Sei sulla pagina 1di 12

FAME MISTICA

IL GUSTO DEL MIELE EUCARISTICO

di Carolina Carriero

Fame di parole: un amaro banchetto

È il “desiderio” che imbandisce un banchetto di logoi1 per Socrate e Fedro lungo il fiume
Ilisso, ai piedi degli dèi Platano e Acheloo e al cospetto delle Ninfe, tra le cicale delle Muse. È il
desiderio amoroso che, nella fruizione estetica ed estatica di un banchetto per l’anima, sospinge e
congiunge lógos dialettico e ieròs lógos. In un paesaggio che tradisce il suo nucleo orfico Socrate, il
capo coperto come gli occhi socchiusi del mystes, pregusta nel cibo la beata dimora del “dolce” – di
miele – incedere lungo la “via sacra”. La fruizione estetica – aisthesis, partecipazione di tutti i sensi
– di questo paesaggio dell’anima nel suo ritorno all’origine è mossa da un desiderio che richiama,
in quanto “stellare” o proveniente da stelle, verso un “centro” che è pure da sempre anche un
“oltre”. Il desiderio, che è sapienza d’amore, mai si “sazia” nella sua origine urania che gli risplende
nell’anima come scintilla divina.

La preminenza filosofica data al senso della “vista” – conoscere come avere già visto,
ovvero “ricordare” per la dottrina della conoscenza-reminiscenza di Platone – segna però la prima
distanza, appunto ottica, tra il soggetto conoscente e l’oggetto visto-distanziato e perciò conosciuto.
Una distanza anche emotiva e corporea che, privilegiando un senso che non patisce l’oggetto,
finisce per allontanarci anche dall’approccio estetico e pienamente fruitivo di una conoscenza
mossa – e patita – dal desiderio. Eppure, proprio perché l’oggetto del “gusto” è transeunte e
incostante a differenza di quello visivo, che però è copia dell’Idea, esso sarebbe più consono alla
modalità orfica del conoscere a “occhi chiusi” del mystes fino a trasmutare, nell’esperienza mistica
cristiana, come mistico “vedere con gli occhi del cuore” 2. La contrapposizione filosofica di

1
Platone, Fedro 230 b 1-c 5.
2
Senza riferirmi all’amplissima bibliografia in merito voglio qui soltanto menzionare, tra gli studi più recenti, il saggio
sull’influenza delle immagini sacre nelle esperienze visionarie di Niccoli, O., Vedere con gli occhi del cuore, Roma-
Bari, Laterza, 2011.
sensi/intelletto e la distinzione tra sensi corporei e sensi cognitivi ha però inteso il “gusto” 3, ovvero
il senso che ci fa conoscere in modo diretto, come una facoltà cognitiva di rango inferiore: per una
corporeità negata il banchetto di logoi perde allora il “gusto” del miele. Eppure il “sapiente”, per
l’analogia sapore-sapere, può sagire ovvero fiutare (olfatto e gusto intimamente connessi) nella
dolcezza del cibo la dolce arte del vivere 4 che, per Teofrasto “parlatore divino”, ha l’odore della
natura composita della terra5. Il gusto, da cui il “sapore delle cose”, non per nulla anticipa la
verbalizzazione nella lallazione materna accompagnando, poi, il linguaggio logico-deduttivo come
nutrimento del sé psichico adulto quale primo odore e gusto materno nel ricordo. Connesso
all’analogia archetipica corpo-inconscio il simbolismo della “bocca”, come apertura e relazione al
mondo, presenta una valenza numinosa che esige protezione (nutrimento) e ornamento (decoro). A
questo si collegherà nel Medioevo il Reginem Sanitatis della Scuola medica salernitana6, entro una
categoria cristiana della nascita sconosciuta ai Greci, soprattutto nelle opere tra medicina ed estetica
di Trotula de Ruggiero (XI secolo). I suoi testi, a noi pervenuti come De passionibus mulierum e
De ornatu, riscatteranno la corporeità entro il valore della salute e del decoro femminile 7 nel
binomio nutrimento-decoro tra “latte materno” e “olio di rosa” (cosmetica che rientra nell’arte
arcaica decorativa delle donne).

Nel custodire lo ieròs lógos, che nell’archetipo femminino sta per bocca-vaso(utero)
“chiuso”, questa facoltà è dunque rimasta come serrata nella “bocca” del mystes – la pitagorica “arte
del saper tacere” – e ritualmente circoscritta nel simbolismo orfico alimentare 8, retaggio del
sacrificio incruento che inebriava gli dèi con il profumo di mirra e di erbe aromatiche 9. Ma è ancora
la bocca, le cui funzioni nutritive e linguistiche si integrano pienamente già nella pratica arcaica

