Sei sulla pagina 1di 69

Lezione 1 13.03.

2018
Che cosa è la semiotica?→ È una disciplina

È la scienza che studia i segni. I segni sono di diversi tipi (acustici, visivi, olfattivi ecc ecc. verbali). I segni
possono essere interpretati, e il loro significato cambia in base alla cultura.
ESEMPIO→ Ci sono delle convenzioni culturali che al mattino ci indicano che dobbiamo dire “Buongiorno”
e convenzioni che la sera ci indicano che dobbiamo dire “Buonasera”.
Il significato del termine SEMIOTICA deriva dal greco “semeion”= segno, e “semeiotikós” = relativo ai
segni. Se per segni intendiamo qualcosa che esprime o rinvia a qualcos’altro, di segni sembra tramato tutto il
nostro vivere da segni.
Il nostro vivere è un atto semiotico→ Alcune situazione per spiegare questo concetto
• Le parole sono segni di pensieri, idee, sentimenti, intenzioni etc. Con esse si può salutare, chiedere,
persuadere, pregare, confidarsi etc.
• Gli animali che condividono parte del nostro ambiente sembrano far uso di segni → fra di loro e con
noi
• In strada segnali di vario tipo “guidano” il nostro comportamento → qui bisogna fermarsi, partire,
dare la precedenza etc.
• Un’espressione su un volto può essere un segno che noi possiamo interpretare, infatti da qui nascono
le emoticon
In pratica, in tutti questi casi, abbiamo consapevolmente o no applicato un atteggiamento “semiotico” -
>abbiamo attribuito sostanza e valore di segno a esperienze diverse, lasciandone galleggiare il senso nella
nostra coscienza e nei comportamenti che ne dipendono.

Un po’ di storia:
- La semiotica affronta le sue radici nell’antichità, in particolare nell’antica Grecia, nel sapere medico
(successivamente anche nella divinazione e nella sua simbologia)
- In tempi più recenti, la necessità di delineare i contorni di una vera e propria disciplina scientifica
con questo nome è stata sostenuta, nella seconda metà dell’800, dal filosofo americano Charles
Pierce (1839-1914) e, nel primo decennio del 900, dal glottologo svizzero Saussure (1857-1913) nel
corso di linguistica generale.
Pierce vedeva nella semiotica una teoria della conoscenza umana, incentrata sulla capacità di
interpretare l’esperienza e ogni sua manifestazione empirica.
Saussure (preferiva parlare “semiologia”) pensava a disciplina che identificasse un territorio
comune a tutti i fenomeni di comunicazione e dalla quale si potesse muovere per studiare ciò che di
specifico ciascuna modalità comunicativa reca con sé. Si capiscono meglio le lingue, il loro
funzionamento, la loro natura, la loro struttura interna.Prospettiva più ampia di analisi e descrizione
delle lingue. Spiega che il funzionamento delle lingue (per un buon 90%) è simile a quello degli altri
codici, la cui funzione è prettamente comunicativa; in particolare trova delle analogie e differenze
con l'aritmetica.
- Nel corso del 900 filosofi come William Morris (1901-1997), linguisti come Louis Hjelmslev
(1899-1965), letterati e linguisti comeRoman Jakobson (1896-1982) hanno messo il progetto della
semiotica al centro dei loro interessi scientifici.
- Solo all’inizio degli anni sessanta si è cominciato a rendere sistematica la ricerca semiotica, con
alcune scuole:
Scuole parigine di Barthes (1915-1980) e di Greimas (1917-1922); Scuola russa di Lotman (1922-
1993) e Uspenskij; Scuola bolognese di Eco,; Scuola ginevrina e romana dei postsaussuriani di
Prieto (1926-1996) e De Mauro, Sebeok (1920-2001)
CAP. 1 SEGNO E CODICE
1.1 INDICI
La semiotica nasce con l’idea di accomunare studi diversi tra di loro.
Nel medioevo, la Scolastica definisce un segno come “qualcosa che sta per qualcos’altro” →vi sarebbe una
relazione di “rinvio” tra A, un evento materialmente percepibile, e B, qualcos’altro, percepibile dai sensi
oppure solo afferrabile dalla mente, che però si rende accessibile unicamente grazie a quell’evento.
A → espressione
B → contenuto
Un segno è per definizione un’entità a due piani (biplanare) fatta di un’espressione e di un contenuto.
Una prima distinzione ci è proposta dal famoso manuale del 600 la “Logica di Port-Royal”, che distingue
fra: segni naturali (una macchia sulla pelle, il fumo ecc) e segni artificiali (prodotti dall’intervento umano e
o di altre specie viventi). Pierce definisce i segni naturali come INDICI, per cui qualcosa (l’indice)
rappresenta qualcos’altro (il suo oggetto) in virtù di una connessione reale esistente tra due dati. INDICE =
CONTIGUITÀ DI SIGNIFICATO
Tuttavia anche segni del genere non sono significativi di per sé, ma solo in quanto qualcuno, capace di
“leggerli”, attribuisca loro un valore.
In questo processo è importante l’applicazione di conoscenze culturali
Non si dà indice senza un’attiva opera di interpretazione della sua natura fisica, in relazione alle circostanze
date e all’esperienza culturale pregressa del soggetto → Se sono in spiaggia e vedo del fumo, non penso a
qualcosa che brucia, ma a una compagnia riunita attorno a un fuoco.
In altri casi gli strumenti per leggere un evento fisico in termini di indici vengono meno → Se sono in un
bosco, incontro infiniti fenomeni che potrebbero farmi “leggere” il passaggio di un animale; ma può darsi
che per un individuo troppo urbanizzato, questi segnali rimangano muti.
Il termine INDIZIO può essere applicato a ogni genere di variazione dello stato fisico, indipendentemente
dal fatto che vi sia o no una connessione attuale fra il segno e ciò cui esso rinvia. In tal senso ogni indice è
un indizio, ma non ogni indizio è un indice.
Quando analizziamo un evento in termini di “indice” e “indizio” applichiamo una struttura concettuale
“inferenziale” del tipo «se…allora». Ogni volta che trattiamo qualcosa come se fosse un segno, ha luogo una
pratica interpretativa.

1.2 SEGNI PROPRIAMENTE DETTI


Quali sono le caratteristiche del segno?
Innanzitutto i segni sono prodotti da esseri viventi, umani, o altre specie animali, con l’aggiunta di tutti i
sistemi inventati dagli uomini, con la finalità specifica di assolvere una funzione comunicativa
(segnaletiche, sistemi di allarme etc.).
Si usa il termine intenzionalità per caratterizzare i segni veri e propri,che sono realizzati secondo le regole
previste da un “codice” (le lingue, i linguaggi degli animali eccecc). Tutte le lingue e i loro dialetti, tutte le
arti, le forme di calcolo, i linguaggi gestuali, le lingue dei sordomuti, tutte le forme di comunicazione degli
animali rientra a pieno nell’ambito di applicazione del concetto di “segno”.
I sistemi di segni sono quelli nei quali non occorre l’applicazione di un codice dall’esterno perché le
potenzialità semiotiche si rivelino (le lingue sono sistemi naturali, in quanto dipendono da una facoltà innata
negli umani, e sono insieme storico naturali, in quanto vengono imparate con l’inserimento in un qualche
tessuto familiare, sociale, nazionale.).
L’intenzionalità non sarebbe da riconoscere nei singoli eventi semiotici, ma nelle modalità di costruzione
della macchina interpretativa, naturale o artificiale.
Qui il concetto di “natura” è diverso dal caso degli indici.
Le lingue sono sistemi naturali, in quanto dipendono d una facoltà innata negli umani, e sono insieme sistemi
storico-natuali, in quanto vengono imparate con l’inserimento in un tessuto familiare, sociale, nazionale.
Ogni volta che ascoltiamo qualcuno parlare, il problema che abbiamo è mettere in relazione quel che
capiamo dell’espressione col contenuto che il mittente ha voluto comunicarci. Si tratta a) di riconoscere i
suoni prodotti dal mittente come una realizzazione dei modelli di tali suoni (i fonemi) e b) di far
corrispondere alle stringhe di suoni identificate il relativo contenuto. Ma la comprensione di un enunciato
non avviene in modo così lineare e meccanico.

1.3 CHE COS’È UN CODICE?


Il concetto di segno è correlativo a quello di codice →Un segno è tale solo se corrisponde alle
caratteristiche del codice che lo genera.
Casa →codice italiano
Amistad →codice spagnolo
Ritoro →codice?
Allo stesso modo il concetto di codice trova applicazione in tutti i sistemi di segni propriamente detti.
Un codice è un insieme di istruzioni e ci permette di:
- Riconoscere un regno come segno di quel sistema semiotico
- Produrre altri segni con le stesse caratteristiche morfologiche
- Circoscrivere i segni estranei al proprio sistema
- Stabilire nell’ambito dei segni previsti del sistema le corrispondenze fra elementi espressivi ed
elementi di contenuto
- Indicare le modalità di combinazione dei segni fra di loro.

1.4 I SEGNI DA IPPOCRATE A SAUSSURRE


Come si è detto, la riflessione del segno attraversa tutta la storia del pensiero occidentale, e ha la sua culla
nell’antica Grecia → la nozione di “segno” (semeion) circola insieme a quella di “arti” (téchnaí). Quali la
medicina, la divinazione del futuro e la fisiognomica. Il medico, per esempio, è un “semeiotico” nel senso
che sa attribuire un significato alle manifestazioni fisiche.
L’esperto di fisiognomica, invece, interpreta le forme corporee degli individui come manifestazioni della
loro sostanza spirituale (segni del coraggio = capelli ispidi, portamento eretto, ventre prominente). Fin dai
tempi più antichi la realtà si presenta all’uomo come una trama di segni che occorre saper leggere e
interpretare adottando un corretto codice di decifrazione.
Segno è ciò che viene utilizzato per significare. Non tutto è segno, ma tutto in linea di principio può essere
usato come segno, anche “cose” che non hanno la primaria funzione di significane.
Agostino spiega che un segno nasce dall’associazione di un oggetto invisibile con un significato.
Perché si abbia segno non basta dire che qualcosa sta per qualcos’altro, ma occorre aggiungere che si ha
segno quando qualcosa sta per qualcos’altro per qualcuno in certe circostanze.
Agostino ammette:
➢ Che anche altre specie animali abbiano un linguaggio;
➢ Che al dominio dei segni vadano annesse manifestazioni di diverso tipo , come i linguaggi gestuali,
la musica etc.
Egli differenzia il linguaggio verbale dagli altri, in quanto più potente.
Secondo Agostino e Saussure, il segno scambiato fra mittente e destinatario è un’entità a due facce→una
fisica(oggetto di trattamento dell’apparato fonatorio e dell’apparato uditivo) e una mentale. Agostino ritiene
che la controparte mentale della voce sia solo il significato (il pensiero verrebbe calato dentro una forma
fonica). Saussure spiega che prima di associarsi a un significato, la voce articolata in parole viene analizzata
dal cervello nella sua immagine acustica ovvero in un immagine mentale della voce articolata.
Secondo Saussure il segno linguistico si scinde in due distinte realtà→ quella della comunicazione
immediata, nella quale osserviamo determinati segnali fisicamente percepibili, prodotti oralmente o per
iscritto, fatti di un supporto materiale e di un senso; e quella psichica o mentale, sottostante alle diverse
realizzazioni individuali, nella quale il segno si configura come un’entità bifacciale composta da
un’immagine acustica (significante) e un concetto (significato).
È solo grazie alla mediazione del secondo piano, quello mentale, che i segni si rendono comprensibili.
Saussure chiama le due facce del segno:
1. Significante→ Espressione
2. Significato→ Contenuto

Il piano materiale o della “parole” è il regno


delle differenze individuali, il piano mentale o
della lingua (sistema) è il regno di quel che è
condiviso dalla stessa comunità.
Francesca e Valentina dicono “Dammi una
sedia”, ma le due espressioni differiscono per
intonazione della voce, il livello pragmatico
che c’è dietro etc.

Lezione 2 19/03/2018 (Salvati)

CAP.2 L’OGGETTO DELLA SEMIOTICA


Una disciplina si definisce dal punto di vista scientifico quando ha chiaro qual è il suo oggetto, che in questo
caso significa un insieme di fenomeni identificati da caratteri ritenuti comuni. Se siamo d’accordo che la
semiotica si occupa di segni, identificare l’oggetto della semiotica vuol dire stabilire che cosa si intende
esattamente per “segno” ed elaborare un metodo di analisi adeguato a tale obbiettivo.

2.1 UNA SEMIOTICA GLOBALE


C’è chi fa spaziare la nozione di segno su un’area molto più estesa dei codici e saperi posseduti dagli esseri
umani.
Charles Morris→ suggerisce che “La semiotica non si occupa dello studio di un particolare tipo di
oggetti,ma di oggetti ordinari in quanto (e solo in quanto) partecipi della semiotica”.
La semiosi(processo di interpretazione di un segno) dipende dal fatto che qualcuno interpreti qualcosa come
segno dotato di senso (tutto può potenzialmente diventare segno, a patto che ci sia un atto interpretativo.
Morris condivideva le idee di Peirce e costruiva una Semiotica dalla prospettiva dell'interprete.
Questa idea è stata ripresa, sebbene in diverse modalità, nei decenni successivi.

Thomas A. Sebeok→è colui che ha organizzato il primo convegno di semiotica. Egli utilizza un concetto
allargato di ‘comunicazione’->La comunicazione è “la trasmissione di qualsiasi influenza di un sistema
vivente da una parte all'altra” che produca “con ciò delle trasformazioni” -> Io dico “dammi una sedia” e tu
me la dai = La sedia si è spostata.
La semiosi, in quanto tale deve produrre un movimento, che corrisponde a un cambiamento.
La semiosi va riconosciuta e indagata in tutte le forme di vita. Per lui si tratta del linguaggio di tutte le forme
di vita, non solo linguaggio verbale; a differenza di Saussure. Per Sebeok si avvicina all’antropologia. La
linea di Sebeokha avuto il merito di stimolare una proficua apertura interdisciplinare degli studi semiotici.

2.2 SEMIOTICA DELLA CULTURA E SIGNIFICAZIONE


Umberto Eco→ Spostiamo la semiotica verso la filosofia e linguistica del linguaggio. La cultura umana nel
suo insieme è studiabile come fenomeno di comunicazione, ogni volta che si riveli un processo fondante di
significazione: “il processo di significazione si verifica solo quando esiste un codice”. Non posso parlare in
italiano con un cinese che non parla italiano.
“Un codice è un sistema di significazione che accoppia entità presenti in entità assenti. Ogni volta, sulla
base di regole soggiacenti, qualcosa materialmente presente alla percezione del destinatario sia per
qualcosa d’altro, si dà significazione”.
Ogni processo di comunicazione suppone un sistema di significazione “come propria condizione
necessaria”, mentre non è vero il contrario.-> il significato può esserci anche senza significazione.
Eco evita una visione “corrispondentistica” del codice, come non fornisce alcun elenco di ciò che va
interpretato come codice. Propone invece una tipologia delle strategie che gli esseri umani mettono in atto
per produrre codici e così perviene a soluzioni di grande interesse.

2.3 LINGUISTICA E SEMIOTICA


Il problema della delimitazione dell’oggetto della disciplina aveva un aspetto tecnico che rimandava
all’evoluzione stessa degli studi di ispirazione semiotica e che ne condizionava fortemente gli orizzonti, le
tecniche, lo stesso metalinguaggio critico. Questo problema fa corpo col ruolo svolto da Saussure.

Saussure→[...] Una scienza che studi la vita dei segni nell'ambito della vita sociale: essa potrebbe formare
una parte della psicologia sociale e, di conseguenza, della psicologia generale; noi la chiameremo
semiologia.
Saussure spiega che la linguistica sarebbe stata solo una parte di questa nuova scienza, che avrebbe trattato
anche di altri sistemi di segni (cita la scrittura, i linguaggi dei sordomuti, i segnali militari, i riti simbolici, le
forme di cortesia).
Le leggi della semiologia sono applicabili alla linguistica e verosimilmente “ad altri sistemi di segni”.
Saussure fa riferimento solo ad alcuni dei fenomeni che Morris e più tardi Eco avrebbero compreso nel
campo semiotico -> Saussure cita in primo luogo linguaggistorico-naturali, cita inoltre fenomeni culturali nei
quali è espressa e fortemente codificata un'intenzione comunicativa.
Questo orientamento saussuriano ha avuto una grande fortuna.

Roland Barthes→ Non ha senso mettere sullo stesso piano, come fossero semioticamente equivalenti, il
linguaggio verbale e altre forme di comunicazione: “non è affatto certo che nella vita sociale del nostro
tempo esistano, al di fuori del linguaggio umano [cioè del linguaggio verbale], sistemi di segni di una certa
ampiezza. Non appena si passa a insieme dotati di un'autentica profondità sociologica, si incontra un nuovo
linguaggio”.
Va inteso che anche le comunicazioni visive hanno bisogno, per funzionare, dell'integrazione e del riscontro
della parola (dialogo nel cinema, negli slogan etc.) e che anche forme di comunicazione particolari, come la
moda, trovano la propria base esplicativa nei significati verbali che l’accompagnano.
La linguistica dovrebbe fungere da riferimento per capire tutti gli altri sistemi di segni.

2.4 UNA SEMIOTICA “RISTRETTA”?


Luis Prieto→ condivide con Eco che la significazione sia alla base della comunicazione, spiegando che essa
consiste nella relazione fra un indice e un indicato “quando tale relazione non sia naturale, ma istituita da
una società”.
Ci sarebbe una semiotica della significazione, che ritaglierebbe il suo oggetto nel mondo degli indici
convenzionali -> alla semantizzazzione del comportamento per Barthes, Prieto aggiunge che tale processo,
per acquisire rilevanza semiologica, deve assumere una effettiva stabilità sociale. Quando ciò accade,
scattano dispositivi di connotazione, vale a dire qualcosa che produce significazione allo stato pure
Prieto prende la semiotica e la avvicina alla sociologia.
Per capire questo passaggio è necessario spiegare il termine CONNOTAZIONE → Esempio: Se Maria dice
“Dammi una sedia” Valentina capisce (denota) che deve dare a Maria una sedia.
Se, invece, Maria dice “Muoviti, dammi una sedia (tono veloce)” Valentina non solo denota che deve darle
una sedia, ma in aggiunta (connota) che deve dargliela subito. Lo capisce da “Muoviti” e dal tono con cui lo
dice.
Connotazione (dal lat. Cum+ notare) indica quelle pratiche semiotiche che selezionano determinati segni in
base al fatto che, in un contesto dato, essi fungano, nel loro insieme, da significanti di altri segni, che
avranno per significato elementi aggiuntivi rispetto al puro valore denotativo, letterale e referenziale, dei
segni di partenza. Significato oggettivo

DENOTAZIONE →Significato soggettivo

La semiotica della comunicazione presuppone dunque quella della significazione, con i suoi annessi
dispositivi di connotazione, ma limita il suo raggio agli indici convenzionali che siano segnali, ovvero a
quegli indici che, passando da uno all’altro interlocutore, “forniscono un’indicazione circa il rapporto
sociale” posto in essere nello scambio comunicativo.

