Sei sulla pagina 1di 72

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata

Corso di laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica


Tesi di laurea Magistrale

Schizofrenia: paradigma della contemporaneità.


Dai margini al cuore dell’esperienza intersoggettiva.

Schizophrenia: a paradigm of contemporaneity.


From borders to the core of intersubjective experience.

Relatore
Prof. Adriano Zamperini

Laureanda
Carolina Camurati
1129206

Anno Accademico 2017/18

1
2
Schizofrenia: paradigma della contemporaneità
Dai margini al cuore dell’esperienza intersoggettiva

Introduzione ...…………………………………… pag. 5

I. La ricerca di un oggetto infinito: la schizofrenia è un


elefante? ..................................................................... pag. 11
1.1 Trattazione storica e aneddotica …………………………………. pag. 13

1.2 Aspetti diagnostici e controversie ………………………………... pag. 27

1.3 Il trattamento della schizofrenia e degli altri disturbi psicotici ……... pag. 40

II. Schizofrenia, la vertigine di un’assenza……...... pag. 47

III. L’orizzonte molecolare del fenomeno reale...... pag. 81

IV. La IV dimensione ………………………….. pag. 101

Conclusioni e ringraziamenti …………………... pag. 113

Bibliografia ……………………………………. pag. 115

Appendice ……………………………………... pag. 121

3
4
Introduzione
Il proposito di questo elaborato è quello di illustrare come si dispiega il fenomeno della
schizofrenia, lungo le diverse prospettive clinico-psichiatrica, psicoanalitica ed
esistenziale, così come lungo le differenti angolature di rifrazione che esso, come prisma
investito da un fascio di luce bianca, rimanda all’osservazione; quindi, proveremo ad
evidenziarne la condizione estrema, la domanda radicale che viene interposta allorquando
questo fenomeno sia presente in un determinato contesto sociale. La schizofrenia, allora,
come enigma e cifra dell’impossibilità, di un’impossibilità. Proprio per questo, luogo
passibile di metamorfosi dell’assurdo e del profetico.
Potremmo iniziare con l’osservare il fenomeno della schizofrenia ipostatizzandola in
un’entità clinica, come dimensione che inevitabilmente inerisce agli ampi territori della
psicopatologia, oppure, in un’ottica più estesa, ci sembra opportuno sforzarci di coglierla
come un processo, sotteso alle altre attività umane, foss’anche silenziato, ma che concerne
l’essere umano nella sua natura più intima.
Molto è stato detto sulla schizofrenia e sulle psicosi in genere; ci sembra tuttavia che
queste dissertazioni, operando una cernita rivelatasi in innumerevoli situazioni
inconsapevole e “fatale”, abbiano mancato di allacciarsi a considerazioni più ampie sullo
stato del presente contemporaneo e sul sistema di valori a fondamento delle istituzioni
preposte alla cura e al trattamento di chi si è trovato ad essere fuori fase rispetto ad uno
stato di salute o normalità1; preposte, in definitiva, a salvaguardia e tutela della salute
umana, prima che alla sua normalizzazione. Tuttavia, non è ancora divenuta prassi
comune quella di accostare la pratica della ricerca sulla patologia psichiatrica alla
risonanza politica che il sapere da essa demandato comporta. Diremo quindi, sulla scorta
della metafora iniziale, che ci si è enormemente premurati di dare risposte nei termini di
soluzioni semplici ai problemi posti (“che cos’è la schizofrenia e come curarla”; tipica
d’una certo approccio medicale al problema), piuttosto che, invece, cogliere la meraviglia
dell’arcobaleno di colori che dal prisma (schizofrenia) investito dipartiva, interrogandone

1
Canguilhelm (1966) sosteneva come non esistesse una condizione di salute normale in sé e per sé,
mostrando la labilità del confine tra normale e patologico, svelando che «è innanzitutto perché gli uomini
si sentono malati che vi è una medicina. Solo secondariamente avviene – per il fatto che vi è una medicina
– che gli uomini sanno in che cosa essi sono malati»; Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998, pag.
191

5
traiettorie e punti di paradossalità, costringendoci ad ingaggiare la realtà osservata con un
impegno non solo di ricercatori ma anche e prima di tutto come persone. Perché la nostra
tesi è che proprio la concezione di “persona” sia messa a repentaglio dalla schizofrenia,
in relazione alla facoltà dell’umano di essere parlante e di conseguenza abitato dal
linguaggio, lasciando sventagliare luci e ombre di paradossalità sulla natura della
condizione umana a noi comune.
Nell’affrontare un tale tema occorre, in primis, coniugare tale costrutto diagnostico
proprio della pratica psichiatrica ad un pensiero di tipo esistenzialista, per poter così
cogliere quale sia la cifra del carattere schizoide, dello schizofrenico, e mostrare ciò che
questo carattere rende intellegibile, sebbene in statu detrahendi (analogamente alla
gravità di cui ci si accorge solo quando manca): il piano esistenziale su cui si svolge
quotidianamente quel rapporto tutto originale di ciascuno instaurato col mondo e le regole
in esso iscritte. In questo caso, l’eccezione della schizofrenia (la sua eccedenza) sarebbe
ben più importante della regola che conferma, proprio in quanto la rende visibile, e di
conseguenza trattabile. Gilberto Di Petta e Arnaldo Ballerini parlano della loro esperienza
clinica, di come fosse per loro sensibilmente avvertibile l’incrinatura, nello schizofrenico,
della “struttura ontologica-trascendentale”, ossia quanto è posto a fondamento del modo
di fare esperienza di ciascuno di noi:

«L’ovvietà e il senso comune, propri del mondo-della-vita riposano, in effetti, su tutta una
serie di atti impliciti che ne rappresentano le più intime condizioni di possibilità. Senza il
fondamento trascendentale nessuna articolazione di tutrealtà è più possibile. La naturalità
dell’evidenza del mondo, di noi stessi con gli altri, è perduta. Tutto ciò che noi diamo per
scontato, nella nostra quotidianità, la luce, il colore, il movimento, il fatto che siamo svegli e
non sogniamo, è il frutto di una serie di operazioni di sintesi che sono a-prioriche e che
rimangono opache e automatiche. Nella schizofrenia questi processi fondazionali impliciti
diventano trasparenti e viziosi, quindi nient’affatto scontati».2

Prigioniero tra innocente ed etereo, perso tra cielo e terra, l’individuo schizofrenico non
cammina, ma passeggia («la passeggiata dello schizofrenico: un modello migliore di
quello del nevrotico disteso sul divano. Un po’ d’aria aperta, una relazione con
l’esterno»3), e nel suo passo risuona la portata della vicenda umana in generale. La sua

2
A. Ballerini, G. Di Petta, La schizofrenia come dramma ontologico: l’intersoggettività dalla rottura al
con-tatto, in Con i tuoi occhi, Mimesis, Milano 2014, pag. 191
3
Deleuze G., Guattari F., Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010

6
spaccatura metafisica è la stessa cui è soggetta l’umanità intera. Benedetti diceva che il
paziente schizofrenico è un cristo-foro, perché come Cristo porta sulle spalle tutto il
dolore del mondo, e nel suo solitario calvario si fa carico, a suo modo, anche di cose non
esclusivamente sue, ma d’appartenenza a tutto il genere umano. Di tutto ciò ch’è
appartenuto all’infanzia degli uomini e delle donne, e all’infanzia dell’umanità in
generale, la cui drammatica risoluzione ha perso d’importanza nella vita di ciascuno,
troppo spesso presi da una realtà in cui non c’è più spazio per il riconoscimento. Nelle
parole di Callieri (2001): «ora, lo schizofrenico che esperisce la fine del mondo, esperisce
la realtà della sua fine... e la sua esperienza di fine del mondo è l'esperienza... del tramonto
di quell'Occidente che egli stesso è, e diviene veramente emblematica della heideggeriana
'notte del mondo'»4.
In questo recinto delle cose e delle patrie perdute, lo schizofrenico diagnosticato dalla
psichiatria recupera la quota d’intersoggettività che gli era stato impossibile giocare nelle
relazioni interpersonali, a partire dalla rinuncia o dal rifiuto di vivere alcun compromesso
ipocrita su cui si struttura la vita quotidiana della maggior parte delle persone in società.
Tutta la sua produzione delirante si compone di elementi trascendentali, ontologici,
metafisici, cui occorre dar appoggio e su cui far veramente leva durante un intervento che
vuol dirsi terapeutico. È da tali elementi che s’intravede l’umana e mitica ricerca del senso
dell’esperienza, comune ad ogni essere pensante dotato di parola. Ricerca e domanda sul
senso che si rinnova ogni volta di fronte alla follia, l’assenza ed il naufragio del senso.
La questione del trattamento con gli schizofrenici è spinosa e mette in risalto quali siano
le lacune inerenti alla pratica psichiatrica, che si fa sì carico di fornire senso e coordinate
all’esperienza sgangherata e disorganizzata della follia, per mezzo di una diagnosi, ma i
cui vuoti di significato e azione indubbiamente demandano ai territori della ricerca e della
clinica psicoanalitica (o di altre terapie più genericamente psicologiche) la questione del
trovare una possibile guarigione, una via di soggettivazione. Per quanto non fosse
convinto dell’idea che vi fosse una vera via d’uscita dalla psicosi, fu Freud stesso a
dichiarare, in Nuove lezioni: «Questi malati sono distolti dalla realtà esteriore ed è per
questo che su quella interiore ne sanno più di noi e possono rivelarci cose che senza il
loro aiuto sarebbero rimaste impenetrabili»5.

4
Callieri B., Quando vince l'ombra. Problemi di psicopatologia clinica, EUR, Roma 2001
5
Freud S., Nuove lezioni, Cremonese, Roma 1934, pag. 212

7
Ci doteremo di un approccio rivolto e aperto alla dimensione multiforme e cangiante
dell’esperienza umana, considerando che la follia è parte connaturata all’esistenza, e
consentendo al senso di emergere a partire da una condizione indifferenziata di mancanza
di senso. Senso intimo e testimone della naturalità che lo schizofrenico ha perduto, di
familiarità essenziale tra sé e il mondo, e che lo porta a percepire tutte le questioni che
sembrano desuete o inutili all’economia di vita attuale, ma d’eccezionale risalto per il
lavoro filosofico o artistico, con un’urgenza stringente. Che siano allora soggetti dotati di
grandi capacità, come Hölderlin, Gerard de Nerval, Dino Campana, John Nash, o pazienti
schizofrenici impoveriti, si tratta comunque di coscienze in extremis in preda al continuo
confronto con le radicali ed eterne questioni che ineriscono l’essere o il non essere,
tentando di porre rimedio al caos imperante e dilagante attraverso soluzioni deliranti che
per quanto provvisorie dimostrano una certa eccentricità, una sensibilità ai codici estetici
non indifferente e una certa originalità6. Ma mentre in un filosofo la speculazione assume
in sé la storia della filosofia con le relative riflessioni sul metodo, e procede maneggiando
costrutti di per sé altamente complessi ed elaborati, nello schizofrenico, con il suo modo
di procedere, ci imbattiamo nella difficoltà dell’immane impresa di ripercorrere a quattro
zampe la strada delle prese di posizione di fronte al mondo, la strada delle
Weltanschauungen, direbbe Jaspers; come se una sorta di ontogenesi individuale fosse
costretta, nel singolo individuo, a ricapitolare una filogenesi collettiva.
Proveremo infine ad intrecciare un discorso di tipo clinico ad uno eminentemente
“letterario” (in Appendice riportiamo alcuni autori), perché se «il mondo è l’insieme dei
sintomi di una malattia che coincide con l’uomo, la letteratura appare allora come
un’impresa di salute»7. Antonin Artaud, celebre drammaturgo che la schizofrenia l’aveva
vissuta sulla sua pelle, nel passaggio di una lettera molto ispirata scritta a Henri Parisot,
scriveva: «non amo i poemi e i linguaggi di superficie… Amo i poemi degli affamati, dei
malati, dei paria, degli avvelenati: François Villon, Charles Baudelaire, Edgar Allan Poe,
Gérard de Nerval, e i poemi dei suppliziati del linguaggio… Amo i poemi che trasudano
la mancanza e non i pasti ben preparati»; sono le testimonianze di coloro che in maniera
originale si sono fatti carico di «far gridare, tartagliare, inceppare, mormorare la lingua in

6
Barison: «la schizofrenia è un qualche cosa che non ha niente a che fare con l’arte vera e propria, però la
deformazione della realtà che opera lo schizofrenico ha qualcosa di assolutamente assurdo che ricorda
l’arte», in Art e Schizophrenie, 1961
7
Deleuze G., Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1996, pag. 16

8
se stessa»8, portandola al loro limite, e innovando una concezione di “salute” attraverso
la creazione di sempre nuove possibilità di vita: «il romanziere ha l’occhio del profeta,
non lo sguardo dello psicologo»9.
Jaspers, che fu il primo ad avviare ad uno studio della patologia mentale con sensibilità
fenomenologica, nell’intento di dare rilievo e ascolto alla parola personale del paziente,
affermerà in modo paradigmatico: «(lo psicotico) può divenire la parabola di tutto l’essere
umano per ciò che vi è di più estremo in lui; in tale condizione sembrano avvenire
realizzazioni distorte e capovolte di situazioni ed elaborazioni esistenziali; in individui
che diventano malati si evidenzia una profondità, che non appartiene alla malattia come
oggetto di indagine empirica, ma a questo individuo nella sua storicità; i ricchi contenuti
che insorgono in una realtà psicotica sono i problemi fondamentali del filosofare, quale il
Nulla, l’elemento distruttivo, l’amorfo, la morte»10. Anch’egli dunque riconosce
nell’esperienza schizofrenica una spaccatura, una discrasia, una scissione, ma la
riconosce come immanente alla condizione umana tout court. Nella quarta edizione del
testo Psicopatologia generale (1946), affermerà che la malattia mentale non insorgerebbe
per via di questa Spaltung, (costitutiva alla natura degli esseri parlanti), bensì in quanto
scacco di un’esagerata e psicotica (ma comunque umana) inclinazione a sottrarvisi, e a
raggiungere la trascendenza. Nel caso della schizofrenia, questo scacco comporterebbe
malauguratamente il naufragio della persona intera.
Dopo essere andati a formare un quadro generale di quel complesso di fenomeni cui ci
riferiamo parlando di schizofrenia, tratteremo alcuni dei temi che l’esperienza
schizofrenica ci pone con “urgenza stringente”, nel tentativo di dirimerne nodi e punti
critici sul piano della riflessione epistemologica, fenomenologica, esistenziale.
Spostandoci quindi dal piano della clinica a quello più propriamente esistenziale, che
comporta la costante apertura dell’orizzonte di senso proprio di ogni accadimento
psichico, metteremo in comunicazione quest’esperienza fuori dell’ordinario con il suo
“sfondo” (l’inerenza del soggetto ad un contesto storico-politico ben determinato, per
esempio), seguendo l’intuizione di Deleuze e Guattari a proposito dell’individuo
schizofrenico («lo schizo», inteso più in senso caricaturale, in quanto figura umana di
rappresentazione) e la critica che la sua stessa esistenza sferza al modo stesso di

8
Ivi, pag. 144
9
Ivi, pag. 109
10
Jaspers K., Allgemeine Psychopathologie, 1913, Il pensiero scientifico, Roma 1964

9
produzione (capitalistico) e all’intero sistema di scambio che abitiamo e da cui siamo
ricorsivamente condizionati. Egli infatti «fuoriesce dai codici, li scombina, e vola in ogni
direzione (senza padrone come l’orfano, l’ateo, il nomade); è libero dalla catena dispotica
del significante dominante»11. Andranno via via attualizzate queste tematiche in rapporto
alla nostra contemporaneità, che in maniera forse non troppo ironica diremmo
“schizofrenica” (così diagnosticata da chi volesse disporsi a quel lavoro filosofico che
indicava Foucault), appunto, presa a destra e a manca da tutto un pullulare d’immagini,
veicolate dai mass media, dal world wide web, dai device e dispositivi smartphone (che
paiono essersi intrecciati, accoppiati strutturalmente alla “catena” umana con incredibile
velocità), in uno sfarfallio irrequieto tra coscienza schizofrenica (“uno stato senza più Io”)
e formazione ideale dell’io. In quel mondo dove il senso e l’informazione paiono
travolgere e investire ogni cosa, cortocircuitandola, ed istantaneamente ogni desiderio
può dirsi appagato con un solo click su schermo, dove ogni cosa può essere comprata,
anche l’identità, mondo in cui sembra ogni cosa scada nel registro del già-visto in men
che non si dica, ci sembra non solo importante ma quantunque necessario recuperare quel
potenziale che Deleuze e Guattari avevano a loro tempo scoperto nello schizofrenico: il
potenziale di fare-mondo, in quanto portatore di una forma radicale di desiderio
produttivo, che riporta l’inconscio nella dimensione del sociale e lo scardina dal vincolo
della rappresentazione, restituendolo alla dimensione di un naturale fluire sotto forma di
processo. Quello che auspichiamo allora è di recuperare la vitalità che nello schizofrenico
di tipo clinico è andata perduta (riconoscendo che ben prima di raggiungere tale situazione
conclamata o cristallizzata, vi sono in atto e ovunque processi “schizofrenici” che sempre
interagiscono e ineriscono alle soggettività umane), innanzitutto grazie a chi, preposto
alla delicata ed insieme difficile attività della cura e del trovare risposta al dilemma della
sofferenza umana, sappia riconoscere, in questi “esseri del sensibile”, delle forme di
soggettività nascenti, che emergono dal sensoriale e si aprono verso l’infinito, verso un
mare oceanico di possibilità d’esistenza; esseri che sappiano, come noi, impegnarsi in una
relazione col caos di modo da farne un caosmos (“caos-diveniente-cosmos” di James
Joyce), realtà complessa ed intellegibile attraverso la coscienza umana.

11
Deleuze G., Guattari F., AntiEdipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975

10
Capitolo I
La schizofrenia... è un elefante? La
ricerca di un oggetto infinito
La schizofrenia non può essere capita
senza prima aver capito la disperazione.

