni di essi chiamato della «luce interiore» o
«Cristo interiore» che vive nel cuore dell’uomo, all’origine del protestantesimo.
Tuttavia, l’originaria restaurazione della pura dimensione spirituale nel
Cristianesimo si è presto degradata in una versione titanica dello stesso. In una sua
deviazione. Nell’affermare con Lutero e Calvino questo insegnamento, i protestanti
hanno rotto con la tradizione stessa, privandosi delle icone, dei monasteri, della
Chiesa in quanto tale. Nel tentativo di liberare il diretto accesso da parte dell’uomo
verso Dio, essi hanno distrutto la sacralità stessa, sostituendo ciò che potremmo
chiamare «soggetto radicale» – il sé interiore divino che vive all’interno della nostra
anima, una estrema radicale interiorità al centro del nostro cuore dove vive Cristo
– con una «individualità profana», esteriore, un «soggetto positivo». Ciò ha
condotto ad una forma di «individualismo religioso» che ha preso il posto della
dimensione mistica iniziale, poiché quando il protestantesimo inizia a espandersi,
esso fa appello alle masse, che non possono avere questa particolare esperienza
interiore. Così, partendo da un punto iniziale legittimo sostenuto dei primi
protestanti o dai pre-protestanti, si è giunti alla distruzione della società cattolica
tradizionale e ciò ha rappresentato qualcosa di completamente titanico. Una totale
perversione.
7. Conclusione
La prossima lezione verterà sull’analisi noologica della modernità. Tuttavia, già da
ora possiamo in modo molto sintetico dire qualcosa su ciò che la
decristianizzazione della società moderna ha rappresentato. Essa non è stata altro
che la distruzione del Logos apollineo e del suo alleato dionisiaco, cioè del
patrimonio indoeuropeo. Una catastrofe molto più profonda della sola caduta del
Cristianesimo poiché ha rappresentato la caduta di un Logos che era nostro da ben
prima. Si è trattato della distruzione di ogni forma di verticalità e dell’irruzione del
potere titanico nell’orizzonte esistenziale europeo. Escatologicamente, ha coinciso
con la reale venuta dell’Anticristo, la liberazione di Satana dalle catene dell’Inferno.
La vittoria del Logos di Apollo, coadiuvato dal Logos di Dioniso, sul Logos di Cibele
ha dato inizio alla nostra civiltà. E per migliaia di anni abbiamo vissuto in questo
momento della Noomachìa, nella vittoria della luce sulle tenebre. Un momento
della Noomachìa che, come abbiamo visto in questa lezione, non è iniziato con il
Cristianesimo, ma è continuato in esso. Per migliaia di anni abbiamo vissuto nel
«regno della luce», con tutti gli aspetti drammatici insiti in questa Noomachìa, di
questa battaglia. La modernità segna al contrario il passaggio ad un nuovo
momento della Noomachìa. Con la decristianizzazione irrompe qualcosa di
assolutamente radicale da un punto di vista noologico e geosofico. Nella prossima
lezione andremo a vedere di cosa si tratta.
LEZIONE 8. ANALISI NOOLOGICA DELLA MODERNITÀ
1. La Modernità come fenomeno paradigmatico
Abbiamo già detto che la Modernità si fonda sulla negazione della Tradizione. Ma
quale tradizione distrugge la Modernità? In Europa la risposta è evidente: il Logos
apollineo e dionisiaco nella forma del Cristianesimo. La Modernità si esplica
nell’anticristianesimo poiché nella nostra storia europea la Tradizione di cui i
tradizionalisti parlano si è manifestata nella forma della tradizione cristiana, la
quale, come abbiamo mostrato nella precedente lezione, ha inglobato in sé le
strutture precristiane del Logos indoeuropeo.
Con l’analisi noologica possiamo fare un ulteriore passo in avanti e affermare che
la Modernità non è solo distruzione, nichilismo, trasformazione caotica, ma
rappresenta anche l’affermazione di un nuovo Logos – in realtà non del tutto
nuovo. Un terzo Logos. Segnatamente, il Logos di Cibele. Se applichiamo alla
Modernità questa nozione, entriamo in una prospettiva completamente nuova.
Ora siamo in grado di scorgere la vera natura della Modernità: essa rappresenta il
ritorno agli aspetti civilizzazionali preindoeuropei. Metafisicamente, la Modernità
precede le invasioni indoeuropee turaniche. Abbiamo quindi a che fare non con
qualcosa di assolutamente nuovo ma al contrario di assolutamente antico!
Qualcosa che precede il Logos turanico di Apollo e la tradizione indoeuropea nella
forma cristiana. Questa considerazione è estremamente importante, per quanto
paradossale possa sembrare (in realtà non lo è affatto), perché ci permette di
comprendere che la Modernità ha rappresentato il momento della Noomachìa in
cui i Titani hanno condotto un nuovo attacco contro gli Dèi olimpici. Un’offensiva
che, questa volta, è andata a buon fine. La Modernità si basa infatti sulla vittoria
dei Titani, di Cibele, del serpente, sugli Dèi dell’Olimpo, su Apollo. Questo momento
della Noomachìa in potenza è sempre esistito, ma si è potuto inverare solo quando
il potere della luce è diventato troppo debole; solo allora i Titani si sono potuti
liberare dalle catene che li tenevano imprigionati nel Tartaro e hanno potuto fare
irruzione nel mondo sottomettendo l’umanità al loro dominio. Questa descrizione
non si basa su un discorso puramente negativo poiché, come si può vedere, è
possibile parlare di un Logos della Modernità.