3
Per uno studio sul gusto nella filosofia antica, inteso come forma di conoscenza sensibile in riferimento alle facoltà
dell’anima, vedi soprattutto Platone, Fedone (24-27); Id., Timeo (73a); Id., Gorgia; Id., La Repubblica; Aristotele, Del
senso e dei sensibili (441 a – 445 a); Id., Metafisica (980 a); Id., Dell’anima; Id., Etica Eudemia; Id., Etica
Nicomachea. Circa la superiorità dei sensi razionali e la conseguente necessità di esercitarvi un vigile dominio vedi
soprattutto Agostino d’Ippona, De libero arbitrio, II: 7,17. Per un’analisi filosofica del gusto e dell’olfatto, tra
convivialità e degustazione delle parole, rinvio ai recenti testi di Cavalieri R., Gusto. L’intelligenza del palato, Roma-
Bari, Laterza, 2011; Id., Odori e reminiscenza. Tre argomenti sulla memoria olfattiva, «ResCogitans», rivista on-line
(www.rescogitans.it), 27 settembre 2009 e Id., Annusare e parlare: la degustazione come esperienza linguistica, in
AA.VV., Sentire e parlare, Soveria Mannelli, Rubettino, 2004, pp. 21-39.
4
Detienne M. – Sissa G., La vita quotidiana degli dèi greci, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 59-80.
5
Cfr. Teofrasto, I profumi, trad. it La Vita Felice, Milano 2009. Composto tra il IV e il III secolo a.C., e forse parte di
un ottavo libro di Cause delle piante, perduto, è la prima trattazione sistematica sui profumi ripresa poi da Plinio e
Discoride (I secolo d. C.)
6
Pasca M., La Scuola Medica Salernitana, Napoli, Electa, 2005.
7
Per la centralità del rapporto con la madre nella cura e nell’ornamento del corpo vedi Milagros Rivera Garretas M., El
cuerpo indispensable. Significados del cuerpo de mujer, Madrid, Hora y HORAS, 1996.
8
Detienne M., La cuisine de Pythagore, «Archives de Sociologie des Réligions», 1970, p. 29; Id., La scrittura di Orfeo,
Roma-Bari, Laterza, 1990; Id., L’invenzione della mitologia, Torino, Boringhieri, 1983. Per l’orfismo pitagorico vedi
anche Timpanaro Cardini M., (a cura di), Pitagorici antichi. Testimonianze e frammenti, Milano, Bompiani, 2010.
9
Detienne M., I giardini di Adone, Torino, Einaudi, 1975.
della “grafofagia”10, che “ritma” entro l’ontologia dell’aritmos pitagorico il tempo dei pasti – della
convivialità – entro quello liturgico – mousikè – della “consacrazione” del tempo profano. È infatti
la bocca, nel modello archetipico del Femminile studiato da Erich Neumann 11, a costituire con gli
elementi “petto” e “grembo” l’equazione donna = corpo = vaso da cui, per la mediazione della
corporeità, segue la formula simbolica donna = corpo = vaso = mondo. Fonte del respiro e della
parola, la bocca figurerebbe allora come un utero spostato in alto che, tra simboli di carattere
“elementare” e quelli di tipo “trasformativo”, muta da “nutrimento-allattamento” (il vaso-ventre che
accoglie e nutre) a “latte di sapienza”(figure di Madri primordiali rappresentate con piccoli seni). E
allora «il mondo dello spirito, inteso come prodotto nato dalla natura creatrice, è simboleggiato nel
modo più astratto nella forma che va dalla bocca al respiro, all’alito, e infine alla parola, al Logos,
al simbolo dello spirito, il cui carattere filiale ha assunto una storicità universale nel Logos di Filone
e poi nel Cristianesimo»12. La Notte13 è così lo spirito-madre che accompagna ed eleva l’uomo dalla
caducità alla luce immortale, iniziazione ai misteri eleusini di morte e rinascita ben oltre
l’interpretazione di Bachofen14 che rinviene nel Femminino solo una materia inferiore. L’esperienza
misterica della continua trasformazione (Kore) procede infatti dalla trasformazione o cottura del
cibo naturale, processo culturale attuato dalle donne, per il quale “l’erba diviene grano e viene
mutata in pane e ostia, il legno (simbolo femminile) in fiamma e luce”.15 La cottura e la tessitura
rientrano tra i misteri del Femminile (trasformazione e conservazione del cibo e della vita nelle
prime dimore di stuoie intrecciate, nella vestizione del corpo e nella custodia del fuoco); il
“giaciglio” e il “forno”, simboli di fertilità e mistero dell’utero, nel “vaso-corpo sacro” di
trasformazione della vita. Il simbolismo del pane cotto nel “fuoco uterino”, entro il rapporto tra
corpo femminile e “campo” nei “misteri eleusini”, o tra “terra” e “grano” nel cordoglio per la spiga
che muore e rinasce, inerisce sia a colei che “cuoce” sia al suo aspetto passivo di “forno” o
“granaio” come recipiente che partecipa alla cottura soltanto col suo calore, pur controllando la
crescita e intonando giaculatorie.

