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Alexander Dugin

Noomachìa è un progetto fondato su un peculiare approccio filosofico-metafisico:


la Noologia.

1. Noologia come scienza della molteplicità del pensiero umano


Il termine Noologia designa una nuova disciplina filosofica. Noologia è un
neologismo derivante da due termini greci: νοῦς (“nous”) e λόγος (“logos”). Logos
indica la parola, il discorso o l’indagine. Quindi, la Noologia è la disciplina che
studia il Nous. Ma cos’è il Nous? Lo si può tradurre con mente o intelletto, o ancora
coscienza. Un qualcosa che giace nelle profondità della mente umana. Sorge
dunque spontanea la domanda: cosa si intende per umano?

L’uomo è un essere che si differenzia da ogni altro nel mondo per una sola cosa: il
pensiero. Ogni altra qualità è condivisa con gli altri esseri viventi, ma il pensiero
costituisce un’esclusiva dell’essere umano, il quale può essere quindi definito come
una creatura pensante o essere pensante. Di conseguenza, il pensiero è per
definizione umano. Tutti i viventi hanno un corpo e diverse istanze ad esso
correlate (tutti proviamo dolore fisico, piacere fisico, e così via), ma nessuna
creatura eccetto noi nel mondo vivente dispone di un intelletto ed è in grado di
pensare. Il pensiero o Nous, allora, costituisce l’essenza dell’uomo. Tutti gli altri
aspetti della vita sono comuni all’uomo quanto alle altre creature ma il pensiero,
l’intelletto, è un aspetto unico dell’uomo ed è ciò che ci rende umani. Essere un
umano significa essere una creatura pensante. Così, il Nous è la radice più
profonda dell’essere umano, dell’umanità. Noi siamo umani perché vi è in noi il
Nous.

Quindi indagare sul Nous – Noologia – significa esplorare non un tipo di oggetto
alienato ma noi stessi. Riflettere sul Nous significa riflettere su noi stessi, sulla
nostra più profonda natura. Non si tratta di qualcosa di astratto, bensì di una sorta
di introspezione volta a conoscere le più remote profondità del nostro essere,
l’essenza dell’uomo.

Possiamo presentare l’essere umano sotto diversi punti di vista. La Noologia


presenta l’uomo dal punto di vista della sua essenza. Si tratta in definitiva dello
studio del pensiero propriamente detto.
La Noologia costituisce anche la base filosofica del multipolarismo poiché l’idea
sottostante la Noologia è che non esiste un solo tipo di intelletto comune a tutta
l’umanità, un solo pensiero universale, ma ve ne sono diversi. Quando cerchiamo
di studiare accuratamente il Nous, l’intelletto, il pensiero, scopriamo quanto il
processo del pensiero dipenda dalla cultura. Se ci si muove nel contesto di una
determinata cultura, si pensa in un modo. Se si appartiene ad un’altra cultura, ad
un altro gruppo etnico, ad un’altra religione, ad un’altra generazione, si pensa in un
modo completamente differente, pur essendo sempre un essere umano (serbo,
russo, francese, inglese, cinese, africano, e così via). L’appartenenza a differenti
culture, differenti spazi e differenti epoche, fa sì che si pensi in modo diverso.

Così, se vogliamo studiare il nous dobbiamo tener conto di queste differenze.


Senza prendere in considerazione queste ultime, non potremo mai giungere
all’essenza del Nous. Se ad esempio noi russi presumessimo che il nostro modo di
pensare sia comune a tutti e che basti studiare il nostro pensiero per giungere
all’essenza del Nous, saremmo in errore: in questo modo conosceremmo solo una
parte del tutto giacché i croati, gli albanesi, gli inglesi, i francesi, i cinesi, gli africani,
i musulmani e così via, pensano in modo differente, non solo in merito ad aspetti
secondari ma in relazione alla natura stessa dell’uomo. Si tratta di diversi modi di
pensare la vita, la morte, la famiglia, il sesso, la storia, il tempo, lo spazio, la realtà
divina così come quella terrena, ogni cosa.

La Noologia rappresenta dunque una sorta di fenomenologia dell’intelletto. In altri


termini, noi non prescriviamo come o cosa il Nous dovrebbe essere; cerchiamo al
contrario di esplorare e di vedere come esso è, come il pensiero opera e si
presenta nei diversi contesti. Questo riconoscimento delle differenze senza alcuna
prescrizione normativa su come l’uomo dovrebbe normalmente pensare
costituisce la peculiarità della Noologia. Il nostro approccio non implica
un’omogeneizzazione, un’imposizione di qualcosa come universale ma consiste nel
comprendere al meglio, il più approfonditamente possibile, le differenze. Proprio
per questo, la Noologia è dedita allo studio non della cultura ma delle culture
concrete: la maggior parte dei miei libri costituenti il progetto Noomachìa è
dunque dedicata alle diverse forme culturali, dal Logos francese al Logos inglese,
dal Logos esteuropeo al Logos russo, dal Logos americano al Logos cinese, iraniano
e così via.
Solo studiando le diverse culture, ricavandone la quintessenza, possiamo giungere
ad una visione del pensiero umano che sia completa, e non parziale come quando
si presuppone che l’essere umano debba conformarsi al modello dell’uomo
moderno, europeo, bianco, materialista e liberale. Quest’ultimo è l’espressione
tangibile della civiltà europea anglosassone. Ma questa è una realtà delimitata
nello spazio e nel tempo; essa non è universale, rappresenta solo il modo
anglosassone di sviluppare la propria storia. Se ci spostiamo nell’Europa orientale,
nel mondo slavo, russo, cinese o islamico scopriamo che gli uomini non seguono lo
stesso percorso è che ognuno segue una strada differente, la propria.

L’essenza della Noologia è il riconoscimento della pluralità delle culture. Pluralità


significa che non vi è solo un percorso di sviluppo universale e normativo del
pensiero. Vi sono differenti manifestazioni del Nous, così diverse e così particolari
che occorre studiare attentamente ciascun caso specifico – serbo, russo, tedesco,
francese, ecc. – non per creare una gerarchia tra casi più o meno sviluppati ma per
arrivare ad una comprensione profonda di come ciascuno pensa nei differenti
contesti, comprensione volta al raggiungimento di una conoscenza totale del Nous.

2. Noologia come analisi multilivello


La Noologia, lo studio del Nous, si fonda su un’analisi multilivello. Nella Noologia
adoperiamo concetti afferenti alla:

• filosofia, la quale rappresenta lo specchio del pensiero. Nella filosofia tutto è in


contatto, tutto è presente simultaneamente e leggendo la storia della filosofia noi
leggiamo la storia dell’umanità poiché pensare significa essere umano e i filosofi
dedicano tutta la loro vita al pensiero, cioè all’essenza dell’uomo, al suo obiettivo
principale;

• storia delle religioni, anch’essa molto importante per la Noologia dal momento
che la religione si basa sulle premesse del pensiero. Senza conoscere le differenti
religioni non potremmo comprendere la Noologia in quanto la religione è
anch’essa lo specchio del pensiero: in essa proiettiamo le nostre concezioni della
realtà divina, della ragione per cui siamo stati creati, della fonte della creazione,
degli dèi, del tempo e molto altro ancora, e tutto ciò riflette la struttura stessa del
Nous;

• geopolitica, la quale rappresenta la concretizzazione delle civiltà, una sorta di loro


generalizzazione. Se ignoriamo la posizione geopolitica di un filosofo, non
potremmo comprendere davvero cosa egli intenda dire poiché noi veniamo definiti
non solo da tradizioni filosofiche e religiose ma anche dalla nostra posizione nel
mondo. Il nostro modo di pensare dipende dalla nostra posizione geopolitica: chi
appartiene ad una civiltà talassica pensa in modo differente da chi appartiene ad
una civiltà tellurica; la posizione sulla mappa geopolitica del mondo è allora
fondamentale per interpretare realmente il pensiero e ciò rende lo studio di
questa disciplina imprescindibile;

• storia del mondo: la conoscenza della storia di tutti i popoli e le culture della terra
costituisce un tema centrale per la Noologia;

• sociologia, la disciplina che mostra quanto il modo in cui si presenta il nostro


essere sia definito dalla società. Acquisendo contezza di quanto la società e i suoi
princìpi sono presenti dentro di noi, scopriremo che la nostra individualità, la
nostra originalità è prossima allo zero, è quasi inesistente. Praticamente tutto in
noi proviene dalla società, ogni nostra idea: quando diciamo “io sto pensando
questo”, in realtà non siamo noi a pensarlo, ma la società attraverso di noi;

• antropologia, in particolare la scuola di antropologia moderna fondata da Franz


Boas e Claude Lévi-Strauss. L’antropologia moderna mostra come le tradizioni
etniche, le condizioni di vita, la natura e la cultura nonché il rapporto e l’equilibrio
tra queste definiscano i valori della società e le differenze che intercorrono tra
società diverse. Tutte le scuole di antropologia del XIX secolo si basano sulla teoria
evolutiva, e ciò implica una classificazione tra società sviluppate e società non
sviluppate. La scuola di antropologia moderna mostra al contrario che una simile
concezione evolutiva della società non ha fondamento: vi sono certamente
differenze ma, studiando le società arcaiche, scopriamo che alcune di esse sono
più complesse della nostra; esse non possono dunque in alcun modo essere
definite sottosviluppate in quanto non rappresentano uno stadio infantile della
stessa cultura ma uno stadio più o meno maturo relativo a differenti culture, che
dobbiamo studiare molto attentamente senza proiettare le nostre idee e
considerazioni su di esse. Questa è una conquista molto importante
dell’antropologia moderna e costituisce uno dei princìpi fondamentali della
Noologia e del progetto Noomachìa;

• etnosociologia, la quale mette insieme etnologia e sociologia;

• teoria dell’immaginazione. Consiglio fortemente la lettura dei libri di Carl Gustav


Jung, Gaston Bachelard ma soprattutto i libri di Gilbert Durand sulla sociologia
dell’immaginazione, che nel prosieguo di questo corso cercherò di spiegare
brevemente in cosa consiste (ho conseguito un dottorato su questo). Ciò è
estremamente importante; i suoi metodi e i suoi insegnamenti saranno usati nel
nostro corso come una specie di base metodologica;

• fenomenologia, la cui legge fondamentale, sviluppata da Edmund Husserl, Martin


Heidegger e altri filosofi appartenenti alla stessa linea di pensiero, asserisce che le
idee a cui noi pensiamo, così come tutte le qualità di un oggetto, esistono nella
nostra mente. Ciò che l’oggetto è al di là la nostra mente rappresenta qualcosa che
possiamo solo supporre ma di cui non vi è evidenza; di più, l’esistenza o la non
esistenza di un oggetto o di alcune sue qualità al di fuori della nostra percezione
non cambia assolutamente nulla nella nostra relazione con l’oggetto. Le cose sono
preseti all’interno della nostra mente e del nostro processo di pensiero: in questo
si può riassumere la legge principale della fenomenologia;

• strutturalismo (Ferdinand de Saussure, Lévi-Strauss e altri), altrettanto


importante in quanto costituisce un metodo filosofico che spiega tutto l’esistente
in termini di strutture. La struttura è qualcosa di invisibile ma che definisce il
significato. Così, la lingua risulta molto più importante del discorso pronunciato in
tale lingua. In altri termini, ciò che ci accingiamo a dire – discorsi, giudizi,
valutazioni di sorta – è costituito da citazioni del dizionario ed è predefinito dalla
struttura della lingua, motivo per cui la sua originalità, a scapito di ciò che
potremmo ritenere, è pari a zero giacché si tratta di cose dette e ripetute milioni di
volte prima di noi da altri. Non siamo noi gli autori di ciò che pronunciamo ma è la
lingua che parla attraverso di sé, per mezzo della ripetizione della struttura
linguistica. Si tratta di un concetto fondamentale dello strutturalismo, un aspetto
metodologico molto importante per il progetto Noomachìa.

La Noologia fa uso dell’analisi esistenzialista di Heidegger – di cui consiglio


caldamente la lettura –, così come della Quarta Teoria Politica, dei concetti del
tradizionalismo cari ai filosofi tradizionalisti appartenenti alla scuola di René
Guénon e Julius Evola, dei concetti sviluppati da Bachofen in merito al gender e al
matriarcato – in “Mutterrecht und urreligion”, un’opera fondamentale di Bachofen,
viene descritto il matriarcato pre-indoeuropeo mediterraneo, argomento molto
importante dal momento che lo studio del matriarcato costituisce una parte
essenziale della Noologia – e dello strutturalismo di Georges Dumézil e Claude Lévi-
Strauss.
3. Il Nous è triplice
Vi sono altri studi disciplinari di questo tipo, non vi è nulla di nuovo in ciò che ho
detto finora. Cos’è allora che rende così originale il progetto Noomachìa? Tutte le
discipline e i campi di studio menzionati hanno un ruolo ausiliario, sono strumenti
che cioè ci aiutano nello studio e nella comprensione. Ciò che rende originale
Noomachìa è il concetto in parte nuovo che sta alla base di questo progetto:
l’esistenza dei tre Logos.

È mia convinzione che il Nous, l’intelletto, il pensiero, si manifesti in tre forme


distinte. Un Nous, dunque, e tre forme principali, con innumerevoli sottodivisioni
inglobate in queste tre forme generali del processo del pensiero che io chiamo
Logos. Ora non ci interessa capire come si relaziona ciascuno dei tre Logos al Nous;
questa è una questione eccessivamente metafisica e non è importante per i nostri
scopi. Il punto fondamentale è che il Nous non può manifestarsi senza passare
attraverso questi tre Logos.

Non c’è pensiero al di fuori dei tre Logos. I quali, inoltre, possono essere rintracciati
in ogni cultura. Questo è il risultato a cui sono giunto nei miei lavori di ricerca.
All’inizio questa era ovviamente solo un’ipotesi, di cui dunque non potevo avere la
certezza, ma lo studio di ogni cultura nel mondo, incluse quelle più arcaiche – in
Oceania, Africa, India, Sudamerica, Nordamerica e così via – ha confermato questa
mia ipotesi. Così, in ogni cultura – sia essa arcaica, moderna o postmoderna, tanto
europea quanto non europea – in ogni epoca, in ogni forma di società, noi
possiamo rintracciare questi tre Logos. In differenti proporzioni, in diverse
combinazioni – essi possono combinarsi in milioni di modi diversi – ma sono
presenti ovunque. Nessuna cultura, nessun popolo, nessuna religione, nessuna
regione del globo può affermare di possedere solo uno o due di questi tre Logos.
Tutte le cultura possiedono tutti e tre i Logos.

Un altro punto fondamentale è che non esiste, né può esistere, una gerarchia tra
culture o popoli poiché i tre Logos si combinano tra loro in modi del tutto specifici
e peculiari e il modo in cui lo fanno è proprio a ciascuna cultura. La nostra storia, la
nostra identità, l’identità profonda di un popolo appartenente ad una cultura o
religione corrisponde precisamente a questa combinazione, ad un particolare
equilibrio di questi tre Logos. E poiché esiste un numero praticamente infinito di
combinazioni, di mutamenti nelle proporzioni tra le forme dei tre Logos, il numero
di società umane possibili è virtualmente illimitato. Ne consegue l’impossibilità di
creare qualsivoglia tipo di gerarchia. Le società arcaiche vedranno la dominazione
di uno dei tre Logos, le moderne di un altro, e viceversa, ma in ogni caso non vi è
alcuna norma generale o universale.

Questo è un punto di notevole importanza perché ci mostra che nella nostra


scienza, nella nostra politica, nella nostra cultura, abbiamo a che fare con un tipo
di approccio razzista e colonialista. Noi tendiamo a proiettare il nostro Logos, a
considerarlo come qualcosa di universale. Ma lo studio approfondito delle culture
ci mostra l’illegittimità di questo modo di procedere. Il razzismo non è altro che
l’idea di fondo per cui il proprio Logos, la propria specifica cultura, sia universale e
vada posta a modello per tutti gli altri. I quali, se non sono simili a noi, vengono
considerati meno sviluppati. Questo è precisamente il caso della civiltà europea
moderna. Ed è il anche nostro caso, nella misura in cui accettiamo questo
approccio razzista verso la storia, il passato, anche verso noi stessi, dichiarando
che un caso specifico dovrebbe costituire la norma universale, l’unica modalità di
sviluppo, e che tutti dovrebbero conformarsi ad esso e seguirne il percorso di
sviluppo.

“C’è solo una cultura, solo un Logos, il nostro”. Questa sorta di ipertrofia di noi
stessi costituisce un approccio completamente sbagliato e illegittimo.
Sbaglieremmo pensando che riguarda solo il razzismo biologico esplicito; anche il
moderno liberalismo, il comunismo e il globalismo sono assolutamente razzisti
poiché si fondano sull’universalismo di esperienze storiche che riguardano solo
una parte dell’umanità. Agli occhi dei globalisti, ad esempio, l’uomo africano è solo
un uomo in procinto di diventare “bianco”, cioè moderno, capitalista, liberale,
europeo, eurocentrico. Non è un rappresentante della propria cultura africana
incamminato in uno specifico percorso di sviluppo civilizzazionale, ma un europeo
non ancora del tutto sviluppato, che dunque va “tollerato”: l’idea moderna della
“tolleranza” deriva proprio dalla considerazione che abbiamo di lui, dal ritenerlo
imperfetto, cioè qualcuno sulla strada per essere come noi ma che non lo è ancora,
in definitiva un “handicappato”. Nel far ciò, noi non riconosciamo gli altri come
esseri umani come completi e perfetti, benché diversi da noi, ma come esseri
inferiori che devono seguire il nostro percorso di sviluppo, che sono costretti a
farlo perché non vi è altro percorso possibile, e ciò ci induce ad avere pietà di loro.
Tutto ciò è profondamente razzista. C’è un film molto bello di Werner Herzog,
“Dove sognano le formiche verdi”, in cui si mostra non solo come i popoli nativi
dell’Australia non possano seguire il modello occidentale, ma che costoro non lo
desiderino affatto. Essi seguono il proprio percorso, differente certamente da
quello occidentale, e questa è una loro decisione, dettata dalla propria cultura. In
questo specifico caso abbiamo a che fare con uno scontro tra la visione razzista
anglosassone della storia e la visione aborigena australiana della propria identità.

Oserei dire che questo costituisce l’aspetto etico della Noologia. La Noologia
rappresenta una lotta per la dignità umana in ogni società, senza gerarchie o
proiezioni universalistiche. Da questo punto di vista, la Noologia costituisce la base
di una metafisica anticoloniale.

Molte dottrine che storicamente hanno preteso di essere anticolonialiste, compresi


il marxismo e il liberalismo, si sono in realtà basate sulla visione universalistica
della storia. Ad esempio, per il marxismo la società africana deve svilupparsi al fine
di diventare socialista, ma ciò implica la distruzione del suo modo di essere. Lo
stesso vale per il liberalismo. Liberalismo e comunismo sono razzisti tanto quanto
lo è stato l’hitlerismo. Questo è un punto fondamentale della Quarta teoria
politica, che indica la necessità di seguire una quarta via superando le tre principali
ideologie politiche della modernità. La Noologia costituisce la base metafisica di
tutto questo. Nel trattare gli altri popoli in modo differente da noi, come se fossero
“inferiori”, non facciamo altro che proiettare il nostro approccio razzista ponendo
in essere un’uguaglianza tra noi e la norma universale, uguaglianza che è
illegittima e soprattutto falsa, dietro la quale si cela una pura lotta colonialista per
il potere.

Questo è il motivo per cui la Noologia è così importante. Essa costituisce la base
filosofica e metafisica del mondo multipolare. E i tre Logos e le loro molteplici
combinazioni mostrano le differenze esistenti nelle diverse culture.

4. I tre Logos
Ora è giunto il momento di capire quali sono i tre Logos. Qui, è utile richiamare i
concetti nicciani di Apollo e Dioniso. Due dèi greci che Nietzsche interpreta non
come oggetti di culto o adorazione, bensì come metafore, una sorta di simboli, di
figure: non è necessario adorare Apollo per essere apollinei, né bisogna venerare
Dioniso e partecipare alle orge in suo onore per essere definiti dionisiaci. Apollineo
e dionisiaco per Nietzsche hanno un significato completamente differente. Essere
apollineo significa essere gerarchico, avere un modo logico di comprendere il
mondo che rappresenta il modo di pensare appartenente al giorno. Essere
dionisiaco significa invece essere irrazionale, avere una comprensione intuitiva del
mondo, che rappresenta il modo di pensare della notte.

Nietzsche divide le culture in apollinee e dionisiache. Questa visione è stata


mutuata e sviluppata da molti altri autori, tanto da costituire oggigiorno un
patrimonio comune negli studi culturali. Anch’io accetto questa divisione, e ritengo
si possa affermare che esista un Logos di Apollo e un Logos di Dioniso e che il Nous
si esprima dunque attraverso i Logos apollineo o dionisiaco.

Nel tentativo di scoprire di più sul Logos di Dioniso, ho scritto una sorta di prequel
a Noomachìa – lo si potrebbe considerare il “volume zero” – intitolato “Alla ricerca
del Logos nero”. La mia idea era di considerare la storia della filosofia non dal
punto di vista apollineo, che è predominante, ma dal punto di vista del secondo
Logos. Creare, in altri termini, una sorta di contro-storia della filosofia basata su
una lettura dionisiaca. Conosciamo perfettamente in cosa consiste la lettura
apollinea della storia della filosofia. Essa è per l’appunto la storia della filosofia che
noi tutti studiamo. La mia idea era di capire come Dioniso avrebbe considerato le
stesse questioni, le stesse categorie, le stesse posizioni e relazioni.

Lavorando a questa ricerca del Logos nero – l’ho chiamato così dal momento che il
Logos bianco, chiaro, è quello apollineo: Apollo è luce – e cercando di leggere con
gli occhi del Logos nero Hegel, Heidegger, Kant, Platone, Aristotele e così via,
lavorando in questo campo di ricerca metafisico, immaginando una storia
alternativa della filosofa basata sull’approccio dionisiaco, ho scoperto alcuni
fenomeni, molto importanti e basilari per Noomachìa, appartenenti a cultura,
religione, filosofia, storia della filosofia, scienza, arte, psicologia umana, che non
possono in alcun modo rientrare nel campo del Logos dionisiaco. Alcuni elementi vi
rientrano, ma vi sono nuovi campi che ne rimangono fuori; si tratta di elementi che
non possono chiaramente rientrare nel Logos apollineo ma che non possono
essere ascritti neanche a quello dionisiaco. La si potrebbe definire una scoperta
empirica nel campo della metafisica; vi sono campi concettuali – ad esempio la
filosofia di Eraclito o Democrito, la teoria atomistica o le teorie della scienza
moderna – che non sono in nessun modo apollinei e che non possono neppure
essere definiti dionisiaci. Nella ricerca del Logos nero, sono quindi giunto alla
conclusione che vi è qualcosa al di là di questi due Logos, che ve ne è un terzo. Al di
là del Logos dionisiaco si nasconde qualcos’altro. All’ombra di Apollo vi è Dioniso,
ma all’ombra di Dioniso vi è dell’altro. L’ho battezzato il Logos di Cibele.
Cibele è il nome di un antichissimo dio anatolico, la Grande Madre degli Hatti, un
popolo pre-indoeuropeo del tutto particolare abitante l’antica Anatolia prima degli
Ittiti, i quali in seguito hanno fatto propria tale divinità, integrandola nel loro
pantheon religioso. Dopo di loro, il culto di Cibele è stato sviluppato anche dalla
popolazione indoeuropea dei Frigi, la cui dea principale era appunto la “Grande
Madre”.

Il culto della Grande Madre si basava sulla castrazione rituale dell’uomo. I sacerdoti
di Cibele venivano castrati diventando eunuchi e questa era parte della grande
visione del matriarcato, del regno della Grande Madre, dove il ruolo dell’uomo è
completamente differente da quello che conosciamo. Una posizione
completamente differente dalla posizione dionisiaca dacché il culto di Dioniso era il
centro attrattivo delle baccanti, delle donne, ma anche degli uomini, e in questo
caso è l’uomo al centro dell’esistenza umana. Il dionisiaco non è trascendente, è
immanente ma centrato sull’uomo, è l’immanenza di un uomo-dio. La si può
definire una forma di presenza immanente della trascendenza. Non si tratta
dunque dell’oscurità totale: non è Dioniso il Logos nero. Dioniso è la presenza della
luce nell’oscurità. Una sorta di “sole della notte”. L’uomo al centro dell’esistenza
ctonica immanente. Il punto maschile nella realtà femminile. Una sorta di raggio di
sole che attraversa l’oscurità e giunge al centro dell’oscurità al fine di creare una
nuova alba. Questo è il dionisiaco e non può essere identificato con l’oscurità, con il
caos tout court.

Le orge, i culti, le cerimonie, tutti gli aspetti legati al dionisiaco non vanno
interpretati come un rovesciamento dell’ordine apollineo. Il dionisiaco non è un
capovolgimento dell’apollineo, esso piuttosto è l’apollineo che proviene non dal
giorno bensì dalla notte. È la luce nell’oscurità. È il sole che cala la sera per poi
risorgere il mattino seguente: quando oltrepassa l’istante di mezzanotte, il sole è
invisibile, è nascosto, non è presente al centro della notte, però esso esiste; se esso
fosse assolutamente assente, non ci sarebbe né l’alba né il mattino. Allo stesso
modo, Dioniso non è il sole di giorno (Apollo), né la notte, ma il sole di notte.

Dov’è il sole quando non c’è alcun sole? Dov’è il paradiso quando non c’è traccia del
paradiso, dov’è l’elemento virile quando non vi sono uomini, quando vige l’oscurità,
la terra, l’immanente, la materia, il principio femminile? Esso è nascosto, ma esiste.
Questo è il Logos di Dioniso. Si tratta di un nuovo tipo di visione, di una visione
dinamica, una sorta di equilibrio tra i generi, tra l’immanenza e la trascendenza, tra
il cielo e la terra. Dioniso è il paradiso sulla terra, una terra paradisiaca. Il Logos
dionisiaco è una combinazione dialettica di opposti. Ma al fine di comprenderlo
correttamente, è necessario introdurre un terzo Logos, e questo è un qualcosa che
cambia completamente tutti i concetti e le teorie esistenti finora.

Il terzo Logos, che è ciò in cui consiste la mia scoperta, è l’elemento propriamente
innovativo e che rappresenta il tratto essenziale della Noologia. Esso è il Logos
nero, il Logos di Cibele.

Perché il Logos di Cibele è stato scoperto così tardi? Perché nessuno prima d’ora ha
mai parlato di tre Logos? Quando ho iniziato a cercare di comprendere e risolvere
questo problema metafisico, ho scoperto una cosa molto interessante: per il Logos
dominante di Apollo, questo terzo Logos non può esistere poiché guardando la
situazione da un punto di vista puramente apollineo non vi possono essere altri
Logos oltre lo stesso Logos di Apollo. Questo perché il concetto apollineo è
esclusivista, puramente maschile e basato su un tipo di uguaglianza tra l’uomo
inteso come maschio e l’uomo inteso come umano. Così, essere uomo e essere
umano è la stessa cosa e tutto ciò che non rientra in questa definizione non ha il
diritto di pretendere di essere Logos. L’unico Logos è Apollo, l’uomo e l’umano.
Tutto ciò che non è maschio, non è logico, non appartiene al Logos, non appartiene
all’umano e quindi può essere solo una sorta di bestia o di oggetto, non un
soggetto; il soggetto può essere solo apollineo.

L’idea nicciana di allargare lo status del Logos conferendo lo status di Logos anche
a Dioniso era già rivoluzionaria, in quanto mostrava la possibilità di un approccio
diverso al Logos. Con Dioniso scopriamo che non c’è solo l’approccio apollineo ma
che ve ne può essere un altro. Tuttavia, insieme l’approccio apollineo e l’approccio
dionisiaco non possono lasciare che vi sia un terzo Logos perché entrambi sono
metafisicamente maschili. Aperto (Apollo) o nascosto (Dioniso), esclusivo (Apollo) o
inclusivo (Dioniso), ma entrambi Logos maschili. Il Logos di Cibele non è maschile. E
dal punto di vista maschile, che è prevalente, non potrebbe essere un Logos,
passerebbe quasi sotto traccia, come fosse una sorta di rumore e non un discorso.
Dal punto di vista dell’uomo metafisico, ciò che la donna metafisica dice è un
rumore, non un discorso. Qualcosa come il suono della natura, ad esempio.
Bellissimo, ma dal punto di vista apollineo, ad esempio platonico – il platonismo è
pura filosofia apollinea: le idee sopra tutto, la verticalità, il Padre che è il
paradigma o l’esempio eterno, il sole che ne è una sorta di imitazione
fenomenologica, la materia che non ha qualità –, al di là del Logos non vi è nulla;
oltre il Padre c’è il sole e poi la materia senza qualità, che quindi rappresenta il
nulla, l’oscurità, dacché senza qualità non c’è Logos. Esiste quindi il Logos del Padre
che è apollineo, il Logos solare, immanente, che è dionisiaco, e poi null’altro,
poiché la tradizione patriarcale non consente che l’altra parte della realtà abbia un
Logos. Questo è il motivo per cui il terzo Logos è rimasto finora così nascosto.

Solo iniziando ad applicare un tipo di approccio dionisiaco alla storia della filosofia
scopriamo che vi è qualcosa al di sotto di entrambi i Logos, perché l’approccio
dionisiaco non corrisponde alla castrazione, al tipo di dissoluzione della Grande
Madre. L’idea dionisiaca è il raggiungimento delle profondità dell’ade al fine di
risorgere, discendere al fine di ascendere, procedere dall’alto verso il basso al fine
di ritornare in alto. Possiamo considerare il Logos dionisiaco la versione estrema
del Logos apollineo, certo completamente differente da quest’ultimo, generatore di
strutture completamente differenti, rappresentante un’altra declinazione del
Nous. Tuttavia, iniziando ad operare seriamente con il Logos dionisiaco ho
scoperto che c’è qualcos’altro e sono giunto alla conclusione che possiamo
riconoscerlo come una terza forma del Nous o terzo Logos, segnatamente il Logos
di Cibele. Dopo questa operazione concettuale, avremo finalmente una
spiegazione davvero completa di tutte le possibili versioni delle culture, delle
filosofie, delle religioni e delle relazioni tra di esse.

Possiamo immaginare che il Nous sia diviso in tre Logos e che ognuno di questi crei
uno o più mondi; così, noi possiamo vivere in diversi mondi apollinei, in molteplici
mondi dionisiaci o in molti altri mondi cibeliani, dacché non vi è un solo mondo, ma
vi è una moltitudine, una molteplicità, una pluralità di mondi apollinei, dionisiaci e
cibeliani incastonati uno nell’altro, rappresentanti contenuti così ricchi di cultura,
pensiero, arte, storia da potervi scorgere immediatamente il tesoro spirituale della
mente umana.

4.1 Il Logos di Apollo


Qual è l’universo di Apollo? Esso corrisponde all’idea che ogni cosa venga creata
dall’alto verso il basso, che tutto proviene da un processo discendente. La filosofia
platonica è la forma più perfetta per esprimere questo Logos apollineo.

Ogni cultura, che entri in contatto con il platonismo o meno, avrà una sua versione
apollinea; l’ho scoperto studiando ad esempio la tradizione arcaica di popolazioni
nilo-sahariane prive di alcun collegamento con i greci. Il Logos di Apollo ovunque
rappresenta la stessa idea: vi è il dio-padre che ha creato tutto, il popolo è il figlio
del dio-padre, noi discendiamo dal cielo-paradiso e siamo destinati a ritornarvi;
non vi è alcuna dimensione terrestre, o meglio, la terra è la linea più bassa di
questa discesa che precede l’ascesa.

Il Logos apollineo rappresenta un’attitudine puramente patriarcale. Tutto si basa


sulla lotta contro la morte, l’oscurità. Ogni uomo è fatto di luce. Vi è una sorta di
gerarchia all’interno della società basata su una linea verticale. Si tratta della
visione della società platonica, europea, feudale, tradizionale. Negli Shilluk, nei
Nuer, nei Dinka, tribù dell’Africa nilo-sahariana, o ad esempio in altre popolazioni
dell’Africa occidentale, tra le popolazioni europee, abbiamo la stessa visione
puramente platonica: gli exemplas sono nelle stelle, e tutto ciò con cui abbiamo a
che fare è un riflesso, uno specchio fenomenologico di ciò che avviene tra le stelle.

Il platonismo non consiste solo nelle opere, nei dialoghi di Platone; esso è una
forma del Logos apollineo, il quale si presenta in molteplici culture che non hanno
contatti diretti con Platone. La tradizione faraonica egizia, ad esempio, si basa
ugualmente sul sole proveniente dall’alto, che scende in basso e crea questa sorta
di versione piramidale del mondo, una costruzione puramente apollinea che parte
dalla base squadrata per arrivare al vertice unitario. E il fuoco, in greco π ῦρ (pŷr),
viene presentato in Platone proprio come piramidale, una sorta di fuoco che va
verso l’alto. Il fuoco è dunque sacro, la luce è sacra, noi siamo figli della luce; segue
il patriarcato, l’assoluta dominazione del principio maschile e la sottomissione del
principio femminile, e tutti gli altri elementi apollinei.

In altri termini, il Logos di Apollo non deriva da persone che leggono Platone e
applicano i suoi scritti alla propria società; in parte è così, ma non possiamo
spiegare ogni società apollinea attraverso la lettura di Platone. Il Logos apollineo è
platonico ma Platone è un riflesso di questo Logos, costituisce una forma
eccellente, la più completa in cui tale Logos si esprime, rappresenta in altri termini
l’introduzione migliore al Logos apollineo, il quale tuttavia non è una creazione di
Platone, è una creazione del Nous. Il platonismo è uno dei modo in cui il Logos
apollineo opera nel Nous, si rivela, si manifesta.

Il Logos apollineo, dicevamo, non è una creazione artificiale di una singola mente
umana ma del Nous. La nostra mente umana può seguire la linea apollinea, può
essere platonica, il platonismo può essere un qualcosa che dall’atto della nascita è
presente in noi, se questo Logos domina in noi, nella nostra cultura, nella nostra
religione, nel nostro sistema valoriale, se definisce il nostro mondo. Esso in effetti
domina nel nostro mondo tradizionale: noi prestiamo attenzione al cielo più che
alla terra, siamo fatti di luce, adoriamo creature alate (angeli o uccelli), i nostri dèi
vivono in cielo o in paradiso. Per noi la tradizione è completamente apollinea.
Platone è parte di questa cultura. Praticamente tutta la cultura greca, prima di
Platone e dopo Platone, la cultura romana, iranica, indiana, slava, tutte queste
tradizioni sono apollinee e per noi è assolutamente chiaro che il mondo è così, che
non è possibile nessun altro mondo, poiché noi viviamo nel mondo apollineo, le
nostre tradizioni si basano sulla visione apollinea.

4.2 Il Logos di Dioniso


La scoperta del Logos di Dioniso costituisce allora una rivoluzione spirituale e
metafisica perché presenta la possibilità di un mondo diverso, con una diversa
simmetria e organizzazione, non basata sulla venerazione del trascendente. Nel
mondo dionisiaco vediamo questa sacralità nell’immanente.

Si tratta di un mondo, quello dionisiaco, organizzato differentemente, in cui le


stesse parole, le stesse figure, gli stessi dèi hanno significati diversi. L’aspetto
dionisiaco nella tradizione cristiana è la figura di Gesù Cristo, che è sia Dio che
uomo, sia trascendente che immanente, sia eterno (nel mondo apollineo tutto è
eterno) che storico (egli ha fatto ingresso nel tempo). Qui non si tratta di opporre la
cristianità apollinea al paganesimo dionisiaco; nella stessa tradizione cristiana, per
esempio, possiamo rintracciare entrambe le figure: la trascendenza della Trinità
(elemento apollineo) e l’immanenza di Gesù Cristo (elemento dionisiaco). Lo stesso
avviene in alte tradizioni; la figura di Dioniso è presente in diverse tradizioni,
chiaramente non con lo stesso nome ma con le stesse funzioni, con la stessa
liberazione estatica, liberazione dai vincoli della materia, da quest’aspetto ctonico
dell’esistenza umana, una sorta di sbalzo antropologico e metafisico dall’umano
verso il divino, dalla temporalità nell’eternità (nella nostra tradizione cristiana,
l’Eucaristia). Questa è precisamente l’essenza del dionisiaco. Dal tempo in cui ci
troviamo con i nostri corpi terreni, entriamo in contatto con l’eternità in cui
troviamo il divino.

Quando osserviamo il mondo attraverso il Logos di Dioniso, registriamo un mondo;


quando lo vediamo attraverso il Logos di Apollo, abbiamo a che fare con un altro
mondo. Vi sono simmetrie diverse, differenti metafisiche. Dioniso è il cerchio
centrato sul punto dell’eternità, mentre Apollo è l’eternità stessa, è la legge eterna,
la tradizione, qualcosa di invariabile, l’eternità dell’etica, del culto, l’atto di credere
nell’eternità che pretende di essere eterno esso stesso, qualcosa di eterno che si
trova al di fuori del processo temporale. Così, nella visione apollinea procediamo
dall’eternità per fare ritorno ad essa. Il tempo non ha importanza per la concezione
apollinea; l’unico tempo importante per la visione apollinea è quello del ritorno
all’eternità, perché il tempo di per sé, seguendo Platone, è un riflesso dell’eternità,
quindi l’etica del Logos apollineo è il ritorno dal riflesso al riflettente (l’idea,
l’archetipo, il paradigma, l’eterno).

Il mondo definito dal Logos di Apollo si basa su idee corrispondenti a parole che noi
usiamo nei nostri discorsi come se la loro essenza fosse esterna. Noi non
denominiamo ogni volta cose differenti ma simili con nuovi nomi; per indicare due
o più libri simili, usiamo sempre la parola “libro” perché il libro esiste come
concetto e si tratta di un concetto eterno – nella nostra religione vi è una sorta di
proiezione di questo, vi è la Bibbia come libro eterno, creato e scritto nell’eternità:
tutto ciò che è scritto nel libro è eterno, il libro stesso è eterno; così, ogni nome che
noi menzioniamo è eterno di per sé. Questo è il mondo apollineo, e si tratta di un
mondo a noi molto familiare, visto che noi pensiamo che il mondo sia apollineo
nella nostra educazione tradizionale, siamo stati educati alla cultura apollinea,
assumiamo la logica di Aristotele la quale si basa precisamente sulle leggi
dell’eternità (i tre princìpi della logica classica: principio di identità, di non
contraddizione e del terzo escluso).

Tuttavia, nel mondo che ci circonda non esiste una cosa del genere, tutto è duplice,
qualcosa esiste e al contempo non esiste, muore e nasce. Nella fisica non esiste la
logica classica, quella logica che è per noi assolutamente naturale, trascendente,
che è l’essenza del Logos apollineo operante all’interno delle nostre menti umane
dacché esso opera all’interno della nostra cultura formando il paradigma
semantico del nostro pensiero; quella logica per cui A è A, Dio è Dio, la logica che
descrive il mondo apollineo, il mondo con cui diamo per scontato di avere a che
fare ma che in realtà non esiste. Non vi è alcun punto nell’universo in cui A è A.

Rimanendo all’interno di Aristotele, quando giungiamo ad altre branche della sua


descrizione scientifica, scopriamo che per esempio avendo a che fare con la fisica,
Aristotele dice che ogni cosa è duplice, possiede forma e materia e questa è una
concezione anti-logica, poiché tutto ciò che esiste è unico e al contempo duplice,
avendo materia e forma (due cose in una cosa), separando le quali non esisterebbe
nulla. Questa è la fisica aristotelica, corrisponde all’approccio dionisiaco al mondo
e non può essere descritta dalla logica bensì dalla retorica poiché si tratta di
qualcosa che è unico ma non nel senso logico del termine. Il Logos dionisiaco si
manifesta nella capacità di pensare dialetticamente, di concepire una cosa come
due cose allo stesso tempo.

Si consideri l’androgino, qualcosa che non corrisponde alla somma di uomo e


donna ma che nel Logos dionisiaco preesiste all’esistenza del maschio e della
femmina; l’androgino non è il risultato di una combinazione di generi ma la fonte
dei generi e non corrisponde al modo di pensare apollineo ma dionisiaco.
L’androgino è la figura di Dioniso, esso racchiude in sé due generi prima che questi
esistano separatamente. Si trova al centro tra i due poli, prima che questi esistano
singolarmente. Nel mondo apollineo, i due poli esistono separatamente e ciò che si
trova tra di essi è secondario e viene definito dai due poli. Nel mondo dionisiaco al
contrario, esiste ciò che si trova nel mezzo e le sue proiezioni creano i due poli.

Noi possiamo certamente vivere nel mondo, nella cultura, nella religione afferente
all’approccio dionisiaco dialettico – due nature in Gesù Cristo, divina e umana –,
qualcosa di irrazionale, un approccio dialettico che crea simmetrie completamente
nuove nella religione, nell’arte e nella filosofia. Questo Logos dionisiaco è
naturalmente possibile, ma si presenta più nella mitologia, nella poesia, nella
letteratura, nel sacro, nell’arte e nel linguaggio che nella filosofia; si tratta di un
linguaggio umanistico, retorico, non logico o matematico (che invece è apollineo),
perché le figure retoriche comportano precisamente una violazione delle leggi
della logica. Il campo privilegiato del Logos dionisiaco è in altri termini la mitologia
più che la filosofia.

Un punto fondamentale è che il Logos dionisiaco non costituisce un Logos


inferiore. Per Platone occorre estromettere dello Stato ideale tutti i poeti. Questo
rientra nella concezione che l’apollineo ha del dionisiaco; in effetti Apollo
concepisce Dioniso come qualcosa ad esso sottostante, incompleto. Lo si potrebbe
definire razzismo o etnocentrismo apollineo: Apollo ritiene di essere esso stesso la
totalità, l’integro, l’intero, e tutto il resto o è una sua parte o ne rappresenta una
sorta di immagine spesso distorta e perversa. Così, per Platone poesia e mitologia
vanno posti al di fuori del proprio Stato filosofico apollineo poiché essi
appartengono al mondo di Dioniso e vengono considerati impuri poiché retorici.
Essi non hanno posto nella repubblica di Platone, che coincide con la repubblica di
Apollo, poiché hanno a che fare non con linee rette ma curve, con combinazioni di
elementi strutturati in modi fantastici, con lo spirito creativo dell’arte che è
dionisiaco. Naturalmente, anche nell’arte possiamo rintracciare la linea apollinea,
ma la maggior parte dell’arte e della poesia è puramente dionisiaca. Può altresì
esistere una filosofia di stile dionisiaco; nella filosofia moderna, la fenomenologia è
puramente dionisiaca. Heidegger stesso, ho scoperto studiandolo per molti anni,
ha cercato di creare una filosofia dionisiaca, e ci è riuscito in effetti; il suo concetto
del Dasein (“being t/here” in inglese) è precisamente dionisiaco, si trova al centro
(t/here) tra Apollo (there) e qualcosa di puramente immanente (here). Esso non
dovrebbe dunque essere considerato, in ottica apollinea, come una proiezione
dell’essere. L’essere è apollineo, l’esser-ci è dionisiaco. Questa possibilità dionisiaca
della filosofia non proviene né dall’alto né dal basso ma dal centro, non da uno dei
due poli ma dal mezzo.

4.3 Il Logos di Cibele


Veniamo ora al terzo Logos, il più affascinante. Con i primi due Logos si possono
creare due versioni della storia della filosofa, riorganizzando il nostro spazio
intellettuale, rimodellando la nostra comprensione della storia della filosofia, e di
conseguenza la storia della nostra società e dell’umanità.

Un punto importante della Noologia è che possiamo rintracciare il Logos apollineo


e il Logos dionisiaco in ogni cultura umana. Ma essi non sono in relazioni “cordiali”
tra loro, perché Apollo pensa in un modo e Dioniso in un Altro. Il primo crea questo
mondo caratterizzato da verticalità, da questa simmetria patriarcale e per esempio
estromette la poesia dionisiaca; vi è dunque una sorta di lotta tra i due Logos. Un
Nous, due Logos in lotta tra loro. Ecco il perché di “Noomachìa”. Noomachìa è la
lotta all’interno del Nous. Ma il culmine della drammaticità si raggiunge quando
arriviamo al terzo Logos, al Logos di Cibele.

Un terzo, nuovo Logos corrispondente ad un terzo, nuovo mondo. Creato non


dall’alto verso il basso, né dal centro, ma dal basso verso l’alto. Una nuova
simmetria. Si tratta di un Logos precluso, negato da entrambi i Logos di Apollo e
Dioniso. Il Logos di Cibele è la Grande Madre che crea tutto da sé. È l’assenza di
ogni principio maschile al di fuori della Grande Madre. Non c’è alcun dio all’infuori
della Grande Madre, non c’è nessuno oltre la Grande Madre, c’è solo la Grande
Madre, la Terra, che tutto crea a partire da sé stessa e tutto uccide. Perché essa è
allo stesso tempo la culla e la tomba. Non ci sono due punti della vita, nascita e
morte, c’è un solo e unico punto di nascita e morte; non c’è ad esempio un dio della
morte e un dio della vita, c’è solo un dio, una sola Madre che crea e uccide, dà e
toglie la vita. Essa crea il figlio, il principio maschile, da sé e senza il Padre; essa lo
usa come un amante, quindi lo castra e lo uccide. Questo è il mito di Cibele. Tale
mito viene spiegato in moltissime forme, in molti culti, in molti credi, ma vi è un
tipo di filosofia dietro molto profonda e interessante. In questa non vi è affatto
trascendenza, non c’è posto per il cielo. Il cielo è una sorta di riflesso della terra.
Ogni forma di paradiso è un riflesso della materia stessa. Qui abbiamo a che fare
con un’immanenza assolutamente materialistica, diversa dall’immanenza di
Dioniso che al contrario è spiritualistica, dacché Dioniso è il centro tra spirito e
materia, non dato dalla somma di questi due poli ma preesistente ad essi.

Il Logos di Cibele è l’idea che la Grande Madre crea e uccide tutto. Non è l’eternità
(Apollo) o il cerchio (Dioniso), ma qualcosa che agisce a suo modo con cieco e
assoluto potere. Una forma di progresso: la crescita dal basso verso l’alto. In ottica
apollinea, Cibele conduce la battaglia titanica delle forze ctoniche contro il cielo e il
regno del Logos maschile di Apollo. Il Logos cibeliano è la creazione di un nuovo
mondo che è titanico, ctonico e in un certo senso femminista, non perché ci sia
uguaglianza tra uomo e donna – idea molto più dionisiaca – ma perché vi è
l’assoluta dominazione della Madre su tutto il resto.

Avviandoci alla conclusione di questa prima lezione, vorrei rimarcare un punto


importante. I tre Logos che ho illustrato si trovano in un conflitto assoluto. Essi
creano mondi, sistemi, società, culture, religioni, culti, relazioni, valori, sistemi
politici basati su approcci completamente differenti e che sono in conflitto tra loro.

