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Archetipo della Grande Madre

Che cosa significa archetipo?


archètipo s. m. [dal lat. archety̆pum, gr. ἀρχέτυπον, comp. di ἀρχε- (v. archi-) e
τύπος «modello»]. – 1. Primo esemplare, modello: l’Iliade può essere considerata l’a.
dei poemi epici o eroici. 2. In filosofia, spec. nella tradizione platonica, l’essenza
sostanziale delle cose sensibili. Anche come agg.: idee archetipe. 3. Nel pensiero
dello psichiatra e psicologo svizz. C. G. Jung (1875-1961), immagine primordiale
contenuta nell’inconscio collettivo, la quale riunisce le esperienze della specie umana
e della vita animale che la precedette, costituendo gli elementi simbolici delle favole,
delle leggende e dei sogni. 4. Nella critica testuale l’archetipo rappresenta un testo
che, rispetto ai codici noti, è più vicino e complessivamente più fedele all’originale. Il
termine è usato con analogo sign. anche nell’archeologia e nella storia dell’arte:
statua che riproduce l’a. di Lisippo.
Che cos’è un archetipo?
Per capire cos’è un archetipo e quando utilizzare questa parola ricorriamo al suo
significato letterale, ovvero alla traduzione della parola originale che come abbiamo
già detto deriva dalla lingua greca.
All’origine di archetipo vi è infatti la parola ὰρχέτυπος composta da arché che
significa “originale” e tipos, con il quale ci si riferisce a “modello”, “marchio”,
“esemplare”. In questo caso il tutto rientra in una macrocategoria di significato:
quella di immagine.
Vi sono però altre teorie sull’origine di archetipo e la sua derivazione: qualcuno
afferma che potrebbe avere origine da ά ρχή ma veicolare il significato di “principio”
o “inizio”. Sicuramente quest’ultimo è forse quello più vicino all’utilizzo attuale del
termine: archetipo, infatti, viene spesso utilizzato per indicare soprattutto in ambito
filosofico qualcosa che precede il pensiero stesso, mentre in psicologia si usa per
richiamare il concetto di idea innata in riferimento all’inconscio umano.
I contesti d’uso così possono essere molteplici ma nonostante questo il significato di
fondo, simbolico o letterale che sia, rimane lo stesso: la parola archetipo è utilizzata
per indicare qualcosa che precede, ovvero per delineare ciò che è preesistente ad una
tale realtà.
Jung identificava la “dimora” degli archetipi nell’inconscio collettivo, ovvero una
dimensione psichico/spirituale nella quale risiedono questi “modelli originali” che
hanno la capacità di generare una moltitudine di manifestazioni, le quali prendono
forma attraverso l’inconscio e il conscio personale.
L’archetipo potrebbe essere confuso erroneamente con il concetto di prototipo, in
realtà il prototipo si può definire come la prima manifestazione dell’archetipo e non
come l’archetipo stesso.
L’archetipo non è rappresentabile materialmente, ma l’uomo cosciente lo può
percepire e comprendere attraverso le sensazioni e gli impulsi da esso espressi.
Che cosa sono gli archetipi per Jung?
Cosa sono gli archetipi per Carl Gustav Jung? Di sicuro sono tanti e sono
profondamente radicati nel corpo e nello psichismo umano. La teoria degli archetipi
non è di facile definizione, dato che il nostro Jung l'ha sviluppata nel corso di una
vita: più che simboli, gli archetipi si nascondono ovunque e si manifestano nella
nostra vita aiutandoci a costruire la nostra coscienza individuale.
Il Fanciullo Divino, il Sé, il Vecchio Saggio, la Persona, la Grande Madre, l'Ombra,
l'Eroe, il Briccone Divino, Animus e Anima, il Viaggio, sono solo alcuni degli
archetipi individuati da Jung.
Gli archetipi sono dei principi primitivi che vanno al di là delle culture, dei simboli,
sono delle forme senza contenuto, delle possibilità dell'inconscio e delle realtà in