10
Vedi soprattutto Cardona G. R., Storia universale della scrittura, Milano, Mondadori, 1986; Meldini P., Il nome
segreto, la grafofagia, il banchetto della parola, in AA. VV., A tavola con gli dèi. La cultura del cibo tra alimentazione
e simbologia, «Avallon», n. 36, 1996, pp. 11-15.
11
Neumann E., La Grande Madre, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1981; Id., La psicologia del Femminile, Roma,
Astrolabio- Ubaldini, 1975; Id., Storia delle origini della coscienza, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1983; Id., Amore e
psiche, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1989. Vedi anche gli studi correlati di Harding M. E., I misteri della donna.
Un’interpretazione psicologica del principio femminile, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1973; AA. VV., I nomi della Dea.
Il femminile nella divinità, Roma, Ubaldini, 1992.
12
Neumann E., La Grande Madre, cit., p. 68.
13
Id., “La luna e la coscienza matriarcale”, in La psicologia del femminile, cit., pp. 46-77.
14
Bachofen J. J., Das Mutterrecht, (Gesammelte Werke, voll. II e III), Basilea, 1984.
15
Neumann E., La Grande Madre, cit., p. 68 e pp. 269-322.
Tra oralità e scrittura ed entro il violento passaggio dal matriarcato al patriarcato, la ferita
inferta dal lógos alla corporeità femminile – ora intesa come un sapere-potere di ordine maschile –
depriva la “dimora” del corpo materno, studiato con particolare attenzione da Laura Faranda 16, della
sua forma e unità corporea. Allora il “paesaggio dell’anima” nel banchetto di logoi tradisce anche
negli occhi lucenti di Calypso – nel Fedro il lógos si snoda al cospetto delle Ninfe – un inganno
celato nel viaggio orfico di Odìsseo. Un viaggio che l’eroe affronta a “occhi chiusi” astenendosi dal
cibo dei Lotofagi, un cibo che fa dimenticare la via del ritorno, vendicando i compagni “divorati” da
Polifemo nutrendosi dell’erba magica di Circe. Non per nulla l’eroe che disprezza la terra dei vivi
scenderà nel paese dei morti, dove le anime anelano “al sangue nero fumante” 17 degli animali
sgozzati, quel cibo rituale che è l’unico pasto permesso. Una tempesta si abbatterà sulla nave dopo
il pasto sacrilego dei suoi compagni nell’isola di Trinacria e Odìsseo troverà “protezione” e
“nutrimento” proprio a Ogigia, nel vaso-corpo della ninfa Calypso. Ma tra digiuni e accecamenti
l’eroe compirà il suo viaggio misterico non fino alla sua origine urania quanto, entro un ordine
violento e patriarcale, al “possesso” di una terra patria.

Entro un retaggio culturale in cui la “voce” della donna pareva, già ai Greci, un fastidioso
“ululato di cane” (ma cos’è una parola priva di logos?) soltanto i poeti vi prestarono ascolto come
fosse il pianto notturno di donne-pernici, gli uccelli da cui trarre il ritmo e il canto del verso. Agli
uomini apparteneva il légein, la formulazione di un linguaggio compiuto secondo ragione; delle
donne era invece il laléin, ovvero lo straparlare smodato e importuno cui è preferibile il silenzio.
Alla donna che porta il peso del corpo come peso di un peccato, poiché quel corpo scisso dall’anima
è inteso come mera animalità, anzi ferinità, mancano dunque le parole. E poiché il silenzio le è
imposto quale unica via di espiazione, espiazione di sé per essere se stessa, ne segue che la modalità
di salvezza non riguardi più lei ma come un’altra se stessa che vive dell’autoespropriazione
linguistica18. Come trovare infatti le parole, riconoscerle in sé, quando il linguaggio risuona
nell’intimo come irriducibilmente altro da sé? E infatti lei non è più, poiché è nel non poter dire che
lei non è più: esclusa dal Convivio – il cum vivere degli uomini filosofi – anche il suo corpo resta
digiuno e svenuto, come solo può esserlo un corpo morto.

16
Faranda L., Dimore del corpo. Profili dell’identità femminile nella Grecia classica, Roma, Meltemi, 1996. Per un
recupero della ricchezza semantica, o “doppio registro”, del maschile/femminile vedi anche Laroux L., Il femminile e
l’uomo greco, Roma-Bari, Laterza, 1991.
17
Odissea, XI, v. 35.
18
Cfr. soprattutto Cavarero A., Per una teoria della differenza sessuale, in AA.VV., Diotima. Il pensiero della
differenza sessuale, Milano, La Tartaruga, 1987; Muraro L., L’ordine simbolico della madre, Roma, Editori Riuniti,
1991; Zamboni Ch., L’azione perfetta, Roma, Centro Virginia Woolf, 1994;
Oltre la solitudine del “corpo-sacrario”

