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Oralità dell'immagine Rosario

Perricone
Antropologia
Università degli Studi di Palermo
6 pag.

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ORALITA’ DELL’IMMAGINE – Etnografia visiva nelle comunità rurali siciliane
Rosario Perricone
Prefazione
Il film Fahrenheit 451 di Truffaut (dall’omonimo romanzo di Bradbury) racconta di un mondo in cui la cultura passa
esclusivamente attraverso la TV e i cittadini apprendono solo tramite questo mezzo. È vietata ogni altra forma di
informazione, i libri vengono bruciati e chi li legge è perseguitato: si crea quindi una comunità di uomini-libro che, dopo
aver letto, brucia i testi per non essere scoperto, diventando l’unica sopravvivenza di quella storia. La cultura acquisita
attraverso i libri viene trasmessa ai bambini che, a loro volta, dovranno trasmetterla ai loro discendenti: infatti, il film si
chiude con un uomo-libro sul letto di morte che recita al nipote i passi del testo a lui affidato, il bambino ripete i versi
appena appresi come per memorizzarli.  questo è un esempio di Rito Iniziatico: la morte dell’uomo-libro coincide con la
morte simbolica del “bambino” che diventa uomo e uomo-libro.
Il film, inoltre, evidenzia la credenza che “i morti rinascono attraverso i bambini”: questa relazione la celebriamo anche
nel giorno dei morti (2 Novembre) con il tradizionale cannistru, un cesto ricolmo di dolci duri (ossa di morto), che sono un
dono dei morti al bambino. Particolare importanza riveste anche il pupo di zucchero (pupaccena), simulacro del morto. La
relazione morti-bambini è evidente anche nelle fotografie antiche dei piccoli che, sul petto, portano una spilla con il
ritratto fotografico del nonno morto di cui hanno ereditato il nome. È una rinascita costante.
Nel romanzo, i libri muoiono e rinascono attraverso la memoria sottoforma di parola-immagine. Le pratiche comunicative
visuale e orale sono interdipendenti.
Coesione testuale: proprietà intrinseca al testo, mette in relazione le parti del testo.
Coerenza testuale: unità di senso che viene costruita attraverso un processo di interpretazione soggettiva.
Tradizione orale e scritta non sono opposte, ma camminano insieme:
 Il “mondo iconico umano” è connesso a al “mondo verbale umano”;
 La “semantica visiva” dipende dal sistema linguistico che l’ha generata.
La nostra epoca è impregnata di immagini e l’oralità è tornata ad assumere un ruolo centrale nella comprensione del
codice visivo: cioè, noi comprendiamo le immagini che guardiamo in funzione della cultura orale che le ha generate.
Viviamo nell’epoca dell’oralità visualizzata. I gruppi umani di oggi si organizzano attraverso una commistione di oralità,
iconicità e scrittura. L’oralità dell’immagine è connaturata al nostro quotidiano, la analizzeremo a partire dall’oggetto