bilico tra corpo e spirito. Gli archetipi aiutano l'uomo nel processo di individuazione
della coscienza. Ma come avviene tutto questo?
In Carl Gustav Jung non è per niente facile definire la teoria degli archetipi. Se in un
primo momento l'archetipo è un elemento dell'inconscio collettivo, una forma
trascendente preesistente alla coscienza, successivamente si sgancia dall'inconscio
per diventare una forma senza contenuto. "Nessun archetipo è riducibile a semplici
formule. L'archetipo è come un vaso che non si può svuotare né riempire mai
completamente. In sé, esiste solo in potenza, e quando prende forma in una
determinata materia, non è più lo stesso di prima. Esso persiste attraverso i millenni
ed esige tuttavia sempre nuove interpretazioni. Gli archetipi sono elementi incrollabili
dell'inconscio, ma cambiano forma continuamente".
Gli archetipi si manifestano nell'inconscio collettivo attraverso quelle risposte
automatiche e ancestrali che l'uomo continua a riproporre. Ma l'uomo ha anche il
desiderio e la spinta ad essere libero, quindi cerca di liberarsi dalla coazione a ripetere
conquistando una propria coscienza individuale, che si può raggiungere solo se si è in
grado di integrare gli archetipi con la coscienza.
Carl Gustav Jung ha sempre definito gli archetipi come realtà in bilico tra lo
psichismo e il somatico: originano dall'istinto e, al contempo, presentano una
dimensione spirituale. Sono elementi che costituiscono una categoria a priori della
conoscenza, vicino alle idee platoniche o i prototipi di Schopenhauer, come dice Aldo
Carotenuto, per quanto riguarda il loro aspetto spirituale; nel contempo, come
espressione dell'istinto e del corpo, gli archetipi possono essere considerati come
quella che viene definita predisposizione innata, temperamento o attitudine. Secondo
Jung gli archetipi sono "modelli funzionali innati costituenti nel loro insieme la
natura umana": sono simboli di concetti, istinti primordiali, sono modelli profondi,
radicati nella psiche umana.
Gli archetipi sono più che simboli: sono l'essenza che dà vita al simbolo e sono la
potenza che permette al simbolo di esistere nel tempo. Gli archetipi si manifestano in
ogni cultura, prendendo voce nei miti, nelle favole, nelle leggende che racchiudono in
sé i principali temi dell'uomo dall'origine dei tempi. I sogni ci permettono di entrare
in contatto con gli archetipi: se sappiamo leggerli ci aiutano nel processo di
costruzione di una coscienza individuale. Ma anche le emozioni, con la loro
espressione, ci mostrano un aspetto più superficiale degli archetipi. Gli archetipi sono
dotati di grande energia: a prescindere dalla nostra capacità di riconoscerli, si
manifestano in ogni nostra esperienza, nei simboli che ci circondano, nei miti che ci
raccontano, al di là di ogni dimensione spazio-tempo.
L’archetipo della Grande Madre
Per usare le parole di Jung, si tratta della «magica autorità del femminile, la saggezza
e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo,
protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi
della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole; ciò
che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce,
intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile».
La Grande Madre è l’origine, la madre-matrice cosmica, la creatività del grembo
materno. Nelle società matrilineari si concretizzava nella Natura e in Madre Terra: la
cultura era allora basata su sentimenti di condivisione, relazione, eguaglianza,
interdipendenza, pace oltre su una profonda connessione con il sacro che permeava
ogni attività; la Dea Madre nutriva, sosteneva, informava. Non a caso le
rappresentazioni scultoree della divinità raffiguravano divinità con grandi seni, grandi
fianchi: espressione simbolica del materno che forma, alleva e cresce.