3. La scienza moderna
Il principale attacco sferrato da Galileo Galilei, Copernico e dagli altri padri della
scienza moderna è contro questo concetto di luogo naturale. Per costoro non vi è
alcun luogo naturale, e non esiste una causa finale del mondo. La causa del
movimento è l’urto tra due corpi. Non vi è quindi alcuna causa finale ma solo una
causa iniziale, antecedente al movimento. Non esiste più una finalità. Tutto è
casuale. Non c’è più alcuna telelologia nella loro concezione del movimento. Tutto
si muove caoticamente come nella concezione aristotelica, ma questa volta senza
alcuna finalità, e senza tendere ad alcun centro assoluto. Lo spazio non possiede
più alcun centro, le posizioni dei corpi sono relative tra loro. Ne consegue uno
spazio non anisotropico ma piuttosto isotropico.
Ma qual è il senso noologico dell’azione di Galileo Galilei e degli altri padri fondatori
della Modernità? Questa concezione ha comportato la distruzione della struttura
apollinea dello spazio, del tempo, del pensiero, del destino, della storia. Essi hanno
distrutto il Logos di Apollo rappresentato da Platone e Aristotele facendosi latori
del Logos di Cibele, un Logos che in realtà non costituisce una loro scoperta, un
qualcosa di totalmente nuovo, ma rappresenta un ritorno alla forma cibeliana
dell’antica filosofia greca presocratica di Democrito e più tardi di Epicuro e di
Lucrezio. Questa corrente filosofica era stata accantonata nella visione del mondo
cristiana, basata su Platone e su Aristotele. Democrito, Epicuro e Lucrezio erano
stati epurati, oserei dire, dal Logos apollineo e dionisiaco cristiano, poiché essi
appartenevano ad un’altra visione: una visione atomistica, materialistica, anti-
indoeuropea propria del Logos di Cibele, che riappare nel contesto del
Rinascimento. Si tratta di una corrente filosofica respinta, estromessa, che nel
Rinascimento riappare e diventa dominante. Nella mente dell’uomo rinascimentale
avviene un cambiamento paradigmatico che apre la strada al ritorno del Logos di
Cibele. L’atomismo di Democrito, respinto dalla cosmologia cristiana, negato nella
versione cristiana della struttura del cosmo, riapparire con Newton, Gassendi,
Boyl, Descartes, Hobbes. Non è un caso che Marx, il più moderno filosofo del XIX
secolo, abbia dedicato la sua tesi di laurea alle filosofie della natura di Democrito e
di Epicuro, a questioni cioè molto antiche legate alla materia, all’atomismo,
all’evoluzione. Anche il tema darwiniano dell’evoluzione è presente in questi autori
antichi, nello specifico in Lucrezio che nel De rerum natura postulava una teoria
antesignana dell’evoluzionismo incentrata sulla lotta per la sopravvivenza delle
specie – generate da Venere, dalla Sacra Madre – come molla per l’evoluzione. In
questi antichi autori è presente una commistione tra aspetti scientifici e mitologici,
ma si tratta pur sempre di una mitologia materialistica, ctonica, cibeliana.
La distruzione della verticalità, del vecchio ordine, della vecchia dottrina medievale
e dell’insegnamento cristiano, coincide con l’affermazione di una nuova visione del
mondo fondata su di un’ideologia cibeliana strettamente materialistica e
immanentistica. Non vi è alcun Paradiso, né Dio trascendente; esiste solo una
sostanza da cui tutto nasce e si sviluppa, e questo sviluppo non ha alcuna causa
finale, al contrario rappresenta un processo immanente che non tende ad alcun
punto attrattivo poiché l’immensa sostanza immanente ha fine in sé stessa. Ciò si
riflette nella rivoluzione copernicana: nel passaggio dal geocentrismo
all’eliocentrismo la Terra perde il suo ruolo di centro dell’Universo essendo luogo
naturale per l’incarnazione di Dio, e diventa un semplice corpo celeste in una
infinita rotazione senza fine ultimo attorno ad una palla infuocata insieme ad un
numero infinito di altri corpi celesti. Tutto diventa relativo. Lo spazio è permeato
da disordine e caos.
4. La politica moderna
All’idea imperiale succede una visione atomistica, con lo Stato nazionale come
atomo sociopolitico privo di qualsiasi fine. Lo Stato moderno si distingue
dall’Impero precisamente per questo: esso è privo di una causa finale, nega la
missione catecontica e la sacralità dell’Impero. Lo Stato moderno, secondo le
definizioni di Jean Bodin o Thomas Hobbes, viene creato dal basso con un contratto
sociale; sicché esso non è il riflesso di un paradigma celeste con una ragione finale,
ma una costruzione che procede dal basso con unicamente una causa anteriore
nella forma del contratto sociale stipulato dagli individui. Ma lo Stato moderno non
è solo rivolto contro la missione imperiale; esso è di natura secolare, per cui nega
qualsiasi senso religioso alla costruzione politica stessa. Tollera la presenza della
Chiesa (cattolica, protestante, ortodossa) ma separandola dalla sfera politica. Ci
troviamo pertanto difronte ad una concezione completamente differente della
politica. È rivelatore che in Hobbes lo Stato venga rappresentato simbolicamente
dal «Leviatano». Lo Stato moderno è il serpente, il drago emerso dal basso al fine
di distruggere tutto ciò che è sacro. Ed esso appare precisamente in epoca
rinascimentale, insieme alla visione scientifica moderna. Lo Stato nazionale
moderno è in definitiva anticristiano, antitradizionale, antieuropeo, antiapollineo e
antidionisiaco. In breve, rappresenta una costruzione puramente titanica.
