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L’URLO GUERRIERO DI ATENA NELLA MOUSIKÈ DELLE PITAGORICHE:

DECOSTRUZIONE COME GENERAZIONE DELL’IDENTITÀ IN RELAZIONE

CAROLINA CARRIERO
(ACCADEMIA DI SCIENZE UMANE E SOCIALI)
CAROLINA_CARRIERO@LIBERO.IT

La nostra riflessione ci sospinge al delta di Delfi ovvero a quel cominciamento


duale del logos (altro dal dualismo filosofico maschile/femminile e dalla sua
violenta neutralizzazione della “differenza”) ove incontriamo Socrate al cospetto
di Diotima ed entrambi al cospetto della verità, nel centro sacro del mondo. È
questo il delta della cultura europea in virtù della sua complessa elaborazione e
decostruzione della soggettività quale identità nella differenza, asimmetria e
distanza nella prossimità entro il valore dell’essere in relazione. Il riconoscimento
dell’alterità che, con Julia Kristeva, desidera “vivere diversamente” quale diritto
alla singolarità, sarebbe dunque un guadagno europeo volto a “un’altra pratica
politica”, rispettosa di quella nostra debolezza “che ha come altro nome la nostra
estraneità radicale” (2014: VII-IX; 207).
Eppure.
Entro la logica dell’inclusione e del ri-conoscimento, altra da polemos e dalla
sua sete di potere e dominio, decisivo è stato l’apporto delle donne già a partire
dalle prime filosofe del VI secolo a.C. Sono infatti loro che, “estromesse” dalla
politeia, inaugurano un’idea di cittadinanza fondata sulla pietas in virtù della
forza eversivo-creativa (e per questo guerriera) dell’auctoritas femminile. E ciò fa
pensare. Così come ci riguarda e interpella il fatto che i loro scritti, pervenutici nel
genere epistolare o come frammenti di lavori più organici, siano ancora poco
conosciuti o spesso stravolti da traduzioni che fanno violenza ai testi stessi. Tale
violenza si inscrive in quel più ampio e complesso dualismo orfico che ferisce il
cominciamento duale realizzando, entro un logos disincarnato che disprezza il
vivente, il primo atto bellico dell’uomo contro se stesso. Polemos presiede infatti
dall’inizio come crimine e vendetta nel mito cretese, prima antropogonia orfica, di
Dioniso Zagreo smembrato dai Titani in quel peccato di hybris che (smisurata
volontà di dominio nel fagocitare-neutralizzare l’alterità nell’Identico) causò l’ira
divina (Zeus che fulmina i Titani sta per l’atto violento della nascita umana dalle
loro ceneri). Entro questa (titanica) gestazione e furiosa (divina) vendetta si
realizzano generazione e parto di un uomo cui è sottratta la madre: la sola
presenza femminile è infatti quella di Atena che, salvando il “cuore” di Zagreo,
consentirà una “seconda nascita” al bambino-divino. La dea conosce infatti la
gravità di tale usurpazione: Metis, la madre, è fagocitata da Zeus; dopo una
gestazione nel dolore (era infatti per il padre solo “un grande male nel cervello”,
Luciano, Dialoghi VIII) è partorita con atto violento (il martello di Efesto sul
cranio di Zeus) e accudita da chi le avrebbe poi intentato uno stupro (l’atto
incestuoso di Efesto). La ferita dell’assenza, negazione di una nascita materna,
sarà allora la sua innocenza urlata nell’atto (che è la sua ri-nascita) di intonare la
pirrica: la civetta infatti non si alza in volo al tramonto ma ben prima,
accompagnando il passo di una dea armata di sapienza.
Polemos dominerebbe dunque dalle origini la storia di Europa1. Entro
l’estenuante volontà di rimozione della nascita (Zagreo è un dio-bambino che vive
solo in virtù della sua ri-nascita per autorevolezza femminile) il rimosso tornerà
sempre per il “corpo” della donna e per il corpus della sua produzione filosofica.
Lungo il suo sviluppo, che profondamente solca e ferisce la storia della filosofia
occidentale, il mistero del male quale sua originaria presenza nell’uomo si risolse
infatti in rifiuto del vivente e in guerra al corpo (femminile) che tale vivente
genera
Nel logos disincarnato polemos ha officiato il battesimo violento di Europa.