Entro la valorizzazione anti-orfica della nascita, propria della filosofia cristiana, e


procedendo dalla centralità dell’Incarnazione – discesa di Dio nel cibo e macerazione della carne –
il “desiderio”, significato ultimo del termine “fame” nel linguaggio mistico, acquista una
complessità polisemica soprattutto se riferito all’universo simbolico dell’esperienza ascetica
femminile. Invitando la donna al banchetto di logoi operiamo, infatti, un ribaltamento non
dicotomico ma certamente dissonante entro e attraverso la nostra tradizione che intende la donna
come colei che fornisce, prepara e serve le pietanze e l’uomo come colui che convivialmente se ne
ciba. Riflettendo, seppure qui brevemente, sulla mistica femminile possiamo però rinvenirvi un
diverso rapporto cibo-parola entro il significato religioso di cibo fruito nell’Eucarestia entro e
contro il cibo rifiutato nel digiuno ascetico. La corporeità del lógos, qui assunta a criterio
ermeneutico della “fame mistica”, permette di rinvenire, entro una fruizione estetica appagante tutti
i sensi – ma soprattutto il gusto e l’olfatto – il percorso di una riabilitazione corpo-anima che, pure
inconsapevolmente, ritualmente sa trovare le parole per dire di sé. La mistica si offre infatti come il
luogo privilegiato da cui le donne hanno attinto le parole per tradurre in un linguaggio proprio, in tal
senso anti-orfico, il mistero di sé entro il Mistero che le inabita. Per la complessità della tematica
qui si individueranno soltanto due campi di applicazione del modello euristico della corporeità,
corporeità negata nella pratica alimentare e riscattata nella “degustazione” eucaristica. In particolare
ci soffermeremo sulla fame mistica quale “desiderio unitivo” entro il rapporto cibo-corpo femminile
e cibo-Corpo Eucaristico in riferimento all’originaria “ferita” del lógos e al suo superamento nella
mistica “stigmatizzazione” del cuore. Più precisamente si intenderà la fame mistica come desiderio
appagante – nella modalità del “mai appagato” propria del desiderio – opposto alla sua caparbia
rimozione tipica dell’anoressia nervosa – fino all’estroversione del corpo femminile stigmatizzato,
ovvero al rigonfiamento e all’ostentazione di quanto il retaggio culturale ha inteso negare19.

Ripercorrendo la via della conoscenza mistica nell’ascetismo femminile, volto non tanto a
una visione quanto a una mistica (mueo = vedere a occhi chiusi) partecipazione corporea di Dio,
confuteremo la tesi secondo la quale il cibo, legato simbolicamente alla corporeità, sia orficamente
rifiutato anche nei digiuni ascetici quale espressione di anoressia nervosa o “santa anoressia”. Oltre
la solitudine, ferita del corpo-sacrarium o rimozione del corpo-vaso femminile quale medium della

19
Le Goff J., Il corpo nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza 2005; Vauchez A., La santità nel Medioevo, Bologna, Il
Mulino, 1979; Pastoureau M., Medioevo simbolico, Roma-Bari, Laterza 2009; Vegetti Finzi (a cura di), Storia delle
passioni, Roma-Bari, Laterza, 2000; Bernard Ch., Teologia spirituale, Milano, San Paolo, 1987; Id., Il Dio dei mistici.
Le vie dell’interiorità, Milano, San Paolo, 1996.
Parola, ritroveremo infatti riabilitata la valenza di una corporeità che, stigmatizzazione di una unio
mystica, subisce una radicale estroversione o rigonfiamento (“materno-nutritivo”) quale nuovo
sacrarium della Parola. La fruizione dell’ostia implica infatti una “degustazione” spirituale e
corporea nel sapore dolce del miele o in quello del sangue trasmutato in latte (il fiume di “latte e
miele” che scorre sulla nuova terra della promessa escatologica). Una fruizione che implica la
“visione” del Corpo fino al Corpus Domini (la cui festa fu chiesta in visione a Giuliana di Cornillon
nel 1264); la dolcezza del “gusto” (qui il miele orfico è divenuto il Monte Carmelo, dove si
“rumina” la Parola); il “suono” delle armonie celesti (Ildegarda); il “profumo” (che in Teresa
d’Avila torna come “odore di santità”) e il “tatto” del mistico bacio (Caterina da Siena). Pure
attingendo a un retaggio culturale che opera l’equiparazione corpo-peccato, le donne ascetiche
esperiscono misticamente Cristo che rifocilla loro il corpo nutrendolo e rinvigorendolo: la sua
presenza è infatti sia dolcezza del sangue e vita della carne sia “seno” di Maria il cui latte, per la
fisiologia medievale, è appunto la trasmutazione del sangue.