Anche la nazione è un concetto che nella sua accezione moderna appare nel
Rinascimento. Essa designa la popolazione che vive all’interno dello Stato
nazionale, cioè la comunità dei cittadini, degli individui che hanno stipulato il
contatto sociale, e che potrebbero ridefinire la nazione stessa stipulandone uno
nuovo e diverso. Ad esempio, i cittadini del Belgio potrebbero realizzare ad un
certo punto di non voler più vivere nel Belgio e di volere al suo posto uno Stato
fiammingo e uno vallone; essi ne avrebbero tutto il diritto, poiché lo Stato belga
non è il riflesso di un’istanza trascendente ma il risultato di un contratto sociale
che, come è stato concluso, così può essere emendato o sciolto. Sicché la nazione
in questo contesto costituisce un qualcosa di assolutamente artificiale.
È comunemente accettato che la figura del borghese appartenga al terzo Stato (in
francese: tiers état), corrispondente alla terza funzione duméziliana e chiamato
così perché prima della rivoluzione francese in ordine di importanza veniva dopo i
primi due, ossia clero e aristocrazia, corrispondenti alle prime due funzioni. Vi è qui
un malinteso. Il borghese, letteralmente «abitante del borgo», nasce tipicamente
come mercante che vive in città. Ma questa figura era assente nella società
nomade turanica ed era del tutto marginale nella tradizionale società indoeuropea
sedentarizzata, essendo la terza funzione assolta rispettivamente dai pastori
mandriani (nella società nomade) o dai contadini (nella società sedentarizzata),
come abbiamo visto nella terza e nella quarta lezione. La figura normativa del
borghese è dunque nuova. È sbagliato affermare che il borghese rappresenti la
terza funzione tradizionale che sopraffà la prima e la seconda, poiché il borghese
non è il tiers état in senso indoeuropeo.
Una parte della borghesia proveniva da altri gruppi etnici tenuti ai margini nella
tradizionale società indoeuropea, non appartenenti ad alcuna corporazione
tradizionale, ma il grosso era di derivazione contadina. Questo non è casuale. E
ora, grazie alla Noomachìa, siamo in grado di svelare il mistero noologico che vi si
cela dietro. Chi erano infatti i contadini europei? Come abbiamo visto nella quarta
lezione, i componenti della terza funzione della società indoeuropea
sedentarizzata erano i membri della civiltà di Cibele posti sotto il controllo
dell’orizzonte indoeuropeo. Ora, con il loro distacco da questa struttura di
controllo che rappresentava la peculiare società cristiana feudale verticale, le loro
origini cibeliane possono finalmente riemergere. Ciò corrisponde alla liberazione
del livello più profondo dell’identità europea contadina. I paesani che giungono in
città sono i latori di archetipi arcaici appartenenti all’antico inconscio collettivo
cibeliano che viene rianimato precisamente nel momento in cui ha termine il
Medioevo.
Tutte le teorie politiche elaborate nella tarda fase della Modernità sono
inestricabilmente connesse a questo sistema borghese.
La più importante glorificazione della figura del borghese viene fornita dal
liberalismo, la prima teoria politica moderna. Essa esalta l’idiota nel senso greco
del termine, cioè l’uomo spogliato da ogni forma di identità collettiva. Il liberalismo
è sin dall’inizio un «idiotismo».
Tale società inglese darà poi vita all’Impero britannico, in realtà un «impero anti-
imperiale». Per sviscerare meglio questo aspetto, sarà opportuno richiamare le
profezie del gigante dai piedi d’argilla e delle quattro bestie contenute nel libro di
Daniele (Antico Testamento). Nel settimo capitolo del suo libro, Daniele ha in sogno
quattro bestie, rappresentazione simbolica di quattro imperi che sorgeranno
cronologicamente rispetto al suo tempo: il leone (Babilonia), l’orso (Medo-Persia), il
leopardo (Grecia), la bestia terribile con dieci corna non incoronate (Roma). Questa
immagine dei quattro imperi possiamo porla in parallelo alla visione del gigante
quadripartito presente nel secondo capitolo, in cui il re Nabucodònosor ha in
sogno di un gigante con «la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre
e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte di creta»
(Daniele 2,32-33). In entrambe queste visioni possiamo vedere rappresentata una
transizione del Catéchon. Il quarto elemento, il ferro, rappresenta l’Impero romano
(incluse le sue continuazioni nella forma dell’Impero bizantino e la Terza Roma),
l’ultimo dei quattro imperi, il più radicale ma comunque tradizionale, quello in cui
nacque Cristo. Ad un certo punto della visione però, una pietra si stacca dal monte
«non per mano dell’uomo» e va battere contro i piedi della statua, i quali,
costituendo la parte più fragile del gigante dato che argilla e ferro non si
amalgamano, vengono frantumati; allora, l’intero gigante crolla. Daniele spiega al
re Nabucodònosor il significato della pietra che si stacca e «stritola il ferro, il
bronzo, l’argilla, l’argento e l’oro» nei termini seguenti: «al tempo di questi re, il Dio
del cielo farà sorgere un regno che non sarà mai distrutto e non sarà trasmesso ad
altro popolo: stritolerà e annienterà tutti gli altri regni, mentre esso durerà per
sempre» (Daniele 2,44). Daniele profetizza dunque l’avvento di un quinto regno,
fatto sorgere da Dio e che avrebbe distrutto i precedenti e sarebbe durato per
sempre. Sulla base di questa profezia, nel Seicento nasce un movimento religioso
millenarista inglese detto dei Quinto-monarchisti che sarà attivo per tutto il
periodo del Commonwealth di Cromwell (1599-1658); questa setta veniva
denominata in tal modo poiché vedeva in Oliver Cromwell colui che stava aprendo
la strada precisamente al quinto regno. Sicché i quinto-monarchisti appoggiarono
Oliver Cromwell, con la speranza che egli avrebbe riformato la società corrotta e
fatto così sorgere la Quinta Monarchia. In realtà l’Impero britannico, lungi
dall’essere il quinto impero della profezia di Daniele, il regno eterno di Cristo, ha
rappresentato l’anti-impero. Nella visione di Daniele, lo si potrebbe piuttosto
paragonare al quinto elemento della statua, all’argilla che conferisce fragilità al
gigante e a causa della quale esso cadrà: un elemento simbolicamente
anticristiano e post-tradizionale.