1. VIOLENZA DELLA RIMOZIONE ED “ESTRANEITÀ” FEMMINILE: IL GUADAGNO


DELLA “DIFFERENZA”

Atena, esclusa dal nascere e dal cum-vivere (dei filosofi) ma che pure presiede
a quello dei sapienti, da tale distanza destruttura il flusso vociante del logos
1
Cfr. Zambrano (1999).
inaugurando, nel suo intervallo muto, la soggettività quale identità in relazione.
Atena, che ritma il silenzio danzando la pirrica attorno al primato autoreferenziale
del logos, è infatti un silenzio-assente ovvero una parola altra non funzionale alla
violenza patita. Nel suo grido, che è logos e non lalein, si inaugura un modo altro
dalla violenza della guerra per “dire” la forza propulsiva del nuovo quale
categoria della nascita o dissonanza radicale, femminile, che procede da altrove.
Altrove dalla caparbia ostinazione di obliare una colpa a noi estranea che pure,
misteriosamente, ci appartiene (nessun uomo può dirsi immune da colpa). Atena
che procede da dolore è guerriera perché distante, e dunque destabilizzante, anche
nella scelta di aver cura del vivente (di quel figlio concepito nella violenza, ma
accolto nella cura, cui darà nome Erittonio ovvero eris = “lotta” o érion = “lana”:
“tessere” come “lottare” nelle crepe del quotidiano). È così che la dea della
sapienza e della guerra ordinata, altra dalla violenza di Ares, nel proteggere le arti
e i lavori femminili farà della creatività la modalità del combattere propria delle
donne. Anche la sua verginità non è per noi a favore del padre Zeus-Polemos ma
di quella estraneità all’ordine (violentemente) dato che rinveniamo, con Angela
Putino, nel nesso fanciulla-guerriero:

La fanciulla rimane distante: nulla della libera invenzione di sé troverà ascolto nel
mondo sociale. Lei è il nuovo perché non si è ancora pronunciata; è una riserva
nascosta e sconosciuta […] È l’invenzione femminile, il divenire, che circola
attraverso il guerriero: l’uomo di guerra assorbe non la naturalità della giovinezza
della donna, ma la combinazione di intensità e di segni, in questa presenti, asimmetrici
rispetto al sociale e che non si intendono con le significazioni date (1994:187).

