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Elementi di antropologia culturale


(prima edizione: Aprile 2004)

Di Ugo Fabietti
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CAPITOLO 1: GENESI E STRUTTURA DELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE

1) Natura e origini dell’antropologia

1.1 Antropologia significa…

Antropologia significa letteralmente “studio del genere umano”, ma è una definizione vaga ed
imprecisa, perché ci sono molte altre discipline (tipo filosofia, psicologia, sociologia,storia) che
se ne occupano ed inoltre perché non specifica quale aspetto del genere umano sia il suo
oggetto di studio privilegiato. In questo libro ci occuperemo dello studio del genere umano dal
punto di vista culturale, ovvero delle idee e dei comportamenti espressi dagli esseri umani in
tempi e luoghi distanti tra loro. L antropologia rappresenta l insieme delle riflessioni che sono
state condotte attorno a tali comportamenti e idee.
Quali furono le condizioni della comparsa dell’antropologia? Le origini di questa disciplina non
sono facili da stabilire. Erodoto può essere considerato il primo, anche se nei suoi trattati non
parlò mai di antropologia; ma le sue osservazioni sulle diversità fra Greci e barbari e sulla
differenza di costumi tra i popoli hanno indubbiamente “sapore” antropologico. Le radici
dell’antropologia più immediatamente riconoscibili risalgono piuttosto, almeno nella linea della
tradizione del pensiero occidentale, all’umanesimo europeo, al ‘400, e ai dibattiti che fecero
seguito, durante tutto il secolo successivo, alla scoperta del N.vo Mondo e dei suoi abitanti. Ma
tentativi di riflessione non mancano neanche in paesi extra-europei, come dimostra il caso di
Ibn Khaldun nel mondo arabo. L’umanesimo pose l’umanità al centro della riflessione filosofica
e della produzione artistica; agli occhi degli umanisti il genere umano divenne un soggetto
capace di forgiare il proprio destino, nonché di esplorare la natura studiandone le leggi e i
meccanismi nascosti. Ma essi rimasero legati ad un’idea di umanità fortemente astratta e
idealizzata, pensata in riferimento alle società classiche del mondo antico. La scoperta e la
successiva conquista dell’America ruppero l’incanto umanistico e posero, all’Europa cristiana,
quesiti precedentemente inimmaginabili. L’espansione, l’intensificarsi dei contatti con genti dai
“costumu” così diversi da quelli degli europei fecero sorgere gravi problemi di ordine religioso,
scientifico e morale. Gli europei infatti cominciarono ad interrogarsi sulla natura di queste
popolazioni, a volte barbare e selvagge, a volte belle e vigorose. L’espansione e i traffici
commerciali intensificarono i contatti fra gli europei e queste popolazioni locali, e di
conseguenza si moltiplicarono anche le descrizioni di istituzioni, usi e costumi di tali
popolazioni. Alla base di queste descrizioni non vi era però un intento scientifico, che verrà solo
a fine ‘700, quando scienziati e filosofi cominciarono ad elaborare una teoria “unitaria” del
genere umano, concepito come un’unica specie naturale e come complesso di individui
potenzialmente dotati delle stesse facoltà mentali. Grazie agli illuministi la riflessione sul
genere umano acquistò definitivamente i caratteri di una riflessioni su un soggetto universale.
Per quanto riguarda poi l’istituzione dell’insegnamento universitario di Antropologia culturale si
dovrà attendere la fine dell’800. Nelle colonie e nelle riserve gli antropologi trovarono i luoghi

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privilegiati del loro lavoro. Ciò non significa che gli antropologi fossero dei colonialisti; pur
collaborando a volte con le istituzioni coloniali, gli antropologi si sono distinti dai colonizzatori
per la volontà di stabilire rapporti di reciproca comprensione con le popolazioni da loro
studiate.
Cosa fanno gli antropologi? Prevalentemente gli antropologi (o etnologi) si sono occupati dello
studio di popoli loro contemporanei ma geograficamente lontani. Gli antropologi si sono
dedicati, fino a pochi decenni fa, allo studio dei popoli che per molto tempo sono stati chiamati
“selvaggi” o “primitivi” perché ritenuti i rappresentanti di fasi arcaiche della storia del genere
umano, i cui costumi si segnalavano per la loro notevole diversità rispetto a quelli europei. A
partire dalla metà del ‘900 sono stati inclusi nell’antropologia anche popoli con tradizioni scritte
e praticanti culti monoteistici, istituzionalmente, e anche geograficamente, più “vicini”
all’Europa. Oggi gli antropologi si occupano di ogni realtà presente nel mondo, sia nei paesi
sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Quando l’antropologia si sviluppò, spesso i suoi
rappresentanti non avevano modo di visitare direttamente i popoli sui quali poi scrivevano: era
dunque uno studio a distanza che si basava su testimonianze di viaggiatori, esploratori,
militari… Tra fine ‘800 e inizio ‘900 la svolta: viene inaugurata la pratica della ricerca sul
campo.

ETIMOLOGIA E DISTINZIONI: esiste anche un’antropologia filosofica, che se è parente


dell’antropologia culturale si presenta però come una discussione filosofica, appunto, intorno
all’uomo, alla sua essenza. Diversamente dall’antropologia culturale, quella filosofica non
studia le particolari differenze culturali, ma mira soprattutto a produrre un discorso (filosofico)
sull’uomo in quanto soggetto “pensante”e “senziente”.

LA SOCIETE’ DES OBSEVATEURS DE L’HOMME: Furono i tardo- illuministi della Societè des
observateurs de l’homme, un’associazione fondata a Parigi nel 1799 a comprendere
seriamente che per studiare il genere umano dal punto di vista scientifico, bisognava viaggiare,
cioè entrare in contatto diretto con i popoli che vivevano lontano dall’Europa. Gli “osservatori
dell’uomo”come essi si autonominarono, erano gli eredi dell’universalismo e del razionalismo
illuminista e i loro ispiratori erano i maestri dell’Encyclopédie: Diderto, D’Alembert, Rousseau.

1.2 Una sola antropologia o tante antropologie?

L’antropologia non è un prodotto esclusivo dell’occidente, tutti i popoli infatti si chiedono come
siano le altre popolazioni. Di conseguenza alcuni antropologi rifiutano l’idea che il discorso sul
genere umano si sarebbe prodotto esclusivamente in occidente nell’età moderna: la nostra non
è altro che una delle tante “antropologie” elaborate in tempi e luoghi diversi.

In Italia l antropologia ebbe un esordio contemporaneo a quello delle tradizioni britannica,


francese e statunitense. Nella seconda metà dell’800 importanti figure dell’antropologia italiana
furono Mantegazza, Vignoli, Pitrè e Loria.

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2) Oggetto e metodo dell’antropologia culturale

2.1 Cos’è la cultura?

Esempio: isole arcipelago melanesiano-marinai e “selvaggi”quando due comunità che non si


conoscono entrano in contatto per la prima volta, leggano la novità in base a schemi mentali
già noti. Percepivano la novità in base a ciò che per loro erano delle “verità culturali
consolidate” e ben sperimentate.
Possiamo affermare che la cultura è un “complesso di idee, di simboli, di azioni e di disposizioni
storicamente tramandate, acquisite, selezionate e largamente condivise da un certo numero di
individui, mediante le quali questi ultimi si accostano al mondo in senso pratico e intellettuale”.
Oggetto privilegiato dell’antropologia sono soprattutto le differenze che intercorrono tra le idee
e i comportamenti in vigore presso le varie comunità umane. Ciò che gli antropologi chiamano
“culture” non sono altro che modi diversi di affrontare il mondo da parte di gruppi umani che
condividono certe idee e certi comportamenti. L’antropologia però cerca anche di mettere in
luce quanto vi è di comune o affine tra di essi, cioè tra i vari modi in cui i diversi gruppi umani
interpretano, immaginano, conoscono e trasformano il mondo che li circonda. Se
comportamenti e idee espressi da gruppi differenti possono essere molto diversi l uno
dall’altro, è anche vero che tali comportamenti e idee sono espressione di un attitudine
tipicamente umana, che fa dell’uomo un produttore di cultura.

LE ORIGINI DEL CONCETTO ANTROPOLOGICO DI CULTURA: Si è ormai concordi nel ritenere


che la prima definizione antropologica di cultura risalga all’antropologo inglese Tylor. La cultura
è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, il diritto, il costume,
la morale e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della
società. Tra le varie idee contenute in questa definizione ve ne è una particolarmente
importante: la cultura si manifesta nelle singole società come cultura specifica di coloro che
nascono in quella determinata società; tuttavia la cultura, intesa come realizzazione di
particolari predisposizioni umane, è un dato universale, comune all’intero genere umano. Da
Tylor in poi sono state date diverse definizioni di cultura: la loro formulazione rivela la diversità
degli approcci che hanno caratterizzato gli studi antropologici.

2.2 La natura della cultura

E’ ormai appurato che gli uomini, a differenza degli animali, dipendono per la propria
sopravvivenza molto più dalla cultura che dai geni. Infatti, alla nascita il genoma di un essere
umano non possiede le informazioni necessarie per fargli adottare automaticamente
determinati comportamenti che sono invece indispensabili per poter far fronte al mondo
circostante, cosa che invece avviene per gli animali. L’uomo dunque nasce “nudo” e non solo
dal punto di vista strettamente letterale del termine. Esso inoltre è fra gli animali, quello che
necessita di più tempo per le cure, dal momento della nascita. Gli altri animali raggiungono
una maturazione psichica che consente loro di mettere in atto tutte le disposizioni finalizzate
al controllo dell’ambiente circostante nel giro di breve tempo, al contrario il cucciolo umano

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acquisisce tale facoltà molto più tardi. Ciò ha un riscontro nel fatto che lo sviluppo delle
connessioni neuronali del cervello umano avviene soprattutto dopo la nascita, in una
proporzione di circa il 70%.
Il nostro codice genetico ci predispone a compiere una serie di operazioni che sono
infinitamente più complesse di quelle effettuabili da qualsiasi altro animale, ma non ci indica
quali operazioni dobbiamo compiere. Molte delle nostre azioni o credenze derivano da qualcosa
che ci viene insegnato dal gruppo in cui viviamo e cresciamo, e che a sua volta è frutto di una
lunga storia di rapporto con l’ambiente. Stesso discorso vale per la lingua: non utilizziamo
segnali geneticamente programmati, ma un codice linguistico che apprendiamo fin dai primi
anni di vita in base al contesto in cui nasciamo e cresciamo.
Nei pensieri come negli atti gli esseri umani sono determinati, dal momento che per vivere in
mezzo ai loro simili, devono adottare codici di comportamento sia pratico sia mentale che siano
riconoscibili e quindi condivisi da altri. Dire che gli esseri umani sono determinati nelle loro
scelte “culturali” non esclude che nel corso della loro vita essi elaborino, come di fatto accade
sempre, le proprie preferenze o le proprie idiosincrasie. Nonostante ciò tutti faranno parte di
un “mondo”-la loro “cultura”- che è in definitiva il complesso dei codici comportamentali e
ideazionali riconoscibili dal gruppo nel quale gli esseri umani vengono al mondo e nel quale
sono educati. Il processo di formazione non cessa con il raggiungimento della maturazione
delle facoltà psichiche, ma dura tutta la vita perché gli esseri umani sono in grado di
assimilare nuove esperienze e di rielaborarle continuamente in base ai codici culturali di cui
sono in possesso (adeguandosi anche a nuovi schemi mentali).
Gli antropologi hanno messo in rilievo alcuni di questi insiemi di idee e di comportamenti che
chiamiamo cultura. Tali idee e comportamenti, se ben analizzati, mostrano organizzazione e
corrispondenze e rivelano spesso una capacità di adattamento e trasformazione variabili.
La cultura come complesso di modelli. Non ci rendiamo bene conto di come “funzioniamo” dal
punto di vista culturale perché le nostre azioni quotidiane e i nostri pensieri ci sembrano un
modo ovvio di esistere, di comportarci, di pensare e sentire. Ma noi ci comportiamo e sentiamo
in un modo piuttosto che in un altro, perché seguiamo determinati modelli di comportamento e
di pensiero e non altri. Modelli culturali diversi orientano comportamenti diversi. Tali modelli
sono stati introiettati grazie all’educazione, implicita o esplicita, diretta o indiretta che le
presone hanno ricevuto dal gruppo nel quale sono cresciute.
In sintesi in quanto complesso di idee, di simboli, di azioni e disposizioni, la cultura presenta
forme interne di organizzazione. Essa, pur non essendo rigida e meccanica, coincide con i
modelli (culturali) che orientano le attitudini pratiche e intellettuali di coloro che li condividono.
Ma modelli di che cosa? Si tratta di insiemi di idee e simboli che, propri del contesto particolare
in cui l’essere umano vive, gli servono da guida per il comportamento e per il pensiero. In
quanto guida al pensiero e al comportamento, questi modelli possono essere qualificati come
“modelli per”, modelli-guida al diverso modo di agire e di pensare in contesti culturali diversi.
Tuttavia non esistono solo “modelli per” ma anche “modelli di”, o meglio i “modelli per” sono
anche “modelli di”: questi ultimi sono modelli attraverso cui noi pensiamo qualcosa, lo
rendiamo coerente con altre cose e poi lo consideriamo un modello “di” come sono o
dovrebbero essere le cose. Questi modelli per e di funzionano, negli umani, allo stesso modo
delle informazioni genetiche negli animali. Senza modelli culturali per e di gli umani non
sarebbero quello che sono.

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La cultura è operativa. Grazie ai modelli culturali di cui dispongono, gli esseri umani si
accostano al mondo in senso pratico ed intellettuale. Senza di essi non potrebbero pensare,
agire, in pratica sopravvivere. Alcuni antropologi, tra cui Malinowski, hanno visto nella cultura
un complesso sistema per far fronte alle sfide dell’ambiente e della vita associata. Qualunque
atto o comportamento umano finalizzato a uno scopo sia materiale che intellettuale è guidato
dalla cultura. In questo senso si può dire che la cultura sia “operativa”, poiché mette l’uomo
nella condizione di agire in relazione ai propri obiettivi adattandosi sia all’ambiente naturale
che a quello sociale e culturale che lo circonda. In genere non siamo abituati a riflettere sulle
azioni che compiamo ogni giorno: è come se fossimo predisposti operativamente ad affrontare
il mondo fisico e morale che ci circonda. Tale predisposizione deriva dall’introiezione di modelli
culturali e corrisponde a ciò che il sociologo francese P.Bourdieu ha chiamato “habitus”, ovvero
un sistema durevole di disposizioni fisiche ed intellettuali, che sono il risultato
dell’interiorizzazione di modelli di comportamento e di pensiero elaborati dalla cultura nella
quale viviamo in risposta all’ambiente fisico, sociale e culturale che ci circonda.
Selettività della cultura. I modelli non vivono di vita propria. Al contrario, essi si alimentano di
una tensione continua con altri modelli condivisi dagli stessi soggetti. Spesso un modello può
cambiare in seguito a circostanze determinate e allora anche gli altri modelli dovranno
cambiare di conseguenza, a meno che non accada qualcosa per cui il cambiamento rimanga
circoscritto. La cultura infatti è un “complesso di modelli” tramandati, acquisiti ma anche
selezionati. Ciò significa che le generazioni successive ereditano modelli culturali delle
generazioni precedenti e ne acquisiscono di nuovi o in base alla propria esperienza o per
l’influenza di modelli provenienti da altre culture. Alla base sia del processo di trasmissione che
in quello di acquisizione agisce sempre un principio di selezione, che accoglie nuovi elementi
culturali ma ne blocca anche altri, ritenuti incompatibili o intrusivi. Tramite la messa in atto di
processi selettivi, le culture rivelano il loro carattere di sistemi aperti e chiusi al tempo stesso;
esistono culture più aperte ed altre più chiuse nei confronti dell’alterità e delle novità, ma non
esiste né un’apertura né una chiusura totale; esistono invece sempre processi selettivi preposti
al controllo degli elementi che, ereditati dalle epoche passate o provenienti dall’esterno,
possono rilevarsi utili o dannosi per una determinata cultura e come tali inclusi o esclusi dalla
dinamica culturale.
Dinamicità della cultura. I processi di selezione tipici di tutte le culture lasciano intendere che
queste ultime non sono entità statiche, fisse, ma piuttosto dei complessi di idee e
comportamenti che cambiano nel tempo. Le culture si trasformano secondo logiche proprie,
quanto in relazione agli elementi di provenienza esterna con cui esse entrano in contatto
(“dialettica della dinamica interna e della dinamica esterna” Balandier). Anche se i modelli
culturali tendono a conservarsi e a mostrarsi resistenti al cambiamento, quest’ultimo si
produce in virtù del fatto che le culture sono sempre aperte alle influenze esterne.
La cultura è differenziata e stratificata. Sappiamo che all’interno di una singola cultura esistono
tanti modi diversi di percepire il mondo, di rapportarsi agli altri, di esprimersi, di comportarsi in
pubblico… Tali differenze di comportamento e di espressione non dipendono solo dalle
circostanze del momento, spesso infatti hanno a che vedere con il potere, la ricchezza, la
posizione sociale, la religione, la politica,… e si presentano in maniera più o meno accentuata
presso le diverse società. Solo in poche società queste differenze erano o sono marcate in
maniera minima (cacciatori-raccoglitori di foresta e deserto), perché nella stragrande
maggioranza delle società queste differenze esistono e si riflettono sul piano culturale, anche

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se indirettamente. Bisogna dunque essere cauti nel ritenere che le culture siano costituite da
modelli distribuiti in maniera uniforme. Spesso a prevalere sono gli interessi (e quindi la
cultura) dei soggetti socialmente più forti, per cui l’immagine culturale che spesso esce è
quella che i dominatori vogliono trasmettere. Gramsci parlò a tal proposito di “cultura
egemonica” (di chi prevale) e “cultura subalterna” (di chi subisce), mentre l’australiano
R.Keesing ha parlato di “controllo culturale” intendendo cioè che i comportamenti e le
rappresentazioni che ci vengono presentati come tipici di quella cultura, sono di fatto le idee di
coloro che sono socialmente prevalenti.
Comunicazione e creatività. La cultura non esiste nella mente o nel cuore degli uomini bensì
nella loro capacità di comunicare, di trasmettersi dei messaggi. La dimensione comunicativa è
centrale a qualsiasi processo di tipo culturale. Per esistere come entità operative, i modelli
devono essere largamente condivisi dai componenti di un gruppo: essi devono cioè essere
riconoscibili da tutti e quindi comunicabili.
Il fatto che i modelli culturali debbano essere condivisi per poter essere compresi non significa
che tutti debbano per forza aderire ad essi nel senso di seguirli o di approvarli ma significa
invece che devono essere riconosciuti come facenti parte di un sistema di segni condiviso. Idee
e comportamenti che non sono riconoscibili da un codice culturale vengono o ignorati o
interpretati male.
Se la cultura esiste come insieme di segni riconoscibili, ciò non significa che tali segni
costituiscano un repertorio fisso e ripetibile all’infinito. I segni possono essere combinati
secondo sequenze riconoscibili ma innovative, capaci cioè di creare nuovi significati: ciò
coincide con la natura creativa della cultura, creatività che ha riscontro in alcune caratteristiche
del linguaggio umano: l’universalità semantica e la produttività infinita. Il primo concetto è
riassumibile nel dato che tutte le lingue sono in grado di produrre informazioni relative a
eventi, qualità, luoghi nel tempo; il linguaggio umano infatti colloca le azioni e gli eventi sia
nello spazio che nel tempo, cosa che non fanno gli animali. Il secondo concetto consiste nel
fatto che data una proposizione (“oggi piove”) nulla ci dice su che cosa potrà seguire ad essa.
Dato che il nostro linguaggio possiede la caratteristica di poter collocare i messaggi nel tempo
e nello spazio spesso siamo in grado di anticipare quale sarà la continuazione di un messaggio.
La produttività infinita del linguaggio umano trova riscontro a livello di quella che potremmo
chiamare la creatività ordinaria della vita quotidiana, qualcosa che corrisponde a una
invenzione continua della cultura.
Un altro tipo di creatività culturale consiste nella creazione di nuovi significati che modificano il
nostro modo di intendere le cose, rappresentare il mondo o di manipolare e modificare il
mondo naturale e sociale circostante. La cultura “controlla” sempre la creatività, quando
infatti ci si allontana troppo dal modo corrente di vedere le cose, queste ultime perdono senso.
Esiste poi un altro limite imposto alla creatività, ciò avviene quando una società non è in grado
di accogliere l’innovazione: il matematico alessandrino Erone, progettò nel primo secolo a.C.
una macchina a vapore che tuttavia non poteva avere, per quei tempi, alcuna applicazione
utile. Il successo della creatività, nella cultura, sta nel dire parole, immaginare situazioni o
inventare cose che si allontanano da ciò che una cultura già conosce, ma che non diventino per
questo irriconoscibili o inutilizzabili dai componenti della cultura stessa.
La cultura è olistica Questo interagire e coniugarsi di modelli forma un complesso integrato:
perciò si dice che la cultura è un’entità olistica cioè complessa ed integrata, formata da
elementi che stanno in un rapporto di interdipendenza reciproca. Secondo certi antropologi

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esisterebbero culture più olistiche di altre: per esempio nella società Indù l’individuo non è
pensato come autonomo e libero dalla società; invece nel caso della società occidentale, gli
individui sono pensati come distinti, autonomi, slegati dal contesto sociale.
Esistono i confini di una cultura? Le culture non hanno confini netti, precisi, identificabili con
sicurezza. Hanno dei nuclei forti (comportamenti, simboli, idee) che le distinguono da alcune
ma che, al tempo stesso, le assimilano ad altre. Però, se ci allontaniamo da questi nuclei forti,
le cose tendono sempre più a confondersi e le differenze finiscono per sbiadire o intrecciarsi.
Il problema del confine di una cultura è strettamente connesso con quello dell’identità. Le
culture sono aperte e chiuse, selettive e comunicative, dinamiche e differenziate al proprio
interno, sono creative e prodotto di processi storici di incontri scambi e prestiti. Ciò che noi
chiamiamo cultura non è quindi concepibile come un sistema di modelli totalmente coerente e
integrato in riferimento ai quali gli individui si comportano e pensano in maniera meccanica. È
limitato un pensiero che vede nelle culture delle entità circoscritte e definibili con certezza
assoluta, come una specie di universi autosufficienti e dotati di rigide regole di funzionamento,
e per questo è stato abbandonato.

2.3 La ricerca antropologica

Il fatto di riconoscere il carattere olistico della cultura (cioè come correlata nelle sue parti e
approssimativamente integrata a livello di pratiche e di idee) non coincide con l’obbligo di
conoscerla nella sua totalità, ma piuttosto di studiarla adottando una prospettiva che ci
predispone a stabilire collegamenti tra i vari aspetti della vita di coloro che vivono quella
cultura stessa. Una ricerca antropologica non mira a cogliere le culture in una loro peraltro
improbabile interezza; gli antropologi studiano di solito determinati aspetti di una cultura. Per
far questo tuttavia essi non possono concentrarsi solo sull’aspetto da loro prescelto come se
tutti gli altri non li interessassero. Qualunque sia l’oggetto di interesse nell’indagine
antropologica, non si può fare a meno di considerare un fenomeno in relazione a tutti gli altri.
Le teorie elaborate dagli antropologi trovano però un senso compiuto solo in stretto
collegamento con la pratica della ricerca antropologica. La professionalità stessa degli
antropologi è inscindibile dalla ricerca vera e propria, quella che va sotto il nome di “ricerca sul
campo” o “etnografia”.
L’etnografia e la raccolta dei “dati”: L’etnografia costituisce un elemento chiave della ricerca
antropologica. Sul campo l’antropologo deve “raccogliere dati” utili alla conoscenza della
cultura che vuole studiare. Questo compito si traduce da una parte nella raccolta di miti, storie,
aneddoti, proverbi, norme e comportamenti degli individui e dall’altra nella raccolta di
informazioni precise e dettagliate su riti, matrimoni e credenze, uso delle risorse,… Gran parte
dei dati che un antropologo acquisisce durante la ricerca hanno però una provenienza diversa:
vivendo a stretto contatto con queste persone, l’antropologo riesce a cogliere gesti, sguardi,
emozioni, idee ed opinioni che altrimenti non emergerebbero. Sono frutto dell’osservazione e
dell’ascolto che l antropologo riesce a esercitare nei confronti dei comportamenti e delle parole
rispettivamente della gente in mezzo alla quale vive.
La ricerca antropologica si avvale del metodo dell’intervista, della compilazione di tabelle e
questionari, della campionatura di esemplari, di registrazioni audiovisive e altro. Ciò che è
peculiare del metodo antropologico è il fatto che gli antropologi trascorrono molto tempo con le
persone sulle quali compiono ricerche, e soprattutto il modo in cui essi trascorrono questo

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tempo. L’antropologo vive a stretto contatto con i soggetti della sua ricerca, deve condividere il
più possibile il loro stile di vita, comunicare nella loro lingua, partecipare alle attività: questa
condivisione di esperienze è stata chiamata dagli antropologi “osservazione partecipante”.
L’osservazione partecipante. Il fatto che l’antropologo “entri”pian piano in un mondo diverso da
quello a lui noto, non significa che egli non possa, in qualunque momento, far ritorno
mentalmente al proprio mondo. Anzi, l’esperienza della ricerca sul campo è fatta proprio di
questi continui ”vai e vieni” tra i due mondi, quello che l’antropologo studia e quello dal quale
l’antropologo proviene. E’ in questa prospettiva che l’espressione”osservazione
partecipante”acquista un senso compiuto. Essa è qualcosa che consente di considerare con un
certo distacco (osservazione) l’esperienza condivisa dall’antropologo con gli appartenenti ad
una cultura diversa dalla sua (partecipazione). Durante il suo lavoro l antropologo impara a
connettere automaticamente certi aspetti della vita dei suoi ospiti.
Centralità dell’etnografia per l’antropologia. L elemento partecipativo, necessario per cogliere
idee e modelli culturali, comporta condivisione di esperienze e situazioni culturali che non
riduco l etnografia a semplice registrazione di dati (come per l etnografia che è praticata da
altri scienziati sociali) :osservazione, registrazione e classificazione di comportamenti e punti di
vista per poi procedere all’elaborazione di modelli formali o quantitativi. Fare etnografia per gli
antropologi significa anche e soprattutto scoprire, dietro i comportamenti e idee, altri
comportamenti e altre idee connessi cin i primi e che costituiscono una loro spiegazione. Ciò è
reso possibile solo da una frequentazione assidua e da una presenza interattiva con i propri
interlocutori da parte degli antropologi “sul campo”.
Quando l’antropologo sceglie come significativi alcuni dati per il proprio lavoro mentre ne
scarta altri, egli sta già in qualche modo interpretando i dati, li sta costruendo in funzione di ciò
che ha in mente.
Per lungo tempo si è pensato che l’etnografia fosse un’insieme di tecniche più o meno
attendibili ed efficaci per raccogliere dati che dovevano poi essere restituiti in forma di teoria
con portata esplicativa e generalizzante. Intesa invece nella maniera in cui l’abbiamo intesa
qui, l’etnografia è parte costitutiva ed organica dell’antropologia: non solo perché offre alla
teoria materia di riflessione, ma anche perché dà forma allo stesso stile di ragionamento
dell’antropologia. Possiamo dire che l’antropologia è un sapere “di frontiera” ovvero che sta
sulla linea d’incontro fra tradizioni intellettuali e modi di pensare tra culture diverse.
L’antropologia deve gettare un ponte fra queste culture. La ricerca etnografica comporta una
serie di problemi etici e politici non trascurabili per il fatto di essere parte di un incontro tra
soggetti appartenenti a mondi sociali e culturali diversi. L’antropologo rischia ad esempio di
divulgare fatti relativi alla vita privata delle persone che lo hanno accolto come un ospite e
talvolta come un amico o un confidente; spesso la sua presenza suscita tensioni e malumori
nelle comunità che lo accolgono. A volte è considerato una spia del governo, a volte un
sobillatore politico, un agente di qualche potenza straniera, a volte semplicemente un
rompiscatole. Il lavoro sul campo è in effetti qualcosa che non prevede solo la raccolta dei dati,
ma, oltre che l’interazione con la comunità studiata, anche una faticosa “negoziazione” del
ruolo dell’antropologo con soggetti politici di varia natura.
La dimensione etnografica fa di questa disciplina un sapere che si fonda sullo studio di contesti
socioculturali specifici e un sapere basato su esperienze dirette in contesti culturali diversi dal
proprio. Ciò non significa che gli antropologi riflettano solo sulla propria esperienze etnografica,
al contrario, essi fanno tesoro delle esperienze dei loro colleghi cercando di raccordare la

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propria esperienza con quelle di questi ultimi al fine di affinare i propri strumenti analitici e
offrire dei quadri interpretativi più raffinati o di più ampia portata.

3) Gli assunti fondamentali del ragionamento antropologico

3.2 La problematica contestuale

E’ ormai un assunto ben consolidato tra gli antropologi che i dati individuati, selezionati e
raccolti nel corso delle diverse ricerche etnografiche debbano essere considerati in relazione al
loro contesto di provenienza. Ma non è sempre stato così; lo stile comparativo dei primi
antropologi consisteva quasi sempre nel mettere a confronto fra loro fenomeni provenienti da
luoghi e popoli lontani nel tempo e nello spazio, senza che ci si chiedesse quale senso essi
rivestissero nel contesto di provenienza. Se si adotta una prospettiva di tipo olistico le cose
cambiano: il ricercatore è infatti obbligato a considerare ogni aspetto della cultura in relazione
ad altri aspetti di quest’ultima, cioè a definire il contesto in cui si colloca. La ricostruzione del
contesto consente di far emergere le varie sfaccettature e i differenti significati che un dato
fenomeno può assumere se osservato da punti di vista differenti: infatti in una cultura non tutti
possiedono la stessa visione delle cose. La prospettiva contestuale consente anche di collegarsi
ad altri contesti e ad altri fenomeni in una catena pressoché infinita di interconnessioni,
all’interno di una sola cultura o addirittura tra culture diverse.

3.3 Lo sguardo universalista e anti-etnocentrico

Fin dalle sue origini l’antropologia si è presentata come un sapere universalista, nel senso che
considera tutte le forme di produzione culturale e di vita associata come degne di attenzione e
utili alla conoscenza del genere umano nel suo complesso. Questa attenzione dell’antropologia
si traduce in quella che potremmo chiamare “un’impresa etnografica generalizzata”,
consistente nello studio sul campo, diretto e partecipativo, delle più disparate comunità. La
vocazione universalista dell’antropologia fa riferimento alla cultura come capacità
universalmente umana di “produrre cultura”. L’universalismo antropologico si oppone alle
tendenze etnocentriche che si manifestano in tutte le culture. L’etnocentrismo, cioè la
tendenza istintiva e irrazionale che consiste nel ritenere i propri comportamenti e i propri valori
migliori di quelli degli altri, è un dato che accomuna senza distinzione tutti i popoli della Terra.
L’antropologia stessa non è libera dall’etnocentrismo, nel senso che spesso anche gli
antropologi interpretano la vita degli altri popoli attraverso il filtro delle proprie categorie
culturali. Tuttavia l’antropologia è anche un sapere che si è applicato in maniera sistematica
alla revisione delle categorie che essa stessa impiega, e si sforza di produrre modelli di analisi
e di interpretazione che siano in grado di rendere conto tanto dell’unità quanto della diversità
dei fenomeni che essa studia.

3.4 Lo stile comparativo

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Quanto detto si raccorda con quello che è lo stile comparativo dell’antropologia. Ai suoi esordi
l’antropologia si prefiggeva di giungere alla scoperta delle leggi che segnano la trasformazione
della cultura e della società, dalle forme più semplici (o primitive) fino a quelle più complesse
(o evolute). A tale scopo gli antropologi adottarono in maniera sistematica un procedimento
caratteristico non solo di tutte le scienze, ma anche del senso comune: confrontare fenomeni
diversi per ricavare delle costanti. Questo programma comparativo basato sull’accostamento di
somiglianze labili e superficiali è stato progressivamente abbandonato nel corso del XX°
secolo: non però il metodo della comparazione, tanto che sono emersi due principali stili
comparativi. Il primo si esercita su società e culture storicamente interrelate o
geograficamente vicine. Il vantaggio di questo metodo è la precisione descrittiva, il suo limite il
non consentire grandi generalizzazioni. Il secondo stile comparativo considera invece società
prive di legami storici reciproci e cerca, tramite l’accostamento di fenomeni simili per forma e
struttura, di pervenire alla elaborazione di tipologie e conclusioni più ampie di quanto non
faccia il primo stile comparativo. I limiti sono la mancanza di precisione analitica e il rischio,
sempre presente, di generalizzazione indebite. Il suo vantaggio consiste nel fatto di offrire
ampie e sintetiche visioni dei fenomeni considerati. Il compito dell’antropologia diventa sempre
più quello di farci cogliere l’unità sotto l’apparente diversità del comportamento e delle idee di
certi popoli, mentre altre volte è in grado di mostrarci le profonde diversità che esistono sotto
la superficie di un’apparente somiglianza.

3.5 La vocazione dialogica e l’antropologia come traduzione

L’antropologia si fonda sulla pratica etnografica. Ciò implica che l’antropologia debba praticare,
oltre che teorizzare, una cultura dell’ascolto. Un atteggiamento improntato all’ascolto dà
innanzitutto rilievo al fatto che anche gli altri sono produttori di significati, di valori, tutti
aspetti che non sarebbe possibile cogliere se gli antropologi non prestassero orecchio alle loro
parole. Dal punto di vista epistemologico il carattere dialogico dell’antropologia è importante
perché consente a due universi culturali più o meno distanti tra loro di trovare uno spazio di
incontro comune. La ricerca di un punto di riferimento comune non si scontra solo con il
problema costituito dalle diversità linguistiche, ma anche e soprattutto con il senso che le
parole rivestono all’interno di codici comunicativi diversi. Ciò equivale a riconoscere che fare
antropologia significa dedicarsi, in ultima analisi, ad un lavoro di traduzione: non solo un
processo di tipo linguistico ma anche e soprattutto una traduzione concettuale. Sul piano etico,
infine, l’atteggiamento improntato all’ascolto è di grande rilievo in quanto molte comunità del
mondo contemporaneo non hanno la possibilità di far intendere la propria voce se non
attraverso alcuni individui (tra cui gli antropologi) che, soggiornando con essi per periodi
abbastanza lunghi, vengono a conoscenza dei loro problemi, delle loro frustrazioni e delle loro
speranze.

3.6 L’inclinazione critica e l’approccio relativista

La funzione critica dell’antropologia non si esaurisce infatti nella difesa delle culture più deboli,
ma consiste nell’individuare le trasformazioni delle culture in contesti storici differenti che le
hanno poste in contatto con le forze del colonialismo e che oggi le espongono a quelle della

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globalizzazione. L’antropologia è un sapere critico anche verso se stesso. Non solo per il
costante processo di revisione dei propri concetti, ma anche per non cadere nella tentazione di
idealizzare pratiche e valori dei popoli che studia. Con l’espressione relativismo culturale si
indica quell’atteggiamento che consiste nel ritenere che comportamenti e valori, per poter
essere compresi, debbano essere considerati all’interno del contesto complessivo entro cui
prendono vita e forma. L’antropologia è “relativista” perché ritiene che le esperienze culturali
“altre” non possono venire interpretate attraverso l’applicazione scontata e ingenua delle
categorie della cultura dell’osservatore. Al contrario, per poter essere compresi, i
comportamenti e i valori devono essere letti in una prospettiva olistica, cioè in connessione con
tutti gli altri comportamenti e valori che tendono a conferire ad essi un senso. Gli antropologi
sanno che l analisi culturale deve cercare nel contesto in cui si manifestano i fenomeni (azioni,
pensieri, valori …) il senso del loro esistere.
Ciò ha spinto molti antropologi a spiegare in maniera scientifica pratiche e idee che noi
consideriamo condannabili: infanticidio, mutilazioni corporali, incesto rituale,… Questo
atteggiamento ha indotto alcuni a credere che gli antropologi siano persone disposte a
giustificare qualsiasi cosa accada nelle culture diverse dalla propria, al punto che all’interno
della stessa antropologia si sono levate aspre critiche all’atteggiamento relativista. Il
relativismo culturale non deve essere inteso come mezzo di giustificazione di qualsiasi
comportamento; esso, se correttamente inteso, è un atteggiamento intellettuale che mira a
comprendere (non giustificare), a collocare il senso delle cose al posto giusto, nel loro
contesto. Scopo del relativismo è quello di “trovare modi difendibili-posto che ve ne siano- per
far posto alla diversità”, Shweder.

3.7 L’impianto pluriparadigmatico

Le scienze funzionano per paradigmi. Paradigma significa “idea”, “modello”, il quale ci serve
per effettuare confronti e per poter ragionare e agire secondo procedure stabilite dal
paradigma medesimo. Gli stessi modelli culturali potrebbero essere considerati dei paradigmi.
I paradigmi scientifici sono gli assunti di riferimento in base ai quali gli scienziati fanno ricerca.
In antropologia vari paradigmi si sono succeduti nel corso degli ultimi 150 anni: evoluzionismo,
storicismo, funzionalismo… In antropologia però, a differenza delle altre discipline, più
paradigmi possono costituire contemporaneamente i punti di riferimento per gli studiosi di
questa disciplina. Talvolta paradigmi precedentemente abbandonati riaffiorano a distanza di un
po’ di tempo sotto una forma differente. Ciò corrisponde in parte alla natura non cumulativa
del sapere antropologico.
La situazione pluriparadigmatica in antropologia è conseguenza del fatto che questo sapere è
radicato nell’esperienze etnografica. A differenza di una normale ricerca scientifica essa non
può essere riprodotta o costruita in laboratorio, perche si fonda sull’incontro, l ascolto, il
dialogo con umanità produttrici di significato e di interpretazioni della loro stessa vita e del
mondo che le circonda. I problemi di traducibilità di queste forme di conoscenza locale e
coscienza sono appunto ciò che apre il discorso antropologico a un amia gamma di
interpretazioni, a seconda dell’enfasi che ciascun antropologo pone su un aspetto piuttosto che
su un altro di vite altrui olisticamente studiate nel corso della ricerca.

3.8 Il risvolto applicativo

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Sin dagli inizi l’antropologia si presentò come un sapere con risvolti applicativi. Alla fine del
‘700 si riteneva che avrebbe potuto contribuire ad una società migliore. Nella seconda metà
dell’800 fu vista come uno strumento per “riformare” la società, eliminando pregiudizio,
superstizione e ignoranza. Allo stesso tempo i governi europei vi videro uno strumento per
conoscere meglio i popoli delle colonie (e quindi controllarli). Verso la metà del ‘900
l’antropologia ha vissuto poi una lunga stagione di dibattiti interni, tesi a stabilire quanta parte
avesse avuto nell’impresa coloniale. Dalla seconda metà del ‘900 in poi gli antropologi sono
stati spesso impegnati in progetti di sviluppo di varia natura: economici, educativi, sanitari. In
questi casi l’antropologia può fornire utili strumenti di lavoro, così come può fornirli in campo
educativo dove spesso gli insegnanti devono confrontarsi con bambini e adolescenti provenienti
da contesti culturali in cui i metodi di apprendimento si fondano su principi diversi da quelli su
cui si basa il nostro sistema scolare. L’antropologia in quanto studio del genere umano, non
pretende di insegnare come comportarsi. Agire in campo culturale e sociale è una scelta
politica, e quest’ultima può o non può utilizzare le scoperte dell’antropologia. Il dovere degli
antropologi è quello di fare sì che le conoscenze da loro stessi elaborate non vengano usate per
dominare, opprimere, discriminare, sfruttare parti di umanità.

3.9 La condizione riflessiva e il decentramento dello sguardo

Negli ultimi anni è venuta diffondendosi tra gli antropologi l’idea che la loro disciplina sia di
natura riflessiva. Ciò significa che l’incontro con soggetti appartenenti a culture diverse dalla
propria consente agli antropologi di esplorare la propria soggettività e la propria cultura. Le
esperienze “altre” si riflettono sull’esperienza dell’antropologo che può, in questo modo,
cogliere meglio il senso delle vite altrui. L incontro con l alterità produce sempre, in chi lo
sperimenta, un tentativo di comprensione che induce a riflettere anche su se stessi.
La dimensione riflessiva è infatti centrale per l’antropologia non solo in quanto consente di
cogliere meglio il punto di vista degli altri ma anche perche solo così possiamo capire meglio
noi stessi. E’ osservando le caratteristiche positive delle altre culture che noi possiamo
apprezzare le caratteristiche positive della nostra, così come è attraverso la conoscenza dei
limiti delle altre culture che possiamo meglio abituarci a prendere coscienza dei limiti della
nostra. Per ottenere questo risultato dobbiamo insomma “decentrare” il nostro sguardo,
cercare di osservare noi stessi attraverso lo sguardo degli altri. Vedere se stessi attraverso gli
altri ,o “vedere noi stessi come gli altri ci vedono”, è un insegnamento basilare
dell’antropologia.

Vedi antropologia razzista pag 44.

CAPITOLO 2: UNITA’ E DIVERSITA’ NEL GENERE UMANO

1) “Razze”, geni, lingue e culture

1.1 Apparentemente diverso ma del tutto simili

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Nonostante l’intensità crescente dei contatti e degli scambi tra le popolazioni del pianeta, e
nonostante le migrazioni e le mescolanze tra individui, non può non colpire la grande varietà
che caratterizza l’umanità attuale. Tale varietà si manifesta a più livelli. Da un punto di vista
fisico gli esseri umani si differenziano per la statura, il colore della pelle e degli occhi… A livello
linguistico la varietà si esprime in almeno 5000 lingue oggi parlate nel mondo e in un numero
infinitamente superiore di idiomi locali conosciuti come “dialetti”. Sul piano culturale infine,
esiste grande varietà di comportamenti e idee. A fronte di questa grande varietà nel genere
umano possiamo constatare però elementi di forte unità. Nella seconda metà dell’800 gli
antropologi dimostrarono che gli esseri umani sono tali proprio perché sono tutti produttori di
cultura. Per lungo tempo l’aspetto degli esseri umani ha costituito il principale fattore di
riconoscimento della differenza. In effetti l’aspetto fisico è ciò che colpisce più d’ogni altra
cosa, assieme ai suoni di una lingua sconosciuta. In varie epoche storiche le differenze fisiche
sono state di supporto a ideologie e pratiche di discriminazione. Il colore della pelle ha
costituito un marcatore di diversità da cui vengono fatte talvolta dipendere erroneamente le
differenze culturali. Il razzismo ha infatti preteso di stabilire un nesso causale tra aspetto fisico
e cultura, e di giustificare, sulla base delle differenze somatiche, la dominazione di alcuni
gruppi su altri: ad una supposta superiorità sul piano fisico doveva necessariamente seguire
una superiorità sul piano culturale. Questo ed altri ragionamenti analoghi presero
particolarmente piede nell’Europa dell’800, un’epoca in cui molti paesi si lanciarono
nell’impresa coloniale e nella quale le frange nazionaliste più aggressive sostenevano anche
l’esistenza di una gerarchia di “purezza” tra le stesse popolazioni europee. Le ideologie della
superiorità (bianchi su neri, europei su africani ed asiatici,…) posero le basi concettuali,
ideologiche e giustificative di tutti i massacri e di tutte le persecuzioni razziali che
insanguinarono il nostro continente nel primo ‘900. Il razzismo, un atteggiamento di
autocelebrazione della propria superiorità da un lato e di disprezzo per coloro che sono ritenuti
inferiori dall’altro, ruota intorno alla nozione di “razza”. Gli studiosi tuttavia hanno dimostrato
che non si può parlare di razze umane perché non esiste alcun criterio per individuarle che
possa ritenersi scientificamente fondato. Questo poiché i criteri utilizzati per la classificazione
delle razze (fondati sull’aspetto fisico o sulla discendenza) sono estremamente soggettivi. La
“razza” è infatti innanzitutto una costruzione culturale. Ciò è evidente ad esempio negli Usa,
dove i gruppi razziali sono ufficialmente riconosciuti: bianchi, neri, indiani,… In questo paese
un individuo non è “classificato” sulla base del suo aspetto, ma in relazione ai suoi ascendenti.
In Brasile vale il contrario: un individuo appartiene ad un “tipo” sulla base del suo aspetto.
Non è possibile tracciare distinzioni nette tra gruppi umani basandosi sulle caratteristiche
somatiche degli individui (che tra l'altro cambiano gradualmente sfumando le une nelle altre).
La cosa più corretta che si possa dire a proposito della nozione di “razza” è che tale nozione,
oltre a costituire un prodotto nel senso comune, rappresenta un veicolo di stereotipi diffusi e
persistenti in base ai quali lo stesso senso comune opera distinzioni che sono quasi sempre
connesse a pregiudizi, xenofobia,… In realtà quelle che sembrano essere le differenze più
appariscenti tra i diversi soggetti umani sono, paradossalmente, proprio quelle più superficiali.
L unico tipo di analisi scientificamente valida sulle differenze tra i gruppi umani è quella che si
fonda sull’esame del DNA e dei suoi componenti di base, i geni classici che determinano gruppi
sanguigni proteine ed enzimi.