Abbiamo così visto come Francia e Inghilterra siano state le prime promotrici della
Modernità; per contro, il mondo latino e l’Impero austriaco gli hanno opposto
resistenza, insieme all’Impero ottomano – anch’esso caratterizzato da una società
di natura tradizionale – e alla Russia, che vi ha resistito più di tutti. Ma, con la
caduta degli imperi tradizionali e l’avvento degli Stati-nazione, lo spirito moderno
dilagherà ovunque – la creazione del moderno Stato russo è la fine della Russia!
Riassumendo, oggi stiamo vivendo nel mondo di Cibele, nel regno della Grande
Madre. Il momento della Noomachìa che stiamo attraversando è il momento della
vendetta dell’orizzonte esistenziale preindoeuropeo, che riemerge con la comparsa
artificiale della borghesia, con la distruzione degli imperi tradizionali che vengono
sostituiti da simulacri cibeliani nella forma degli Stati nazionali moderni, e con lo
sviluppo organico della visione del mondo scientifica moderna.
Ora siamo in grado di vedere con chiarezza come la Noologia, che inizialmente
sembrava forse eccessivamente astratta e metafisica, abbia in realtà a che fare con
la realtà viva in cui siamo immersi. Noi siamo parte di questa titanomachìa, di
questo conflitto, di questo scontro tra Logoi, e non possiamo chiamarcene fuori in
alcun modo dacché siamo definiti nel modo più assoluto da questo momento della
Noomachìa.
Possiamo comunque effettuare una breve analisi preliminare di cosa sia il Dasein serbo.
La terra di origine dei Serbi non è dunque corrispondente ai Balcani ma si trova più
a nord. Allo stesso tempo, si pone la questione della patria originaria, dell’Urheimat
degli Slavi, la quale è comunemente accettato fosse situata a nord dei Carpazi.
Quest’ultima non costituisce la diretta terra d’origine serba, ma la patria originaria
abitata dai protoslavi, che vivevano a nord dei Carpazi, nello spazio dell’attuale
Ucraina orientale. A seguito dell’espansione slava, una parte degli slavi migrò a
nord, sul Baltico, e tra questi vi erano gli Slavi Polabi, i quali dopo il V e VI secolo
rappresentarono la popolazione dominante sulle coste baltiche. Si presume che i
progenitori dei Serbi vadano rintracciati in una tra queste tribù polabe, nello
specifico tra i Ljutici, i Bodrici e i Lusaziani. Gli avi dei Serbi pertanto vivevano a
ovest rispetto alle altre tribù polabe. Da quel punto, successivamente, essi
migrarono nei Balcani orientali, e questo territorio fu loro riconosciuto e garantito
dall’impero bizantino, nel suo intento di difendere i confini dell’impero dagli Àvari.
1. Tradizione sarmatica
Il territorio abitato dagli Slavi Polabi era denominato Sarmazia ed era dominato
dalle tribù sarmatiche. Gli slavi erano dunque strettamente connessi con il popolo
iranico nomade dei Sarmati, da cui discese sostanzialmente la classe dominante
della società est-europea. Ritroviamo infatti tracce dei Sarmati alle radici
dell’aristocrazia polacca e baltica. Quando studiamo il tipo di società degli Slavi
Polabi, scopriamo che essi erano turanici nell’accezione che abbiamo dato a questo
termine nelle precedenti lezioni. Nello specifico, essi presentavano un carattere
fortemente bellicoso. Certo, conducevano attività agricole, ma l’agricoltura non era
particolarmente sviluppata; la loro principale caratteristica era un’attitudine
guerriera, unita ad uno spiccato senso di indipendenza che li rendeva intolleranti
nei confronti di qualsiasi dominazione esterna. Essi parlavano una lingua slava, ma
caratterizzata da molti elementi sarmatici. Non possiamo dire nulla di certo
sull’equilibrio che si venne a creare tra aristocrazia sarmatica e popolazione slava,
ma gli Slavi Polabi erano di tipo sarmatico, con un’importante presenza
dell’aristocrazia guerriera di tipo turanico.
I primi Serbi che arrivarono nei Balcani erano portatori di questo spirito sarmatico
e ciò ha influito sull’identità serba. Il peculiare carattere serbo si è formato a
partire dal tipo sarmatico e polabico, ed è per questo che in origine i serbi erano
considerati dei guerrieri. Quando essi invasero i Balcani, trovarono però una
società preesistente: la società tracica caratterizzata dalla commistione tra la
società indoeuropea trifunzionale e i resti del mondo agricolo preindoeuropeo
appartenente alla Grande Madre. Sicché i primi serbi giunti nei Balcani
assimilarono questo orizzonte esistenziale preesistente ed è con il completamento
della slavizzazione delle popolazioni traciche (e probabilmente anche pre-traciche)
che è infine emerso il particolare popolo serbo, un popolo che si differenziava dal
popolo bulgaro o macedone proprio per questa spiccata attitudine guerriera, che
risultava prevalente rispetto agli aspetti agricoli, aventi invece inizialmente un
ruolo totalmente secondario. Abbiamo pertanto a che fare con una società
prevalentemente aristocratica afferente alla tradizione iranica nomade e che aveva
inglobato le precedenti popolazioni dei Balcani.