Questa è Noomachìa. Vi è già una forma di contraddizione tra Apollo è Dioniso. Ma


tra Cibele e Apollo le contraddizioni raggiungono il punto più alto in quanto si pone
in essere una seria titanomachìa o gigantomachìa tra due visioni contrapposte.
Due Logos in lotta. Il senso titanico, ctonico di Cibele cerca di assediare il cielo
mentre gli dèi apollinei cercano di difenderlo. Dal punto di vista filosofico, quelle di
Democrito e di Epicuro sono filosofie puramente cibeliane; non solo, anche la
nostra scienza moderna europea – questo è il punto più importante! – è
puramente cibeliana. Si tratta di una sorta di vendetta del Logos di Cibele dopo i
migliaia di anni di dominazione di Apollo e di Dioniso. Noi stiamo vivendo in
un’escatologia cibeliana. Se mettiamo per un attimo da parte la nostra tradizione
spirituale, culturale, religiosa, etica, e consideriamo la nostra visione scientifica,
notiamo che si tratta di una visione puramente atomistica, materialistica,
progressista e basata sulla simmetria dal basso verso l’alto.

Cibele non appartiene ad epoche arcaiche, il Logos di Cibele è qualcosa con cui
abbiamo a che fare ogni giorno. Oggigiorno, viviamo in una situazione sempre più
schizofrenica in cui la nostra cultura e la nostra tradizione sono apollinee e
dionisiache, mentre la nostra scienza, la nostra politica, la nostra tecnologia è
cibeliana. Stiamo vivendo l’attacco finale di Cibele, della Grande Madre risorta, con
il femminismo, l’intelligenza artificiale, la globalizzazione, la democrazia, il
liberalismo, e così via. Si tratta dell’attacco definitivo dei titani della società
cibeliana al fine di purificare la Modernità dai resti della Tradizione, della cultura
indoeuropea, in definitiva del Logos apollineo, instaurando il “governo mondiale”
retto dei titani rappresentanti la Grande Madre. Ciò ovviamente non toglie che
possiamo rintracciare questa visione del mondo cibeliana in epoche antiche, sia
nella nostra civiltà che in altre civiltà. Si presti però attenzione al fatto che non
esiste una “civiltà cibeliana” dacché in ogni civiltà possiamo rintracciare tutti e tre i
Logos, ovunque in lotta tra loro. Noi viviamo all’interno di questa Noomachìa, che
non è qualcosa di puramente teoretico ma si manifesta nella nostra politica, nella
nostra cultura, nella nostra scienza, nella nostra identità.

Conclusione
In conclusione, nella Noologia noi non osserviamo il mondo attraverso uno di
questi tre Logos. Se osservassimo il mondo attraverso Apollo, dovremmo dedurre
che esiste un solo Logos e che tutto il resto è perversione; nella Noologia invece
non parteggiamo per un Logos particolare, ci limitiamo a studiare la situazione, a
comprendere i tre Logos – riconoscendo a tutti il diritto di esistere – e il loro
conflitto nel Nous. Attraverso questo processo noologico, saremo in grado di
interpretare tutto ciò che avviene nel mondo, nella cultura, nella politica, e così via.

Il principio principale di Noomachìa è il seguente: tre Logos sono in un conflitto


insolubile. Combattono tra loro per la forma del Nous che dovrebbe dominare la
cultura. La lotta dei tre Logos è la chiave per comprendere la struttura interna
della cultura, della civiltà e dell’identità della società. E ci fornisce la spiegazione
delle relazioni interetniche interculturali. Noomachìa spiega tutto ciò che è umano
e spiega come l’uomo spiega ciò che non è umano.

Quelli che abbiamo fin qui enunciato costituiscono i principi fondamentali di


Noomachìa come base metafisica del mondo multipolare.
Questa seconda lezione è dedicata alla Geosofia, termine derivante da due parole greche:
γεω (“geo”, la terra), e σοφία (“sophia”, la sapienza o conoscenza). La Geosofia consiste
nell’applicazione dei principi della Noologia allo studio delle specifiche culture e società. Si
tratta di un’analisi civilizzazionale condotta con l’aiuto dei concetti dei tre Logoi. Abbiamo
discusso, nella prima lezione [1] dedicata alla Noologia, dei tre mondi o universi collegati ai
tre Logoi. Possiamo posizionare i tre Logoi su un asse verticale, potendoli rintracciarli in
ogni cultura e dunque spiegare ogni cultura attraverso di essi. Ebbene, la Geosofia consiste
nell’interrelazione di quest’asse verticale con gli aspetti dell’asse orizzontale
corrispondente alle diverse culture.

1. Geosofia come multinaturalismo


L’idea della Geosofia è collegata a ciò che in filosofia e antropologia è chiamato
prospettivismo, approccio sviluppato dall’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros
de Castro.

L’uomo moderno occidentale ritiene che vi sia un solo mondo, il mondo fisico, e
una sola cultura in grado di comprenderlo correttamente, la cultura europea
occidentale moderna. Si tratta di una sorta di “verità” che implica un genocidio a
tutti gli effetti delle altre culture, poiché coloro i quali non riconoscono questa
verità e non seguono questa specifica cultura sono considerati sottosviluppati e
dunque soggetti a colonizzazione e obbligati a conformarsi al modello dell’uomo
bianco. Una visione prettamente coloniale, a cui si oppongono i multiculturalisti o
postmodernisti, i quali asseriscono che vi è sì un solo mondo ma molteplici modi di
interpretarlo. Rispetto alla visione puramente coloniale, questa impostazione
concede la possibilità ad altri di pensarla in modo differente, ma alcuni antropologi
hanno rilevato come la base ontologica di quest’unico mondo, che per i
multiculturalisti ammette differenti interpretazioni, sia comunque la proiezione del
pensiero europeo occidentale moderno sulla natura, cioè la concezione scientifica
della natura europea che si assume essere la realtà oggettiva, interpretata poi
soggettivamente e differentemente. In ciò consiste il multiculturalismo.

Sulla base di questa osservazione, nuovi antropologi hanno iniziato a


creare un tipo di metafisica denominata “metafisica cannibale”
attraverso cui viene distrutto questo concetto del mondo unico
differentemente interpretato e sostituito con mondi differenti: in questo
caso, ciò che i popoli afferenti a diverse culture asseriscono sul mondo
non rappresenta più la loro interpretazione soggettiva dell’unico mondo
oggettivo, come per i multiculturalisti, ma costituisce la corretta
descrizione di cosa essi vedono e percepiscono del loro specifico mondo
in cui vivono. Si tratta di un’approccio completamente nuovo e la
Noologia e la Geosofia rappresentano gli esempi più radicali di questo
riconoscimento della molteplicità dei mondi.

La Geosofia si fonda sul principio che ogni cultura crea un proprio mondo a sé
stante. Così, non si può dare per scontato che per tutti il mondo sia fisicamente
costituito da un geoide in rotazione attorno al proprio asse, poiché possono esservi
altre idee del mondo – per alcune culture la Terra può essere piatta, per altre
magari concava – e se coloro che appartengono a una determinata cultura
pensano realmente di vivere in un mondo del genere, noi dobbiamo accettarlo, e
non giudicarlo fin dall’inizio come un’interpretazione non corretta della realtà che
noi supponiamo conoscere meglio di loro.

Tale principio geosofico può essere denominato “multinaturalismo”. Mentre nel


multiculturalismo è presente il vecchio approccio razzista e colonialista di sempre,
solo un po’ più edulcorato – “la nostra conoscenza è superiore alla tua, ma ti
permettiamo di vivere con le tue illusioni” –, il multinaturalismo rappresenta un
approccio antropologico completamente nuovo basato sulla dignità di ogni cultura
– “tu stai vivendo in un mondo che per te è assolutamente reale e corretto, dunque
noi non possiamo in alcun modo proiettare su di te la nostra differente visione; in
altri termini quello in cui vivi è il tuo specifico mondo, non la tua interpretazione
dell’unico mondo che noi conosciamo meglio di te, e al fine di comprendere la tua
cultura è necessario accettare la tua verità senza ridurla al rango di «illusione»,
mettendoci anzi al tuo posto e assumendo totalmente la tua prospettiva”.

La Geosofia si basa su quest’idea che non esiste un solo spazio e una sola
linea temporale; essa rifiuta l’approccio multiculturale per cui si
permette ai popoli di differenti culture di interpretare il proprio territorio
e la propria storia in modi diversi assumendo tuttavia che noi ne
possediamo una comprensione migliore. Secondo la Geosofia, nel
passaggio dalla nostra civiltà, dal nostro popolo, dalla nostra cultura, ad
altri popoli, è necessario prima di tutto indagare su come questi ultimi
concepiscano il mondo, guardandosi bene dal pretendere di spiegar loro
come il mondo “nella realtà” sarebbe costituito.

La Geosofia non coincide con la nostra concezione della terra – “geo” – ma è l’idea
che in ogni punto dello spazio vi sono diversi mondi coesistenti nello stesso
contesto. Deleuze e Guattari hanno cercato di applicare quest’idea parlando di
“geofilosofia”, ma l’hanno fatto dal loro punto di vista postmodernista
occidentalecentrico liberal. Al fine di rimarcare la differenza fra il loro approccio
eccessivamente dogmatico e l’approccio aperto della Noologia, ho pertanto
introdotto il termine Geosofia.

L’idea della Geosofia è che al fine di studiare le altre culture sia necessario
assumere completamente la loro concezione del mondo. In altri termini, non si
dovrebbe in alcun modo proiettare su di esse la propria visione degli aspetti
soggettivi e oggettivi della realtà ma cercare di comprendere cosa per tali culture
(siano esse arcaiche o moderne, nordamericane o australiane e così via) è il mondo
oggettivamente e soggettivamente – ammettendo che esse possiedano una
distinzione del genere, il che non può esser dato per scontato dacché potrebbero
esservi culture prive dei concetti di soggetto o di oggetto. Ad esempio, nei miei
lavori di ricerca ho scoperto alcune culture molto particolari caratterizzate
dall’assenza del concetto di soggetto, come i popoli arcaici abitanti l’estremo nord
della Čukotka e della Kamčatka o alcune tribù nordamericane. Si tratta di qualcosa
di incredibile per noi, come pure per gli africani, dal momento che la maggior parte
delle culture africane si basa sul soggetto, sebbene di un tipo totalmente diverso
dal nostro. In definitiva, esiste una grande varietà di culture, molte delle quali ben
oltre la nostra capacità di immaginazione; cionondimeno occorre accettarle tutte
come tali, nel modo in cui esse concepiscono se stesse, senza giudicarle né
gerarchizzarle come fa l’antropologia evoluzionista.

Questo approccio ci conduce ad una nuova visione della Terra e dell’umanità, non
più costituita da civiltà che cercano tutte allo stesso modo di ottenere potere e
risorse e da popoli che combattono gli uni contro gli altri tutti secondo modalità
conformi ai nostri modelli, ma da popoli totalmente diversi tra loro, alcuni dei quali
saranno inclini alla guerra a differenza di altri che invece saranno pacifici, dove ad
esempio alcuni adopereranno nel combattimento dardi e loro derivati mentre altri
si rifiuteranno di usarli per considerazioni di ordine morale dettate dalla loro
specifica cultura – si pensi agli aborigeni australiani, per i quali è immorale tutto
ciò che viola la reciprocità uccidere-essere ucciso simboleggiata dal boomerang;
pensare che un oggetto così banale come un dardo possa essere vietato sulla base
di considerazioni morali è indicativo del fatto che ci troviamo di fronte a Logoi
completamente differenti, e dunque a popoli che vivono in mondi diversi. Esistono
dunque tanti popoli che pensano in modi completamente differenti e vivono in
mondi così diversi che il loro studio – uno studio il cui obiettivo non è giudicarli
distinguendoli in più o meno sviluppati ma comprende il loro modo di concepire il
mondo – ci lascia attoniti.

Lo scopo della Geosofia è di raggiungere le differenti forme di pensiero che


costituiscono l’umanità, le quali non rappresentano solo differenti interpretazioni
della stessa realtà – come vorrebbero i multiculturalisti – ma costituiscono
differenti realtà, differenti mondi che coesistono in modi diversi, a volte
instaurando rapporti drammaticamente conflittuali, altre volte pacificamente.

2. Momento della Noomachìa come identità culturale dinamica


La Geosofia rappresenta una metodologia per descrivere le civiltà. L’idea centrale è
che occorre riconoscere le civiltà come culture e come mondi definiti dai rispettivi
popoli che li abitano. Nel secondo volume del progetto Noomachìa dedicato alla
Geosofia [2], ho compilato una rassegna delle principali scuole di studio delle
civiltà, da Danilevskij a Spengler, da Toynbee a Huntington, e molti altri ancora. Il
volume della Geosofia costituisce una sorta di introduzione agli altri volumi del
progetto Noomachìa, in cui vengono studiati i mondi e le civiltà specifiche.

Cos’è una civiltà? Per civiltà intendiamo una comunità collettiva che
condivide una medesima visione del mondo e vive in uno stesso mondo:
un popolo, un’entità geosofica o una comunità organica che condivide gli
aspetti principali di una cultura e vive approssimativamente in uno
stesso mondo i cui confini sono legati alla lingua, alla religione, ai valori,
ad una comune visione del mondo e così via. A volte si tratta di un
mondo davvero piccolo, come una tribù, altre di un mondo costituito da
milioni di uomini.

Nello studio di ognuna di queste entità geosofiche, al fine di redigerne una sorta di
rassegna, noi scorgiamo ovunque il “momento della Noomachìa”. Cos’è il momento
della Noomachìa? Si tratta del punto di equilibrio nel conflitto tra i tre Logoi. Essi
sono in lotta, e il momento tangibile di questa lotta corrisponde precisamente
all’identità reale della specifica cultura o civiltà. Ad esempio, la cultura greca si
basa sul dominio e sulla vittoria del Logos apollineo sul Logos di Cibele. Alla
tradizione pelasgica pre-ellenica della Madre di tutti gli dèi – la Madre greca
rappresentata nella cultura micenea e minoica – fa seguito l’invasione ellenica con
valori apollinei completamente differenti. L’identità della cultura greca, il momento
della Noomachìa, è precisamente il Logos di Apollo nelle sembianze di Zeus che
sconfigge Crono, l’oracolo della Grande Madre. Il momento in cui il Logos apollineo
prevale sul Logos della Grande Madre rappresenta una vittoria nella titanomachìa
e la civiltà greca si basa precisamente su questo momento vittorioso. I titani, figli
della Grande Madre, attaccano gli dèi; questi reagiscono e prevalgono, ma non è
sempre così. Nel caso della civiltà greca, gli dèi olimpici vincono, Apollo vince su
Cibele. Questa è anche una guerra del pensiero – Noomachìa –, un conflitto nel
quale in questo caso il patriarcato vince sul matriarcato. La civiltà greca non è
l’unica a basarsi su questo momento della Noomachìa. Anche la civiltà iranica ad
esempio si basa su un’idea molto simile a quella greca perché c’è la vittoria di
Ohrmazd, il dio della luce, su Ahriman, il dio delle tenebre. Due nomi diversi, ma la
stessa simmetria, la stessa titanomachìa e la stessa vittoria. Due tipi di civiltà
diversi fondate su momenti della Noomachìa simili. Lo stesso può dirsi per altre
culture.

Al fine di definire il Logos sull’asse orizzontale delle concrete civiltà, dobbiamo


definire il momento della Noomachìa in cui ci troviamo. Ad esempio, la maggior
parte delle società indoeuropee – germanica, celtica, romana, greca, iranica,
indiana – si basano sullo stesso momento della Noomachìa: la vittoria del Logos di
Apollo sul Logos di Cibele. Noi abbiamo l’idea che ogni civiltà si basi sullo stesso
momento, ma non è affatto così. Un esempio molto significativo è rappresentato
dalla civiltà cinese, la quale è ben diversa dai casi finora citati poiché rappresenta
una civiltà puramente dionisiaca in cui vi è un equilibrio tra Yin e Yang, tra
maschile e femminile, tra cielo e terra, e non la dominazione del cielo sulla terra; in
altri termini, la norma è l’equilibrio, non la vittoria degli dèi sui titani. Si tratta di
una logica completamente differente. Non vi è un Logos apollineo ma dionisiaco.
Tutto ciò che sappiamo sulla civiltà cinese, dal primo imperatore all’epoca
contemporanea, da Qin Shi Huang a Hu Jintao, rappresenta un momento
dionisiaco della Noomachìa, e ogni cambio di equilibrio avviene all’interno di
questo momento dionisiaco. Così, i cinesi vivono in un mondo dionisiaco. Ma
questo non è il “destino” dei cinesi; in altri termini, è errato affermare che tale
momento durerà in eterno. Non si tratta di una prescrizione o della “verità finale”,
la nostra è una rilevazione del momento nella Noomachìa.

Al fine di studiare le differenti civiltà, il primo passo è dunque quello di definire il


momento attuale della Noomachìa. Nella fase successiva dobbiamo presumere che
la Noomachìa possa cambiare, dacché il momento della Noomachìa non è statico
bensì dinamico. Ad esempio, al fine di garantire l’equilibrio dionisiaco, la cultura
cinese per migliaia di anni ha profuso tutti gli sforzi possibili. Lasciare che le cose
andassero per il loro verso, senza intervenire attivamente, avrebbe rovesciato tale
equilibrio. Non si può dunque dare per scontato che i cinesi si troveranno sempre
in un momento della Noomachìa dionisiaco; se per ipotesi venissero colonizzati, o
se la loro società venisse distrutta dall’interno, verrebbero a mancare gli sforzi
esistenziali di milioni di persone tesi a mantenere stabile l’equilibrio dionisiaco tra
Yin e Yang, il quale collasserebbe. Lo stesso vale in Europa. Se gli europei
smettessero di battersi per Apollo, apparirebbe immediatamente Cibele poiché
essa è sempre in agguato e attaccherebbe immediatamente nel momento in cui
noi smettessimo di imporre la volontà apollinea.

Questo è un punto molto importante. Il momento della Noomachìa non va inteso


come l’identità eterna – data per scontata una volta per tutte – di una cultura o
civiltà. In ciò si manifesta il significato della storia come lotta dei Logoi. Ogni
popolo ha una propria versione di questa lotta, e ogni cultura si trova in momenti
diversi di questa Noomachìa, momenti definiti dalla proporzione in cui un Logos
domina sugli altri: vi sono popoli in cui domina Cibele, come gli afroasiatici, i semiti,
gli egiziani, i berberi, popoli naturalmente inclini alla prevalenza del Logos
cibeliano, ma non si tratta di un destino già scritto poiché tale equilibrio può essere
rovesciato, e di tanto in tanto questo accade. L’identità dei popoli è un processo, è
qualcosa che muta, è dinamica. Il momento della Noomachìa può rimanere
identico a se stesso o può cambiare. Le proporzioni in cui si presentano i tre Logoi
possono variare da popolo a popolo, da società a società, e anche da un’epoca
all’altra nella storia di uno stesso popolo, senza che peraltro vi siano mutazioni
etniche o sociali.

Otteniamo così una struttura della Geosofia realmente dinamica e multilivello.


Possiamo rilevare “differenze orizzontali” tra società che vivono in spazi geografici
diversi, le quali possono avere simili o differenti momenti della Noomachìa, e
anche se vi sono società che condividono lo stesso momento della Noomachìa esso
può esprimersi in forme, e dunque identità, diverse. Inoltre, il fatto che si condivida
lo stesso momento della Noomachìa non significa che ci sarà automaticamente
un’intesa e una corrispondenza perfette; ad esempio, le relazioni dei greci, il cui
momento della Noomachìa è apollineo, con gli iraniani, che condividono lo stesso
momento della Noomachìa, sono state conflittuali, sebbene si trattasse di due
forme del Logos apollineo. Allo stesso tempo, in ogni cultura, in ogni entità
geosofica che consideriamo, possono verificarsi cambiamenti storici nella
prevalenza degli elementi della Noomachìa – passando dalla dominazione del
Logos di Apollo sul Logos di Cibele alla predominanza del Logos di Cibele sul Logos
di Dioniso o ancora del Logos di Dioniso sugli altri e così via –, e la storia, la
direzione di questi cambiamenti non è universale, poiché si tratta del prodotto di
un processo dinamico interno al popolo. Pertanto, abbiamo molte civiltà che
vivono nei rispettivi mondi con molti, differenti momenti della Noomachìa che
prendono direzioni diverse: non procediamo quindi tutti verso Cibele, o verso
Apollo, ma ognuno segue una sua strada.

La Geosofia implica il riconoscimento della molteplicità delle culture in ogni senso,


nello spazio e nel tempo: tutti sono diversi e procedono lungo direzioni diverse, in
spazi differenti e con un finale aperto. Ora si compari questo approccio con la
concezione predominante della storia in cui vi è un solo spazio, un solo tempo, un
solo obiettivo, solo una verità e una sola via per raggiungerla costituente la norma
universale. In contrapposizione a questa concezione della storia umana puramente
razzista ed etnocentrica, la Geosofia propone di scoprire i tanti mondi che vivono
proprio qui sulla Terra: nuovi mondi, altri mondi vivono affianco a noi, mondi che
tuttavia non rileveremo finché ci ostineremo a proiettare la nostra specifica e
ristretta visione su di essi. A tale proposito, l’autore eurasista Trubeckoj una volta
ha osservato, considerando la struttura di un libro di diritto scritto in Occidente,
che al diritto romano e al suo sviluppo vengono dedicate un migliaio di pagine
mentre solo due pagine vengono riservate al diritto cinese; così, il diritto romano
viene considerato universale mentre degli altri sistemi giuridici non viene fatta
neppure menzione, o se viene fatta si tratta di un richiamo superficiale per di più
caratterizzato da un’interpretazione condotta dal punto di vista del diritto romano.
Una situazione analoga si verifica nell’ambito della globalizzazione liberale
moderna, che prevede l’affermazione di un’unica civiltà – la civiltà occidentale, che
pretende di essere universale poiché basata sulla mescolanza – a scapito di tutte le
altre, estendendo all’umanità intera la stessa cultura moderna e postmoderna
occidentale (il concetto totalitario dei diritti umani, prettamente razzista poiché
fondato sulla concezione occidentale di cosa è umano assurta al rango di norma
universale, il sistema liberal-democratico, ecc.). Questo è tutto fuorché una visione
basata su pluralismo e tolleranza. Si tratta di un vero e proprio razzismo
colonialista fondato sui pregiudizi più brutali, a cui la Geosofia, per contro, oppone
un invito alla alla rigorosa accettazione della ricchezza insita nella molteplicità dei
popoli, delle società, delle civiltà.
La Geosofia assume dunque il compito rivoluzionario di distruggere l’approccio
finora predominante al fine di ri-scoprire il mondo, di decolonizzare ogni civiltà e
conferire all’altro da sé il diritto ad essere altro senza il bisogno di chiedere il
permesso ai globalisti, a Soros, agli americani, ecc., e di affermare la propria
identità autentica indipendentemente da ciò che la caratterizza – sia essa radicale,
estremista, arcaica, ecc.

3. L’orizzonte esistenziale
La Geosofia si oppone all’approccio etnocentrico e colonialista dominante non dal
punto di vista etico ma metodologico dacché il prospettivismo si basa sullo studio
attento delle civiltà senza alcun pregiudizio. Ad esempio, noi che siamo russi e
ortodossi, descriviamo negativamente le società cannibali poiché la pratica del
cannibalismo per noi è satanica, demoniaca e indice di sottosviluppo; tuttavia, nel
far questo noi non le stiamo esaminando in prima persona, interpellando i loro
membri, ma le stiamo modificando attraverso la nostra particolare concezione. Si
tratta della stessa pratica che utilizziamo con i popoli che ci circondano. E questo è
fonte di malintesi, di equivoci. Tale approccio va dunque cambiato. L’idea della
Geosofia è di studiare le società accettando ciò che i loro membri pensano essere
la realtà, i valori, la natura, il soggetto e l’oggetto della storia.

Qui ci imbattiamo tuttavia in un grosso problema metodologico: come possiamo


studiare differenti società utilizzando gli stessi criteri, dal momento che vi è un
numero molto limitato di criteri comuni che possiamo applicare alle diverse
società al fine di osservare se vi è qualche aperta corrispondenza? Per fornire una
soluzione a questo problema, ho cercato di applicare la tricotomia dei Logoi
spiegata nella prima lezione ad ogni civiltà, e ovunque, in ogni cultura che ho
analizzato, ho effettivamente riscontrato chiare tracce di tutti loro. Vi è dunque
qualcosa di veramente universale, ma al contempo presente in svariate
combinazioni e in un perenne conflitto con un finale aperto. I tre Logoi sono
presenti ovunque e ovunque lottano dando luogo alla Noomachìa: se vi è qualcosa
di universale questi sono proprio i tre Logoi.

Ho cercato di rintracciare altri criteri utili nello studio delle civiltà e, seguendo
Heidegger e la fenomenologia, ho introdotto in primo luogo il concetto
dell’orizzonte esistenziale o spazio esistenziale.

Lo spazio esistenziale è il Da del Da-sein. Non si tratta dello spazio inteso


in termini scientifici, ma dello spazio in cui risiede l’Essere; è lo spazio in
cui si trova l’essere umano vivente e pensante, e che non esiste senza
quest’ultimo. Non si tratta quindi di uno spazio geografico, che possiamo
rintracciare sulla mappa. Dove vi è l’uomo che pensa e vive in collettività,
con una lingua, una cultura, radici, un certo sistema simbolico, vi è uno
spazio esistenziale, un orizzonte esistenziale, e dove abbiamo la stessa
struttura dell’orizzonte esistenziale, abbiamo lo stesso Dasein e quindi lo
stesso popolo o cultura. Il confine di tale spazio indica l’inizio dell’altro da
sé. Questo è molto importante al fine di identificare, separare, creare
una nomenclatura dei popoli, delle culture e delle civiltà. Se applichiamo
altri criteri, più sofisticati, più elaborati, avremo a che fare con risultati
secondari relativi a costrutti sovrastanti questo spazio esistenziale.
Il concetto di spazio esistenziale è molto importante ed è collegato al concetto di
molteplicità dei Dasein. Ho discusso tale concetto con un allievo di Heidegger, il
Professor Von Herrmann, a Friburgo, in Germania. Egli mi ha detto che Heidegger
riteneva il Dasein universale, che vi fosse cioè un solo Dasein, perché in effetti egli
era razzista, e pensava che il Dasein tedesco, europeo, greco-romano, fosse l’unico
e il solo, dunque metteva da parte gli altri Dasein derubricandoli a qualcos’altro;
per lui il Dasein era solamente uno, così come la filosofia era solamente una, il
Logos era solamente uno, e si trattava precisamente del Logos europeo
occidentale. Un etnocentrismo assolutamente legittimo, lo riconosciamo. Ma per
Von Herrmann l’unicità del Dasein discende dal fatto che il Dasein è caratterizzato
dall’essere-per-la-morte, e quindi è definito da Heidegger in relazione alla morte,
che è la stessa per ogni essere umano. A questa argomentazione, che non
condivido affatto, ho ribattuto che ogni cultura, ogni Dasein ha la sua specifica
relazione con la morte, ed è precisamente nelle differenze esistenti in questo
relazionarsi alla morte – che concordo nel considerare la più importante
caratteristica del Dasein – che si manifestano la particolarità e l’originalità del
Dasein e, in ultimo, la sua molteplicità. Questo risulta evidente nel mio secondo
libro su Heidegger (ne ho scritti quattro) intitolato “Martin Heidegger: la possibilità
di una filosofia russa” [3], dove ho applicato i criteri esistenziali di Heidegger al
Dasein russo, scoprendo che la maggior parte di loro non funziona nel contesto
russo. Noi abbiamo differenti relazioni con il nucleo delle realtà esistenziali, con la
morte, con Dio, e così via.

Il Dasein è pertanto “multipolare” e l’orizzonte esistenziale ne definisce i confini


naturali. Questi ultimi corrispondono in parte ai confini geografici, il che è ovvio
poiché il popolo vive in un determinato spazio fisico. In tal senso, possiamo
considerare lo spazio esistenziale come una sorta di spazio vitale, il concetto
geopolitico di lebensraum. Ma allo stesso tempo, lo spazio esistenziale non può
esistere senza un popolo, una lingua, delle tradizioni; in altri termini, se noi
poniamo una popolazione mista in un qualche spazio, questo non rappresenterà
uno spazio esistenziale.
Il Dasein non corrisponde solo allo spazio né unicamente al popolo, esso è la
relazione esistenziale del Sein, l’Essere, con lo spazio, che passa attraverso il
popolo, la cultura, il pensiero umano. Si tratta di un concetto davvero particolare,
molto importante per la Geosofia poiché tale disciplina si occupa di studiare
precisamente gli orizzonti esistenziali e dunque la relazione dell’Essere con lo
spazio che passa attraverso la cultura, la lingua, le tradizioni, l’identità.
Nell’ambito della Geosofia, lo studio di un popolo non si traduce in uno
studio etnologico basato su alcuni aspetti statistici o formali, ma nello
studio del Dasein. A titolo d’esempio, se studiamo il popolo serbo in
termini geosofici, dovremmo porci in primo luogo la seguente domanda:
cosa significa essere serbo? Non è facile dare una risposta. Ogni riposta
formale si rivela insufficiente. Poesia, filosofia, immaginazione,
aspirazioni politiche: in questa domanda rientra tutto. Non si può fornire
una risposta ad essa limitandosi ad aspetti astratti. Per rispondere a un
interrogativo del genere è necessario scandagliare la storia, le vittorie, le
forme statuali succedutesi, le sconfitte e gli errori storici dacché
l’orizzonte esistenziale è connesso allo spazio e al popolo non in modo
immateriale. Per ottenere risultati validi dalla ricerca geosofica occorre
iniziare a studiare cosa è il Dasein ponendo la questione in questi
termini. Heidegger riteneva il Dasein unico; noi conveniamo al contrario
che vi sia una molteplicità di Dasein, ed è precisamente partendo da
questo concetto di molteplicità che possiamo porci la questione di cosa
significa essere serbo in termini geosofici, una questione che ha a che fare
con qualcosa per cui il popolo ha pagato con il sangue lungo la storia
della sua intera esistenza, e da cui dipende anche l’identità futura. La
risposta a questa questione infatti non riguarda solo aspetti del passato
o del presente; possiamo dire che si tratta di una questione “eterna”,
concernente un’identità determinata dal trovarsi inscritti all’interno di un
orizzonte esistenziale per cultura, lingua, valori, tradizioni, oltre che dal
situarsi fisicamente, corporalmente in esso.
4. Il tempo esistenziale
Abbiamo fin qui discusso dell’orizzonte esistenziale, una nozione chiave senza la
quale non è possibile indagare l’identità profonda delle entità geosofiche oggetto
del nostro studio. Il secondo concetto chiave della Geosofia che andremo ora ad
introdurre è quello di tempo esistenziale, anch’esso di origine heideggeriana.

In Essere e Tempo, Heidegger opera una distinzione tra due


termini: Geschichtliche e Historische, entrambi traducibili con “storico”. A volte
Heidegger usa il termine Seynsgeschichtliche, l’onto-storia, ad indicare la storia
dell’Essere. Geschichtliche o Seynsgeschichtliche sono termini usati per rappresentare
il tempo legato all’Essere. Se Da è lo spazio legato all’Essere, Geschichtliche sta ad
indicare il tempo connesso all’Essere, il tempo dell’Essere o tempo esistenziale.
Henry Corbin, grande filosofo francese nonché uno dei massimi esperti nella
tradizione esoterica islamica, nel tradurre Geschichtliche e Historische in francese, al
fine di esplicitare la differenza tra i due concetti, ha utilizzato i termini “historique”
(storico) per Historische e “historial” (istoriale) per Geschichtliche. Per istoriale
intendiamo il genere di storia dell’Essere, la storia non come susseguirsi di fatti ma
come successione di significati, di sensi. L’istoriale (Geschichtliche) rappresenta una
forma di lettura esistenziale dello storico (Historische). Lo storico è il fatto che viene
documentato, l’istoriale è la spiegazione del fatto, il suo aspetto ontologico. Nella
storia, compiamo azioni, gesta, opere che possono essere storiche o istoriali.
Affinché si rivelino istoriali, devono relazionarsi col Dasein, con la nostra identità,
con le nostre profonde radici.

Allo spazio esistenziale si va ad affiancare dunque il tempo esistenziale. Il tempo


esistenziale rappresenta la nostra interpretazione della nostra storia; sottolineo:
nostra. I fatti contenuti in questa interpretazione della storia ci dicono tutto della
nostra anima, del nostro sangue, del nostro spirito, mentre per altri potrebbero
rappresentare eventi senza alcun significato. Ad esempio, la guerra in Kosovo per i
serbi non appartiene semplicemente alla sfera dello storico ma è un evento che
costituisce una parte cruciale dell’istoriale serbo, un momento chiave per
comprendere cosa significa l’essere serbo prima e dopo gli eventi del Kosovo; la
guerra in Kosovo rappresenta la fine di qualcosa, l’inizio di qualcos’altro e al
contempo un conflitto eterno, e l’eternità di questo evento ha a che fare
precisamente con l’aspetto esistenziale del Dasein serbo. Per noi russi è lo stesso
con la seconda guerra mondiale, che per noi però è la Grande guerra patriottica, a
dimostrazione del fatto che un evento può avere molteplici significati. Il significato
di un determinato evento appartiene al popolo, al Dasein, e la realtà di cosa è
stato, cosa è e cosa sarà dipende direttamente da tale relazione esistenziale con il
tempo.

Husserl identificava il tempo con una melodia, cioè una sequenza di note musicali
che sottende una logica, una tonalità per cui una nota è in qualche modo
predefinita dalle note precedenti e la presenza di una nota stonata turba
l’ascoltatore; allo stesso modo, la storia, o meglio la sfera dell’istoriale, non
rappresenta una semplice sequenza temporale di fatti sconnessi ma una
successione di eventi che ha una sua logica. La storia è musica, ma solo il relativo
popolo o Dasein può comprendere appieno questa musica istoriale. In altri termini,
essa non è universale; l’istoriale di ciascun popolo opera ad una particolare
frequenza sonora tale per cui nessun altro è in grado di sentire e comprendere
perfettamente la propria melodia. Non potendo quindi ascoltare perfettamente
una melodia dall’esterno, risulta particolarmente difficoltoso esprimere delle
valutazioni sulla condizione di uno specifico popolo, se esso stia vivendo una fase
positiva o negativa, se si stia sviluppando o stia decadendo, ecc. Non ci sono criteri
universali nell’ambito dell’istoriale, perché la relazione con tempo è una proprietà
esistenziale del Dasein.

Orizzonte esistenziale (spazio esistenziale) e tempo esistenziale (istoriale) sono


definiti entrambi dalla Noomachìa, poiché in ogni momento non si può esprimere
la propria melodia nella storia o la propria identità come popolo situato nello
spazio esistenziale senza fare appello ai tre Logoi e al conflitto che li vede partecipi.
Esiste una sorta di equilibrio dinamico dei Logoi proprio di ogni popolo, per cui solo
attraverso di esso si può spiegare l’istoriale e l’orizzonte esistenziale di un popolo.
Possiamo immaginare i tre Logoi come tre tipi di chicchi di grano seminati nel
campo esistenziale; essi germoglieranno e cresceranno, qualcuno di loro
verosimilmente prevarrà mentre altri rimarranno nell’ombra; ogni terreno
esistenziale farà crescere in modo diverso le differenti sementi, ma i tre tipi di semi
saranno tutti presenti nell’orizzonte esistenziale. Il modo in cui essi crescono, si
combinano e confliggono tra loro, varia da popolo a popolo; ogni popolo con il suo
relativo istoriale presenta una specifica modalità di crescita dinamica dei tre tipi di
semi.

Da quanto detto finora, ne consegue che la storia di un popolo è qualcosa di


speciale che non può essere spiegata né compresa dall’esterno.

5. La misura
Qui ci troviamo difronte ad una contraddizione molto interessante. Abbiamo a che
fare con molti mondi, culture, identità, che si sviluppano in varie direzioni,
secondo differenti modalità e con diversi risultati. Ma come possiamo
comprendere realmente tutte queste realtà, se siamo totalmente definiti dal
nostro specifico Dasein, se apparteniamo al nostro orizzonte esistenziale, se
viviamo in un momento della nostra melodia, del nostro istoriale? In altri termini,
come posso io valutare ciò che sta succedendo al di fuori della Russia, possedendo
io unicamente una visione russa delle cose, essendo io definito dal Dasein russo? Si
tratta di un aspetto etnocentrico inevitabilmente incorporato nella mente umana.
Come possiamo, in questo contesto, risolvere il problema di essere al contempo
definiti dal proprio Dasein e di doverci occupare del Dasein degli altri? Si tratta di
una questione metodologica molto interessante e al contempo molto complessa,
senza risolvere la quale l’intera architettura della Geosofia perderebbe di senso.

Qui risulta cruciale l’idea della misura. Se noi insistiamo sull’universalità


pura e cerchiamo di superare ogni etnocentrismo, non giungiamo a nulla,
la nostra posizione diventa inconsistente, poiché non esistono spazio
esistenziale e melodia che possano abbracciare la terra, l’intera umanità
e la storia universale. Se pretendiamo di creare un sistema universale,
privo di ogni forma di etnocentrismo, il solo risultato sarà che in esso si
manifesterà una versione perversa, titanica, del nostro stesso
etnocentrismo. In altri termini, noi non possiamo esistere senza
etnocentrismo, e se tentiamo di negarlo totalmente, otterremo solo un
etnocentrismo ancora più marcato, titanico – non a caso globalismo e
liberalismo, nel loro universalismo e antirazzismo, si rivelano molto più
etnocentrici e razzisti di quanto non fosse il nazionalsocialismo poiché
essi concepiscono un solo fato, un solo destino per tutto il mondo, cosa
che neanche i tedeschi hanno fatto, avendo questi ultimi cercato di
imporre la loro visione germanica, certamente razzista ed esecrabile, su
una scala ben più limitata; in definitiva i globalisti, con il pretesto di
essere antifascisti, diventano iper-fascisti.

Noi non possiamo pertanto dirci universalisti, ma d’altro canto non possiamo
neanche assumere una prospettiva totalmente etnocentrica, altrimenti l’indagine
sulla Noomachìa si ridurrebbe alla storia del nostro specifico Dasein. Come
risolvere questo dilemma? La soluzione passa dal riconoscimento dei limiti naturali
dello spazio esistenziali e dall’approvazione del Dasein degli altri, il che non vuol
dire essere disposti a scambiare il proprio Dasein con quello di altri, ma
riconoscere agli altri il diritto a essere completamente diversi senza instaurare
alcuna gerarchia. Non dovremmo eliminare le diversità procedendo nella direzione
universalista, ma nemmeno imporre la nostra identità sugli altri in una prospettiva
totalmente etnocentrica. Il concetto di confine assume qui una importanza
cruciale. Per inciso, ciò di cui sto parlando non sono confini stabiliti una volta per
sempre; in questo contesto i confini possono cambiare poiché i popoli possono
svilupparsi, la loro identità può mutare e il momento della Noomachìa in cui si
trovano può modificarsi, trattandosi di entità dinamiche all’interno del processo
istoriale. Si tratta dunque di rigettare tanto l’universalismo quanto le posizioni
scioviniste, riconoscendo il diritto ad essere etnocentrici, un diritto che però non
può oltrepassare i confini dello spazio esistenziale. Questo significa essere legati
alla propria identità, difendendola quando le possibilità lo permetto e le
circostanze lo richiedono, ma riconoscendo al contempo l’innato diritto alla
diversità. In questo modo, noi non superiamo l’etnocentrismo, né lo glorifichiamo
eccessivamente.

Quella di cui sto parlando è una metodologia prettamente apollinea. L’essenza del
titanismo o del Logos cibeliano, come descritta da Friedrich Georg Jünger nel suo
famoso libro sugli dèi e i titani, è di non conoscere la misura. Sia il puro
etnocentrismo che l’universalismo sfociano nell’imperialismo e nel colonialismo,
cioè in un approccio smisurato in cui si manifesta per l’appunto l’essenza del
titanismo. Contrariamente a ciò, la metodologia apollinea prevede che si rimanga
all’interno dei propri confini, non esercitando alcuna supremazia al di fuori di essi,
senza cadere nell’etnocentrismo sconfinato da un lato o nell’universalismo
dall’altro, senza pretendere di essere il centro del mondo, o meglio l’unico centro
del mondo: noi siamo il centro del nostro mondo – se non lo fossimo non saremmo
centrati nel Dasein, nella nostra identità, nel nostro sacro territorio, nelle nostre
tradizioni, nei nostri simboli e così via, in definitiva non saremmo un popolo – ma al
contempo dobbiamo riconoscere agli altri il diritto di essere egualmente il centro
del mondo, ai loro occhi, dei loro mondi, nei loro confini esistenziali. Possiamo
chiamarlo etnocentrismo autoriflettente o misurato: noi siamo il centro del mondo
ma riconosciamo agli altri il diritto a pensare a ad essere la medesima cosa
all’interno dei loro confini esistenziali. Confini che pure non dovrebbero essere
intesi in senso titanico, cioè come barriere assolutamente chiuse e invalicabili,
trattandosi di confini tra spazi esistenziali viventi: come la pelle dell’essere umano
non è impermeabile ma traspirante, così il confine esistenziale è aperto.
Dovremmo lottare per i nostri confini, ma al contempo dovremmo permettere che
qualcosa possa entrare e uscire da essi. Cionondimeno essi devono esistere e
devono essere esplicitamente riconosciuti in senso non solo fisico ma anche e
soprattutto metafisico, come confini tra orizzonti esistenziali.

Questa è l’unica via per costruire una Geosofia equilibrata e un mondo


basato sulla multipolarità. Diversamente, giungiamo a una sorta di
umanesimo privo di essenza, di contenuto, puramente formale, che
costituisce l’altra faccia del puro razzismo, visto che per l’umanesimo
liberale chi non condivide i suoi valori non viene ritenuto umano e merita
di essere distrutto.

Ciò di cui stiamo discutendo ora non è qualcosa di astratto. Ad esempio, nella
stesura e nella pubblicazione del volume di Noomachìa dedicato al Logos del
Nordamerica, ho seguito precisamente la strada dell’etnocentrismo misurato.
Potete immaginare quale sia la mia relazione con la cultura nordamericana: io
semplicemente la odio. Occuparmene ha rappresentato una vera e propria sfida
per me. Se avessi scritto una critica dell’imperialismo americano dal punto di vista
russo, il risultato sarebbe stato caricaturale, sarei fuoriuscito dall’ambito della
Noomachìa e non avrei ottenuto una descrizione del Logos nordamericano. Invece,
scavando nelle profondità del Logos nordamericano, ho scoperto cose
completamente diverse, a me totalmente estranee, e ho iniziato a comprenderlo.
Non lo approvo, ma ora lo capisco, e comprendo da dove scaturisce la mentalità e
il comportamento di quel popolo: nel loro titanismo, nella loro creazione di una
civilizzazione artificiale post-tradizionale, nel loro tentativo di edificare una sorta di
società americana su scala globale, essi sono consequenziali al loro Logos, che si
basa sull’universalismo sin dall’inizio. Ripeto, non approvo tutto ciò, ma questo è
perfettamente logico. Vi è un mondo americano, e vi è un Logos proprio del mondo
americano che ho identificato nella filosofia pragmatica – una filosofia del tutto
particolare, molto diversa dalla filosofia europea, fondata sull’inesistenza
dell’oggetto e del soggetto, una filosofia molto interessante – da cui discende
logicamente tutto il resto.

Un altro esempio: dopo questo volume, ho indagato i Logoi croato e polacco e, con
grande stupore, ho scoperto che a dare inizio alle tendenze tradizionali slavofile
non sono stati i russi ma i croati. I croati sono stati i primi slavofili. Davvero
strano…

Riassumendo, vi sono molte cose che possiamo scoprire superando il nostro


etnocentrismo. Allo stesso tempo, dobbiamo curarci di rigettare completamente
l’universalismo imposto dai globalisti, il che tuttavia non implica riabilitare il
revanscismo, il nazionalismo, il ritorno degli Stati-nazione e così via. Ciò di cui
stiamo parlando è una nuova corrente, un nuovo modo di pensare. E ritengo che,
se impariamo ad usarlo metodologicamente, possiamo risolvere molte questioni
concrete nella sfera politica, culturale, scientifica, e in svariati altri ambiti.

Nelle prossime lezioni ci dedicheremo all’applicazione dei princìpi noologici e


geosofici fin qui discussi a casi specifici.
Andremo ora ad applicare i princìpi metodologici esposti nelle prime due lezioni a una realtà
concreta. Abbiamo in precedenza discusso della teoria dei tre Logoi [1]e dei concetti di
orizzonte esistenziale e di istoriale [2]. Adesso, andremo ad applicare tutto ciò alla civiltà
indoeuropea [3].

Anzitutto, ci andremo ad occupare dell’orizzonte esistenziale indoeuropeo. A tal


proposito, occorre specificare che il concetto di orizzonte o spazio esistenziale può
essere applicato su scale diverse, tanto alla piccole comunità quanto alle comunità di
dimensioni medie o grandi, unite ad esempio dalle medesime origini linguistiche.
Cosa si intende dunque per orizzonte esistenziale indoeuropeo? Si tratta del più vasto
tipo di unione, coincidente con lo spazio in cui vivono i popoli che parlano le lingue
indoeuropee. Alla famiglia delle lingue indoeuropee appartengono il latino e le lingue
romanze, il greco, le lingue germaniche, le lingue celtiche, le lingue slave, il persiano,
il sanscrito e le altre lingue pracrite, la lingua ittita e le altre lingue anatoliche, il
frigio, la lingua illirica, le lingue baltiche, ecc. È interessante notare come anche
la lingua romaní appartenga a questa comunità linguistica; i rom hanno origini
incerte, ma anch’essi parlano una lingua indoeuropea. Lo stesso può dirsi per la
lingua yiddish: anch’essa appartiene a questa famiglia, essendo una lingua
essenzialmente germanica. Dunque, l’ecumene indoeuropea, l’orizzonte esistenziale
indoeuropeo, è pressappoco coincidente con lo spazio abitato dai popoli che parlano
queste lingue. Si tratta di uno spazio immenso, che copre un enorme numero di
popolazioni.

Nella seconda lezione abbiamo visto che possiamo definire popoli e culture, oltre che
per mezzo del loro orizzonte esistenziale, anche attraverso il loro istoriale. È dunque
corretto parlare di storia indoeuropea, o meglio di istoriale indoeuropeo. Vedremo in
seguito in cosa consiste questa generale sequenza istoriale di eventi e quali versioni
essa ammette. Ora invece ci focalizzeremo sulle principali caratteristiche
dell’orizzonte esistenziale indoeuropeo, per poter definire il Dasein indoeuropeo.

1. Turan e teoria kurganica

In primo luogo, dobbiamo prestare attenzione a un concetto molto importante, il


concetto del Turan. Normalmente, il termine Turan viene utilizzato per indicare lo
spazio in cui vive il popolo turco, ma in realtà tale termine è di origine prettamente
iranica. Si tratta di un termine indoeuropeo appartenente all’antica religione
zoroastriana e veniva adoperato nella tradizione iranica molto prima che si
manifestassero le prime tribù turche nell’Asia centrale o nelle steppe eurasiatiche.

Qual è allora il suo significato? Conosciamo Firdūsī, poeta persiano del Medioevo,
autore di un’epopea concernente l’istoriale iranico intitolata Shāh-Nāmeh. Shāh-
Nāmehsi fonda sul conflitto tra Iran e Turan, un dualismo mutuato dall’Avesta, le
antiche fonti preislamiche. L’Iran qui sta ad indicare le popolazioni sedentarie di
discendenza iranica abitanti la regione della Media, a nord della Persia; il Turan era
invece lo spazio in cui vivevano le popolazioni nomadi. Il significato originario di
questa parola indoeuropea è “tribù” o “popolo” (come nel caso di “deutschen” o del
lituano “tautos”). Turan indica quindi il popolo delle steppe; rappresenta lo spazio
abitato dalle tribù indoeuropee nomadi.