Fotografia dal punto di vista antropologico.

Introduzione
“Il folcloristico è l’essenzializzazione del folclore”. Rosario Perricone
Fino a qualche tempo fa in Sicilia, si credeva che i vecchi che si facevano fotografare sarebbero morti subito perché la
fotografia avrebbe rubato loro l’anima e facevano dei gesti scaramantici; ad esempio la foto del 1930 di Domenico
Lemmo documenta due sopravvivenze, quella della “mano in fica” e quella dell’ombra e del riflesso (che si riferisce
all’anima). Farsi fotografare significa perdere la propria anima in quanto chi possiede quella foto potrebbe esercitare su di
essa qualsiasi azione, che si rifletterebbe per effetto magico sulla persona (Frazer, principio che il simile produce il simile).
In Sicilia le immagini fotografiche venivano effettivamente utilizzate, insieme a parti intime della persona ritratta, per
legature d’amore o per magie dannose: questo perché nella credenza comune l’anima è legata al corpo e da essa dipende
la vita e l’identità della persona; la foto è quindi copia di spirito in corpo.
I modi di rappresentazione ed il loro contenuto effettivo rientrano non solo nella tradizione figurativa ma, anche nel
campo della tradizione culturale; questi studi si raccolgono sotto l’etichetta Iconic Turner, che rientra nel più vasto campo
della Visual Culture: il nostro contemporaneo vede una predominanza del Visuale, la “visualità” è radicata nel nostro
quotidiano ed è uno dei processi di costruzione del mondo, anche dal punto di vita sociale. La Cultura Visuale è uno
strumento per leggere e interpretare il mondo e, in questo contesto, le fotografie non sono oggetti inerti al nostro
sguardo ma soggetti animati, con personalità e desideri: non dobbiamo chiederci “cosa significano” ma “cosa vogliono?”.
Se consideriamo l’immagine fotografica come “oggetto”, ci rendiamo conto che essa ha un potere psicologico e sociale;
questo “oggetto” può diventare una persona, soprattutto nell’ambito di un’azione rituale. Ne è un esempio l’immagine di
un familiare morto che può diventare “vivente”: è una presenza, ci parliamo.  questa situazione quotidiana è un rituale.
Il Rito è un modo di approcciare il mondo, possiamo sperimentarlo anche senza comprendere il suo significato, è fatto di
azioni più che di parole ed è connesso al concetto di “agentività” (agency - Giddens): ovvero, le azioni delle persone sono
connesse alla struttura sociale. Così, anche l’oggetto ha una sua agentività e si configura come oggetto-persona. Di
seguito, i tre capitoli che compongono il libro sono: Immagine-oralità-narrazione dove si discute dell’oralità come atto
performativo, immagine-mondo-rappresentazione dove si tenta una definizione del concetto di immagine e, infine,
immagine-medium-corpo dove si analizza un corpus di fotografie.