La tradizione guerriera di tipo sarmatico – una tradizione per inciso molto stabile
nel tempo, che possiamo rintracciare finanche nel contesto del ventesimo secolo –
costituisce un punto di partenza molto importante per studiare l’identità è la
psicologia serba.
2. L’influenza bizantina
Il successivo elemento che ha dato forma all’identità serba è stata l’influenza della
cultura bizantina, dal momento che i serbi vivendo sotto la protezione di Bisanzio
vennero cristianizzati, abbracciando il Cristianesimo nella sua forma orientale.
Questo fattore – la tradizione bizantina ortodossa, che come abbiamo visto nelle
precedenti lezioni non è riducibile unicamente al culto ma concerne ambiti politici,
culturali e sociali – ha avuto una notevole influenza sulla cultura e l’identità della
Serbia, e ha presentato una certa continuità nella sua storia, essendo chiaramente
visibile dalla Serbia balcanica delle origini fino ai giorni nostri. La forma di
Cristianesimo che abbracciano i serbi è però slavica – la cristianizzazione avviene
nel contesto della Grande Moravia con i santi Cirillo e Metodio inviati
dall’imperatore bizantino Michele III intorno all’863, i quali tradussero i testi sacri in
antico slavo ecclesiastico, e ciò costituisce la più antica testimonianza della
letteratura slava.
Ma cosa nello specifico è stato incluso? Abbiamo già parlato del livello
corrispondente alla tradizione indoeuropea patriarcale legato all’orizzonte
esistenziale pre-serbo tracico, rinforzato dalla discesa dei primi serbi portatori
della medesima struttura verticale – struttura peraltro simile a quella che i serbi
incontrano entrando in contatto con la tradizione greco-bizantina. Serbia
precristiana, Tracia, Bisanzio, costituiscono una sorta di livello indoeuropeo. Ma
accanto ad esso, vi è un altro livello costituito dalla tradizione paleo-europea,
dall’orizzonte preindoeuropeo che qui è estremamente potente – essendo i Balcani
la terra madre della civiltà matriarcale –, molto più che nel nord Europa, nella
Serbia Bianca, dove sono presenti meno elementi di tipo matriarcale, provenienti
soprattutto dalla cultura di Cucuteni-Trypillian. L’identità serba di recente
creazione ha dunque integrato anche una dimensione matriarcale. Non possiamo
dire con certezza quanto profonda quest’influenza matriarcale sia stata, ma essa vi
è stata di certo e si è riflessa in alcune tradizioni contadine, in certe pratiche
femminili di lavorazione della terra, in storie e canti folkloristici, e così via, che
dobbiamo identificare con maggior precisione se vogliamo avere un’immagine
concreta del livello più profondo dell’identità serba.
Con i Nemanjić nell’XI secolo viene creato il Regno di Serbia, un regno nel solco
bizantino – basato dunque sulla «sinfonia dei poteri», l’alleanza tra Imperatore e
Patriarca – ma che riproduce allo stesso tempo il modello bulgaro – i bulgari sono
stati i primi ad affermare un regno slavo e una specifica e autonoma chiesa. La
Grande Moravia, entrata in declino all’inizio dell’VIII secolo, era ormai caduta, e il
tempo della Russia non era ancora giunto; così, i due pretendenti alla creazione di
una qualche indipendente Cristianità slava in senso bizantino erano gli imperi
bulgari (primo e secondo) e il Regno di Serbia, con i Nemanjić e san Sava. La
creazione del Regno di Serbia e del Patriarcato serbo di Peć ha rappresentato
l’accettazione della missione catecontica da parte dei serbi. La prima
rivendicazione ad essere Catéchon è dei bulgari, con la costituzione del Primo
Impero Bulgaro; dopo costoro, sono i Nemanjić a rivendicarlo con la costituzione
dello Stato serbo, atta a ereditare il patrimonio bizantino e a trasferire la missione
universale del Catéchon dell’Impero bizantino, la missione ortodossa bizantina, al
mondo slavo. Con i Nemanjić vi è l’ascesa della tradizione catecontica serba basata
sulla sinfonia tra il Re di Serbia e il Patriarca serbo. Ciò ha influito sull’identità
serba in tutto il periodo successivo.
Con l’elevazione di san Sava sul soglio vescovile, venne a formarsi la Chiesa
ortodossa serba distaccandosi da quella bulgara. Fece così il suo ingresso in Serbia
la tradizione monacale legata al Monte Athos e tutta la tradizione metafisica
dell’ortodossia mistica spirituale di cui san Sava era il latore venne posta al centro
dell’«illuminazione serba» – San Sava è stato il fondatore dell’autocefala Chiesa
ortodossa serba e per questo motivo è detto «ὁ φωστὴρ τῆς Σερβίας»
(l’illuminatore della Serbia). Parallelamente, venne a costituirsi il Regno di Serbia,
già sotto i Nemanjić considerato un proto-impero che faceva sua la missione
catecontica universale del Re e poi dello Zar e, per estensione, del popolo – Zar,
Chiesa e popolo formano un’unità catecontica. La Chiesa ortodossa serba e il
concetto di sacro Regno di Serbia come Catéchon rappresentano l’organizzazione
della prima e oserei dire più grande forma di Logos serbo. Con i Nemanjić, san
Sava, il Patriarcato di Peć, viene fondato il Logos Serbo. Questo periodo è stato il
punto più alto della storia di Serbia. Nel Regno dei Nemanjić, nella tradizione
religiosa con San Sava, nel popolo serbo come popolo catecontico con la missione
di lottare contro le tenebre insieme allo Zar, al Re, il Dasein immanente serbo erige
il proprio Logos. Niente di comparabile a ciò esiste nella storia serba.