Tipol
ogia di manufatto: Scultura. Autore: ignoto. Denominazione: Venere di Willendorf (data dall'archeologo che la ritrovò).
Datazione: 24.000-22.000 a.C.

Il culto della Dea Madre risale a tempi molto antichi: al periodo Neolitico (dal 7000
al 3500 a.C.) e, forse, addirittura a quello Paleolitico, se si interpretano in questo
senso le tante figurine di donne panciute e dai grandi seni che sono state ritrovate in
tutta Europa. A queste figure, che vengono definite "steatopigie" (cioè "dalle grosse
natiche", dal greco στεας, "grasso", e πυγε, "natica"), è stato dato spesso il nome di
"Veneri", proprio in connessione con il culto della dea.
Con l'evolversi della civiltà, gli attributi e le caratteristiche che inizialmente erano
raggruppati in una sola divinità femminile, cominciarono ad essere specializzati e
moltiplicati attraverso divinità distinte. Così abbiamo alcune dee più tipicamente
rappresentative dell'amore di tipo sessuale (come Ishtar, Astarthe, Afrodite o Venere),
altre più legate alla fertilità (come Ecate), altre ancora legate alla caccia (Artemide,
Diana), ed infine molte di esse sono associate alla prosperità dei campi ed ai cicli
delle stagioni (come Demetra, Cerere, Persefone, Proserpina).
Persefone e Proserpina, al pari di Bona Dea e Mater Matuta, sono anche collegate
all'oltretomba ed alla morte: questo perché il ciclo di stagioni segue il paradigma
della morte e della rinascita, cioè il seme ha bisogno di morire per generare una
nuova pianta, che al termine del ciclo darà altri semi. Ecco perché la dea incarna
spesso un aspetto notturno e lunare che in alcune culture è stato travisato e reso come
un aspetto negativo e malefico. In realtà, non rappresenta che un principio
fondamentale della Natura, e tutti i contadini sanno che il raccolto sarà migliore se
piantano i semi nel periodo in cui la luna è in fase di plenilunio.
Quello della Grande Madre è certo solo uno degli archetipi-base del femminile; del
femminile, rappresenta però alcune funzioni centrali: contenere e mantenere in vita,
proteggere e nutrire, connettere in armonia; è la creatività che nasce dalla
connessione con le cose, la fertilità (in senso ampio) data dall’essere terreno
disponibile all’amore. È il vaso che contiene e accoglie (e, di conseguenza, racchiude
al suo interno, ha accesso a qualcosa che da fuori è invisibile, dunque “misterioso”).
In quanto espressione di vita è connessa ai cicli di nascita e morte: ogni nascita,
infatti, presuppone la “morte” di uno stato precedente.
In questa apparente ambivalenza, la Grande Madre può diventare anche terribile,
vorace, predatoria. È il suo “lato ombra”: è la caverna fredda e oscura e anaffettiva; è
il vaso che non lascia più uscire il suo prezioso contenuto (che quindi non può
crescere, svilupparsi, emanciparsi e diventare autonome; rimane invischiato in una
relazione opprimente e vincolante o comunque mantiene tratti infantili, filiali), è la
Madre Matrigna che non nutre, non si prende cura ma può uccidere, maltrattare. Non
ama più, pensa solo a sé stessa. Un po’ come l’oscura dea Kalì indiana.

I "nomi" della Grande Madre


Così come i simboli, anche i nomi della Grande Madre sono tanti, ma il principio che
essi rappresentano è sempre lo stesso. Di seguito, inseriamo un piccolo elenco delle
diverse identità che la Grande Madre ha avuto attraverso culture e luoghi tra essi
distanti e spesso molto diversi. A qualcuna di queste figure verrà dedicata, in futuro,
una scheda a parte nella quale verranno approfonditi i tratti caratteristici ed i simboli
collegati, come figure, piante ed animali totem, per allargare l'orizzonte iconografico
ed interpretare, tenendo conto del giusto contesto, le numerose immagini simboliche
ed allegoriche inserite in quadri, fregi decorativi, elementi architettonici, litografie,
illustrazioni e quant'altro.