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Immagine-oralità-narrazione Cap.1
Nel libro Metafisica Aristotele afferma che tutti gli uomini tendono al sapere, segno ne è l’amore per le sensazioni:
soprattutto la sensazione della vista, che ci fa conoscere e mostra le differenze tra le cose. È una forma di apprendimento.
Nella Grecia antica, cultura ad oralità primaria, le forme di conoscenza sono le sensazioni, la memoria, l’esperienza, l’arte
e la scienza, queste ultime due portano alla sofia, sapienza. La sapienza si ottiene passando dal che al perché delle cose.
Immagine e memoria sono due cardini del ragionamento aristotelico e si configurano in mythos e logos, questi negli studi
ottocenteschi erano considerati due opposti, in realtà sono due elementi che si integrano e si sorreggono a vicenda:
infatti, nelle culture orali non sussiste alcun effetto sulle capacità dell’uomo di riflettere razionalmente sulla struttura del
reale. mythos-oralità-narrazione: Nelle culture ad oralità primaria la memoria (Mnemosine, madre di tutte le Muse) gioca
un ruolo fondamentale nella trasmissione del sapere. Basti pensare alla “questione omerica”. I poemi omerici giunti a noi
in forma scritta sono in realtà una testimonianza della cultura greca orale.
La recitazione aveva un carattere quasi performativo “verbomotorio” ed era mnemotecnica: parole e suoni scaturivano
dalla memoria ed erano composti per imprimersi nella memoria dell’uditorio.
Comporre oralmente comportava nel cantore un assorbimento totale, un’immersione mentale nell’atto della recitazione:
Platone lo descrisse con il termine mìmesis = l’imitazione di un mythos, la sua rappresentazione tramite l’identificazione
totale nel personaggio e le sue azioni. La recitazione del mythos, i suoni, le date, scaturiscono tutte dalla memoria; il tutto
era naturalmente strutturato in un inizio, una parte centrale e una fine del racconto. Episodio dopo episodio, il cantore
restava assorto, intrappolato nella sua parte come se, in quel momento, egli esistesse solo nel mythos.
Per imprimersi nella memoria queste composizioni avevano uno stile formulare ma, avevano anche altri tratti
caratteristici riassunti nello schema di Ong:
 Paratattico invece che Ipotattico: struttura di frasi coordinate e non subordinate;
 Aggregativo piuttosto che analitico: epiteti come l’astuto Odisseo o Achille piè veloce;
 Ridondanza o “copia”: è il principio dell’eco. Si tratta di frasi ripetute che diventano così formule, utilizzate dal
cantore per introdurre lo stesso personaggio o richiamare alla memoria del pubblico una stessa ambientazione;
 Conservatore e Tradizionalista: la reiterazione delle stesse storie crea una mentalità;
 Vicino all’esperienza umana: i racconti sono in riferimento al quotidiano degli uomini, anche nelle battaglie;
 Dal tono agonistico: la parola è un’arma, è dialettica, e dall’esito dei discorsi dipende l’esito delle decisioni;
 Enfatico e partecipativo: il cantore è identificato nel mythos (Platone mìmesis), nella storia e nel protagonista;
 Omeostatico: vive in equilibrio con sé stesso eliminando le memorie precedenti dalla percezione del presente.
La tradizione viene insegnata tramite l’azione, che come non è solo verbale ma è anche fisica (carattere verbomotorio).
Inoltre, il linguaggio e la forma dei poemi epici sono così definiti per fungere da strumento di comunicazione. La
narrazione si rivolgeva a una società che vi rivedeva sé stessa come in uno specchio, chiaramente si trattava di immagini
idealizzate, affascinanti e facili da ricordare, con messaggi impliciti ed espliciti che esaltavano il passato, la civiltà
contemporanea e le norme che la regolavano. All’interno delle composizioni convivono messaggi di tipo umano, sociale,
politico e religioso. Il racconto non dipende esclusivamente dalla logica del discorso ma, anche dal contesto in cui viene
enunciato (struttura prammatica – contesto di fruizione).
logos-scrittura-ragionamento: secondo Havelock (noi abbiamo letto Arte e Comunicazione nel Mondo Antico - Estetica)
l’introduzione della scrittura nelle società orali ha prodotto una nuova forma di oralità: le culture ad oralità secondaria.
Queste sono diverse da quelle a oralità primaria perché costituiscono gruppi più ampi di persone, un villaggio globale, che
impiega sia l’oralità che la scrittura come strumento del vivere quotidiano. Mutano i paradigmi della società.
Platone, che impiega il termine mìmesis per esprimere il rapsodo del cantore, tratta allo stesso modo la poesia e la pittura
definendole mìmesis. L’imitazione che fa perdere il senso della differenza e del riferimento, che inganna. Platone diffida
della narrazione mimetica ma non la rifiuta del tutto: in realtà quello che egli condanna è il procedimento educativo,
perché il raccontare in forma di mito equivale a “mostrare per immagini”, invece il logos si rapporta al concetto.
In realtà il passaggio non fu netto, non si passa da orale a scritto nell’immediato ma compaiono delle forme intermedie
che potremmo considerare anticipatorie, ad esempio l’oralità dialettica di Socrate. Egli passa infatti da una oralità
mimetico-poetica ad una oralità concettuale-dialettica e che Platone ritiene superiore alla scrittura.
Platone ha considerato la sua intera opera scritta come un meta-mito, come narrazione che non giunge alla perfezione, a
cui invece tende attraverso l’oralità della dialettica. Egli si è spesso espresso sia per concetti che per immagini (mito della
caverna, mito dell’Iperuranio): il discorso mitico diventa il tentativo di tradurre i rapporti fra immagini in rapporti fra idee.

