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Storia delle religioni mod.

Lezione 1:

I tre grandi concetti importanti in storia delle religioni sono: mito, rito e simbolo. Il mito è un
concetto che fa parte sia nel nostro lessico comune che in storia delle religioni. Il mito è inteso
come qualcosa di fittizio, di falso che è facilmente diffondibile; il mito è associato anche ad un
sovrappiù, qualcosa di molto rilevante, intenso (una figura mitica); questi due sensi tendono ad
essere opposti, ma hanno un carattere comune: una rottura rispetto alla realtà effettiva. Il fatto
di staccarsi dalla realtà effettiva presuppone l’immaginazione intesa come produzione di immagini
(che possono essere vere o false). La parola mito deriva dal greco mythos, che a sua volta deriva
da una radice indoeuropea Mi che ha a che fare con l’emissione di un suono. Il concetto greco di
mito viene identificato come un concetto che fa parte del discorso (che ha a che fare con il suono,
la parola); il termine mythos però nella letteratura greca antica viene impiegato in modo più
generale, che si riferisce a discorsi di vario genere; un discorso che se messo in pratica può essere
efficace (questo per Ulisse); c’è un altro eroe della mitologia greca, Mestore: i suoi discorsi
riguardano però le tradizioni, racconta storie del passato con autorità; in ogni caso il mythos è un
discorso efficace di vario genere. Con il procedere della civiltà greca, il concetto di mythos viene
sempre più specificato e si definisce per opposizione rispetto a due altri concetti: logos e storia. Il
logos è il discorso razionale (nasce insieme al pensiero filosofico greco); inizialmente mythos e
logos fanno parte dello stesso ambito, ma con il tempo si separano, precisamente con Parmenide;
qui il mythos tende a diventare già un discorso irrazionale, che si svolge con l’immaginazione. La
storia ed il mito entrambi raccontano eventi passati, ma con Erodoto questi due concetti si
separano: il sapere storico cerca le cause degli eventi in eventi recenti, distinguendo ciò che è vero
da ciò che è falso (carattere critico), inoltre la storia si definisce come ricerca di cause all’interno di
un tempo umano (il tempo storico); il discorso mitico invece non cerca cause recenti ma cause
remote in un tempo non umano ma in un tempo divino; il mito ha riferimento alle origini delle
cose. La prima definizione del mito la si trova in Platone: un racconto che riguarda gli Dei, i
demoni, gli eroi e la vita nell’Ade (si avvicina molto alla nostra concezione di mito); questa
definizione è nata però dalla distinzione tra mito, logos e storia. In questo modo però il mito viene
svalutato per la sua carica immaginativa. Nei miti greci, infatti, gli Dei sono immorali molte volte e
per questo nasce la critica del mito.
Si risponde a questa critica e si cerca di recuperare il valore del mito attraverso due strategie
principali: con l’evemerismo, parola che deriva da Evemero: in un mito viene scoperta un’antica
iscrizione che racconta le opere di Zeus, dipingendolo come un personaggio storico: l’evemerismo
è quindi una forma di interpretazione del mito che vede nei racconti un riflesso di fattori storici
precisi e negli Dei personaggi storici particolarmente illustri che vengono poi divinizzati; la seconda
strategia è l’allegoria (portare fuori, verso qualcos’altro per definizione del termine): il mito ha un
senso letterale che è quello che leggiamo, ma ha anche un senso fisico o morale nascosto dietro:
l’allegoria fisica si riferisce ad un fatto astronomico, quella morale ad un fatto morale appunto.
Per un esempio di allegoria c’è il mito di Efesto nell’Odissea: Efesto è zoppo ed è il coniuge di
Afrodite; tradisce Efesto con Ares ed Efesto li sorprende nell’atto, allora prende una rete dalla
quale non ci si può liberare ed imprigiona entrambi e gli espone agli Dei. Questo è il tipico
racconto mitico che fa fare una brutta figura agli Dei; dal punto di vista allegorico i Pitagorici ne
danno una lettura: per i Pitagorici il numero ha un significato religioso ed è il fondamento del
mondo; pertanto, Afrodite è l’allegoria dell’anima e Ares è l’allegoria del corpo, c’è quindi
l’unione tra anima e corpo e dunque la rete sta a significare che anima e corpo non si possono
separare; Efesto è ciò che unisce anima e corpo; l’anima si deve separare dal corpo con una serie
di processi di purificazione; dopo la morte l’anima si separa dal corpo, la morte è dunque la
distruzione del connubio tra anima e corpo (questo è un contesto funerario a causa della
separazione tra anima e corpo); questa è un’allegoria morale. Un esempio di allegoria fisica è
quella del mito di Apollo che si innamora di Dafne: Dafne gli resiste ma Apollo ci prova in tutti i
modi; ad un certo punto Apollo rincorre Dafne e quando la sta per toccare, Dafne si trasforma in
una pianta di alloro: qui viene spiegata una realtà fisica come la pianta di alloro con un riferimento
ad una realtà mitica; Apollo è il Dio del Sole, Dafne è l’alba perché l’alloro se messo nel fuoco
brucia rapidamente ed in modo sfolgorante che sembra appunto l’alba; l’alba ed il Sole non si
incontrano mai perché quando una finisce l’altro inizia; dunque questa è un’allegoria fisica che si
riferisce ad un evento astronomico: il Sole che sostituisce la notte facendo nascere l’alba.
Con l’arrivo del Cristianesimo, il mito viene svalutato ancora, ma vengono tenuti i principi
dell’evemerismo e dell’allegorismo. Il Cristianesimo associa però ai criteri dell’interpretazione del
mito anche altre tematiche, quella principale è quella dell’origine demoniaca: gli Dei e gli eroi del
mondo antico sarebbero dei demoni, e questi demoni sarebbero sconfitti dalla vera religione
(questo pensiero precede l’idea cristiana che considerava i miti antichi come semplicemente falsi).
Questa origine demoniaca si fonda anche sulla Bibbia dove nella Genesi c’è un riferimento a
donne mortali che si uniscono ad esseri celesti.
A un certo punto, all’interno di questi studi in storia delle religioni sui miti, si pone il problema che
di questi racconti abbiamo soltanto resoconti scritti, c’è dunque una grande distanza culturale e
inoltre sono miti letterari, non raccontati e dunque possono essere stati deformati. Ci sono però
dei miti che sono rimasti attendibili: si chiamano i miti viventi e sono i miti delle civiltà orali;
attraverso la comparazione con i miti viventi possiamo capire anche i miti morti; così nasce in
antropologia un nuovo metodo per analizzare i miti. Il primo punti di riferimento per questo
metodo è quello dato da Malinowski (morto nel 1942): rifiuta l’idea che si possono dire cose
generalissime senza studiare i singoli popoli e studia in particolare le popolazioni delle isole
Trobiand (a nord-est della Nuova Guinea). Quando studia queste civiltà si pone il problema che la
parola “mito” in questo contesto non esiste, dunque registra i racconti e vede che ci sono tre tipi
di narrazioni: le prime sono narrazioni di puro divertimento (c’è un vago senso sacrale, che
giovano al raccolto, ma si considerano narrazioni di svago), narrazioni che narrano azioni di
personaggi realmente esistenti e i terzi sono le narrazioni sacre (considerate vere ma non come
avventure di personaggi veramente esistiti); queste tre categorie possono essere tradotte
rispettivamente come favole, leggende e miti. Malinowski si occupa della terza categoria.
Malinowski analizza due miti; il primo riguarda l’origine dell’umanità: originariamente l’umanità
viveva sotto terra, a un certo punto viene fuori dal terreno in vari punti (dalle odierne caverne o
mucchi di pietre); vengono fuori delle coppie formate da fratello e sorella dove i primi
custodiscono le seconde, da queste coppie nascono i gruppi sociali (nascono dalla sorella i gruppi
sociali); in un certo punto della terra vengono fuori quattro coppie accompagnate da un animale:
iguana, cane, maiale e coccodrillo (o serpente); cane e maiale vanno in giro insieme e il cane
mangia un frutto sudicio, a questo punto il maiale diventa il capo; il mito finisce qua; questo mito
è importante perché viene raccontato ad eventi speciali e viene raccontato spesso ai forestieri;
sembra insignificante come racconto: per poterlo interpretare non possiamo basarci sulle nostre
conoscenze e sul nostro modo di ragionare; per poterlo interpretare bisogna conoscere la cultura
del popolo: non possiamo interpretare un mito se non conosciamo perfettamente l’ambito
culturale. Si tratta del mito di fondazione dell’ordine sociale trobiandese: il gruppo sociale è
formato da fratello e sorella, il nucleo della famiglia non è considerato come da noi con il padre e
la madre, ma la madre ed il fratello della madre; la società ha un carattere matrilineare: la
famiglia si sviluppa partendo dalla componente femminile e non quella maschile come da noi, il
fratello ha un ruolo di protezione. Gli animali rappresentano i principali clan, in particolare la loro
gerarchia: i clan legati all’iguana ed al coccodrillo non hanno un ruolo importante (per questo non
vengono considerati nel mito), i clan principali sono quelli legati al cane e al maiale, il secondo è il
clan più importante: questo mito racconta il momento in cui si fonda la gerarchia dei clan e
l’importanza degli uni sugli altri. Il mito rappresenta la carta di fondazione della comunità, la
carte dei diritti, con carta si intende la costituzione, la struttura della comunità; il mito dunque
fonda l’ordine sociale. Il secondo mito trattato da Malinowski: una vecchia vive in un villaggio con
sua nipote e sua figlia; la vecchia e la nipote vanno in uno specchio d’acqua; la vecchia si allontana
da questo specchio d’acqua e quando rimane da sola si toglie la pelle e la lascia cadere nell’acqua;
la pelle si impiglia in un cespuglio; la vecchia, ringiovanita, ritorna dalla nipote sulla spiaggia; la
nipote non la riconosce si spaventa e la manda via; la vecchia torna nello specchio d’acqua e si
rimette la pelle; torna dalla nipote e gli dice che a questo punto entrambe diventeranno vecchie e
moriranno. L’idea di base è che certi animali possono cambiare pelle e ringiovanire; anche gli
umani potevano farlo ma ora non è più possibile perché è successo questo evento della vecchia e
della nipote: questo non è un mito che fonda la società, ma fonda la realtà della morte, una realtà
esistenziale. I due racconti non possono essere interpretati senza una conoscenza adeguata della
civiltà (uomo come animale originariamente sotterraneo come i serpenti e della loro abilità di
cambiare la pelle). Con questo Malinowski appura l’idea che il mito è un racconto che fonda la
società ed i suoi eventi importanti. Nello stesso periodo viene aggiunta l’idea della dimensione
cronologica del mito da Mausse: la dimensione temporale del mito è diversa da quella storica in
cui ci troviamo; esiste un tempo storico ed uno mitico, il secondo è qualitativamente diverso dal
primo; la dimensione cronologica del tempo mitico è la dimensione delle origini.
Sul tema del mito non ci sono particolari discordie tra gli studiosi. Un disaccordo si trova sul
problema della verità del mito: a che condizioni un mito è vero. La prima prospettiva è quella
presentata da Pettazzoni: studia i nativi americani del nord nelle quali esiste il personaggio tipico
del coyote; si parla di una gara tra il coyote ed un altro essere, la gara consiste in raccontare
storie, il coyote ha la fama di ingannare; vince il coyote perché le storie che racconta sono infinte,
ne sa di più perché se le inventa; le storie inventate sono infinite, quelle vere no. Ci sono tanti
racconti in queste civiltà, ma c’è anche la coscienza tra queste che alcuni non sono veri. Pettazzoni
definisce quelli veri come racconti mitici. A questo punto Pettazzoni si chiede quali sono le
caratteristiche che costituiscono i racconti veri rispetto a quelli falsi; ci sono caratteristiche
formali e caratteristiche di contenuto; le prime riguardano ad esempio i tempi della narrazione (i
racconti veri si possono narrare solo in determinati momenti, ad esempio solo di notte o solo
d’inverno; quelli falsi invece in ogni momento) o il fatto che quelli veri non possono essere narrati
a tutti; le seconde invece riguardano il fatto che i contenuti nei racconti veri risiedono nella tavola
di fondazione della civiltà in questione (costituiscono il fondamento della società: stessa
conclusione di Malinowski). Un mito è vero, dunque, quando la società ritiene di fondarsi su di
esso: quando una società non considera più quel racconto un suo momento fondativo, il mito
perde di verità e diventa una favola; le favole, dunque, sono miti nella cui verità non si crede più
(le favole sono miti degradati). Paradossalmente, il mito della gara tra il coyote e l’altra entità è
un racconto del coyote stesso.

Lezione 2:

La prospettiva di Pettazzoni si spiega nell’ambito storico dei fatti religiosi. Uno sviluppo di queste
tematiche si ha con Brelich, allievo di Pettazzoni. Brelich riprende le idee di Pettazzoni con una
serie di racconti mitici dell’America del Nord della lingua algonchina, in particolare dei Menomini:
in questo mito si spiega la nascita della loggia di medicina, una specie di ospedale; i miti di questa
fondazione sono vari e Brelich ne tratta alcuni; il mito risale alle origini delle umanità; abbiamo un
creatore/spiriti (Manitù) che crea l’umanità, una madre ed una figlia; la figlia rimane incinta da un
essere primordiale e partorisce il primo uomo; questo uomo si sente solo e perciò il creatore gli
affianca un amico, un lupo; il lupo e l’uomo diventano amici e vanno a caccia insieme; l’uomo
insegna al lupo a cacciare in maniera moderata; l’uomo diventa tracotante nei confronti del
creatore e dice che non esistono Dei sulla terra, ma ci sono solo lui e il lupo; i manitù lo sentono e
lo puniscono, uccidendo il lupo; l’uomo sente del complotto ed avverte il lupo, avvertendolo di
non uscire dopo il tramonto e di non passare sul ghiaccio; i manitù mandano un essere
velocissimo, un cervo; il lupo lo insegue ma il cervo è veloce, portandolo in zone lontane; quando
l’uomo perde le tracce del lupo si sta già facendo tramonto; il lupo per tornare quindi prende una
scorciatoia e passa in un corso ghiacciato; il ghiaccio si rompe ed il lupo cade dai manitù; l’uomo si
arrabbia e decide di aspettare quattro giorni, se il lupo non torna combatterà i manitù; i manitù,
per evitare che succeda questo, allora costruiscono la loggia di medicina, un luogo ove le
sofferenze verranno lenite, per compensare la perdita del lupo; l’uomo accetta l’offerta non per sé
ma per i suoi discendenti; le medicine vengono fornite dalla nonna dell’inizio del racconto. Alcune
versioni del mito però comprendono una continuazione: il quarto giorno dell’ultimatum arriva
l’ombra del lupo, restituita dai manitù; un’ombra senza corpo; i due si avviano verso il tramonto
del sole; in questo modo preparano la strada per i discendenti; il tramonto simboleggia il mondo
dei morti; il lupo è il primo dei morti e quindi apre la strada per il mondo dell’aldilà; il lupo ad una
certa manda via l’uomo perché non può venire con lui dato che non è morto. Una terza versione
del mito è presente: il primo uomo aggredisce i manitù per la morte del lupo e li ferisce; la nonna
manda la figlia con le medicine dai manitù, il primo uomo prende però l’aspetto della madre e va
ad uccidere i manitù (non tutti); i manitù vengono cotti; li mangia un serpente; avviene un diluvio
e da questo nasce la Terra; in questa versione del mito non si parla più della loggia di medicina, ma
si parla della fondazione del mondo. La prima parte del mito è un mito di fondazione della loggia
di medicina: qui l’uomo consegna ai suoi discendenti la loggia di medicina; la loggia viene fondata
tramite l’idea che inizialmente non esiste la morte, con il primo morto (il lupo) esiste la morte ma
con la loggia di medicina gli uomini potranno alleviare i propri mali. La seconda parte del mito
fonda l’aldilà: muore il primo essere e quindi si apre la strada per l’aldilà; fonda anche la
separazione tra i due mondi perché i due si separano ad un certo punto. La terza parte del mito
fonda l’universo: ha una funzione cosmologica; questo ha a che fare con il tema del sacrificio di
fondazione. Questi miti non hanno una logica narrativa fra di loro, si trovano situazioni
contraddittorie; presi singolarmente invece hanno senso. Brelich si chiede perché, essendo parte
della stessa civiltà, questi miti siano contraddittori: in realtà il mito consiste nel fondare una realtà
esistente; l’attenzione si concentra su una realtà che già esiste; nella realtà esistente esistono già
la loggia, la morte ed il cosmo; dunque, tutti questi miti sono veri anche se sono contraddittori:
sono tutti veri perché fondano delle realtà che noi abbiamo già sotto gli occhi (il mito è vero non
perché è razionale). Il mito è dunque per Brelich un qualcosa che fonda la realtà attuale, non la
spiega; il mito non spiega: spiegare vuol dire rendere più chiaro; il mito invece fonda delle realtà
dando loro un senso collegandole ad un racconto che si svolge nei primordi.
L’idea del coyote dell’essere ingannatore ha portato gli studiosi ad associarlo alla categoria dei
personaggi mitici del trickster: in questa figura sono presenti caratteristiche paradossali: è furbo
nel costruire trame ma è stupido e spesso cade vittima dei suoi stessi inganni; è protagonista di
vicende oscene, crudeli e sciocche; spesso ha caratteristiche mostruose; si muove all’interno di
un universo caotico; si può incarnare in diversi esseri, tra cui il coyote. Riferimenti a questa figura
ci sono anche nella nostra cultura odierna (The Mask, Willy il Coyote): la figura del trickster
diventa una categoria generale di interpretazione, presente in più culture, anche lontane (Loki,
Ermes, …). Radin tratta la figura del trickster. Sabbatucci critica la figura del trickster: le origini
dell’universo sono caratterizzate da una fondamentale ambiguità, il trickster dunque porta dei
tratti di ambivalenza che non sono specifici di UNA figura (come quella del trickster), ma che
appartengono al mondo mitico delle origini dove esiste questa fondamentale fluidità. Altre
considerazioni su questa figura le ha fatte Levi-Strauss: si concentra sulla figura del coyote; è un
animale di per sé ambiguo perché mangia animali già morti (per Levi-Strauss aldilà dell’apparente
caoticità del mondo c’è un ordine, ed è un ordine che funziona per coppie di opposizioni); una
coppia di opposizione può essere quella tra animali carnivori ed erbivori dove i primi uccidono la
preda ed i secondi no; il coyote è invece carnivoro ma non uccide le prede e per questo è
un’ottima figura per simboleggiare questa ambiguità. Il trickster non è solo un personaggio di
disturbo, ma può avere anche una funzione di tipi creativo: spesso ha a che fare con il creatore; il
creatore crea le cose positive, mentre il trickster crea quelle negative ostacolando il creatore;
questo serve a deresponsabilizzare il creatore per l’esistenza di cose negative; è dunque una
figura molto importante. Inoltre, il trickster provoca riso quando viene raccontata una sua
vicenda: il fatto i provocare il riso è legato alla presa di distanza nei suoi confronti; il mondo del
trickster si distacca dal nostro mondo attraverso le risate.
Un’altra figura protagonista dei miti è la figura del creatore, colui che crea dal nulla (ex nihilo),
che è quello degli ebrei e dei cristiani. In alcuni ambiti religiosi abbiamo un creatore che crea da
una materia già esistente: qui si parla di Demiurgo; un essere divino che organizza una materia
preesistente. Un’altra figura è quella del Deus otiosus: queste figure divine creano l’universo ma
poi non svolgono più nessuna azione. Uno dei protagonisti della teogonia greca (nascita degli dei e
dell’universo greco) è il dio Urano: il dio del cielo, figlio della dea Terra; ha una funzione essenziale
per la costruzione dell’universo greco, ma ad un certo punto non crea più nulla quando viene
castrato, perdendo la sua funzione generatrice e quindi si ritira (dio ozioso); nel mondo greco non
esiste il culto del cielo, non esiste nessun santuario, questo perché è un dio ozioso, che non fa
nulla. Zeus prende il posto di Urano per il governo del cielo e del pantheon greco. Il dio che
costruisce il cosmo è un dio la cui attività ha degli effetti prorompenti; per questo una volta che
l’universo è stato creato è meglio che questo dio stia fermo: l’oziosità di questi dei garantisce che
le cose si mantengano così come sono. Un'altra figura protagonista dei miti è quella del primo
uomo: la sua caratteristica è quella di generare gli altri uomini. Un’altra figura è quella dell’eroe
civilizzatore: colui che porta in un ambito culturale delle novità (insegna a coltivare, a pascolare,
…); sono personaggi che viaggiano e fanno progredire le varie civiltà. Un’altra figura è quella
dell’antenato mitico: è un antenato rispetto ad un gruppo famigliare.
Le posizioni storiche di Pettazzoni e Brelich ritengono che la verità del mito sia legata alla cultura
della civiltà che il mito produce: è legata ad una precisa sezione culturale. Altre posizioni invece
spiegano che il mito è vero universalmente, indipendentemente dalla cultura che l’ha prodotto.
Una di queste prospettive è quella psicologica, in particolare psicoanalitica: il mito esprime
attraverso un racconto una realtà psicologica individuale ad un livello collettivo. Un esempio è il
mito di Edipo, usato da Freud per spiegare ciò che viene a livello psicologico individuale. Il mito è
una proiezione di ciò che avviene nell’individuo. Rank, allievo di Freud, si interessa all’applicazione
della psicoanalisi in vari campi, tra cui la mitologia: cerca di applicare il tema della nascita
dell’eroe alla psicoanalisi: il mito nasce dalla fantasia ed agisce proiettando all’esterno delle verità
di ordine psicologico. Racconta del mito della nascita di Perseo: il re della città di Argo ascolta un
oracolo che annuncia che sua figlia Danae partorirà un figlio che lo ucciderà; il re rinchiude la figlia
in un cofano di bronzo per evitare che sua figlia venga messa incinta; Zeus si innamora di Danae, si
trasforma in una pioggia d’oro, penetra nel cofano di bronzo e si accoppia con Danae; il re
rinchiude Perseo in una cassa e lo getta in mare; Perseo viene salvato da un pescatore; alla fine
Perseo lancerà un disco ed ucciderà casualmente il re, facendo avverare la profezia dell’oracolo.
Questo mito ha delle somiglianze con altri miti presenti in varie culture con la scena
dell’abbandono del bambino: ad esempio con la figura di Mosè, quella di Romolo e Remo, quella
di Sigfrido. Da questi esempi, Rank trae un modello: ci sono genitori nobili (spesso re o dei), ci
sono predizioni e ostacoli, l’abbandono del bambino (di solito sulle acque), il bambino è salvato
da animali selvaggi o persone umili, alla fine ritrova i genitori e si vendica o viene riconosciuto.
Ricollega questo modello ad una vicenda della psicologia individuale di cui i miti ne sarebbe una
proiezione, quella del romanzo famigliare psiconevrotico: i genitori sono l’autorità per il bambino;
l’autorità è frustrante per il bambino creando ostilità; il bambino vede che gli altri genitori si
comportano meglio dei suoi; questo fa nascere la convinzione di essere un figliastro o un figlio
adottivo; il bambino si accorge che è difficile dubitare della madre in quanto l’ha partorito e
dunque nasce l’idea che il padre non sia quello vero e che quindi la madre abbia commesso
infedeltà. Secondo Rank questo contenuto viene proiettato nei miti: l’Io del bambino è l’eroe,
l’ostilità del padre verso il bambino è la proiezione sul padre dei sentimenti ostili del bambino,
l’esposizione sulle acque rappresenta la nascita, la caverna è il ventre (in questo caso il cofano) e i
genitori umili sono i genitori veri che il bambino ritiene insufficienti mentre i veri genitori sono di
altro livello.
Questo è un caso di interpretazione psicoanalitica; un’interpretazione psicologica invece
l’abbiamo con Jung: per Jung non è importante solo l’inconscio personale (Freud), ma c’è anche
l’inconscio collettivo, che riguarda non solo la singola persona ma tutti e che viene ereditato;
l’inconscio collettivo è formato da archetipi dai quali nascono i simboli (nelle religioni, nell’arte,
…); questi sono riconoscibili da tutti anhe se non li abbiamo mai visti ed anche se si fa parte di
civiltà diverse. I miti sono fatti di simboli, dunque sono espressioni dell’inconscio collettivo. Jung
fa l’esempio del mito dell’eroe: nasce miracolosamente ma in modo umile, ha una potenza
sovraumana, compie una serie di lotte e prove, vince queste lotte ma è anche vulnerabile e
spesso pecca di orgoglio, di solito cade per un tradimento o per un sacrificio eroico; questa è per
Jung l’espressione dello sviluppo della coscienza individuale (il processo di individuazione); per
raggiungerla bisogna compiere una serie di lotte e prove all’esterno di noi, proprio come l’eroe nel
mito, come l’eroe che salva la fanciulla in pericolo: la fanciulla è l’anima nostra, la componente
femminile nell’uomo.