Tullio De Mauro→Ha offerto un’ipotesi rigorosa di classificazione dei codici semiologici, intesi, nel senso d
Saussure, a partire dal principio della centralità del significato e lavorando sui diversi modi in cui i codici
organizzano quest'ultimo nei loro vari modi di funzionare.
Scala di crescente complessità che vede al vertice il linguaggio verbale, con la sua forse unica capacità di
saldare le regolarità del codice con l’interdeminatezza della sfera semantica.

Può sembrare che in questo modo le sfide della semiotica vengano a ridimensionarsi; occorre tuttavia
considerare che la semiotica o la semiologia ha l’obbligo di conseguire risultati sul territorio che
istituzionalmente la compete, quello dei codici o linguaggi propriamente detti. In questo ambito il più è stato
fatto, e viene fatto dai linguisti, che incorporano nelle loro metodiche di analisi variabili di ordine semiotico-
culturale un tempo loro estranee. Inoltre alla teoria semiotica va recuperata fino in fondo una prospettiva di
raccordo e di comparazione fra studio dei linguaggi naturali umani e linguaggi degli altri animali. Le
premesse gettate in questo ambito sono state a lungo “congelate” dall’influsso delle idee di Noam
Chomsky→ “padre” riconosciuto di una buona parte del cognitivismo, che ha sostenuto la tesi neocartesiana
della discontinuità: negando agli animali diversi dall’uomo il possesso di un vero e proprio linguaggio e
facendo i quest’ultimo il tratto distintivo della nostra specie.

Terrence W. Deacon→ La comunicazione si staglia come una delle possibilità, importantissima, ma non
unica, di un dispositivo, il linguaggio naturale che è dispositivo cognitivo ed espressivo.
Recentemente ha scritto che se la specie umana è per antonomasia “specie simbolica”, questo è perché il
linguaggio è stato ed è per l’uomo anzitutto veicolo di sviluppo cognitivo, chiave della propria identità e
amplificatore delle proprie strategie di sopravvivenza.

CAP. 3 LA COMUNICAZIONE E I SUOI EQUIVOCI


Come funziona la comunicazione? Comunicazione = Passaggio di un messaggio da un punto A o punto B
quando c’è significazione, all’interno di un contesto.

LA STRUTTURA ASTRATTA DELLA COMUNICAZIONE DI CHARLES SHANNON (1916-


2001)
Un processo di comunicazione avviene quando si ha un passaggio di messaggio da un mittente a un
destinatario.
Perché tale processo avvenga, è necessario che le componenti che formano il messaggio (segni) siano
costruite secondo certe regime e combinate secondo altre regole (tali regole formano un codice): mittente e
destinatario devono condividere tali regole, altrimenti non possono comunicare fra loro
I messaggi codificati viaggiano attraverso un canalefisico (lettera = carta, e-mail = computer)
Il contesto in cui la comunicazione si realizza gioca un ruolo ora più ora meno importante a seconda del
codice.
Perché astratta? Perché se la comunicazione fosse semplice non si avrebbero problemi di comunicazione.
Qui gioca la differenza tra connotazione e denotazione. Non basta condividere un codice per capirsi; ci sono
occasioni (guerra, sbarchi a Lampedusa) in cui ci si capisce anche se non si condivide un codice.

3.1 IL MODELLO ELEMENTARE DELLA COMUNICAZIONE SECONDOJACOBSON(1960)

Attribuisce ad ogni componete del modello di Shannon una funzione, che chiama funzioni comunicative
(sono 6):
1. Referenziale →Contesto (es. Elementi editrici o indicali, come qui, là, questo etc.)
2. Espressiva →Mittente (es. Esclamazioni, interezioni, forme linguistiche che esprimono il punto di
vista del mittente TC.)
3. Conativa →Destinatario (es. Imperativo, forme di seconda persona sing. e plur. etc.)
4. Fatica → Canale (es. Forme utilizzate per verificare la tenuta del canale, come “Mi senti?”, etc.)
5. Metalinguistica →Codice (es. Forme che si riferiscono al codice, tematizzandone aspetti o il
funzionamento generale, come “La parola canale significa …” etc.)
6. Poetica → Messaggio (tutte le volte che cerchiamo di valorizzare in modo speciale le risorse
linguistiche utilizzate per potenziare il significato)
LIMITI DEL MODELLO DI JACOBSON
La comunicazione viene presentata come un processo SÌ/NO, senza ulteriori alternative, ma nei codici
comunicativi più potenti la dinamica comunicativa è enormemente più complessa.
Sembrerebbe che la sostanza di cui i segni sono fatti (e.g. la voce umana) sia del tutto indifferente al
contenuto di pensiero che essi veicolano (un po’ come il tipo di busta utilizzato è indifferente alla lettera che
contiene).
La forma e il senso delle parole e delle frasi incorporano fin dal loro prodursi il punto di vista di chi ascolta.
Non è affatto detto che mittente e destinatario debbano condividere a pieno titolo il codice perché avvenga la
comunicazione: non ci si capisce mai in assoluto ma sempre e solo in relazione a determinate circostanze.
Un grave difetto del modello è che non riesce a dar conto del processo di comunicazione.Manca qualcuno o
qualcosa che si sforzi a capire il messaggio che viene inviato.

Lezione 3 20/03/2018
3.2 PRECISAZIONI SUL MITTENTE E DESTINATARIO
Abbiamo detto più volte che il rapporto fra i segni e i loro utente è un rapporto di tipo interpretativo. Ma cosa
significa questa espressione?
In linea di massima, abbiamo “interpretazione” tutte le volte che il comportamento di risposta a uno stimolo
non è meccanicamente determinato, non si riduce cioè a due possibili opzioni imposte dall’esterno, ma
implica una qualche scelta.
È merito di Pierce aver insistito sul carattere permanentemente interpretativo della semiosi umana.

IL SEGNO SECONDO PEIRCE


Un segno ha una relazione triadica con il suo Oggetto e con il suo Interpretante. Ma è necessario distinguere
l’Oggetto immediato (o l’oggetto come il segno che lo rappresenta) dall’Oggetto dinamico (o oggetto
realmente efficiente, ma non immediatamente presente).

Ciò significa che → l’oggetto


nella sua datità sensoriale (=
punto di partenza del processo
semiotico) agisce sulla nostra
mente che se lo rappresenta in
termini di “oggetto
immediato”; questo (=
componente “iconica” del
processo) forma il contenuto
del segno (= un contenuto
indipendente dal referente, sebbene originato da esso), cui corrisponde un supporto materiale.
L’”interpretante” è il momento in cui dal correlato esterno si passa, ultimando il percorso triadico della
semiosi, all’elaborazione mentale autonoma del soggetto. In tal modo, ogni processo di comprensione si
traduce nel passaggio da un interpretante a un altro, con una continua opera di riformulazione-interpretazione
che non coinvolge più direttamente l’oggetto, ma si muove asintoticamente verso di esso.
ESEMPI → La traduzione da una lingua all’altra o le riformulazioni e le parafrasi cui sottoponiamo una frase
o anche una semplice parola per spiegarcela e poi spiegarla agli altri.
Se da queste supposizioni torniamo allo schema di Jakobson, siamo autorizzati a concludere che la supposta
simmetria fra mittente e destinatario non ha alcuna ragione di esistere. Essa può essere immaginata solo in
una situazione comunicativa di laboratorio, completamente idealizzata, che solo con enorme difficoltà si
riesce ad attribuire agli esseri umani.
Ma il ruolo giocato dalla componente linguistica ci conduce a qualche riflessione sulla nozione di codice ->
Il modello elementare ce lo rappresenta come un apparato formale, una specie di filtro a due porte che
codifica un messaggio in entrata e lo restituisce com’era all’inizio (decodifica) in uscita.

3.3 CODICI, STRUTTURE, CONTESTI


Come funziona un codice? Di solito esso opera come una sorta di modello “mentale” che soggiace ai vari atti
comunicativi e ne consente la gestione
ESEMPIO→ Se mi è familiare il codice segnaletico che regola la circolazione sulle nostre strade e incontro
un segnale nuovo di forma circolare, so da subito almeno una cosa: che si tratta di un segnale di divieto
Una sorta di percorso analogico guida le mie inferenze all’interno del codice; e l’efficienza di un codice si
basa anche in base alla facilità e all’affidabilità con cui si offre ai nostri percorsi mentali.
Nel Corso di Linguistica generale (1916) si legge che, per ogni utente di un codice (il parlante) non si dà mai
il caso che un segno sia comprensibile e utilizzabile come una sorte di “tessera” autonoma staccabile da tutte
le altre. Esattamente il contrario, capisco e riesco a utilizzare appropriamente un segno se ne conosco la
relazione con altri segni resi disponibili dal codice; se, confrontandolo virtualmente con gli altri, ne capisco
la funzione o, più esattamente, il valore.
Per Saussure i segni di un codice funzionano come un puzzle, le tessere sono a incastro e funzionano solo se
riescono a incastrarsi con gli altri pezzi -> Allora sì che un utente può usare un codice.
Il significato di un segno, dunque, non viene appresso in “positivo” o in “negativo”, misurandone i rapporti e
le differenze con quelli che immediatamente lo circondano nella serie più vicine.
Un segno è così perché diverso dall’altro.
ESEMPIO→ Gli alberghi hanno stanze, quando ci consegnano le chiavi della stanza la andiamo a cercare,
riconosciamo i numeri perché differenti dagli altri. Riconosciamo che è 8 perché è diverso da 1, 2, 3 etc. non
per il valore assoluto del numero 8.
I segni di un codice, lungi dal poter funzionare isolatamente (come l’articolo e le preposizione dell’italiano
che da sole non hanno significato), “fanno sistema” con tutti gli altri segni di quel codice.
Il valore di ciascun segno è oppositivo e differenziale (rispetto ai segni del codice a cui appartiene non
rispetto all’oggetto). La sedia è sedia perché per convenzione che il suono [sedia] non sia [microfono],
[tavolo] etc.
Non si definisce primariamente in base al rapporto che intrattiene con gli altri oggetti del mondo, ma alle
relazioni interne che contrae con gli altri segni.
RIASSUMEDNO: Come faccio a comprendere il valore di una segno? Il valore di un segno non è assoluto,
ma si comprende il relazione ad altri segni che appartengono allo stesso codice, e tale relazione avviene in
termini di opposizione e differenza. Nessun segno ha un valore intrinseco.
Ogni codice determina una sorta di universo semantico all’interno del quale bisogna entrare per riuscire
davvero a “parlare delle cose” cui esso si riferisce. Lo stesso gesto può risultare scherzoso o aggressivo a
seconda della cultura che lo ha codificato.

Humboldt (filosofo e linguista dell’Ottocento) ragionando su questi temi ha sostenuto che ogni lingua (e
codice) forma un cerchio intorno a chi la parla: è cioè un vero e proprio filtro che condiziona l’accesso alla
realtà. Elaborando questa immagine e il concetto di sistema appena affrontato , si è arrivati a sostenere che il
codice è una vera e propria “struttura” il cui funzionamento dipende solo dalle relazioni interne dei segni. Le
correnti di pensiero e le metodiche che hanno condiviso questa idea sono chiamate “strutturali”.

Tornando al modello elementare della comunicazione, possiamo capire senso e limiti del dire che un
messaggio viene ‘codificato’ dall’utente e ‘decodificato’ dal ricevente/destinatario. La nozione di codifica
appare troppo rigida in entrambi i casi:
1. ‘Mettere in codice’ un messaggio fa pensare che vi sia un contenuto indifferente al codice nel quale
lo si versa, mentre abbiamo visto che non è così: un codice seleziona i propri significati possibili
2. Ogni codice deve fare i conti con problemi di adeguatezza al contesto: da un lato i caratteri del
contesto sono già implementati nel modo in cui il codice forma i segni, ma dall’altra parte ogni
segno deve fare i conti con un “fuori” sul quale la sua efficienza va ogni momento provata e forse
ribadita
Il codice dunque deve venire a compromessi con la materialità dei suoi fruitori. Il ricevente/destinatario “sa”
che il valore di un gesto o di una parola sta a mezza via tra quello che il mittente ha inteso dire e quello che
lui ne capirà.

3.4 LE ARTICOLAZIONI DELLA SEMIOTICA


La versione elementare del modello della comunicazione va abbandonata, perché riduttiva rispetto alla
complessità che l’interazione semiotica presenta. Quel modello si adatta solo a situazioni comunicative i tipo
stimolo-risposta (situazioni comunicative meccaniche).
Fuori da questo tipo di comunicazione il modello va arricchito e riformulato con tre grandi connettivi
1. Il ruolo dell’utente, cui occorre restituire una parte attiva, sia all’inizio sia alla fine del percorso
semiotica
2. Il ruolo del contesto: relazioni di ruolo, fattori situazionali, fattori ambientali, possibili asimmetrie
culturali non sono meri fattori di disturbo della comunicazione, ma variabili fisiologiche di essa. Il
contesto con le sue molte possibili stratificazioni forma il riferimento oggettivo di un codice e
coincide col mondo di cose di cui esso deve poter parlare.
3. Il concetto di codice→ nel caso di sistemi di segni complessi esso si rivela essere molto più di una
macchina di codificazione. Il codice ha una sua autonomia, una sua grammatica che occorre
penetrare e padroneggiare.
Charles Morris nel suo libro Lineamenti di una teoria dei segni propose di concepire la semiotica come una
disciplina articolata in tre sottodiscipline, o meglio tre prospettive di studio dello stesso oggetto (il segno).

Da cosa è
costituito un
segno?

Stesso
modello
di Pierce ➢ Veicolo segnico -> Significante
ma con ➢ Designatum-> Significato
termini
➢ Interprete -> Mittente o Destinatario
diversi
➢ Interpretante ->Riformulazione di un segno da parte dell'interprete
A ciascuno di questi risvolti corrisponde una possibile prospettiva di studio → Se guardo ai rapporti che un
segno intrattiene con altri segni ho una considerazione “sintattica” di essi.
Se guardo ai rapporti tra segno e oggetti o situazioni da esso designati ho la “semantica”.
Se guardo ai rapporti fra segni e i loro utenti ho la “pragmatica”.
La semiosi, dice Morris, ha un carattere unitario → relazione dei segni fra loro, significato e torsioni imposte
dalle esigenze comunicative degli utenti possono essere visti come tre sistemi di forze la cui risultante è la
funzione concretamente svolta da un segno in una situazione reale. Ma ciò non toglie che ciascuna
prospettiva di studio abbia una sua relativa autonomia.

CAP. 4 BASI NATURALI DELLA SEMIOSI

LA SEMIOSI UMANA
Possiamo definire la semiosi umana come una sintesi di “natura” (ciò che dipende dal nostro patrimonio
genetico, iscritto nel DNA) e “cultura” (ciò che, non essendo iscritto nel bagaglio genetico, viene appreso
dopo la nascita tramite l’inserimento in una società o ambiente).
Si concorda ampiamente sul fatto che la semiosi dipende da una gamma di presupposti naturali, inerenti al
funzionamento del nostro corpo e che si sono gradatamente evoluti -> l’apparato fonatorio e i suoni che
riusciamo a pronunciare non sono gli stessi del primo homo che ha avuto facoltà di linguaggio.
Si è fatta strada una concezione secondo la quale la semiosi, nata come risultato casuale dell’evoluzione, si
sarebbe rivelata un eccezionale dispositivo ai fini della selezione naturale (concezione chiamata
“neodarwiniana”, perché riprende il nocciolo della teoria di Darwin).
La specie divenuta capace di usare simboli si sarebbe imposta non solo sugli animali cognitivamente e
semioticamente inferiori, ma anche sulle specie ominidi concorrenti.

4.1 EVOLUZIONE DELLA SEMIOSI


Che cosa significa sostenere che la semiosi è una sintesi di natura e cultura?
Gli esseri umani ereditano geneticamente la capacità di utilizzare qualcosa di percepibile come
“significante” e qualcosa di immateriale come “significato”; mentre imparano tramite l’educazione e
l’inserimento sociale a riempire tale capacità con concreti sistemi di segni.
Tale capacità è frutto di un percorso evolutivo iniziato ca. 2,5-2 milioni di anni fa, con le prime rozze
pratiche simboliche dei nostri più antichi progenitori, gli Australopitechi, e giunto a piena maturazione
probabilmente 150-100.000 anni fa con l'Homo sapiens sapiens, cui si attribuisce il possesso di lingue
analoghe a quelle oggi in uso.
Possiamo chiamare tale capacità “facoltà di linguaggio” con Saussure e “capacità simbolica” col filosofo
Ernst, o più semplicemente “facoltà semiotica”.
Ciò che abbiamo chiamato “codice” (lingue, linguaggi gestuali etc.) sono invece la parte culturale del
processo. Un bambino normodotato ha alla sua nascita capacità semiotiche uguali a tutti gli altri bambini
normodotati del pianeta: ma quale lingua imparerà come materna dipenderà solo dalla famiglia e
dall’ambiente sociale nel quale crescerà.
La natura mette a disposizione della nostra specie un vero e proprio “sistema operativo” capace di supportare
programmi semiotici diversi.
Tuttavia, diversamente dai sistemi artificiali, nell’essere umano la capacità di sviluppare codici semiotici è a
tempo: se l’insegnamento spontaneo di un codice non inizia subito (entro i 6/7 anni), la capacità di
apprendimento si spegne.
La facoltà di linguaggio è dunque qualcosa che rechiamo nel nostro patrimonio genetico grazie a un
lunghissimo processo evolutivo, che ha portato simultaneamente ad attrezzare il cervello di tutte le strutture e
i circuiti necessari per far funzionare la semiosi, e ad adattare in modo corrispondente altre parti del corpo a
questa interessati. Il risultato evolutivo di questo processo è che oggi l’emisfero sinistro presiede nel 90% dei
casi sia alle funzioni linguistiche sia a quelle comunicativo-gestuali; mentre nel 10% tali funzioni sono
assunte dall’emisfero destro: ma né nel primo né nel secondo caso si assiste a una specializzazione esclusivo
dell’uno o dell’emisfero, bensì a una predominanza (teoria della lateralizzazione del linguaggio).