Ronald Laing, L’io diviso (1959)

In una sua parabola, il Buddha racconta di come un gruppo di ciechi, allorquando il re


giunse in città conducendo un elefante, fosse smanioso di conoscere l'animale fino ad
allora sconosciuto. Non sapendo come fare, cominciarono a tastarlo. Il primo cieco,
afferrando la proboscide, disse che l'elefante era come una grossa corda. Il secondo ne
toccò il fianco, sicuro che invece fosse stabile e possente come un muro; un altro ancora,
sfiorandone le zampe, dedusse che l'elefante era come un tronco d'albero. (Batchelor,
1998).
Da quando è stata per la prima volta concettualizzata come oggetto clinico, nell’ambito
della psicopatologia psichiatrica, la schizofrenia è diventata quell'elefante della parabola
di cui non si riesce a cogliere mai l'interezza, poiché ogni studioso che vi abbia tentato,
nel corso dell’evoluzione della storia del concetto, non ne ha descritto che una piccola
porzione, ancorché parziale, indebitamente deducendo che l’oggetto intero, l'entità clinica
denominata “schizofrenia”, dovesse avere una determinata forma, una determinata natura.
Ad oggi tuttavia, ancora nessuno è riuscito a riunirne le molteplici descrizioni, intuendo
la piena portata di quel che questo termine raccoglie. Nessuno (ancora) sa se questa sia
un elefante, una fune, un tronco d'albero o altro ancora12.
Ecco che si fanno subito presenti all’occhio di chi intende studiarla alcune difficoltà di
metodo: come principiare ed affrontare una ricerca sulla schizofrenia che vorrebbe dirsi
scientifica, e nel contempo silenziare gli effetti dell’ospedalizzazione, dei farmaci, delle
terapie precedenti, delle attese culturali, delle reazioni apprese da esperienze bizzarre o
delle differenze nella registrazione di dati accurati sulla sintomatologia dei pazienti o

12
Marco Alessandrini, in Prefazione a Garrabé J., Storia della schizofrenia, 1992, ed. it. Edizioni
Scientifiche Magi, Roma 2001

11
delle loro crisi che, a volte, proprio a causa dell’impatto traumatico dell’ospedalizzazione,
trovano spaventoso ed impossibile comunicare la loro esperienza? Com’è possibile
enucleare la schizofrenia dal soggetto storico, impegnato in un determinato contesto
geopolitico e sociale?
Per riuscire nell’ardua impresa di dispiegare (e fors’anche di sprigionare) quanto è
racchiuso e ravvolto entro il cappello a larghe falde della schizofrenia, tratteremo quegli
aspetti storico-politici implicati nella foucaultiana questione del disciplinamento della
follia, ed in particolare della schizofrenia (alcune coordinate storiografiche, come la sua
nascita come sindrome nel campo della psicopatologia, la pratica psichiatrica di diagnosi
e trattamento, e alcuni contributi in ambito neurologico); successivamente proveremo,
tramite intuizione fenomenologica (la sola capace di valicare i confini dell’abitualmente
pensato13), a coglierne i suoi aspetti caratterizzanti e fondanti, non dal punto di vista della
psicopatologia, bensì da uno più esistenziale: qual è la sfida cui la schizofrenia ci
sottopone, come studiosi, psicologi, psichiatri, operatori dediti alla cura, o semplicemente
come esseri umani? Perché la schizofrenia ancora oggi è capace di metterci alle strette, di
porci in una posizione alquanto scomoda, come professionisti e operatori della salute?
Fungeranno queste domande da volano per approdare entro un campo della riflessione
che si estende all’epistemologia, all’analisi (del profondo insito nell’essere umano così
come dei macro sistemi complessi costituiti dai campi intersoggettivi e sociali), in cui
vorremmo portare il lettore a considerare come, sbaragliata nel singolo l’evidenza
naturale14, sospeso il giudizio (tramite l’atteggiamento dell’epoché fenomenologica)
rispetto ad una presunta e supposta naturalezza del viver quotidiano, si faccia presente
all’osservazione clinica e psicologica l’estrema concatenazione e risonanza tra ciò che si
staglia al di là della propria persona, e ciò che invece si piega al di qua, su di un confine
che si mostra sempre labile ed illusorio, come gioco di maschere e finzione, di
rispecchiamenti e doppie esposizioni – eppure luogo limite di generazione e confronto
con il reale.
«L’incontro con il reale ha sempre il sapore di un trauma», ci dicono infatti Deleuze e
Guattari, poiché lo si incontra sempre nelle situazioni-limite, nell’imprevedibile che la
vita dispensa. «Esperienza pura – afferma William James – è il nome che ho dato

13
Binswanger, 1923; Schneider, 1925; Wyrsch, 1969
14
Approfondiremo in seguito l’espressione di W. Blankenburg (1971)

12
all’immediato flusso della vita. (...) Soltanto bambini appena nati, o uomini quasi in coma
per sonno profondo, droghe, malattie, traumi, si può dire che abbiano un’esperienza pura
nel senso letterale di un questo che non è ancora un che cosa definito». È dunque questo
il Reale: un’esperienza sicuramente al limite della descrivibilità, un’esperienza che
raramente regge la traduzione in linguaggio; forse per questo, più affine a chi un
linguaggio non lo possiede ancora oppure lo ha drammaticamente perso.

13
Vogliamo concludere questa rassegna riprendendo il celebre caso di John Perceval,
richiamato all’attenzione da Gregory Bateson nel 1961, proprio mentre stava
inaugurando, a Palo Alto in California, un’altra concezione della psichiatria (quella ad
orientamento sistemico-relazionale), che metteva in luce la natura sistemica nella
morfogenesi della malattia mentale. Egli promosse una ripubblicazione del testo
originale, dal titolo Perceval’s Narrative. A Patient’s Account of his Psychosis, 1830-
1832. Il volume è comparso nel 2005 in lingua italiana (Bollati Boringhieri, Torino; a
cura di Paolo Bertrando). In questo corposo memoriale, Bateson ritrovò non soltanto una
testimonianza autobiografica delle visioni psicotiche e della cruda realtà
dell’internamento, ma anche una narrazione abile e capace di anticipare lungamente le
riflessioni dello stesso Bateson sulla comunicazione schizofrenica (vedi la teoria del
double-bind), e un valido contributo a quel radicale ripensamento del nesso
psicosi/psichiatria che proprio in quel periodo storico stava prendendo piede. Secondo
Bateson, quello di Perceval era un vero e proprio “contributo scientifico”, che illuminava
i processi creativi che avvengono durante le fasi del delirio schizofrenico: «la sua
posizione teorica si colloca forse a metà tra Freud e William Blake (…). Il suo linguaggio
è spesso quello della teologia, ma i suoi pensieri sono quelli di uno scienziato»123.
Già in un pioneristico lavoro del 1956, Toward a Theory of Schizophrenia, Bateson aveva
ipotizzato una tesi sull’origine comunicativa del disturbo schizofrenico, in quanto
manifestazione di un pattern comunicativo rigidamente paradossale, tendente a ripetersi
identico nel tempo e che lasciava l’individuo prigioniero di situazioni contraddittorie
(“impasse doppio-vincolante”). Da uno studio che aveva condotto in Nuova Guinea, egli
conia il termine schismogenesi per riferirsi a quel processo comunicativo per cui, in un
sistema, più variabili agiscono simultaneamente, ma essendo queste soggette a fuga
esponenziale, per autocorreggersi rischiano di mandare in avaria il sistema. Imbrigliato
in un’impasse, secondo Bateson, lo schizofrenico sarebbe colui che sosta in
quest’impossibilità: «in quel particolare linguaggio che è il guazzabuglio schizofrenico,
egli sta descrivendo una situazione traumatica che comporta un groviglio
metacomunicativo»124, ossia diviene la manifestazione più appariscente di un processo
più ampio, anzitutto relazionale, comunicativo, interazionale, trans-contestuale; nel

123
Bateson G., Introduzione a Perceval. Un paziente narra la propria psicosi, cit. pag. 8
124
Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977, pag. 237

72
Perceval questo viene dimostrato ancor più poeticamente, come in una «danza di parti
interagenti125» che includeva, oltre che lui, i familiari, i medici, il personale assistente e i
vari pazienti delle case di cura presso cui si trattenne. Va detto inoltre che Bateson
rilevava la presenza fortuita del doppio vincolo in altre manifestazioni oltre che a quella
schizofrenica: nell’umorismo, in poesia, nell’arte, nella religione, nell’ipnosi, negli stati
alterati di coscienza e nel sogno, tutte esperienze in cui ha luogo una sorta di
distanziamento dal linguaggio; la differenza stava nel fatto che queste esperienze sono
transitorie, mentre a psicosi è un perenne farsi carico di quest’apertura.
Antesignano di almeno cent’anni sul principio di Von Domarus e sulla lettura batesoniana
del linguaggio schizofrenico, così Perceval molto intuitivamente scrive, a proposito di sé:
«Lo spirito parla in forma poetica, ma l’uomo intende le sue parole in senso letterale. (…)
Ho il sospetto che molti dei deliri che mi tormentavano, e che affliggevano molti altri
pazienti, derivino dall’interpretazione letterale di una forma poetica o figurativa di
comunicazione»126.
In un primo periodo del suo internamento presso uno dei migliori «asili per lunatici»
dell’epoca, nonostante avesse iniziato ad accorgersi con rabbia della natura del sistema
che lo circondava e controllava127, si sentì rassicurato nell’adeguarsi all’etichetta di pazzo
appositamente cucita per lui: confermando le idee di medici e familiari su se stessi e su
di lui, egli aveva ottenuto, magicamente, circolarmente, paradossalmente, l’esito di
rassicurare se stesso. Tutto questo, però, a costi crescenti, fino all’annichilimento della
sua integrità personale, sicché arrivarono «a un punto tale da farne un passivo ammasso
d’ingratitudine128». Non è così insolito che lo schizofrenico sia visto dai sistemici come
la “vittima sacrificale”, sfortunato signor Malaussene impigliato in un profluvio d’intrighi
familiari e comunicazioni a circuito chiuso. Di fronte a quest’impossibilità, l’unica via
per Perceval era stata quella di avvitarsi vieppiù nel circolo vizioso, affidandosi alla
propria orgogliosa volontà di potenza, ancorché a costi crescenti: una crescente impotenza
in risposta. Soltanto quando, con dolorosa lentezza, crebbe in lui il coraggio di mettere in
dubbio la forza delle sue voci e i pareri degli altri, egli poté approdare ad una nuova
intenzione comunicativa, preludio di una guarigione: gli era infatti divenuto tollerabile (e

125
Bateson G., Mente e natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano 1984
126
Bateson G., Perceval. Un paziente narra la propria psicosi, cit. pag 293-294
127
Ibidem, pag. 93
128
Bateson G., Introduzione, cit. pag. 15

73
dunque osservabile) il proprio concorso attivo nel mantenimento della danza relazionale
di cui era parte, e dunque poteva andare a sgretolare l’insistenza con la quale le voci gli
si imponevano e dare pregnanza al senso metaforico (più che letterale) del delirio. In
quest’ottica, quello vissuto e trascritto da Perceval si configura dapprima come una sorta
di incubo, doloroso ma curativo ad un sol tempo: si rivela sorprendentemente essere un
processo che si cura da sé, un percorso terapeutico insito ed iscritto nella condizione
patologica, dotato di una propria grammatica evolutiva ed in grado di condurre, attraverso
varie fasi progressive, ad una forma di equilibrio, potremmo dire guarigione. Secondo
Bateson, il sintomo non è mai solo difesa dal male, ma anche attacco: «una cosa è vedere
il sintomo come parte d’un meccanismo di difesa; altra cosa è pensare che il corpo o la
mente contengano, in una qualche forma, una tale saggezza da creare quell’attacco a se
stessi che condurrà ad una successiva risoluzione della patologia129». Bateson ci sta
dicendo che possiamo sentire in lontananza levarsi un vero preludio di guarigione,
soltanto se si abbia noi prima imparato a sostare, in ascolto paziente, nutrito di gusto per
la meraviglia, nella possibilità di dar vita a nuovi modi di curare, più sensibili alla logica
connettiva, comunicativa e creativa degli ampi e concatenati contesti ecologici di cui
facciamo parte. Si configura così una chiara concezione della malattia come estremo e
sofisticato tentativo di “autocura”, ch’è stato possibile attivare soltanto in un contesto
comunicativo e sociale assurdo, generatore di segnali contraddittori e condizionanti; è
probabile dunque che le “cause condizionanti” la condizione patologica siano
indubbiamente terribili, traumatiche, impreviste… ma come saggiamente suggerisce
Bateson, notoriamente e radicalmente critico nei confronti dell’ethos della tecno-scienza
moderna e della prassi psichiatrica del conoscere-per-agire (la cui fretta smaniosa d’agire,
d’intervenire, spesse volte aveva rischiato di violare il delicato mistero racchiuso in una
sofferenza espressa per via sintomatica, mistero secondo lui ancora tutto da esplorare),
che non per questo tuttavia anche le “cause precipitanti” dovevano condurre all’orrore;
all’opposto e più plausibilmente, esse potevano condurre ad una trasformazione.
Nella psicosi, ci si precipita. È un po’ come cascare dentro alla buca del Bianconiglio.
Una volta entrati, si può solo andare avanti. Senza volerlo, chi ci casca, «si è, per così
dire, imbarcato in un viaggio di scoperta che si conclude solo al momento del suo rientro
nel mondo normale, al quale ritorna con un’idea delle cose diversa da quella degli altri

129
Bateson G., Introduzione, pag. 14

74
abitanti (…)». Bateson in un’intrigante e lucido percorso di riflessione ci porta ad
osservare come «una volta iniziato, un episodio schizofrenico sembrerebbe avere un
percorso definito quanto quello di una cerimonia d’iniziazione – una morte e una rinascita
– in cui il novizio può trovarsi ad essere gettato (vita familiare o circostanze accidentali),
ma che nel suo svolgimento è in gran parte governata da processi endogeni130». Le
possibilità di riuscita del rito iniziatico, ci dice ancora Bateson, dipendono fortemente dal
contesto culturale: in quello fortemente “disincantato” della modernità (ma il discorso è
estendibile anche ai postmoderni giorni nostri), le probabilità d’insuccesso vengono
accresciute dalla mancanza di sensibilità nei confronti della pregnanza dei codici
comunicativi “estetici”, propri invece dei rituali e finiti nel baratro del rimosso
dell’individuo del nostro tempo. Forse Bateson per primo ci fa notare come della
schizofrenia la psichiatria si sia pervicacemente adoperata per definirne (facendo oggi uso
delle moderne tecniche di neuro-imaging) eziopatogenesi, trattamento e prognosi, ma che
invece poco abbia proferito rispetto alle effettive condizioni di chi si è trovato ad
attraversarne - per intero - il marasmatico dramma; eppure, è a questo punto interessante
notare che «John Perceval sembra sia stato un uomo migliore, più felice e più ricco di
immaginazione dopo l’esperienza psicotica»131; come se, per chi sia stato capace di farsi
strada attraverso la psicosi al punto di attraversarla fino in fondo, sia poi auspicabile una
rinascita, con una portata d’evento e stupore incredibili. Dopotutto, era stato già Cesare
Pavese, nel lontano 1945, a dire che «non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto
attraversandola». In La politica dell’esperienza, un paziente di Laing Jesse Watkins,
riporterà, a conclusione di una crisi schizofrenica comparsa improvvisamente: «quando
ne venni fuori, d’un lampo ebbi la sensazione che tutto fosse molto più vero di quanto
non fosse mai stato prima. L’erba era più verde, il sole splendeva più forte, la gente era
più viva e io la potevo distinguere chiaramente. Potevo vedere le cose cattive e le cose
buone, tutto quanto: ero molto più consapevole»132, dimostrando che per chi torna dal

130
Ibidem, pag. 17
131
Si dedicò appassionatamente fino alla morte alla difesa delle vittime dei pregiudizi psichiatrici, con
l’Associazione degli Amici dei Presunti Lunatici, e scrisse, nella premessa al suo memoriale: «apro la bocca
per coloro che non possono parlare. Permettetemi di dichiarare, qui che scrivo in difesa dei giovani e dei
vecchi, della delicatezza femminile, della modestia e della delicatezza, non solo in difesa dell’uomo (…).
Scrivo per quei pochi fatti oggetti di difesa e di allarme alla società, la quale, troppo assorbita dagli affari
o dal piacere per dedicar tempo alla riflessione, è comunque capace di trattare queste persone, oggetto
d’insolenza e di paura, con folle crudeltà», in Perceval. Un paziente narra la propria psicosi, pag. 30
132
Laing R., La politica dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1990

75
“viaggio” che la crisi schizofrenica (alla stregua del sinthomo lacaniano) contiene in nuce,
la vita è certamente più ricca, più forte e più gioiosa perché si è passati attraverso l’epica
del mare oscuro interiore.
In quanto era riuscito Perceval, la psichiatria aveva fallito. Se avesse considerato come
suo oggetto non qualcosa nell’area di un disturbo intraindividuale (psichiatria
naturalistica), o esclusivamente in quello delle relazioni sociali (una sorta di
“socioiatria”), bensì avesse posto ad orizzonte di ricerca i modi di essere (e così anche lo
scacco) dell’intersoggettività, sarebbe approdata a quella che tanto auspicava Bateson:
una radicale messa in discussione delle soggettività in campo, nel contesto di un comune
divenire conoscitivo e terapeutico133. Essendosi a lungo focalizzata su una ricerca dalla
cornice di tipo monista, la psichiatria materialistica non ha potuto cogliere con pieno
rispetto o valori artistici e spirituali dell’esperienza psicotica. Questi veri e propri reami
fenomenologici tuttavia meriterebbero più scandaglio e rispetto da parte della ricerca
(Clarke, 2001; Barker & Buchanan-Barker, 2003; Kliever and Saulty, 2005). Non c’è
psichiatria autentica che non sia anche, e contemporaneamente, psichiatria
dell’intersoggettività. L’esperienza psicotica può esser colta nel suo senso solo se viene
decifrata ed interpretata come scacco dell’intersoggettività, come modo di una distorta
comunicazione con il mondo degli altri e il mondo delle cose: dalle prime analisi di
Binswanger134 già si poteva delineare come da questa frattura dell’intersoggettività
potessero nascere le sequenze terrificanti e sconvolgenti del delirare e dell’allucinare,
dell’estraniarsi dal mondo e del perdersi della continuità temporale del vissuto. È infatti
nel tessuto delle risonanze che ogni esperienza psicotica riflette intorno a sé che si giocano
in fondo il senso e il controsenso di ogni strategia terapeutica135.
Abbiamo finora osservato come, nel dipanarsi della storia, abbiano avuto luogo un
alternarsi di spiegazioni e descrizioni rispetto all’arcano sorgente, il nostro elefante
“schizofrenia”; ne riprendiamo qui i principali (che per ragioni di sintesi non abbiamo
potuto prendere in piena considerazione): dapprima è stata vista come un deterioramento

133
Barison, 1990; Borgna, 1992; Gebasstel, 1964; Kisker, 1982; Winkler, 1981
134
Binswanger L., Schizophrenie, Neske, Pfullingen, 1957
135
Borgna E., Come se il mondo finisse, 1995, Feltrinelli, Milano, pag. 25 e in Garrabé, 1993: «Mai come
nella ricerca sulla schizofrenia è stato possibile riscontrare un processo conoscitivo e trasformativo-
maturativo di così ampia portata, comportato per tutti i membri ed i fattori coinvolti, tutte le interazioni
coinvolte e confluenti nell'interazione terapeuta-paziente. L'effetto trasformativo che deriva appunto dal
rapporto a tu per tu con il sofferente può riverberarsi tramite una rete di ampi feedbacks continui, sui contesti
familiari e sociali, eppure su quelli politici e culturali».