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Immagine-medium-corpo Cap.3
I° fotografia e memoria collettiva
L’opposizione fra tradizione orale e scritta è ingannevole: pone l’orale come contrario dello scritto e non ne comprende il
modo funzionale specifico; inoltre, non comprende che tra orale e scritto ci siano delle situazioni intermedie. Carlo Severi
afferma che si verifica un’articolazione particolare, in chiave mnemonica, tra certe immagini e certe categorie di parole.
Questa articolazione avviene tramite una particolare forma dell’uso linguistico: l’enunciazione rituale. Infatti, vi sono
tradizioni iconografiche fondate sull’uso della memoria rituale. Questa è una situazione intermedia tra orale e scritto, e
fornisce la chiave per comprendere alcune pratiche sociali legate alla memoria e alla costituzione di una tradizione.
Il fenomeno elementare che sta alla base della relazione immagine-parola è il legame mentale: ne emerge una forma
letteraria diversa da quella narrativa, una forma-canto dove immagine e parola hanno lo stesso peso logico e poetico.
Dall'analisi della forma-canto si è compreso che le arti della memoria non occidentali si fondano su due criteri psicologici:
l'elaborazione di una salienza (controintuitività) e l'organizzazione delle immagini in sequenze ordinate, questo doppio
criterio risulta di grande efficacia mnemonica. Inoltre, le arti della memoria sono tutte rituali, sempre legate al contesto
cerimoniale: nelle tradizioni dove la memorizzazione è affidata all'iconografia, si controlla parimenti l'uso del linguaggio.
Potremmo definire queste immagini iconografiche una “memoria mostrata”, che non rappresenta i suoni del linguaggio
ma veicola una serie di enunciazioni a livello mentale, preservando una traccia della memoria comune: quella del rito.
Così le fotografie sono entrate a far parte del mondo popolare, e queste immagini veicolano la memoria attraverso diversi
orizzonti di senso: dal punto di vista antropologico, l'antropologia visuale consiste sia nell'interpretazione visuale della
realtà data che nell'interpretazione dei dati visuali propri di quella realtà.
Una fotografia non è “la realtà dei fatti” ma una “rappresentazione dei fatti” e ha diverse funzioni: può certificare un
momento oppure essere conservata per poi recuperarne il contenuto visivo che in questo modo è sempre disponibile. Il
significato di una foto non è intrinseco ma emerge dal processo di osservazione; esiste un codice primario universale
legato alle leggi della percezione ed un codice secondario che varia in base alla tradizione storico-culturale che ha
prodotto l'immagine. Quando si parla di “archivi” fotografici, bisogna distinguere tra le foto realizzate dagli etnografi per
documentare e quelle realizzate da fotografi dilettanti con altri intenti e che successivamente sono diventate documento.
Le collezioni private di foto familiari rientrano in questo secondo insieme, e possiamo distinguere ritratti e autoritratti.
La categoria dei ritratti raccoglie le fotografie che sono una testimonianza del modo in cui i soggetti e gli eventi fotografati
venivano visti dall'interno.
La categoria degli auto-ritratti ci mostra invece il modo in cui i soggetti, autori delle fotografie, “si vedevano” e vedevano
il loro mondo: questo è importante, perché per l'antropologia la fotografia è un costrutto simbolico e chi scatta la foto ci
offre una visione personale del mondo.
Analizzando le fotografie d'epoca possiamo capirne i contenuti, le forme e i contesti che, secondo il periodo storico,
hanno caratterizzato la vita e l'attività dell'uomo. Le immagini sono punto di partenza e di arrivo della ricerca, referente
unico della realtà rappresentata. È importante comprendere l'interazione tra osservatore e oggetto osservato.
Richard Chalfen ha utilizzato il metodo della foto-intervista come strumento per comprendere l'interazione tra i due
soggetti in campo. Con lui la fotografia assume il ruolo di forma culturale, manufatto culturale e mezzo di comunicazione.
Ha svolto le sue ricerche tra un gruppo di Giapponesi trapiantati in America, affrontando il tema di “cosa avviene alle
persone quando guardano vecchie foto di famiglia”: ha scoperto che quando guardiamo queste foto crediamo di
ricordare lo specifico istante in cui sono state fatte, invece ricostruiamo il ricordo in base alla nostra identità attuale. La
visione di queste foto inoltre genera delle conversazioni in cui ognuno espone il proprio punto di vista: per l'antropologo è
importante assumere uno sguardo polifonico (Massimo Canevacci), aperto ai diversi punti di vista e ai vari livelli di lettura
di un'immagine, da quelli visibili a quelli invisibili. In tale ottica la foto non è inerte e statica, è animata e ricca di contenuti.
La dinamica del fotografare è un “fatto sociale totale” che mette in scena la società e la cultura nella sua globalità.
Nel caso del Ritratto di Famiglia è il concetto di auto-ritratto e auto-rappresentazione che viene valorizzato; ciò diventa
ancora più emblematico se si tratta di un autoscatto: si eleva l'auto-rappresentazione all'ennesima potenza.
L'antropologa americana Margaret Mead ha osservato che l'immagine fotografica è importante proprio perché mostra la
“verità di quanto sta dentro”, nella mente e nelle parole delle persone. Come ogni prodotto culturale rispecchia il
pensiero di chi l'ha generato e, per comprenderlo, è necessario ricostruire le procedure mentali che lo hanno prodotto.
Inoltre, se consideriamo il fatto che la realtà sensibile non ha mai un significato univoco, l'immagine fotografica
(rappresentazione iconografica) è ancora più ambigua. L'immagine iconica va quindi interpretata sia per ciò che
rappresenta - livello denotativo - sia per quello che significa - livello connotativo -.