La discendenza di Atena include donne violentate, barattate o mutilate come


Filomela che pure intesse su stoffa – dalla dea ha appreso l’arte del ricamo – la
storia altrimenti indicibile della sua violazione: un racconto che in eterno
risuonerà come stridio inarticolato di rondine, ferita nel linguaggio. E allora figlie
della pur vergine dea saranno propriamente le filosofe procedenti dall’assenza,
ovvero entro una tradizione culturale che vive della loro rimozione, e già ferite
nell’auto-espropriazione linguistica. La discontinuità (storica) del loro filosofare
non procede dallo sguardo oggettivante di Orfeo, piuttosto da un sentirsi nella
prossimità della differenza quale intima dissonanza o sapienza del difforme, atto
forte che non teme il chaos per risospingerlo velocemente nell’ordine dato. Il
pensiero femminile ha infatti da sempre, nel suo momento produttivo, un intimo
legame con un particolare tipo di piacere generativo (non conformativo)
dell’esistente modulato tra επιθυμία (“desiderio”) e μηδέν (“nulla”). L’idea
platonica del non-essere come alterità dell’essere [Sof., 242 d], nella poiesis e
aisthesis delle donne, si traduce come desiderio dell’assenza quale affrancamento
dalla nozione di alterità intesa come nulla, o negazione, dell’essere determinato.
La scrittura delle donne, quale pratica di auto-liberazione, non assume per sé la
“forma” (codice di un ambito culturale estraneo ed estraniante) ma da sé trae la
sua configurazione entro un’esperienza creativa con-forme alla semplicità
dell’ordine. Qui ritroviamo abilmente intrecciate, e trasformate, l’idea di forma e
di “creatività” a partire dalla dissoluzione di un kosmos quale atto di non adesione
al mondo patriarcale dato. Tra chaos e rigidità del canone le donne realizzano una
“centroversione” per la quale l’individuazione può sostare nella ricognizione
significativa del pensiero riflettente. È questa è una parola che assume la frattura
orfica per inabissarsi lì dove riposano, nascoste ma feconde, le radici 2 del proprio
smarrimento e ritrovamento. L’individualità, riconosciuta come novità della
diversità, traduce allora la katabasis pitagorica nell’anabasis dell’assenso materno
quale inaugurazione simbolica del mondo: l’incipit è infatti la nascita che
dissolve, e non segue, la colpa originaria.
Contro il dualismo orfico, che relega la corporeità nell’inconsistenza
dell’ombra (sepolcro di un’anima sradicata dal grembo di donna o infausto
inabissamento nel tempo della nascita) le Pitagoriche rivendicano la gratitudine
per la vita. Nel loro fitto carteggio con giovani spose e madri oppresse dal
misogino “disordine” sociale e per mezzo dell’autorevolezza nell’asimmetria della
relazione stabilita (non sostitutiva di quella materna), la loro iniziazione filosofica
al senso del nascere e del morire le rende prime educatrici delle donne entro un
pensiero altro da polemos. Dislocandosi fuori dalla prospettiva bellica e
2
Il nesso tra immagini dell’intimità e pulsione inconscia, secondo l’analisi di Bachelard (2007) nel
pensiero femminile è l’atto performativo di un desiderio dell’assenza senza rimpianto della
mancanza, come discusso in Carriero (2012).
procedendo dalla personale esperienza generativa dell’essere-corpo, in quanto
soggettività in relazione per genealogia o esperienza filiale, le Pitagoriche
interpretano infatti in modo altro il mito cretese, fondando nella categoria della
nascita la generazione del “nuovo”. Entro la logica inclusiva dell’affermazione e
del riconoscimento di sé in relazione all’altro, volontà dell’amore grato al vivente,
queste traducono il conflitto in pratica propulsiva di novità entro il quotidiano. Il
loro percorso procede da una forza guerriera che, non distruttiva ma generativa,
dispiega lo slittamento e il guadagno di un punto esterno (ai poli antagonisti in
lotta) ed estraneo (al conflittuale sistema dato). L’assunzione del dolore che tale