4.2 BASI ANATOMICHE: L’APPARATO DI FONAZIONE


Nell’evoluzione del linguaggio verbale ebbe una funzione essenziale la formazione dell’apparato di
fonazione. Grazie alla sua flessibilità e al controllo neurale che gli sottende, questo consente all’individuo
umano gesti espressivi di grande raffinatezza, a differenza degli scimpanzé, che non possono far nulla di
tutto ciò.
Sono stati compiuti negli ultimi anni studi intorno alle possibilità fonatorie dei nostri più antichi progenitori,
analizzando i crani delle diverse specie di ominidi ed elaborando al computer, tramite confronti con
l’ossatura dell’uomo moderno, le manovre articolatorie.
Oggi si ritiene che diverse specie ominidi avessero un surrogato di linguaggio, e in particolare, che l’uomo di
Neanderthal potesse articolare molti suoni delle lingue oggi conosciute.
Solo a partire dalla configurazione anatomica della specie Sapiens si determinano le condizioni per
un’efficace produzionedelle vocali /a/ /i/ /u/ che compaiono in tutte le lingue, vive o solo indirettamente
attestate, di cui siamo a conoscenza.
L’apparato fonatorio che abbiamo ereditato si è lentamente adattato a funzionario anche come apparato
di fonazione→ ciò ha significato una notevole perdita del potenziale respiratorio e anche una precisa
ristrutturazione anatomica.
Come accade nell’ambito dei processi di selezione naturale, vecchi organi e strutture vengono riciclati e
adattati per soddisfare le esigenze maturate dalla specie.
Negli antichissimi ominidi la laringe, ovvero la parte terminale della trachea, che include le corde vocali
necessarie alla produzione del suono linguistico, si trovava, rispetto a noi, più in alto nel canale respiratorio.
Essa poteva alzarsi fino a formare un tutt’uno con la cavità nasale, lasciando così via libera per il cibo
ingerito.
Nel neonato questa condizione si osserva ancora oggi ed è proprio ciò che gli consente di succhiare il latte e
contemporaneamente respirare. Ma proprio questa posizione della laringe, perfettamente funzionale per una
specie che non ha bisogno della parola, impediva l’articolazione di gran parte dei timbri vocalici utilizzati
nelle lingue.
Nell’uomo moderno la laringe si è sensibilmente abbassata, e corrispondentemente la lingua è arretrata di un
tratto rispetto alla cavità orale.
Situazione paradossale:
➢ Quando il cibo inserito passa attraverso la laringe ed entra nell'esofago, la laringe deve chiudersi
ermeticamente, ad evitare che esso entri nella trachea e ci soffochi (meccanismo automatico)
➢ Grazie al suo abbassamento, la laringe ha reso più lungo e flessibile il canale articolatorio che
conduce alla cavità orale e attraverso il quale passa l’aria, modificata via via dai movimenti del velo
palatino, della lingua e delle labbra. A ogni movimento, il canale si allunga o si accorcia e modella
diversamente il suo assetto, dando forma all’aria pompata nei polmoni e già fisicamente impostata
dalla vibrazione delle corde vocali.
Grazie all’adattamento dell’apparato respiratorio la specie umana ha reso disponibile uno strumento
formidabile per la generazione di repliche di significanti che, raggruppate in parole, si associano a entità
immateriali, i significati.

4.3 CERVELLO E LINGUAGGIO


La semiosi umana dipende evolutivamente dallo sviluppo della parte più recente del cervello (così come gli
organi fonatori si sono evoluti, così anche il cervello in termini di conformazione e dimensione ha subito
un'evoluzione), la corteccia, uno strato di cellule nervose, pieghettato in modo enormemente complesso,
dello spessore di circa 3 millimetri, che presiede a tutte le funzioni cognitive superiori: ricordare, vedere,
capire etc.
Il cervello è suddiviso in due emisferi (destro e sinistro) e la corteccia di ciascun emisfero è suddivisa in altre
aree (lobi): frontale, parietale, temporale e occipitale, ciascuna maggiormente implicata in questa o quella
funzione (e.g. lobo occipitale = corteccia visiva)
L’unità di base della corteccia è il neurone, la cellula nervosa, la cui parte centrale è costituita da un'asse
allungato (assone), avvolto da una speciale guaina mielinica, che conduce l'informazione) nella forma di una
stimolazione elettrica). Alle due estremità dell’asse si situano due sistemi di contatti con gli altri neuroni (con
i quali l'informazione viene scambiata in forma chimica).
In entrata abbiamo i “dendriti”, in uscita i “bottoni sinaptici”, che instaurano sinapsi, cioè i collegamenti con
altri neuroni in numero altissimo. Solo una parte, anche se rilevante, di queste sinapsi si è determinata alla
nascita; il resto si determina nel corso del tempo, attraverso l’esperienza compiuta dalla persona. Il
procedimento è di tipo darwiniano, avviene cioè per selezione dei gruppi di sinapsi che meglio reggono la
domanda posta dall’adattamento.

TESI LOCALIZZAZIONISTA (o LOCALIZZAZIONE DEL LINGUAGGIO)


Capire in che modo il linguaggio dipenda dal funzionamento del cervello è uno dei temi centrali della ricerca
contemporaneo. Una tesi classica è quella “localizzazionista”
Cerca di individuare aree specifiche deputate all’elaborazione dell'informazione linguistica.
• Pierre-Paul Broca (1824-1880) ritenne di aver localizzato, grazie alle lesioni ritrovate nei cervelli di
pazienti che in vita erano stati affetti da afasia motoria, l’area addetta alla produzione del
linguaggio (per questo chiamata Area di Broca situata nell'emisfero sinistro)
• Karl Wernicke (1848-1905) ipotizzò di aver indentificato l’aerea preposta alla comprensione (per
questo chiamata Area di Wernicke situata nell'emisfero sinistro)
Sulla scia di queste ricerche, l’emisfero sinistro è stato universalmente ritenuto quello responsabile della
capacità linguistica.
Secondo questa teoria ogni area del cervello ha una sua funzione.
Inoltre, ricerche molto recenti hanno consentito di appurare che l’emisfero sinistro gioca un ruolo
fondamentale anche nel caso dei sordomuti, dove la semiosi si serve di un canale visivo-gestuale, anziché
fonico-uditivo, per funzionare.
TESI DELLA PLASTICITÀ
Si basa sulla deviazione quantitativa che le singole aree del cervello umano fanno registrare rispetto alle
misure ipotizzabili per una scimmia che avesse il cervello di pari volume. Gli studiosi hanno messo a
confronto la dimensione del cervello umano evoluto rispetto alle misure ipotizzabili dei primi uomini, fino
ad arrivare anche al cervello delle scimmie.
È così risultato che la maggiore asimmetria si colloca nella corteccia prefrontale, un’area che non sembra
essere direttamente responsabile di specifiche abilità sensorie o motorie, ma che risulta essere connessa ad
un'amplissima gamma di zone del cervello e implicata in numerose operazioni associative relative alle
funzioni cognitive superiori.
È dunque probabile che molte funzioni cognitive, fra cui il linguaggio, si avvalgono della collaborazione di
varie e distinte parti della corteccia, e che anche le zone più antiche del cervello abbiano a che fare con esso
(per esempio il sistema limbico, che regola le nostre emozioni).
Secondo questa teoria un'area del cervello ha più funzioni che collaborano fra loro.

4.4 FORMATIVITÀ DEL LINGUAGGIO


Abbiamo visto che il linguaggio è un che di naturale maturato nel lunghissimo percorso dell’evoluzione e
perfettamente ancorato a presupposti di ordine celebrare. Tuttavia la capacità linguistica è ben altro che un
rivestimento di processi mentali extralinguistici: proprio l’evoluzione dell’Homo sapiens rivela che essa ha
condizionato lo sviluppo del cervello e delle potenzialità cognitive umane. Il processo di adattamento
culturale è il nocciolo del funzionamento del linguaggio ed è il terreno sul quale si coniugano natura e
apprendimento.
L’idea che il linguaggio (verbale e non) sia non solo lo strumento del pensiero, ma in un certo modo il
dispositivo che innesca quest’ultimo, può essere espressa col concetto di formatività.
Humboldt in Sulla diversità linguistica (1836) formula per primo il principio di formatività e ne fa
discendere quello della specificità storico-culturale delle lingue →il linguaggio è il mezzo con il quale il
pensiero si esprime, ma allo stesso modo è il dispositivo che fa scattare il pensiero (senza il pensiero il
linguaggio non esprimerebbe niente).
Tale concetto è stato variamente sostenuto nel corso della tradizione filosofiche e scientifica:
1. LEIBNIZ → i suoi interessi si orientavano, non solo verso le lingue e i dialetti, ma anche verso il
simbolismo del calcolo infinitesimale, che lo porta a sostenere che “ogni nostro ragionamento si
compie per mezzo di certi segni o caratteri”. Il segno (verbale e non) abilita la formazione del
ragionamento, perché consente alle persone di svolgere processi di pensiero in modo ‘cieco’ o
‘simbolico, ovvero di svolgere il pensiero mediante schemi astratti, senza ricorrere a una
conoscenza piena o intuitiva.
2. HUMBOLDT→ nel suo libro Sulla diversità delle lingue è il primo a formare con chiarezza il
principio di formatività, sostenendo che “il linguaggio è l’organo formativo del pensiero. L’attività
dell’intelletto […] si intrinseca mediante il suono nel discorso e diviene percepibile ai sensi.
Quest’attività è pertanto un tutt’uno con il linguaggio, essi sono inseparabili l’uno dall’altro. […]
L’uomo si circonda di un mondo di suoni per accogliere in sé ed elaborare il mondo degli oggetti.
Articolazione del suono e articolazione del pensiero sono le due facce di uno stesso processo
intrinsecamente ‘creativo’. L’oggettivarsi del suono-pensiero in segno dà un’identità alle nostre azioni, le
rende comunicabili. Decisivo è il “ritorno” uditivo del linguaggio → a partire dal momento in cui la parola
da noi proferita ci ritorna tramite l’orecchio, facendo di noi che l’abbiamo pronunciata, i primi ascoltatori.
Il principio di formatività distrugge non solo l’idea del carattere prelinguistico dei significanti, ma anche
quello della loro universalità. Si dà così una ragione interna delle asimmetrie semantiche esistenti fra le
lingue e della difficoltà di tradurre letteralmente concetti anche semplici da una lingua all’altra (per i due
teorici sopracitati la traduzione resta possibile per via teorica, grazie al processo formativo della lingua, che
consente di esprimere con interlocuzioni ciò che sarebbe impossibile rendere con singole parole o enunciati)
Lezioni 4/5 (26-03-2018 / 09-04-2018)
3. SAUSSURE→ INSERIRE SCHEMA SLIDES 1 DELLA LEZIONE
sviluppa il concetto di formatività del linguaggio in quello di arbitrarietà radicale → ha a che fare
con il modo in cui le lingue segmentano, sui due piani del loro funzionamento semiotico, il materiale
fonico e il materiale concettuale. Su entrambi i piano vengono proiettati dei limiti che determinano
arbitrariamente l’identità e lo spazio linguistico dei suoni linguistici e dei significanti. È in virtù di
questo processo arbitrario che in latino per esempio la lunghezza sillabica ha valore distintivo,
mentre in italiano essa ha perso tale funzione.
Saussure suggerisce che il nocciolo di una lingua verbale stia nella “forma” (= sistema di distinzioni,
di pertinenze = significante) che essa impone a una data sostanza o materia (= significato). Si tratta
di un formare ‘arbitrario’, dipendente solo da questioni storico-naturali, che si esercita
autonomamente su tutti e due i piani del segno (arbitrarietà orizzontale).
Così intesa, l’arbitrarietà radicale saussuriana appare uno sviluppo di una parte almeno della teoria di
Humboldt, e si offre come dispositivo concettuale per spiegare e tematizzare la diversità delle lingue. È
ripresa più avanti da HJELMSLEV , che ne ha perfezionato lo schema logico

4.5.2 LATEORIA DEI PROTOTIPI


La teoria dei prototipi fu elaborata da Eleonor Rosch negli anni 70 per spiegare in che modo categorizziamo
gli oggetti.
Secondo l’approccio tradizionale alla teoria della conoscenza, un concetto si definirebbe tramite la presenza
o assenza di un tratto definitorio (un triangolo non è un esagono etc.)
Tuttavia, in moltissimi settori dell’esperienza cognitiva umana, il criterio per includere o no un dato
oggettivo nell’estensione di un concetti non è di tipo binario (sì/no), ma di tipo graduale (più/meno).
ESEMPIO→ Se mi mostrano tre foto: 1) serpente / 2) gatto / 3) pinguino e mi chiedono qual è l’uccello, io
indicherò il pinguino (anche se i pinguini non volano, non hanno la coda e vivono in acqua, ma se mi
mostrano tre foto: 1) pinguino / 3) pappagallo / 3) passerotto, io non indicherò il pinguino, ma il passerotto
poiché ha tutti i tratti che appaiono prototipici.
Ciò testimonia che i confini dei nostri concetti non sono rigidi, ma sfumati, plasticamente disponibili a
criteri di scelta, che possono variare.

CAP 5. PROPRIETÀ SEMIOTICHE FONDAMENTALI (Argomento principale)

5.1 La semiosi naturale si caratterizza mediante la presenza o l’assenza di una gamma di proprietà
fondamentali, che ricorrono, ora più ora meno, anche in numerosi sistemi artificiali, costruiti dagli umani per
far fronte alle proprie esigenze.

1. ARBITARIETÀ (4) 6. RIDONDANZA


2. CONVENZIONALITÀ 7. VOCALITÀ / UDITIVITÀ
3. ICONICITÀ 8 CREATIVITÀ
4. ARTICOLATEZZA 9. SEMANTICITÀ (INDICATIVITÀ) ->ASTRAZIONE
5. COMBINATORIETÀ

5.1.1
ARBITRARIETÀ→ non è motivata
Nella concezione moderna (Saussure / Hjelsmev / De Mauro) si è arrivati a distinguere diversi tipi di
arbitrarietà:
➢ Tra segno e significante→ parola “libro”-> oggetto “libro”
➢ Tra significato e significante->la parola “libro” arbitrariamente significa “oggetto composto da
copertina rigida e fogli di carta”
➢ Nell’organizzazione interna del significato
➢ Nell’organizzazione interna del significante

• TRA SEGNO E REFERENTE


Il segno nella sua interezza (significante + significato) non è legato naturalmente al referente, ossia
all’elemento o evento reale presente nell’esperienza esterna dei parlanti cui è associato, all’oggetto, alla cosa
che rappresenta
ESEMPIO→ Tra #computer portatile# e questo oggetto concreto non vi è alcun rapporto privilegiato.

• TRA SIGNIFICATO E SIGNIFICANTE


Non esiste un rapporto che lega necessariamente, in virtù di un motivo, in considerazione di una somiglianza,
un dato significante ad un dato significato.
Il significante /3/ del sistema di cifrazione araba è legato in maniera immotivata al significato (concetto) “tre
volte l’unità”, tanto è vero che in altre lingue è indicato da diversi significati.

ARBITRARIETÀ VERTICALE (debole)→Allude a una supposta verticalità del meccanismo di rinvio.


Arbitrarietà pura. (Prefisso / città / colore / genere etc.). Rosa per la femmina, Azzurro per il maschio. È
collegata alla simbolicità, attraverso la quale le lingue selezionano mezzi espressivi arbitrari, semplificati ma
potenti perché in grado di riferirsi a intere classi di oggetti.
Si deduce erroneamente che il significante /cane/ è solo convenzionalmente e immotivatamente legato al
significato (concetto) “cane”, tanto è vero che in altre lingue è indicato da diversi significanti: “dog” /
“perro” etc.
Quindi il significato (il concetto di cane come “animale quadrupede, domestico etc.”) è legato in maniera
immotivata ad un particolare significante, ovvero a una particolare sequenza di fonemi, di suoni di una
lingua.

Nelle lingue storico-naturali, significato e significante vengono determinati da un tipo diverso di


ARBITRARIETÀ, quella RADICALE, che consiste nella formazione su tempi storici lunghissimi, delle
classi fonico-acustiche e concettuali, figli di un sistema linguistico e della cultura cui appartengono.