Abbiamo dunque a che fare con un dualismo culturale e civilizzazionale molto


interessante (su cui ritorneremo al termine di questa lezione): Iran e Turan
rappresentano, nel loro significato originario, due tipologie o versioni di società
indoeuropee, rispettivamente sedentaria e nomade. Questo dualismo è molto
importante perché ha a che fare con l’origine stessa dei popoli indoeuropei. Tuttavia,
quando iniziamo ad indagare su quale tipo di società, tra Iran e Turan, sia più antica,
arriviamo alla conclusione che le tribù indoeuropee turaniche sono state le prime ad
apparire, e che quindi le popolazioni iraniche all’origine della cultura sedentaria
erano tribù ex nomadi che si erano trasformate in sedentarie. Questo significa che
tanto le tribù iraniche quanto quelle turaniche provenivano dallo stesso spazio
turanico. Tutti in effetti convengono sul fatto che l’origine della cultura indoeuropea
sia nel Turan. Vi sono tuttavia molti dibattiti concernenti la sua esatta localizzazione:
per alcuni il centro di tale cultura andrebbe ricercato molto più ad est, per altri a sud
degli Urali, per altri ancora nell’area del Caspio o a nord del Mar Nero. Ma, in ogni
caso, la patria originaria, la cosiddetta l’Urheimatdei popoli indoeuropei, va collocata
da qualche parte nella vasta area che va dal Danubio alla Siberia meridionale.

L’individuazione della patria originaria costituisce un punto centrale nello studio


della civiltà indoeuropea. Un secondo punto fondamentale da tener presente è che le
prime culture indoeuropee erano nomadi, quindi strettamente legate alla pastorizia.
Le prime tribù turaniche erano cioè costituite sostanzialmente da pastori nomadi. A
tal proposito, consiglio la lettura delle opere di Marija Gimbutas, archeologa e
linguista lituana, la quale ha illustrato brillantemente l’espansione indoeuropea.
Secondo Marija Gimbutas, così come per numerosi scienziati e archeologhi russi,
l’origine delle tribù indoeuropee va collocata da qualche parte a sud degli Urali,
presso la città di Čeljabinsk, dove è stato recentemente scoperto un antichissimo
insediamento turanico delle tribù indoeuropee nomadidal nome Arkaim.

È comunemente accettato che il popolo da cui origina la letteratura vedica indiana


provenisse anch’esso da nord, da quello stesso spazio turanico da cui venivano gli
antenati dei popoli iranici, ellenici, romani, latini, germanici, celti, slavi, baltici e ittiti
(a cui appartenevano alcune delle tribù più antiche). Tutti questi popoli provenivano
dallo stesso spazio turanico, dalla stessa patria originaria, dalla stessa Urheimat. E
tutti loro erano latori della stessa cultura nomade pastorale. Secondo
Marjia Gimbutas, queste tribù indoeuropee – diffusesi a più ondate migratorie,
ciascuna delle quali portava con sé nuove forme linguistiche, nuove combinazioni di
diversi dialetti all’origine delle moderne lingue indoeuropee – erano portatrici di
quella che è stata denominata cultura Kurgan.

Nella nostra trattazione, la teoria kurganica acquisisce un ruolo di primo piano.


Possiamo ricostruire, seguendo questa teoria, l’intera sequenza storica delle fasi di
creazione delle società indoeuropee. Il primo punto dell’ipotesi kurganica è che vi era
l’Urheimat, la patria ancestrale indoeuropea, collocata qualche parte a sud degli
Urali. Il secondo punto è che i proto-indoeuropei erano popoli nomadi e pastorali;
non si trattava dunque di coltivatori stanziali. Essi erano guerrieri, furono i primi
nella storia a domesticare i cavalli, e si spostarono attraverso le steppe al fine di
conquistare nuovi spazi: partendo dall’Urheimat giunsero in India, per poi
colonizzare l’intera Eurasia arrivando fino alle isole britanniche. Pertanto, nell’ipotesi
kurganica, gli antenati di ogni tribù e popolo indoeuropeo erano nomadi e pastori,
vivevano nello spazio turanico parlando tutti la medesima lingua proto-indoeuropea
da cui originano tutte le lingue indoeuropee, ed elaborarono una cultura che è
all’origine di ogni società e civiltà indoeuropea: una cultura e civiltà proto-
indoeuropea che possiamo identificare con il modello di vita nomade, con l’etica
guerriera ed eroica, con il domesticamento dei cavalli e – molto importante! – con
il cerchio solarecome suo simbolo principale.

L’etnologo tedesco Leo Frobenius ha descritto il ciclo storico di una cultura


suddividendolo in tre stadi:
• il primo stadio è l’Ergriffenheit, la«commozione», la fascinazione, l’essere
affascinati da qualcosa, l’essere posseduti dallo spirito, dalla bellezza, da un Dio, da
un sentire interiore, ecc.;
• il secondo stadio è l’Ausdruck, l’«espressione» di questa possessione, il liberarsi da
questa possessione cercando di esprimerla in immagini, in forme esteriori che
possiedono e fascinano chi le esprime;
• il terzo stadio è l’Anwendung, l’«utilizzazione», l’applicazione del risultato di
questa espressione all’ambito tecnico.
Possiamo vedere come nella fase indoeuropea turanica arcaica, tutti e tre questi stadi
siano legati al concetto del cerchio. Prima di tutto vi è il sole, inteso come segno
apollineo. Il primo stadio è la fascinazione nei confronti del sole, l’esser posseduti dal
sole, l’adorazione del fuoco, della luce, del sole stesso come centro della propria
fascinazione. Il secondo stadio è la creazione del suo simbolo, il simbolo del cerchio,
che viene venerato dai suoi adoratori come un qualcosa che li possiede, come una
sorta di loro concentrazione interiore. Il terzo stadio è l’applicazione tecnica di questo
simbolo: ecco dunque comparire la ruota, e con essa il carro. È comunemente
accettato che i primi aurighi sono stati indoeuropei. E con l’aiuto del carro, essi
hanno conquistato ogni area dell’Eurasia, dall’India alle isole britanniche, passando
per la Persia, la penisola ellenica e i Balcani. Tutti gli spazi europei vennero
conquistati per mezzo del carro trainato da cavalli e basato sulla ruota, cioè
sull’applicazione del cerchio solare all’ambito tecnico. Riassumendo: essi erano
fascinati dal sole, adoravano il sole, hanno usato dal punto di vista tecnico il simbolo
del sole al fine di creare il carro, e, per mezzo di esso, hanno espanso i raggi della
loro cultura solare su tutto il continente eurasiatico a partire dall’Urheimat turanica.
È pressappoco questa la sequenza istoriale indoeuropea dell’epoca preistorica. Si
tratta di una sorta di destino: essere come il sole, dunque risplendere ed espandere la
luce della propria cultura solare a partire dal punto iniziale, dalla patria originaria.

Questo è un punto molto importante al fine di comprendere cosa sia il Dasein


indoeuropeo, il quale si riflette in tutte le lingue e le culture indoeuropee. Tutti i
popoli indoeuropei discendono e sono predefiniti dal Dasein indoeuropeo solare della
cultura turanica appartenente alle tribù nomadi e guerriere delle steppe. Dal cuore del
Turan – che possiamo presumere essere da qualche parte a sud degli Urali, dove per
inciso sono state ritrovate le prime ruote e le prime tracce di domesticazione dei
cavalli – si è avuta quindi una sorta di espansione, che non è stata solo fisica (al fine
di cercare nuove terre per nutrire i cavalli e così via) ma anche culturale: a partire
dalla “patria sacra” della tradizione indoeuropea, dal polo solare situato nel cuore del
Turan, ha avuto inizio un’espansione a più ondate dei raggi solari della cultura
Kurgan in tutte le direzioni possibili. Così, i latori principali di questa cultura, le tribù
nomadi indoeuropee, hanno colonizzato pressoché l’intero continente eurasiatico. La
conclusione più importante che possiamo trarre è che il prototipo della cultura
indoeuropea oggetto del nostro studio va rintracciata nelle tribù indoeuropee nomadi,
come le attuali tribù afghane (Pashtun), ossete (dirette discendenti dei Sarmati) o
irano-pakistane (Beluci) che hanno preservato e rinnovato questo tipo di cultura
turanica e alcune delle quali si sono solo di recente sedentarizzate.

Questa era anche l’idea dell’ultimo Oswald Splengler. Vi è uno scritto postumo e
incompiuto di Splengler, pubblicato recentemente, intitolato The Epic of Man,nel
quale l’autore de Il tramonto dell’Occidenteipotizza l’esistenza di tre proto-civiltà:
Atlantis (con la sua cultura megalitica), Kush (che copre l’area afroasiatica tra il Nord
Africa e il Vicino oriente) e Turan (che copre l’area dall’Europa centrale alla Cina).
Questa teoria si adatta perfettamente con l’ipotesi kurganica di Marjia Gimbutas e
con gli studi linguistici sul proto-indoeuropeo, poiché l’origine comune delle lingue
indoeuropee viene individuata nella medesima area turanica indicata da Spengler, la
quale a sua volta coincide con l’Urheimatproto-indoeuropea da cui, secondo la teoria
kurganica, provengono i progenitori dei popoli indoeuropei. Spengler, Gimbutas,
archeologi, linguisti: tutti indicano la medesima area, il Turan.

2. La struttura del Logos indoeuropeo

Ora, cosa possiamo dire sulla struttura noologica della società turanica proto-
indoeuropea? Qui, ci viene in aiuto un autore molto importante, Georges Dumézil, di
cui consiglio caldamente la lettura. Dumézil è stato uno storico francese che ha
dedicato la sua intera vita ad una brillante indagine sulla cultura indoeuropea,
effettuando uno scrupoloso esame comparativo tra tutti i tipi di mitologie, religioni,
leggende, canti, simbolismi, ecc., appartenenti alle tradizioni scritte e orali dei popoli
indoeuropei. Tra i numerosi libri che ha scritto, raccomando la lettura di un testo
molto importante intitolato L’Idéologie tripartie des Indo-Européens[4], che
costituisce una sorta di sinossi dei suoi studi su questo tema.

Il principale risultato delle sue ricerche sulla struttura della società indoeuropea è
la teoria trifunzionale. Dumézil arrivò alla conclusione che tutti i tipi di culture
indoeuropee, siano esse antiche o moderne, si basavano su di una tripartizione
funzionale. In sostanza, cioè, ogni società indoeuropea è costituita da tre caste:
• la prima casta, corrispondente alla funzione della sovranità religiosa, è quella
dei re-sacerdoti; essi non erano considerati uomini ma esseri divini o sacri: re sacri o
sacerdoti sacri. I re-sacerdoti possedevano una propria etica, una propria metafisica,
uno speciale tipo di spirito fatto di luce, e il loro ruolo si basava sull’idea stessa del
Sole; in altri termini, essi rappresentavano il «Sole sulla Terra», la luce, venendo
considerati come figli di una divinità celeste. Questa casta può essere confrontata con
la casta indiana dei Bramini;
• la seconda casta, corrispondente alla funzione della forza, della potenza bellica, è la
casta dei guerrieri. Nel sistema iranico, i guerrieri erano aurighi, i quali costituivano
il simbolo principale dell’espansione nello spazio turanico delle tribù indoeuropee.
Nel sistema indiano, la casta dei guerrieri corrisponde a quella degli Kshatriya;
• infine abbiamo la terza casta, quella dei semplici pastorio allevatori di animali
(bovini, cavalli, ecc.).

Tutta la società rappresentava una sorta di esercito, un esercito che si muoveva nello
spazio al fine di combattere e di morire. A differenza nostra, per loro la morte
rappresentava una forma di “elevazione”. Essi consideravano l’anima come una
scintilla celeste discesa sulla terra per fare ritorno in cielo. Di conseguenza, il
traguardo massimo di un guerriero non era di sopravvivere ma di morire giovane in
battaglia; allo stesso modo, il compito del sacerdote non era di vivere a lungo ma di
vivere saggiamente, di divenire saggio, puro, di purificare sé e gli altri, mentre lo
scopo del pastore era di essere federe e coraggioso, e di possedere molti bovini, ovini
e cavalli.

Tale società si caratterizzava per una rigorosa gerarchia verticale, con i sacerdoti al
vertice, i guerrieri nel mezzo e i pastori alla base. I semplici pastori si trovavano in
basso poiché essi avevano a che fare con gli aspetti più materiali della vita, dunque
erano considerati meno “puri” e meno perfetti, ma essi cercavano ugualmente di
essere saggi come i re-sacerdoti e coraggiosi come i guerrieri. Il sistema valoriate,
dunque, non si basava sui semplici pastori e sui loro obiettivi, ma al centro vi erano i
sacerdoti e i guerrieri, i quali definivano i valori etici della terza casta.

In questa condizione di assoluta verticalità possiamo identificare la variante più pura


del Logos di Apollo, la sua più espressiva, brillante e chiara manifestazione
noologica. Tutti i viventi venivano considerati provenienti dalla luce solare, una luce
che discende nei sacri re-sacerdoti, nei guerrieri per mezzo dei quali ha luogo
l’espansione indoeuropea, e infine nei pastori; una luce celeste che discende per fare
ritorno nuovamente in cielo. È interessante notare come la terra nelle steppe turaniche
fosse dura, di una qualità che la rendeva inadatta alla semina e alla piantumazione; si
trattava quindi di un tipo di spazio che predisponeva il ritorno in cielo di ciò che
scendeva su di esso, dacché non vi era alcuna dimensione sotterranea. Le creature
simbolicamente più demoniache, più negative, erano infatti il topo o il serpente che
vivevano sotto la superficie delle steppe. Tale società era priva di radici, o meglio le
vere radici erano in cielo. In una tradizione del genere, la società, la realtà umana,
non rappresentavano qualcosa che cresce dalla terra ma piuttosto che sorge dal cielo,
che espande le sue ramificazioni discendendo sulla terra – precisamente nella forma
delle tribù indoeuropee – e che in seguito fa ritorno alle radici che l’hanno generata, il
che significa fare ritorno in cielo, al dio, al fuoco; di qui la pratica della cremazione,
affinché i morti possano fare ritorno all’origine solare. Si tratta di una concezione
diametralmente opposta a quella a cui siamo avvezzi oggi. Questa tradizione
indoeuropea prettamente nomade corrispondeva ad un Logos di tipo puramente
apollineo.

Possiamo dire che essere indoeuropeosignifica essere apollineo. E ogni genere di


società indoeuropea a noi noto – dai celti ai germani passando per i latini, gli illiri, i
traci, gli elleni, i greci, gli ittiti, gli iranici, gli indiani, i sarmati, gli slavi, i baltici,
ecc. – originariamente si fondava su tale Logos apollineo. Il nome «Apollo» è di
derivazione greca, ma possiamo individuare facilmente lo stesso concetto nei Veda,
nell’Avesta, nei miti di Odino, nelle leggente celtiche. Dumézil ha raccolto tutte
queste mitologie al fine di compararle, e leggendo le sue opere, i lavori della scuola
fondata da lui e portata avanti da Emile Benvaniste – una delle più importanti autorità
linguistiche del ventesimo secolo, creatore di una sorta di dizionario dei termini
economici indoeuropei che dimostra la fondatezza dell’ipotesi duméziliana –, ci
appare tutto molto chiaro.

Il secondo punto della teoria di Dumézil su cui vorrei soffermarmi è ciò che egli
chiama «ideologia indoeuropea» [5]. L’ideologia indoeuropea è una struttura
immutabile, immarcescibile, che è rappresentata nel linguaggio, nella cultura, nei
simboli, nella mentalità dei popoli indoeuropei che è esattamente la stessa dal tempo
dell’Urheimat. In altri termini, vi sono princìpi costanti che influenzano la nostra
concezione del cosmo, della società politica, della storia. Consideriamo la società per
come noi la immaginiamo: in cima poniamo un’intellighenzia o classe di filosofi,
seguono le forze armate, quindi il resto della popolazione. Si tratta di una visione
verticale, gerarchica, con al vertice il presidente o leader come una sorta di antico re
sacro, cui segue la classe amministrativa o militare corrispondente alla casta dei
guerrieri, e infine il resto della popolazione rappresentante la terza casta. Tale visione
è insita in noi in modo inconsapevole, ma se analizziamo ogni società indoeuropea –
tanto moderna quanto antica, sia essa cristiana o pagana, orientale (indiana, turanica)
o occidentale (celtica, germanica, slava, francese, latina, ecc.) – troveremo che essa è
costruita precisamente attorno a questo asse trifunzionale. Secondo Dumézil, si tratta
di un’ideologia invariata attraverso cui possiamo interpretare la storia di fondazione
di qualsiasi Stato indoeuropeo: vi era sempre un mandatario della divinità, qualche re
sacro proveniente dall’esterno (da qualche parte nel Turan) a fondare la città capitale,
la quale costituiva una sorta di fortezza presidiata militarmente al fine di difenderne
la postazione; questo rappresentava lo scenario principale, alla cui base vi era dunque
una logica militare di conquista da parte di eroi sacri provenienti dal di fuori.
Successivamente, si andava a costituire una società trifunzionale, al cui interno le
relazioni tra sacerdoti e guerrieri da una parte e la massa della popolazione dall’altra
a volte erano conflittuali; tuttavia negli svariati miti, cronache, storie, racconti
religiosi, antichi canti di folklore e così via, troviamo descritte in molti modi diversi
le stesse tre funzioni, le quali costituiscono il contenuto principale della tradizione
indoeuropea, attraverso cui viene a stabilirsi la verticalità caratterizzante questo tipo
di società.

3. Aniliginia

Veniamo ora alla relazione tra sessi. In un’altra occasione, per designare
l’organizzazione sociale antecedente il patriarcato, esistita in Europa prima
dell’espansione indoeuropea e caratterizzata dall’uguaglianza tra sessi, Gimbutas ha
coniato il termine gilania. La gilanianon corrisponde alla dominazione della donna
sull’uomo, delinea una sostanziale equivalenza ma nel contesto di una società
matriarcale. In altri termini, la gilaniaè l’uguaglianza tra uomo e donna ma vista dal
punto di vista femminile. Per studiare la relazione tra sessi nella società nomadica
indoeuropea, io propongo un neologismo opposto: aniliginia, che indica parimenti
una sostanziale equivalenza tra uomo e donna ma dal punto di vista maschile,
turanico. Abbiamo dunque a che fare con due neologismi: gilania, dal greco antico
γυνή (gynē, la donna), e aniliginia, dal greco ἀνδρός (andròs, l’uomo). Entrambi
indicano l’uguaglianza tra sessi, ma Gimbutas mette al primo posto la donna, mentre
nella società turanica patriarcale e patrilineare, pur rimanendo nell’ambito di una
eguaglianza tra sessi, è il sesso maschile quello scelto come elemento strutturante.

Nella società turanica gli uomini erano sempre in guerra, mentre le donne
normalmente venivano lasciate negli accampamenti con la prole. Ma la vita non era
pacifica, poiché ovunque vediamo lo stesso tipo di società dai tratti molto aggressivi
ed espansivi. Di conseguenza, le donne erano obbligate a difendersi e a difendere la
propria tribù, dunque esse dovevano essere ugualmente eroiche, guerriere. In caso
contrario, sarebbero state oggetto di conquista. A loro modo, anch’esse erano
guerriere e possedevano gli stessi valori degli uomini. Questo si rifletteva in molte
tradizioni turaniche della società nomade, ad esempio nel matrimonio, prima del
quale vi era una sorta di lotta tra l’uomo e la donna e, se l’uomo non riusciva a
sopraffare la donna, il matrimonio non poteva aver luogo. Era una lotta in cui l’uomo
doveva testimoniare la sua forza, la sua possanza, e nel caso in cui veniva sopraffatto,
la donna poteva anche ucciderlo. Non stiamo parlando quindi di una società in cui
vige la sottomissione della donna all’uomo, ma di un’amicizia militaresca tra uomo e
donna che costituisce un tratto caratteristico dell’aniliginiae che si basa sul
riconoscimento del valore normativo del patriarcato. Uomo e donna sono sullo stesso
piano poiché entrambi si basano sulla dominazione di questo concetto solare della
natura umana. Un caso estremo è il tipo di società delle amazzoni. Tale società non
era affatto «femminista» come si potrebbe immaginare, poiché abbiamo a che fare
con una proiezione di un tipo di valori e di cultura maschili – coraggio, forza,
potenza, ecc. – su di una società femminile. Non si tratta dunque di una forma di
matriarcato ma di una forma limite di patriarcato, dacché le amazzoni avevano
accettato ogni genere di comportamento maschile.

Il tipo di società turanico è dunque caratterizzato dall’aniliginia, con donne poderose,


molto forti e indipendenti, capaci di difendersi da possibili aggressioni. Questo è puro
patriarcato.

Non vi erano molte divinità nelle mitologie indoeuropee, e quando erano presenti
avevano anch’esse caratteristiche maschili. Consideriamo la divinità greca Atena.
Essa era vergine, saggia come i sacerdoti e coraggiosa come i guerrieri. Non si tratta
di un tipo di donna «materno» ma turanico. Atena riflette valori maschili: la sapienza,
caratteristica più importante della prima casta, della prima funzione nella teoria
duméziliana, e il coraggio, lo spirito eroico, principale attributo dei guerrieri
appartenenti alla seconda casta. Non c’è spazio in questo immaginario per la
maternità, per il destino puramente terreno della donna.

Tale aniliginiasta all’origine del carattere apollineo del Logos indoeuropeo.

4. L’ideologia indoeuropea in Platone

Qui possiamo richiamarci a Platone. Platone è un pensatore puramente indoeuropeo


e, come è stato già detto nella prima lezione, egli è il massimo rappresentante del
Logos di Apollo. Veniva peraltro considerato l’incarnazione dello stesso dio Apollo
dai suoi seguaci. Esaminando tre dei suoi dialoghi, possiamo osservare la chiara
raffigurazione dell’universo trifunzionale, del cosmo tripartito caratterizzante la
cultura indoeuropea turanica.

Nel Timeo, possiamo vedere come la cosmologia platonica sia basata su tre specie, tre
γένος (genos). In primo luogo vi sono gli esempi o i paradigmi (il Padre), seguono le
immagini o le icone (il Figlio), e per finire abbiamo il non ben definito concetto della
materia, la Chōra. Quest’ultima non corrisponde alla materia per come noi la
intendiamo, alla «sostanza», ma allo spazio. Così, all’origine vi è il paradigma, in
Padre; viene poi il Figlio come riflesso del Padre, quindi una sorta di spazio, che
corrisponde non tanto alla figura della Madre quanto della Nutrice, la quale fornisce
il luogo in cui avviene quest’atto di riflessione. Esistono tre livelli di realtà in Platone
e l’ultimo, Chōra, è solamente spazio e nient’altro; non rappresenta la madre che
partorisce, ma qualcosa che accoglie l’influenza proveniente dal vertice della
gerarchia, dal paradigma, e la rimanda indietro. Questa è una versione della
cosmologia prettamente indoeuropea; possiamo considerarla una tipologia
cosmologica puramente apollinea, accolta come tale nel cristianesimo, nel medioevo,
nella cultura romana, ecc. In altri termini, la cosmologia contenuta nel Timeo
platonico è normativa per ogni tradizione indoeuropea. Possiamo individuarne ad
esempio un modello similare nei Veda, oltre che nella tradizione iranica. Nella
cosmologia platonica abbiamo sostanzialmente tre mondi: il più alto, quello di
mezzo, e il terzo che costituisce la superficie terrestre da cui ha inizio il «ritorno»:
ogni cosa proviene dal cielo, discende dal Padre celestiale, quindi ascendendo fa
ritorno all’origine. Si tratta di un ciclo verticale, di cui il ritorno non costituisce
tuttavia la fine, poiché quando siamo immanifesti sulla terra significa che esistiamo in
una condizione superiore. Detto altrimenti, la terra costituisce il punto più basso della
discesa dalla nostra posizione paradigmatica interiore, dal nostro stesso spirito
(l’ātmannell’induismo): la nostra anima immortale discende al fine di ascendere, per
fare ritorno all’origine, al vertice.

Analogamente a quanto detto per il Timeo, nella Repubblicadi Platone abbiamo lo


Stato ideale suddiviso in tre classi: i filosofi, i guerrieri e i produttori. I filosofi,
equivalenti ai sacerdoti nella teoria duméziliana o ad esempio ai bramini nella società
induista tradizionale, sono chiamati a governare in virtù del fatto che essi sono votati
alla contemplazione dei princìpi più alti, della scaturigine della luce celeste, dacché
essi escono dalla caverna platonica per osservare l’unità, il sole e le stelle, pertanto il
loro diritto a governare sugli altri deriva dal legame con il cielo. I guerrieri, nello
Stato ideale, dovrebbero seguire i filosofi, mentre tutti gli altri, occupati in questioni
materiali, dovrebbero obbedire ad entrambi. Anche nello Stato ideale di Platone
troviamo dunque il concetto della trifunzionalità.

Lo stesso Platone, nel dialogo del Fedro, dà una descrizione tripartita dell’anima
utilizzando il mito della «biga alata». L’anima, nella teoria platonica, si compone di
tre elementi: vi è un cavallo nero rappresentante l’επιθυμία (epithymía), la
concupiscenza, la tendenza verso gli aspetti più bassi e materiali del mondo corporeo
(relazioni sessuali, nutrimento e così via); vi è poi un cavallo bianco che coincide con
il θυμός (thumos), cioè il desiderio di gloria, di riconoscimento, un valore proprio dei
guerrieri e collegato non ad aspetti materiali ma spirituali; abbiamo infine l’auriga
che rappresenta il νοῦς (nous), cioè la ragione, la parte intellettiva centrale
dell’anima, e il cui compito è quello di riuscire a dominare e guidare i due destrieri, il
bianco diretto verso il mondo delle idee e il nero diretto verso il mondo sensibile, al
fine di giungere all’iperuranio. È interessante notare come in questa metafora
del Fedroancora una volta siano presenti l’auriga, il carro e i cavalli, cioè gli elementi
di quella cultura proto-indoeuropea di cui abbiamo discusso inizialmente.

Così, in modo analogo alla tripartizione funzionale della società, anche l’anima è
costituita da tre parti disposte verticalmente, dove l’auriga corrisponde al sacerdote (il
bramino nella tradizione indiana), il cavallo bianco al glorioso guerriero (lo
kshatriya) mentre l’inclinazione materiale del cavallo nero, rappresentante gli aspetti
peggiori secondo Platone, corrisponde alla terza ed ultima casta.
Anima, sistema politico e cosmo: possiamo affermare, dopo aver esaminato il Fedro,
la Repubblicae il Timeo, che tanto la psicologia quanto la politologia e la cosmologia
platonica si basano sullo stesso schema tripartito indoeuropeo. Non è un caso che il
filosofo britannico Whitehead abbia affermato che la filosofia europea è solo «una
serie di note a margine di Platone». Platone è il filosofo par excellance. Critiche di
Platone, sviluppi di Platone, dibattiti con Platone (come nel caso di Aristotele): tutto
ruota attorno a lui.

Se consideriamo cosa è la struttura indoeuropea, possiamo a ragione ascriverla al


platonismo. Questo si fonda sul concetto di eternità, pertanto non potrà mai risultare
«superato», dacché l’eternità non è il passato ma coincide in egual misura con il
passato, il presente e il futuro. Così, vi è stato un platonismo del passato, ma vi può e
anzi vi dovrebbe essere anche un platonismo del presente, così come vi potrà essere
un platonismo del futuro. Allo stesso modo, si può affermare che alla base del
platonismo vi è il Dasein indoeuropeo e che esso non appartiene solo al passato ma
che è anche il nostro Dasein presente; dunque, se siamoindoeuropeinon possiamo non
dirci platonisti, e siamo indoeuropei, parliamo lingue indoeuropee, essendo platonisti.
Questo punto è molto importante. In tale versione indoeuropea del Logos non vi è la
concezione moderna del tempo: nel platonismo il tempo è verticale – il tempo è
«l’immagine mobile dell’eternità», il suo riflesso, afferma Platone – per cui noi
discendiamo, giungiamo qui sulla terra, al fine di ascendere, di fare ritorno
all’origine. Noi non ci realizziamo sulla terra, al contrario qui siamo solo i «testimoni
della gloria di Dio». Tutto ciò è presente nella nostra tradizione cristiana. Questo è
puro platonismo, in ogni senso.

5. Conclusione

Per concludere, vorrei fare alcune considerazioni. Nella cultura indoeuropea, il Logos
apollineo verticale non si presenta in un’unica forma. Il Logos di Apollo può
manifestarsi in differenti modalità; possiamo ad esempio comparare due delle sue
forme principali: la forma platonica e la forma vedica.

Nel platonismo, vi è un’assoluta dominazione della luce. Essa discende, raggiunge il


punto più basso, cioè la terra, quindi placidamente e lietamente fa ritorno all’origine.
Non vi è alcuna problematica, niente può opporsi ad essa. In altri termini, nulla può
seriamente ingaggiare battaglia contro il cielo, Dio, il Sole. Vi sono alcune forze dal
basso, dalla terra, che cercano di trattenerci qui impedendo il «ritorno», ma nella
concezione platonica esse acquistano un’importanza secondaria, e possono essere
facilmente vinte facendo ricorso alla tradizione ascetica, seguendo la disciplina, gli
ordini, integrandosi nella società eroica, abbracciando la παιδεία (paidéia), il percorso
pedagogico dell’antica Grecia che ci insegna come «ritornare». Il sistema educativo
nella società platonica non consiste solo nell’obbedire formalmente ma
nell’accettazione interiore dell’ordine e nel seguire la tradizione, diventando uomini e
donne indoeuropei a tutti gli effetti, in modo da poter percorrere il percorso verticale
del «ritorno». In questa concezione non c’è posto per il concetto del male. Come
affermano i platonisti, il male corrisponde ad una condizione di diminuzione del
bene; non esiste il male in sé. Se il bene è l’origine, il sole, il cielo, Dio, il male è la
distanza da quest’ultimo e corrisponde ad una sorta di test per l’anima, un’esperienza
che cerca di mettere ostacoli sulla nostra strada per il «ritorno» a noi stessi.

Questo punto viene sviluppato in modo particolare dalla metafisica vedica


dell’advaitavedānta, in cui è presente il concetto per cui noi procediamo dal mondo
della verità al mondo delle illusioni al fine di vincere l’illusione è fare ritorno a noi
stessi, dal momento che l’essenza di noi stessi è divina. Secondo gli indiani, la nostra
essenza è divina, solo che l’abbiamo dimenticato. Anche in questa concezione non vi
è alcuna problematica: advaita vedāntaè una versione non dualistica del Logos
apollineo, per la quale tutto ciò che non è divino è in realtà altrettanto divino, solo
che non ne è ancora cosciente. Non c’è oscurità in tale versione. L’oscurità è
semplicemente l’assenza della luce. L’oscurità assoluta pertanto non può esistere. Vi
è solo una oscurità relativa, cioè una sorta di oscuramento della luce; un oscuramento
che, come possiamo vedere osservando la natura, non è che la fase antecedente l’alba.

Riassumendo, sia quella platonica che vedica sono forme non dualistiche del Logos
apollineo (ciò a volte chiamo platonismo advaita). Tuttavia, accanto ad esse, vi è
un’altra formulazione del Logos di Apollo, rintracciabile nella tradizione iranica, che
è problematica. Anche la tradizione iranica, come quella greca e indiana, affonda le
sue radici nella cultura proto-indoeuropea, nel Turan, e costituisce una forma in cui si
manifesta il Dasein indoeuropeo. Tuttavia, essa considera le forze oppositrici della
luce in modo diverso. In quello che possiamo chiamare platonismo dvaita(duale),
l’oscurità non è semplicemente assenza o oscuramento della luce, ma qualcosa di più;
in altri termini, il male esiste di per sé. Ciò dà luogo ad una sorta di titanomachìa
molto intensa, una lotta tra luce e tenebre. Se nella prospettiva platonica advaita(non
duale) non c’è una vera e propria opposizione ma si tratta piuttosto di disvelare
un’illusione, nella concezione platonica dvaita(duale) al contrario dobbiamo
fronteggiare e sopraffare un vero e proprio «nemico» perché il male esiste di per sé,
non è solo un’illusione, un oscuramento; abbiamo dunque a che fare con una vera e
propria guerra, un conflitto molto serio poiché le forze dell’oscurità, o di ciò che si
oppone al Logos apollineo, questa volta sono rilevanti e combattive. In questo
approccio dualistico possiamo vedere qualcosa che si avvicina al Logos di Cibele. Al
contrario, nel puro Logos di Apollo, nel caso del platonismo advaita, non si ha
contezza del Logos di Cibele. Esso non viene considerato degno di attenzione, poiché
vi è solo la superficie della terra su cui si discende al fine di ascendere e non si ha
accesso alla dimensione sotterranea della «tana del topo (o del serpente)» situata al di
sotto della superficie. La forma non dualistica rappresenta qualcosa di molto
arcaico…

Per poter proseguire questa indagine sulDasein indoeuropeo e sull’orizzonte


esistenziale indoeuropeo, dobbiamo pertanto studiare questa versione dualistica della
struttura indoeuropea, e per farlo dobbiamo esaminare cosa accade quando le tribu
turaniche nomadi diventano sedentarie. Non tutte le tribù indoeuropee durante la
storia si sono sedentarizzate; ad esempio, popoli ed etnie come i Kalasha, iNuristan, i
Pushtun, hanno continuato la tradizione nomadica fino al giorno d’oggi. Ma cosa
accade quando, giungendo dinanzi ad una società sedentaria e assoggettandola, le
tribù indoeuropee si sedentarizzano a loro volta? Questo sarà argomento della
prossima lezione.
INTRODUZIONE A NOOMACHÌA. LEZIONE 4.

Al fine di comprendere come la cultura indoeuropea sia passata dallo stadio


nomade allo stadio sedentario e cosa è accaduto nel corso di questa transizione,
durante questo mutamento nella struttura stessa del momento della Noomachìa,
dobbiamo considerare qual era l’orizzonte esistenziale che si trovava attorno al
Turan in epoca preindoeuropea. Le tribù indoeuropee turaniche giunsero
nell’Europa orientale, nell’Anatolia, nei Balcani, nel territorio di Alam in Persia,
nello spazio indiano, ma tutti questi territori non erano vuoti. Vi era una qualche
altra civiltà, esisteva un altro orizzonte esistenziale, con un proprio momento della
Noomachìa diverso da quello caratterizzante le tribù nomadi delle steppe. Stiamo
parlando delle civiltà preindoeuropee che avevano sede in Europa, nei Balcani, in
Anatolia, nella Persia e nell’India.

1. Europa Antica
Seguendo la teoria di Marija Gimbutas a cui abbiamo accennato nella precedente
lezione, esisteva in Europa, prima della venuta degli indoeuropei, la civiltà della
«Grande Dea», una civiltà molto antica i cui primi poli furono situati nei Balcani e in
Anatolia. Lepenski Vir e Vinča in Serbia, Çatalhöyük in Turchia e altri siti
archeologici ci parlano di una civiltà della Grande Madre sorta circa 7-8 mila anni
prima di Cristo; le prime ondate migratorie delle popolazioni turaniche, per contro,
avvennero attorno al 3000 a.C. La Grande Madre aveva nomi differenti ma lo stesso
Logos, e per indicare tale civiltà paleo-europea – i cui più antichi resti sono stati
rivenuti nei siti archeologici situati in Serbia, Bulgaria, e in altri territori balcanici –
Marija Gimbutas ha introdotto la dizione di «Europa Antica».

La civiltà dell’«Europa Antica» era una civiltà matriarcale e si caratterizzava per la


predominanza totale delle figure femminili; tombe senza armi, antiche pratiche
agricole stanziali, sono tutti elementi caratterizzanti questo tipo di società, la quale
possedeva una struttura completamente differente rispetto a quella delle tribù
indoeuropee turaniche. A tal proposito, consiglio la lettura de Il Matriarcato [1],
un’opera classica di Bachofen, autore già nominato nella prima lezione; in questo
fondamentale lavoro del XIX secolo, vengono esaminati gli aspetti matriarcali
appartenenti alle tradizioni delle società ginecocratiche greche e anatoliche come i
Lidi, i Lici, i Cari, i Frigi, gli Hatti, ecc. Vi sono diversi dibattiti su chi fossero questi
paleo-europei così come su quali popoli moderni ne siano i discendenti – molto
probabilmente si tratta delle genti preindoeuropee pelasgiche, degli Etruschi, degli
Hatti, e dei popoli caucasici moderni quali i Georgiani, i Daghestani, i Ceneni, ecc. –
tuttavia, sia che ci rifacciamo alle opere di Bachofen, sia che seguiamo la teoria di
Marija Gimbutas o di altri autori, tutti concordano sul fatto che, prima delle ondate
migratorie portatrici della cultura kurganica, esisteva una diversa civiltà con un
differente Logos, e studiando questo Logos non solo dai simboli ma anche dai miti
e dai racconti inglobati nelle tradizioni indoeuropee (ad esempio ittite, elleniche o
latine), possiamo ricostruirne i tratti fondamentali.

Anzitutto, quella parlo-europea era una civiltà ctonica e mondana: non vi era l’idea
del «Padre celeste» o della luce che discende, al contrario vi era l’idea del «parto»
della Grande Madre rappresentante terra e acqua, la quale dà la vita a tutto ciò che
esiste. Si tratta di una logica sostanzialmente opposta a quella apollinea: vi è una
sorta di sostanza primordiale che dà alla luce ogni cosa. A sottolineare questa
concezione, le figure più antiche della Madre hanno la parte inferiore del corpo
descritta in modo realistico ma non c’è testa, non c’è volto, non ci sono mani: la
parte superiore del corpo viene tralasciata proprio perché il centro della sacralità,
il perno attorno al quale ruota tutto è il ventre gravido della Madre, che
corrisponde all’origine e allo stesso tempo alla fine di tutto, alla culla e alla tomba
di ogni cosa.

Tale civiltà si caratterizzava per lo sviluppo di alcune grandi città, con siti sacrali al
centro ma prive di mura. Si tratta di insediamenti molto diversi da quelli
indoeuropei, i quali erano al contrario tutti dotati di mura, a indicare la loro natura
di costruzioni militari. Il tipico insediamento indoeuropeo non era sviluppato a
partire da uno o più villaggi stanziali, ma costituiva una costruzione artificiale
edificata al fine di conquistare il territorio nel quale andava a sorgere. Possiamo
dunque individuale due tipologie di città: con le mura (indoeuropee, turaniche) e
senza mura (pacifiche, sedentarie, agricole), le quali costituivano una pura
manifestazione del Logos di Cibele.

Un’altra caratteristica fondamentale della civiltà dell’«Europa Antica» è la presenza


di una cultura agricola sviluppata da donne. I primi coltivatori erano donne che
lavoravano la terra quasi ne fossero le ostetriche o le doule; non è un caso che lo
strumento principale per dissodare il terreno e prepararlo alla semina fosse la
zappa, un utensile leggero e facile da maneggiare – uno strumento potremmo dire
«femminile» – e non l’aratro. Dunque, vi erano appezzamenti piccoli lavorati da
donne senza l’uso di animali (cavalli, buoi, ecc.).

Nella visione del mondo puramente matriarcale rappresentata nel mito della dea
Cibele – la «frigia madre» – è centrale il concetto dell’androgino femmineo,
Agdistis. Essendo un essere androgino, Agdistis non necessitava di accoppiarsi per
il concepimento, dunque diede alla luce da sola l’eroe anatolico Attis, di cui si
invaghì – abbiamo pertanto a che fare con la relazione incestuosa tra madre e
figlio, una caratteristica fondamentale di questo ciclo matriarcale. Tuttavia,
quando Attis crebbe, egli volle sposare una normale donna umana, e ciò generò
una grande gelosia nella Grande Madre, che fece diventare pazzo Attis, il quale si
evirò e morì. Ma a quel punto, Cibele si affranse così tanto per la perdita di Attis
che lo fece risorgere prendendolo al suo servizio ed egli diventò un suo sacerdote.
Da qui segue un altro tratto caratteristico di questa cultura, ossia quello dei
sacerdoti eunuchi della dea Cibele, i cosiddetti «galli», e dei sacrifici sanguinosi ad
essi connessi, poiché il sangue dei sacerdoti maschi rappresentava una sorta di
nutrimento per la terra, e favoriva il raccolto. Ma questo mito ci dice anche qual
era il destino generale dell’uomo nel mondo cibeliano.

In questa cultura le figure maschili sono totalmente assenti: nelle sue


raffigurazioni, la Grande Madre veniva attorniata su entrambi i suoi lati da delle
bestie, per lo più due, le quali gradualmente ottenevano caratteristiche umane fino
a diventare prima metà bestia e metà uomo, e infine uomini a tutti gli effetti.
L’uomo era dunque una sorta di derivato, lo sviluppo umano di una bestia, a sua
volta partorita dalla Grande Madre, dacché la creazione ha origine dalla sostanza
primordiale donatrice di vita. Ciò si traduce in un simbolismo che differisce
totalmente da quello che abbiamo visto nello studio della cultura indoeuropea
turanica. Qui la sola figura maschile presente è quella del serpente (o in alternativa
dal pesce), qualcosa che vive all’interno della Grande Madre, in una dimensione
sotterranea, pronto a sgusciare in superficie per poi scomparire nuovamente nelle
profondità. La figura del serpente rappresentava una sorta di «maschile
mancante» ed era una figura assolutamente positiva. La società era inoltre
matrilineare, cioè l’appartenenza ad una famiglia e ad una linea di discendenza
veniva definita dalla propria madre, mentre il padre era sconosciuto o comunque
aveva un’importanza secondaria poiché a «dare la vita» era la madre e non il
padre, la cui figura in alcuni casi limite poteva anche non esistere.
In sostanza, abbiamo a che fare una civiltà puramente cibeliana basata su una
struttura completamente diversa da quella indoeuropea: una civiltà sedentaria e
non nomade, matriarcale e non patriarcale, basata sul culto della Madre mondana
e non del Padre celeste. Vi è solo la Madre che crea, nutre, distrugge e dà
nuovamente la nascita: tutto procede da lei e a lei fa ritorno. Questo implica
un’immagine completamente differente del cosmo, al cui centro vi è lo spazio
chiuso interno alla terra e non lo spazio aperto del cielo blu con lo sguardo rivolto
al Sole. L’elemento centrale non è il fuoco solare ma l’acqua terrestre, non è il
giorno ma la notte, non è il maschile ma il femminile. Il matriarcato non
corrisponde alla versione femminile della dominazione maschile (indoeuropea), ma
è un tipo particolare di società basato sull’eufemismo: la morte è vita, l’oscurità è
luce, la sofferenza è gioia, il passivo è attivo. La si potrebbe comparare al «regime
notturno» in Gilbert Durand.

L’immagine del mondo è il ventre della donna. Il mondo stesso è dunque concepito
differentemente: il suo centro non è situato sopra la terra ma al disotto, nel
sottosuolo. La terra difatti non è caratterizzata da una superficie dura, brulla, volta
a favorire l’ascensione, il «ritorno» all’origine celeste di ciò che vi discende, come
nel caso del mondo platonico; in questa immagine del mondo le radici non sono
nel cielo ma affondano nella terra, una terra che, al contrario di quella delle
steppe, è adatta alla semina e alla piantumazione, una terra da cui crescono
vegetali e alberi. Pertanto, si basa tutto fondamentalmente su una costruzione che
procede da un livello sotterraneo verso la superficie. Analogamente, mentre i riti
funebri degli indoeuropei erano caratterizzate dalla cremazione, il cui scopo era di
favorire il «ritorno all’origine solare», al fuoco, alla luce, in questo caso i riti funebri
si basano sulla sepoltura nelle tombe.

In definitiva, se la cultura indoeuropea turanica rappresenta il regno celeste del


Padre, la civiltà paleo-europea dell’«Europa Antica» costituisce il regno mondano
della Madre. Si tratta di due differenti prospettive concernenti la vita e la morte.
Nel regno della Madre ad esempio non vi è un’anima immortale che proviene dal
cielo, ma l’eterno ciclo di nascita e morte della stessa sostanza che si ricombina in
forme e modi diversi.

2. Sedentarizzazione degli indoeuropei


L’orizzonte esistenziale dell’«Europa Antica» delineato dai poli civilizzazionali
rappresentati dalle sue grandi città, dalle ceramiche e dai molti altri oggetti
rinvenuti nei siti archeologici, dal culto per la Grande Madre, dai templi in suo
onore, ecc., indica una civiltà matriarcale molto sviluppata, con una struttura
stabile e costante. Allo stesso tempo, possiamo notare come molti livelli della
mitologia della Grande Madre siano stati inglobati nella società patriarcale, nella
mitologia greca a noi nota. L’idea della castrazione di Urano da parte di Crono, così
come le figure dei titani, erano immagini matriarcali appartenenti ad una
tradizione precedente. Tutti questi elementi si sono rivelati costanti nel corso del
tempo e hanno continuato ad essere presenti nella mitologia e nei racconti di
folklore fino ai giorni nostri; in altri termini, sono sopravvissuti a migliaia di anni di
dominazione della cultura indoeuropea patriarcale. A tal proposito, consiglio la
lettura dell’opera Il matriarcato slavo [2] dell’autore italiano Evel Gasparini, il quale,
in questo lavoro in tre volumi, ha indagato sui molti aspetti matriarcali nelle
tradizioni slave (serba, bulgara, russa, ceca, ecc.).

Dobbiamo dunque riconoscere la presenza nella società europea di «due livelli».


Quando le tribù indoeuropee di tipo patriarcale provenienti dal Turan giunsero
sulle rive del Dnepr, trovarono al di là del fiume la cultura Cucuteni-Trypillia di tipo
matriarcale. Il loro incontro produsse una mescolanza tra due orizzonti esistenziali:
il livello turanico o indoeuropeo, la cui struttura verticale è stata descritta nelle sue
caratteristiche fondamentali nella precedente lezione, si andò a combinare con il
livello paleo-europeo cibeliano. Questo incontro tra il Logos di Apollo,
rappresentato dal tipo di società indoeuropeo trifunzionale e patriarcale
proveniente dal Turan, e il Logos di Cibele rappresentato dalle popolazioni paleo-
europee che vivevano al di là del Dnepr – fiume che per migliaia di anni è stato,
come afferma Marija Gimbutas, un vero e proprio confine tra due civiltà, la civiltà
turanica ad est e il regno della Grande Madre ad ovest – produsse un mutamento
nella struttura del momento della Noomachìa coincidente con la sedentarizzazione
dei popoli indoeuropei.

Anche in Anatolia e nell’Asia Minore, così come ad ovest, in Italia, in Spagna e nelle
isole britanniche, troviamo lo stesso tipo di civiltà paleo-europea matriarcale. I
popoli preindoeuropei della Persia e dell’India, invece, erano di tipo diverso. Qui
troviamo i Drāviḍa, genti paleo-indiane che tuttavia, sebbene differiscano dai
paleo-europei per fenotipo, erano anch’essi di tipo matriarcale; in altri termini, dal
punto di vista noologico, le popolazioni paleo-indiane condividevano con i paleo-
europei lo stesso Logos di Cibele, un tipo di Logos che possiamo scorgere sotto il
livello della civiltà indoeuropea indiana, dove vi è una tradizione esplicita, palese,
che è quella vedica, e poi una celata che è pre-vedica, matriarcale e ctonica.