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Le differenze somatiche sono differenze superficiali e relativamente recenti nella storia della
nostra specie. E’ intorno ai 50.000 anni fa che gli esseri umani “moderni” cominciarono a
differenziarsi somaticamente, in seguito al processo migratorio e di dispersione della specie.
La seconda conferma che emerge dalle ricerche dei genetisti è che gli esseri umani possiedono
un corredo genetico (DNA) del tutto simile.
A tal proposito sembra che quanto più tempo è trascorso dalla separazione di due popolazioni,
tanto più grande è la distanza genetica tra di esse ( osservato mediante lo studio del DNA
mitocondriale e del cromosoma Y: 2 fattori più stabili di altri nel tempo, di cui si sono
osservate variazioni e distribuzioni presso popolazioni diverse).
La distanza genetica tra due popolazioni potrebbe diventare così una specie di strumento con
cui ricostruire il processo e i tempi di allontanamento dei gruppi umani nel corso della
colonizzazione del pianeta.
E’ però importante osservare a tale riguardo che se la distanza genetica tra le popolazioni è
frutto di migrazioni, queste traggono a loro volte origine da fattori ambientali e/o culturali. Se
le migrazioni portarono all’allontanamento e quindi all’isolamento parziale dei gruppi umani,
con la loro conseguente distanziazione sul piano genetico, si deve riconoscere che quest’ultima
deve essere considerata come l’effetto di spinte culturali più che biologiche.

1.2 Popolazioni genetiche e famiglie linguistiche

Le teorie dei genetisti sulla distribuzione dei geni umani sembrano ricevere una conferma dagli
studi sulla classificazione delle “famiglie linguistiche”.
L’idea di famiglia linguistica risale alla seconda metà del XVIII° secolo quando W.Jones notò
notevoli somiglianze tra il sanscrito(lingua sacra degli indù), il latino, il greco, il celtico e il
gotico(tedesco arcaico). Egli ipotizzò che fossero nate da una fonte comune non più esistente.
Questo gruppo di lingue non più parlate ma ricostruibili a partire da testi scritti o da
frammenti, divenne nota come la famiglia indoeuropea.
Per molto tempo si ritenne che questa “familiarità” fosse esclusiva delle lingue studiate da
Jones e di quelle da esse derivate. Con il progredire degli studi, invece, alcuni linguisti e e
glottologi cominciarono a intravedere somiglianze ed affinità tra altri gruppi di lingue, come
quelle semito-camitiche e quelle uraliche.
Alcuni studiosi arrivarono addirittura ad ipotizzare, sulla base di alcune ricorrenze fonetiche e
morfologiche, che tutte le lingue estinte e parlate fossero riconducibili a più grandi
“superfamiglie”, le quali sarebbero derivate da una comune origine. Queste posizioni sono
state definite “unitariste”. Il punto notevole della questione è che le ricostruzioni operate dai
ricercatori unitaristi sulla distanza e sul processo di differenziazione delle lingue sembra
corrispondere largamente a quello di distanziazione delle popolazioni genetiche a cui
appartengono i soggetti che parlano quegli idiomi (in alcuni casi è possibile sovrapporre i
grafici che illustrano entrambi i processi di differenziazione, linguistico e genetico).
Non tutti i linguisti sono però oggi d’accordo con questa visione unitarista, ed esprimono seri
dubbi che si possano determinare l’esistenza di una proto-lingua da cui esse sarebbero
derivate.
Vi è anche la possibilità che le lingue più recenti, anziché derivare a cascata dalle lingue più
antiche, possano anche formarsi per altri fattori.
La presenza di una lingua può infatti essere il frutto di almeno quattro processi:

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 L’occupazione iniziale di una regione disabitata (colonizzazione Polinesia da parte di


popolazione del Sud-Est Asiatico)
 La divergenza (conseguenza di diversi fattori come migrazioni, conflitti, deriva
linguistica)
 La convergenza (prestito linguistico, per esempio parole come alcool, ok.)
 La sostituzione di una lingua che, per una qualche ragione, è rimpiazzata in tempi più o
meno brevi da una lingua proveniente dall’esterno (imposizione di una lingua da parte
di un’èlite politico-militare, a cui ci si conforma per praticità e convenienza)

1.3 Geni, lingue e culture

Abbiamo precedentemente osservato che le migrazioni devono essere considerate in molti casi
come l’effetto di spinte culturali; sono queste ultime le vere responsabili della distanziazione
genetica. In verità il corredo genetico degli individui varia anche in conseguenza di altri fattori,
casuali (deriva genica) e adattativi (selezione naturale), i quali agiscono su periodi temporali
molto più lunghi. Secondo gli studiosi la diffusione di alcune famiglie linguistiche
particolarmente numerose, tra cui quella indo-europea, fu una conseguenza della diffusione
dell’agricoltura ad opera di alcuni gruppi. L’adozione dell’agricoltura in diverse aree del pianeta
e in tempi differenti si tradusse in un incremento della popolazione. A tale incremento
demografico seguì da un lato un’espansione territoriale che portò in aree sempre più vaste alla
sostituzione della caccia-raccolta con l’agricoltura; dall’altro la lingua degli agricoltori andò
diversificandosi in seguito all’incontro con gli idiomi delle popolazioni preesistenti. Le lingue
nate da questo incontro sarebbero venute a formare quella che viene chiamata una famiglia
linguistica.
Contemporaneamente a tutto ciò, alcune caratteristiche genetiche dei popoli agricoltori in
espansione demografica sarebbero diventate maggioritarie rispetto a quelle delle popolazioni
locali, per cui in molti casi sembra possibile avere la sovrapposizione di tre processi: diffusione
dell’agricoltura, formazione di famiglie linguistiche, presenza di popolazioni geneticamente
omogenee.
La distanza genetica tra le popolazioni, e la sua larga corrispondenza con la distanza tra
famiglie linguistiche, non trova però alcun corrispettivo nelle differenze culturali che le
popolazioni presentano. Alla distanza genetica (e linguistica) non corrisponde cioè una distanza
culturale commensurabile. Questo perché i tratti culturali non linguistici non sono stabili,
isolabili e databili come quelli genetici, fonetici e grammaticali. Un buon esempio di ciò può
essere quello offertoci dai Baschi: geneticamente i Baschi mostrano una certa somiglianza
genetica con alcune popolazione dell’area del Caucaso. Pur essendo di origine ignota e non
classificabile all’interno di alcuna famiglia linguistica attualmente riconosciuta, la lingua parlata
dai Baschi mostra qualche affinità con alcune lingue dell’area del Caucaso. Nonostante queste
affinità genetiche e linguistiche tra Baschi e Caucasici, non esiste un qualche elemento
culturale comune a entrambe le popolazioni che sia individuabile con altrettanta sicurezza dei
dati genetici e linguistici da esse condivisi.
Geni e lingue cambiano anch’essi, ma ad una velocità infinitamente minore rispetto a quella
con cui mutano comportamenti, usanze e modelli culturali.

1.4 Le aree culturali

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Il grande sviluppo delle ricerche etnografiche nel corso del ‘900 ha indotto gli antropologi a
sistematizzare le conoscenze acquisite secondo il criterio delle aree culturali. Un’area culturale
è una regione geografica al cui interno sembra plausibile comprendere una serie di elementi
sociali, culturali, linguistici, relativamente simili.
Tali aree erano semplicemente dei modelli costruiti dagli antropologi per mettere ordine nella
grande varietà di popolazioni, costumi, usanze e istituzioni che la ricerca andava registrando e
classificando. Non bisogna considerare le aree culturali come nettamente definite e
comprensive di elementi del tutto omogenei poiché diventerebbe fuorviante.
In anni recenti alcuni antropologi hanno messo in evidenza come una considerazione troppo
letterale di tali aree possa portare a effetti di irrigidimento della realtà culturale, la quale è
invece assai più fluida per sua natura. Il rischio di prendere troppo sul serio la ripartizione del
mondo in aree culturali è quello di “essenzializzare” tali aree e le società che ne fanno parte.
Molto spesso infatti le aree culturali vengono caratterizzate per gli elementi particolarmente
rilevanti di alcune società e culture studiate in maniera approfondita dagli antropologi,
elementi che vengono poi considerati tipici dell’intera area. L’Africa è stata ad esempio ritenuta
per molto tempo rappresentativa di alcune forme classiche di organizzazione sociale quali il
lignaggio e la tribù.
Il fatto di privilegiare certi elementi culturali e certe società, perché più rappresentativi di una
certa area culturale, comporta la messa in ombra di tanti altri elementi e di tante altre realtà
sociali. Le principali aree culturali del pianeta sono:
- Europa
- Australasia
- Nordafrica-Medio Oriente
- India
- Africa Subsahariana
- Giappone
- Sud-est asiatico
- Area del Pacifico
- America Settentrionale
- Meso America
- Unione Sovietica
- Area Cinese
- Sudamerica
(vedi pagina 58)

2) Forme storiche di adattamento – Le società “acquisitive”

2.1 Homo sapiens sapiens, il colonizzatore

Nel corso degli ultimi 50.000 anni l’uomo “anatomicamente moderno” (Homo sapiens sapiens)
è andato diversificandosi non solo sul piano somatico, linguistico e culturale, ma anche dal
punto di vista delle forme di adattamento all’ambiente. La storia dell’umanità è stata
caratterizzata da un lento e graduale processo di adattamento finalizzato all’ottenimento di
risorse naturali vitali per la nostra specie.

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Durante la colonizzazione del pianeta l’umanità ha infatti occupato aree diversissime come le
fasce temperate dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa; quelle fredde dell’area circumpolare
(Siberia, Alaska e Groenlandia); la regione calda e umida delle zone tropicali Africane,
asiatiche e centro-sudamericane; e ancora le praterie nordamericane, foreste come
l’Amazzonia, i deserti mediorientali ed australiani, le isole vulcaniche del Pacifico… Durante
questi 50 mila anni la specie umana ha dovuto pertanto elaborare strategie di adattamento
altamente diversificate. Ogni gruppo umano ha dovuto adattarsi ad un ambiente particolare,
costruire utensili per sfruttare il diverso ambiente circostante, inventare metodi diversi per
ripararsi dal caldo o dal freddo, mediare con altri popoli vicini che avevano nel frattempo
elaborato altri stili di vita. Queste forme di adattamento, così come le possiamo osservare
oggi, sono il risultato di un processo lungo quanto la storia dell’uomo anatomicamente
moderno, che ha al suo centro il lavoro umano.
Per circa 4/5 di questa sua lunga storia, l’Homo sapiens sapiens ha fondato il proprio
adattamento su un’unica opzione: la caccia-raccolta e la pesca con strumenti tecnologicamente
semplici. Le società di questo periodo (e dei precedenti) sono state definite “acquisitive”, per
sottolineare il fatto che esse realizzano la propria sussistenza attraverso il prelievo di risorse
spontanee dall’ambiente. E’ infatti solo nell’ultima parte della storia umana che il genere
umano ha compiuto “la rivoluzione agricola”: essa risale a 10 mila anni fa ed ha portato con sé
altre e altrettanto importanti modificazioni nella vita del genere umano: la comparsa delle
società stratificate, la formazione delle città, la nascita delle religioni statuali nonché di
elaborate forme di divisione del lavoro, la centralizzazione politica e la scrittura. La rivoluzione
agricola si è imposta nel giro di pochi millenni in quasi tutto il pianeta e fu accompagnata da
uno straordinario incremento demografico e da una diversa forma di adattamento all’ambiente
con la quale sarebbe rimasta in simbiosi per lungo tempo: la pastorizia nomade.
Con la rivoluzione industriale prodottasi in Europa alla fine del XVIII° secolo l’umanità ha
conosciuto un’accelerazione precedentemente impensabile nel campo della produzione e
dell’innovazione tecnologica. Fino a quella data, infatti, l’umanità rimase per millenni legata a
modelli di esistenza sociale basati sulle forme storiche di adattamento sviluppate nei 40 mila
anni precedenti: la caccia-raccolta, l’agricoltura e la pastorizia nomade.

2.2 I cacciatori-raccoglitori: passato e presente

Parlare oggi di popoli cacciatori-raccoglitori significa per la maggioranza di noi evocare scenari
primordiali, forme elementari di vita sociale e modi assai semplici di sfruttamento delle risorse
elementari. Ed in effetti parlare di questi popoli significa rinviare alle nostre idee di origine
sociale e produrre una rappresentazione del nostro remoto passato.
Attualmente rappresentano una frazione percentualmente infinitesimale del totale degli abitanti
del pianeta si ritiene che essi non siano più di 40000. E’ evidente che la caccia-raccolta ha
conosciuto una progressiva e radicale ritrazione di fronte all’incontenibile avanzata di altre
forme storiche di adattamento, in primo luogo l’agricoltura. Quella dei popoli cacciatori-
raccoglitori è una categoria estremamente ampia. Al suo interno vengono fatti rientrare tanto i
cacciatori-raccoglitori dell’Europa preistorica, quanto gli attuali pigmei BaTwa e BaMbuti della
foresta equatoriale camerunese e congolese, i boscimani !Kung San della Namibia o gli Hadza
della Tanzania. Lo stesso vale per gli Aborigeni australiani, popoli dell’area circumpolare, del
Sud-Est Asiatico e dell’India. Nonostante vengano classificati all’interno di una stessa

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categoria, questi popoli mostrano spesso differenze notevoli. Molti di questi popoli ad esempio
cacciavano grandi prede, come gli abitanti dell’Europa preistorica. La caccia forniva a queste
popolazioni la maggior parte del cibo, e dagli animali traevano gran parte del materiale per la
fabbricazione di vesti, utensili, armi, ripari e suppellettili varie. I cacciatori-raccoglitori attuali
invece catturano per lo più piccole prede che non offrono loro un supporto alimentare
paragonabile a quello degli animali cacciati nella preistoria, e nemmeno prodotti derivati.
Molte differenze vi sono anche dal punto di vista dell’organizzazione sociale. A differenza dei
cacciatori-raccoglitori attuali, i popoli della preistoria erano piuttosto stanziali e formavano
gruppi di varie centinaia di individui. I cacciatori-raccoglitori attuali sono invece assai mobili e
vivono in gruppi di 20-30 individui al massimo. Altri gruppi di cacciatori raccoglitori vivevano in
villaggi permanenti e avevano un organizzazione sociale molto differenziata.

I !KUNG SAN, CACCIATORI-RACCOGLITORI DEL KALAHARI: Negli anni ’60 l’antropologo Lee
intraprese lo studio di un gruppo di cacciatori- raccoglitori del deserto del Kalahari (deserto
africano): i boscimani !Kung erano circa 450 dispersi in più accampamenti costituiti in media
da 30 individui ciascuno. Erano interamente dipendenti dalla caccia-raccolta (tranne che per il
latte bovino che ottenevano dai loro vicini allevatori Herero).
Ogni accampamento era associato ad una “buca d acqua”. durante la stagione secca gli
accampamenti si concentravano attorno a queste buche, ma la loro composizione non era
affatto stabile. Infatti andavano incontro a cambiamenti per quanto riguarda dimensioni e
persone che ne facevano parte. Ogni accampamento costituiva un unita autosufficiente per
quanto riguarda la produzione di cibo. Il cibo catturato durante il giorno veniva ripartito
equamente tra i membri dell’accampamento.
Gli scambi di beni tra gli accampamenti erano minimi; al contrario gli individui si muovevano
da un campo all’altro con grande facilità.
L impossibilità di conservare il cibo faceva si che essi dovessero mantenere uno sforzo
produttivo continuo per tutto l anno. L impegno lavorativo non superava le 3 giornate a
settimana. Il cibo vegetale (radici e frutti selvatici) rappresentava il 70% del volume
alimentare ed era assicurato dalle donne. I !Kung pur conoscendo alcune tecniche agricole
apprese dai loro vicini, non si dedicavano all’agricoltura.
Lee notò che le condizioni generali di vita di essi non erano particolarmente dure. Sembravano
ben nutriti e afflitti da malattie meno gravi dei loro vicini agricoltori. Anche l’aspettativa di vita,
che si supponeva bassissima, si rivelò qui assai più alta del previsto (su 450 individui 1/10
avevano più di 60 anni).
Gli anziani, osservò Lee, erano le vere autorità. Anziani ciechi e storpi erano mantenuti dagli
altri, smentendo così l’idea che nelle società di caccia raccolta i vecchi e gli infermi vengano
eliminati.
I rapporti tra i sessi erano improntati ad una sostanziale parità di diritti e doveri. Le donne
erano molto libere e trascorrevano la maggior parte del tempo in visite presso altri
accampamenti. I compiti domestici non le assorbivano che per poche ore al giorno. Gli uomini,
impegnati più a lungo nella caccia, avevano però ritmi disomogenei: potevano infatti cacciare
intensamente per una settimana e poi, per mancanza di selvaggina o per semplice sfortuna,
mancare le loro prede per un mese.
Canti e danze, erano frequenti al tempo della ricerca di Lee.

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Negli anni successivi l’area dei !Kung è stata raggiunta da coloni agricoltori, quindi da spacci
alimentari, scuole, piste di atterraggio fino a che alla fine degli anni ’90 lo stesso Lee rilevò che
la società !Kung era in pieno cambiamento. Nello spazio di una generazione si era trasformata
in una società di pastori, di salariati, di agricoltori e di artigiani. A differenza di altri popoli di
cacciatori-raccoglitori africani, come ad esempio i Pigmei della foresta congolese, i !Kung del
Kalahari non sono riusciti a mantenere il loro sistema adattivo intatto o a modificarlo
funzionalmente al nuovo contesto. Anche i loro villaggi sono cambiati: al posto dei ripari di
arbusti disposti in maniera circolare, sono arrivate le case con i muro di fango e il tetto di
paglia.
Il loro territorio è sempre più occupato da agricoltori e allevatori alla ricerca di nuove terre.

2.3 Caratteristiche delle società acquisitive

La caccia-raccolta si basa su tecniche di sfruttamento delle risorse naturali finalizzate


all’acquisizione di risorse spontanee, di natura animale e vegetale. Caratteristica di questa
forma storica di adattamento è che essa non implica alcuna forma di intervento sulla natura
che possa determinare un cambiamento della stessa natura. Gli esseri umani prendono (anche
se mediante strumenti) ciò che la natura offre. Nelle società acquisitive il lavoro umano si
presenta come un’attività a rendimento immediato.
Per molti antropologi il carattere “spontaneo” delle risorse su cui si basano le società
acquisitive avrebbe ripercussioni importanti sull’organizzazione sociale di queste popolazioni. I
sostenitori di questa tesi hanno usato come esempio alcune società di caccia-raccolta attuali, di
piccolissime dimensioni, altamente mobili, e fortemente ugualitarie, cercando di dimostrare
come tutte queste caratteristiche siano connesse con la natura stessa di questo sfruttamento
delle risorse naturali. Questi antropologi concordano innanzitutto nel ritenere che la
dispersione delle risorse che si registra nei territori di questi gruppi imponga un’alta mobilità
degli esseri umani: la natura non avrebbe il tempo di riprodurre le proprie risorse tanto
velocemente da sostenere una popolazione stanziale e numerosa. La mobilità favorirebbe la
formazione di gruppi numericamente ridotti, denominati “bande”o “orde”. La mobilità si
risolverebbe soprattutto nell’impossibilità, per i membri di queste bande, di accumulare risorse
utilizzabili in altri momenti. La mancanza di “riserve” obbligherebbe quindi i cacciatori-
raccoglitori ad una continua ricerca di cibo e sarebbe soprattutto all’origine dell’impossibilità, di
qualunque persona, di appropriarsene a scapito di altri. Ciò spiegherebbe il fondamentale
egualitarismo delle società acquisitive, la cui sopravvivenza è resa soprattutto possibile da un
forte sentimento di cooperazione tra i loro membri.
Anche i rapporti tra i sessi sono assai più paritari qui che presso altri popoli. La divisione del
lavoro pressoché non esiste e le donne, nomadi come gli uomini, non vengono confinate alla
sfera domestica. Ciò non vuol dire che le società di caccia-raccolta, e quelle acquisitive in
generale, siano prive di differenze interne. Anche in esse infatti esistono individui più
autorevoli di altri per avvedutezza e visione dei problemi o più abili di altri; o maggiormente
ispirati e capaci di entrare in contatto con gli “spiriti” della natura.
Le condizioni generali di vita di questi gruppi fanno sì che le differenze tra gli individui
nell’abilità del cacciare, nel valutare i problemi, nel comunicare con gli spiriti, non siano stabili
né trasmissibili da una generazione all’altra. Non si ha cioè la formazione di gruppi socialmente
differenziati. Infatti le bande studiate dagli antropologi presentano una notevole discontinuità

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nella composizione. Gli individui cambiano spesso gruppo, mentre le coppie si trasferiscono con
la loro prole presso bande diverse da quelle d’origine. In antropologia viene chiamato “flusso”
questo complesso di movimenti che rende difficile concepire la banda come un’unità stabile dal
punto di vista territoriale e sociale. Ci sono casi però in cui differenziazione sociale e stanzialità
possono di fatto esistere anche presso i cacciatori-raccoglitori, per cui diventa problematico
stabilire delle relazioni dirette tra forma di adattamento e organizzazione sociale. Quanto ai
cacciatori-raccoglitori della preistoria europea, sembra vivessero, almeno in un certo periodo,
in aree talmente ricche di selvaggina da rendere superflui gli spostamenti. Anche loro avevano
insediamenti fortemente stanziali e forme di stratificazione della società.

I VEZO, PESCATORI DEL MADAGASCAR: I Vezo( una popolazione che conta tra i 3 e 4 mila
individui) vivono lungo la costa sud-occidentale del Madagascar. Sembra che essi non
possiedano un identità radicata in tradizioni storiche definite con
precisione.“Vezo”significa”pagaiare”, un termine che a sua volta rinvia metaforicamente
all’idea di “gente che lotta con il mare e che vive sulla costa”. La pesca praticata dai Vezo è
con la rete o con gli ami, individuale o collettiva. Per la pesca i Vezo usano per lo più la canoa,
a remi o con la vela, che ricavano scavando il tronco di un albero locale dal legno
estremamente leggero e facile da intagliare.
L abbondanza delle risorse sembra produrre nei Vezo una visione a breve termine delle loro
attività di sussistenza . la disponibilità continua di pesce, non li obbliga infatti a programmare
più di tanto in tanto la produzione. Non possiedono una parola unica che equivalga al nostro
termine “pesca”.la loro idea di sussistenza ruota attorno al termine “mitindroke”, il quale
denota la raccolta di qualsiasi oggetto rappresenti una fonte di sussistenza.
Nonostante la semplicità della loro economia, i Vezo non vivono in un mondo chiuso. I loro
villaggi conoscono l’influenza dei mercati. I contatti con questi ultimi consentono ai Vezo di
diversificare la loro alimentazione. Il mare è visto come un luogo eterno, senza tempo, in cui
da sempre esistono i pesci e gli altri animali. Questa fiducia sembra essere stata intaccata negli
ultimi anni dalla presenza, al largo delle loro coste, dei pescherecci giapponesi che hanno
ottenuto speciali concessioni dal governo del Madagascar. Con i loro carichi di pescato,
infinitamente superiori a quanto possa aspettarsi un Vezo dalla sua pesca più fortunata, le
imbarcazioni giapu sembrano segnalare un pericoloso incombente per queste piccole comunità
di pescatori.

2.4 Le società “acquisitive” oggi: residui del passato o casi di marginalità moderna?

Le differenze inerenti alle società “acquisitive” rendono assai problematico il tentativo di


leggere nelle società acquisitive contemporanee le eredi di quelle preistoriche. Non c’è dubbio
che alcuni aspetti di queste società possano illuminarci sullo stile di vita dei nostri antenati, ma
sarebbe fuorviante ritenere che i cacciatori-raccoglitori di oggi siano dei semplici “relitti del
passato”. Le ragioni di questa impossibile omologazione dei cacciatori-raccoglitori odierni a
quelli della preistoria riguardano soprattutto il fatto che, a differenza di questi ultimi, i primi
mantengono rapporti di vario genere con le società agricole, pastorali e soprattutto con le
amministrazioni degli stati centralizzati. Ritenere che i cacciatori-raccoglitori vivano
nell’isolamento rispetto ad altre forme di organizzazione sociale, politica ed economica sarebbe
un errore. Dal momento in cui comparvero le prime società agricole e i primi stati in Medio-

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Oriente, Asia, Europa, Africa ed Americhe, i popoli cacciatori-raccoglitori cominciarono ad


instaurare con l’esterno relazioni spesso significative. Alcuni autori ritengono che i cacciatori-
raccoglitori di oggi non potrebbero sopravvivere senza interagire con società fondate su altre
forma di adattamento. L’economia “multipolare” tipica di tutte le società acquisitive attuali
rende ovviamente problematico dire chi siano i veri cacciatori-raccoglitori.
Oggi molte di queste società acquisitive sono annoverate tra i popoli “nativi”, “autoctoni” o,
come sono talvolta chiamati, “prime nazioni”. Si tratta di gruppi (Inuit, Indios amazzonici,
nativi nordamericani) che rivendicano uno statuto speciale nei confronti degli stati sovrani nati
dopo la colonizzazione.

3) Forme storiche di adattamento – Coltivatori e pastori

3.1 Orticoltori e contadini

Le società acquisitive hanno dunque costituito la forma di adattamento dominante per gran
parte della storia umana. Che esse abbiano dovuto cedere il passo ad altre forme di
adattamento dipende dal fatto che l’addomesticamento delle piante e degli animali aprì scenari
alimentari, demografici e politici dirompenti per quel tipo di società. Selezionando specie
vegetali e animali con caratteristiche particolarmente vantaggiose sul piano alimentare, il
genere umano modificò il quadro generale delle condizioni di vita, ma ciò non sarebbe stato
possibile senza un’attenta valutazione delle piante e degli animali, nonché dei propri cicli
riproduttivi.
Per molti millenni, fino in pratica al 1950, oltre i 2/3 della popolazione mondiale era costituita
da orticoltori ed agricoltori. Queste pratiche si fondano sullo sfruttamento di piante
addomesticate e implicano entrambe un investimento lavorativo nel processo di produzione.
Diversamente dalle forme di adattamento messe in atto dalle società acquisitive, che si
fondano sullo sfruttamento di risorse naturali spontanee per cui il lavoro umano è un’attività a
rendimento “immediato”, nelle società di coltivatori e in quelle pastorali, il lavoro costituisce
un’attività a rendimento “differito”. Popoli che fondano la propria sussistenza sull’orticoltura
sono distribuiti un po’ ovunque nella fascia tropicale, specialmente nell’Africa subsahariana e
nell’America meridionale. L’orticoltura implica l’impianto nel terreno di talee provenienti da
alberi adulti le quali danno vita ad altri alberi produttori di frutti senza altro intervento che non
sia la preparazione del terreno adatto allo scopo mediante disboscamento o incendio degli
alberi abbattuti. In genere le specie coltivate in questo modo, si riproducono velocemente per
gran parte dell’anno, per cui il rifornimento di cibo è abbastanza continuo. L’agricoltura invece
implica operazioni e una strumentazione maggiormente complesse, perché si fonda soprattutto
sulla coltivazione di legumi, cereali, alberi da frutto, i quali necessitano di un terreno preparato
adeguatamente (aratura, semina), di cure continue (irrigazione), e poi, stagionalmente,
raccolta, battitura, spelatura, spremitura,… Trattandosi di piante con tempi abbastanza lunghi
di crescita e di fruttificazione, gli agricoltori devono accumulare risorse per i periodi in cui le
colture sono improduttive e per poter poi ricominciare il ciclo produttivo. Secondo alcuni

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antropologi le società che fondano la propria sussistenza sull’agricoltura contengono in sé le


premesse per la comparsa dell’autorità politica e della stratificazione sociale. Le società che
praticano l’orticoltura come principale forma di produzione del cibo avrebbero invece forme di
organizzazione sociale più ugualitarie. Le società fondate sull’agricoltura sono talvolta
conosciute come “società contadine”. Solitamente si definiscono “contadine” quelle comunità di
agricoltori che fanno parte di società più ampie da cui si distinguono per il fatto di risiedere
nelle campagne, ossia nel contado. Spesso esse sono diventate il principale oggetto di
sfruttamento politico dell’elite installate nei centri urbani. Il rapporto tra mondo contadino,
fonte di produzione, e quello urbano, sede del potere politico, amministrativo e militare, è
stato storicamente complesso, problematico e talvolta conflittuale. A partire dall’800 il mondo
contadino europeo ha costantemente rifornito la società urbana di forza-lavoro da impiegare
nell’industria.
Oggi l’agricoltura, a causa dell’introduzione di nuove tecniche, viene detta “agricoltura
industriale”, con molta tecnologia e pochi lavoranti. Ma purtroppo ciò è relativo solo ad Europa
e Nord-America; nei restanti 4/5 del mondo, l’agricoltura è sempre basata su tecniche
tradizionali, sempre meno capaci di sostenere il costante incremento demografico (Asia, Africa
e CentroSud-America). Questo deficit produttivo porta come primo effetto un inurbamento
della popolazione, che però non è funzionale allo sviluppo industriale. L inurbamento massiccio
della popolazione è stato una conseguenza della sottoproduttività dell’agricoltura rispetto ai
fabbisogni della popolazione rurale in aumento, a cui talvolta si aggiungono le migrazioni
forzate. L inurbamento ha fatto si che in molti paesi di Asia, Africa e Centro Sud-America, si
siano create enormi masse prive di lavoro, che vivono al di sotto della soglia di povertà, senza
istruzione e assistenza sanitaria, con una bassa aspettativa di vita.
Le società contadine sono sempre state parte di sistemi sociali complessi in funzione dei quali
si sono sviluppate- e dai quali sono state plasmate- rifornendo derrate alimentari e
manodopera per l edilizia, l esercito e più tardi l industria, almeno dove questa ha conosciuto
sviluppi significativi negli ultimi 2 secoli.

GLI YANOMAMI, ORTICOLTORI AMAZZONICI: Gli Yanomami sono un gruppo di circa 20000
nativi amazzonici stanziati tra il Brasile e il Venezuela. Gli Yanomami vivono in grandi abitati
collettivi chiamati “shabono”. In ciascuna sezione dell’abitato vive una famiglia, composta da
un uomo, dalle sue mogli e dai figli non sposati. Essi praticano l’orticoltura, soprattutto la
coltivazione dei banani, da cui traggono la maggior parte del cibo. Gli Yanomami abbattono
porzioni di foresta e la bruciano preparando così il terreno per l’innesto delle talee di banano.
Le banane vengono di solito schiacciate e ridotte ad una specie di pappa che costituisce il loro
principale alimento. Nonostante le attività orticole forniscano la maggior parte del cibo, gli
Yanomami cacciano animali come i tapiri, i formichieri, le scimmie e una grande quantità di
volatili. Gli uomini si sfidano spesso sullo spiazzo dello shabono a pugni e a colpi di mazza per
“regolare i conti in sospeso”:offese, adulteri, litigi di vario genere. Rapire donne per farne le
proprie mogli o amanti sembrava essere una conseguenza della precarietà delle alleanze
politiche e matrimoniali tra i gruppi, non essendovi forme di autorità capaci di fare rispettare le
regole. Gli shabono si formano per motivi economici e per motivi di sicurezza, ma non si
assiste, tra le famiglie che li compongono, allo sviluppo di relazioni strutturate stabili. Gli
shabono hanno vita breve, un paio di anni al massimo, dopo di che le famiglie si spostano in

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cerca di nuove aree da disboscare e si riaggregano secondo altre combinazioni. C’è poi,
all’origine della conflittualità, un’effettiva scarsità di donne. Spesso una madre non è in grado
di allattare più di un bambino alla volta, per cui i secondo nati, non potendo essere dati a balia,
vengono soppressi. L’infanticidio riguarda soprattutto le femmine in quanto né cacciatrici né
guerriere, ma oggetto di possibili rapimenti. La nascita di un figlio, specialmente se maschio, è
accompagnata da vari riti, il più appariscente dei quali è quello che gli antropologi chiamano
“covata”; esso consiste in un particolare comportamento del padre che, per alcuni giorni dopo
la venuta al mondo del bambino, giace nella sua amaca quasi fosse lui ad aver vissuto il
travaglio del parto. Si pensa che questo comportamento sia un modo per manifestare
pubblicamente il riconoscimento della paternità del neonato. La vita degli Yanomami non è
naturalmente improntata esclusivamente al conflitto. Sullo spiazzo degli shabono vengono
accolti periodicamente gruppi di amici, si organizzano feste e vengono compiuti riti funebri in
onore di parenti morti. I loro corpi vengono bruciati, le loro ossa frantumate, ridotte in polvere
e mescolate alla pappa di banane che viene poi ingerita dai parenti. Con questo atto rituale di
endocannibalismo, gli Yanomami pensano di poter assumere la forza del defunto e al tempo
stesso di farlo rivivere nei propri corpi. Ultimamente è stata avanzata l’ipotesi che la violenza
tipica di questa società sia un fenomeno relativamente recente e una conseguenza di fronte
all’avanzata di coloni. Come tanti altri popoli della foresta amazzonica anche essi hanno subito
atti di sterminio da quanti vogliono impossessarsi delle loro terre, ricche di risorse
particolarmente ricercate sul mercato.

3.2 Popoli pastori e comunità “peripatetiche”

La pastorizia è una forma di adattamento che, come l’agricoltura, segna il passaggio da


un’economia di caccia-raccolta a un’economia di produzione vera e propria. Anche in questo
caso, le risorse utili all’uomo hanno bisogno per potersi riprodurre del lavoro umano. La
pastorizia e la coltivazione sembrano essersi sviluppate contemporaneamente. La pastorizia si
distingue dall’allevamento in senso stretto. Quest’ultimo può riguardare animali di vario tipo,
ma stanziali (suini, volatili, ovini, bovini) e allevati con foraggi provenienti dalle coltivazioni, e
pertanto presenti nell’economia delle comunità contadine. La pastorizia in senso stretto implica
invece che gli animali vengano nutriti con il pascolo naturale, senza che gli uomini li
riforniscano di biade e foraggi; si riferisce dunque a dromedari, cammelli, pecore, capre, cavalli
ma anche bovini.
La pastorizia nacque in Medio Oriente all’epoca della rivoluzione agricola. In Medio Oriente la
pastorizia ha assunto un carattere nomade, sebbene gli animali allevati siano qui dromedari,
pecore e capre. In Medio Oriente, e nella Pen.Arabica in particolare, i beduini sono assurti a
modello del pastore nomade per eccellenza. Qui la pastorizia si presenta sotto forma di
spostamenti regolari di uomini e animali all’interno di determinati territori, secondo schemi
fissi, un anno dopo l'altro. La pastorizia nomade è una forma di adattamento iperspecializzata,
che non può combinare efficacemente l’allevamento degli animali migratori (dromedario e
cammello) con forme di produzione come l’agricoltura e l’artigianato che richiedono una vita
stanziale. Per lo più le popolazioni nomadi e pastorali sono ora dipendenti dal mondo agricolo e
urbano. Questa dipendenza si è fatta ancora più stretta con lo sviluppo degli stati nazionali:
creazione di confini, sistema fiscale, controllo politico, monetarizzazione dell’economia,
conflitti, sono tutti elementi che hanno portato al restringimento delle libertà di movimento e

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d’azione da parte dei nomadi, e accentuato la loro dipendenza dagli stati centralizzati. Molti di
questi stati poi sono intervenuti anche con la violenza per rendere stabili i nomadi e meglio
controllarli. Benché in misura minore rispetto ai cacciatori-raccoglitori, i pastori nomadi sono
oggi sulla difensiva: anche se molti di loro scelgono le opportunità offerte dalle economie e dai
servizi degli stati nazionali, molti altri sono restii ad adeguarsi a situazioni che avvertono come
minacciose per il mantenimento del loro stile di vita. Oltre ai pastori esistono altre comunità
che fanno del nomadismo il loro modello ideale di esistenza. Si tratta di tutte quelle comunità
“senza fissa dimora”, quali Rom e Sinti (“Zingari”). Per distinguerle dai pastori nomadi che
fanno del movimento un fattore funzionale alla riproduzione delle risorse animali il loro
possesso, comunità di questo tipo sono chiamate “peripatetiche”, cioè in movimento.

I MEZZADRI TOSCANI: La Mezzadria è un’istituzione economico giuridica nata nel XVIII secolo
in Europa per regolamentare i rapporti tra proprietari terrieri e contadini. Ebbe particolare
sviluppo in Toscana. Il contratto mezzadrie prevedeva che al proprietario spettasse una certa
quantità del raccolto ( di solito la maggior parte), mentre al contadino (mezzadro)e alla sua
famiglia, spettava il resto. Il proprietario doveva fornire i mezzi di produzione e il bestiame
nuovo nato era di proprietà del padrone che, rivendendolo, poteva poi assegnare a sua
discrezione al mezzadro una parte del ricavato. Per procurarsi il contante con cui acquistare
sale, zucchero e altri generi alimentari o il vestiario, i mezzadri vendevano qualche pollo o
qualche formaggio. La mancanza di disponibilità di contante in un’economia nazionale sempre
più monetarizzata, fu un problema cronico e una delle principali cause del progressivo declino e
poi della scomparsa della mezzadria (la sua abolizione in Italia risale al 1982). Quello
mezzadrie era un mondo tendenzialmente chiuso: raramente i contadini si avventuravano più
lontano del comune di appartenenza. I paesi erano il punto di riferimento pressoché unico. I
contadini toscani erano sostanzialmente fedeli alla Chiesa. I matrimoni erano religiosi; i
funerali erano regolarmente celebrati in presenza del prete e secondo i riti cattolici. Nel
sottofondo della cultura popolare, erano presenti credenze magiche; in caso di malattia molti
contadini preferivano talvolta rivolgersi al guaritore (stregone)piuttosto che al dottore, anche a
causa della mancanza di fondi con cui pagare le prestazioni mediche. I buoi, unica fonte di
energia per lavorare i campi, erano protetti da sfortuna, malocchio e malefici con amuleti e
fiocchi di stoffa rossa e la loro morte er considerata un evento spesso drammatico per tutta la
famiglia, che invece accoglieva con festosa soddisfazione la nascita di un vitello. La famiglia
mezzadrie toscana era sotto la guida di un uomo, di solito il più anziano, il “capoccia”, che
dirigeva i lavori e gli affari della famiglia, soprattutto nelle sue relazioni con il proprietario.
Alla”massaia”, la donna più anziana, spettava invece l’organizzazione della vita domestica. Le
occasioni di distrazione e di festa erano poche; un’importante occasione di incontro tra famiglie
era la stagione della trebbiatura del grano. Si trattava di operazioni che potevano durare anche
2 o 3 giorni e che prevedevano la collaborazione di contadini provenienti da più poderi. Lo
sviluppo dell’industria e dei servizi, richiamò verso la città una quantità sempre maggiore di
manodopera. I poderi si svuotarono e furono abbandonati. Un ristretto numero di mezzadri, in
base a speciali facilitazioni introdotte dal governo, divennero proprietari dei poderi in cui
lavoravano e abitavano ed oggi coltivano la terra con metodi industriali grazie all’introduzione
di nuove colture. I casolari della campagna, progressivamente abbandonati, vennero in un
secondo momento rivalutati e cominciarono ad essere ristrutturati dagli abitanti dei centri
urbani come seconda casa o per essere adibiti ad agriturismi.

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GLI SHAMMAR, PASTORI NOMADI DELL’ARABIA SETTENTRIONALE: gli Shammar formano una
grande tribù nobile beduina dell’Arabia. Secondo alcuni autori il loro dialetto è quello che più si
avvicina all’arabo classico. Sino alla fine della Prima Guerra Mondiale, gli Shammar vivevano
sotto l’autorità formale dell’Impero Ottomano. Per tutto il secolo precedente essi furono i
sostenitori del più potente emirato arabo, quello della potente famiglie dei Rashid. Questi
ultimi, che furono i principali avversari di Saud, nella lotta per il controllo dell’Arabia
conseguente al disfacimento dell’Impero Ottomano, erano alleati di quest’ultimo e, come tali,
ebbero la peggio. In ragione di questo duro conflitto con gli Shammar, il governo saudita ha
sempre impedito che costoro, a differenza di tutte le altre tribù nobili, beduini d’Arabia,
avessero un proprio shaykh supremo; per questo motivo hanno invece tanti shaykh minori a
capo delle varie frazioni che compongono la tribù nobile. Fino agli anni ’50-60, gli Shammar
vivevano soprattutto allevando i dromedari e il piccolo bestiame, che facevano pascolare
durante le loro migrazioni all’interno del Nefud. Questo deserto di sabbia ha pochi pozzi, ma la
sua posizione geografica fa si che in autunno e inverno si ricopra di arbusti e piante adatte a
nutrire i loro animali. I beduini vivono ancora oggi nelle tende tessute con la lana nera delle
pecore. Riuniti in grandi accampamenti attorno ai pozzi durante la stagione estiva, i nuclei
famigliari si disperdevano durante l’inverno, formando gruppi di nomadizzazione composti dalle
famiglie di più fratelli. Nell’ultimo mezzo secolo la vita degli Shammar è andata incontro a
profonde trasformazioni. Il governo saudita infatti è intervenuto in maniera massiccia nel
settore nomade. L’intervento non è stato finalizzato alla salvaguardia si questa forma di
adattamento, quanto piuttosto a favorire il passaggio dei beduini alla vita sedentaria. Anche la
vita materiale delle popolazioni è profondamente cambiata. I fondi governativi hanno
consentito loro di acquistare autocarri con cui trasportare velocemente acqua, foraggi,
bestiame, favorendo così l’iper sfruttamento di certe aree piuttosto che di altre. Sono molti i
beduini che hanno ricevuto terre dallo stato e riescono a produrre abbastanza foraggio da
allevare pecore per il mercato. Molti di più sono gli Shammar che si sono trasferiti nelle città in
cerca di lavoro.
Gli Shammar tuttavia si mostrano incerti nel seguire le direttive dei loro governanti in materia
di ortodossia. Fedeli all’Islam, essi sono meno legati delle popolazioni sedentarie d’Arabia ad
una interpretazione religiosa rigida. La loro visione del mondo è ampia e il loro atteggiamento
in materia di fede si ispira ad una generica tolleranza nei confronti degli stranieri e dei non
musulmani.

CAPITOLO 3: COMUNICAZIONE E CONOSCENZA

1) Orale e scritto
A certe differenze tra comunicazione orale e scritta, due modi di comunicare, possono essere
fatte risalire alcune importanti diversità tra visioni del mondo presenti nelle varie culture. Il
confronto tra questi due stili di comunicazione, orale e scritto, non va inteso nel senso di
un’opportunità assoluta, bensì di una “tensione relativa”.

1.1 Comunicazione orale e comunicazione scritta

Non esiste ormai cultura che ignori l’esistenza della scrittura e tuttavia, anche dove la scrittura

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è estremamente diffusa, la comunicazione ordinaria si svolge per lo più in forma orale. D’altra
parte non ci rendiamo conto di quanto la comunicazione orale sia condizionata dalla scrittura.
Essa ci influenza nel senso che il modo con il quale ci esprimiamo è guidato da un pensiero che
si fonda sulla sua interiorizzazione.
Le culture come la nostra, in cui vi è una scrittura diffusa, sono dette culture “a oralità
ristretta”. Fino a non molto tempo fa esistevano ancora le società a “oralità primaria”, cioè
società che non conoscevano alcuna forma di scrittura.
Oggi non esistono più società a “oralità primaria”. Infatti, anche laddove non è particolarmente
diffusa, la scrittura esercita la sua influenza attraverso leggi, regolamenti, disposizioni,… D’ora
in poi parleremo di “culture a oralità diffusa” per indicare che lo stile comunicativo in esse
prevalente non è stato ancora completamente sopravanzato dallo stile della comunicazione
scritta. Molti elementi tipici dell’oralità primaria si sono mantenuti in ampie aree del nostro
pianeta.
L’esame di alcune caratteristiche dello stile di comunicazione orale è utile per osservare come
esso si accompagni a certe modalità del pensiero: ad uno stile di pensiero che è per certi
aspetti diverso da quello di soggetti abituati a maneggiare i segni di un alfabeto grafico.
La scrittura esercita una sorta di “imperialismo” sulla parola; le nostre menti non possono
pensare ad una parola se non in forma di una parola scritta. In conseguenza di questo fatto
alcuni hanno avanzato il sospetto che le persone scolarizzate non possano cogliere
completamente il senso che le parole hanno in un contesto nel quale esse vengono pronunciate
o ascoltate da individui all’oscuro della scrittura (e viceversa).
Studi recenti hanno mostrato come i cantastorie e gli improvvisatori di poesie, anche
analfabeti, procedano come i Griot africani. Per cui si affidano a mezzi mnemonici derivati da
uno stile di pensiero tipico delle culture a oralità primaria: essi, per ricordare i loro “testi”, si
affidano al ritorno frequente di formule sempre identiche.
Nelle culture fortemente impregnate di oralità, questo modo di procedere non è caratteristico
solo della dimensione poetica, religiosa o mitica ma anche di discorsi conoscitivi, politici,
giuridici e amministrativi. In assenza di scrittura, modelli fissi e formule diventano i necessari
supporti per comunicare con altri o per trasmettere le conoscenze da una generazione all’altra.
Il procedere con formule non scompare nemmeno con il passaggio all’uso dell’alfabeto scritto.
Un caso ulteriore di rapporto tra oralità e scrittura è rappresentato dal “regresso all’oralità”
nelle società ricche e post-industriali. Le ricerche condotte dai sociologi esperti di media e dagli
psicolinguisti hanno messo ormai da tempo in evidenza come il linguaggio televisivo, e in
misura minore di altre forme di trasmissione delle informazioni per immagini (cinema, internet,
fumetti, sms…) abbiano spesso comportato un regresso sul piano della ricchezza lessicale e
delle conoscenze linguistiche da parte di certe fasce sociali e d’età.
I soggetti che vivono in culture senza scrittura, o dove la scrittura è penetrata solo
parzialmente, non possono essere definiti “analfabeti” nel senso corrente del termine.
L’analfabetismo, così come si presenta nelle nostre società ricche e ipertecnologiche, è un
fattore di emarginazione, esclusione e povertà. Chi proviene da culture a tradizione orale e si
trova in una società dove a prevalere è la scrittura si trova ovviamente svantaggiato, in termini
di accesso alle informazioni e alle risorse.