Il culmine di questo processo si raggiunge nel XIV secolo con l’Impero serbo (1346-
1371) fondato da Dušan il Forte. L’Imperatore Dušan il Forte raddoppiò l’estensione
del suo precedente regno arrivando a controllare sostanzialmente l’intero
territorio dei Balcani e la maggior parte della Greca, incluso il Monte Athos. E
sebbene il suo impero non sia durato a lungo, è durante l’epoca di Dušan il Forte
che si realizza concretamente questa tradizione messianica. Sotto Dušan il Forte lo
sviluppo del Logos serbo iniziato con la dinastia Nemanjić raggiunge il suo apice. Il
Logos serbo, formatosi dal punto di vista intellettuale, spirituale e religioso
all’inizio della dinastia Nemanjić, raggiunge la sua piena manifestazione al tempo
di Dušan il Forte.
Se si volesse collocare nel tempo e nello spazio il Logos serbo, si potrebbe dunque
affermare che esso sia sorto nei territori costituenti il Regno di Serbia e poi
dell’Impero serbo durante la dinastia Nemanjić. Tutto ciò che è esistito prima dei
Nemanjić ha rappresentato una sorta di introduzione, di prolegomeno al Logos
serbo. Tutto ciò che è esistito dopo Dušan il Forte ne ha costituito una
continuazione, una sorta di eco in cui è risuonato.
La battaglia fu catastrofica. La Serbia perse gran parte della sua élite politica e
militare e, dopo diverse altre battaglie minori, con l’annessione del Regno di Serbia
da parte degli ottomani, la sua indipendenza. Ma in un certo senso la battaglia
della Piana dei Merli ha rappresentato al contempo una grande vittoria, in cui si
riflette pienamente la tradizionale etica sarmatica: cadere in battaglia al fine di
diventare immortale, morire al fine di vincere. La principale lezione di questa
battaglia è che è preferibile essere sconfitti con Cristo che vincere con Satana. E
quando leggiamo la canzone di questa battaglia, vediamo la glorificazione non solo
dell’umiltà ma anche del grande coraggio dei serbi. Essi hanno combattuto fino alla
fine, distrutto tutto ciò che hanno potuto, incluso il capo dell’esercito ottomano. La
decisione presa da Re Lazzaro è stata una scelta del tutto cristiana, sarmatica,
indoeuropea, il compimento della missione catecontica. La battaglia della Piana dei
Merli è stata eroica. Essa ha rappresentato la lotta contro l’Anticristo, conclusasi
con l’«assunzione» della Serbia stessa, dalla Serbia terrena alla Serbia celeste, e
con la sconfitta terrena dinanzi all’Anticristo. Dopodiché, è giunto l’Inferno.
4. L’Impero ottomano
Il successivo periodo della storia serba può dunque essere definito infernale nel
vero senso della parola. L’essenza di questo periodo è stata la preservazione
dell’identità serba agli inferi. I serbi non hanno tradito la loro identità
convertendosi all’Islam, accettando il dominio della potenza ottomana dominante,
ma hanno conservato soffrendo la loro profonda identità cristiana, ortodossa,
slavica forgiatasi durante la dinastia Nemanjić.
La storia serba successiva alla sconfitta di Re Lazzaro è una storia di una estrema
sofferenza in un inferno storico durato secoli. Ma il punto fondamentale è che
questa drammatica sofferenza non è stata priva di senso. Al contrario, essa ha
rappresentato un’altra prova divina, un nuovo test escatologico per il popolo serbo
che ha posto le basi per la susseguente rinascita. È stato un processo di morte
volto alla resurrezione del Logos serbo.
5. Il periodo dell’indipendenza
Il successivo momento nella storia serba è precisamente quello in cui si presenta
l’opportunità di liberazione del popolo serbo dal giogo ottomano. Ciò ha costituito
una nuova sfida per il Logos serbo.
Una parte della tradizione serba arcaica che era imperiale, monarchica, ortodossa,
che conservava gli elementi del vero e profondo Logos serbo ed era in diretta
connessione con lo stesso Dasein serbo, ha continuato ad essere presente fino alla
fine del dominio ottomano e ha costituito una grande fonte di ispirazione per
personaggi come Karađorđe Petrović e Miloš Obrenović, a capo rispettivamente
della prima e della seconda rivolta serba contro i turchi. Precisamente in costoro si
è manifestato questo spirito, volto alla restaurazione del Regno di Serbia, della
Grande Serbia seguendo l’esempio dei Nemanjić, affinché il Logos serbo potesse
risorgere dopo il drammatico periodo di sofferenza sotto gli ottomani.
L’insurrezione del popolo serbo contro la dominazione ottomana iniziò nel 1804
con la prima rivolta serba (1804-1813) e si concluse nel 1817 con la liberazione della
Serbia centrale al termine della seconda rivolta serba (1815-1817). Questi eventi si
svilupparono però in un’epoca particolare: l’Era Moderna, dominata come abbiamo
visto nella precedente lezione dal Logos di Cibele. In Occidente era già pienamente
dominante la moderna visione del mondo e in essa non vi era posto per un tipo di
Logos apollineo come quello serbo, caratterizzato dai valori della tradizione
cristiana ortodossa, dai valori eroici guerrieri, dalle idee di impero, Czar, e così via.