scissione comporta, estranea alla violenza della sua rimozione, procede da due atti
liberi: volontà di porsi in ascolto dell’altro (akuo è l’incipit delle lettere di Teano)
come riconoscimento nell’identità del proprio corpo di donna e della prossimità
maschile nella differenza e libera volontà di accogliere, entro tale patire, un senso
donato. È questa la profonda comprensione che tale scissione sia in sé dolorosa
perché bisognosa di ricomposizione: sarà allora la corporeità negata
(nell’equazione dispregiativa donna = materia o chaos informe) la “terra” da
assumere e riscattare per il suo superamento. Se nell’orfismo la ferita richiede la
purificazione della colpa nella rimozione di una hybris titanica nelle Pitagoriche,
invece, necessita di accoglienza entro un nuovo ieròs logos fondato sull’amore.
La corporeità negata diviene allora corporeità consacrata, ovvero intimamente
legata al divino tramite la Grande Madre che sopravvive nel culto di Demetra e
nelle più antiche, “pre-filosofiche”, laminette auree. Alla terra è legata già Atena
che non fa dono di un cavallo (da guerra), al contrario dell’irato Poseidone,
piuttosto dell’olivo che è frutto della generosa terra, nutrimento e sostegno per il
vivente. Il suo essere guerriera è infatti espressione di una forza che, tra i suoi
molteplici riferimenti alla Dea Madre, “resiste al fuoco e alla violenza” [Erodoto,
8, 55, 1] per il connaturale elemento terrigeno poiché “ha il cuore profumato di
viole e canti mietuti a primavera” [Pindaro, Ditirambo 2 e 3]. Entro un continuo
gioco di nomi, tutti riconducibili alla terra, è Cecrope (per metà umano e per metà
serpente) il primo re degli Ateniesi-Cecropidi (kerkos = “coda”, serpente, ovvero
animale terrigeno per eccellenza) 3. Alla terra è legata profondamente Teano (VI
secolo a.C.), allieva e quindi moglie di Pitagora la cui esistenza e produzione
filosofica è ampiamente testimoniata4. Teano, nella sua Lettera a Eubola, ricorda
l’antitesi Atena(Terra)/Titani(Fuoco-Polemos) in riferimento alla mietitura e
all’ulivo: “Come le viti male nutrite diminuiscono nei frutti”, karpòn nel senso di
“frugifero” è il “portar frutto” di Demetra, così i “figli generano stupidità e
tracotanza”. Questi figli sono tutti gli uomini che obliando la propria nascita si
volgono oltre la terra intentando un’eterna battaglia contro sé in quella che, per
Hannah Arendt, sarà la negazione della “vera quintessenza della condizione
umana” (1964, 1988: 2). Della sua Lettera a Nikostrate (una donna affranta per i
tradimenti del coniuge) voglio invece qui ricordare soltanto il monito con cui la
pitagorica, dopo averla esortata a non essere gelosa (zelotupèis sta per
“rivaleggiare nella dismisura”) facendosi trascinare dalla “malattia” del marito
(nosos come “disordine”), conclude il suo scritto: “Se così non farai resterai sola,
come una non presa”. Tale restare sola sta per l’unità senza la dualità o esclusione,
nell’Identico, dell’enumerazione che dal chaos ha strappato l’inaugurazione
femminile dell’ordine. La comprensione femminile dell’essere-corpo, ove la
corporeità è il “luogo” delle relazioni interpersonali, assumerà il mistero profondo
dell’integrità umana in Perictione (siamo nel secondo pitagorismo) oltre lo
struggimento orgoglioso dell’anima ed entro la caducità del corpo che insegna la
“forza della resa”. È tale umiltà che, nella rilettura femminile del mito cretese,
vince la tracotanza dei Titani per ricordarci che la verità è custodita, non tradita,
nell’omphalos di cenere bianca che accoglie il mistero di una vita donata per
essere fruita e non violata. Il corpo diviene allora, in Aesara di Lucania
(contemporanea di Aristotele) la modalità fondamentale dell’essere in relazione
fino ad accogliere il male (che ci inabita come antica ferita, che proviene
dall’altro e che agita il respiro del vento e di ogni essere vivente che abita la terra)
per riscattarlo nel “perdono”. È questa una novità che, procedendo da un libero