76
di capacità cognitive, organiche (Morel, Kahlbaum, Kraepelin), poi come il dissociarsi e
il frammentarsi delle funzioni dell'Io, con lo slegamento o dispersione del sentimento di
unità interiore (Bleuler, Minkowski), dall’altra con il distacco dalla realtà condivisa e
dagli altri (Freud, Hartmann, Rapaport). Ma non solo. Procedendo negli anni, è stata poi
descritta come implosione di una distruttività e di una regressione, tuttavia rivolte a far
emergere potenziali risorse ricostruttive (Jung, Spielrein), se non veri e propri simboli
arcaici (Jung, Benedetti). O ancora, la si concettualizza come disperata reazione a
mancanze affettive e a comunicazioni intrafamiliari ambigue (Bateson, Bettelheim,
Cooper), o reazione ad altrui nascosti e latenti nuclei schizofrenici (Laing). O ancora
come perdita dell’evidenza naturale (Blankenburg) e della dimensione trascendentale, che
fa da innesto per una radicale riflessione sul fondamento stesso dell’intersoggettività (Di
Petta, Ballerini, scuola fenomenologica). Si avvicendano descrizioni aggiuntive, che
concepiscono la schizofrenia come derivante da alterazioni neurochimiche,
eventualmente su base eredo-genetica (da cui si stabilisce il criterio di “vulnerabilità”), e
inoltre le correlate descrizioni della capacità di sostanze biochimiche, ora gli allucinogeni,
ora specifici psicofarmaci, di poter rispettivamente scatenare o attenuare i sintomi. A
seguito di un'ennesima svolta ideologica, essa viene descritta come l'esasperazione e la
crisi di atteggiamenti proposti da intere culture (Devereux, Cooper, Laing). Non può
mancare al compendio, la descrizione della mancata iscrizione della soggettività
nell'ordine significante (in Lacan, nel caso della forclusione del Nome-del-Padre), in cui
la schizofrenia viene reinserita nell'alveo delle complesse interazioni intrapsichiche, o
vicarianti e difensive, o espressione di mancate maturazioni dell'Io (Federn, Klein).
Ma di che cosa si tratta allora? Non sono forse queste stesse teorie tra loro discordanti e
slegate, schizofrenicamente dissociate? Sembra opportuno qui chiedersi se la schizofrenia
concretamente esista, o se non sia piuttosto il prodotto di un’infausta e spregiudicata
reificazione (come entità clinica o in senso bio-medico tradizionale, istituzionalizzata
come tale). Eppure, ci sembra importante riprendere il discorso di Garrabé, che molto
insistette sulla schizofrenia nell’intenderla però come «punto di raccolta di vasti processi
interattivi tra persone, di intense processualità individuali, tra loro interagenti»136; così

136
«L'elefante ha uno sfondo e da esso discende, vi si staglia come suo prodotto: é l'interazione umana entro
a cui si interscambiano tensioni interpsichiche, intrapsichiche, individuali, collettive. Il fantomatico
oggetto-schizofrenia è nella nostra mente, è la nostra mente. Proprio perché appartiene al mentale ed in

77
detta, essa infatti esiste, eccome. A dirla così diviene implicitamente evidente come la
costituzione della schizofrenia posi, per via della sua natura interazionale e sistemica, su
quel reame d’interconnessioni e di contraddizioni sempre esposte al dubbio, ove persino
l’interiorità rivela essere un luogo ch’è parte di un tutto interindividuale (familiare,
sociale, comunitario, geopolitico), e che anticipa di gran lunga l’incontro cosciente con il
mondo.
Possiamo scorgere, tra le fronde delle molteplici teorizzazioni che sono state avanzate
lungo la storia del Novecento, un filo comune che risiede nel fatto che tutte queste teorie
richiamano in causa aree di confine, zone di frontiera tra elementi in rapporto di
contrapposizione (realtà interiore ed esteriore, Io e Tu, individuo e altri, corpo e mente,
norma e devianza, realtà e fantasia). Il concetto di schizofrenia, insieme con i caotici
vissuti riportati dai pazienti, rende tali zone di frontiera critiche e fluttuanti, portando in
luce, estremizzando e sottoponendo a tensione la visione statica e consolidata che
abbiamo di noi stessi e del reale: «la schizofrenia invita a scoprire un problematico e
magmatico aldilà conoscitivo ed esperienziale, attraverso la riflessione sulle cesure e sulle
loro criticità»137.
A questo proposito, ecco un interessante appunto di Wilfred Bion: «vi è una continuità
molto maggiore tra i “quanta” specificatamente autonomi e le “onde” dei pensieri e dei
sentimenti consci, di quanto l'impressiva cesura del transfert e controtransfert ci faccia
pensare (…). Dunque? Indagate la cesura: non l'analista, non l'analizzando; non
l'inconscio, non il conscio; non la sanità, non l'insanità. Ma la cesura, il legame, la sinapsi,
il (contro)transfert, l'umore transitivo-intransitivo»138, lasciando intendere inediti percorsi
terapeutici della sintomatica psicopatologica in questione.
Che cosa vuol dire indagare la cesura? Significa forse accorgersi che la nostra usuale
visione, statica e ripartita di noi stessi, delle cose del mondo e del reale, il buon senso
insito in tutto ciò, poggia invece su di un'unitarietà e su di un'interattività immanenti (il
piano dell’intersoggettività)? Andrebbe seguito l’ammonimento di Bion: indagare la
cesura, il rapporto, l'interscambio o l’interazione tra unitarietà e distinzione, tra processo
e forma, tra contenitore e contenuto, e seguirla fino all'estremo confine o punto di

quanto punto di raccolta e di tensione intersoggettiva, è inafferrabile, cangiante e mutevole, incredibilmente


ampio.» (da Alessandrini M., Introduzione a Storia della schizofrenia, Ed. Scientifiche Magi, Roma 2001)
137
Ibidem, pag. 23
138
Wilfred Bion, 1977, pag. 99

78
tensione. La cesura tra la parte e il tutto, tra il dentro e il fuori, tra terapeuta e paziente,
tra individuo e collettività, che ci porterà poi a ragionare entro ai meandri complessi e
multidimensionali dell’intersoggettività.
Sarà Jung ad avvicinarsi a queste cesure nell’assumere un punto di vista energetico nella
comprensione dell'evento psichico (opposto a quello meccanicistico, poiché non segue il
principio di causa ma il suo capovolgimento logico, il principio di finalità)139. Egli sempre
rammentò di affiancare, alla visione statica e meccanicistico-causale del fenomeno
(alimentata dall’uso quotidiano delle categorie diagnostiche e che finisce per cristallizzare
la biografia personale in un unico punto d’indagine), un'altra invece cangiante,
processuale e allargata (energetico-finale, o addirittura molecolare, “quantistica”). Questo
sapiente affiancamento consente di andare incontro della cesura (radioattiva, in quanto
scaturigine di reale, di qualcosa che ci interroga e fa problema) in maniera tale da vedere
non solo distinti, ma anche, contemporaneamente, indistinti, eppure processualmente
interattivi, i due poli che la cesura di volta in volta separa.
Come in un triviale gioco di specchi, la schizofrenia mette in vistosa luce come tutte
queste cesure, abitualmente nascoste all'osservazione, esistano e vadano accolte; il vissuto
di chi si trova ad attraversarne il travaglio ci dà prova del fatto che, qualora venissero
notate, si rivelerebbero tutt'altro che scontate, o stabili e innocue. Piuttosto, si
rivelerebbero nella loro natura misteriosa e mutevole, in tensione costante. Non soltanto
a livello di vita individuale, ma anche a livello di fenomeni collettivi (culturali, sociali,
politici). Tale è il motivo per cui l’incontro con un paziente schizofrenico sarà sempre e
immancabilmente d’un impatto perturbante140: egli, senza saperlo, porta alla luce e rivela
gli enigmi, gli intrecci, i nodi e i punti di cesura che risiedono nei rapporti e ineriscono
l’esistenza, per sua stessa natura e costituzione. Via talvolta battuta più dall’arte (“art
challenges us to seek that which is most human”, Rothko 2004; “celebrating rather than
ignoring the nuance”, Philiph Roth, Kettle, 2006) piuttosto che dalla scienza, e che ci
porta al cuore segreto di ciò che è più propriamente “individuo” (Collingwood in Lines,
2005).
Inizia a farsi largo quell’idea che la schizofrenia rappresenti la coagulazione vivente di
tutti i processi interattivi che ineriscono al singolo individuo, che essa stessa, più che

139
Questo farà esclamare, alla brillante allieva Marie Louise von Franz, che «la terapia junghiana (è) la più
ampia nell’abbracciare la vastità della psiche umana» (estratto da un’intervista del 1982, a Bollingen)
140
Freud S., Il perturbante, OSF, vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino 1919

79
nugolo indefinito e patogeno, rappresenti l’interazione processuale tra persone, epoche e
culture, assemblage o melting-pot mentale/virtuale dove affiorano simboli e immagini
appartenenti alla biografia, non soltanto del singolo individuo, ma dell’umanità tutta,
svelando la natura intersoggettiva dell’essere umano. La storia della schizofrenia è lo
specchio di un'interazione umana, di un'interazione tra varie menti, e dei vasti e mutevoli
sfondi da cui questa è attraversata. Essa pertiene pertanto al reame dell'attività mentale
(dell’idea in senso kantiano, direbbe Jaspers), attività mentale a sua volta frutto di
incessanti interazioni, in primis interumane. È un po’ come se la storia della ricerca sulla
schizofrenia riproducesse nel suo insieme l’attività di ricerca tra professionisti e persone,
contesti, culture e sfondi, ripercorrendo le tappe dell’evoluzione della nostra
consapevolezza in materia di natura psichica e mentale. Dimensione triviale e
proteiforme, specchio del mondo postmoderno e forse per questo passibile d’esser
patologizzata in quanto riflette un reale che vuole esser tenuto a bada per garantire e
tutelare un quieto viver sociale. Detto altrimenti, in una brillante intuizione di T. S. Eliot
(The Four Quartets): «human kind cannot bear much reality»; e per questo forse cerca la
popolazione ritenuta sana, normale, di salvaguardarsi dinanzi allo scontro con il fluire
incessante e sempre mutevole del Reale. In altri termini, dirà Burkhardt (1962): «nella
follia si manifesta talora quell’aspetto del reale che l’uomo non deve vedere per rimanere
sano»141, o altrove, nelle parole di Jacques Alain Miller, «tutti i nostri discorsi non sono
che difese contro il reale»142.
L'elefante-schizofrenia è mutevole, mai del tutto afferrabile, misterioso quanto la nostra
mente, non solo in rapporto a quanto di personale la fonda (scissione radicale, ontologica,
connaturata all’esistenza), ma anche in rapporto a quanto, consapevolmente ed
inconsapevolmente, viene suscitato sia dall'incontro di due poli relazionali, sia dai più
estesi e complessi processi e contesti entro cui l’incontro umano ha luogo e si svolge:
«Molto ha esperito l’uomo.
Molti celesti ha nominato
da quando siamo un colloquio
e possiamo ascoltarci l’un l’altro.»143

141
Burkhardt H., Die schizophrene Wehrlosigkeit, in Nervenarzt, pag. 33
142
Miller J-A., (1988) “Clinica ironica”, in I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001, pag. 210
143
Una delle più note liriche di Friedrich Hölderlin

80
Capitolo III
L’orizzonte molecolare del fenomeno
reale
Il desiderio è sempre rivoluzionario,
macchina pronta a distruggere
le rassicuranti molarità predisposte dal potere.

G. Deleuze e F. Guattari, ne L’AntiEdipo (1977)

Schizofrenico è indubbiamente il campo semantico dischiusosi dalla creazione del


neologismo bleuleriano, cappello dalle larghe falde, categoria-ombrello: con lo scadere
del XX secolo, è infatti suonata la campanella dei Cent'anni di schizofrenia144.
A questo punto dell’argomentazione, composta da tante voci quanti gli autori e i livelli di
comprensione analizzati, vorremmo lasciare le sponde tanto frastagliate della clinica
psichiatrica e psicoterapeutica per approdare ad un campo della riflessione puramente
teoretica, di cartografia topografica. Lavoreremo sulla costruzione della mappa,
certamente nel suo riferirsi ed interrogare il territorio, seppur sapendo che questo non è.
Per cominciare, ci serviremo del critico e sferzante lavoro di Deleuze e Guattari, che
nell’AntiEdipo (1972, Minuit, Paris; ed. it. 1975, Einaudi, Torino) contestano dapprima
l’affermarsi del desiderio come di una mancanza («l'inconscio non è un teatro, ma
un'officina, una macchina per produrre», diversamente da quanto andava via via
emergendo dal discorso psicoanalitico fattosi allora dominante), dando piuttosto risalto
al suo garantire la libera configurazione delle singolarità e delle forze a metter la storia in
movimento: in questo senso, non la follia sarebbe da ricondursi ad un ordine precostituito,
bensì, in un audace capovolgimento dell’operazione di lettura, sarebbe il mondo moderno
(o l’insieme degli ambiti sociali) a dover esser interpretato in funzione della singolarità
del folle. Riconoscono gli autori un sistema di strutturazione uomo-mondo (da cui trovano
fondamento materiale tutti i sistemi di rappresentazione di cui ci serviamo) che non è
illusione della coscienza, bensì condizione stessa di realtà: gli individui ed il mondo, le
forze di lavoro e il capitale, il soggetto e la struttura che esistono realmente in una

144
Garrabé J., Storia della schizofrenia, Ed. scientifiche Magi, Roma 2001, pag. 381

81
materialità istituzionale irriducibile e piena di energia vitale (Maturana e Varela nel
teorizzare l’autopoiesi delineavano lo scorrere delle esistenze “in accoppiamento
simbiotico” al sistema-ambiente di cui fanno parte). Da qui, gli autori pongono in rapporto
la schizofrenia al capitalismo di stampo moderno: «la schizofrenia come malattia del
nostro tempo, come processo di produzione»145; altra è la concezione psicoanalitica di un
teatro intimo e familiare, «teatro dell’uomo privato», che non è produzione desiderante,
non rappresentazione oggettiva. L’inconscio in analisi si dispiega come scena, nella
cornice di un teatro messo al posto della produzione, immagini nella giostra di una
rappresentazione soggettiva infinita, dove i temi del mito e della tragedia si manifestano
come sogni e fantasmi dell’uomo privato. Laddove il mito, spogliato della sua origine
collettiva e comunitaria, trasfonde tutto nella rappresentazione, ecco che si genera lo
spazio della mancanza, spazio profondo che allontana l’individuo dalle “macchine
desideranti”. Attraverso un’operazione di cui forse lo stesso è inconsapevole, lo
schizofrenico ricuce questo spazio e riconduce ad origine sociale la produzione
desiderante. Così egli passeggia, essere incerto e sospeso tra la terra ed il cielo, con
«passo vacillante che non cessa di migrare, di errare, di barcollare»146, si addentra nella
deterritorializzazione147 che lo stesso capitalismo innesca («il capitalismo, nel suo
processo di produzione, produce una formidabile carica schizofrenica (…)»148), e
scardinando lo stato di cose attuale, in viaggio intensivo lo porta al suo più estremo
limite149: «confonde tutti i codici, e porta i flussi decodificati del desiderio. Il reale fluisce.
La schizofrenia è la produzione desiderante (pura molteplicità, pura eterogeneità:
affermazione irriducibile all’unità) come limite della produzione sociale»150. O ancora, a
proposito dei rapporti di produzione sempre in atto del socius: «ha superato il limite che
teneva la produzione del desiderio sempre ai margini della produzione sociale,
tangenziale e sempre respinta. Lo schizo sa partire: ha fatto della partenza qualcosa di
altrettanto semplice che nascere e morire… ma nello stesso tempo, il suo viaggio avviene
stranamente sur place. Non parla di un altro mondo, non è di un altro mondo: anche

145
Deleuze G., Guattari F., AntiEdipo, Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, pag. 146
146
Ivi, pag. 38
147
Come afferma May: «è il caos al di sotto e all’interno dei territori» (2005), potenziale di differenza e
promemoria costante della nostra intima connessione con il caosmos
148
Deleuze G., Guattari F., AntiEdipo, Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, pag. 37
149
«Tutto quel che oggi sentiamo come limite, estraneità, come insopportabile, sarà giunto alla serenità del
positivo…», in Foucault M., La folie, l’absence d’œuvre, in Histoire de la folie, Gallimard 1972
150
Deleuze G., Guattari F., AntiEdipo, Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, pag. 38

82
quando si sposta nello spazio, è un viaggio in intensità, attorno alla macchina desiderante
che si erge e resta qui»151.
La forza della concettualizzazione dei due autori sta nel fatto di porre al centro del
fenomeno osservato non l’identità, bensì la differenza, la molteplicità, l’imprevedibilità,
nei termini di variazione e flusso di quelle che altrimenti von Foerster avrebbe descritto
come “macchine non banali” (Gujon, 2006) e Prigogine come “sistemi fuori equilibrio”
(Prigogine, Stengers, 1984); essi hanno infatti sottoposto ad unità di analisi proprio i
concatenamenti, lo scorrere della vita e il processo di individualizzazione, andando a
confrontarsi con il caos traboccante da questa e recuperando la condizione dell’esistenza
umana, tragica e gioiosa ad un sol tempo: «la vita è un lancio di dadi e vivere richiede di
affermare questa molteplicità confrontandosi con le ordalie che ci si presentano»152, in un
divenire che, come nell’eterno ritorno preannunciato da Nietzsche, articola la propria
presenza attraverso la trasformazione in atto di tutto ciò che è in qualche cosa d’altro,
incluso il Sé: «il divenire stesso come intrinsecamente trasformativo, creativo e marginale
– intrinsecamente multiplo»153.
Potranno facilmente convenire i lettori sul fatto che Deleuze e Guattari, nell’appropriarsi
di termini appartenenti a registri disciplinari dalle frontiere ben definite e controllate da
organi polizieschi insiti nel linguaggio stesso (si veda l’Ordine del discorso di M.
Foucault), ne abbiano smontato gli orizzonti di significazione cui tendono, nell’intento
però di liberarli della loro forza propulsiva e generativa di mondo e di desiderio;
operazione peraltro possibile proprio perché gli autori si muovono su di un piano
disciplinare distinto da quello della psichiatria. Altrove diranno, centrando infine appieno
il nucleo della questione:

«Poiché il deserto propagato dal nostro mondo è qui, ed anche la nuova terra, e la macchina che
ronza, attorno a cui girano gli schizi, pianeti per un nuovo sole. Questi uomini del desiderio
(oppure non esistono ancora) sono come Zarathustra. Conoscono incredibili sofferenze, vertigini
e malattie. Hanno i loro spettri. Devono reinventare ogni gesto. Ma un tal uomo si esibisce come
uomo libero, irresponsabile, solitario e gioioso, capace infine di dire e di fare qualcosa di semplice
in nome proprio, senza chiedere il permesso, desiderio che non manca di nulla, flusso che supera

151
Deleuze G., Guattari F., AntiEdipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, pag. 146
152
Nichterlein M., Morss J. R., Deleuze e la psicologia, Raffaello Cortina, Milano 2017, pag. 171
153
Deleuze G., L’immanenza: una vita…, In Aut aut, 1995

83
gli sbarramenti e i codici, nome che non designa più alcun io. Ha semplicemente cessato di aver
paura di diventare pazzo. Vive se stesso come la sublime malattia che non lo toccherà più. Che
vale, che varrebbe qui uno psichiatra?»154.