Lezione 3:

Un altro esempio di lettura di Jung dei miti si ha con la favola: sia le favole che i miti hanno un
contenuto immaginario che esprimono un contenuto dell’inconscio collettivo. Von Franz, allieva di
Jung, si occupa della lettura delle favole. Prende d’esempio la favola della bella e la bestia: c’è un
ricco mercante che si deve allontanare e chiede alle figlie che regali vogliono; Bella chiede una
rosa bianca (regalo più economico rispetto alle richieste delle altre figlie ma più difficile da
trovare); trova la rosa nel giardino della Bestia; la Bestia dà la rosa al mercante a patto che ritorni
da lui; il mercante dà la rosa alla figlia; al posto del mercante torna Bella; vive per un periodo con
la Bestia; scopre che il padre è malato e chiede alla Bestia di tornare a casa; la Bestia la fa andare a
patto che torni e lo sposi; Bella torna dal padre; poi Bella torna dalla Bestia che intanto si ammala;
riesce a tornar e si sposano. L’interpretazione vede questa vicenda come iniziatica: Bella è intesa
come una giovane prigioniera di un legame emotivo col padre; la rosa bianca è un simbolo di
purezza (dunque non cerca un legame erotico); Bella conosce la Bestia, quindi la dimensione
erotica; questo comporta il distacco dal padre; la Bestia è una dimensione erotica di carattere
aggressivo; il distacco dal padre non è totale perché torna, ristabilendo una situazione di
equilibrio; infatti poi si sposano e la Bestia diventa umano.
Non solo la psicologia dà una lettura universalizzante della verità del mito. La prima è la
prospettiva fenomenologica con Eliade: la religione è fatta di ierofanie (simboli, manifestazioni
del sacro); i miti sono quindi fatti di simboli che esprimono la realtà del sacro. Il sacro si esprime in
modo diverso a seconda delle culture, ma esprimono dei messaggi universali. La seconda è la
prospettiva strutturalista: il mito è un racconto tramite il quale cogliamo le strutture nascoste
della realtà (Levi-Strauss); il mito pensa alla realtà allo stesso modo, indipendentemente dalle
culture.
La civiltà ebraica ha un concetto problematico di mito: il mito non esiste perché nel mondo
ebraico tutto si svolge all’interno della storia dell’uomo (il seculum). Il primo modo di affrontare il
problema è chiedersi se esiste la parola mito nella Bibbia (ebraica): il termine deriva dal greco
quindi non c’è; la Bibbia però è stata tradotta in greco; la Bibbia greca è stata commissionata nel III
secolo a.C da parte di Tolomeo Filadelfo per la biblioteca di Alessandria; così nasce la Bibbia dei
Settanta; si chiama così perché sarebbe stata tradotta da 72 saggi di Alessandria (componente
mitica), 6 saggi per ogni tribù di Israele; la leggenda narra che i 72 avrebbero lavorato insieme in
72 giorni, oppure un’altra leggenda narra che ognuno dei 72 avrebbe lavorato da solo e il risultato
sarebbe stato identico. La parola mythos nella Bibbia è assente, perché la Bibbia è estranea al
mito: Filone di Alessandria (intellettuale ebreo) dice che nulla è costruito a caso o nella maniera
dei miti nella Bibbia (il concetto di mito viene associato ad una storia non del mondo ebraico,
quindi falsa; il mito viene svalutato). Ci sono degli studiosi che dicono che nella Bibbia ci sono
tracce di racconti simili ai popoli vicini a quello di Israele. Il primo caso tratta di un combattimento
tra Dio e un drago (un mostro in genere); nella Bibbia c’è l’idea che Dio crei dal nulla e quindi non
ha bisogno di combattere forze maligne, nelle altre civiltà vicine c’è invece l’idea di un
combattimento per far sì che il mondo sia creato, come in Mesopotamia che c’è il dio Marduk che
lotta contro la dea primordiale Tiamat; questa dea rappresenta l’acqua salata (le acque
primordiali sono viste come l’elemento caotico); una volta sconfitta diventa il dio supremo; un
altro esempio si ha con l’area Siro-Palestinese con il dio Baal (un dio che è presente anche nella
Bibbia ebraica, descritto come un dio pagano adorato dagli ebrei che tradiscono Javè); è un
guerriero noto per il combattimento primordiale contro Yam (dio degli abissi marini, anche questo
è un essere caotico legato all’acqua); sconfigge Yam e lo confina nel mare; un altro mito racconta il
combattimento tra Baal e Mot (dio della morte), dove non vince nessuno e si conclude con un
accordo, perché la morte non può essere sconfitta in quanto è presente nella nostra vita
quotidiana (se esiste vuol dire che non è stata sconfitta); l’accordo finisce che Mot non ucciderà gli
dei (che saranno quindi immortali) e che non uccide indiscriminatamente (sarà una morte più
controllata); tra gli Ittiti c’è un dio della tempesta che combatte alle origini contro un drago.
Questi miti nella Bibbia sono presenti in alcuni passi, anche se in maniera secondaria e nascosta;
ad esempio, nel libro di Isaia nel capitolo 27:1 dove parla di Dio che ucciderà il Leviatano che sta
nel mare (un drago marino); un altro passo è sempre nel libro di Isaia nel capitolo 51:9/10 dove
parla di Dio che fa a pezzi Raab (mostro marino) e dell’uccisione di un dragone. Secondo gli
studiosi gli ebrei entrano a far parte della cultura circostanze (i cananei) e quindi ne assorbono i
miti (l’acqua che è il caos e Dio che la sconfigge): la differenza è che nella Bibbia questi miti
parlano al futuro, questi eventi non riguardano un tempo mitico dei primordi, ma un futuro
escatologico (un futuro degli ultimi tempi, della fine dei tempi); il passo del capitolo 51:9/10
invece parla al passato, ma questo brano è inserito nel contesto della liberazione di Israele
dall’Egitto: questo ricorda la vittoria di Dio contro le acque primordiali, è un simbolo di questa
vicenda quella di Raab, è un modo per recuperare la vittoria di Dio sulle acque primordiali; qui
viene messo in evidenza un momento della storia di Israele dove Dio ha intervenuto (quando Dio
apre le acque e fa passare il suo popolo), Dio vince quindi sulle acque. La Bibbia, quindi, recepisce
il concetto del mito della battaglia primordiale contro le acque dei popoli limitrofi, ma lo trasfigura
storicamente, inserendolo nella storia. Un altro tema sottolineato dagli studiosi riguarda il mito
della creazione dell’uomo: il tema dell’uomo costruito dalla terra è presente anche nel mondo
mesopotamico; gli dei hanno bisogno dell’uomo come servitore e li creano modellando l’argilla
(anche in Egitto è presente il tema del modellamento dell’uomo); ci sono anche delle analogie che
riguardano la creazione della donna, infatti in Mesopotamia c’è il dio Enti che sia ammala in 8
punti, e c’è la dea che deve curare la costola Ti di Enti; la parola Ti è legata alla vita, inoltre Eva è
creata dalla costola di Adamo e inoltre la donna è legata al concetto di dare la vita. Un altro tema
riguarda il paradiso che è presente in Oriente. C’è poi il tema del diluvio: sviluppato in ambito
ebraico; nel 1872 sono state trovate tavolette scritte in cuneiforme che parlano del diluvio
appunto; esiste quindi il mito del diluvio in ambito mesopotamico con caratteristiche simili
rispetto a quello ebraico. Nel mito ebraico Noè manda una colomba in giro per tre volte per
vedere se l’acqua è scesa: la prima volta la colomba torna, la seconda volta torna con un rametto
di ulivo (simbolo anche della nostra religione, significa che le acque si stanno abbassando e che gli
alberi stanno riemergendo) e la terza volta non torna quindi la terra è di nuovo abitabile; poi Noè
fa un sacrificio a Dio, il sacrificio viene accettato e Dio decide di non punire più l’umanità col
diluvio. Nelle tavolette ritrovate ci sono idee simili: il diluvio è mandato dagli dèi per punire l’uomo
perché è troppo chiassosa (idee presente nella mitologia mesopotamica, anche fra dei vecchi e dei
giovani), anche qui c’è un’arca costruita da una famiglia, anche qui c’è un dio degli uccelli ed infine
anche qui c’è un sacrificio finale. Ci sono però anche elementi divergenti tra il mondo ebraico e
quello mesopotamico: nel racconto mesopotamico gli uomini sono puniti perché chiassosi; invece,
nel mondo ebraico vengono puniti perché immorali (c’è un insegnamento etico); inoltre nella
Bibbia c’è l’insistenza sul patto tra uomini e dio, il sacrificio, elemento non presente nel mondo
mesopotamico; infine, nel mondo ebraico non ci sono dispute fra dei (perché c’è un solo Dio). In
realtà quindi nel mondo ebraico esistono racconti che sono fortemente imparentati con la
mitologia orientale, ma nella Bibbia vengono modificati rileggendoli sulla base di due elementi:
l’elemento morale e la prospettiva storica (la Bibbia racconta la storia del popolo di Israele).
La Bibbia Cristiana è la Bibbia ebraica con l’aggiunta del Nuovo testamento: anche nel nuovo
testamento è presente la componente mitica. I tre problemi sono: quanto è presente il termine
mito nel Nuovo Testamento, la presenza di una letteratura mitica, il problema della
demitizzazione. Il primo problema è più semplice perché il Nuovo Testamento è scritto in greco
(non è tradotto): il termine è presente nelle Lettere degli Apostoli, ma è presente in un contesto
negativo: nel 1 Timoteo 1 delle Lettere di Paolo è scritto di non considerare le favole ma di
considerare solo la vera fede, nel Tito 1,14 pure ed anche nel 2 Timoteo 4; il mito è visto come un
racconto non vero; si oppongono il concetto di mythos e aletheia, mito contro verità; c’è un’altra
opposizione che è mythos e logos, mito contro Verbo (non più discorso quindi, ma il Verbo, quindi
Gesù); il Nuovo Testamento critica le situazioni in cui si sostituisce il mythos al logos e quanto si
accompagna il mythos al logos, questo avviene quando si unisce il Cristianesimo con una serie di
figure mitiche, e questo succede nell’ambito dello gnosticismo: qui si mettono insieme Gesù, Dio e
l’ambito cristiano con elementi di tipo non cristiano (altri dei ad esempio). Un tipo di gnosticismo è
quello Valentiniano (il pleroma, una sfera di perfezione del reale composta da 15 eoni che sono
generazioni nate dalla prima coppi del Padre e la Madre e l’ultimo eone che vuole conosce il primo
eone e per questo dà origine al peccato e viene espulso dal pleroma; il nostro mondo è quindi sia
composto dal bene e dal male e dentro di noi c’è questa scintilla del pleroma che deve essere
liberata e restituita al pleroma di partenza; Gesù e Dio fanno parte di questo ciclo di liberazione). Il
secondo problema riguarda la domanda se indipendentemente dalla presenza del termine
mythos, esistono effettivamente dei miti nel Nuovo Testamento: la scuola mitologica sosteneva
che l’intero racconto di Gesù era una vicenda mitica; c’era l’idea di una scuola francese che
sosteneva che il Cristianesimo era un trasposizione del mito solare; Gesù è però presente in
moltissime fonti storiche e dunque non è sostenibile la tesi secondo la quale Gesù sia una figura
mitica; da parte dei protestanti vennero applicati metodi filologici per lo studio della Bibbia, con la
scuola della storia delle forme, distinguendo diversi tipi di materiali presenti nei vangeli (diverse
forme letterarie, diversi tipi di narrazioni), e tra queste forme ci sarebbe anche il genere mitico,
dove c’è un essere divino che agisce per mettere in evidenza la sua natura soprannaturale (l’essere
divino è Gesù ed i racconti sono ad esempio quello del battesimo, quello delle tentazioni nel
deserto).
Lezione 4:

Il terzo problema riguarda la demitizzazione. Il protagonista di questo tema è Bultmann (1884-


1976), un teologo che introduce il concetto di demitizzazione: ritiene che l’uomo contemporaneo
sia indifferente verso i testi sacri perché la Bibbia utilizza degli strumenti che non riguardano più
l’uomo di oggi (il messaggio risulta incomprensibile) perché si esprime tramite strumenti mitici;
queste modalità mitiche fanno riferimento a due ambiti: l’apocalittica giudaica, un genere
letterario diffuso nei tempi antichi nel quale si parlava di cosa sarebbe successo alla fine dei tempi,
si esprimeva con una serie di immagini che influiscono sul Nuovo Testamento, l’altro ambito è
quello dei miti gnostici. Secondo Bultmann questi due ambiti erano adatti a quell’epoca, quando il
Nuovo Testamento viene scritto quindi andavano bene questi ambiti. Per mito intende un
racconto in cui i protagonisti sono esseri e forze soprannaturali; il mito si esprime attraverso
l’antropomorfismo: una traduzione di verità di carattere morale dandoli ad una figura divina con
forme umane; ci sono dei sentimenti dell’uomo che vengono oggettivati e qui esteriorizzati
all’esterno tramite una figura umana, così la bontà diventano gli spiriti benefici e il male gli spiriti
demonici. Nel momento in cui viene scritto il Nuovo Testamento si tende ad oggettivare questo
stato mentale dell’uomo dandogli un aspetto umano, questo per essere comprensibile agi uomini.
Questo andava bene ai tempi, ma oggi c’è stato uno sviluppo della scienza e della tecnica che
hanno superato quell’espressività mitica; dunque, occorre recuperare il messaggio originario del
Nuovo Testamento; il mito però non è una pura favola, ma parla di realtà importanti dell’uomo;
dunque, occorre capire il messaggio che va oltre la forma mitica che assume; questo succede
attraverso la demitizzazione. L’essere umano è al centro e sta all’interno della dimensione storica;
è incapace di dominare il mondo e di capire la propria esistenza; è un essere limitato e dunque è
indotto a pensare che il fondamento della vita sta oltre, nel trascendente. Il mito rende mondana
questa forza trascendente attraverso delle figure. Una tendenza opposta a quella di Bultmann è
quella di Ricoeur, esponente dell’ermeneutica: la realtà trascendente non si può esprimere se non
all’interno di immagini umane; il mito non nasconde la verità ma è l’unica forma attraverso cui il
sacro può manifestarsi, questo perché è nel dominio del trascendente; non si può dunque
demitizzare, il mito non può essere eliminato senza eliminare anche il messaggio che porta;
distingue la demitizzazione dalla demitologizzazione, che non elimina il mito, ma l’eliminazione
degli aspetti che nascondono la genuinità del mito. C’è una terza posizione del problema della
demitizzazione, che è quella di Altizer: in questi anni si diffonde la teologia della morte di Dio e
Altizer ne è un rappresentante. Segue i corsi di Eliade e individua due caratteristiche della
religione: l’opposizione tra sacro e profano (la religione ha a che fare con una realtà che non è
quella profana) e l’idea di un ritorno ad una totalità primordiale (una perfezione primordiale dalla
quale siamo esiliati e verso la quale vogliamo tornare, le religioni promettono questo). Tutte le
religioni hanno questi presupposti. C’è bisogno però che il Cristianesimo non sia come le altre
religioni, altrimenti non ci sarebbe ragione per essere cristiani. Per questo Altizer spiega che la
peculiarità del Cristianesimo è la piena valorizzazione della storia: Dio entra nella storia e la
valorizza; il Cristianesimo deve escludere ogni elemento mitico perché è un elemento che deriva
dalle altre religioni. Per fare questo bisogna eliminare ogni riferimento alla trascendenza perché
deve essere valorizzata la storia, compresa la trascendenza di Dio: non ha senso la resurrezione di
Dio se non significa che il passaggio di Dio (Gesù) è stato solo temporaneo per poi tornare nella
trascendenza (per questo si chiama teoria della morte di Dio); il Cristianesimo va vissuto
solamente nella storia. Eliade ha negato che la sua prospettiva portasse ad una risposta di questo
genere perché ha un’idea di sacralizzazione del mondo non di eliminazione del sacro: nonostante
siano stati utilizzati gli stessi strumenti teorici si è arrivati a due conclusioni diverse; nella
prospettiva della morte di Dio il Cristianesimo è l’unica religione, per Eliade è una delle tante.

Ora il prof parla del libro. Ci sono due tempi principali: l’ampiezza del tema di studio (Eliade
ha scritto molto) è molto vasta e ci sono due tendenze evidenti però: la tendenza dei detrattori di
Eliade (molte critiche verso Eliade) e la tendenza apologetica di Eliade; questo ha portato a
vederlo come un autore storico, di cui non si deve per forza prendere parti ma solo di analizzarlo.
Il libro si divide in tre parti: la biografia, due problemi storiografici delle sue prospettive, concetti
chiave.
Nella storia di Eliade ci sono tre fasi: nel periodo romeno (quello della sua formazione) è uno
studente di filosofia influenzato da Ionescu; Ionescu aveva studiato in Germania e per questo
assorbe alcuni elementi del dibattito tedesco; prende degli elementi di Otto: al centro della
religione c’è l’esperienza del sacro, il sacro è totalmente altro, irriducibile ad ogni esperienza
umana (sia sensibile che intellettuale); il sacro si esprime attraverso i simboli (non possiamo fare
dunque esperienza diretta del sacro, ma solo attraverso la mediazione dei simboli). Ionescu
riprende anche l’opposizione tra scienze dello spirito e scienze della natura: le scienze della
natura spiegano i fatti della nostra esperienza, le scienze dello spirito invece comprendono, lo
fanno rivivendo l’esperienza. Eliade assorbe tutte queste tematiche attraverso Ionescu: il tema
dell’irriducibilità della religione, l’importanza del sacro e del simbolo, … Nel periodo romeno c’è
un altro elemento, l’influenza dell’ortodossia: la forma tipica dei cristianesimi orientali, in
particolare nella società romena; c’è l’idea di un cristianesimo cosmico: esiste una differenza tra il
Cristianesimo e le altre religioni (quelle arcaiche), le seconde hanno un senso di continuità con la
natura, viene valorizzata simbolicamente, e inoltre c’è un idea di ciclicità del tempo; il
Cristianesimo invece rompe con queste religiosità con la valorizzazione della storia; il
Cristianesimo Cosmico invece vede i contenuti del Cristianesimo alla luce dei valori della religione
tradizionale: l’ortodossia romena mette insieme gli elementi di entrambi i tipi di religione, la
novità storica del messaggio di Gesù si fonde con l’idea dei cicli cosmici e con la valorizzazione
sacrale della natura. Il terzo elemento del periodo romeno è il rapporto con la politica romena
del tempo: c’era la legione dell’arcangelo Michele (o Guardia di Ferro), un movimento favorevole
al fascismo ed al nazismo, insistevano sull’identità culturale romena che nascevano dalla religiosità
popolare, insistenza legata agli elementi di spiritualità e ortodossia; l’esito di questa insistenza fu
un esito xenofobo; Eliade affianca questo movimento ma non ammette mai questa appartenenza.
Questo ci interessa per capire se le sue prospettive si basano sulle idee della Guardia di Ferro e se
sì quanto; inoltre, si deve capire quanto le sue prospettive abbiano influenzato la Guardia di Ferro
(Guardare bene il capitolo sulla Guardia di Ferro). Il quarto elemento di questo periodo è
l’esperienza indiana: decide di studiare il sanscrito, vince una borsa di studio per andare in India e
studia lo yoga; per questo soggiorna in un ashram, un monastero, e si fa cacciare per delle
condotte non idonee; studia quindi lo yoga e ne diventa uno specialista.
Il secondo periodo è il periodo parigino: si trova a Parigi quando la Romania diventa comunista e
rimane esule in Francia, non ritornerà in Romania; qui ha una situazione economica precaria e
scrive le sue opere più importanti (Il mito dell’eterno ritorno e Trattato della Storia delle
Religioni, entrambi pubblicati nel 1949), scrive anche un libro sullo sciamanismo importante e
pubblica i suoi lavori sullo yoga. Sono importanti due elementi: il rapporto con Dumezil, dove
scrivono l’uno sull’altro (Dumezil scrive la prefazione del Trattato); avevano due posizioni diverse
però; Dumezil compara le civiltà indoeuropee e ne individua una struttura trifunzionale che si
riflette anche sugli dei e sui miti (la funzione sovrana, quella guerriera e quella produttiva); a
Eliade non interessa però, infatti a Eliade interessa quello che c’è prima degli indoeuropei e
ritiene che lo yoga affonda le sue radici in una civiltà prima di quella indoeuropee; a Eliade
interessano gli archetipi, una struttura che va aldilà di quelle indoeuropee (gli archetipi valgono
per tutte le civiltà, sono universali, la struttura trifunzionale vale solo per gli indoeuropei); Dumezil
nella prefazione scrive che all’interno della linguistica esiste una linguistica descrittiva, una storica
ed una generale (che cerca di capire le strutture universali delle lingue) e qui dice che la sua
prospettiva corrisponde all’interesse della linguistica storica, mentre alla prospettiva di Eliade
corrisponde la linguistica generale. Il secondo elemento del periodo parigino la partecipazione ai
convegni di Ascona, gli incontri di Eranos (Eranos è un termine greco il cui punto di riferimento è il
tema del simbolo): cui partecipavano i personaggi più influenti della storia delle religioni; questo
significa che in quegli anni è rinato un interesse sul simbolo: un linguaggio universale che va aldilà
dei limiti delle culture e delle religioni tramite i quali possiamo mettere in dialogo varie culture e
religioni; questi convegni vogliono arricchire la vita spirituale dell’uomo a fronte dell’inaridimento
spirituale contemporanea; Jung era organizzatore di questi convegni; Eliade diventa uno dei
principali esponenti di questi convegni. Con queste esperienze Eliade aumenta la sua rete di
relazioni e per questo viene invitato a tenere conferenze all’università di Chicago; riscuote
successo e diventa professore di storia delle religioni in quell’università (1957). Esistevano solo
due cattedre di storia delle religioni in America. In quel periodo si cercano insegnamenti
provenienti dall’Oriente e per il viaggio in India, Eliade risulta adatto.
Nel periodo americano insiste sul tema del nuovo umanesimo (vivacità culturale che nasce
dall’apertura dei mondi orientali e dalle civiltà orali). Il secondo tema è quello dell’ermeneutica
creatrice: ermeneutica è un sinonimo di interpretazione; Eliade ritiene che anche la storia delle
religioni debba interpretare i vari simboli che la storia dell’umanità ci propone; l’interpretazione
consiste nel raccogliere le varie interpretazioni che le civiltà hanno già dato, le si comparano e si
cerca di trovare nuovi significati; questa idea dell’ermeneutica creatrice avvicina Eliade a Ricoeur,
studioso francese e per un periodo professore all’università di Chicago. Il terzo elemento del
periodo americano è l’idea di homo religiosus: l’uomo ha nella sua stessa struttura la religiosità,
non abbiamo la scelta di essere o meno religiosi perché fa parte della nostra struttura (contro
l’evoluzionismo che insisteva sul fatto che la religione fosse solo una fase); l’umanità è
caratterizzata da finitezza, ha un senso di incompiutezza e per questo tende a qualcosa di
compiuto e questa compiutezza starebbe nella religione; può scegliere di non essere religioso, ma
questa tendenza c’è sempre e quindi cercherebbe dei surrogati (figure politiche, idoli, …); da qui
analizza la religiosità nel mondo contemporaneo, che si manifesta attraverso forme che noi non
riconosciamo come religiose ma lo sono strutturalmente, oppure diventeranno qualcosa di
religioso totalmente nuovo.
Lezione 5:

Lezione su Youtube. La storia delle religioni parte dall’assunto che i fatti religiosi tra di loro si
somigliano. L’archetipo risponde al problema della comparazione dei fatti religiosi e inoltre
permette di trovare un elemento extrastorico all’interno dei fatti religiosi. Il simbolo per Jung è
una sorta di archetipo attualizzato (un archetipo che ha delle immagini). La parola archetipo
compare in Eliade nel 1937; a partire dal 1942 la nozione di archetipo diventa una nozione
centrale: Eliade legge un libro di Jung e Kerenyi e trova il termine, legge anche Eugenio Dors dove
trova sempre il termine. Nel Mito dell’eterno ritorno ha come sottotitolo la parola archetipi.
Prende le distanze da Jung: è un modello esemplare nel senso platonico e agostiniano (anche se lo
stesso Jung fa riferimento a Platone ed Agostino); in Jung il termine assume connotazione
psicologica, mentre Eliade dice che non ha a che fare con la psicologia. Eliade fa tre usi di questa
nozione: il primo è l’archetipo come concetto descrittivo (descrive una certa visione del mondo
delle civiltà arcaiche, protagoniste tra l’altro del mito dell’eterno ritorno; all’interno delle civiltà
arcaiche, quando si compiono attività significative come coltivare un campo, si ritiene che queste
siano cose che appartengono al tempo delle origini, e questi modelli che stanno in illo tempore
sono appunto gli archetipi; Eliade spiega che le civiltà arcaiche hanno una visione platonica della
realtà, nel senso che il nostro mondo è un’immagine di quello vero che è appunto l’archetipo), il
secondo è il valore esistenziale dell’archetipo (esiste un momento in cui l’uomo prende coscienza
di se stesso e nel suo posto nel cosmo, questa è una situazione limite perché è al confine fra
natura e cultura e fra cultura e storia; qui nasce l’archetipo, come modello di comportamento di
fronte a cui l’uomo si trova messo a rapporto; sono le percezioni primarie e basilari che vengono
strutturate dall’umanità come una bambino appena nato) il terzo è il valore gnoseologico
dell’archetipo (i fenomeni religiosi sono simboli, questi simboli si somigliano fra loro ed entrano in
delle reti simboliche che si chiamano simbolismi, gli archetipi servono a concettualizzare questi
simbolismi; questo archetipo indica una realtà metodologica; l’attività di classificazione fatta è sia
però in parte esistente nella realtà sia come esclusivo punto di vista dello storico che ha fatto
questa classificazione).

Lezione 6:

La seconda parte del libro riguarda due questioni storiografiche su Eliade: la prima riguarda il
rapporto tra Eliade e Pettazzoni (questo capitolo va letto in maniera generale, in particolare su
quello che Pettazzoni prende da Eliade). Pettazzoni ha una prospettiva storica. Integra all’interno
della sua prospettiva alcuni elementi della prospettiva fenomenologica di Eliade (questa è la parte
importante da studiare); la seconda parte di questo capitolo riguarda invece le differenza tra i
due. La seconda questione riguarda il rapporto di Eliade con il tradizionalismo: il tradizionalismo
(o pensiero tradizionale) è una corrente intellettuale che ritiene che esista una tradizione
primordiale; alle origini di tutto ciò che ha valore nelle nostre civiltà c’è una tradizione
primordiale; questa è stata dimenticata ma è sopravvissuta attraverso i simboli nelle religioni;
questa si trasmette attraverso un rapporto da maestro a discepolo che ha a che fare con una
iniziazione; viene svalutato il mondo contemporaneo perché ci si è allontanati al massimo da
questa tradizione che va recuperata. Eliade ha a che fare con Guenon, Evola e Coomaraswamy,
esponenti del tradizionalismo (l’ultimo era l’unico a far parte del mondo accademico); Eliade legge
le opere di questi. Sulla questione se il tradizionalismo abbia influito sulla prospettiva di Eliade ci
sono varie risposte: la risposta è che è stato sicuramente influenzato perché ha ripreso alcuni di
quei temi fondamentali; riprende alcune tematiche ma non condivide l’idea dell’esistenza di una
tradizione primordiale; inoltre non svaluta il mondo contemporaneo; infine l’iniziazione non ha la
stessa importanza in Eliade (Eliade usa questo termine in molti casi, non solo quello del caso dei
tradizionalisti); dunque Eliade non è tradizionalista. Un altro tema collegato è quello
dell’esoterismo (se la prospettiva di Eliade sia esoterica o meno): Faivre dà una definizione di
esoterismo (pag. 157 nel libro, questo è importante).
La terza parte del libro è dedicata ai concetti chiave di Eliade: si divide in due parti, la prima è
dedicata alla comparazione; qui si cerca di ricostruire il concetto di comparazione in Eliade
mettendo in evidenza tre temi sulla comparazione ripresi da tre autori da cui Eliade ha preso:
Frazer, Macchioro e Pettazzoni; viene poi trattato il tema dell’archetipo (lezione su Youtube). La
seconda parte di questa terza parte riguarda il tema del simbolo, come Eliade tratta il tema delle
religioni: nello studio della ierofania bisogna considerare la presenza di due elementi: il sacro e
l’esperienza umana; il sacro è il sacro di Otto (totalmente altro) e nell’esperienza umana si
manifesta il sacro; le ierofanie permettono di manifestare il sacro allo stesso tempo
nascondendosi: se il sacro è totalmente altro (incontenibile per la mente umana) non si potrà mai
manifestarsi interamente, a questo servono le ierofanie, e quindi i simboli; di fronte ai simboli,
l’attività dell’uomo è ermeneutica, di interpretazione: interpretazione è però infinita perché il
sacro non potrà mai essere colto interamente; questa parte è vicina all’ermeneutica filosofica, in
particolare a Ricoeur. L’ultima parte di questo capitolo riguarda i luoghi in cui il sacro si esprime:
l’espressione del sacro nella natura (propria delle civiltà tradizionali), espressione del sacro nella
storia (che nasce con il mondo ebraico e prosegue nel mondo cristiano; la storia è il luogo in cui
Dio interviene per favorire o punire il popolo eletto) e un sacro espulso anche dalla storia e
confinato nell’inconscio (riguarda il modo di vedere contemporaneo; qui parla di irriconoscibilità
del miracolo, riferendosi all’atteggiamento di non riconoscere più il sacro e di cercarlo comunque
in altre forme). Eliade propone la sua prospettiva storica appoggiandola su presupposti filosofici
ermeneutici. Le appendici di questo libro non vengono chieste durante l’esame.
C’è un altro ambito culturale si cui si è dibattuta la presenza del mito, ed è quello romano: Roma è
considerata una civiltà nella quale il mito non esiste per alcuni autori. La letteratura romana è
piena di miti, il problema è che questi miti sono gli stessi della letteratura greca. Wissowa,
studioso del 1800, ha preso la mitologia romana ed ha eliminato tutto ciò che era greco: sono
rimasti due elementi: una serie di divinità romane che prendono il nome di indigitamenta
(invocazioni che i romani compivano verso alcuni dei allo scopo di ingraziarseli per favorire
determinate attività; ci sono pervenuti attraverso gli scrittori cristiani; c’era la dea Levana, la dea
del parto, il dio Statulinus, il dio dei primi passi del bambino, il dio Vaticanus, la dea Potina, dea
del bambino che beve, …; queste divinità sono comiche perché sono passate dai cristiani che
criticavano la religione romana) e una religione di tipo politico (hanno riferimento alla patria). La
religione romana è quindi senza miti e di carattere essenzialmente politico perché questa
religione risponde all’esigenza di quel popolo, che aveva bisogni pratici, al contrario dei greci. La
spia dell’esistenza del mito si ha quando si ha una genealogia delle divinità e dei racconti su di
essi, cosa che nell’ambito romano non sono presenti. Un’altra corrente di pensiero dice invece che
in realtà i miti ci sono in tutte le civiltà e per questo non è possibile che non ci siano a Roma:
nell’area mediterranea ci sono i miti, nell’area indoeuropea pure, nell’area latina pure, e Roma fa
parte di tutte e tre queste aree; un esempio si ha con la dea Fortuna che è figlia di Juppiter (in
Grecia non esiste la dea Fortuna, è qui c’è pure una genealogia). A Roma non si trovano miti
perché Roma ha demitizzato: a un certo punto della storia, Roma fa a meno del mito. Da un
gruppo di studiosi vengono messi in evidenza due risposte possibili sulla sorte del mito a Roma: il
mito a Roma è stato romanizzato (trasformato in culto: al centro della religione greca c’è il mito, al
centro di quella romana c’è il culto; in Grecia c’è l’idea di un passato mitico come fondatore della
realtà attuale; a Roma invece c’è l’idea della pax deorum che deve essere mantenuta attraverso il
culto); questa idea del culto al posto del mito è un idea di Kerenyi. La seconda risposta è quella di
Dumezil, che dice che il mito a Roma si trasforma in epopea (il racconto delle vicende umane che
si trovano all’inizio della città di Roma); il mito fonda la realtà attuale ponendosi nel tempo delle
origini, a Roma invece il fondamento non sta in un tempo remoto, aldilà del tempo, ma sta nel
tempo umano alle origini di Roma; sono vicende storiche (per questo si chiama epopea), con
Romolo e Remo, i re di Roma e la prima Repubblica; questi tre eventi assolvono la funzione del
mito. Da Brelich è stata messa in evidenza un’altra ragione: l’importanza della potenza di Roma
come piccolo stato che si amplia; il mito diventa quindi funzionale a questa piccola realtà,
eliminando i caratteri specifici dei culti per renderli accettabili da tutti (diventando così storia
civica, storia romana); i Romani nel 388 a.C. vengono sconfitti dai Galli, si chiedono il perché e
attribuiscono ragioni religiose; fanno una ricerca religiosa e trovano che nel 477 a.C., lo stesso
giorno erano stati sconfitti dagli Etruschi e ne traggono quindi la conseguenza che quel giorno è un
giorno negativo, dunque quel giorno diventa nel calendario romano un giorno religiosus (un
giorno inadatto alle attività pubbliche); Roma ha quindi modellato il suo calendario sulla base del
fatto che c’è stato un evento storico negativo che è stata spiegata riferendosi al passato, facendo
un’operazione in cui il passato non è un passato mitico, ma storico e questo calendario è stato
modificato non solo per Roma ma per tutte le civiltà appartenenti a Roma; il mito riscatta la
contingenza di un evento, proiettandolo in qualcosa di universale, a Roma invece non ci si riferisce
all’universale (al cosmo) ma a Roma stessa. Un esempio di come funziona la costruzione di un
mito a Roma: il primo elemento è la presenza di una serie di animali (Remo vede 6 avvoltoi e
Romolo 12, lì vedono quando vogliono fondare Roma; la lupa che li nutre da piccoli; la scrofa
bianca che partorisce 30 porcellini, la scrofa bianca è la città di Alba e i 30 sono i popoli latini e
questo viene visto come pronostico della città di Roma che prenderà il posto di Alba); i romani
sono indoeuropei, e gli indeuropei hanno una struttura trifunzionalista (Dumezil), per questo
questi tre animali si possono interpretare sotto queste funzioni, infatti gli avvoltoi sono un simbolo
di Giove, quindi funzione sovrana; la lupa è legata alla funzione guerriera; la scrofa la funzione
produttiva; un racconto narra che a Cartagine, scavando, si trova la testa di un bue (simbolo di
sottomissione perché è un animale soggiogato, è quindi un simbolo negativo), scavando ancora si
trova la testa di un cavallo (animale tipico dei guerrieri, buon auspicio); in un altro racconto si
parla di Roma, dove si scava per costruire il tempio di Giove e si trova un teschio d’uomo (buon
presagio, perché significa anche capo); Cartagine è la città che deve essere sconfitta da Roma e
quindi i Cartaginesi hanno la testa del bue che è la funzione produttiva, quella del cavallo che è
quella guerriera ma non hanno quella dell’uomo che ce l’ha Roma (sovranità). Un altro racconto
mitico romano riguarda l’evento della costruzione delle mura: Romolo crea il perimetro di Roma
con un aratro di bronzo trascinato da un toro e da una vacca bianchi che scava tutto il perimetro
tranne in alcuni punti dove si troveranno le porte della città; una volta scavato, Remo scavalca il
solco in segno di sfida e Romolo lo uccide dicendo: “perisca chiunque altro varcherà le mie mura”;
questo è un racconto mitico di fondazione di Roma; i tori non trascinano l’aratro di solito perché
non sono facilmente domabili; il toro rappresenta la bellicosità e la vacca la fecondità (uomini e
donne), il toro trascina l’aratro verso l’esterno (uomini bellicosi verso l’esterno) e la vacca verso
l’interno; il bronzo è un materiale usato per il culto (simbolo di sacralità); il perimetro è così
invalicabile e la morte di Remo è il modello per chiunque voglia valicare le mura di Roma; questo
mito fonda l’inviolabilità di Roma; le mura romane venivano chiamate sante e per questo Roma
viene identificato con le sue mura; questo li distingue dalla civiltà greca. In Grecia normalmente
non ci sono mura; quando ci sono non fanno parte della definizione della città: quando Sparta
nasce è priva di mura e Platone spiega che le mura devono essere di bronzo e ferro e non ti terra,
questo significa che il bronzo e il ferro sono le armi e dunque le mura sono simbolo di debolezza,
non di forza (al contrario di Roma) e che la difesa più efficace la si ha con i combattenti; durante le
guerre persiane Atene si chiede se rinforzare le mura; viene consultato l’oracolo che dice che solo
il muro di legno è inespugnabile, intendendo la flotta. Le mura per i Greci sono inadeguate e
precarie: questo ha un fondamento mitico con il mito di Troia; le mura di Troia sono costruite da
degli dèi che vogliono cospirare contro Zeus, gli dèi lavorano per il re di Troia come punizione (non
vengono riconosciuti) e gli costruiscono le mura; queste significa che nonostante le mura siano
costruite da dei, il sovrano non gli ha pagati; l’elemento di vulnerabilità si ha con un mortale che
ha costruito le mura della città di Troia. Roma enfatizza l’aspetto del perimetro e dell’inviolabilità
delle mura, invece in Grecia non c’è questo aspetto. A Roma, Enea costruisce le mura di Cartagine,
e mentre le sta costruendo gli dèi gli dicono di abbandonare Didone, non finendo così di costruirle:
in questo modo, nonostante a Roma c’è l’aspetto dell’inviolabilità delle mura, devono giustificare il
fatto che le mura di Cartagine sono state espugnate, per questo cadranno e per questo i
cartaginesi vengono sconfitti; il compimento della costruzione delle mura si ha solo a Roma. I
racconti mitici, quindi, esistono anche a Roma, ma non si svolgono in un tempo mitico, ma in un
tempo storico. Questo atteggiamento di fondare la realtà con racconti mitici appartenenti al
tempo storico si avrà poi anche più avanti, ad esempio con l’Unità d’Italia che fonda la realtà su
miti del tempo del risorgimento italiano.

Lezione 7:

Lezione su Youtube. Massenzio parla delle apocalissi culturali: queste sono caratterizzate dalla
fine diretta verso un escaton, mentre l’apocalisse psicopatologica non prevede la fine verso un
escaton, non c’è un miglioramento dei valori ma una semplice fine di essi (rivedere lezione primo
modulo).
Lezione 8:

Ora si fa riferimento ad un ambito culturale in cui il mito esiste, l’ambito culturale greco. Qui la
parola mito nasce. Il primo degli elementi del mito è la cosmogonia: nella Teogonia di Esiodo
troviamo una ricostruzione delle genealogie divine; il termine teogonia significa nascita degli dei;
la nascita degli dei coincide con la nascita del cosmo (cosmogonia) perché gli dei corrispondono a
degli elementi presenti nel cosmo; all’inizio ci sono le divinità primigenie (le prime che nascono e
che nascono da sole), dove il primo in assoluto è il Caos (è importante perché il cosmo si
concepisce a partire da una situazione indefinita), poi Gea (in greco Terra, dove c’è l’Olimpo), poi
Tartaro (il mondo sotterraneo) e poi Eros (l’amore non però quello figlio di Afrodite, ma un Eros
primigenio che ha a che fare con qualcosa che unifica); da Gea nascono Ponto (mare), Urano (il
cielo) e i Monti; Gea si unisce a Urano e da questi nascono i Ciclopi, i Centimani e i Titani; da qui si
dipana tutta la teogonia; la maggior parte di questi esseri ha a che fare con elementi naturali; si
sta passando da un caos a un ordine; infine le prime divinità sono eccessivamente grandi; alla fine
si arriva alla generazione di Zeus, dove lui, Ade e Poseidon si dividono il mondo; Zeus diventa il re
degli dei e qui si è stabilito l’ordine a partire dal caos; per lo stabilimento dell’ordine ci sono due
eventi importanti, la Titanomachia e la Gigantomachia; la prima è la guerra degli dei contro i titani
e la seconda contro i giganti; questi eventi rappresentano le battaglie necessarie per lo
stabilimento dell’ordine sul caos; la cosmogonia è quindi il passaggio dal caos all’ordine; finiti
questi eventi finisce il tempo mitico e inizia il tempo storico degli uomini; Gea si descrive come il
luogo in cui abitano gli immortali sull’Olimpo, coperto da Urano, infatti questa è una versione
dell’universo olimpica, dove gli dei si trovano nell’Olimpo ed hanno come caratteristiche il fatto di
essere immortali e beati, gli uomini invece sono mortali e infelici; la religione olimpica si basa
appunto sulla distanza tra uomini e dei; nella Teogonia non si parla della nascita degli uomini; c’è
una tradizione greca che fa risalire la nascita degli uomini agli alberi e alle rocce; anche in Grecia
c’è un mito che riguarda un diluvio, dove sopravvivono Deucalione e Pirra, Deucalione prende
delle pietre e le lancia e da queste nascono gli uomini, Pirra fa lo stesso e da queste nascono le
donne; un altro mito che fa risalire la nascita degli uomini a elementi minerali si ha con Prometeo
che fa nascere gli uomini dall’argilla; un altro mito fa nascere gli uomini dai frassini; Esiodo rifiuta
tutte queste tradizioni e non parla della nascita degli uomini perché tutto ciò che è importante in
Grecia ha un mito di fondazione e dunque l’uomo non è così importante; i miti di fondazione in cui
si parla della nascita degli uomini non hanno come oggetto la nascita di un singolo uomo, ma
sempre una nascita di gruppi di uomini; un esempio lo si ha con il mito di Cadmo a Tebe, che cerca
la sorella Europa rapita da Zeus, arriva in un posto e sconfigge un drago, l’oracolo dice di prendere
i denti e seppellirli, da questi nascono degli sparti, esseri bellicosi armati che si combattono fra di
loro, ne rimangono solo 5 e questi saranno le famiglie principali di Tebe; un altro esempio è quello
della tribù greca dei Mirmidoni, una popolazione che nasce dalle formiche, grazie a Zeus che
trasforma delle formiche in esseri umani per ripopolare un’isola deserta; ad Atene c’è l’idea
dell’autoctonia (idea di nascere dalla terra); nella cultura greca, l’uomo non ha consistenza da
solo, ma la acquisisce quando è in un gruppo; questo discorso sull’antropogonia è fatto da
Sabbatucci; in Grecia c’è il modello religioso olimpico, ma anche quello misterico, dove questa
distanza tra dei e uomini non è così tanta, in questo modo gli uomini possono essere più simili agli
dei e viceversa, infatti alcuni dei possono morire e gli uomini possono godere della beatitudine
degli dei; le religioni misteriche sono di diverso tipo a le più importanti sono due; la prima sono i
misteri di Eleusi (dove Eleusi è un borgo ad Atene) dove questi misteri si fondano sul mito
dell’Inno a Demetra dove la protagonista Core (figlia di Demetra) viene rapita da Ade che la vuole
sposare e la porta nell’oltretomba, da qui Demetra va a cercarla, l’idea è quindi è che Demetra
scende dall’Olimpo e si traveste da vecchia per non essere riconosciuta nel mondo umano, qui
viene accolta dal re di Eleusi e diventa nutrice del figlio del re, Demetra per ringraziare il re per
l’accoglienza ogni notte sottopone suo figlio a un rituale che fa si che diventi sempre più grande e
bello, la moglie del re si insospettisce e spia Demetra e vede che quando è da sola mette il
bambino nel fuoco, la madre si allarma e Demetra è costretta a rivelarsi come dea e interrompe il
trattamento, quel trattamento serviva a garantire l’immortalità, lo stava trasformando in un dio,
ma questa trasformazione viene interrotta e quindi non diventerà più un dio, a questo punto
Demetra per ringraziare dell’ospitalità non regala più l’immortalità ma i riti sacri di Eleusi (insegna
i misteri di Eleusi), che sono riti non divulgabili e garantiscono una maggiore contentezza
nell’aldilà e più abbondanza nella vita (avvicinano di più gli uomini agli dei), questo mito si mette
in una prospettiva olimpica (gli uomini non possono diventare come gli dei, infatti il bambino non
diventa immortale), ma gli uomini vengono avvicinati agli dei (anche i misteri di Eleusi non
presuppongono un mito di fondazione dell’umanità, ma qui c’è un maggiore interesse dell’uomo);
l’altro modello misterico è quello dei misteri Orfici, dove qui la cosmogonia è differente, qui è
importante la Notte (da figlia del caos in Esiodo diventa un buio primordiale) e Oceano e Teti
(divinità acquatiche che vengono dopo in Esiodo), c’è poi l’Uovo Cosmogonico (l’idea che
l’universo derivi da un uovo cosmico che poi si dischiude) come nelle civiltà orientali (India ad
esempio), l’altra caratteristica dei rituali orfici è il fatto che presuppongono uno stile di vita
diverso rispetto a quello della religiosità olimpica, infatti ci sono rituali iniziatici e di purificazione,
i misteri orfici sono aperti a tutti anche hai barbari, c’è la prescrizione di non uccidere e di non
mangiare carne (l’identità greca era molto connessa all’attività militare e al consumo di carne per i
sacrifici dei bovini che si facevano agli dei, per questo la scelta di non mangiare carne implica un
allontanamento dal mondo greco), presuppone anche un diverso modo di definire la vita dopo la
morte (sono state rinvenute tavolette in certe tombe che recitano delle parole che il defunto
dovrebbe dire nell’Ade per accedere alla vita beata degli dei); a differenza dei misteri di Eleusi,
quelli Orfici non si possono integrare alla religione olimpica; nel sistema orfico esiste
l’antropogonia, infatti gli uomini possono diventare come dei e per questo gli uomini vengono
valorizzati, per questo c’è un mito di fondazione degli uomini; nel mito c’è Dioniso fanciullo ed i
Titani (visti come entità divina mostruosa negativa), i Titani danno a Dioniso dei giocattoli, Dioniso
si distrae ed allora lo sorprendono e lo uccidono, smembrandolo e mangiandolo, a questo punto
Zeus per questo folgora i Titani e dalle loro ceneri nascono gli uomini (rinasce anche Dioniso,
quindi Dioniso conosce la mortalità come gli uomini); gli uomini quindi nascono da entità divine (i
Titani e anche dal consumo delle carni di Dioniso); gli uomini quindi ereditano la parte negativa dei
Titani ma anche la parte positiva di Dioniso; per eliminare la parte negativa ci sono quindi tutti i
rituali orfici di purificazione (tra cui non mangiare carne); qui quindi l’uomo assume consistenza
ontologica e riguarda tutti gli uomini (non è esclusiva come i misteri di Eleusi); nella prospettiva
esiodea c’è però un mito che ha a che fare con l’antropogonia in un altro suo libro che è il mito
delle quattro età, dove Esiodo distingue quattro generazioni dell’umanità, dove la prima è l’età
dell’oro dove il punto di riferimento è Crono, non c’è lavoro, gli uomini sono come gli dei, non c’è
la vecchiaia ed ad un certo punto gli uomini vanno sottoterra, qui si dice che sono gli dei ad aver
creato questa generazione di uomini, questi però non sono la nostra umanità, la seconda è l’età
dell’argento dove gli uomini non veneravano gli dei ed erano superbi, per questo Zeus gli fece
sparire, anche questa non è la nostra umanità, la terza è l’età del bronzo dove Zeus creò gli uomini
dai frassini, questa è un’età di guerrieri dove muoiono perché si uccidono a vicenda, la quarta e
l’età degli eroi (l’età che conosciamo dai miti come quello di Troia) dove anche questa finisce,
l’ultima è l’età del ferro che è la nostra umanità, questa non è stata creata dagli dei però e quindi
qui manca l’antropogonia; Vernant spiega che è stata introdotta l’età degli eroi (che sembra
discordante nella successione delle età) in una prospettiva strutturalista, dicendo che la struttura
di questo mito è composta da coppie di opposizione; oro e argento sono due età dove regnano
due principi opposti, Dike (Giustizia) e Hybris (Tracotanza); bronzo e età degli eroi, dove regnano
Dike e Hybris di nuovo (non poteva essere la nostra età perché gli eroi sono, nella civiltà greca, per
definizione tracotanti); quella del ferro è quindi l’età della mescolanza tra Dike e Hybris, dove
nulla si distingue e tutto è mescolato ed è un età che ci porterà al nostro orientamento; in ogni
caso in questo mito non c’è antropogonia, ma serve a descrivere la situazione attuale dell’umanità
in una visione negativa di mescolanza tra giustizia e tracotanza; Detienne, studioso belga, ha
scritto un libro dove spiega che il concetto di mito nel mondo greco è servito per tanti scopi diversi
a seconda di chi li ha utilizzati (filosofi, storici, …) questo perché secondo Detienne non esiste un
concetto unitario di mito (questa è una prospettiva decostruttiva).

Lezione 9:

Un altro elemento fondamentale del religioso è il rito. Uno dei riti chiave è quello della festa. La
parola rito deriva dal latino ritus che a sua volta è un termine indoeuropeo imparentato col
termine Rta (Sanscrito) e il termine Arta (iranico); queste parentele rimandano ad una radice
indoeuropea che ha a che fare con il concetto di ordine: si tratta dell’ordine dell’universo, che
disciplina il rapporto tra i diversi elementi dell’universo con gli astri, è l’ordine che regola il
rapporto tra uomini e dei e l’ordine che regola i rapporti tra gli uomini; il mondo è quindi è
qualcosa di caotico all’interno del quale si trova un ordine ed il rito è un modo per trovare questo
ordine. A Roma, il termine ritus è legato all’agire secondo regole (agire rite significa agire secondo
regole, secondo cose positive); il contrario è irritus (irrituale in italiano; il termine irritus rinvia al
concetto di vano, inutile, senza effetto). Ars vuol dire arte (artis quindi, ha la radice Rt
indoeuropea); il contrario di arte è inertia (inerzia in italiano, che comporta la mancanza di azione
o un’azione che non ha effetti). Il rito rimanda quindi ad un’idea positiva. Nel momento in cui si
comincia a studiare il rito si mettono in evidenza alcune caratteristiche generali. La prima è che il
rito è ripetitivo; in due sensi è ripetitivo: come una serie di azioni che si svolgono sempre nello
stesso modo (canoni) in diversi momenti (certe feste fisse, la messa, …) e per il fatto che sono le
sue caratteristiche che si ripetono, non si ripete solo nel tempo ma anche nel modo (la struttura
del rito è sempre uguale); il rituale però può prevedere delle variazioni minime (nella messa ad
esempio la predica del sacerdote è sempre diversa); la seconda caratteristiche del rito è quella di
essere efficace (o performativo: una serie di azioni che per il semplice fatto di essere svolte
provocano un effetto, mutano la realtà), si tratta di un’efficacia non pratica o razionale (non si
vede che un rito è stato efficace, non sono visibili i cambiamenti); per alcuni riti è invece visibile
l’efficacia, ad esempio per la religione cristiana c’è l’esorcismo; il rituale è quindi efficace in senso
simbolico, si esce dalla realtà empirica quotidiana e si entra in una realtà di ordine simbolico; ad
esempio il matrimonio ne è un esempio perché si cambia di status e si entra in un mondo
simbolico. Il rito serve a farci ad accedere all’ordine simbolico. I rituali di guarigione comportano
l’inserire la malattia in un qualcosa di più vasto (ad esempio se si soffre si fa entrare la sofferenza
in un sistema di sofferenza più vasto dove sono comprese quelle di Gesù e dei Santi); quando
questo succede si guarisce. La terza caratteristica del rito è quella della collettività: il rito è un
azione collettiva; la preghiera è un rito collettivo perché porta con sé una tradizione socialmente
riconosciuta (anche quando il rito prevede che ci sia solo una persona a svolgerlo, se fa parte di
una tradizione socialmente riconosciuta allora diventa collettivo, altrimenti fa parte del campo
della psicopatologia); per questo si pensava che la religione avesse un carattere pubblico e la
magia un carattere personale; Mausse invece spiega che la magia ha carattere collettivo e che
funziona solo perché c’è una collettività che ci crede.
Il rito così descritto è presente in tutte le forme religiose. Gli studi sul rito vengono influenzati dalla
psicologia, soprattutto la psicologia di Freud che insisteva sulla vicinanza della religione alla
nevrosi nei loro riti, soprattutto nel provare angoscia se non lo si esegue; inoltre spiegava che
alcuni riti servivano a tenere sotto controllo le pulsioni umane, come quella violenta che veniva
trattenuta dal rito del sacrificio. Altro oggetto di studio dei riti è quello che riguarda i suoi tartti
sociali: il rito ha la funzione di migliorare la coesione sociale, come si nota nelle feste, nelle
processioni o nei rituali di iniziazione; il rito unisce i membri della società in rapporto a qualcosa di
comune (ad esempio con la parata militare, l’unione è simboleggiata dalla bandiera). In ambito
linguistico c’è una corrente che si è occupata degli atti linguistici e della loro performatività
quando vengono pronunciati (ad esempio quando un ministro pronuncia la formula del
matrimonio quello è un atto linguistico performativo, perché quando viene pronunciato i due si
sposano; anche alla proclamazione di laurea ad esempio). Sull’importanza del rito nelle religioni, la
critica decostruttiva si è molto meno impegnata.
La parola festa deriva dal latino festus, un aggettivo che si riferisce a dies che vuol dire giorno;
dunque, giorno fasto. Il termine festus ha una radice indoeuropea, Dhe, dalla quale deriva il tema
Dhes al quale è collegato il termine greco Theos; il termine della festa è dunque collegato a Dio,
qualcosa di religioso quindi. Esiste il termine festa per i greci ma non ha a che fare con la radice
indoeuropea (Heorte per i greci). L’eortologia che significa scienza della festa. I greci hanno dato
una definizione di festa: è tempo sacro determinato da leggi. Il primo elemento di questa
definizione è il tempo: il tempo non è solo quantitativo ma anche qualitativo (il tempo non è solo
composto da giorni, ma ha anche intensità diverse); anche per noi il tempo è diverso
qualitativamente, infatti nel nostro calendario ogni giorno ha un nome diverso (ogni nome è
legato a un dio diverso, ad esempio Martedì a Marte); le feste hanno a che fare con questo
elemento qualitativamente diverso; diciamo giorni feriali (anche se la parola deriva da Feriae che
vuol dire festa) intendendo i giorni della settimana perché nel calendario cristiano i giorni feriali
erano dedicati ai santi (le feste appunto, come per i giorni e gli dei per i greci); la festa comporta
anche un’interruzione del quotidiano che comporta l’apertura di una temporalità
qualitativamente diversa. Il secondo elemento della definizione è il sacro: è l’aspetto di coerenza
con la divinità; nel mondo antico la dimensione religiosa e quella laica sono tutt’uno, siamo noi
che le differenziamo. Nel mondo antico, quando è interrotta la vita quotidiana si entra in un’altra
sfera, la sfera divina: se qualcuno beve troppo vino e si ubriaca esce dalla realtà dal punto di vista
mentale, per noi è soltanto così, per gli antichi invece questo stato di ebbrezza era controllato da
Dioniso (viene punito da Dioniso perché ha bevuto troppo); anche la pazzia è controllata dagli dèi
ad esempio. Ogni volta che si esce dal ritmo quotidiano si entra in una sfera controllata dagli dèi,
questo vuol dire tempo sacro. La terza parte della definizione spiega che debba essere
determinato da leggi: per noi la festa è associata a qualcosa di liberatorio, non alla legge; per
alcuni studiosi nelle feste c’è sia il polo ricreativo (quello trasgressivo, spensierato) e quello
cerimoniale (quello legato alla regolamentazione), questo secondo polo stabilisce i canoni del rito
(della festa in questo caso) ed ha una funzione di regolamentazione per regolamentare gli impulsi.
La festa è dunque sempre inscindibile da un codice, che tra le altre cose stabiliscono l’inizio e la
fine della festa. C’è anche una quarta caratteristica per le feste del mondo antico non presente
nella definizione platonica: nel momento in cui siamo in una situazione festiva, sentiamo una
pienezza declinata in vari modi (ad esempio riusciamo a legare socialmente più facilmente), la
festa ha dunque un sovrappiù di senso rispetto alla vita quotidiana, un’eccedenza del sacro. Tra le
feste antiche e le feste più vicine a noi c’è una sola differenza sostanziale: la festa attuale non è
sempre religiosamente connotata (non è più sempre tempo sacro). Negli anni ’60 e ’70 sono
mutate profondamente le caratteristiche delle feste odierne rispetto al mondo antico: la
dimensione collettiva minore (le feste del passato erano legate ad una partecipazione massiccia,
oggi invece si è verificata una segmentazione di tante feste; nel mondo antico non era un obbligo
legale partecipare, ma sociale, oggi invece non è neanche più un obbligo sociale), la decadenza
dell’aspetto cerimoniale rispetto a quello ludico (la festa diventa un pretesto per fare vacanza), si
passa dalla festa al tempo libero (il tempo libero è però il tempo vuoto, il tempo della festa è
invece tempo denso, è l’opposto rispetto a quello vuoto; secondo gli studiosi però si è passati
sempre di più a vederlo come tempo libero), l’aspetto della spettacolarizzazione (nel tempo
antico se si andava ad una festa si partecipava, oggi invece si è introdotta pure la figura dello
spettatore che è passivo, non vi partecipa veramente ma guarda solo) e infine l’aspetto
consumistico (chiaramente non c’è nel mondo antico; è una festa creata solo per agevolare
l’economia). La festa ideale è un rischio in cui si incorre, che è quello di considerare la festa del
passato come tutta positiva e quella del presente tutta negativa (collettiva-individualista,
spontanea-artificiosa, …): già i romani lo facevano con le loro feste, riferendosi a quelle più
antiche; anche Rousseau lo faceva con il suo periodo. Esiste sempre un tendenza nostalgica, in
tutte le epoche. In realtà le cinque caratteristiche esistono anche nel mondo antico in un qualche
misura.

Lezione 10:

Il concetto di identità è un concetto contestato, Remotti fu un grande contestatore, contro il


concetto di identità: il concetto di identità viene spesso utilizzato per delle rivendicazioni di
carattere ideologico (con atteggiamenti violenti annessi). Non possiamo però sostituire il concetto
di identità con un altro utile. L’identità si ha quando un soggetto o un gruppo riconoscono sé stessi
come portatori di certe caratteristiche che ne costituiscono l’identità; questo comporta la
distinzione tra chi le ha e chi non le ha: ogni affermazione dell’identità comporta anche
un’affermazione dell’alterità. Identità e alterità possono essere in rapporti diversi: l’alterità come
ciò che si nega (si è cittadini di Atene perché non si è Spartani), l’alterità è ciò che si era o si
diventerà (l’identità non è mai un elemento statico, l’identità quindi si assume per negazione in
confronto a ciò che si era o ciò che si diventerà) e l’alterità come elemento essenziale per
tracciare le frontiere dell’identità (ciò che avviene magari tra nazioni); l’identità inoltre può
essere statica o dinamica (dinamica ad esempio perché siamo bambini che poi diventeranno
anziani). Per un greco, ad esempio, l’identità è di essere uomini, quindi mortali e infelici, distinti
dunque da animali e dei; è greco e quindi non è un barbaro (il greco beve con moderazione, il
barbaro invece si ubriaca; il greco è atletico, il barbaro è molle); l’ateniese si differenzia dallo
spartano; poi si distingue per la sua famiglia, ecc. l’identità dinamica si vede per i greci quando un
bambino diventa cittadino (quindi uomo).
C’è poi il concetto di ordine: i membri di un gruppo sono coscienti di vivere all’interno di un
sistema in cui ogni cosa ha il suo significato, questo sistema è l’ordine; questo può essere un
ordine sociale, politico e religioso per noi, per i greci invece questi tre ordini sono un tutt’uno. La
parola in greco si traduce in cosmos. Il concetto di ordine è presente anche in Mesopotamia: è un
ordine molto rigoroso e stabile, scritto nella Tavola dei destini che contiene l’ordine dell’universo;
il destino si automanifesta e riguarda anche gli dèi. Il concetto di ordine si trova anche nell’Egitto
antico, si manifesta nella divinità Maat: il termine significa ordine, corrisponde ad una dea ed
anche ad un geroglifico che ha la forma di una piuma; la dea Maat è rappresentata da una donna
con una piuma sulla testa; nel mondo egiziano c’è l’idea di un cosmo dinamico ma si trova in una
situazione di equilibrio, Maat è il principio di questo equilibrio che è l’ordine dal punto di vista
dell’universo e la giustizia dal punto di vista morale (quando viene giudicato nell’oltretomba).
Anche a Roma c’è il concetto di ordine: ordo rerum, l’ordine delle cose che viene garantito da
Giove e si esprime attraverso la pax deorum (il giusto rapporto tra uomini e dei; la parola pax è
legata al termine pactum, un patto appunto).
In ogni civiltà, il concetto di ordine è sempre costruito per definire la propria realtà; l’ordine
corrisponde al mondo ordinario, la quotidianità; la vita quotidiana è un mondo ordinato ed è il
mondo in cui la nostra identità si esprime; nel costruire questo ordine stabiliamo dei criteri per
vedere la realtà; ogni criterio è però sempre provvisorio, la realtà è troppo grande per essere
ingabbiata da questi criteri, la realtà è eccedente rispetto all’ordine. Ci sono dei momenti in cui
questa eccedenza si manifesta e dunque l’ordine si rivela come soltanto costruito da noi, non
sufficiente; questi sono i momenti in cui l’alterità rischia di rompere le nostre strutture di senso.
Nel momento in cui le nostre strutture di senso vanno in crisi allora si rafforza l’identità,
rinnovandola, annullandola e rigenerandola da zero. Le feste sospendono l’ordine per ridarli vita:
la festa decostruisce e rigenera l’ordine (idee del Collegio di Sociologia). Questo si esprime in due
tipologie di feste soprattutto: nel Capodanno e nel Carnevale.
Handelman studia il rapporto tra festa e ordine, la festa rientra tra gli eventi pubblici: ogni evento
ha una sua struttura chiamata Meta-design (ciò che sta dietro alla configurazione dell’evento e
che ne costituisce la struttura); esistono tre rapporti in base a tre tipi di eventi: eventi che
presentano (eventi pubblici che riflettono l’ordine sociale, ad esempio come l’incoronazione di un
re; non rappresentano la realtà sociale così com’è perché è troppo grande, quindi ne danno una
visione riassuntiva, enfatizzata e idealizzata; questi eventi sono tipici degli stati moderni
burocratici), eventi che modellano (modellano la realtà sociale, non la riflettono ma la cambiano,
ad esempio con i riti di passaggio; questi eventi sono propri delle civiltà tribali e tradizionali) e gli
eventi che ripresentano (eventi che propongono una realtà diversa o opposta rispetto a quella
reale, qui rientra il Carnevale; sono tipici di società tradizionali gerarchizzate). Questi sono
modelli però che si possono ritrovare anche nelle feste contemporanee (anche le ultime due);
inoltre non è vero che ogni festa rientri in una categoria o nell’altra, ma possono essere presenti le
caratteristiche anche di tutti e tre i tipi di eventi insieme.
C’è una festa in Mesopotamia che viene da sempre considerata come una festa carnevalesca (che
sconvolge l’ordine quotidiano), questa è la festa dell’Akitu: è datata verso il 1100 a.C.; si svolge nel
mese di marzo/aprile, il mese che nel calendario mesopotamico apre l’anno (esistono due stagioni:
estiva e invernale; l’anno comincia con la stagione estiva nl periodo che va da marzo ad aprile), si
tratta dunque di una festa di Capodanno; è una festa che dura 11 giorni dove ci sono due momenti
fondamentali, nel quarto giorno si legge pubblicamente il poema della creazione, nel sesto giorno
il re entra nel tempio e il sacerdote gli toglie le insegne del potere (scettro, tiara, armi, ecc.) e le
mettono davanti al trono della statua del dio, poi schiaffeggia il re, gli tira le orecchie e lo fa
inginocchiare (lo umilia), poi il re deve dire una preghiera dove deve dire di non aver offeso
cittadini, dei e la città, poi vengono ridate le insegne e viene schiaffeggiato di nuovo e se il re
piange allora il dio dà la sua benedizione e l’anno può incominciare. Per capire questa festa
bisogna considerare due miti: quello del poema della creazione (l’Enuma Elish, che significa
Quando in Alto, le prime parole del testo); il poema ricostruisce la stria dell’universo e inizia da
quando non esisteva nulla; prima della creazione del cielo c’erano Apsu (dio dell’acqua dolce) e
Tiamat (dea dell’acqua salata) che si uniscono e danno vita a delle coppie divine che costituiscono
il cosmo; poi arriva il dio Marduk che combatte Tiamat perché i giovani dei disturbano quelli più
antichi; gli dei giovani sono capeggiati da Marduk e lui accetta di combattere in cambio della loro
regalità (lui che governa come re degli dei); uccide Tiamat e da questa nasce l’universo (tagliata in
due, da queste due nascono il cielo e la terra, dai suoi occhi il Tigri e l’Eufrate e dal ricciolo della
sua coda il legame tra cielo e terra); dopo Marduk diventa il re di tutto e stabilisce nel cielo le sede
dei diversi dei giovani; gli dei stanno negli astri e gli astri sono i corrispondenti celesti dei templi
sulla terra); ogni dio dà a Marduk il suo nome e a questo punto Marduk crea l’uomo per servire gli
dei; questo è un poema che racconta il passaggio tra caos e cosmos (Apsu e Tiamat sono la
primordialità vista in senso negativo; la materia dell’universo è quindi negativa, Tiamat appunto,
che però assume una forma positiva grazie a Marduk); il combattimento tra Marduk e Tiamat ha
anche un risvolto in senso politico, infatti la struttura politica della Mesopotamia è caratterizzata
da città-stato (che erano anche città-tempio) le quali corrispondevano ognuna ad un dio diverso, e
queste città corrispondevano alle stelle (gli astri come casa degli dei) e dunque Marduk è
l’immagine del re che assume centralità rispetto alle varie città-stato; questo mito rappresenta
dunque la struttura politica della Mesopotamia. Il secondo mito è invocato indirettamente
dall’Enuma Elish, che è il mito o epopea di Erra: Erra è una divinità legata alla morte che rimane
per tanti anni inerte fino a quando torna all’azione (non è chiaro perché: si dice perché voglia
tornare a combattere o perché gli uomini e gli animali si stanno moltiplicando troppo e dunque
stanno risultando chiassosi agli dei); l’equilibrio è garantito da Marduk che abita nella statua del
suo tempio e Erra può agire solo se Marduk perda il controllo dell’universo (che vada via dalla
statua); la statua a causa del diluvio universale è danneggiata e quindi Erra dice a Marduk che può
ripararla se la abbandona; Marduk se ne va ed Erra prende possesso dell’universo; a causa di
questo i tempi vengono profanati, i palazzi vengono invasi dai malfattori, gli animali selvatici
entrano in città (non c’è più distinzione tra civiltà e mondo selvaggio), le città diventano dei
deserti, i vecchi seppelliscono i giovani e dunque i vecchi quando muoiono rimangono insepolti;
con Erra i valori della realtà vengono invertiti; Marduk rientra poi nella sua statua e l’universo
ritorna al suo ordine; qui viene raccontata una regressione al caos dettata da un rinnovamento (la
volontà di ripulire la statua) a cui poi si ritorna alla normalità. Nell’Akitu il re dunque corrisponde a
Marduk, la spogliazione del re dell’insegne corrisponde a Marduk che abbandona al suo tempio e
questo comporta una regressione al caos dal punto di vista politico che però prelude ad un ritorno
all’ordine (come quando Marduk ritorna alla sua statua); la recita dell’Enuma Elish rappresenta
l’idea di una regressione al caos delle origini, perché uno dei modi per regredire al caos delle
origini è quello di raccontarlo: leggere il mito dunque non significa solo leggerlo, ma riviverlo; si
riattualizza l’origine del mondo, il passaggio dal caos all’ordine; si rinnova non solo il cosmo ma
anche la figura del re. Tutto questo avviene perché è una festa di Capodanno: per poter
inaugurare l’anno nel modo migliore è necessario rinnovare, ricreandolo attraverso la cosmogonia
che avviene raccontandola (Enuma Elish) e attraverso il re che viene schiaffeggiato; è un ritorno ad
un ordine rinforzato; la festa è una regressione al disordine funzionale alla ricostruzione
dell’ordine.