GRIOT: E’ un termine usto dai francesi per designare quei musici o cantastorie che nell’Afria
subsahariana si dedicavano alla raccolta e alla trasmissione delle leggende. I loro matrimoni

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avvenivano sempre con donne di famiglie di altri Griot. I Griot possono essere itineranti oppure
vivere, come avviene ancora oggi, alla corte di qualche personaggio importante. il loro
repertorio consiste soprattutto in canti storici, che celebrano le genealogie di capi re eroi e le
loro imprese.

1.2 Parola, corpo e percezione del mondo

Abbiamo visto che la dimensione orale corrisponde a un modo diverso di esprimersi diverso da
quello tipico delle culture dotate di scrittura diffusa.
In assenza di scrittura le parole non hanno un’esistenza visiva, sono solo “eventi”, nel senso
che “accadono” in un tempo preciso e con esso svaniscono. Nelle culture orali l’efficacia delle
parole sembra essere legata al momento in cui esse vengono pronunciate, e spesso la
narrazione per essere più efficace è accompagnata da una precisa gestualità. Queste culture
vengono infatti dette “verbomotorie”, a testimonianza del legame molto forte tra i modelli
ritmici del discorso orale con respirazione e gesti. Anche quando i movimenti del corpo non
hanno come fine immediato quello di facilitare l espressione orale, vige spesso un complesso di
norme non dette a cui i parlanti si conformano, atteggiando il corpo e la voce con un
determinato modo a seconda dei discorsi che devono pronunciare. Basta osservare il
comportamento dei fedeli che pregano.
Malinowski disse che il linguaggio era un modo dell’azione più che del pensiero. Nelle culture
orali le parole si caricano in certe circostanze di un potere causativo importante, come se
“dire”fosse quasi un “fare”. Si può allora capire perchè i nomi di persona, di divinità ma anche
di semplici cose, siano spesso ritenuti avere un potere sulle cose e sugli esseri umani.
Il logos, il discorso, è al centro della riflessione della filosofia greca classica e appare come il
principio ordinatore del mondo e, al tempo stesso, il criterio della possibile comprensione di
esso da parte degli esseri umani.
Altri popoli hanno invece una vera e propria “teoria della parola”. Questi popoli vedono nella
parola quasi la proiezione sonora nello spazio della personalità dell’uomo. Come il corpo umano
è costituito da 4 elementi, così lo è la parola: l’acqua (che la “inumidisce”), l’aria (che la
trasforma in vibrazione sonora), la terra (che dà peso alla parola, cioè significato), il fuoco
(che dà calore alla parola come riflesso dello stato d’animo del parlante). Il soffio della parola
stessa, il “kikinu”designa il tono su cui essa si manifesta, e che costituisce il nesso diretto con
la struttura psichica. Il kikinu infatti non esiste di per se ma solo coniugato con la voce, dando
luogo a un consistente numero di combinazioni (voce pesante, grossa, forte, irritata, chiara,
debole, …).

1.3 Scrittura, oralità, memoria

Un’importante differenza tra culture orali e culture con scrittura sta infatti nella presenza,
presso queste ultime, di tecniche altamente elaborate di conservazione della memoria, quindi
di trasmissione del sapere. Dove non c’è scrittura possono infatti esistere tecniche
mnemoniche esterne alla parola (come sassolini, bastoncini, cordicelle) ma non utili per
ricordare sequenze argomentative molto lunghe e con contenuti analitici. Dove la scrittura non
è presente, l’unico modo per ricordare lunghe sequenze argomentative è pensare per “moduli

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mnemonici” che possano funzionare per un rapido recupero orale: temi, proverbi, scenari,
ripetizioni, antitesi.
Questo modo di trasmettere la memoria e le conoscenze ha un riflesso immediato sul tipo di
memoria e di conoscenza che si trasmette: ci si può affidare solo alla parola, che per poter
essere ricordata e trasmessa deve fare affidamento su moduli mnemonici ripetitivi. Questo
modo di trasmettere la memoria tende a produrre effetti “omeostatici”, cioè tende a eliminare
tutto ciò che non ha interesse per il presente; del passato e delle conoscenze viene trasmesso
solo ciò che interessa al presente. Tutte le culture, anche quelle provviste di scrittura e
tecnologie informatiche, tendono a operare selezioni sulla propria memoria. Una caratteristiche
di tutte le culture è infatti quella di essere selettive. Le culture dotate di sistemi mnemonici
che vanno oltre i sassolini e le cordicelle possono conservare, proprio grazie ai mezzi di cui
dispongono, anche una massa enorme di “ricordi inutili”, tanto di eventi che di conoscenze.
Nelle società prive di scrittura non si ha invece “ conservazione dell’inutile”.
Per meglio comprendere in cosa consistono gli effetti omeostatici della trasmissione orale della
memoria, possiamo considerare il caso delle genealogie di certi popoli. Gli antropologi hanno
accertato che presso alcuni popoli le genealogie, cioè gli elenchi dei nomi degli individui che
collegano le persone viventi con gli antenati, non sono affatto memoria storica del passato,
bensì giustificazione delle relazioni esistenti tra i gruppi allo stato presente. In molte culture si
dichiara cioè di discendere oppure no dallo stesso antenato, a seconda che si voglia
sottolineare un’alleanza una distanza di interessi nel presente. Tutte le culture operano delle
selezioni sulla propria memoria, perché tutte sono selettive. Però le società che possono
contare su sistemi avanzati possono conservare questa massa di “ricordi inutili” proprio grazie
agli strumenti di cui dispongono mentre nelle società prive di scrittura ciò non avviene.

1.4 Oralità ed esperienza

Un dato cruciale delle culture ad oralità diffusa è la dimensione dell’esperienza: se il rapporto


immediato tra la parola e l’esperienza viene meno, il significato della parola tende ad alterarsi
o a perdersi. Ciò coincide con quanto abbiamo detto a proposito degli effetti “omeostatici” delle
culture orali. Il pensiero fondato sulla comunicazione orale, almeno nelle società in cui l’oralità
è la forma dominante di comunicazione e di trasmissione della memoria e delle conoscenze, ha
un carattere “concreto” piuttosto che astratto. Importante a questo proposito la ricerca svolta
in Uzbekistan dallo psicologo A.Luria, il quale volle esplorare l’attività psico-cognitiva dei
soggetti in relazione al contesto materiale, pratico e concreto in cui le menti si trovano ad
operare, in rapporto cioè al “contesto d’esperienza”. Segui le indicazioni di Vygotskij che
aveva chiarito come lo sviluppo del pensiero umano non fosse qualcosa di puramente naturale,
ma piuttosto il prodotto di processi combinati di natura psichica e di natura sociale. In
Uzbekistan, egli scelse individui preletterati, semi alfabetizzati e pienamente scolarizzati dei
villaggi e accampamenti nomadi e sottopose loro elementari quesiti di logica e geometria. Di
fronte a figure geometriche (quadrato e rettangolo), le prime due categorie di intervistati
rispondevano che ciò che vedevano corrisponde al sole, alla luna, ad un piatto, piuttosto che
un setaccio, un orologio... Gli scolarizzati risposero invece esattamente, secondo ciò che
avevano imparato a scuola, cioè in un contesto lontano dalla loro esperienza. L’esperienza
infatti è un dato centrale per l’individuazione di un oggetto e per la sua comprensione
mediante la ricostruzione a categorie già note. Anche di fronte a domande di logica formale le

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risposte furono molto variegate: gli individui preletterati continuavano a ragionare secondo
l’esperienza personale, i semi-alfabetizzati univano concretezza e relazioni interpersonali,
mentre solo gli scolarizzati rispondevano “correttamente”. La logica formale appare quindi
come il prodotto dell’alfabetizzazione. Storicamente infatti essa si sviluppò non solo dopo la
comparsa della scrittura, ma dopo che la scrittura era stata interiorizzata da una cultura come
quella greca antica. Ciò non significa che i soggetti intervistati da Luria pensassero in maniera
sbagliata; essi dimostrarono che nel concreto la mente non opera sulla base di schemi
sillogistici, che sono autoconsistenti in quanto derivano le conclusioni solo dalle premesse; gli
esperimenti di Luria furono piuttosto la dimostrazione che una cultura orale non riesce a
pensare in termini di figure geometriche, categorie o definizioni astratte afferrabili come tali
solo da un pensiero che ha avuto modo di confrontarsi con la scrittura.
I soggetti che hanno interiorizzato la scrittura pensano dunque in maniera tendenzialmente
diversa da coloro che si muovono in contesti orali.
La scrittura consente l’acquisizione di un pensiero più “ampio” di quello legato all’oralità,
perché essa consente di entrare in contatto con altri mondi ed altri punti di vista, di
confrontarli in maniera sistematica e di elaborare nuove proposizioni a partire da quelle
esistenti.

IL CARATTERE SACRO DELLA SCRITTURA: In molte società a oralità diffusa la scrittura


possiede una forma di autorevolezza quasi sacrale. Questo fu un tratto di molte civiltà antiche
come gli egizi. Presso questi popoli, la scrittura era conosciuta da pochi individui, i sacerdoti
che se ne servivano per tramandare formule sacre o magiche. Anche oggi, laddove la scrittura
è conosciuta da molti, vi possono essere ambiti “riservati”che la rendono particolarmente
autorevole. I documenti scritti sono “autorevoli”in quanto riportano regole o decisioni come la
promulgazione di una legge. Tuttavia vi sono addirittura casi in cui l’autorità del documento è
così indiscussa che basta citarla perché lo scritto si imponga come incontestabile. Nell’oasi di El
Ksar, in Tunisia, i documenti scritti sembrano detenere ad esempio questa forma di autorità
speciale. Il documento materiale non possiede alcuna funzione di “prova”nel senso corrente del
termine, ma è una specie di dichiarazione “sull’onore”da parte di colui che ne cita l’esistenza.
Citare un documento significa riferirsi non solo, e non tanto, ad un testo scritto di per sé già
autorevole, ma significa fare riferimento ad una autorità che non può essere messa in
discussione, nel senso che colui che cita tale documento è, di per sé, nella condizione di dover
essere creduto. Questo è quanto accade ad esempio nel caso di quei documenti che attestano
la nobiltà e la santità di alcune famiglie politicamente preminenti. La duplice natura nobile e
santa di queste famiglie, è pubblicamente riconosciuta e attestata da documenti scritti in cui
sono riportati i nomi degli individui attraverso i quali è possibile risalire al profeta Maometto. In
questa circostanza il passato assume la caratteristica di “risorsa politica”nelle mani di poche
famiglie le quali, al fine di legittimare la propria posizione preminente, sostengono di
discendere dal profeta. Affermando di custodire documenti che ne provano la discendenza, ma
senza essere sempre in grado di mostrarli.

1.5 Scrittura e identità nel mondo globale

L’impatto che la diffusione della scolarizzazione e della scrittura in generale ha avuto sulle
culture del pianeta è stato enorme. Non esistono praticamente più culture ad oralità primaria.

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Ci sono campi però in cui alcune società evitano l’uso della scrittura, pur conoscendola: è il
caso delle genealogie. Alcuni gruppi fanno di esse un uso “politico” cioè un mezzo che consente
a questi gruppi di legittimare, attraverso il richiamo agli antenati, le scelte compiute nel campo
delle alleanze. Ad esempio i Beduini nomadi del Medio-Oriente hanno sempre evitato di
utilizzare la scrittura per la registrazione delle loro genealogie tribali. Affidare le genealogie alla
memoria piuttosto che alla scrittura, è sempre stata un’operazione funzionale alla flessibilità
della loro società, in cui gli spostamenti seguivano l’andamento delle stagioni e i cambiamenti
nelle alleanze erano frequenti e necessitavano di giustificazioni immediate (come la prossimità
genealogica). Ciò ha assicurato ai beduini una certa libertà di manovra, autonomia e scelta. Ma
con la diffusione sempre più massiccia della scrittura le cose sembrano destinate a cambiare:
anche certe tribù beduine cominciano ad adattarsi alla scrittura per non rimanere tagliate fuori
dai rispettivi governi nazionali, che le etichettano come “preletterate”. Quanto inoltre sia
diffuso l’uso strategico della scrittura nella definizione delle identità locali appare del resto
evidente in relazione al movimento N’Ko: sviluppatosi in Mali con l’idea di restituire l’Africa agli
Africani, questo movimento rivendica per gli africani una propria identità storica e culturale.
Pur essendo musulmani, molti di questi africani sopportano male la tendenza ad identificare
l’islam con il mondo arabo. La guida del movimento, S. Kantè, si è fatto promotore di
un’iniziativa “politica” che ha per oggetto la scrittura: per distinguersi dagli arabi, gli N’Ko
hanno abbandonato l’alfabeto arabo e adottato quello inventato da Kantè, simile a quello
latino, ma che va da destra verso sinistra nella scrittura. In questo modo, muovendosi tra due
forme di scrittura, Kantè si muove tra due forme di identità parzialmente assimilate, e dalle
quali si vuole tuttavia prendere le distanze: l’identità ereditata dal colonialismo europeo e
quella derivante dalla precedente islamizzazione da parte degli Arabi.

1.6 Media, cultura e la nuova “immaginazione globale”

Dagli anni 60 si è assistito a una grande diffusione dei media su scala planetaria. Questi, tra
cui spicca la televisione per accessibilità, sono mezzi culturalmente influenti. I media sono
produttori di cultura, nel senso che suggeriscono comportamenti, idee, valori, gusti, costumi. I
messaggi trasmessi dai media penetrano nella cultura che li recepisce suscitando in essa
risposte che non sono sempre prevedibili. Sono fattori attivi nel processo di produzione e di
cambiamento culturale. Ciò vuol dire che i messaggi da essi trasmessi sono suscettibili di
influire potentemente sulle relazioni tra gli esseri umani e sulla loro immaginazione. Per questo
l antropologia ha iniziato a occuparsi negli ultimi decenni dei media.
La diffusione dei media da un lato e il movimento intenso e rapido di esseri umani dall’altro
spiegano l emersione nella nostra epoca di quella che potrebbe essere definita una
“immaginazione da spostamento”. Questa forma di immaginazione non costituisce più un modo
per uscire dal quotidiano ma è diventata grazie ai media, parte del nostro stesso quotidiano e
qualcosa capace di orientarlo. L immaginazione si configura come palestra per l azione, e non
solo come fuga dalla routine di tutti i giorni. Oggi masse di migranti si spostano da un paese
all’altro perche spinti da una nuova forma di immaginazione, quella che essi si sono costruiti
soprattutto grazie ai media.
Non c è più un vero centro che regoli la formazione dell’opinione, che è sempre più prodotta
dall’uso che gruppi diversi possono fare dei media.

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L immagine delle culture viene diffusa dai media presso un pubblico sempre più numeroso. Ciò
significa che l idea che si fanno i gruppi umani sparsi per il pianeta dei loro simili è sempre più
costruita dai media. Essa è solitamente diversa dal modo in cui gli antropologi presentano al
pubblico quelle stesse culture. Ciò è importante perche il modo in cui un gruppo recepisce l
immagine di una cultura, propria o altrui, può avere ripercussioni importanti sul modo in cui il
gruppo elabora una concezione dell’identità propria e degli altri.

2) Percezione e cognizione

2.1 Pensiero “concreto” e pensiero “astratto”

I primi europei che si accostarono a quelli che una volta erano chiamati “popoli primitivi”,
furono colpiti dal fatto che molti di essi non avevano sistemi di numerazione e di calcolo che
andassero oltre poche unità. In seguito anche l’assenza di un concetto astratto di spazio e di
tempo suscitò la perplessità dei filosofi occidentali. Quando poi i contatti con queste
popolazioni divennero più frequenti, gli stessi antropologi segnalarono anche che i “primitivi”
parevano interessarsi alla flora e fauna del loro ambiente solo in relazione alle specie
considerate da essi utili, mentre tutte le altre non sembravano suscitare in loro la minima
curiosità. Molte di queste segnalazioni erano però dovute ad osservazioni errate, a mancanza
di informazioni adeguate o alla scarsa conoscenza della lingua di quelle popolazioni. Infatti, in
seguito, alcuni di questi popoli si rivelarono in possesso di un repertorio lessicale assai ricco
con cui descrivere i fenomeni naturali.
Gli Inuit(Eschimesi)per esempio,risultavano in possesso di un numero per noi strabiliante di
termini per indicare la neve,a seconda che essa cadesse in un certo modo,con una certa
intensità,che avesse una certa consistenza.
Tutti gli esseri umani possiedono le potenzialità per ragionare in maniera astratta e formale.
Levi-Strauss osservava come il pensiero dei popoli chiamati primitivi non fosse affatto privo di
valenze speculative, riflessive e teoretiche. La differenza principale rispetto al pensiero
scientifico moderno è che tali capacità sono esercitate solo in relazione a contesti d esperienza
e non in merito a problematiche logico-formali astratte. Egli indicò infatti la ricca attività
speculativa di questo pensiero con l espressione “scienza del concreto”.

2.2 La percezione del mondo fisico e gli stili cognitivi

La percezione del mondo circostante coincide con i processi mediante i quali gli individui
organizzano informazioni di natura prevalentemente sensoriale. La percezione del mondo fisico
può, in molti casi, risultare differente a seconda dei soggetti coinvolti.
Vygotskij a proposito della natura “socialmente determinata” del pensiero,distinse tra
“processi cognitivi elementari” e “sistemi cognitivi funzionali”. I primi rappresentano alcune
capacità universalmente presenti, e formalmente identiche, in tutti gli umani “normali”, cioè
non colpiti da patologie o disturbi particolari. Questi processi sono: astrazione,
categorizzazione, induzione(dallo specifico al generale) e deduzione(dal generale allo
specifico). I sistemi cognitivi funzionali invece sono il prodotto del contesto culturale entro cui il
soggetto attiva i processi cognitivi elementari. Tali sistemi potrebbero essere anche definiti

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come delle “strategie” di organizzazione dei processi cognitivi in funzione della risoluzione di
particolari problemi che cambiano a seconda del contesto culturale.
I diversi modi di reagire ad un test interculturale sono anche dovuti a “stili cognitivi” differenti.
Gli antropologi hanno usato questa espressione per denotare il diverso modo in cui individui
provenienti da ambiti culturali differenti si rapportano al mondo sul piano cognitivo. Per
comodità si dice che lo stile cognitivo può oscillare, in misura diversa, tra due estremi ideali:
tra uno stile cognitivo “globale” e uno stile cognitivo “articolato”. Il primo è caratterizzato da
una disposizione cognitiva che parte dalla totalità del fenomeno considerato per giungere solo
successivamente alla particolarità degli elementi di cui si compone; lo stile articolato invece è
quello che parte dalla considerazione dei singoli elementi dell’esperienza per risalire alla
totalità.

2.3 L’etnoscienza

Tutti i popoli possiedono una conoscenza più o meno ricca e complessa dell’ordine naturale.
Tutti hanno elaborato le proprie classificazioni, ma le differenze sono notevoli. Gli antropologi
che si sono dedicati allo studio delle classificazioni nei contesti culturali più diversi definiscono
la loro specializzazione con il termine di etno-scienza. L’etnoscienza è lo studio di come le
differenti culture organizzano le loro conoscenze del mondo naturale. Tali conoscenze e
concezioni non sono casuali e frammentate, ma possiedono gradi di sistematicità spesso
notevoli.
Il mondo fisico percepibile dall’occhio umano è caratterizzato da forti regolarità ma anche da
un estrema fluidità e variabilità che pare obblighi la mente a fare continuamente ricorso a
forme stabili di categorizzazione. Nei processi di classificazione del mondo fisico-naturale la
categorizzazione pare prodursi sempre in relazione a un prototipo, cioè a un oggetto-
rappresentazione capace di costituire il punto di riferimento attorno al quale vengono costruite
categorie o classi di oggetti (ad esempio “il prototipo della pianta”pg107).
Le classificazioni del mondo naturale non sono il semplice riflesso sulla nostra mente di una
realtà esterna che noi cogliamo in maniera “oggettiva”, ma tali classificazioni sono in larga
misura il prodotto dei principi d’organizzazione che stanno dalla parte del soggetto che
classifica. Il carattere culturale delle classificazioni appare più evidente in relazione a certe
pratiche sociali. Un esempio di questo fatto ci è offerto dai Waiwai dell’Amazzonia. Tra di loro
solo agli uomini è consentito consumare carne. Pur vietando alle donne il consumo di
quest’ultima,è consentito loro do cibarsi del fegato di certi animali. In base agli studi fatti
sembrerebbe che i Waiwai includano il fegato di certi animali nella categoria “vegetale”in virtù
della loro forma che,ai loro occhi,ricorda quella delle foglie di certe piante. Forse è un modo
per razionalizzare la necessità di far consumare alle donne delle proteine animali atte a
integrare una dieta vegetale oppure tale assimilazione è la conseguenza di un modo di
classificare i fenomeni del mondo naturale.

ANIMALI IMPURI, ANIMALI SIMBOLICI: In tutte le culture è possibile trovare rappresentazioni


di animali dotati di un forte valore simbolico. Le tradizioni ebraica e musulmana tengono il
maiale in grande disprezzo considerandolo “impuro” e quindi proibiscono il consumo della sua
carne. Nella Bibbia troviamo molte altre proibizioni alimentari: animali acquatici impuri (anfibi,
molluschi, crostacei). La carne di certi mammiferi viene invece indicata come “commestibile”:

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bue, pecora, capra. Altri mammiferi sono invece proibiti in quanto “abominevoli”, cioè impuri:
cammello, lepre e maiale. Secondo l’antropologa inglese Douglas, questa distinzione tra
animali commestibili (puri)e abominevoli (impuri)dipende da un problema di coerenza
classificatoria.

2.4 Dai prototipi agli schemi

Nei processi di classificazione del mondo,la categorizzazione sembra prodursi in relazione a un


“prototipo”,cioè un oggetto-rappresentazione capace di costituire il punto di riferimento attorno
al quale vengono costruite categorie o classi di oggetti.
I prototipi sono un modo di organizzare la percezione del mondo circostante. Essi individuano
particolari aspetti della realtà, ma non sono ciò che consente di mettere concettualmente “in
forma” la realtà. La possibilità di individuare e ordinare la realtà è data dagli “schemi”. Il
concetto di schema venne ripreso da E. Kant, che afferma: “gli schemi sono regole concettuali
grazie alle quali la nostra immaginazione, per esempio in relazione al concetto di “cane”, è
messa in grado di delineare in generale la figura di un quadrupede, senza tuttavia chiudersi
dentro una particolare raffigurazione offertami dall’esperienza o in una qualsiasi immagine che
io possa rappresentarmi in concreto”di un cane. Lo schema in questo caso è la possibilità che
noi abbiamo di pensare al concetto di cane.
Che l’attività schematica sia una proprietà universale della mente umana è indubbio, come è
certo il fatto che gran parte di questa attività è “culturalmente orientata”.
D. Andrade afferma che “lo schema è una cornice organizzata di oggetti e di relazioni che deve
essere riempita di dettagli concreti, mentre un prototipo consiste in un gruppo specifico di
aspettative culturalmente determinate”.
Gli schemi sono ciò che organizza la nostra esperienza, la quale, per essere rappresentata,
deve procedere per prototipi e sotto-prototipi, che vengono organizzati a loro volta da schemi
e sotto-schemi.(ad es. a partire dallo schema “scrivere”e in corrispondenza del suo prototipo
“penna,carta,testo leggibile”,quanti sotto-schemi e sotto-prototipi si possono organizzare
prendendo in considerazione tutti i tipi di penne” a sfera,stilografiche”,di matite” colorate,
porta mine con o senza cappuccio”,di gessi”teneri,duri”).Tutte queste possibilità non sono già
nella nostra mente,sono piuttosto nella facoltà stessa che noi abbiamo di organizzare tutta la
nostra esperienza in forma schematica. Quest’ultima è una caratteristica universale del
pensiero umano (dipendente dalla struttura del cervello) e “viene riempita” e “messa in moto”
al tempo stesso da prototipi elaborati dal contesto d’esperienza, i quali rinviano a cose simili
ma non identiche.

2.5 La terminologia del colore. Tra universalismo percettivo e determinazione socio-culturale

Alla fine degli anni ’60 Berlin e Kay confrontarono le terminologie dei colori di 26 lingue diverse
e accertarono che il numero dei termini presenti in esse variava da un minimo di 2 ad un
massimo di 11. Questi termini fondamentali, o “di base”, sono quelli che riflettono fenomeni di
percezione del colore senza bisogno di ulteriore specificazione per essere compresi. In italiano,
ad esempio, “rosso” è un termine di base, dal momento che non vi è bisogno di alcuna
specificazione per capire cosa significhi; il colore scarlatto o ruggine richiedono invece sempre

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un riferimento al colore rosso (termine di base) per poter essere individuati. Gli studiosi
giunsero dunque a 3 conclusioni:
 Esistono, per tutti gli esseri umani, 11 categorie percettive basilari del colore che
servono come referenti psicofisici degli 11, o meno, termini di colore di base in tutte
le lingue. Tutti gli esseri umani sono cioè in grado di percepire le differenze (11) del
colore, ma tali differenze o vengono espresse mediante 11 termini, oppure vengono
ricondotte, sempre sul piano terminologico, ad altre categorie cromatiche(ad es. il
blu lo si chiama “scuro” in contrapposizione al giallo che viene definito “chiaro”)
 La terminologia cromatica di base si sviluppa secondo una linea precisa. In tutti i
sistemi che possiedono solo due termini, questi sono sempre chiaro e scuro; in
quelli che ne hanno tre, bianco-nero-rosso; in quelli che ne hanno cinque, bianco-
nero-rosso-giallo-verde, mentre il sesto è sempre il blu. Poi si scende in sistemi più
complessi (marrone, porpora…)
 Il numero dei termini di base impiegati da una lingua è in relazione alla complessità
culturale e tecnologica della cultura in questione.

Altri studiosi però ritengono che il sistema percettivo di una popolazione sia influenzato in
maniera decisiva da fattori di tipo culturale (non presi in considerazione da Berlin e Kay).
Innanzitutto i colori rivestono molto spesso significati differenti a seconda del contesto. Un
esempio banale:il colore rosso in un contesto politico viene associato ad un’idea di protesta e
di rivendicazione sociale,ma diventa segnale di pericolo sulle bandierine sventolate dagli
addetti alla circolazione autostradale,nei semafori e nei cartelli stradali di “stop”.
Le variazioni nel significato dei colori hanno a che vedere, almeno in parte, con il fatto che essi
non vengono percepiti solo sul piano strettamente cromatico, cioè fisico-percettivo, ma
possono ricevere connotazioni che a volte precedono la definizione cromatica in senso stretto.
Presso alcuni popoli i colori sono percepiti principalmente come caldi o freddi, oppure come
secchi o umidi.
Sappiamo inoltre che la percezione che gli individui hanno di un colore può dipendere da
idiosincrasie e da gusti personali. Ciò che potremmo chiamare “l’apprezzamento sociale” di un
colore è molto spesso influenzato dagli ambiti della cultura e della società in cui gli individui
sono posizionati: sesso, età, professione,il ruolo sociale…

3) Tempo e spazio

3.1 Due categorie del pensiero umano

Gli esseri umani vivono nel mondo fisico, percepiscono la trasformazione delle cose e la loro
finitezza. Sperimentano la diversa collocazione delle cose, e in questo ambito il corpo funge da
rilevatore del posizionamento del soggetto che si autopercepisce nei confronti di altre cose o di
altri soggetti.
In riferimento alla trasformazione delle cose e di sé gli umani percepiscono ciò che noi
chiamiamo “tempo”; e in riferimento al posizionamento del proprio corpo e delle cose rispetto
ad altri corpi e ad altre cose, percepiscono ciò che noi chiamiamo “spazio”.
Tempo e spazio costituiscono infatti delle “intuizioni a priori” universali. La percezione del
tempo e dello spazio è la funzione primaria della nostra attività mentale. Senza tale funzione

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non sarebbe possibile,per l’intelletto,dare forma al pensiero. Non possiamo pensare nulla che
sia fuori dal tempo e dallo spazio. Esse sono le dimensioni costitutive di qualunque modo di
pensare.
Per quanto costituiscano intuizioni universali a priori, tempo e spazio rivestono significati
diversi in contesti culturali differenti. Per alcuni studiosi sarebbe lo stile di pensiero prevalente
all’interno di una società a determinare le valenze simboliche, affettive, e persino percettive,
che il tempo e lo spazio assumono in quel contesto particolare. Quando prevale la
comunicazione orale possiamo aspettarci che le rappresentazioni del tempo e dello spazio
siano legate alla dimensione dell’esperienza più che a quella del ragionamento astratto; ma
non si tratta di una questione assoluta.

3.2 Idee del tempo

Nel 1920 uno studioso svedese, Nilsson, pubblicò un libro in cui sostenne che nelle società
primitive il tempo era concepito in maniera “puntiforme”. In queste società i riferimenti
temporali non corrispondono infatti a frazioni di un flusso temporale omogeneo e quantificabile
(ore, minuti, secondi) ma piuttosto ad eventi naturali o sociali, oppure a stati fisiologici: due
raccolti fa, un sonno fa. Queste rappresentazioni temporali sono ovviamente diverse da quelle
elaborate in una società nelle quale il tempo quantificabile diventa un rigido sistema di
scansione della vita sociale. L’idea che il tempo sia un’entità uniforme, misurabile e frazionabile
non è infatti universale.
La nostra concezione del tempo è abbastanza recente ed è strettamente legata all’idea della
produttività (“l idea del tempo come denaro”); ciò non toglie che anche nella nostra società e
nella nostra tradizione il tempo possa avere valenze diverse a seconda dello stato d’animo del
soggetto.
In verità il senso di un tempo non quantificato, ma carico di significati speciali, è presente in
tutte le società che hanno bisogno di rievocare periodicamente l’atto che considerano il
fondamento della propria esistenza (nascita di Cristo, Capodanno,…).
L’etnografia è molto ricca di esempi relativi a come le culture prive di “pensiero cronometrico”
collocano gli eventi nel tempo. Ad esempio in molte società come quella dei Baluch,agricoltori
del Pakistan meridionale,l’anno è diviso in stagioni che servono a collocare gli eventi e il ritmo
del giorno è scandito dall’alba e dal tramonto,nonché dai cinque momenti della preghiera
musulmana.
Il tempo non quantificabile è detto tempo “qualitativo” e non è certo sconosciuto nella nostra
società moderna fondata su ritmi temporali quantizzati. Anzi, facciamo riferimento a questo
genere di tempo abbastanza spesso, come quando diciamo che una certa cosa è avvenuta
“quando eravamo giovani”.
Anche in questi casi stiamo temporalizzando in relazione a dati concreti a fatti di esperienza e
non in riferimento a un tempo astratto, omogeneo e frazionabile.

3.3 Immagini dello spazio

Molte delle considerazioni fatte per la percezione del tempo valgono anche nel caso dello
spazio. In effetti spazio e tempo sono inestricabilmente connessi nel pensiero umano.

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La prima considerazione che dobbiamo fare riguardo al modo di rappresentare lo spazio è che
quest’ultimo non è, sempre e ovunque, lo spazio astratto della geometria. Lo spazio si riveste
spesso di valenze quantitative che lo rendono diversamente significante agli esseri umani.
Lo spazio costituisce spesso un elemento centrale per la memoria di un gruppo, come
testimoniano alcuni luoghi sacri per i Cristiani (Terra Santa, grotta della Natività…) oppure i
villaggi e le case dei Zafimaniry, una popolazione agricola del Madagascar, le quali
testimoniano una “memoria sociale”:i villaggi sono disposti in senso altitudinale esprimendo
così la successione delle generazioni che discendono da una coppia fondatrice.
Lo spazio è anche una dimensione che, per poter essere vissuta, deve essere in qualche modo
“addomesticata”. “Essere nello spazio” significa entrare in rapporto con un mondo noto oppure
sconosciuto, apportatore di tranquillità e sicurezza nel primo caso, di paura o sconcerto nel
secondo. Nelle culture umane si ripresenta costantemente la necessità di concepire un luogo
dello spazio, un centro, che valga da punto di riferimento e di sicurezza. Gli esseri umani si
sentono al sicuro in luoghi noti e controllabili,siano questi semplici punti di riferimento oppure
luoghi particolarmente cari alla memoria di una comunità,laica o religiosa che sia.
La disposizione delle cose o degli esseri umani nello spazio fisico può avere una gamma assai
ampia di significati sociologici nelle diverse culture. Si pensi ad esempio al”gineceo”,la parte
della casa che nella Grecia antica era riservata alle donne;o “all’harem”,tipico del mondo
musulmano,lo spazio della casa destinato al medesimo scopo e al quale gli estranei non
possono accedere. Anche il potere e la religione ordinano i propri spazi,ponendo
simbolicamente in posizione preminente persone o simboli ritenuti particolarmente importanti.

3.4 La correlazione di tempo e spazio

Partendo dalle conclusioni raggiunte da Nilsson circa la natura del tempo qualitativo e
puntiforme tipico delle società primitive, l’antropologo britannico C.Hallpike nel 1979 ha
sviluppato una teoria della distinzione tra “tempo operatorio” e concezione “preoperatoria del
processo temporale”. Egli riconduce queste due concezioni della temporalità alla distinzione
stabilita da Piaget tra pensiero operatorio e preoperatorio. Secondo Piaget, il pensiero
operatorio mette in relazione spazio e tempo considerandoli due variabili dipendenti e, per
questo stesso fatto, produce una concezione quantitativa, lineare e misurabile sia del tempo
che dello spazio. Tale capacità di coordinazione è invece assente, secondo Piaget, nel pensiero
pre-operatorio. Quest’ultimo, tipico del pensiero infantile sino all’età di 8 anni circa, non
stabilisce una coordinazione tra i fattori della “durata”, della “successione” e della
“simultaneità” o, come dice Hallpike, la “coordinazione della velocità relativa”. Hallpike estese
la presenza del pensiero preoperatorio a tutte le società che non erano in possesso di una
concezione lineare e misurabile del tempo e dello spazio.
Tuttavia,alcuni studiosi hanno mostrato qualche dubbio sul fatto che popoli privi di una
concezione dello spazio e del tempo come entità lineari,omogenee e misurabili possiedano
sempre e comunque un pensiero di tipo preoperatorio, sul fatto ciò che essi non siano in grado
di stabilire una “coordinazione di velocità relativa”. Ad esempio, Forth ha rilevato che i Rindi
dell’isola di Sumba (Indonesia) hanno indicatori temporali qualitativi non diversi da quelli di
molti altri popoli e che non possiedono una nozione di tempo lineare e quantificabile. Essi
sembrano tuttavia coordinare perfettamente durata,successione e simultaneità. I Rindi
praticano ad esempio corse di cavalli alle quali partecipano animali raggruppati in 4 categorie

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distinte in base alle dimensioni dei cavalli medesimi. Gli animali devono percorrere in senso
antiorario una pista circolare che ha il traguardo nel punto “X”.I cavalli partono tutti nel
medesimo istante e percorrono lunghezze diverse,il che fa pensare che i Rindi siano
perfettamente consapevoli del fatto che,i cavalli più grandi sono in grado di correre più
velocemente e cosa ancora più importante in questo contesto,che entro lo stesso lasso di
tempo i cavalli più veloci(cioè i più grandi)saranno in grado di coprire una distanza maggiore.
La mancanza di una concezione lineare e quantificabile del tempo sembra non escludere la
capacità di coordinare perfettamente durata,successione e simultaneità. La tesi di Hallpike,
secondo la quale la mancanza di un idea quantizzata del tempo sarebbe implicitamente
connessa con un pensiero preoperatorio, sembrerebbe dunque,almeno in questo
caso,smentita.

CAPITOLO 4: SISTEMI DI PENSIERO

1) Cosmologie, sistemi “chiusi” e sistemi “aperti”

1.1 La ricerca della coerenza

Nel 1935 un’equipe di etnologi francesi intraprese lo studio di una popolazione destinata a
diventare famosa: i Dogon. Questo popolo di agricoltori vive nell’interno dell’attuale stato del
Mali, a quel tempo parte dell’Africa coloniale francese. Marcel Griaule fu in grado di ricostruire
quella che egli chiamò la “cosmologia Dogon”, una complessa ed affascinante visione
dell’ordine del mondo dalla sua creazione. Per quanto avvolta nel mito, la cosmologia descritta
da Griaule rivelava un carattere di sistematicità e di coerenza. Qualcuno ha però voluto poi
vedere in tale cosmologia l’effetto di una forzatura da parte dello stesso Griaule. Quest’ultimo
avrebbe cioè operato un lavoro di “composizione” di elementi frammentari e contraddittori
conferendo al “pensiero Dogon” una coerenza e una sistematicità che di per sé esso non
possedeva. In ogni caso, negli anni successivi gli antropologi iniziarono a parlare di “sistemi di
pensiero”. Cominciarono cioè a studiare in una nuova prospettiva l’attività speculativa dei
popoli sino ad allora ritenuti poco votati alla riflessione pura. Gli antropologi poterono così
dimostrare come molti di quei popoli avessero, nonostante il carattere spesso fortemente
“locale” del loro pensiero, una visione complessa, articolata e coerente del mondo umano e
naturale. In realtà nessuna visione del mondo, per quanto possa essere complessa, articolata e
sofisticata è totalmente coerente. In ciascuna di esse vi sono sempre contraddizioni,
incongruenze, spiegazioni irrisolte e zone d’ombra. Tuttavia si può dire che il pensiero umano,
per quanto non sia affatto coerente in assoluto, “tende” sempre alla ricerca di una coerenza, e
questa è una caratteristica di tutti i “sistemi” di pensiero. I “sistemi di pensiero” comprendono
ambiti di riflessione assai diversi tra loro, quali ad esempio le rappresentazioni del tempo e
dello spazio, le credenze religiose, le pratiche magiche,…

1.2 Differenze e somiglianze

Negli anni ’60 l’antropologo inglese R.Horton mise a confronto quelli che egli chiamò i “sistemi
di pensiero tradizionali africani” con il pensiero scientifico sviluppatosi in Europa nell’età
moderna. Per dimostrare la sua tesi Horton mise a confronto alcuni aspetti del ragionamento

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della scienza occidentale moderna con alcuni aspetti del pensiero religioso africano, in quanto
riteneva che quest’ultimo svolgesse, in molte società, la stessa funzione che la scienza
possedeva in Occidente. Entrambi i sistemi sono alla ricerca di una spiegazione del mondo
(medesima funzione esplicativa), dove spiegare significa:
1) oltrepassare il senso comune (fermo alle apparenze) nonché la diversità dei fenomeni
per:
2) ricercare l’unità dei principi e delle cause.
3) Semplificare aldilà della complessità dei fenomeni
4) Superare l’apparente disordine per trovare un principio d’ordine del mondo
5) Cogliere la dimensione della regolarità aldilà dell’anomalia e della casualità dei fenomeni

Ora i sistemi di pensiero africani affrontano questi problemi in termini di concetti religiosi e di
divinità, mentre quello scientifico moderno in termini di forze fisiche. Le entità sovrannaturali
delle religioni africane considerate da Horton spiegano la realtà mediante l’opposizione e la
tensione che si stabilisce tra un ristretto numero di entità: uomini, spiriti, antenati… tutte le
azioni e i pensieri degli agenti divini o antenati risulteranno finalizzati all’individuazione
dell’unita dei principi, della semplificazione esplicativa, dell’ordine e della regolarità del mondo,
cioè di quegli stessi obiettivi perseguiti dal pensiero scientifico moderno.
La difficoltà con cui gli occidentali tendono ad accostarsi a questi sistemi di pensiero dipende
dal fatto che non li considerano per quello che sono: dei tentativi di prendere le distanze dal
senso comune. Li considerano invece dei modi di ragionare “sbagliati” dal punto di vista logico-
causale. D altra parte se ci poniamo dal punto di vista del senso conune le stesse teorie della
scienza moderna possono a volte sembrare assurde, poiche stabiliscono connessioni che il
senso comune non si sognerebbe mai di stabilire.

1.3 L’uso delle analogie esplicative: malattia e relazioni sociali

Quando gli indovini di certe popolazioni cercano le cause di una malattia o di una morte
improvvisa, e l’attribuiscono all’azione di qualche divinità o di qualche antenato adirati, essi
cercano anche, e soprattutto, di vedere quali forze abbiano spinto quella divinità o
quell’antenato a comportarsi in un certo modo. Molti popoli stabiliscono una relazione causale
tra tensioni e disagi nelle relazioni interpersonali e sociali da un lato, e certe malattie o
sventure dall’altro. Di recente abbiamo introdotto anche noi nel nostro orizzonte mentale l idea
che il malfunzionamento dei rapporti interpersonali o particolari stati psicologici dovuti a
insuccesso, incomunicabilità e mancanza di autostima possano avere un ruolo importante
nell’insorgenza di certe malattie fisiche.
Il pensiero elabora sempre delle analogie esplicative. E’ stato osservato che mentre il pensiero
occidentale, da un certo momento in poi, si è rivolto alle “cose” per costruire le proprie
analogie esplicative, altri sistemi, tra cui quelli dell’Africa sub-sahariana, hanno privilegiato il
mondo sociale. La loro “stranezza” (per noi) deriverebbe proprio dal fatto che essi si sono
allontanati dai riferimenti empirici (le cose) che invece costituiscono i parametri di riferimento
dei modelli scientifici moderni. Nei sistemi di pensiero come quelli africani le analogie
esplicative sono infatti “personalizzate”. Le spiegazioni vengono cioè date in termini di relazioni
sociali e interpersonali.

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Ad esempio gli studi condotti sulle rappresentazioni sull’AIDS in Africa, ci mettono di fronte ad
una situazione a prima vista strana. Non diversamente dagli europei, le popolazioni del
Camerun considerano l’AIDS una malattia la cui diffusione è dovuta soprattutto ai rapporti
sessuali. Tuttavia, quando si tratta di spiegarne la presenza e il fatto che colpisce soprattutto i
giovani, le cose cambiano. Sono infatti molti, in certe aree del Camerun, a ritenere che l’AIDS
sia la manifestazione di forze sociali mal dirette: i potenti del regno ’N so, ad esempio,
accusano i giovani uomini di volersi sottrarre all’autorità tradizionale contravvenendo al rigido
sistema che consente di avere in teoria rapporti con donne solo previa autorizzazione dei capi.
Dal canto loro i giovani considerano l’AIDS come una manifestazione delle forze maligne che i
capi, divenuti stregoni, indirizzano verso i giovani allo scopo di trattenerli presso di sé. L’AIDS
insomma, è il “segno” di un male che trae origine dal mal funzionamento dell’ordine sociale,
che diventa qui l elemento esplicativo principale.