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II° Riti di passaggio in immagini
Fin dalla sua invenzione, la fotografia si è diffusa sia nei piccoli paesini che nelle grandi città ritraendo le persone, le feste
e le grandi cerimonie laiche; infine, è entrata a far parte intimamente della vita delle famiglie. Le foto esaminate nel libro
sono appunto Ritratti di Famiglia, ricavate da collezioni private appartenenti a famiglie rurali di diverse località siciliane,
scattate tra la fine dell'800 e i primi decenni del '900, ritraggono individui, gruppi e momenti cerimoniali. Sono scattate
per lo più all'esterno e i soggetti ritratti indossano i vestiti delle occasioni festive.
Gli autori delle foto sono soprattutto professionisti, studi fotografici o fotografi ambulanti: quest'ultima categoria si era
diffusa in Sicilia dopo l'invenzione della gelatina fotosensibile, grazie al quale ogni dilettante poteva ottenere ottimi
risultati, e grazie alla comparsa di macchine fotografiche sempre più manegevoli. Nel 1890 nascono Agfa, Zeiss e Kodak.
Anche la borghesia si avvicina alla fotografia, attratta dalla sua potenzialità espressiva e documentaria; vi sono fotografie
anche dei maestri del Verismo Verga, Capuana e De Roberto e di alcuni sacerdoti intellettuali come Calogero Franchina e
Michele Palminteri (che si accostarono alla fotografia e la praticarono contemporaneamente all'attività di sacerdote).
Queste immagini rispecchiano la concezione del mondo e della vita della società tradizionale e rurale siciliana:
rispecchiano uno schema già consolidato nella vita delle persone (dalla culla alla bara), scandito dai suoi “riti di passaggio”
con la famiglia al centro del contesto sociale.
Ci si rivolgeva al fotografo per documentare i momenti importanti della vita, dalla nascita alla morte, per suggellare la
gioia o colmare lo strazio della lontananza e della separazione: per cui spesso troviamo fotografie di gruppi parentali,
insegne di identità familiare, che testimoniano un legame, travalicano i limiti della lontananza o quelli della morte
(metafotografie - foto con foto - o fotomontaggi, con parenti emigrati all'estero o con genitori\congiunti defunti).
Nei possessori che visionano le fotografie si innesca sempre un processo memoriale, si generano conversazioni sulle foto.
Oggi abbiamo una maggiore consapevolezza di come cultura e comunicazione siano intimamente collegate e di come la
“comunicazione per immagini” consolida le reti sociali di tipo relazionale: le fotografie anche dopo la morte degli individui
ritratti continuano a raccontare una storia. Così le immagini del passato si stemperano nella voce del narratore presente e
mettendo in connessione il rappresentato al vissuto, il soggetto fotografato al contesto sociale, la biografia alle modalità
di committenza e fruizione dell’immagine, riusciamo a comprendere la densità relazionale a cui queste immagini rinviano.
Una foto è un “oggetto biografico” che innesca una narrazione attraverso il ricordo del suo possessore. Per ricercare le
“connessioni” ed esplicitare gli aspetti contestuali della fotografia, nel libro si ricorre al metodo della foto-intervista.
L'originaria superstizione siciliana riguardo al farsi fotografare spesso si rivela fondata, nel senso che alcune di queste foto
cadono nell'oblio, con una conseguente “morte” simbolica ed una perdita d'identità: ad esempio quando nei mercati
incontriamo vecchie fotografie che hanno perso le “informazioni di corredo”, nomi e date, e ritornano a essere pure icone
senza identità. Per quanto riguarda le foto analizzate in questo libro ciò non accade, perché gli archivi fotografici familiari
sono ricchi di nomi, contenuti e storie, anche se le persone ritratte non ci sono più.
Le foto qui raccolte mostrano due distinte realtà: quella della borghesia e quella più popolare della vita contadina, sono
quasi sempre scattate all'aperto, presentano i così detti “riti di passaggio” della vita umana e tutti gli individui vestono i
vestiti della domenica e dei giorni festivi.