• NELL’ORGANIZZAZIONE INTERNA DEL SIGNIFICATO


(Hjemslev, Saussure)
Tra forma (sistema di distinzioni) e sostanza (materia) del significato si istituiscono rapporti non determinati
dalla natura, ma ritagliati secondo organizzazioni proprie di ciascuna lingua, dipendenti esclusivamente da
ragioni storico-culturali.
ESEMPIO→ L’esempio classico è nell’ambito semantico del bosco e affini come diverse lingue suddividono
i segni:
- Italiano → bosco, legno, legna
- Francese →bois (bosco-legno-legna)

• NELL’ORGANIZZAZIONE INTERNA DEL SIGNIFICANTE


(Hjemslev, Saussure)
Parallelamente al caso precedente, anche per il significante le lingue organizzano liberamente, senza alcuna
costrizione la scelta del materiale fonico (la struttura formale dei fonemi)
In alcune lingue dunque un insieme di suoni sarà pertinente e cioè distinguerà parole diverse, mentre in altre
lingue non avrà questo potere: ad esempio nel latino classico la quantità sillabica ha valore distintivo e
consente di differenziare sensi (es. PẮLUS palude; PẤLUS palo); mentre in italiano tale valore è stato perso
e il fatto di pronunciare lunga o breve la “o” di /popolo/ non ha alcuna rilevanza semantica.
5.1.2 CONVENZIONALITÀ
Spesso confusa con l’arbitrarietà, sono due concetti legati con significato affine; ma si tratta di due concetti
complementari.
È l’attribuzione volontaria (motivata) socialmente stipulata (frutto di una decisione della collettività) di un
certo significante a un certo significato.
Indipendentemente dal fatto che il segno abbia caratteri di arbitrarietà, esso può essere stipulato
convenzionalmente.
ESEMPIO→ Il segno di infinito corrisponde arbitrariamente all’otto rovesciato, ma la comunità ha deciso
convenzionalmente che dovesse significare “infinito”. Lo stesso discorso si applica per la necessità d rendere
esplicito e formalmente definito il linguaggio dei termini usati in transazioni sociali quali i contratti privati
(e.g. assicurazione dell’auto, un contratto di affitto etc.), le leggi, gli accordi internazionali.
Anche la ricerca scientifica dipende dalla possibilità di convenire sull’uso dei termini.
L’esigenza di una convenzione metalinguistica dei termini si affaccia in ogni periodo di innovazione
scientifica o filosofica.
Il meccanismo della convenzionalità si applica in toto ai linguaggi di calcolo, a ogni tipo di lingua
formalizzata, a settori del sapere meno rigidamente organizzati (terminologia medica), alle segnaletiche, alle
simbologie che regolano l’erogazione di certi servizi etc.
Non sempre il rapporto tra convenzionalità e arbitrarietà è arbitrario → Esistono due tipi di codici:
1. Codici non arbitrari che sono convenzionali (come le parole di una lingua, nelle lingue storico-
naturali, alcune scelte per convenzione, come avviene nei linguaggi settoriali ->le parole “mouse” e
“computer”, nonostante appartengano alla lingua inglese sono conosciute anche in Cina).
2. Codici arbitrari che non sono convenzionali (come il linguaggio di molte specie animali).
Tuttavia, in particolare nelle lingue, si ha che fare con stati mutevoli di equilibrio fra parti convenzionate di
uso e parti liberamente fluttuanti, in cui ha un forte peso l'esigenza del parlante per farsi capire.
Questa proprietà si collega a un’altra proprietà:

5.1.3 ICONICITÀ
L’idea che i segni catturino in modo non arbitrario caratteri della realtà assume un ruolo centrale nella
teoria di Pierce, che distingue tra:
➢ INDICI → caratterizzati dall'avere qualche qualità in comune con gli oggetti cui si riferiscono; ad
esempio: una mappa rispetto al territorio che rappresenta
➢ SIMBOLI →che giungono a rapportarsi al loro oggetto per convenzione ad esempio: le parole
Tuttavia Pierce afferma che ogni segno è un po' indice e un po' simbolo. Egli inoltre dice che l’iconicità
non si risolve in un dato visivo (diagrammi, metafore etc.)
N. B. →Conviene dunque non limitare l’iconicità alla similarità ma distinguere fra iconicità come
motivatezza naturale (mappa geografica) e motivatezza logica (metafora).

5.2. LE POTENZIALITÀ DEL CODICE

5.2.1 ARTICOLATEZZA
Già Aristotele aveva notato l’esistenza di questa proprietà, sia descrivendo la parola umana come “voce
connessa portatrice di significato”, sia notando come l’articolatezza non fosse sua proprietà esclusiva del
linguaggio verbale umano (il canto degli uccelli, la danza delle api, il linguaggio dei cetacei etc.).
Tale proprietà riguarda il fatto che la parte significante del segno può risultare dalla combinazione di
segmenti più piccoli. È la proprietà grazie alla quale il fono si combina in suoni diversi.
Numerosi sono i codici provvisti di articolatezza del segnale. Il calcolo aritmetico è un ottimo esempio di
codice articolato con combinazione, così come il codice che regole i gesti con cui accompagniamo parole e
frasi
Questa proprietà si collega a un’altra proprietà:

5.2.2 COMBINATORIETÀ→I fonemi si combinano tra di loro per formare la parola.


Il linguaggio umano è caratterizzata da una proprietà che gli altri linguaggi non hanno:
➢ DOPPIA ARTICOLAZIONE(Martinet) → Come ledivisioni in morfemi
- Articolazione in fonemi (o seconda articolazione), unità minime prove di significato e che
sono il frutto della radicale arbitrarietà delle lingue
- Articolazione in monemi (o prima articolazione), unità più piccole delle parole, dotate di
senso. Ogni monema è un segno suscettibile, di entrare in molteplici combinazioni.
Si allaccia alla combinatorietà
Nelle lingue verbali la doppia articolazione svolge una funzione decisiva, poiché consente una straordinaria
flessibilità nell’arricchimento del lessico e nella formazione di unità superiori alla parola. Non è, tuttavia,
esclusiva del linguaggio verbale (v. Numeri e cifre degli autobus, linguaggio di alcuni scimpanzé).

RIDONDANZA
La ridondanza rappresenta una sorta di sovrabbondanza, che riguarda i segni e le parti di cui i segni sono
composti.
Pur essendo una proprietà alla basa del costituirsi delle lingue verbali, essa è presente anche in altre
semiotiche, ad esempio nelle semiotiche animali, nella cinesica etc.
Nelle lingue verbali, la ridondanza può essere di diverso tipo:
• Fonetica → l’italiano ha 30 fonemi e in teoria per distinguere i segni che compongono questa lingua
potremmo avere bisogno anche di un numero più ridotto, di significanti più brevi. Ma saremmo in
grado, senza questa ridondanza, di distinguere chiaramente un segno dall’altro, ad esempio in una
situazione particolarmente rumorosa?
• Morfologia → nella frase “Le scarpette rosse delle allegre ballerine” sono belle il fatto che
#scarpette# sia femminile e plurale viene ripetuto ben 3 volte (le, rosse, belle)
• Lessicale → diversi segni veicolano lo stesso significato o significato simile
#casa# #abitazione# #dimora# …

VOCALITÀ / UDITIVITÀ
I segni linguistici sono trasmessi attraverso la voce e dunque possono sfruttare la diversa modulazione che la
voce stessa consente e sono recepiti, nella loro diversità di modulazione, tramite l’udito.
Si tratta di proprietà presenti in altri codici? Sì, ad esempio nel linguaggio di certi mammiferi superiori, in
quello degli uccelli.
Si tratta di proprietà presenti necessariamente nelle lingue? No, infatti la trasmissione e la ricezione dei segni
linguistici può avvenire anche attraverso la scrittura e la lettura.
DUNQUE →VOCALITÀ e UDITIVITÀ non possono dirsi proprietà specie-specifiche

CREATIVITÀ(proprietà fondamentale del linguaggio verbale umano) → Un codice è creativo a


capacità di modificare le sue caratteristiche iniziali.

Esistono tre tipi di creatività:

1) CREATIVITÀ REGOLARE
La creatività regolare è proprietà che conduce al variare (diminuire / aumentare) del numero dei segni di un
codice sulla base delle regole di combinazione dei segni di cui il codice dispone.
Un codice si dice creativo se ha la capacità di modificare le sue condizioni iniziali senza smettere di
funzionare.
ESEMPIO→ #4# + #5# + #1# = #10#
ma anche #5# + #4# + #1# = #10#
ma non #1# + #5# +(-) #4# = #2#
Ogni lingua prevede forme di creatività regolare di diversa natura, tutte inscindibilmente legate alla sua
capacità combinatoria, dunque alla sua articolatezza.
ESEMPIO→Quel ragazzo è amico della ragazza che è seduta vicino al signore che …
Chomsky, che chiama questo tipo di creatività “rule-governed creativity”, ritiene che essa rappresenti la
specie-specificità della lingua verbale, considerato gli altri linguaggi caratterizzati da una sostanziale
ripetitività ->language to be a set (finite or infinite) of sentences each finite in lenght and constructed out of
a finite set of elements (Syntactic Structure, 1957)
Ma una lingua è creativa anche in un altro senso…
In virtù di questa proprietà, all’interno di ciascuna lingua nuove regole, socialmente riconosciute come
utili, possono sostituire le vecchie, fino a modificare la lingua stessa.
ESEMPIO → Prima si diceva “un poco” che poi, grazie alla creatività, si è trasformato in “un po'”
Il nostro cervello è in grado di produrre in modo creativo migliaia di parole e migliaia di lingue. In relazione
alle parole, il fenomeno è noto come “mutamento lessicale”, e fu interpretato in questo senso anche da
Benedetto Croce (1866-1952):
“Allorchè noi produciamo una nuova parola, trasformiamo di solito le antiche variandone o allargandone il
significato; ma questo procedere non è associativo sebbene creativo, quantunque la creazione abbia per
materiale le impressioni non dell’ipotetico uomo primitivo, ma dell’uomo vivente da secoli in società e che
ha immagazzinato nel suo organismo tante cose, e tra queste, tanto linguaggio” (1900, p.103)

2) CREATIVITÀ NON REGOLARE→quando si inventano le parole che poi entrano a far parte
dell’uso comune
Rappresenta la possibilità di far funzionare i meccanismi semiotici di costituzione del senso pur violando le
regolare “normali” del codici o cambiandole nel farsi stesso della comunicazione.
Si tratta di un tipo di creatività che permette di far entrare nella “normale” attività semiotica i processi di
scambio comunicativo, di produzione di senso, di comprensione in presenza di violazione delle regole
“normali”.
Tale creatività fa riferimento a fenomeni che certo suggeriscono, a partire dal piano delle relazioni tra i segni,
instabilità; fenomeni resi in ultima istanza possibili proprio dal fatto che la lingua è un codice
intrinsecamente vago.
ESEMPIO→ Nella quotidianità usiamo molto spesso questo tipo di creatività. Quindi come facciamo a
capirci? Attraverso la VAGHEZZA (il non detto)
Un calcolo non può permettersi irregolarità di questo tipo. Il segno #7 x : 2# è insensato e porta al blocco di
codici. Nel linguaggio verbale la creatività non regolare è dietro l’angolo:
➢ Non impedisce la comprensione, non blocca →Se sarebbe andato a trovare lo zio, gli avrebbe fatto
piacere
➢ È restaurabile →Tu lo vede? Si dice vedi
➢ E innovativa →Metti un tigre nel motore una pubblicità, dove “un tigre” rappresenta la marca del
prodotto

3) CREATIVITÀ DI REGOLE
Consiste nella possibilità di riformare interi pezzi del codice, aggiungendo o togliendo regole, senza che
questo cessi di funzionare (come le lingue dei segni).
ESEMPIO→ Comportamento del connettivo “che”, tradizionalmente utilizzato nell’italiano scritto (e
nell’italiano parlato che ne seguiva la norma) come pronome relativo o per introdurre una proposizione
dichiarativa. Questa parola ha subito un’evoluzione, dapprima nel parlato quotidiano e informale, e
successivamente anche a livelli più controllati e formali, e anche scritti, della lingua.
a) Domani è il giorno che ho lezione
b) Ti presento Mario, il ragazzo che studiamo insieme
c) Prendimi la valigia che ci ho messo i libri
d) Natale: si celebra la nascita di Gesù, che gli uomini hanno la gioia nel cuore
Tutte queste frasi contengono infrazioni alle norme. Tuttavia, in numerosi inchieste a universitari, è risultato
che A non è percepita come errore; B è percepita come colloquiale, utilizzabile nel parlato e solo con riserve
nello scritto; C è respinta come sgrammaticata (nonostante gli studenti la ripetano frequentemente); D è
sentita come “poetica”.

5.2.4 METALINGUISTICITÀ
Un codice possiede la proprietà della metalinguisticità se può usare i suoi segni per parlare di se stesso. La
lingua può spiegare se stessa con i suoi stessi segni (uso un altro gesto per spiegarne un altro)
Le lingue fanno continuo appello a tale proprietà, per disciplinare l’uso delle parole (“piene” o “vuote”) in
vista di usi tecnici, formali o al limite formalizzati, ovvero quando il loro significato deve essere deducibile
solo dai termini stessi → manuale scolastico o universitario, guida all’uso di un elettrodomestico. La
metalinguisticità ‘riflessiva’ (->possibilità di prendere a oggetto le parole stesse che si stanno pronunciando
o scrivendo) consente di manipolare in modo illimitato la sfera semantica, dilatando o restringendo il valore
dei termini in relazione alle condizioni di uso nel concreto dello scambio comunicativo. Da questo punto di
vista, la metalinguisticità si può mettere in relazione con un’altra proprietà → l’INDETERMINATEZZA
SEMANTICA (par 5.2.5).
Anche nel caso di una proprietà così vicina alle risorse più peculiari della verbalità, non si tratta di una
proprietà specie-specifica: si pensi alla gestualità, dove un gesto risponde letteralmente a un gesto, spesso
anche in assenza del supporto verbale, o alle lingue dei segni.
Anche molte specie animali sanno usare i loro segnali metalinguisticamente. Lo fanno nell’introdurre il
gioco con con-specifici → prima della simulazione della lotta vengono emessi dei segnali che dettano le
regole su come intendere che seguiranno

5.2.5SEMANTICITÀ (INDICATIVITÀ)(sono sinonimi)


I segni linguistici mostrano, indicano una qualche realtà, un qualche stato di cose e nel loro indicare
veicolano significato, offrono cioè senso a quel determinato stato di cose, a quella determinata realtà.
“Prendi quella sedia” ->Il concetto disemanticità sta nelle parole “prendi” e “sedia”
Si tratta di proprietà presenti in altri codici? Sì, ad esempio nei linguaggi fatti di “gridi illetterati come quelli
di belve” (Aristotele).
DUNQUE →INDICATIVITÀ (SEMANTICITÀ) non possono dirsi proprietà specie-specifiche
Il ruolo dell'ASTRAZIONE
➢ Un significato è per eccellenza un simbolo, una rappresentazione mentale che prescinde dalla
presenza fisica degli oggetti cui rimanda.
Intesi così, i linguaggi di molte specie animali non umane risultano sofisticamente capaci di significazione;
così come pure i linguaggi matematici.
E le lingue?
A differenza degli altri linguaggi le lingue sono capaci di dire tutto (Secondo Chomsky e Hjemslev). Questa
capacita si chiama onniformativitàdelle lingue.
De Mauro ha ripreso questa definizione, restringendo il campo e dice che non si possono indicati i limiti do
ciò che una lingua può dire (si pensi alla metafora, grazie alla quale esprimiamo un concetto che con le
singole parole non si può esprimere)
Possiamo dunque affermare che, diversamente dai linguaggi artificiali, ma anche dai linguaggi degli altri
animali, le lingue dispongono di significati indeterminati (classi aperte)
VAGHEZZA(proprietà fondamentale del linguaggio verbale umano)
Tale proprietà fa sì che significato e significante di ciascun segno linguistico siano degli insiemi aperti,
continuamente ampliabili o restringibili, di sensi e di espressioni. Rende flessibile una lingua, sia dal punto di
vista della produzione che dal punto di vista della ricezione.

«Ciascun segno non circoscrive dunque con precisione una classe di espressioni indicanti i sensi di una
classe circoscritta con altrettanta precisione, ma è lo strumento di un’attività allusiva, di un gioco che
conduce alla messa in relazione di espressioni tra loro assimilabili e un gruppo di sensi» (De Mauro 1982)

Sfumatura non circoscrivibile all’interno d regole, il non detto, che nonostante ciò è comunque
comprensibile.
«è sotto gli occhi, o meglio, nelle orecchie di tutti: che le realizzazioni parlate e grafiche effettive oscillano
fortemente da una maggiore nettezza, propria del parlato o dello scritto a stampa e simili, verso una nettezza
assai minore, in cui il rilassamento di articolazioni e grafie porta a fare delle emissioni foniche e delle
tracce scritte poco più che indizi allusivi alle forme significanti. Ancora più marcatamente l’analogo avviene
sul versante del significato: di continuo allarghiamo i confini dei significati a nuovi sensi» (id. 101)
Parlato→ quando l’emissione della voce cambia (per esempio, quando mi allontano dal microfono il tono
della voce cambia e dalle ultime file potrà non essere compresa)
Scritto→ riesco a capire una frase anche se non la leggo tutta.

Possiamo avere diversi tipi di vaghezza:


➢ Vaghezza del significato→ potenzialmente, un numero assai consistente di segni linguistici è dotato
di significati vaghi, che possono e potranno in modo potenzialmente infinito allargarsi alla
trasmissione di nuovi sensi. Il cambiamento della semanticità di molte parole nel tempo, il loro
svuotamento di significato, la loro risemantizzazione sono tutti effetti dell’azione della vaghezza.
ESEMPIO→ Quando qualcuno ci chiede “Stai bene?” e noi rispondiamo “Bene!”, grazie alla nostra
gestualità e al tono di voce possiamo lasciare intendere tutt’altro. In linguistica vengono detti
“impliciti”
➢ Vaghezza del significante → uno stesso segno linguistico, una stessa
espressione può essere trasmessa oralmente e per scritto in modo assai diverso.
ESEMPIO→Quando si hanno disturbi nella comunicazione (allontanarsi dal
microfono, interferenze telefoniche).
È la proprietà tipica della poesia, che dà alle parole un carattere evocativo
(un’immagine ha un significato oggettivo e soggettivo). Leopardi grazie alla siepe riesce a evocare infiniti
sensi (apoteosi della vaghezza).
Là dove c’è vaghezza, dove c’è permanente disponibilità all’innovazione c’è anche la necessità di un
rinnovarsi continuo dell’intesa tra gli utenti del codice, all’atto della produzione e ricezione di ogni
realizzazione segnica, con quell’atteggiamento reciproco tra utenti produttori e ricettori che è stato detto
opportunamente tolerance upon the field.
Si instaura un patto implicito tra i due protagonisti della comunicazione, perché io so che il destinatario ha
gli strumenti per capire ciò che non dico. Questo patto è la vaghezza.
Queste caratteristiche rendono la vaghezza condizione della creatività regolare.
Si tratta di una proprietà presente in altri codici? Sì, nel linguaggio dei gesti, nelle lingue segnate
Si tratta di una proprietà necessariamente presente nelle altre lingue? No, perché esistono porzioni di lingua
che presentano gradi di vaghezza molto ridotta, quasi nulla (e.g. segni che non ammettono sinonimia).
Lezione 6 23/04/2018

CAP. 6 SISTEMI DI SCRITTURA E TESTUALITÀ


Chiamiamo scrittura l’insieme di strategie e tecniche inventate e utilizzate da popoli diversi nella storia al
fine di fissare e trasmettere socialmente dati, pensieri, esperienze mediante artifici di tipo grafico-visivo.
Quindi il concetto di scrittura può abbracciare molte forme di espressione e servirsi sia di mezzi scrittori sia
di supporti completamente diversi.
La definizione data si contrappone a un’altra, tradizionale e tutt’oggi molto diffusa, secondo cui la scrittura
sarebbe semplicemente un sistema per tradurre in simboli grafici la parola parlata.