Ora, “gustare il nettare dallo stesso calice” – un simbolo della Chiesa è infatti l’alveare – è
unirsi a un Corpo sia mistico che “sociale” ove la corporeità, per la quale passa la relazione
interpersonale, trova compiuto il proprio riscatto contro l’isolamento anoressico che sempre rifiuta
il rapporto io-mondo. Eppure nell’esperienza mistica esso è vissuto entro e contro l’ostinata
volontà, frutto di un retaggio culturale, di una mortificazione spesso fraintesa come negazione del
corpo: il “gusto dolce del miele” sarà allora un medium il cui significato, simbolico, si articolerà su
più livelli tutti funzionali al processo di individuazione del soggetto. Il percorso è tanto complesso
perché inconsapevole lasciando emergere, come in sogno quei desideri altrimenti censurati, aspetti
fondamentali di sé mediati simbolicamente al punto da non poter essere immediatamente
riconosciuti – e perciò negati – dal soggetto. In tal senso la donna mistica, invitata e servita a questo
nuovo banchetto del Logos, ritrova suo malgrado (coscientizzarlo le sembrerebbe una colpa) la
propria integrità: lei è l’ape per lo zelo con cui organizza il lavoro, sempre volto a uno scopo perché
ispirato dallo Spirito Santo (Prov 6,8); il suo miele è strumento di discernimento e simbolo di lingua
ispirata. Lei che gusta il “pasto divino” diviene nell’Eucarestia, che non ha semplice valore
simbolico per la presenza reale di Cristo nell’ostia, “sazia di cibo e Parola”: da muta ora può
esprimersi con parole efficaci perché seduttive, ovvero capaci di condurre l’altro a sé nella dolcezza
dell’incontro. La sua bocca è però anche lingua affilata come spada, tagliente perché discerne e
dunque distingue: è la spada fiammeggiante dell’angelo dalla cacciata dal paradiso e di quella a
doppio taglio del Cristo giudicante (Ap 1,16) nelle rappresentazioni tardo-gotiche. Il giglio odoroso,
simbolo della bocca del Cristo, ha il “profumo” della verità e il “sapore” della sua forza nel gusto
mielato della nuova manna del cibo eucaristico.
L’esclusione della donna dal convivium maschile è riscattata dalla “ferita eucaristica” di Cristo –
che allatta e nutre col suo sangue, versato da un costato che pure è il suo seno – ; nella fenditura di
tale ferita si apre allora un “luogo” in cui potersi insinuare e dimorare. Nel banchetto eucaristico la
donna è infatti invitata a sedere a tavola per nutrirsi di un latte-sangue che le restituisce integrità
nella riappropriazione del proprio essere “mater-matrice”, ovvero nella continuità – modalità
femminile contro quella dicotomica maschile – della vocazione naturale ad essere “nutrimento”
(dalla spiga di grano all’unione con il sangue-latte eucaristico). Nell’esperienza mistica-unitiva col
Sacramento e in diffuse visioni, soprattutto in Matilde di Magdeburgo e in Veronica Giuliani, la
donna ora “vuole” – riappropriazione di sé attraverso Cristo Eucaristico – allattare Gesù fino a
toglierlo dal seno di Maria per condurlo a sé. Ma come saziare l’Infinito? e come saziarsi, se il
desiderio dell’anima innamorata anela all’insaziabilità della carità, ove i piaceri pregustati ne
infiammano ancor più i desideri poiché, con Ivo nella Lettera a Severino20, “Oh Dio buono, amarti è
mangiarti”, ma anche” Tu sei cibo e fame insieme”? Così in Teresa di Gesù Bambino la
meditazione sul sangue di Cristo accresce la sua sete per le anime, ritrovando la propria immagine
riflessa in questo calice come volto cristificato: «Non era forse davanti alle piaghe di Gesù, vedendo
colare il suo sangue, Divino, che la sete delle anime era entrata nel mio cuore? Volevo dar loro da
bere quel sangue immacolato che avrebbe purificato le loro macchie»21. E ancora, ricordando come
Pranzini poco prima di morire avesse voluto baciare le piaghe di Cristo, ravvisandovi in questo il
segno di una avvenuta conversione, aggiunge: «Ah, dopo quella grazia unica, il mio desiderio di
salvare le anime crebbe ogni giorno! Mi sembrava di udire Gesù che mi diceva come alla
samaritana: “Dammi da bere!”. Era un vero e proprio scambio d’amore: alle anime davo il sangue
di Gesù, a Gesù offrivo quelle stesse anime rinfrescate dal suo sguardo Divino»22. L’unio mystica è
tutta nella sete crescente di Teresa per le anime riarse: più dona e meno riposa in sé, dissetando
l’Altro con la propria sete che, a sua volta, la disseta con la propria ansia di salvezza. Il dinamismo
kenotico li attraversa entrambi, perché l’Amato è innanzitutto l’Amante della sua creatura. E allora
Teresa, attraversando la sua notte come da sola mentre Gesù sembra dormire in un piccolo guscio,
sceglierà di disegnare proprio l’immagine del Volto Santo sul suo piccolo breviario. Come la
creatura può abitare l’esilio perché è Dio a offrirsi quale sua dimora, convertendola a sé, così la
bellezza è innanzitutto, come in sant’Agostino, mistica attesa del “ritorno a occhi chiusi”, proprio
come nel mystes: «Egli si dipartì dagli occhi affinché tornassimo al cuore, ove trovarlo». [Conf. IV,
12, 18]