Che varrebbero queste le parole di Deleuze a confronto con l’esperienza svolta dai servizi
psichiatrici: a proposito dei metodi, allora e oggi, troppo spesso dimentichi della
delicatissima postura cui uno è chiamato ad assumere in presenza di questi “uomini
dell’avvenire”, in quanto portatori di forme di tensione, differimenti e zone oscure non
ancora sondati, parole non ancora pronunciate. Il divenire di cui parla Deleuze è la
manifestazione concreta del processo schizofrenico (dunque non nel senso
dell’individuazione, ma in quello dell’evento), quello che caratterizza chi è sempre aperto
all’incontro con l’esterno, alla produzione di nuove imprevedibili combinazioni. Questo
diventa possibile perché, come spiega Gatens, «il corpo umano è radicalmente aperto
all’ambiente circostante e può esser composto, ricomposto e decomposto da altri
corpi»155, parte attiva in un’ecologia d’insieme che si rivela nella connessione vitalistica
e affermativa con le forze più ampie: «finiscono di esser soggetti per divenire eventi, in
concatenamenti che non si separano da un’ora, da una stagione, da un’atmosfera, da
un’aria, da una vita»156.
Non è possibile, nell’accogliere tali espressioni (forme non necessariamente compiute di
comportamenti), esimersi dalla riflessione sul potenziale trasformativo insito in esse:
l’incontro col trauma, o l’eccesso di non anticipabili condizioni a volte troppo
frettolosamente bollate come patologiche. In una prospettiva più ampia e depoliticizzata,
questi stati dell’umano dimostrano lo strazio e insieme lo stupore di chi si trova, inerme
e senza scudo, a vivere l’esperienza di un’estrema prossimità al centro intenso e vivente
della materia: di quali magnitudini è capace l’esperienza schizofrenica! Essa viene
individuata da Deleuze e Guattari come forma di necessaria resistenza alle codificazioni
significanti e rappresentative – attive sul tessuto sociale tramite l’operato di istituzioni e
di normative – su di un “corpo senza organi” (corpo decodificato), sul quale i flussi del
desiderio scorrono in condizioni tali da rendere impossibile ogni codificazione. Il

154
Deleuze G., Guattari F., AntiEdipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, pag. 146-147
155
Gatens M., Through a Spinozist lens: Ethology,difference, power., in Patton P., Deleuze, a critical
reader, Blackwell Publisehrs, Oxford 1996
156
Deleuze G., Guattari F., Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2006

84
desiderio viene qui restituito alla sua positività creatrice proprio attraverso la
presentazione del processo schizofrenico, il quale esprime il movimento del desiderio che
investe tutto quanto implichi una rottura delle forme algide, rigide – identità personale
del soggetto classicamente inteso – che “resiste” cioè attivamente alle significazioni
dominanti con degli stati vissuti, intensamente vissuti, intraducibili nei fantasmi che la
psicoanalisi offre157. In quest’ottica, soltanto allo schizofrenico interessa il problema della
libertà, ma nel discorso dei due filosofi la posizione schizofrenica è da intendersi come
attitudine cognitiva, piuttosto che come categoria nosologica, con determinate modalità
di funzionamento e politiche specifiche (diverse dalla posizione complementare della
“paranoia”158). Viene presa in considerazione la schizofrenia non come – parafrasando
Lacan – il fallimento del soggetto ad accedere pienamente al reame del discorso e del
linguaggio, che comporterebbe l’impossibilità di sviluppare un Io integrato, o
l’impossibilità ad individuarsi in mancanza di un supporto socio-linguistico di
riferimento; secondo il fine della nostra esposizione, diremo “schizofrenica” piuttosto
quella disposizione di coscienza che sfugge ad ogni definizione, ad ogni codificazione da
parte di significanti dispotici (quale ad esempio quello della triangolazione edipica), che
non partecipa dell’immaginario rappresentandoselo, ma essenzialmente produce e
riproduce il reale.
L’intento di Deleuze e Guattari non è quello di fare un’apologetica degli stati
schizofrenici, né tantomeno di sminuire la sofferenza (che abbiamo visto essere quella
traumatica che sovviene in esperienze-limite e dirompenti) provata da chi vi è passato
attraverso; l’intento è di cambiare punto di vista, rovesciando il piano su cui si snoda la
riflessione teorica; invece che prassi di contenimento, la loro è prassi di liberazione: nella
sensibilità schizofrenica difatti riconoscono l’apertura propria di una certa disposizione
della coscienza, infinitesimale condizione in cui si dà luogo ad una forma radicale di
desiderio “produttivo”, perché capace di realizzare l’inconscio, di liberarne l’implicito
potenziale di “fare-mondo”. Quest’esperienza è ben lontana da quanto emerge dai
resoconti dell’esperienza dei servizi psichiatrici, ma non peraltro limitata agli
schizofrenici della clinica. La produttività del desiderio è contrassegno del potenziale
schizofrenico racchiuso in ciascuno di noi, ossia ciò che ci rende capaci di resistere al

157
Rossi K., L'estetica di Gilles Deleuze. Bergsonismo e fenomenologia a confronto, Pendragon, Bologna
2005
158
Fontana A., Introduzione a L’AntiEdipo, 1975

85
potere dei significanti dispotici che influiscono sul discorso e alle ri-territorializzazioni
capitalistiche che influiscono sulle possibilità generative dello stesso.
La psicosi, nel rappresentare la condizione di blocco al passaggio, dà luogo tuttavia allo
scatenarsi vorticoso e prolifico delle produzioni (financo discorsive), affinché se ne possa
liberare il processo sotteso, perché possa proseguire e concludersi, ma nella sola misura
in cui il disordine che ne scaturisce è in grado di creare “nuova terra” (nel ‘deserto’ della
cattiva coscienza): «come riconquistare ogni volta il processo, come riprendere
costantemente il viaggio?»159.
Sulla falsariga di una Daseinsanalyse di binswangeriana memoria, essi propongono la
schizoanalisi160 come operazione di smontaggio dei codici iscritti sui corpi dei soggetti a
vantaggio di un esercizio che libera dell’evento la sua potenza rivoluzionaria, come
ricerca dello spazio inesteso dove il desiderio non è che laboratorio e sperimentazione:
«essa deve occuparsi solo delle concatenazioni macchiniche colte nell’elemento della loro
dispersione molecolare»161; così il desiderio sfugge alla presa (e alla pretesa) di chi tenta
d’afferrarlo, cui sfugge anche la comprensione: «di un processo ne abbiamo fatto uno
scopo; il fine di ogni processo non è la propria continuazione all’infinito, ma il proprio
compimento… deve tendere non a una qualche orribile intensificazione, a un quale
orribile estremo in cui l’anima e il corpo finiscono col perire, ma al proprio momentaneo
compimento»162. Il compimento del processo non sarebbe allora il varcare la soglia di una
terra promessa e pre-esistente, dacché è il desiderio ad essere messo in atto, a dover essere
fatto “funzionare”, ma una terra che si crea via via con la propria tendenza, col suo
decollo, con la sua stessa deterritorializzazione, nel dispiegarsi delle rivelazioni cui ogni
piega del processo conduce… auspicando forse di raggiungere quello spazio dinamico
melvilliano dove le singolarità possano comporsi come in un «muro di pietre libere, non
cementate, dove ogni elemento si colloca per se stesso e tuttavia in rapporto agli altri:
relazioni fluttuanti, punti mobili e linee sinuose…»163.

159 159
Deleuze G., Guattari F., AntiEdipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, pag. 363
160
«Si tratta di trovare quali siano le macchine desideranti di uno, come funzionino, con quali sintesi, con
quali imballature, con quali colpi a vuoto costitutivi, con quali flussi, con quali catene, con quali divenire
in ogni caso», da Deleuze G., Guattari F., AntiEdipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1972,
pag. 387
161
Deleuze G., Guattari F., AntiEdipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, pag. 370
162
Lawrence D. H., La verga di Aronne, trad. it. C. Izzo, Mondadori, Milano 1949
163
Deleuze G., Critica e clinica, Cortina, Milano 1996

86
La messa in atto del desiderio si inscrive nella cornice di una ‘politica del virtuale’,
decifrazione e contesa non del solo possibile, ma di ciò che si rende esplicito nel suo
attualizzarsi e che aprirà il senso stesso della politica (fenomenica) ad una
sperimentazione irriducibile. L’incontro con la schizofrenia è ritorno alla condizione di
Homo natura, antecedente a qualsiasi tentativo di descriverlo, aderente al ritmo e agli
sbalzi dell’élan vital concettualizzato da Bergson, virtualità sul punto di attualizzarsi
attraverso la creazione di linee divergenti (variazioni); realtà davvero creatrice,
produttrice di effetti in cui essa si amplia e supera se stessa, in un processo dinamico
senza soluzione di continuità, in un continuum che sfugge all’analisi ed eccede le proprie
forme: immanenza creativa che si concilia col processo produttivo del desiderio.
Ma questa immanenza, seguitando nella concettualizzazione che vogliamo qui riportare,
è punto d’arrivo e conquista, non semplice regressione: essa può darsi solo nella
concatenazione del corpo del soggetto ad un divenire, aperto alla possibilità di “cambiare
natura”. Far collassare il soggetto, ci dicono Deleuze e Guattari in Millepiani164¸ per
costruire un corpo in grado di fare “rizoma”165 con il resto della natura, «cosicché ogni
individuo sia una molteplicità infinita, e tutta la Natura una molteplicità di
molteplicità»166. Il “divenir-animale” da essi configurato intende suggerire all’animale
parlante (che dice di sé di essere un Homo doppiamente sapiens…) di accompagnare
proprio questo movimento verso il provare a essere, semplicemente, una vita, un’ecceità,
cioè una «vita di pura immanenza, neutra, al di là del bene e del male, poiché solo il
soggetto che la incarnava in mezzo alle cose la rendeva buona o cattiva. La vita di questa
individualità scompare a vantaggio della vita singolare immanente a un uomo che non ha
più nome, sebbene non si confonda con nessun altro. Essenza singolare, una vita…167»:
vita impersonale, e tuttavia singolare. Condizione beatifica in cui si possa non solo
provare ma “essere gioia”, essere «una molteplicità, un divenire, un segmento, una
vibrazione168»: concatenati con l’intero e infinito movimento del piano di consistenza (in
cui sono iscritti tutti i divenire, dove trovano una via d’uscita), ma non prima che si abbia

164
Deleuze G., Guattari F., Mille piani, Cooper-Castelvecchi, Roma 2003, cit. pag 354
165
In botanica, con “rizoma” si fa riferimento ad un tipo di pianta che cresce estendendosi attraverso la
superficie del terreno e su di essa e sviluppando sia radici sia propaggini, quando trova un ambiente
nutritivo. Esso è un concetto noto ad alcuni ambienti psicologici (Hoffman, 2008; Kinman, 2012; Morss,
Nichterlein, 1999)
166
Ivi, pag. 360
167
Deleuze G., L’immanenza: una vita…, Mimesis, Milano-Udine 2010, pag. 10-11
168
Deleuze G., Guattari F., Mille piani, cit. pag. 357-358

87
saputo fare dentro di sé il silenzio, e annullare la distanza che l’uso del linguaggio aveva
tracciato tra sé e il corpo, tra sé e il mondo. L’immanenza, questo piano di distensione
presso cui sostare in unione alle cose, per l’umano e per l’umano soltanto, è auspicabile
solo quando si abbia prima attraversato la separatezza dal corpo e la scissione della
trascendenza, Spaltung intrinseca al linguaggio che nel parlante spezza la pienezza del
reale inteso come unico flusso vitale d’esperienza; lo inserisce infatti nel pronunciarsi
all’interno di una scansione temporale cronologica, recidendo d’un sol colpo i legami
infiniti e sottili che lo connettevano con ciò che era lì ed era là, prima dell’evento del
linguaggio, prima di aver pronunciato la parola “io”. È quello che Lacan intende, nel
Seminario XXIII, quando afferma: «il linguaggio è legato a qualcosa che fa buco nel reale
(…); è con questa funzione di buco che il linguaggio opera la sua presa sul reale»169. La
trascendenza appare nella vita del corpo quando questo diventa parlante: in virtù del
legame costitutivo tra linguaggio e trascendenza potrà principiare il movimento verso
l’immanenza, facendo però i conti con il linguaggio, e intenzionando la liberazione del
“soggetto” – principale ostacolo sulla strada dell’immanenza – ossia, di quell’“abitudine
di dire Io”.170
Gli autori si servono poi di un testo di Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel
cielo, per narrare di come la partecipazione a quell’unico e medesimo piano di vita sia
accessibile per l’umano tramite il silenzio, condizione consimile alla semplice obbedienza
di un fiore di campo, in radicale accettazione e aderenza alla vita: l’essere parlante sarà
però necessariamente obbligato a passare per il linguaggio, rinunciando alle funzioni
linguistiche del controllo e della regolazione del flusso dell’immanenza, e trasformando
le «composizioni d’ordine in componenti di passaggio»171. Trasformare il linguaggio in
un “passaggio”, perché la vita, come il giglio nel campo e l’uccello nel cielo di
Kierkegaard, «non parla; ascolta e attende»172. Tutto questo può essere raggiunto
attraverso il silenzio (ch’è ancora nell’orbita del linguaggio eppure lo travalica), e la
rinuncia all’“io” come abitudine, come automatismo della coscienza, che incide sul corpo
con una certa insistenza impedendo a chi parla di stare al mondo e basta: finché c’è io,

169
Lacan J., Il seminario. Libro xxiii. Il Sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, pag. 29-30
170
Deleuze G., Guattari F., Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi 1996, cit. pag. 38
171
Deleuze G., Guattari F., Mille piani, Cooper Castelvecchi, Roma 2003, cit. pag. 170
172
Ivi, pag. 128

88
non può esserci corpo, e finché non c’è semplicemente corpo non può esserci nemmeno
mondo, pienezza di vita, immanenza:

«Ma allora quello che devo fare è, in un certo senso, nulla? Sì, proprio così, in un certo senso è
nulla; tu devi rendere te stesso nulla nel senso più profondo, diventare nulla davanti a Dio,
imparare a tacere. In questo silenzio sta quell’inizio che è: cercare prima il regno di Dio».173

Bergson aveva già intrapreso questo cammino di riflessione, mostrando come il vivente
rassomigliasse al mondo (non come nell’antico luogo comune, di sistema isolato e
naturalmente chiuso), ma proprio nella misura in cui il vivente, con la propria durata, si
sia aperto all’apertura del mondo: un Aperto che cambia senza tregua facendo sorgere
continuamente qualcosa di nuovo, d’inatteso. Questo Aperto (che assume qui e già in
Jaspers i tratti di un reale lacaniano che varia perpetuamente se stesso) è un tutto nella
misura in cui il tutto, parimenti del mondo e del vivente, sta sempre facendosi,
producendosi, iscrivendosi in una dimensione temporale irriducibile, mai chiusa:
«ovunque qualcosa vive, c’è, aperto in qualche parte, un registro in cui si inscrive il
tempo»174. Questo aprirsi può pienamente darsi grazie all’immersione totale nella materia
stessa, sulla scia di tracce che suggeriscono una continuità solidale con la realtà che è la
nostra stessa coscienza; ne L’evolution creatrice, Bergson rappresenta l’aprirsi della
coscienza alla durata con una brillante metafora: «che si tratti di pensare il divenire, o di
esprimerlo, o anche di percepirlo, noi non facciamo mai altro che azionare una specie di
cinematografo interiore»175, agganciando la coscienza alla dimensione visiva e nutrendo
la metafora della sofisticazione e di tutte le parti di cui un’operazione filmica e di
registrazione si compone.
È ancora Deleuze che traccia la via da percorrere, nel «tentativo di riempire di immanenza
l’esistenza»176, come aveva detto Ugo Fadini (a proposito della pittura di Cézanne): «non
si è nel mondo, si diviene con il mondo, si diviene contemplandolo. Tutto è visione,
divenire. Si diviene universo. Divenire animale, vegetale, molecolare, divenire zero»177.

173
Kierkegaard S., Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, cit. pag. 36
174
Bergson H., L’evoluzione creatrice, cit. pag. 18, cfr: “come l’universo nel suo insieme, come ogni essere
cosciente considerato di per sé, l’organismo che vive è qualcosa che dura”
175
Ivi, pag. 250
176
Cfr. Fadini U., Figure nel tempo, cit. pag. 34-35
177
Deleuze G., Guattari F., Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi 1996, pag. 173-174

89
Precisiamo qui che il “divenire zero” cui ci si riferisce non corrisponde ad un semplice
processo di regressione, piuttosto semmai ad un’“involuzione” che non è venir-meno di
qualche cosa ma sempre un andare-verso178; richiama il movimento del “divenire O”,
momento fondazionale della coscienza alterificata che secondo Bion si annuncia
nell’attimo in cui si riattiva l’originario “divenuto O” (coscienza nucleare o speculare),
«nell’attimo in cui l’estetica diventa estatica»179: da qui scaturisce infatti quel movimento
progressivo e non lineare da stati di coscienza aliena verso un’alterificazione sempre più
radicale, per quanto indefinita, mai compiuta, attraverso cui potrà svilupparsi l’esperienza
dell’intersoggettività come grembo generativo di pensieri, affetti, sogni che sono poi i
mattoni su cui si erige quella prodigiosa costruzione che è la nostra comune, eppur
singolarissima, antropo-poiesi.
Con il segno “O”, Bion si riferisce a quel reale ultimo, al Das Ding heideggeriano e poi
lacaniano, alla cosa in sé che non ricade entro il dominio della conoscenza o
dell’apprendimento, se non in modo casuale: esso può esser “divenuto” ma non
“conosciuto”; oscuro e privo di forma, solo quando si è sviluppato fino al punto da esser
percepito per mezzo della conoscenza consentita dall’esperienza (vissuta), può esser
formulato in termini tratti appunto dall’esperienza sensibile: «la sua esistenza viene
congetturata fenomenologicamente»180.
Ci serviremo ora di questo lessico per portare la nostra riflessione sulla schizofrenia al
punto di coglierla come la condizione di un divenire in potenza: non uno scorrere, ma un
fieri, vale a dire una causalità creatrice di effetti imprevedibili, un “viaggio” al pari di
quello delle forme d’iniziazione proprie delle civiltà antiche. Se l’inconscio è atto
(precisamente, atto in atto), la sua dimensione non è quella della materia ma quella
molecolare della energheia, dell’attività: esso non tende semplicemente a far reperire il
senso laddove pullulano disorganizzazione e non-senso (cosa che una certa psicoanalisi
attesterebbe); tende anzi a produrre ciclicamente, continuamente, l’impossibile sotto
forma di evento, e ad incontrarlo come tale.