6.1. LA FUNZIONE SEMIOTICA DELLA SCRITTURA


Analisi semiotica = analisi della comunicazione in un contesto
Le prime testimonianze note di scrittura ci conducono alla Mesopotamia, intorno alla metà del IV secolo a.C.
e, dopo qualche centinaio di anni (verso il 3100 a.C.), all’antico Egitto.
La scritta è, dal punto di vista evolutivo, un’invenzione relativamente recente, che però ha e determinato
profondi cambiamento nel organizzazione della conoscenza e della semiosi.
Prima dell’avvento della scrittura, il linguaggio era completamente radicato nel contesto. La parola si
arricchiva di gesti e comportamenti paralinguistici: era una parola che funzionava come dispositivo di
espressione e trasmissione del pensiero in tempo reale. La sua assoluta determinatezza la rendeva il mezzo
privilegiato di incontro e aggregazione sociale.
La scrittura offre agli esseri umani risorse semiotiche nuove. Con essa, diviene possibile trasmettere il
pensiero a distanza, limite invalicabile della parola parlata.
La scrittura offre un supporto esterno alla memoria, consentendone una indefinita estensione. Ciò avviene al
prezzo di una de contestualizzazione del linguaggio → un testo scritto funziona in assenza di gesti e tratti
paralinguistici del mittente e non tiene conto della situazione pratica, psicologica etc. in cui si trova il
destinatario nel momento in cui lo riceve e lo legge.
La rivoluzione introdotta dalla scrittura fu tanto sentita che esponenti della cultura tradizionale ne
evidenziarono con toni polemici gli aspetti per i quali essa si differenziava dall’oralità:
▪ Platonenel Fredo vede la scrittura come forma degradata di semiosi, come una sorta di abdicazione
delle forze naturali della memoria a quella sapienza che deve essere trasmessa a voce, in un
contesto diretto fra le persone.
Si tratta di un punto di vista di una mentalità arcaica, che oggi sopravvive nella diffidenza verso la parola
scritta. Tuttavia la scrittura introduce nel discorso una ‘formalità’ maggiore rispetto al parlato→
funzionando senza mittente, è costretta a rendere espliciti tutti quei riferimenti che possono rimanere nel
“non detto” .
Oggi, grazie all’invenzione della radio, del registratore, del telefono si ha una traccia della parola parlata,
udibile anche a distanza.

6.2. TIPI DI SCRITTURA


La scrittura è un’invenzione dell’uomo relativamente recente e ha consentito anche una comunicazione a
distanza.
Nell’arco della sua storia multimillenaria la scrittura ha assunto numerosissime forme e ha svolto, nelle
diverse società, molteplici funzioni diverse.
- Scrittura pittografica→a ogni segno corrisponde un’immagine (prima forma di scrittura)
- Scrittura ideografica→ a ogni segno corrisponde un’idea
- Scrittura logografica→ ogni segno corrisponde a una parola (cinese)
- Scrittura fonetica alfabetica→ a ogni segno corrisponde una lettera (greco)
- Scrittura fonetica sillabica→ ogni suino corrisponde a una sillaba (giapponese)
Un criterio per orientarsi può essere quello di distinguere forme di scrittura orientate a esprimere
direttamente aspetti del mondo mediante strategie pittografiche, o concetti o elementi di pensiero mediante
strategie ideografiche, e forme di scrittura che esprimono il pensiero facendo riferimento a una lingua: in
questo secondo caso si può ulteriormente distinguere tra scritture che cifrano intere parole (scritture
“logografiche”), sillabe (scritture “sillabiche”), oppure fenomeni (scritture “alfabetiche”).
Si è a lungo ipotizzata una trafila che porterebbe dalla pittografia all’alfabeto seguendo una logica di
sviluppo interno, da una (presunta) massima iconicità a una (presunta) massima arbitrarietà.
Si tratta di un punto do vista sbagliato, legato all'erronea opinione che la scrittura serva essenzialmente a
riprodurre la parola parlata.
Si tratta invece di comprende le singole strategie scrittorie nella loro particolarità tecnica e nella diversità dei
modi con cui viene adempiuta la funzione semiotica di fissare graficamente l’informazione. Ogni scrittura
attestata si presenta come un fenomeno culturale complesso.
Ogni scrittura va studiata come un piano a se stante, non a paragone con un’altra forma di scrittura.

6.3. TESTO E IPERTESTO


L'ipertesto è un “testo composto da blocchi di parole (o immagini) collegate elettronicamente secondo
percorsi multipli, catene o percorsi (trails), in una testualità aperta e sempre incompiuta descritta dai
termini ‘collegamento' (link), 'nodo' (node), ‘rete' (network) e ‘percorso' (path) (Ladow)
Il messaggio che un testo offre non si presenta più nella forma lineare tradizionale (come in un libro), ma in
una forma pluriplanare, dove quasi da ciascun punto si può risalire a informazioni, commenti, integrazioni,
approfondimenti situati ad altri livelli testuali cui si ha accesso mediante link. Il testo è pertanto organizzato
come un sistema di conoscenze ch è possibile percorrere tutto o in parte, secondo il o i percorsi suggeriti
dall’autore. Inoltre, l’ipertesto può includere numerosi links che non rimandano a informazioni messe lì
dall’autore, ma a punti di altri ipertesti, i quali a loro volta possono essere collegati ad altri e così via.
Da questo punto di vista, l’ipertesto simula nel mondo migliore il funzionamento non chiuso del sapere
“dizionariale”, ma rappresenta un’apertura concreta verso l’enciclopedia.
Poiché questa “enciclopedia” è costituita da conoscenze non solo verbali, ma che si esprimono tramite
linguaggi diversi, è più giusto parlare di “ipermedia”.
Gli studiosi di oggi ricordano il nome di:
➢ Vannar Brush(un ingegnere), che già dal 1945 pensava a un sistema (detto memex) per archiviare e
reperire le informazioni in modo meccanizzato, a una velocità e con un’efficienza superiori a quelli
consentiti dalle tecniche artigianali
➢ John Wilkins e Gottfried Wilhelm Leibniz, nel Seicento, si erano posti il problema di come accedere
in modo efficiente all’immenso materiale conoscitivo disponibile e di come trarre da esso ulteriori
nozioni. Avevano anche pensato a degli speciali linguaggi per codificare tali conoscenze in modo
simbolico.
- Wilkins→ parlava di un “carattere reale”, fatto in modo da esprimere i veri rapporti delle
cose fra loro
- Leibniz→ parlava di una “caratteristica universale” capace di ridurre il sapere a degli
elementi ultimi, che fungessero da primitive conoscenze, combinando i quali in un certo
ordine e secondo certe regole si potessero fare anche nuove scoperte.

IPERTESTO SÌ IPERTESTO NO?


Il lettore esperto è quello che sa autonomamente cogliere lo spazio per i link e sa reperire da solo le fonti
necessarie a soddisfare le sue curiosità, le sue domande o deduzioni dal testo.
Gli ipertesti non fanno altro che riprodurre su larga scala una procedura di conoscenza che sta tutta
dentro la mente umana, simulandone il funzionamento e rendendolo meglio osservabile.
L’ipertesto riproduce quello che la mente sapeva già fare.

6.4. LA SEMIOTICA DEL TESTO


Oggi si parla di una “semiotica del testo” che a seconda dei punti di vista.
a) Può configurarsi come un’articolazione della semiotica, volta all’indagine di una classe di fenomeni
storico-naturali organizzati secondo certe norme e tradizione discorsive
b) Può coincidere con l’indagine semiotica, posto che questa sia legata alla culturologia e che la cultura
umana sia studiabile come macchina di significazione
6.4.1 UNA DEFINIZIONE LINGUISTICA DI TESTO
Un testo è ogni unità linguistico-verbale che, inserita in precise coordinate geo-sociali e di registro,
realizzi compiutamente una funzione comunicativa.
Tre sono le dimensioni che interagiscono in questa definizione:
- Varietà linguistica→ un testo può essere standard, tecnico-scientifico, colloquiale, regionale,
dialettale, etc. (nel caso dell’italiano)
- Livello di formalità (o registro)→ cioè il fatto di essere più o meno indipendente dalle
circostanze esterne dell’enunciazione.
- Il mezzo impiegato, che condiziona l’organizzazione interna del testo. Un testo orale può ad
esempio permettersi ellissi e sconnessioni recuperabili mediante l’interazione faccia a faccia
di parlanti; una produzione scritta sarà più controllata e strutturata, e così via…
Con questi punti di riferimento è possibile classificare ogni possibile enunciato e testo prodotto in un dato
ambiente culturale.
Le categorie finora introdotte hanno un’evidente portata semiotica, perché servono a situare gli eventi verbali
in un gioco di variabili che investono l’insieme della situazione comunicativa → la scelta della varietà, del
registro e del mezzo avviene in funzione diretta sia dell’identità e delle capacità/volontà espressivo-
comunicative del mittente, sia dell’identità e delle attese e possibilità di ricezione/comprensione del o dei
destinatario. Inoltre, è normale che sia il tipo di varietà utilizzata, sia il livello di formalità oscillino durante
uno scambio comunicativo (ciò accade sempre in una condizione di parlato spontaneo)
Due sono le caratteristiche fondamentali di un testo:
1. Coesione dei mezzi formali di un testo (forma) → rendono coeso un testo tutte le componenti che lo
fanno linguisticamente “stare assieme” : le marche di genere, le desinenze, etc
2. Coerenza o unità tematico-logica dei suoi contenuti (contenuto)→ rendono coerente un testo tutti i
dispositivi che gli garantiscono unità semantica: gli indicatori coreferenziali, etc.
Naturalmente coesione e coesione sono concetti non assoluti, ma relativi all’infinita gamma delle situazioni
semiotiche di funzionamento di un testo
ESEMPIO→ Se sentiamo uno straniero parlare stentatamente la nostra lingua, suppliamo al deficit di
coesione da una parte ricorrendo ai meccanismi di ridondanza della lingua, dall’altro con l’aiuto delle
circostanze che ci permettono di capire cosa vuole dirci il nostro interlocutore.
Invece se si trattasse di valutare la nostra preparazione formale (prova scritta di maturità, scrittura testi di
laurea), una difettosa coesione sarebbe sanzionata socialmente.
Per quanto riguarda la coerenza è indecidibile fino a che punto può spingersi la capacità umana di ascrivere
unità a un testo. Perfino una sequenza del tipo “Prometto che ieri eri qui” è sensata e comunicativamente
compiuta.

6.4.2 IL TESTO LETTERARIO

ANALISI SEMIOTICA E ANALISI LINGUISTICA DI UN TESTO


L’analisi semiotica si un testo si differenzia da analisi linguistica perché quest’ultima può prescindere dal
contorno comunicativo, la prima non può farlo in nessun caso. L’analisi semiotica può avvenire solo
all’interno di un contesto. I testi letterari ci danno modo di illustrare questo passaggio.
Essi sono testi materiate da parole, ovvero delle risorse linguistiche di una data epoca storica, che un qualche
autore o autrice modella secondo particolari propensioni, condizionate da una parte dalla tradizione di genere
in cui si inserisce, dall’altra da proprie scelte individuali di stile. Ogni testo letterario circola in un preciso
spazio comunicativo, più o meno differente dal nostro.
Tutti i testi letterari si presentano come incognite il cui valore semiotico va recuperato tramite un
accertamento rigoroso della posizione comunicativa svolta al loro tempo.
© Approccio storico-filologico→ questo approccio presuppone gli strumenti della filologia e della storia
della lingua: dati linguistici il più possibile estesi e differenziati socialmente. Del resto una parte della
semiotica del Novecento si formò sul terreno letterario:
• È il caso del “Formalismo russo” che inseriva sul carattere sistemico dell’opera letteraria, sul suo
essere il risultato dell’interazione dinamica di molteplici componenti linguistico-formali
• È il caso della Scuola di Praga che estendeva al testo letterario la concezione della lingua come
struttura funzionale, retta da una logica di dipendenze interne
Queste due importanti tradizioni di ricerca vennero fortemente influenzate da Saussure
© Approccio orientato alla fruizione → sposta l’attenzione dai meccanismi di composizione dell’autore e
dell’opera ai meccanismi di fruizione del testo. Fruizione implica un ruolo non passivo da parte di chi legge e
ascolta; e implica che il senso testo non sia una volta per tutte consegnato all’ “ora e qui” della sua storicità,
ma in un certo senso si riproduca ogni qual volta che quel testo viene preso in considerazione dai suoi tanti
possibili lettori, di epoche e livelli socio-culturali diversi.L’interpretazione di un testo varia a seconda del
periodo storico e della persona che lo legge.

Lezione 7 24/04/2018

LETTURA E INTERPRETAZIONE DEL TESTO


Secondo Wolfgang ISER →la lettura diventa un vero e proprio “evento” che fa vivere il testo proprio e
solo nel momento in cui si consuma (Iser, 1987).
Iser, insieme a JAUSS, è il maggior rappresentante della SCUOLA DI COSTANZA, un gruppo di ricerca cui
si deve la cosiddetta “TEORIA DELLA RICEZIONE” → interessata alla modalità con cui i testi vengono
letti e interpretati.
Ciò si può fare in chiave storica, indagando la gamma di sensi e di percorsi interpretativi, talvolta
radicalmente diversi, accumulandosi sullo stesso testo col passare delle epoche; oppure in chiave
fenomenologica e sincronica, focalizzando i meccanismi ermeneutici che il singolo lettore mette in opera
nel processo di lettura. Con questo approccio viene messo in primo piano lo sforzo che il lettore fa, pagina
per pagina, di dare un senso unitario al testo.
Le nozioni di coesione e coerenza rifluiscono per intero nel processo di lettura → Quando usciamo dal
cinema e ci troviamo a discutere su “che cosa voleva dire” quel film, sul nesso tra questa e quella
battuta/scena/inquadratura, stiamo cercando di chiarire a noi stessi le modalità di coesione formale del testo,
alla luce delle quali esso assume una fisionomia semantica coerente.
Come spiega ECO in “Lector in fabula”1979, il lettore “collabora” alla costruzione del senso del testo,
focalizzandone elementi e dando loro unità, anche in maniera non prevedibile dall’autore. Si tratterebbe
di un qualcosa di fisiologico, originato dal carattere semiotico del processo di lettura, legando dunque alla
necessaria asimmetria (rapporto non allo stesso pari) del fruitore, con la sua enciclopedia culturale, le sue
propensioni, il suo sistema di attese, rispetto all’autore.
Del resto, la collaborazione viene richiesta dal testo medesimo, nel quale l’autore può disseminare inviti a
passare dalla posizione di passivo lettore a quella di attivo interprete (Dante con i suoi “versi strani”
Ai fini di una considerazione semiotica del testo letterario, occorre distinguere tra:
l’autore materiale del testo(con certe caratteristiche storiche, certe convinzioni ideologiche, certe
idee sull’arte),
il narratore(una figura del testo, non materiale, che può assumere posizioni distinte: terza, prima
persona),
il destinatario atteso, il lettore implicito (Iser) o modello (Eco), ossia il lettore ideale,
il lettore reale, storicamente determinato, che ne raccoglie il messaggio nella realtà e ne sviluppa
autonomamente il valore.
In mezzo a queste 4 figure c’è:
il testo, che assumerà senso in base alle relazioni che si intrecceranno, nel tempo, tra queste figure

6.4.3 TESTO E TEORIA DELLA CULTURA

TUTTO È TESTO
Sempre più diffusa è la consuetudine a considerare testi tutte le forme di produzione culturale aventi a che
fare con le arti (anche un quadro è un testo). Da tale punto di vista, esse (le arti) possono essere considerate
testi, avendo quei caratteri di organizzazione interna e di compiutezza semantico-comunicativa
tradizionalmente attribuiti ai testi in senso stretto.
“Il testo può essere considerato l’elemento primario della cultura”, secondo la cosiddetta Scuola di Mosca e
Tartu, attiva a partire dagli anni sessanta. Se poi, come fanno gli antropologi, consideriamo cultura non solo
“l’insieme dei prodotti dello spirito”, ma tutto quanto non è compreso nel nostro patrimonio genetico, la
nozione di testo può estendersi a ogni oggetto della nostra esperienza che abbia requisiti di riconoscibilità e
stabilità in un dato ambiente storico. Cultura è tutto, anche il modo in cui i delfini si riproducono.
Da un punto di vista semiotico il TESTO→qualsiasi espressione che trasmette un valore culturale
Siamo lontani dalla struttura di quei “codici propriamente detti” (par. 1.3.)
Alcuni semiotici di ispirazione greimasiana (studioso lituano) sosterrebbero che tali oggetti interagiscono
con gli utenti/interpreti in modo da generare significazione, dando al processo semiotico un carattere
“narrativo” (persino il modo di spostarsi della gente in metropolitana potrebbe essere letto come una gamma
di possibili procedure di produzione di testo (Funzionalità? Avventura? Esplorazione? etc.)
L’allargamento della nozione di testo a quella di “unità culturalmente sensata” ha il vantaggio di aiutarci a
concepire il sistema culturale in cui siamo immersi come un qualcosa di straordinariamente ricco e
stratificato, caratterizzato dalla varietà e dall’apertura delle connessioni.

CAP. 7 LINGUAGGIO E MENTE NELLA PROSPETTIVA SEMIOTICA


7.1 LINGUAGGI NATURALI CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ

Il problema della continuità/ discontinuità della semiosi fu posto da CHARLES DARWIN nel suo saggio
The descent of Man (1871).