Ogni tipo di società indoeuropea sedentaria a noi nota è il risultato della


commistione tra due tipi noologici: il Logos di Apollo patriarcale, collegato al livello
indoeuropeo nomade, e l’orizzonte esistenziale preindoeuropeo, molto più
profondo e nascosto, di tipo matriarcale, appartenente alla civiltà paleo-europea (o
paleo-indiana) che è andata a costituire una sorta di sostrato per tali società.
Questo è uno dei risultati più importanti se non il più rilevante dell’analisi
noologica sulla cultura indoeuropea.

Ogni società indoeuropea si basa dunque sulla sovrapposizione di due orizzonti


esistenziali. Ciascuna cultura indoeuropea esistente – sia essa celtica, francese,
italiana, spagnola, germanica, slava, greca, iraniana o indiana – possiede due livelli
esistenziali e si basa sulla Noomachìa o conflitto tra il Logos di Apollo, che è
manifesto, e il Logos di Cibele, che invece è nascosto, segreto. Friedrich Jünger ha
affermato non a caso che l’ordine degli dèi olimpici è costruito sulle spalle dei titani
sconfitti. In altri termini, alla base della società indoeuropea eroica vive un
orizzonte esistenziale cibeliano che possiamo ugualmente individuare nella
tradizione europea (racconti popolari, miti, religioni, scritti, ecc.).

La nostra tradizione è sostanzialmente duale: formalmente siamo indoeuropei – la


parte «diurna» della nostra società si caratterizza per una struttura verticale e
patriarcale – ma segretamente, nella parte «notturna» vive l’orizzonte esistenziale
della Grande Madre, del matriarcato, che si manifesta nella società pacifista e
democratica. La nostra identità di popoli indoeuropei dovrebbe essere considerata
come essenzialmente duale. Senza il riconoscimento di questo secondo livello
preindoeuropeo, non potremmo spiegare nulla della sequenza istoriale della
nostra civiltà, dacché la storia europea, così come quella indiana e iranica, si basa
sulla continua lotta tra questi due Logoi.

È precisamente questo il nostro momento della Noomachìa: il Logos di Apollo è


sopraggiunto dal Turan ed ha sopraffatto il Logos di Cibele; ciò costituisce l’evento
centrale del nostro istoriale. Quando le tribù turaniche nomadi conquistarono le
società sedentarie, crearono qualcosa di nuovo, un nuovo tipo di società
formalmente indoeuropea, sotto cui però si celava qualcosa di diverso. Questa è la
differenza tra Iran e Turan in Firdūsī, di cui abbiamo parlato nella precedente
lezione: l’Iran possedeva questo orizzonte matriarcale, mentre nel Turan era
assente. Dunque il conflitto tra Turan e Iran in Firdūsī o nell’Avesta, in senso
noologico è qualcosa d’altro rispetto a ciò che appare. La natura sedentaria delle
società indoeuropee indica che è avvenuto inevitabilmente un incontro con questo
secondo orizzonte esistenziale preindoeuropeo, il quale è stato conquistato, messo
sotto controllo, domesticato e assimilato.

La sedentarizzazione degli indoeuropei ha coinciso con, potremmo dire, la


«domesticazione di Cibele», la conquista del potere femminile, che è stato
sottoposto al potere maschile. Ma la natura patriarcale delle società indoeuropee
sedentarie è il risultato di un conflitto molto violento che è tutt’ora in corso, poiché
il Logos matriarcale di Cibele non appartiene unicamente al passato, continua a
vivere nella nostra cultura anche oggi. Viviamo in una società basata su due livelli,
dove la titanomachìa, la guerra tra dèi e titani non ha mai avuto fine. Il risultato più
rilevante di questa nostra analisi noologica è dunque che abbia,o a che fare con
una società e una cultura europea fondamentalmente duale, che a differenza della
società turanica delle steppe è basata su due livelli.

3. Assimilazione di Cibele
La sedentarizzazione ha tuttavia influito in modo diverso sulle tre caste costituenti
la struttura trifunzionale verticale delle tribù turaniche. I sacerdoti e i guerrieri di
queste tribù diventarono, per così dire, la «classe dirigente» delle società
indoeuropee sedentarie, ma fino ad oggi le nostre forze armate e la nostra classe
sacerdotale sono fondamentalmente rimasti «turanici». La sedentarizzazione non
ne ha alterato la morale. Essi hanno continuato a creare fortezze, a rinnovare il
culto del Dio solare, del Padre, e a difendere la struttura gerarchica che
caratterizza i nostri sistemi politici e che è la continuazione della stessa struttura
verticale indoeuropea. Metafisicamente, essi sono stati toccati in modo molto
limitato dalla sedentarizzazione. Hanno anzi imposto la propria ideologia
indoeuropea (Dumézil), oltre che il proprio linguaggio, ai popoli conquistati, difatti
noi oggi parliamo tutti lingue indoeuropee. Per millenni abbiamo vissuto sotto
l’ideologia indoeuropea e con una classe dominante costituita dai continuatori di
quella civiltà a cui appartenevano i conquistatori turanici. Detto altrimenti, dopo
l’assoggettamento delle genti paleo-europee e la conseguente sedentarizzazione
delle tribù turaniche, i popoli europei hanno vissuto in una società formalmente
apollinea in tutto: nella cultura, nell’educazione, nella filosofia, nell’etica,
nell’estetica, e così via.
Un discorso diverso va fatto per la «terza funzione», ossia per la casta dei
produttori che nella società trifunzionale indoeuropea era adibita agli aspetti
economici, concernenti cioè la produzione materiale. Nella società turanica, in cui
si manifesta il Logos apollineo nella sua forma più pura, la terza funzione
duméziliana era assolta dai pastori nomadi. Si trattava di uomini che avevano a
che fare con grandi animali (buoi, bovini, cavalli), che dunque necessitavano dei
vasti spazi turanici per sfamare il bestiame e dovevano esprimere una forza fisica
non indifferente per domesticarlo e controllarlo, e che pertanto dovevano essere
piuttosto nerboruti. Tuttavia, quando le tribù turaniche conquistarono le società
sedentarie e si sedentarizzarono a loro volta, la terza casta a differenza delle prime
due subì una notevole influenza da parte della società sedentaria,
interiorizzandone molti aspetti.

La struttura socioeconomica paleo-europea venne assimilata nella terza funzione


della società turanica. Ciò interessò anzitutto l’ambito produttivo, dove vediamo un
chiaro mutamento sia nei metodi di lavoro che nella composizione della
produzione stessa. Le coltivazioni di cereali, erbe e verdure divennero
predominanti, rimpiazzando la pastorizia nomade. Di pari passo, fece ingresso la
figura maschile nell’agricoltura: la coltivatrice donna caratterizzante la società
matriarcale preindoeuropea fu sostituita dal contadino maschio indoeuropeo, il
quale al posto della zappa utilizzava l’aratro. La terra dunque era ora lavorata dagli
animali – buoi o cavalli domesticati – con il duro e pesante aratro, impossibile da
manovrare per una donna. La relazione dolce con la terra lasciava spazio ad una
relazione violenta.

La tradizione della Grande Madre, di origine balcanica e anatolica, ha così


continuato a vivere nella cultura agricola delle società indoeuropee sedentarizzate.
Ciò spiega perché nei nostri racconti popolari, nei nostri miti, nelle nostre
tradizioni, vi sono così tanti elementi e figure matriarcali, più o meno nascosti. Al
livello della casta dei lavoratori, nella terza funzione delle società indoeuropee,
sono stati integrati nel tempo molti racconti riguardanti serpenti, regine, dee,
spiriti, demoni e altre creature mitologiche femminili di vario tipo – a titolo
d’esempio, si pensi alla rusalka slava. Questo è accaduto perché, quando le tribù
indoeuropee si sono sedentarizzate, esse hanno assimilato questo orizzonte
esistenziale nella loro struttura.
È come fosse stato stipulato un «patto storico» tra vincitori e vinti. Ufficialmente, la
civiltà della Grande Madre ha perso questa battaglia titanica contro gli dèi olimpici,
e su questa vittoria si basa tutto il nostro sistema etico e la sequenza istoriale
europea, che è la storia di come i turanici hanno conquistato l’«Europa Antica».
Tuttavia, l’orizzonte esistenziale conquistato ha vissuto e vive ancora all’interno
della nostra società, nella terza funzione. Potremmo addirittura scrivere una storia
della casta coltivatrice europea del tutto parallela alla «storia ufficiale», cioè alla
storia delle opere e delle imprese delle prime due caste (re, nobili, aristocrazia,
ecc.), come se avessimo a che fare con una particolare civiltà incorporata nella
«civiltà ufficiale».

Possiamo definire l’universo agricolo e contadino come il punto d’incontro di due


orizzonti esistenziali, entrambi appartenenti alla nostra civiltà europea: l’orizzonte
del Logos di Apollo, rappresentato dall’ideologia ufficiale trifunzionale, e l’orizzonte
del Logos di Cibele, una ideologia parallela, che connota la tradizione di massa ed è
presente nella parte oscura, nel subconscio della società agricola e sedentaria. La
nostra società si basa su questo momento della Noomachìa. Ma la Noomachìa è un
conflitto continuo; in altri termini, non possiamo accordare una volta per tutte la
vittoria ad un Logos. Se il Logos di Apollo si indebolisce, significa che un altro Logos
sta diventando più forte. Così, se il patriarcato inizia a dissolversi – è questo il caso
della modernità occidentale e in particolare modo della postmodernità –, un’altra
tendenza ad esso contraria inizierà ad apparire, a diventare sempre più esplicita.

Non dovremmo dunque dare per scontato la vittoria degli dèi sui titani. Esiste
peraltro più di un esempio nel passato che ci mostra come in una società
indoeuropea i titani possano prevalere. È il caso dei Frigi, popolo indoeuropeo
anatolico che ha continuato e rinnovato il culto della Grande Madre
preindoeuropea. Lo stesso può dirsi per i Lidi, altro popolo indoeuropeo anatolico
matriarcale che praticava il culto della Grande Madre, o per i Lici, continuatori della
tradizione indoeuropea ittita, i quali si caratterizzavano per una società
matrilineare.

Anche in Grecia abbiamo casi in cui la Grande Madre vince. Bachofen riporta molti
esempi di questo genere. Le tribù elleniche degli Ioni e degli Eoli sperimentarono
una parziale sopraffazione da parte della tradizione pre-greca. I Dori, l’ultima delle
quattro tribù elleniche che invasero la Grecia, erano integralmente androcratici e
turanici, ma le precedenti tribù elleniche furono grossomodo assimilate nella
civiltà minoica e micenea, dove vediamo mura attorno alla città, caratteristica
questa turanica, ma con templi della Grande Madre al centro, come nelle antiche
città micenee. Si trattava dunque di una commistione tra i due orizzonti in cui la
Grande Madre aveva ottenuto una sorta di «vendetta», che durò sostanzialmente
fino alla discesa dei Dori, tribù portatrice di una serie di elementi decisivi
caratterizzanti il patriarcato e incline a nessun compromesso con il Logos di Cibele.
Ma la loro invasione dal nord dei Balcani ebbe luogo intorno al 1200 a.C., molto
dopo le ondate migratorie delle prime tribù elleniche.

Tutti questi esempi ci dicono che nel contesto indoeuropeo il potere della Grande
Madre può essere così soverchiante da trasformare e reinterpretare le figure
dell’ideologia indoeuropea in modo completamente diverso. La continua
Noomachìa caratterizzante la nostra civiltà costituisce infatti un conflitto
semantico, che dunque non si manifesta semplicemente nella sostituzione di una
divinità maschile con una femminile o di una divinità celeste con una terrena. La
questione è molto più complessa. Si tratta di una «guerra dell’interpretazione»
relativa alle stesse figure e agli stessi simboli. Per esempio, accanto al Zeus grande
e potente dio degli dèi figlio del patriarcato, troviamo la leggenda dello Zeus
cretese che appartiene ad una tradizione completamente matriarcale. Si tratta
dello stesso dio, ma reinterpretato in modo diverso, in senso matriarcale. Un altro
esempio, di senso opposto, lo fornisce la dea Atena, divinità dai lineamenti
femminili ma di tipo maschile essendo interpretata in senso turanico: una dea
vergine, coraggiosa e saggia, senza legami con la maternità e con il potere della
Terra, e con nessuna relazione ctonica con il serpente. Così, un elemento
dell’orizzonte di Cibele può essere reinterpretarlo nel segno del Logos di Apollo, ma
può accadere anche l’opposto, come nel caso dello Zeus cretese. Questi esempi
sono tratti dalla mitologia, ma questo discorso può essere esteso ad ogni altro
ambito. Vi è una guerra di interpretazione che è connaturata a tutte le società
europee sedentarie, un processo conflittuale continuo dovuto alla presenza
all’interno della nostra cultura del Logos di Cibele, dal quale invece erano libere le
tribù turaniche che vivevano nello spazio nomadico eurasiatico.

Con la sedentarizzazione, fa il suo ingresso anche una nuova concezione della


donna. Accanto alla donna turanica presente nel contesto dell’aniliginia – la donna
come amica e guerriera, sostanzialmente equivalente all’uomo –, va ad affiancarsi
la figura di una donna completamente diversa: una donna terrestre, non mascolina
ma femminea, che rievoca la figura della culla, considerata come una sorta di
possessione, di cui appropriarsi, da conquistare, sottomettere e controllare; in altri
termini, una forma di proprietà riconosciuta eticamente e giuridicamente. Il
passaggio dallo stile di vita nomade a quello sedentario, segna pertanto la
biforcazione nell’immagine della donna. Una divisione che si riflette in molte
istituzioni della società, compreso l’ambito delle divinità: nella società indoeuropea
sedentaria le divinità possono infatti conservare caratteristiche turaniche – si pensi
ad Atena, Diana e Artemide – o assumere tratti cibeliani, come nel caso di Demetra,
Rea e soprattutto Gaia, il cui nome designa un tipo di donna matriarcale.

4. Conclusione
L’analisi noologica della sedentarizzazione degli indoeuropei, della quale in questa
lezione abbiamo toccando i punti salienti, ci fornisce gli elementi per comprendere
la struttura esistenziale di tutte le società indoeuropee. Ora sappiamo che vi sono
due orizzonti esistenziali sovrapposti l’uno all’altro, ed è solo partendo da questo
risultato che è possibile addentrarsi nello studio approfondito di ogni specifica
società indoeuropea – dell’Europa occidentale, est-europea, iraniana o indiana. Ho
dedicato a ciascuna di queste società – al Logos francese, germanico, latino, greco,
inglese, iraniano, indiano – diversi volumi del progetto Noomachìa, applicando il
concetto dei «due orizzonti» per poter testare come opera questa ermeneutica,
questa interpretazione nei casi specifici rappresentati da ciascuna di queste
culture, e come questa sovrapposizione di due livelli influisce sui contenuti e sulla
semantica di ciascuno di questi popoli. Posso affermare con assoluta certezza che
ovunque possiamo individuare entrambi gli orizzonti esistenziali, le loro interazioni
e gli aspetti in cui prevale un orizzonte piuttosto che l’altro nei più svariati contesti
– nella mitologia, nella religione, nella scienza, nella stessa visione del mondo –
dacché il Logos coinvolge e influisce su ogni cosa.

Al termine di questa lezione, vorrei accennare brevemente a ciò che costituirà


l’oggetto della nostra trattazione nella prossima lezione. Possiamo presumere, se ci
ricordiamo di ciò che abbiamo detto nella prima lezione, che nella commistione dei
due Logoi apollineo e cibeliano si manifesti il Logos dionisiaco. In effetti, il
momento in cui Apollo e Cibele si incontrano ed entrano in conflitto, costituisce il
momento della Noomachìa in cui appare Dioniso, il quale rappresenta
precisamente l’intersezione di due orizzonti, il Logos verticale di Apollo nella sua
versione pura con tutti i suoi contenuti turanici, e il Logos ctonico di Cibele. La
prossima lezione sarà pertanto dedicata al Logos di Dioniso e alle culture basate su
di esso.
Alexander Dugin

Nella precedente lezione [1] abbiamo individuato e analizzato un momento molto importante
nell’istoriale europeo [2], che definisce la struttura principale della Noomachìa europea. La
struttura del momento della Noomachìa è la chiave per comprendere il nostro essere storico, per
capire chi siamo. Abbiamo visto come la chiave per interpretare la storia europea nella sua
dimensione ontologica ed esistenziale consista nel seguire e osservare come si sviluppa nelle varie
epoche il processo di interazione conflittuale di due orizzonti esistenziali contrapposti. Abbiamo
altresì osservato come tale conflitto sia basato sulla mutua reinterpretazione delle stesse strutture
simboliche, mitologiche e religiose da due prospettive tra loro opposte – in ciò si manifesta
precisamente la Noomachìa nel suo senso più autentico, cioè come conflitto semantico. Il Logos di
Cibele cerca di reinterpretare le stesse figure o di imporne delle proprie nel contesto della
commistione culturale risultante dalla sovrapposizione dei due Logoi apollineo e cibeliano.
Possiamo definirla la lotta per il genere della divinità, la quale può essere interpretata nella
prospettiva cibeliana e materialistica, oppure in modo spiritualistico, patriarcale, celeste,
verticale, in definitiva indoeuropeo nel suo senso originario [3].

1. Il regno di Dioniso

Il «terreno di scontro» dei due spazi esistenziali – paleo-europeo e turanico – crea un


nuovo tipo di struttura, una terza struttura per la precisione. Nel senso più autentico, il
Logos di Apollo è rappresentato dalla società turanica nomade; analogamente, il
Logos di Cibele nella sua forma più pura è rappresentato dalla società agricola,
sedentaria e matriarcale dell’«Europa Antica». Ma dall’incontro di questi due spazi
esistenziali, viene a crearsi una nuova dimensione, che costituisce precisamente il
campo di Dioniso, dove il concetto patriarcale dell’uomo discende nelle profondità
della Madre. Ciò che appartiene al Cielo giunge al centro della Terra. Dioniso diventa
così il signore della Terra, come Zagreo nella mitologia greca, destinato a regnare sul
mondo per volere di Zeus.

La struttura puramente apollinea non ha alcun contatto con la materia che caratterizza
il Logos di Cibele. È completamente vergine, incontaminata. Appartiene al Cielo, al
giorno, alla luce. L’ordine di Apollo è l’ordine del Padre, della bellezza, del rigore
metafisico. È la legge del Paradiso, delle idee platoniche, delle stelle. Ma quando il
Sole giunge sulla Terra, si apre una nuova dimensione, che corrisponde precisamente
al livello di Dioniso. Abbiamo dunque a che far con un campo completamente nuovo
della realtà, in cui si manifesta un nuovo Logos. Quest’ultimo può essere considerato
il prodotto dell’incontro tra l’orizzonte turanico e quello preindoeuropeo, ma esso
può anche manifestarsi in modo del tutto autonomo, come un terzo Logos a se stante
che non deriva dall’incontro di altri due Logoi. Questo è il caso di alcune culture non
europee, ad esempio cinese o pigmea. I cinesi e i pigmei africani hanno una società
puramente dionisiaca, caratterizzata da una struttura noologica originale e autonoma
che non è data dalla sovrapposizione di due orizzonti esistenziali pregressi. Così,
mentre nella società indoeuropea Dioniso scaturisce da e rappresenta il teatro di
scontro di due Logoi contrapposti, è possibile che in alcune società non indoeuropee
esistano al contrario strutture fondate sulla piena e assoluta dominazione del Logos
dionisiaco, che sorge in modo completamente autonomo dagli altri. Ecco
perché parliamo di tre Logoi, e non di due [4].

In senso etnosociologico, il Logos di Dioniso si traduce nel processo fondamentale


che si è andato sviluppando nel campo della terza funzione indoeuropea, dove ha
avuto luogo una sintesi tra la terza funzione pastorale e mandriana delle tribù
turaniche e la società sedentaria, agricola e matriarcale. Questo segmento della
società, la casta contadina europea, rappresenta lo spazio sociale di Dioniso.

Il regno di Dioniso è costituito dal mondo agricolo. Egli è il dio del vino, oltre che dei
sacrifici animali. E nei misteri eleusini, viene sempre accompagnato da Demetra, che
gioca in essi un ruolo centrale. Dioniso e Demetra sono entrambi divinità e figure del
mondo agricolo e costituiscono un’importante dualità. I misteri eleusini ruotano
infatti attorno al pane e al vino, il vino d’uva rappresentato da Dioniso e la spiga di
grano rappresentato da Demetra. Questa coppia costituita dalla Madre e dal Figlio
celeste – il quale rappresenta il seme patriarcale non creato da lei ma posto in lei, al
centro della Terra, al fine di risorgere e tornare all’origine celeste – rappresenta un
nuovo modo di interpretare l’agricoltura, una concezione patriarcale dell’agricoltura
stessa.

Demetra non coincide con Cibele ma è il frutto di una concezione completamente


diversa di ciò che è la Madre Terra. Nello specifico, Demetra rappresenta
l’interpretazione patriarcale della Madre Terra; una Madre Terra vista da una
dimensione superiore e non interna ad essa. È una divinità epictonica – si trova al di
sopra della superficie terrestre – e non ipoctonica. È la madre dei campi di grano
coltivati, con le spighe dirette verso l’alto. Essa è dunque aperta alle influenze del
Cielo: rappresenta una figura della Grande Madre «domesticata», che riconosce la
dimensione trascendente, i princìpi trascendenti del Cielo e del Padre, e si sottomette
ad essi. In sintesi, Demetra è la Madre in senso patriarcale, inglobata nella società
patriarcale e accettata sotto queste condizioni precisamente come lo è stata
l’agricoltura nella società indoeuropea sedentarizzata. La transizione dalla figura di
Cibele a quella di Demetra corrisponde al passaggio dalla Madre selvaggia, che crea
autonomamente il mondo, alla Madre domesticata, che invece assiste il seme paterno
nella crescita. Si tratta di concezioni differenti del principio femminile.

Nei misteri eleusini di origine tracica, osserviamo dunque una transizione dallo
spazio esistenziale puramente cibeliano allo spazio patriarcale demetrico della società
agricola indoeuropea. Ed è qui che appare Dioniso, una figura completamente nuova
che rappresenta la trascendenza immanente – non è Apollo, ma non si tratta neanche
di Attis nel ciclo cibeliano –, qualcosa che proviene dal Cielo e giungere al centro
della Terra al fine di «salvarla» dai suoi aspetti caotici, gravosi, cibeliani,
purificandola con il vino, il cui mistero rimanda al mistero del sangue di Dio, disceso
sulla Terra per la Salvezza del mondo. Così, il vino rappresenta Dioniso in quanto
liberatore dalla Grande Madre. La liberazione dalla Grande Madre e il conseguente
«ritorno» – l’ascensione all’origine celeste – è ora possibile, ed è incarnata
precisamente da Dioniso. Noi possiamo morire, ma con Dioniso ascendiamo. Si tratta
di una dimensione trascendente molto importante, che fa il suo ingresso nel contesto
della società matriarcale sedentaria agricola.

Vi è un altro aspetto interessante nel ciclo mitologico di Dioniso. C’è un momento in


cui le baccanti, gruppi di donne seguaci di Dioniso, ricevono la sua chiamata. Esse ad
un certo punto odono un sibilo, una voce silenziosa che solo le donne iniziate al suo
culto possono percepire. Si tratta di un invito ad andare sui monti e nelle foreste. Le
baccanti, udita la chiamata di Dioniso, diventano invasate, e si dirigono in preda a
furore estatico fuori dalla città, danzando e vagando, e squartando gli animali
(sparagmós) per mangiarne la carne cruda, al fine di entrare in comunione con il dio.
Questo stato mentale invasato è molto simile a quello che caratterizza le orge
matriarcali, ma con una differenza fondamentale: in questo caso appare una figura
maschile trascendente e si avverte la profonda sensazione dell’esistenza e dell’arrivo
del Salvatore. Quest’ultimo non è una creazione autonoma dell’androgino femmineo
Agdistis, come avviene nel ciclo di Cibele con Attis, ma rappresenta l’apparizione di
un seme trascendente che dunque non è parte della Grande Madre. Così, il furore
femminile incontra la figura maschile puramente trascendente, e in ciò tali pratiche si
differenziano completamente dalla precedente tradizione orgiastica. È proprio
l’incontro con questo aspetto trascendente, verticale, a costruire l’essenza stessa della
chiamata di Dioniso.

2. Il «conflitto delle interpretazioni»

Un punto fondamentale riguarda l’interpretazione semantica di Dioniso. Nella


tradizione indoeuropea, noi non ci imbattiamo mai nella manifestazione pura di
Dioniso. Si tratta sempre di Dioniso inteso come fratello di Apollo, come latore di
luce. Noi indoeuropei interpretiamo la figura e il Logos di Dioniso unicamente in
prospettiva apollinea, non abbiamo altri Dioniso. Vi è un solo Dioniso nella nostra
tradizione, ed è il Dioniso dell’orizzonte esistenziale indoeuropeo. Tuttavia esiste
sempre la possibilità di reinterpretare questa figura nella prospettiva cibeliana. Cibele
cerca infatti continuamente di riconsiderare l’arrivo di questa figura maschile
trascendente e patriarcale nella sua antica prospettiva matriarcale, sostituendo
Dioniso con Attis o Adone, anch’esso figura maschile del ciclo matriarcale. E questo
lieve mutamento di significato rovescia ogni cosa. Ecco perché Dioniso rappresenta il
terreno di scontro tra due Logoi contrapposti nel contesto europeo: l’interpretazione
di Dioniso da parte degli indoeuropei è apollinea, ma essi operano in uno spazio
molto pericoloso, dove il potere della Grande Madre e della sua ermeneutica è
fortissimo, e da ciò scaturisce un conflitto semantico che sta alla base della
Noomachìa europea.

Ciò si deve non solo al fatto che il sostrato cibeliano sia stato inglobato con la
sedentarizzazione degli indoeuropei, ma anche all’origine del culto dionisiaco stesso,
da rintracciarsi precisamente in una tradizione matriarcale preindoeuropea. Questa è
una delle ragioni per cui non vi è alcun particolare testo o mito dedicato
esclusivamente a Dioniso. La maggior parte delle pratiche, dei miti e delle figure del
culto dionisiaco sono state mutuate da pratiche e culti specifici della Grande Madre.
Ciò è ampiamente descritto in due libri di cui consiglio la lettura: Dioniso[5] di Karl
Kerényi e Dioniso e i culti predionisiaci[6] di Vjačeslav Ivanov (in lingua russa).
Quando Karl Kerényi, autore ungherese e amico di Mircea Eliade, cerca di rivelare le
fonti del culto di Dioniso, egli arriva alla conclusione che prima di questa figura
esisteva qualcosa di molto simile, con pressoché i medesimi cortei di baccanti
invasate, gli stessi riti, le stesse orge, e così via, ma il tutto era inserito in un contesto
completamente differente, nell’ambito di un culto puramente matriarcale.
Occorre prestare particolare attenzione a questo punto. Nel campo dei riti, delle
leggende e dei miti di Dioniso, alle origini vi è una tradizione matriarcale,
successivamente trasformata dall’arrivo del nuovo orizzonte esistenziale
indoeuropeo. Ciò implica che il culto di Dioniso, e il relativo Logos nel contesto
indoeuropeo, scaturisca dalla metamorfosi che la struttura e il culto della Grande
Madre subiscono a seguito della discesa del principio patriarcale trascendente. Le
pratiche e i simboli dionisiaci appartengono originariamente ad una tradizione
predionisiaca matriarcale. Non a caso, a volte Dioniso appare nelle fattezze di un
serpente, o circondato dalle figure di satiri metà uomini metà bestia, normalmente
associati alla Grande Madre; allo stesso modo, anche i cortei dionisiaci
rappresentavano la continuazione dei cortei legati alla Grande Madre, con gli stessi
rituali e simboli. Questo implica che gli indoeuropei turanici non hanno conquistato
solo uno spazio fisico – villaggi, insediamenti, popolazioni, ecc. – ma anche il
territorio del mito, con la trasformazione semantica della figura di Cibele – insieme a
tutti i simboli e le pratiche di adorazione che la circondano – nelle figure di Demetra
e Dioniso. Detto altrimenti, i conquistatori indoeuropei si sono appropriati di uno
spazio mitologico preindoeuropeo originariamente ad essi estraneo, imponendovi la
propria interpretazione.

In senso metafisico, la tradizione neoplatonica presenta Dioniso come l’intelletto,


cioè l’elemento dionisiaco-divino che l’uomo porta in sé. Il principale mito
dionisiaco è quello in cui il piccolo Dioniso, giovinetto figlio di Zeus, viene catturato
nell’Olimpo dai crudeli Titani, che lo smembrano e lo divorano. Quindi interviene
Zeus incenerendo i Titani e facendoli precipitare nel Tartaro, e dai loro fumi secondo
una versione tardiva del mito viene generato l’uomo, il quale pertanto porta in sé due
elementi, uno titanico è uno divino, rappresentato precisamente da Dioniso.
Nell’interpretazione neoplatonica di Dioniso, esso è dunque l’anima o il principio
spirituale presente in ogni uomo, una sorta di scintilla della coscienza, dacché
nell’interpretazione orfica la natura umana è duale: da un lato è titanica,
relativamente al corpo e agli aspetti materiali, mentre dall’altro è dionisiaca,
relativamente all’intelletto. Possiamo dire che Dioniso rappresenta il concetto
dell’intelletto immanente, che si oppone all’altro lato della natura umana che è
titanico.

È precisamente questo il problema della metafisica di Dioniso e in definitiva della


metafisica della cultura indoeuropea: essa è duplice, poiché racchiude due orizzonti,
uno titanico e l’altro olimpico. E Dioniso non è che un altro nome per indicare
l’essere umano inteso come essere culturale nel contesto della sovrapposizione di
questi due orizzonti esistenziali, dacché egli è il terreno di scontro tra il patriarcato e
il matriarcato integrato nella nostra cultura. Il problema di Dioniso è il problema della
cultura indoeuropea, ed è la chiave per comprendere la Noomachìa di tutte le società
indoeuropee, sia di quelle europee occidentali che di quelle asiatiche, poiché in Iran e
in India vi è esattamente la stessa struttura culturale problematica (certo, non abbiamo
una figura come Dioniso nella cultura indiana, ma abbiamo Siva; non c’è una diretta
equivalenza, ma troviamo sempre lo stesso campo di interazione conflittuale tra due
Logoi).

Nella società indoeuropea, il Logos di Dioniso è caratterizzato da una connaturata


instabilità. In altre culture, come quella cinese o pigmea, e fino ad un certo punto
anche azteca con la figura del serpente piumato Quetzalcóatl, la figura di Dioniso è
stabile. Nella società indoeuropea al contrario il campo dionisiaco è instabile poiché è
conflittuale, ha luogo in esso una lotta tra mente e corpo che scaturisce non dalla loro
natura oggettiva ma dalla loro interpretazione: la mente o intelletto, considerato come
qualcosa che appartiene al Logos di Apollo e la cui rappresentazione immanente è
Dioniso, confligge col corpo, che invece viene visto come qualcosa di materiale, di
gravoso, un corpo che ancora una volta non corrisponde alla materia di per sé – tutto
ciò con cui abbiamo a che fare non attiene alla natura oggettiva delle cose ma è la
proiezione diparadigmi– bensì all’interpretazione cibeliana di ciò che è il corpo.
Questa non è l’unica interpretazione possibile. Altre culture posseggono una
concezione completamente diversa del corpo, un corpo senza materialità. Il problema
indoeuropeo è invece rappresentato proprio la gravosità o materialità del corpo, una
evidente traccia del Logos di Cibele. Così, l’orizzonte esistenziale di Cibele detta la
qualità del nostro corpo, caratterizzandolo come qualcosa di gravoso che limita
l’anima, ma ciò – torno a ripetermi – non è una qualità naturale bensì una costruzione
culturale.

La figura di Dioniso nella società indoeuropea è dunque instabile: il centro del Logos
di Dioniso nella nostra cultura è normalmente spostato verso il Logos apollineo,
dimodoché noi indoeuropei non ci raffrontiamo con Dioniso in quanto tale, ma come
abbiamo già detto lo conosciamo in prospettiva esclusivamente apollinea, come
fratello di Apollo. Per capire la natura problematica di Dioniso possiamo affermare
che, in termini figurativi, il centro della concezione dionisiaca del mondo è di norma
traslato verso l’alto, appartiene all’universo apollineo che domina la cultura
indoeuropea, e ciò rende Logos di Dioniso una sorta di continuazione o
«immanentizzazione» di Apollo, la dimensione immanente del Logos apollineo. Non
si tratta una regola o legge universale, ma di una caratteristica che attiene
esclusivamente alla civiltà indoeuropea. Nella nostra cultura, Dioniso è spostato in
alto. Non è dunque puro Logos di Dioniso, ma sarebbe più corretto
denominarlo Logos apollin-dionisiaco.

Quello che abbiamo appena descritto è un caso «classico» nella cultura indoeuropea.
Tuttavia, rappresentando Dioniso il terreno di scontro e lo spazio intermedio tra due
Logoi, vi è sempre la possibilità di una lettura opposta. Nei miei volumi del progetto
Noomachìa, ho identificato questo come probabilmente il principale problema
metafisico di tutta la cultura e la storia indoeuropea. Vi è sempre il tentativo da parte
di qualcosa presente all’interno della nostra stessa cultura di collocare il centro del
Logos di Dioniso in un’altra direzione, al di sotto della linea che separa il Logos di
Apollo dal Logos di Cibele. Ho chiamato questa ipotesi il «doppio nero» di Dioniso.
Non si tratta del Dioniso che conosciamo di norma nella nostra tradizione
indoeuropea, ma del prodotto della reinterpretazione o riappropriazione cibeliana di
Dioniso, corrispondente alle figure di Adone o di Attis, di Lucifero o del titano
Prometeo, comunque di una figura molto prossima a Dioniso. La figura del doppio
nero non corrisponde al caso classico, alla norma, è totalmente opposta alla visione
del mondo indoeuropea, ma è sempre presente, come un’ombra metafisica di
Dioniso, e forse è anche più antica di Dioniso stesso, appartenendo all’universo della
Grande Madre.

Per comprendere al meglio problema metafisico di Dioniso e il conflitto che ha luogo


nel suo campo, possiamo analizzarlo sotto un’altra ottica. Poiché Dioniso è qualcosa
di dinamico – non è la luce eterna che brilla in perpetuo, ma la luce che diventa
oscurità, che si attenua e svanisce per poi brillare nuovamente; è il mistero del seme,
che muore e risorge come germoglio di grano – possiamo considerarlo nei termini di
un «ciclo». Il ciclo di qualcosa che appartiene ad un livello superiore, discende al
centro della notte, nell’oscurità della Terra, per poi risorgere e ascendere al suo luogo
originale al vertice della creazione.

Esiste però sempre la possibilità di considerare un ciclo sostanzialmente identico ma


che parte dal punto opposto. Vi sarà dunque qualcosa che appartiene al livello
inferiore, che viene partorito dalla Grande Madre, ascende assaltando il Cielo, depone
gli Dèi e li sostituisce. È precisamente il genere di ascesa dell’elemento prometeico
titanico che abbiamo denominato «doppio nero». Ma il fato dei Titani è infine quello
di cadere come Prometeo. Essi possono vincere momentaneamente gli Dèi, ma sono
destinati alla caduta: Tifeo ad esempio sopraffà Zeus nella mitologia greca, ma dopo
un iniziale successo ha la peggio e viene precipitato e imprigionato sotto la Sicilia.
Generalizzando, abbiamo a che fare con qualcosa che sta ascendendo, raggiunge il
punto più alto, dopodiché precipita. Nei suoi tratti principali, si tratta sostanzialmente
dello stesso scenario del ciclo di Dioniso, dello stesso racconto, ma che procede dalla
prospettiva opposta. Il primo racconto parte dal Cielo, prosegue con una discesa sulla
Terra e termina con un ritorno al Cielo, mente il secondo inizia dalla Terra e prosegue
con la conquista del Cielo, cui fa seguito una caduta (la caduta degli angeli, di
Prometeo, dei Titani, ecc.). I Titani rivendicano l’Olimpo, è lì che smembrano
Dioniso, ma poi vengono fulminati da Zeus e precipitano nel Tartaro.

Al cuore di questo racconto vi è una Noomachìa che possiamo leggere da entrambi i


lati: il Logos di Apollo e il Logos di Cibele concordano sulla struttura principale di
questa titanomachìa, ma essi interpretano tale processo da due punti di vista
contrapposti, da due prospettive speculari. Lo stesso racconto, due interpretazioni.
Questo dà al problema del doppio nero di Dioniso tutta la sua misura metafisica.
Operando con la logica del ciclo, ci troviamo di fronte a due possibilità di lettura, con
due diverse strutture semantiche. Insieme alla comparsa di Dioniso nella società
frutto della sovrapposizione dei due orizzonti esistenziali, emerge dunque il problema
aperto della sua natura. La natura di Dioniso nella nostra tradizione è assolutamente
instabile, è dinamica, contraddittoria e dialettica. E non c’è solo un modo per
interpretarla; essa al contrario ammette due versioni interpretative. Dioniso può
essere allo stesso tempo il simulacro di Dioniso; può essere Adone nello stesso
momento in cui è Dioniso; può essere predionisiaco e dionisiaco allo stesso tempo.

Così, il problema della civiltà europea è il problema di Dioniso. Si tratta di una


questione aperta – non vi è nulla che possiamo dare per acclarato una volta per tutte,
né possiamo risolvere tale questione astrattamente dacché noi, in quanto indoeuropei,
siamo immersi questo processo. Come affermavano i neoplatonici, Dioniso
rappresenta il nostro stesso intelletto. Il quale, in questa nostra analisi noologica,
possiede il suo «doppio nero» al proprio interno. La nostra mente, la nostra anima, ha
una natura duale essendo dionisiaca. È divisa. Ha a che fare con qualcosa ad essa
opposta ma che è presente al suo interno: il problema del simulacro è integrato nella
mente indoeuropea, perché quest’ultima è duale basandosi sulla sovrapposizione di
due orizzonti esistenziali. Ciò significa che non possiamo essere sicuri di dove siamo
titanici e di dove siamo dionisiaci, non possiamo dire con certezza se abbiamo a che
fare con Dioniso o con Adone, con il vero intelletto o con un suo simulacro. Cerco di
spiegarmi. La mente è dionisiaca, il corpo è titanico. Questa è in sostanza la
descrizione orfica. Tuttavia, esiste anche la possibilità del corpo dionisiaco e della
mente titanica, poiché corpo e mente non sono così chiaramente separati, sono
piuttosto in uno stato di mescolanza – commistione dovuta al fatto che mente e corpo
sono la proiezione del Logos (nel mondo umano nulla può esistere senza Logos, tutto
ciò con cui abbiamo a che fare è il prodotto della proiezione di paradigmi). Vi è il
corpo materiale e la mente spirituale, ma abbiamo anche il corpo spirituale,
rappresentato ad esempio dal corpo della resurrezione nella dottrina cristiana, e vi è la
mente materiale, la mente titanica, rappresentata dalla razionalità meccanicistica e
calcolante. Essitono due corpi e due menti in noi. Ciò costituisce il problema al
centro della dialettica della nostra cultura, un problema che però è interno a
quest’ultima poiché il doppio di Dioniso non esiste al di fuori di essa.

Questo è il punto più importante relativo al Logos di Dioniso. Studiare il problema


del «Logos oscuro» dionisiaco significa andare alle radici della problematica della
storia europea e decifrare la chiave del problema dell’uomo europeo o, oserei dire,
indoeuropeo. Ed è l’introduzione del «Logos nero» di Cibele che ci permette di farlo.
La scoperta del terzo Logos è una rivoluzione metafisica, grazie alla quale tutto
acquista un senso. È infatti grazie all’ingresso del Logos cibeliano, che scopriamo la
possibilità dell’esistenza del «doppio nero» titanico di Dioniso, e questo ci permette
di vedere come in precedenza, prima dello sviluppo della Noologia e
dell’introduzione del terzo Logos, vi sia stato un travisamento, un’interpretazione
fondamentalmente errata di Dioniso nella sua identificazione con un Titano, una
perversione oscura, un aspetto puramente negativo, il rovesciamento della luce o del
«Logos bianco» di Apollo. Introducendo il Logos di Cibele, ogni pezzo del puzzle va
al suo posto e, cosa più importante, tocchiamo con mano l’instabilità di Dioniso.

In definitiva, abbiamo a che fare con due spazi ermeneutici integrati nella figura di
Dioniso e il «conflitto delle interpretazioni» (per usare una terminologia cara a Paul
Ricœur) è aperto, dacché vi è sempre la possibilità di una sostituzione, di una
particolare perversione o deviazione metafisica della struttura semantica.
3. Logoi e regimi dell’immaginario

Prima di concludere, vorrei fornire un esempio di cosa si intende per approccio


dionisiaco. Per farlo, richiamerò brevemente la ricerca sull’immaginario di Gilbert
Durand [7]. Si tratta di una teoria molto complessa, ma cercherò di spiegarla nel
modo più semplice possibile.

Gilbert Durand è stato un autore francese molto importante, fondatore di una vera e
propria sociologia dell’immaginazione, avendo egli sviluppato una versione davvero
originale della struttura dell’immaginario. Detto in termini sintetici, secondo Durand
l’uomo è immaginazione. Tutto ciò con cui abbiamo a che fare è costituito da
strutture immaginarie. Durand ha studiato le radici dell’immaginario e come
l’immaginazione opera in noi, essendo essa non il riflesso di oggetti esistenti ma
piuttosto il contrario – gli oggetti sono il prodotto della nostra immaginazione.
Inizialmente noi immaginiamo qualcosa, dopodiché ci raffrontiamo con ciò che
abbiamo appena immaginato. Vale pressoché lo stesso per la fenomenologia. Questo
ci porta ad Husserl e al suo concetto dell’intenzionalità. Secondo Husserl, l’atto
intenzionale è l’atto diretto verso qualcosa che esiste al di fuori della nostra mente ma
non ha qualità in sé, poiché ogni qualità con cui abbiamo a che fare è all’interno della
nostra mente. Husserl chiama questo «noema». Il processo dell’atto intenzionale è
«noesi», mentre «noema» è ciò che viene pensato. Così, le qualità degli oggetti con
cui abbiamo a che fare sono intrinseche al nostro processo del pensiero e non esterne
ad esso. Durand si avvicina in modo differente a questo approccio fenomenologico.
Egli parla di regimi dell’immaginario affermando che la nostra immaginazione lavora
con tre regimi, e ciò è molto simile al concetto dei tre Logoi. Ora vedremo perché.

3.1 Il diurno

Il regime dell’immaginario è una sorta di stato intrinseco della struttura mentale che
crea differenti sequenze di immagini, simboli e strutture di base. Il primo regime è
il regime diurno. Si tratta del regime del giorno, della luce, basato sul concetto di una
stringente dualità e sugli archetipi del «distinguere»: vi è una rigorosa e assoluta
differenziazione, dacché il regime del diurno separa, non unisce. Tutto è chiaro come
la luce diurna. A questo regime è strettamente connessa la verticalità, legata secondo
Durand al riflesso posturale del bambino. L’atto del porsi in piedi, in posizione
verticale, viene considerato nell’immaginario come un volo, una sorta di ascensione
eroica, ecco perché questo è il regime dell’orientazioneverticale.

Il regime diurnoè anche il regime guerriero, del patriarcato. Ciò che abbiamo detto
sul Logos di Apollo può facilmente essere applicato a questo regime
dell’immaginario. Difatti, secondo Durand, esso rappresenta la lotta contro la notte, la
morte, l’oscurità; una sorta di guerra apollinea perpetua. Nel campo dell’infermità
mentale, tale regime corrisponde allo stato paranoico. La paranoia è
l’assolutizzazione del diurno, in cui tutto viene separato fino al livello atomico, con
una continua distruzione dell’oggetto parallelamente al consolidamento del soggetto.
Così agisce il guerriero, combattendo senza sosta e distruggendo con la sua spada
tutto ciò che incontra; la spada è il diurno, ciò che separa, non uccide ma divide,
distruggendo l’oggetto e consolidando il soggetto.

Pertanto, il regime diurnoè in un certo senso apollineo e indoeuropeo. Secondo


Durand, il Logos nasce da questo regime. Il nostro pensiero si basa sullo sviluppo di
questo tipo di immaginario. In questo regime opera la nostra ragione, il cui principale
esercizio è quello della differenziazione. La negazione è anch’essa diurna,
perché negare significa separare: ciò che è da ciò che non è, ciò che esiste da ciò che
non esiste, ecc. Il nostro processo del pensiero è in sintesi basato sulle dualità, sulle
coppie, sulle separazioni. Noi immaginiamo le cose distinguendole, scindiamo
l’oggetto e consolidiamo il nostro soggetto. Tutti ci sono avversi ma siamo noi a
trionfare sugli altri. Ciò porta alla creazione della gerarchia, della verticalità, con il
soggetto più paranoico al vertice della società – lo Zar, il Re, che distrugge tutto e
consolida se stesso. Possiamo dire che la paranoia è la malattia del Re: gli altri
pianificano di destituirlo – e ciò talvolta avviene – ma egli prosegue dritto per la sua
strada, verso la battaglia finale con la morte e con l’oscurità, poiché il Re è circondato
da ombre e il suo destino è quello di combatterle, di uccidere i nemici, di consolidare
tutto ciò che è all’interno del proprio dominio e distruggere tutto ciò che si trova al
suo esterno. Questa è la normale attitudine guerriera.

3.2 Il notturno mistico

Ma secondo Durand vi sono altri due regimi dell’immaginario, entrambi afferenti


alregime notturno. Il primo è il notturno drammaticoe il secondo è il notturno
mistico. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Nel regime notturnola nostra mente funziona in modo completamente diverso. Tale
regime si basa non sugli archetipi del distinguere ma su quelli dell’«unire». La nostra
mente non separa ciò che è al di fuori consolidando ciò che è al nostro interno come
nel caso del diurno, ma fa sostanzialmente l’opposto: unisce tutto ciò che è attorno a
noi e divide noi stessi. Portato all’estremo, tale approccio sfocia nell’ambito
dell’infermità mentale nella schizofrenia. L’attitudine schizofrenica consiste infatti
nel separare l’interiore – ci sono voci, differenti ego, ecc. – e unire l’esteriore,
considerando il mondo come un tutt’uno che si trova sempre nel giusto ed è più forte
del soggetto, il quale al contrario è problematico e debole. Ecco in cosa consiste
il regime notturno. Esso non si basa sulla logica ma sulla retorica e sull’eufemismo.
Ad esempio, quando qualcosa ci urta, diciamo di esserne felici e soddisfatti. Quando
ci manca qualcosa, lo consideriamo una sorta di dono. Tale processo, denominato
eufemizzazione, consiste nel chiamare le cose con nomi completamente diversi aventi
significati opposti, al fine di evitare l’orrore che ci provoca l’impatto con una realtà di
cui siamo terrorizzati. Avendo timore di tutto, compreso di noi stessi – non siamo
sicuri neanche della nostra esistenza –, usiamo l’espediente di denominare tutto con
nomi dal significato opposto. Chiamiamo l’oscurità, che temiamo, luce. Trattiamo ciò
che ci minaccia come qualcosa di molto amichevole – «stai tranquillo, abbiamo
qualcosa in comune, non sei così orribile, cerchiamo di trovare un denominatore
comune». Non abbiamo a che fare con un’attitudine guerriera ma al contrario con una
coscienza pacifista. Nel caso più estremo, quest’attitudine sfocia nella sindrome di
Stoccolma: si è presi come ostaggio ma si passa dalla parte dei terroristi,
condividendone le motivazioni, scoprendo improvvisamente che le loro
rivendicazioni sono corrette; poiché è molto difficile sostenere questa posizione di
assoluta dominazione da parte dell’altro, l’ostaggio dice a sé stesso: «essi non sono
qualcosa d’altro, in fondo stiamo dalla stessa parte, sono bravi ragazzi». Così, ci si
schiera con il male perché non è così malvagio, con la morte perché si tratta di un
nuovo inizio, con la perdita perché rappresenta una forma di dono.