178
Ricordiamo in proposito il commento di Kierkegaard: «La vita può essere compresa solo all’indietro,
ma va vissuta in avanti»
179
Napolitani D., Dall’alienazione all’alterificazione: trasformazioni della coscienza nel suo “divenire 0”,
in De Luca & Pezzella, Con i tuoi occhi, Mimesis, Milano 2014
180
Bion W., Attenzione e interpretazione, Armando, Roma 1987

90
Lo schizofrenico ha un inconscio produttivo, ovvero e appunto produce l’evento, in
rapporto di stretto contatto con l’“incandescenza del reale”181, trauma inferto ma sempre
presente perché originario ed impossibile, non perché “irreale”: al contrario, proprio
perché reale, così massimamente reale da non poter essere più a misura del soggetto (non
più «possibile», quindi, non rappresentabile), un reale che incide il soggetto,
marchiandolo a fuoco, eccedendo qualsiasi possibilità di rappresentarlo come tale. È però
in quest’incontro “fatale”, cui nessun essere umano è escluso, che si disvela la peculiare
e «simbolica relazione speculare tra uomo e cosmo»182, la Natura della Corrispondence
baudelairiana, l’interdipendenza tra persone e cose del mondo, intese come un tutto
organico, unità vivente di un sistema aperto e conglobante: tale è la scoperta, sgomento
angosciante e aurorale ad un tempo, cui condurrebbe la linea di sviluppo del pensiero
schizofrenico, che replica, riproduce e rinforza la logica dei processi di produzione del
capitale fino a portarli al loro estremo limite: la «schizofrenia è il vero limite del
capitalismo», ossia ciò cui condurrebbe nell’ipotesi in cui le traiettorie che la macchina
capitalistica venissero percorse e la pluralità in esse iscritta venisse liberata, in nome di
una nuova territorializzazione a seguito di quella “estrattiva” ad opera del capitale.
Nel senso matematico del termine, il “limite” sarebbe infatti l’andamento di una funzione
all’avvicinarsi di un valore dato: l’accelerazione questo vuol produrre. Proseguendo nel
ragionamento con il contributo di Jameson, se lo scenario odierno è quello di una
postmodernità culturale che non fa distinzioni di valore, mimetica ed integrata alla cultura
capitalistica di massa, diviene evidente come questa incoraggi, sotto stimolazione
mediatica di contenuti in rapida successione, quel tipico “stato senza più un Io”: sorta di
schizofrenia (con)temporanea cui il consumatore viene condotto nel disorientamento
provocato dal montaggio postmoderno delle immagini culturali veicolate183, a sortire un
effetto finale di straniamento brechtiano di coscienza. In tale milieu culturale di tipo
frammentato, le rappresentazioni del reale offerte come prodotti di consumo da parte dei
processi di produzione capitalistica possono circolare ed insinuarsi in qualunque luogo,
mescolando le carte del processo di formazione dell’Io che ha sempre luogo all’interno
dell’ordine di scambio e relazionale, fondamentalmente linguistico. Attraverso

181
Pagliardini A., Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale, Galaad edizioni, Giulianova 2016
182
Benedetti G., Bartocci C., Una vita accanto alla sofferenza mentale. Seminari clinico-teorici (1973-
1996), FrancoAngeli, Milano 2010
183
Jameson F., Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007

91
un’esperienza accelerata del tempo e lo scombinamento dei processi di formazione
dell’Io, tramite l’assunzione di sempre nuove imago tra loro slacciate (senza quindi nessi
di ordine logico), uomini e donne della società contemporanea rapidissimamente
oscillano tra lo stato di una coscienza schizofrenica e quello di una formazione ideale
dell’Io.
Raggirare l’incanto della visione è fondamentale allora per contrastare l’iperconsumo, o
per resistere creativamente alla bêtise; infatti «l’immagine mi cattura, mi rapisce: mi
incollo alla rappresentazione; è questa colla a fondare la naturalità (pseudo-natura) della
scena; il soggetto storico, come spettatore di cinema, aderisce (si “incolla”) anche al
discorso ideologico: ne prova la coalescenza184, l’Ideologico sarebbe in fondo
l’Immaginario di un periodo, il Cinema di una società»185. Nelle parole di Barthes,
l’Immaginario di una società è associato alle possibili formazioni identitarie che questa
offre al suo interno. Se il ritmo, che nella concezione di Freud, è «la sequenza temporale
degli aumenti e delle diminuzioni della quantità dello stimolo»186, di produzione del
capitalismo consumista è definito dallo “sfarfallio”187 delle immagini veicolate dai media,
nell’insieme di una «cacofonia visiva in cui un soggetto del tardo capitalismo può
imbattersi in decine e decine di medium in un solo giorno»188, in una successione continua
senza soluzione di continuità, eppure non progressiva.
Come incide questo sulla formazione e sulla dissoluzione delle identità soggettive, dal
momento che i due processi abbiamo visto essere associati? O meglio, cosa accade se,
come dimostra l’evidenza contemporanea, l’esperienza del tempo personale (il ritmo)
impennasse in direzione di un’accelerazione pari a quella delle macchine capitalistiche, e
non assecondasse invece i processi spontanei di formazione dell’Io, che hanno luogo e
sostanza nella relazionalità degli scambi, nell’immanenza (nella configurazione
deleuziana della stessa) ch’è essa stessa fondativa di un pensiero veramente plurale ed
intersoggettivo? Le soggettività nascenti che si espongono all’accelerazione dei tempi di
esposizione e produzione ne rimangono catturate, per così dire, mesmerizzate, dal

184
Barthes: «condizione in cui significante e significato siano ben fusi insieme».
185
Barthes R., Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, pag. 355-359
186
Freud, Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino 1986
187
Burgin, V., Barthes’ discretion. 1997, In Rabaté, J., Writing the Image after Roland Barthes.
Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 19–31
188
Peretti J., Capitalism and Schizophrenia. Contemporary Visual Culture and the Acceleration of
Identity Formation, www.datawranglers.com/negations/issues/96w/96w_peretti, accessed 17 April 2007

92
momento che tale ritmo è capace di reinscenare il dramma infantile delle identificazioni
(sempre “ideali”, obsolescenti, triviali, poiché su piano Immaginario), riportando lo
spettatore-consumatore, oltre che ad appiattirsi sulla trovata pubblicitaria dell’ultimo
minuto (in virtù dell’uni-dimensionalità imposta dal messaggio e dal mezzo
pubblicitario), a riattivare continuamente lo “stadio dello specchio” (quello originario
delle formazioni identitarie di Lacan), o meglio, lo “stadio dello schermo”: nomadismo
identitario privo di memoria e di confine, che vede l’uomo di oggi in rapporto simbiotico
al dispositivo tecnologico, e prefigura scenari di sviluppo collettivo e globale post-umani
dalla dubbia configurazione. Forse prenderà la direzione di un’accresciuta potenza delle
facoltà di calcolo e comunicativa, sull’asse della sincronia piuttosto che su quello
diacronico, senza però scampare alla visione apocalittica di un “(post)umanesimo
disincarnato”189, guidato da una volontà acefala piuttosto che da una sensibilità etica ed
estetica ereditata dagli autori del passato.
Altra cosa è l’esercizio di un pensiero veramente nomade, che non invoca l’implicito
riferirsi ad un soggetto pensante universale ma, al contrario, fa appello ad «una razza
singolare (…) che si espande in un ambiente senza orizzonte come spazio liscio, steppa,
deserto o mare» (Deleuze e Guattari, 1980).
Nella situazione odierna ci sembra giocoforza riconoscere “eroica” l’attitudine
schizofrenica, come affermavano anzitempo Deleuze e Guattari, in qualche modo capace
di opporre resistenza a questi processi che altrimenti scorrerebbero invariati,
soppiantando o dirigendo verso condizioni di profitto tutte quelle formazioni spontanee e
divenienti delle soggettività umane. La trasgressione schizofrenica del limite capitalistico
corrisponde infatti al fallimento di queste identificazioni mendaci ed illusorie, eterodirette
e scombinanti. La forza dello schizofrenico che trasgredisce questo limite è quella di
riuscire a compiere delle “traslazioni all’inverso”, movimenti che in qualche modo
sappiano innescare delle resistenze ai metodi via via più flessibili e accelerati di
accumulazione del capitale. Secondo LaPlanche, queste traslazioni a ritroso sono seguite
da una “tendenza a ricomporre l’unità”190, malgrado poi la configurazione del (buon)
senso dominante si riveli poi necessariamente e politicamente superiore. Infatti, va qui
riconosciuto che per Deleuze e Guattari, la persona clinicamente diagnosticata come

189
Longo G., Uomo e tecnologia: una simbiosi problematica, Eut, Trieste 2006
190
LaPlanche J., Psychoanalysis, Time and Translation, lecture at University of Kent, 1989

93
schizofrenica, è, in un certo senso, l’esempio fallito del processo schizofrenico che essi
indicano: riconoscono pertanto il tentativo di una differenziazione che, in qualche modo,
è collassato, in linea con quanto aveva già affermato Manfred Bleuler, che «una vita
schizofrenica latente, una forma di vita altra dalla nostra, sia nascosta nelle falde freatiche
della condizione umana… nella condizione psicotica, i modelli dell’esperienza
schizofrenica che si osservano nella condizione umana normale, si scompensano e
sconfinano dagli argini e dai limiti, precipitando in una realtà clinica…»191. Tuttavia, ciò
che condividono con lo schizofrenico dell’AntiEdipo è la comprensione della natura di
un processo di produzione e la rottura e lo scisma che ineriscono le macchine, che
sfuggono a limiti e confini offerti dal buon senso per incapsularli. Risulta allora evidente
come questo sia un terreno fertile di riflessione per trovare il modo di fare affronto
all’unidirezionalità del capitalismo moderno e sviluppare forme alternative di identità
collettive a riparo delle soggettività che le abitano.
Un altro carattere delle forme produttive capitalistiche che si servono dei media
pubblicitari per incoraggiare al consorzio interumano (a partire dalla compravendita non
più di “merce”, bensì di “servizi”) è appunto l’appiattirsi della soggettività dello spettatore
sull’uni-dimensionalità del media, in nome di una bulimia dell’informazione ovunque
dilagante.
Riprendendo il concetto deleuziano di “macchina desiderante”, che rappresenta
nell’economia del testo di Deleuze e Guattari il sostrato metafisico-ontologico dell’idea
stessa di “flussi desideranti” (Raunig, 2010), essa li opera come materiale grezzo nel
doppio senso di una deriva post-capitalistica ed emancipatoria del reale o altrimenti di
una sovracodifica fascistoide dello stesso. Diremmo con Bernini (2017) allora, che vi è
quindi sottesa «l'idea che il desiderio non ruoti attorno ad un vuoto strutturale del
soggetto, ma sia una macchina produttiva schizofrenica, dalle risorse illimitate, che
riempirebbe il mondo di contenuti imprevedibili, se il capitalismo non la sfruttasse per i
propri fini»192.
Come potrebbe evitarsi allora il collasso delle soggettività nell’uso più “spietato” della
macchina capitalistica, quale sarebbe la via rivoluzionaria che Deleuze e Guattari avevano
già intravisto, alternativa al “postumanesimo disincarnato” e abulico, di cui prima? Va

191
Manfred Bleuler in Borgna E., Come se finisse il mondo, Feltrinelli, Milano 1995, pag.
192
Bernini E., John Nash: I giochi della mente, Area51 Publishing, 2017

94
specificato che le macchine qui descritte non abbiano alcuna “soggettività o centro
organizzatore”; esse non sono altro che “connessioni e produzioni” (Colebrook, 2002).
Williams e Srnicek provano ad azzardare l’ipotesi dell’“accelerazionismo”, nel rischio
che tuttavia conduca anch’essa ad un quadro post-umano di ibridazione uomo-macchina,
stato in cui si realizzerebbe la promessa cibernetica di un’immanenza totale della
jouissance con la produzione sociale stessa (sottoposta peraltro agli stessi tempi di
“riproduzione”). Come disporsi allora di fronte alla scomparsa dell’umano, di cui si
preconizza la smaterializzazione in forma di macchina o di software, homo technologicus
o “simbionte”? Esso non è altro che, tenendo presente la lezione di Lacan sulla
tripartizione delle tre dimensioni di Immaginario, Simbolico e Reale, l’effetto di una
corrispondenza totale tra Simbolico e Reale lacaniano, condizione ideale di godimento
pieno, senza impedimenti o media linguistico-simbolici (poiché antecedente alla cesura
significante).
Lacan, che tuttavia aveva postulato l’esistenza di un impedimento sul piano dell’attuale,
impedimento tale da bloccare l’accesso al godimento pieno ancestrale, lo dice infatti
“impossibile”, perso da sempre, e così da intendersi affinché possano scaturire forme
d’identificazione sociale e politica soggettivate e si possa condurre un’ex-sistenza
(caratterizzata dalla scissione, dalla cesura da parte dell’essere desiderante) veramente
dotata ed innervata dal senso. È la dimensione del linguaggio, luogo dell’Altro e
depositario del desiderio, ad impedire l’accesso (o la caduta) alla jouissance pre-
simbolica.
Nella concezione lacaniana tale “mancanza” è fondativa della soggettività che si snoda
appunto intorno ad uno scarto fondamentale, ineluttabilmente “divisa” dall’operazione
del linguaggio sulla sostanza godente: i teorici dell’accelerazionismo cibernetico d’altra
parte propongono di rompere con lo scarto, e nell’esperire il Reale senza
(inter)mediazioni (“positività macchinica assoluta”), che però al Lacan del desiderio
come “metonimia della mancanza a essere” (1958), fa subito pensare all’animalità
dell’essere «completamente ingabbiato nella realtà», condizione di chi, fuori del gioco
simbolico/reale, gode direttamente del reale. La “fusione cibernetica” in direzione di un
superamento post-umano rappresenterebbe il raggiungimento di una forma di “animalità
retiforme”: per quanto anch’essa riconduca ad uno stato di godimento e felicità fusionali,
tuttavia realizza l’abolizione del simbolico a favore dell’animalità fatta di fibre ottiche e

95
carne in cui al posto della casella vuota (la mancanza, l’impedimento) vi sia l’essere
umano in quanto tale, riconosciutosi persona quando abbia saputo riconoscere parimenti
l’altro come persona.
La forza rivoluzionaria dell’azione schizofrenica sta nel fatto non solo di riuscire a
sovvertire la posizione del buon senso, che il più delle volte non sostiene la diversità
costitutiva della vita, ma quella di svincolare l’esistenza dalla forza stabilizzante del senso
comune, tramite un coinvolgimento diretto del nostro corpo in “questo mondo”: «il fatto
moderno è che noi non crediamo più in questo mondo. Non crediamo neppure agli
avvenimenti che ci accadono, l’amore, la morte, come se ci riguardassero a metà. Non
siamo noi a fare del cinema, è il mondo che ci appare come un brutto film (…). Il legame
tra uomo e mondo si è rotto (…). Cristiani o atei, nella nostra universale schizofrenia,
abbiamo bisogno di ragioni per credere in questo mondo»193. E Jaspers, preso da profonda
amarezza rispetto alla piega che stavano prendendo i tempi, aveva dato conclusioni simili
a quelle dell’incredulità deleuziana: «viviamo in un’epoca in cui ogni spiritualità si
converte in profitto. Tutto viene fatto in vista di un guadagno. Un’epoca in cui la vita
stessa è una mascherata. Che la felicità del vivere, è falsa, come l'arte che la esprime. In
una simile epoca di perduta genuinità è forse la follia, la soluzione per la nostra
esistenza?»194.
E’ andare a ricucire il legame spezzato tra l’umano ed il cosmo che ci interessa, non forse
nel senso della follia di per sé, millantandola o assurgendola a primo valore; l’unica via
percorribile è quella di un atto rivoluzionario capace di sostanziare il mondo e nutrirlo
nuovamente di senso, a partire dalla presa in causa collettiva della follia, e riteniamo che
il condotto attraverso cui questo possa darsi sia proprio la schizofrenia che abbiamo
configurato, libera della forza propulsiva dalle costrizioni della categoria diagnostica,
poiché muove su linee di fuga e differenziazioni, e non incastrata nei soli processi di
rappresentazione (tipici della pratica analitica); questa schizofrenia come agente
produttivo di un senso perpetuamente rinnovantesi; muovendo anche noi verso la
direzione dell’impegno in una relazione con il caos, auspichiamo di giungere al caosmos,
esseri di un “cosmo composito” che rivela la realtà di un mondo intellegibile attraverso
l’occhio, il cuore e l’intelletto umani.

193
Deleuze G., L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989
194
Jaspers K., La situazione spirituale del tempo, Jouvence Roma 1982

96
Dalla sua, Silvia Montefoschi giungerà alla conclusione che la conoscenza dell’universo
da parte dell’umano, posto a realtà oggettiva che si dà al di fuori di lui quale soggetto
conoscente, coincide nel contempo con il conoscersi dell’universo in lui: «l’universo è
esso stesso una conoscenza che l’essere realizza di sé nelle forme che lo compongono»195,
in una circolarità ricorsiva tra essere cosciente e cosmo che oltrepassa la frammentarietà
del reale nel suo apparire per recuperare, in modo dialettico, una forma di pensiero
unitario, e quindi, di soggetto riflessivo.
Cosa potrebbe un “essere del sensibile” in alternativa al discorso della scienza e alle
pratiche che esso promuove? Cosa potrebbe la sua sensibilità dei codici estetici in
confronto all’avanzata dell’imperio tecnologico che ci fa tenere stretta sulla cintola lo
smartphone? Anziché «guardare il flusso dalla riva»196, poiché non si tratta di farne
pratiche istituzionalizzate e quindi fondate su concezioni “molari” dell’esistenza, Deleuze
ci invita ad impegnarci con il caos, immergendoci dentro, senza quel ritualismo e quella
magia che talvolta affollano il pensiero e la comunità scientifici, dis-piegando la forza
ch’era rimasta intrappolata nelle rappresentazioni (lasciandola sussistere infatti solo come
assenza e mancanza a se stessa, nel teatro della soggettività), a vantaggio di una
produzione desiderante senza più significanti-padrone: realtà vera in cui non sia già «tutto
giocato in anticipo»197; e solo quando sarà ricondotto il desiderio, là dove non manca più
di nulla, esso sarà di nuovo capace di trovare d’ogni parte linee di fuga molecolari o di
sfondamento, capace di produzioni di sintesi senza interruzioni patogene del processo.
Ecco di cosa sembra soffrire lo schizofrenico, che patisce invero sofferenze indicibili: del
processo stesso, in particolare delle sue interruzioni; non solo nel senso della nevrosi, in
famiglia sulla terra di Edipo, ma anche in quello della psicosi in terra un tempo
manicomiale ed oggi semplicemente psichiatrica, terra custode di «chi non si lascia
edipicizzare» (Deleuze, Guattari, 1972).
Gli autori dell’AntiEdipo provano a configurare una possibile via d’uscita dai vicoli ciechi
della fissazione dei flussi, indicando i passi di una vera e propria politicizzazione e
politica della psichiatria (o dell’antipsichiatria): dissolvendo da una parte le
cristallizzazioni della follia in malattia mentale, e dall’altra liberando in tutti i flussi il
movimento schizoide della loro deterritorializzazione (quel cercare “nuove terre”…), in

195
Montefoschi S., Essere nell’essere, Raffaello Cortina, Milano 1986
196
Deleuze G., Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 1980
197
Deleuze G., Guattari F., AntiEdipo, Einaudi, Torino 1975, pag. 351

97
modo che investa indistintamente i flussi di lavoro e di desiderio, di produzione, di
conoscenza e di creazione nella loro tendenza più profonda. La follia, vista così, non
esisterebbe più in quanto follia, non perché trasformata in “malattie mentali” (altrove
definite da Foucault, «grandi acquari tiepidi»), ma perché riceverebbe il sostegno di tutti
gli altri flussi, compresi quelli della scienza e dell’arte: follia è infatti la condizione in cui,
privata di questo sostegno, si trova ridotta a testimoniare da sola per la
deterritorializzazione come processo universale: «è il suo indebito privilegio, superiore
alle sue forze, a renderla folle» (nel volersi dare da sé il piano di trascendenza, di cui
avevano detto Di Petta e Ballerini). La psicogenesi della follia anche in Jacques Lacan
non è separabile dal problema della significazione per l'essere in generale, cioè del
linguaggio, in quanto «la parola non è segno, ma nodo di significazione»198; in modo
analogo, potremmo dire della schizofrenia, che non è sindrome, ma snodo e crocevia di
flussi di significazione e “macchine” operanti.
Se nell’oggi contemporaneo non ci sembra più che il reale sia impossibile, ma sempre più
artificiale, la soluzione accelerazionista al problema dell’irrealtà, così come quella
schizofrenica, comporterebbe proseguire lungo le linee di sviluppo, per quanto artificiali,
fino al punto limite di dove conducono, finché «la terra non sia diventata talmente
artificiale al punto che il movimento di deterritorializzazione inizi a creare
necessariamente da se stesso una nuova terra»199; la pratica distruttiva della schizoanalisi
di Deleuze e Guattari è dunque ciò che rilancia il movimento, riprende contatto con la
tendenza, e spinge i simulacri fino al punto in cui cessano di essere immagini artificiali
per divenire appunto gli indici della nuova terra. Gli autori invitano, tramite una meditata
forma di resistenza al presente, a volgerci contro i sistemi dell’opinione, della
reificazione, della rigidità delle strutture sociali che bloccano il divenire, che catturano e
tengono prigioniero il processo inattuale di differenziazione. Difatti, «l’opinione è più
pericolosa del caos da cui ci protegge»200.
Sembrerà paradossale, ma in un mondo d’artificio la follia sembra essere l’ultima
condizione di autenticità (Jaspers, 1953), ed è questa che Deleuze e Guattari, si fanno
carico di custodire, come qualità dell’umano piuttosto che difetto; inoltre ci dicono,
laddove l’ordine del cosmo sembra crollato, sbriciolato in catene associative e punti di

198
De Saussure in Lacan J., Scritti I. Discorso sulla causalità psichica, Einaudi, Torino 1966, pag. 160
199
Deleuze G., Guattari F., Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1966, pag. 77-78
200
Nichterlein M., Morss N., Deleuze e la psicologia, Raffaello Cortina, Milano 2017

98
vista non comunicanti (Deleuze, 1964), che la sola pienezza e unità disponibile è quella
che può esser costruita nell’arte, la sola che possa riportare un vero stato di salute ch’è
presente solo quando vi sia un grado di differenziazione, ovvero modi originali e creativi
di fornire risposte uniche ai problemi che scaturiscono dal vivere una vita. Dirà Laing, in
proposito di una sorta di ‘rivoluzione copernicana’ da realizzarsi all’interno del pensiero
psichiatrico:

«Se la specie umana sopravviverà, gli uomini del futuro considereranno la nostra epoca illuminata
come un vero e proprio secolo d’oscurantismo. È di noi che rideranno. Sapranno che ciò che noi
chiamiamo schizofrenia era una delle forme sotto cui – spesso per il tramite di gente del tutto
ordinaria – la luce ha cominciato a filtrare attraverso le fessure delle nostre menti chiuse. La follia
non è necessariamente un crollo (breakdown); essa può essere anche una apertura
(breakthrough)… L’individuo che fa l’esperienza trascendentale della perdita dell’ego può e non
può perdere l’equilibrio, in diversi modi. Può allora essere considerato come pazzo. Ma essere
pazzo non è necessariamente essere malato, anche se nel nostro mondo i due termini sono
diventati complementari… Dal punto di partenza della nostra pseudo-salute mentale tutto è
equivoco. Questa salute non è una vera salute. La pazzia dei nostri pazienti è un prodotto della
distruzione che imponiamo a loro e che essi impongono a se stessi. Nessuno immagini che ci
imbattiamo nella vera pazzia, così come non siamo veramente sani di mente. La pazzia con cui
abbiamo a che fare è un grossolano travestimento, una falsa apparenza, una grottesca caricatura
di ciò che potrebbe essere la guarigione naturale da questa strana integrazione. La vera salute
mentale implica in un modo o nell’altro la dissoluzione dell’ego normale…»201.