➢ Continuità→ punti in comune tra le diverse culture


➢ Discontinuità→ punto di rottura fra i diversi linguaggi naturali
L’uomo è capace di gestire più suoni e più sensi, più significati rispetto alle altre specie, ed è per questo che
si crea questa discontinuità, secondo Darwin. È la mente dell’uomo che riesce a gestire questa mole
sostanziosa di elementi linguistici e sonori. Sia gli uomini che alcuni animali, secondo Darwin, riescono a
riprodurre gli stessi suoni, creando una continuità.
Vi sarebbe tra gli esseri umani e gli altri animali una differenza solo graduale, consistente nella maggiore o
minore ricchezza e complessità delle capacità cognitive (Darwin).
Potremmo concludere che la semiosi è una proprietà condivisa da gran parte, se non tutto, il mondo
animale.
SEMIOSI→processo attraverso cui un’espressione assume valore di segno (linguaggio che diventa
comunicazione).
Premesso che la ricerca sperimentale continuamente induce a ritoccare il quadro di conoscenze disponibili su
tali questioni, possiamo trovare alcuni punti sui quali l’accordo sembra ormai consolidato:

1. SEMIOSI (COMUNICAZIONE) E AMBIENTE


Ogni tipo di semiosi dipende dal tipo di analisi dell’ambiente che le specie possono realizzare grazie alla
particolarità (e ai limiti) del proprio sistema percettivo.
SecondoJAKOB VON UEXKULL, ogni specie “vede” l’ambiente esterno in modo diverso perché il suo
sistema percettivo localizza solo le caratteristiche evolutivamente interessanti per quella specie (si seleziona
ciò che è essenziale per la sopravvivenza: udito finissimo per i cani, vista acuta dei gatti al buio, posizione
eretta continua dell’uomo, mutamento dell’apparato di fonazione dell’uomo).
La Umwelt (lett. “ambiente”) cui ogni specie è adattata è in tal senso un “ambiente soggettivo”, accordato
con quello che gli apparati sensomotori e cognitivi della specie possono/debbono fare in esso.
Questa teoria ha trovato conferma nei più recenti lavori dello psicologo JAMES J. GIBSON→ secondo il
quale un organismo che percepisce è un sistema autorisonante; è un dispositivo fisico, maturato sui tempi
dell’evoluzione, fatto per “risuonare” in accordo con l’informazione disponibile nell’ambiente. Naturalmente
gli umani condividono queste caratteristiche, nel senso che le nostre capacità percettive sono accordate al
tipo di realtà materiale che si è reso utile evolutivamente.

2. SEMIOSI E PERCEZIONE
Tutti i sistemi percettivi devono abilitare gli esseri viventi ad almeno una funzione, basilare ai fini della
sopravvivenza. Questa operazione, che si trova persino negli organismi unicellulari, è quella di stabilire
identità e differenze: applicando il criterio della pertinenza (par. 4.4.) che consente di dividere l’universo in
due classi complementari, i viventi riescono a identificare ciò che è utile alla loro sopravvivenza,
differenziandolo da ciò che è ostile. La selezione di tali tratti non è universale, ma specifica per ogni specie,
sulla base di caratteristiche del sistema percettivo ritagliate sulle prerogative fisiche del corpo.

3. SEMIOSI E CATEGORIZZAZIONE
Vincoli del sistema percettivo e forme di categorizzazione collegate a questo stringono in modo peculiare
ciascuna specie al suo mondo. Ne consegue che il tipo di semiosi che quella specie utilizzerà sarà adattato
alla potenzialità percettive e mentali della specie; costruirò i suoi sogni sulla falsariga delle capacità di
categorizzazione collegate a tali potenzialità; avrà per oggetto il mondo ritagliato delle caratteristiche
percettive e categoria li di cui si è detto (il cosiddetto riferimento o aggancio al mondo). Ciò significa che,
grazie ai suoi segni, ciascun individuo di una specie è in grado di individuare nel suo mondo gli oggetti utili
e di condividerli con gli altri esseri della propria specie.

Acquisite le caratteristiche biosemiotiche universali (ovvero tutte le proprietà che i linguaggi naturali
debbono avere), un approccio di tipo comparatistico dovrebbe spostarsi sul terreno più tecnico
dell’identificazione delle proprietà semiotiche dei codici (cap. 5) nello sforzo di individuare quali di esse si
presentino e quali no, specie per specie.

1) Una possibile strategia (seguita da Mainardi) è quella di indagare la capacità di servirsi di utensili.
Si basa sul presupposto che servirsi di un oggetto reperito nell’ambiente come di uno strumento implica una
capacità di distacco dall’immediatezza e l’attribuzione di una funzione simbolica a quell’oggetto, diversa dal
puro e semplice “uso” di esso (= analogia strumento-segno). Ecco allora che assumono una notevole
importanza casi come quelli studiati da Jane Goodall di scimpanzé capaci sia di usare sassi o pezzi di legno
come strumenti di difesa/offesa
Sia di estrarre termiti dai termitai servendosi di fili d’erba, bastoncini o stecchetti di legno, dopo averli
preparati, ripuliti, affilati e raccolti in buon numero.

2) Un’altra possibile strategia è quella (utilizzata da Cimatti) di verificare se le ben note “funzioni” del
linguaggio di Jakobson siano esclusive dell’uomo o si trovino in altre specie.
La funzione “referenziale” appare comune alle api bottinatrici che hanno la straordinaria attitudine a scoprire
e a comunicare alle compagne fonti di nettare; altrettanto si può dire dei segnali di allarme con cui molte
specie indicano al loro interno la presenza di potenziali predatori.
La funzione “conativa” si ritrova nella tipologia dei close calls, i segnali utilizzati all’interno di un gruppo
per ribadirne l’unità o per differenziare i ruoli gerarchici, come in tutti i rituali di corteggiamento e di
accoppiamento.

DISCONTINUITÀ DEL LINGUAGGIO VERBALE


Potremmo continuare nell’esemplificare questi casi, ma non riusciremo a trovare una sola funzione che sia
esclusiva del linguaggio umano, mentre può benissimo succedere che singole funzioni non si trovino in
questa o quella specie, mentre si ritrovano tutte nella parola.
Anche il tentativo di individuare la proprietà semiotica specificatamente umana non ha dato diversi esiti → la
vocalità, negata agli scimpanzé, si ritrovava sviluppatissima in molti uccelli e nei delfini; la creatività
regolare è risultata alla portata di diverse specie.
Sembra dunque ragionevole concludere che il linguaggio umano si differenzi da quello degli animali, non
per la presenza di una caratteristica specifica, bensì per la compresenza e per la finissima integrazione di
proprietà che altre specie rivelano solo separatamente, una alla volta.
Che il DNA umano coincida per il 97% con quello degli scimpanzé non esclude che vi siano profonde
differenze nel potenziale semiotico.
La superiorità semiotica degli umani è dunque fuori discussione. Ma l’ammissione pacifica degli elementi di
discontinuità può essere fatta senza negare l’esistenza di una filiera comune, di una sostanziale continuità.
La ricerca di “un gene del linguaggio”, che confermerebbe la tesi di Chomsky, non ha ancora dato esiti
condivisi dalla comunità di studiosi. Più produttiva sembra la strada di indagare le peculiari proprietà
adattive del cervello umano, che spiegano con l’intreccio di un dato naturale e dato culturale quella fioritura
della semiosi che ha dato vita a migliaia di lingue, a variegati sistemi di scrittura, alle arti verbali, visive e
plastiche.

7.2 DECENTRARE LA MENTE?


Se il linguaggio (= capacità di associare significanti e significati) non è un’esclusiva degli esseri
umani, ma si ritrova in molte altre specie, che dobbiamo dire della mente?, ovvero della proprietà
ritenuta distintiva dell’uomo. La domanda si impone su due versanti:
- Quello del confronto tra esseri umani e altri animali
- Quello del confronto tra esseri umani e macchine intelligenti
Un’ipotesi potrebbe essere la seguente →Dato che la semiosi generale è così largamente diffusa nel mondo
animale, altrettanto diffusa deve essere una qualche capacità di pensiero(diverso dal pensiero umano) che
possiamo identificare come “mente”.
Nella seconda metà del ‘900 ha avuto largo credito la teoria secondo la quale “avere una mente” significa
elaborare rappresentazioni del mondo nella forma di simboli retti da certe regole di combinazione.
Una mente del genere sarebbe dunque in sostanza un programma di calcolo di informazioni, il quale
lavorerebbe indipendentemente dal supporto fisico che lo ospita →un software implementabile su diversi
hardwares.
Tale teoria si è imposta nel quadro della scienza dei computer e ha trovato il suo punto di forza nell’idea del
matematico inglese ALAN TURING formulata nel suo articolo Computing Machinery and Intelligence,
secondo la quale se si danno situazioni in cui le macchine compiono operazioni equivalenti a quelle
compiute da esseri (come gli umani) “intelligenti”, si può dire che tali macchine pensano.
Il nocciolo del pensare starebbe insomma nella “funzione” concretamente svolta (nel programma), non nella
sua (eventuale) base biologica.
Tutta la corrente di pensiero nota come “cognitivismo” (Chomsky = capostipite) fa riferimento a questi
presupposti. La fede nell’ “intelligenza” delle macchine si è spinta al punto di ritenere che, non solo queste
siano utilissimi aiuti allo sviluppo delle nostre attività, ma anche che la mente umana funzioni come un
computer.
Il pensiero funziona indipendentemente dalla base biologica (uomo, scimpanzé) che lo ospita.
Due obiezioni a questa teoria:
1) JOHN SEARLE, esperimento della camera cinese →un computer potrebbe rispondere correttamente
a delle domande formulate in cinese elaborando le risposte in base ai dati in suo possesso. La sua
capacità di calcolo potrebbe far credere all’interrogante che egli sia un essere umano. Ma le cose non
stanno così. Anche se ha fornito risposte corrette, il computer ha soltanto manipolato sintatticamente
dei simboli, senza capire niente del loro significato.
2) CONCEZIONI RIDUZIONISTE→La mente umana sembra essere qualcosa di più della somma
delle sue infrastrutture fisiche: i fenomeni come le emozioni, le credenze, i desideri, i ricordi
emergono da tali infrastrutture e assumono realtà autonoma
Ulteriori indicazioni giungono dal mondo delle neuroscienze e della robotica → l’idea portante del
cognitivismo è che la mente sia un dispositivo centrale che governa il cervello, elaborando i dati che questo
fa affluire tramite il sistema percettivo. Studi recenti sul funzionamento delle aree celebrali rivelano però che
esse dipendano da una trama ricchissima di sottosistemi autonomamente funzionanti e fra loro interattivi. La
stessa rete delle connessioni assolverebbe quelle preziose funzioni di coordinamento in cui sembra consistere
l’attività superiore della mente umana.
Su questo modello “connessionista” si è messa al lavoro la tecnologia della robotica, nell’intento di simulare
aspetti del funzionamento di una mente naturale.
Un primo punto di arrivo di queste ricerche può essere questo →La mente (biologica) va ridefinita come
“sistema complesso”. Con tale termine ci si riferisce a un sistema fisico (evolutosi secondo le leggi di madre
natura) il quale è composto da un gran numero di elementi che interagiscono in modo non lineare; ha
comportamenti di insieme non del tutto prevedibili sulla base degli elementi componenti; reagisce in modo
differenziato alle perturbazioni esterne; è adattato all’ambiente e interagisce con esso; cambia nel tempo in
modi non graduali e non prevedibili.
Un discorso almeno in parte analogo può farsi anche per quegli animali non umani che esibiscono
comportamenti almeno parzialmente imprevedibili in base al loro corredo biologico.
I comportamenti di gioco e quelli di ‘inganno’ comunicativo sembrano candidati interessanti per rivelare una
complessità semiotico-cognitiva adeguata alla presenza di una mente.
Questa impostazione fa leva su una nozione biologica di mente; ciò implica un ridimensionamento della
nozione di mente “artificiale” -> quella del computer si presenta come una drastica semplificazione della
mente umana. Searle direbbe che mentre le menti umani sono capaci di intenzionalità originaria o primaria,
poiché sono capaci di riferirsi a oggetti del mondo mediante opinioni, credenze, desideri, i computer
posseggono solo un’intenzionalità derivata, perché istruita artificialmente dall’uomo.

7.3. DAL LINGUAGGIO-STRUMENTO AL LINGUAGGIO COGNIZIONE


Una delle teorie per naturalizzare il concetto di mente è quella di Daniel DENNET, dei cosiddetti
ATTEGGIAMENTI INTENZIONALI → se guardiamo le attività svolte dagli essere viventi, non possiamo
fare a meno di attribuire loro delle capacità di riferimento, una intenzionalità (il cane abbaia perché ‘vuol
dirci’ che ha voglia i uscire; ti ho guardato accigliato perché tu senta la responsabilità di ciò che è successo)
Siamo così tentati di generalizzare a tutto l’universo la nozione di mente, antropomorfizzando ogni aspetto
della realtà -> anche i polmoni che pompano aria hanno una loro intenzionalità, nel senso che assolvono a
una funzione preziosa e insostituibile per la vita dell’organismo. Tuttavia, l’evoluzione delle conoscenze ci
fa sapere che, quanto può apparirci come una mente non è in effetti che il risultato di un processo adattivo,
legato alla selezione naturale.
Dennet osserva che, fra tutte le creature viventi, gli esseri umani sono i soli a fare un uso sistematico, esteso
e complesso di “utensili” linguistici che consentono loro di “scaricare” nel mondo interi blocchi di
informazioni, conoscenze, esperienze rendendoli così disponibili per potenziare in modo illimitato le
capacità cognitive.
Il terreno del linguaggio è quindi il terreno della cultura, che fissa e sedimenta gli apprendimenti, li trasforma
in significati condivisi, li socializza. Su tali significati poggia la collettività, producendo altra attività
linguistica, altra cultura, altri testi, in un procedimento interminabile.
È legittimo chiedersi: IL LINGUAGGIO È SOLO UNO STRUMENTO?
Il linguaggio è più di uno strumento: è un dispositivo che media le attività cerebrali e aiuta in modo
sostanziale la cognizione. Se è certo possibile un pensiero senza oralità, non sembra possibile un pensiero
senza semiosi. Il pensiero, l’attività mentale, non vengono “colati” nei segni linguistici, ma in larga misura
giungono a determinazione solo attraverso i segni, proprio perché quest’ultimi modulano il pensiero e lo
obbligano a prendere una forma, a organizzarsi.
La coscienza, il pensiero si riflette come il sole in una piccola goccia d’acqua. La parola sta alla coscienza
come un piccolo mondo a uno grande; come una cellula vivente ad un organismo, come un atomo al cosmo.
Essa è un piccolo mondo della coscienza.
CAP. 8 COMPLEMENTI

8.1 I PADRI FONDATORI

8.1.1 Charles Sanders Peirce

Charles Sanders Peirce, logico e filosofo pragmatista americano, anche fisico e matematico, è uno dei
fondatori della semiotica moderna. I suoi scritti sono raccolti in Collected Papers of Charles Sanders
Peirce. La semiotica di Peirce è una semiotica cognitiva, che si basa su una teoria della
conoscenza (studia i segni in modo più ampio). Peirce vi arriva mediante le riflessioni sui fondamenti del
conoscere di John Locke. Quest’ultimo individua nella semiotica, o dottrina dei segni, una terza parte della
scienza. Peirce oppone a una conoscenza diretta, che attinge all’oggettività e ad una completa fedeltà, una
concezione interpretativa e ipotetica della conoscenza, staccandosi così dal razionalismo.
Peirce dice:
a) tutta la conoscenza del nostro mondo è derivata per ragionamento ipotetico dalla nostra
conoscenza di fatti esterni e non dall’introspezione;
b) ogni cognizione è derivata logicamente da cognizioni precedenti e non dall’intuizione;
c) non è possibile pensare senza segni;
d) non si può assumere una concezione dell’assolutamente inconoscibile
Secondo Peirce il progresso scientifico non può essere provocato né dalla deduzione né dall’induzione. La
conoscenza produce nuove idee attraverso l’abduzione, che è inventiva e non empirica. Dunque alla
conoscenza ci si arriva mediante ipotesi. Ogni ipotesi è una conoscenza fallibile del mondo, non certa, ma
sempre riformulabile in una nuova teoria. L’abduzione, l’interpretazione, l’ipotesi e l’icona sono quattro
sinonimi, che secondo Peirce illuminano uno stesso momento del processo della conoscenza e della
costituzione dei significati.
Principi della semiotica di Peirce:
- PRIMO PRINCIPIO: consiste nel primato attribuito alla realtà esterna rispetto al soggetto
umano nel processo della conoscenza e della semiosi, di cui l’oggetto è il primo motore. Il segno è
“qualcosa che da un lato è determinato da un oggetto e dall’altro determina un’idea nella mente di
una persona”. Dunque l’oggetto determina il segno e il segno determina l’interpretante “in modo tale
da mettere l’interpretante in una relazione con l’oggetto”. Si costituisce una relazione tra segno,
oggetto e interpretante.
- SECONDO PRINCIPIO: funzione mediatrice del segno. La semiosi “implica una cooperazione
di tre soggetti”. Nella catena oggetto-segno-interpretante, i tre anelli sono irriducibili l’uno all’altro.
Il segno costituisce il fulcro della semiosi, in quanto “media tra l’interpretante e il suo oggetto”: il
segno illumina sotto certi aspetti l’oggetto, ne coglie delle qualità, ne costituisce un’idea
fondamentale. Un segno, o representamen (significante), è qualcosa che sta per qualcuno
(l’interprete) al posto di qualcos’altro (l’oggetto) sotto qualche rispetto o capacità.
Il representamen sta dunque per l’oggetto. I soggetti della semiosi peirciana sono tre astratte entità
semiotiche, privi di un concreto comportamento comunicativo. Peirce sostiene il carattere
interpretativo della semiosi umana. Ogni processo semiotico consiste in una dinamica per cui ogni
processo di comprensione si traduce nel passaggio da un interpretante a un altro, con una continua
opera di riformulazione /interpretazione che non coinvolge più direttamente l’oggetto. Quest’infinita
processuale si esprime nel principio della semiosi illimitata.
- TERZO PRINCIPIO: primato del momento iconico nella costituzione del segno. L’iconicità è
presente in tutti i livelli della semiosi. L’icona rappresenta la chiave della conoscenza, poiché
permette la conoscenza sintetica e l’integrazione dei dati meccanici in insiemi coerenti. Il processo
semiotico è un processo iconico. Peirce distingue tra indici, icone e simboli.
o le icone: sono mediate da una similarità tra segno e oggetto [similarità];
o gli indici: sono mediati da una connessione fisica o temporale tra segno e oggetto
[contiguità];
o i simboli: sono mediati da una connessione formale o convenzionale, prescindendo dalle
caratteristiche fisiche del segno e dell’oggetto [legge, casualità o convenzione]
Nessun oggetto in particolare è di per sé icona, indice o simbolo. Per essere tale, deve essere interpretato.
8.1.2 Ferdinand de Saussure

Ferdinand de Saussure ha svolto un ruolo importante nella fondazione della linguistica generale moderna e
della semiologia. A lui si rifanno le grandi scuole europee del Novecento: la Scuola francese, la Scuola
svizzera, la glossematica della Scuola di Copenaghen, la Scuola di Praga.