Ma nel campo del notturno, vi sono due forme. La prima forma è quella radicale,
chiamata notturno misticoda Durand, e rappresenta la traslazione completa
dell’oggetto in soggetto. Lo si potrebbe definire il tradimento completo di sé. Tutto è
al di fuori. Al proprio interno non vi è nulla, se non la riflessione di ciò che è posto al
di fuori. La luce è notte, l’alto è basso, il maschile è femminile, morire è vivere, e
viceversa. Pura retorica. Si chiama qualcosa con un nome completamente differente,
contraddittorio, e si è felici di ciò.

Il notturno misticocorrisponde al Logos di Cibele. Rappresenta l’assoluta


dominazione di qualcosa che scaturisce dal tradimento di sé. Il soggetto non è
consolidato, ma completamente dissipato nell’immaginario ed è il processo di
dissipamento della mente che crea la materia o mondo esterno. Il soggetto è debole,
la materia è forte. Ma la materia non esiste autonomamente, è la proiezione di questa
debolezza. Inizia ad esistere come se fosse autonoma e indipendente, ma in realtà la
sua esistenza deriva all’indebolimento del soggetto da parte dell’immaginazione, la
quale può immaginare un soggetto non solo forte ma anche debole.

Scaturisce tutto da un movimento interiore. Ecco perché il concetto di regime


dell’immaginario è così vicino al concetto di Logos, e lo utilizzo nell’interpretazione
delle differenti culture, religioni, e fenomeni storici.

3.3 Il notturno drammatico

La seconda forma del regime notturno è il notturno drammatico. Quest’ultimo non


comporta un’eufemizzazione radicale ma sostanzialmente bilanciata, equilibrata. In
questo regime non chiamiamo la notte giorno e il giorno notte; piuttosto, li
chiamiamo tramonto o alba: né luce, né oscurità ma un gioco tra le due, qualcosa
d’intermedio, che si svolge nell’ombra. Questo regime corrisponde al Logos
dionisiaco. E qui ritroviamo la problematica di Dioniso, di cui ho già parlato, perché
tale regime può essere interpretato come radicale oscurità che si finge luce o come
luce che ad esempio non è abbastanza chiara.

Se il regime diurnoè paranoico e il regime del notturno misticoè schizofrenico, qual è


l’infermità mentale che corrisponde al notturno drammatico? È la normalità! Cioè
non vi è alcuna malattia mentale, poiché noi in situazioni normali ci muoviamo
nel notturno drammatico, cioè adoperiamo un approccio dionisiaco alla realtà. A
volte usiamo l’eufemizzazione, avvicinandoci al notturno misticoma rimanendo
sempre nel campo del notturno drammatico; altre volte, adoperiamo la radicale
separazione e differenziazione, avvicinandoci all’altro polo, il polo della luce. Cioè,
usiamo entrambe le strategie allo stesso tempo. La malattia mentale inizia quando
siamo attratti troppo da uno dei due poli, è così tutto nel nostro immaginario diventa
troppo scuro o troppo chiaro.

In definitiva, dal punto di vista psicologico, il problema di Dioniso è quello delle


strutture antropologiche del nostro immaginario. Possiamo terminare questa articolata
analisi storica ed esistenziale del Logos di Dioniso, affermando che esso rappresenta
il centro tra due poli corrispondendo al Dasein – l’Essere è apollineo, l’Esser-ci
(«being t/here» in inglese) è dionisiaco, dacché si trova al centro (t/here) tra Apollo
(there) e qualcosa di puramente immanente (here) – ed ha parecchie affinità con ciò
che Gilbert Durand ha denominato la forma drammatica del regime notturno.
Metteremo ora da parte le altre società indoeuropee, per concentrarci sull’analisi della
storia e della cultura europea. Risulta ormai chiaro che la civiltà europea si fonda sulla
sovrapposizione di due orizzonti esistenziali. La storia europea si caratterizza per una
continua titanomachìa o Noomachìa, iniziata con la discesa della cultura indoeuropea
turanica nel campo della civiltà della Grande Madre. Nella precedente lezione [1] abbiamo
inoltre identificato Dioniso come il problema principale di questa civiltà, rappresentando il
terreno stesso di scontro in cui si sviluppa tale titanomachìa.

1. L’Urheimat balcanica
Per iniziare l’analisi noologica della civiltà europea, sarà opportuno partire da uno
dei suoi poli principali, costituente la vera e propria Urheimat delle tradizioni
agricole europee, cioè l’Europa orientale, a torto considerata periferica.

Il primo popolo indoeuropeo a farvi la sua comparsa è stato quello tracico. I Traci
sono discesi nei Balcani prima degli Slavi, attorno al 1200 a.C., insediandosi
inizialmente nei Balcani settentrionali, per poi occupare pressappoco la grande
area dell’Europa orientale. Ciò che è importante rilevare è che i territori in cui la
civiltà tracica si espanse erano i centri o poli della civiltà della Grande Madre –
Lepenski Vir, la cultura di Vinča, la cultura di Cucuteni-Trypillia, ecc. – la quale andò
così a costituire il sostrato dell’orizzonte esistenziale tracico. Per inciso, noi non
possiamo affermare con certezza che i Traci siano stati i primi popoli indoeuropei a
fare la loro comparsa in quei territori, ma essi sono i più antichi di cui abbiamo
conoscenza.

La cultura indoeuropea tracica ha rappresentato dunque il campo in cui ha avuto


inizialmente luogo l’incontro tra l’orizzonte apollineo e l’orizzonte di Cibele. Le tribù
slave che giunsero molto più tardi nei Balcani, assimilarono tali elementi tracici
includendoli nella loro struttura. Anche Dioniso era considerato dai greci un dio
tracico. E, sia che fosse realmente tracico, sia che fosse pre-tracico – ripeto, non
possiamo saperlo con certezza – Dioniso giunse in Grecia provenendo da nord, così
come Orfeo e la dea Bendis, sostanzialmente un altro nome per denominare la
Grande Madre.

È possibile che le tribù traciche siano più antiche di quanto immaginiamo


e forse siano state addirittura le prime tribù indoeuropee ad apparire.
Ciò che possiamo affermare con certezza è che esse costituivano una
società indoeuropea molto antica, con tratti nomadi molto sviluppati,
giunta prima degli Slavi, la cui cultura assimilò la tradizione paleo-
europea – direttamente o indirettamente per il tramite di una qualche
altra società indoeuropea, in merito a cui tuttavia non possiamo dire
nulla di affermativo.

Ad ogni modo, il dato saliente è che nello spazio est-europeo, prima che divenisse
predominante l’orizzonte slavo a seguito delle invasioni del V e VI secolo d.C.,
sussisteva una civiltà tracica indoeuropea in cui verosimilmente ha avuto luogo per
la prima volta l’incontro tra i Logoi di Apollo e Cibele. Se così fosse, ciò
significherebbe che il mondo agricolo sedentario europeo ha avuto origine e si è
espanso a partire dallo spazio balcanico, il quale dunque costituirebbe la patria
originaria – l’Urheimat – non solo del contadino est-europeo ma di tutto il mondo
rurale europeo, dacché la tradizione agricola si sarebbe venuta a sviluppare
anzitutto nei territori balcanici, abitati da una società matriarcale ben prima che vi
giungesse la cultura turanica.

Pertanto, l’Europa orientale, comunemente ritenuta periferica e marginale per la


civiltà greco-romana e più tardi per quella occidentale, andrebbe ritenuta al
contrario un polo centrale della civiltà Europea. È nell’Europa orientale infatti che
l’evento chiave nella storia ontologica e semantica europea – l’incontro tra i due
orizzonti esistenziali paleo-europeo e indoeuropeo – ha avuto luogo. Occorrerebbe
prestare maggiore attenzione al Dasein est-europeo, cioè al complesso orizzonte
esistenziale dell’Europa orientale, dacché in tale prospettiva esso acquista una
nuova dimensione divenendo di cruciale importanza. Ciò è ancor più vero se si
considera che Dioniso, che abbiamo visto essere la figura chiave per decifrare
l’ontologia della storia europea, è di origine tracica.

La cultura matriarcale paleo-europea non è pertanto sparita a seguito della discesa


dei Traci. Essa ne ha costituito il sostrato, si è quindi diffusa insieme alla cultura
tracica nel mondo rurale est-europeo e, da lì, si è espansa insieme alla classe
contadina attraverso tutta l’Europa. Possiamo dunque parlare di Dasein rurale, un
tipo particolare della terza funzione duméziliana che ha conservato tratti culturali
della tradizione preindoeuropea. E una delle prime società indoeuropee che ha
integrato questi elementi è stata proprio quella dei Traci, cui hanno fatto seguito
tutte le altre. Un altro popolo cui prestare particolare attenzione è quello degli Illiri,
i quali abitarono i Balcani occidentali assieme ai Traci, e il cui spazio secondo alcuni
storici raggiunse il Mar Baltico, ragion per cui si può credere che essi abbiano
vissuto in terre molto più a nord prima delle invasioni slave. Conosciamo molto
poco di questi popoli, ma possiamo dedurne alcuni aspetti interpretando
correttamente le tradizioni slave meridionali, essendo queste ultime in continuità
culturale con tali popoli, dacché tutte le tradizioni agricole a noi note risultanti da
migliaia di anni di indoeuropeizzazione erano originariamente balcaniche – in altri
termini, il Dasein rurale è nelle sue radici balcanico.

Fatta questa premessa circa l’Urheimat balcanica, patria originaria del


Dasein rurale europeo, possiamo passare ad analizzare gli orizzonti
esistenziali inferiori o sotto-spazi che costituiscono il Großraum europeo.

Come abbiamo già detto nella terza lezione, esiste l’enorme spazio turanico
indoeuorpeo che include sostanzialmente tutta l’Eurasia, dalle isole britanniche
all’India, e che costituisce l’immenso orizzonte esistenziale indoeuropeo. Ad ovest
di tale orizzonte si estende il Grande spazio europeo ma, scendendo ad un livello
noologico e geosofico inferiore, incontriamo al suo interno diversi sotto-spazi. Si
tratta delle singole società indoeuropee, le cui specifiche culture derivano da come
ciascuna di esse ha risolto il problema di Dioniso. Nel tentativo di comprendere
ermeneuticamente una o l’altra cultura europea, noi individuiamo precisamente
l’equilibrio noologico e il momento della Noomachìa che caratterizza ciascuna
società.

2. La tradizione greca
Inizieremo questa disamina partendo dalla tradizione greca [2].

La tradizione greca si basa sulla piena vittoria del Logos di Apollo. Tuttavia, tale
vittoria, come ho accennato nella quarta lezione, non è stata immediata. Le tribù
elleniche degli Ioni e degli Eoli giunsero attraverso le prime ondate migratorie nei
Balcani e nel Peloponneso sopraffacendo la civiltà matriarcale esistente. Ma,
mentre alcuni territori greci mantennero la struttura indoeuropea verticale
trifunzionale puramente patriarcale, altri la persero del tutto o in parte. Nelle
culture minoica e micenea si venne pertanto a creare una commistione tra
elementi patriarcali e matriarcali. Fu solo con l’ultima ondata migratoria delle tribù
elleniche dei Dori – provenienti dal nord, dai territori macedoni, e portatori di
essenziali elementi apollinei e pastorali – che la cultura micenea venne distrutta e
fu introdotto uno stile puramente turanico. Tutto questo si riflette nel dualismo
della cultura greca tra la dorica Sparta e la ionica Atene, un dualismo che
rispecchia l’equilibrio della Noomachìa all’interno dello spazio esistenziale greco,
dato che il Logos apollineo si manifesta in Sparta in modo chiaro e marcato a
differenza che in Atene e nelle colonie greche anatoliche, dove invece esso è meno
preponderante. Tale dualismo per inciso ha un ruolo chiave anche nella
geopolitica.

Il Logos apollineo si manifesta non solo nella mitologia e nella religione,


ma anche nella filosofa. Esso si riflette in modo assolutamente perfetto
nella filosofia platonica, così come nella logica di Aristotele.

In un’altra parte dell’insegnamento aristotelico invece, nello specifico nella fisica –


per la quale tutto ciò che esiste è unico e al contempo duplice possedendo forma e
materia (due cose in una, puro Dioniso!) – così come nella filosofia di Eraclito –
basata sul ciclo, sulla dialettica tra ciò che è eterno e ciò che è corruttibile – si
riflette invece il Logos di Dioniso. Ma nello spazio esistenziale greco è presente
anche il terzo Logos, il Logos di Cibele, rappresentato filosoficamente da
Democrito, Epicuro e Lucrezio, tipici esponenti di un’antica tradizione materialista
e immanente, dal momento che essi condividono una concezione atomistica per
cui tutto è composto da atomi, e professano l’idea titanica del progresso e
dell’evoluzione secondo la quale tutto cresce dal basso verso l’alto, dal negativo al
positivo.

Nella filosofia greca, troviamo dunque presenti tutti e tre i Logoi. Ma è importante
sottolineare come il Logos normativo sia quello di Apollo – platonismo su tutto, ma
in parte anche Aristotele ed Eraclito (sebbene in quest’ultimo si rifletta
principalmente il «Logos oscuro» di Dioniso). Logos apollineo che viene però
rigettato da Democrito, Epicuro e Lucrezio. Non è un caso che Platone suggerisse di
bruciare i libri di Democrito, considerandoli espressione di una pericolosa eresia. In
tutto ciò vediamo chiaramente la continuazione della titanomachìa o Noomachìa
indoeuropea. Il momento della Noomachìa greco si basa in definitiva sulla vittoria
del Logos di Apollo coadiuvato dal Logos apollin-dionisiaco o del «Dioniso
apollineo», sul Logos materialistico di Cibele.

3. Il Dasein ellenistico
È sostanzialmente questa la lettura noologica della tradizione ellenica. Le cose
però cambiano in era ellenistica. Sotto Alessandro Magno, i greci espandono il
proprio dominio su uno spazio esistenziale completamente nuovo.

L’orizzonte esistenziale iranico viene inglobato nella cultura


mediterranea greca e ciò crea il fenomeno dell’ellenismo.
La differenza fondamentale tra cultura ellenica ed ellenistica risiede proprio in
questo: mentre la cultura ellenica consiste nella tradizione greca di cui abbiamo
discusso finora, la cultura ellenistica scaturisce dalla fusione delle culture greca e
iranica. Questo passaggio va sottolineato: ad essere inglobate non è una qualche
cultura orientale, asiatica, semitica, come comunemente si ritiene, ma
precisamente iranica. La quale non corrispondeva però alla sola cultura dell’Iran
ma a quella dell’impero achemenide, che aveva assorbito anche le tradizioni
egiziane, babilonesi e semite, metabolizzando tutte queste antiche culture nel suo
Logos iranico [3]. Ecco perché, così come distinguiamo ellenistico da ellenico, in
questo caso suggerisco utilizzare il termine iranistico piuttosto che iranico. In tal
modo, l’impero achemenide non è da considerarsi puramente iranico ma piuttosto
iranistico, poiché esso includeva altre tradizioni, trasformate semanticamente nel
contesto del Logos iranico; detto altrimenti, aveva assimilato tutte le culture
pregresse trasformandole nel contesto della propria dominante concezione
zoroastriana-mazdeiana.

La cultura greca entrò pertanto in contatto con i mondi egiziano, semitico,


babilonese, ma nella loro versione «iranizzata» – non fu un contatto diretto ma
mediato dalla cultura iranica. In era ellenistica, l’impero macedone di Alessandro
ricevette il patrimonio culturale iranistico, la cui essenza – il Logos iranico, che
dovremmo in effetti includere in ciò che intendiamo per civiltà europea – si basa
sul principio fondamentale della «guerra della luce». Si tratta, come abbiamo visto
in conclusione alla terza lezione, di una forma di platonismo dualistico, in cui il
Logos di Apollo confligge con il Logos di Cibele ma riconoscendone il potere, la
sostanza e la natura autonoma. Mentre nel platonismo advaita (non dualistico)
l’oscurità è assenza di luce, nella concezione iranica è qualcosa di vivente, di
potente e anche di vincente. Per Platone la vittoria del male sul bene è assurda,
assolutamente impossibile, poiché nel mondo puramente apollineo vi è l’eterna
vittoria della luce e l’oscurità non esiste; al contrario, nella versione dualistica
iranica l’oscurità esiste, potremmo definirla una potente divinità di segno opposto.
La notte è, e può vincere. Così, per la prima volta, la guerra tra luce e oscurità
diventa qualcosa di serio e di drammatico, se comparato alla versione non
dualistica del platonismo, poiché basata sul riconoscimento della sostanza, della
realtà e della potenza del Logos di Cibele da parte di Apollo.

Essere iraniani significa infatti essere latori di luce, figli della luce mandati nel
campo dell’oscurità al fine di combatterla. L’autocoscienza e l’identità iranica
zoroastriana si basano precisamente sul concetto che solo gli iraniani sono il
popolo puro della luce, mentre tutti gli altri sono popolo dell’oscurità – una sorta di
razzismo metafisico che tra l’altro crea le basi per legittimare il matrimonio fra
consanguinei e l’incesto come vie per salvaguardare la purezza del sangue e dello
spirito dei figli della luce. Questa è la tradizione iranica; una tradizione che tuttavia
nell’evoluzione iranistica diventa meno esclusivista poiché l’inclusione dei popoli
semiti, egiziani, babilonesi, ecc., segna la transizione della qualità di essere figli
della luce ad un livello meno materiale e più simbolico o metaforico, dimodoché il
concetto di «guerra della luce» viene accettato in senso più ampio.

Un altro concetto chiave della tradizione iranica, sconosciuto ai greci, è quello di


tempo e di storia. Nella visione platonica la storia non esiste – accanto alle idee
hanno rilevanza solo gli esempi degli eroi del passato, fungenti da paradigmi. Il
tempo non assume un ruolo rilevante dacché vi è sempre e solo lo stesso ciclo di
nascita e morte del medesimo, l’eterno ritorno delle cose.

Non esistono i concetto di progresso e di sviluppo, né tantomeno di


regresso. Si proviene dall’origine e si fa ritorno ad essa. Questo è tutto.

E ciò che avviene in questo ciclo sublunare non ha alcuna importanza, è privo di
significato, di direzione. Non ha tempo né storia. Detto altrimenti, la storia
platonica è la «storia dell’eternità»: nel tempo si riflette l’eternità, dunque esso non
esiste nel senso a noi familiare.

Al contrario, nella tradizione iranica il tempo acquisisce un senso, poiché tale


tradizione afferma che all’origine la luce domina sulle tenebre; in un secondo
momento dell’istoriale iranico, l’oscurità invade il campo della luce, il reame solare,
e inizia a distruggerlo e a pervertirlo; in un terzo momento, le tenebre
sopraffaranno la luce; ma al termine della dominazione delle tenebre ci sarà la
grande restaurazione, la resurrezione e la comparsa del prescelto, che diventerà il
Re e il Salvatore dell’umanità, lo Saoshyant zoroastriano. Così, mentre in Platone il
tempo non ha importanza dacché non ha un senso, qui esso assume un ruolo
rilevante. Ed è qui che fanno il loro ingresso l’idea della storia, del tempo
escatologico e del messianismo. Appare la figura del Messia, dell’Ultimo Re del
mondo chiamato a restaurare il regno della luce come ultimo risultato della
«guerra della luce», e si introduce il concetto della resurrezione, della
restaurazione della perfezione perduta propria della creazione della luce.
Questo è l’iranismo, ed è effettivamente qualcosa di molto prossimo a noi. Ma
tutto ciò – la storia, il senso del tempo, la resurrezione, l’escatologia – costituiva
una prospettiva totalmente nuova e fino a quel momento estranea ai greci. Fu solo
dopo le conquiste di Alessandro Magno che questo patrimonio spirituale, filosofico
e metafisico fece il suo ingresso nella cultura greca mediterranea. Ciò che era
esterno divenne interno.

Per inciso, è opinione diffusa che le idee di tempo, storia, messianismo,


ecc., siano state portate dai semiti, dalla Bibbia. Ma noi conosciamo la
Bibbia solo dopo la fine dell’esilio babilonese, il quale ebbe termine sotto
l’impero achemenide che pertanto aveva diffuso questo Logos iranico
anche tra i giudei. Il tardo giudaismo, quello a noi noto e che è legato ai
concetti di Messia, Fine dei Tempi, Resurrezione, ecc., è dunque una sorta
di riduzione iranica del giudaismo originale.

In realtà, i concetti di tempo, di storia e di escatologia così come di «guerra della


luce» costituivano il cuore della cultura iranistica. La quale, dopo Alessandro
Magno, si fuse con la tradizione ellenica generando il fenomeno dell’ellenismo. Il
mondo ellenistico in sintesi si regge dunque su due pilastri, ellenico e iranistico, ed
è di cruciale importanza per ogni cultura europea poiché rappresenta l’orizzonte
esistenziale che partorì il Dasein ellenistico, il quale costituì da quel momento in
avanti il fondamento della civiltà europea.

4. Il Logos latino
Con il passaggio dalla dominazione greca alla dominazione romana, il Dasein
ellenistico si diffuse nel resto d’Europa.

L’antica Roma era in origine puramente apollinea. Tuttavia, conquistando la Grecia


e lo spazio mediterraneo, essa conquistò il mondo ellenistico aprendosi alle sue
influenze culturali, e ciò determinò un mutamento nella sua stessa struttura, un
mutamento iniziato nella tarda Repubblica e che si andò consolidando con
l’avvento della forma imperiale – il mitraismo insieme a molti altri aspetti
dell’impero romano vennero mutuati proprio da queste fonti ellenistiche. La Roma
puramente apollinea cedette il passo alla Roma ellenistica, ed è a questa cultura
che in effetti facciamo comunemente riferimento quando discutiamo della
tradizione romana.

Successivamente, il fenomeno ellenistico nella sua versione romana – potremmo


definirlo ellenismo greco-iranico-romano – si espanse di pari passo con
l’espansione dell’impero romano. Tutte le conquiste romane – nei Balcani, in
Europa nordoccidentale, ecc. – nella loro dimensione culturale rappresentarono
conquiste ellenistiche. Le legioni romane portarono l’ellenismo ovunque esse
giunsero. Potremmo dire che culturalmente l’impero romano fu un impero
ellenistico.

Dal punto di vista noologico, tale ellenismo era caratterizzato dal Logos di Apollo
riflesso nella tradizione greca platonica, dal Logos di Dioniso riflesso nella
tradizione greca misteriosofica eraclitea, dal Logos di Apollo nella sua versione
iranica dualistica – con i concetti di tempo, di escatologia e di «guerra della luce» –
e infine da un nuovo Logos di Cibele, presente nelle profondità di questo spazio
esistenziale ma non rappresentato chiaramente. Possiamo rintracciare
quest’ultimo forse in qualche profezia legata alla pietra nera di Pergamo
appartenente a Cibele nel contesto delle guerre puniche [4], ma si tratta di aspetti
marginali. Esisteva una sorta di culto matriarcale nell’impero romano ellenistico
ma esso non era dominante. A dominare erano le culture apollinea greca, apollinea
iranica e dionisiaca greca.

Questo spazio esistenziale ellenistico romano subì successivamente un


processo di cristianizzazione. Il cristianesimo fu eretto su questa cultura
e ne rappresentò la logica continuazione. E gli aspetti iranici vi giocarono
un ruolo cruciale. Questo punto è molto importante, ma lo tratteremo
nella prossima lezione, che sarà per l’appunto dedicata al Logos cristiano.

Tale forma di ellenismo romano, con la dominazione del Logos di Apollo unito ad
alcuni tratti culturali dionisiaci, rappresenta precisamente il Logos latino [5], e si è
preservato sostanzialmente intatto fino alla Modernità. Il Logos latino, ossia il
Logos dell’Impero Romano, è romano nel suo livello più profondo, cui si aggiunge
un soprastato ellenistico con alcuni aspetti dualistici correlati all’iranismo e al
manicheismo – Agostino di Ippona fu manicheo, e il manicheismo è una forma di
iranismo, il quale è di natura dualistica come abbiamo visto –, questi ultimi
presenti a Roma in maniera più marcata che a Bisanzio, dove invece esisteva una
forma di platonismo non dualistico – nell’Ortodossia identifichiamo una forma non
dualistica di platonismo, al contrario del Cattolicesimo romano che ne rappresenta
invece una dualistica.

Comunque sia, l’Impero romano cattolico si è basato sul Logos di Apollo, con
aspetti più dualistici e forse anche meno dionisiaci di Bisanzio, ma nonostante ciò
puramente indoeuropeo. E questo è stato il destino dell’Italia. Fino all’età
contemporanea, essa ha mantenuto questo Logos, conservando questo specifico
momento della Noomachìa italiana. L’Italia è stata il luogo dove ha avuto origine
Roma, è stata il centro dell’Impero romano, è stata invasa da tribù germaniche
indoeuropee, ha creato nuovi stati, ma rimanendo fedele a questa versione
cristianizzata dell’ellenismo fino alla fine. L’ultima forma di questo Logos, in una
versione molto modernizzata e in un certo senso perversa, è stata quella del
Fascismo. Nel Fascismo vi sono stati certamente aspetti caricaturali della
tradizione romana – tutto nella Modernità è caricaturale – ma allo stesso tempo
esso ha rappresento la continuazione di questo approccio sostanzialmente
apollineo, verticale, gerarchico. Il Fascismo ha rappresentato l’ultima nota di una
medesima melodia. E prima di esso ci fu il Concilio di Trento, dove il Cattolicesimo
rifiutò di intraprendere la via protestante. La difesa di questa identità apollinea
romana ha rappresentato dunque il destino dell’orizzonte esistenziale italiano.

5. Il Logos celtico
Dal Medioevo in poi, i poli principali della costruzione dialettica della civiltà
europea diventano Francia e Germania. Sono stati questi due poli infatti a
determinare la semantica storica, politica e culturale dei processi più importanti
della storia dell’Europa occidentale dell’ultimo mezzo millennio. Il prossimo
orizzonte esistenziale europeo che andremo ad esaminare è dunque quello
francese o più in generale della tradizione celtica.

La particolarità dell’orizzonte celtico è la potenza che in esso possiede il principio


femminile, la potenza della Madre. La tradizione celtica affonda le sue radici nel
matriarcato, è soggetta ad una forte attrazione verso un potente polo cibeliano.
Così, il Cristianesimo celtico si caratterizza per una maggiore vicinanza ad aspetti
femministi. Troviamo inoltre nella tradizione celtica molti miti e leggende
riguardanti l’isola delle madri. La morte stessa viene considerata essere donna. In
parte, anche la concezione dell’amor cortese presso i cavalieri-poeti medievali si
basa su questo tipo di tradizione celtica. A tal proposito, rimando alla lettura
dell’autore francese Denis de Rougemont, il quale nella sua opera L’amore e
l’Occidente [6] ha studiato le fonti e le radici della tradizione della glorificazione
dell’amore nella cultura cavalleresca medievale. In sostanza abbiamo a che fare
con influenze celtiche caratterizzate da una presenza molto forte della Grande
Madre.
Il libro della Noomachìa dedicato alla cultura francese l’ho intitolato Il
Logos francese: Morfeo e Melusina [7]. Studiando le strutture del Logos
francese, sono giunto alla conclusione che le sue componenti principali
sono le due figure fondamentali (Gestalt) di Orfeo e della fata dalle
sembianze di drago semifemminile Melusina.

La figura di Orfeo, peraltro origine tracica, è molto importante nella cultura


francese, poiché l’idea ad esso correlata di discendere nel mezzo degli inferi per
incontrarsi con il principio femminile che vi risiede – una sorta di «viaggio al centro
della Terra» al fine di rintracciare la femminilità, la Madre – costituisce il destino
della cultura francese, sia nei suoi aspetti migliori che in quelli deteriori. Anche la
figura di Melusina assume una notevole rilevanza, dacché il paradigma della
Modernità, nelle sue radici mitologiche e culturali, può essere ricondotto alla sua
Gestalt.

6. Il Logos germanico
A differenza del Logos celtico, il Logos germanico [8] è di tipo apollineo ma ne
costituisce una versione eroica, guerriera. Qui ritroviamo la lotta contro le forze
ctoniche che caratterizza la tradizione iranica. Essere germanico significa essere in
preda ad una perenne lotta: la guerra degli eroi germanici contro i giganti ctonici.
Si tratta di una cultura di tipo paranoico nell’accezione che abbiamo dato a questo
termine discutendo nella precedente lezione dei regimi dell’immaginario in Gilbert
Durand, con tratti fortemente patriarcali e caratterizza da una spiccata aniliginia –
le donne germaniche possiedono caratteristiche culturali più prossime agli uomini
che in altre culture (si pensi alle valchirie, a Brunilde).

Abbiamo dunque a che fare con una società eroica destinata a combattere i Titani.
Tuttavia i germanici, nel seguire il loro fato, combattono così sentitamente che non
riescono a rilevare il momento in cui la loro lotta diventa a sua volta titanica. Essi
sono così devoti alla loro causa, che travalicano i limiti naturali – iniziano a
distrugge chiunque intorno a loro, e infine loro stessi – e ciò costituisce qualcosa di
titanico. Questo aspetto titanico dello spirito germanico è evidente in Hitler: se
creare la Grande Germania può essere di per sé una buona idea, non lo è invece il
tentativo di annientare ogni cosa intorno a sé per poi, alla fine, distruggere la
Germania stessa. C’è un termine greco per questo genere di attitudine: ὕβϱις
(hybris), che significa sostanzialmente eccesso, assenza di misura. Ad esempio il
guerriero che uccide i suoi nemici in battaglia ha un ethos eroico, ma se egli dopo
averli uccisi si accanisce sui loro figli e violenta le loro donne, nello sforzo di
proseguire questa guerra e di umiliare i nemici sconfitti, diviene preda della hybris.
Si tratta sempre di una componente della guerra, ma non è più eroica.

Nel caso germanico osserviamo dunque uno spirito guerriero puramente


apollineo che tuttavia a volte supera i suoi limiti, cosicché i nemici dei
Titani diventano essi stessi titanici. Pur essendo combattenti del Cielo
contro la Terra, essi iniziano a combatterla in modo ctonico. Questo è il
destino e il Logos germanico.

Nella tradizione iranica vi è l’idea che l’esercito della luce sia più debole
dell’esercito delle tenebre. E che la sconfitta dell’esercito della luce sia un elemento
necessario per la resurrezione e la vittoria finale. Così, al fine di vincere, si
dovrebbe sopportare una sconfitta. Detto altrimenti, se la luce dovesse morire, è
preferibile perire con essa che vincere schierandosi con le tenebre, dacché l’ultima
parola non l’avrà la forza delle tenebre ma la verità della luce. Ne consegue che se
travalichiamo il confine, superiamo il limite, oltrepassiamo la misura lottando in
modo titanico, saremo infine condannati alla disfatta e finiremo col distruggere
ogni cosa, compresi noi stessi.

Un altro esempio di questo aspetto titanico del Logos germanico è rintracciabile


nel Protestantesimo. L’idea originaria del Protestantesimo è che Cristo non
rappresenta solo qualcosa proveniente dall’esterno, attinente al culto, ma è
anzitutto qualcosa di interiore all’uomo, che proviene da dentro. Al cuore, nelle sue
radici, questa idea originaria rimanda al platonismo così come alla mistica tedesca
di Meister Eckhart. Ma coltivata senza misura, portata alla hybris, questa idea si è
tradotta in qualcosa di completamente differente: individualismo, razionalismo,
assenza di mistero, mancanza di umiltà al cospetto di Dio. Il Protestantesimo – in
particolar modo il Calvinismo e altre forme radicali, a dirla tutta affatto cristiane –
è così diventato la versione titanica del Cristianesimo, discostandosi da
Cattolicesimo e Ortodossia che invece ne rappresentano forme apollinee.

7. La schizofrenia albionica
Veniamo all’Inghilterra e all’orizzonte britannico [9]. Dopo aver studiato la storia
inglese, sono arrivato alla conclusione che non avrei potuto intitolare il libro della
collana Noomachìa dedicato a questo spazio «il Logos britannico», poiché non ho
in effetti rinvenuto alcun Logos. Ho al contrario scoperto una profonda e instabile
dualità nella cultura inglese. In essa sono presenti sostanzialmente due poli. Il
primo è il polo celtico rappresentato da Galles, Irlanda, Scozia, nazioni celtiche e
dunque parte dell’orizzonte esistenziale celtico, caratterizzate dalla stessa
fascinazione del principio femminile, dalla stessa idea di discesa agli inferi, dallo
stesso romanticismo nero e così via. Ma gli elementi celtici non sono rintracciabili
unicamente in Irlanda, Galles e Scozia; essi sono parte anche della società inglese e
dell’identità inglese – ad esempio la dinastia degli Stuart era celtica – poiché in
effetti la maggior parte della popolazione delle isole britanniche è costituita da
celti nel corso del tempo germanizzati. Il secondo polo è dunque quello germanico.

La commistione di elementi celtici e germanici non ha però dato luogo ad


una sintesi. Non si è pertanto generato un nuovo Logos o orizzonte
esistenziale; è scaturita invece quella che potremmo definire schizofrenia
o bipolarismo inglese. Abbiamo a che far con una commistione non
bilanciata, malata, una confusione di elementi contraddittori che non ha
generato un’identità unitaria ma una società bipolare, al suo interno
molto problematica.

Un esempio diverso di relazione tra identità celtica e germanica è dato dalla


Svizzera. In Svizzera vi è un sottile equilibrio tra queste due identità. Più che di
sintesi, è corretto parlare di armonizzazione. Ciò che invece vediamo in Inghilterra
è un’assoluta mancanza di armonia. Vi è una parte germanica piuttosto aggressiva
accanto ad una parte celtica estremamente depressa. Esse non formano un ὅλος
(hólos), una struttura olistica, ma un’entità bipolare con un profondo conflitto
interiore che non può sanarsi internamente, e che dunque si espande all’esterno.
Da ciò ha avuto origine l’impero britannico, la cui espansione è assimilabile
all’esplosione di una miscela instabile fatta da due elementi tra loro contraddittori.
Se il Logos celtico ha tratti più dionisiaci ma presenta anche molti aspetti del
«doppio nero» di Dioniso, se il Logos germanico è apollineo ma c’è sempre la
possibilità di una traslazione verso il campo titanico, la cultura inglese mette
insieme in maniera estremamente conflittuale il doppio nero di Dioniso e gli
aspetti titanici del Logos germanico, e li espande sul globo. Il risultato è
l’espansione dell’impero britannico – capitalismo, imperialismo, liberalismo, ecc. –,
cioè il contagio su scala globale di una malattia che non è stata e non può essere in
alcun modo curata internamente.

Questa relazione instabile e contraddittoria alla base della schizofrenia inglese si


manifesta nel principale mito inglese: la lotta tra il drago rosso e il drago bianco. I
due draghi rappresentano rispettivamente le identità celtica e germanica, ed essi
sono tuttora in battaglia dacché la fine dell’impero britannico non ha prodotto
alcun cambiamento nella mente inglese, non l’ha curata. Essa resta malata,
bipolare, e oggi come ieri si trova immersa in questo conflitto.

8. Il Nuovo Mondo
A ridosso del sedicesimo secolo gli europei hanno scoperto e iniziato a colonizzare
il continente americano, da essi ribattezzato «Nuovo Mondo» [10]. Pertanto,
sebbene Nordamerica e Sudamerica presentaino due Logoi diversi, in entrambi i
casi abbiamo a che fare con Logoi che nella loro origine sono coloniali, poiché
rappresentano proiezioni transatlantiche dell’Europa che hanno trasformato i
tratti originari delle culture locali.

Nello specifico, in Sudamerica troviamo oggi una propaggine del Logos


latino, dal momento che i suoi territori furono conquistati
principalmente da Spagna e Portogallo, latori insieme all’Italia
precisamente del Logos latino. Il Logos iberoamericano presenta infatti
una struttura apollinea, che tuttavia ha inglobato le popolazioni pre-
europee non senza problemi ma generando comunque una sintesi.

Lo stesso non può dirsi per il Nordamerica. Qui gli anglosassoni hanno portato con
sé la loro malattia. Come conseguenza, anziché integrare nella loro società i popoli
autoctoni, essi hanno iniziato a distruggere gli indiani e hanno dato vita ad una
società nordamericana malata, per molti aspetti affetta dalle stesse problematiche
anglosassoni. Tuttavia, a differenza della Gran Bretagna, qui possiamo individuare
un Logos.

Il Logos nordamericano può essere identificato nella filosofia pragmatica, la quale


costituisce la principale corrente filosofica del Nordamerica. Alla base di questa
filosofia vi è l’idea che non esista una conoscenza normativa circa il soggetto e
l’oggetto, ma che esista solo la loro interazione nella pratica. Volendo semplificare,
non esiste la prescrizione di ciò che il soggetto o l’oggetto dovrebbero essere – cosa
dovrebbe essere la materia, la natura, il cosmo, o l’anima dell’uomo. Puoi
teoricamente fingere di essere chi vuoi, anche Elvis Presley o un marziano. Solo se
qualcosa funziona, esso è. Se funziona, ottimo; se non funziona, peggio per te, sarà
per la prossima volta. I filosofi americani pragmatici credono solo in ciò che
costituisce l’interazione pratica. Da ciò discende la libertà pragmatica di
considerare il mondo in qualsiasi modo vogliamo. Se ad esempio desideriamo
costruire una macchina del tempo, siamo liberi di farlo perché nel costruirla
succederà qualcosa; magari non viaggeremo nel tempo, ma probabilmente faremo
qualche scoperta scientifica, o acquisiremo una conoscenza che si rivelerà utile in
campo commerciale – magari troveremo un nuovo elemento per costruire una
nuova lattina di Coca Cola! Si è completamente liberi di tentare ciò che si vuole
poiché non ci sono limitazioni di sorta relative al soggetto o all’oggetto, o meglio
non esistono affatto soggetto e oggetto, esiste solo l’interazione tra loro.

Questo è il Logos nordamericano. Tuttavia oggi, nell’era della globalizzazione,


stiamo assistendo alla sua scomparsa. La globalizzazione di cui l’America è
promotrice rappresenta infatti una forma di colonizzazione, ma il colonialismo ha
in sé uno scopo, un fine ultimo, una prescrizione, e ciò snatura l’America stessa
poiché il Logos americano pragmatico non può tollerare alcun fine o prescrizione.
In prospettiva pragmatica, si può tentare di tutto, qualcosa accadrà, qualcos’altro
no, ma non si può prescrivere nulla a nessuno. Il politically correct ad esempio, con
i suoi dettami su ciò che si può e non si può dire, è antipragmatico e dunque
antiamericano, poiché dal punto di vista pragmatico si deve poter essere liberi di
dire qualsiasi cosa e di agire in qualsiasi modo si preferisce, dal momento che non
esiste nulla internamente o esternamente – come ho già detto, non esistono
concezioni normative su soggetto e oggetto ma solo la loro interazione pratica.
Questo è il puro Logos nordamericano, qualcosa certamente di diverso rispetto
all’America globalista di oggi.

9. Il Logos slavo
Al termine di questa analisi noologica per sommi capi dei differenti orizzonti
esistenziali costituenti la civiltà europea, ci resta da trattare lo spazio slavo.

Anzitutto, gli slavi costituiscono senza dubbio una società indoeuropea; nell’ultimo
secolo i popoli slavi hanno subito una grande influenza da parte dell’Occidente,
pertanto in parte condividono con tedeschi, francesi, britannici, greci, latini, alcune
problematiche metafisiche, ma in parte posseggono caratteristiche peculiari.

Cosa possiamo dire sul Logos slavo? Esso è chiaramente parte dello spazio
culturale ellenistico, così come lo sono tutti gli altri Logoi che abbiamo descritto, i
quali scaturiscono tutti dal cristianesimo ellenistico di cui rappresentano differenti
combinazioni; tuttavia, è allo stesso tempo evidente che il Logos slavo a differenza
di altri Logoi non costituisce qualcosa di compiuto. Si tratta cioè di un Logos
aperto, e questo costituisce una sfida per noi slavi.
Per quanto concerne il Logos russo, o meglio la sua possibilità, ad esso sono
dedicati gli ultimi libri della collana Noomachìa (ad oggi non tutti ancora pubblicati)
[11], ma ho studiato anche in altri libri esterni al progetto Noomachìa la possibilità
di una filosofia russa, basandomi su Heidegger [12]. Circa il Logos slavo esteuropeo
[13], esso è sicuramente possibile e in alcuni momenti storici gli slavi vi si sono
avvicinati – ad esempio sotto l’imperatore serbo Stefano Dušan, nel Primo e nel
Secondo Impero Bulgaro, in alcuni frangenti nella Confederazione polacco-lituana,
così come nella Grande Moravia, in alcune tendenze filosofiche particolari – ma noi
slavi finora non siamo mai riusciti a raggiungere la versione definitiva di questo
Logos slavo, né in Europa Orientale né in Russia.

L’orizzonte esistenziale slavo non è ultimato, non ha ricevuto la sua


formalizzazione definitiva, e questa forse è la sfida storica che ci si prospetta. I
filosofi slavofili hanno osservato che noi slavi abbiamo fatto il nostro ingresso nella
storia più tardi rispetto ad altri popoli, cosicché mentre gli enormi edifici della
filosofia tedesca, francese, romana, greca, ecc., sono già stati eretti insieme alle
relative storie politiche, la nostra filosofia è ancora relativamente acerba. Vi è stata
di recente una grande esplosione di ricchezza intellettuale da parte di alcuni
pensatori di grande valore come ad esempio il russo Dostoevskij, ma tutto questo
ha rappresentato più la preannunciazione del Logos che il Logos stesso. Ce ne
rendiamo perfettamente quando studiamo il nostro passato; esso è pieno di
imprese eroiche, ma in nessuna di esse si manifesta il Logos slavo nella sua forma
definitiva. Personaggi come San Sava, anticipatore della missione storica serba, o
Ivan il Terribile in Russia, hanno costituito una sorta di anticipazione del Logos
slavo.

Questo rende per noi slavi più difficile descrivere il nostro Logos che
studiare i Logoi di altre culture, poiché tale attività richiede un’analisi
introspettiva della nostra stessa cultura molto profonda e impegnativa.

Volendo comunque abbozzare una descrizione sommaria del possibile ma ancora


incompiuto Logos slavo, possiamo affermare che gli slavi presentano tratti
marcatamente dionisiaci e cibeliani, per la vicinanza al polo del matriarcato nei
Balcani. Il contadino europeo è infatti di origine balcanica, come abbiamo visto
all’inizio di questa lezione, e di questo aspetto bisogna tenere conto. Come pure
occorre riconoscere che in alcuni secoli noi slavi abbiamo subito l’influenza di altri
orizzonti esistenziali, i quali hanno definito molti aspetti della nostra coscienza
attuale. Questo per inciso rende lo studio approfondito degli orizzonti esistenziali
che ci circondano una condizione necessaria affinché noi slavi possiamo
comprendere dove ci troviamo, con chi ci relazioniamo – chi va considerato amico e
chi nemico, chi per noi è un salvatore e chi un oppressore – e, la cosa più
importante, chi siamo dacché senza conoscere gli altri non possiamo conoscere noi
stessi.

Tuttavia, nonostante le influenze esterne, abbiamo preservato la nostra identità,


abbiamo mantenuto il cuore del nostro orizzonte esistenziale slavo
sostanzialmente inalterato, e questa è una verità scientifica. Forse esso è sepolto
nelle profondità, ma esiste e batte ancora. E la tenace resistenza serba alla
globalizzazione ne è stato un esempio. Sì, essa si è risolta con una sconfitta. Come
pure la battaglia per il Kosovo è stata persa. Ma è su queste sconfitte che verrà
costruita la vittoria finale; è sulla capacità di resistere che si fonderà la futura
resurrezione.

In sincerità, sono molto pessimistico per quanto concerne lo stato della società
slava moderna, ma allo stesso tempo nutro molto ottimismo in relazione alla
possibilità di questo Logos slavo. Esso è ancora incompiuto, ma ciò costituisce la
sfida principale per una nuova generazione dell’élite intellettuale slava, che è
chiamata a compiere il passo finale portando a compimento tutta l’esperienza
istoriale della nostra presenza ontologica nel mondo.
Alexander Dugin

In questa lezione andremo ad effettuare un’analisi noologica del Cristianesimo come


fenomeno culturale, sociale, politico e filosofico.

1. Cristianesimo come Logos apollineo indoeuropeo


Possiamo formulare alcuni principi generali riguardanti la dottrina cristiana. In
primo luogo, dal punto di vista noologico e geosofico, il Logos Cristiano è
evidentemente apollineo. I concetti del Dio Padre celeste, della Santa Trinità, della
trascendenza del Creatore nei riguardi della stessa Creazione, tutto ciò ha generato
un Logos tipicamente apollineo e patriarcale, con una organizzazione dello spazio
metafisico completamente verticale. Abbiamo a che fare con il Padre celeste
trascendente situato in Paradiso che crea il mondo. Tale atto della creazione
rappresenta una discesa dall’alto verso il basso, dall’eternità al tempo, dal Paradiso
alla Terra, da Dio all’uomo e alle altre creature. La relazione tra il Creatore e il
Creato è dunque di tipo gerarchica, con il Creato che deve sottomettersi al
Creatore. Questa verticalità costituisce l’essenza stessa della tradizione cristiana.
Alle radici dei princìpi dogmatici fondativi vi è una logica puramente apollinea.
Tutte e tre le figure della Sacra Trinità sono inoltre maschili, e questo da un punto
di vista simbolico è molto significativo.

In secondo luogo, non è un caso che questa tradizione si sia sviluppata nel mondo
indoeuropeo, anzitutto a Roma e in Grecia. Il Cristianesimo ha costituito una
tradizione normativa per la parte occidentale della società indoeuropea, dove il
concetto del Dio Padre cristiano nelle sue caratteristiche principali era
sostanzialmente corrispondente alle divinità maschili dell’era pre-cristiana come
Zeus e Giove. Nella coscienza popolare di greci, latini, germanici, celti, slavi è stato
quindi facile sostituire un Padre celeste con un’altro, poiché la rispettiva Gestalt
era la medesima. La cristianizzazione ha rappresentato una trasformazione che
non ha intaccato la struttura della visione del mondo dei popoli indoeuropei, ma
che al contrario ha garantito la continuità tra le tradizioni pre-cristiana e cristiana.