Tutto ciò era stato già discreditato e distrutto in Occidente. Ciò avrà delle
conseguenze anche in Serbia, come vedremo ora.
Sono diversi i Logoi che hanno preso parte al processo di liberazione serbo. Oltre
alla profonda identità catecontica risalente alla dinastia Nemanjić, al puro Logos
serbo, e alle influenze di un Logos russo ortodosso molto affine a quello serbo, con
lo stesso tipo di opposizione all’Occidente, abbiamo appena visto come vi fossero
influenze provenienti dall’Europa occidentale. Questa commistione, questo
sostrato culturale alla base del processo di liberazione serbo, ha generato un
fenomeno che io chiamo «archeomodernismo». Mentre in Europa occidentale
Modernità e Tradizione sono mutualmente escludentisi, e durante la storia recente
osserviamo una crescita di elementi moderni accompagnata da un progressivo
declino della Tradizione, nell’archeomodernismo Tradizione e Modernità, arcaismo
e modernismo, coesistono in un modo davvero malato e perverso. Ciò ha dato
luogo ad una società del tutto schizofrenica; qualcosa di simile a ciò che successe
in Russia dopo Pietro il Grande.
6. La Jugoslavia
Alla fine della prima guerra mondiale, per la precisione il primo dicembre 1918, fu
fondato il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni. Nel 1929, con un colpo di
Stato, il re Alessandro I avocò a sé tutti i poteri e cambiò il nome del Paese in
Regno di Jugoslavia. La Jugoslavia presentava due letture contraddittorie; la
maggior parte dei serbi vi videro la restaurazione della Grande Serbia, ma allo
stesso tempo essa presentava una ideologia modernista e dominavano in essa
elementi borghesi, materialistici, commerciali, egoistici in senso liberale o
nazionalistico – qui è visibile pienamente la commistione archeomodernista che
caratterizzava la società jugoslava. E ogni polo, ogni componente della Jugoslavia
aveva una sua lettura della situazione – per i serbi essa rappresentava una vittoria,
verosimilmente per i cetnici radicali rappresentava il ritorno alla Rus, il
compimento della missione catecontica, mentre per altri ha rappresentato
semplicemente una convenzionale confederazione multi-nazionale organizzata per
ragioni puramente pragmatiche o materialistiche legate agli interessi della
borghesia.
In questa sconfitta vi è però qualcosa di positivo. La guerra del Kosovo è stata una
battaglia per la luce, e ogni eroe serbo che ha dato la sua vita per difendere la
Jugoslavia si è sacrificato per la causa di questo Logos solare, per la sua profonda
missione catecontica. Essi hanno investito il sangue e la vita in questa identità
serba e ciò non può svanire senza lasciar tracce. La guerra del Kosovo è stata la
continuazione del modo serbo di stare al mondo, di fare la storia, e ha gettato le
basi per la futura resurrezione, per un reale escatologico catecontico futuro serbo.
7. Epilogo
Qual è lo stato attuale del Logos serbo? Dove si trova oggi? Esso è qui, nel popolo
serbo, nell’identità serba, nello spazio serbo, nella cultura serba.
Il Logos serbo ha ricevuto una sconfitta. Una sconfitta che va prima di tutto
compresa, interpretata correttamente prima di spingersi oltre nella storia serba.
Oggi il problema che ci troviamo ad affrontare con il Logos serbo è
sostanzialmente lo stesso che abbiamo con altre forme di Logos apollineo e
apollin-dionisiaco. Ha avuto e sta avendo luogo una vasta battaglia su scala
planetaria, un conflitto globale che vede tutti o quasi perdenti – forse con le
eccezioni di Russia, Siria, Iran che sembrano continuare a resistere. Ma le forze
dominanti, quelle stesse forze che hanno sopraffatto la Serbia, non sono
semplicemente costituite dalle potenze occidentali o dagli Stati Uniti.
Rappresentano qualcosa di più profondo. E tuttavia, in questa situazione di
estrema difficoltà, non dovremmo agire con disperazione, poiché il ritorno di
Cibele, della Grande Madre a cui queste forze oscure fanno capo, è paragonabile
alla venuta dell’Anticristo o alla liberazione di Satana dagli abissi, e ciò è stato
pianificato. Dio ha lasciato che succedesse perché ciò rappresenta verosimilmente
la prova finale per noi.
Questo è dunque il momento di coltivare il Logos serbo. Voi serbi avete avuto due
possibilità di recente: la creazione della prima Jugoslavia e il risveglio nazionalista
di Milošević. Entrambe sono state perse, ma è probabile che dinanzi a voi ve ne sia
un’altra. Finché ci sarà una tradizione viva, finché ci sarà un Dasein serbo vivo, ci
sarà sempre la possibilità di difendere la pura forma del Logos serbo contro questi
attacchi e nulla sarà ancora perduto.
Possiamo dire che la Serbia di oggi rappresenti un simulacro della vera Serbia. Un
simulacro archeomodernista, in parte arcaico e in parte perverso, caricaturale.
Pertanto, anzitutto dobbiamo risolvere questo problema restaurando l’autenticità
serba, il puro Stato che si nasconde dietro il simulacro, estraendone il grano di
verità. Ad oggi vi è uno Stato serbo, che è già qualcosa; forse un po’ goffo,
nondimeno esso esiste, e va visto come un’opportunità. Certo, di per sé non è una
risposta. Ma la sua esistenza rappresenta un valore positivo. Il popolo serbo, la
tradizione serba, la cultura serba, il retaggio serbo, lo Stato serbo, la Chiesa serba.