1.4 Sistemi chiusi e sistemi aperti

Nella prima metà del ‘900 la maggior parte degli antropologi e dei missionari aveva dato quasi
per scontate le teorie del filosofo francese Lucine Lèvy-Bruhl secondo il quale il “pensiero
primitivo” si sarebbe distinto in maniera radicale da quello razionale per alcune caratteristiche
fondamentali. Secondo Levy-Bruhl era possibile parlare di una “mentalità primitiva” fondata su
principi diversi da quelli delle logica razionale (aristotelica) in quanto a tale mentalità
avrebbero fatto difetto il principio di identità (A=A), il principio di non contraddizione (se A =
A, allora A ≠ B) e il principio di causalità. E’ per questo motivo, egli sostenne, che i “primitivi”
non erano in grado di distinguere tra sé e il proprio totem (animale simbolo del gruppo) e tra
quest’ultimo e gli animali della stessa specie (assenza del principio di identità e di non
contraddizione); così come potevano credere che un gesto o una formula magica potessero
avere degli effetti concreti su oggetti distanti. Luria smentiva tali teorie poiché un pensiero che
fosse stato davvero cosi “non avrebbe permesso al selvaggio di sopravvivere un solo giorno”.
Levy-Bruhl altri autori hanno tentato di rendere conto delle grandi differenze che, da una
cultura all’altra, caratterizzano il modo di percepire e rappresentare la realtà: ad esempio
Hallpike, con la distinzione tra pensiero pre-operatorio e operatorio, e Horton, con la sua
distinzione tra sistemi di pensiero “chiusi” o “aperti”. Horton ritiene che uno degli elementi
centrali della differenza tra sistemi di pensiero africani e scienza moderna sia costituito dal
fatto che l’indovino o il sacerdote africano non sono consapevoli del fatto che esistono delle
alternative esplicative. Lo scienziato invece è consapevole dell’esistenza di alternative ai
principi teoretici chiamati a spiegare la realtà. Ciò porterebbe a concludere che i sistemi di
pensiero tradizionali, come quelli che è possibile rilevare in Africa, siano sistemi di pensiero
“chiusi”, mentre quelli che fanno capo a modelli e concetti di natura scientifica sarebbero
invece sistemi di pensiero “aperti”. Tracciando la distinzione tra sistemi chiusi ed aperti, Horton
mette anche l’accento sul fatto che nei primi esiste un rapporto speciale tra le parole da un lato
e gli oggetti e le azioni dall’altro. Tale rapporto consiste nel fatto che nelle culture a oralità
diffusa le parole acquistano un potere causativo importante, come se “dire” fosse un “fare”.
Questa distinzione fra apertura e chiusura alle possibili alternative teoretiche ed esplicative si è
tuttavia rivelata, con il tempo, eccessivamente rigida. La distinzione tra i sistemi chiusi e aperti
va infatti intesa in senso relativo e non assoluto. Come si è visto, l’introduzione della scrittura
ha comportato importanti cambiamenti nel modo di produrre certe forme di ragionamento, più

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sistematiche e più disposte ad accogliere variazioni e alternative. Si potrebbe dire che la piena
consapevolezza delle alternative sia qualcosa che emerge con la scrittura. Di conseguenza, la
comparsa di un pensiero critico e quindi aperto, è bloccata laddove la riproduzione e la
trasmissione del sapere dipendono esclusivamente, o quasi, dalla comunicazione di tipo orale.
Mentre invece, con la scrittura, sarà più facile conoscere e confrontare affermazioni, concezioni
e teorie diverse, ed elaborarne eventualmente di nuove.

2) Pensiero metaforico e pensiero magico

Tra i temi che più hanno appassionato e coinvolto gli studiosi di antropologia vi sono quelli che
delle “credenze apparentemente irrazionali” e del “pensiero magico”. Tali credenze e la magia
sono stati man mano ricondotti a forme di pensiero dotate di coerenza, con una propria
funzione sociale e una loro efficacia di tipo simbolico.

2.1 Le credenze apparentemente irrazionali e il pensiero metaforico

Certamente molti popoli studiati presentano cosmologie e sistemi di pensiero diversi dai nostri.
Se quelle del sole che si alza e che tramonta sono, come non v’è dubbio che siano, delle
semplici metafore, perché dovremmo invece ritenere che le affermazioni degli altri popoli (gli
spiriti stanno sugli alberi, ho incontrato l’anima del mio antenato) siano parte di una metafisica
e di una cosmologia? Questo problema è stato sollevato dall’antropologo australiano Roger
Keesing in relazione al fatto che molto spesso il pensiero degli altri popoli è stato interpretato
“alla lettera”, come se cioè quanto gli altri popoli dicono e affermano corrispondesse davvero a
una concezione “ultima” e definitiva della realtà da essi ritenuti “vera”. Perché soltanto “noi”
dovremmo pensare e parlare metaforicamente mentre gli “altri” sarebbero incapaci di farlo? La
profonda differenza che esiste tra l’affermazione “noi Bororo del Mato Grosso (del Brasile)
siamo arara (pappagalli) rossi” e il ragionamento ordinario, quello del senso comune, si
attenua e diventa più chiaro se teniamo conto che anche noi nel nostro parlare quotidiano
facciamo continuamente uso di espressioni metaforiche. Ad es.: “essere come una volpe”, non
si riferisce alle caratteristiche fisiche dell’animale ma bensì a quelle caratteristiche che noi
presumiamo tale animale possieda, in primis l’astuzia. E dunque lo stesso potrebbe valere per
l’affermazione dei Bororo, ed infatti gli antropologi sono giunti alla conclusione che la
dimensione pratica e quella simbolica della società Bororo finiscono per produrre
un’assimilazione metaforica dei maschi bororo agli arara. I pappagalli occupano dunque una
posizione di animali “simbolo”: simbolo dello “spirito” (aroe) in quanto iridescenti; simbolo
della simbiosi uomo-animale per il fatto di essere custoditi amorevolmente dalle donne; e
simbolo della strana condizione in cui vengono a trovarsi gli uomini: un ruolo preminente sul
piano politico e rituale da una parte, ma una apparente dipendenza dalla “metà” delle loro
mogli dall’altra. La frase “noi uomini Bororo siamo degli arara” diviene così un modo con cui gli
uomini di questa società esprimerebbero “l’ironia della condizione maschile”.

2.2 La magia e le sue interpretazioni

Un atto magico sarebbe un’azione (insieme di gesti,atti e formule verbali) compiuta da un


soggetto (il mago o lo stregone) nell’intento di esercitare un’influenza di qualche tipo su

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qualcuno o qualcosa, e dunque influire sul corso degli eventi o sulla natura delle cose . La
cosiddetta “magia nera” consiste in una seria di operazione materiali e verbali condotte su
qualcosa che è appartenuto o che è stato in contatto con la persone che si vuole colpire. E’ lo
stesso per la”magia bianca”, o magia curativa che, invece, ma sempre in base allo stesso tipo
di ragionamento, mira a produrre effetti benefici sul soggetto prescelto. I primi antropologi
interpretarono la magia come una specie di “aberrazione intellettuale” tipica dell’uomo
primitivo, oppure come una “scienza imperfetta”. Nel primo caso si sarebbe trattato di una
clamorosa mancanza, nei primitivi, di coerenza logica; nel secondo caso di un tentativo di
manipolare, sebbene in maniera sbagliata, la natura di cui pur si intuivano regolarità e
costanti. James G. Frazer riteneva che esistessero due tipi di magia: la magia imitativa e
quella contagiosa. La prima si risolveva nell’idea (sbagliata) che imitando la natura la si
sarebbe potuta influenzare. Ad esempio aspergendo il terreno di acqua si poteva, imitando la
pioggia, favorire l’arrivo di quest’ultima. La magia contagiosa invece si fonderebbe sull’idea
(errata) che due cose, per il fatto di essere state a contatto, conserverebbero, anche una volta
allontanate, il potere di agire l’una sull’altra. Ad esempio nel caso di quegli atti magici che
pretendono di agire su ciocche di capelli, vestiti o oggetti personali di un qualche individuo
ritenendo possibile agire sull’individuo stesso. Frazer riteneva che magia religione e scienza
fossero legate dall’eterno tentativo dell’uomo di spiegare l origine dei fenomeni e la relazione
tra di essi. In tal modo colse il carattere fondamentale del pensiero umano, quello di tendere
alla “coerenza”. tentò di connettere magia, scienza e religione in una concezione unitaria dello
sviluppo del pensiero. Così, in un primo tempo, l’uomo si sarebbe dedicato alla magia
nell’intento di manipolare il corso degli eventi. Poi, quando si accorse che la magia non era
efficace, si sarebbe rivolto ad esseri spirituali a lui superiori per ingraziarseli e ottenere da loro
ciò che egli non era stato capace di ottenere con i propri mezzi. A questa fase, quella della
religione, sarebbe infine subentrata la fase della scienza, il ragionamento fondato sulla logica
razionale, l’osservazione e l’esperimento.
Un’altra teoria della magia fu successivamente elaborata da B. Malinowski: egli distinse
nettamente la magia da scienza e religione (assumendo dunque una posizione diversa quella
elaborata da Frazer). La religione, non è chiamata a spiegare l’origine dei fenomeni, ma a
fornire certezze di fronte ai grandi problemi della vita: la vita dopo la morte, il bene e il male, il
dolore.. Per lui la magia aveva finalità eminentemente pratiche, e da questo punto di vista non
aveva nulla a che vedere con la scienza, la quale esiste tra i primitivi solo in forma elementare.
Egli ritenne che la magia fosse un mezzo per rispondere a situazioni generatrici di ansia.
Compiendo una serie di atti particolari e appropriati alla situazione da affrontare si cercherebbe
mediante atti di natura magica imitativa o contagiosa di prefigurare il buon esito dell’impresa.
La magia consiste per Malinowski in una serie di “atti sostitutivi”(ad esempio quando
abbracciamo il cuscino pensando di avere tra le braccia la persona amata lontana o
irraggiungibile). Essa non sarebbe anteriore alla religione o alla scienza, ma piuttosto un
“tratto primordiale che afferma il potere autonomo dell’uomo di creare dei fini desiderati”. La
magia, dice Malinowski, “mette l’uomo in grado di compiere con fiducia i suoi compiti
importanti, di mantenere il suo equilibrio.. la sua funzione è quella di ritualizzare l’ottimismo
dell’uomo”. La questione dell’efficacia della magia deve essere posta nei termini di una ricerca
di rassicurazioni di fronte all’incertezza e all’imprevedibilità degli eventi.

2.3 Magia e “presenza”

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Un’originale posizione nei riguardi del pensiero magico è quella elaborata a metà ‘900 da E. de
Martino, secondo cui l’universo magico può essere compreso solo in relazione all’angoscia,
tipicamente umana, della “perdita della presenza”. L’angoscia non è l’ansia di fronte
all’incontrollabile di cui parla Malinowski. La presenza a cui De Martino fa riferimento è una
condizione che l’essere umano non cessa di costruire per sottrarsi all’idea, angosciosa, di non-
esserci. Egli descrisse infatti l’emersione del pensiero magico come primo tentativo coerente di
affermare la presenza umana nel mondo. Il mago è la figura centrale di questo tentativo di
superare l’annientamento, tentativo che coincide con l’affermazione del mondo magico come
spazio di pensiero e di azione in cui l’uomo realizza la propria volontà di esserci di fronte al
rischio di non esserci.
La faticosa conquista della presenza non si risolve mai in un’acquisizione definitiva. La
presenza infatti è qualcosa che può essere sempre rimessa in discussione dalla crisi individuale
o collettiva. Un rischio, quest’ultimo, che l’uomo tenta di allontanare attraverso una serie di
atteggiamenti e comportamenti rituali quali ad esempio il lamento funebre.
L’esigenza di affermare la presenza era particolarmente viva presso quello che De Martino
chiamò”mondo subalterno”, il mondo povero del Mezzogiorno che, non avendo preso ancora
coscienza della propria identità storica e di classe, era legato a forme primitive di affermazione
della propria presenza nel mondo. Si potrebbe anche osservare che in molte circostanze
diventa difficile distinguere gli atti magici da atti di altro tipo, ad esempio in molti riti religiosi si
trovano inseriti gesti e formule che hanno lo scopo dichiarato di influenzare gli spiriti o le
divinità inducendoli a comportarsi nel modo desiderato dagli uomini. In altre regioni del
pianeta il curante pronuncia formule magiche le quali non hanno nulla a che vedere con
l’efficacia terapeutica in quanto tale. Molti malati si sentono tuttavia confortati dalle parole del
mago, e ciò può favorire “psicologicamente”l’ammalato dandogli fiducia in una rapida
guarigione.

3) Il pensiero mitico

3.1 Il mito

Il tema del mito ha affascinato a lungo tanto gli studiosi di storia delle religioni quanto gli
antropologi. Per molti anni si sono adoperati per spiegare l’origine dei miti, la loro coerenza e,
soprattutto, la loro connessione con i riti. I riti fanno infatti spesso riferimento a dei miti. La
celebrazione di un rito è spesso collegata al racconto di un fatto accaduto in un tempo
indeterminato e che è ritenuto responsabile dello stato attuale delle cose o della condizione
degli esseri umani. Mentre un rito è sempre identico, il racconto mitico che ad esso è collegato
può variare da regione a regione, per cui si deduce che il rito “viene prima del mito”, il quale
appare come una sua giustificazione a posteriori. Esiste tuttavia un gran numero di miti che
non hanno riti collegati, così come esistono, viceversa, riti che non hanno riferimento ad alcun
mito.

3.2 Caratteristiche e protagonisti del racconto mitico

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I miti fanno riferimento a eventi che avrebbero dato origine al mondo e all’aspetto che
quest’ultimo possiede attualmente.
Alcuni studiosi in passato hanno ritenuto che i miti fossero un modo “inesatto”, cioè fantastico
in quanto “primitivo”, di ricostruzione o giustificazione storica di eventi o fatti realmente
accaduti. Quali sono le caratteristiche del racconto mitico? Il mito ignora spazio e tempo. Le
azioni dei protagonisti non tengono conto dell’anteriorità e della successione temporale, e
fenomeni che nella realtà richiedono giorni, mesi o anni, nel mito impiegano un solo attimo. I
personaggi del mito agiscono o abitano in luoghi impossibili da frequentare per la maggior
parte o per la totalità degli esseri viventi: cielo, nuvole, stelle, luna,… Nel mito vengono
annullate le differenze tra regni, generi e specie, tra mondo sensibile e mondo invisibile. In
linea generale il mito produce una antropomorfizzazione della natura, attribuendo ad animali,
piante e cose caratteristiche fondamentalmente umane come il linguaggio, i sentimenti, le
emozioni,… Questa comunanza di esseri umani, spiriti, animali e cose viene descritta nei miti
come una situazione originaria di equilibrio cosmico e di unità, la cui fine avrebbe dato origine
al mondo attuale.
Benché vi siano delle eccezioni, la creazione del mondo viene quasi sempre rappresentata
come il risultato di un processo di successive separazioni e allontanamenti tra gli elementi
costitutivi dell’unità originaria. In tutte le aree del pianeta, ma specialmente presso le culture
dei nativi nordamericani, in Europa e in Africa sub-sahariana, questa rottura dell’equilibrio
originario è spesso raffigurata come il frutto dell’azione di un personaggio particolare. Nella
letteratura antropologica questo personaggio è denominato “trickster” (imbroglione). Il
trickster più celebre è quello dei miti dell’origine degli indiani del nord America. Si presenta
spesso sotto forma di animale dai tratti umani. E’ furbo, bugiardo, irresponsabile, fa cose che
non vanno fatte e sovente paga per i suoi errori. Il trickster è infatti ambiguo nel
comportamento come nella sua natura: fa ad esempio dono agli uomini della conoscenza e
delle tecniche, ma per qualche sua sbadataggine o scherzo, porta loro anche la malattia e la
morte.
La rottura dell’ordine originario è ciò che rende ragione della condizione umana presente e
quindi di qualunque acquisizione culturale.

MITO E INVERSIONE RITUALE: I KOYEMSHIS DEGLI ZUNI: Presso alcuni gruppi di nativi nord
americani, esistono associazioni i cui componenti svolgono la funzione di “buffoni rituali”: noti
sono i buffoni presenti nella comunità degli Zuni. Camminando all’indietro, pronunciando
parole al contrario, mimando comportamenti inversi rispetto alla norma, questi buffoni
sembrano volere evocare il comportamento del Trickster che ha plasmato il mondo violando le
disposizioni degli dei. In questo modo essi evocano qualcosa che deve essere presente alla
coscienza della società e che, al tempo stesso, deve essere rifiutato come negazione del vivere
sociale. Il compito dei buffone si rivestirebbe cioè di una funzione cognitiva e pedagogica:
mostrare ciò che è”culturalmente impossibile” e tenere sempre vivo, negli spettatori, il senso
di questa impossibilità da loro messa in scena.

3.3 Le “funzioni” del mito

Qual è la funzione del mito? Probabilmente il mito contiene in sé tutte le seguenti funzioni:
speculativa, pedagogica, sociologica, classificatoria. Malinowski riteneva che il mito fosse una

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specie di “autorizzazione” a compiere certi riti. Il mito sarebbe inoltre qualcosa in cui le società
possono leggere “una morale” dei rapporti tra gli uomini e tra i gruppi, qualcosa che “fissa” un
codice di comportamento, di pensiero e di disposizioni.
Uno studioso, Radcliffe-Brown, analizzò una serie di miti dei nativi nordamericani; in queste
società alcuni miti hanno per protagonisti animali che parlano e agiscono come gli umani. Essi
compaiono sempre in coppia: per esempio aquila e corvo, e ogni animale mitico si presenta
sempre associato ad un determinato gruppo sociale come suo simbolo (totem). Egli giunse alla
conclusione che “il mondo della vita animale è rappresentato nei miti in termini di relazioni
sociali simili a quelle della società umana”, e che le coppie d’opposizione costituite dagli
animali-simbolo esprimono l’applicazione di un determinato “principio strutturale”. Esso
consiste nella combinazione delle idee di “contrario” e di “opponente”. La prima caratterizza
come contrarie due specie (per esempio aquila e corvo) sulla base di certe caratteristiche (la
prima è cacciatrice, l’altra è predatrice). L’idea di opponente invece mette in risalto la loro
relazione complementare che tuttavia appare come tale solo se messa in rapporto con
l’organizzazione sociale. Le due specie sono tra loro rivali, o meglio in un rapporto di
“opposizione complementare”. Tale rapporto complementare esprime, secondo modalità di
volta in volta diverse, l’opposizione di gruppi che sono rivali ma strutturalmente uniti in una
relazione funzionale, come lo sono (sul piano dello scambio matrimoniale) le due metà di un
gruppo nordamericano: la metà aquila e la metà corvo. Il mito nordamericano ha insomma la
funzione di “rappresentare” la realtà sociale nei suoi aspetti complementari, funzionali e
contraddittori.

3.4 Un pensiero che pensa se stesso?

Una diversa interpretazione del mito è stata elaborata da Claude Levi-Strauss: la peculiarità
della sua interpretazione consiste nel fatto che essa tratta il mito essenzialmente come
un’attività speculativa senza curarsi dei legami che il racconto mitico può avere con la vita
sociale e culturale di una popolazione (legami che Levi-Strauss non disconosce). Il mito è
infatti, secondo lui, un’entità formalmente scomponibile in unità minime (mitemi), le quali
rivestono un senso solo se poste accanto ad altre dello stesso tipo. Il medesimo mitema
prende sembianze diverse in culture diverse, ma ricorre in racconti mitici differenti, assumendo
di volta in volta un significato diverso a seconda degli altri mitemi a cui si trova affiancato. Il
mito per Levi-Strauss è un ambito speculativo in cui il pensiero umano non soffre delle
costrizioni della realtà materiale e sociale, essendo libero di pensare ciò che non può esistere
realmente ma che può esistere invece nell’immaginazione. Il mito è anche chiamato a
conciliare quegli aspetti contraddittori dell’esistenza umana e del mondo naturale che non
possono essere mediati da alcuna forma di dialettica razionale. Il pensiero mitico si assume
così il compito di risolvere le contraddizioni tra spirito e corpo, bene e male, vita e morte,
introducendo nella narrazione un elemento che è a prima vista inspiegabile ma che, a una più
profonda analisi, si presenta come “mediatore simbolico” di una contraddizione irrisolvibile per
via razionale. Tuttavia queste mediazioni non sono mai dirette ma si presentano sotto forma di
personaggi, azioni e contesti che apparentemente non hanno nulla a che vedere con il
problema intellettuale che il mito cerca (inconsciamente) di risolvere. Si prenda ad esempio
l’opposizione vita/morte. Il tentativo di pensare una mediazione tra questi due termini,
razionalmente inconciliabili, potrebbe essere attuato inserendo in un racconto mitico le figure

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di una preda e di un predatore; la prima non uccide, il secondo sì. Aggiungendo un terzo
personaggio, ad esempio una iena, la quale non uccide ma si nutre di carogne, la mediazione
tra vita e morte verrebbe concettualmente risolta. Per la sua capacità di svincolarsi dalle
necessità del mondo naturale e sociale, il pensiero mitico concepito da Levi-Strauss, ci appare
come un pensiero “libero” che ha i propri limiti solo in se stesso. Il mito sarebbe allora in
qualche modo il frutto di un “pensiero che pensa se stesso”.

CAPITOLO 5: COSTRUZIONI DEL SE’ E DELL’ALTRO

1) Identità, corpi, “persone”

1.1 I confini del Sé e la rappresentazione dell’Altro: identità/alterità

L attenzione degli esseri umani non si è concentrata solo sul mondo della natura, si è rivolta da
sempre anche all’umanità stessa, ossia al Se e all’Altro intesi tanto come soggetti individuali
che come soggetti collettivi. Riguarda il mondo in cui individui e gruppi percepiscono e
pensano la propria relazione con l alterità, innanzitutto l alterità umana.
Il problema di sapere “chi siamo noi” e chi invece “siano loro” è presente in tutte le culture.
L’appartenenza di un individuo a un gruppo è resa possibile dalla condivisione, almeno
parziale, di determinati modelli culturali. L’idea di far parte di un Sé collettivo, di un “Noi”, si
realizza attraverso comportamenti e rappresentazioni che contribuiscono a tracciare dei
confini, delle frontiere nei confronti degli “altri”. Appartenenza da un lato e distinzione dall’altro
sembrano infatti costituire due aspetti opposti, e tuttavia complementari, del vivere e del
sentire umani.
L’idea di appartenere a un sé collettivo e quella di essere ciò che siamo come individui rinviano
entrambe alla nozione di “identità”. Essere esclusi da un gruppo al quale pensavamo di
appartenere, subire un’ingiustizia dal gruppo al quale ci affidavamo, o vivere alterazioni nella
nostra vita, sono fatti che possono far vacillare la nostra identità. Più viviamo in ambienti
concorrenziali e conflittuali (e dunque più le nostre certezze sono minacciate) più si sviluppa
per contro la “retorica dell’identità” intesa come dimensione irriducibile dell’Io e del Noi . E con
la retorica dell’identità si acuisce il senso del confine tra il sé e l’altro, tra “noi” e “loro”.
Gli “incontri con la differenza” sono un tratto sempre più costitutivo della nostra vita. Tali
incontri non sono appunto qualcosa che riguarda solo gli individui, ma anche le culture. La
“cultura occidentale” è ad esempio una di quelle che più ha enfatizzato la dimensione
dell’identità, soprattutto della propria identità come contrapposta ad altre. Se la nostra cultura
ha un’idea piuttosto rigida della propria identità, non è così presso altri popoli. In Africa, ad
esempio, esistono gruppi che sono ben coscienti di come la loro identità sia la risultante di un
incontro con altri, di una contrapposizione con essi ma anche di uno scambio e di una
mescolanza. Ad esempio gli Indios Tupinamba praticavano il cannibalismo nei confronti dei
prigionieri di guerra. Quando un nemico veniva catturato non veniva mangiato subito, bensì
inserito nella comunità: gli si procuravano delle donne, una casa, gli si consentiva di costituirsi
una famiglia. Un bel giorno il prigioniero era sottoposto ad una serie di riti culminanti con la
sua messa a morte e un pasto cannibalico a cui prendevano parte tutti i membri della
comunità. Prima della sua uccisione, l’esecutore e la vittima imbastivano un dialogo durante il

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quale ognuno vantava le uccisioni e gli atti di cannibalismo. Evidentemente non era questo un
caso di cannibalismo a scopi alimentari, bensì rituali, mediante il quale i Tupinamba
praticavano la distruzione dell’altro. Ciò che forse colpisce maggiormente di questa situazione,
è la serenità con cui i prigionieri affrontavano la morte, sicuri di rivivere nel nemico, il quale a
sua volta sarebbe stato un giorno mangiato dai membri del proprio gruppo, in un circolo senza
fine di atti e contro-atti di cannibalismo costitutivi di una identità”mescolata”.

1.2 Corpi

Il caso del cannibalismo Tupinamba evidenzia un aspetto particolare della dimensione


identitaria: il rapporto degli individui con il corpo, proprio ed altrui. Gli esseri umani hanno
esperienza del mondo attraverso il corpo. Esso infatti è una specie di mediazione tra noi e il
mondo, un mezzo attraverso il quale entriamo in relazione con l’ambiente circostante. Noi
comprendiamo il mondo che ci circonda perché il nostro corpo è stato esposto fin dalla nascita
alle “regolarità” del mondo. Ciò fa in modo che il corpo sia disposto e pronto ad anticipare tali
regolarità in comportamenti che mettono in moto ciò che il sociologo francese Pierre Bourdieu
ha chiamato appunto una “conoscenza attraverso il corpo”.
Si tratta di una conoscenza “incorporata”. Questa conoscenza “incorporata” del mondo sta alla
base di ciò che lo stesso Bourdieu ha chiamato “habitus”, cioè il complesso degli atteggiamenti
psico-fisici mediante cui gli esseri umani “stanno nel mondo”. E’ importante sottolineare che
questo “stare nel mondo” è uno “stare” di natura sociale e culturale, per cui il nostro habitus
varia tanto sulla base delle nostre particolari caratteristiche psico-fisiche, quanto a seconda dei
modelli comportamentali e delle rappresentazioni che noi interpretiamo in quanto individui
facenti parte di una determinata cultura. Dunque questo essere nel mondo attraverso il corpo
è culturalmente orientato.
Il corpo è infatti “culturalmente disciplinato” (Foucault) e le tecniche che sono preposte
all’attuazione di tale disciplina dipendono dai modelli culturali in vigore (ad esempio fino a non
molti anni fa i giovani scolari italiani venivano obbligati ad usare la mano destra per scrivere). I
corpi non sono disciplinati soltanto in base a quelli che una società ritiene siano i
comportamenti corretti in pubblico e privato. Gli individui sono esseri sociali. La società cerca
di imprimere nel corpo dei suoi componenti i “segni” della propria presenza. Tatuaggi,
scarificazioni, pitture, circoncisioni, sarebbero tutte pratiche finalizzate a ciò che Remoti ha
chiamato appunto “antropopoiesi”, cioè fabbricazione dell’umano da parte della società. Il
corpo è anche un veicolo privilegiato per manifestare la propria “identità”, sociale e individuale.
Il corpo può essere un mezzo per rivendicare non solo una identità o “diversità” individuale;
esso può diventare l’oggetto di discorsi identitari come quelli sviluppati dai movimenti
femministi od omosessuali in Occidente. Il corpo è anche qualcosa su cui si proiettano valori e
stili culturali differenti ( ad esempio la tradizione musulmana nasconde il corpo mentre molti
altri popoli lo espongono allo sguardo di chiunque); e può anche diventare terreno di confronto
ideologico e politico (ad esempio molti occidentali parlano del corpo femminile musulmano
come di un corpo “represso”, al contrario sui musulmani il modo in cui in occidente il corpo
viene ostentato ed esibito produce un effetto negativo).

1.3 Corpi sani e corpi malati

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Il corpo può essere infatti uno strumento di “resistenza” e di “risposta”, tanto consapevole
quanto inconscia, nei confronti delle situazioni esterne. E’ per questo motivo che in questi
ultimi anni alcuni antropologi hanno messo l’accento su come gli individui “incorporano” il
disagio sociale dando luogo a patologie di vario tipo (organiche e psichiche). Strettamente
connesse con le concezioni del corpo e della persona sono infatti quelle di salute e malattia. E’
ovvio che in tutte le culture vi sia una distinzione precisa tra cosa significhi “sentirsi bene” e il
suo opposto “stare male”. Tuttavia non è affatto scontato che l’elaborazione sociale e culturale
dello “stare bene” e dello “stare male” sia ovunque la stessa, così come, naturalmente, non è
lo stesso il metodo di cura, né la spiegazione delle cause che hanno provocato lo stato di
sofferenza. Molti popoli hanno scoperto le virtù terapeutiche di sostanze –ricavate da piante e
animali- a cui solo da poco tempo la medicina occidentale guarda con interesse per la cura di
certe malattie. Per lungo tempo è risultato difficile scoprire l’efficacia terapeutica di molti
sistemi di cura locali, in quante spesso usavano sostanze finalizzate alla neutralizzazione degli
spiriti ritenuti responsabili delle malattie fisiche e psichiche. Ad esempio gli Ndembu dello
Zambia (Africa centro-meridionale) fanno risalire certe malattie all’azione di un qualche
antenato adirato con un individuo o con la sua famiglia. Essi cercano di liberare il paziente
dallo spirito dell’antenato che l’affligge e che, dicono gli Ndembu, si è manifestato in forma di
dente che lo “morde” sotto la pelle. La cura-rito dello Ihamba, consiste in una specie di terapia
di gruppo durante la quale i parenti del paziente devono esplicitare pubblicamente i loro
contrasti reciproci e/o il proprio risentimento nei riguardi del paziente. La cura ha successo
quando il dente dell’antenato viene”estratto”con l’aiuto di una radice dell’albero “musoli”, la cui
funzione è appunto, quella di fare venire fuori le cose nascoste facendo si che la gente parli
apertamente. Manifestazioni del disagio psicologico possono essere curate, in molte società,
mediante sedute pubbliche di musicoterapica. Particolarmente conosciuta in Italia,
precisamente nell’area del Salento, è la “taranta”, un disturbo così chiamato perché si riteneva
che fosse provocato dal morso di una tarantola. Si tratta in realtà di una forma di nevrosi
scatenata da un disadattamento psico-sociale che si manifesta con convulsioni e spasmi
corporei e che veniva curata facendo ascoltare della musica ai pazienti i quali si sottoponevano
volontariamente a sedute terapeutiche di questo tipo.
Il modo antropologico di accostarsi alle concezioni della salute e della malattia ha posto in
evidenza come non vi sia una medicina che possa considerarsi svincolata dal contesto sociale e
culturale entro la quale viene praticata. In Occidente prevale nettamente il cosiddetto
paradigma “biomedico”, cioè l’idea che lo stato di malattia fisica abbia solo cause di tipo
organico, cioè biologico. Un’ulteriore caratteristica del paradigma bio-medico è la
“medicalizzazione del paziente”. Una volta diagnosticata la malattia l’ammalato viene
inquadrato come soggetto “altro”, separato dalla comunità familiare e lavorativa, cosa questa
inconcepibile presso molte culture extra-europee. Il paziente viene in qualche modo de-
socializzato, e il suo corpo, oggetto di esami, analisi, operazioni non è più “il luogo della messa
in scena del Sé” ma della messa in scena di un “sistema medico” che si presenta come
razionale, scientifico, oggettivo, ma che in realtà crea corpi e menti medicalizzate, forme
tangibili di una realtà “altra” rispetto a quella delle persone sane. Spesso il paradigma
biomedico occidentale entra in conflitto con il “sistema medico” locale, e vi sono casi in cui i
medici “moderni” devono, non senza tensioni e incomprensioni ma anche con effetti positivi,
mediare con i “dottori” locali.

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1.4 Persone

In Europa e in Nord-America i favorevoli e i contrari all’aborto si scontrano fondamentalmente


su un punto: quando possiamo dire che un agglomerato di cellule umane è una “persona”?
Quesiti di questo tipo fanno parte di ciò che in Occidente è chiamato “bioetica”, ossia lo studio
degli atteggiamenti e delle idee che sono implicite nel nostro modo di trattare il corpo umano
nella sua relazione con la sfera della persona, della dignità dell’individuo, della sua libertà, del
suo diritto alla vita,… Culture diverse hanno bioetiche differenti. Anche nelle culture diverse da
quelle occidentali, l’individuo è pensato come un soggetto capace di capire ed interpretare il
mondo. Tuttavia sarebbe profondamente sbagliato ritenere che l’individuo sia pensato ovunque
come un tutto integrato ed armonico dal punto di vista motivazionale, emotivo e cognitivo sul
modello della “persona” della tradizione occidentale. Di ciò se n’era accorto già Marcel Mauss,
antropologo francese, che in un celebre studio del 1938 aveva sottolineato come l’idea
dell’individuo quale soggetto svincolato dal contesto fosse non solo un’idea (astratta)
occidentale, ma come nelle altre culture la dipendenza dell’individuo dalla società fosse
esplicitamente riconosciuta. In effetti le nozioni di individuo e persona, al contrario di quanto
avviene nella nostra tradizione, non dovrebbero essere usate come intercambiabili. Mentre la
nozione di individuo rinvia al singolo in quanto unico esemplare diverso da tutti gli altri, la
nozione di persona rinvia al modo in cui l’individuo entra in relazione con il mondo sociale di
cui fa parte. In quanto “persona” l’individuo condivide con altri molte caratteristiche
riconosciute dalla società come proprie di tutti gli individui. Ciò che noi chiamiamo persona si
presenta ovunque come un insieme di elementi costitutivi (di natura materiale e spirituale)
dotati di una certa capacità di integrazione. Il soggetto è pensato ovunque come un entità
“coerente”. Un esempio a riguardo, ci è offerto da una popolazione di agricoltori del Burkina
Faso (Africa Occidentale): i Samo. Essi ritengono che l’essere umani sia costituito da 9
componenti, ma la cui associazione è la condizione perché si possa parlare dell’esistenza di una
“persona”. I 9 componenti sono: il corpo, il sangue, l’ombra, il sudore, il soffio, la vita, il
pensiero, il “doppio”(il mere) e il destino individuale (lepere). Il mere a differenza dell’anima
così come questa è pensata nella tradizione cristiano-musulmana, abbandona il corpo durante
il sonno e nel corso delle sue peregrinazioni fa delle esperienze di cui poi ritrasmette il
contenuto all’individuo. Durante questo percorso il mere può contrarre delle malattie che
riporta all’individuo e può essere strumento di attacchi di stregoneria. Anzi, un attacco di
stregoneria è proprio l’aggressione di un mere forte su un mere debole. Il lepere significa
letteralmente “la bocca che parla”. Quando il feto è ancora nel ventre della madre, il dio
creatore chiede all’individuo di pronunciare il proprio destino. Alle 9 componenti si aggiungono
quelli che gli antropologi hanno chiamato “attributi”: il nome, la potenza extra-umana da cui
derivano i bambini, la parte di un antenato che può incarnarsi in un neonato, la presenza di
coppie di spiriti del bosco o domestici che scelgono un individuo come proprio supporto. Questi
attributi non sono le componenti naturali si una persona, ma le componenti sociali, nel senso
che sono fondamentali nel determinare il destino dell’individuo.
Un ulteriore esempio di come possa essere concepita una “persona”, ci è offerto in riferimento
alla società e alla cultura Balinesi, profondamente influenzate dall’induismo. Per presentarsi in
pubblico di fronte agli altri, i Balinesi utilizzano una serie di “etichette”. Tra queste etichette vi
sono ad esempio i “marcatori”relativi all’ordine di nascita. Una coppia dà un nome ai propri
figli, ma questi sono nominati anche in base all’ordine di nascita: primo nato, secondo nato,

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terzo nato, quarto nato. L’ordine è “a base 4”, nel senso che il quinto figlio di una coppia si
chiamerà di nuovo primo nato, il sesto secondo nato e così via di seguito. Il sistema di
appellativi funzionerebbe in modo tale da riprodurre continuamente all’attenzione dei Balinesi
l’esistenza di un modello ciclico di ripetizione della vita umana tipico della tradizione indù.

2) Sesso, genere, emozioni

2.1 Femminile e maschile

Forse il confine identitario più netto presente in tutte le società umane è quello tra “femminile”
e “maschile”. Il corpo sessuato, tanto femminile quanto maschile, sembra contenere
un’opposizione irriducibile, “ultima”, sul piano concettuale.
Secondo l’antropologa francese Héritier l’opposizione femminile/maschile “oppone l’identico al
differente”. Sempre Heritier sostiene che la differenza femmina/maschio è presente in tutte i
sistemi di pensiero, tanto in quelli tradizionali (“chiusi”) che in quelli scientifici (“aperti”).
L’universalità dell’opposizione femminile/maschile non implica che in tutte le culture si abbiano
rappresentazioni analoghe delle relazioni tra i sessi. Per illustrare quest’ultimo punto, e cioè il
carattere di “costruzione sociale” della distinzione femminile/maschile, Heritier cita il caso degli
Inuit. Presso questi ultimi l’identità sessuale di un individuo non è legata al sesso anatomico,
ma all’identità sessuale dell’anima reincarnata, la quale viene assegnata al neonato nel
momento della nascita. Quando arriva il momento l’individuo deve tuttavia inserirsi nei ruoli
del suo sesso”apparente”, (anatomico): fare certi lavori piuttosto che altri, sposarsi,
accoppiarsi, riprodursi. Tuttavia la sua identità sarà sempre funzione della sua anima
reincarnata. Così, un ragazzo dall’anima reincarnata femminile sarà allevato fino ad una certa
età come una ragazza, ma una volta raggiunta la pubertà, dovrà assumere i tratti, i
comportamenti, i ruoli sociali di un maschio, pur mantenendo per tutta la vita la sua identità
femminile.

2.2 Sesso e genere

Vi sono dunque culture presso le quali l’identità “sessuale” di un individuo può non essere
legata al suo sesso anatomico. Tali casi non sono frutto di inclinazioni o idiosincrasie personali,
bensì fatti socialmente costruiti, riconosciuti e approvati.
Allo scopo di distinguere tra identità sessuale “anatomica” e identità sessuale “socialmente
costruita”, gli antropologi usano i termini “sesso” e “genere” rispettivamente. Le differenze
sessuali sarebbero allora quelle legate alle caratteristiche anatomo-fisiologiche di un individuo;
le differenze di genere invece, risulterebbero dal diverso modo di concepire “culturalmente” la
differenza sessuale. I lavori degli antropologi ci hanno insegnato come quelli che dovrebbero
essere i tratti della femminilità e della mascolinità non siano affatto intesi ovunque nello stesso
modo, come se fossero cioè il prodotto di una natura biologica distinta. I tratti della femminilità
e della mascolinità, ossia le distinzioni di genere, sembrano essere piuttosto delle costruzioni
culturali. Le culture, utilizzando in maniera simbolica le differenze biologiche, “costruiscono”
rappresentazioni sociali e culturali dell’identità sessuale spesso sorprendentemente diverse tra
loro.

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2.3 Sesso, genere e relazioni sociali

Sesso e genere sono dunque due dimensioni identitarie distinte. E’ tuttavia chiaro che nella
pratica sociale tali dimensioni tendono a fondersi in rappresentazioni e comportamenti in vario
tipo. Una di queste rappresentazioni è che le donne siano individui preposti “naturalmente” alla
riproduzione. Una volta accertata la differenza sessuale tra femmine e maschi, molte società
ritengono che la funzione riproduttiva delle donne sia una cosa ovvia. In realtà non c è niente
di meno naturale della riproduzione umana. Pensiamo ad esempio a come dal momento stesso
in cui una donna rimane incinta, lei stessa, il suo corpo e quello del nascituro, vengano fatto
oggetto di rappresentazioni che hanno poco di naturale e molto invece di culturale. Partorire,
allattare, accudire i figli sono atti che implicano un controllo e delle direttive socialmente
approvate.
Altrettanto impossibile appare considerare la sfera delle relazioni di potere come estranea alla
determinazione dei rapporti tra individui di sesso differente. Nella costruzione delle differenze
di genere, tipiche delle varie società, non sono infatti presenti solo dati “naturali” (il sesso
anatomico) o credenze di vario tipo, ma anche e soprattutto dinamiche che fanno della
riproduzione femminile qualcosa di controllabile, di manipolabile.
Il controllo delle capacità riproduttive delle donne costituisce un elemento cruciale di tutti i
sistemi sociali e della nascita di certe forme di potere.
Molte culture hanno costruito dei veri e propri “spazi di genere”(come ad esempio il gineceo
nella Gracia antica e gli Arham femminili del mondo musulmano).
La distinzione tra i sessi è realizzata mediante la messa in opera di simboli, pratiche e
attribuzioni di ruoli, tanto reali quanto immaginari. Molte società insistono su aspetti della
personalità femminile quali la reputazione, la modestia, la verginità, l’onore, tutti tratti
connessi, più o meno direttamente, con il portamento in pubblico e, in particolare, con “l’uso”
del corpo. In molte società si ritiene che uomini e donne abbiano “personalità” differenti: più
razionali e lucide quelle degli uomini, più istintive ed emotive quelle delle donne. Queste sono
però distinzioni che riflettono più delle costruzioni di genere che delle differenze di natura
sessuale.

L’USO DEL “VELO” E I SUOI SIGNIFICATI NEL MONDO MUSULMANO: Ciò che in Occidente è
chiamato “velo islamico” nella tradizione arabo-musulmana ha il nome di “hijab”. Il velo non è
affatto un capo di vestiario sempre uguale, ma conosce una varietà di usi molto ampia: dal
velo che lascia il viso scoperto (simile al fazzoletto indossato dalle contadine europee), alle
piccole “maschere”di alcuni gruppi beduini; dal velo vero e proprio che copre il viso lasciando
scoperto gli occhi, alle burqa “integrali”delle donne dell’Afghanistan e del Pakistan. Lo hijab
possiede una varietà di impieghi che vanno da quello di nascondimento totale della donna agli
sguardi degli estranei a quello estetico-seduttivo, in alcuni casi addirittura firmato da alcuni
grandi stilisti europei. Il velo può assumere anche un significato di contestazione, di
rivendicazione di uno stato di parità con il sesso maschile. L’essere umano, per le donne
islamiste, è bidimensionale: c’è da un lato il corpo biologico e dall’altro, lo spirito. Con il velo le
donne islamiste segnalano agli uomini che bisogna rivolgersi ad esse solo per la loro anima.
Indossare lo hijab, significa affermare la duplice natura della donna e cambiare di conseguenza
il significato della presenza femminile nei luoghi di lavoro. In questo modo le donne, proprio

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grazie al velo, sono di nuovo capaci di fornire, come gli uomini, un lavoro nel senso pieno del
termine.

2.4 Lo studio delle emozioni

Lo studio delle emozioni costituisce un settore di ricerca sviluppato solo recentemente


dall’antropologia. Gli stati d’animo fanno parte di una più generale sfera dell’ “interiorità” in cui
non è sempre facile distinguere tra emozioni, sentimenti e sensazioni. I sentimenti sono in
genere i concetti che una cultura possiede di un determinato stato d’animo, per esempio
“essere innamorati”. L’emozione implicita nel fatto di “essere innamorati” è tuttavia qualcosa di
diverso dal concetto di “amore” mediante cui viene espresso questo stato d’animo particolare.
I problemi connessi con lo studio antropologico delle emozioni, e più in generale con la sfera
dell’interiorità, sono molteplici e controversi. Gli antropologi sono però d’accordo su un punto:
gli stati d’animo non sono universali, o meglio, non sono espressi ovunque nella stessa
maniera. L’odio, la paura, la felicità e la tristezza, tutti stati d’animo implicanti l’insorgenza di
una reazione emotiva, non sono il frutto di una “natura” geneticamente determinata. Essi sono
piuttosto concepiti ed espressi da “soggetti culturali”, cioè in base ai modelli culturali
introiettati durante l’infanzia e riplasmati continuamente nel corso della vita successiva di un
individuo. Gli studi più recenti di antropologia delle emozioni si sono sforzati di “tradurre” quei
concetti e quelle parole che vengono usati per esprimere particolari stati d’animo, sentimenti
ed emozioni. Molte culture presso le quali gli antropologi hanno condotto ricerche di
“antropologia dell’interiorità” mancano di un termine unico per indicare gli stati d’animo che noi
chiamiamo emozioni. Ciò che si può dire è che le emozioni vengono modulate in relazione ad
una serie complessa di fattori: età, genere, posizione sociale, contesto pubblico o privato,…Ad
esempio gli Ifaluk popolo della Micronesia, possiedono due nozioni, metagu e song. Queste
ultime sono due nozioni complementari: song, la collera, è quella di un genitorie o di un capo
verso il trasgressore della norma. Metagu è la risposta socialmente appropriata a song. Il
bravo bambino Ifluk imparerà a introiettare lo stato d’animo di metagu prima possibile, in
maniera da poterlo esprimere al momento opportuno, meglio se egli riuscirà ad anticiparlo
ponendosi in condizione di non dover subire il song di un genitore o di un capo.
Gli Ilongot, una popolazione di orticoltori-cacciatori delle Filippine, possiedono una nozione con
la quale esprimono qualcosa che sta a metà tra la rabbia, la passione e il dolore: liget; opposta
alla conoscenza, la calma, e la salute: beya. Sembra così che i due termini, liget e beya,
costituiscano i poli concettuali entro i quali gli Ilogot articolano le loro visioni e i loro giudizi
relativi alla vita interpersonale ed emotiva, tanto individuale quanto collettiva.
I casi esaminati ci mostrano come le emozioni non siano affatto qualcosa che cade al di fuori
della sfera “razionale” della vita umana. Tutte le culture hanno infatti un modo “razionale” di
parlare delle emozioni. Esse possiedono nozioni e concetti atte a descriverle.