3
Cfr. Del Corno, 2001:12-20.
4
Tra i vari frammenti e riferimenti a Teano ricordiamo Clemente Alessandrino (1979); Diodoro
Siculo (1890); Diogene Laerzio (1983); Luciano (1991); Mullachius (1982); Stobaeo (1840); Suda
(1933); Mènages (1690).
atto di assunzione, ritraduce l’ordine pitagorico dell’arithmos in esperienza
oblativa e riscatto d’amore. In tale “categoria dell’amore” non vi è sguardo
oggettivante che respinga nell’Ade l’altro da sé (come per Orfeo/Euridice),
piuttosto l’incontro di chi accoglie lasciandosi incontrare, con Hélène Cixous,
nelle “transfigure della differenza”:

È la storia dell’amore ad avvincermi, cioè la storia dell’altro e del suo altro. Non
Rinaldo e Armida, la Coppia-Stessa. Ma gli altri, gli straripanti […] capaci l’uno e
l’altra di andare, a costo della vita, per amore della verità, per l’amore, al di là delle
proprie forze, fino all’Altro – il più lontano, il più vicino. I due sempre-altri che osano
compiere l’Uscita (2000: 57-58; 77).
.

L’armonica consonanza tra domestico-privato(femminile) e pubblico-


politico(maschile) nella pietas non giustifica, piuttosto sovverte, lo status quo del
potere della polis (Teano, Miia e Arignote) poiché la “concordanza” musicale
pitagorica è ora intesa come esperienza di un arithmos dispiegato nel modo della
corporeità. È questo un logos che, con María Zambrano, non mantiene
rispettosamente a distanza “ciò con cui non sa trattare”, piuttosto “sente” la realtà
tra prossimità ed eterogeneità perché se la “pietà è saper trattare col mistero […]
la guida per non perderci in lui è la Pietà” (2011: 38).
Nel Novecento l’identità in relazione, già inaugurata dalle Pitagoriche, sarà il
guadagno della decostruzione contro la soggettività quale reductio ad unum o
volontà totalizzante dell’Identico. Il cammino delle donne recherà sempre, entro la
necessità del suo superamento, la ferita di questa dolorosa scissione (patita anche
a livello psico-somatico nel dissidio testa-pensiero/nutrimento-corpo). Sarà
questo, ad esempio, il percorso di Simone Weil – non a caso attenta studiosa del
pitagorismo – articolato nella pratica dell’“attenzione” quale riscatto dalla
lacerante “disattenzione” per sé. Nelle prime pagine della sua Autobiografia
spirituale leggiamo infatti che quello stato di profonda desolazione, vissuto
nell’adolescenza, fu il patimento di una lacerazione intesa come disattenzione per
sé, esclusione che la portò inizialmente a sospingere la verità (di sé) oltre se
stessa. Fu allora la pitagorica pratica dell’attenzione, quale “attesa” di un ordine
che è ritrovato ordine di senso, a realizzare il superamento di tale distanza fino
alla comprensione, etica e politica, che persino nella rivendicazione dei diritti
umani possa celarsi polemos quale potere totalizzante dell’Identico. Con la forza
incisiva della sua scrittura, incompresa dagli intellettuali della France
combattante, si volgerà allora ai doveri del cittadino quale compimento
dell’intima adesione agli “sventurati”, ovvero a coloro che non si impongono (per
volontà di dominio) all’attenzione altrui.

Esiste una sola possibilità di esprimere indirettamente il rispetto verso l’essere umano:
essa è data dai bisogni degli uomini che vivono in questo mondo […] Non vi è
concorso di circostanze che possa mai sottrarre nessuno a quest’obbligo universale
(2013:23-24).

2. LA PRATICA QUOTIDIANA DELLA DISSIDENZA CREATIVA

Il dispiegare una forza esterna al sistema dato fu per le Pitagoriche esercizio di