La sua opera fondamentale è il Corso di linguistica generale pubblicato postumo dagli allievi Bally e
Sechehaye, i quali elaborarono appunti delle lezioni ginevrine e note manoscritte dal maestro, con forzature e
fraintendimenti che hanno dato vita alla cosiddetta vulgata saussuriana. Saussure ha introdotto il concetto di
“segno” e la nozione di “lingua” come sistema di segni, la nozione di “arbitrarietà” del linguaggio, la
semiologia, la distinzione langue-parole, quella tra sincronia e diacronia, tra piano sintagmatico e
associativo.

- Segno: per Saussure il “segno” non sarebbe “qualcosa che sta per qualcos’altro”, ma per lui il
“segno” è un’identità psichica a due facce risultante dalla combinazione di un concetto (significato)
e un’immagine acustica (significante). Il segno infatti non indica più l’immagine
acustica o significante, ma è un’unità inscindibile di significato e di significante. Ciò che identifica
il segno è la sua significatività, derivante dalla collocazione del segno in un sistema di valori puri,
ovvero dal rapporto differenziale e oppositivo con l’insieme degli altri segni presenti nel sistema.
Attraverso la reinterpretazione del concetto di segno linguistico, il significato ha raggiunto la sua
piena integrazione nell’oggetto della linguistica attraverso la nozione di “segno bifacciale” e non è
più isolabile dalla struttura generale della lingua.

- L’arbitrarietà radicale del linguaggio: l’arbitrarietà è il principio fondamentale che caratterizza il


segno linguistico, in quanto il legame che unisce il significante e il significato è immotivato. Non
c’è nessun rapporto naturale tra le due facce del segno. Il segno linguistico, in quanto combinazione
di un significante e di un significato, non esiste mai isolatamente. Il segno esiste solo in un sistema,
che esso costituisce con gli altri segni. Un segno si definisce perciò per le relazioni che contrae
all’interno del sistema linguistico con gli altri segni, ovvero per il suo valore. L’identità di un segno,
ovvero il suo valore in un sistema, non è definita in base alla caratteristiche intrinseche al segno, ma
in modo differenziale e op posizionale agli altri segni. La lingua (langue) è un sistema di valori
relazionali che si delimitano reciprocamente.

La lingua, langue, segmenta in articuli simultaneamente il pensiero, ossia la sostanza del contenuto, e i
suoni, ovvero la sostanza dell’espressione. La lingua dunque segmenta inarticuli le due sostanze dei suoni e
delle idee e dà loro forma senza che sussistano ragioni naturali o logiche. La lingua è paragonabili al recto e
al verso di un foglio di carta: il pensiero è il recto, e il suono è il verso. La langue realizza
un decoupage arbitrario di idee e suoni e produce una forma, ovvero l’insieme delle differenze tra i suoni e
differenze tra le idee.

- Rapporti sintagmatici e associativi: il valore è definito mediante le relazioni che i segni


contraggono all’interno del sistema linguistico. Vi sono due tipi di rapporti, denominati
sintagmatici e associativi. I rapporti sintagmatici sono rapporti che le parole contraggono nel loro
concatenarsi nella catena parlata e che si basano sul carattere lineare del significante. Nel rapporto
sintagmatico il valore di un segno è dovuto al suo contrasto con ciò che precede o ciò che segue (in
praesentia) ex. insegnamento → pubblico. I rapporti associativi, altrimenti detti paradigmatici,
sono rapporti memoriali: le parole che presentano qualcosa in comune si associano nella memoria
formando dei gruppi. Le parole non si associano nella nostra memoria in maniera casuale e neanche
secondo un ordine alfabetico; esse si collegano tra di loro per categoria e per paradigma
grammaticale, per relazioni di senso (sinonimi, antonimi), ma anche per semplice assonanza. Nel
rapporto associativo il valore si basa su rapporti di somiglianza o dissomiglianza con altre parole
che non compaiono nel contesto (in absentia).
- Langue-parole e langage: il linguaggio (langage) è multiforme e irregolare, in quanto comprende
fenomeni di tipo fisico, fisiologico, psichico, che appartengono sia al dominio individuale che al
dominio sociale. La langue, intesa come sistema relazionale di segni/ valori, cerca di isolare
un’entità circoscritta e autosufficiente, intesa come principio di classificazione e di identificazione
dell’uso linguistico. La langue è la parte sociale del linguaggio, esterna all’individuo, che non può
né crearla né modificarla. Da essa si distingue la parole, attività linguistica dei singoli individui,
caratterizzata dall’assoluta unicità e irripetibilità sia sul versante fonico-acustico, sia sul versante de
contenuto psicologico e semantico.

- Sincronia e diacronia: la prospettiva sincronica riguarda i rapporti tra le unità linguistiche,


escludendo ogni intervento del tempo. La linguistica sincronica si occupa dei rapporti tra cose
coesistenti, di valori all’interno di uno stato di lingua, ovvero in uno spazio di tempo più o meno
lungo, durante il quale la somma delle modifiche è minima. La sincronia è lo studio della lingua in
un determinato momento storico. La prospettiva diacronica riguarda invece la storia delle singole
parti del sistema. Lo sviluppo diacronico non ha niente di generale e sistematico, ma ha sempre un
carattere accidentale e individuale. La diacronia è lo studio della lingua nella sua evoluzione storica,
ossia lo studio del cambiamento linguistico.

- Semiologia: la semiologia è una scienza che studia la vita dei segni all’interno della vita sociale e
attribuisce al linguaggio verbale, ovvero alla comunicazione, un’importanza centrale. Secondo
Saussure i segni, arbitrari, realizzano meglio di ogni altro l’ideale del procedimento semiologico. La
semiologia è nata perché Saussure non voleva più analizzare solo la lingua, ma ogni genere di
linguaggio. Perciò la linguistica, essendo lo studio della lingua, è una parte della semiologia. La
semiologia privilegia i segni convenzionali e volontari, mentre la semiotica comprende anche i
segni involontari e naturali.

Semiotica → semiologia → linguistica


Il principale compito della semiologia è quello di classificare i vari sistemi di segni a seconda della loro
maggiore o minore arbitrarietà.

8.1.3 Charles Morris

Charles Morris è un filosofo pragmatista americano. In Foundations of the Theory of Signs, si ritrovano
molte idee che hanno influenzato la semiotica dei decenni successivi. Questo volume rappresenta il primo
tomo di un grande progetto di unificazione delle scienze, la International Encyclopedia of Unified
Science. Per Morris la semiotica èorganon o strumento di unificazione, in quanto sta con le altre scienze in
un rapporto duplice: è una di esse ed è uno strumento comune. La semiotica deve fornire una lingue generale
applicabile ad ogni lingua o segno particolare, e pertanto anche a quelli specifici delle varie scienze.
Per Morris, la semiosi è “il processo in cui qualcosa funziona come segno”; è un complesso processo
funzionale, un processo di interpretazione. Una cosa è un segno solo quando e in quanto è interpretata da un
interprete come segno di qualcos’altro. Se le cose stanno così, allora non ha senso chiedersi cosa è segno e
che cosa no, poiché tutto può potenzialmente diventarlo, a patto che ci sia un atto interpretativo a fondare la
semiosi. In questa prospettiva l’universo dei segni comprende l’intero mondo animale, umano e non umano.
Per questo motivo la semitica di Morris valorizza molto il ruolo dell’interprete. Morris ritiene necessario
escludere le esperienze private e introspettive nel processo di semiosi, in quanto non osservabili e sottratte
per loro natura al controllo intersoggettivo della ricerca stessa.
Secondo Morris, il processo di semiosi si suddivide in tre dimensioni di analisi del linguaggio:
a) sintattica: studio delle relazioni tra i segni linguistici, più precisamente studio delle possibili
combinazioni tra significanti
b) semantica: studio delle relazioni tra segni e oggetti
c) pragmatica: studio del rapporto dei segni con i loro interpreti o utenti
Semiotica pura: elabora una meta-lingua per discutere dei segni
Semiotica descrittiva: applica questa meta-lingua a esempi concreti di segni. La semiotica descrittiva studia
i segni effettivi: quasi tutta la zoosemiotica è in questo senso descrittiva.
Semiotica applicativa: utilizza le conoscenze sui segni per il raggiungimento di diversi scop

Saussure Morris
- per lui la semiotica è una parte della - per lui la semiotica è una parte dello studio
psicologia sociale dei comportamenti naturali
- la semiotica di Saussure si occupa solo di - la semiotica è una disciplina scientifica che
fatti “semiotici” umani deve assumere il metodo di ricerca delle scienze
naturali: essa ha il compito di descrivere i segni
sulla base di fatti osservabili
- la semiotica di Morris va oltre il campo della
semiosi umana fino a comprendere il
comportamento semiotico di qualsiasi essere
vivente; essa comprende dunque anche lo studio
della comunicazione animale

8.1.4 Louis Hjelmslev

Louis Hjelmslev è un linguista danese, esponente di spicco della scuola di Copenaghen e un fondatore della
glossematica, teoria linguistica che sviluppa molte idee saussuriane in una prospettiva semiotica. Nel 1931
Hjelmslev costituì il Circolo linguistico di Copenaghen, che diventò un importante centro per il dibattito
linguistico. I suoi interessi spaziano in vari campi: dalla linguistica storica a quella tipologica, dalla fonetica
alla logica.

Glossematica: l’obbiettivo è quello di produrre una sorta di algebra che possa essere applicata in generale
agli studi umanistici. L’obbiettivo della ricerca sarebbero i glossemi,ovvero gli elementi formali ultimi, le
invarianti a cui arriva l’analisi linguistica.

A partire dalla tesi secondo la quale la langue è una forma e non una sostanza, e il segno consiste nel
rapporto tra significato e significante, Hjelmslev fa una quadri partizione, derivante da due dicotomie: quella
di forma e sostanza, e quella di espressione e contenuto. Per Hjelmslev il linguaggio ha un piano
dell'espressione e un piano del contenuto: essi presentano la stessa organizzazione e sono stratificati in
modo che una forma, articolando una materia, produca delle sostanze. E' una distinzione ripresa da Saussure.
Cambia la terminologia: il “significante” di Saussure diviene l'espressione; il “significato” diviene il
contenuto. Quello che Saussure definiva segno diventa funzione segnica.

Hjelmslev insiste sul valore astratto del temine struttura, inteso come sistema formale soggiacente alle
concrete manifestazioni, eliminando dal modello saussuriano tutte le indicazioni di carattere psicologico e
sociale. A tale proposito, i rapporti associativi vengono definiti paradigmatici al fine di epurare la natura
psicologica di queste relazioni e di metterne in luce, invece, quella grammaticale.

Il concetto di “stratificazione” del linguaggio, affianca alla distinzione saussuriana tra forma e sostanza il
piano della “materia”, cosicché i due piani dell’espressione e del contenuto sono articolabili in tre piani:
forma, sostanza e materia.

- La materia: è l’insieme prelingustico amorfo del pensiero sul piano del contenuto e l’insieme
indistinto dei suoni sul piano dell’espressione. Essa è assimilata alla sostanza saussuriana. La materia
è in se stessa non formata, inaccessibile alla conoscenza e inutilizzabile come base per la descrizione
linguistica. La materia può essere analizzata in maniera diversa a seconda di come è formata e
articolata nelle diverse lingue.
- La forma: è il piano del sistema di segni che costituisce la lingua (la fonologia, la morfologia, il
lessico).
- La sostanza: è la materia linguistica già in relazione ad una forma ed è l’insieme dei concreti
atti comunicativi (l’insieme delle fonie e dei rispettivi sensi).
Forma del contenuto: il modo in cui la materia del mondo è organizzata. Per una lingua: lo schema lessicale.
Hjelmslev afferma la possibilità di spiegare e descrivere un numero illimitato di segni valendosi di un
numero limitato di figure, ovvero di unità che non sono segni.
Hjelmslev allude alla possibilità di scomporre il significato, in componente più piccoli (elementi). Il compito
della semantica diventa quello di identificare un numero limitato di atomi del significato, una sorta di
primitivi semantici, che combinandosi tra di loro costituiscono un numero altissimo di significati di segni,
allo stesso modo che le lettere dell’alfabeto costituiscono un numero molto alto di parole.
Nella lingua è sempre a partire dalla forma (dell’espressione e del contenuto) che si determinano le sostanze:
la medesima forma dell’espressione può far ricorso a diverse sostanze (orale e scritta), che non trasformano
l’impianto di base della lingua, ossia le forme dell’espressione e del contenuto. La forma linguistica viene
perciò considerata senza riferimento alla sostanza. Il primato della forma (costante) sulla sostanza (variabile),
fa si che si possa applicare l’apparato teorico della linguistica a qualsiasi struttura la cui forma sia analoga a
quella di una lingua naturale.

La semiotica di Hjelmslev è una semiotica logica. Così nella prospettiva hjelmsleviana una lingua che ha un
piano dell'espressione e un piano del contenuto può essere unasemiotica denotativa cioè una semiotica
nessuno dei cui piani è una semiotica. È infatti possibile che uno dei due piani sia a sua volta una semiotica
(una lingua). Nel caso che il piano del contenuto sia una semiotica denotativa abbiamo
una metalingua o metasemiotica o semiologia. Abbiamo cosi una lingua che verte su una lingua, una lingua
in cui il piano dei contenuti è un'altra lingua. La linguistica può essere perciò considerata una metasemiotica.
Ma anche il piano dell'espressione può essere una semiotica: se una lingua nel suo complesso (coi suoi due
piani dell'espressione e del contenuto) costituisce il piano dell'espressione di un'altro contenuto, ciò che
risulta è una semiotica connotativa.

8.2 ALCUNI CLASSICI CONTEMPORANEI

Barthes: Roland Barthes è un critico letterario, saggista francese; professore di Sociologia dei segni e di
semiologia letteraria. È stato una figura chiave del dibattito semiotico contemporaneo. Insiste sulla centralità
del linguaggio e affida alla dottrina dei segni una funzione demistificatrice nei confronti della società dei
consumi. Barthes in Elementi di semiologia (1964) propone un rovesciamento dei rapporti fra semiotica e
linguistica, considerando la seconda come la disciplina necessaria allo studio dei sistemi semiotici.

De Mauro: professore di linguistica generale all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha allargato i suoi
interessi alla storia delle idee sul linguaggio e i segni (Introduzione alla semiotica, 1965) e ai problemi della
caratterizzazione semiologica del linguaggio verbale, oltre che a temi di semantica storica. Per De Mauro il
nocciolo della differenziazione dei linguaggi fra di loro, sta nella modalità di organizzazione del contenuto, e
questo lo porta ad assegnare al lessico un ruolo centrale nel funzionamento delle lingue. L’idea della radicale
storicità dell’esperienza linguistica, lo porta a scrivere opere come: Guida all’uso delle parole, Prima lezione
sul linguaggio.

Eco: Umberto Eco, saggista e scrittore, professore di Semiotica all’Università di Bologna. Eco ha dato
contributi essenziali alla definizione dell'oggetto della semiotica (La struttura assente, 1968; Trattato di
semiotica generale, 1975), presentandola come una teoria che studia l'intera cultura come realtà comunicativa
(imperialismo semiotico'). InSemiotica e filosofia del linguaggio (1984) ha analizzato le implicazioni
filosofiche dell'approccio semiotico, proponendone una tripartizione (semiotica teorica, coincidente con la
filosofia del linguaggio: semiotica storico-archeologica, volta allo studio della genesi delle proprie categorie
d'analisi; semiotica applicata, intesa all'indagine, con strumenti specifici, di ogni possibile campo della
cultura e dell'esperienza umana).

Greimas: Algiridas Julien Greimas, lituano, lessicologo e semiotico, a capo della “Scuola di Parigi”.
In Semantica strutturale (1966) al centro della riflessione è la nozione di “testo” e l'elaborazione della
struttura elementare della significazione. Lo sviluppo della ricerca sulle fiabe russe conduce Greimas al
cuore della problematica narratologica, dapprima col cosiddetto modello attanziale, di natura funzionalista,
in seguito con l'ambizione di delineare una grammatica “modale” impegnata sulle componenti cognitive del
discorso. In opere come Del senso I e Del senso 2 e nel Dizionario di semiotica, Greimas elabora una
complessiva teoria semiotica a base narrativa, focalizzata sulle forme con cui si genera significazione, a ogni
livello delle pratiche sociali. Di qui una semiotica del testo che è stata ed è utilizzata in settori diversi della
produzione culturale (architettura, pubblicità, critica letteraria ecc.), ben oltre l'ambito linguistico. Nell'ultima
fase del suo lavoro Greimas ha spostato l'attenzione dalla problematica dell'azione alle "passioni' che
muovono soggetti nel processo della semiosi, formulando la teoria omonima.

Jackobson: Roman Jakobson (1896-1982), russo, filologo e linguista, esponente di spicco dello
strutturalismo linguistico novecentesco. Ha dato importanti contributi in diversi campi di ricerca come la
teoria della comunicazione, le patologie del linguaggio, la stilistica, la metrica, la semiotica, la filologia slava
e la fonologia diacronica. Legato dapprima al formalismo russo, è tra i fondatori della Scuola di Praga; nel
1941 emigra negli Stati Uniti, dove insegna alla Colombia University e, dal 1949, Harvard, contribuendo in
modo decisivo alla saldatura fra la tradizione strutturale europea e quella nordamericana.
Jackobson farà delle ricerche di fonologia diacronica (intese al superamento a dicotomia saussuriana di
sincronia e diacronia) e l'elaborazione del binarismo come base del funzionamento del fonema. Un secondo
elemento innovativo è l'approfondimento degli aspetti non lineari e non arbitrari del linguaggio verbale.
Jakobson ha dato spunti decisivi a molti settori della teoria linguistica, con un'apertura interdisciplinare.

Lotman: Juri Mikhajlovic Lotman (1922-1993), russo, critico letterario e semiologo, dal 1963 professore di
Letteratura russa all'Università di Tartu. Lotman è uno de punti di riferimento della ricerca semiotica negli
ultimi quarant'anni. Lotman sviluppa sul piano teorico i suoi interessi letterari, articolandoli attorno alle
nozioni di linguaggio, modello e testo. Al linguaggio naturale, sistema primario, sovrastano i diversi
linguaggi delle arti, intesi come sistemi 'secondari' di modellizzazione. Successivamente Lotman intreccia la
ricerca sul 'testo (unità base della ricerca semiotica, in luogo della tradizionale nozione di 'segno') con la
ricerca culturologica, conferendo alla semiotica uno statuto interdisciplinare. Nell’ultima fase del suo
pensiero, si rifà alla teoria della biosfera di I. V. Vernadskij concependo l'universo semiotico come
'semiosfera', un organismo unitario e complesso che filtra al confine il “non-semiotico” mediante un
sistema di tratti oppositivi.