3) Caste, classi, etnie


la distinzione Noi\Altri (che nelle società di piccole dimensioni sembra risolversi in qualche
modo nell’esclusione completa o nell’inclusione reciproca del noi e dell’altro come nel caso
limite dei Tupinamba) nelle società più vaste e complesse sembra proliferare all’interno dello
stesso corpo sociale.

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Esistono 3 forme di distinzione interna alle società: il sistema delle caste, la divisione della
società in classi e l’appartenenza etnica.

3.1 Caste

Il termine “casta” viene oggi utilizzato in maniera fluida e generica in riferimento a gruppi
sociali ritenuti, per qualche ragione, superiori o inferiori ad altri e che, per questa loro
caratteristica, tendono a condurre una vita separata da questi ultimi. In antropologia assume
un significato più ristretto e meglio definito.
“Casta” è un termine portoghese che in lingua portoghese significa “casata”, “stirpe”. Quando
nel XV° secolo i navigatori portoghesi giunsero in India lo applicarono indistintamente a due
criteri: il sistema dei varna e quello degli jat. I varna (in indù “colore”) sono le quattro
categorie sociali principali della tradizione indù: sacerdoti, guerrieri, commercianti e contadini
(oltre ai “fuori-casta” o “intoccabili”, i paria). I varna si suddividono in una miriade di jat (che
significa “discendenza”) e sotto-jat, ognuno corrispondente, almeno in via teorica, a uno
specifico gruppo occupazionale: vasai, fabbri, barbieri,… Le unioni matrimoniali devono in
principio avvenire tra individui appartenenti allo stesso varna o allo stesso jat. La verità è che
tutto l’universo indù sembra ruotare attorno a questo modello. Tanto in India quanto nel Sud-
Est Asiatico induista, i rapporti tra gli individui sono improntati a rigide regole di
frequentazione o di evitazione fondate sulla distinzione castale. Le caste, che si tratti di varna
o di jat, sono infatti disposte gerarchicamente. Tale gerarchia si fonda su un criterio di
maggiore o minore purezza rituale. Numerosi autori hanno visto nel sistema delle caste indiane
un esempio particolarmente esasperato di “stratificazione sociale” fondato sulla disparità di
accesso alle risorse. Di solito i membri delle caste superiori appartengono ai ceti più ricchi, ma
non è detto che sia sempre così. Il sistema castale, oltre a rispondere effettivamente in molti
casi a un criterio di divisione occupazionale, si fonda su un’idea di gerarchia che è
profondamente diversa da quella di gerarchia e di potere che gli occidentali hanno in mente. La
gerarchia castale è una gerarchia di purezza rituale la cui logica informa l’intero pensiero
hindu, e non solo l’ambito delle relazioni economiche e di potere. Alcuni autori contemporanei
hanno suggerito che il sistema castale indù abbia subito un processo di forte irrigidimento con
la colonizzazione.
Levi-Strauss ritiene che le caste indù siano invece un tipico esempio delle tendenze
classificatrici della mente umana. In quanto tale, la suddivisione della società in caste avrebbe
delle straordinarie analogie formali con altri tipi di classificazione della realtà umana e naturale,
come ad esempio il “totemismo”, ossia la tendenza, presente in molte culture, ad associare
agli individui e ai gruppi il nome o l’immagine di un animale o di una pianta. Dal confronto tra
totemismo australiano e sistema delle caste indù emerge una differenza: i gruppi australiani
obbligano i loro componenti a sposare individui di altri gruppi con totem diversi dal loro,
mentre le caste indù obbligano i loro componenti a sposare individui della stessa casta.
Malgrado questa diversa disposizione i totem australiani e le caste indiane sono frutto dei
medesimi principi all’opera nella mente umana. Se infatti compiamo alcune trasformazioni,
possiamo passare da un sistema di classificazione all’altro. Il totemismo opera una distinzione
tra i gruppi servendosi delle diversità esistenti tra le “specie naturali”. Il sistema castale
distingue invece gli esseri umani in base alla loro occupazione, quindi sulla base di un
elemento culturale (prima trasformazione). Per il totemismo australiano le differenze tra specie

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(distinzioni naturali)sono assimilate a quelle tra i gruppi sociali (distinzioni culturali). Per il
sistema castale, invece, le differenze tra gruppi occupazionali (distinzioni culturali) vengono
assimilate a delle differenze naturali (fondate sulla nascita). Questa è la seconda
trasformazione. Avviene in tal modo che il totemismo “pensi” la natura attraverso la cultura e
che, al contrario, il sistema della caste concepisca la cultura attraverso la natura (terza
trasformazione). La conclusione di Levi-Strauss è che totemismo e caste non sono istituzioni
autonome; esse sono invece espressione di un “modus operandi” della mente umana che è
delineabile anche dietro strutture sociali tradizionalmente definite come diametralmente
opposte, quali appunto il totemismo e il regime delle caste indù. Queste analogie formali hanno
indotto Levi-Strauss a considerare totemismo e caste due espressioni di ciò che egli ha
chiamato i “sistemi di trasformazione”. I sistemi di trasformazione sono infatti, secondo Levi-
Strauss, le analogie, i parallelismi che sistemi di classificazione diversi presentano sul piano
formale, e la possibilità stessa che il pensiero avrebbe di passare da un sistema di
classificazione a un altro.

3.2 Classi

La nozione di “classe” sociale è strettamente legata alla tradizione della filosofia e


dell’economia politica europee, e in special modo alle analisi della società nata sulla spinta
della rivoluzione industriale. Marx riteneva che la storia della società (europea), fosse
caratterizzata da ciò che chiamo “lotta di classe”, ossia dallo scontro tra gruppi sociali con
interessi economici e politici diversi. Così la società moderna era nata, secondo Marx, dallo
scontro tra borghesia(legata ai commerci e all’industria) e aristocrazia (legata alla proprietà
della terra)e dal trionfo della prima sulla seconda. La rivoluzione industriale, aveva però creato
una classe prima sconosciuta,il proletariato urbano industriale che, opponendosi alla borghesia
in quanto da essa sfruttato, avrebbe un giorno scalzato quest’ultima dal potere e instaurato
una società di uguali. Le distinzioni di classe non si risolvono in differenze di tipo economico.
Tali distinzioni sono infatti (anche per Marx) il frutto, oltre che di disparità oggettive
nell’accesso alle risorse, anche della rappresentazione che ogni gruppo aveva di se stesso in
relazione alle altre classi. Le distinzioni di classe si riflettono infatti anche sul piano delle
“culture” che ogni classe elabora ed esprime sulla base della propria esperienza del mondo. Su
queste differenze culturali “di classe” nascono forme di distanziazione sociale “di fatto”, ma
non di diritto come è invece il caso delle caste indù. L’appartenenza di classe non è infatti
“ascrittiva”, nel senso che, nel contesto delle moderne società industriali, nulla impedisce in via
teorica al proletario di diventare egli stesso capitalista (e viceversa). Le classi sociali si hanno
infatti in sistemi economici e politici in cui è formalmente assicurata a tutti la possibilità di
ascendere socialmente, e in cui diritti e doveri sono, almeno in via di principio, equamente
distribuiti. La divisione della popolazione in classi ha naturalmente a che vedere con la
divisione del lavoro, ma non coincide con quest’ultima. Gruppi occupazionali diversi possono
infatti appartenere alla stessa classe sociale. Laddove non esiste “coscienza di classe”, cioè una
forma di autopercezione che nasce dalla contrapposizione ad altri gruppi sociali anch’essi
percepiti come “classi”, non sembrerebbe legittimo parlare di classi sociali.

3.3 Etnie ed etnicità

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Per molti anni gli antropologi hanno impiegato il termine “etnia” per indicare un gruppo umano
identificabile mediante la condivisione di una medesima cultura, di una medesima lingua, di
una stessa tradizione e di uno stesso territorio. Si parlava così di “etnie” africane,
nordamericane, mediorientali, centroasiatiche, …
I significati del termine etnia: nella seconda metà del XX° secolo, tuttavia, è prevalsa la
tendenza a rivedere questo uso del termine etnia. Alcuni antropologi lo hanno fortemente
criticato perché l’equazione cultura = lingua = territorio sembra dare per scontata l’idea che
dietro ogni etnia vi sia un’origine comune, e che quest’ultima assegni all’etnia un fondamento
“naturale”, riducendola a qualcosa come a una comunità di sangue, di stirpe, quando non
addirittura a una “razza”. Infatti questo modo di intendere l’etnia corrisponde a un sentimento
identitario (l’etnicità) che dà per scontato il carattere assoluto, statico, eterno del gruppo in
riferimento al quale tutte queste cose vengono pensate. L’etnicità, ossia il sentimento di
appartenenza a un gruppo definito culturalmente, linguisticamente e territorialmente in
maniera rigida e definita, tralascia di considerare il fatto che gruppi simili non esistono in
assoluto. Infatti tutti i gruppi umani, le loro culture e le loro lingue sono il frutto di un più o
meno lento processo di interazione con altri. Bisogna però dire che l’etnicità è una
manifestazione facente parte, come del resto la solidarietà parentale, di ciò che alcuni
antropologi hanno definito la sfera dei “sentimenti primordiali”. Con l’espressione “sentimenti
primordiali” non si vuole dire che tali sentimenti siano “naturali”, ma piuttosto che gli esseri
umani devono necessariamente trovare delle ragioni ultime per autopercepirsi come individui
dotati di una stabile identità; e che la parentela, come l’attaccamento al gruppo (etnico),
sembrano far parte di questi sentimenti.
L’uso politico dell’etnicità: Dal conflitto fra Hutu e Tutsi risulta come i gruppi “etnici” al fine di
pensare gli altri diversi da sé, siano costretti a enfatizzare alcuni elementi differenziali. Nella
contrapposizione etnica ciò che agisce più di ogni altra cosa è infatti la volontà di enfatizzare
uno o più elementi differenziali dimenticando tutti gli altri che invece accomunano. Lo scopo
dello scontro etnico, invece, non è la sottomissione dello sconfitto, come nel caso della guerra
classica, e nemmeno l’imposizione di un regime politico a una parte della popolazione, come
potrebbe essere nel caso di una guerra civile. Lo scopo dello scontro etnico è l’eliminazione
dell’altro, il suo annullamento fisico oltre che psicologico. Il fattore etnico può anche essere
utilizzato allo scopo di ottenere vantaggi sul piano economico per alcuni gruppi di interesse.
L’antropologo britannico Abner Cohen ritiene ad esempio che quando due gruppi
precedentemente privi di contatti si incontrano possano verificarsi due situazioni. La prima è
quella per cui se il divario economico è trasversale ai due gruppi, la comparsa del fattore etnico
è attenuata o impedita. Gli strati sociali di pari livello dell’uno e dell’altro gruppo interagiranno
tra loro, creando di fatto una società basata sulle differenze di classe. La seconda situazione
invece, prevede che se l’accesso alle risorse avviene su base etnica, l’etnicità ha ottime
possibilità di rafforzarsi e inibire lo sviluppo delle classi sociali e di una “coscienza di classe”.
Secondo l’ipotesi di Cohen l’etnicità e la coscienza di classe sono esclusive l’una dell’altra. Se
c’è una non ci può essere l’altra. Alcuni autori hanno fatto notare come l’etnicità possa
prevalere anche in situazioni in cui i gruppi etnici sono internamente stratificati, ossia divisi in
classi. In molti paesi africani ad esempio, i leader di vari gruppi incoraggiano le divisioni tra
etnie in quanto ciò consente loro di controllare gli strati socialmente inferiori della popolazione
di presentarsi come i campioni del proprio gruppo etnico. Questi leader distribuiscono risorse,
incarichi, posti di lavoro ai membri della propria etnia allo scopo di avere il loro supporto. Da

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questo punto di vista l’etnicità può essere funzionale al mantenimento delle divisione della
società in classi, anche se inibisce la comparsa di una “coscienza di classe”. L’etnicità deve
essere letta come il prodotto di un’interazione tra gruppi con interessi diversi e spesso messi in
circolazione da agenzie esterne (colonizzatori, multinazionali,…), e non come il risultato di una
tendenza al separatismo.

UN CONFLITTO “ETNICO” ESEMPLARE: HUTU E TUTSI IN RWANDA: Uno dei più violenti conflitti
etnici divampati nel centro–africa nel corso della metà del ‘900 è quello tra Hutu e Tutsi.
Presentato come una lotta tra etnie, fu in realtà uno strascico perverso dell’epoca coloniale e
della radicalizzazione della differenza tra due comunità condividenti la stessa lingua, lo stesso
territorio, la stessa religione, gli stessi valori e le stesse istituzioni politiche.
In Rwanda vigeva, sino all’arrivo degli europei, un sistema politico elaborato fondato sulla
complementarità di 3 gruppi: pastori, agricoltori e cacciatori-raccoglitori. I pastori, che erano
secondi per numero, erano in prevalenza Tutsi; gli agricoltori, i quali costituivano la
maggioranza della popolazione, erano Hutu. I cacciatori-raccoglitori, minoritari in senso
assoluto, erano pigmei Twa. Non si trattava affatto di tre gruppi etnici, ma i colonizzatori
attribuirono a questa tripartizione un significato “razziale”di tipo gerarchico.
Prima dell’arrivo degli europei la distinzione tra Tutsi e Hutu aveva un significato, ma di un tipo
diverso da quello che avrebbe rivestito all’epoca coloniale. Prima della colonizzazione, i Tutsi
erano il gruppo politicamente preminente, nel senso che i re e molti funzionari di corte
provenivano dalla loro aristocrazia. Dall’aristocrazia Hutu provenivano tuttavia i sacerdoti
preposti ai rituali che assicuravano il benessere del sovrano e dell’intera popolazione del regno.
Quando i colonizzatori europei si impadronirono della regione abolirono, oltre alla monarchia
Tutsi, anche il ruolo rituale degli Hutu. Ma dal momento che erano alla ricerca di interlocutori
politici, si rivolsero ai “re”, cioè ai Tutsi. I colonizzatori affidarono ai Tutsi posti incarichi
nell’amministrazione assicurando loro vantaggi economici. Gli Hutu rimasero invece tagliati
fuori da tutto ciò. Senza potere assolvere le loro tradizionali funzioni rituali, gli Hutu si
ritrovarono semplici contadini sfruttati dai dominatori Tutsi. Questa situazione si protrasse sino
alla fine degli anni ’50, quando con l’indipendenza venne instaurata una repubblica. Nel 1930 i
colonizzatori idearono un censimento con il fine di rilasciare delle carte d’identità. In queste
ultime doveva comparire l’etnia di appartenenza, Hutu, Tutsi o Twa. Tuttavia poiché nel corso
dei secoli Hutu e Tutsi si erano mescolati, gli elementi su cui basare questa distinzione erano
labili. Pertanto si decise che gli uomini adulti con 10 o più buoi erano Tutsi mentre quelli che ne
possedevano meno di 10 erano Hutu. Il nome di Tutsi o di Hutu poteva determinare il diritto di
accesso o meno, all’istruzione e ad ogni altro privilegio. I documenti di identità furono
riprodotti durante il periodo post-coloniale e oggi sono il mezzo con cui le milizie di uno e
dell’altro fronte possono sapere chi è da eliminare e chi da risparmiare.

CAPITOLO 6: FORME DELLA PARENTELA

1) La parentela come relazione e come rappresentazione

1.1 Idee di parentela

Da un punto di vista tecnico, la parentela potrebbe essere definita come la relazione che lega

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degli individui, o sulla base della consanguineità o per via matrimoniale. Si può dire che l’idea
secondo cui le connessioni parentali sono alla base dei diritti e doveri che legano gli individui
gli uni agli altri, è universale. Tutte le culture hanno un’idea del tipo di legami che intercorrono
tra un genitore e i suoi figli, o tra i figli di una coppia, ma le idee relative alla parentela
implicano differenti concezioni inerenti al concepimento, alla formazione e alla crescita degli
esseri umani. Nonostante la genetica abbia scientificamente dimostrato che il corredo
cromosomico di ogni individuo è percentualmente diviso esattamente a metà tra quello della
madre e quello del padre, l’idea della procreazione come frutto di un principio maschile attivo e
di un principio femminile passivo, è ancora oggi largamente radicata nel modo di pensare di
molti “occidentali”. I legami parentali non riguardano solo i rapporti tra individui, bensì anche,
e forse soprattutto, i rapporti tra gruppi.

1.2 Diagrammi di parentela

Per descrivere le relazioni di parentela tra individui e tra gruppi, vengono tracciati dei
diagrammi, ossia disegni costituiti da simboli convenzionali, linee, lettere e numeri. Tali
elementi consentono di illustrare in poco spazio e in breve tempo connessioni talvolta
estremamente complesse.
Simboli L’ultimo simbolo della tabella, chiamato Ego, (in latino Io)indica l’individuo attorno al
quale viene costruito un diagramma e dal cui punto di vista il diagramma di parentela va letto.

Individuo di sesso femminile

Individuo di sesso maschile

Individuo di sesso imprecisato

Individuo deceduto

Matrimonio

Divorzio

Relazione sessuale

Relazione di discendenza

Relazione tra fratelli germani (figli degli stessi genitori)

Adozione

Ordine di anzianità dei fratelli germani

Ego (femminile, maschile, imprecisato)

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1.3 Consanguinei e alleati (o affini)

I parenti consanguinei sono legati a Ego in quanto biologicamente connessi con quest’ultimo;
i parenti alleati, sono invece quegli acquisiti attraverso il matrimonio di Ego ( o di uno dei
consanguinei di quest’ultimo).
Sigle Vi sono altri elementi che servono a costruire i diagrammi di parentela. Si tratta di sigle
utilizzate per designare gli individui in rapporto ad Ego. L’uso di queste sigle è spesso
fondamentale poiché consente di descrivere i parenti di Ego indipendentemente dal modo in
cui, nella società di quest’ultimo, si è soliti chiamare o rivolgersi ai parenti. Infatti, non tutti i
popoli designano allo stesso modo i parenti. Quelli che noi ad esempio chiamiamo nipoti,
presso alcune società possono essere chiamati figli.

M = Mother
F = Father
B = Brother
Z = Sister
W = Wife
H = Husband
D = Daughter (figlia)
S = Son (figlio)
C = Children (figli)

L’uso dei simboli e delle sigle di parentela consente di rappresentare connessioni complicate in
maniera rapida ed efficace. Infatti questo metodo consente di tralasciare tutti gli individui che
sono superflui rispetto allo scopo per il quale il diagramma viene tracciato.

1.4 Discendenza e consanguineità

Gli umani sono esseri sociali. L’evoluzione del genere Homo e i successi da esso ottenuti nel
processo di adattamento all’ambiente sono da ricondursi alla vita sociale degli ominidi. Gli
esseri umani vivono in gruppi e sembra che il sistema più semplice per dare vita a dei gruppi a
scopo di collaborazione di difesa sia stato, sin dal paleolitico, quello di fare riferimento alla
parentela. Noi non sappiamo quando gli esseri umani, o più probabilmente i nostri antenati
quasi umani, si resero conto che la parentela poteva essere un criterio per formare dei gruppi
distinti da altri, quelli che in antropologia vengono chiamati “gruppi di discendenza”. Si tratta di
gruppi di individui i quali, per il fatto di discendere da un antenato comune, sono in grado di
fare coincidere popolazione e risorse, di affermare su queste ultime dei diritti d’uso prioritari, e
di trasmettere tali diritti alla propria discendenza, ossia a tutti quegli individui che, nascendo,
saranno inclusi nel gruppo in base al criterio della discendenza.
Tipi di discendenza

- Patrilineare: stabilita esclusivamente attraverso legami tra individui di sesso maschile.


- Matrilineare: fondata esclusivamente sui legami tra individui di sesso femminile.

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- Cognatica: fondata sui legami stabiliti attraverso una linea di discendenza che comprende
individui sia di sesso maschile che di sesso femminile.

La discendenza di tipo patrilineare e quella matrilineare vengono definite “unilineari”. Esistono


anche società a discendenza “doppia” le quali associano il principio della patrilinearità e quello
della matrilinearità dove di solito alcune prerogative sono acquisite per via patrilineare ( per
esempio cariche politiche), mentre altre per via matrilineare ( cariche rituali ). Nella società
europea odierna, e in quelle moderne da essa derivate, non abbiamo gruppi di discendenza; si
preferisce parlare pertanto di “società bilaterali”.
Gruppo corporato Si indicano quei gruppi fondati sul principio della discendenza i quali
condividono, su basi collettive, diritti, privilegi e forme di cooperazione economica, politica e
rituale. Non tutti i gruppi di discendenza però sono gruppi corporati; perché un gruppo sia
considerato tale è necessario che i suoi membri mettano in atto e rispettino le condizioni citate
precedentemente.
Lignaggi e clan I lignaggi sono quasi sempre dei gruppi corporati. Il lignaggio è costituito da
tutti gli individui che possono tracciare una comune discendenza da un determinato individuo.
Se tale connessione è stabilita attraverso gli individui di sesso maschile, avremo un patri-
lignaggio, se è stabilita attraverso individui di sesso femminile avremo un matri-lignaggio. Un
gruppo di discendenza patrilineare è un patri-lignaggio, un gruppo di discendenza matrilineare
è un matri-lignaggio. L’ampiezza e la profondità dei lignaggi può variare notevolmente. Può
coincidere con il gruppo di discendenza stesso, oppure essere un segmento di quest’ultimo. I
clan sono invece chiamati quei gruppi di discendenza i cui membri non possono ricostruire la
successione degli individui che connettono i loro rispettivi lignaggi all’antenato comune, ma che
danno solo un sentimento di appartenere ad una comune discendenza. Spesso, in questi casi,
l’antenato è una figura mitica, concepita sotto forma di animale o vegetale.
Parentado Il parentado di un individuo è sempre un gruppo “Egocentrato”, poiché è costituito
da tutti gli individui patri- e matrilaterali in relazione di consanguineità con Ego. La cerchia
degli individui che formano il parentado di una persona può essere assai ampia ma, di fatto, è
costituita dagli individui con i quali Ego ha una qualche forma di interazione. Alla morte di un
individuo il parentado si dissolve, nel senso che un parentado “esiste solo in relazione ad un
individuo vivente”. Non esistono mai parentadi identici, poiché un parentado è sempre
egocentrato e un individuo rientra in molteplici parentadi, quelli di tutti gli individui con i quali
è in relazione di consanguineità.

IL KHANDAN DEI BALUCH: Il khandan è un nucleo parentale egocentrato assimilabile al


parentado, il quale è formato da tutti i parenti consanguinei viventi di un individuo, sia da
parte di padre che di madre. Quella dei Baluch è una società altamente stratificata e solo ai
livelli superiori, quelli occupati dai gruppi più ricchi e più influenti sul piano politico, la nozione
di Khandan ha un riscontro a livello pratico. Nei casi del livelli inferiori della scala sociale, la
nozione di Khandan rimane un fatto puramente nominale e teorico.

1.5 Residenza e vicinato

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La residenza è importante perché la maggiore o minore prossimità spaziale tra individui


determina spesso il grado della loro coesione. Nel caso di gruppi di discendenza che risiedono
nello stesso territorio, la prossimità diventa un fattore di ulteriore coesione e il loro carattere
corporato può uscirne rafforzato. Quando si disperdono, i gruppi possono perdere il senso della
comune appartenenza, il loro carattere corporato può ridursi, mentre il fattore della co-
residenza con altri gruppi può sopravanzare per importanza quello della comune discendenza o
aggiungersi a quest’ultimo. Tutte le società hanno modelli ideali di residenza postmatrimoniale,
essi possono essere così elencati:
- Patrilocale: una coppia va a vivere con o vicino ai parenti del marito
- Matrilocale: una coppia va stabilirsi con o vicino i parenti della moglie
- Ambilocali: una coppia può scegliere se vivere con o vicino i parenti di uno o
dell’altro coniuge
- Neolocale: una coppia si stabilisce in un luogo diverso da quello dei parenti di
entrambi i coniugi
- Natolocale: marito e moglie continuano ciascuno a vivere con i propri parenti
- Avuncolocale: una coppia va a stabilirsi vicino alla residenza del fratello della
madre

Il vicinato è un insieme di famiglie nucleari o estese che si trovano nella necessità di cooperare
per gestire spazi e risorse. Il vicinato è stato definito come ”forma sociale effettivamente
esistente, una comunità effettiva caratterizzata dalla sua concretezza, spaziale o virtuale e dal
suo potenziale di riproduzione sociale”. Le relazioni di vicinato sono però d’altra parte all’origine
dei rapporti di parentela che possono instaurarsi tra nuclei famigliari coresidenti, trasformando
la relazione di vicinato in relazione di parentela.

1.6 Matrimonio e alleanza

L’alleanza coincide coi legami contratti da un individuo con altri attraverso l’istituzione da noi
conosciuta come matrimonio. Le forme del matrimonio riconosciute sono:
- Monogamico (tra due individui)
- Poliginico (tra un uomo e più donne)
- Poliandrico (tra una donna e più uomini)

Il principale scopo del matrimonio è quello di legittimare l’identità sociale degli individui che
nascono dalle relazioni sessuali. Riproduzione e matrimonio non sono due entità separate, al
contrario sono strettamente interconnesse. E’ grazie al matrimonio che la riproduzione umana
viene per così dire culturalmente e socialmente ”disciplinata”. Più le società si presentano come
strutturate su principi di discendenza ben definiti, più le regole concernenti la destinazione
della prole saranno precise.
Con il termine “levirato” si indica il costume in base al quale la moglie di un defunto andava in
sposa al fratello di quest’ultimo, il quale diventava in tal modo tutore della donna medesima e
della sua prole. “Sonorato” è invece il termine con cui si indica il costume di dare in moglie ad
un uomo rimasto vedovo la sorella della donna defunta, soprattutto quando questa muore
senza prole. Lo scopo di questa unione è quello di rimpiazzare le facoltà riproduttive della
donna scomparsa a vantaggio del gruppo del marito. In base all’istituzione dell’”epiclerato” in

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vigore nell’antica Grecia, un uomo sposato senza figli maschi ma con delle figlie femmine,
poteva fare unire legalmente una di queste ad un uomo che diventare a tutti gli effetti il padre
del figlio della figlia. Oppure si consideri il così detto “matrimonio col fantasma”praticato presso
i Nuer del Sudan. La loro società si basa sulla discendenza patrilineare, e come in tutte le
società di questo tipo, avere dei figli (specialmente maschi)è per un uomo un fattore di
grandissima importanza, al punto che si ritiene opportuno procurare ad un uomo dei figli anche
qualora egli muoia prima di essersi sposato senza prole. A tale scopo, un uomo del gruppo di
discendenza del defunto, possibilmente un fratello o un cugino, contrae matrimonio con una
donna a nome dello scomparso sicché i figli che nascono da tale unione sono considerati a tutti
gli effetti figli del defunto. Alcuni popoli africani praticano il così detto “matrimonio tra donne”.
Nel caso di sterilità del marito, le donne ricorrono sovente, d’accordo con i loro sposi,
all’adulterio, dove gli eventuali figli risultano essere figli del padre sociale e non del padre
biologico. Questo tuttavia non può essere una soluzione nel caso sia una donna ad essere
sterile. Ecco allora che una donna sterile può divorziare e proprio in quanto sterile, essere
considerata “come un uomo”. Ella può così contrarre matrimonio con un’altra donna, scegliere
un uomo a sua discrezione e farlo unire con colei che è la propria moglie di diritto. I figli che
nascono da questo rapporto sono figli legittimi della donna-marito. Gli antropologi si sono
ingegnati non poco nel tentativo di trovare un a definizione di matrimonio che fosse
universalmente valida. Un matrimonio sarebbe “una transazione che si risolve in un accordo in
cui una persona (maschile o femminile, collettiva o individuale, in prima persona o per
procura) stabilisce un diritto continuativo di accedere sessualmente a una donna, e nel quale la
donna in questione è considerata suscettibile di avere dei figli.
Matrimonio, famiglia e gruppo domestico Alla diverse forme di matrimonio, corrispondono
altrettante forme di costituzione di ciò che noi chiamiamo “famiglia”: famiglia monogamica,
poliginia, poliandria. Di solito la famiglia composta dai coniugi e dalla prole costituisce l’unità
minima di produzione e riproduzione. Essa viene chiamata “famiglia nucleare”. In molte società
la famiglia nucleare costituisce l’ambito nel quale avviene in primo luogo la trasmissione dei
valori sociali. La crisi della famiglia corrisponde all’emergere di altre modalità di trasmissione
dei valori e della cultura, come ad esempio la scuola. La famiglia nucleare esiste quasi sempre
nel contesto di quella che si chiama”famiglia estesa”, costituita dagli individui appartenenti a 3
generazioni e che formano spesso, con l’aggiunta di altri elementi, un “gruppo domestico”.

I MATRIMONI POLIANDRICI DEI NAYAR: I Nayar praticano la poliandria e la loro società si


fonda su gruppi di parenti interrelati dalla comuni discendenza matri lineare. Questi gruppi, che
detengono i diritti collettivi sulla terra, sono chiamati “tavari”. I membri di un tavari vivono
nella stessa casa e cooperano sul piano economico. Poco prima di raggiungere la pubertà le
ragazze sono sottoposte ad una cerimonia che rende legittimo per una donna avere rapporti
sessuali con un uomo. Tra i Nayar una donna può avere più relazioni contemporanee o
successive e gli uomini che entrano in relazione con essa possono lasciare la casa della
famiglia della ragazza dopo pochi giorni senza accampare diritti o contrarre doveri verso di lei.
Neppure la ragazza è vincolata da obblighi nei confronti dell’uomo, né può accampare qualche
diritto nei suoi confronti. Successivamente può verificarsi che alcuni degli uomini mantengano
una relazione permanente con la donna, in cui l’uomo deve offrire doni alla donna 3 volte
l’anno. Ciò lo autorizza a passare la notte in casa della donna quando vuole e ad avere diritti

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sessuali permanenti su di lei, ma non lo obbliga a fornirle alcun sostegno economico. Una
donna può avere questo tipo di relazione con più di un uomo contemporaneamente. Quando la
donna è incinta però, un uomo di condizione sociale pari o superiore alla sua, deve riconoscere
la paternità del nascituro, pensa l’espulsione della donna dal suo tavari. Un uomo riconosce la
paternità facendo doni alla donna e mostra interesse per il neonato senza per questo contrarre
obblighi nei confronti del figlio, né economici né educativi, dal momento che è il tavari della
madre a prendersene cura. Dopo di che, l’uomo torna al suo tavari pur continuando a
mantenere relazioni con la donna.

1.7 Esogamia ed endogamia

Esogamia indica l’unione matrimoniale di un individuo all’esterno del gruppo. Endogamia indica
invece l’unione matrimoniale di un individuo all’interno del gruppo. Un’unione può essere
esogamica o endogamica a seconda dell’ampiezza del gruppo considerato.
La proibizione dell’incesto Le nozioni di esogamia e di endogamia sono connesse al dato di
fatto che tutte le società distinguono tra individui”consentiti” e individui “vietati” dal punto di
vista matrimoniale. Unioni sessuali con individui vietati vengono normalmente considerate
“incestuose”, illecite e come tali passibili di condanna. Le sanzioni previste in questi casi,
possono andare da una blanda riprovazione a punizioni più severe (perfino la morte!). Con
l’espressione “proibizione dell’incesto”viene indicato il divieto all’unione matrimoniale e
sessuale tra determinati individui. La proibizione dell’incesto è una regola culturale, non un
dato di natura. L’istituzione del “comparaggio” sembra essere una conferma. Essa prevede che
alla nascita di un figlio i genitori scelgano un padrino o una madrina con le quali si instaura un
rapporto di parentela spirituale, in conseguenza del quale valgono gli stessi divieti sessuali che
vigono tra parenti reali. Di solito il comparaggio è interpretato come un meccanismo atto a
promuovere forme di solidarietà e di appoggio tra famiglie.
Cugini incrociati e cugini paralleli i cugini incrociati sono i figli e le figlie di fratelli germani di
sesso differente . I cugini paralleli sono i figli e le figlie di fratelli germani dello stesso sesso. I
cucini incrociati possono appartenere o no appartenere allo stesso gruppo di discendenza di
Ego: i cugini incrociati di Ego risultano appartenere a un gruppo di discendenza diverso dal
suo. Al contrario i cugini paralleli di Ego appartengono invece allo stesso suo gruppo di
discendenza sia esso matrilineare o patrilineare. Dal punto di vista matrimoniale la distinzione
tra cugini ha solo senso se siamo in presenza di gruppi unilineari esogamici. Se infatti il gruppo
di discendenza di Ego è esogamico, solo i cugini incrociati saranno per lui individui leciti, in
quanto appartenenti ad un diverso gruppo di discendenza. I cugini paralleli saranno allora
proibiti in quanto appartenenti al suo stesso gruppo. Esistono però società in cui il gruppo di
discendenza è endogamico e allora tanto i cugini incrociati quanto quelli paralleli sono leciti.
Il principio di reciprocità Diversamente dai sistemi “complessi”, nei quali le norme sociali si
limitano a vietare determinati individui, i sistemi “elementari” non solo vietano, ma indicano
alcun categorie determinate di individui come possibile partner matrimoniali. Prescrivendo il
matrimonio con determinate categorie di individui, un gruppo stabilisce relazioni privilegiate
con altri gruppi, per cui sembra che tali gruppi diano luogo ad uno “scambio delle donne”,
fondato sul “principio di reciprocità”.
Scambio allargato e scambio differito Lo “scambio delle donne”può assumere forme allargate e
differite. Caso in cui ad ogni generazione il gruppo A cede una donna al gruppo B che ne cede

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un’altra al gruppo C che la restituisce al gruppo A, questo scambio è definito allargato, in


quanto coinvolge più di due gruppi. Di fatto, nella maggioranza dei casi, prevale uno scambio
allargato e differito, dal momento che il gruppo che cede una donna ne riceve una in cambio
nella generazione successiva. Lo scambio differito è un modo efficace per fare fronte al
problema di rifornire con regolarità i gruppi di individui fertili.

LE UNIONEI ENDOGAMICHE DEI BEDUINI D’ARABIA: Non esiste un’unica spiegazione


dell’esistenza di un endogamia e della quale è massima espressione il matrimonio tra cugini
paralleli. Si ritiene che l’origine di questo tipo di unione matrimoniale, sia da ricondurre alle
culture del deserto. Secondo alcuni antropologi, l’unione tra cugini paralleli, potrebbe essersi
sviluppata e rafforzata tra i beduini d’Arabia. Anche oggi questi nomadi si disperdono durante
la stagione fresca in piccole unità di nomadizzazione composte da cellule famigliari costituite
ciascuna da un uomo, sua moglie e i loro figli. Quando in passato la difesa dalle razzie di
gruppi ostili costituiva una delle più importanti priorità, tali unità di nomadizzazione erano
formate dalle famiglie di fratelli maschi. Un metodo semplice per risolvere le unioni dei
componenti di queste unità di nomadizzazione, isolate per gran parte dell’anno, può essere
stato quello di fare sposare tra loro i figli maschi e le figlie femmine dei vari fratelli.

2) Le terminologie di parentela

2.1 Terminologia di “parentela”o di “relazioni”?

Alcuni preferiscono parlare non di terminologia di parentela ma di terminologia di relazioni. La


ragione di ciò dipende dal fatto che gli individui che vengono designati nelle altre culture
mediante termini che noi riteniamo essere di parentela, possono in alcuni casi non evocare
l’idea di un legame di sangue o di alleanza.

2.2 I tre assunti di Morgan e gli otto principi di Kroeber

I tre assunti di Morgan sono:


- le terminologie di parentela costituiscono dei sistemi; ciò significa che ad ogni termine
con cui un individui designa un suo parente ne corrisponde sempre un altro usato da
quest’ultimo per designare il primo. Questo primo assunto è conosciuto dagli specialisti
come”legge di coerenza interna dei reciproci”.
- I sistemi di parentela rientrano in poche categorie fondamentali
- Sistemi molti diversi possono trovarsi in regioni geograficamente prossime, mentre
sistemi tra loro simili possono essere rintracciati in località lontanissime una dall’altra.

Per Kroeber esistono principi che regolano i sistemi di parentela. Non tutti i sistemi fanno uso
di tutti i principi e neppure degli stessi. I principi seguenti sono elencati in ordine di
applicazione decrescente:
- la generazione. Tutti i sistemi distinguono tra Ego e suo/a padre e madre, zio, cugino…
- il sesso. Tutti i sistemi distinguono il sesso del parente. Alcuni di essi però limitano la
distinzione ad alcuni individui (fratello, sorella, padre, madre…)e non distinguono tra
nonno e nonna. Alcuni addirittura non distinguono tra figlio e figlia.

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- La distinzione tra consanguinei e affini. I sistemi separano terminologicamente i parenti


di sangue da quelli acquisiti attraverso il legame matrimoniale
- La distinzione terminologica tra consanguinei in linea diretta e consanguinei in linea
collaterale. Questo principio, che per Morgan costituiva discrimine tra sistemi di
parentela “descrittivi” (in cui tale criterio era presente) e “classificatori” (in cui era
invece assente) è tenuto in conto in diversa misura da alcuni sistemi, mentre altri lo
ignorano completamente.
- La biforcazione. Condivisa solo da alcuni sistemi, comporta che i parenti del lato
paterno e quelli del lato materno vengano indicati con termini diversi.
- L’età relativa. Prevede la distinzione tra individui maggiori o minori di età.
- Il sesso del parente. Attraverso il quale passa la relazione con l’individuo a cui il termine
si riferisce. Il caso classico è la distinzione tra cugini incrociati e paralleli.
- Condizione (defunto o vivente) del parente a cui si fa riferimento

2.3 I sei sistemi terminologici di parentela

Gli antropologi hanno isolato sei tipi di sistemi di parentela: hawaiano, eschimese, omaha,
crow, irochese, e sudanese. Essi prendono il nome da popoli o da regioni presso cui tali sistemi
furono individuati o studiati per la prima volta. Questi sei tipi sono raggruppati di solito in tre
categorie differenti:
- sistemi non lineari o bilaterali
- sistemi lineari
- sistemi descrittivi

Sistemi non lineari o bilaterali: hawaiano ed eschimese In questi sistemi Ego non fa distinzione
tra parenti del lato paterno e parenti del lato materno. Tali sistemi non applicano il criterio della
biforcazione. Da un punto di vista sociologico questi sistemi danno la stessa importanza ad
entrambe le linee di discendenza di Ego, quella patrilaterale e quella matrilaterale. Il sistema
hawaiano fa uso esclusivamente dei principi della generazione e del sesso. La principale
caratteristica del sistema eschimese, di cui il nostro è una variante, consiste nel fatto che Ego
distingue i membri della propria famiglia nucleare (padre, madre e figli) da tutti gli altri, e in
particolare i consanguinei in linea diretta da quelli in linea collaterale; mentre raggruppa, come
accade presso di noi, tutti i discendenti dei fratelli e delle sorelle dei propri genitori sotto il
termine “cugini”. La principale differenza tra questi due sistemi consiste nel fatto che quelli
eschimesi adottano oltre ai principi 1 e 2, il principio 4 di Kroeber.
Sistemi lineari:irochese, omaha e crow In questi sistemi, la cui presenza è registrata presso
società con gruppi di discendenza unilineari, Ego distingue i cugini incrociati da quelli paralleli e
i parenti consanguinei da parte di padre da quelli da parte di madre. Questi sistemi adottano
infatti il principio della biforcazione. Tali sistemi però “fondono”i parenti dello stesso sesso e
della stessa linea di discendenza di Ego. Ciò fa si che tali terminologie siano chiamate a
“fusione biforcata”. Come il sistema irochese, quello crow adotta il criterio della biforcazione e
fonde le sorelle della madre con la madre e i fratelli del padre con il padre. Tuttavia i sistemi
crow:
- sono tipici di società matrilineari

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- distinguono tra parenti del matrilignaggio della madre di Ego e i parenti del
matrilignaggio del padre di Ego
- usano lo stesso termine per indicare tutti gli individui maschi del matrilignaggio della
madre di Ego e uno stesso termine per indicare i figli di costoro (distinguendo solo tra
maschi e femmine)

Il sistema omaha è speculare a quello crow. Tuttavia lo si riscontra nelle società patrilineari. I
membri del patrilignaggio della madre di Ego si distinguono solo in base al sesso, ma non alla
generazione. Tutti i figli delle donne del patrilignaggio del padre di Ego sono distinti solo in
base al sesso, ma non alla generazione.
Sistemi descrittivi: sudanesi Caratteristica di questi sistemi è di usare un termine differente per
ogni parente di Ego appartenente alla propria generazione, a quella dei genitori e dei propri
figli. Si tratta di sistemi a “ massima distinzione terminologica”. Questi sistemi attivano i
principi 1,2,3,4,5,e 7 di Kroeber. Sistemi analoghi sono riscontrabili in Medio Oriente, ciò ha
fatto pensare che esso sia strettamente legato alla conquista arabo-islamica dei secoli passati.
Tuttavia bisogna notare che nell’Africa subsahariana esso è assente anche tra i popoli islamici
(dove prevalgono sistemi di tipo unilineare omaha) e che nella maggior parte dei paesi
musulmani non arabi (Iran, Pakistan) sono in vigore per lo più sistemi simili al nostro, cioè di
tipo eschimese.

LINEARE E LATERALE: Lineare significa che ci troviamo di fronte ad una relazione diretta e in
ordine di successione, (discendenza patrilineare o matri lineare). Quando parliamo di patri o
matri laterale, alludiamo invece alla cerchia dei parenti che ogni individuo ha in relazione al
padre o alla madre. Qualunque sia il criterio della discendenza un individuo ha parenti sia dal
lato paterno sia dal lato materno: parenti patrilaterali e matri laterali.

3) La parentela come pratica sociale

3.1 La parentela in azione

Presso molte società i parenti costituiscono una cerchia di individui con cui interpretare
iniziative economiche, con cui svolgere determinati riti e con cui formare delle fazioni politiche.

3.2 La parentela nelle società unilineari (patri- e matrilineari)

Sul piano pratico vi sono delle differenze notevoli tra gruppi a discendenza patrilineare e gruppi
a discendenza matri lineare.
Gruppi patrilineari E’ probabile che il tipo di discendenza debba essere connesso in qualche
misura al tipo di residenza che i componenti di una società adottano di preferenza dopo il
matrimonio. Le regole dell’esogamia e della residenza patrilocale sarebbero così all’origine dei
gruppi di discendenza patrilineari. Alcuni ritengono che il criterio della patrilinearità potrebbe
essere il prodotto di una forma di divisione del lavoro, che vede gli uomini impegnati
congiuntamente in attività che necessitano di una cooperazione intensa o continuata. Gli
antropologi hanno riscontrato delle eccezioni alla norma che a gruppi di discendenza
patrilineare corrisponde sempre una residenza di tipo patrilocale. I Mundurucu del Rio delle

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Amazzoni (Brasile) sono ad esempio patrilineari e matri locali. Quando un uomo si sposa va a
stabilirsi nel villaggio della moglie, anche se non abita con lei. Egli va ad occupare la “casa
degli uomini”, la quale ospita gli altri mariti provenienti da fuori e gli uomini non sposati del
villaggio, i quali abbiano raggiunto l’età pubere. Le donne abitano in case disposte
circolarmente nel villaggio, con le loro madri e i loro figli. Il caso dei Mundurucu è forse l’unico.
Il controllo della progenitura Centrale per ogni gruppo di discendenza patrilineare, è la
preoccupazione di avere maschi che ne assicurino la continuità attraverso le successive
generazioni. Le società patrilineari hanno istituzioni che sono finalizzate all’acquisizione di prole
maschile. Si tratta, di conseguenza, di istituzioni che si applicano al controllo delle facoltà
riproduttive degli individui di sesso femminile. Abbiamo già ricordato le istituzioni del levirato e
del sonorato. Istituzioni come quelle del matrimonio fantasma tra i Nuer o del matrimonio fra
donne, hanno la stessa funzione. Il controllo della progenitura e quindi della fertilità delle
donne, ha comportato, presso questo tipo di società, la nascita di vasti sistemi di scambio
matrimoniale. Questi sistemi hanno visto lo sviluppo di istituzioni e meccanismi che hanno la
funzione di “stabilizzare”il sistema, di rendere cioè gli scambi prevedibili e non aleatori. Tra
queste istituzioni vi è quella conosciuta con l’espressione di “compensazione matrimoniale”.