un atto forte di inaugurazione del bene entro la categoria dell’amore, affermazione
e pieno riconoscimento (che sostanzialmente è gratitudine) di sé in relazione
all’altro. La condizione di oppressione femminile fu lo status quo da cui prendere
le distanze – l’altrove cui rinvia l’azione guerriera – indagandone preliminarmente
la funzione socio-politica. La comprensione profonda di sé richiese la serietà di
uno studio filosofico che è pensiero dissidente nell’atto di indagare la differenza
per una nuova fondazione della “legge” e della “giustizia sociale”. Tale amor
sapientiae si realizzò come una sorta di esichia quale ricerca dell’unico
necessario entro l’ontologia dell’arithmos pitagorico per dischiudersi, infine, alla
giusta conduzione del governo. Con Agostino, che a Pitagora direttamente si
riferisce, soltanto il sapiente sa infatti evitare gli scogli e se anche tutto venisse
meno egli stesso diventerebbe “uno scoglio per quei flutti” [De ordine, II, XX,
54].
Il libero atto di restare nelle situazioni di tensione senza indulgere alla de-
realizzante “immaginazione” weiliana condusse verso quell’armonia che,
filosoficamente, è ordine del mondo e di senso nell’essere condizione della sua
intelligibilità. Convertendo polemos in conflitto (quotidiano esercizio di
dissidenza creativa nella generazione del nuovo) le Pitagoriche guadagnarono una
distanza che è potente autorevolezza ovvero “indipendenza”, “riconoscimento” e
“rispetto” secondo la distinzione arendtiana tra potere, potenza, forza, autorità e
violenza entro un’idea di politeia non riducibile a mero esercizio del dominio
(1970: 39-52).
Così Aesara di Lucania, nel suo scritto La natura umana5, procede dall’analisi
e struttura dell’animo per delineare la vera natura della legge e della giustizia
sociale: la consonanza tra privato-domestico(femminile) e pubblico-
politico(maschile) avverrebbe per enumerazione e ordine. Tale consonanza rinvia
all’estetica musicale pitagorica che distingue tra essenza dell’arte (la musica
fondata sulla proporzione) e i suoi effetti sull’uomo (la musica come potenza che
agisce nel fruitore). La psychagogía propria della musica e della danza (che per
noi sono la pirrica di Atena nella mousikè pitagorica) procede al ritmo di
evocazione e sentimento perché, con Tatarkiewicz, “movimenti e suoni esprimono
sentimenti e, viceversa, li evocano. I suoni trovano eco nell’anima, la quale
risuona in armonia con essi” (1979: 111). Enumerazione e ordine sono la
qualificazione etica dell’arithmos nel significato eversivo della pietas: accordo
sublime di sublimi trans-differenze. Le parole di Aesara ridanno voce a Thalìa, la
musa del silenzio notturno e della terra che partecipa dell’universo musicale con
le sue pause perché è di Demetra il suo soffio vitale.
La non comprensione di sé, della propria natura generativa di relazioni
intessute d’amore, è per Aesara un atto di deresponsabilizzazione che conduce la
donna – in ogni caso “matrice” – a fare violenza al kosmos innescando “discordia”
e “disordine” fino alla sua implosione in chaos. Una donna che non medita e
riflette sulla propria identità in relazione muove guerra all’universo
distruggendone il fondamento, sovvertendone cioè quel principio morale che è
composita unità di quanto tende alla perfezione. Lo studio filosofico, al contrario,
rivela la piena corrispondenza tra struttura triadica di legge-giustizia e natura
dell’animo (articolato in “facoltà intellettiva” o giudizi analitici, “vivacità” o forza
e abilità e “desiderio” o amore e gentilezza). Il meta-principio della concordia o