È questo il profetizzato “compimento del processo”; liberata la soggettività di potersi


sviluppare e seguire le sue proprie linee di differenziazione, ecco che
contemporaneamente sul piano della cartografia prende forma una terra che si crea, terra
pura di pensiero, al passo con la sua stessa produzione, con la sua stessa
deterritorializzazione: punto di fuga attivo ove la macchina rivoluzionaria, quella
artistica, quella scientifica e quella analitica possano diventare pezzi e parti reciproche.
Perché questo non sia solo un’utopia fantastica occorre però passare per una forma
d’immanentizzazione del desiderio che consisterebbe, come suggerito da Laura

201
Ronald D. Laing, La politica dell’esperienza, in Deleuze G., Guattari F., L’Anti-Edipo, Einaudi, Milano
2002, pag. 147

99
Bazzicalupo ne La Deleuziana (2014), nella paradossale condizione di una «fuga
ferma»202. Movimento sul posto dell’ordine dell’intensità dunque, che tuttavia si slancia
nello spazio, diventando così fuga: è in essa infatti che la produzione abbandona il fare.
Il momento rivoluzionario di un soggetto consiste dunque in questo modo di vivere il
tempo, di cogliere l’evento203.
Forse è proprio questo ciò cui si riferisce Felice Cimatti quando parla «dell’immanenza
di una passione totalizzante»204, che mette in gioco la possibilità di un accesso a una
jouissance senza mediazione, ad un godimento post e non pre-simbolico.
Contro ad una produttività incessante che in realtà non produce altro che l’impossibilità,
o l’impassibilità, dell’evento, nel movimento prefigurato del divenire-impercettibile
riscontriamo l’avvenire dell’evento, che non è che effetto di superficie, “figura del
virtuale”, singolarità «anticoncettuale; indifferente all’individuale e al collettivo, al
personale e all’impersonale, al particolare e al generale»205.
Divenire impercettibile, che non è ritorno all’indietro ma progressione verso stati sempre
più ampi di differenziazione, “originale” in quanto «figura solitaria che travalica qualsiasi
forma spiegabile: lancia dei tratti d’espressione fiammeggianti (…) figure di vita e di
sapere, sanno qualcosa d’inesprimibile, vivono qualcosa d’insondabile»206. Nella piena
accettazione di questi processi divenienti che apportano originalità e senso alla vita di
ciascuno, più che una sua normalizzazione clinica, potrà a nostro avviso veramente darsi
un discorso sulla salute umana e l’assunzione, da parte della psicologia stessa, che questa
sia, più che applicazione tecnica, in primo luogo una forma e l’esercizio di un’arte207.

202
Bazzicalupo L., Capitalismo e macchina desiderante tra linee di fuga e dualismo, Mondadori, Milano-
Torino 2014
203
Ivi
204
Cimatti F., Filosofia dell’animalità, Laterza, Roma-Bari 2013
205
Deleuze G., Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, pag. 67
206
Deleuze G., Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1996
207
Nichterlein M, Morss R. J., Deleuze e la psicologia, Raffaello Cortina, Milano 2017, pag. 188

100
Capitolo IV
La IV dimensione
In each of us there is a little of all of us.
G. C. Lichtenberg (1742-1799)

In questo lungo itinerario abbiamo visto come la schizofrenia sia nata, come patologia, in
seno ad una nosologia di pertinenza psichiatrica (psichiatria che nel tempo ha dovuto
muovere da un radicale empirismo all’assunzione di sé più come scienza umana, piuttosto
che come applicazione pratica e tecnologica di un sapere definito), la cui azione sul
territorio ad opera del sistema sanitario la pone ancora oggi come indubbio ed
indiscutibile punto di riferimento nell’ambito del sapere sugli stati mentali e le funzioni
intellettuali superiori, con l’intervento diagnostico e normativo in caso di mancato
funzionamento.
Ponendosi in tal modo come “scienza forte”, in quanto il paradigma su cui è fondata è
posto a tutela e mantenimento di un dato ordine sociale, non riesce tuttavia di per sé a
spiegarsi rispetto al problema della verità del suo sapere (la cui fondazione è stata
contestata ed è contestabile in quanto è “medicina senza corpo”), problema affrontato da
Foucault in una lezione al Collège de France, il 6 febbraio 1974. In tale occasione, egli
spiega come la psichiatria fosse in principio la “cenerentola” del sapere medico, poiché
incapacitata nell’operazione di inscrivere la follia in una sintomatologia medica generale
e certa, e così dunque impossibilitata a produrre discorsi di verità che potessero fare presa
sul corpo (in quanto manchevole di una giustificazione organica e riconducibile al
modello delle scienze fisiche); incapace, in definitiva, di sciogliere il suo imbarazzo circa
il suo rapporto con la verità (in un’aporia epistemologica senza risoluzione)208.
La riflessione di Foucault ci porta a considerare come la produzione di discorsi operata
dal potere psichiatrico abbia permesso lo svilupparsi di una “funzione-Psy” (estensione
del potere psichiatrico, e della sua produzione di sapere, a tutte le pratiche che ruotano

208
Foucault M., Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano 2004,
pag. 254

101
attorno ad una normatività della psiche, come la psicanalisi, le psicologie…), anch’esse
operanti senza un vero e proprio riferimento al corpo. Tuttavia, l’avvento di un sapere
neurologico, che l’autore rinviene intorno agli anni 1850209, porterà la speranza che si
potesse invero tracciare una linea di corrispondenza biunivoca tra le discipline
psicologiche e l’esame dei meccanismi biologici elementari e complessi, dotando
finalmente di un corpo, il “corpo neurologico”, il sapere psichiatrico. Anche questo
legame epistemico tuttavia doveva andare a rompersi, in quanto l’emergere di una
“funzione-neuro”210, attraverso un modello computazionale (fondato inizialmente da
Hilary Putnam e Jerry Fodor211 a partire dall’idea che la mente stia al cervello come il
software all’hardware – per quanto poi da intendersi come sistema aperto, in
interscambio con l’ambiente esterno), ha recentemente portato, sul piano delle pratiche
scientifiche, allo svilupparsi di tecniche altamente sofisticate quali il neuroimaging
funzionale, fondate sull’ipotesi che il funzionamento psichico si relazioni al metabolismo
cerebrale, riconducendo le funzioni umane superiori e gli stati mentali a specifici stati
fisici del cervello e pretendendo di spiegare i comportamenti attraverso l’analisi
metabolica del cervello212. Questo ha consentito al proliferare di un intero range di nuove
scienze caratterizzate dal prefisso “neuro-”: «sempre più spesso sui quotidiani troviamo
spiegazioni del comportamento umano corredate da disegni, foto e sezioni del cervello.
(…) Ci viene poi detto che quel nostro modo di agire dipende dal funzionamento di
determinati neuroni. Addirittura si parla di nuove discipline come la neuroeconomia, la
neuroestetica, la neuroetica, la neuropolitica, il neuromarketing. Persino la neuroteologia
(21.800 voci su Google: provate la prima!)»213. L’attuale discorso scientifico neurologico,
con la sua corte di pratiche, sembra essere così in grado di ricondurre tutta la schiera di
comportamenti umani, non ultimi il libero arbitrio e la scelta politica, a schemi metabolici
cerebrali mappabili in laboratorio; tutto ciò ad avallare il verificarsi di un impoverimento
epistemico della funzione-psy (comprese tutte le pratiche che riguardano il benessere o il
malessere mentale) a vantaggio di questa ipotetica funzione-neuro. Una delle

209
Ivi, pag. 252; Foucault qui si riferisce alla prima emergenza storica di tale tipo di corpo neurologico,
attraverso le teorie di Duchenne de Boulogne, tra il 1850 e il 1860
210
Nesi A., Neuro-mania. Spunti di riflessione circa l’ipotesi dell’emergenza di una funzione neuro
211
Putnam H., Rappresentazione e realtà, Garzanti, Milano 1993; J.A. Fodor, La mente modulare. Saggio
di psicologia delle facoltà, Il Mulino, Bologna 1988.
212
Cfr., ad esempio, J.P.J. Pinel, Psicobiologia, Il Mulino, Bologna 2007
213
Legrenzi P., Umiltà C., Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino, Bologna 2009, pag.
53

102
conseguenze cui questo fenomeno porterebbe sarebbe la differente risposta, con pratiche
annesse, alle grandi questioni bioetiche214 del nostro tempo: invece che tornare ad uno
schema tradizionale (la coppia duale mente-corpo) che si affida sulle condizioni
biologiche e biofisiche del corpo per poi fondare una regola di intervento, potremmo qui
vedere ribaltata l’operazione, nel dare per scontato che il metro di misura di un intervento
non sia il perfetto funzionamento della “macchina corporea” (nell’equivalenza di
normalità e sanità), bensì il benessere effettivo e percepito di una persona, non solo
corporale ma anche psichico, e utilizzare tale criterio a definizione del benessere
complessivo, della persona e del socius in generale215. In questo senso la potenzialità di
questo accresciuto sapere neurologico porterebbe effettivamente a svincolarsi dal sapere
psichiatrico, assolvendo anch’esso alla funzione-Psy di salvaguardia del benessere umano
in una data società, e diventando con ciò coestensivo della società.
Riscontriamo però qui un pericolo cui vorremmo mettere in guardia, ossia l’impasse che
si verifica qualora queste discipline neuroscientifiche confondano lo sviluppo di una
scienza con il progresso delle sue applicazioni tecnologiche, basandosi su ipotesi
riduzioniste (quali ad esempio quelle di una psichiatria “molecolare”, recente tendenza
psichiatrica che vanta tra i suoi successi la creazione di modelli animali dei disturbi
psichiatrici – che per quanto provino a dare un fondamento biologico alla diagnosi
comunque rimangono vincolate ad una “teoria della mente” sottostante). La via di uscita
da tale impasse, a nostro avviso, risiede nell’assunzione di quella che anzitempo, nel
fondare la neuropsicologia, Lurija aveva descritto, nella sua opera borgesiana Una
memoria prodigiosa, come progetto di “scienza romantica”, con queste parole: «Gli
scienziati classici guardano gli eventi nei termini delle loro parti, isolando passo per passo
unità ed elementi importanti, andando dai più semplici ai complessi, dai fatti concreti
verso le formulazioni astratte di leggi generali. In conseguenza di ciò la realtà vivente con
tutta la sua ricchezza di fatti si riduceva a schemi aridi e astratti. La totalità vivente va
perduta, fatto che suggerì a Goethe la sua massima famosa: “Grigia è qualunque teoria,
ma sempre verde l’albero della vita” (…). I “romantici” della scienza non vogliono né

214
Perché il discorso bioetico è una delle più recenti forme strategiche assunte dal governo dei viventi (Nesi
A., Neuro-mania. Spunti di riflessione circa l’ipotesi dell’emergenza di una funzione-neuro)
215
Ivi, pag. 108-109. Ivi: «Si potrebbe supporre che la frammentazione di saperi antichi in nuove discipline
non sia altro che l’effetto di una moda indotta dalla divulgazione scientifica. Cercheremo invece di
dimostrare che assistiamo ad un processo di portata più vasta: la definizione dei rapporti tra mente e corpo,
tra psiche e cervello, può oggi coinvolgere scelte di politica sociale e di benessere», pag. 10-11

103
suddividere la realtà vivente nelle sue componenti elementari, né comprimere la ricchezza
degli eventi della vita concreta entro modelli astratti, svuotati delle qualità dei fenomeni
reali. Pensano che sia della massima importanza preservare integra la ricchezza della
realtà vivente e aspirano a una scienza che non perda questa ricchezza»216. In questo testo
egli ricostruisce la vita di un ingegnere meccanico che, ferito alla testa da un proiettile
durante la Seconda Guerra Mondiale, accusa i sintomi della patologia che verrà
denominata “amnesia anterograda” (dopo il ferimento non era infatti più in grado di
fissare nuovi ricordi). Questi ebbe poi a soffrire di un “caos visivo” a causa del quale gli
oggetti di fronte a lui erano instabili ed intermittenti, e gli era preclusa la vista del lato
destro del proprio corpo; non riusciva ad immaginare le parti del proprio corpo in un
insieme ordinato ma le sentiva nei posti sbagliati: non aveva memoria di sé in ogni senso
possibile. La struttura del libro riflette l’intreccio delle emozioni tra tale paziente e Lurija
stesso, spiccando nettamente su note tecniche, storiche, mediche, analitiche: in questo
senso il vero autore del libro è il suo protagonista, che scrivendo le pagine della sua vita,
consente alla fatica e alla dignità umana di acquistare forma grafica, e di riappropriarsi
del mondo perduto. E con il mondo, egli recupera il tempo perduto: tremila pagine di libro
che denotano la più reale e straziante ricerca del tempo perduto, correlato
neuropsicologico della Recherce proustiana.
Questa preziosissima testimonianza mette in luce come il senso della vita, nel caso
umano, si decida graficamente, nella forma dell’espressione, dacché l’unico senso è
quello che possiamo vedere, comunicare, far permanere nel ricordo; in definitiva,
scrivere. Oliver Sacks dirà, nella sua introduzione all’edizione del testo, che «una vita
umana non è tale fino a quando non sia veramente assimilata e ricordata, non come
qualcosa di passivo, ma attivo: costruzione attiva e creativa della vita di un individuo, la
scoperta e la narrazione della vera vita di un individuo»217.
Riportiamo dunque le parole dell’autore-protagonista, nella prospettiva di quella scienza
romantica auspicata da Lurija:

«Forse qualcuno dei conoscitori dei grandi e seri pensieri comprenderà la mia ferita e la mia

216
Lurija A. R., Un mondo perduto e ritrovato, Editori Riuniti, Roma 1973, cit. pag. XI
217
Sacks O., Introduzione a Un mondo perduto e ritrovato, pag. XIII

104
malattia, riuscirà a raccapezzarsi in ciò che accade nella testa, nel ricordo, nell’organismo,
apprezzerà il valore del mio lavoro e forse mi aiuterà a superare in parte le difficoltà della vita.
So che ora molti parlano del cosmo e degli spazi cosmici. E la nostra terra è una piccolissima
particella di questo cosmo infinito. Ma la gente non pensa alla terra, pensa e sogna voli sui pianeti,
almeno quelli più vicini che girano intorno al sole. La gente considera di ordinaria
amministrazione il volo delle pallottole, dei proiettili, delle bombe che si frantumano e vengono
scagliate nella testa di un uomo, avvelenando e bruciando il suo cervello, mutilando la sua
memoria, la vista, l’udito, la coscienza. Non è così? Perché allora io soffro, perché non lavora la
mia memoria, perché non mi ritorna la vista, perché c’è sempre questo eterno rumorio, perché la
testa mi duole, perché non riesco a sentire e comprendere immediatamente i discorsi della gente?
È una cosa difficile comprendere di nuovo il mondo perduto a causa del ferimento e della malattia,
riunirne le piccole parti separate in un unico intero…
Ho deciso di intitolare il mio scritto con queste parole: «Io combatto ancora». Avrei voluto
scrivere il racconto di come mi accadde questa disgrazia che non mi abbandona dal momento in
cui sono stato ferito. Tuttavia non mi perdo d’animo. Tento di migliorare la mia situazione
sviluppando la favella, la memoria, il meccanismo del pensiero e dell’apprendimento. Sì, io
combatto per ristabilire quella situazione che ho perduta al tempo del ferimento e della
malattia».218

Nel tentativo di fondare una scienza che studiasse la relazione tra cervello e mente, Lurija
si accorse che questa non potesse esimersi dalla tradizione medica dello scrivere storie
cliniche, attente a tutti i risvolti della personalità umana (invece che all’affidarsi su fredde
e distaccate anamnesi scientifiche), e ponendo al centro dell’attenzione dei ricercatori non
la malattia in sé, la disfunzione, bensì la storia intera di un caso clinico, soggetto umano
che soffre, si avvilisce e lotta, e in qualche modo originalmente reagisce a ciò che gli è
accaduto, fino a trasvalutare tale storia clinica in una vera e propria storia, un racconto,
posto in relazione alla malattia e alla sfera psichica; a questa nuova scienza, insieme a
Leont’ev, Anochin, Bernstein ed altri, diede il nome di “neuropsicologia”. La nascita di
questa disciplina viene descritta da Sacks, in L’uomo che scambiò sua moglie per un
cappello: «lo studio scientifico della relazione tra cervello e mente ebbe inizio nel 1861,
ad opera di Broca (…). Ciò aprì la strada a una nuova neurologia cerebrale che nel corso
dei decenni permise di tracciare una mappa del cervello umano, ascrivendo specifiche

218
Lurija A. R., Un mondo perduto e ritrovato, Editori Riuniti, Roma 1973

105
facoltà – linguistiche, intellettuali, percettive, ecc. – ad altrettanto specifici “centri” del
cervello»219. Fu Freud che verso la fine del secolo, nel suo saggio sull’afasia, si accorse
che la mappa tracciata a quel tempo era troppo semplice, che le attività mentali avevano
un’intricata e più complessa struttura interna, e che dovevano quindi avere una base
fisiologica altrettanto complessa. Era infatti convinto che una comprensione dei fenomeni
quali quello dell’afasia e quello dell’agnosia richiedessero una scienza nuova e più
raffinata. Così nacque in Russia, non molti anni dopo, la “neuropsicologia”.
Riportiamo ora la questione che Legrenzi e Umiltà sollevano così: «la neuropsicologia
[...] avrebbe potuto benissimo coprire tutto l'ambito di studi dei rapporti tra mente e
cervello. Perché si preferisce oggi frammentarla in discipline particolari?»220.
La schizofrenia che allora avevamo ravvisato come sindrome psichiatrica (nel senso
generico di una frammentazione) sembra riflettersi particolarmente, nel campo delle
discipline teoriche, nell’attuale condizione della neuropsicologia (una forma di sapere
medico avallata dalle moderne tecniche scientifiche di ricerca, affiancata da una
psicologia che possa dirsi “critica” rispetto a tali fondazioni di sapere e nel rispetto
dell’in(g)erenza di tale sapere sui corpi).
È in questo terreno fecondo di ricerca che si inserisce la riflessione psicologica odierna,
che potrebbe finalmente tornare ad occuparsi di quanto era la sua originaria vocazione,
ossia quella di parlare a proposito della psyché, e occuparsi di quanto concerne la persona,
nella sua interezza di essere parlante, ove entrano in gioco una molteplicità di aspetti che
nella clinica medica non sono tenuti in considerazione, quali le discriminanti morali e
sociali, le considerazioni sul vissuto e sulla famiglia, e molti altri ancora.
Se stiamo veramente assistendo, grazie all’emergere di queste discipline neuro-, ad uno
slittamento svincolante del sapere medico da quello psichiatrico, allora è necessario che
una certa psicologia inizi a farsi carico di quanto concerne l’aspetto fondamentalmente
umano sotteso a tutte le produzioni discorsive scientifiche, cosa peraltro ben nota ad
autori quali Gregory Bateson, Francisco Varela e Humberto Maturana, che contribuirono
all’introduzione, nell’ambito delle neuroscienze, della neurofenomenologia, per favorire
lo sviluppo di un tipo di scienza “in prima persona”, ossia capace di riferirsi al fatto

219
Sacks O., L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano 2001
220
Legrenzi P., Umiltà C., Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino, Bologna 2009, pag.
10

106
biologico pur tuttavia con la sensibilità di chi si riferisce al vivente nella sua interezza,
con capacità autopoietiche e, nell’essere umano, antropo-poietiche.
Lo stesso Lurija si avvicinava al fatto scientifico con la grazia propria di chi si accosta al
mistero: ad esempio, nell’affermare che la funzione del sistema nervoso è
necessariamente quella di espandere le possibilità d’azione dell’organismo vivente,
interpretate e successivamente codificate in gesti e comportamenti, nella sfera di relazioni
con gli altri organismi viventi e con l’ambiente in cui si è ricorsivamente implicati.
Riprendiamo il nostro discorso dunque, da psicologi, più che clinici, “critici”, a partire da
una considerazione ancora di Deleuze e Guattari, che ci avvicina a quanto avremmo
caratterizzato come stato di salute:

«Come insegnano Goldstein, Lurija e Canguilhem, il normale non è una forma di equilibrio che
viene distorta o distrutta dal patologico, bensì il patologico è una forma di equilibrio in sé e per
sé. Non c'è niente da riparare, esistono meccanismi vicarianti, autopoietici, parti del sistema che
s'incontrano con possibilità imprevedibili. Le biografie di Flaubert, Roussel, Campana,
l'espressione artistica di Artaud, di una Merini, o di Janet Frame, i romanzi di Schreber e Luois
Wolfson, la logica tanto rigorosa, quanto strampalata di Lewis Carroll, la scultura di Camille
Claudel: si tratta solo di un piccolo elenco di esempi. Alcuni di loro internati in manicomio per
anni, schizofrenici gravi, altri considerati per lo più dei personaggi eccentrici o perversi»221.