Tutto ciò ad oggi esiste e non è poco.
La battaglia che ci attende è una battaglia spirituale. Gli aspetti materiali sono
secondari in questo conflitto. Non si tratta di uno confronto nucleare, in cui conta
la massa materiale degli armamenti. È una battaglia per l’umano stesso che oggi
sta diventando inumano. Una lotta che avviene anzitutto al nostro interno, dacché
il Logos è dentro di noi. Non è qualcosa che ci viene imposto da fuori. Il Logos vive
dentro di noi e agisce attraverso di noi.
Penso che il popolo serbo sia stato scelto per preservare questa identità fino alla
Fine dei Tempi. E per riemergere negli ultimi istanti della storia prendendo parte
all’ultima, generale, universale «battaglia del Kosovo» dalla parte di Dio, di Cristo,
del Logos di Apollo, al fine di edificare l’impero universale della luce, di Cristo, la cui
prefigurazione è il Regno dei Nemanjić e di Dušan il Forte.
LEZIONE 10. LA NOOMACHÌA NEL XXI SECOLO
L’ultima lezione di questo corso introduttivo alla Noomachìa [1] sarà dedicata
I
[4] Cfr. Aleksandr Dugin, Il Sole di Mezzanotte. Aurora del Soggetto Radicale, AGA Editrice,
2019: «Secondo Réne Guénon, il mondo della Tradizione, che noi difendiamo, amiamo e
sosteniamo, coincide con la fase in cui l’Uovo del Mondo è aperto dall’alto e il principio
divino interagisce fluidamente con il mondo terreno. […] Guénon paragona materialismo e
Illuminismo (i Tempi Nuovi) alla chiusura dell’Uovo del Mondo dall’alto. […] Alla fine del XX
secolo inizia una terza fase, in cui l’Uovo del Mondo si apre dal basso. Il postmoderno
corrisponde esattamente a questo stadio. […] Quando l’Uovo del Mondo è aperto, l’uomo è
più-che-uomo, portatore do Divino, una coppa aperta della Divinità; nell’epoca della sua
chiusura, è il soggetto di una “tragedia ottimistica”, dotato di una gamma di sentimenti e
la morte come destino esistenziale – ma resta pur sempre un uomo. È destinato a essere
sostituto da qualcosa di più terribile, dal post-uomo – orinatoio del demonio, campo di
battaglia delle orde di Gog e Magog. L’uomo (o, meglio, il post-uomo) non contiene più Dio
ma un complesso diabolico, una legione di demoni, ognuno dei quali intona una propria
melodia, del tutto slegata dalle altre; in questa cacofonia di urla, lamenti e stridori casuali
nasce la civiltà globale, il nuovo ordine mondiale.» [NdT]
[7] Cfr. Aleksandr Dugin, Il Sole di Mezzanotte. Aurora del Soggetto Radicale, op.cit.: «La
postmodernità è la Mezzanotte. La modernità corrisponde alla sera, al tramonto del Sole: vi
sono ancora residui del mondo tradizionale, della luce, della soggettività, della razionalità
e dell’interezza. Esistono famiglie, società, Stati e uomini. Nella postmodernità tutto ciò
viene soppiantato da dividui, cyborg, ed entità post-umane. Al posto della realtà c’è la
virtualità; al posto dell’intelligenza, l’Intelligenza Artificiale; al posto dell’uomo, il post-
uomo; al posto del razionalismo moderno, la schizofrenia di Deleuze e Guattari. È una
società liquida (Baumann) in cui tutto si dissolve. In realtà, non è nemmeno una società, ma
una distruzione caotica delle strutture che sprigiona una gran quantità di energia, subito
dissolta in un processo entropico. È un’ininterrotta caduta verso il basso. Il Sole di
Mezzanotte sorge solo al culmine di questo processo discendente. […] Il giorno è Apollo –
verticalità, razionalità; qui vige un ordine preciso, le cose sono ben definite. Quando scende
la notte, l’ordine si dilegua. Entriamo così in un luogo senza luce, in cui il Sole non domina
più. […] Il Sole di Mezzanotte è più essenziale e profondo di quello diurno. Quest’ultimo può
esistere solo di giorno, seduto sul suo trono; al crepuscolo, muore. Il Sole di Mezzanotte,
invece, sopravvive alla morte. Non coincide con il Sole diurno ma, per così dire, brilla
occultamente al suo interno, sopravvivendo anche alla sua negazione.» [NdT]
[8] Cfr. Aleksandr Dugin, Radikal’nyj sub’ekt i ego dubl’ (Il Soggetto Radicale e il suo
doppio), Evrazijskoe dvizhenie, Mosca 2009. Trad. italiana: Soggetto Radicale – Teoria e
fenomenologia, AGA Editrice, 2019: «È un soggetto che non perde la propria
soggettività, né quando è sostenuto dalle condizioni assolute dell’esistenza e del
mondo, né in condizioni diametralmente opposte. Il Soggetto Radicale è una
fiamma che arde sia quando il fuoco è acceso, sia quando è spento. Nemmeno
quando la fiamma è estinta egli cessa di ardere. […] Il Soggetto Radicale è
vincitore di Dio, ma anche del nulla, nel senso che, pur provocando l’arrivo della
Fine dei Tempi, non vi s’identifica. Pur facendo formalmente parte dei collettivi
demoniaci di cui è saturo il mondo prima dell’apocalisse prossima ventura, il
Soggetto Radicale mantiene una differenza ontologica fondamentale, radicale e
terribile. È un uomo differenziato (Evola), un uomo integrale.» [NdT]