Inanna per i Sumeri,


Ishtar per gli Accadi,
Astarthe per i Fenici,
Anahita per i Persiani,
Anat presso Ugarit,
Ninhursag in Mesopotamia (V millennio a.C.),
Atargatis in Siria,
Iside in Egitto,
Artemide/Diana ad Efeso,
Baubo a Priene,
Afrodite/Venere a Cipro,
Rea o Dictinna a Creta,
Demetra ad Eleusi,
Orthia a Sparta,
Bendis in Tracia,
Cibele a Pessinunte,
Ma in Cappadocia,
Gea/Gaia e Atena per i Greci,
Brigit per l'Irlanda,
Dana/Anu per i Celti,
Bellona o Bona Dea per i Romani,
Mater Matuta presso gli Etruschi,
Vacuna per i Sabini,
Tanit per i Cartaginesi,
Quan-Yin o Guan Yin in Cina,
Kannon o Kanzeon in Giappone,
Gwan-eum o Gwan-se-eum in Corea,
Avalokitesvara in Tibet,
Durga (Kali/Parvati/Sarasvati/Lakshmi) in India,
Lada in Russia.

https://ilritornodiabraxas.blogspot.com/2013/05/dedicato-aba-losi.html

Clarissa Pinkola Estés si definisce una "curandera" e una "cantadora" e, in effetti, è


entrambe le cose.