Sin dalle prime fasi di elaborazione della dottrina cristiana, vi era la consapevolezza
che il Cristianesimo avesse due fonti, non solo giudaica ma anche ellenica, cioè
indoeuropea – questo è stato spiegato nella filosofia di alcuni tra i primi apologeti
cristiani e santi, ad esempio il filosofo Giustino o Clemente Alessandrino, i quali
hanno affermato l’esistenza non di uno ma di due rami tradizionali pre-cristiani,
segnatamente giudaico ed ellenico. Ciò è evidente soprattutto nel platonismo
cristiano. Il platonismo cristiano non ha avuto inizio con la tradizione esegetica ma
con gli apostoli stessi: il Vangelo di Giovanni inizia affermando che «in principio era
il Verbo», cioè il Logos, che però non è solo «verbo» nel senso di parola, ma è
intelletto, Nous per certi versi, un concetto molto complesso della filosofia greca.
Tali vangeli sono stati inoltre scritti originariamente in greco, la koinè ellenistica
diffusa nell’ecumene mediterranea, e ciò corrobora la tesi che vede il Cristianesimo
come fenomeno nato in un contesto ellenistico.

In molti aspetti la tradizione cristiana ha mutuato sin dall’inizio alcuni


concetti greci. Non esiste in effetti nell’aramaico e nell’ebraico una parola
equivalente al termine Logos, cioè al termine che designa il concetto
iniziale dello stesso insegnamento cristiano – «in principio era il Logos».
Ed è con il teologo e filosofo platonico Origene Adamanzio, direttore della
scuola catechetica di Alessandria nonché discepolo del filosofo
alessandrino fondatore del neoplatonismo Ammonio Sacca, che viene
edificata l’intera costruzione della teologia cristiana – con la Sacra Trinità,
la trascendenza del Creatore, e così via –, un edificio teologico fondato
interamente sul platonismo.

Abbiamo già discusso nelle passate lezioni [1] della relazione tra il Logos di Apollo e
l’insegnamento di Platone. Essi sostanzialmente si equivalgono. Detto altrimenti, il
platonismo è la più compiuta e perfetta espressione del Logos apollineo. Ciò si
riflette anche nell’elaborazione del dogmatismo cristiano, il quale essendo in
continuità culturale con la tradizione pre-cristiana risulta centrato
sull’apollonismo.

Tuttavia, accanto alla pura logica celestiale di Apollo, in alcuni dogmi cristiani
possiamo rintracciare aspetti dionisiaci. Ad esempio nella cristologia, poiché Cristo
unisce in sé due nature – umana e divina – e ciò costituisce qualcosa di dionisiaco,
di dialettico. Anche nella Santa Trinità riscontriamo qualcosa di simile, essendo
essa una e trina al contempo, presentando dunque una dialettica al suo interno. Lo
stesso può dirsi per la relazione esistente tra Creatore e Creato: anch’essa è in
qualche modo dialettica, giacché Creatore e Creato non rappresentano
rispettivamente solo la causa e l’effetto ma sono intrecciati; Dio è presente
all’interno della Creazione, e l’incarnazione di Cristo ne costituisce il momento più
importante, rappresentando peraltro un ciclo marcatamente dionisiaco, con il
Figlio di Dio che discende sulla Terra, muore, giunge al centro dell’Inferno, lo vince,
libera le anime sante degli avi, quindi risorge e ascende insieme ad esse al Cielo.

Ogni aspetto della narrativa cristiana è dionisiaco in relazione a Cristo e apollineo


relativamente alla struttura fondamentale del mondo in cui tali eventi hanno
luogo. Ma con che tipo di Logos dionisiaco abbiamo a che fare? Abbiamo già
spiegato nella quinta lezione che nella tradizione indoeuropea il baricentro di
Dioniso non si colloca perfettamente al centro tra Logos apollineo e cibeliano, ma
che è leggermente traslato verso l’alto rispetto alla linea di demarcazione tra
Apollo e Cibele. Detto altrimenti, nella tradizione indoeuropea è presente una
lettura apollinea di Dioniso; ciò è del tutto evidente nella figura di Cristo, la quale è
priva di qualsiasi aspetto ctonico, negativo o notturno. La figura di Cristo è una
figura dionisiaca purificata dal peccato, è apollin-dionisiaca – anche nella discesa
all’Inferno al fine di vincere la morte, egli resta assolutamente puro.

Non vi è traccia del Logos di Cibele in questo contesto. La figura della Santa
Vergine, la Madre di Gesù Cristo, richiama Demetra rappresentando la natura
femminile purificata dagli aspetti terreni e ctonici – uno dei titoli che le vengono
attribuiti è infatti quello di Madonna degli Angeli. La venerazione della Santa
Madre, con la sua purezza e la sua verginità, costituisce dunque un altro elemento
del tutto indoeuropeo.

Tutte le principali figure del Cristianesimo, apollinee o dionisiache, afferiscono alla


classica struttura indoeuropea. Tutti questi elementi erano quindi presenti in altre
forme ben prima del Cristianesimo, ma non nella tradizione semitica: essi
costituivano i concetti di base del mondo ellenistico, noologicamente basato su
una sorta di alleanza tra il Logos di Apollo e il Logos di Dioniso. E se alla periferia
del mondo ellenistico erano anche presenti – sebbene non dominanti – aspetti
ctonici, ossia tracce della pregressa cultura della Grande Madre, nel Cristianesimo
al contrario non troviamo nulla del genere: esso rappresenta la riaffermazione di
una versione pura del Logos indoeuropeo.

Abbiamo in definitiva a che fare con una religione e una teologia nella sostanza
indoeuropee, caratterizzate dalla vittoria del patriarcato sul Logos di Cibele.
Questo, come abbiamo già accennato, è anche il motivo per cui il Cristianesimo ha
potuto affermarsi come tradizione europea: gli europei hanno potuto abbracciare
il Cristianesimo poiché è come se essi fossero in qualche modo già cristiani prima
di Cristo. Essi erano preparati alla Rivelazione. Il Cristianesimo si differenzia dalla
tradizione pre-cristiana, ma in esso è evidente una certa continuità strutturale. La
cristianizzazione non ha alterato l’orizzonte esistenziale della società europea,
questo era anzi pronto a ricevere la Buona Novella. Nell’orizzonte esistenziale
ellenistico tutto era pronto per abbracciare il Cristianesimo. Questo è un punto
molto importante.

Da ciò che abbiamo detto, discende che il Cristianesimo non va inteso come una
tradizione completamente nuova emersa nel corso degli ultimi duemila anni, ma
come il proseguimento dell’antica tradizione indoeuropea. Certo, con ogni riforma
della religione, della mitologia, della tradizione, della chiesa stessa, hanno fatto la
loro comparsa nuovi elementi. Ma, nonostante tutto, l’essenza è rimasta la
medesima. Con la Comunione, ad esempio, si è passati dal pane di Demetra e dal
vino di Dioniso al pane e al vino eucaristici, rappresentanti il sangue e il corpo di
Cristo. Dunque, sebbene sia certamente legittimo vedere una prefigurazione di
Cristo nel Vecchio Testamento, possiamo altresì vedere – come fanno il filosofo
Giustino, Clemente Alessandrino e Origene Adamanzio – una prefigurazione o
meglio un’anticipazione dei misteri cristiani nei misteri greci.

Vi è una continuità anche nella struttura sociale, dal momento che nella società
cristiana ritroviamo la stessa struttura trifunzionale indoeuropea, con i sacerdoti e
i patriarchi, i re e i guerrieri, e infine i contadini – una struttura che per inciso si è
preservata intatta fino all’alba della Modernità. Tale continuità ha riguardato
anche i riti e le pratiche di culto, come pure in un certo senso la forma politica
imperiale, su cui ci soffermeremo più avanti. Possiamo in sintesi affermare che
strutturalmente esiste una unità e una continuità tra orizzonte esistenziale pre-
cristiano e orizzonte esistenziale cristiano.

2. Alessandria e Antiochia

Allo stesso tempo, nel primo Cristianesimo esistono due centri di elaborazione
della dottrina cristiana tra loro contrapposti: la scuola alessandrina e la scuola
antiochena.

La scuola alessandrina fu fondata da San Marco evangelista e sviluppata da


Clemente Alessandrino, Origene, i padri cappadoci come Basilio Magno, San
Gregorio, e così via. Il suo asse concettuale era costituito dal neoplatonismo, il cui
punto più alto è stato raggiunto da Dionigi l’Aeropagita, con la cui simbologia
neoplatonica venivano spiegati i misteri cristiani (nelle sue opere si manifesta il
puro platonismo cristiano). La tradizione alessandrina si basava su di una lettura
simbolico-allegorica del Vecchio e del Nuovo Testamento, che porta a porre
l’umanità di Cristo in secondo piano. Un tale tipo di lettura costituisce la norma per
il platonismo, dato che l’insegnamento platonico tratta tutto ciò che esiste come
simboli, icone, immagini delle idee e paradigmi, dunque ogni cosa – figure, eventi,
persone – dovrebbe essere letta come un testo simbolico. Da ciò discende
l’interpretazione allegorica come base per lo studio delle Sacre Scritture.

A differenza della scuola alessandrina, la scuola di Antiochia poneva a


fondamento per l’interpretazione delle Sacre Scritture un approccio
storico-letterario, il che porta tale scuola a rivendicare l’umanità
completa di Cristo – il Cristo non viene considerato tanto una divinità
quanto un santo, un profeta, l’ultimo salvatore, sussistendo una
differenza e una opposizione tra i mondi materiale e spirituale. Per
questo particolare tipo di approccio, si è soliti affermare che nella scuola
antiochena si manifesti uno spirito semitico – a volte questa lettura del
Cristianesimo viene denominata «giudeo-cristiana» – contrapposto allo
spirito greco (platonico) che anima la scuola alessandrina.

Anch’io inizialmente, prima di studiare in maniera più approfondita questi aspetti,


ritenevo fosse così. In effetti, la scuola di Antiochia si trovava in Siria, dove
vivevano molte popolazioni semitiche. Ma dopo aver iniziato a studiare questa
scuola e il fenomeno del giudeo-cristianesimo più nel dettaglio, e dopo aver
redatto il volume dell’opera Noomachìa dedicato al Logos semitico [2], sono giunto
alla conclusione che in realtà non è corretto affermare che la scuola antiochena sia
semitica.

Qui è opportuno aprire una breve parentesi sul Logos semitico. Il Logos semitico è
qualcosa di piuttosto differente da ciò che abbiamo visto finora. Esso si basa su
una sorta di titanismo che si manifesta nel culto pre-giudaico di Baal, la principale
divinità adorata dai cananei, una divinità titanica che richiedeva sacrifici di infanti.
All’orizzonte culturale della Cananea si opponeva il giudaismo, che in un certo
senso possiamo considerare anti-semitico. Alla tradizione semitica occidentale
incentrata sul culto di Baal, i giudei contrapponevano il loro antico Dio,
considerando Baal come una specie di divinità minore che lo aveva detronizzato.
Ma né Baal, né l’antico Dio del primo giudaismo hanno a che fare col Cristianesimo.
Nella scuola antiochena non ho in effetti rintracciato questo dramma intrasemitico
tra tradizione semitica occidentale (siriana, aramaica, ecc.) e giudaica, ma qualcosa
di completamente differente: la tradizione iranistica, l’iranismo nella sua pura
forma.

Se consideriamo il tardo giudaismo, quello successivo all’esilio babilonese, del


cosiddetto periodo del Secondo Tempio, possiamo facilmente identificare in esso
aspetti iranici. Questo perché rappresenta una tradizione originariamente giudaica
che successivamente è stata trasformata nel contesto iranico zoroastriano,
subendo la grande influenza del Logos iranico sotto l’impero anchemenide. Ed è
precisamente da quest’ultimo, come abbiamo accennato nella precedente lezione,
che discendono i concetti di Messia, storia, Salvezza, Resurrezione. Questi erano
tutti assenti nel giudaismo delle origini e vi fanno la comparsa solo nel periodo
dell’esilio babilonese. Il tardo giudaismo può essere definito una forma iranizzata
di giudaismo, e questo punto è molto importante nella nostra analisi.

È dunque più corretto definire la tradizione di Antiochia iranistica, oltre che


dualistica e più avanti manichea, essendo tutti i tipi di tendenze messianiche il
risultato logico del concetto di «guerra della luce» e della figura dell’Ultimo Re o
Salvatore che apparirà alla Fine dei Tempi. Tutto questo ai nostri occhi è
totalmente cristiano o tardo giudaico, ma proviene dalla tradizione iranica. Solo
nella tradizione iranica tutto ciò ottiene un significato metafisico strutturale. Il
messianismo non è metafisicamente giudaico, ma iranico; è la metafisica iranica
che spiega il perché della storia e della guerra tra la luce e le tenebre.

È pertanto presente nel Cristianesimo una sorta di conflitto tra due poli: il
platonismo greco advaita (non dualistico) rappresentato dalla scuola alessandrina,
con una lettura delle Sacre Scritture allegorica, e una versione del Cristianesimo
iranistica dvaita (dualistica), con una lettura storica e messianica. Entrambi questi
poli possiedono inoltre versioni eretiche, che si collocano al di fuori dall’ortodossia
dogmatica cristiana. La scuola di Antiochia ha generato Ario e Nestorio, mentre il
radicalismo del platonismo alessandrino ha generato un estremismo opposto,
l’eresia monofisita. Il monofisismo («una sola natura»), elaborato nel V secolo dal
monaco bizantino Eutiche, negava la duplice natura di Cristo riconoscendo in Lui la
sola natura divina; ciò costituiva una versione estremista del platonismo greco. Per
contro, nel nestorianesimo troviamo una versione estremista dell’iranismo, che
predica la totale separazione delle due nature di Cristo, per cui i nestoriani credono
che Maria abbia generato solo l’uomo Gesù e non Dio. Si tratta di due estremismi
eretici relativi a due legittimi orientamenti ortodossi, rappresentati da un lato dai
padri cappadoci come Basilio Magno e San Gregorio (scuola alessandrina), e
dall’altro da teologi e filosofi come Giovanni Crisostomo (scuola antiochena).

Ciò che è importante rilevare è che nel Cristianesimo abbiamo a che fare con la
continuazione dell’orizzonte esistenziale ellenistico mediterraneo, con due poli –
greco e iranistico. Esso rappresenta dunque una nuova forma dell’ideologia del
tradizionale spazio indoeuropeo.

3. La condizione della donna

Questa continuità si manifesta anche nella condizione femminile.

Nel Cristianesimo individuiamo due approcci in relazione alla condizione della


donna, entrambi di natura indoeuropea. Da un lato, vi è una forma di aniliginia,
propria della società indoeuropea turanica, ma trasposta sul piano spirituale; ciò si
manifesta in una sorta di uguaglianza spirituale tra uomo e donna in Cristo – San
Paolo, a tal proposito, ha affermato che «non c’è più uomo né donna, poiché tutti
voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Ciò implica il pieno riconoscimento della
dignità dell’anima della donna, che viene posta sullo stesso piano dell’anima
dell’uomo. Questa «uguaglianza dell’anima» richiama all’amicizia egualitaria
turanica tra guerriero e guerriera. Potremmo dire che nel Cristianesimo uomo e
donna sono entrambi guerrieri di Cristo.
Allo stesso tempo, sussiste un secondo genere di relazione tra uomo e donna, in
cui si riflette la discesa degli indoeuropei nomadi sulla società matriarcale e la
successiva «domesticazione di Cibele», e che si manifesta in altre affermazioni di
San Paolo, secondo cui le mogli devono essere «sottomesse ai mariti come al
Signore» (Ef 5,22) e per il quale «alla donna non è permesso di insegnare né di
dominare sull’uomo» (1Tm2,12).

Vi è quindi, potremmo dire, una «gerarchia nell’uguaglianza», con la presenza di


entrambe le versioni degli archetipi di genere tradizionali della società
indoeuropea – ad un livello sottomissione gerarchica, ad un altro amicizia e
uguaglianza nella dignità spirituale. Nella nostra tradizione, nel modo in cui il
nostro spazio spirituale e culturale si è andato creando, durante lo sviluppo storico
ed esistenziale, quella cristiana ha rappresentato la migliore soluzione possibile
poiché ha soddisfatto entrambe le domande di uguaglianza e gerarchia nel modo
più organico e naturale. E questo è il motivo per cui i popoli mediterranei ellenistici
hanno accolto il Cristianesimo: in esso risuonava la loro (e nostra) stessa identità,
un qualcosa che esisteva già prima che la tradizione cristiana emergesse e si
consolidasse, e che quest’ultima ha preservato e rinnovato.

4. Ideologia imperiale e Catéchon

La continuità tra tradizione pre-cristiana e cristiana si manifesta inoltre nell’idea


del Sacro Impero.

Il Cristianesimo, con Costantino il Grande, viene legittimato e diviene


progressivamente ideologia imperiale. Ma oltre a ciò, fa il suo ingresso un concetto
molto importante, anche questa volta di origine iranica: il concetto del Catéchon,
dal greco τὸ κατέχον (tò katéchon), alla lettera «ciò che trattiene». Questa figura
appare in un passo enigmatico della Seconda Lettera ai Tessalonicesi di Paolo di
Tarso: «E ora conoscete ciò che lo trattiene (tò katéchon), affinché si riveli a suo
tempo. Infatti il mistero dell’iniquità (tò mystérion tês anomías) è già in atto, ma è
necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene (ho katéchon).» (2Tess, 2, 6-
7). Solo allora l’empio, il figlio della perdizione, sarà rivelato. Il Catéchon è dunque
quella figura che si oppone alla venuta dell’Anticristo. Tale figura si inscrive in una
visione non platonica ma piuttosto storica, messianica del Cristianesimo. Non a
caso essa è una figura chiave nella sequenza istoriale iranica, nel Logos dualistico
iranico, nel quale viene rappresentata dal Re sacro chiamato a combattere le forze
dell’oscurità e ad impedire che esse invadano il mondo. Abbiamo pertanto a che
fare con una figura puramente iranica, inesistente nella concezione greca – per
contro nell’ideologia romana, a seguito delle influenze iraniche presenti nella
cultura ellenistica che andrà a costituire la base culturale dell’Impero romano,
appare qualcosa di simile anche se non così chiaramente definita.

La figura del Catéchon, del «frenatore» menzionata da Paolo di Tarso, è


stata in seguito identificata da Giovanni Crisostomo – rappresentante di
quello che abbiamo definito ramo iranistico della teologia cristiana, cioè
la scuola antiochena, e questo è significativo – con l’Impero romano.
La Fine dei Tempi, la Resurrezione, la grande apostasia – tutta la visione ciclica e
storica della Chiesa cristiana è basata su questa figura. Soprattutto in Bisanzio, ma
non solo. Nello spazio esistenziale bizantino, il Catéchon viene identificato con
l’Imperatore cristiano. Egli era considerato essere una sorta di vescovo esterno alla
Chiesa, la figura chiave del Sacro Impero che lotta contro la venuta dell’Anticristo.
E, insieme al Patriarca, costituisce la cosiddetta «sinfonia dei poteri» (simfonija
vlastej), basata sull’alleanza tra Sacerdotium, l’autorità spirituale, e Imperium.
L’impero dunque ottiene una nuova dimensione. Non è semplicemente una
organizzazione politica, ma viene considerata un’organizzazione sacra, cristiana.
Una organizzazione della realtà politica apollinea.

Anche l’Imperatore, essendo il Catéchon, non era considerato solo un governatore


secolare, ma rappresentava una figura sacrale. Ed è precisamente l’Imperatore
cristiano, il Catéchon, ad essere simmetrico all’Anticristo. Il dualismo non è tra
l’Anticristo, il figlio della perdizione come lo chiama Paolo di Tarso, e Cristo – poiché
Cristo è Dio, non può essere messo sullo stesso piano dell’Anticristo – ma tra
Imperatore e Anticristo. Il Catéchon è l’ostacolo, la resistenza. Una figura simbolica
che unisce il mondo cristiano e dà ad esso il suo asse verticale. Egli costituisce
dunque una figura molto importante, anch’essa continuatrice di una tradizione
pre-cristiana.

Se mettiamo insieme tutti questi elementi – verticalità apollinea, natura dionisiaca


di Cristo, messianismo storico dell’iranismo, figura del sacro imperatore (Catéchon)
– otteniamo un insegnamento che in realtà non è nuovo ma costituisce una nuova
forma in cui si riflettono tutti gli elementi che preesistevano al Cristianesimo. In
altri termini, ribandendo quanto abbiamo affermato in precedenza, nel
Cristianesimo ritroviamo l’eterno momento della Noomachìa dello spazio
esistenziale indoeuropeo.

In questo contesto, le forze ctoniche sono rappresentate dalla figura di Satana, così
come Babilonia la Grande rappresenta la Grande Madre, Cibele. Troviamo inoltre il
serpente, che tradizionalmente è il consorte della Grande Madre. Queste forze
cercano di rovesciare l’Impero cristiano, posto sotto il potere della figura spirituale
del Patriarca e dell’Imperatore sacro. Simbolicamente, dunque, nel contesto
cristiano sono presenti tutti e tre i Logoi. Il Cristianesimo si basa sulla vittoria su
Satana, che viene incatenato e messo sotto il controllo dell’Impero. La civiltà
cristiana non è stata infatti costruita sul nulla; è stata costruita sulle spalle di
Satana, sulle spalle del potere ctonico domesticato e sottomesso dal Logos di
Apollo. La figura dell’Imperatore, del Czar, costituisce una sorta di suggello a
questa vittoria della Chiesa cristiana sul mondo satanico e cibeliano. Ma Satana,
incatenato agli Inferi, è sempre vivo. E quando l’Imperatore diverrà troppo debole
per resistervi – questo è anche il soggetto del racconto classico iranico – apparirà
l’Anticristo: con la rimozione del Catéchon, il figlio della perdizione si libererà dalle
catene che lo tengono imprigionato agli Inferi e giungerà nella società umana. E ciò
rappresenterà l’esplosione del sottosuolo, il ritorno della dominazione di Cibele, la
restaurazione di Babilonia la Grande, ecc., che distruggerà la Chiesa e creerà una
civiltà completamente nuova appartenente ad un altro livello esistenziale.

5. Ortodossia e Chiesa cattolica


Quella che abbiamo appena descritto costituisce la normale visione del mondo
nell’Ortodossia Cristiana. Essa si è preservata molto più nella Chiesa orientale,
nella tradizione bizantina, dove continua a rappresentare la norma, tanto che se
oggi ci recassimo al Monte Athos, vi troveremmo persone che condividono la
stessa autocoscienza e ripeterebbero esattamente ciò che abbiamo appena detto. I
monaci del Monte Athos continuano a condurre questa lotta contro i demoni. E se
leggessimo Padre Paisios, potremmo renderci chiaramente conto di come questa
lotta acquisisca anche una dimensione fisica. In altre parole, non abbiamo a che
fare solo con metafore, ma con una lotta fisica contro le forze dell’oscurità.

Nel punto di vista Ortodosso affiorano le radici indoeuropee del


Cristianesimo. In effetti, la prospettiva Ortodossa non si riduce solo alla
Chiesa e al culto, ma corrisponde ad una completa visione del mondo che
attualizza l’ideologia indoeuropea in una nuova forma, con disposizioni
normative in campo sociale e politico – una sorta di monarchismo per cui
non si può essere di norma democratici se si è cristiani, ma si dovrebbe
in qualche modo riconoscere la validità dell’insegnamento del Catéchon
–, relazioni normative tra uomo e natura, e così via. E, nei consessi in cui
l’Ortodossia tradizione si è preservata – sul Monte Athos, ma anche in
Serbia, in Bulgaria, in Macedonia, in Romania, in Ucraina, in Grecia, ecc. –,
riscontriamo a tutt’oggi la stessa visione, la stessa cultura, la stessa
civiltà.
Anche nel caso della Chiesa Latina abbiamo questa visione, ma con un accento
maggiore posta sul potere dell’autorità spirituale, che viene collocata al di sopra
dell’autorità regale. La tendenza dominante nel cattolicesimo era l’opposizione tra i
«due regni» formulata dall’ex manicheo Sant’Agostino [3], per cui il Papa di Roma
rappresentava la verticalità spiritale ancora una volta di natura indoeuropea,
mentre i Re non erano sacri ma del tutto secolari. Pertanto al posto della
«sinfonia» vi era l’idea che fosse il sacro Papa romano a dover governare su di essi.

Tuttavia, con un atto che ai nostri occhi ortodossi appare un’usurpazione, nell’800
Carlo Magno viene da Papa Leone III incoronato imperatore, titolo che non era
stato mai più usato in Europa Occidentale dopo la destituzione di Romolo Augusto
nel 476. Noi non riconosciamo lo status di imperatore a Carlo Magno, poiché al
tempo riconoscevamo l’imperatrice bizantina Irene d’Atene, considerando l’Impero
bizantino l’unico e legittimo discendente dell’Impero Romano; ma il fatto che il
trono romano fosse occupato da una donna spinse il Papa a considerarlo vacante,
e questo portò a quella che noi definiremmo una usurpazione del trono imperiale.
In questa sede però non stiamo discutendo su chi in tale disputa fosse nel giusto e
chi nel torto; ci interessa piuttosto rimarcare come anche nel mondo cristiano
dell’Europa Occidentale abbia fatto il suo ingresso con Carlo Magno la figura
dell’Imperatore accompagnata da una certa idea di Catéchon e come questa
tradizione catecontica cristiana occidentale si sia rinnovata dall’inizio del IX secolo
nella tradizione imperiale dei Re dei Franchi fino all’Impero Asburgico, considerato
l’ultima manifestazione del Catéchon in Europa Occidentale.

E, sebbene nella tradizione cattolica sussistesse una divisione tra Imperatore e


Papa, che si rifletteva nel conflitto tra guelfi filopapisti e ghibellini filoimperiali, e
nonostante la linea imperiale non fosse molto ben accetta dal Papa di Roma, è
interessante notare come anche i guelfi, i partigiani del potere assoluto del Papa
romano sui Re secolari dell’Europa Occidentale, e in definitiva la Chiesa occidentale
stessa riconoscessero ugualmente lo status del Cathécon all’Imperatore, anche se
non nei termini più chiari propri dell’interpretazione ghibellina.

Così, abbiamo due versioni della civiltà cristiana. In quella Orientale, più vicina alla
versione originale, tutte le proporzioni si sono conservate fino ad oggi; in questa
ininterrotta tradizione cristiana orientale, il retaggio indoeuropeo di provenienza
ellenistica si è preservato fissandosi nella forma dei primi sette concili ecumenici.
Vi è poi la oserei dire più contraddittoria tradizione cristiana occidentale. Mentre
Bisanzio rimane più in linea con il platonismo, a Roma prevale l’eredità dualistica
(non dimentichiamo che Sant’Agostino era un ex manicheo). Ma nonostante ciò,
nel complesso la tradizione cristiana si è preservata in entrambe le versioni
orientale e occidentale (nel Cattolicesimo al più fino al Concilio Vaticano II).

6. Protestantesimo
Il collasso avviene col Protestantesimo, terzo ramo del Cristianesimo. È
interessante notare come all’origine del Protestantesimo vi siano idee corrette.
Anzitutto, vi era la denuncia della totale corruzione che albergava nella Chiesa
romana e di come essa avesse «usurpato» la relazione tra Uomo e Cristo. Questo è
un riflesso di come la Chiesa viene concepita nel Cattolicesimo: essa viene fatta
corrispondere alla comunità dei soli sacerdoti, escludendo di fatto tutti gli altri, i
quali vanno a costituire una sorta di circolo esterno attorno alla Chiesa costituito
dai «quasi-cristiani». A noi ortodossi una tale immagine risulta bizzarra, poiché per
la concezione dogmatica ortodossa la Chiesa è la comunità non solo dei sacerdoti
ma di tutti i battezzati. Nella tradizione cattolica al contrario è presente una sorta
di gerarchia, intesa in senso spirituale, che interrompe la relazione diretta tra il
cristiano ordinario e Dio facendola passare attraverso il clero e il Papa romano, che
in questa relazione funge da intermediario. Gli anticipatori di quella che poi venne
denominata Riforma Protestante, in particolar modo i mistici tedeschi come
Meister Eckhart, Enrico Suso e altri, affermarono per contro l’esistenza di una
relazione intima e diretta tra il cuore dell’uomo e Cristo, relazione che non
dovrebbe passare per il tramite di un’istanza esterna.

Nella tradizione ortodossa questo problema non si pone poiché in essa, data la
diversa concezione della Chiesa nell’Ortodossia, vengono riconosciute sia la
completa autorità della Chiesa sia la relazione diretta tra uomo e Cristo. Al
contrario, nella tradizione cristiana occidentale, questo problema è effettivamente
presente. A questo, i mistici pre-protestanti risposero affermando la diretta
relazione tra noi e Dio, che Dio può parlare dentro di noi e che ciò costituisce la
nostra dimensione interna. In questo essi furono effettivamente platonici e in un
certo senso più vicini agli ortodossi, ed è tale concetto radicale del rapporto
personale tra l’uomo e Cristo, da alcuni di essi chiamato della «luce interiore» o
«Cristo interiore» che vive nel cuore dell’uomo, all’origine del protestantesimo.
Tuttavia, l’originaria restaurazione della pura dimensione spirituale nel
Cristianesimo si è presto degradata in una versione titanica dello stesso. In una sua
deviazione. Nell’affermare con Lutero e Calvino questo insegnamento, i protestanti
hanno rotto con la tradizione stessa, privandosi delle icone, dei monasteri, della
Chiesa in quanto tale. Nel tentativo di liberare il diretto accesso da parte dell’uomo
verso Dio, essi hanno distrutto la sacralità stessa, sostituendo ciò che potremmo
chiamare «soggetto radicale» – il sé interiore divino che vive all’interno della nostra
anima, una estrema radicale interiorità al centro del nostro cuore dove vive Cristo
– con una «individualità profana», esteriore, un «soggetto positivo». Ciò ha
condotto ad una forma di «individualismo religioso» che ha preso il posto della
dimensione mistica iniziale, poiché quando il protestantesimo inizia a espandersi,
esso fa appello alle masse, che non possono avere questa particolare esperienza
interiore. Così, partendo da un punto iniziale legittimo sostenuto dei primi
protestanti o dai pre-protestanti, si è giunti alla distruzione della società cattolica
tradizionale e ciò ha rappresentato qualcosa di completamente titanico. Una totale
perversione.

Il protestantesimo ha segnato il passaggio dal «terzo uomo» al «secondo


uomo» nel linguaggio mistico di Giovanni Taulero – per Taulero l’uomo è
composto da tre uomini: il primo è l’uomo esteriore o l’animale sensibile,
il secondo è l’uomo ragionevole con le sue facoltà razionali, il terzo è il
Gemüt, cioè l’uomo misterioso nascosto all’interno della nostra anima, il
soggetto radicale che è in relazione con Dio – affermando la dignità di
qualcosa che non può averla, poiché non vi è possibile diretta relazione
tra il «secondo uomo», il soggetto positivo, e Dio. Dovrebbe esservi
sempre un qualche intermediario. Una relazione diretta è impossibile, e
la pretesa di avere questa diretta relazione è titanica. In questo
passaggio è avvenuta una trasformazione del Logos stesso.

Detto altrimenti, se nel primo protestantesimo abbiamo la legittima rivendicazione


ad avere una relazione diretta tra il «terzo uomo» di Taulero e Dio, nel
protestantesimo normale, nel protestantesimo profano, riscontriamo un approccio
completamente differente, che si è rivelato fatale. Questo titanismo, apparso
nell’insegnamento luterano ma soprattutto in quello calvinista – ben peggiore del
luteranesimo poiché si basa sulla radicale assenza di ogni sacralità nel mondo e
sulla glorificazione del «secondo uomo» come il solo esistente, e ciò costituisce
qualcosa di totalmente profano –, ha portato alla distruzione della società
tradizionale e alla primissima affermazione della moderna civiltà post-cristiana.

Il protestantesimo ha rappresentato una breccia fatale nel grande muro della


civiltà cristiana che ha coinciso con la distruzione della tradizione cristiana
occidentale.

7. Conclusione
La prossima lezione verterà sull’analisi noologica della modernità. Tuttavia, già da
ora possiamo in modo molto sintetico dire qualcosa su ciò che la
decristianizzazione della società moderna ha rappresentato. Essa non è stata altro
che la distruzione del Logos apollineo e del suo alleato dionisiaco, cioè del
patrimonio indoeuropeo. Una catastrofe molto più profonda della sola caduta del
Cristianesimo poiché ha rappresentato la caduta di un Logos che era nostro da ben
prima. Si è trattato della distruzione di ogni forma di verticalità e dell’irruzione del
potere titanico nell’orizzonte esistenziale europeo. Escatologicamente, ha coinciso
con la reale venuta dell’Anticristo, la liberazione di Satana dalle catene dell’Inferno.

La vittoria del Logos di Apollo, coadiuvato dal Logos di Dioniso, sul Logos di Cibele
ha dato inizio alla nostra civiltà. E per migliaia di anni abbiamo vissuto in questo
momento della Noomachìa, nella vittoria della luce sulle tenebre. Un momento
della Noomachìa che, come abbiamo visto in questa lezione, non è iniziato con il
Cristianesimo, ma è continuato in esso. Per migliaia di anni abbiamo vissuto nel
«regno della luce», con tutti gli aspetti drammatici insiti in questa Noomachìa, di
questa battaglia. La modernità segna al contrario il passaggio ad un nuovo
momento della Noomachìa. Con la decristianizzazione irrompe qualcosa di
assolutamente radicale da un punto di vista noologico e geosofico. Nella prossima
lezione andremo a vedere di cosa si tratta.
LEZIONE 8. ANALISI NOOLOGICA DELLA MODERNITÀ
1. La Modernità come fenomeno paradigmatico

Anzitutto, occorre chiarire la natura di questo fenomeno. A tal proposito,


suggerisco la lettura degli autori che hanno dato vita alla scuola tradizionalista; mi
riferisco in particolare a Julius Evola, René Guénon, Frithjof Schuon, Titus
Burckhardt, Michel Vâlsan, S.H. Nasr. Essi hanno spiegato come la Modernità
corrisponda ad un particolare concetto paradigmatico che non ha nulla a che
vedere con la nozione di contemporaneità. Oggi, in questo preciso momento,
potremmo infatti imbatterci in una società moderna o postmoderna come pure in
una premoderna, arcaica o medioevale, e così via. Contemporaneo pertanto non
equivale a moderno. Questo è un punto molto importante. Quando parliamo della
Modernità, non stiamo descrivendo l’attuale stato delle cose, ma stiamo parlando
di uno specifico tipo di società, di struttura, di orizzonte esistenziale, di civiltà, che
è piuttosto atemporale e che è il frutto di una decisione. Non dobbiamo quindi
considerare la Modernità come un qualcosa di fatale, per cui siamo in qualche
modo obbligati a modernizzarci. I tradizionalisti affermano al contrario che essere
moderni è la conseguenza di una scelta. Si può decidere di essere moderni ma si
può anche decidere di non esserlo. In merito a ciò, essi introducono due concetti
tra loro opposti e corrispondenti a due tipologie diverse di società o visione del
mondo: la Tradizione e la Modernità. Questo quadro concettuale è di cruciale
importanza perché ci dà la possibilità di studiare la Modernità non come un
qualcosa di inevitabile, ma come il prodotto di un peculiare sviluppo storico basato
su una concreta sequenza di decisioni e scelte. La Modernità è un fenomeno
paradigmatico artificiale; non è qualcosa di fatale, che è venuto da sé,
naturalmente, ma al contrario è stata creata, sostenuta, difesa e sviluppata
attivamente. E siamo in grado di affermarlo perché conosciamo molte altre società
che non sono moderne – ad esempio le società arcaiche o alcune società
contemporanee come la società islamica o per alcuni versi la società indiana. In
effetti, la maggior parte dell’umanità ad oggi, nel XXI secolo, non vive affatto in una
società moderna. Ecco perché dovremmo studiare la Modernità considerandola
separatamente dalla contemporaneità.

Possiamo parlare di una «struttura» della Modernità. La Modernità è qualcosa di


strutturale, e così come è stata artificialmente costruita, può essere decostruita. I
filosofi postmoderni si basano precisamente su questo concetto, sulla
decostruzione della Modernità. Ma la decostruzione della Modernità – e questo è
un punto fondamentale nella Noologia – può essere effettuata partendo da due
posizioni diverse.

Un primo modo di decostruire la Modernità è di farlo dal punto di vista


postmodernista. La maggior parte dei postmodernisti è insoddisfatta della
Modernità poiché a loro avviso quest’ultima non ha pienamente realizzato le sue
promesse iniziali di superare completamente la Tradizione, per cui essi cercano di
decostruire la Modernità con la loro etica iper-modernista, al fine di raggiungere gli
scopi prefissati dalla Modernità ma che essa, a causa dei suoi limiti interni, non è
riuscita a conseguire. Possiamo dire che agli occhi dei postmodernisti la Modernità
è «troppo tradizionale» per poter superare completamente la Tradizione, come
invece avrebbe dovuto essere e come la Postmodernità si appresterebbe a fare. La
decostruzione della Modernità operata dai postmodernisti è dunque finalizzata a
mostrare come essa non sia «sufficientemente moderna», come essa non abbia
raggiunto quel livello di modernizzazione necessario agli occhi dell’etica
postmodernista. Ma è interessante come, nel fare ciò, in questo atto decostruttivo,
essi rivelino la natura artificiale della Modernità; in effetti, si può decostruire solo
qualcosa che è stato precedentemente costruito.

Vi è poi un secondo modo in cui è possibile decostruire la Modernità. Un modo ben


più radicale della critica postmodernista. Mi riferisco al tradizionalismo, che
considera la Modernità come anti-Tradizione, cioè come una struttura basata
fondamentalmente sulla negazione della Tradizione. Essa rappresenta l’inversione
di tutti i valori tradizionali, la volontà di capovolgere, sovvertire lo stato di cose
tradizionale, di sostituire la tesi con l’antitesi. Questa è la posizione dei
tradizionalisti. Se i postmodernisti concordano con gli obiettivi della Modernità e la
criticano giudicandola non adeguata a perseguirli completamente, i tradizionalisti
al contrario ritengono la Modernità qualcosa di completamente negativo: un
nichilismo, una perversione, una sovversione, un progetto demoniaco, il regno
dell’Anticristo edificato dai consapevoli seguaci di Satana. La Modernità, agli occhi
dei tradizionalisti, è un’intenzionale costruzione satanica, un ordine demoniaco
basato sulla sovversione dell’ordine sacro, del mondo sacro della Tradizione.

Nel trattare la Modernità, possiamo fare uso di entrambi questi metodi di


decostruzione. Possiamo decostruire la Modernità dalla prospettiva
postmodernista, con la sua elaborata metodologia, oppure dal punto di vista
tradizionalista. Ora non mi interessa dare giudizi di valore su questi metodi; voglio
mostrare l’esistenza di due possibili modi di trattare la Modernità al di fuori delle
pretese della Modernità stessa. La Modernità afferma la necessità e l’inevitabilità
delle sue stesse leggi meccaniche di sviluppo, di progresso, e così via. Tutto ciò è
messo in discussione sia dai postmodernisti che dai tradizionalisti. E, da posizioni
diverse, entrambe le critiche rivelano una cosa per certa: che abbiamo a che fare
con qualcosa di assolutamente artificiale.

Possiamo considerare la Modernità come qualcosa di concettuale, strutturale, e in


un certo qual modo di eterno, nel senso che la Modernità esiste non solo nel
mondo contemporaneo ma può esistere in differenti contesti storici. Questo ci
consente di analizzare la Modernità come un oggetto di studio astratto dalla
contemporaneità. Così, possiamo esaminare la Modernità allo stesso modo in cui
ad esempio studiamo la cultura cinese o la cultura romana, come un fenomeno
inveratosi, concretizzatosi, ma che appartiene al testo eterno della storia.

2. Il contenuto positivo della Modernità

Abbiamo già detto che la Modernità si fonda sulla negazione della Tradizione. Ma
quale tradizione distrugge la Modernità? In Europa la risposta è evidente: il Logos
apollineo e dionisiaco nella forma del Cristianesimo. La Modernità si esplica
nell’anticristianesimo poiché nella nostra storia europea la Tradizione di cui i
tradizionalisti parlano si è manifestata nella forma della tradizione cristiana, la
quale, come abbiamo mostrato nella precedente lezione, ha inglobato in sé le
strutture precristiane del Logos indoeuropeo.

Sicché la Tradizione, in senso noologico, nel contesto europeo corrisponde


all’alleanza tra i Logoi di Apollo e Dioniso nella forma storica concreta che prende il
nome di Cristianesimo. Se però, partendo da questa concreta e positiva descrizione
di cosa è la Tradizione nel contesto europeo, proviamo a negarla o rovesciarla – la
Modernità, abbiamo detto, è anti-Tradizione –, otteniamo qualcosa che certamente
non è Apollo né Dioniso ma che nel contesto della Noomachìa non rappresenta
solo qualcosa di nichilistico o parodico, come affermano i tradizionalisti, bensì un
altro Logos. In altri termini, l’analisi noologica ci permette di vedere chiaramente
quello che possiamo definire «contenuto positivo» della Modernità. I
tradizionalisti, afferendo al Logos apollineo e dionisiaco, vedono nella Modernità
solo nichilismo, un fenomeno «anti-» o «contro-»; in effetti, come abbiamo detto
nelle precedenti lezioni, la concezione apollinea è esclusivista, ragion per cui Apollo
non riconosce altri Logoi e al di fuori di sé vede solo distruzione – al di fuori del
Padre solare, solo materia senza qualità. Al contrario, nella concezione trilogica
propria della Noologia riconosciamo l’esistenza di un terzo Logos, segnatamente il
Logos di Cibele, una struttura che possiamo descrivere in termini di relazioni
interne positive. Ecco perché la Noologia risulta così importante – in questo
passaggio, possiamo apprezzarne pienamente il carattere innovativo. Grazie ad
essa disponiamo delle chiavi per decifrare meglio e più in profondità cosa
rappresenta la Modernità.

I tradizionalisti criticano la Modernità adoperando termini esclusivamente di


negazione – essi affermano che la Modernità nega la Tradizione, rovescia i valori
tradizionali e così via – e questo non ci sorprende poiché essi, dalla prospettiva
della Tradizione e dunque del Logos apollineo (coadiuvato da quello dionisiaco, che
però nella tradizione indoeuropea è letto sempre in senso apollineo), considerano
la fine della Tradizione come la fine di ogni cosa, del tempo stesso. E
probabilmente è questo il motivo per cui essi non sono riusciti a carpire fino in
fondo l’essenza della Modernità. Ma lo stesso può dirsi per i modernisti. La
Modernità è qualcosa di puramente negativo per i tradizionalisti tanto quanto
costituisce qualcosa di puramente positivo per i modernisti, per i quali essa è tutto
– progresso, magnificenza, oltreché una sequenza predefinita di eventi che
nessuno può cambiare. Ecco perché neanche i modernisti sono riusciti a
comprendere davvero la Modernità. Questi ultimi sono fautori di qualcosa che non
hanno compreso affatto. La comprensione che offrono i tradizionalisti della
Modernità è in rapporto alla loro molto più avanzata; tuttavia, incentrandosi su un
discorso basato sulla negazione, risulta incompleta anch’essa.

Con l’analisi noologica possiamo fare un ulteriore passo in avanti e affermare che
la Modernità non è solo distruzione, nichilismo, trasformazione caotica, ma
rappresenta anche l’affermazione di un nuovo Logos – in realtà non del tutto
nuovo. Un terzo Logos. Segnatamente, il Logos di Cibele. Se applichiamo alla
Modernità questa nozione, entriamo in una prospettiva completamente nuova.
Ora siamo in grado di scorgere la vera natura della Modernità: essa rappresenta il
ritorno agli aspetti civilizzazionali preindoeuropei. Metafisicamente, la Modernità
precede le invasioni indoeuropee turaniche. Abbiamo quindi a che fare non con
qualcosa di assolutamente nuovo ma al contrario di assolutamente antico!
Qualcosa che precede il Logos turanico di Apollo e la tradizione indoeuropea nella
forma cristiana. Questa considerazione è estremamente importante, per quanto
paradossale possa sembrare (in realtà non lo è affatto), perché ci permette di
comprendere che la Modernità ha rappresentato il momento della Noomachìa in
cui i Titani hanno condotto un nuovo attacco contro gli Dèi olimpici. Un’offensiva
che, questa volta, è andata a buon fine. La Modernità si basa infatti sulla vittoria
dei Titani, di Cibele, del serpente, sugli Dèi dell’Olimpo, su Apollo. Questo momento
della Noomachìa in potenza è sempre esistito, ma si è potuto inverare solo quando
il potere della luce è diventato troppo debole; solo allora i Titani si sono potuti
liberare dalle catene che li tenevano imprigionati nel Tartaro e hanno potuto fare
irruzione nel mondo sottomettendo l’umanità al loro dominio. Questa descrizione
non si basa su un discorso puramente negativo poiché, come si può vedere, è
possibile parlare di un Logos della Modernità.

Al fine di ricostruire il fenomeno della Modernità, è opportuno risalire al momento


in cui la Modernità ha avuto origine. Tale momento storico coincide con la fine del
Medioevo e con il Rinascimento, che costituisce la cerniera tra le due epoche –
tradizionale e moderna –, il punto in cui questa Noomachìa o titanomachìa
raggiunge la sua fase critica. Rinascimento è precisamente il nome che prende la
particolare battaglia che si consuma tra il Logos di Apollo e il Logos di Cibele. Una
battaglia che segna questa volta la sconfitta di Apollo, della tradizione
indoeuropea, dell’orizzonte esistenziale patriarcale a favore di un Logos
alternativo. Questa sconfitta si riflette nell’inizio del capitalismo, nell’avvento della
borghesia, degli Stati nazionali, della secolarizzazione della società, nel collasso del
Cristianesimo e nella nascita della scienza moderna, che costituisce un elemento
chiave della Modernità. Noi ci troviamo in effetti a vivere in un mondo nel quale la
comprensione della realtà si fonda sulla scienza moderna. Cercheremo ora di
capire strutturalmente di cosa si tratta.

3. La scienza moderna

Se leggiamo i padri della scienza moderna, noteremo una caratteristica molto


importante: essi criticano Aristotele e la dottrina dogmatica scientifica aristotelica
del Medioevo – nel contesto ortodosso, l’insegnamento aristotelico viene adattato
da Giovanni Damasceno, mentre nel Cristianesimo occidentale troviamo la
tradizione scolastica basata sulla combinazione di concetti aristotelici e platonici.
Con la nascita della scienza moderna, Aristotele, e su scala minore Platone,
vengono abbattuti. Ma cosa, concretamente, viene attaccato? Come cioè la
titanomachìa di cui abbiamo parlato si sviluppa nel campo scientifico teorico?
Anzitutto, viene criticata la teoria di Aristotele dei luoghi naturali o dello spazio
anisotropico, alla base della concezione aristotelica del movimento. Secondo
Aristotele, ogni corpo possiede una sorta di finalità interiore, l’entelechìa. A questa
è correlato il luogo naturale: ogni corpo possiede il suo luogo naturale, e il suo
movimento è il movimento verso questo luogo naturale; solo quando un corpo
raggiunge il suo luogo naturale, il movimento cessa. Il movimento quindi esiste
perché tutti i corpi non si trovano nei loro luoghi naturali. Essi si muovono verso i
propri luoghi naturali ma nel farlo, a causa del movimento caotico che caratterizza
il mondo sublunare, si ostacolano l’un l’altro e ciò impedisce loro di raggiungere i
propri luoghi naturali. È questo che definisce la natura del movimento. Nessun
corpo si trova nel proprio luogo naturale, ed è per questo motivo che tutto è vivo
ed è in movimento. Solo Dio si trova eternamente nel suo luogo naturale. Egli è il
motore immobile, ciò che tutto muove ma non è mosso da nulla, causa del moto
ma non soggetto al divenire. Da ciò, scaturisce un peculiare spazio, caratterizzato
da un «centro assoluto» a cui ogni cosa tende. Noi, così come ogni altro corpo,
stiamo procedendo verso «casa», stiamo facendo ritorno a Dio, causa finale del
mondo. Lo spazio è dunque teocentrico. Ne discende una sorta di geografia sacra,
caratterizzata da un particolare centro sacro; tutto il cosmo ha un significato, una
struttura e una ragione.