POLIANDRIA ADELFICA ED EREDITA’ DELLA TERRA FRA I TIBETANI DEL NEPAL: I Tibetani del
Nepal praticano varie forme di unione matrimoniale, ma fino a tempi recenti la più diffusa era
quella di una donna con un gruppo di fratelli. Di qui l’espressione “poliandria adelfica” (dal
greco adelphos, fratello). Al momento del matrimonio la donna va a vivere con i mariti-fratelli.
I figli della donna sono trattati tutti allo stesso modo dai loro “padri”, e anche se i figli sanno
chi è di preciso il loro padre, chiamano tutti gli uomini allo stesso modo. Sembra che tra le
possibili ragioni che hanno determinato il consolidamento della poliandria adelfica siano
preminenti quelle di tipo economico-ambientale. La terra è scarsa perché non facilmente
dissodabile a causa del gelo, pertanto gli individui tendono a restare sulla propria terra
ereditata dalla generazione precedente.

La compensazione matrimoniale Potrebbe essere definita come una quantità di beni che il
gruppo del futuro sposo cede al gruppo della futura sposa. Questi beni non costituiscono il
prezzo pagato per un acquisto, infatti se una donna venisse davvero “comperata” ciò vorrebbe
dire che l’acquirente potrebbe disporre di costei a suo piacimento, anche rivenderla. Ma non è
così nel caso delle transazioni matrimoniali. Per quanto il gruppo di discendenza di un uomo
acquisisca diritti sulla prole di una donna, non acquisisce su quest’ultima un potere totale. Il
gruppo della donna conserva sempre la possibilità di intervenire in caso di contrasti o
maltrattamenti ai danni della prole di una donna o di lei stessa.

MUTAZIONI NELL’SUO DELLA COMPENSAZIONE MATRIMONIALE: Tra i nomadi d’Arabia, la


monetizzazione dell’economia ha svincolato la compensazione matrimoniale dal suo impiego
originario, cambiando i modi della sua acquisizione. Tra i beduini non è raro che la
compensazione matrimoniale, versata al padre della sposa, venga oggi reinvestita in attività
produttive procrastinando, anche di parecchi anni, il matrimonio dei fratelli della donna. Ciò
contribuisce a spingere questi ultimi alla ricerca di risorse utili a costituire una propria
compensazione matrimoniale fuori dalle normali attività di allevamento, pastorizia e

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agricoltura, inducendoli a procurarsi del denaro in ambiente urbano come tassisti, poliziotti
camionisti ecc..

Gruppi matri lineari Mentre nelle società patrilineari la discendenza e l’autorità sono trasmessi
lungo la medesima linea, in quelle matri lineari la loro trasmissione si effettua lungo due linee
diverse: la discendenza per via femminile, l’autorità per via maschile. In società di questo tipo
l’autorità si trasmette dal fratello di una donna al figlio maschio di quest’ultima. Sovente alla
discendenza matri lineare è associata la residenza avuncolocale.

LA QUESTIONE DEL MATRIARCATO: Secondo quasi tutti gli studiosi, le società matri lineari
esistenti rappresentavano i residui di un modello di organizzazione sociale un tempo
dominante: infatti la successione per via patrilineare sarebbe stata posteriore, frutto del
progresso. Bachofen partì dall’ipotesi, comune a tutti gli evoluzionisti, di una “promiscuità
originaria”, dove l’accesso sessuale non era sottoposto a regole e da cui si sarebbero poi
sviluppate tutte le forme di matrimonio a noi note. Bachofen dedusse dalla evidenza del
riconoscimento della maternità la priorità storica di una discendenza femminile e su questa
base, la priorità cronologica di un potere femminile, o “matriarcato”, rispetto al potere
maschile, o “patriarcato”. Matriarcato e discendenza matri lineare non designano però lo stesso
fenomeno sociologico. Il primo non è probabilmente mai esistito, sebbene ancora oggi alcuni
profani impiegano il termine matriarcato per indicare la discendenza matri lineare, la quale non
implica però alcun potere gestito dalle donne.

L’avuncolato La scoperta di Malinowski consistette nell’accertare che in queste società lo zio


materno di Ego, oltre a provvedere al sostentamento della famiglia della sorella, esercitava sui
figli maschi di quest’ultima l’autorità, trasmetteva loro i beni, le conoscenze sacre e le
eventuali cariche politiche rituali. Supponiamo che il figlio della sorella di Ego, unico figlio
maschio di costei, non sia in grado di ereditare per una qualche ragione le cariche detenute dal
fratello della madre (cioè da Ego, suo zio materno). Il principio della discendenza matri lineare
consente di ovviare a questo problema “deviando”la linea di trasmissione verso la discendenza
di una sorella della madre di Ego, e precisamente verso i figli di quest’ultima. Ego chiama
“madre” la sorella della propria madre e conseguentemente “sorella”la figlia della sorella della
madre.

L’ATOMO DI PARENTELA: Lèvi-Strauss chiamò “atomo di parentela”la configurazione costituita


da 4 individui: una donna e il figlio maschio di lei, il fratello della donna e il marito di
quest’ultima. Lèvi-Strauss introdusse questa definizione perché a suo giudizio tale
configurazione costituisce l’unità minima parentale. Secondo lui l’importanza dell’atomo di
parentela poteva essere compresa a partire dall’istituzione dell’avuncolato nelle società matri
lineari. In esse infatti, la figura dello zio materno è centrale. Quanto più i rapporti tra padre e
figlio e tra marito e moglie sono improntati a confidenza e affetto, tanto maggiore sarà
l’autorità dello zio materno sul figlio di sua sorella e su quest’ultima. Nelle società patrilineari,
al contrario, quanto maggiore è l’autorità del padre sul figlio e sulla moglie, tanto più affettuosi
saranno i rapporti tra zio e nipote e fratello e sorella. Tuttavia anche qui, il fratello della donna
è una figura importante perché sta ad indicare che la parentela è innanzitutto, alleanza tra

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gruppi, non tra individui isolati. L’atomo di parentela è il riflesso primario del principio
esogamico.

Residenza o discendenza? Il dilemma delle società matri lineari Uno dei maggiori problemi che
le società a discendenza matri lineare devono affrontare è come risolvere la tensione tra il
potere e la discendenza. Al centro di tale tensione troviamo infatti il fratello di una donna e il
marito di quest’ultima che si contendono il controllo sulla prole della donna stessa, sorella per
l’uno e moglie per l’altro. Molti studi antropologici hanno messo in evidenza come tale tensione
si manifesti soprattutto in relazione alla scelta del modello di residenza. Supponiamo, ad
esempio, che una società a discendenza matri lineare, adotti un modello di residenza
patrilocale. I figli maschi di una coppia rimangono presso la dimora paterna, “importano”delle
donne le quali genereranno figli che restano, ma che appartengono ad altri gruppi di
discendenza, quelli delle loro madri. Come potranno i fratelli di queste ultime, che vivono
altrove, controllare le loro sorelle e soprattutto i nipoti? Turner dedicò un celebre studio a una
società matri lineare che si trovava appunto a dover fronteggiare questo problema, gli Ndembu
dello Zambia. Tra essi, quando l’uomo che esercita l’autorità muore o si ritira, deve essere
sostituito, in base al principio della matri linearità, dal figlio della sorella. Quest’ultima tuttavia,
sposandosi, è andata a vivere, nel rispetto del principio della residenza patrilocale, presso il
gruppo del marito, dove abitano anche i figli avuti da quest’ ultimo. Gli uomini devono fare in
modo che i figli delle sorelle facciano ritorno presso di loro e al tempo stesso devono però
impedire che i propri figli lascino il villaggio sotto una pressione analoga esercitata su di lori
dagli zii materni, i quali abitano altrove. Tale situazione, non si risolveva facilmente, ma
sfociava in una continua sequenza di drammi sociali caratterizzati da liti, conflitti e accuse di
stregoneria. Non tutte le società matri lineari sono come quelle degli Ndembu, altre società
adottano infatti modelli di residenza matri locale oppure, come si è detto, avuncolocale. Nel
primo caso il problema del controllo dei figli maschi della sorella rimane. E’ questo il caso
speculare a quello descritto sopra. Gli uomini che se ne sono andati devono tenere sotto
controllo i figli delle sorelle che sono rimaste, ma come fare se vivono lontano da queste
ultime? Una delle soluzioni adottate è quella di vivere in gruppi non lontani da quelli del proprio
matri lignaggio, in maniera tale da poter visitare di frequente il gruppo di origine e quindi
controllare i figli delle sorelle. Una variante di questa soluzione consiste nell’adottare un
modello di residenza matri locale che non comporti l’allontanamento degli uomini dalle loro
famiglie d’origine. E’ questo il caso dei Bororo del Mato Grosso: essi vivono in villaggi disposti
circolarmente e divisi in due metà (est ed ovest), abitate da gruppi matri lineari. Sposandosi,
gli uomini Bororo vanno ad abitare nella metà in cui risiede il clan della moglie. Tutti i membri
dei clan della metà est devono sposarsi con membri del clan della metà ovest e viceversa.
Stabilendosi nella metà delle mogli, gli uomini conservano tuttavia i loro doveri nei confronti
della famiglia d’origine. Rimanendo all’interno del villaggio essi possono seguire la propria
famiglia di origine più facilmente di quanto avviene in altre società matri lineari. La residenza
avuncolocale è un’altra possibile soluzione e sembra la più adottata. I figli maschi di una coppia
tornano a vivere, dopo il matrimonio, presso il fratello della madre, abbandonando di
conseguenza quest’ultima nel luogo di residenza di suo marito ( il quale a sua volta vive presso
il fratello di sua madre).
Il destino delle società matri lineari La società a discendenza matri lineare hanno sofferto per
l’imposizione del diritto europeo da parte dei colonizzatori. Il caso dei “nativi”canadesi è

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esemplare. In Canada si è considerati nativi sulla base della legge “Indian Act”. Questa legge
attribuisce lo status di indiano a tutti coloro che possono essere considerati “indiani puri”, cioè
discendenti di indiani altrettanto”puri”. Per poter stabilire gli eventuali allontanamenti da
questa purezza, si è fatto ricorso a valutazioni che non hanno a che vedere con la genetica,
bensì con il diritto europeo. La legge dice infatti che per essere registrato come “indiano”, un
individuo deve essere figlio di padre indiano. L’identità materna non ha alcuna importanza.
La condizione delle donne nelle società matri lineari Vi sono società in cui l’autorità del marito è
maggiore di quella del fratello e vi sono casi in cui avviene l’inverso. In un caso come nell’altro
la donna non gode di grande libertà. Sembra che la condizione della donna sia migliore laddove
l’autorità o del marito o del fratello sono pari, nel senso che si bilanciano consentendo alla
donna di appoggiarsi ora all’uno ora all’altro.

3.3 Gruppi a discendenza doppia

I gruppi a discendenza doppia sono quelli dove Ego appartiene a due linee di discendenza:
quella stabilita attraverso il patrilignaggio e quella stabilita attraverso il matri lignaggio.
Tuttavia questi tipi di gruppi hanno una visione eccessivamente rigida e questo per vari motivi.
Il primo di questo motivi è che i gruppi a discendenza doppia sono possibili solo perché ciascun
gruppo ha funzioni diverse da quelle dell’altro. Infatti se tali funzioni fossero identiche e due
gruppi si ostacolerebbero l’uno con l’altro. Il secondo motivo è che la discendenza doppia non
sembra evocare, negli interessati, le rappresentazioni delle due linee di discendenza tali da
attribuire ad entrambe lo stesso peso. Le società a discendenza doppia sono piuttosto rare e le
si ritrova soprattutto nell’Africa subsahariana.

3.4 Gruppi di discendenza cognatica

Le società a discendenza cognatica non sono come le nostre in quanto a differenza di queste
ultime si fondono su gruppi di discendenza corporati. Si trovano soprattutto in Melanesia,
Polinesia, Asia Sud-orientale. Una caratteristica di questi gruppi è che un individuo può fare
parte di linee differenti; infatti in questo tipo di società, un gruppo di discendenza può
funzionare come criterio di reclutamento di un gruppo in vista di un certo obiettivo
(organizzazione della produzione), per”lasciare il passo” ad un altro gruppo in un’altra
circostanza(riti, cacce). Si è constatato che in società di questo tipo si manifesta la tendenza
ad adottare forme di residenza patrilocale. In altri casi riscontriamo un tipo di discendenza
cognatica connesso con la presenza di gruppi di parentela socialmente stratificati. E’ tipico il
caso dei Maori della Nuova Zelanda (polinesiani) dove si avevano dei potentati guidati da
famiglie aristocratiche alla guida di gruppi di discendenza stratificati chiamati “hapu”.Questi
erano divisi in tre strati “superiori”, “medi” e “inferiori”: lo strato superiore di ciascun hapu era
costituito da famiglie aristocratiche. La loro superiorità sociale era conseguenza di una
maggiore “vicinanza” con l’antenato fondatore del gruppo di discendenza.
I KWAKIUTL: Essi divennero famosi per la loro organizzazione sociale, che potremmo tradurre
con i termini di “casa”o “casata”. Quest’ultima è infatti un nucleo di individui imparentati per
via cognatica che possiede determinati beni e privilegi, titoli e cariche. La casata era
importante tra gli aristocratici (i Kwakiutl erano a quel tempo una società stratificata), i quali
facevano di tutto pur dimantenere le prerogative all’interno della casat, trasmettendole ai

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propri discendenti diretti ma anche ai mariti delle proprie figlie che, sposandosi, raggiungevano
di norma la casa dei loro suoceri. Queste”case”avevano un loro nome, i propri titoli e i loro miti
che, accanto alle proprietà (terre, boschi, schiavi)venivano così trasmessi ai discendenti per via
patrilineare o,in mancanza di eredi maschi, ai nipoti attraverso le figlie. Questo tipo di
organizzazione lo si ritrova in Polinesia, Melanesia e Africa, al punto che ormai si parla di
società “à maison”(impiegata per la prima volta da Lèvi-Strauss per distinguerla dalle altre).

CAPITOLO 7: DIMENSIONE RELIGIOSA, ESPERIENZA RITUALE

1) Concetti e culti

1.1 Cos’è la religione?

La nozione di “religione” possiede per noi un significato scontato. Essa sembra infatti rinviare a
un complesso di credenze che si fondano da un lato su dogmi (le verità della fede) e dall’altro
su riti, cerimonie e liturgie che hanno lo scopo di avvicinare i fedeli a delle entità
soprannaturali: un unico dio oppure tanti dei. Inoltre riteniamo che dogmi e riti siano insegnati
e coordinati da “specialisti” come i sacerdoti. Pensiamo infine che la religione abbia dei luoghi
speciali in cui viene praticata, i templi: chiese, sinagoghe, moschee,…
E’ tuttavia sufficiente compiere un rapido giro d’orizzonte etnografico per trovare popoli che
non hanno dogmi della fede, altri che non hanno dei, e altri ancora che non hanno né templi né
individui specializzati nelle attività di culto di una qualche divinità. In anni recenti alcuni
studiosi hanno molto insistito sul fatto che l’estensione all’intera umanità dell’idea di religione
come di qualcosa composto da credenze, riti, divinità, miti della creazione… sia un prodotto
della volontà degli europei di “ritrovare” altrove qualcosa di simile alla propria esperienza.
Altri studiosi hanno invece sottolineato che l’idea della religione come qualcosa di costituito da
una essenza irriducibile, cioè qualcosa di veramente comune a tutte le forme dell’esperienza
“religiosa”, sia insostenibile. Se spostiamo l’attenzione dagli aspetti formali e istituzionali della
religione a quelli motivazionali avremo la possibilità di avere una visione più unitaria del
fenomeno e cogliere la natura dell’ “esperienza religiosa”. In linea generale una religione
potrebbe essere definita come “un complesso più o meno coerente di pratiche e di
rappresentazioni che riguardano i fini ultimi e le preoccupazioni estreme di una società di cui si
fa garante una forza superiore all’essere umano”. Questa definizione tocca due dimensioni:
quella del “significato” e quella del “potere”. La dimensione del significato sta proprio nei valori
esprimenti i “fini ultimi” e le “preoccupazioni estreme” di una società. La dimensione del
potere, invece, risiede nell’idea che vi sia qualcosa o qualcuno che ha l’autorità incondizionata
di sanzionare tali valori. Questo qualcosa o qualcuno è in genere identificato con un ente
soprannaturale che si manifesta direttamente oppure, come accade nelle religioni delle società
stratificate, tramite i suoi “rappresentanti” umani. La religione ha il compito di “spiegare”
l’importanza indiscutibile di quei valori stessi, di affermarli e di ribadirli; la religione svolge, di
conseguenza, una “funzione integrativa”. Al tempo stesso, proprio perché difende la bontà e la
verità dei valori ultimi di una società, la religione svolge anche una funzione “protettiva” delle
certezze di quest’ultima, mettendo al riparo gli individui dalle ansie e dalle insicurezze

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connesse con la vita personale e collettiva. La duplice funzione della religione, integrativa e
protettiva, si esplica in concreto attraverso simboli, miti e riti. I simboli (un luogo, una
reliquia,…)veicolano concetti, i quali costituiscono i significati dei simboli; i miti sono i
“racconti” che organizzano i concetti (cioè i simboli) in discorsi dotati di una propria coerenza; i
riti sono le azioni che mettono “in scena” i concetti, li rappresentano (tramite i simboli) a
coloro che eseguono il rito e a coloro che vi assistono.

RELIGIONE, SENSO COMUNE, SCIENZA E ARTE: Geertz ha così sintetizzato ciò che distingue la
religione dal senso comune, dalla scienza e dall’arte: la religione differisce dal senso comune
per il fatto che si muove al di là delle realtà della vita quotidiana verso realtà più ampie che le
correggono e le completano. Differisce dalla prospettiva scientifica in quanto mette in dubbio le
realtà della vita quotidiana non per uno scetticismo ma nei termini di quelle che ritiene essere
verità più forti, non ipotetiche. E differisce dall’arte in quanto, invece di disimpegnarsi da tutta
la questione della attualità, approfondisce l’interesse per i fatti e cerca di creare un’aurea di
estrema realtà.

1.2 Un’utile tipologia: gli elementi della religione e le forme di culto

Nel 1966 l’antropologo Anthony Wallace propose una tipologia degli elementi che
individuerebbero ovunque “una religione”, nonché dei tipi di culti in essa presenti.

Gli elementi della religione

La preghiera: Consiste in un modo culturalmente definito di rivolgersi alle entità garanti


dell’ordine cosmico e sociale, di solito rappresentate da spiriti, antenati, divinità,… La
preghiera, che può essere individuale o collettiva, è spesso accompagnata dall’uso di sostanze
speciali: profumi, incensi,… Infine la preghiera può svolgersi in un luogo qualunque o in spazi
speciali destinati al culto e considerati per questo “sacri”.
La musica: La musica e il canto, come le cantilene e la danza, costituiscono parte integrante di
molte cerimonie religiose. In molte circostanze la musica contribuisce al prodursi di uno stato
emotivo che favorisce il senso di comunione tra i partecipanti alla cerimonia, oppure, come
accade in altre circostanze, produce stati di “trance” (estasi) che, in alcuni culti, consente ai
fedeli di entrare in contatto con le potenze e gli esseri spirituali.
La prova fisica: Tutte le religioni implicano che i praticanti si sottopongano a prove che
possono variare dalla semplice astinenza da cibi e bevande in alcuni periodi prestabiliti, sino
all’automortificazione e all’autotortura.
L’esortazione: Caratteristica di una “religione” è la presenza di individui che si rivolgono ad altri
esseri umani nell’intento di facilitare il contatto di questi ultimi con le forze spirituali. Possono
essere sacerdoti, profeti, guide spirituali o guaritori.
La recitazione del codice: Tutte le società prevedono una qualche concezione “compiuta” del
mondo o dei rapporti degli esseri umani con il mondo ultrasensibile. Le attività religiose si
articolano in riferimento a tali concezioni evocandone spesso alcuni aspetti in formule,
preghiere o, come accade nelle religioni con testi sacri, con la recitazione, la lettura e il
commento di questi ultimi.

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Mana: Questa è una parola di origine melanesiana con cui gli antropologi hanno voluto indicare
un’idea di sostanza invisibile, di “forza” che può trasmettersi da un corpo all’altro, da un essere
all’altro, soprattutto per contatto. Qualcosa di simile al mana è contenuto nell’acqua delle fonti
sacre, che può trasferirsi agli esseri umani se ci si bagna in esse o le si beve, come per
esempio le acque di Lourdes, il famoso centro di pellegrinaggio cristiano nella Francia
meridionale.
Il tabu: Con la parola polinesiana “tapu” gli antropologi hanno chiamato tutte le proibizioni
relative a esseri animati o cose speciali che, per questo motivo, sono essi stessi tabu. Tutte le
religioni prevedono oggetti, esseri animati o persone tabu.
Il convivio: mangiare e bere. La condivisione di un pasto fa parte del cerimoniale di molti culti
religiosi. Per esempio la stessa comunione dei cristiani.
Il sacrificio: Tutte le religioni prevedono offerte alle potenze invisibili, siano queste divinità,
spiriti o “forze della natura”. Uccidere animali o esseri umani “consacrati”, offrire piccoli animali
domestici, incollare banconote alle statue dei santi portate in processione come nell’Europa
meridionale mediterranea, sono tutte forme di “sacrificio”. Il sacrificio è inteso dai credenti
come un atto capace di sollecitare la benevolenza della potenza spirituale invocata, ma è
interpretabile anche come un atto capace di rinsaldare il senso di comunione tra i fedeli.
La congregazione: La riunione degli individui in occasioni speciali come messe, funzioni,
sacrifici, processioni, pellegrinaggi, sembra essere una costante di tutte le società allorché
queste celebrano i propri culti. Tali riunioni possono essere di pochi individui o di parecchie
centinaia di migliaia.
L’ispirazione: Gli stati interiori dei soggetti coinvolti in una esperienza religiosa possono mutare
a seconda dei contesti e anche a seconda della personalità dei soggetti coinvolti: dal rapimento
mistico alla tiepida partecipazione alle celebrazioni del culto.
Il simbolismo: Le religioni vivono grazie a dei simboli che ne veicolano i concetti e suscitano
nei fedeli determinate rappresentazioni. Si tratta di simboli che servono a condurre, sul piano
pratico e concettuale, le stesse cerimonie religiose. I simboli sono scelti arbitrariamente, non
hanno cioè nessuna relazione “naturale” con ciò che essi rappresentano.
Wallace ha anche distinto quelli che secondo lui sono i “tipi di culti”, che egli chiama individuali,
sciamanici, comunitari ed ecclesiastici.

POSSESSIONE: Il termine indica l’idea che spiriti defunti, di eroi, di divinità, di animali,
possano impossessarsi di determinati individui per parlare ed agire attraverso di essi. Queste
forme di possessioni consistono in “esibizioni” organizzate di soggetti predisposti, spesso
psichicamente instabili, che danno luogo a manifestazioni scoordinate del corpo, perdita del
senso del tempo dello spazio, nonché di sensibilità al dolore e alla fatica. Il corpo, in questi
soggetti diventa “ricettacolo”dell’essere che se ne impossessa, funzionando come una specie di
ponte tra il mondo degli umani e quello degli esseri soprannaturali. Accanto a questo tipo di
manifestazioni di possessione, si hanno anche casi di possessione istituzionalizzata, dove degli
individui danno luogo a manifestazioni socialmente approvate da tutte le società. Nelle isole
Bijagò, africa occidentale, le donne consentono, nel corso della possessione, di fare passare il
rito di iniziazione agli uomini morti prima della pubertà che altrimenti non avrebbero pace. Un
altro caso di possessione ritualizzata è quello che si trova presso alcune popolazioni del
Madagascar. In queste popolazioni i re defunti continuano a parlare per bocca di alcuni
individui appartenenti alle fasce subalterne della popolazione. Lo spirito del sovrano si

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impadronisce dell’uomo della donna e detta, per bocca del posseduto, i propri voleri che,
interpretati da sacerdoti, saranno di guida per regolare gli affari interni.

LE ORIGINI DELLO STUDIO ANTROPOLOGICO DELLA RELIGIONE: Le prospettive con cui


l’antropologia si avvicino allo studio della religione sono essenzialmente due. La prima definita
“intellettualista”di cui fu ispiratore Tylor. Egli definì la religione come”la credenza in esseri
spirituali”e riteneva che le sue origini coincidessero con ciò che egli chiamò “animismo”. Tylor
riteneva che dall’esperienza della vita e della morte del corpo da un lato, e da quella del sogno
e della visione dall’altro, i nostri progenitori avessero tratto l’idea dell’esistenza di un fantasma
capace di vivere anche senza supporto fornito dal corpo. Questo fantasma sarebbe ciò che gli
uomini chiamano anima, un’entità capace di condurre un’esistenza indipendente dal corpo
tanto durante la vita, quanto dopo la morte. L’altra prospettiva definita “sociologica”fu
sostenuta da Smith. Egli presentò la religione come un fattore socialmente coesivo e i rituali
vennero da lui considerati come lo strumento attraverso cui gli individui riaffermano
periodicamente la loro appartenenza alla stessa comunità.

Tipi di culto: i “culti individuali” sono quelli praticati dal singolo individuo ma sempre all’interno
di un codice religioso, culturalmente e socialmente condiviso, di rappresentazioni. (ad esempio
il cristiano che si rivolge a un santo per avere aiuto in una situazione difficile).
I culti sciamanici sono quelli tipici di società nelle quali il contatto con le potenze invisibili è
assicurato, oltre che dal culto individuale, dall’opera di una particolare figura, uomo o donna,
detta “sciamano”. Tale parola indica in maniera generica quei personaggi che detengono un
posto particolare nella vita religiosa e rituale della comunità, dotati della particolare facoltà di
avere visioni del mondo soprannaturale, facoltà sovente associata con il potere di curare
malattie di vario tipo. Caratteristica dello sciamano è quella di essere un individuo come gli
altri nella vita di tutti i giorni, un individuo che solo occasionalmente veste i panni della sua
funzione. Spesso le pratiche sciamaniche sono accompagnate da musica e dall’assunzione di
droghe atte a provocare stati di tipo allucinatorio. Ciò che distingue uno sciamano da un
qualunque guaritore è il fatto che il primo, a differenza del secondo, ha la possibilità di entrare
in stati di semi-incoscienza (trance) durante i quali stabilisce un contatto con i poteri
sovrannaturali dai quali attinge le rivelazioni e le conoscenze per poter operare sui propri
pazienti.
I culti comunitari: Wallace definisce in questo modo tutte quelle pratiche religiose che
prevedono la partecipazione di gruppi di individui organizzati sulla base dell’età, sesso,
funzione, rango, oppure su base volontaria e che si riuniscono temporaneamente per questo
preciso scopo senza alcun aspetto di permanenza e continuità delle funzioni culturali. I gruppi
organizzati sulla base di questi culti possono avvalersi della partecipazione di sciamani, gruppi
di danza, suonatori.. Sovente questi culti sono praticati con fini terapeutici. Un tipo speciale di
culto comunitario è quello chiamato “totemico”, ritenuto come connesso con la prima forma di
religione (totem).
I culti ecclesiastici sono infine quelli che prevedono l’esistenza di gruppi di individui
specializzati nel culto, come i sacerdoti nell’antico Egitto. Con i culti ecclesiastici siamo di
fronte a religioni in possesso di testi quasi sempre scritti, i quali vengono tramandati in luoghi
speciali come scuole, seminari, istituti nei quali la classe sacerdotale si riproduce. Forti sono le
connessioni tra gruppi sacerdotali specializzati nel culto e i detentori del potere politico, dove

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l’uno e l’altro elemento si sostengono a vicenda grazie ad una visione “ufficializzata” dell’ordine
cosmico, alla cui formulazione gli specialisti della religione danno di solito il contributo
intellettuale più rilevante.

2) Simboli e riti

2.1 I simboli sacri e la loro efficacia

Alla base di ogni rappresentazione religiosa vi sono dei simboli sacri che servono a sintetizzare
l’ethos di un popolo, nonché la sua visione del mondo, l’immagine che ha di come sono
effettivamente le cose, le sue idee più generali dell’ordine. I simboli religiosi sono “sacri”, e
quella di sacro è certamente una nozione centrale del pensiero religioso (Geertz). Emile
Durkheim definì nel 1912 le cose sacre come “separate” e “interdette”: separate da quelle
profane e vietate a chi non è “consacrato”. Secondo Durkheim le cose sacre sono quelle che
suscitano negli esseri umani rispetto e timore reverenziale. I simboli sacri di cui parla Geertz
sono così quelli su cui una società fonda le proprie certezze morali. I simboli sacri agiscono su
coloro che li percepiscono mettendoli nella condizione di predisporsi a un’azione e/o suscitando
in loro un particolare stato d’animo. Alla vista dei propri simboli, il pellegrino come il
musulmano, si predispone a “ricevere” o a rivivere le verità della loro fede. Agendo in tal modo
i simboli sacri producono, nell’animo di chi ne recepisce il significato, un’idea “rappacificante”,
di ordine. Il tipo di ordine che i simboli sacri suggeriscono riguarda la certezza che, nonostante
il mondo si presenti sotto forma di un caotico insieme di eventi imprevedibili, dolorosi e capaci
di sconvolgere l’universo morale degli esseri umani, vi è pur sempre una realtà sicura, ultima,
vera e immutabile alla quale essi possono richiamarsi. In questo senso i simboli sacri sono ciò
che consente alla religione di svolgere la sua duplice funzione: integrativa e protettiva. Ma
come fanno i simboli a “diventare” sacri per gli esseri umani? Per far sì che un simbolo sia
riconoscibile come sacro bisogna infatti che la sua sacralità si “imponga” alla sensibilità e alla
mente dei soggetti. Gli esseri, per poter riconoscere il carattere sacro di un simbolo devono
essere stati “addestrati” allo scopo. Ora, tale addestramento si realizza attraverso i riti.

CHURINGA E ROMBI: Secondo gli aborigeni d’Australia, l’origine del mondo è il frutto del lavoro
degli antenati. Usciti dalla terra questi ultimi avrebbero percorso il territorio e avrebbero creato
le montagne, le piante, le rocce, gli animali e gli esseri umani con un canto. Percorso e canto
degli antenati sono rappresentati in due simboli sacri: i churinga e i rombi. I primi sono
assicelle di legno o di pietra incise o dipinte e riportano in maniera stilizzata il percorso degli
antenati, i rombi invece sono tavolette di legno incise o dipinte che, legate all’estremità di una
corda, venivano fatte roteare nell’aria in occasioni speciali. I rombi emanano un suono cupo
che per gli aborigeni rappresenta la “voce degli antenati”.

2.2 I riti della religione

Parlando in generale, un rito può essere inteso come un complesso di azioni, parole, gesti la
cui sequenza è prestabilita da una formula fissa. Si tratta di sequenze di azioni e parole
mediante cui vengono evocati dei simboli i quali svelano il loro carattere sacro ai partecipanti. I

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riti, inoltre, sono di solito – anche se non sempre – officiati da personaggi speciali in qualche
modo dotati autorità: un sacerdote nel caso della processione. I riti sono ciò che rende evidenti
le verità della religione, ossia i valori, i fini ultimi, l’ordine del cosmo e della società. Intesi in
questo modo i riti potrebbero essere considerati degli atti aventi come fine quello di
“rassicurare” gli individui di fronte alle incertezze e alle tensioni dell’esistenza. Vi sono però riti
che evocano solo in parte rappresentazioni di tipo religioso. I riti “profani”, spontanei o
organizzati che siano, risultano privi di finalità religiose in senso stretto,(non cercano di
ottenere favori dalla divinità) ma mettono pur sempre in gioco rappresentazioni che sono da
considerarsi “sacre” a tutti gli effetti. I riti patriottici e nazionalistici di tradizione euro-
occidentale ne sono l’esempio meglio conosciuto. Essi mettono in gioco figure di tipo “extra-
umano”, valori religiosi, e mettono in primo piano dei simboli che, come tali, non hanno niente
di religioso, ma molto di “sacro”. Di solito in queste cerimonie il simbolo sacro per eccellenza è
costituito dalla bandiera nazionale. La bandiera occupa, in tali circostanze, la posizione di
“simbolo dominante”. La bandiera è infatti il simbolo più importante dello stato nazione poiché
si riveste di significati sacri ed è al centro di ciò che è stato definito “religione civile”.

MELILLA 1983: IL GIURAMENTO DELLA BANDIERA: Nel 1983 la comunità cattolica di Melilla,
una enclave spagnola della costa mediterranea del Marocco, decise di celebrare un rito mai
tenutosi prima: il giuramento della bandiera. A partire dagli anni ’60, li Ispano-cattolici
avevano sofferto emotivamente la pressione che il governo marocchino esercitava su quello
spagnolo affinché la città tornasse sotto la sovranità della monarchia locale. Di fronte a ciò gli
spagnoli vollero riaffermare, a livello simbolico rituale, la propria supremazia. Questo
giuramento aveva lo scopo di sortire 3 effetti sulla comunità Ispano-cattolica locale. Per prima
cosa esso doveva suscitare l’orgoglio nazionale e un sentimento di superiorità nei confronti
delle altre componenti della popolazione di Melilla; inoltre esso doveva rafforzare il senso della
comunità cattolica rendendola “presente a se stessa”e infine il giuramento della bandiera
doveva essere un atto di legittimazione del dominio dei cattolici spagnoli di Melilla attraverso
l’invocazione della protezione divina.

2.3 Le varietà dei riti

Vi sono dei riti che si distinguono per alcune caratteristiche particolari.


Riti di passaggio: i riti di passaggio sono quelli che sanzionano pubblicamente il passaggio di
un individuo, o di un gruppo di individui, da una condizione sociale o spirituale ad un’altra:
battesimi, circoncisioni, matrimoni, funerali, entrata e uscita da un ordine religioso. Van
Gennep distinse, all’interno di ciascun rito di passaggio, tre fasi, ciascuna caratterizzata da
rituali specifici: 1) separazione (riti preliminari); 2) margine (riti liminari); 3) aggregazione (riti
post-liminari), attribuendo la massima importanza a quella centrale, o di margine.
L’importanza di quest’ultima deriverebbe dal fatto che essa è espressamente dedicata al
controllo della fase più incerta e delicata del “passaggio”. E’ proprio nella fase di margine che
l’individuo, proprio perché ancora dotato di una personalità sociale indefinita, può essere
involontariamente responsabile dello scatenamento di forze “ambigue”, pericolose e diffuse
capaci di mettere a repentaglio l’ordine sociale e concettuale. Un buon esempio di come
funziona la teoria di Gennep può essere costituito dall’analisi del pellegrinaggio musulmano alla
Mecca. Il pellegrinaggio musulmano è un rito e come tutti i riti, prevede anche esso

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un’esecuzione per fasi. La prima fase segna il distacco dal mondo profano. Esso consiste
nell’indossare la veste bianca prima di varcare il confine del recinto sacro che circonda
idealmente la Mecca. Questa fase pone il pellegrino in una condizione di sospensione tra il
mondo profano e quello sacro. Questo stato comporta il divieto di consumare alcuni cibi, il
taglio dei capelli, l’astensione dai rapporti sessuali. E’ la fase di margine. Lo stato di margine
vissuto da pellegrino culmina con il sacrificio in cui i musulmani versano il sangue del capro in
memoria del sacrificio compiuto da Abramo. Dopo di che il pellegrino potrà accedere alla vista
e alla possibilità di toccare il simbolo sacro per eccellenza: la casa di Dio e potersi così
riaggregare (terza fase)alla comunità dei credenti.
I rituali funerari: In tutte le società la morte è un evento dirompente e drammatico. Poste di
fronte alla morte, tutte le società chiamano a raccolta le proprie energie capaci di attenuare lo
shock della perdita. Di fronte alla morte le società fanno riferimento ai “valori ultimi” sui quali
esse si fondano e tali valori hanno quasi sempre una relazione con la dimensione “religiosa”. I
riti funebri contengono pertanto gesti, azioni e parole che richiamano, nella mente di coloro
che vi partecipano, i valori e i significati su cui la società in questione fonda l’ordine del mondo
e di sé medesima. Proprio perché contrapposta alla vita, la morte appare agli esseri umani
“priva di senso”, dramma assurdo, lacerazione totale. Per continuare a vivere, le società
devono “rendere ragionevole” la morte e, a tale scopo, devono connetterla con i valori e le
rappresentazioni che danno un senso alla vita stessa. Il fatto di mettere in relazione un evento
come la morte, i riti che l’accompagnano, e il significato “normativo” che tali riti esprimono,
non deve tralasciare lo studio del lutto e del dolore così come questi sono vissuti dai membri di
una società. I rituali funerari non “contengono” infatti tutte le complicate dinamiche attinenti al
lutto e alla perdita. Tra rituale funebre e lutto non c’è rapporto di reciproca inclusione.

LIMINALITA’: Turner mostrò come i riti di passaggio, comportino una fase detta”liminale” con
caratteristiche che la oppongono in maniera radicale alla situazione di normalità sociale. I riti di
passaggio che riguardano interi gruppi, producono ciò che Turner chiama “communitas”.
Quest’ultima è una condizione collettiva che determina l’insorgere, tra i partecipanti ad
un’azione rituale, di un intenso spirito comunitario. Anche dei gruppi laici possono costituire,
secondo Turner, casi di liminalità: per esempio l’hippies degli anni ’60 o potremo aggiungere i
punk-a-bestia dei nostri giorni. La liminalità esprime la volontà di essere differenti in un mondo
regolato da norme, una volontà di porsi al di là della convenzione in maniera assoluta e
radicale.

HERTZ: LO STUDIO ANTROPOLOGICO DELLA MORTE: Per Hertz lo studio della morte costituiva
un aspetto di uno studio più vasto, quello dei meccanismi grazie ai quali una società conserva
la propria coesione e la propria identità anche di fronte agli eventi più devastanti e drammatici.
Hertz notò che alcune popolazioni usavano celebrare due funerali: uno subito dopo la morte di
un individuo, e un altro qualche tempo dopo, a volte alcuni anni dopo. Le prime e le seconde
“esequie”, come Hertz chiamò questi doppi funerali, appartenevano a quella categoria
particolare di riti che Van Gennep avrebbe poi chiamato “di passaggio”. Le prime esequie, un
periodo intermedio di “elaborazione”del lutto, e poi le seconde esequie rispettivamente,
scandivano il distacco dai vivi, la sospensione e la riaggregazione al mondo degli antenati.

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Riti di iniziazione: Sanciscono il passaggio degli individui da una condizione sociale o spirituale
a una diversa dalla precedente. In quanto riti che sanciscono un cambiamento, la transizione
da una condizione precedente a una successiva, quelli di iniziazione sono forse i più aderenti
alla struttura tripartita dei “riti di passaggio” di Van Gennep. Nelle società studiate dagli
antropologi viene dato spesso grande rilievo a riti di tal genere, poiché essi sono la
dichiarazione pubblica, socializzata, dell’assunzione di un nuovo status di un individuo e delle
responsabilità che questo nuovo status comporta. I riti della pubertà sottolineano per esempio
l’entrata di giovani, ragazze e ragazzi nell’età fertile. Altri riti di iniziazione possono riguardare
il passaggio dallo stato di adolescente a quello di giovane guerriero, o da adulto a padre di
famiglia, e così via (spesso legati alle classi d’età). Ma riti di iniziazione sono anche quelli che
sanciscono l’affiliazione degli individui a gruppi malavitosi, a logge massoniche, o a società
segrete. Un esempio rilevante è il caso della società segreta femminile Sande. Tra i Mende i
quali sono in larga misura islamizzati, i più rigoristi, fautori di un Islam modernizzatore,
cominciarono ad insistere per l’eliminazione di tutto ciò che viene giudicato un residuo del
paganesimo, come appunto la società segreta femminile Sande. Una delle conseguenze
dell’opera dei riformatori furono le pressioni sulle sacerdotesse Sande affinché abbandonassero
i loro riti incompatibili con l’Islam. Le esibizioni delle maschere delle divinità protettrici
femminili e di altre pratiche relative al periodo di isolamento delle iniziande, vennero messe
sotto accusa dagli uomini. In un primo momento le maschere vennero ritirate dai rituali di
presentazione delle iniziate, le quali tuttavia manifestarono un loro disappunto ostentando un
nuovo tipo di abbigliamento (all’europeo)in contrasto con la tradizione e lo stile islamico di
abbigliamento femminile. Dopo pochi anni le maschere rituali ricomparvero, ma senza che per
questo scomparisse l’abbigliamento di stile europeo. L’allontanamento dal resto della comunità
corrisponde alla fase che Van Gennep chiamò di “separazione”; la permanenza del novizio
lontano dai propri simili è quella che corrisponde alla fase di “margine”, mentre il ritorno ha la
funzione di “riaggregare” l’iniziato alla comunità, dando il segnale per la ripresa della vita
ordinaria da parte dell’individuo in questione, il quale gode però adesso di un nuovo status. I
riti di iniziazione hanno lo scopo di “situare” ufficialmente l’individuo in posizione adeguate alla
sua età sociale e quindi sancire i diritti e doveri che gli competono in fasi diverse della vita. In
molte società le idee di ordine e stabilità sociale sono strettamente collegate al principio di
autorità, e questo a quello di anzianità. Anzianità e autorità sono condizioni che possono
essere raggiunte progressivamente e tale processo è in molti casi scandito dai riti di
iniziazione.

MORTE, VITA E STRUTTURA SOCIALE IN MADAGASCAR: Le popolazioni del Madagascar


possiedono riti funebri la cui importanza supera quella di tutte le altre loro istituzioni. I Bara
sostengono che la vita di un individuo sia il risultato di un equilibrio delicato tra due principi: il
“principio d’ordine”e il “principio della vitalità”. L’identità fisica di un individuo si genera
quando, al momento del concepimento, il seme dell’uomo “mette ordine”nel ventre della
donna, dando forma al sangue mestruale. L’identità sociale di un individuo dipende invece dal
rapporto equilibrato che questi si instaurare con il gruppo dei parenti il linea materna da un
lato e di quelli in linea paterna dall’altro. I Bara vedono la morte come “eccesso di ordine”, di
quell’ordine stesso che permea la loro vita sociale ed individuale sotto forma di autorità del
gruppo di discendenza paterno di cui anche la concezione dell’esistenza fisica di un individuo
sarebbe in qualche modo il prodotto. Nella cultura Bara troviamo alcuni concetti contrapposti,

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in quanto appartenenti alle due categorie più generali dell’Ordine da un lato e della Vitalità
dall’altro: maschio/femmina, padre/madre, sperma/sangue, ossa/carne, sterilità/fecondità,
morte/nascita, tomba/ventre materno. I Bara in occasione dei rituali funebri mirerebbero a
contrastare simbolicamente il sopravanzare dell’ordine assoluto su qualsiasi forma di vitalità,
ossia la vittoria della morte sula vita.

3) Religioni e identità nel mondo globalizzato

3.1 Secolarizzazione e nuove religioni

Dalla fine del XIX° secolo sociologi e filosofi cominciarono a discutere di ciò che ancora oggi
viene chiamato “secolarizzazione”, un fenomeno che coincide con la presunta “ritrazione
progressiva del sacro” dalla vita sociale e dalla sensibilità degli individui. Oggi sono gli squilibri
tra le aree del pianeta a essere sovente all’origine di nuovi culti o del rafforzamento di quelli
che, nati in epoca coloniale, continuano a costituire un punto di riferimento per le comunità che
cercano di conferire un senso al proprio presente e al proprio futuro.
I movimenti: di revitalizzazione, millenaristici, nativistici e messianici: per definire questi culti
e queste religioni gli antropologi hanno impiegato il termine di “movimenti” diversamente
qualificati di volta in volta come movimenti di “revitalizzazione”, “millenaristici”, “nativistici” e
“messianici”, a seconda dell’accentuazione particolare data a questi culti dai loro affiliati. I culti
di “revitalizzazione” sono, ad esempio, quelli in cui un gruppo o una comunità dichiarano di
puntare ad un miglioramento delle proprie condizioni di vita, e nei quali sia i riti che le
rappresentazioni hanno come fine quello di rivitalizzare il senso di identità del gruppo o della
comunità medesima. Ad esempio i movimenti dei nativi americani centrati sul rito della “danza
dello spirito” che si diffuse alla fine dell’800 tra numerosi gruppi indiani e che fu repressa
dall’esercito degli Stati Uniti. I culti “millenaristici” sono quelli che accentuano le
rappresentazioni relative all’avvento di un’epoca di pace e felicità, avvento che può essere
favorito, incoraggiato e predisposto mediante appropriate attività rituali e grazie a un
particolare atteggiamento interiore da parte dei partecipanti. Culti di questo tipo sono diffusi
ovunque, ma nei contesti extra-europei il termine millenaristico serve ad indicare i movimenti
religiosi nati in risposta al dominio coloniale e che hanno come scopo la trasformazione totale
delle condizioni presenti avvertite come insopportabili. I culti “nativistici” sono quelli che fanno
propria la protesta contro le condizioni di svantaggio sofferte dalle popolazioni native e che
mirano a riaffermare e far rinascere aspetti culturali come strumenti di rivendicazione della
propria identità, in opposizione alla cultura del gruppo dominante. I culti “messianici”, infine,
sono quelli a sfondo carismatico, legati cioè alla presenza di una forte personalità (messia) e
che sono sorti dall’incontro fra culti locali e cristianesimo. I culti messianici si caratterizzano
quasi sempre per il fatto di fondarsi sull’attesa di un rivolgimento socio-politico radicale.
Un esempio della compresenza di elementi nativistici, di rivitalizzazione e messianici è
costituito dal “culto del cargo”. Tipico dell’area melanesiana, questo culto raggiunse l’apice
all’indomani della 2^ guerra mondiale. Il culto e il suo sistema rituale ruotano attorno alla
credenza nell’arrivo di grandi vascelli (cargo) carichi di beni caratteristici della civiltà
occidentale. Il cargo sarebbe stato inviato dagli spiriti degli antenati alle popolazioni di
quest’area per risollevarle (rivitalizzazione) dallo stato di decadenza culturale e sociale in cui

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erano sprofondate in seguito alla colonizzazione. Utilizzando simboli e discorsi delle religioni
tradizionali, questi culti puntavano sulla rinascita dell’elemento indigeno e al riscatto nel
confronto delle culture dominanti dei bianchi. Sotto quest’ultimo aspetto il “culto del cargo”
conteneva anche elementi nativistici e talvolta anche messianici, in quanto tali culti erano
promossi da profeti i quali prevedevano l’intervento degli antenati nella lotta contro i bianchi.
Questo culto fonde l’arrivo dei bianchi con il ritorno degli antenati e sovrappone il tema del
viaggio per mare dei morti al viaggio di arrivo dei bianchi. Antenati e bianchi sono nel culto del
cargo entrambi responsabili del disordine e quindi sono spesso identificati. Questi culti cercano
di rendere ragione della superiore forza dei bianchi e contemporaneamente tentano, grazie ad
una serie di atti rituali mimetici, un mezzo per appropriarsene. A tale scopo i “culti del cargo”
cercano di manipolare i simboli dei bianchi.