E' una guaritrice in quanto psicanalista junghiana ed una cantastorie, nel senso che,
attraverso le favole, le fiabe ed i miti, ne disvela gli archetipi e li mette a conoscenza
dei suoi pazienti. Li cura, attraverso l'antica sapienza che si tramanda di generazione
in generazione.
Favole come "Barbablù", "Scarpette Rosse", "Baba Jaga", “Il Brutto Anatroccolo” e
molte altre della tradizione occidentale, orientale, africana, indiana.
Storie che si ripetono, nelle loro varie e millenarie versioni e che racchiudono i
profondi significati della psiche. Significati archetipi, come amava dire Carl Gustav
Jung, il quale seppe unificare la Tradizione spirituale alla psicanalisi e fare della
prima lo strumento per eccellenza per comprendere e dare ragione della seconda.
Clarissa Pinkola Estés, con "Donne che corrono coi lupi", il suo primo libro
pubblicato una ventina di anni fa e ripubblicato negli anni a venire, ha saputo fornire
alle donne ed alla loro psiche quegli stumenti necessari per farle tornare agli istinti
primordiali. Al mito della "Donna Selvaggia", scevra dai condizionamenti culturali
delle società patriarcali, della modernità priva di spiritualità e d'anima. A quel mito
che permette alla donna di riscoprire il proprio intiuto, di allontanarsi d'ogni tipo di
ingenuità e riscoprire il piacere della rinascita.
Ma che cos'è la Donna Selvaggia ? E' la patrona degli artisti, dei pittori, degli
scrittori, dei ballerini. E' l'intuito femminile, è Vita/Morte/Vita dell'anima e della
psiche. E' ciò che sussurra nei sogni notturni delle donne, ovvero la voce interiore che
giuda le donne dall'oscurità alla luce, dalla morte all'immortalità spirituale e mentale.
E le storie, le fiabe, i miti, sono lo strumento che permette alla terapeuta di far entrare
la donna/paziente in comunicazione con la Donna Selvaggia, ovvero con la sua
psiche più profonda.
Come spiega la dottoressa Pinkola Estés, le storie sono state - nei secoli - purgate da
tutto ciò che fu ritenuto scandaloso dalla cultura dominante, ovvero ogni riferimento
al sessuale, allo scatologico, alle culture precristiane e gnostiche, ai riferimenti alle
dee ed al cosiddetto Femminino Sacro.
All'interno delle storie ci sono, invece, gli ingredienti per il risveglio dell'anima,
ovvero tutto ciò che la cultura patriarcale e le Religioni Monoteiste Istituzionalizzate
hanno voluto distruggere, al fine di poter soggiogare le donne ed il loro potenziale
divino, spirituale e psichico.
Ecco dunque che "Donne che corrono coi lupi" ci presentano personalità predatrici
come "Barbablù", che soggiogano la donna dalla psiche ingenua e metaforicamente
"addormentata". Ma ecco che, nella storia di "Vassilissa la Saggia" ci sono gli
strumenti per affrontare il "predatore", per uscire dal buio della foresta ed annientare i
perigli e le difficoltà che si presentano lungo il cammino della vita.
Secondo la dottoressa Estés è necessario, prima di tutto, rimanere legate ai propri
istinti, al proprio intuito, ovvero all'anima del femminino che, per sua natura, è
selvaggia. Libera dai condizionamenti. Perché l'anima della Donna Selvaggia è
primitiva e creativa.
Il saggio psicologico della dottoressa Estés è di fondamentale utilità anche per noi
uomini. Non solo perché taluni aspetti in esso raccontati sono riscontrabilissimi anche
nella vita maschile, ma anche in quanto utili a comprendere l'animo femminile,
istintuale. In questo senso la storia della "Donna Scheletro" è illuminante.
E' la storia di un cacciatore che pescò lo scheletro di una donna che il padre, tempo
prima, aveva gettato nel mare, avendone disapprovato i comportamenti.
Il pescatore, inizialmente, fu terrorizzato dallo scheletro della donna, ma, con il
tempo, imparò ad amarlo ed ebbe compassione per esso. Egli pianse nel sonno e le
sue lacrime riportarono alla vita la donna, con la quale visse poi in eterno.
Questa storia insegna che per amare è necessario essere forti e saggi e, dunque,
comprendere la relazione fra Vita/Morte/Vita, in quanto l'amore è un susseguirsi di
morte e rinascita. Muore la passione e rinasce. E così il dolore. Amare significa,
dunque, sopportare - all'interno della relazione - molte fini e molti inizi. Aspetti che,
peraltro, nelle confraternite iniziatiche quali la Massoneria, sono ben conosciuti. Il
profano muore e rinasce come Iniziato.
Figura primordiale - raccontata nel saggio della dottoressa Estés - è quella
dell'"esiliato", incarnato da storie come "Il Brutto Anatroccolo", il quale ha il cuore
spezzato in quanto rifiutato da tutti, persino dalla sua famiglia, poiché ritenuto
"inadeguato" a quello che possiamo definire "ambiente che lo circonda". Un ambiente
che, in realtà, lo soffoca e non gli permette di essere ciò che veramente egli è, ovvero