20
Ivo, Lettera a Severino sulla carità, in Zambon F. (a cura di), Trattati d’amore cristiani del XII secolo, vol. I, Milano,
Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla, 2008.
21
Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Opere vomplete, Roma, Città del Vaticano, 1997, p. 147.
22
Cfr., ibidem.
Nel banchetto eucaristico del tardomedioevo non si tratta tanto di un “pane degli angeli”
quanto della centralità dell’Incarnazione e qui la ferita che “nutre” diviene anche una “ferita che
salva” (vocazione escatologica della corporeità) entro la stigmatizzazione, o scrittura incisa sul
corpo, della figliolanza divina quale estroversione e rigonfiamento della carne (Basar)23.
L’anoressia nervosa, che presenta come canone medico-clinico un forte dominio di sé quale
controllo delle tensioni interne ed esterne proprie del vivere sociale, prevede un progressivo
allontanamento con regressione all’infanzia. La fame mistica come desiderio unitivo è, al contrario,
abbandono al nutrimento di un cibo che è Incarnazione e Transustanziazione eucaristica piuttosto
che, mutuandone l’espressione da Bell24, un “masochismo ascetico” in cui condividere con Cristo
“lo squisito piacere di compiere l’estremo sacrificio di porre finalmente a tacere la propria collera”.
Nello studio di Caroline Walker Bynum, Sacro convivio sacro digiuno25, ritroviamo il criterio
prettamente femminile della “continuità”, per l’immedesimazione con il Cristo sofferente, tra
vocazione secondo natura e secondo la grazia ma non la gravità dell’autoespropriazione linguistica
che fu propria delle donne mistiche. A loro ci volgiamo ora, guardando al loro corpo digiuno
(Caterina da Siena) o stigmatizzato (Chiara da Montefalco), a loro che recano il sigillo doloroso
dell’essere ferite fino al riscatto compiuto nel “nutrimento della ferita” dell’Agnello, che è cibo e
Parola scritto sul corpo come stigmatizzazione del “desiderio” di una fame unitiva.

Nutrirsi della Parola, ritrovare le parole

Già il seno di Maria è immagine del torchio mistico della Croce e il suo latte26, come intimità
verginale con Dio, sembra scorrere sulla terra promessa nel generare la Fonte della gioia poiché
“Nel tino ho pigiato da solo” [Is 63,3]. Nella “teologia del corpo” di Giovanni Paolo II27 ritroviamo
il valore di questo corpo che, tratto da una terra su cui non era ancora stato sparso alcun sangue,
partecipa al destino storico ed escatologico nell’interezza della persona umana. La ricchezza
simbolica del corpo circa il ferire, poiché la vittima sacrificale è ferita a morte nel corpo per mezzo
di un corpo, nella complessa interrelazione tra l’orfico corpus carcer del Fedone (62b- e) e la

23
Per il rapporto corpo di Cristo-carne di Maria vedi soprattutto Merini A., Mistica d’amore Frassinelli, 2008.
24
Bell R. M., La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi, Milano, Laterza, 2002, p. 78.
25
Bynum C. W., Sacro convivio e sacro digiuno. Il significato religioso del cibo per le donne nel Medioevo, Milano,
Feltrinelli, 2001.
26
Heinz- Mohr G., Lessico di iconografia cristiana, Istituto di Propaganda Libraria, 1984.
27
Giovanni Paolo II, Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, Milano, Bompiani, 2003.
cristiana Incarnazione e Resurrezione si complica nel rapporto donna-cibo quale “prima ferita” di
non potersi ritrovare in un linguaggio proprio.28