Salute sarebbe allora la condizione in cui vi è equilibrio dinamico tra le parti, non uno
stato preordinato e da difendere pervicacemente: possono infatti emergere da un momento
all’altro configurazioni inedite di esistenza, che creativamente si siano adoperate per
raggiungere uno stato di equilibrio, fatte di percorsi di vita accidentati, di scarti
esistenziali, che esprimono forme espressive sublimi, certo non banali. Dopo il lungo
percorso di riflessione realizzato, possiamo infatti affermare che la follia, che
balzanamente oggi si prova ancora a rappresentare e cristallizzare in forme cliniche,
evolve nel tempo così come evolve la configurazione del mondo che abitiamo,
continuamente. In un tale contesto è impossibile ignorare quanto sia più pertinente
realizzare un modello ad alta risoluzione spaziale e temporale, dinamico e più fedele alla
realtà, piuttosto che una diagnosi nosografica come quella del disturbo clinico, che di
mutevole ha ben poco.

221
Barbetta P., Gregory Bateson e la schizofrenia, in Riflessioni Sistemiche n. 3, 2010

107
Un discorso sulla follia sembra tanto arcano alla psicologia del giorno d’oggi quanto
quello sulla coscienza e sui suoi processi divenienti. Già dai tempi di Platone il folle era
colui ch’era abitato dal dio, condizione umana di totale mancanza di protezione
dall’impatto con il reale che il raziocinio tenta vieppiù di mascherare nel calcolo e nel
progetto, previsione e anticipazione, così tanto che l’uomo dell’Occidente moderno,
saziato da quel tipo di ragione e ignaro di quella dimensione ulteriore, non osa nemmeno
più sporgersi nell’Aperto e arrischiare sensi imprevisti. Solo i folli ne sarebbero dunque
capaci: nella loro catastrofe biografica segnalano appunto la condizione, comune a tutti,
che la vita è assenza di protezione, da cui ci difendiamo quando non oltrepassiamo il
recinto chiuso ch’è stato affisso dal buon senso, posto a rimedio di conati d’angoscia
troppo violenti. Anche Jaynes concludeva così la sua brillante dissertazione ne Il crollo
della mente bicamerale e l’origine della coscienza, a proposito della schizofrenia (nella
sua tesi, supportata dai dati di significativi effetti di lateralità tra gli emisferi cerebrali,
essa è connessa ad un’organizzazione più antica del cervello umano), come fosse una
vestigia della bicameralità, con parziale ricaduta nella mente bicamerale, che poneva lo
schizofrenico in diretta connessione con la voce della divinità):
«in realtà egli è una mente che si offre nuda al suo ambiente,
in attesa di déi in un mondo che ne è privo»222.
Cervello messo a nudo, come rete di nervi e sinapsi speculativi, preso in un monologo
notturno, continuamente spezzato, fatto di rapide accensioni del pensiero, prima che torni
alla sua tenebra naturale; il pensiero qui può darsi soltanto un poco alla volta, al di là di
qualsiasi presunzione sistematica, e a partire da pezzi tra loro sconnessi. È allora davvero
la follia la condizione dove è possibile arrischiare nell’Aperto dis-chiuso del pensiero che
dispone le cose in relazioni che oltrepassano il recinto della surrealtà, quella del mondo
immaginario nel quale siamo tutti immersi, surrealtà più reale della realtà stessa, e che
poi approdano in quel luogo tra cielo e terra, chiamano in gioco i mortali e i divini? Non
c’è risposta a questa sempiterna domanda, ma in quanto non c’è risposta all’appello senza
risposta slanciato dalla sofferenza, quantunque quella propria della schizofrenia.
Rinveniamo però nel tentativo deleuziano di tracciare un «punto di fuga attivo ove la
macchina rivoluzionaria, la macchina artistica, la macchina scientifica, la macchina

222
Jaynes J., Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano 1984, pag. 513

108
(schizo)-analitica diventano pezzi e parti reciproche»223, una possibile risoluzione dei
quesiti cui la frammentazione (dissociazione vera e propria, che si mostri sul piano della
partizione disciplinare o nella sfera dell’umano) ci pone innanzi.
Si tratta allora di apprendere quell’esercizio particolarmente delicato di “cura del tempo”
e di quanto lo sostanzia di senso: oltre le più convenzionali espressioni che ci sono offerte
e che incontriamo ogni giorno, infatti, il tempo traccia linee e traiettorie; la circolarità del
tempo, può prendere, ad ogni momento, due direzioni: una che procede e ritorna verso
l’origine (è il caso di un cerchio chiuso su se stesso, “abbaglio di verità”), e una che
s’innesta sulla variazione, e la ripete a modo suo, non importa come, la replica e la ripiega
differentemente, modificando l’andamento circolare in una sorta di spirale. Infatti, «il
lessico della piega permette di pensare il tempo come ad un essere reale»224. Ripetizione
dell’evento o ritorno dunque, ritorno che «non è un fatto che si ripete; il ritorno è un atto
in atto. Il ritorno è la singolarità di un evento»: solo in questa peculiare circostanza, può
darsi una traiettoria che differisca dalla circolarità tradizionale, che “gira in tondo” e torna
su se stessa se il reale funziona («e dove il reale funziona, allora non c’è più evento»225).
Il Reale (come aveva teorizzato anche Lacan) è proprio quella dimensione che non tollera
la ripetizione convergente e si costituisce non di fatti, ma di eventi e di atti: «Non ci sono
cose ma processi»226; è il processo a definire l’andamento del Reale, dell’evento, del
biologico del flusso, caratterizzato da un inanellarsi, una concatenazione: «l’implicazione
dell’evento con il fatto – implicazione nella differenza – è il fondamento di possibilità di
una variazione infinita, variazione che dà all’esperienza la sua specifica struttura
spiraliforme e frattale»227. L’esercizio cui siamo chiamati ad operare è, a nostro parere,
quello di apprendere a realizzare una ripetizione non viziosa: anelli che si uniscono e che
si slegano, susseguirsi di frattali, spirali, in una molteplicità proteiforme e diveniente.
Il sintomo in quest’ottica è da intendersi come qualcosa che “funziona”, in quanto non
produce l’evento e nemmeno dà accesso al Reale: la circolarità della ripetizione, quando
si attorciglia su se stessa, non fa problema e nemmeno domanda.

223
Deleuze G., Guattari F., L’AntiEdipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, pag. 368
224
Ronchi R., Gilles Deleuze. Credere nel reale, Feltrinelli, Milano 2015, pag. 88
225
Bonazzi M., Tonazzo D., Lacan e l’estetica. Lemmi, Mimesis, Milano-Udine 2015, pag. 98
226
Ronchi R., Gilles Deleuze. Credere nel reale, Feltrinelli, Milano 2015, pag. 18
227
Ibidem, pag. 67

109
Il reale che la circolarità impedisce è dimensione inaudita per l’umano: «il Reale, come
tale, se ne infischia dell’uomo, come la Natura nel celebre dialogo leopardiano, non
manca di nulla, il Reale è sempre al suo posto, che non ci ha mai abbandonato né mai ci
abbandonerà. (…) lo troveremo nella barra, nel tratto che separa irrimediabilmente il
significante dai significati»228: è questa dimensione inaudita quella in cui ci imbattiamo
nel caso di un trauma, e che ci conduce immediatamente nel ritmo di una temporalità che
non è quella cronologica, ma quella logica dell’aprés-coup, dimensione in cui è concesso
di ripercorrere la linea del tempo all’indietro (IV dimensione del tempo, la durata), in un
percorso per cui ogni passo si ricostruisce a partire dal futuro, dalla rimozione, per
giungere infine al trauma. Infatti, il trauma possiede «un’azione rimuovente; qualcosa del
mondo simbolico che il soggetto sta per integrare si distacca dal soggetto: resterà parlato
da qualcosa di cui egli non ha controllo»229.
Lacan traccia così una via percorribile per chi voglia accedere ad un tipo di circolarità
virtuosa, ce lo indica come la gioia del sapere: «virtù che designo come gaio sapere:
godere della decifrazione, che implica infine la caduta del sapere. (…) Il soggetto è
felice»230.
È nella dimensione che spezza la circolarità viziosa che è possibile recuperare una
dimensione temporale distinta da quella della coscienza: «se si ricorda all’indietro, come
in un amore in cui si è già vecchi prima di cominciare e se si spera in avanti, anticipando
il futuro come orizzonte d’attesa formato a partire dagli eventi passati, si ripete, per
contro, con la gioia del presente, il gai savoir del presente»231. Forma di circolarità non
circolare, “eccentrica”, come quella delle orbite planetarie, che non permette passaggi già
noti in anticipo, che “ritorna” in modi sempre nuovi, sempre scatenanti l’evento: «che vi
sia in ogni evento la mia infelicità, ma anche uno splendo e un bagliore che asciuga
l’infelicità e fa sì che l’evento, voluto, si effettui sulla sua punta più stretta (…). Il
bagliore, lo splendore dell’evento è il senso. L’evento non è ciò che accade (…) è in ciò
che accade, il puro espresso che ci fa segno e che ci aspetta (…). Diventare degni di ciò
che accade, volerne dunque e liberarne l’evento, diventare figlio dei propri eventi, è

228
Ronchi R., Gilles Deleuze. Credere nel reale, Feltrinelli, Milano 2015, pag. 73-74
229
Lacan J., II Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud. 1953-54., Einaudi, Torino 2014, pag. 238
230
Lacan J., Televisione, in Altri scritti…, pag. 521
231
Bonazzi M., Tonazzo D., Lacan e l’estetica. Lemmi, Mimesis, Milano-Udine 2015, pag. 91

110
quindi rinascere, rifarsi una nascita, rompere con la propria nascita di carne»232. Il
superuomo in questa lettura, via da seguire perché uomo dell’avvenire, è appunto quel
soggetto a venire capace di farsi carico dell’eterno ritorno degli effetti (e non delle cause,
che porterebbe alla ripetizione “viziosa” dell’uguale), ovvero, di sopportare tutto il peso
dell’iscrizione psicotica senza morirne…
È possibile allora per chi attraversa la psicosi, nel particolare della schizofrenia (che
abbiamo visto spiccare tra le altre forme sintomatiche per via dell’imponenza dei micro-
processi che ineriscono alla persona), percorrere un vero e proprio viaggio
“metanoico”233, «esplorazione di sé potenzialmente liberatrice», che in questa particolare
forma del soffrire è racchiuso. «Da qui, la creazione di comunità dove la persona può
rendere la propria metanoia un viaggio buono, grazie all’accompagnamento che le viene
offerto senza che si cerchi di guarirla o avanzando interpretazioni vecchie e pregiudiziali
rispetto alle condizioni attuali, che amplificano il sintomo anziché sviscerarlo»234.
Secondo Jean Garrabé (1974), la metanoia di cui parla Laing «non è che la trasposizione
antipsichiatrica di quella che Jung, prendendo in prestito la dizione da Eraclito, aveva
denominato enantiodromia (ritorno al polo opposto)»235. Secondo Jung infatti, tale è il
moto di regressione-progressione che consente l’esplorazione dell’inconscio, esperienza
che ispirò le narrazioni antiche di viaggi nel paese dei morti. Scrive ad esempio e in tal
proposito, Ellenberger (1974), facendo riferimento a Jules Verne, il cui Viaggio al centro
della Terra: «si potrebbe interpretare in tutti i suoi particolari come un viaggio attraverso
l'inconscio con la scoperta di archetipi sempre più profondi, finché l'incontro con una
palla di fuoco (simbolo dello spirito) non dà l’avvio all’enantiodromia, cioè al
capovolgimento della regressione e al ritorno al mondo comune».

232
Deleuze G., Logica del senso…, pag. 134
233
Da Treccani: «Metanoia»: conversione, rivolgimento, mutamento di direzione di un corpo: mutamento
interiore; cambio, trasformazione; (dal latino conversio)
234
Laing R., L’io diviso, Einaudi, Torino 1960
235
Garrabé J., Storia della schizofrenia, pag. 328

111
«passo in mezzo agli uomini come in mezzo a frammenti d’avvenire: di quell’avvenire
che io contemplo. E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta, e
ricomponga in Uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità. E come potrei
sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta, e solutore di enigmi e
redentore della casualità?»

Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra

112
Conclusioni e ringraziamenti

Desidero ringraziare il professor Adriano Zamperini, relatore di questa tesi, per la


disponibilità e cortesia nel seguirmi, come spettatore silenzioso, lungo le traiettorie a volte
impervie delle riflessioni qui apportate, e per l’aiuto fornito durante la stesura.
Un sentito ringraziamento ai miei genitori, che, con il loro incrollabile sostegno morale
ed economico, mi hanno permesso di raggiungere questo traguardo. Desidero inoltre
ringraziare il dott. Ferdinando della Pietra, coordinatore del 2° SPDC presso l’Ospedale
Sant’Antonio di Padova, tutti gli studenti appassionati che ho potuto ivi incontrare e tutto
il personale assistente, per tutto quanto ho appreso durante il periodo di stage. Last but
not least, vorrei calorosamente ringraziare il prof. Salvatore La Mendola, in quanto la sua
disponibilità graziosa e cortese mi sono stati immensamente d’aiuto. Un ultimo
ringraziamento ai compagni di studi, per essermi stati vicini sia nei momenti difficili, sia
nei momenti felici: sono stati per me più veri amici che semplici compagni.

113
114
Bibliografia
Baudrillard J., Le strategie fatali. Feltrinelli, Milano 1983
Bateson G., Mente e natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano 1984
Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977
Bateson G., Perceval. Un paziente narra la propria psicosi, Bollati Boringhieri, Torino
2005
Barison F., Art e Schizophrenie, Evolution Psychiatrique, 1961
Barthes R., Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988
Bazzicalupo L., Capitalismo e macchina desiderante tra linee di fuga e dualismo,
Mondadori, Milano-Torino 2014
Benedetti G., La schizofrenia, Guerini e Associati, Milano 1988
Benedetti, Paziente e terapeuta nell’esperienza psicotica, 1991, Bollati Boringhieri
Benedetti G., Simbolo e separazione nella schizofrenia. I Quaderni di Aretusa, Convegno
Verona, 7-8 luglio 1995
Benedetti G., Bartocci C., Una vita accanto alla sofferenza mentale. Seminari clinico-
teorici (1973-1996), FrancoAngeli, Milano 2010
Bernini E., John Nash: I giochi della mente, Area51 Publishing, 2017
Bergson H., L’evoluzione creatrice, Rizzoli, Milano 2003
Bion W., Attenzione e interpretazione, Armando, Roma 1987
Binswanger L., Sulla fenomenologia, Laterza, Bari 1955
Binswanger L., Schizophrenie, Neske, Pfullingen, 1957
Binswanger L., Il caso Suzanne Urban, edizioni Marsilio, Venezia 2001
Blanco M., L'inconscio come insiemi infiniti: saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino
1975.
Blankenburg W., La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia
delle schizofrenie pauci-sintomatiche, 1971, ed. it. a cura di Ferro F.M., Salerno R.M., Di
Giannantonio M., Cortina, Milano 1998
Bleuler E., Dementia Praecox oder Gruppe der Schizophrenien, Leipzig-Deuticke, 1911
Bonazzi M., Tonazzo D., Lacan e l’estetica. Lemmi, Mimesis, Milano-Udine 2015
Borgna E., Come se il mondo finisse, Feltrinelli, Milano, 1995

115
Callieri B., Quando vince l’ombra. Problemi di psicopatologia clinica, EUR, Roma 2001
Canguilhelm, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998
Cimatti F., Filosofia dell’animalità, Laterza, Roma-Bari 2013
Conrad K., The beginning schizophrenia, Thieme, Stuttgart 1958, ed. it, Giovanni Fioriti,
Roma 2012
Crow T.J., La schizofrenia come entità di malattia deve sopravvivere nel terzo millennio?,
2001
Cutting J., Psicologia della schizofrenia, Bollati Boringhieri, Torino, 1989
De Clérambault GG., Automatismo mentale, Psicosi passionali, Métis Ed., Chieti 1994
Deleuze G., L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989
Deleuze G., L’immanenza: una vita…, In Aut aut, 1995
Deleuze G., Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975
Deleuze G., Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1996
Deleuze G., Guattari F., L’AntiEdipo, Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975
Deleuze G., Guattari F., Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma
2006
Deleuze G., Guattari F., Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi 1996
Deleuze G., Guattari F., Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010
De Luca A., Pezzella A. M., Con i tuoi occhi. Sull’intersoggettività, Mimesis, Milano
2014
De Masi, Vulnerabilità alla psicosi, Raffaello Cortina, Milano, 2006
Dilthey W., Holderlin e le cause della sua follia, 1867
Ellenberger H.F., The Discovery of the Unconscious: The History and Evolution of
Dynamic Psychiatry Basic Book Inc, New York 1970
Esquirol J.E.D., Des maladies mentales, J-B Baissière, Bruxelles 1838
Fadini U., Figure nel tempo, Ombre Corte, Verona 2003
Fodor J.A., La mente modulare. Saggio di psicologia delle facoltà, Il Mulino, Bologna
1988
Foucault M., La folie, l’absence d’œuvre, in Histoire de la folie, Gallimard 1972
Foucault M., L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1979
Foucault M., Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli,
Milano 2004