III° Sponsali e progenie


Il matrimonio è un'istituzione fondamentale delle società studiate dagli antropologi, perché spesso attraverso l'unione
matrimoniale si instaurano alleanze tra gruppi e solidarietà sociale. La famiglia ha un ruolo essenziale e ancora di più certe
figure parentali, come lo zio della sposa (analogia con il mondo romano – avunculus).
Nella comunità siciliana era molto improbabile il matrimonio tra consanguinei o con parenti spirituali (compari e comari),
ma era diffuso il matrimonio tra cugini o, nel caso di uno zio, con la figlia della sorella: per questo motivo a Favara si era
gradualmente perso l'uso della parola “cugino”, sostituita da “nipote”. Un altro fenomeno diffuso era la scelta del
matrimonio in base alla genealogia (un ragazzo doveva sposare la figlia più grande di una famiglia); nel caso in cui la
moglie moriva, il vedovo doveva sposare la sorella della defunta, che era più giovane, questa acquisiva i figli che erano
considerati un capitale di forza lavoro e simbolico.
Il matrimonio è uno dei “passaggi di status sociale” più importanti, se ne fotografavano soltanto i momenti fondamentali:
la foto più importante era quella che ritraeva gli sposi con tutti i parenti davanti al sagrato della chiesa, veniva fatta dopo
la cerimonia, appena fuori dalla porta (che è una soglia) e testimoniava l'intera cerimonia che si era svolta. Quando gli
sposi attraversavano la porta-soglia erano inondati di monete, confetti, semi di cereali e frutta ( ittata di li cunfetti): questi
alimenti sono considerati nucleo di vita (seme) e simbolo di abbondanza ed erano propiziatori per la fecondità di coppia.
Al banchetto matrimoniale si usava donare cereali alla coppia. Anche i romani praticavano questa usanza lanciandoli.
Questi stessi alimenti venivano usati per allestire il cannistru regalato ai bambini per la Festa dei Morti (2 Novembre): ciò
rimarca l'interdipendenza tra la fecondità e la morte, tra il ciclo della vita umana e i cicli vegetativi della natura.

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Il parallelismo continua: banchetto matrimoniale, cannistru, cunsulu funebre: durante il banchetto matrimoniale gli sposi
mangiavano in disparte, non con i parenti, così come durante la veglia funebre, quando è anche vietato cucinare per i
parenti del defunto. Al banchetto matrimoniale si portava alla sposa un osso e scherzando le si diceva “roditi quest'osso”,
riferendosi al membro maschile. Le ossa ritornano nel cannistru come biscotti duri (ossa di morto – mustazzoli), che ne
richiamano la forma e sono composti di due parti di colore diverso: una vuota e friabile bianca che ricorda l'osso e una
dura e colorata che ricorda il midollo, che si mangia succhiando (si credeva che il seme maschile fosse nel midollo).
Alla foto fuori dalla chiesa segue la foto dei due novelli sposi con i vestiti “di li ottu ìorna”: dopo il matrimonio gli sposi
restavano a casa otto giorni, ricevevano le visite dei parenti e non dovevano svolgere nessuna attività manuale; trascorso
questo tempo uscivano solennemente di casa per recarsi in chiesa con un abito nuovo, “ di li ottu ìorna” appunto. Quando
partivano in viaggio di nozze si recavano in qualche studio fotografico della città dove si trovavano e si facevano la foto.
Un discorso a parte merita la mezza-fotografia ritratto (ex foto col vestito degli otto giorni) di Rosalia Buggemi: la foto fu
scattata nel 1913 ca. a Palermo, anno in cui si era celebrato il matrimonio ma, solo dopo 4 anni Rosalia venne a mancare.
Originariamente ritraeva Rosalia insieme al marito Antonino Marrone; quando la donna morì il vedovo si risposò
suscitando l'ira della famiglia della defunta. La condizione di vedovo era infatti considerata permanente e il nuovo
matrimonio non era accettato, a chi si risposava veniva fatto il charivari: antico rituale pubblico di condanna e derisione.
La foto in questione ha subito un charivari iconico: la metà che ritraeva il marito venne infatti tagliata e bruciata dai
familiari di Rosalia: una definitiva separazione e una morte simbolica dell'uomo in questione. Inoltre, proprio perché
raffigura adesso esclusivamente Rosalia, l'immagine transita direttamente dalla foto di matrimonio al ritratto funebre.
Dunque, la funzione dell'oggetto-fotografia rivela la sua essenza, il suo significato e giustifica la sua esistenza.
Dal matrimonio si passa alla procreazione: le nascite vengono salutate con singole fotografie che ritraggono il neonato.
Nell'immagine sono ben visibili i caratteri distintivi, naturali, culturali ed il sesso (i maschi erano ritratti nudi per augurio);
il figlio maschio era importante perché garantiva la trasmissione del nome del padre: secondo alcuni studiosi ciò ha
portato alla creazione dello stereotipo marito-dominante\moglie-sottomessa.
Vi sono poi le foto dell'aggregato domestico, ossia il gruppo che condivide l'abitazione:

• Aggregato domestico semplice – coppia sposata con o senza figli, vedovo\vedova con o senza figli (in ogni caso si
tratta di una unità coniugale, anche se ci sono defunti);

• Aggregato domestico esteso – gruppi formati da una unità coniugale ed uno o più parenti conviventi che non
formino coppie coniugali. L'estensione può essere di 3 tipi:
aggregato domestico esteso ascendente se il parente è più anziano del capofamiglia (genitori, suoceri, nonni, zii)
aggregato domestico esteso discendente se il parente è più giovane del capofamiglia (uno o più nipoti)
aggregato domestico esteso collaterale quando è presente un congiunto (fratello, sorella, cognato, cugino ecc);

• Aggregato domestico multiplo – composto da due o più unità coniugali. Può essere anch'esso suddiviso in 3 tipi:
aggregato domestico multiplo ascendente - unità familiare secondaria più anziana (genitori, suoceri pure con figli)
aggregato domestico multiplo discendente - unità familiare secondaria più giovane (figli con eventuali figli)
aggregato domestico multiplo collaterale - più unità coniugali costituite da fratelli e sorelle sposati o da cognati.

Bisogna considerare che la fotografia veniva scattata anche con parenti non conviventi solo per testimoniare il legame di
parentela, non tenendo conto degli aggregati domestici. Ad esempio nella foto della Famiglia Parrino di Palazzo Adriano,
troviamo ritratti diversi aggregati domestici grazie alla tecnica del fotomontaggio.
Il ritratto di famiglia prevede una precisa disposizione gerarchica del gruppo: i più anziani erano posti al centro, spesso
seduti, alle loro spalle in piedi i figli e le figlie con mogli e mariti accanto, i nipoti ordinati in scala di età e i piccoli sparsi,
spesso in braccio o ai piedi dei nonni. La composizione del gruppo familiare rispecchia la gerarchia sociale, i ruoli e i
legami di parentela; l'immagine è un rituale di consacrazione della famiglia che viene mostrato con orgoglio soprattutto
se si tratta di una famiglia numerosa (più bocche da sfamare ma anche più forza lavoro.

IV° Metafotografia, fotomontaggio, emigrazione


La maggior parte delle foto di famiglia sono scattate a futura memoria: circolando all'interno di un gruppo familiare
possono creare o riaffermare vincoli familiari altrimenti irrealizzabili. Gli album familiari sono ricchi di foto realizzate
durante il servizio militare e di foto con donne e bambini: queste immagini erano realizzate soprattutto durante il periodo
dell'emigrazione in America ed erano necessarie a comunicare la propria esistenza ai parenti lontani, nonché come
strumento operativo per la ricomposizione delle famiglie.

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Alcune di queste sono Metafotografie, fotografie con una foto all'interno: le immagini dei militari erano inserite
all'interno dei ritratti di famiglia; il capofamiglia emigrato si faceva la foto con in mano la fotografia di moglie e figli o altri.
In questo modo si ricostruiva l'unità familiare che era stata interrotta dalla lontananza.
Un'altra modalità di ricomposizione virtuale della famiglia era il Fotomontaggio, che già sul finire dell'800 era praticato in
molti studi fotografici professionali. Tutte queste immagini hanno una funzione mediatrice tra la momentanea lontananza
e la definitiva scomparsa.