PROFETI: Si tratta di individui che sulla base di una particolare ispirazione, sono ritenuti avere
visioni o rivelazioni da parte di esseri soprannaturali o divinità che li scelgono come propri
messaggeri. Alcuni di loro sono stati i fondatori di vere e proprie religioni per esempio
Maometto. I profeti hanno spesso rappresentato un pericolo per i detentori del potere politico e
religioso in quanto con la loro predicazione hanno prospettato alle culture in crisi delle nuove
immagini dell’autorità custode degli equilibri sociali e cosmici.

Le religioni nella globalizzazione

Alcuni culti nati nel contesto degli sconvolgimenti prodotti dal colonialismo possiedono i
caratteri di movimenti organizzati. Altri culti sono invece assai più circoscritti ad ambienti
specifici o possiedono finalità molto particolari, come ad esempio quelli che si sviluppano
presso comunità di migranti o in seno a gruppi occupazionali. Altri ancora, infine, possiedono
un carattere trans-nazionale e largamente virtuale, come sono, ad esempio, le manifestazioni
del culto mariano presenti in Internet.
Un culto riconducibile ad un gruppo occupazionale è ad esempio quello di El Tio diffusosi da
molto tempo tra i minatori boliviani dello stagno. El Tio è una divinità particolarmente
importante perché controlla le risorse del sottosuolo e in particolare lo stagno. L’immagini di El
Tio, raffigurato in forma di diavolo e con gli occhi assetati si sangue (dei minatori), è incisa su
un pezzo di stagno, a volte dipinta su tavole oppure plasmata in forma di statuetta. Essa viene
posta dai minatori all’ingresso delle gallerie della miniera e i minatori le sacrificano piccoli
animali domestici e le rivolgono preghiere affinché Tio consenta loro di trovare lo stagno. Gli
antropologi ritengono che Tio servirebbe a questi minatori la cui sopravvivenza dipende dallo
stagno che si procurano rischiando la vita nelle viscere della Terra.
Mami Wata è una dea bella e seducente con lunghi capelli e con la pelle chiara. I suoi fedeli
ritengono che ella li ricompensi con ricchezze improvvise, ma che anche li punisca con la
miseria e la pazzia nel caso ne provochino la collera. Mami Wata è raffigurata simile ad una
sirena, con la coda di pesce. Con l’emigrazione la presenza di Mami Wata è arrivata all’interno
di soggetti con disturbi psicologici dovuti allo sradicamento e alla posizione ambigua a cui li
costringe la scelta migratoria.

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RELIGIONE, SINCRETISMO E RESISTENZA IN UN RITUALE DI INIZIAZIONE: GLI NGAING


DELLA PAPUA-NUOVA GUINEA: Un eccellente esempio di fusione tra rappresentazioni religiose
locali, religione cristiana e resistenza alla dominazione coloniale, è offerto dagli Ngaing della
Papua-Nuova Guinea. Essi hanno introdotto, come parte essenziale dei loro riti di iniziazione
maschile, la circoncisione. Quest’ultima venne introdotta alla fine della Seconda Guerra
Mondiale da un uomo che l’aveva vista praticare dai medici bianchi in un ospedale presso cui
aveva lavorato come inserviente. La circoncisione si collega, nel pensiero Ngaing, a una vera e
propria antropologia locale. Secondo quest’ultima, il sangue materno rimane nel corpo di un
giovane dopo la resezione del cordone ombelicale e poiché è impuro, deve essere espulso. La
circoncisione è il momento in cui questo sangue impuro viene fatto defluire. L’iniziazione
comincia col ritiro e la confessione degli iniziandi in un luogo isolato e nascosto. Gli iniziandi
confessano al loro guardiano i rapporti sessuali eventualmente avuti con donne Ngaing. Con la
circoncisione, fuoriesce anche il sangue ritenuto puro, il quale raccolto in speciali contenitori e
consegnato all’iniziato affinché gli assicuri forza e salute per il futuro. Il rito si conclude con
l’accesso degli iniziati alla visione degli oggetti sacri, tra cui i rombi. Questo rito risulta essere,
secondo gli Ngaing, perfettamente compatibile con gli insegnamenti impartiti loro dai
missionari: il battesimo di Gesù coincide con la pulitura con l’acqua del fiume degli strumenti
rituali, Pilato coincide con il guardiano, la crocifissione con la circoncisione e i tre giorni di
sepoltura con la confessione degli iniziandi in un luogo isolato e nascosto. Gli stessi missionari,
tuttavia, vedevano il corpo dei Papua come sporco, malato e indisciplinato. L’introduzione della
circoncisione pose i Papua in condizione di resistere e al tempo stesso di riappropriarsi dei loro
corpi. Con la circoncisione anche gli Ngaing potevano, come facevano i medici bianchi,
condurre un discorso di igiene e salute conforme ai principi occidentali.

Nel mondo attuale la religione tende a subire un processo di “essenzializzazione”. Tale


processo è favorito dai media che tendono a diffondere con grande facilità e velocemente
immagini e rappresentazioni culturali, di se come degli altri. Quando la religione diventa un
modo per rappresentare gli altri e se stessi è possibile che diventi motivo di confronto politico,
soprattutto se la differenza religiosa, equiparata alla differenza culturale, diventa strumento di
manipolazione ideologica da parte di qualcuno.

CAPITOLO 8: ATTIVITA’ CREATIVA ED ESPRESSIONE ESTETICA

1) La creatività culturale

Vedremo come le culture producono, a partire dalle esperienze passate e presenti, nuovi
significati mediante accostamenti tra rappresentazioni e pratiche precedentemente non
correlate.

1.1 La creatività come aspetto costitutivo della cultura

La creatività culturale è strettamente legata ad una caratteristica fondamentale del linguaggio


umano: la sua produttività infinita. La creatività culturale consiste nella possibilità che gli
esseri umani hanno di produrre sempre nuovi significati a partire dai modelli culturali a loro

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disposizione. La creatività, intesa come capacità di produrre novità mediante la combinazione e


la trasformazione delle pratiche culturali esistenti, è non soltanto presente in tutte le società,
ma trova anche riscontro in campi molto diversi da quelli in cui noi d’abitudine tendiamo a
collocarla: la tecnologia, la scienza e l’arte.

LE STORYBOARDS DI KAMBOT, PAPUA-NUOVA GUINEA: un buon esempio di che cosa gli


antropologi intendono per creatività culturale è costituito dalla produzione delle storyboards di
Kambot. Queste ultime sono tavole di legno leggero che recano incise e dipinte scene della vita
quotidiana e composizioni che si riferiscono alla tradizione mitologica locale. Per i turisti le
storyboards rappresentano la vita dei Papua così come i turisti possono immaginarsela. Per i
Papua e storyboards hanno un significato diverso: innanzi tutto un significato economico e in
secondo luogo rappresentano i veicoli dell’immagine della loro terra all’estero, un mezzo con
cui i locali esportano, potremmo dire, la propria identità. Pertanto le storyboards sarebbero un
modo per inviare una rappresentazione di se stessi al di là del proprio villaggio.

1.2 La festa come dimensione creativa

Se la creatività consiste nell’accostamento inedito di pratiche e significati allo scopo di produrre


nuovi modi di vedere la realtà, o di conferire un senso nuovo a quest’ultima, la creatività non
ha nulla di spettacolare. Vi sono tuttavia forme di attività e circostanze in cui questi
accostamenti di pratiche e significati inediti sono più evidenti che in altre. Una di queste
circostanze è costituita dalla festa.
La festa è un tratto universalmente diffuso nelle società umane, al pari del gioco e del rito.
Anche le feste infatti mettono in moto comportamenti improntati alla dimensione collettiva.
Inoltre, come il gioco e il rito, la festa segna una rottura con il corso ordinario della vita.
Proprio in quanto costituiscono degli “stacchi” nel flusso della vita ordinaria, le feste, i giochi e i
riti possono venire a costituire dei marcatori temporali di una certa importanza. Feste, giochi e
riti sono tuttavia, pur avendo in comune le caratteristiche di cui abbiamo detto, settori ben
distinti dell’attività umana. Una differenza fondamentale tra un rito e una festa è che mentre il
rito ha un centro e una periferia, la festa presenta la tendenza a moltiplicare i centri. Come
complesso di atti che si distaccano dalla routine del quotidiano e dalle sue regole la festa si
presta a essere un terreno culturalmente creativo. Innanzitutto nella festa i partecipanti
esperiscono quella che viene definita la dimensione comunitaria; si sentono coinvolti in un
processo collettivo dove le differenze tradizionali tra individui si annullano o si riducono
notevolmente, i comportamenti possono deviare dalla norma, e gli individui sperimentano una
sorta di “libertà” d’azione e d’espressione. Alcuni autori hanno considerato le feste come eventi
collettivi che mirano a rinsaldare periodicamente il senso dell’appartenenza a una comunità.
Altri hanno visto nelle feste un modo “per fronteggiare e neutralizzare la negatività
dell’esistenza”. Altri ancora “un modo per rappresentare la gerarchia e i valori sociali e
riaffermarli solennemente”. Molte “feste” sono infatti occasioni per ribadire l’ordine e la
gerarchia sociali. La creatività della festa non coincide né con il suo carattere trasgressivo né
con il suo carattere per così dire normativo. Tale creatività consiste invece nella possibilità che,
nella festa, si compiano accostamenti simbolici inediti o comunque insoliti mediante i quali sia
possibile trasmettere concetti e stati d’animo difficilmente esprimibili altrimenti.

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IL NAVEN DEGLI IATMUL (NUOVA GUINEA):FESTA E RITO DI TRAVESTIMENTO: Il Naven era


un rito celebrato in onore di un giovane che avesse compiuto per la prima volta qualcosa di
socialmente lodevole, come ad esempio il ferimento o l’uccisione di un nemico. In tale
occasione i parenti del ragazzo celebravano una vera e propria festa in cui si travestivano
indossando capi e adottando comportamenti che richiamavano quelli abitualmente caratteristici
degli individui del sesso opposto. Questo rovesciamento permetteva di assumere segni di
un’identità di genere diversa qualora si volessero esibire in pubblico sentimenti non adeguati al
tono emotivo ritenuto caratteristico del proprio sesso. Ad esempio, travestendosi da donna, lo
zio del ragazzo, detentore dell’autorità di quest’ultimo, poteva manifestare compiacimento e
affetto per il nipote; analogamente, travestendosi da uomini, la madre e le altre donne della
famiglia potevano mostrarsi soddisfatte per le imprese del ragazzo.

2) L’espressione estetica

2.1 “Arte” ed espressione estetica

C’è una sfera dell’attività umana a cui colleghiamo immediatamente l’idea di creatività: è ciò a
cui diamo il nome di “arte”. Il concetto di arte rinvia però a una tale quantità di
rappresentazioni riguardanti l’artista, il suo prodotto, il valore economico di ciò che viene
creato nonché la sua finalità, che si hanno forti dubbi sulla possibilità di definire “arte” ciò che,
prodotto in altri contesti culturali, può benissimo non essere considerato “artistico” in questi
ultimi. Le arti si ripartiscono in arti “visive” e “non visive”. Quelle visive comprendono le arti
plastiche (scultura, ceramica..) e quelle grafiche (pittura, disegno…). Invece la poesia,
l’oratoria, la musica e il canto appartengono alla categoria delle arti non visive. Forse un modo
corretto per parlare di “arte” sarebbe quello di considerare la questione dal punto di vista di ciò
che è sicuramente un tratto universale dell’umanità, e di cui la nostra stessa arte è un
prodotto: l’espressione estetica. In tutte le culture vi sono modi di accostare colori, forme,
parole, suoni e movimenti del corpo i quali producono, su chi li esegue, li osserva o li ascolta,
uno stato percettivo capace di suscitare reazioni e stati d’animo di un tipo diverso da quelli
indotti dalle azioni e dalle immagini della vita ordinaria. Per poter parlare di percezione estetica
bisogna che non solo venga prodotto qualcosa capace di suscitare questo tipo di percezione,
ma è anche necessario che i soggetti siano “disposti” a farsi cogliere da tali reazioni e stati
d’animo. La percezione estetica non ha a che vedere soltanto con l’idea delle bellezze e del suo
contrario; il senso estetico è in parte un fatto soggettivo e in parte un fatto collettivo. Inoltre le
percezioni estetiche non sono statiche, ma cambiano come altri aspetti della cultura in quanto
rinviamo anch’esse a concetti e modelli culturali.

2.2 La natura culturale dell’espressione estetica

Che l’espressione estetica sia un dato universale è provato dal fatto che se non tutte le società
praticano quelle che per noi sono le arti, tutte producono un qualche oggetto o eseguono una
qualche “performance” capaci di generare nei destinatari delle reazioni di tipo estetico. La
produzione estetica di una data cultura è collegata in qualche modo ai valori, alla visione del
mondo e al modo, o ai modi, di sentire che sono tipici di una certa comunità. L’arte non è
infatti un’attività disgiunta dal contesto sociale, politico, culturale ed economico in cui viene

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prodotta. L’arte può essere più o meno creativa ma in ogni caso i suoi legami con le condizioni
generali del gruppo entro il quale viene prodotta hanno un’importanza fondamentale.
L’atteggiamento verso l’espressione estetica può cambiare con le epoche e con la temperie
politica del momento.
Molte tradizioni hanno conosciuto un atteggiamento definito “iconoclasta”. Oggi ammiriamo ad
esempio le immagini dipinte che ci vengono dalla tradizione dell’arte bizantina. Ma queste
immagini potrebbero esserci giunte in numero notevolmente superiore se non fosse stato che
nell’ VIII secolo esse vennero fatte distruggere dagli imperatori e da una parte di clero
bizantino. Questo atteggiamento “iconoclasta”tipico del protestantesimo, ebbe notevoli riflessi
sullo sviluppo di arti come la pittura e la scultura.
“Arti”, pratiche sociali e significati culturali: non tutte le culture sviluppano allo stesso modo
quelle che noi chiamiamo arti. La loro espressione estetica infatti può concentrarsi su una o
alcune di esse e ignorare completamente, o quasi, tutte le altre.
Un esempio abbastanza significativo di questo tipo di “selezione estetica” è costituito dalla
cosiddetta “arte africana” la quale, a differenza che altrove, si è concentrata sulle arti visive e
in particolare sulla scultura. La nozione di “arte africana” è però una semplice etichetta sotto la
quale si è voluto classificare una serie diversissima di manifestazioni estetiche. Nell’Africa sub-
sahariana la scultura in legno e in bronzo ha conosciuto per secoli una fioritura eccezionale.
Tuttavia è difficile parlare in generale di “arte africana”. Quest’ultima è una categoria troppo
generica di fronte alla estrema varietà di forme in cui si è tradotta la produzione estetica dei
popoli della regione sub-sahariana. I Kalabari vedono le loro sculture come “dimore degli
spiriti”; anzi, come il “nome” dello spirito particolare che la statua rappresenta. Essi
considerano le sculture come oggetti che, notati dagli spiriti, vengono a stabilirvisi. Per questo
gli spiriti devono riconoscerle come “proprie”. Più che “bella” o “brutta”, una scultura è
considerata “buona” oppure “cattiva”. La bontà di una scultura consiste appunto nell’essere
capace di “attirare lo spirito”, e poiché le sculture non devono essere fatte in maniera tale da
richiamare presso di sé lo spirito sbagliato, esse vanno scolpite in accordo con i criteri che le
destinano ad essere “il nome” dello spirito particolare. Insomma, per essere considerate valide,
le sculture kalabari devono essere riconoscibili, portatrici dei segni che la fanno essere il
“nome” di uno spirito determinato.
La stessa attività creativa può d’altronde avere modalità di espressione diversa all’interno
dello stesso tipo di arte. Gli Yoruba della Nigeria, ad esempio, sono conosciuti per produrre due
tipi principali di maschere: le maschere egungun, di soggetto “sacro”, (impersonano l’antenato
e cambiano poco) e le maschere gelede, di soggetto profano (raffigurano situazioni o soggetti
più svariati e non costringono l’artista ad attenersi a stili o a soggetti predeterminati, pertanto
questo tipo di maschera è più disponibile a cambiamenti e innovazioni).
Le sculture possono avere funzioni simboliche simili ma significati culturali e valenze estetiche
differenti. Ad esempio tra gli strumenti necessari agli adempimenti di un importante rituali
(Bwami) in cui i Lega celebrano i valori della parentela e della discendenza, compaiono vari
oggetti, alcuni dei quali sono decorati in maniera tale da trasformarsi in straordinari esempi di
trasformazione artistica. Nel corso del rito i celebranti prendono questi oggetti, danzano con
essi, li mostrano agli spettatori interpretando la loro natura. Come tra i Kalabari, anche tra i
Lega le sculture che rientrano in questo rituale hanno una funzione simbolica rappresentativa.
Tali sculture, rappresentano tuttavia altre cose rispetto a ciò che rappresentano le sculture
kalabari. Le sculture lega non sono infatti il nome dello spirito che rappresentano, ma rinviano

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piuttosto a situazioni o a disposizioni di tipo morale. Inoltre i Lega hanno, diversamente dai
Kalabari, una considerazione estetica, per le loro sculture centrata sulle nozioni di “buone” e
“belle”. Chi ha studiato i Lega dichiara di avere avuto una percezione estetica difforme delle
loro sculture, giudicandone alcune più raffinate ed altre meno. Ma questa gradazione estetica,
non sembra interessare i Lega, che considerano tutte le sculture come buone e belle. Quanto
precede tenderebbe a dimostrare che non esistano canoni estetici universali. Forse, allora,
sarebbe più esatto affermare che negli esseri umani è universale la capacità di esprimersi
esteticamente, ma che la forma assunta da tale espressione estetica nelle diverse culture
dipende da un’ampia varietà di fattori: la funzione del prodotto, l’uso che se ne fa, il
destinatario e la motivazione e l’ispirazione dell’artista.

WRITING come forma di contestazione: E’ una tipica “arte povera”, che si esercita con pochi
mezzi tecnici. Essa è una forma di ribellione che, invece di diventare un’aperta contestazione di
tipo politico e sociale, sceglie la via del linguaggio visivo. Il writing lancia messaggi sulla
condizione presente, sul disagio e sulla sofferenza. Anzi, in molti casi è il fatto stesso di
“scrivere”a esprimere il messaggio di contestazione che si vuole trasmettere.

3) L’arte “tribale” nel contesto occidentale

3.1 Musei e arti “primitive”

Nel corso del XIX° secolo i musei antropologici ed etnologici vennero moltiplicandosi in Europa
come negli Usa. In questi musei d’Europa e d’America gli oggetti venivano catalogati ed esposti
ricalcando ampiamente le teorie antropologiche di allora. Essi venivano spesso raggruppati in
categorie omogenee e presentati in ordine di “complessità crescente”. Ad un certo punto si
cominciò a raggruppare gli oggetti per aree culturali, al fine di presentare le caratteristiche
delle culture tipiche di determinate regioni del pianeta. A partire dagli anni successivi alla 2^
guerra mondiale i musei etnografici hanno sviluppato e affinato sempre più i loro criteri
espositivi. In certi musei si tende a privilegiare il criterio documentaristico; in altri, a volte,
quello estetico. In quest’ultimo caso entrano in campo considerazioni diverse da quelle
strettamente documentarie ed etnografiche. Dove prevale il criterio estetico i pezzi esposti
sono per lo più “decontestualizzati”, ossia considerati da un punto di vista che ne mette in
risalto il valore artistico indipendentemente dalla loro origine e funzione sociale. Dal momento
che viene valorizzata la dimensione estetica dei pezzi esibiti, questi tendono ad essere
“inglobati” nella categoria occidentale di “arte”. A tale inglobamento hanno concorso due
motivi, per certi aspetti interconnessi tra loro ma che bisogna considerare separatamente.
Arte moderna e “oggetti selvaggi”: Il primo motivo è rappresentato dal fatto che, tra la fine
dell’800 e i primi decenni del ‘900, i pittori e gli scultori europei appartenenti alle correnti di
avanguardia cominciarono a prestare una speciale attenzione agli oggetti provenienti
dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe. L’attenzione degli artisti occidentali d’avanguardia
per questi manufatti, chiamati in Francia “oggetti selvaggi”, ebbe motivazioni complesse.
Dapprima vi furono artisti che sentirono il bisogno di opporre, alla frantumazione dell’universo
sociale prodotta dalla modernità industriale, il recupero di modelli non competitivi, armonici e
sottratti al flusso della modernità stessa. Questa corrente venne chiamata “primitivista”
(P.Gauguin). In seguito si affermarono altre tendenze, raggruppate sotto il nome di

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“modernismo”, le quali ripresero le “arti esotiche” come motivo di ispirazione.(P.Picasso) In


conseguenza di questa “convergenza” dell’arte modernista con l’arte “primitiva” divenne
normale parlare, nei decenni successivi, di “primitivismo dell’arte” includendo in questa
categoria tanto i prodotti dell’ “arte tribale” quanto quelli dei pittori e degli scultori dei primi
decenni del ‘900. Questa prospettiva presume che i principi che stanno alla base dei due tipi di
“arte” siano identici. Molto probabilmente questo accostamento tra arte primitiva e arte
moderna è effetto di un’ “illusione ottica”. L’affinità che viene stabilita tra l’opera “tribale” e
quella moderna potrebbe essere infatti il risultato del fatto che tanto la prima quanto la
seconda si discostano dal naturalismo che ha dominato la produzione artistica europea tra il
Rinascimento e la fine dell’800.

3.2 Come un oggetto “selvaggio” diventa un’opera d’arte: il mercato dell’arte “tribale”

La seconda ragione dell’inglobamento degli oggetti “esotici” nel sistema estetico occidentale (la
prima fu l apprezzamento da parte degli artisti occidentali) fu il mercato dell’arte.
L’arte tribale, soprattutto nel ‘900, ha cominciato ad avere un proprio mercato, il cui sviluppo
rappresenta la seconda ragione che ha reso possibile l’assimilazione degli oggetti provenienti
da contesti extra-europei a opere d’arte. Gli oggetti “esotici” cominciarono a fare il loro
ingresso sul mercato perché erano richiesti inizialmente dai musei etnografici. Ciò che
determina il valore economico di tali oggetti è il fatto che essi possano essere legittimamente
giudicati “arte”. A loro volta però, questi pezzi vengono considerati “artistici” perché hanno un
valore, perché possono cioè entrare nel “mercato dell’arte”. Se ne può dedurre che, in
generale, valutazioni estetiche e valutazioni economiche interagiscano tra loro nel determinare
la considerazione di un oggetto in quanto “opera d’arte” o meno. Nella determinazione di un
certo oggetto come opera d’arte entrano, nella nostra tradizione, coppie di nozioni come
autentico/in autentico, capolavoro/artefatto, originale/seriale,… Questo allargamento del
mercato dell’arte tribale, o etnica, è una conseguenza del fatto che a partire da un certo
periodo le opere ritenute autentiche e originali, non sono state più riprodotte. In molte di
queste società il fine per cui tali oggetti erano fabbricati non esiste più: non esistono più
religioni, riti, poteri terreni o spirituali in relazioni ai quali maschere, sculture, dipinti erano
stati eseguiti .La produzione di sculture o di dipinti può diventare essa stessa motivo della
reinsorgenza di un senso identitario smarrito durante la colonizzazione, e di rivendicazioni di
diritti negati. A volte le rivendicazioni dei popoli “nativi” si sono spinte fino a chiedere la
restituzione di oggetti conservati nei musei occidentali, come è avvenuto per i Maori della
Nuova Zelanda, i quali reclamarono negli anni ’70 i loro “taonga”, beni cerimoniali. Questi
taonga tuttavia non vennero reclamati soltanto in virtù del loro valore simbolico, bensì anche
per il valore economico che, come gli stessi Maori avevano constatato nel caso di altri oggetti, i
taonga, potevano avere sul mercato dell’arte “tribale” occidentale. Questo dei taonga maori
costituisce un buon esempio di come “l’arte tribale” possa venire a trovarsi oggi al centro non
più soltanto di un dibattito etnografico o estetico, bensì anche di snodi politici e interculturali.

CAPITOLO 9: LE RISORSE E IL POTERE

1) Potere delle risorse e risorse del potere

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1.1 Risorse e potere: un’inscindibile relazione

Lo studio della produzione e della gestione delle risorse da un lato, e quello della costituzione e
dell’esercizio del potere dall’altro, competono per tradizione a due branche distinte
dell’antropologia culturale: l’antropologia economica e l’antropologia politica rispettivamente,
allo scopo di mostrare come la disponibilità e il controllo delle risorse sia inseparabile
dall’esercizio del potere, e viceversa. Esiste dunque un intima relazione tra risorse e potere che
è andata plasmandosi e modificandosi a seconda delle epoche e delle situazioni.
Risorse materiali e risorse simboliche: una precisazione si rende subito necessaria: per risorsa
si deve intendere tanto un bene materiale, concreto, tangibile, come l’acqua, il denaro, il
grano, il ferro,… quanto un bene “volatile” come un sapere o una conoscenza tecnica, una
certa idea, un’ideologia politica o una visione religiosa del mondo. In sintesi: le risorse possono
essere di natura tanto materiale quanto simbolica. Una risorsa è anche qualunque cosa il cui
controllo consente a un individuo o a un gruppo di perseguire scopi di ordine tanto materiale
quanto simbolico. L’acquisizione e la disponibilità di una risorsa non sono mai completamente
disgiunte da una relazione di potere, ossia dal fatto che tale acquisizione e tale disponibilità
influiscono sempre sulla possibilità che un individuo o un gruppo di individui hanno, grazie ad
esse, di imporsi o di prevalere su altri individui e altri gruppi. Viceversa, tale possibilità di
prevalere è sempre associata al controllo di una qualche risorsa, materiale o simbolica che sia.
Economia e politica: in questa prospettiva l’idea di risorsa come qualcosa di esclusivamente
materiale deve essere abbandonata a vantaggio di una concezione che considera “risorse”
anche i beni di natura simbolica. Nel mondo occidentale economia e politica risultano “distinte”
grazie all’esistenza del sistema di mercato da un lato e delle istituzioni politiche dall’altro. Per
lungo tempo questa idea di economia e politica come di due sfere distinte è stata proiettata
anche sulle società diverse da quella europea. Un primo risultato di questa situazione fu che
agli occhi degli europei la maggior parte dei popoli “altri” sembravano privi sia di economia che
di organizzazione politica, non potendo rintracciare presso molti di essi né un mercato con i
suoi supporti e le sue regole (moneta, legge della domanda e dell’offerta) né istituzioni
politiche riconoscibili come tali. (come monarchia, repubblica…).
Oggetti di prestigio e beni di consumo: con gli sviluppi dell’etnografia divenne chiaro che anche
gli altri popoli avevano vari modi di produrre risorse, di farle circolare, nonché di fissare i criteri
di accesso ad esse, cioè di controllarne l’utilizzazione da parte di certi individui e di determinati
gruppi piuttosto che di altri. La discussione sul modo in cui la distribuzione sociale delle risorse
era organizzata in quelle che un tempo erano chiamate le società “primitive”, ebbe inizio negli
anni a cavallo della 1^ guerra mondiale. Fu soprattutto Malinowski a dare un notevole
contributo a queste ricerche, studiando una particolare forma di scambio, chiamato “kula”
(dare) dai Trobriand e dai popoli degli arcipelaghi vicini, che lui stesso definì “rituale”, in
quanto legato a regole apparentemente prive di un significato economico immediato. Gli
abitanti delle Trobriand e degli arcipelaghi limitrofi presso cui soggiornò Malinowski tra il 1916-
18, intraprendevano periodicamente difficili e pericolose traversate per incontrarsi con gruppi
coi quali mantenevano da lungo tempo una relazione di scambio. Nell’arcipelago delle
Trobriand, (Melanesia) e tra queste ultime ed altre isole, circolavano due tipi di oggetti
chiamati “vay’gua”: collane di conchiglie rosse (“soulava”) e braccialetti di conchiglie bianche
(“mwali”). Tra queste isole, che Malinowski rappresentò come idealmente disposte lungo una
circonferenza, le conchiglie circolavano in senso orario e i braccialetti in senso inverso.

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Malinowski chiamò questo circuito “anello kula”. Gli oggetti appartenenti a una categoria
potevano essere scambiati solo con oggetti dell’altra categoria: soulawa in cambio di mwali e
viceversa. I “vay’gua” restavano nelle mani di chi li riceveva o dei suoi eredi anche per molti
anni ma alla fine venivano sempre nuovamente scambiati. Durante le visite, gli scambi “rituali”
erano seguiti da scambi “profani” (“gimwali”), durante i quali i gruppi trattavano le cessione di
oggetti d’uso corrente. Lo scambio kula, che doveva seguire un’etichetta rituale ben precisa,
apriva insomma lo scambio profano. Lo scambio rituale aveva lo scopo di ribadire la relazione
di collaborazione e amicizia tra partner economici abituali, rinsaldando rapporti tra gruppi e
individui tra loro lontani ma legati da un vincolo “sacro” rappresentato dagli oggetti cerimoniali
scambiati. Gli oggetti cerimoniali e quelli profani che venivano scambiati durante le spedizioni
dei Trobriand costituivano dunque due diversi tipi di oggetti: beni di prestigio e beni di
consumo. Entrambi erano delle risorse materiali.
La “vita” e la funzione degli oggetti: Non tutti però potevano entrare nel circuito kula secondo
le stesse modalità. La partecipazione allo scambio rituale era insomma una prerogativa di
pochi. Nell’area delle Trobriand e degli arcipelaghi vicini, c’è un termine, keda (via), con il
quale i locali si riferiscono al cammino percorso dai beni che entrano nello scambio kula. Il
termine keda è un termine che infatti rinvia al cammino degli oggetti, alle relazioni che essi
“incorporano” e alla ricchezza, al potere e alla reputazione di coloro che li possiedono. Un keda
“ben riuscito” corrisponde infatti all’esistenza di un gruppo di individui, abitanti in isole diverse,
che sono in grado di mantenere relazioni stabili di scambio. Tali relazioni sono suscettibili di
rafforzare sempre la posizione di prestigio di coloro che possono vantare la propria
appartenenza a un keda molto ampio e complesso. I keda tuttavia possono anche dissolversi
per i più svariati motivi. Quando questi circuiti si disgregano, alcuni partner possono entrare,
con gli oggetti al momento in loro possesso, in altri keda, mentre alcuni non riescono a
ricostituire circuiti analoghi rimanendone per sempre al di fuori. Cambiando circuito, beni con
lunghe storie di scambio possono vedere azzerata la propria “memoria”, perdere valore. Lo
sforzo di coloro che si impegnano in questi scambi allo scopo di emergere “politicamente”, è
quella di trarre sempre maggior prestigio dalle relazioni che essi possono istituire con uno o più
partner, cercando di partecipare al numero più alto possibile di keda e tentando di rendere
sempre più stabili e durature le transazioni. I percorsi di questi oggetti sono quindi elementi
costitutivi del prestigio degli individui e al tempo stesso “segni”, “forme manifeste” di
quest’ultimo.
La manipolazione delle risorse e le trasformazioni dello scambio: lo scambio kula costituisce un
sistema multicentrico (pluralità di keda in cui un individuo può essere coinvolto) con un raggio
transculturale (coinvolge gruppi culturalmente e linguisticamente diversi). Malinowski riteneva
che gli oggetti in esso coinvolti fossero scambiati solo a scopi di prestigio, mentre si è scoperto
che essi entrano in realtà nelle compensazioni matrimoniali, nell’acquisto di maiali o per pagare
il diritto a coltivare appezzamenti di terreno. Queste trasformazioni del sistema kula
suggeriscono non soltanto che siamo di fronte a una istituzione economico-cerimoniale
influenzata da eventi storici, ma che tale istituzione è stata ed è attualmente oggetto di
continue manipolazioni e nuove strategie messe in atto dai partecipanti allo scambio. Tutti i
Trobriand che aspirano a cariche pubbliche praticano questi scambi in quanto sono l’unico vero
modo per emergere politicamente. Lo scambio cerimoniale descritto ormai quasi un secolo fa
da Malinowski ha subito anche altre trasformazioni di carattere, potremmo dire, più
strettamente economico. Nel complesso insulare di cui fanno parte le Trobriand esiste un

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termine, “kitoum”, che indica un “bene kula” (un vay’gua insomma) che è stato acquisito al di
fuori del circuito cerimoniale e che quindi è ritenuto proprietà personale e definitiva del
possessore. Se questi lo immette nel circuito cerimoniale, ogni bene ottenuto in cambio
diventa di sua proprietà, cioè svincolato dal circuito cerimoniale da cui proviene.
Questo fatto è, per alcuni autori, il segno della progressiva adozione di nozioni che fanno capo
all’idea di proprietà privata. Ciò per far capire come forme di scambio cerimoniale di questo
tipo siano oggi sempre più influenzate dalla presenza del denaro e dalla pressione di fattori
economico-politici di natura “globale”. Questo fatto illustra anche la stretta relazione che si
instaura in concreto tra circolazione delle risorse materiali e simboliche da una parte e l
acquisizione di prestigio e potere dall’altra.

1.2 Le nature del potere

Le teorie del potere sviluppate in Occidente sino all’inizio del ‘900 avevano cercato di coglierne
più che altro la “sostanza”: il potere come facoltà di sovrani “delegati”dal popolo, come
espressione di una volontà generale, come prerogativa di monarchi per grazia divina. Le teorie
più recenti hanno messo invece l’accento sul carattere pervasivo del potere, sulla sua natura
non-istituzionale e inscritta nelle relazioni stesse tra gli individui, i gruppi e, soprattutto, nei
“discorsi” da essi prodotti. La più recente di queste teorie del potere, e forse quella che ha
esercitato maggiore influenza sulla cultura filosofica e socio-antropologica dell’ultimo scorcio
del ‘900, è quella di M. Foucault. Egli non definisce il potere come una essenza, ma cerca di
vedere come esso funzioni, agisca e costringa gli esseri umani a comportarsi in un certo modo.
Il potere, dice Foucault, è ovunque: nelle parole, nei discorsi, negli atti, nelle cose e
nell’applicazione del nostro sapere. Il potere può sì essere identificato con istituzioni
particolarmente rappresentative di esso (lo Stato, il carcere, la scuola…) ma la sua efficacia di
realizza per lo più in maniera invisibile, sotterranea. Il potere, potremmo infatti dire, non ha
solo delle “facce esplicite”, ma si annida nei modelli culturali che introiettiamo e che ci
determinano, nei pensieri e nei comportamenti a nostra totale insaputa. Questa visione del
potere come entità pervasiva ne fa un qualcosa di cui gli esseri umani non potranno mai
liberarsi definitivamente. La concezione del potere elaborata da Foucault è importante perché
moltiplica le nostre possibilità di analizzare sotto questa luce le società e le culture.
Considerato in questo modo, il potere perde la sua connotazione strettamente politica, in
quanto non è più “incarnato” da particolari istituzioni politiche. Tuttavia non è possibile pensare
alla dimensione politica di una società solo intermini di istituzioni, poiché altrimenti la maggior
parte delle società studiate in passato dall’antropologia non avrebbero potuto essere
considerate delle “comunità politiche”. Una concezione del potere diversa fu espressa agli inizi
del XX° secolo dal sociologo Max Weber. Questi definì il potere come “la probabilità che un
soggetto, nel quadro di una determinata relazione sociale, ha di realizzare i propri scopi
nonostante le possibili resistenze”. Il potere è la facoltà di imporre ad altri il proprio volere.
Tuttavia una simile definizione non specifica quali caratteristiche mettano in grado un
soggetto, qualunque sia la sua natura, di esercitare un potere. Le caratteristiche di un soggetto
di questo tipo possono essere, come lo stesso Weber mise in luce, il carisma, l’autorità
spirituale o religiosa, o il fatto di essere in grado di esercitare una coercizione di un qualche
tipo: fisica, morale, economica.

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IL POTERE “IN SCENA” IL BE DI MURUA DEGLI AGNI DELLA COSTA D’AVORIO: Presso di loro,
alla morte del sovrano, un finto re (uno schiavo) ne assumeva le insegne e ne recitava la
parte. Il rito Be di Murua era una messa in scena “rovesciata” del rapporto
dominatore/dominato. Alla fine dell’interregno, il falso re e la sua famiglia venivano messi a
morte. Tuttavia, se essi avevano recitato bene la parte, potevano anche essere risparmiati e
riprendere il loro posto tra gli schiavi di corte. Chi era il destinatario della messa in scena??La
società stessa. Dal momento che la morte del re è considerata dagli Agni come l’inizio di un
periodo di caos, la società metterebbe in scena il Be di Murua, che altro non sarebbe se non la
caricatura della società stessa, in maniera tale che lo spettacolo di questo mondo caotico non
può fare altro che ispirare il desiderio di fare ritorno ad un mondo ordinato e governato.
L’effetto di questa messa in scena sarebbe pertanto quello di produrre un rafforzamento
indiretto del potere stesso.

Arena politica, attori politici e prospettiva processuale: che cosa mette in condizione individui e
gruppi di agire politicamente allo scopo di ottenere potere e di imporlo? Individui e gruppi
agiscono politicamente nella misura in cui possono gestire delle risorse che, se adeguatamente
impiegate allo scopo, conferiranno ad essi il potere di controllarne altre e più importanti
risorse, di natura simbolica e materiale. Ciò significa che per partecipare alla “lotta per il
potere” bisogna comunque disporre di risorse di un tipo o dell’altro. Le strategie, gli
stratagemmi, le astuzie e gli inganni fanno molto spesso parte della “lotta per il potere”. Lo
studio antropologico del potere ha posto attenzione alle diverse modalità in cui, presso culture
differenti, si crea ciò che è stato chiamato “arena politica”, cioè uno spazio astratto occupato
da tutti gli elementi che determinano il confronto politico: organizzazioni, individui, valori,
significati, e naturalmente risorse, i quali sono manovrati dagli “attori politici” nel loro
confrontarsi per il potere. I partiti, le banche, le università, i sindacati possono essere tutti
attori politici nella misura in cui scelgono di influenzare, con le loro iniziative, il corso stesso
della vita politica. Anziché pensare in termine di istituzioni o di ruoli politici, l’antropologia
preferisce oggi concentrarsi sugli aspetti dinamici della contesa politica, prendendo in esame
tutti quegli attori che, entrando nell’arena, si rivelano interessati al controllo delle risorse. E’ in
base a queste considerazioni che l’antropologia ha adottato quella che è stata chiamata
“prospettiva processuale”. Essa è stata chiamata “processuale” in quanto mira a cogliere i
fenomeni politici nel loro “divenire”, e in ciò si distingue da quella che descrive i sistemi politici
sul piano esclusivamente istituzionale. La prospettiva processuale consente di cogliere meglio
la natura del fenomeno politico in quanto, collegando l’azione politica alle motivazioni, alle
strategie e alle scelte individuali e collettive, si confronta di continuo con altri aspetti della vita
sociale e culturale che, in una prospettiva rigidamente “politica”, dovrebbero piuttosto essere
considerati come “economici”, “religiosi”, “estetici”…

2) Forme di vita economica

2.1 La produzione e la circolazione delle risorse

Controllare delle risorse non significa soltanto poter decidere della loro destinazione; significa
anche esercitare un controllo sulla produzione di esse. Nella nostra prospettiva che cerca di
mettere in relazione risorse e potere, non possiamo certo fare a meno di considerare la

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produzione e la distribuzione delle risorse immateriali che permettono di controllare quelle


materiali.
La dimensione sociale dell’economia: il principio di reciprocità: la produzione, distribuzione e
circolazione delle risorse materiali sono i temi costituitivi dell’antropologia economica. Dopo
aver studiato l’influenza dello stato sullo sviluppo dell’economia di mercato nell’Europa
moderna, Polanyi cominciò ad interessarsi di economie comparate. Polanyi iniziò a leggere le
opere degli antropologi e fu influenzato soprattutto da quelle di Malinowski, Boas e di Mauss.
Il tedesco Franz Boas aveva studiato il cerimoniale del “potlatch” presso i Kwakiutl della costa
nordamericana del Pacifico. Marcel Mauss si era invece concentrato sullo studio del “dono”.
Tanto il potlatch quanto il dono sembravano riconducibili a scambi improntati alla dimensione
della “reciprocità”.
Malinowski aveva notato ad esempio come nelle società da lui studiate gran parte della vita
sociale si basasse su atti di natura reciproca. La reciprocità la si ritrovava ovunque nella vita
dei Trobriand. Essa aveva un carattere sociale, obbligatorio e cogente, se non rispettato,
produceva riprovazione, sanzioni ed esclusione.
Da parte sua Boas aveva descritto il potlatch come una competizione tra individui dello stesso
status sociale che si sfidavano allo scopo di elevare pubblicamente il proprio prestigio, e di
scalfire quello del rivale di turno. Tali sfide erano caratterizzate, oltre che dalla distruzione di
enormi quantità di beni accumulati in precedenza, anche dalla loro ridistribuzione tra gli
spettatori. Chi più distruggeva e distribuiva, vinceva. La pena era la perdita della faccia, cioè
dell’onore.
Mauss interpretò il dono accentuandone la dimensione della reciprocità. Secondo Mauss erano
3 le regole che stavano alla base della pratica del dono e dell’idea stessa di reciprocità: dare,
ricevere e ricambiare. Egli per sostenere questa tesi, fece ricordo alla teoria maori dello “hau”.
Per i Maori l’hau fa in modo che chi riceve il dono si senta in debito nei confronti del donatore
obbligandolo a ricambiare per ristabilire una specie di equilibrio delle forze, alterato dal primo
atto del donare. Polanyi elaborò una concezione dell’economia che era, per quei tempi,
controcorrente. Alla sua epoca molti economisti ritenevano infatti che l’economia fosse
definibile come un comportamento finalizzato alla massimizzazione dell’utile, un tentativo di
ridurre tutta la vita sociale a un insieme di comportamenti pratici e mentali caratteristici di un
“imprenditore” o “uomo economico”.
A questa concezione, Polanyi contrappose un’idea dell’economia come rapporto concreto degli
esseri umani con la natura da un lato e con i propri simili dall’altro. Questa visione
dell’economia metteva l’accento sulla dimensione sociale di quest’ultima, per cui le risorse e i
beni prodotti erano considerati come aventi soprattutto una “destinazione sociale”. L’economia
sarebbe così un “processo istituzionalizzato”, cioè dipendente dalle strutture sociali nelle quali
tale processo è “incastonato”. Le istituzioni sono quelle al cui interno si compiono tutte le
operazioni considerate normalmente come “economiche”: la produzione, la distribuzione e lo
scambio dei beni.
Le forme di circolazione dei beni: secondo Polanyi le forme di distribuzione e di scambio
presenti nelle diverse società sono fondamentalmente tre: quella retta dal principio della
“reciprocità”; quella basata sulla “ridistribuzione” e infine quella fondata sulla “scambio”.
Ognuna di queste forme si appoggia su un diverso “supporto istituzionale”, il quale fa appunto,
dell’economia, un “processo istituzionalizzato”: la simmetria, la centralità e il mercato
rispettivamente. Basate sulla coppia reciprocità/simmetria sono le economie delle società

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organizzate su gruppi di parentela, dove prevalgono scambi di tipo paritario e simmetrico tra
gruppi di parenti; alla seconda categoria fondata sul binomio ridistribuzione/centralità
appartengono le economie in cui è presente un’autorità che concentra su di sé i prodotti
provenienti dalla periferia, beni che vengono successivamente ridistribuiti secondo criteri di
volta in volta differenti; alla terza categoria, fondata sulla coppia scambio/mercato,
appartengono infine le economie nelle quali le merci circolano in base alla legge della domanda
e dell’offerta. La tendenziale monetizzazione dell’economia ha alterato molti sistemi fondati
sulla simmetria e la centralità, anche se non sono rari i casi di quelle società che riservano al
denaro e alla produzione finalizzata al mercato circuiti e spazi separati.
La produzione sociale dei beni e il concetto di “modo di produzione”: la riflessione di Polanyi si
concentrò soprattutto sulla circolazione, non sulla produzione. La circolazione dei beni è un
fenomeno sociale poiché lo scambio, la distribuzione, l’acquisto e la vendita di tali beni
pongono in relazione tra loro individui e gruppi. Anche la produzione è un fenomeno sociale,
poiché oggetti e beni prodotti “incorporano” anch’essi delle relazioni sociali. L’idea che gli
oggetti fabbricati dall’uomo vadano analizzati come prodotti che incorporano delle relazioni
sociali risale a Karl Marx, che elaborò il concetto di “modo di produzione”. Un modo di
produzione era determinato dalla combinazione di tre fattori: i mezzi di produzione, la
manodopera e i rapporti di produzione. I mezzi di produzione sono la materia prima, il sapere
e la tecnologia di cui una società dispone. La manodopera è l’energia umana impiegata nel
processo produttivo, ossia il lavoro. I rapporti di produzione sono infine la “relazione sociale”
che articola la connessione tra mezzi di produzione e manodopera. Se cambia la relazione
sociale, cambia anche il modo di produzione. Marx è stato criticato in quanto troppo
materialista. Tuttavia al contrario il concetto di modo di produzione mette l’accento non tanto
sulla produzione dei beni in quanto oggetti materiali, quanto piuttosto sulle “condizioni
sociali”della loro produzione. Inoltre il concetto di modo di produzione non implica che l’aspetto
simbolico abbia un’importanza secondaria o nulla. E’piuttosto vero il contrario.