116
Francesetti G., La creatività come identità terapeutica, FrancoAngeli, Milano 2011
Freud S., Il perturbante, OSF, vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino 1919
Freud, Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino 1986
Freud S., Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides)
descritto autobiograficamente, in Opere vol. VI, Bollati Boringhieri, Torino 1989
Freud S., Nuove lezioni, Cremonese, Roma 1934
Fromm-Reichmann F., Some aspects of psychoanalysis and schizophrenics, International
Universities Press, New York
Galzigna M., Binswanger e le strutture della presenza
Garrabé J., Storia della schizofrenia, Ed. scientifiche Magi, Roma 2001
Griesinger W., Patologia e terapia delle malattie psichiche, Artze und Studierende,
Stuttgart 1845
Huber G., Das Konzept substratnaher basissymptome und seine bedeutung für theorie
und therapie schizophrener erkrankungen, Nervenarzt 1983
Jameson F., Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi,
Roma 2007
Janzarik W., Dynamische grundkonstellationen in endogenen psychosen, Springer,
Berlin, 1959
Jaspers K., La situazione spirituale del tempo, Jouvence Roma 1982
Jaspers K., Genio e follia. Strindberg e Van Gogh, 1922, ed. it., Raffaello Cortina, Milano
2001
Jaspers K., Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma 1964
Jaynes J., Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano
1984
Jung C.G., Erinnerungen, Traume, Gedanken, Rascher Verlag, Zürich/Stuttgart 1962
Jung C. G., Simboli della trasformazione. Analisi dei prodromi di un caso di schizofrenia,
Bollati Boringhieri, Torino 1972
Kafka F., Quaderni in ottavo, Mondadori, Milano 1972
Kierkegaard S., Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, Donzelli, Roma 2011
Karon B.P., Psychotherapy of Schizophrenia: The Treatment of Choice, Jason Aaronson,
Northvale-London, 1981
Kraepelin E., Psychiatrie, VI Auflage, Leipzig 1915

117
Kretschmer E., Costituzione del corpo e carattere, Berlin, Springer 1921
Lacan J., Scritti I. Discorso sulla causalità psichica, Einaudi, Torino 1966
Lacan J., II Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud. 1953-54., Einaudi, Torino
2014
Lacan J., Il seminario. Libro xxiii. Il Sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006
Laing R., L’io diviso, Einaudi, Torino 1960
Laing R., La politica dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1990
Lavelle L., De l’Etre, Alcan, 1927
Lawrence D. H., La verga di Aronne, trad. it. C. Izzo, Mondadori, Milano 1949
LaPlanche J., Psychoanalysis, Time and Translation, lecture at University of Kent, 1989
Legrenzi P., Umiltà C., Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino,
Bologna 2009
Longo G., Uomo e tecnologia: una simbiosi problematica, Eut, Trieste 2006
Lurija A. R., Un mondo perduto e ritrovato, Editori Riuniti, Roma 1973
Maggioni et al., La parola come cura. La psicoterapia della psicosi nell’incontro con G.
Benedetti, Ass. Studi Psicoanalitici, Franco Angeli, Milano 2006
Marcel G., Homo viator, Aubier, Paris, 1937
Martini G., La psicosi e la rappresentazione, Borla, Roma 2012
Merleau-Ponty M., Eloge de la philosophie, Paris, 1953
Merleau-Ponty M., Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003
Migone P., Storia della schizofrenia, Il Ruolo Terapeutico, 2012, 119 & 120
Miller J-A., 1988, Clinica ironica, in I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001
Minkowski E., La schizofrenia, Einaudi, Torino 1998
Montefoschi S., Essere nell’essere, Raffaello Cortina, Milano 1986
Nayrac P., Essai sur la démence paranoide, Lille, 1923
Nichterlein M., Morss J. R., Deleuze e la psicologia, Raffaello Cortina, Milano 2017
Odier C., L’angoisse et la pensee magique, Delachaux & Niestle, Neuchâtel 1948
Pagliardini A., Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale, Galaad edizioni,
Giulianova 2016
Pancheri P., La Schizofrenia, in Cassano G.B., Pancheri P: Trattato Italiano di
Psichiatria, Masson 2000
Pascal Quignard, Albucius, POL 1990

118
Patton P., Deleuze, a critical reader, Blackwell Publisehrs, Oxford 1996
Pinel P., Traité Médico-Philosophique sur l’aliénation mentale, Paris 1809
Pinel P., Psicobiologia, Il Mulino, Bologna 2007
Pirandello L, Sei personaggi in cerca d’autore., 1920
Putnam H., Rappresentazione e realtà, Garzanti, Milano 1993
Racamier, Gli schizofrenici, Raffaello Cortina, Milano 1983
Ronchi R., Gilles Deleuze. Credere nel reale, Feltrinelli, Milano 2015
Rossi Monti M, Stanghellini G, Psicopatologia della Schizofrenia. Prospettive
metodologiche e cliniche, Raffaello Cortina Ed., Milano,1999
Rossi K., L'estetica di Gilles Deleuze. Bergsonismo e fenomenologia a confronto,
Pendragon, Bologna 2005
Rovatti P. A., Il declino della luce, Marietti, Torino 1988
Rumke H.C., Eine bluhende Psychiatrie in Gefahr, Springer, Berlin-Heidelberg-New
York, 1967
Sacks O., L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano 2001
Searles, H. F., Scritti sulla schizofrenia, Boringhieri, Torino 1974
Sechehaye M. A., Diario di una schizofrenica, 1955, 2006, Giunti, Firenze
Schneider K., Der Begriff der Reaktion in der Psychiatrie, Z. Neurol., 1925
Schneider K., Psicopatologia clinica, Città Nuova, Roma 1983
Szasz T., Schizofrenia, simbolo sacro della psichiatria, Armando, Roma 1984
Weitbrecht J.H., Psychopathologie heute, Thieme, Stuttgart 1962
Wyrsch J., Psychiatrie als offerte Wissenschafi, Haupt, Bem-Stuttgart 1969

Articoli

Barbetta P., Gregory Bateson e la schizofrenia, in Riflessioni Sistemiche n. 3, 2010


Bateson, G., Jackson, D. D., Haley, J., & Weakland, J. (1956). Toward a theory of
schizophrenia. Behavioral Science
Barison F., Un congresso sulla cosiddetta apatia schizofrenica, in Comprendre 5/90,
Suppl. Fasc. 6, Rivista sperimentale di Freniatria 1990

119
Benedetti G., Jung e la schizofrenia, in “Jung e la cultura europea”, Rivista di Psicologia
Analitica, Marsilio, Padova, Vol. IV, n. 2, 1973
Bleuler M., The Schizophrenic Disorders: Long-term Patient and Family Studies, Yale
University, Yale, 1978.
Butzlaff, R. L., & Hooley, J. M., Expressed emotion and psychiatric relapse: A meta-
analysis. Archives of General Psychiatry, 55, 547-552, 1998
Ciompi L., Schizophrenic deterioration, British Journal of Psychiatry, 1983
Ciompi L., Muller C., Lebensweg und Alter der Schizophrenen, eine katamnestiche
Langzeitstudie bis ins Senium, Springer, Berlin, 1976
Domenichetti S., La schizofrenia: ambiguità di una diagnosi, 2009
Hoch e Polatin, Forme pseudonevrotiche di schizofrenia, 1949
Feighner JP., Robins E., Guze S. B., Woodruff R. A., Winokur G. & Munoz R.,
Diagnostic criteria for use in psychiatric research, Arch. Gen. Psychiatry 1972
Goldner E.M., Prevalence and incidence studies of schizophrenic disorders: a systematic
review of the literature, Can J Psychiatry 2002
Heckers S., What is the core of schizophrenia? JAMA Psychiatry, 2013
Lenz G., Simhandl C., Thau K., et alii, Temporal stability of diagnostic criteria for
functional psychoses. Results from the Vienna follow-up study, Psychopathology, 1991
Ono Y., Studies on the effects of renaming psychiatric disorders. Tokyo: Ministry of
Health, Labor and Welfare, 2005
Kendell R.E., Brockington I.F., The identification of disease entities and the relationship
between schizophrenic and affective psychoses, British Journal of Psychiatry, 1980
Sato M., Renaming Schizophrenia: a japanese perspective, World Psychiatry, 2006
Spitzer R.L., On Pseudoscience in Science, Logic in Remission, and Psychiatric.
Diagnosis: A Critique of Rosenhan's "On Being Sane in Insane Places", Journal of
Abnormal Psychology, 1975

120
Appendice

Che tortura morale abbiamo:


doverci fingere pazzi
perché qui sul Naviglio fa colore,
ed esser buttati fuori casa
da una strega che guarda,
quante volte ti ho odiata, Bianca,
perché avevi una casa, un desco,
un giglio, un focolare.
Era un odio pieno d’amore
perché tu non capisci
che di questo tuo dare
non avrai che tradimenti da vecchia.
Ti avrei picchiata a sangue
e ti avrei poi rapita
dalla brutta menzogna che è la vita

26.11.993 Alda Merini, La Terra Santa

121
Anamnesi del delirio

Il delirio è una condizione umana irripetibile,


né lirica né distorta. Il delirio è stato
per me quella conchiglia trovata sulla sabbia
dell’anima che si porta all’orecchio
per sentire il rumore del mare
e il rumore del canto.
Pochi sanno che i deliranti camminano
come segugi dietro una traccia di sangue
e che questo dolore produce in loro
dimenticanze inavvicinabili (…)

122
Estratti da Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi,
Milano 1974

di Robert Pirszig

“Fedro era pazzo. E quando guardi un pazzo senza mediazioni non


vedi che il riflesso della tua consapevolezza che è pazzo, il che equivale
a non vederlo affatto. Per vederlo devi guardare la realtà con i suoi
occhi, e l’approccio indiretto è l’unico modo per arrivarci. Altrimenti le
tue opinioni ti sbarrano la strada. Vedi una sola via di accesso fino a lui,
e abbiamo ancora un bel cammino da fare.”

“Fedro passò la vita ad inseguire un fantasma. Ed è vero. Il


fantasma che inseguiva sta ancor oggi alla base di tutta la tecnologia, di
tutta la scienza moderna, di tutto il pensiero occidentale. È il fantasma
della razionalità stessa. (...) È un fantasma che si riveste del nome di
‘razionalità’, ma le sue sembianze sono quelle della confusione e
dell’insensatezza, un fantasma che fa sembrare un po’ folli le più
normali azioni quotidiane perché ciascuna di esse non ha nulla a che
vedere con tutto il resto. È il fantasma delle convinzioni su cui si fonda
la nostra vita quotidiana, lo stesso che dichiara che lo scopo ultimo
della vita, che è quello di conservarsi vivi, è impossibile, ma è
comunque lo scopo ultimo della vita (..) ma solo i pazzi si domandano
il perché. Si vive più a lungo per poter vivere più a lungo. Senza altro
scopo. Questo dice il fantasma.”

123
“Albert Einstein, 1918: (...) quel che li ha portati al tempio (...)
non c’è un’unica risposta per spiegarlo, (…) l’evasione dalla vita
quotidiana, dalla sua penosa crudezza, da una disperata monotonia, la
fuga dalla schiavitù dei propri desideri. Una natura nobile desidera con
tutte le sue forze di sfuggire al suo ambiente affollato e rumoroso per
rifugiarsi nel silenzio delle vette più alte, dove l’occhio spazia
liberamente nell’aria ancora pura e segue con sguardo amorevole i
placidi contorni che paiono costruiti per l’eternità.”

“Fedro usava questa strada per salire in montagna, dove


rimaneva con una provvista di cibo per tre o quattro giorni; poi andava
a prendere altre scorte e risaliva lassù, spinto da un bisogno quasi
fisiologico. Il concatenamento delle sue astrazioni si era fatto così lungo
e complesso che per poterlo dominare aveva bisogno di questo silenzio
e di questo spazio. (..) Fedro non pensava come gli altri neanche allora,
prima della sua follia. Egli si trovava ad un livello nel quale tutto
scivola e cambia; i valori e le verità istituzionali scompaiono e si
continua solo sulla base del proprio spirito. La sua precoce sconfitta
l’aveva esonerato dall’obbligo di incanalare il suo pensiero in schemi
tradizionali ed egli aveva acquisito un’indipendenza intellettuale che
ben pochi conoscono. Intuiva che istituzioni quali le scuole, le chiese, i
governi e le organizzazioni politiche di ogni sorta tendevano a orientare
il pensiero verso fini diversi dalla verità, a utilizzarlo per la
perpetuazione delle sue funzioni (…) Arrivò a vedere la sua sconfitta
come una fortunata rottura, una fuga accidentale da una trappola che
gli avevano tesa, e da allora fu sempre molto attento a sfuggire alle
trappole tese dalle verità stabilite.”

124
“(…) prima che l’aiuto arrivi, però, la coscienza di Fedro va in
pezzi piano piano… si dissolve. A poco a poco non si chiede più che
cosa lo aspetta. Lo sa, e i suoi occhi piangono per la sua famiglia, per
lui stesso, per questo mondo. Gli si fissa in mente il frammento di un
vecchio inno cristiano: “devi attraversare quella valle solitaria”. L’inno
lo sprona. “Devi attraversarla da solo”. Sembra un canto del Montana.

Fedro attraversa una valle solitaria, fuori dal mythos, ed è come se


emergesse da un sogno, vede che tutta la sua coscienza, il mythos, è
stata un sogno; un sogno soltanto suo, un sogno che ora deve sforzarsi
di tenere in piedi. Poi persino “lui” scompare e rimane solo il sogno di
lui stesso con lui dentro. E la Qualità, l’areté per la quale ha lottato così
duramente e che non ha mai tradito, ma che in tutto quel tempo mai
una volta ha capito, ora gli si rivela. Finalmente la sua anima può
riposare.”

“Si continua a dire che il dualismo soggetto-oggetto va eliminato,


e il dualismo più grosso di tutti, quello tra me e lui, non viene affrontato
affatto. Una mente divisa contro se stessa…”

125
Francesco Petrarca,
Pace non trovo e non ho da far guerra (vv. 1-11)

Pace non trovo, et non ò da far guerra;


e temo, et spero; e ardo, e sono un ghiaccio;
et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra;
e nulla stringo, et tutto ‘l mondo abbraccio.
Tal m'à in pregion, che non m'apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
e non m'ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d'impaccio.
Veggio senza occhi, e non ò lingua et grido;
et bramo di perire, et chieggio aita;
e ò in odio me stesso, et amo altrui.
Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte e vita:
in questo stato son, donna, per voi.

126
Le liriche – Friedrich Hölderlin

A metà del vivere

Carica di pere gialle


colma di selvagge rose
la terra pende sul lago
e i cigni miti
ebbri di baci affondano il capo
nella sacra acqua digiuna.
Ahi me, dove
quando avverrà l’inverno
coglierò i miei fiori,
dove luce di sole
e ombre della terra?
Muraglie stanno
fredde e mute,stridono
i segnavento.

Mnemosyne seconda stesura

Noi siamo un segno non significante,


indolore, quasi abbiamo perduto
nell’esilio il linguaggio.
Davvero quando sopra gli uomini
c’è un cielo una contesa e possenti
vanno le lune, allora parla il mare
e anche i fiumi debbono cercarsi
un sentiero. Ma Uno non ha dubbio.
Egli può ogni giorno trasformare.
Appena ha bisogno d’una legge.
La foglia allora suona e querce alitano
presso i ghiacciai. Non tutto
è ai celesti possibile. Più presto giungono infatti
i mortali in fondo all’abisso.
Ma così avviene per essi la svolta.

Lungo è il tempo, ma si attua il vero.

127
E per sentire con la vita

E per sentire con la vita


dei Semidei, dei patriarchi, sedendo
a giudizio. Ma non dovunque,
intorno a loro, è uguale. Invece, un vivere
ronzante caldo d’una eco d’ombre
in un punto focale che l’aduna.
Deserto d’oro. O una bene mantenuta notte
simile all’acciarino d’un focolare caldo di vita
batte scintille dall’affilata roccia
del giorno, e suona ancora nel crepuscolo
una corda. Lo sparo
del cacciatore fischia contro il mare.
Ma l’egiziana siede col seno aperto
e canta senza tregua,
con le osse piene d’artrite a causa dello stento
presso il fuoco, alla selva. Allora un ruscello
significando retta conoscenza
delle nubi dei laghi delle stelle
risuona in Scozia come presso un lago
di Lombardia e passa. Giocano ragazzi
abituati a un fresco vivere di perla
intorno alle figure dei maestri
o delle salme, o suona intorno alle corone
dei torrioni il grido delle dolci rondini.

No, in verità il giorno


non forgia
alcuna forma umana. Ma primamente
un antico pensiero, scienza
Elisio.
___________ e perduto amore
dei tornei ______ intimiditi, madidi cavalli

128
Mnemosyne (terza stesura)

Maturi sono, immersi nel fuoco, cotti


i frutti e sulla terra saggiati; e c’è una legge
che tutto in dentro volga come serpenti
in sogno profetico sogna
i colli del cielo. E molto,
come un carico di legna
sugli oneri è
da serbare. Ma sono cattivi
i sentieri. Poiché sbandano
come cavalli gli elementi
prigionieri e le vecchie
leggi della terra. E sempre
nell’assoluto va una brama. Ma molto
è da serbare. E necessaria la fedeltà. Ma né avanti, né indietro
noi vogliamo vedere. Ci lasciamo cullare
come su dondolante barca sul mare.

La Primavera (Quando sui prati)

Quando sui prati germoglia un nuovo incanto,


e la vita di nuovo si fa bella
e su monti ove gli alberi verdeggiano
aure si mostrano più chiare e nubi,

oh!, qual gioia han gli umani! Lieti


van solitari lungo la riva; fiorisce
pace e diletto e gioia di salute,
nemmen lontano è un gentil riso.

La Primavera (Se dal profondo)

Se dal profondo viene primavera alla vita


l’uomo si meraviglia; parole nuove tentano,
dalla spiritualità; torna la gioia,
canto e canzoni fanno festa grande.

La vita si ritrova nell’armonia dei tempi,


per cui natura e spirito sono compagni alla mente.

129
La perfezione è una, nello spirito.
E molto si ritrova, ma il più nella Natura

Poco per sapere


Poco per sapere ma molto per gioire
è concesso ai mortali,
E perché, o Sole, o fiore dei miei fiori,
a me non basta
in un giorno di maggio nominarti?
Dunque io so qualcosa di più alto?

Se io fossi simile ai fanciulli,


se io cantassi come gli usignoli
il canto spensierato della mia gioia!

Nella foresta
Tu, nobile belva.
Ma l’uomo abita in capanne e si avvolge d’una veste vergognosa, perché è più
segreto, più attento anche, e serbare lo spirito come la sacerdotessa la fiamma
del cielo è appunto la sua intelligenza. Per questo ha libertà di volere e un più
alto potere di mancare come di compiere; e a questo uomo fatto a somiglianza
degli Dei fu dato il più pericoloso dei beni, il linguaggio, perché – creando
distruggendo cadendo ritornando alla Maestra, alla Madre eternamente viva –
testimoniasse il suo essere, l’essere erede, l’avere imparato da lei, divina fra
tutte le cose, l’Amore che tutto regge.

Perché egli in nulla perdura.


Nessun segno
l’incatena.
Non sempre

un ricettacolo per contenerlo.

La mia opera procede da Dio.

130

Potrebbero piacerti anche