V° Morte e rinascita
Anche durante le cerimonie funebri venivano realizzate le fotografie: come per le occasioni liete (battesimi, comunioni,
matrimonio), veniva commissionato un servizio fotografico al fotografo locale. Anche se sembra strano documentare una
occasione così mesta, per comprenderla bastano le frasi “cc'am'affari na bella festa” e “ci ficiru na bella festa”. Non
stupisce quindi la partecipazione del fotografo e dei complessi bandistici ai cortei funebri, soprattutto nelle famiglie di
ceto medio-alto. Anche nell'antica Roma si faceva questo tipo di corteo e il banchetto, come il cunsulu siciliano.
Nelle foto con la bara fuori dalla chiesa i parenti sono disposti come per il matrimonio, immagini di morte che rivelano
una continuità con la vita. Tuttavia, il morto è un assente e si cerca di colmare quest'assenza per mezzo di un immagine.
Al momento della morte il defunto assume due forme: il corpo mortale collocato nella tomba ed il corpo immortale,
simbolico, che continua a vivere attraverso l'immagine, al quale essere associato quando il corpo mortale si dissolverà.
L'immagine travalica il confine della separazione e trasporta la presenza del defunto al nostro fianco, o nel luogo in cui
questa sarà collocata. A queste immagini rivolgiamo i nostri pensieri, conversiamo con loro, preghiamo; non è un caso che
originariamente queste fotografie fossero chiamate u quatru, il quadro: prima dell'invenzione della fotografia u quatru
era l'icona sacra che si teneva in casa, generalmente in camera da letto per pregare. Queste fotografie assumono quindi
un carattere sacro al pari delle Icone, a cui si affiancano negli “altarini”, fino a qualche tempo fa presenti in ogni casa.
Questa è una pratica che discende dal culto degli Dei degli antenati dell'antica Roma: in casa vi era il lararium, ovvero il
focolare domestico, che era il cuore della casa e li si tenevano effigie\statuette di Dei e Antenati destinati al culto privato.
Similmente, i lararium siciliani si compongono di immagini fotografiche incorniciate entro ovali e appese al muro, oppure
collocate su un cassettone; le prime sono disposte secondo la cronologia dei decessi, le seconde in ordine gerarchico (al
centro il marito). Di solito sono collocate in camera da letto, luogo più privato della casa, ed è la donna che intrattiene
rapporti interiori con queste anime in effigie; le donne hanno sempre avuto un ruolo maggiore nel rapporto con i defunti,
erano ad esempio destinate a comporre la salma, alla veglia e al lamento funebre, successivamente agli altarini.
La collocazione in camera da letto non è casuale anche per il fatto che è in queste stanze che si genera nuova vita.
Le foto dei defunti a volte si mescolano a quelle dei parenti lontani, questo perché la morte è vissuta come un evento
“culturalmente plasmabile”, non irreversibile, quasi allontanarsi un momento per poi ritornare: ricongiungimento che
spesso avveniva tramite la metafotografia ed il fotomontaggio. Il dialogo con queste icone rientra nella dimensione del
rito, così come anche le celebrazioni e le feste siciliane, in chiave identitaria, storico-memoriale, politica e patrimoniale.
Ne consegue che la memoria serve a vivere, perché i simboli e i riti “tradizionali” accompagnano lo svolgersi dell'esistenza
di ogni cultura, la fanno circolare, la trasmettono. I riti, con il loro ricorso al sacro, offrono all'individuo e alla comunità
garanzie e rispondono alle inquietudini e ai dilemmi fondamentali che la società contemporanea non soddisfa.
La tradizione siciliana presenta uno stretto legame tra il mondo dei vivi e quello dei morti, basti pensare alle celebrazioni e
alle tradizioni del 2 Novembre; l'agente rinsaldante tra questi due mondi è il bambino, che spesso presentifica il morto e
permette questo interscambio. I bambini primogeniti ad esempio prendono il nome del nonno paterno, anche se questo
è morto, e vengono fotografati con una spilla che ne riporta il ritratto fotografico.
Il Giorno dei Morti i bambini ricevevano il cannistru con dentro dolci, frutta secca, fighi, melograni ed il pupo di zucchero,
la pupaccena. Anticamente i nonni (o i genitori se questi erano morti) si facevano portare le scarpe e riempivano quelle.
L'antico uso di deporre i dolci dentro le scarpe si ricollega alla vestizione della salma: il cadavere non porta le scarpe,
queste vengono deposte dentro la bara per far percorrere meglio all'anima il suo viaggio.
I bambini allora giravano per il paese con il cannistru in mano dicendo “talia chi belli morti chi mi purtaru” (i morti sono i
regali); nel caso del nonno defunto di cui portavano il nome, i genitori dicevano “lu nonno ti portà li morti”, i regali.
Queste espressioni propongono una equivalenza ed una sovrapposizione tra donatori (i morti) e i doni (alimenti “morti”):
questo perché i dolciumi non sono destinati ai bambini, sono destinati proprio ai morti, i bambini svolgono un ruolo
all'interno del rituale, sono cioè la personificazione del morto.
Si verifica una identificazione donatori-doni ed una inversione donatori-destinatari: i morti-alimenti vengono mangiati dai
bambini-morti. Questo cerimoniale testimonia la solidarietà tra defunti e viventi.
I bambini sono al centro di diversi riti di passaggio, in cui devono morire simbolicamente per rinascere come adulti;
portano il nome del nonno defunto; sono insomma il segno ed il seme della continuità.

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