5
Tra i vari studi rinvio soprattutto a Thesleff, (1965) e a Waithe (1987).
proporzione appropriata sovrasta qui ogni principio di natura legislativa o sociale
in quanto corrispondente alla parte forte dell’animo a sua volta connessa sia con
quella affettiva (da cui legge e giustizia compassionevoli e secondo “pietà”) sia
con quella intellettiva (il coraggio inteso come forza che guida l’azione secondo
ragione). Conoscenza di sé, auto-dominio ed esercizio delle proprie funzioni si
oppongono all’ordine precostituito se questo non corrisponde al meta-principio
della concordia: è infatti l’amore che, inaspettato, depotenzia la polis per una
politeia fondata sul perdono quale amore unilaterale (senza aspettativa di ritorno),
compassione per l’altro e stima di sé procedente dal ri-conoscimento del valore
della propria natura. Il punto esterno così guadagnato possiede una forza
propulsiva sia perché inaugura un nuovo modo di intendere il conflitto entro il
quotidiano (lo status quo socio-politico) sia perché, liberamente, assume il male
(la discordia che fa guerra agli uomini e al mondo) per rigenerarlo in bene. Il
desiderio è dunque un principio vitale che sovrasta l’anelito distruttivo di
polemos: sentimento, piacere e amore sono così il punto esterno che sovverte il
disordine dell’uomo(filosofo) autoreferenziale riflesso, narcisisticamente, nel suo
disordine socio-politico.
Anche Perictione I (vissuta tra il IV e II secolo a.C.) nel suo scritto L’armonia
delle donne, pur non volendo esplicitamente sovvertire l’ordine dato, nell’incitare
proprio le donne a dedicarsi alla vita filosofica provoca uno slittamento del
concetto di giustizia verso quello di pietas quale onore e rispetto per sé e per
l’altro. Il mondo femminile, per aver generato le relazioni sociali nella cura
domestica e religiosa, ne conoscerebbe l’intima natura: la vita filosofica diviene
così una pratica esercitata nella comprensione e nel controllo di sé in virtù di
“coraggio” e “giustizia”. Il riconoscimento apparente dei ruoli sociali subisce,
attraverso lo studio filosofico quale attenzione e discernimento proprio delle
donne, un ribaltamento politico entro un diverso – femminile – statuto morale e
sociale. Poiché la donna è il soggetto che fonda le relazioni interpersonali, in
quanto perno della famiglia, è suo il compito di comprenderne la natura a partire
dalla soggettività in relazione: a lei spetta la responsabilità etica di fondare un
modo altro dal potere della polis di intendere la politica a partire dalla pietas,
ovvero secondo sacri vincoli intimamente vissuti. È infatti la passione del
pensiero che intende l’ascolto come urgenza a ob-audire: essere in ascolto
dell’altro perché preliminarmente coinvolti e sconvolti (decentrati) dalla sua
prossimità che è presenza e distanza nell’asimmetria della relazione. E così la
sacralità dei genitori, in Perictione, si esprime nella cura divina a loro dovuta
quale abito (decoro e ornamento) di una pietà più bella della stessa “visione del
sole e di tutte le stelle che il cielo indossa e fa roteare” (fr. 1). Pietà e mistero del
divino sono la prima radice della mousikè pitagorica tra etica ed estetica (a
ricordarci il nesso mantica-pitagorismo sono già Diogene Laerzio e Porfirio) e più
profondamente tra filosofia e mistica. La pietas quale sorgente e via per l’incontro
con l’altro da noi, las entrañas di ogni sentimento e bellezza per la Zambrano, è
infatti per Perictione intima esigenza di intessere relazioni armoniose (o
corrispondenze armoniche) ordinate da amore. Si inaugura così un nuovo ieròs
lógos nella rivelazione che la più nobile via catartica sia il rispettoso, amorevole e
compassionevole, essere-accanto dei viventi. Tale purificazione quale sapienza
d’amore, atto di libertà e non di “vuotezza” che, per Edith Stein6, sarà
l’implosione dell’infinità interiore nella dispersione della mera possibilità, tornerà
per María Zambrano come storia di una coscienza immemore di sé: “Man mano
che l’uomo ha creduto che il suo essere consistesse in null’altro che nella
coscienza, l’amore si è andato trovando senza spazio vitale” (1992: 13-14). O
ancora, sempre con le sue parole, sarà la storia che incrocia il “delirio” di
Antigone nella disobbedienza a una hybris quale violazione della vita.

L’unica tragedia è l’essere nati. Poiché nascere è pretendere di rendere reale il sogno
[…] forse l’universo ci sogna come suo compimento […] nel fiore e nell’albero che si
erge, nella stessa materia estesa, sognata a sua volta, che aspira alla realtà e si mette a
servizio per raggiungerla; e che serve instancabilmente come fa l’universo, questa
domestica: serva, madre che serve fino a vedere ergersi sopra di sé l’uomo che la
calpesta, di lei dimentico. Perché l’estensione […] ombra dell’essere, deve
progressivamente divenire reale. E tutto ciò che la supera, la viola (1998: 17).