Lezione 11:

Il Carnevale è un giorno del calendario cristiano che ha la caratteristica di essere l’ultimo giorno
prima della quaresima; molto spesso però dura più di un giorno il Carnevale. La prima ipotesi della
derivazione del termine deriva dal termine caro (carne) e levare, togliere la carne quindi, come
all’inizio della quaresima; l’altra ipotesi fa derivare il termine da caro e levarem, dunque il togliere
i piaceri della carne (prima del periodo di penitenza della quaresima). La terza ipotesi fa derivare il
termine da Carrus navalis (carro navale): nel mondo antico c’era l’idea del carro che veniva
condotto per la città durante le feste; questo succedeva in Grecia e anche a Roma (il carro a forma
di barca, una barca con le ruote). La caratteristica del Carnevale è quella di instaurare una
sospensione o capovolgimento dei valori attraverso la maschera: una cosa che nasconde una
realtà e ne rivela un’altra che però è falsa, fittizia. Gli studi sul Carnevale sono stati rilanciati grazie
a Bachtin, uno studioso di letteratura russo che ha studiato l’opera di Rabelais (creatore della
figura di Gargantua, figura dei carnevali del 1500); Bachtin muore nel 1975 e le sue opere sono
diventate famose solo dopo. Bachtin studia i carnevali del 1500: il carnevale non è una produzione
esclusivamente cristiana, ma le radici affondano nella festa romana dei saturnali (la classica festa
trasgressiva di Roma); il dio Saturno era il re nel momento aureo delle origini; in queste feste gli
schiavi potevano banchettare con i padroni ed insultarli e poi veniva nominato il re che
rappresentava il caos. Il secondo elemento del carnevale consiste in una struttura del carnevale
che viene spiegata sull’opposizione di due concetti: i rituali di ineguaglianza e quelli di
uguaglianza; i primi sono le cerimonie ufficiali con tutte le gerarchie, i secondi invece presentano
una sospensione simbolica dei rapporti gerarchici; questa sospensione consiste nell’uso delle
maschere e nell’inversione dei valori socialmente condivisi; il Carnevale è quindi un rituale di
uguaglianza. Per Bachtin esiste il Carnevale storico (il nostro) e la categoria del carnevalesco dove
fanno parte altre feste (come l’Akitu).
Un’altra categoria in cui avviene l’inversione simbolica è quella della festa di Capodanno. Il
Carnevale è una festa di inizio d’anno, per questo si creano incomprensioni tra Capodanno e
Carnevale. Il concetto della festa di Capodanno è collegato all’inizio di un ciclo che non per forza
coincide con l’inizio dell’anno. Ad Atene c’erano almeno tre capodanni (c’era anche quello politico
ad esempio), è solo da noi che è così stretto il concetto di festa di Capodanno.
C’è la festa delle grandi dionisie, presa dal calendario religioso ateniese. È una delle feste più
fastose ad Atene. Consiste in una serie di rituali nei quali è fondamentale una serie di processioni,
sono fondamentali i sacrifici; queste processioni e questi sacrifici sono la premessa del fatto che la
statua di Dioniso viene portata nel teatro; qui cominciano le rappresentazioni drammatiche in
una gara; concluse la gara la festa finisce. Queste rappresentazioni teatrali non potevano vedersi
sempre, ma si svolgevano esclusivamente durante le feste di Dioniso: non avevano quindi un
carattere neutro, ma religioso. La festa di Dioniso è una festa molto formale, nella quale la città di
Atene riflette la sua identità. L’identità si vede nella grande processione, dove si trovavano i
sacerdoti, i governanti, i giovani, le donne, ecc. ma non sfilavano in senso fisico: le varie categorie
sociali erano rappresentate. L’identità si manifesta anche con la disposizione degli spazi
all’interno del teatro: il teatro greco è semicircolare, dove ci sono le gradinate dove sono seduti gli
spettatori; nella struttura del teatro si riflette l’ordine sociale, infatti nella prima fila ci sono i posti
riservati (con seggi monumentali) e la parte dietro è composta da gradini fatti nello stesso modo,
non c’è distinzione (questo evoca la struttura democratica di Atene; però se si guarda bene ci sono
delle distinzioni); il semicerchio del teatro è diviso in tanti spicchi, ognuno riservato ad una tribù,
la parte centrale era riservata alla boulè (la classe che comandava) e agli efebi (i giovani che
svolgevano il servizio militare); al centro del teatro si trova quindi chi comanda e chi difende la
città, questo simboleggia l’immagine che Atene dava all’estero; in tutto questo non ci sono
differenze di nascita (questo simboleggia il tratto democratico di Atene); la parte centrale è
riservata ai cittadini di Atene (la parte più importante), quindi stranieri, donne e bambini non si
trovano lì, ma sono comunque importanti; quindi le donne stanno nella parte superiore (più
lontana), gli stranieri ai lati e i bambini con i loro padri o pedagoghi (donne e straniere hanno un
ruolo marginale nella città, quindi stanno appunto ai margini del teatro); il teatro, la festa quindi,
riflette l’ordine sociale in modo simbolico. L’elemento più interessante di questa festa, tuttavia,
sono le tragedie e le commedie: la tragedia viene letta ancora adesso come un’espressione di
sentimenti universali e profondamente umani che noi possiamo ancora rivivere attraverso quello
che scrivevano i greci; la commedia invece è stato visto come uno strumento di satira ateniese.
Queste sono le interpretazioni date a queste due rappresentazioni teatrali; quelle di Brelich sono
diverse: la tragedia ha un contenuto quasi sempre mitico (miti appartenenti alla tradizione); i miti
fondano la società attuale, infatti una serie di tragedie racconta la fondazione di alcune istituzioni
o usi, ma alcune tragedie non hanno contenuto mitico (c’è quello delle guerre persiane) ma anche
qui gioca l’ordine (la Persia è l’alterità e Atene l’ordine e la vittoria di Atene sulla Persia significa
appunto il ristabilirsi dell’ordine); il secondo aspetto della tragedia è quello dei personaggi, infatti
questi sono degli eroi o dei personaggi che si comportano come tali; questi sono quelle figure che
vivono in un tempo originario nel quale l’ordine non si è ancora imposto totalmente, per questo
gli eroi possono avere dei tratti di comportamento diversi da quelli di natura umana (spesso gli
eroi hanno difetti fisici o morali); gli eroi compiono atti grandiosi e soprattutto compiono atti di
hybris nei confronti degli dei (questo succede anche per i miti storici come quello delle guerre
persiane, infatti Serse è visto come un dio e compie degli atti di tracotanza; un altro esempio si ha
con Antigone che trasgredisce gli ordini di suo padre il re e seppellisce suo fratello, qui Antigone
rappresenta la negazione dei valori comunemente seguiti nell’Atene del tempo, infatti è una
donna non sottomessa, ha dei tratti virili da uomo, ha una venerazione nei confronti di Ade); nella
tragedia c’è dunque una rimessa in scena del tempo mitico in cui si trova una trasgressione dei
valori che si sintetizza in questi atti di hybris, significando che l’uomo anche lui crede di essere un
dio e commette atti si hybris (come per i persiani). Nella commedia manca il riferimento al mito e
agli eroi: le commedie hanno come protagonisti uomini comuni o personaggi conosciuti ed hanno
luogo nel tempo attuale; la commedia presenta un’interruzione della realtà attuale ed
un’immersione in una realtà diversa rispetto a quella normale, una realtà dove sono presenti le
caratteristiche carnevalesche di Bachtin (l’esibizione dell’oscenità, del fallo, la terminologia ed i
riferimenti scatologici, ovvero uno scritto scherzoso che ha come tema gli escrementi, i
riferimenti agli eccessi nel bere e nel mangiare); questo viene esaltato anche nei costumi degli
attori (di solito l’attore ha un grossa pancia ed un fallo che pende); all’interno delle commedie
troviamo situazioni in cui i valori si invertono (donne che comandano sugli uomini, un personaggio
che decide di fare una pace separata con i nemici di Atene per i guadagni, gli uccelli che si
rivoltano contro gli dei e impediscono che il fumo dei sacrifici arrivi agli dei e quindi muoiono di
fame); tra la tragedia e la commedia c’è una simmetria, infatti per i greci esisteva un cosmo a tre
piani (uomini, dei e animali) e la situazione dell’uomo è intermedia e quindi l’ordine deve
mantenersi in quel piano, nelle tragedie infatti il livello umano trasgredisce verso l’alto (hybris),
invece nella commedia si trasgredisce verso il basso (l’oscenità verso il livello degli animali); il
pubblico si identifica con i personaggi e vive in sé queste trasgressioni, ma capisce che queste
trasgressioni conducono a conseguenze inaccettabili (in generale infatti la tragedia finisce male,
per questo bisogna mantenere l’ordine dei tre piani; nella commedia anche si vede che la
trasgressione non funziona, come per il caso delle donne che comandano gli uomini); la tragedia e
la commedia mostrano quindi che la trasgressione dei valori non funziona, risaltando così
l’importanza dell’ordine e la misura umana (nella commedia questo avviene attraverso il riso e
nella tragedia attraverso il pianto; queste reazioni per le commedie sono una presa di distanza
verso la situazione rappresentata, la tragedia è invece una catarsi; entrambe aiutano a prendere le
distanze però); i valori sono messi in crisi per far vedere quanto siano importanti. Questa
dinamica avviene in una festa religiosa perché tutte le uscite dalla realtà nel mondo antico erano
mediate dagli dèi, qui infatti la dimensione religiosa è quella di Dioniso: è il dio adatto perché è
una divinità che presenta la capacità di sospendere la realtà esistente e di far emergere una
realtà con valori opposti; Dioniso è un dio straniero perché arriva tardivamente dall’estero (Tracia
di preciso), altri studiosi dicono invece l’essere straniero riguarda l’alterità della sua dimensione,
poi si è riusciti a leggere delle tavolette Micenee e si è trovato il nome di Dioniso quindi era
straniero perché nella sua personalità esistono dei tratti di estraneità; il vino è una bevanda che
porta ad un’uscita dalla propria realtà; Dioniso quindi è il portatore di questa bevanda che fa
uscire dalla nostra realtà; Dioniso ha a che fare anche con la pazzia (un altro modo per uscire da
sé); è un dio che ha a che fare anche con donne e bambini; la figura di Dioniso è dunque quella più
adatta per fare da mediatrice tra identità e alterità; Dioniso è l’unico dio più vicino agli uomini (è
rappresentato spesso frontalmente nei vasi a differenza delle altre figure che sono rappresentate
di profilo; un’altra figura rappresentata spesso frontalmente è quella di Medusa: è una figura che
rappresenta la morte; Dioniso e la Morte guardano quindi gli uomini negli occhi; infatti Dioniso è
l’unico dio che conosce la morte per alcuni miti, dunque è molto vicino agli uomini, inoltre va
nell’oltretomba e ritorna pure incolume, mentre gli dei greci erano estranei al mondo
dell’oltretomba). L’aspetto di regolazione di questa festa (come nelle altre) è presente secondo
Goldhill; la dinamica delle grandi dionisie è: una festa con una serie di rituali (processione e
teatro) caratterizzati da solennità e ufficialità che contengono le trasgressione costituita dalle
tragedie e dalle commedie. Questa è una interpretazione un po’ sbilanciata perché già nelle
tragedie e nelle commedie è presente la dinamica di trasgressione e riaffermazione. Per le
categorie di Handelman questo è un evento che presenta, ma anche un evento che ripresenta.

Lezione 12:

Durante lo svolgimento dei drammi e delle tragedie ci sono due eventi particolari: gli orfani di
guerra vengono premiati con un armatura completa (l’aspetto militare era fondamentale per i
greci e per questo molti morivano e per questo si creavano molto orfani; gli orfani non venivano
molto accuditi per carità, erano visti come mancanti dal punto di vista sociale di una figura
importante; questa situazione si risolve con l’idea che lo stato si prende cura degli orfani, ma solo
quelli di guerra; l’orfano educato dallo stato però riceve un’educazione di tipo militare, la quale
culmina con la consegna dell’armatura completa, chiamata panoplia; era l’armatura di cui si
servivano gli opliti; la panoplia era riservata a chi poteva permettersela, quindi non era aperta a
tutti; il momento in cui l’orfano riceve la panoplia è un rito di passaggio in due sensi: rappresenta
la fine dell’addestramento e stabilisce un mutamento sociale) e potevano essere liberati gli
schiavi (anche questo è un grande cambiamento di stato). I tre tipi di eventi di Handelman sono
presenti tutti e tre all’interno delle grandi dionisie: è un evento che presenta la realtà ateniese,
che ripresenta l’ordine ateniese attraverso le tragedie e le commedie e modella la società
ateniese con l’esempio della liberazione degli schiavi e della consegna delle panoplie agli orfani di
guerra.
Nel mondo romano, il teatro funziona diversamente. Gli spettacoli variano sia dal punto di vista
storico, sia dal punto di vista locale; per questo si fa riferimento al periodo del IV secolo d.C.
Anche in ambito romani ci sono le commedie e le tragedie, il genere più diffuso era però il mimo
(importante ad Antiochia). Il mimo era uno spettacolo dove recitavano anche donne (spesso
prostitute) che godevano di una particolare posizione sociale; l’oggetto del mimo erano spesso
vicende amorose, spesso adulteri, con aspetti sconci ed anche blasfemi; si recitavano spessi i miti
ma questi venivano sbeffeggiati e capovolti, erano parodie (un esempio è quello di Pasifae, la
moglie di Poseidone, che si innamora di un toro bianco; Dedalo le costruisce una vacca di legno
per accoppiarsi col toro, dando poi alla nascita il Minotauro). Il terzo tipo di spettacolo è il
pantomimo: c’è un attore solo che non parla ma si muove solamente e le sue azioni vengono
raccontate dal coro; l’argomento è mitologico, raccontano vicende tragiche. Altri tipi di spettacoli
si hanno con i combattimenti tra gladiatori: facevano parte di un’associazione che faceva
riferimento al dio Marte; spesso erano malfattori o schiavi e se fossero sopravvissuti per tre anni
avrebbero potuto essere liberi; altri invece erano volontari; chi vinceva godevano di grossa fama e
prestigio. All’interno dell’anfiteatro si svolgevano anche le venazioni: erano delle lotte contro gli
animali presentate come dei confronti con la bestialità contro l’intelligenza umana. All’ippodromo
si svolgevano fondamentalmente le gare di cavalli. Tutte queste spettacolarizzazioni venivano
chiamati ludi (che vuol dire giochi). Queste manifestazioni hanno in comune due elementi: la
natura religiosa (il teatro romano non si è mai del tutto desacralizzato: questo è dimostrato dagli
scrittori cristiani che spiegano che questi spettacoli sono idolatri; l’aspetto religioso risiede in
aspetti interni e esterni: esterni sta nel fatto che gli spettacoli si svolgevano all’interno di feste e
nel fatto che gli argomenti contenuti sono mitologici e inoltre nel pantomimo è presente ancora
l’adorazione di Dioniso; interni perché anche il teatro romano comporta un’interruzione del
quotidiano dove si verifica un’inversione dei valori, per cui il mimo fa una parodia dei miti;
burlarsi delle divinità non era di uso comune, ma lo si faceva solo all’interno di un contesto
rituale); il teatro non disgrega i fattori sociali, ma li rinforza come per i greci (gli scrittori cristiani
colgono l’aspetto religioso degli spettacoli, ma non colgono la funzione di rinforzo sociale).
L’attore nel mondo romano è un infamis (infame): erano degli emarginati a differenza del mondo
greco; ha dei diritti limitati rispetto agli altri (ad esempio l’attrice non poteva avere eredità da un
senatore o avere rapporti con senatori, ecc.); erano considerati volgari ma godevano comunque di
fama; l’attore anche è venerato e viene ben pagato, ma comunque viene emarginato socialmente,
ha quindi una situazione intermedia tra identità e alterità; i cristiani disprezzavano pure gli attori
perché non colgono l’aspetto di inversione del teatro. Il primo elemento di continuità fra il teatro
greco e quello romano è l’aspetto religioso che è stato appena discusso; il secondo è il valore
sociale attribuito a questi spettacoli e feste: avevano una funzione di coesione sociale, sia per i
più colti che per i meno colti tra la popolazione; aveva anche una funzione di coesione politica,
infatti eventi come il compleanno o l’ascesa al trono degli imperatori era celebrata secondo queste
modalità teatrali; spesso venivano acclamate o criticate le scelte politiche nei teatri, era visto
come un diritto; per questi motivi la professione di attore era considerata obbligatoria, infatti le
figlie degli attori dovevano essere a loro volta attrici (potevano però non esibirsi) e l’unico modo
per non essere attrici o attori era quello di convertirsi al cristianesimo.
La fede cristiana era considerata incompatibile con i modi dello spettacolo. Ad un certo punto la
religione cristiana era diventata la religione degli imperatori (non ancora religione dello stato) e
per questo i cristiani spingevano per abolire i ludi: gli imperatori si trovano di fronte al bivio tra
fede e il valore sociale e civico che questi giochi avevano. La prima soluzione da parte degli
imperatori fu quella di eliminare le componenti sacrali nei giochi: non si eliminano le
rappresentazioni ma si cerca di renderle più laiche per renderle più accettabili dai cristiani (si
eliminano ad esempio i sacrifici, le processioni, …), però la festa viene mantenuta. Tolta la
componente religiosa negli spettacoli rimane la componente politica, che continua a rimanere
importanti per gli imperatori: vengono quindi eliminati i caratteri esteriormente religiosi, ma
continuano a rimanere quelli interiormente religiosi (quelli strutturali); questo viene fatto
trasformando il contenuto degli spettacoli una espressione puramente culturale; anche se il
contenuto degli spettacoli è sconcio ha comunque un valore culturale (ad esempio dicendo che i
templi e le statue rimangono in piedi non per il loro valore religioso, ma per il loro valore artistico
e quindi culturale). Con l’arrivo del cristianesimo si scindono questi elementi (religiosi, politici ed
estetici); questa distinzione dei valori però comporta uno sgretolarsi del modello antico (questi
elementi non sono più intrecciati insieme); a poco a poco si cominciano a eliminare gli spettacoli.
Una volta eliminato l’aspetto religioso nel teatro, rimane solo quello ludico (l’eccitamento delle
emozioni); le dinamiche violente o oscene in quelli spettacoli vengono quindi separate dal
contesto religioso, ma così facendo i cristiani ora possono giudicare quel contenuto immorale
(perché assumeva senso in contesto religioso; ora che non ha più a che fare con la religione è
facile giudicarlo immorale), così la critica dei cristiani assume più forza.
Anche nel cristianesimo è però presente un accesso ad una realtà altra, questo però con due
caratteristiche: il mediatore è Gesù Cristo, la realtà a cui si accede è più forte perché è quella
dell’eternità (del mondo di Dio). Nel mondo antico il punto di riferimento è la realtà mondana
(verso la quale si ritorna sempre e da cui si parte); nel cristianesimo invece c’è l’idea che la realtà
mondana è falsa e quella vera è quella di Dio; per questo il teatro non ha più spazio nel mondo
cristiano. Tra il III e il IV secolo abbiamo alcuni casi di martiri: Porfirio, che era un mimo che stava
facendo uno spettacolo parodia del battesimo (a un certo punto quindi si facevano parodie non
solo sui miti ma anche sulla religione cristiana), mentre recitava la scena dove veniva battezzato si
vede circondato da angeli i quali scendono e lo vestono di bianco, diventa quindi veramente
cristiano e il pubblico per la maggior parte si converte e infine viene messo poi a martirio (tutto
questo è successo veramente, non era una scena dello spettacolo); Gelasino, anche lui sta
recitando la parte del cristiano in una parodia del battesimo (era un mimo pure lui) e appena esce
dalle acque dice di essere cristiano (veramente) e per questo viene lapidato. Questi venivano
chiamati santi mimi (erano considerati dei santi cristiani). La recita di un rito religioso all’interno di
uno spettacolo teatrale comporta l’entrare in un universo fittizio, ma nell’universo cristiano
questo non è tollerato, infatti, si entra in una realtà vera: se si fa il battesimo anche per scherzare
si muta veramente e non si può tornare indietro. Questo è un modo, infatti, completamente
diverso di concepire la realtà quotidiana da quella sacra; non si tratta più di un capovolgimento dei
valori nel senso antico; nel mondo antico tramite Dioniso si poteva ritornare alla realtà quotidiana,
nel cristianesimo invece non si può più tornare indietro.
Nel mondo ebraico/cristiano è importante la festa della Pasqua per l’aspetto di inversione dei
valori. La più antica testimonianza sulla Pasqua ebraica si trova nell’Esodo della Bibbia: gli ebrei
qui si trovano nel deserto e vogliono uscirne; il protagonista è Mosè; chiede al faraone di uscire
col suo popolo per festeggiare nel deserto; gli ebrei si sentono perseguitati e la festa è il pretesto;
il faraone nega questa proposta e per questo arrivano le dieci piaghe; l’ultima ucciderà tutti i
primogeniti e per questo viene prescritto agli ebrei di uccidere un agnello per macchiare col
sangue le porte delle abitazioni per far sì che Dio non uccida gli ebrei proprio; agli ebrei venne
detto di essere pronti a partire in fretta e di cucinare un agnello e mangiarlo con erbe amare e
pani azimi senza spezzare le ossa dell’agnello, tutto questo per rendere più veloce il pasto e quindi
per partire immediatamente; a questo punto dice agli ebrei che quel giorno sarà un memoriale e
verrà celebrata come festa di generazione in generazione, questa è la frase che istituisce la festa
della Pasqua; dopo gli ebrei attraversano il mar Rosso; il giorno è il 14 del mese di Misan
(Marzo/Aprile) e dura fino al 22 durante il quale non si mangia il pane lievitato e si fanno le cose
che vennero fatte quel giorno. Quando Mosè va dal faraone però gli chiede di celebrare una festa
nel deserto, ma la festa di Pasqua non è ancora stata istituita, quindi, vuol dire che in quel giorno
c’era già una festa che gli ebrei celebravano: si svolgeva in primavera, gli ebrei erano
fondamentalmente pastori, ed era quindi il mese in cui il gregge partoriva e si partiva per i pascoli
estivi; il parto del gregge era visto come un evento rischioso, e nel mondo antico i momenti
rischiosi venivano superati tramite il rito e le feste; è possibile quindi che si trattava di una festa
che segnava il momento in cui le greggi partorivano e dunque una festa delle fecondità delle
greggi e si teneva lontano l’elemento distruttore sacrificando un capretto e mettendo il sangue
sulla porta (mettere il sangue sulla porta ha un valore apotropaico: significa che allontana le
minacce); è possibile che la festa della Pasqua si fondasse su questa festa più antica; nella festa di
Pasqua c’è però la traccia di un’altra festa.
Lezione 13:

L’altra festa è la festa degli azimi: la Pasqua è associata nei calendari antichi ai momenti della
mietitura; questa festa celebra la fine del raccolto precedente e l’inizio di quello successivo;
anche qui si trova un momento critico da superare, questa volta in campo agricolo; l’agricoltura
prevede che il popolo sia sedentario, non nomadico come per il pascolo, ma già qui si sa che gli
ebrei si erano insediati nella terra dei cananei. A questa festa viene poi dato un valore diverso a
seguito degli sviluppi della fuga degli ebrei nella Bibbia: non è più una festa legata ai ritmi della
natura ma diventa una festa legata ad un evento storico, ovvero l’uscita dall’Egitto, diventa una
celebrazione dell’intervento di Dio. Israele non valorizza solo i ritmi naturali e stagionali, ma
valorizza la storia come luogo in cui Dio si manifesta in rapporto alle azioni che il popolo ebraico
compie, punendolo o aiutandolo; per questa la storia di Israele è una storia sacra; le feste mutano
come dimostra la festa della Pasqua (non più di carattere naturale ma di carattere storico sacro).
La Pasqua è la festa del passaggio di Dio: è una commemorazione (del passaggio di Dio) ed è una
liberazione (dalla schiavitù verso gli Egiziani alla libertà, simboleggiato con l’attraversamento del
mar Rosso; riguarda però anche le liberazioni future, assumendo significato escatologico).
Questa era la Pasqua antica; dopo, infatti, certi aspetti del rituale mutano: non si dipinge più di
sangue le porte, non si sacrificano più gli agnelli uno per famiglia ma solo nel tempio di
Gerusalemme; nel 70 d.C. viene distrutto il tempio di Gerusalemme e per questo il sacrificio non si
può più fare, infatti, da qui non si sacrificano più gli agnelli (si mangiano ma non c’è più il
sacrificio). La Pasqua tende sempre di più a diventare una festa privata, celebrata solo in famiglia,
siccome gli ebrei iniziano a disperdersi per il mondo e incontrano nuove culture e popoli: da
questo nascono le variazioni della Pasqua. La famiglia di solito si riunisce al tavolo con dei cibi
simbolici (pane azimo, uovo sodo che era associato al lutto, erbe amare per ricordare l’amarezza
della schiavitù, la malta per ricordare quando gli ebrei erano obbligati a fare i muratori per gli
Egiziani) che variano a seconda delle culture con cui sono entrati in contatto; poi si dice una
preghiera; il celebrante poi recita una formula in aramaico (una sorte di citazione alla Bibbia); poi
il più giovane chiede che differenza c’è tra questa e tutte le altre notti (sul cibo); ora il celebrante
spiega tutta la vicenda che ha dato luogo alla nascita della Pasqua.
Dalla Pasqua ebraica poi si passa alla Pasqua cristiana, diversa da quella ebraica ma nella stessa
linea di continuità. Nel tempo di Gesù si svolgevano ancora i sacrifici al tempio di Gerusalemme; la
morte di Gesù avviene ne periodo in cui si celebrava la Pasqua (questo è l’elemento cronologico).
Per distinguere le due Pasque non basta l’elemento cronologico ma serve anche quello
ideologico: i cristiani più antichi presentano gli eventi relativi alla vita di Cristo come compimento
di quello che si trova nella Bibbia ebraica (Antico e Nuovo Testamento); il rapporto tra questi due è
tipologico (i racconti dell’Antico Testamento sono dei modelli di quello che avverrà nel Nuovo
Testamento; la vita di Gesù sono il compimento di elementi già accennati nell’Antico Testamento);
gli eventi del Nuovo Testamento compiono ciò che era annunciato nella Bibbia. I vangeli sinottici
(i tre vangeli con la stessa ottica, diversi da quello di Giovanni) dicono che l’ultima cena è la cena
Pasquale e presenta il pane e il vino come il suo corpo e il suo sangue; poi Paolo parla del
battesimo di Cristo e dei cristiani che è prefigurato dal passaggio nel mar Rosso; Giovanni parla
della vita di Cristo come del vero Esodo (uscita del popolo ebraico dall’Egitto) e Cristo si libera
della morte e porta con sé tutti gli uomini con cui condivide la liberazione della morte e dal
peccato. Questo è l’elemento ideologico nel cristianesimo (Gesù come agnello pasquale). La
grande novità della Pasqua cristiana sta però nella resurrezione (passaggio dalla morte alla vita),
cosa che non c’era nella Pasqua ebraica: questo è il nucleo ideologico. Dal punto di vista pratico la
Pasqua è celebrato lo stesso giorno degli ebrei in Oriente, mentre in Occidente è celebrata nella
prima Domenica, dopo la prima Luna piena, dopo l’equinozio di Primavera (per questo la Pasqua
è una data mobile); le celebrazioni erano concentrate maggiormente nella vigilia e consistevano
nell’Eucarestia, nei battesimi e nelle cresime (soprattutto queste ultime due che erano collegate
alle acque del Mar Rosso ed erano connesse alla morte dell’uomo vecchio e alla rinascita del
nuovo uomo); l’idea della veglia pasquale viene meno ma viene ripristinata nel 1951 e la liturgia
rimane la stessa nel mondo cattolico; la liturgia della veglia (o vigilia) pasquale si fonda su due
elementi simbolici fondamentali, l’elemento del fuoco (passaggio dalle tenebre alla luce) e le
acque (passaggio del Mar Rosso); questi simboli accentuano il valore della Pasqua come rinascita.
Nel mondo antico, la festa è un’occasione di conferma della società e dei suoi valori come si è
visto. Ci sono però alcuni casi in cui la festa non conferma, ma rivoluziona come la Pasqua ebraica:
è un’occasione per le sommosse. In questo periodo esiste ancora il tempio di Gerusalemme e la
Palestina è sotto il dominio romano: nell’anno 4 d.C. i romani issano la raffigurazione di un’aquila
sulla porta del tempio di Gerusalemme (simbolo di potere romano) che viene tirata giù da due
allievi (istigati dai maestri), questi vengono uccisi dai romani, nasce una rivolta che però viene
soppressa nel sangue e da qui vengono cancellati i sacrifici; tra il 48 e il 52 d.C. e i romani
osservavano la folla dal tetto del tempio, dal tetto un romano fa un gesto indecente che provoca
l’ira della folla e capita un’altra rivolta che finisce in una carneficina. Qui si hanno due esempi in
cui si nota come durante una festa può avvenire una rivolta: succede perché la festa ha un forte
valore nazionale, poi perché la festa è legata alla liberazione e poi perché quando c’è una grande
folla è più facile rivoltarsi; qui la Pasqua non è solo un fattore di conservazione, perché gli ebrei
sono una nazione che conserva i suoi costumi ma che si trovano sotto una dominazione straniera
(non come nel mondo Mesopotamico o nel mondo greco dove l’aspetto religioso e politico si
unificano, nel mondo ebraico invece sono diversi perché l’aspetto religioso è legato alle tradizioni
mentre quello politico è legato a Roma; in Mesopotamia e in Grecia invece coesione sociale e
coesione politica sono la stessa cosa); per questo motivo la festa può avere una funzione
disgregatrice di un ordine politico imposto; questa funzione disgregatrice si manifesta quando
l’ordine politico entra in conflitto con l’ordine religioso (quando viene issata l’aquila nel tempio o
quando il soldato romano fa un gesto osceno); anche nel mondo ebraico quindi la festa ha
funzione di conservazione, ma può avere anche una funzione di disgregazione.
Festa e gioco hanno il divertimento in comune (diverte nel senso che va in una direzione diversa
rispetto alla realtà). Per la definizione di gioco ci sono diverse opinioni; noi prendiamo come
riferimento per la ludologia Huizinga, che ha scritto Homo ludens (l’uomo che ha come sua
caratteristica il fatto di giocare) nel 1938. Elenca una serie di caratteristiche del gioco: è un’azione
libera priva di costrizioni, è un’attività conscia di non dover essere presa sul serio, avviene al di
fuori della vita consueta, può impossessarsi completamente del giocatore (psicologicamente),
non viene effettuato per un interesse o vantaggio materiale, si colloca in un tempo e spazio
definiti (diversi rispetto a quelli ordinari), ha delle regole e suscita dei rapporti sociali che si
circondano di mistero o accentuano mediante il travestimento la loro diversità dal mondo
ordinario. Queste caratteristiche coprono attività apparentemente diversissime (le montagne
russe e il gioco degli scacchi ad esempio). Queste tematiche sono state sviluppate da altri studiosi.
È stato sviluppato il tema della mancanza del guadagno (nessun interesse o vantaggio materiale):
ci può essere il vantaggio materiale, ma non è lo scopo (altrimenti si farebbero delle attività più
vantaggiose), il gioco ha fine in sé stesso; altra tematica sviluppata è il tema del fare finta (si crea
un mondo fittizio) e ne si ha piena coscienza di questa finzione. Per le teorie del gioco si è detto
che il gioco si trova in una situazione di sospensione tra credulità (belief) e incredulità (disbelief):
nel gioco c’è una sospensione della credenza e dell’incredulità, il gioco si trova quindi in questo
stato intermedio (partecipiamo in modo molto intimo anche se non ci crediamo); una cosa analoga
è detta anche dagli studi psicologici del gioco da Winnicott, studioso delle prime fasi di crescita di
un bambino (quando ancora non sa ancora che esistono entità esterne a lui, Winnicott si occupa
della fase dove il bambino inizia ad accorgersene); secondo Winnicott tra la visione narcisistica e
quando il bambino si accorge esiste un momento intermedio chiamato transizionale (gli oggetti
qui non sono più interni ma non sono neanche del tutto esterni) e qui studia l’oggetto
transizionale (una cosa he sta al posto del seno materno e segna il passaggio tra le due fasi, ad
esempio il pupazzo, o la copertina, dalla quale non si riesce a staccare perché ricorda il possesso
del seno materno); questo oggetto si colloca nello spazio transizionale (spazio in cui gli oggetti
non sono più interni ma non sono neanche oggetti puramente esterni; negli oggetti interni
abbiamo un controllo magico, quelli esterni sono fuori del nostro controllo); le attività umane si
trovano appunto in questo spazio transizionale (comprese le attività culturali e in particolare
quelle ludiche). Le caratteristiche evidenziate da Huizinga nel gioco sono presenti alcune nelle
feste: entrambe si svolgono al di fuori del quotidiano (questi tempi e spazi in cui si entra sono
regolati da un ordine diverso da quello del quotidiano), entrambi hanno un senso di mistero ed
entrambi hanno rilievo sociale (non sono manifestazioni demandate dalla libera iniziativa e
comportamento dei presenti; si entra in un mondo con delle regole socialmente stabilite alle quali
si può trasgredire ma fino ad un certo punto; sono stabilite tradizionalmente le regole e sono
socialmente riconosciute). Le differenza tra gioco e festa sta nel fare finta: il gioco crea un mondo
coscientemente fittizio, la festa invece vive lo svolgimento come assolutamente vero. Vernant si
chiede cosa caratterizzi i simboli religiosi rispetto agli altri: la religione è un modo per costruire un
ponte tra una realtà che conosciamo ed una realtà ignota (viviamo in una realtà conoscibile, ma
sentiamo sempre che al di fuori c’è qualcosa di inconoscibile e abbiamo bisogno di connetterci ad
essa); nel caso del gioco ci mettiamo in rapporto con una realtà diversa ma che conosciamo,
codificata; nel gioco è fondamentale il far finta, nella festa invece questa coscienza della finzione
non c’è. Un esempio di questo lo abbiamo nei santi mimi nella lezione precedente (non si può far
finta di fare il battesimo; si battezzano per gioco, gettando un ponte su una realtà dove vigono le
regole della parodia dove poi si ripercorre il ponte e si trova nella situazione di prima, ma con il
religioso questo non può essere fatto e vengono intrappolati al di là del ponte); qui si trova anche
la fondamentale differenza tra teatro pagano e religione cristiana della scorsa lezione. Qua si
conclude il discorso sulla festa e sul rito.
Lezione 14:

Ora si parla dell’ultima parte del corso, il simbolo. Il termine simbolo nasce in Grecia (symbolon),
che deriva da un verbo (symbalein) che significa raccogliere quello che è stato sparpagliato. La
parola simbolo nelle sue prime accezioni significa segno di riconoscimento: quando due persone
volevano trovare un modo per riconoscersi dopo tanti anni, spezzavano un oggetto, ognuno dei
due ne prendeva un pezzo e quando si rincontravano potevano riaccostare questi due pezzi per
riconoscersi. Spesso questo oggetto era un osso, un dado, una moneta o un coccio di vaso.
Questo è il primo significato del termine symbolon in Grecia. Poi si inizia ad usarlo per
l’abbandono dei neonati: venivano accostati alla culla degli oggetti per poi poter riconoscere il
bambino quando sarebbe cresciuto, questi venivano chiamati symbola (plurale di symbolon); il
ricongiungimento avviene quindi tramite questi oggetti che non sono per forza spezzati, ma è un
oggetto qualunque: diventa quindi un qualcosa di metaforico il symbolon. Nel Simposio di
Platone, Aristofane racconta un mito: l’uomo poteva essere maschio, femmina o androgino (una
forma tondeggiante, formata da due persone collegate tramite la schiena); questi uomini
primordiali erano forti e per questo dichiarano guerra agli dei (hybris), allora Zeus li separa per
diminuire il loro potere; da qui ognuna delle due parti va alla ricerca dell’altra perché si sente
incompleta; questa ricerca è il rapporto di amore; ognuno di noi non è un uomo, ma un symbolon
di un uomo, ovvero una parte mancante (è una parte della totalità). Tutti questi non sono
significati di tipo sacrale, ma ad un certo punto il symbolon diventa un segno che gli dei mandano
agli uomini; i greci ne distinguono due di questi segni: il segno (semeion) che è un segno che gli
dei mandano agli uomini e di cui tutti colgono il significato religioso, poi c’è il symbolon che è
sempre un messaggio dagli dei che è apparentemente normale ma dietro il quale si trova un
significato nascostamente religioso, qualcosa di misterioso che deve essere interpetrato (ad
esempio quando i greci vanno a conquistare Troia e vedono due uccelli in cielo). Da questa
seconda accezione deriva il significato che ora ha il simbolo, ad esempio come linguaggio segreto.
Le caratteristiche del simbolo che emergono da questa indagine sono: qualcosa che rinvia ad
altro (non è compiuto in se stesso, ma per esserlo si connette a qualcosa di esterno), il simbolo
come elemento che riunifica due cose distanti (infatti il contrario della parola simbolo è la parola
diabolon, che deriva dal termine diaballo che significa appunto separare, il diavolo quindi separa
al contrario del simbolo, perché fomenta il disaccordo) ed è segno degli dei e rivelazione di una
volontà divina. Questo riguarda il mondo greco; nel mondo cristiano questi significati ritornano e
si uniscono ad altri due significati fondamentali: segno di riconoscimento che continua (nel
mondo cristiano si utilizza questo senso di simbolo nel credo: il credo è la preghiera che contiene
tutto quello a cui un cristiano crede, le credenze fondamentali; il credo si chiama anche simbolo
perché è il segno di riconoscimento tra i cristiani) e rappresentazione visibile dell’invisibile
(esiste una realtà invisibile che non si può cogliere direttamente con i nostri sensi, ma la possiamo
cogliere attraverso i simboli; da qui nasce la teologia simbolica che si definisce nel VI secolo d.C.:
c’è l’idea che la verità d Dio è invisibile, illimitata, inattingibile ed è quindi al di fuori delle nostre
possibilità di concepirla; però si può dire cosa non è, questa si chiama teologia negativa; questo lo
dice lo pseudo Dionigi l’Areopagita; i simboli non ci danno chiaramente la realtà di Dio, ma vanno
interpretati).
Con il Romanticismo il concetto di simbolo viene riabilitato: viene considerato il linguaggio
dell’Essere; la verità fondamentale delle cose non è rappresentata in maniera chiara ma si esprime
attraverso simboli (ad esempio la Natura è un insieme di simboli in ambito poetico). Viene
teorizzato un modo di interpretazione dei simboli chiamato tautegorica: prima c’era
l’interpretazione allegorica (allos vuol dire altro: interpretazione che porta verso qualcosa d’altro
quindi) ma dai Romantici è vista come interpretazione razionale dove non c’è nulla di misterioso
(è pura tecnica); un simbolo non può essere interpretato solo richiamandosi ad una realtà al di
fuori che ne esaurisca il significato, ma deve essere interpretato in sé stesso, questa è
l’interpretazione tautegorico (tautos vuol dire identico, sé stesso: il simboli rivela sé stesso, non si
riferisce a qualcosa d’altro). Nell’allegoria dei simboli si può fare a meno (si può parlare di aurora
ed alba al posto di Apollo e Dafne), nella tautegoria invece non si può fare a meno di esso.
A inizio del ‘900 si ha una moda del simbolismo, dice Eliade: perché si sviluppano una serie di
discipline che ci danno delle categorie nuove per interpretare il simbolo, mettendo maggiormente
luce sulla sue esistenza; queste discipline sono la psicologia, la sociologia, l’antropologia e la
linguistica.
La psicoanalisi (Freud) fornisce spunti sul simbolo: non è importante tanto la nostra coscienza
quanto il nostro inconscio; le nostra realtà quotidiana è fortemente influenzata da esso, e si
manifesta attraverso i sogni, i sintomi e la cultura; si manifesta in maniera deformata l’inconscio e
questi tre sono espressioni simboliche dell’inconscio attraverso i meccanismi simbolici
(meccanismi che servono a trasfigurare i contenuti dell’inconscio per renderli manifesti); in Freud
c’è anche un senso più ristretto di simbolo, che è ogni rappresentazione a cui il paziente non sa
associare nulla ma che risulta comprensibile perché tipica ed usuale (ci sono alcune cose a cui il
paziente non associa nulla ma che lo psicoanalista interpreta ugualmente, perché sono elementi
tipici e costanti, ad esempio il fallo; questi sono simboli) e questi si trovano spesso nelle religioni,
nel folklore e nei miti; questi simboli nascono da un’eredità filogenetica (nella biologia del tempo
si distingueva tra filogenesi e ontogenesi: la prima è la storia dello sviluppo evolutivo degli
organismi viventi dalla comparsa sulla Terra fino ad oggi, la seconda è il complesso dei processi
dello sviluppo degli individui dall’uovo fecondato fino allo stato adulto; quindi la prima riguarda la
storia della specie e la seconda dell’individuo) e questi meccanismi simbolici quindi non nascono
dall’esperienza quotidiana ma da questa eredità filogenetica; Jung riprenderà questo secondo
senso di simbolo. Un altro sviluppo nel concetto di simbolo in psicologia lo abbiamo con Fromm: il
simbolo è un linguaggio dimenticato; siamo condizionati da una vita dipendente dalle esigenze
della razionalità e abbiamo dimenticato quell’approccio al reale più globale che è più vicino alle
nostre radici simboliche.
Per le componenti sociologiche il punto di riferimento è Durkheim: la società è fondamentale,
intesa come qualcosa che ha un potere ed una coscienza superiore rispetto a quella degli individui;
non è una semplice somma della coscienza degli individui ma è una cosa sovraordinata rispetto ad
essi; questa si esprime attraverso una serie di simboli; il totemismo ha l’elemento del totem come
simbolo di unità di un gruppo sociale; i simboli hanno valore collettivo e sono la rappresentazione
della coesione di una comunità (ad esempio la bandiera, o gli animali che rappresentano le
nazioni; questo ricorda gli animali totemici); in questi studi ritorna il simbolo come segno di
riconoscimento (come per i Greci e i cristiani).
In ambito antropologico si trovano gli studi della sociologia: c’è l’idea della società come sistema
simbolico, nel senso che ogni gruppo sociale vive all’interno di una realtà in cui si stabilisce un
ordine, e stabilire un ordine significa attribuire un significato alle diverse cose che ci circondano,
ovvero costruire un simbolo; ogni società costruisce un sistema simbolico, una rete di significati
che poi la società sovrappone alle cose che la circondano. Da qui, in ambito antropologico, si crea
una corrente simbolista che cerca di interpretare i vari simboli per capire la società; uno degli
esponenti è Geertz che è un teorizzatore dell’idea della religione come sistema simbolico.
Infine, c’è l’ambito linguistico, ambito principale perché il simbolo è una realtà prima di tutto
linguistica. Si sviluppano due concezioni del simbolo completamente opposte l’una all’altra. Il
primo modello è proposto da De Saussure, un linguista svizzero e teorico della segnologia intesa
come disciplina e scienza dei segni; i segni sono unioni tra due elementi, il significato ed il
significante: il primo è la forma fisica del segno (l’aspetto acustico quando si pronuncia una parola
o l’aspetto visibile di scrittura se la si scrive) ed il secondo è il concetto a cui si riferisce la parola;
questa un’unione tra significato e significante è di tipo convenzionale (in un’altra lingua infatti la
parola “penna” non dice nulla) ed è quindi stabilita all’interno di una singola civiltà, è un’unione
immotivata; inoltre questa unione è arbitraria ma necessaria. Il simbolo nasce da un’operazione
che si compie sul segno: prendiamo già un segno compiuto e ad esso colleghiamo un altro segno
(la montagna di per sé non significa l’ascensione dell’uomo verso il cielo, ma diventa un simbolo
quando colleghiamo questi due segni). Il simbolo ha delle caratteristiche opposte rispetto al
segno: stabiliamo una connessione non arbitraria perché si fonda su un rapporto di somiglianza
(si basa su un rapporto naturale: l’anima che ascende verso il cielo può farci venire in mente la
montagna come percorso che si avvicina al cielo; quindi, in un simbolo il significato non è mai del
tutto arbitrario perché la montagna ricorda una salita), non è necessaria (perché la montagna non
fa venire per forza in mente l’anima che sale verso il cielo: in un contesto religioso può far
ricordare l’anima che sale verso il cielo, ma in altri contesti no). Il secondo modello della linguistica
è quello di Pierce, contemporaneo di De Saussure. Per Pierce esistono tre categorie di segni che si
distinguono a seconda di come il segno si riferisce al suo oggetto: icona, indice e simbolo; si
prende ad esempio la toilette come luogo dedicato agli uomini e alle donne separatamente, e ci
sono tre modi di indicarlo: l’icona rappresenta l’oggetto fondandosi sulla somiglianza (le figure
della toilette assomigliano alle figure antropomorfe dell’uomo e della donna), l’indice si ha quando
un oggetto viene indicato attraverso una contiguità fattuale o una causalità fisica (non esiste
diretta somiglianza: nelle figure l’uomo è rappresentato come una scarpa da uomo e la donna
come una scarpa col tacco e quindi da donna; non c’è rapporto rappresentativo diretto, ma c’è
una conseguenza, dunque contiguità o causalità fisica) e infine il simbolo dove il rapporto tra
significante e significato è esclusivamente convenzionale (è una convenzione che i due segni
maschili e femminili rappresentano l’uomo e la donna; se le persone non sanno che vuol dire quel
simbolo allora non sanno a cosa si riferiscono; come anche la segnaletica stradale, infatti chi non la
conosce on può sapere a cosa si riferisce); la connessione che si ha con il simbolo è arbitraria ed è
l’oggetto di una regola che dobbiamo conoscere per interpretare il simbolo. Il simbolo è quindi un
segno vuoto privo di contenuto rappresentativo, come in matematica. Il primo modello spiega
che il simbolo è legato ad una somiglianza naturale, il secondo che il simbolo dove il segno non
può assomigliare a nulla ma di cui il significato è oggetto di una regola. Umberto Eco ha studiato
le tematiche segnologiche e si occupa del tema del simbolo: si parte da una parola o espressione
che ha un contenuto codificato (contenuto preciso stabilito da una regola) e a questo si
attribuiscono nuove porzioni di contenuto che sono indeterminate (si prende una parola che ha
già un significato e le si attribuiscono nuove porzioni di significato ma che sono vaghe,
indeterminate e indefinite); questo aspetto di vaghezza ci aiuta a capire un fatto importante del
simbolo, ovvero che è misterioso. Questa ide di Eco si trova anche in Sperber: quando abbiamo le
nostre esperienze quotidiane, per poter interpretare il mondo usiamo quadri concettuali; ora
arriva un’informazione nuova, questa la introduciamo nel nostro quadro concettuale; può
succedere però che alcune di queste non riusciamo ad inserirle nel nostro quadro concettuale,
allora per poterle inserire facciamo riferimento a un senso indeterminato (non diamo un
significato specifico ma uno vago).