Il principale attacco sferrato da Galileo Galilei, Copernico e dagli altri padri della
scienza moderna è contro questo concetto di luogo naturale. Per costoro non vi è
alcun luogo naturale, e non esiste una causa finale del mondo. La causa del
movimento è l’urto tra due corpi. Non vi è quindi alcuna causa finale ma solo una
causa iniziale, antecedente al movimento. Non esiste più una finalità. Tutto è
casuale. Non c’è più alcuna telelologia nella loro concezione del movimento. Tutto
si muove caoticamente come nella concezione aristotelica, ma questa volta senza
alcuna finalità, e senza tendere ad alcun centro assoluto. Lo spazio non possiede
più alcun centro, le posizioni dei corpi sono relative tra loro. Ne consegue uno
spazio non anisotropico ma piuttosto isotropico.

Ma qual è il senso noologico dell’azione di Galileo Galilei e degli altri padri fondatori
della Modernità? Questa concezione ha comportato la distruzione della struttura
apollinea dello spazio, del tempo, del pensiero, del destino, della storia. Essi hanno
distrutto il Logos di Apollo rappresentato da Platone e Aristotele facendosi latori
del Logos di Cibele, un Logos che in realtà non costituisce una loro scoperta, un
qualcosa di totalmente nuovo, ma rappresenta un ritorno alla forma cibeliana
dell’antica filosofia greca presocratica di Democrito e più tardi di Epicuro e di
Lucrezio. Questa corrente filosofica era stata accantonata nella visione del mondo
cristiana, basata su Platone e su Aristotele. Democrito, Epicuro e Lucrezio erano
stati epurati, oserei dire, dal Logos apollineo e dionisiaco cristiano, poiché essi
appartenevano ad un’altra visione: una visione atomistica, materialistica, anti-
indoeuropea propria del Logos di Cibele, che riappare nel contesto del
Rinascimento. Si tratta di una corrente filosofica respinta, estromessa, che nel
Rinascimento riappare e diventa dominante. Nella mente dell’uomo rinascimentale
avviene un cambiamento paradigmatico che apre la strada al ritorno del Logos di
Cibele. L’atomismo di Democrito, respinto dalla cosmologia cristiana, negato nella
versione cristiana della struttura del cosmo, riapparire con Newton, Gassendi,
Boyl, Descartes, Hobbes. Non è un caso che Marx, il più moderno filosofo del XIX
secolo, abbia dedicato la sua tesi di laurea alle filosofie della natura di Democrito e
di Epicuro, a questioni cioè molto antiche legate alla materia, all’atomismo,
all’evoluzione. Anche il tema darwiniano dell’evoluzione è presente in questi autori
antichi, nello specifico in Lucrezio che nel De rerum natura postulava una teoria
antesignana dell’evoluzionismo incentrata sulla lotta per la sopravvivenza delle
specie – generate da Venere, dalla Sacra Madre – come molla per l’evoluzione. In
questi antichi autori è presente una commistione tra aspetti scientifici e mitologici,
ma si tratta pur sempre di una mitologia materialistica, ctonica, cibeliana.

La distruzione della verticalità, del vecchio ordine, della vecchia dottrina medievale
e dell’insegnamento cristiano, coincide con l’affermazione di una nuova visione del
mondo fondata su di un’ideologia cibeliana strettamente materialistica e
immanentistica. Non vi è alcun Paradiso, né Dio trascendente; esiste solo una
sostanza da cui tutto nasce e si sviluppa, e questo sviluppo non ha alcuna causa
finale, al contrario rappresenta un processo immanente che non tende ad alcun
punto attrattivo poiché l’immensa sostanza immanente ha fine in sé stessa. Ciò si
riflette nella rivoluzione copernicana: nel passaggio dal geocentrismo
all’eliocentrismo la Terra perde il suo ruolo di centro dell’Universo essendo luogo
naturale per l’incarnazione di Dio, e diventa un semplice corpo celeste in una
infinita rotazione senza fine ultimo attorno ad una palla infuocata insieme ad un
numero infinito di altri corpi celesti. Tutto diventa relativo. Lo spazio è permeato
da disordine e caos.

In sintesi, oggi consideriamo «scientifico» ciò che ha un carattere cibeliano. Al


contrario, le teorie non cibeliane, come quelle che ad esempio incentrate
sull’esistenza dei luoghi naturali, non sono ritenute scientifiche ma piuttosto
mitologiche. Ciò è il risultato del cambiamento di Logos occorso con l’ingresso nella
Modernità. Tuttavia, tale mutamento non è stato immediato. Nel costruire la
nuova visione scientifica del mondo moderno, il Logos di Cibele si è appropriato di
alcuni aspetti appartenenti al razionalismo apollineo, alla logica o alla dialettica
dionisiaca. Ha avuto cioè luogo un processo di assoggettamento da parte del Logos
di Cibele di temi (logica, filosofia, ecc.) sviluppati dal precedente Logos apollineo, i
quali sono stati posti sotto il suo dominio. Ciò ha generato una cultura post-
apollinea piuttosto diversa dalle culture pre-apollinee di Lepenski Vir, di Vinča, di
Çatalhöyük. La Modernità presenta la stessa struttura civilizzazionale e lo stesso
Logos della civiltà della Grande Madre, ma mentre quest’ultima è pre-apollinea, la
Modernità è post-apollinea.

4. La politica moderna

La vittoria del Logos di Cibele si riflette anche nella politica. La distruzione


dell’Impero è l’essenza della politica moderna, e questo non deve sorprenderci
dacché l’Impero, come abbiamo visto nella precedente lezione, costituiva
l’organizzazione normativa dello spazio politico cristiano, sia nel contesto bizantino
che in quello cattolico occidentale. L’attacco all’Impero è un attacco alla Tradizione,
e ciò avviene attraverso i concetti di Stato moderno e di nazione.

All’idea imperiale succede una visione atomistica, con lo Stato nazionale come
atomo sociopolitico privo di qualsiasi fine. Lo Stato moderno si distingue
dall’Impero precisamente per questo: esso è privo di una causa finale, nega la
missione catecontica e la sacralità dell’Impero. Lo Stato moderno, secondo le
definizioni di Jean Bodin o Thomas Hobbes, viene creato dal basso con un contratto
sociale; sicché esso non è il riflesso di un paradigma celeste con una ragione finale,
ma una costruzione che procede dal basso con unicamente una causa anteriore
nella forma del contratto sociale stipulato dagli individui. Ma lo Stato moderno non
è solo rivolto contro la missione imperiale; esso è di natura secolare, per cui nega
qualsiasi senso religioso alla costruzione politica stessa. Tollera la presenza della
Chiesa (cattolica, protestante, ortodossa) ma separandola dalla sfera politica. Ci
troviamo pertanto difronte ad una concezione completamente differente della
politica. È rivelatore che in Hobbes lo Stato venga rappresentato simbolicamente
dal «Leviatano». Lo Stato moderno è il serpente, il drago emerso dal basso al fine
di distruggere tutto ciò che è sacro. Ed esso appare precisamente in epoca
rinascimentale, insieme alla visione scientifica moderna. Lo Stato nazionale
moderno è in definitiva anticristiano, antitradizionale, antieuropeo, antiapollineo e
antidionisiaco. In breve, rappresenta una costruzione puramente titanica.

Anche la nazione è un concetto che nella sua accezione moderna appare nel
Rinascimento. Essa designa la popolazione che vive all’interno dello Stato
nazionale, cioè la comunità dei cittadini, degli individui che hanno stipulato il
contatto sociale, e che potrebbero ridefinire la nazione stessa stipulandone uno
nuovo e diverso. Ad esempio, i cittadini del Belgio potrebbero realizzare ad un
certo punto di non voler più vivere nel Belgio e di volere al suo posto uno Stato
fiammingo e uno vallone; essi ne avrebbero tutto il diritto, poiché lo Stato belga
non è il riflesso di un’istanza trascendente ma il risultato di un contratto sociale
che, come è stato concluso, così può essere emendato o sciolto. Sicché la nazione
in questo contesto costituisce un qualcosa di assolutamente artificiale.

Tutto ciò fa parte di una concezione puramente immanente della politica. E


sebbene la struttura verticale dello Stato sia stata in un certo senso mutuata dalla
tradizione indoeuropea premoderna, in realtà sin dall’inizio essa va a costituire un
nuovo tipo di gerarchia titanica e burocratica, caratterizzata da una nuova figura
dominante.

Nello Stato moderno la figura del sacerdote è assente, questo è chiaro. Il


secolarismo teorizza la totale estromissione dei sacerdoti dal governo, relegandoli
ad un ruolo esclusivamente culturale – e via via sempre più marginale, essendo la
marginalizzazione della Chiesa un altro processo insito nella politica moderna.
Anche i guerrieri, che nella struttura sociale tradizionale costituiscono
l’aristocrazia, vengono marginalizzati. Il loro status diventa quello di «mercenari» al
servizio dello Stato. Essi vengono spossessati dell’arma, cioè del simbolo per
eccellenza della classe guerriera: le armi vengono ora concesse dallo Stato, e
quando quest’ultimo decide che un guerriero lo ha servito a sufficienza, lo congeda
e se le riprende. Con lo sviluppo delle armi di Stato, questo processo di
marginalizzazione e di «mercenarizzazione» della classe guerriera diventa sempre
più evidente – un cittadino può forse detenere privatamente un’arma antica come
la spada, ma non può possedere un cannone o un carro armato! E, se non si
possiede la propria arma, non si è più un guerriero autonomo ma solo un
mercenario al servizio dello Stato, che combatte con un equipaggiamento fornito
da quest’ultimo ed è sottoposto alle sue decisioni burocratiche.
Ma se sia la casta sacerdotale che quella aristocratica guerriera vengono
progressivamente marginalizzate ed estromesse, qual è la figura dominante nella
società moderna? A chi sono demandate le decisioni in seno ai sistemi politici
moderni? Qui si fa largo una nuova figura: quella del borghese, che dà vita al
cosiddetto sistema borghese-capitalista. Si tratta di una figura normativa nella
Modernità, che andremo ora ad analizzare.

È comunemente accettato che la figura del borghese appartenga al terzo Stato (in
francese: tiers état), corrispondente alla terza funzione duméziliana e chiamato
così perché prima della rivoluzione francese in ordine di importanza veniva dopo i
primi due, ossia clero e aristocrazia, corrispondenti alle prime due funzioni. Vi è qui
un malinteso. Il borghese, letteralmente «abitante del borgo», nasce tipicamente
come mercante che vive in città. Ma questa figura era assente nella società
nomade turanica ed era del tutto marginale nella tradizionale società indoeuropea
sedentarizzata, essendo la terza funzione assolta rispettivamente dai pastori
mandriani (nella società nomade) o dai contadini (nella società sedentarizzata),
come abbiamo visto nella terza e nella quarta lezione. La figura normativa del
borghese è dunque nuova. È sbagliato affermare che il borghese rappresenti la
terza funzione tradizionale che sopraffà la prima e la seconda, poiché il borghese
non è il tiers état in senso indoeuropeo.

Il mercante, il borghese, vivendo in città e occupandosi degli scambi commerciali,


del douce commerce (dolce commercio), non ha nulla a che fare né con il bestiame
– non è un allevatore – né con il lavoro della terra – non è un contadino –, ma è del
tutto evidente che egli non sia neppure un guerriero o un sacerdote. Si tratta
piuttosto di una figura frapposta tra quella del guerriero e quella del contadino, tra
aristocrazia e popolo. Una figura dal carattere indolente, che rifugge dal lavoro
produttivo, e vile, incapace a differenza del guerriero di affrontare la morte. Una
figura, potremmo dire, corrispondente a quella di un contadino accidioso o di un
guerriero codardo. Ciò lo rende completamente innaturale: il borghese è il
prodotto di una perversione in relazione alla nostra visione tradizionale, il frutto di
una malattia sociologica. Nella nostra logica tradizionale cristiana e indoeuropea
non c’è spazio per lui, poiché non è un produttore né un guerriero o un sacerdote.
Il mercante non trova posto nella tradizione indoeuropea, la sua esistenza è
confinata ai margini della società come facilitatore per quanto concerne alcuni
aspetti tecnici. Ma non ha mai costituito una classe o una funzione, non ha mai
posseduto una propria mitologia, una propria etica e una propria tradizione.
Questa figura nasce come classe artificiale o meglio come sottoclasse dedita a
servire la classe guerriera nelle città europee – fondate dai guerrieri inizialmente
come fortezze – e che cresce con la crescita del commercio cittadino. E diventa una
classe rilevante precisamente nel momento in cui inizia la vendetta di Cibele con
l’ingresso nella Modernità. A tal proposito, è interessante notare come il simbolo
tradizionale di Cibele presenti una corona turrita a forma di città; vi era dunque
qualcosa di borghese in questo simbolo sin dall’antichità. La maggioranza dei
borghesi è di provenienza contadina, ma si tratta di villani allontanatisi dal loro
luogo naturale. Quando essi lasciano per diverse ragioni il loro villaggio – perdono
il loro terreno o la possibilità di coltivarlo – giungono in città. Ma cosa diventa un
contadino, un paesano, in città? Nessuno. Un idiota nel senso greco del termine,
cioè una persona priva di identità collettiva. Un individuo atomizzato – non è un
caso che l’atomo sia alla base della nuova scienza materialistica rinascimentale.
Una figura che non trova più un suo posto nella società tradizionale, e che dunque
va a costituire una sottoclasse. Una sottoclasse borghese composta da esseri
umani malati, innaturali, anti-normali, semanticamente idiotici poiché privi di una
relazione organica con un’identità collettiva, spogli di ogni qualità collettiva. La loro
è una identità costruita artificialmente.

Quando la borghesia cresce, inizia a definire la visione sociale normativa,


detronizzando le caste guerriera e sacerdotale ma anche distorcendo il terzo Stato.
Non dobbiamo dimenticare che la borghesia ha in odio i villani, i contadini che
assolvono la terza funzione tradizionale, e infatti li sfrutta con la speculazione. Il
mercante non lavora la terra, non alleva il bestiame né conquista bottini di guerra,
dunque è una figura totalmente improduttiva e parassitaria, che per sopravvivere
necessità di sfruttare le altre classi, e lo fa creando bolle speculative, alterando il
mercato, al fine di appropriarsi della produzione.

Una parte della borghesia proveniva da altri gruppi etnici tenuti ai margini nella
tradizionale società indoeuropea, non appartenenti ad alcuna corporazione
tradizionale, ma il grosso era di derivazione contadina. Questo non è casuale. E
ora, grazie alla Noomachìa, siamo in grado di svelare il mistero noologico che vi si
cela dietro. Chi erano infatti i contadini europei? Come abbiamo visto nella quarta
lezione, i componenti della terza funzione della società indoeuropea
sedentarizzata erano i membri della civiltà di Cibele posti sotto il controllo
dell’orizzonte indoeuropeo. Ora, con il loro distacco da questa struttura di
controllo che rappresentava la peculiare società cristiana feudale verticale, le loro
origini cibeliane possono finalmente riemergere. Ciò corrisponde alla liberazione
del livello più profondo dell’identità europea contadina. I paesani che giungono in
città sono i latori di archetipi arcaici appartenenti all’antico inconscio collettivo
cibeliano che viene rianimato precisamente nel momento in cui ha termine il
Medioevo.

5. Teorie politiche moderne

Tutte le teorie politiche elaborate nella tarda fase della Modernità sono
inestricabilmente connesse a questo sistema borghese.

La più importante glorificazione della figura del borghese viene fornita dal
liberalismo, la prima teoria politica moderna. Essa esalta l’idiota nel senso greco
del termine, cioè l’uomo spogliato da ogni forma di identità collettiva. Il liberalismo
è sin dall’inizio un «idiotismo».

Ma lo stesso può dirsi per il comunismo, seconda teoria politica moderna


incentrata sulla figura del proletario. Se il borghese è un idiota facoltoso, figura
basilare del liberalismo, il proletario è un idiota nullatenente. Entrambe sono
figure concettualmente moderne. Come il borghese, anche il proletario è un ex
contadino slegato dalla società tradizionale e giunto in città – la figura del
proletario recide i legami con la tradizione religiosa, fuoriesce dalla struttura
tradizionale trifunzionale per fare ingresso nella struttura artificiale commerciale e
industriale della moderna città borghese.

Il comunismo rappresenta fondamentalmente l’idea che i proletari debbano ad un


certo punto spodestare la borghesia. La classe artificiale degli idioti poveri, nella
visione comunista, dovrebbe in estrema sintesi sopraffare ad un certo punto la
classe artificiale degli idioti ricchi e ridistribuirne la ricchezza. È importante notare
come la proletarizzazione, cioè l’eradicazione del contadino dal suo luogo naturale,
fosse un processo positivo agli occhi dei comunisti. Questo è un punto
fondamentale. Marx ed Engels sottolineavano come non fosse sufficiente essere
anti-borghesi per essere comunisti, e che occorresse essere post-borghesi e non
pre-borghesi. Se leggiamo il Manifesto del Partito Comunista, noteremo come la
maggior parte del testo sia dedita a chiarire ciò che distingue i comunisti non solo
dalle correnti non-comuniste ma anche da quelle anti-borghesi. La critica nella
prima parte del Manifesto è difatti diretta contro la cosiddetta aristocrazia
anticapitalista di ispirazione feudale o clericale, anch’essa anti-borghese ma
intenta a restaurare una qualche tradizione pre-borghese. I comunisti affermano
che in relazione a questi ultimi, occorresse schierarsi dalla parte della borghesia e
del capitalismo al fine di distruggere ogni traccia della società tradizionale. Ciò che
li distingue dai liberali è che, a questo processo, fanno seguire il superamento dello
stesso sistema borghese attraverso la rivoluzione comunista; allora, il proletariato
prenderà il posto della borghesia come classe dominante. Dove sono in tutto ciò i
villani, i paesani, i contadini a cui è demandata la terza funzione nella struttura
tripartita tradizionale? Essi sono destinati a subire un processo – giudicato positivo,
ribadiamo – di proletarizzazione svincolandosi dalle strutture della società
tradizionale, riversandosi nelle città e trasformandosi in operai proletari che
lavorano nelle fabbriche moderne. Il villaggio dunque è destinato semplicemente
ad essere distrutto. Quest’ultimo è infatti il nemico tanto del comunismo quanto
del liberalismo, dacché entrambi hanno in odio il mondo rurale legato alla società
tradizionale, ritenendo centrale la città, crocevia dello sviluppo e del progresso.

La seconda teoria politica è pertanto permeata da una visione antitradizionale,


meccanicistica e materialistica, che la accomuna a quella liberale.

Veniamo alla terza teoria politica della Modernità: il nazionalismo. A dispetto di


quanto i patrioti potrebbero pensare, anche quest’ultima teoria politica ha un
carattere assolutamente antitradizionale dacché lo Stato moderno è una
costruzione artificiale borghese basata sulla distruzione dell’Impero e sul contratto
sociale, e la nazione intesa in senso moderno è anch’essa un concetto artificiale
della borghesia, non rappresentando la comunità organica trifunzionale ma l’unità
artificiale dei cittadini. La figura centrale nel nazionalismo è il cittadino sciovinista
ed egoista che abita la città. Per contro, così come nelle prime due teorie politiche,
i contadini, i villani, vengono considerati politicamente «subumani»: nello Stato
moderno, essi vengono trattati semplicemente come cittadini di seconda categoria
che vivono tra una città e l’altra, nonostante letteralmente non siano cittadini dal
momento che abitano nei villaggi rurali. Ciò significa che questa figura della società
tradizionale non trova posto neanche nella terza teoria politica, a riprova del suo
carattere antitradizionale. Il nazionalismo si basa infatti sull’esaltazione di un
concetto borghese – l’unità artificiale dei cittadini – con un’accentuazione non
tanto del libero commercio come nel caso del liberalismo quanto della difesa degli
interessi economici della nazione o della burocrazia statale.

In definitiva, all’inizio della Modernità assistiamo ad una scissione nella terza


funzione tra i contadini indoeuropei tradizionali e i sempre più numerosi ex
contadini che accorrono in città diventando cittadini borghesi, proletari o
sciovinisti. Una scissione propedeutica alla distruzione della società tradizionale e
che viene caldeggiata da tutte e tre le teorie politiche moderne – liberalismo,
comunismo, nazionalismo. Ecco perché esse hanno tutte una natura
assolutamente cibeliana.

6. Geosofia della Modernità

Passiamo ora ad una breve analisi geosofica della Modernità. La Modernità ha


inizio parzialmente in Italia e in Europa settentrionale, ma il più chiaro e nitido
esempio di società moderna ce lo fornisce la Gran Bretagna, dove la costruzione
della società borghese prende il suo avvio. Questo processo non è rivoluzionario
ma piuttosto evolutivo; in altri termini, non assistiamo ad una rivoluzione borghese
ma piuttosto ad una «evoluzione» in senso borghese della società, con
l’introduzione progressiva di elementi borghesi all’interno dello Stato – con il
teorico politico Hobbes, con Cromwell, con il protestantesimo, ecc. L’esecuzione di
Carlo I, primo monarca al mondo ad essere condannato a morte da un tribunale,
può essere simbolicamente considerata la detronizzazione del Logos indoeuorpeo.
Quanto al protestantesimo, ne abbiamo già discusso nelle precedenti lezioni
giudicandolo una forma di titanismo interna al Cristianesimo. Tutti questi elementi
– sviluppo della concezione borghese, regicidio, protestantesimo – si manifestano
nel contesto bipolare schizofrenico britannico, producendo un dramma interno tra
anglo-protestanti, latori della Modernità, e celti cattolici, schierati dal lato della
Tradizione. I celti in questo contesto sono stati gli ultimi difensori della società
sostanzialmente tradizionale dinanzi al modernismo cibeliano della società inglese.

Tale società inglese darà poi vita all’Impero britannico, in realtà un «impero anti-
imperiale». Per sviscerare meglio questo aspetto, sarà opportuno richiamare le
profezie del gigante dai piedi d’argilla e delle quattro bestie contenute nel libro di
Daniele (Antico Testamento). Nel settimo capitolo del suo libro, Daniele ha in sogno
quattro bestie, rappresentazione simbolica di quattro imperi che sorgeranno
cronologicamente rispetto al suo tempo: il leone (Babilonia), l’orso (Medo-Persia), il
leopardo (Grecia), la bestia terribile con dieci corna non incoronate (Roma). Questa
immagine dei quattro imperi possiamo porla in parallelo alla visione del gigante
quadripartito presente nel secondo capitolo, in cui il re Nabucodònosor ha in
sogno di un gigante con «la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre
e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte di creta»
(Daniele 2,32-33). In entrambe queste visioni possiamo vedere rappresentata una
transizione del Catéchon. Il quarto elemento, il ferro, rappresenta l’Impero romano
(incluse le sue continuazioni nella forma dell’Impero bizantino e la Terza Roma),
l’ultimo dei quattro imperi, il più radicale ma comunque tradizionale, quello in cui
nacque Cristo. Ad un certo punto della visione però, una pietra si stacca dal monte
«non per mano dell’uomo» e va battere contro i piedi della statua, i quali,
costituendo la parte più fragile del gigante dato che argilla e ferro non si
amalgamano, vengono frantumati; allora, l’intero gigante crolla. Daniele spiega al
re Nabucodònosor il significato della pietra che si stacca e «stritola il ferro, il
bronzo, l’argilla, l’argento e l’oro» nei termini seguenti: «al tempo di questi re, il Dio
del cielo farà sorgere un regno che non sarà mai distrutto e non sarà trasmesso ad
altro popolo: stritolerà e annienterà tutti gli altri regni, mentre esso durerà per
sempre» (Daniele 2,44). Daniele profetizza dunque l’avvento di un quinto regno,
fatto sorgere da Dio e che avrebbe distrutto i precedenti e sarebbe durato per
sempre. Sulla base di questa profezia, nel Seicento nasce un movimento religioso
millenarista inglese detto dei Quinto-monarchisti che sarà attivo per tutto il
periodo del Commonwealth di Cromwell (1599-1658); questa setta veniva
denominata in tal modo poiché vedeva in Oliver Cromwell colui che stava aprendo
la strada precisamente al quinto regno. Sicché i quinto-monarchisti appoggiarono
Oliver Cromwell, con la speranza che egli avrebbe riformato la società corrotta e
fatto così sorgere la Quinta Monarchia. In realtà l’Impero britannico, lungi
dall’essere il quinto impero della profezia di Daniele, il regno eterno di Cristo, ha
rappresentato l’anti-impero. Nella visione di Daniele, lo si potrebbe piuttosto
paragonare al quinto elemento della statua, all’argilla che conferisce fragilità al
gigante e a causa della quale esso cadrà: un elemento simbolicamente
anticristiano e post-tradizionale.

L’Impero britannico è stato il primo impero moderno, un impero anti-tradizionale,


protestante, fondato su una concezione borghese, liberale e per certi versi anche
nazionalista – in esso possiamo rintracciare sia la prima che la terza teoria politica
(non la seconda). Una delle sue principali fonti filosofiche è stata la scuola scozzese
del Common sense di Thomas Reid e Adam Ferguson basata sull’«evidenza del
senso comune». Questa ha rappresentato l’assolutizzazione del misero individuo,
la glorificazione della mente idiotica dagli interessi limitati priva di grandi
rivelazioni. I filosofi scozzesi del Common sense sono inoltre considerati i padri
filosofici della società nordamericana, avendo contribuito al pragmatismo
americano.

Parallelamente all’evoluzione borghese occorsa in Inghilterra, in Francia stava da


tempo fermentando una rivoluzione borghese, culminata nella rivoluzione
francese. Una rivoluzione apertamente anticristiana, antimonarchica, prodromica
all’ideale assolutamente immanente, materialistico e anticristiano – non in senso
protestante ma ateistico – del socialismo. In quel periodo, in particolar modo in
Francia, si stava sviluppando una nuova cultura, l’Illuminismo. Fondata su
razionalismo, egualitarismo e contrattualismo, la teoria dei Lumi ha rappresentato
il culmine di tutta questa Modernità.

Abbiamo così visto come Francia e Inghilterra siano state le prime promotrici della
Modernità; per contro, il mondo latino e l’Impero austriaco gli hanno opposto
resistenza, insieme all’Impero ottomano – anch’esso caratterizzato da una società
di natura tradizionale – e alla Russia, che vi ha resistito più di tutti. Ma, con la
caduta degli imperi tradizionali e l’avvento degli Stati-nazione, lo spirito moderno
dilagherà ovunque – la creazione del moderno Stato russo è la fine della Russia!

7. Modernità come ciclo post-catecontico

La Modernità inizia con la vendetta di Cibele, e tutta la storia della Modernità


rappresenta il consolidamento di questo schema noologico, con la progressiva
purificazione dalle tracce della precedente società tradizionale indoeuropea – col
passare del tempo, la civiltà moderna diventa sempre più cibeliana, cosicché ciò
che ad esempio trent’anni fa veniva considerato progressista oggi è ritenuto
conservatore. La storia della Modernità è la storia della progressiva costruzione di
Babele, un tipo di civiltà in realtà noologicamente molto antico. Un processo che
oggi sta raggiungendo il suo apice. Il femminismo moderno sviluppatosi in ambito
politico, educativo, sociale, non rappresenta l’inizio di qualcosa ma piuttosto il
compimento di questo processo, al termine del quale Cibele si rivelerà
completamente. Le manifestazioni neofemministe di oggi, con Madonna seguita da
centinaia di migliaia di donne che marciano per New York contro Trump ad
esempio, rappresentano l’invocazione della castrazione della figura maschile, un
simbolico sacrificio di Trump in quanto simbolo del patriarcato. Anche
l’accettazione giuridica dell’omosessualità è parte di questo processo cibeliano; in
effetti, l’omosessualità era parte integrante dei culti tipicamente cibeliani –
omosessuali partecipavano ai cortei in nome di Cibele in qualità di suoi particolari
sacerdoti.
Tutti i processi che hanno preso il via con l’avvento della Modernità abbiano come
finalità l’emersione della pura immagine di Cibele. La Modernità è metafisicamente
femminista poiché materialistica, orientata contro il tipo eroico e patriarcale
presente nella cultura indoeuropea. Anche il borghese è una figura femminista
poiché non è un guerriero né un produttore ma un parassita, rappresenta la forma
peggiore della natura femminile, una femminilità non indoeuropea né cristiana ma
cibeliana. A tal proposito, vorrei citare un aneddoto sociologico interessante. Per
Werner Sombart la genesi del capitalismo coincide con l’emergere della maîtresse,
un nuovo tipo umano parassitario e dispendioso che, richiedendo differentemente
dalla figura della moglie una esagerata disponibilità finanziaria, spingeva gli uomini
a partecipare ai processi speculativi capitalistici; secondo Sombart, dunque, la
maîtresse ha costituito una delle molle dello sviluppo della società capitalistica.

Riassumendo, oggi stiamo vivendo nel mondo di Cibele, nel regno della Grande
Madre. Il momento della Noomachìa che stiamo attraversando è il momento della
vendetta dell’orizzonte esistenziale preindoeuropeo, che riemerge con la comparsa
artificiale della borghesia, con la distruzione degli imperi tradizionali che vengono
sostituiti da simulacri cibeliani nella forma degli Stati nazionali moderni, e con lo
sviluppo organico della visione del mondo scientifica moderna.

L’immagine della Modernità che abbiamo tracciato in questa breve disamina


noologica corrisponde nella visione cristiana alla fine del Catéchon. Il Catéchon è
caduto! Il Catéchon è stato il Re, lo Zar, l’Imperatore che ha difeso la società
tradizionale e che è stato sconfitto dal sistema politico moderno caratterizzato da
democrazia, Stato nazionale, oggi globalizzazione. Ciò ha comportato la fine della
società tradizionale e la progressiva scomparsa delle tre funzioni che la
costituivano – attualmente in Europa siamo tutti cittadini borghesi. Possiamo
dunque affermare di stare vivendo un ciclo post-catecontico, in cui Satana è stato
liberato e le tendenze del sottosuolo hanno fatto irruzione nel mondo.
8. Conclusione

Ora siamo in grado di vedere con chiarezza come la Noologia, che inizialmente
sembrava forse eccessivamente astratta e metafisica, abbia in realtà a che fare con
la realtà viva in cui siamo immersi. Noi siamo parte di questa titanomachìa, di
questo conflitto, di questo scontro tra Logoi, e non possiamo chiamarcene fuori in
alcun modo dacché siamo definiti nel modo più assoluto da questo momento della
Noomachìa.

In conclusione, noi ci raffrontiamo alla realtà attraverso una sua lettura, un


paradigma, che oggi è definito dal Logos di Cibele. Ma non è sempre stato così. La
Noologia viene in nostro soccorso mostrandoci l’esistenza altri due altri Logoi e,
inserendo la Modernità nel contesto della Noomachìa, ci permette di relativizzarla.
La Geosofia ci permette inoltre di collocarla nello spazio. Noologia e Geosofia ci
forniscono in sostanza la chiave per interpretare il mondo in cui viviamo.
La penultima lezione [1] di questo corso sarà interamente dedicata al particolare Logos
serbo.

Anzitutto, va chiarito un punto fondamentale: un Dasein serbo o orizzonte esistenziale


serbo esiste di certo, poiché esiste un popolo serbo. Lo stesso non può dirsi per il Logos
serbo né per la filosofia serba. Certo, esistono dei brillanti filosofi serbi, come pure ve ne
sono in Russia, ma una compiuta filosofia serba non esiste ancora. Essa è sempre possibile,
poiché esiste il Dasein serbo, ma questo non è stato ancora compiutamente messo nella
forma del Logos, e farlo non è cosa facile, sebbene vi sia un terreno filosofico, storico,
esistenziale propizio.

Possiamo comunque effettuare una breve analisi preliminare di cosa sia il Dasein serbo.

1. Orizzonte esistenziale serbo


Il primo episodio della sequenza istoriale serba ha inizio con l’arrivo del cosiddetto
«Arconte sconosciuto» a Bisanzio dalla Serbia Bianca, localizzata da qualche parte
nell’Europa nordorientale e, secondo una delle teorie, identificabile con la Lusazia
o Sorabia abitata dai sorbi, una delle tribù polabe.

La terra di origine dei Serbi non è dunque corrispondente ai Balcani ma si trova più
a nord. Allo stesso tempo, si pone la questione della patria originaria, dell’Urheimat
degli Slavi, la quale è comunemente accettato fosse situata a nord dei Carpazi.
Quest’ultima non costituisce la diretta terra d’origine serba, ma la patria originaria
abitata dai protoslavi, che vivevano a nord dei Carpazi, nello spazio dell’attuale
Ucraina orientale. A seguito dell’espansione slava, una parte degli slavi migrò a
nord, sul Baltico, e tra questi vi erano gli Slavi Polabi, i quali dopo il V e VI secolo
rappresentarono la popolazione dominante sulle coste baltiche. Si presume che i
progenitori dei Serbi vadano rintracciati in una tra queste tribù polabe, nello
specifico tra i Ljutici, i Bodrici e i Lusaziani. Gli avi dei Serbi pertanto vivevano a
ovest rispetto alle altre tribù polabe. Da quel punto, successivamente, essi
migrarono nei Balcani orientali, e questo territorio fu loro riconosciuto e garantito
dall’impero bizantino, nel suo intento di difendere i confini dell’impero dagli Àvari.

Questa è in sintesi la storia convenzionale delle origini.

1. Tradizione sarmatica
Il territorio abitato dagli Slavi Polabi era denominato Sarmazia ed era dominato
dalle tribù sarmatiche. Gli slavi erano dunque strettamente connessi con il popolo
iranico nomade dei Sarmati, da cui discese sostanzialmente la classe dominante
della società est-europea. Ritroviamo infatti tracce dei Sarmati alle radici
dell’aristocrazia polacca e baltica. Quando studiamo il tipo di società degli Slavi
Polabi, scopriamo che essi erano turanici nell’accezione che abbiamo dato a questo
termine nelle precedenti lezioni. Nello specifico, essi presentavano un carattere
fortemente bellicoso. Certo, conducevano attività agricole, ma l’agricoltura non era
particolarmente sviluppata; la loro principale caratteristica era un’attitudine
guerriera, unita ad uno spiccato senso di indipendenza che li rendeva intolleranti
nei confronti di qualsiasi dominazione esterna. Essi parlavano una lingua slava, ma
caratterizzata da molti elementi sarmatici. Non possiamo dire nulla di certo
sull’equilibrio che si venne a creare tra aristocrazia sarmatica e popolazione slava,
ma gli Slavi Polabi erano di tipo sarmatico, con un’importante presenza
dell’aristocrazia guerriera di tipo turanico.

I primi Serbi che arrivarono nei Balcani erano portatori di questo spirito sarmatico
e ciò ha influito sull’identità serba. Il peculiare carattere serbo si è formato a
partire dal tipo sarmatico e polabico, ed è per questo che in origine i serbi erano
considerati dei guerrieri. Quando essi invasero i Balcani, trovarono però una
società preesistente: la società tracica caratterizzata dalla commistione tra la
società indoeuropea trifunzionale e i resti del mondo agricolo preindoeuropeo
appartenente alla Grande Madre. Sicché i primi serbi giunti nei Balcani
assimilarono questo orizzonte esistenziale preesistente ed è con il completamento
della slavizzazione delle popolazioni traciche (e probabilmente anche pre-traciche)
che è infine emerso il particolare popolo serbo, un popolo che si differenziava dal
popolo bulgaro o macedone proprio per questa spiccata attitudine guerriera, che
risultava prevalente rispetto agli aspetti agricoli, aventi invece inizialmente un
ruolo totalmente secondario. Abbiamo pertanto a che fare con una società
prevalentemente aristocratica afferente alla tradizione iranica nomade e che aveva
inglobato le precedenti popolazioni dei Balcani.

La tradizione guerriera di tipo sarmatico – una tradizione per inciso molto stabile
nel tempo, che possiamo rintracciare finanche nel contesto del ventesimo secolo –
costituisce un punto di partenza molto importante per studiare l’identità è la
psicologia serba.

Un orizzonte esistenziale del genere ha reso però difficile la costruzione di uno


Stato, poiché ogni famiglia aristocratica guerriera era restia a sottomettersi
all’autorità di un’altra. Potremmo definire questo uno stato di «anarchia
aristocratica», e anche questo ha costituito un tratto costante dell’orizzonte
esistenziale serbo nel corso della storia.

2. L’influenza bizantina
Il successivo elemento che ha dato forma all’identità serba è stata l’influenza della
cultura bizantina, dal momento che i serbi vivendo sotto la protezione di Bisanzio
vennero cristianizzati, abbracciando il Cristianesimo nella sua forma orientale.
Questo fattore – la tradizione bizantina ortodossa, che come abbiamo visto nelle
precedenti lezioni non è riducibile unicamente al culto ma concerne ambiti politici,
culturali e sociali – ha avuto una notevole influenza sulla cultura e l’identità della
Serbia, e ha presentato una certa continuità nella sua storia, essendo chiaramente
visibile dalla Serbia balcanica delle origini fino ai giorni nostri. La forma di
Cristianesimo che abbracciano i serbi è però slavica – la cristianizzazione avviene
nel contesto della Grande Moravia con i santi Cirillo e Metodio inviati
dall’imperatore bizantino Michele III intorno all’863, i quali tradussero i testi sacri in
antico slavo ecclesiastico, e ciò costituisce la più antica testimonianza della
letteratura slava.

La Cristianità popolare slava, serba, è «inclusiva» nei confronti delle tradizioni


precristiane, le integra in sé. Figure e festività sacre vengono inglobate e
trasformate. Figure come San Giorgio, il profeta Elia, San Nicola, hanno
rappresentato nuovi nomi, nuovi archetipi per figure principalmente patriarcali
appartenenti alla tradizione precristiana indoeuropea. Sicché, per comprendere le
tradizioni precristiane serbe, occorre analizzare le tradizioni cristiane serbe; una
corretta e approfondita analisi di figure e festività cristiane serbe può dirci molto di
più ad esempio di una ricostruzione artificiale postmoderna del paganesimo,
proprio a causa all’inclusività della Cristianità serba.

Ma cosa nello specifico è stato incluso? Abbiamo già parlato del livello
corrispondente alla tradizione indoeuropea patriarcale legato all’orizzonte
esistenziale pre-serbo tracico, rinforzato dalla discesa dei primi serbi portatori
della medesima struttura verticale – struttura peraltro simile a quella che i serbi
incontrano entrando in contatto con la tradizione greco-bizantina. Serbia
precristiana, Tracia, Bisanzio, costituiscono una sorta di livello indoeuropeo. Ma
accanto ad esso, vi è un altro livello costituito dalla tradizione paleo-europea,
dall’orizzonte preindoeuropeo che qui è estremamente potente – essendo i Balcani
la terra madre della civiltà matriarcale –, molto più che nel nord Europa, nella
Serbia Bianca, dove sono presenti meno elementi di tipo matriarcale, provenienti
soprattutto dalla cultura di Cucuteni-Trypillian. L’identità serba di recente
creazione ha dunque integrato anche una dimensione matriarcale. Non possiamo
dire con certezza quanto profonda quest’influenza matriarcale sia stata, ma essa vi
è stata di certo e si è riflessa in alcune tradizioni contadine, in certe pratiche
femminili di lavorazione della terra, in storie e canti folkloristici, e così via, che
dobbiamo identificare con maggior precisione se vogliamo avere un’immagine
concreta del livello più profondo dell’identità serba.

Questa che abbiamo appena effettuato costituisce un’analisi preliminare del


Dasein serbo.

3. La dinastia medievale dei Nemanjić


Questo Dasein si rinnova, potremmo dire, con la dinastia Nemanjić. I serbi vengono
cristianizzati e integrati nella società cristiana, come abbiamo poc’anzi accennato,
tramite la dominazione bizantina ma ciò avviene nel contesto slavo, il quale si
sviluppa pienamente con la dinastia Nemanjić.

Con i Nemanjić nell’XI secolo viene creato il Regno di Serbia, un regno nel solco
bizantino – basato dunque sulla «sinfonia dei poteri», l’alleanza tra Imperatore e
Patriarca – ma che riproduce allo stesso tempo il modello bulgaro – i bulgari sono
stati i primi ad affermare un regno slavo e una specifica e autonoma chiesa. La
Grande Moravia, entrata in declino all’inizio dell’VIII secolo, era ormai caduta, e il
tempo della Russia non era ancora giunto; così, i due pretendenti alla creazione di
una qualche indipendente Cristianità slava in senso bizantino erano gli imperi
bulgari (primo e secondo) e il Regno di Serbia, con i Nemanjić e san Sava. La
creazione del Regno di Serbia e del Patriarcato serbo di Peć ha rappresentato
l’accettazione della missione catecontica da parte dei serbi. La prima
rivendicazione ad essere Catéchon è dei bulgari, con la costituzione del Primo
Impero Bulgaro; dopo costoro, sono i Nemanjić a rivendicarlo con la costituzione
dello Stato serbo, atta a ereditare il patrimonio bizantino e a trasferire la missione
universale del Catéchon dell’Impero bizantino, la missione ortodossa bizantina, al
mondo slavo. Con i Nemanjić vi è l’ascesa della tradizione catecontica serba basata
sulla sinfonia tra il Re di Serbia e il Patriarca serbo. Ciò ha influito sull’identità
serba in tutto il periodo successivo.

Con l’elevazione di san Sava sul soglio vescovile, venne a formarsi la Chiesa
ortodossa serba distaccandosi da quella bulgara. Fece così il suo ingresso in Serbia
la tradizione monacale legata al Monte Athos e tutta la tradizione metafisica
dell’ortodossia mistica spirituale di cui san Sava era il latore venne posta al centro
dell’«illuminazione serba» – San Sava è stato il fondatore dell’autocefala Chiesa
ortodossa serba e per questo motivo è detto «ὁ φωστὴρ τῆς Σερβίας»
(l’illuminatore della Serbia). Parallelamente, venne a costituirsi il Regno di Serbia,
già sotto i Nemanjić considerato un proto-impero che faceva sua la missione
catecontica universale del Re e poi dello Zar e, per estensione, del popolo – Zar,
Chiesa e popolo formano un’unità catecontica. La Chiesa ortodossa serba e il
concetto di sacro Regno di Serbia come Catéchon rappresentano l’organizzazione
della prima e oserei dire più grande forma di Logos serbo. Con i Nemanjić, san
Sava, il Patriarcato di Peć, viene fondato il Logos Serbo. Questo periodo è stato il
punto più alto della storia di Serbia. Nel Regno dei Nemanjić, nella tradizione
religiosa con San Sava, nel popolo serbo come popolo catecontico con la missione
di lottare contro le tenebre insieme allo Zar, al Re, il Dasein immanente serbo erige
il proprio Logos. Niente di comparabile a ciò esiste nella storia serba.

I serbi essenzialmente sono portatori di questo Logos serbo formatosi e


manifestatosi esplicitamente sin dall’inizio della dinastia Nemanjić. La
reclamazione di serbi e bulgari della missione escatologica nella «guerra della
luce» contro le forze delle tenebre, la rivendicazione cioè ad essere popoli slavi
catecontici con la creazione di sistemi politici fondati su questa concezione ma
indipendenti da Bisanzio, rappresentano la prefigurazione di qualcosa che poi si è
ripetuto nella Grande Russia, nella Terza Roma.

Il culmine di questo processo si raggiunge nel XIV secolo con l’Impero serbo (1346-
1371) fondato da Dušan il Forte. L’Imperatore Dušan il Forte raddoppiò l’estensione
del suo precedente regno arrivando a controllare sostanzialmente l’intero
territorio dei Balcani e la maggior parte della Greca, incluso il Monte Athos. E
sebbene il suo impero non sia durato a lungo, è durante l’epoca di Dušan il Forte
che si realizza concretamente questa tradizione messianica. Sotto Dušan il Forte lo
sviluppo del Logos serbo iniziato con la dinastia Nemanjić raggiunge il suo apice. Il
Logos serbo, formatosi dal punto di vista intellettuale, spirituale e religioso
all’inizio della dinastia Nemanjić, raggiunge la sua piena manifestazione al tempo
di Dušan il Forte.

In sostanza, quello della dinastia Nemanjić è il periodo in cui nasce, si sviluppa e


arriva alla sua maturazione il Logos serbo. I veri serbi vivono in questo periodo.
Essere serbo significa appartenere agli archetipi sviluppati in questo periodo, allo
stesso modo in cui per noi russi essere davvero russi significa appartenere al
periodo di Ivan il Terribile, che ha rappresentato l’apice del nostro sviluppo storico,
spirituale, politico e culturale.

Se si volesse collocare nel tempo e nello spazio il Logos serbo, si potrebbe dunque
affermare che esso sia sorto nei territori costituenti il Regno di Serbia e poi
dell’Impero serbo durante la dinastia Nemanjić. Tutto ciò che è esistito prima dei
Nemanjić ha rappresentato una sorta di introduzione, di prolegomeno al Logos
serbo. Tutto ciò che è esistito dopo Dušan il Forte ne ha costituito una
continuazione, una sorta di eco in cui è risuonato.

Dopo Dušan il Forte, assistiamo ad un rapido declino, parallelamente alla crescita


dell’Impero ottomano. Il successivo punto di snodo nella storia serba è la Battaglia
della Piana dei Merli tra l’esercito cristiano capeggiato dal Re Lazzaro Hrebeljanović
e l’esercito ottomano guidato dal sultano Murad I, dove sarà deciso il futuro del
Catéchon. Vi è una canzone in merito a questa battaglia che è rivelatrice. Re
Lazzaro si trova a scegliere tra un regno terreno e un regno celeste. La canzone
recita così:

«Quale regno debbo mai scegliere?


Debbo scegliere un regno celeste?
Debbo scegliere un regno terreno?
Se scelgo un regno terreno,
Un regno terreno dura solo un tempo breve,
Un regno celeste invece durerà per secoli e in eterno.» [2]

In entrambi i casi, il re e l’esercito serbo dovranno lottare e difendere il Logos


serbo. Scegliere il regno celeste comporta perdere la battaglia terrena ma vincere
la guerra della luce. Al contrario, scegliere il regno terreno significa vincere la
battaglia terrena ma perdere la guerra della luce. In ciò possiamo vedere un
riflesso della tradizione iranica. Nel ciclo iranico l’esercito della luce è debole, in un
certo senso limitato, perché non può tradire la sua natura sacra accettando le armi
delle tenebre; per contro Satana non ha regole, può facilmente travalicare i limiti,
la sua è una forza titanica caratterizzata da hybris, mancanza di limiti. L’esercito
della luce ha invece i suoi limiti e non può vincere ad ogni costo; esso deve
rimanere con Cristo fino alla fine. Così, vi è un tempo nel ciclo iranico in cui
l’esercito della luce dovrà soccombere dinanzi alle soverchianti forze oscure e
questo è prodromico alla vittoria finale della luce. Analogamente, Re Lazzaro
sceglierà il regno celeste: egli accetterà di andare a combattere contro gli ottomani
e accetterà la sconfitta terrena, il sacrificio di sé e del suo popolo per il regno
celeste.