Nelle Pitagoriche le ragioni della pietas di Antigone si dispiegano in un


pensiero della cura quale corporeità del logos: pensiero dialogico bisognoso

6
Stein (1997: 53).
dell’altro non perché il soggetto si ri-conosca nella parola detta e/o ascoltata,
piuttosto perché fa proprio il bisogno dell’altro di ricevere un “luogo”
(generativo) in cui raccogliersi. La ferita di Atena è dunque riscattata nella loro
mousikè (filosofia prima) a partire da una corporeità intesa come significante del
ritorno al corpo materno: principio fondativo del kosmos nel “mettere al mondo il
mondo” (Diotima: 1990) entro un ordine di senso strappato al chaos. Possiamo
pensare che da loro ebbero inizio le prime relazioni autorevoli femminili che
forgiarono, seppure in forma embrionale, quell’ordine simbolico di autorevolezza
che nel Novecento sarà la pratica del ripensamento della soggettività nella
differenza, decostruzione dell’Identico imposto da arcaica e violenta rimozione
della nascita materna. Il loro testamento ci consegna una corporeità del logos
quale pensiero che “si dà pensiero per il vivente” e che per questo lo genera: dal
chaos della lacerazione in noi al kosmos d’amore per noi.

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ABSTRACT (CURRICULUM VITAE)

Carolina Carriero, già Docente invitata presso la Pontificia Università Lateranense


e l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna (qui anche Direttrice del Comitato
Scientifico Filosofico), è Docente presso l’Accademia di Scienze Umane e
Sociali, Direttrice delle Collane Filosofia ed Estetica (Roma: EQUIPèCO),
Curatrice della Collana di Studi Interreligiosi Caminantes (Roma: Aracne) e delle
Rubriche di Filosofia presso la Rivista «EQUIPèCO» (cartacea e on-line). Tra le
sue molte pubblicazioni: Dissonanze d’anima (Roma, 2011); Il controcanto di
Euridice (Roma, 2011); La corporeità del logos. Lineamenti di una filosofia al
femminile, (Città del Vaticano, 2012), Ricezione e narrazione di un’estetica
femminile, (Roma, 2012); Estetica al femminile. Cosmetica e kosmos (Roma,
2012); Fame mistica. Il gusto del miele eucaristico, in R. Cipriani – L. M.
Lombardi Satriani (a cura di), Il Cibo e il Sacro, (Roma 2013); Coscienza tragica
del male e responsabilità del destino nelle ‘lamine orfiche’ in Gaspare Mura (a
cura di), Il Bene e il Male nelle Religioni (Roma, 2014).

ABSTRACTS (ARTICOLI)

Entro la logica dell’inclusione e del ri-conoscimento, altra da polemos e dalla


sua sete di potere e dominio, decisivo è stato l’apporto delle donne già a partire
dalle prime filosofe pitagoriche del VI secolo a.C. Furono infatti loro che
inaugurarono un’idea di cittadinanza fondata sulla pietas in virtù della forza
eversivo-creativa (e per questo guerriera) dell’auctoritas femminile. Il loro
testamento è l’elaborazione, quale “generazione” materna, della soggettività come
identità nella differenza, asimmetria e distanza nella prossimità entro il valore
dell’essere in relazione. Nel Novecento questo tornerà come guadagno della
decostruzione filosofica volta a smascherare la volontà totalizzante dell’Identico.
ATHENA’S WAR CRY IN PYTHAGOREAN WOMEN’S MOUSIKÈ:
DECOSTRUCTION AS A
GENERATION OF IDENTITY IN RELATIONSHIPS

Inside the logic of inclusion and recognition (different from polemos and its
will of power) women’s contribution was crucial starting from pythagorean

womens of 6th Century. In fact, they developed an idea of citizenship based on


pietas under the subversive-creative power of feminine auctoritas. Their will is
the development (as a maternal generation) of subjectivity thought as an identity
in difference, asymmetry, and distance in closeness, starting from the value of

being in a relationship. In 19th Century this will come back as a gain of


philosophical deconstruction intended to reveal the all-engaging will of the
Identical.

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