Caterina da Siena nei suoi scritti 29 tanto si affanna a svilire il corpo quanto, nelle sue esperienze
mistiche, lo ritrova nutrito, corroborato e infine restituito al suo spirito: la sua è una testimonianza
radicale circa la ferita dell’anima patita nel corpo e riscattata, come suo malgrado, proprio nella
fame mistica. Quando proverà a cercare le parole per dire di sé, del suo intimo dissidio, alla stregua
di altre mistiche temerà di essere tratta in inganna dal demonio intendendole come provenienti dal
basso, da sotto la “terra”: saranno per lei il ghigno demoniaco che le scoppierà nella testa. Queste
parole, infatti, negano quanto la testa – il pensiero – ha appreso come giusta dottrina dalla
tradizione, voci annidate e sepolte nell’anima: “Sei sicura di onorare il tuo Dio, creatore delle
bellezze dell’universo, annullando il tuo corpo di giovinetta con fruste e digiuni?” Caterina, la
mistica, non può saperlo; il suo dolore resta incompreso a se stessa e le parole vengono meno
mentre il corpo, digiuno, sviene. Le parole altre, che costituirebbero il corpus annientato della sua
Dottrina, restano allora dissonanti rispetto alla verità dei contenuti (pensieri e azioni) narrati –
dettati in estasi – dalla sua voce lacerata. E così accade, a lei come ad altre donne, che il pensiero
patito nella carne si esprima in una corporeità del lógos ove l’anima annichilita, non auto-compresa,
urlerà nel corpo restituendogli infine una “voce”. Quella voce di fuoco e di passione febbrile che
ritroviamo nei suoi frequenti svenimenti e digiuni che gridano il peso dell’anima, portata dal corpo
comunque e suo malgrado. Sono proprio queste violente estasi, che risuonano come risposta ai
solchi muti dell’anima, a ricomporre in una unità significativa l’intima dissonanza riscattandone
integrità e valore. Il passaggio virtuoso e salvifico si attua nella volontà di auto-imporsi entro un
corpo muto e svenuto attraverso un’esperienza, non nevrotica ma comunicabile, che le riconsegna
quanto avrebbe voluto sacrificare. Solitudine, digiuno e silenzio si convertono infatti in una forma
di convivialità procedente proprio dalla sua esperienza mistica: i suoi molti “discepoli”,
l’appartenenza al corpo mistico della Chiesa e il suo impegno politico. Il suo dramma, la sua ferita,
potremmo intenderlo come un disordine patito dall’essere-corpo entro la dissonanza non
espropriante dell’anima e negato nelle pagine del suo Dialogo. Nel “quarto stato” del dinamismo
d’amore, ad esempio, a proposito della dottrina del Corpo-Ponte che è Cristo, Caterina si sofferma
sui “perfettissimi” che, morti alla propria volontà, come corpi-svenuti riposano in Dio divenendo
“riposo di Dio”30. La distinzione tra senso della vista e visione dello spirito, in riferimento a una
corporeità intesa come “vaso” che contiene lo spirito, la induce a ritenere imperfetto quell’amore di
28
Børresen K. E., Le Madri della Chiesa, Napoli, D’Auria, 1993. Cfr. anche Mattioli U., «La tipologia ‘virile’ nella
biografia e nella letteratura cateriniana» in Atti del Congresso internazionale di Studi Cateriniani (Siena-Roma 24-29
aprile 1980), Casa Generalizia O.P., 1981, pp. 198-222.
29
Caterina da Siena, Le Lettere, Milano, San Paolo, 1987; Id., Il Dialogo, Siena, Ed. Cantagalli, 2003.
30
Caterina da Siena, Dialogo, op. cit., (in riferimento al “quarto stasimo” vedi soprattutto pp. 166- 179).
cui anche san Paolo dice: “Me sventurato, chi mi separerà dal mio corpo?” [Rom 7, 24, 23].
Nell’esperienza mistica di Caterina, dunque, l’unione tra l’anima e Dio sembrerebbe vissuta in
modo da mortificare quella tra l’anima e il corpo, che infatti ora si trasfigura ora si solleva da terra
ora sviene. Insomma sempre perde quella pesantezza che è propria della sua natura – svenire come
“perdere i sensi” – per vincolarsi alla ragione riunendo le tre facoltà dell’anima (intelletto, memoria
e affetto) speculando, ricordando e amando la Verità. Il corpo svenuto diviene infatti il servo fedele
che non ostacola l’unione dell’anima con Dio, soffrendo in completo abbandono e restandosene
«come immobile tutto lacerato» tanto da suscitare la pietà divina che subito – ma perché? questo è il
punto – gli ridona le forze. Perché proprio lei che avrebbe voluto disprezzare il corpo per disprezzo
del peccato ha ricevuto, guarda caso nell’estasi, il corpo cristificato quale pienezza escatologica
della corporeità. La sua “fame cristica” si realizza così nell’offerta del “corpo-vaso” per l’acqua-
Cristo che in eterno disseta: aderire è inerire a Cristo, svenire-morire preliminarmente in Lui per
poter vivere in Lui.

Il paradosso della corporeità, tra esperire e comunicare, torna ad annidarsi anche nella sua
dottrina della “fame eucaristica” entro la trasfigurazione e conformazione del proprio corpo a quello
nudo ed esposto del Crocifisso. Qui ritroviamo infatti i suoi piedi trafitti perché il corpo della
creatura possa elevarsi svenendo alla terra; il suo cuore quale unico cibo per “generare e nutrire”; la
sua bocca diviene simbolo di pace, perché «la pace si dà con la bocca»31. Lungo il ponte che separa
e perciò salva dal fiume del peccato si dischiude per lei quella “bottega del Sangue” che, sola, può
dare ristoro a coloro che intercedono per i peccatori. Ma è qui che il corpo richiede il digiuno.
«L’anima allora s’ingrassa nelle vere e reali virtù, e per l’abbondanza di questo cibo si gonfia tanto
che la veste della sensualità, cioè il corpo che ricopre l’anima, si spacca quanto l’appetito
sensitivo»32. Eppure Caterina fu stigmatizzata per la prima volta nel pieno della sua attività
apostolica e politica, siamo nel 1375, proprio mentre si adoperava per la pace tra Avignone e la
scomunicata Firenze. Lei che è donna mistica si attiva con zelo entro una pratica tutta femminile
(ricordiamo Giovanna d’Arco e Brigida di Svezia) nella quale il corpo-svenuto è pienamente
cristificato e quindi offerto – inserito – per ed entro il corpo mistico e sociale della Chiesa. Lei che
è profetessa perché effonde parole ispirate, come le api effondono il miele cui si riferisce la profezia
e il canto, perché il composto meli- ritorna in meligarus (“dal dolce suono”) detto anche, da
Pindaro, di ompha (“oracolo”).33 Caterina abitò dunque la terra nella pienezza delle contraddizioni e
delle dissonanze di chi riceve, ma come una Pizia non comprende, le parole per dire di sé.