Quella di Re Lazzaro è una decisione dell’eroe della luce e rappresenta la


«trascendentizzazione» del Regno e dell’Impero dei Nemanjić; viene conferita una
dimensione post-umana, post mortem, al Logos serbo.

La battaglia fu catastrofica. La Serbia perse gran parte della sua élite politica e
militare e, dopo diverse altre battaglie minori, con l’annessione del Regno di Serbia
da parte degli ottomani, la sua indipendenza. Ma in un certo senso la battaglia
della Piana dei Merli ha rappresentato al contempo una grande vittoria, in cui si
riflette pienamente la tradizionale etica sarmatica: cadere in battaglia al fine di
diventare immortale, morire al fine di vincere. La principale lezione di questa
battaglia è che è preferibile essere sconfitti con Cristo che vincere con Satana. E
quando leggiamo la canzone di questa battaglia, vediamo la glorificazione non solo
dell’umiltà ma anche del grande coraggio dei serbi. Essi hanno combattuto fino alla
fine, distrutto tutto ciò che hanno potuto, incluso il capo dell’esercito ottomano. La
decisione presa da Re Lazzaro è stata una scelta del tutto cristiana, sarmatica,
indoeuropea, il compimento della missione catecontica. La battaglia della Piana dei
Merli è stata eroica. Essa ha rappresentato la lotta contro l’Anticristo, conclusasi
con l’«assunzione» della Serbia stessa, dalla Serbia terrena alla Serbia celeste, e
con la sconfitta terrena dinanzi all’Anticristo. Dopodiché, è giunto l’Inferno.

4. L’Impero ottomano
Il successivo periodo della storia serba può dunque essere definito infernale nel
vero senso della parola. L’essenza di questo periodo è stata la preservazione
dell’identità serba agli inferi. I serbi non hanno tradito la loro identità
convertendosi all’Islam, accettando il dominio della potenza ottomana dominante,
ma hanno conservato soffrendo la loro profonda identità cristiana, ortodossa,
slavica forgiatasi durante la dinastia Nemanjić.

La storia serba successiva alla sconfitta di Re Lazzaro è una storia di una estrema
sofferenza in un inferno storico durato secoli. Ma il punto fondamentale è che
questa drammatica sofferenza non è stata priva di senso. Al contrario, essa ha
rappresentato un’altra prova divina, un nuovo test escatologico per il popolo serbo
che ha posto le basi per la susseguente rinascita. È stato un processo di morte
volto alla resurrezione del Logos serbo.

5. Il periodo dell’indipendenza
Il successivo momento nella storia serba è precisamente quello in cui si presenta
l’opportunità di liberazione del popolo serbo dal giogo ottomano. Ciò ha costituito
una nuova sfida per il Logos serbo.

Una parte della tradizione serba arcaica che era imperiale, monarchica, ortodossa,
che conservava gli elementi del vero e profondo Logos serbo ed era in diretta
connessione con lo stesso Dasein serbo, ha continuato ad essere presente fino alla
fine del dominio ottomano e ha costituito una grande fonte di ispirazione per
personaggi come Karađorđe Petrović e Miloš Obrenović, a capo rispettivamente
della prima e della seconda rivolta serba contro i turchi. Precisamente in costoro si
è manifestato questo spirito, volto alla restaurazione del Regno di Serbia, della
Grande Serbia seguendo l’esempio dei Nemanjić, affinché il Logos serbo potesse
risorgere dopo il drammatico periodo di sofferenza sotto gli ottomani.

L’insurrezione del popolo serbo contro la dominazione ottomana iniziò nel 1804
con la prima rivolta serba (1804-1813) e si concluse nel 1817 con la liberazione della
Serbia centrale al termine della seconda rivolta serba (1815-1817). Questi eventi si
svilupparono però in un’epoca particolare: l’Era Moderna, dominata come abbiamo
visto nella precedente lezione dal Logos di Cibele. In Occidente era già pienamente
dominante la moderna visione del mondo e in essa non vi era posto per un tipo di
Logos apollineo come quello serbo, caratterizzato dai valori della tradizione
cristiana ortodossa, dai valori eroici guerrieri, dalle idee di impero, Czar, e così via.
Tutto ciò era stato già discreditato e distrutto in Occidente. Ciò avrà delle
conseguenze anche in Serbia, come vedremo ora.

Le potenze occidentali, nel tentativo di usare a proprio vantaggio questa volontà


del popolo serbo di restaurare la propria identità al fine di distruggere l’Impero
ottomano – che era a sua volta di tipo tradizionale – oltreché l’Impero austriaco e di
bloccare l’espansione russa nei Balcani, organizzarono strutture massoniche in
Serbia ed educarono i nazionalisti serbi allo spirito repubblicano. In sostanza,
cercarono di penetrare in questo processo di liberazione al fine di affermare la loro
visione moderna – nazionalista (terza teoria politica), liberale (prima teoria
politica), e poi con Tito socialista (seconda teoria politica). Tutto ciò ha costituito
una rete che ha velato, soffocato l’identità serba, deviandone le energie,
impedendo il risveglio catecontico.

Sono diversi i Logoi che hanno preso parte al processo di liberazione serbo. Oltre
alla profonda identità catecontica risalente alla dinastia Nemanjić, al puro Logos
serbo, e alle influenze di un Logos russo ortodosso molto affine a quello serbo, con
lo stesso tipo di opposizione all’Occidente, abbiamo appena visto come vi fossero
influenze provenienti dall’Europa occidentale. Questa commistione, questo
sostrato culturale alla base del processo di liberazione serbo, ha generato un
fenomeno che io chiamo «archeomodernismo». Mentre in Europa occidentale
Modernità e Tradizione sono mutualmente escludentisi, e durante la storia recente
osserviamo una crescita di elementi moderni accompagnata da un progressivo
declino della Tradizione, nell’archeomodernismo Tradizione e Modernità, arcaismo
e modernismo, coesistono in un modo davvero malato e perverso. Ciò ha dato
luogo ad una società del tutto schizofrenica; qualcosa di simile a ciò che successe
in Russia dopo Pietro il Grande.

Dopo la fine dell’Impero ottomano, troviamo un Logos serbo archeomoderno,


schizofrenico, dove le legittime rivendicazioni a ripristinare il Logos serbo sono
mescolate ad un paradigma modernista – repubblicano, liberale, socialista o
nazionalista. La coesistenza di questi due Logoi – il Logos cibeliano della Modernità
e il Logos apollin-dionisiaco dell’identità serba forgiatasi sotto i Nemanjić – ha dato
luogo ad una contraddizione noologica che ha prodotto una società
archeomodernista malata.

La differenza tra la società occidentale e quella archeomodernista è precisamente


questa: mentre in Europa la Modernità fa il suo ingresso nella società seguendo
una logica aristotelica, per cui se un ambito presenta qualcosa di moderno non
può al contempo contenere elementi tradizionali – o Tradizione o Modernità o
monarchia o repubblica, o Chiesa o ateismo, ecc. –, nella società archeomodernista
al contrario ateismo e Chiesa, repubblica e regno, Tradizione e Modernità
coesistono in un modo davvero perverso, creando una doppia lettura
interpretativa. Tutto è duplice, ogni cosa viene interpretata al contempo secondo
due prospettive contraddittorie. Si tratta di una vera e propria patologia bipolare. È
ciò che abbiamo chiamato seguendo Gilbert Durand il «notturno mistico». Un
atteggiamento schizofrenico. Mentre in Europa occidentale vi è una chiara
personalità – o accetti la Modernità o accetti la Tradizione – la società serba (e
anche russa) presenta una personalità divisa, che le accetta entrambe – sia il Logos
serbo che il Logos moderno nella forma del liberalismo, del nazionalismo o del
comunismo. E ciò, senza averne la consapevolezza. Questo è un punto importante.
Non si tratta di una menzogna intenzionale ma inconsapevole – se nella menzogna
intenzionale conosciamo la verità ma la celiamo, nella menzogna inconsapevole
non consociamo la verità, non riusciamo a scorgerla, né ci interessa saperla.

Questo è l’archeomodernismo, ed è mia convinzione che, alla fine dell’Impero


ottomano e all’inizio dell’indipendenza della Serbia moderna, abbia avuto luogo
precisamente questa commistione malata – tra cetnici e comunisti, tra liberali e
tradizionalisti ortodossi, e così via.

6. La Jugoslavia
Alla fine della prima guerra mondiale, per la precisione il primo dicembre 1918, fu
fondato il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni. Nel 1929, con un colpo di
Stato, il re Alessandro I avocò a sé tutti i poteri e cambiò il nome del Paese in
Regno di Jugoslavia. La Jugoslavia presentava due letture contraddittorie; la
maggior parte dei serbi vi videro la restaurazione della Grande Serbia, ma allo
stesso tempo essa presentava una ideologia modernista e dominavano in essa
elementi borghesi, materialistici, commerciali, egoistici in senso liberale o
nazionalistico – qui è visibile pienamente la commistione archeomodernista che
caratterizzava la società jugoslava. E ogni polo, ogni componente della Jugoslavia
aveva una sua lettura della situazione – per i serbi essa rappresentava una vittoria,
verosimilmente per i cetnici radicali rappresentava il ritorno alla Rus, il
compimento della missione catecontica, mentre per altri ha rappresentato
semplicemente una convenzionale confederazione multi-nazionale organizzata per
ragioni puramente pragmatiche o materialistiche legate agli interessi della
borghesia.

Il Regno di Jugoslavia termina sostanzialmente con l’occupazione da parte della


Wehrmacht nel 1941. A Belgrado si insediò un governo filonazista che
amministrava un territorio limitato quasi alla sola Serbia, e che fu osteggiato sia
dai cetnici che dai partigiani di Tito. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il
futuro della Jugoslavia si decise nella lotta tra queste due fazioni – cetnici
monarchisti e partigiani comunisti. L’esito fu favorevole ai secondi. Con la sconfitta
del regime nazista da parte dei sovietici e l’avanzata dell’Armata Rossa, la seconda
teoria politica (comunismo) divenne dominante in tutta l’Europa orientale e anche
in Jugoslavia. La nuova Jugoslavia del dopoguerra, formalmente Repubblica
Socialista Federale di Jugoslavia, si è basata precisamente sulla seconda teoria
politica ma con un marxismo del tutto singolare adattato al concreto sviluppo della
società rurale serba caratterizzata da tradizioni arcaiche e con città parzialmente
modernizzate. Ciò ha rappresentato un nuovo tipo di archeomodernismo,
dominato dalle tendenze cibeliane della seconda teoria politica e dove la forma
ortodossa del Logos serbo era proibita – i dissidenti cetnici vennero considerati
controrivoluzionari e perseguitati.

Ma quando la seconda teoria politica ha iniziato a vacillare in Unione Sovietica, ciò


si è ripercosso in Jugoslavia e con Milošević è riapparsa la lettura serba della
Jugoslavia. Si è trattato di una reazione nazionalistica dai contorni filosofici poco
chiari ma intuitivamente ha rappresentato la lotta serba – l’ultimo grande esempio
di lotta serba – per l’interpretazione catecontica dello stato serbo. Con Milošević i
serbi sono tornati a considerare la Jugoslavia inconsciamente come un’entità
catecontica, sebbene anche la sua sia una versione archeomodernista del Logos
serbo. Purtuttavia essa è stata battuta.

In questa sconfitta vi è però qualcosa di positivo. La guerra del Kosovo è stata una
battaglia per la luce, e ogni eroe serbo che ha dato la sua vita per difendere la
Jugoslavia si è sacrificato per la causa di questo Logos solare, per la sua profonda
missione catecontica. Essi hanno investito il sangue e la vita in questa identità
serba e ciò non può svanire senza lasciar tracce. La guerra del Kosovo è stata la
continuazione del modo serbo di stare al mondo, di fare la storia, e ha gettato le
basi per la futura resurrezione, per un reale escatologico catecontico futuro serbo.

7. Epilogo
Qual è lo stato attuale del Logos serbo? Dove si trova oggi? Esso è qui, nel popolo
serbo, nell’identità serba, nello spazio serbo, nella cultura serba.

Il Logos serbo ha ricevuto una sconfitta. Una sconfitta che va prima di tutto
compresa, interpretata correttamente prima di spingersi oltre nella storia serba.
Oggi il problema che ci troviamo ad affrontare con il Logos serbo è
sostanzialmente lo stesso che abbiamo con altre forme di Logos apollineo e
apollin-dionisiaco. Ha avuto e sta avendo luogo una vasta battaglia su scala
planetaria, un conflitto globale che vede tutti o quasi perdenti – forse con le
eccezioni di Russia, Siria, Iran che sembrano continuare a resistere. Ma le forze
dominanti, quelle stesse forze che hanno sopraffatto la Serbia, non sono
semplicemente costituite dalle potenze occidentali o dagli Stati Uniti.
Rappresentano qualcosa di più profondo. E tuttavia, in questa situazione di
estrema difficoltà, non dovremmo agire con disperazione, poiché il ritorno di
Cibele, della Grande Madre a cui queste forze oscure fanno capo, è paragonabile
alla venuta dell’Anticristo o alla liberazione di Satana dagli abissi, e ciò è stato
pianificato. Dio ha lasciato che succedesse perché ciò rappresenta verosimilmente
la prova finale per noi.

Questo è dunque il momento di coltivare il Logos serbo. Voi serbi avete avuto due
possibilità di recente: la creazione della prima Jugoslavia e il risveglio nazionalista
di Milošević. Entrambe sono state perse, ma è probabile che dinanzi a voi ve ne sia
un’altra. Finché ci sarà una tradizione viva, finché ci sarà un Dasein serbo vivo, ci
sarà sempre la possibilità di difendere la pura forma del Logos serbo contro questi
attacchi e nulla sarà ancora perduto.

Possiamo dire che la Serbia di oggi rappresenti un simulacro della vera Serbia. Un
simulacro archeomodernista, in parte arcaico e in parte perverso, caricaturale.
Pertanto, anzitutto dobbiamo risolvere questo problema restaurando l’autenticità
serba, il puro Stato che si nasconde dietro il simulacro, estraendone il grano di
verità. Ad oggi vi è uno Stato serbo, che è già qualcosa; forse un po’ goffo,
nondimeno esso esiste, e va visto come un’opportunità. Certo, di per sé non è una
risposta. Ma la sua esistenza rappresenta un valore positivo. Il popolo serbo, la
tradizione serba, la cultura serba, il retaggio serbo, lo Stato serbo, la Chiesa serba.
Tutto ciò ad oggi esiste e non è poco.

La battaglia che ci attende è una battaglia spirituale. Gli aspetti materiali sono
secondari in questo conflitto. Non si tratta di uno confronto nucleare, in cui conta
la massa materiale degli armamenti. È una battaglia per l’umano stesso che oggi
sta diventando inumano. Una lotta che avviene anzitutto al nostro interno, dacché
il Logos è dentro di noi. Non è qualcosa che ci viene imposto da fuori. Il Logos vive
dentro di noi e agisce attraverso di noi.

Penso che il popolo serbo sia stato scelto per preservare questa identità fino alla
Fine dei Tempi. E per riemergere negli ultimi istanti della storia prendendo parte
all’ultima, generale, universale «battaglia del Kosovo» dalla parte di Dio, di Cristo,
del Logos di Apollo, al fine di edificare l’impero universale della luce, di Cristo, la cui
prefigurazione è il Regno dei Nemanjić e di Dušan il Forte.
LEZIONE 10. LA NOOMACHÌA NEL XXI SECOLO
L’ultima lezione di questo corso introduttivo alla Noomachìa [1] sarà dedicata
I

dall’analisi noologica della situazione attuale.

Oggi stiamo vivendo il passaggio dalla Modernità alla


Postmodernità. Abbiamo identificato la Modernità come la vendetta
del Logos di Cibele. Ora, potremmo chiederci quale sia il Logos della
Postmodernità, quale tipo di struttura noologica rappresenti.
Il Logos della Postmodernità rappresenta in un certo senso il
completamento della rivoluzione cibeliana, che viene portata alla
sua logica conclusione. Non dovremmo dunque essere ingannati dal
discorso antimodernista della Postmodernità. Essa non è in realtà
alternativa alla Modernità ma ne rappresenta piuttosto una sorta di
distillato, dacché il postmodernismo si basa sull’idea che la
Modernità non sia «sufficientemente moderna». Quest’idea si inizia
a fare largo con la Scuola di Francoforte, il cui intento era di
«illuminare l’illuminismo su se stesso» [2]. L’Illuminismo non è in
realtà illuminato, occorre dunque purificare la Modernità
depurandola di tutti i resti di ciò che costituiva la Tradizione. In
senso filosofico, si tratta di raggiungere la pura immanenza.
Tutto nella Modernità, secondo i postmodernisti, è eccessivamente
inquinato dal premoderno. Ad esempio, la ragione umana è stata
una delle parole d’ordine nella lotta contro il mito, la teocrazia, la
Chiesa, ecc. La lotta per l’affermazione della Modernità è stata
condotta in suo nome. Ma i postmodernisti hanno rilevato come
dopo la vittoria della ragione umana, la nuova condizione
illuministica presenti una sorta di «fascismo filosofico» dal momento
che la ragione sin dall’inizio viene concepita come strumento di
dominio. L’illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli
uomini, e la sua natura totalitaria consiste nella volontà di potenza
che lo guida e che lo spinge a cancellare tutto ciò che esula dalla
dimensione questa volta del «razionale». Così, se alla base della
Modernità giace l’idea di liberare la ragione umana dall’incanto del
mito, ora, per i postmodernisti, si tratta di liberare l’essere umano
dalla ragione stessa poiché essa è in un certo senso dittatoriale – la
ragione predice cosa va fatto, genera sistemi radicalmente iniqui
basati su classificazioni gerarchiche, e così via.
Con la Postmodernità, dunque, si passa alla fase seguente di questo
processo di liberazione: non la liberazione della ragione, ma la
liberazione dalla ragione.
Ecco dunque la rivoluzione «schizofrenica» anti-edipica di Gilles
Deleuze e Felix Guattari [3]. Già con Freud la ragione veniva messa
in discussione – quella di Freud può essere in effetti vista come una
rivoluzione moderna che introduce in qualche modo alla
postmodernità – descrivendo il funzionamento della mente, della
ragione, attraverso le spinte del subconscio. Deleuze e Guattari, in
uno spirito puramente postmodernista, affermano però che si tratta
una comprensione maschile del funzionamento del subconscio. Per
loro il complesso di Edipo è il risultato una forma di proiezione
maschile; essi dunque propongono di creare una psicanalisi
femminista che non sia affetta da una qualche paranoia, concetto
tipicamente maschile del desiderio irrazionale. L’idea è di portare
alle estreme conseguenze l’irrazionalismo. Essi individuano due tipi
di sistemi psicologici: paranoico e schizofrenico. Mentre il sistema
paranoico è gerarchico – la ragione è paranoica secondo Deleuze e
Guattari –, la schizofrenia, la scissione interiore di sé, è
sostanzialmente femminista, egualitaria. Occorre pertanto
promuovere attitudini schizofreniche come normative per la società.
Ciò rappresenta anche la lotta contro la mente. In tal senso, i
differenti organi andrebbero liberati dalla sua dittatura, da questa
forma di «hitlerismo» della mente.
Il postmodernismo, da questo punto di vista, rappresenta la lotta
contro ogni forma di gerarchia verticale, non solo in senso
tradizionale ma anche a livello individuale. Se inizialmente viene
condotta una lotta contro ogni costruzione sovraindividuale per
l’affermazione completa dell’individuo, ora abbiamo la
decostruzione dell’individuo stesso, il quale in termini noologici è
considerato eccessivamente «apollineo». In ottica postmoderna,
l’uomo stesso costituisce una struttura verticale in cui la mente
gode di una posizione privilegiata; occorre dunque rovesciare
questa gerarchia affermando la totale libertà degli organi e
considerare il corpo non come il reame della ragione ma come una
sorta di «assemblea parlamentarle» degli organi, per cui le decisioni
non vengono più dettate dalla ragione. Secondo un’idea più radicale
ancora, gli organi stessi sarebbero totalitari poiché essi si
caratterizzano per una forma particolare e una specifica funzione
meccanica. Dovremmo dunque prendere in considerazione il
concetto di «corpo senza organi». Il corpo dovrebbe esistere senza
alcuna forma, non dovrebbe avere alcuno stato organico. E questo
possiamo raggiungerlo durante l’esistenza virtuale nella rete,
emigrando in uno spazio bidimensionale. Arriviamo così al concetto
di «rizoma», una struttura diffusiva, reticolare, che si espande non
verticalmente ma orizzontalmente, pensata per sostituire
l’individuo. Nella concezione dell’umanità rizomatica reticolare le
interazioni non avvengono tra individui ma tra organi, in una
modalità completamente schizofrenica. Assistiamo alla dissipazione
della nostra personalità in «avatar», dei quali possiamo cambiare
nome, genere, età, qualsiasi cosa. I ruoli sociali e le relazioni
vengono così distribuiti e dissipati attraverso la rete.
Una tale società rappresenta un passo successivo rispetto all’era
moderna. Essa non si basa sull’individualismo ma, in un certo
senso, sul «dividualismo». È una nuova fase immanentista e
materialistica. Ma questa volta si tratta di un materialismo non
legato all’oggetto materiale bensì a qualcosa ad esso sottostante.
Réne Guénon lo chiama «mondo infracorporale». Un mondo che
nella concezione religiosa tradizionale è popolato da esseri del
sottosuolo. L’idea è dunque di trasformare l’uomo in un’assemblea
di demoni [4], di aprire alla possibilità che spiriti materiali vivano
attraverso di noi, che si rivelino in noi e agiscano liberamente, in
una sorta di «parlamento di organi» e macchine desideranti
distribuiti attraverso la rete.
Ciò rappresenta la distruzione di ogni forma verticale, compresa
quella propria del primo modello capitalistico. Qui la prima teoria
politica subisce una mutazione. Il liberalismo classico diventa post-
liberalismo: al centro non c’è più l’individuo ma un essere dividuale –
l’individuo, così come l’atomo, non è più considerato indivisibile,
anche se lo si continua a chiamare «individuo». Questa
trasformazione va di pari passo con la mondializzazione. La
mondializzazione distrugge ogni tipo di società, inclusa la Modernità
stessa. Essa abolisce ogni confine nazionale nello spirito di un puro
cosmopolitismo per cui non vi sono razze né etnie e chiunque può
vivere in ogni punto dello spazio. Oggi questa libertà riguarda
l’individuo ma domani si estenderà alle strutture reticolari. Vorrei, a
questo punto, farvi notare come la libertà venga sempre più
declamata, eppure contestualmente diventiamo sempre meno
liberi. Il politicamente corretto da questo punto di vista rappresenta
un vero e proprio totalitarismo che ci impone come pensare e non
ammette posizioni critiche verso il «progresso», additando come
criminale fascista chiunque osi mettere in discussione i processi in
atto. La censura dei miei libri da parte di Amazon [5] è
emblematica: nel «mondo libero» chiunque può esprimersi, ad
eccezione di chi mette seriamente in discussione lo status quo. In
altre parole, si può scegliere di essere un liberale di sinistra, di
destra o di centro, purché si rimanga nell’alveo del liberalismo, o
meglio del post-liberalismo.
La propaganda del totalitarismo liberale non è razionale ed è
sganciata dai fatti reali, dacché tutto oggi è virtuale – ad esempio,
le fantomatiche «ingerenze russe» nelle elezioni americane sono
virtuali, non sono state dimostrate e sono indimostrabili, ma ciò ai
fini della propaganda liberale non ha alcuna importanza; anche le
mie interviste nei media occidentali vengono costantemente
manipolate dacché il mondo virtuale occidentale mostra solo i
frammenti che si conformano a ciò che la propaganda si aspetta
che io dica, cioè all’immagine artificiale che è stata costruita di me.
Metafisicamente, ha luogo un passaggio dal reale al virtuale. Nella
Postmodernità, la ragione umana è sostituita dall’intelligenza
artificiale, le normali relazioni umane dalla rete, e quel che nel
paradigma della Modernità era denominato «realtà» lascia il posto
alla virtualità, la quale tuttavia non è solo il riflesso della realtà.
Certo, essa segna la traslazione dal reale al digitale, ma il processo
non si esaurisce qui. Successivamente, ciò che è stato trasposto
nella virtualità viene elaborato, migliorato, perfezionato, quindi
emulato nella realtà. Di conseguenza, il virtuale acquisisce
un’esistenza autonoma, a cui la realtà è subordinata. Si pensi alla
stampante 3D, attraverso cui il virtuale si riversa nel reale, viene
«stampato», oppure alla moneta dematerializzata (carte di credito,
ecc.), bit digitali trasferibili istantaneamente in tutto il mondo che
predeterminano la produzione reale, o ancora alla propria
personalità virtuale sui social network e alle relazioni tra profili
diversi, da cui la vita «offline» dipende e di cui essa stessa diventa
un’emulazione. In un futuro prossimo, oltre a costituire la nostra
immagine virtuale, potremo anche ricreare il nostro corpo. Non
manca molto ormai; del resto, già oggi è possibile migliorare il
proprio corpo con correzioni artificiali e finanche stampare
tridimensionalmente differenti organi. Anche in questo caso, si
tratta dell’emulazione di un corpo virtuale. In questo processo si
perde il significato stesso dell’individuo. Veniamo trasformati in una
sequenza di numeri e calcoli, svaniamo nel virtuale, per poi
riapparire nella realtà come emulazione la virtualità. In altri termini,
non è la realtà ad essere normativa per la virtualità, ma piuttosto il
contrario. Il virtuale è preminente, e diviene la base dell’emulazione
nel reale. La fase successiva di questo passaggio al virtuale è la
possibilità che si emulino chimere che nella realtà non esistono; si
pensi ad esempio ai cyborg. In un futuro non lontano si potrà
«stampare» qualcosa che non è il riflesso della realtà ma che è il
prodotto di una fantasia puramente virtuale.
Oggi siamo sottoposti ad un processo di crescente virtualizzazione.
L’intelligenza artificiale è il limite oltre il quale non esisteranno più
individui separati ma una rete neurale artificiale distribuita su più
dispositivi, capace di creare e immaginare qualcosa di nuovo. Vi
sono due tipi di intelligenze artificiali: debole e forte. L’intelligenza
artificiale debole è già in essere, e consta di una serie di database
della conoscenza umana digitalizzata accessibili istantaneamente e
permanentemente; questa intelligenza artificiale debole in cui
siamo già immersi può elaborare calcoli al nostro posto, effettuare
confronti, trasmissione di elementi semantici, traduzioni sempre più
accurate, e così via. Vi è poi un’intelligenza artificiale forte. La sua
comparsa è prevista tra il 2020 e il 2025. Non manca dunque molto
a quello che viene definito «momento della singolarità», in cui farà
il suo ingresso un’intelligenza artificiale forte che sarà
completamente paragonabile all’intelligenza umana. Non si tratta di
un sistema operativo programmato ma di una rete neurale basata
su algoritmi matematici capace di creare qualcosa di assolutamente
indipendente dagli input iniziali dell’operatore attraverso una forma
di elaborazione autosviluppante. La rete neurale artificiale più
semplice dipende dall’operatore, ma sviluppandosi le reti neurali
diventeranno progressivamente indipendenti da esso, potendo
arrivare a conclusioni che non erano pianificate da quest’ultimo.
L’intelligenza artificiale non va dunque intesa come una macchina
ma piuttosto come un’emulazione della ragione umana, che
pertanto, per poter essere riproducibile, viene essa stessa
considerata come qualcosa di «artificiale» e materialistico – da qui il
cognitivismo, lo studio scientifico dei processi congnitivi.
L’intelligenza artificiale forte viene studiata da tempo dalle grandi
compagnie tecnologiche come Google, Microsoft, ecc., che vi hanno
investito miliardi e vi è una tendenza nella filosofia moderna
denominata «accelerazionismo», che sostanzialmente ci invita ad
accelerare il movimento verso questa singolarità e di raggiungerla il
più presto possibile.
Il momento della singolarità segnerà il passaggio storico verso
un’era in cui non esisterà più solo la ragione umana sulla Terra ma
apparirà qualcos’altro di paragonabile ad essa. Un nuovo stadio
dell’evoluzione umana, che porterà alla nascita di esseri post-
umani. Con la Postmodernità facciamo ingresso nell’era del post-
umanesimo. Se la Modernità fa derivare l’uomo dall’animale,
concependolo come ultimo step di un processo evolutivo, il
momento della singolarità rappresenta il passaggio successivo.
Dopo l’animale e l’uomo, compare il post-uomo. L’ultima frontiera
della Postmodernità è l’ottenimento dell’immortalità. Ma
l’immortalità è propria delle macchine, per cui nel momento in cui
fisicamente diventeremo immortali, smetteremo di essere umani.
Una parte di coloro che si indignano di fronte a tutto ciò, afferma la
necessità di difendere la primazia della realtà sulla virtualità. Il
problema è che ciò è in effetti impossibile, dacché la «realtà» è un
lascito della Modernità. Nel mondo della Tradizione, del Logos
apollineo, è il mondo delle idee ad esistere – idee, spiriti, dèi,
qualcosa di celeste o divino che esiste in quanto argomento
ontologico fondante per la realtà. Detto altrimenti, la realtà ottiene
il suo essere dal fatto di essere creata da Dio; la creazione è
dunque la spiegazione ontologica della realtà. Nel passaggio dal
Logos di Apollo con la sua base spirituale della realtà, alla
Modernità, accettiamo la ragione, l’uomo, la natura, il mondo in
quanto tali, senza Autore, e così facendo recidiamo il legame con la
base metafisica dell’esistenza. Sono le idee eterne delle cose ad
esistere realmente. Rinnegando questo fondamento ontologico, le
cose intese come realtà in quanto tale in ultima istanza non sono
reali. Esse rappresentano già un’emulazione, un simulacro. La
realtà della Modernità è già in qualche modo virtuale. Pertanto, in
termini metafisici, non possiamo difendere la realtà senza prima
salvare la spiritualità, il fondamento metafisico pre-reale della
realtà. Ecco perché il passaggio dal reale al virtuale non solo è
possibile ma è anche una conseguenza logica e la difesa fuori
tempo massimo della realtà della Modernità è inefficace. Al
contrario di quanto potrebbe sembrare, la Postmodernità non
rappresenta nulla di nuovo ma piuttosto la conclusione di questo
processo iniziato con l’avvento dell’era moderna.
Occorre infatti riconoscere che la Postmodernità non costituisce
qualcosa di assolutamente nuovo in relazione alla Modernità ma
piuttosto il suo stadio finale. Come abbiamo già affermato all’inizio
di questa lezione, la Postmodernità rappresenta l’assolutizzazione
del dominio del Logos di Cebele, il quale si espande durante la
Modernità e in era Postmoderna consolida il suo predominio. In
senso escatologico cristiano, la Postmodernità è il regno della
«donna ammantata di porpora».
Il femminismo postmoderno è un diretto prodotto di questa totale
affermazione della Grande Madre. Due parole sul femminismo. Vi
sono diverse forme di femminismo. Il femminismo moderno ad
esempio è già diverso dal femminismo postmoderno. Tuttavia, per
comprendere meglio ciò con cui abbiamo a che fare oggi, vorrei
focalizzarmi sul confronto con ciò che io definisco «femminismo
Ècate», dal nome della divinità greca Ἑκάτη (Ècate). Per alcuni il
nome di questa dea deriverebbe dal termine greco che sta per
«desiderio, volere». Essa viene infatti descritta da Esiodo nella
sua Teogonia come divinità benevola che realizza i desideri di coloro
che hanno il suo favore. Scrive Esiodo:
«Ed anche adesso, quando qualcuno degli uomini in terra
fa sacrifizi, e placa, secondo le usanze, i Celesti,
Ecate invoca per nome. E onore accompagna un mortale,
quando la Dea le sue preghiere benevole intende;
e gli concede prosperità: ché ben grande è sua possa.» [6]
[Teogonia 416-420]
E poi ancora:
«Ecate qui, la Diva, si mostra, ed a quelli che vuole,
volonterosa gloria concede, concede vittoria:
dove giustizia si parte, vicino ai re giusti ella siede:
anche allorché negli agoni contendono gli uomini, giova:
ché anche presso a loro si reca la Diva e li assiste,
e chi di gagliardia prevalse, di forza, il bel premio
agevolmente guadagna, ricopre i suoi figli di gloria.
Ai cavalieri anche sa, quando vuole, recare assistenza.
E a chi nel glauco mare travaglia, e tra l’ira dei flutti
Ecate invoca, e l’Esosigèo che profondo rimbomba,
la celeberrima Dea, facilmente concede ogni preda,
agevolmente, e, dopo scovata, se vuole, la toglie.
Moltiplicare il bestiame nei chiusi ella può con Ermète.
Le mandre dei giovenchi, le greggi gremite di capre,
le mandrïe lanose di pecore, ov’essa lo voglia,
da pochi a molti capi, da molti riduce a ben pochi.»
Esiodo dipinge Ècate come dispensatrice di saggezza, coraggio,
vittoria in battaglia e bestiame. Nel suo significato originario,
dunque, si tratta di una divinità dai caratteri turanici. Ècate
rappresenta un archetipo femminile di tipo turanico.
Successivamente, essa è stata associata a Persefone o Demetra e
collocata nel reame della notte e del sottosuolo, ma originariamente
Ècate non era una divinità ctonica bensì una figura femminile
celestiale. Il «femminismo Ècate» designa la dignità della donna che
riflette valori patriarcali – si pensi ad Atena, divinità greca saggia
come i sacerdoti (prima casta) e coraggiosa, eroica come i guerrieri
(seconda casta). Potremmo definirlo un femminismo indoeuropeo
anti-cibeliano, poiché rappresenta se vogliamo il ritorno al principio
femminile solare indoeuropeo dalla forma deviata del patriarcato
materialistico. Il «femminismo Ècate» è in definitiva volto al
ripristino della dignità della donna come amica è alleata dell’uomo
indoeuropeo.
Ebbene, il femminismo postmoderno è diametralmente opposto a
quest’ultimo: esso è assolutamente cibeliano e anti-indoeuropeo.
Non rappresenta il principio della liberazione della donna, ma
piuttosto la totale distruzione dell’uomo, distruzione che ha inizio
per l’appunto con la Modernità – nei limiti materialistici imposti
all’uomo, nel discredito a cui sono stati sottoposti sacerdoti e
guerrieri parallelamente all’ascesa del tipo borghese, si ravvisa già
la vittoria del matriarcato. La pretesa delle donne di acquisire il
pieno potere, seguendo la metafisica deleuziana, non è qualcosa di
completamente nuovo ma rappresenta il compimento di questo
processo. Il potere di Cibele in era postmoderna è aperto e
manifesto.
Un’ultima osservazione riguardante il femminismo.
Tradizionalmente, la donna può aspirare alla felicità. Essa può
essere raggiunta o meno; la donna può incontrare l’uomo giusto,
avere bei bambini, costruire una famiglia retta ed essere felice,
oppure no. Il femminismo implica la rinuncia a questa aspettativa di
felicità; esso si rivolge alle donne nei termini seguenti: «quanto vi è
stato finora prospettato è mera illusione, la felicità femminile non
esiste poiché in realtà si tratta di un imbroglio del patriarcato
finalizzato a tenervi soggiogate; dovete abbandonare questa
prospettiva perché non sarete mai felici, per contro potete ottenere
il potere». Così, la problematica felicità femminile cede il posto alla
non-problematica lotta per il potere. Una lotta che si può dire abbia
avuto già successo. Noi non ci troviamo infatti agli albori del
femminismo ma nella fase conclusiva di questa lotta femminista per
il potere. Nella tradizione indiana il principio maschile è sapienza
senza potenza – pura luce del pensiero –, mentre la potenza è
femminile. La liberazione della potenza dalla sapienza, lo
sprigionarsi di una potenza ctonica assoluta e cieca, è ciò che sta
accadendo con il femminismo odierno. La donna perde così se
stessa, la sua natura e il suo contenuto, ma parallelamente
assistiamo all’emasculazione e alla scomparsa dell’uomo. Anche gli
uomini perdono la loro posizione, il loro archetipo. Inoltre, l’idea del
riconoscimento dell’omosessualità come norma nella società
occidentale pone fine all’equilibrio tra i due generi o poli. In
sostanza, assistiamo alla piena vittoria di Cibele. Vittoria non solo
implicita come nella Modernità, ma oggi esplicita.
La Russia in tutto ciò che ruolo ha? Essa è oggi una società
conservatrice che cerca di ritardare i processi descritti poc’anzi,
pertanto non rappresenta un’alternativa ai processi in atto poiché
cerca solo di rallentarlo ma non ne mette in discussione la
direzione. Possiamo dire che costituisce una potenza anti-
accelerazionista. La nostra società, il nostro Presidente, il nostro
governo, dicono semplicemente «non così in fretta». Questo è puro
conservatorismo. Non c’è la proposta di procedere in un’altro senso,
di ripristinare il Logos apollineo. Si tratta di una reazione
irresponsabile ma allo stesso tempo istintiva contro la
Postmodernità. È inerzia pura. La formulazione più radicale e
coraggiosa del Logos russo è oggi la timida difesa della realtà di
fronte alla virtualità da parte di materialisti e modernisti che non
vogliono effettuare l’ultimo passo nella direzione postmoderna. Vi è
un forte sentimento tradizionalista nel popolo e vi sono nella nostra
Chiesa dei gruppi radicali che protestano contro lo status quo
avendo come punto di riferimento gli antichi starets, ma essi sono
assolutamente marginali e minoritari e non hanno influenza sulla
società, anzi sono considerati completamente folli dacché anche noi
viviamo sotto il dominio di Cibele. La nostra società è
archeomodernista: non accetta la Postmodernità, ma non ha la
volontà, il desiderio e la capacità di far rivivere il Logos
premoderno. Mi rendo conto che quanto sto dicendo possa
sorprendervi. In effetti, dall’esterno la Russia viene percepita come
una potenza rivoluzionario-conservatrice che lotta contro
l’Occidente e tutto ciò che esso rappresenta. In realtà, la questione
è più complicata. La Russia ha grandi possibilità, poiché il nostro
Dasein – basato su un Logos più dionisiaco che apollineo – e il
nostro popolo sono latori della missione catecontica. Tuttavia, la
nostra identità è stata lungamente imprigionata, soffocata, e questa
galera dello spirito non ha inizio con il liberalismo degli anni
Novanta ma ben prima, con il periodo della dominazione comunista
assolutamente cibeliana, e prima ancora con il tardo zarismo
modernista e occidentalista.
La Russia come Logos, come popolo, come Dasein, come orizzonte
esistenziale è oggi in pericolo e non possiamo escluderne la
scomparsa, ma il futuro è aperto. E come disse lo scrittore e
pensatore politico italiano Curzio Malaparte, «nulla è perduto finché
tutto non è perduto». Tutti gli identitari però dovrebbero sapere che
la Russia continua a lottare, che non è ancora formalmente stata
sconfitta perché il nostro popolo è, esiste, ma che abbiamo ancora
grandi problemi con il Logos russo poiché non siamo ancora riusciti
del tutto a riprendere la strada per la creazione della filosofia russa
drammaticamente interrotta dal comunismo, pertanto non abbiamo
ancora raggiunto il luogo in cui ha inizio la vera filosofia. Stiamo
lottando per arrivarci, ma a causa dell’ingente danno subito
nell’ultimo secolo non siamo ancora in grado di far ripartire questo
processo. Il popolo russo per la maggior parte si trova ancora in uno
stato di sonno moderno/conservatore. Speriamo di poterci
risvegliare presto.
In conclusione, qual è il problema della Postmodernità? Il problema
della Postmodernità è il problema di Dioniso. Oggi non possiamo in
alcun modo fare appello direttamente al Logos di Apollo, poiché
esso è il Sole diurno e con la sera della Modernità è tramontato, è
sparito dal nostro orizzonte, ci è diventato inaccessibile. Giunti nella
notte della Postmodernità, ci rimane solo la figura di Dioniso, il Sole
di Mezzanotte [7]. Esso risplende nella notte ma non appartiene ad
essa. È il Logos nascosto che si trova all’inferno, ma che non si
identifica con esso. Sta nel mondo di Cibele ma non ne è parte.
Quando l’oblio dell’Essere è totale, questo diventa la sola forma di
opposizione possibile. Dal punto di vista metodologico e metafisico,
è ciò che io chiamo Soggetto Radicale [8]. Il Soggetto Radicale è il
soggetto che si trova al centro della notte differenziandosi da
quest’ultima, e appare proprio quando ci avviciniamo al culmine
assoluto di questa notte. Si fa centrale qui la questione del doppio
nero di Dioniso, qualcosa di titanico che imita Dioniso. Il problema è
dunque come distinguere Dioniso dal suo doppio. In senso religioso,
si tratta del problema dell’Anticristo: l’Anticristo non è «la donna
ammantata di porpora», non è Cibele di per sé, ma una creazione
proveniente dall’Abisso che si finge Cristo – in realtà, l’Anticristo
non è simmetrico a Cristo ma piuttosto al Soggetto Radicale. Quello
dell’Anticristo, del simulacro, del doppio di Dioniso è il problema
cruciale della Postmodernità. Ho per l’appunto intitolato uno dei
miei libri Il Soggetto Radicale e il suo doppio [8], un altro modo per
denominare il problema di Dioniso e del suo doppio. Occorre
indagare questo problema a fondo, individuando il punto che si
trova nella notte senza appartenergli ed evitando di confonderlo
con la sua parodia che esiste in sua prossimità.
Siamo così giunti al termine dell’ultima lezione di questo corso
introduttivo alla Noomachìa. Ciò di cui abbiamo appena discusso è
la spiegazione metafisica per sommi capi della Noomachìa nel XXI
secolo. Al termine di questo corso, possiamo domandarci dove si
trova la Serbia in questo momento della Noomachìa. Questa è una
questione aperta e non possiamo rispondere astrattamente. Spetta
al popolo serbo, così come agli altri, decidere il proprio posto. Ma è
importante sottolineare che questa decisione sarà possibile solo
fino a quando giungeremo al «momento della singolarità». Abbiamo
quindi un tempo molto limitato a nostra disposizione. Finché esiste
il Dasein, la scelta è sempre possibile. Ma quando saremo
irreversibilmente rimpiazzati dall’intelligenza artificiale e privati
della nostra mortalità, condizione di esistenza del Dasein secondo
Heidegger, smetteremo di essere ciò che siamo e perderemo
irreversibilmente la possibilità della decisione. Oggi abbiamo ancora
un piccolo lasso di tempo dinanzi a noi, ma ciò a cui stiamo
andando incontro è molto più terribile e orribile della tortura, di una
catastrofe, della morte stessa. È la fine del Dasein umano per come
lo conosciamo.

[4] Cfr. Aleksandr Dugin, Il Sole di Mezzanotte. Aurora del Soggetto Radicale, AGA Editrice,
2019: «Secondo Réne Guénon, il mondo della Tradizione, che noi difendiamo, amiamo e
sosteniamo, coincide con la fase in cui l’Uovo del Mondo è aperto dall’alto e il principio
divino interagisce fluidamente con il mondo terreno. […] Guénon paragona materialismo e
Illuminismo (i Tempi Nuovi) alla chiusura dell’Uovo del Mondo dall’alto. […] Alla fine del XX
secolo inizia una terza fase, in cui l’Uovo del Mondo si apre dal basso. Il postmoderno
corrisponde esattamente a questo stadio. […] Quando l’Uovo del Mondo è aperto, l’uomo è
più-che-uomo, portatore do Divino, una coppa aperta della Divinità; nell’epoca della sua
chiusura, è il soggetto di una “tragedia ottimistica”, dotato di una gamma di sentimenti e
la morte come destino esistenziale – ma resta pur sempre un uomo. È destinato a essere
sostituto da qualcosa di più terribile, dal post-uomo – orinatoio del demonio, campo di
battaglia delle orde di Gog e Magog. L’uomo (o, meglio, il post-uomo) non contiene più Dio
ma un complesso diabolico, una legione di demoni, ognuno dei quali intona una propria
melodia, del tutto slegata dalle altre; in questa cacofonia di urla, lamenti e stridori casuali
nasce la civiltà globale, il nuovo ordine mondiale.» [NdT]
[7] Cfr. Aleksandr Dugin, Il Sole di Mezzanotte. Aurora del Soggetto Radicale, op.cit.: «La
postmodernità è la Mezzanotte. La modernità corrisponde alla sera, al tramonto del Sole: vi
sono ancora residui del mondo tradizionale, della luce, della soggettività, della razionalità
e dell’interezza. Esistono famiglie, società, Stati e uomini. Nella postmodernità tutto ciò
viene soppiantato da dividui, cyborg, ed entità post-umane. Al posto della realtà c’è la
virtualità; al posto dell’intelligenza, l’Intelligenza Artificiale; al posto dell’uomo, il post-
uomo; al posto del razionalismo moderno, la schizofrenia di Deleuze e Guattari. È una
società liquida (Baumann) in cui tutto si dissolve. In realtà, non è nemmeno una società, ma
una distruzione caotica delle strutture che sprigiona una gran quantità di energia, subito
dissolta in un processo entropico. È un’ininterrotta caduta verso il basso. Il Sole di
Mezzanotte sorge solo al culmine di questo processo discendente. […] Il giorno è Apollo –
verticalità, razionalità; qui vige un ordine preciso, le cose sono ben definite. Quando scende
la notte, l’ordine si dilegua. Entriamo così in un luogo senza luce, in cui il Sole non domina
più. […] Il Sole di Mezzanotte è più essenziale e profondo di quello diurno. Quest’ultimo può
esistere solo di giorno, seduto sul suo trono; al crepuscolo, muore. Il Sole di Mezzanotte,
invece, sopravvive alla morte. Non coincide con il Sole diurno ma, per così dire, brilla
occultamente al suo interno, sopravvivendo anche alla sua negazione.» [NdT]

[8] Cfr. Aleksandr Dugin, Radikal’nyj sub’ekt i ego dubl’ (Il Soggetto Radicale e il suo
doppio), Evrazijskoe dvizhenie, Mosca 2009. Trad. italiana: Soggetto Radicale – Teoria e
fenomenologia, AGA Editrice, 2019: «È un soggetto che non perde la propria
soggettività, né quando è sostenuto dalle condizioni assolute dell’esistenza e del
mondo, né in condizioni diametralmente opposte. Il Soggetto Radicale è una
fiamma che arde sia quando il fuoco è acceso, sia quando è spento. Nemmeno
quando la fiamma è estinta egli cessa di ardere. […] Il Soggetto Radicale è
vincitore di Dio, ma anche del nulla, nel senso che, pur provocando l’arrivo della
Fine dei Tempi, non vi s’identifica. Pur facendo formalmente parte dei collettivi
demoniaci di cui è saturo il mondo prima dell’apocalisse prossima ventura, il
Soggetto Radicale mantiene una differenza ontologica fondamentale, radicale e
terribile. È un uomo differenziato (Evola), un uomo integrale.» [NdT]

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