Lezione 15:

Nello strutturalismo si tratta il tema del simbolo grazie a De Saussure. Levi-Strauss dice che il
significato si collega al significante solo se integrato all’interno di un sistema: non si tratta del
segno in quanto tale ma del segno in un sistema di segni; questo è un sistema di opposizione
(binario); il simbolo non ha significato in quanto tale, ma il significato del simbolo esiste solo nel
sistema simbolico; non c’è quindi una relazione naturale tra significato e significante. Esistono
delle prospettive psicologiche che si richiamano allo strutturalismo e che insistono sul tema del
simbolo; sono quelle prospettive che fanno riferimento a Lacan: l’inconscio è considerato come
un struttura composta da simboli (sistema simbolico); i simboli non valgono per i loro contenuti,
ma per la loro rete di rapporti (anche per Jung l’inconscio è un insieme di simboli, ma non sono
collegati fra di loro in un sistema; per Jung inoltre i simboli sono pregni di contenuti presi da soli,
per Lacan no, e dunque possiamo analizzarli singolarmente); lo stesso vale per le parole del
linguaggio; inoltre il sistema non è statico ma dinamico, perché la psiche umana non è statica ma
si evolve; per Lacan c’è una serie di elementi fissi che possono essere spostati, la psiche umana è
caratterizzata da un continuo muoversi degli elementi simbolici; non c’è però senso infinito che si
può dare, questo infatti funziona se esiste nell’inconscio uno spazio vuoto (Lacan accosta questo
spazio vuoto con l’elemento del fallo, ma non ci interessa). In tutti questi casi, il simbolo ha a che
fare con il linguaggio, ma ci sono degli studi che trattano il simbolo come qualcosa che supera il
valore del linguaggio e che esso è solo uno strumento.
Il simbolo è un’espressione di realtà extralinguistiche (come nel caso dello pseudo Dionigi, ad
esempio, o come per i Romantici); la materia che studia i simboli sotto questa luce è la
fenomenologia, soprattutto con Otto: il sacro è al di là della nostra comprensione (e quindi anche
oltre al linguaggio) e si manifesta con ideogrammi (ovvero i simboli); quest’idea viene poi
approfondita da Eliade.
Il simbolo è un segno che non rinvia a nulla (Pierce) a cui noi attribuiamo il significato che
vogliamo; questo è però un concetto di simbolo che a noi non serve per quelli che vengono
chiamati i simboli religiosi; il concetto di simbolo di Pierce non combacia con quello che il senso
comune intende o con quello che intendono i greci o i Romantici. Il simbolo è un oggetto che sta
per qualcos’altro: è un oggetto che fa parte delle nostre esperienze (è un segno dunque); il segno
(l’albero ad esempio) diventa simbolo quando si attribuisce un nuovo significato. Un simbolo
diventa simbolo religioso non semplicemente però secondo questo processo e per capirlo bisogna
definire la religione. Brelich, per potere spiegare cos’è la religione, prende l’esempio del nativo
che costruisce la barca: il religioso è ciò che di residuo rimane di un’azione, come nella
costruzione della barca (il sovrappiù di senso); da questo nasce dunque il simbolo religioso;
Brelich dice anche che la religione è l’attività umana che serve a trovare un ordine in una realtà
che non possiamo controllare, e lo fa attribuendo significati a ciò che sembra non averlo, cioè
dunque costruendo simboli. Vernant dice che il simbolo religioso è qualcosa a cui rinvia ad una
potenza sacra e vuole stabilire un contatto con essa, ma allo stesso tempo denuncia
l’impossibilità di raggiungere questa potenza sacra totalmente; il simbolo religioso è dunque come
un ponte tra la nostra realtà e quella sacra, questo contatto però non riesce del tutto perché non
può essere mai raggiunta del tutto la realtà sacra. Il simbolo religioso rimanda dunque a una
realtà diversa, questa realtà non è del tutto conosciuta e non del tutto conoscibile; il significato è
sempre espresso dunque in modo misterioso. Secondo queste definizioni quindi, ogni religione è
un insieme di simboli. Questo però è una definizione generale di simbolo religioso (Dio, ad
esempio, non è un simbolo in questo senso); la definizione più stretta di simbolo è che il simbolo è
un’immagine: l’immagine può anche non essere visibile, ma figurata (immagine letteraria); è
un’immagine evocata in un contesto in cui è diversa in un rito, una figura divina, ecc.; non esiste
dunque un simbolo in quanto tale, ma varia a seconda del sistema religioso.
Quando si parla di simboli in storia delle religioni ci sono tre tipologie: l’emblema (un’immagine
che un gruppo o una persona adottano volontariamente per indicare una realtà politica, sociale o
religiosa; ad esempio il Sole è l’emblema di Luigi XIV, o l’animale per una casata), l’attributo
(un’immagine che rimanda ad una figura umana o divina o la personificazione di un concetto
astratto; ad esempio la clava che rappresenta Eracle, l’aquila che rappresenta Zeus o la bilancia
che rappresenta la giustizia; questi attributi da soli sostituiscono l’essere a cui si riferiscono o
servono a qualificarlo più semplicemente) e l’allegoria (le rappresentazioni di idee astratte o
eventi in termini concreti tramite un’immagine o un racconto). Queste tre immagini si
differenziano dai simboli di cui abbiamo parlato perché non rinviano a qualcosa di misterioso, non
del tutto esplicitabile; queste tre immagini hanno invece un significato univoco; il simbolo religioso
di cui abbiamo parlato prima invece rinvia ad un qualcosa di non del tutto esprimibile, che rimane
distante rispetto a noi.
Nella civiltà egizia il tema del simbolo è particolarmente importante. Per rappresentare gli dèi
bisogna spere che aspetto hanno; per gli egizi si ritiene che gli dèi abbiano un aspetto vero e che
alcuni uomini gli abbiano visti: esiste un papiro che contiene il racconto del naufrago dove
racconta di un naufrago che su un’isola incontra un dio, poi ci sono sogni e visioni in cui si ha una
visione diretta degli dèi (per i faraoni e i personaggi eccelsi) e infine è possibile vedere l’aspetto
degli dèi nell’oltretomba. Gli dèi egiziani quindi si possono incontrare, ma solo in territori di
frontiera (fuori dal mondo ordinario, come nell’isola), quando la coscienza non è vigile (sogno o
visioni) oppure quando si muore; questo comporta che la visione degli dei siano una visione
anomala (che esce dalla normalità); l’aspetto degli dei però non viene descritto, si parla dei
fenomeni naturali che accompagnano gli dei, delle sensazioni vissute incontrandoli, della luce che
emanano o del loro profumo; l’aspetto quindi è misterioso. Le immagini che rappresentano gli dèi
egizi non esprimono fedelmente l’aspetto, ma rendono visibili certe prerogative: le immagini dei
geroglifici sono quindi simboliche, si chiamano quindi ideogrammi. Nelle prime due dinastie si
hanno delle divinità umane e alcune con tratti zoomorfi; nelle dinastie successive invece si hanno
le raffigurazioni classiche con le divinità col volto di animale; queste divinità può essere quindi
rappresentata con tratti esclusivamente umani, animali o con tratti misti, ma si tratta sempre della
stessa divinità: questo dimostra che la rappresentazione non rappresenta il vero aspetto (un
esempio si ha con la dea Ator, che ha volte è una donna con la parrucca, a volte una donna con le
corna, a volte una vacca, a volte un serpente, a volte un ippopotamo, ecc.; ha a che fare con la
tenerezza materna come la mucca, ha la ferocia della leonessa e l’imprevedibilità del serpente). Le
divinità spesso hanno un attributo sulla loro stessa (ad esempio la piuma) e a volte questi attributi
sostituiscono lo stesso dio o dea. Le divinità hanno poi in mano degli oggetti che rappresentano la
stessa divinità. L’architettura ha molta valorizzazioni simboliche: le tombe più antiche sono
rimaste poco integre perché erano state costruite in mattoni crudi; di queste tombe sono rimaste
le camere funerarie perché erano fatte di pietra, questo perché la pietra ha valore simbolico (la
pietra rappresenta l’immutabilità, l’immortalità); le piramide arrivano con la terza dinastia e qui
l’intero sepolcro è in pietra e qui si consolida il carattere divino del potere regale, così i
monumenti diventano anche più maestosi e interamente fatti in pietra; con la terza dinastia
abbiamo il re Zoser con la piramide a gradoni; questa è fatta con sei gradoni, è rivolta a nord ed è
tutta in pietra; ci sono dei testi delle piramidi che raccontano che il faraone dopo che è morto va
verso le stelle a nord e gli dei gli costruiscono una scala, per questo la piramide è fatta a scalini ed
è rivolta a nord; la piramide a superficie liscia risale alla quarta dinastia e risale al culto del dio Ra
con sede a Eliopoli (città del Sole) ed il faraone si identifica con il Sole; il simbolo del dio Ra è il Ben
che è una pietra a forma piramidale, per questo la piramide a superficie liscia diventa un simbolo
del Ben; inoltre la piramide è rivolta a est perché il sole sorge ad est (il sorgere rappresenta la vita
e il rinnovamento; infatti le necropoli si trovano ad ovest). I geroglifici sono il terzo elemento in
cui si gioca il tema dei simboli in ambito egizio. Il termine geroglifico risale allo scrittore cristiano
Clemente Alessandrino: deriva dal greco grammata iero gliphica (lettere sacre incise); i geroglifici
compaiono dalle prime dinastie; non sempre hanno significato sacro ma gli egiziani li
consideravano di natura divina; la decifrazione (sensata) dei geroglifici inizia nel XIX secolo con
Champollion (prima si interpretavano sulla base di quello che i geroglifici rappresentavano, sulle
immagini quindi); la natura misteriosa dei geroglifici è rimasta ancora in vita (non hanno perso
quell’aura sacrale e misteriosa); il simbolo geroglifico più famoso è l’Ankh ed ha a che fare con il
concetto di vita; lo si trova spesso nelle mani dei faraoni o degli dei perché la vita è la prerogativa
divina (gli dei posseggono il principio vitale) e glielo danno mettendolo vicino alle narici spesso
(principio vitale=respiro) al faraone proprio per stare a significare che ora il principio vitale passa al
faraone ed alla sua famiglia; rappresenta anche la sopravvivenza dopo la morte e per questo è
inserita in immagini di defunti; è il simbolo anche della vita ventura (la vita che verrà) e fu
ritrovata in tempi pagani durante le conquiste cristiane in Egitto e per questo fu adottata anche
dai cristiani questo simbolo.

Lezione 16:

Un altro simbolo importante oltre all’Ankh è la colonna djed: un geroglifico che rappresenta la
durata, la solidità; rappresenta il pilastro su cui poggia il cielo (l’asse cosmico); si riferisce anche
all’ambito mitico, dove è la colonna vertebrale di Osiride: Osiride viene sconfitto e ucciso con
l’inganno da suo fratello Seth; costruisce una cassa molto bella per suo fratello, dopo la porta dagli
dei e dice che verrà donata solo a chi ci entrerà perfettamente; nel momento in cui Osiride entra,
questa viene chiusa e gettata nel Nilo; poi questa cassa si arena ed una pianta la ingloba; il re
Biblos poi taglia la pianta e utilizza il fusto dell’albero per costruire la colonna portante del suo
palazzo. La colonna Djed è collegata anche ad un aspetto rituale: ogni anno la terra dell’Egitto
emerge dalle acque; il giorno prima viene eretta la colonna Djed (orizzontale significa la morte di
Osiride, in verticale vuol dire rinascita) e così si celebra la resurrezione di Osiride.
In Grecia, il tema del simbolo non è centrale. Diel ha scritto un libro sulla mitologia greca ed il
simbolismo, ma ne dà una interpretazione psicoanalitica: considera il rapporto tra la mitologia
greca ed il mondo dell’inconscio, dove tutti i miti sono l’espressione della realtà dell’inconscio (non
è proprio un libro sulla simbologia in Grecia). In Grecia manca il tema del simbolo in senso stretto
perché la religione greca è fortemente antropomorfa: se una realtà è considerata divina, per
questo fatto è già vista come personale (con una struttura antropomorfa); questo vale anche per i
concetti; la personificazione è l’attribuire caratteristiche personali a oggetti concreti o a idee
astratte, per fare questo si deve avere coscienza che c’è una differenza tra l’idea e la personalità
data ad essa, nell’esperienza religiosa dei greci questa differenza manca (realtà personale=realtà
divina); per questo motivo non c’è spazio per i simboli. Rimane però il fatto che la religione greca è
comunque un sistema simbolico (il simbolo in senso lato: dove si prendono degli oggetti e si
attribuiscono significati nuovi di ordine religioso): ad esempio la montagna è riferita al selvaggio
(l’alterità) ma anche con il divino (questo per Baxton); le acque si riferiscono all’origine come
sessuata (come scritto nella cosmogonia con Oceano e Teti nell’Iliade) o come qualcosa di
asessuato (questo secondo un’altra cosmogonia).
C’è poi l’ambito ebraico per i simboli. Qui abbiamo un problema: se identifichiamo il simbolo
come qualcosa che si esprime con immagini, nell’ebraismo abbiamo il problema che c’è la
proibizione delle raffigurazioni; questo si trova ad esempio nell’Esodo, quando Mose riceve i dieci
comandamenti, quando Dio proibisce l’idolatria e la creazioni di immagini; nel Deuteronomio
(significa seconda legge) dove si ribadisce di non scolpire o creare qualsiasi immagine divina (figure
umane, di uccelli, rettili, pesci, sole, luna o stelle; tutte queste non devono essere rappresentate
per evitare di prostrarsi poi ad esse e considerate come dei). Ci sono poi delle eccezioni: nella
costruzione dell’arca dell’alleanza si scolpiscono due cherubini sopra la cassa; nella descrizione del
tempio di Salomone ci sono anche leoni e buoi (il bue è un’immagine tipica dell’idolatria). Per
questi motivi comunque ci sono freni per l’arte figurativa ebraica; nella Bibbia però ci sono molte
immagini di carattere letterario (e sono comunque immagini religiose): queste immagini letterarie
sono state studiate da Gusi che cerca di stabilire un metodo per studiare le immagini simboliche
ebraiche e chiama questo metodo filologia simbolica: si cercano delle unità espressive semplici
(delle immagini), queste immagini vengono cercate nelle loro ricorrenze di famiglia (nei punti in
cui si ripropongono) e si cerca di trovare il senso sia all’interno della Bibbia sia negli scritti esterni
e da questo emerge la natura carsica del simbolismo (i fiumi carsici sono fiumi che sembrano
scomparsi ma in realtà continuano sotto terra e dopo tanto tempo riemergono; così come le
immagini religiose); ad esempio, le prime due immagini analizzate sono la luce e il fuoco (Dio si
rivela attraverso questi due elementi), poi c’è l’immagine delle acque (come primordialità caotica
contro la quale Dio combatte o ha anche come elemento positivo che purifica) e infine c’è
l’immagine dell’albero (l’albero dell’Eden ad esempio, quello della vita e quello male dalla quale
Adamo ed Eva mangiano la mela; nel vicino Oriente è molto frequente l’idea dell’albero della vita,
legato all’immortalità, invece l’albero del bene e del male è presente solo nell’ebraismo, nelle
altre religioni non c’è il parallelismo tra l’albero della conoscenza e l’albero del male; l’albero poi
ricompare nella Bibbia come simboli di salute, robustezza e vitalità; oppure con la vicenda di
Nabucodonosor c’è l’albero come pilastro del mondo). La proibizione non era però assoluta,
infatti si trovano delle immagini figurative anche in ambito ebraico a seconda delle varie comunità
e periodi storici. Nel 1930 sono state rinvenute tre immagini: il mosaico della sinagoga di Beth
Alpha (è presente lo zodiaco, con la centro un carro con una figura antropomorfa con un’aureola
che sta ad indicare il sole; le stelle e la luna si riferiscono al cielo stellato; ai quattro angoli ci sono
figure angeliche) la sinagoga di Dura Europos (ci sono affreschi con scene bibliche) e poi un luogo
funerario (dove ci sono sarcofagi con simboli animali). Queste sono rappresentazioni che hanno
un’influenza del tardo ellenismo (del dio solare); un primo gruppo di studiosi spiegano che sono
stati influenzati perché c’è stata un’invasione da parte degli elleni, un secondo gruppo di studiosi
spiega che quei motivi decorativi sono stati ripresi per pura estetica, senza attribuire ad essi alcun
significato simbolico; Goodenough studia il primo mosaico (l’immagine del dio Sole) e ritrova la
stessa immagine del dio Sole anche in altri mosaici e spiega che il sole non è preso come una
divinità ma come un’immagine simbolica (riprende il rapporto simbolico di Dio come fuoco o Dio
come luce), riprendendo il dio come sole in altre culture e facendolo proprio, e il secondo esempio
preso da Goodenough è l’immagine del candelabro ebraico (Menorah) che viene descritto
all’interno della Bibbia ed ha un simbolismo che riguarda il cosmo e l’universo e lo si ritrova spesso
circondato da uccelli che mangiano l’uva (in ambito cristiano è un simbolo dell’immortalità, gli
uccelli che mangiano l’uva, ed è presente però anche in ambito pagano) e quindi così come il
candelabro, anche l’uva o gli uccelli sono un’immagine simbolica. Questo periodo va dal II secolo
al IV secolo d.C., ma a un certo punto queste immagini scompaiono ed anche la loro fioritura: dal
VI/VII secolo si diffondono i movimento iconoclasti (nasce l’ostilità verso le immagini e questo si
riproduce anche nel mondo ebraico), tra V/VI secolo c’è minore tolleranza verso gli ebrei, alla
quale consegue un minore scambio culturale, infine si diffonde una letteratura ebraica che insiste
su quei passi di proibizione della Bibbia. Si sviluppa sempre di più il giudaismo rabbinico che fa si
che queste immagini simboliche scompaiono. Anche nel giudaismo ebraico però, nei commentari,
riaffiorano alcune immagini simboliche: nell’interpretazione dei rabbini le immagini trovate nella
Bibbia vengono interpretate all’interno della Bibbia stessa ma anche con scritti esterni; un
esempio è l’immagine del fuoco, che è un simbolo dell’irrompere di Dio nella sfera umana, e un
elemento di distinzione tra la Bibbia e gli altri scritti ripreso dai rabbini si ha con la distinzione tra
fuoco bianco e fuoco nero (il secondo è il fuoco che riguarda la terra, quello inferiore, il secondo è
invece quello divino), ma viene ripreso con una distinzione opposta (fuoco bianco diventa il fuoco
della terra, quello della nostra esperienza comune perché il fuoco per noi illumina; mentre il
fuoco nero è quello divino perché non lo vedremo mai nella nostra esperienza, è trascendente). Il
simbolo della stella di Davide è il simbolo più famoso dell’ebraismo (chiamata in ebraico Moghen
David, che significa scudo di Davide: la stella è qualcosa che ripara, ed è quindi il simbolo della
protezione di Dio verso il suo popolo): questo simbolo non è molto antico, infatti compare nel
tardo antico come stella a cinque punte (non come quella a sei di David), mentre quella a sei
compare solo nel XII/XIII secolo; in questa stella ci sono due triangoli opposti l’uno dentro l’altro,
uno con il vertice verso al cielo e l’altro col vertice verso il basso (indica quindi la totalità) e poi
diventa il simbolo della comunità ebraica; Gusi ritiene che il successo del simbolo sia legato alla
forma geometrica che ha, riuscendo ad esprimere l’ebraismo senza incorrere in divieti ed anche
perché ha una forma geometrica semplice (è più utilizzabile dunque ha più successo).
Lezione 17:

L’ultimo degli argomenti in campo simbolico ebraico è il Kabbalismo: la Kabbalàh nasce nel XIII
secolo nel Sud della Francia e si sviluppa in Spagna; è una tradizione di tipo mistico che ritiene che
esiste una sorta di generale rete simbolica che sottende tutta la realtà; uno dei massimi studiosi e
Scholem e spiega che tutta la creazione rende visibile l’ineffabile segreto della divinità. Il punto di
riferimento primo della Kabbalah è Dio, ma viene considerato con l’espressione En Sof (ciò che è
infinito: Dio come qualcosa di assolutamente trascendente); persino nei testi sacri non è presente
l’En Sof, supera pure quelli, è un segreto intangibile; questo segreto però si deve manifestare e lo
fa attraverso la mediazione del simbolo. Esistono due tipi di Kabbalah: una definita teosofica ed
una definita estatica, dove la prima è quella della definizione di Scholem, e nella seconda i simboli
non sono considerati un tramite ma come dei limiti (questa Kabbalah vuole uscire da sé stessi per
avere un rapporto mistico con Dio, un confondersi con la divinità). Questo En Sof si rende
manifesto attraverso le emanazioni, chiamate sefiroth, che sono 10; queste si colgono attraverso
l’interpretazione dei testi sacri (la Torah, la parte più importante delle sacre scritture, ovvero i
primi 5 libri della Bibbia; poi il termine Torah ha iniziato ad indicare l’intero corpus della Bibbia); le
sacre scritture non sono un testo di cui bisogna capire il significato letterale, ma è considerato
come un organismo vivente, composto da parti che bisogna scomporre ed analizzare
(corrispondenze numeriche, alcuni termini che ricorrono, ecc.). Dio si manifesta anche nelle sue
creazioni, quindi anche nell’uomo (che è immagine e somiglianza di Dio) e dunque la Kabbalah
indaga pure la figura umana. Dio, infine, manifesta la sua potenza attraverso il popolo di Israele, il
popolo eletto, e dunque la Kabbalah indaga pure questo aspetto. Viene usata l’immagine del
corpo umano per visualizzare le sefiroth oppure l’uso dell’albero (c’è la radice invisibile
dell’albero e poi ci sono tutti i rami che sono le sefiroth).
Ora si parla del rapporto tra simbolo e immagine nel cristianesimo antico. Nel mondo cristiano c’è
un abbondanza di simboli a differenza del mondo ebraico. Il punto di riferimento sono le sacre
scritture; nel cristianesimo primitivo però ci sono due problemi: le scritture devono essere
accessibili (capire il contenuto) e devono essere comunicabili (al pubblico); si risolve a queste due
problematiche con l’interpretazione, quindi l’esegesi. Per questo si affinano tre tecniche: la prima
viene fatta risalire al giudaismo rabbinico (i rabbini davano molto peso all’interpretazione delle
scritture e analizzavano in maniera minuziosa e poi gli associavano a degli aneddoti non presenti
nella Bibbia per rendere più chiara l’interpretazione) e questo serve a mettere in evidenza il
significato letterale della Bibbia; il secondo tipo di esegesi è tratto dall’ellenismo (i greci
utilizzavano l’allegoria e già nel giudaismo si diffonde l’uso dell’allegoria); la terza forma di esegesi
non c’era nel mondo ebraico, ed è l’interpretazione tipologica (tutto quello contenuto nell’Antico
Testamento trova la sua realizzazione nel Nuovo Testamento: la vita di Cristo è un adempimento
delle promesse dei profeti dell’Antico Testamento oppure l’antico testamento è una
prefigurazione di Gesù; ad esempio c’è l’immagine del serpente di bronzo che si riferisce a quando
gli ebrei sono disperati e dispersi nel deserto e Dio per punirli manda dei serpenti velenosi e gli
uccidono; a questo punto Dio dice di ergere un serpente di bronzo e quando gli ebrei rivolgeranno
lo sguardo verso questa statua allora guariranno; i cristiani lo interpretano accostando la statua
del serpente con la crocefissione di Cristo, quella statua è dunque una prefigurazione della vita di
Cristo). Queste tre interpretazioni già premettono una lettura di tipo simbolico; questa esegesi si
sviluppa con la letteratura e con l’arte che esprimono l’apparato simbolico delle sacre scritture
con immagini. Il primo simbolo del cristianesimo è il Pesce: è scritto in greco e la prima lettera è
una i e corrisponde a Iesus (Gesù), la seconda è una chi di Christos, la terza una theta di theus (di
Dio), la quarta è una ypsilon di ulios (figlio) e l’ultima è un s di soter (salvatore); i cristiani primitivi
riconoscono se stessi in questo simbolo del pesce; Gesù spesso presenta i suoi seguaci come
pescatori di uomini; il pesce si trova nell’acqua che per i cristiani rappresenta l’acqua viva (già
nell’ebraismo si trova) che si differenzia dall’acqua morta (quella stagnante), infatti Dio è sorgente
di vita; Gesù disseta con l’acqua viva. Il secondo simbolo dei cristiani è la Palma: viene dal mondo
ebraico, dove una delle principali festa era la festa dei tabernacoli (festa delle capanne), una festa
legata alla mietitura e sta a indicare che Dio provvede ai bisogni del suo popolo quando si trovava
nel deserto; durante questa festa si costruiscono delle capanne dove si mangia e si dorme; veniva
svolta una processione intorno ad un altare dove i fedeli camminavano con ramoscelli vari tra cui
quelli di palma; nella costruzione delle capanne risiedeva la speranza di raggiungere la terra
promessa; le palme sono quindi collegata alla realizzazione di questa promessa, dell’escatologia
quindi; inoltre Gesù entra a Gerusalemme con un asino e la folla lo accoglie agitando delle palme
(da qui la domenica delle palme); la folla che accoglie Gesù con le palme sta a significare proprio
l’attesa del salvatore che è finalmente arrivato; nell’Apocalisse nel Nuovo Testamento si trovano
delle figure di martiri che portano delle palme; la palma quindi diventa il simbolo del martire per i
cristiani. Il terzo simbolo è la Corona: il riferimento risiede sempre nella festa delle capanne, dove
venivano create delle corone di foglie con le quali ci si addobbava per celebrare la festa; la corona
quindi rientra nello stesso ordine dei significati della palma; anche nell’Apocalisse si spiega che chi
rimarrà fedele riceverà la corona; la corona è però legata anche al mondo greco-romano (al
contrario della palma che è legata solo al mondo ebraico), infatti le corone nel mondo antico
erano utilizzate come premi ed è collegata quindi al prestigio (utilizzata spesso per chi vinceva le
gare atletiche ad esempio); nel Nuovo Testamento la corona si trova in Paolo di Tarso mentre
parla ai corinzi (Corinto era una città dove si svolgevano i giochi istrici, meno importanti delle
olimpiadi ma comunque importanti) e dice che allo stadio tutti corrono ma solo uno viene
premiato e quindi Paolo esorta i cristiani a correre per ottenere il premio, dopo dice che il premio
che ottengono gli atleti è una corona ma corruttibile mentre i cristiani si impegnano per ottenere
una corona eterna (quella della vita eterna nel Paradiso); la corona anche qui diventa un simbolo
del martire. C’è poi una serie di simboli in ambito cristiano legati all’ambito animale; c’è un testo
che tratta questi simboli che si chiama Fisiologo che è un repertorio di simboli risalente al III
secolo d.C. che tratta di simboli della fauna, flora e mondo minerale; qui vengono uniti degli
elementi del Antico e Nuovo Testamento a degli elementi del mondo classico. C’è il simbolo della
Fenice: è un’animale che troviamo già nella simbolica greca e si trova anche nella simbolica egizia;
è l’uccello in grado di rinascere dalle ceneri; rappresenta dunque la resurrezione di Cristo e dei
cristiani. Il secondo animale è il Leone: lo associamo a San Marco; in Occidente è il simbolo
dell’evangelista Marco, in Oriente è il simbolo di Giovanni; il leone nell’Apocalisse è il simbolo di
Cristo, mentre nelle lettere di Pietro è il simbolo del diavolo (come il serpente di bronzo e il
serpente di Adamo ed Eva); il Fisiologo spiega che in una credenza popolare il leone dorme e
veglia allo stesso tempo; il leone è quindi un simbolo della vigilanza, il cristiano deve vigilare
costantemente perché Cristo può arrivare da un momento all’altro; un’altra credenza spiega che i
figli della leonessa nascono morti ma dopo tre giorni sono risvegliati dal padre, quindi qua il leone
simboleggia la resurrezione (Cristo risorge dopo tre giorni perché il Padre lo risveglia). Il terzo
animale è l’Aquila: in Oriente è il simbolo dell’evangelista Marco, in Occidente di Giovanni; una
credenza spiega che quando un’aquila è troppo vecchia la sua vista comincia ad offuscarsi quindi
si avvicina troppo al Sole, la brucia e la fa ringiovanire (un po’ come la Fenice), dunque
simboleggia l’immortalità. Il quarto è il Pavone: il pavone ha una carne incorruttibile secondo il
Fisiologo, rappresenta dunque l’immortalità dell’anima. Il quinto è il Cervo: il cervo anela
all’acqua così come il fedele anela al Signore, è dunque simbolo dell’anima che va verso Dio; il
fisiologo spiega che il cervo uccide i serpenti dopo averli stanati con il soffio, e la stessa cosa
farebbe Dio con il Diavolo. L’ultimo animale è il Pellicano: lacera le proprie carni per sfamare i
piccoli con il sangue, così come Gesù dà il suo sangue per la vita dei fedeli (ha accettato di
morire); inoltre dal costato di Gesù esce l’acqua è il sangue, così come nel pellicano; il simbolo ha
dunque a che fare con il sacrificio. Il simbolo della Croce è il simbolo più importante per i cristiani,
ma non ha un’origine chiara: noi intendiamo la croce come patibolo dove Gesù è morto e diventa
quindi simbolo della morte di Gesù; però per i cristiani antichi, Gesù sulla croce non viene mai
rappresentato, ma viene rappresentato il suo patibolo ma non direttamente, quindi dei simboli
che rappresentano la croce; questi simboli sono vari, abbiamo ad esempio un ancora della nave,
l’albero della nave, l’aratro, l’albero, lo stendardo, il volto umano e il corpo umano con le braccia
tagliate; un secondo insieme di simboli che hanno a che fare con la croce si hanno con i simboli
cruciformi, segni che hanno la forma della croce ma non rappresentano il patibolo, questo perché
la croce è un segno molto semplice e geometrico e quindi è facilmente usato per simboleggiare più
cose, quindi a volte non simbolizza il patibolo di Cristo ma comunque simboleggia i cristiani; una
di queste croci ha un asterisco, questo asterisco si chiama cristogramma stellare (perché ha forma
di stella); oppure quella con una P (che è una rho, quindi una r) e una X al fondo (una chi, che sta
per cristo quindi); questi simboli però non si sa se rappresentano la croce come patibolo, ma
rappresentano la croce come Cristo. Il segno della croce (il gesto della preghiera) nasce da un
segno che risaliva già dal mondo ebraico e si faceva sulla fronte delle persone che aveva una
forma di T (Tav in ebraico, la T): chi sarà fedele e sarà assegnato al destino escatologico avrà il
segno Tav sulla fronte. La croce intesa come patibolo di Cristo arriva solo il IV/V secolo d.C.: si è
trovata una raffigurazione dove Gesù è al centro in croce affiancato dai due ladroni; si inizia a
rappresentare Gesù crocifisso così tardivamente perché la croce nel mondo romano aveva il
significato di supplizio infamante; a fine IV secolo l’imperatore Teodosio abolisce la pena per
crocefissione e da qui la croce inizia ad essere rappresentata come patibolo; da qui anche la croce
senza Gesù crocifisso è automaticamente associata alla croce come patibolo. Il simbolo della croce
è presente anche nelle America nelle civiltà pre-colombiano: si è quindi pensato che la croce sia un
simbolo universale è che quindi anche la croce cristiana lo sarebbe.

Lezione 18:

Nel mondo islamico abbiamo lo stesso problema del mondo ebraico per quanto riguarda le
immagini: il corano presenta poche allusione all’arte e non contiene una condanna esplicita come
nella Bibbia. Oltre al corano però ci sono i detti e fatti di Maometto: tra questi ci sono delle
condanne alle immagini; ad un certo punto Maometto vede uno scudo con un montone
rappresentato, questa immagine gli dispiace allora Dio elimina il montone dallo scudo; oppure,
quando Maometto conquista la Mecca vede che ci sono molte immagini e le fa cancellare tutte
tranne però quelle di Maria e Gesù verso le quali nutre rispetto. Queste non sono condanne
esplicite ma si nota l’avversione verso le immagini. Ci sono diverse ragioni per queste avversioni:
la prima è perché l’Islam riprende anche la Bibbia su alcuni punti e dunque l’avversione pure; la
seconda riguarda il lessico, infatti il termine con il quale si indica l’atto creativo di Dio è sinonimo
dell’atto dell’artista che modella la sua figura e dà che questo deriva l’idea che l’attività artistica
supera i limiti che l’Islam pone tra umanità e divinità (solo Dio quindi può creare opere
permanenti); la terza sta nella volontà di evitare l’idolatria per gli oggetti che circolavano; la
quarta perché l’Islam si vuole differenziare tra gli altri popoli insistendo su questo divieto.
Nell’Islam è fondamentale la letteratura giuridica del testo sacro e questa dice che possono essere
rappresentati gli esseri non viventi ma non quelli viventi (ad eccezione delle bambole o delle
rappresentazioni su alcuni supporti; dipende questo perché ci sono molte varianti culturali sui
limiti). Questo però non vuol dire, come per gli ebrei, che non ci siano immagini letterarie: c’è un
termine coniato dagli islamici per indicare l’ambiguità e la simbolicità di alcuni passi o parole;
inoltre nel corano ci si esprime molto con parabole e racconti, rendendoli così suscettibili a
interpretazione (ad esempio la storia di Mosè dove il pesce che si è portato dietro per mangiarlo
riprende e vita e si getta nel fiume quando Mosè arriva vicino all’acqua: questo ha a che fare con
l’acqua viva; oppure con i 7 racconti di Efeso dove 7 cristiani si addormentano in una grotta e si
risvegliano 200 anni dopo sotto un imperatore che non li perseguitano più per essere cristiani,
questo sta a significare l’immortalità).
Per gli Sciiti si utilizzano più simboli rispetto al normale mondo islamico. Nasce da una scissione
dell’Islam ed avviene poco dopo la morte di Maometto: ritengono che i successori legittimi del
profeta (quindi capi della comunità) siano Ali (genero di Maometto) e i suoi successori diretti; poi
c’è anche la corrente dei Sunniti. Il problema degli Sciiti è che una volta che muore Maometto, la
rivelazione profetica si è chiusa perché Maometto è il sigillo dei profeti (gruppo che chiude il ciclo
dei profeti, è l’ultimo dei profeti); nonostante questo però la storia religiosa dell’umanità prosegue
perché si devono studiare le sacre scritture (continuano ad essere fonte di significato): le scritture
hanno un significato simbolico nascosto ed esoterico (oltre a quello letterale esplicito) e questi
possono essere esplicitati solo dai discendenti di Ali (non possono farlo tutti); questi discendenti si
chiamano Imam e sono 12, il dodicesimo però è scomparso e si ritiene che tornerà solo alla fine
dei tempi e rivelerà completamente i sensi occulti delle scritture. I frutti di questa valorizzazione
del simbolo si hanno in ambito filosofico e in ambito mistico. Nel primo ambito Avicenna è
importante: ognuno di noi ha una sua essenza e questa è un’immagine che portiamo dentro di
noi; l’uomo vive nelle sue esperienze una realtà che è difficilmente controllabile, ma questa
immagine ci consente di dare senso a quello che c’è fuori di noi; per questo bisogna ritrovare noi
stessi per dare senso a ciò che è al di fuori di noi; questo cammino è lo stesso di quello delle sacre
scritture per interpretarle; questo cammino è costellato da simboli (questi sono le tappe del
cammino); un esempio lo abbiamo con il simbolo degli uccelli che rappresenta l’anima. Il secondo
ambito è quello mistico; la mistica mussulmana si chiama sufismo: è un tipo di approccio che
tende all’accostamento dell’esperienza umana a Dio fino a raggiungere delle forme di
identificazione (per questo è vista con sospetto, perché per i mussulmani la distanza tra Dio e
umani è incolmabile) e per questo valorizzano l’aspetto simbolico; questa prospettiva è stata
messa in luce da Orben (studioso di storia della filosofia islamica) che prende spunto da
Sohravardi che è un autore del XII secolo; Sohravardi dice che esistono tre mondi: quello sensibile
(a questo corrisponde la nostra corporeità e lo cogliamo con i cinque sensi), quello delle pure
intelligenze degli arcangeli (il mondo soprasensibile che possiamo cogliere con l’intelletto; questo
è il mondo spirituale; l’intelletto si stacca dal sensibile ad arriva all’astratto) e infine quello delle
anime e degli angeli (è intermedio tra i primi due; riguarda l’anima e non lo spirito; a questo
mondo ci arriviamo con l’immaginazione); Orben utilizza l’espressione mundus immaginalis
(immaginale: non è l’immaginario nel senso di libera attività della nostra mente non reale, quello
immaginale non è irreale ma è profondamente reale; nel mondo dell’intelletto manca la
concretezza delle immagini, invece nel mondo immaginale queste ci sono); questa realtà
intermedia che è il mondo immaginale è appunto il mondo dei simboli.
Il primo dei luoghi dei simboli lo si trova nella scrittura e nelle lettere; il presupposto di questo sta
nel corano: questo è la parola di Dio espressa dall’eternità; il corano è dunque eterno ed assoluto
e vale indipendentemente dalle sue manifestazioni sensibili; il corano è scritto però in arabo, a
capitoli, frasi, parole e lettere, dunque la sacralità del corano riverbera in ognuna di queste
componenti (indipendentemente che siano nel corano o meno) e per questo la lingua stessa ha
valore religioso in quanto tale (dunque ha valore simbolico); la struttura del linguaggio
corrisponde alla struttura dell’universo ed ogni termine ha valore sacrale e per questo si sviluppa
una scienza delle lettere; la prima lettera dell’alfabeto Alif è anche il numero 1, indica la
verticalità (è una linea retta) ed è quindi un simbolo di rettitudine, siccome è la lettera di Allah
simboleggia anche Dio, il numero 1 della Alif indica ancora Allah attraverso il suo attributo di
unicità (esiste un solo Dio) e infine indica anche simbolicamente il Diavolo (il nome del Diavolo è
Iblis) perché è un angelo che ha rifiutato di obbedire a Dio che ha comandato a tutti gli angeli di
prostrarsi davanti ad Adamo il primo uomo infatti Alif indica anche la verticalità nel senso si
rifiutare di piegarsi. Il secondo luogo dei simboli è quello di un’arte senza figure: sono
decorazioni con tanti motivi geometrici o calligrafici; quest’arte si diffonde perché non si possono
raffigurare immagini di esseri viventi e perché rappresenta simbolicamente Dio stimolando in chi
vede l’immagine un’intuizione di Dio e della sue relazione con gli uomini, un’intuizione delle
caratteristiche di Dio; uno delle caratteristiche è la sua infinita e dunque quest’arte allude
all’infinito (obbliga lo spettatore a passare dal particolare al generale continuamente, alludendo
così all’infinito). Il terzo dei luoghi dei simboli è quello dei tappeto: l’uso del tappeto precede
Maometto e risale alle popolazioni nomadi; il tappeto è presente all’interno del corano in una
metafora (Dio ha disteso per noi la terra come fosse un tappeto); il tappeto ha di solito un centro
che a volte è verticale (questi sono i tappeti da preghiera diretti verso la Mecca); le decorazioni ai
bordi hanno la funzione di circoscrivere uno spazio sacro; la nicchia rappresenta la direzione della
Mecca (per l’immagine del prof nella lezione); il tappeto ha anche la funzione di non sporcarsi
dopo essersi purificati; il tappeto con la nicchia centrale indica un centro sacro. L’ultimo simbolo
è quello della Mezzaluna: si tratta della luna crescente che quando compare nel cielo segna
l’inizio del Ramadam (che poi si conclude con la Luna Nuova); si ritrova anche nel mondo
Ottomano però, dove il simbolo è legato alle dinastie ed ai trionfi della famiglia; viene poi ripresa
dalla Turchia e diventa poi un simbolo generale dell’Islam (soprattutto per la semplicità e la
geometricità del simbolo).

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