31
Cfr., ivi, p. 157.
32
Cfr., ivi, pp. 156.
33
Francesco Aspesi, Archeonimi del labirinto e della ninfa, Roma, L’Erma, 2011, pp. 63-95.
Un differente esempio dell’estroversione massima della corporeità si ritrova nella passione
dell’essere-corpo, tra fame-desiderio di cibo ed essere cibo, nel cuore-Golgota di Chiara da
Montefalco (1268-1308), stigmatizzato ed esposto al centro e dal centro di un corpo nascosto entro
una vita di contemplazione e trasformazione cristica. La sua stigmatizzazione eccede l’imitatio
Christi perché il suo cuore non è soltanto infiammato dall’amore divino ma diviene il medium della
stessa Passione. Il Signore chiede alla creatura di diventare il Golgota su cui piantare la croce,
ovvero di essere la stessa condizione di possibilità della sua crocifissione: quale gratitudine può
allora avere “nutrito” il cuore di Chiara, nell’offrirsi strumento di morte del Signore? La Croce, che
ha il profumo del giglio e il sapore del miele, riprende e riscatta i primi doni sacrificali (l’agnello e
l’uva di Caino e Abele e l’offerta di pane e di vino di Melchisedek). Il Corpo eucaristico ha
trasfigurato la mistica Chiara chiedendole di offrire, come nella prefigurazione di Isacco che porta
da sé la croce-legna sacrificale, il suo cuore quale legna per il Sacrificio. Come il pane è simbolo
del nutrimento essenziale (il digiuno del mistico consiste in pane e acqua, ovvero non equivale
simbolicamente al de-nutrimento o digiuno anoressico), l’offerta del pane (“utero”-“fornace”)
diviene la sua cottura nel centro-cuore del corpo per “custodire” e “trasformare” la vita. Non per
nulla il pane, come anche l’Eucaristia, porta inciso il segno della croce quale fertilità (vita) e
rinascita, relazione simbolica tra mietitura e trebbiatura e “cottura al forno” della spiga e del pane
terreno con la Passione e Risurrezione del “Pane di vita” spezzato – convivialmente mangiato – per
la vita dell’uomo.

Il cuore-Golgota di Chiara significa anche il pellegrinaggio di Cristo verso la sua creatura.


Nell’esperienza che precede la stigmatizzazione interiore, infatti, Cristo è l’uomo in cammino verso
Chiara che sta come un santuario, non in un santuario, perché è lei il “luogo” intimo e sacro del
pellegrinaggio. Nell’esperienza mistica di Chiara questo luogo è il suo cuore di carne, pienamente
umano, che diviene ‘terra santa’ e orientamento della vocazione divina alla pienezza dell’uomo
vivente. Il pellegrino, ogni uomo che compie un pellegrinaggio, prima di mettersi in cammino si
sottopone ai riti di purificazione e infine termina il proprio viaggio quando giunge in un ‘luogo’ in
cui si è manifestato in modo ‘tangibile’, corporeo, la presenza divina. E qui si ferma in preghiera. In
modo analogo, seppure capovolto nell’umiltà della Passione, il pellegrino-Cristo dopo aver visitato
e incendiato -purificato- il Tempio (Gesù che sale a Gerusalemme) si rispecchia nel nuovo tempio
che è il cuore del battezzato. Ma Cristo-pellegrino che appare a Chiara proviene dalla morte oppure,
capovolgendo il registro ermeneutico per l’eccezionalità di tale pellegrino, in questa esperienza
mistica è Chiara che, provenendo dalla morte, trova rifugio inerendo al cuore-nascosto, poi esposto,
di Cristo? Non è infatti proprio qui che la sua nuova vita sarà custodita nel nascondimento del
cuore, fino alla sua ostentazione nella sua stigmatizzazione ultima? Queso suo cuore-Golgota, come
legna sacrificale di Isacco, salva il simbolico femminile non rispecchiandosi nelle piaghe del
Crocifisso perché crocifissa lei stessa in quanto donna, piuttosto offrendosi come luogo in cui
Cristo possa essere crocifisso. Inabissamento nella dissonanza e riscrittura mistica di un’identità
femminile altrimenti sommersa la corporeità ha trovato, infine, il suo pieno riscatto.

Dal centro-cuore della donna sono risuonate, per sé e per il mondo, le parole da sempre perdute.

Potrebbero piacerti anche