di manifestare la sua vera natura di...cigno !
La diversità - è provato nei secoli - è infatti indice di originalità e di creatività utile
all'umanità. Ed è, ancora una volta, indice di "natura primordiale", ovvero
"selvaggia", contrapposta al conformismo che vorrebbe renderci tutti quanti livellati e
quindi innaturali, “grezzi”.
Aspetto che la donna, ma anche l'uomo, devono tenere in fondamentale conto è
l'evitare di essere sottoposti a ripetute violenze, sia psicologiche che fisiche. Alla
violenza, infatti, alla lunga ci si abitua al punto da desiderarla anche se ci è restituita
la libertà. E ciò ci conduce inevitabilmente alla schiavitù, ovvero ad essere schiavi di
"predatori" senza scrupoli.
Possibile via di salvezza è la creatività, il sapersi ritagliare un proprio spazio al fine di
poter dipingere, leggere, scrivere, dedicare del tempo all'arte e a ciò che a ciscuno di
noi più piace fare. Mai trovare la scusante di non avere tempo o di dedicare il proprio
tempo a cose che si preferirebbe non fare per un eccesso di "responsabilità" o di
"rispettabilità". Occorre, dunque, imparare a proteggere il proprio tempo e liberarsi da
ogni complesso negativo e da ogni imposizione culturale, che, nei fatti, impedisce
alla natura selvaggia ed istintuale di essere liberata.
E, nel mito, la natura istintuale e selvaggia delle donne è rappresentata da Baubo, la
dea greca dell'oscenità e della sessualità sacra. Una dea senza testa, i cui occhi sono i
capezzoli e la cui bocca è una vagina, la quale aveva il particolarissimo compito di
raccontare storie oscene e piccanti, al fine di far sorridere Demetra e quindi trarla in
salvo dalla depressione per la perdita della figlia, fornendole l'energia necessaria per
riprenderne le ricerche.
Ecco che Baubo rappresenta l'energia sessuale, una vera medicina per lo spirito e
pertanto, sin dalle più antiche Tradizioni, ritenuta sacra e paragonata all'umorismo, al
sorriso che allevia ogni tristezza e collera.
Non a caso Jung riteneva che, chiunque avesse un problema di natura sessuale, in
realtà, celasse un problema connesso allo spirito e all'anima; mentre chiunque
affermasse di avere un problema spirituale, in realtà, nascondesse un problema di
natura sessuale.
"Donne che corrono coi lupi", attraverso il mito e la psicologia junghiana, insegna
anche a controllare la collera, la quale è l'esatto opposto della natura selvaggia. Per
poter controllare la collera, la dottoressa Estés consiglia quattro "fasi del perdono": 1)
prendere le distanze dalla persona o dall'evento che ci ha fatto andare in collera; 2)
astenersi dal mugugnare o dal cercare ostilità; 3) dimenticare ed allentare la presa
dall'evento traumatico; 4) perdonare e quindi smettere di provare risentimento.
Fasi non semplici o immediate, ma di sicuro giovamento per l'anima e la psiche. Fasi
che ci aiuteranno a far rimarginare le innumerevoli cicatrici che cospargono la nostra
"carne", la nostra anima ferita. Fasi che possono anche essere portatrici di lacrime,
ma sono e saranno proprio le lacrime le dolci compagne che condurranno l'anima alla
guarigione. Perché le lacrime, il pianto, ci rendono consapevoli, vigili e ci tengono
lontani dai "predatori", come nella fiaba della "Fanciulla senza mani", la quale,
piangendo per la perdita delle proprie mani, riesce a tenere lontano il Diavolo-
predatore.
Ecco dunque, alla conclusione del saggio di Clarissa Pinkola Estés, comprendere
come la fiaba, la favola, il mito, l'archetipo e l'allegoria siano delle vere e proprie
medicine per la psiche e lo spirito istintuale. Delle donne, ma non solo.
In Massoneria e nelle confraternite iniziatiche, come già detto, sono aspetti che ben
conosciamo in quanto gli stessi rituali massonici si fondano su miti ed allegorie. La
stessa leggenda di Hiram, l'architetto costruttore del Tempio di Re Salomone, è una
fiaba archetipica che, fra le altre cose, insegna al postulante come far morire la
propria natura profana - condizionata dalla cultura dominante - e rinascere a nuova
vita, una vita iniziatica, istintuale, selvaggia se vogliamo, ovvero spirituale, alla
ricerca del proprio Io-Dio interiore nel senso gnostico e junghiano del termine.
Il mito della Donna Selvaggia e dell'Io Istintuale sono dunque miti arcaici che
accompagnano l'umanità inconsapevole nel suo cammino di purificazione mentale e
psichica. Se solo sapremo, vorremo e cercheremo di imparare di più dall'antica
saggezza e dall'antica Tradizione dei Popoli della terra che, di generazione in
generazione, di secolo in secolo, ci è stata trasmessa ed è lì, pronta per essere
assaporata, appresa, interiorizzata, al fine di risvegliare la nostra anima e condurla
verso la Luce.

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