LA MODERNIZZAZIONE DELL’AGRICOLTURA, IL MERCATO E LA FINE DELLA RECIPROCITA’: I


CONTADINI DEL BUAPUR, INDIA: L’agricoltura da loro praticata è condotta in connessione con
una serie di rappresentazioni e di pratiche rituali che hanno come punto di riferimento la terra,
considerata come un soggetto vivo e generatore di risorse. L’insieme delle operazioni agricole
necessarie per ottenere un buon raccolto è chiamato dai contadini “hada”. Oltre a questo
elemento, particolarmente importante è la nozione di “hulighe”la quale rinvia all’idea dei frutti
della terra come una “concessione”da parte di quest’ultima agli esseri umani. Tale concessione
da parte della terra è intimamente connessa con la ridistribuzione dei prodotti tra i nuclei
domestici. Società, rito e produttività della terra che i contadini definiscono come”forza”,
risultano così interconnessi. Tuttavia nel corso degli anni ’80 si sono verificati cambiamenti
importanti nell’agricoltura di questa regione. L’idea di hulighe ha cominciato pian piano ad
essere rimpiazzata da quella di “utpati”, ossia di produttività calcolata in termini puramente
quantitativi. All’idea di hada (appropriatezza), si sta rapidamente sostituendo quella di
“sistam”(sistema). Quest’ultimo riflette il desiderio di raggiungere nuovi obiettivi ottenibili solo
grazie all’adozione di metodi atti allo scopo. Tuttavia di fronte all’introduzione di nuove
sementi, i contadini manifestano perplessità e sconcerto. Essi parlano del loro presente come
di un “tempo ibrido” e di loro come di “gente ibrida”. In altre parole, i contadini parlano di sé
come di gente delicata, debole, vulnerabile alle malattie, proprio come delicate, deboli ed

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esposte alle malattie sono le sementi (ibride). I contadini sembrano esprimere la


consapevolezza del fatto che l’introduzione delle nuove sementi, legate ad un modo del tutto
nuovo di produrre e di commerciare i prodotti, ha comportato cambiamenti rilevanti nella sfera
delle relazioni sociali. Essi sanno di non essere più legati fra loro come in passato da processi
produttivi capaci di istaurare prestazioni fondate sulla reciprocità, ma di essere invece sempre
più “ognuno per sé”. Il mutamento nell’orientamento agricolo sembra avere comportato una
trasformazione sullo stesso atteggiamento dei contadini nei riguardi del loro stesso universo
rituale: dalla”santità delle colture”si è passati al disprezzo per le sementi ibride. Mentre prima
era la terra a costituire l’oggetto di molti riti, ora si offrono primizie ai pozzi e alle pompe e le si
orna con fiori e nastri colorati.

2.2 L’analisi antropologica delle forme di vita economica

Combinando la teoria di Polanyi sui modelli di scambio con quella di Marx sui modi di
produzione, l’analisi antropologica ha potuto accostarsi alle forme di vita economica secondo
nuove prospettive. Tali analisi hanno prestato particolare attenzione al modo in cui forme di
vita economica fondate su relazioni produttive “tradizionali”(parentela, clientela, servitù…)
entrano in rapporto con l’economia di mercato e con logiche economiche che hanno origine
altrove: negli Usa, in Europa, in Giappone.
La comunità domestica: il primo esempio notevole dell’applicazione di questa prospettiva si
ebbe con l’antropologo francese C. Meillasoux che si prefisse di studiare quale tipo di rapporti
sociali determinasse l’orientamento economico all’interno delle comunità agricole. Egli
concentrò lo studio su ciò che chiamò comunità domestiche, cioè gruppi di individui, per lo più
consanguinei e alleati coresidenti, i quali contribuiscono allo svolgimento delle attività di
sussistenza di interesse comune. Secondo Meillasoux la comunità domestica si fonda su un
accesso paritario di tutti gli individui al mezzo di produzione per eccellenza, la terra. Tuttavia
all’interno di tale comunità vige il principio dell’anzianità sociale come fondamento dell’autorità.
Sono infatti gli anziani, cioè uomini sposati, a detenere il controllo delle risorse. In questo caso
le risorse sono piuttosto le donne. Il controllo delle donne è il fattore chiave da cui deriva il
potere: poiché la “circolazione” di esse è stabilita dagli anziani, la relazione sociale che
determina il modo di produzione è il rapporto giovane-anziano. I giovani allo scopo di ottenere
una moglie e quindi di rendersi indipendenti, devono obbedire agli anziani e quindi lavorare alle
loro dipendenze. Gli anziani concedendo ai giovani delle mogli, consentono loro di dare inizio
ad un nuovo “ciclo domestico”, che vedrà i nuovi anziani, cioè i giovani di una volta, controllare
a turno la produzione agricola e la riproduzione della comunità.
L’articolazione dei modi di produzione: secondo diversi autori la comunità domestica è stata
“funzionalmente incorporata” dalle forme economiche e sociali che l’hanno inglobata nel corso
della storia. Tutte queste forme hanno infatti sfruttato la sua capacità di svolgere la sua
fondamentale funzione di luogo di “riproduzione della manodopera”. In età coloniale e post
coloniale, le comunità domestiche di molti paesi africani sono divenute le rifornitrici di
manodopera sia per le piantagioni che per le industrie, tanto in Africa quanto in Europa. Ciò
significa che il modo di produzione dominante nelle società tradizionali africane è entrato, a un
certo momento, in un rapporto “di articolazione” e “di dipendenza” da quello capitalista. In
conseguenza di questo fatto però la comunità domestica delle società africane si è indebolita,

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con tutti i fenomeni di disgregazione sociale e culturale che l’inurbamento e l’emigrazione ha


portato con sé.
Economie dell’ “affezione” e “politiche dello sviluppo”: l’articolazione dei modi di produzione
comporta il progressivo coinvolgimento dei sistemi “locali” in sistemi più ampi e, molto spesso,
una forma di “dipendenza strutturale” dei primi dai secondi. Quando però i sistemi locali
entrano in un rapporto di articolazione coi sistemi dominati dal mercato, le trasformazioni
possono essere, anche se non sempre, rapide e rilevanti. Tali rapidità e rilevanza dipendono da
quanto il sistema locale è in grado di “difendersi” dalla pressione esterna, magari imponendo
divieti e tabù su certe pratiche percepite come minacciose. Questi casi sono stati considerati
esempi di una “economia dell’affezione” tipica delle comunità “tradizionali” come contrapposta
a una “economia del valore” promossa dagli stati attraverso progetti di sviluppo e iniziative
miranti a favorire l’inserimento di sistemi economici locali nella sfera del mercato. L’economia
“dell’affezione” non è un’economia di per sé “sottosviluppata”. Per determinare se un’economia
è sviluppata oppure no bisognerebbe infatti determinare i parametri e i criteri dello sviluppo.
L’economia dell’affezione corrisponde invece a un modello produttivo e di scambio che può
esistere accanto a quello basato sulla logica del mercato o che può rifiutare quest’ultimo
perché giudicato dagli interessati intrusivo e socialmente dirompente. Queste resistenze
costituiscono la ragione principale del fallimento dei progetti di sviluppo ideati da operatori
europei o nordamericani che spesso conoscono poco o nulla della realtà sociale e culturale
delle popolazioni coinvolte. Tali fallimenti non sono legati solo alle oggettive condizioni di
povertà in cui giacciono molti paesi del sud del mondo.
Le strutture della dipendenza: Riprendendo un’espressione dell’economista Andrè G. Frank,
questa articolazione tra sistemi e modi di produzione locali con l’economia di mercato potrebbe
essere fatta coincidere con una “struttura della dipendenza”. Frank riserva questa espressione
alla situazione di subordinazione funzionale che si instaura tra economie del centro e economie
della periferia, tra economia fondate sulla produzione industriale e agricola altamente
tecnologizzata da un lato, ed economie fondate sulla manodopera a basso costo e a bassa
produttività (in pratica le economie povere del sud del mondo)dall’altro. La dipendenza nei
confronti delle economie più forti si instaura in primo luogo per il fatto che queste ultime hanno
la possibilità di estrarre dalle economie più deboli risorse che, in tal modo, non possono essere
impiegate localmente, con il risultato di produrre una stagnazione permanente delle economie
della periferia. In secondo luogo però, le economie del centro orientano a proprio vantaggio le
economie più deboli della periferia facendo produrre loro ciò che conviene alle economie del
centro.

I FABBRI DI KAEDI, MAURITANIA MERIDIONALE: Le società vernacolari sono società


completamente escluse dalla megamacchina tecno-economica transnazionale. Sul piano
tecnico-economico, la società vernacolare, che non ha nulla da offrire al mercato e nulla da
mercato può di conseguenza prendere, produce soluzioni alternative. Ciò avviene soprattutto
grazie al riciclaggio dei “rifiuti della modernità”, ossia l’utilizzazione di materiali di scarto
recuperati a costi bassissimi. Esemplare sembra essere, da questo punto di vista, il caso dei
fabbri di Kaedi. Qui, oltre al riciclaggio dei materiali, un aspetto importante dell’”economia di
recupero” è l’autoproduzione degli strumenti necessari alla fabbricazione di oggetti, sia agricoli
che d’uso quotidiano. I fabbri sono in grado di sviluppare un’economia locale

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“autosufficiente”sul piano tecnico. Tale autosufficienza si accorda con la messa in atto di estese
reti di cooperazione fondate sulla struttura famigliare, amicale e vicinato.

UNA STRUTTURA DELLA DIPENDENZA AGLI ALBORI DEL COLONIALISMO: GLI URONI DEL
CANADA E LA LORO SCOMPARSA: Gli Uroni costituivano uno dei gruppi più numerosi della
regione dei Grandi Laghi nordamericani. Fino agli anni del 1600 essi mantennero con i loro
vicini, tra i quali vi erano gli Irochesi, relazioni ora pacifiche ora bellicose ma senza mire di
conquista da parte degli uni o degli altri. Nel 1600 arrivarono i francesi. Questi ultimi
interessati al commercio delle pellicce, presero accordi con gli Uroni, i quali cominciarono a
rifornire il mercato di questi beni sempre più ricercati in Europa. Tuttavia nello stesso periodo
fecero la loro comparsa i mercanti olandesi. Concorrenti dei francesi, essi si rivolsero agli
Irochesi, per ottenere da loro lo stesso tipo di beni: le pellicce. Uroni e Irochesi cominciarono
così a diventare concorrenti. Così si giunse ad una situazione per cui gli Uroni non avevano
alternative: o affermarsi sui loro vicini Irochesi e monopolizzare il commercio delle pellicce,
oppure riconvertirsi all’agricoltura. Fatto sta che, nel frattempo, francesi e olandesi, a cui
interessava monopolizzare il commercio delle pellicce, avevano cominciato di dotare di armi da
fuoco i loro rispettivi alleati. Ne seguì una lotta all’ultimo sangue tra Uroni e Irochesi per
ottenere il controllo dei territori di caccia. Poco oltre la metà del 1600, dopo anni di guerre, gli
Uroni furono in pratica sterminati.

“Razionalità” e “irrazionalità” nell’economia: nella tradizione di pensiero occidentale, dominata


dall’idea di razionalità logico formale, anche l’economia appare come un settore dell’agire
umano dominato dal calcolo e dal guadagno. Questo è il motivo per cui molti occidentali si
stupiscono ancora del fatto che certi popoli scelgano soluzioni “economiche” che per gli
occidentali tali davvero non sono. Al contrario di quanti sostengono la presunta irrazionalità di
certi popoli “altri”, che investono molti dei loro denari in feste in onore di divinità anziché
investirli in attività che potrebbero migliorare la propria condizione, alcuni antropologi
ritengono che tali comportamenti non possano essere giudicati irrazionali, in quanto
rispondono effettivamente al soddisfacimento di un bisogno considerato da loro come primario.
Sarebbe insomma il codice culturale di una determinata cultura a decidere che cosa è razionale
e cosa non lo è.
In realtà entrambe le posizioni sono discutibili in quanto sono imprecise nel definire il
“parametro della razionalità”. Ad esempio si potrebbe considerare il caso di una famiglia media
italiana che abita in una metropoli e che decide di spendere ogni anno una certa cifra per
trascorrere le vacanze al mare. Con gli stessi denari accumulati ogni anno, potrebbe tuttavia
acquistare un bene o investire i denari risparmiati. E’ chiaro che se si considera la cosa da
quest’ultimo punto, il denaro speso per passare ogni anno un mese al mare, potrebbe apparire
come speso in maniera irrazionale!Ma se ci mettiamo dal punto di vista della famiglia che
pensa di riposarsi dalle fatiche di un anno trascorso in città, il suo comportamento “economico”
ci appare del tutto plausibile. Queste ultime osservazioni ci portano a considerare la
dimensione del “consumo” da cui non si può prescindere. Il funzionamento delle economie
capitaliste si basa soprattutto su un sistema di consumi allargato, in quanto il consumo sempre
maggiore di beni costituisce ormai la condizione basilare dell’esistenza di quelle stesse
economie. La dimensione del consumo non è evidentemente esclusiva delle società a economia
capitalista, poiché tutti gli esseri umani “consumano” dei beni, tanto che si tratti di alimenti

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quanto di oggetti d’uso. Molti antropologi hanno ritenuto quindi opportuno indirizzare la propria
attenzione sul fenomeno del consumo ponendo attenzione alla”vita sociale delle cose”.
L’assunto di base di questa prospettiva è che il valore delle cose si crea nei passaggi, dal
momento che esse vengono desiderate dagli esseri umani all’interno di un dato sistema sociale
ed economico. Questa prospettiva tuttavia è stata criticata in quanto non teneva conto delle
condizioni sociali che hanno reso possibile la produzione di beni, il tipo di lavoro che è stato
necessario per fabbricarli e le relazioni sociali e produttive che hanno messo in moto quel
lavoro. La prospettiva del consumo ha invece dei vantaggi se consideriamo che in certe
situazioni gli oggetti talvolta passano da una “sfera del consumo” ad un’altra. E’ dunque molto
difficile stabilire quali possano essere i criteri della razionalità economica. Inoltre una difficoltà
risiede nel fatto che, essendo le società tutt’altro che omogenee, differenti gruppi di essa
possono perseguire finalità diverse, avere ineguale accesso alle risorse e quindi interessi non
sempre identici. Per capire come gli esseri umani si muovono in ambito economico, bisogna
tenere conto di una pluralità di fattori che vanno dall’utile materiale alla soddisfazione morale,
dal consumo di beni concreti al consumo di beni immateriali, dal controllo di risorse finanziarie
al prestigio. Riprendendo una battuta dello scrittore Orwell: gli esseri umani piuttosto che
essere “economicamente razionali”sembrano “lottare perennemente per vedere ciò che sta
davanti al loro naso”.

LA”RAZIONALITA’ ECONOMICA”DEI PIGMEI DELL’ITURI, CONGO: I Pigmei costituiscono un


classico esempio di società acquisitiva e vivono da secoli a contatto con gli agricoltori della
regione ai margini della foresta entrando, attraverso di essi, in “reti economiche”assai estese.
Prima che il commercio dell’avorio fosse messo fuori legge, negli anni ’60, i Pigmei erano tra i
principali procacciatori d’avorio per il mercato europeo ed orientale. Essi cedevano ai loro
intermediari, le zanne di elefante che venivano poi rivendute ai commercianti europei arabi in
cambio di prodotti alimentari. La relazione con gli agricoltori prende il nome di “kpara” e
implica un rapporto di scambio regolare. Con la liberalizzazione delle ricerche minerarie, l’area
in cui abitano i Pigmei è diventata, un luogo assai affollato. Tuttavia l’economia dei Pigmei, ha
circoscritto notevolmente l’utilizzo del denaro. Essi continuano infatti a cedere i prodotti della
foresta in cambio di prodotti alimentari e manufatti. Secondo alcuni autori, una delle
fondamentali ragioni per cui i Pigmei mantengono il sistema del baratto è che questo è in
grado di assicurare un “tasso di scambio”notevolmente stabile. Di fronte all’inflazione che,
dagli anni ’70 in poi ha affossato l’economia congolese, molte popolazioni tra cui gli stessi
Pigmei, hanno preferito rifarsi a questo genere di scambio. Il fatto che i Pigmei abbiano
mantenuto la forma del baratto, ha funzionato come una specie di “cuscinetto”tra il sistema del
mercato e la monetizzazione degli scambi da un lato e le risorse e l’equilibrio ambientale della
foresta dall’altro. Questa loro scelta economica li ha messi infatti al riparo dalle fluttuazioni
monetarie di un’economia fortemente instabile e impoverita.

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3) Tipi di organizzazione politica

3.1 Attività politica e organizzazione politica

L’ “attività politica” è così l’aspetto intenzionale del comportamento individuale e collettivo


mediante il quale i singoli o i gruppi manipolano, secondo finalità e interessi specifici, le regole
e le istituzioni vigenti nella loro società.
Tenendo conto di quanto abbiamo detto, un’ “organizzazione politica” potrebbe essere pertanto
considerata come l’insieme delle regole, delle istituzioni e delle pratiche che contribuiscono a
definire il quadro entro il quale si svolge l’attività politica (arena del potere).
Parlare di organizzazione politica significa evocare le dimensioni del “potere” e dell’ “autorità”.
Potere e autorità possono essere incarnati da figure sociali particolari che rivestono
determinate cariche: presidente, re, primo ministro, sacerdote,… Vi sono però società in cui le
cariche sono assenti, così come assenti possono essere istituzioni o ruoli politici
istituzionalizzati. In molte società mancano apparati o organismi preposti a far rispettare le
norme in maniera coercitiva. Ciò non toglie che siano presenti norme capaci di assicurare la
coesione di un gruppo e il rispetto delle regole. Malinowski, come abbiamo visto, aveva
individuato nella “reciprocità” il meccanismo capace di assicurare il rispetto delle regole in
quelle società che alla sua epoca venivano chiamate “primitive”. Nella maggior parte di esse la
parentela e l’età hanno costituito dei fattori importanti per assicurare il rispetto dei diritti e
delle regole sociali. Anche la religione può svolgere un’analoga funzione coesiva.
La classificazione tipologica: gli antropologi hanno considerato per molto tempo le
organizzazioni politiche concrete come se fossero disposte su una linea continua, dalle forme
più “semplici” a quelle più “complesse”. Un’utile tipologia possibile è quella che parte dalla
distinzione tra sistemi politici “non centralizzati” e sistemi “politici centralizzati”. All’interno dei
sistemi non centralizzati si può operare un’ulteriore distinzione tra “bande” da un lato e “tribù”
dall’altro, a cui si può aggiungere una particolare fama di potere, quella rappresentata dal
cosiddetto “Big Man”. All’interno dei sistemi centralizzati si possono invece distinguere due
forme principali: i “potentati” e gli “stati”, questi ultimi distinguibili a loro volta in “stati
dinastici” e “stati nazionali”.

3.2 Sistemi non centralizzati

La banda: è stata ritenuta dagli antropologi la forma più elementare di organizzazione


“politica”, probabilmente la più antica e sicuramente oggi la meno diffusa. La banda è infatti
caratteristica dei gruppi di cacciatori-raccoglitori nomadi i quali rappresentano oggi un’infima
percentuale della popolazione mondiale complessiva. Le bande sono sottoposte a “flusso” (il
continuo allontanamento di individui da una banda e la loro riaggregazione a un’altra), un
fattore che contribuisce a fare di esse degli aggregati socio-politici fondamentalmente
ugualitari. Al carattere “fluido” della banda corrisponde infatti l’assenza di un’autorità in grado
di esercitare un controllo permanente sugli individui che ne fanno parte. I fattori che
determinano tale consenso sono da ricercare nella fondamentale coincidenza degli interessi di
tutti gli individui, ma anche nella scarsa varietà delle alternative che si offrono loro. ( Quando
in una società di cacciatori-raccoglitori un individuo tiene un comportamento inadeguato o
compie un’azione non approvata dagli altri membri della banda, egli può essere colpito da una

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sanzione che va dalla semplice derisione all’esclusione del gruppo nei casi più gravi. In genere i
conflitti sono risolti attraverso discussioni più o meno accese tra gli individui interessati, ma
possono anche sfociare in duelli di lieve entità tra coloro che prendono le parti degli avversari.
E’ difficile che questi scontri rivestano un carattere duraturo o violento. Si tratta per lo più di
combattimenti ritualizzati; noti sono, a tale proposito, i “dualelli di canti”praticati dagli
eschimesi. Qui i conflitti tra due individui erano spesso risolti mediante duelli oratori durante i
quali gli avversari si scambiavano insulti ed esponevano al pubblico le loro ragioni.
Quest’ultimo era chiamato a dare il proprio parere, espresso il quale, gli avversari si
scambiavano doni e consideravano chiuso il contrasto. In società dove le decisioni riguardanti
gli affari del gruppo vengono prese sulla base del consenso generale, i conflitti tra singoli
individui, in pratica gli unici possibili, non vengono “privatizzati”, né portati di fronte a
un’autorità in grado di giudicare e di comminare sanzioni. Tali conflitti sono invece resi
pubblici, in modo che il giudizio su di essi rivesta un carattere tendenzialmente unanime. )
Possiamo quindi definire l’organizzazione politica della banda come “una struttura ristretta,
informale e priva di una gerarchia decisionale”. E’ ristretta in corrispondenza alle eseguità
numerica dei gruppi; è informale poiché l’esercizio dell’autorità si esaurisce nel prevalere d un
‘opinione individuale e nell’adesione a quest’ultima da parte dei membri della banda; è priva di
una gerarchia decisionale in quanto manca di un’autorità stabile, capace di esercitare un
controllo permanente sugli individui che ne fanno parte.

Le società tribali e le ambiguità del termine “tribale”: “Tribale” è stata sempre una
qualificazione generica delle società studiate dall’antropologia, allo scopo di sottolineare che si
trattava di società fondate su principi organizzativi differenti da quelli tipici delle società
europee e moderne. In passato la sua utilizzazione ha consentito di distinguere facilmente i
“primitivi” dai “civilizzati”, e anche oggi questo termine viene usato dai profani per evocare
qualcosa di “originario”, “primitivo”,”autenticamente esotico”, sia nella vita sociale (solidarietà
di tipo tribale), sia nella moda (tatuaggi, piercing e gioielli tribali). Ma il “tribalismo” è quasi
sempre una risposta alla dissoluzione di istituzioni e di ideologie unificanti, e non un “ritorno
della tradizione”. Invece di costituire delle reinsorgenze di tratti arcaici, i tribalismi
contemporanei sono di fatto il prodotto dell’antagonismo tra gruppi che tentano o di accedere a
nuove risorse messe in circolazione dagli stati post-coloniali, dagli interventi umanitari e dagli
investimenti internazionali, oppure sono il prodotto della lotta tra gruppi emergenti al fine di
occupare posizioni vantaggiose all’interno di un quadro politico disgregato.
Le caratteristiche fondamentali delle società “tribali”: Tribali sono per lo più definite quelle
società in cui sono presenti più gruppi di discendenza che si considerano reciprocamente
discendenti da un comune antenato. Per poter parlare di società tribale in maniera pertinente
bisogna in primo luogo che l’organizzazione politica così definita sia acefala, cioè priva di un
potere centrale con capacità di decisione, di controllo e di coercizione nei confronti dei gruppi
di discendenza che la costituiscono. Vi è però un’importante differenza tra le società tribali e
quelle “acquisitive”. Mentre presso queste ultime l’arma più frequentemente adottata contro la
trasgressione è la riprovazione collettiva, nelle società tribali i gruppi di discendenza sono dei
“corpi politici” pronti a costituirsi in unità internamente solidali e a contrapporsi ad altri simili. I
gruppi di discendenza sono infatti formati da individui i quali, ritenendosi discendenti di un
comune antenato, hanno uguale accesso alle risorse vitali e strategiche e che, come tali,
formano un’unità pronta a lottare per la difesa delle risorse comuni. I gruppi di discendenza

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hanno capi e rappresentanti scelti di solito in base a criteri che fanno riferimento a
caratteristiche personali. Le società “tribali” pongono grande enfasi sull’uguaglianza dei gruppi
che le compongono. Tuttavia quelle tribali sono società piuttosto “instabili”, suscettibili di
produrre spesso i germi di una differenziazione sociale interna, e quindi di trasformarsi in
società con forme più “complesse” e stratificate di organizzazione politica. Nonostante infatti le
società tribali coltivino gli ideali dell’uguaglianza e dell’autonomia individuale, i capi tribali sono
quasi sempre scelti all’interno di una qualche “famiglia” o gruppo di discendenza che “per
tradizione” detiene il privilegio di assegnare tale carica a uno dei propri componenti. Le società
organizzate su base tribale si fondano su varie istituzioni che assicurano in qualche maniera la
coesione dei gruppi di discendenza i quali, altrimenti tenderebbero a separarsi. Nella
letteratura antropologica le tribù si distinguono a seconda della presenza o meno di alcune
caratteristiche che però sono spesso compresenti. Queste caratteristiche sono i lignaggi
segmentari, certe forme di stratificazione rituale, i consigli di villaggio e i sodalizi.
Lignaggi segmentari: I lignaggi segmentari sono in pratica i gruppi di discendenza unilineari
costitutivi di una tribù. Essi sono di fatto dei gruppi corporati ma prendono il nome di
segmentari perché sono suscettibili di frazionarsi o di aggregarsi in segmenti di minore o di
maggiore estensione. Una tribù segmentaria è rappresentabile, in astratto, come un albero
rovesciato. I rami convergono verso il fusto centrale secondo uno schema di inclusione
progressiva che parte dai segmenti più piccoli (le unità domestiche) e giunge a formare la tribù
attraverso segmenti sempre più ampi (riunioni di più unità domestiche di individui legati dalla
discendenza comune). I componenti dei lignaggi si riconoscono idealmente come discendenti
da uno stesso antenato. In società di tal genere viene posta grande enfasi sulla parentela
consanguinea, un fattore che di per sé evoca, anche se a livello di pura rappresentazione, le
idee di solidarietà e di comunanza di intenti, oltre che di origini. I lignaggi tendono, in base ad
una dinamica di alleanze, a fondersi in segmenti sempre più ampi; tuttavia il conflitto e
l’opposizione possono portare alla progressiva “segmentazione”delle unità più grandi in
segmenti più ridotti. (vedi pag351-2 I Nuer)
Stratificazione rituale: In molte società tribali esiste una distinzione importante tra lignaggi, la
quale si riflette nella funzione politico-religiosa svolta da alcuni di essi. Ad esempio tra gli
stessi Nuer esisteva un personaggio chiamato “il capo dalla pelle di leopardo” (da lui
indossata). Egli non era uno specialista di questioni giuridiche ma era considerato ricettacolo di
potere soprannaturale, normale essere umano dotato tuttavia di un elemento di santità, a cui
si appellavano coloro che, avendo commesso un delitto, volevano sottrarsi alla vendetta del
gruppo offeso.
Consigli di villaggio: Dove le popolazioni tribali abitano in villaggi permanenti, ogni gruppo di
discendenza ha propri rappresentanti che si riuniscono periodicamente dando vita ai cosiddetti
“consigli di villaggio”. Si tratta di assemblee ristrette, fornite di un potere che può essere in
alcuni casi decisionale e in altri semplicemente consultivo. Il compito dei consigli di villaggio
non è però solo quello di regolare le dispute tra i gruppi di discendenza presenti nel villaggio,
ma anche quello di amministrare le relazioni con altri villaggi e con altre tribù. In alcune
società rurali del Medio Oriente esistono invece i consigli di villaggio composti da tutti gli
uomini adulti, liberi (non servi) e in grado di portare un’arma. Tipico è il caso
della”jirga”(assemblea)afgana. In queste assemblee apparentemente democratiche, sono in
realtà i capi di alcuni gruppi di discendenza a decidere per tutti gli altri.

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Sodalizi, classi d’età, società segrete: Anche se i legami di parentela costituiscono il principale
criterio di regolazione dei rapporti politici, nelle società tribali esistono forme associative
fondate sull’età e sul sesso. Membri di diversi gruppi di discendenza possono entrare a far
parte di “sodalizi”, forme associative le quali “tagliano” trasversalmente i gruppi di discendenza
che costituiscono la tribù e che hanno la funzione di organizzare una parte della popolazione
secondo progetti d’azione specifici, come ad esempio i sodalizi di guerrieri degli indiano, che
avevano lo scopo di mobilitare la forza militare necessaria per fare fronte ad una minaccia
esterna. Un altro tipo di reclutamento di gruppi “trasversali” rispetto alla tribù è l’istituzione
delle “classi d’età” (presso Masai, Turkana, Jie,…). In queste società la popolazione è
raggruppata anche oggi per “fasce d’età” il cui numero può variare da quattro a sedici e alle
quali si accede successivamente mediante specifici rituali di iniziazione officiati dai membri
della classe più anziana. Questo sistema consente di ripartire ruoli, diritti e doveri in base al
criterio dell’età che non è tanto un’età biologica, bensì un’età “sociale” in quanto determinata
da passaggi decisi in base a considerazioni di opportunità politica e sociale. Non si devono poi
dimenticare le “società segrete”: queste società, tanto maschili quanto femminili, erano
costituite da individui affiliati mediante riti di iniziazione. Una loro importante funzione è oggi
quella di mantenere saldi i legami tra comunità della stessa cultura che sono state separate
dalla creazione degli stati nazionali, i cui confini ricalcano quasi sempre quelle delle ex colonie..
Il “Big Man” I capi tribali si caratterizzano per la loro costante opera di ridistribuzione di beni e
benefici, oltre che di supporto e assistenza nei confronti del proprio seguito. Tipico è il caso del
Big Man, diffuso in Papua Nuova Guinea e nella Melanesia in generale. Figure politiche di primo
piano presso alcune società della Nuova Guinea sono infatti il “tonowi”e il “mumi”. In queste
società, prive di lignaggi segmentari, e quindi non classificabili come “tribali”, i “grandi uomini”
in questione sono, rispetto alle situazioni esaminate in precedenza, figure un po’ anomale. Sia
il titolo di “grande uomo”, sia il seguito di cui gode, sono infatti il risultato dell’abilità e
dell’iniziativa strettamente personali. Questi individui, insomma, possono non avere alle spalle
un forte gruppo di discendenza o non appartenere a una famiglia di capi. Coloro che per
ricchezza, generosità, abilità acquisiscono un particolare prestigio, sono obbligati a manifestare
periodicamente la loro supremazia sociale attraverso una ridistribuzione di beni
precedentemente accumulati grazie all’aiuto di altri individui, che il “big man” ha convinto a
collaborare con lui. Questi beni vengono ridistribuiti nel corso di grandi feste alle quali
partecipa il villaggio e gruppi provenienti da villaggi diversi, e alle quali prendono parte anche
altri individui che aspirano a una posizione di prestigio. Questi sfidano il “tonowi” o il “mumi” in
termini di generosità, distribuendo anch’essi dei beni. Se le loro performance si rivelano
superiori a quelle del “big-man” ospitante, quest’ultimo decadrà dalla sua posizione di
preminenza e sarà sostituito da un altro individuo ritenuto “più generoso”.

3.3 Sistemi centralizzati

Lo stato nazionale è una forma di organizzazione politica diffusosi con l’espansione europea e
affermatosi definitivamente con la deconolizzazione, il modello dello stato nazionale domina il
panorama politico del mondo attuale.
Un mondo di stati: E’ in riferimento agli stati nazionali che si organizza sempre più la vita delle
popolazioni del pianeta. La maggior parte di questi stati pretende di legittimare la propria
sovranità sul fatto che le popolazioni che rientrano sotto la loro giurisdizione sono omogenee:

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o dal punto di vista culturale, o da quello religioso. Ciò non corrisponde mai a verità, perché
entro i confini degli stati vivono sempre comunità con lingue, culture e tradizioni differenti.
Infine, sono numerose le aree del pianeta contese tra stati. Tuttavia, il solo fatto che oggi il
planisfero sia interamente coperto di stati, significa che lo stato è l’istituzione ufficialmente
riconosciuta come preposta al governo dei popoli. Ma, ovviamente, non è sempre stato così.
Sino all’epoca della decolonizzazione la maggior parte delle comunità umane era organizzata
su basi non statuali. Sebbene lo stato nazionale sembri essere oggi surclassato dalle forze della
globalizzazione, esso rimane il punto di riferimento dei discorsi politici in campo internazionale.

Prima degli stati: i potentati. Tra le forme di organizzazione politica che possono essere
considerate antecedenti allo stato vi sono quelli che gli studiosi di lingua inglese definiscono
“chieftainship”, e quelli di lingua francese “chefferie”, due termini difficili da tradurre in italiano.
In italiano infatti è invalso a lungo il termine “dominio”, al cui posto potremmo adottare quello
di “potentato”.
Il potentato costituirebbe una specie di condizione politica “intermedia” fra la tribù e lo stato.
Nel caso del potentato l’esercizio del potere tende a rivestire un carattere molto più formale
che in una tribù e l’autorità di un capo tende a non fondarsi più sul consenso, mentre le
funzioni politiche tendono a trasformarsi in cariche più o meno stabili a carattere ereditario. La
comparsa del potentato nelle società a struttura segmentaria può ad esempio essere dovuta
alla presenza di un lignaggio dominante il cui “capo” viene ad esercitare un’autorità spesso
indiscussa, autocratica, che si accompagna a un potere coercitivo effettivo sul resto della
comunità.
Ogni potentato potrebbe essere rappresentato come l’insieme di più segmenti, ciascuno dei
quali corrisponde ad uno o a più gruppi di discendenza, patri o matri lineari, o a discendenza
doppia o cognatica.
Un potentato può costituire un nucleo politico intra-tribale o sovra-tribale. Nel primo caso,
quando il potentato emerge in seno a una tribù, quest’ultima perde quella coesione che le era
invece caratteristica quando era costituita da segmenti autonomi ma pronti a unirsi in caso di
minaccia esterna. Nel secondo caso invece, il potentato può costituire una struttura inglobante
comunità segmentarie e non, tribali oppure fondate su altre forme di organizzazione, come ad
esempio le bande delle società acquisitive. Anche il potentato ha subito profonde modificazioni
o è scomparso del tutto.
In definitiva, ciò che accomuna il potentato all’organizzazione tribale è l’importanza dei legami
di parentela e dell’anzianità come fattori regolativi dei rapporti sociali. Le società a potentato si
distinguono però da quelle “tribali” per alcuni importanti elementi tra i quali: 1) lo sviluppo di
un progressivo accesso differenziale alle risorse; 2) la comparsa del principio della loro
“ridistribuzione”; 3) il fatto che quella di capo cessa di essere qui una pura funzione per
diventare una vera e propria “carica”.
1)Accesso differenziale alle risorse e stratificazione sociale: Nelle società organizzate sulla base
del potentato si assiste a un processo di differenziazione tra i gruppi di discendenza, processo
per cui la carica di capo tende ad essere trasmessa definitivamente all’interno di uno stesso
gruppo o lignaggio. Il potentato corrisponde infatti alla comparsa di “lignaggi aristocratici”.
Contrariamente a quanto accade nelle società tribali, nei potentati i lignaggi non sono tutti
“giuridicamente” eguali, neppure in via teorica. I lignaggi tendono invece a disporsi in una
gerarchia di rango a seconda della distanza che, attraverso la linea di discendenza, li separa

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dall’antenato fondatore. Un tipico caso di questo tipo è lo “hapu” dei polinesiani, un gruppo di
discendenza cognatico: lo Hapu dei Maori pre-coloniali era internamente distinto in lignaggi di
alto, medio e basso rango. Presso i polinesiani, per poter aspirare alla carica di capo,
bisognava dimostrare di possedere il rango più alto, il che comportava una minuziosa e difficile
ricostruzione della genealogia che doveva stabilire l’appartenenza dell’aspirante capo alla linea
“anziana” o aristocratica del clan. In Polinesia gli uomini erano considerati superiori alle donne,
ma un uomo di un lignaggio medio era socialmente inferiore ad una donna di un lignaggio di
alto rango. Ciò faceva si che in alcuni casi fossero le donne a risultare le legittime detentrici
della carica politica. Questa differenza di rango corrispondeva ad una forma di controllo sulle
risorse, esercitata dai lignaggi di rango superiore.
2)Ridistribuzione: nel caso dei potentati si ha una prima forma di circolazione dei beni regolata
da un’autorità centrale. Si tratta di una circolazione articolata in due fasi principali: in una
prima fase una parte dei beni prodotti dai gruppi inclusi nel potentato vengono convogliati
verso il capo che, in una seconda fase, ne ridistribuisce la maggior parte alla comunità
attraverso feste, banchetti,… Queste ridistribuzioni avvengono spesso in una forma non molto
diversa da quella che abbiamo visto a proposito dei “big-men” melanesiani. La “ridistribuzione”
come appunto questa seconda fase viene definita, ha qui anche un aspetto funzionale, nel
senso che permette di regolare il flusso dei beni tra comunità le quali non sempre avrebbero
tendenza a sviluppare relazioni di scambio in maniera spontanea. La ridistribuzione è
considerata dai membri di queste società come un “dovere morale” del capo dal momento che
nei potentati le relazioni politiche sono ancora largamente improntate all’ideologia della
solidarietà tra gruppi uniti da un legame di discendenza comune. Allo stesso modo l’offerta di
beni al capo è considerata un dovere morale da parte dei suoi sottoposti. Risulta difficile
considerare i potentati come forme di organizzazione del tutto distinte e autonome da
formazioni politiche di altro tipo. Tuttavia è impossibile dire dove si trovi esattamente lo
spartiacque tra tribù e potentato in quanto molte delle società tribali rivelano tratti
caratteristici del potentato: stratificazione, accesso differenziato alle risorse, principio
ridistribuivo e potere autocratico. Per contro, i potentati presentano spesso caratteristiche
tipiche delle società tribali tra cui, in primo luogo, il valore sociale della parentela.

3)Gli stati: In quanto specifica forma di organizzazione politica, lo stato possiede alcune
caratteristiche peculiari, le principali delle quali sono: a) un’autorità altamente centralizzata; b)
un apparato burocratico-amministrativo sviluppato; c) la prerogativa esclusiva di emanare
leggi; d) il monopolio della forza come mezzo per far rispettare le leggi sul piano interno e
come mezzo di confronto con entità ostili esterne. Le società organizzate su base statuale
presentano: a) un accesso alle risorse ancor più differenziato che nelle forme di organizzazione
politica sin qui considerate; b) una stratificazione sociale accentuata; c) la sostituzione dei
legami di parentela come criterio regolatore delle relazioni sociali con rapporti di tipo
“impersonale”.
Molti degli stati esistenti fuori dell’Europa in epoca pre-coloniale erano stati “dinastici”. Si tratta
di stati nazionali nel senso che sono riconosciuti come tali presso l’ONU e da parte di altri stati,
ma che sono retti da stirpi ereditarie fortemente autocratiche (Arabia Saudita, Yemen,
Brunei,..).
La stessa idea di stato nazionale ha avuto, nella storia, diverse interpretazioni: una di queste si
fonda sull’idea di omogeneità linguistico-etnico-culturale della popolazione abitante entro i

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confini dello stato medesimo. Si tratta dell’idea “nazionalistica. Un’altra idea di stato nazionale
si fonda invece sull’idea che lo stato nasce da un “patto” tra diverse componenti culturali e
linguistiche ma che, ciononostante, promuove una propria politica ispiratesi a leggi valide per
tutti, indipendentemente dalle differenze di lingua, religione, cultura,… delle popolazioni
comprese entro i suoi confini. Un elemento accomuna tutte queste idee di stato nazionale, e
cioè l’idea che lo stato non ammette alcuna forma di autorità che, dall’interno, si ponga in
concorrenza con esso.
Lo stato e le altre forme di organizzazione politica: uno stato può di fatto incorporare dei
potentati, e anche delle tribù e delle bande. Nelle formazioni politiche precoloniali lo stato
poteva limitarsi a imporre a tribù e potentati tributi periodici, e a considerarli potenziali alleati
o potenziali nemici a seconda delle circostanze. Non si deve infine dimenticare che in molti casi
le potenze coloniali europee conservarono appositamente alcuni stati e potentati presenti sui
territori da esse conquistati. Il caso classico è quello del colonialismo britannico che, in Africa e
in India, mantenne al potere capi, principi e re, i quali potevano rimanere al loro posto
amministrando la giustizia sulla base di leggi proprie, ma subendo un regime di “libertà
controllata” che, nel linguaggio dell’amministrazione coloniale, suonava come “indirect rule”,
ossia “guida indiretta”. Oggi le cose sono tuttavia assai più difficili; queste regioni sono infatti
spesso sotto il controllo di fatto di altri stati o di “signori della guerra”locali, tra cui anche degli
ex capi tribali.

3.4 Un “racconto” sulle risorse e sul potere

In un mondo sempre più globale, nel quale le risorse del pianeta sono sfruttate a vantaggio di
una minoranza dei suoi abitanti, ripensare il rapporto tra la gestione delle risorse e gestione
del potere significa, in un certo senso, riconsiderare il futuro stesso del genere umano; questo
viene spesso rappresentato attraverso i miti. Questo mito riflette la lucida consapevolezza che
gli Yanomami hanno del rapporto che esiste tra l’uso delle risorse e il potere che le controlla. Il
racconto che segue è opera di un capo degli Yanomami e parla di come lo spirito-vapore
Xawara, rilasciato dal sottosuolo durante la ricerca dei minerali, porti la distruzione per tutti,
gli Yanomami e bianchi.

<< Questa cosa che noi chiamiamo Xawara veniva tenuta nascosta molto tempo fa dai nostri
antenati, nelle profondità della terra. Ma oggi i bianchi sono stati presi dal desiderio frenetico di
tirare fuori questo Xawara dal profondo della terra. Xawara è il nome dell’oro. Quando
quest’ultimo rimane nelle fredde profondità della terra, non è pericoloso. Quando i bianchi
estraggono l’oro, lo bruciano, lo girano sul fuoco, questo fa venire fuori il fumo da esso. E’ così
che Xawara, che è il fumo dell’oro, si diffonde non solo dove vivono gli Yanomami ma anche
nelle terre dei bianchi. Quando il fumo raggiunge il centro del cielo, quest’ultimo e la Terra
iniziano ad ammalarsi. Per gli Yanomami questo significa che i numerosi sciamani Yanomami
morti verranno a vendicarsi: vorranno vendetta, taglieranno il cielo a pezzi facendolo crollare
sopra la terra; faranno anche cadere il sole, la luna e le stelle, diventerà tutto buio. Noi
vogliamo dire ai bianchi tutto questo, ma loro non ascoltano …>>.

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