Prieto: Louis Prieto (1926-1996), argentino, ha insegnato per molti anni a Ginevra, sulla cattedra che fu di
Saussure. In Principes de noologie si ha la ricerca della peculiarità del linguaggio verbale, che si muove dalle
modalità di organizzazione del significato. Nel Messages et signaux, Prieto cerca di fondare delle nozioni di
significazione e comunicazione, impegnandosi nella definizione dell’oggetto della semiotica. Tale tema verrà
sviluppato in Pertinence et pratique, dove il concetto di pertinenza traccia una teoria della conoscenza che
inquadra la semiosi umana, nelle sue diverse dimensioni. La pertinentizzazione divide l’universo in due
classi: quella degli oggetti che presentano la caratteristica in questione e quella degli oggetti che non la
presentano. La pertinenza, ossia l’identità a cui si sottopone un oggetto, dipende non dall’oggetto stesso ma
dal sistema di classificazione su cui questa conoscenza si fonda. La ricerca si accentua nell’ultima fase degli
studi di Prieto.

CAP. 9. COME SI LEGGE UN QUADRO


Lo studio dell’arte comporta due atteggiamenti: il primo è dato dalla necessità di soddisfare un interesse, una
curiosità culturale sostenuta dal desiderio di imparare a praticare il linguaggio visivo; il secondo è dato dalla
voglia e dal desiderio di ricerca, senza la quale lo studio andrebbe ad inaridirsi.
Erwin Panofsky stipula alcuni punti principali, necessari per l’atto interpretativo di un’opera:
- esperienza pratica
- conoscenza delle fonti letterarie; conoscenza di specifici temi e concetti
- intuizione sintetica, condizionata dalla psicologia e dalla visione del mondo

L’individuo esercita nell’arte una duplice funzione: quella di creatore e quella di soggetto percettore
(fruitore). Queste due funzioni, a prima vista, sarebbero opposte poiché la prima presuppone un
atteggiamento attivo, mentre la seconda presuppone un atteggiamento passivo; ma in realtà la loro
opposizione non è né assoluta né netta in quanto l’arte, come il linguaggio, attiva un dialogo ininterrotto tra
due parti indipendenti.
Essendo l’opera d’arte un oggetto comunicativo costituito da segni visivi organizzati in un sistema, che
“stanno per qualcos’altro” e che funzionano in un conteso figurativo e in un ambiente culturale, lo studio del
linguaggio dell’arte si lega ai principi dello strutturalismo e della semiotica. La lettura di un quadro comporta
un’elaborazione mentale poiché l’arte figurativa è un’immagine composta da prodotti della percezione visiva
e da strutture che ricostituiscono modelli, ossia forme di rappresentazione della realtà, presenti nel pensiero.
Essendo immagine artistica espressione di un preciso significato determinato dal modello culturale, sono
fondamentali gli studi di iconologia.

Nella visione semiotica l’opera d’arte può venire assimilata a un “testo” alla cui comprensione si accede
mediante l’individuazione e l’analisi di ogni elemento visivo in qualità di segno, collegato da un lato
all’oggetto che esso rappresenta, dall’altro a una serie di rapporti paradigmatici, ossia dipendenti dai codici
artistici e culturali, e sintagmatici, al’interno dell’opera, tra gli elementi che la costituiscono. L’insieme di
questi rapporti forma un sistema “aperto”.

La “semiotica visiva” o semiotica della figuratività considera l’opera artistica come un messaggio composto
di segnali iconici, generatori di senso e dunque appartenenti a un preciso sistema culturale. Il modello
d’analisi dell’arte ideale è formulato su un percorso in cui vengono individuate alcune caratteristiche
strutturali, compositive, filologiche, storiche e simboliche dell’opera, in cui si mettono in luce le
concordanze e le discordanze tra sistema culturale e opera d’arte. Questo tipo modello d’analisi dell’opera
d’arte utilizza contemporaneamente il procedimento di analisi delle singole parti dell’insieme con quello di
sintesi della globalità degli elementi messi in gioco. È inoltre necessario interpretare l’opera d’arte in base a
fattori che coinvolgono l’osservatore nell’atto intuitivo e percettivo, attraverso i quali si individua il senso
estetico dell’opera stessa.

Modelli semiotici:
HJELMSLEV
Il modello semiotico di Hjelmslev distingue nel segno una “sostanza” ed una “forma” del contenuto e
“sostanza” e “forma” dell’espressione:
- con la sostanza dell’espressione si mettono in rilievo le qualità delle paste cromatiche, i codici e gli
accostamenti di colore, la grafica dell’icona nel suo insieme
- con la forma dell’espressione si individuano l’ordinamento, l’organizzazione, la struttura e i
bilanciamenti degli elementi dell’icona
- con la forma del contenuto si mettono in luce i significati di valore e d’uso trasmessi dai singoli
elementi dell’insieme
- con la sostanza del contenuto si analizzano le motivazioni ideologiche, i riferimenti culturali, gli
scopi e la destinazione dell’opera in quanto oggetto comunicativo ed evento culturale

BRANDI
Gli studi di Cesare Brandi avvicinano la linguistica all’estetica. Considerando la realtà come “flagranza” e la
sua rappresentazione come “astanza”, Brandi nella Teoria generale della critica osserva, in accordi con le
considerazioni di Umberto Eco, che la fruizione avviene in praesentia attraverso la percezione, cui segue
l’atto d intellezione, che converte le presenze in segno, mettendo in moto il processo di semiosi (la semiosi è
il processo in cui qualcosa assume la funzione di segno, è praticata dal destinatario del processo di
comunicazione, dal fruitore sell’opera d’arte in questo caso).

PANOFOSKY

Nei suoi studi di iconologia, Panofsky suddivide l’interpretazione dell’opera d’arte su 3 livelli:
- descrizione preiconografica, cioè la descrizione dei valori formali e dei motivi. Bagaglio necessario
per il primo livello è l’esperienza pratica, la familiarità con oggetti ed eventi, ma non sempre questa
vale per dare una corretta descrizione preiconografica, perciò si ricorre alla “storia dello stile”,
ovvero il modo in cui, in condizioni storiche diverse, oggetti ed eventi sono stati espressi mediante
forme (prospettica diacronica)
- analisi iconografica in senso ristretto, ovvero analisi dei temi e delle immagini, delle storie e delle
allegorie presenti nell’opera. Per farlo è necessaria una conoscenza delle fonti letterarie, ma quando
appaiono delle discordanze si ricorre alla “storia dei tipi”, ossia il modo in cui in condizioni storiche
diverse temi specifici sono stati espressi mediante oggetti ed eventi
- interpretazione iconologica, ossia l’analisi dei significati riguardanti il significato intrinseco o
contenuto dell’opera, che dovrà essere in accordo con le tendenze religiose, filosofiche e sociali
dell’artista, dell’epoca e del luogo (intuizione sintetica)
I primi due livelli sono strettamente connessi perché una corretta analisi iconografica presuppone una
corretta identificazione dei motivi.

DETTAGLIO
Abbiamo detto che l’opera d’arte come testo, come documento etno-storico e antropologico, può essere letta
e approfondita attraverso l’analisi del dettaglio:
a) appartiene al contesto generale dell’opera, quindi va considerato in modo strutturale, in un’ottica di
ricerca minuziosa della composizione globale del testo visivo;
b) riflette il senso culturale che l’artista cambia in relazione alle sue intenzioni espressive individuali;
quindi il dettaglio è la scelta figurativa che l’artista pone in atto nell’opera:
• riflette uno stile, cioè una declinazione personale di una corrente artistica e ha valore
compositivo pur mantenendo la sua autonomia semantica nella struttura generale del dipinto, in
quanto ad esempio si lega ad un particolare momento storico-artistico; il dettaglio rappresenta, in
quanto segno, l’impronta di una trasformazione culturale e, con gli altri dettagli presenti nel
quadro, mette in atto il suo CARATTERE ADDITIVO, ossia la capacità di funzionare come un
sistema in cui l’insieme eccede la sommatoria dei singoli elementi.
• si può considerare il dettaglio sotto l’aspetto storico, se compare e persiste in un certo numero di
opere di un’epoca, diventando allora “motivo”. (Mukarovsky)
Si adotta un metodo d’indagine prospettico, poiché i testi artistici appartengono a tipologie figurative che li
accostano ai testi letterari. Il soggetto della realtà (paesaggio, giardino, ritratto, la natura morta) filtra nel
linguaggio figurativo in qualità di motivo e suggerisce punti di vista interpretativi di formidabile interesse,
sia all’interno dell’opera sia all’esterno.
L’opera d’arte può essere analizzata seguendo 3 direzioni: la prima la vede partecipe dell’intero dominio
della semiosfera artistica; la seconda la considera come opera in sé, nella quale è possibile riconoscere, fra le
unità semantiche che la costituiscono, i tratti distintivi del movimento; la terza come opera significativa
della semiosfera individuale di quell’artista appartenente al gruppo. Il termine semiosfera è qui da intendersi
come universo semiotico al di fuori del quale non è possibile l’esistenza della semiosi (Lotman).
La comprensione del quadro può effettuarsi rapportandolo alla vita dell’artista, al suo diario, alle sue lettere,
alla sua autobiografia ecc.. metodo che promuove in sostanza la possibilità di applicare la psicoanalisi
all’arte, come un esame dell’inconscio dell’opera. In particolare Gombrich, occupandosi del significato
espressivo dell’opera d’arte, collega l’arte alla psicoanalisi filtrandola attraverso l’iconologia e la psicologia
della percezione.
Accanto a questo schema di analisi psicoanalitico, lo studio semiotico del testo figurativo si integra con le
ricerche provenienti dalla psicologia della forma, che propone l’analisi di come vengono elaborati a livello
cognitivo i dati che provengono dalla percezione.
Secondo la corrente di pensiero della psicologia della forma, l’opera d’arte è l’espressione di un evento
visivo il cui obiettivo è quello di portare il fruitore a uno stato di immedesimazione, di empatia, di
coinvolgimento psicologico.
A ciascuna opera d’arte, infatti, che sia classica o moderna, sottendono fitti rapporti fra pensiero e
linguaggio; ogni parola possiede in effetti un’immagine, più o meno latente o evidente, e ogni elemento è
riconducibile ad una struttura composta di forme geometriche semplici. Quindi le strutture complesse
possono essere ridotte ad un insieme di linee che costituiscono forme semplici usate efficacemente per
esplicitare i concetti, tutto questo per soddisfare un’esigenza di economia mentale. A tale proposito si
possono individuare i codici visivi che riguardano il colore in rapporto alla struttura disegnativa. Johannes
Itten, uno dei maestri del Bauhaus, dedica a queste considerazioni un capitolo fondamentale della sua Arte
del colore 1961, intendendo il contrasto cromatico come polarità e tensione dinamica, in quanto “i nostri
sensi valutano sempre e solo mediante i confronti”. In base a queste considerazioni si deduce che, ad
esempio, ogni accostamento cromatico assume un’individualità comunicativa, da un lato in relazione alle
caratteristiche percettive soggettive, dall’altro a quelle oggettive del contesto in cui i colori interagiscono.
Inoltre le linee possiedono, dal punto di vista percettivo, qualità termiche: come ha dimostrato Kandinskij, la
linea orizzontale denota tendenzialmente una base fredda, quella verticale possiede all’opposto potenzialità
dinamiche di caldo; la diagonale esprime qualità intermedie di freddo-caldo. Il carattere allusivo-simbolico
delle linee si arricchisce di altre variabili se si considera contemporaneamente il colore: ad esempio, linee
spezzate, tendenzialmente associabili a sensazioni fredde, se si presentano dipinte con colori caldi perdono
quella loro qualità evocativa del freddo. All’opposto, le linee curve, tendenzialmente associabili a sensazioni
calde, se si trovano dipinte con colori freddi trasmettono tendenzialmente qualità ondulatorie associabili
all’acqua. Itten ritiene che anche le figure geometriche fondamentali siano associabili a tre colori
fondamentali: il triangolo al giallo, il quadrato al rosso e il cerchio al blu. I codici cromatici risultanti dalla
combinazione di due, tre, quattro colori hanno potenzialità comunicative e guidano nella lettura del quadro
verso evocazioni sinestetiche. In base alle considerazioni espresse da Itten sui contrasti cromatici un codice
cromatico può presentare un contrasto di chiaro-scuro, oppure un contrasto di qualità o un contrasto di
colori puri o un contrasto fra colori caldi e freddi, o fra complementari o di quantità, o essere generato da un
condizionamento percettivo ottenuto per simultaneità dei colori e quindi per la miscela ottica che la miscela
ottica che la loro vicinanza produce. Dunque linee, forme, superfici e colori in tutte le loro infinite varianti di
gradazioni, valori e accostamenti possono entrare in gioco nell’opera a costruire unità discrete e leggibili e ad
assumere potenzialità espressive in grado di evocare riferimenti idonei al riconoscimento, all’identificazione
del linguaggio dell’artista.

CAP. 10 COM’È FATTO UN LINGUAGGIO ANIMALE. DUE CASI A


CONFRONTO: IL LINGUAGGIO DELLE API E IL LINGUAGGIO VERBALE
10.1
Lo scopo di questo capitolo è duplice:
a) descrivere le principali caratteristiche semiotiche dei “linguaggi animali”, attraverso i quali ogni
specie animale stabilisce una relazione mediata da segni con il proprio ambiente ed i propri
simili.
b) proporre una visione complessiva del campo semiotico (umano e non) come un insieme strettamente
legato al mondo della vita.

10.2 MENTE E SOGLIA SEMIOTICA


Vi è delineata una cosiddetta “soglia semiotica” per specificare quali comportamenti rientrano all’interno
dei fenomeni semiotici e quali ne sono esclusi. I primi considerati al di là della soglia semiotica, i secondi
considerati al di qua. Secondo il filosofo Peirce, al di qua troviamo situazioni in cui un’entità o è
considerata per se stessa (fenomeno della primità), al di fuori di ogni relazione con altre entità oppure la
stessa è considerata in una relazione diretta con un’altra entità (fenomeno della secondità). Ciò che accade
sotto la primità e la secondità non rientra fra le interazioni semiotiche.
Cos’è una relazione diadica? Se a causa b, b è in relazione con a.
Al di là si collocano le relazioni che rientrano nella categoria della terzità, cioè la <<relazione triadica
esistente fra un segno, il suo oggetto e il pensiero interpretante (esso stesso un segno). Un segno media fra il
segno interpretante ed il suo oggetto>>. Una relazione semiotica, ossia triadica, si dà solo per chi sappia
considerare un certo evento fisico in relazione a qualcos’altro (come ad es. il movimento dell’ape
esploratrice per comunicare la presenza di fiori ricchi di nettare in prossimità dell’alveare). Un segnonon è
semplicemente in relazione con la situazione in cui viene emesso (tipico delle relazioni della secondità) ma
sta anche in relazione con un terzo elemento, il suo significato.
La danza dell’ape esploratrice rientra nella secondità, se considerata come semplice effetto di una
stimolazione elettrica che ha attivato i movimenti delle zampe dell’ape, ma rientra anche nella terzità se si
pensa che quel movimento per un’altra ape significa qualcosa.
C’è semiosi dov’è c’è qualcuno per cui una certa entità fisica (un movimento corporeo, una sequenza sonora)
significa qualcosa in relazione a determinate circostanze e sulla base di modalità cognitive condivise. Il
significato non è direttamente contenuto nel segno, al contrario, quella certa entità fisica acquista un
determinato significato solo perché qualcuno la considera come un’entità che rimanda a qualcos’altro
(oggetto materiale o un altro segno). Semiosi, terzità, implicano un rapporto mediato con l’ambiente.
Quando un organismo vivente deve usare il suo linguaggio, deve selezionare ciò a cui riferirsi > l’oggetto del
suo atto semiotico, rispetto a ciò che, in quella situazione, non è importante segnalare. Il ricevente prima
ancora di ricevere il messaggio ha delle aspettative potenziali su quello che, se emesso, potrebbe
significare. Il mittente tende a selezionare quello che è percettivamente più saliente per lui e per il
destinatario. Ogni comunicazione animale presuppone quindi un criterio di pertinenza, ossia un’operazione
di selezione.
Ma se l’oggetto (semiotico) è sempre relativo ad una mente, allora ogni entità semiotica è il risultato di
un’operazione di categorizzazzione. Ad es. il fiore ha un numero infinito di caratteristiche diverse:diventa un
oggetto semiotico quando qualcuno considera importanti alcune caratteristiche rispetto ad altre > per l’ape
sarà importante il fatto contenga del nettare, per l’erborista che le sue foglie contengano una determinata
sostanza. Categorizzare significa considerare una cosa da un certo punto di vista, come forma o come
colore, come odore o come peso. Collocare una certa entità o proprietà in una classe anziché in tutte le
altre. Non c’è vita senza la capacità di classificare il proprio ambiente – è l’arbitrarietà delle
classificazioni. Dunque possiamo considerare la capacità di categorizzare come inscindibile dal fenomeno
della vita.
Se quindi dove c’è semiosi c’è terzità, e dove c’è terzità c’è sempre una mente, allora ci sarà semiosi
dove c’è mente (la quale permettere di attuare la categorizzazione). Anche la mente è un’entità semiotica.
Solo un’entità essa stessa caratterizzata dalla terzità può partecipare a relazioni semiotiche. Definiamo
interpretazione l’operazione attraverso la quale un evento fisico viene considerato un evento semiotico
(evento che per essere compreso ha bisogno del rimando ad altre entità).

Interazioni semiotiche vs interazioni non semiotiche: la distinzione è di tipo logico, non fisico.
Interazioni semiotiche → presenza di segni, mediazione cognitiva, possibilità di errori, inganni e
innovazioni (oltre la semiotica);
Interazioni non semiotiche → assenza di segni, assenza di mente (al di qua della semiotica). Si capiscono,
o fraintendono, le entità che rientrano nella terzità, si pesano o misurano quelle che rientrano sotto la primità
e secondità.

10.3
Secondo Deacon, la mente umana è fatta per il linguaggio verbale, e viceversa. Le lingue umane si
sarebbero evolute, nel tempo, in vista di un loro sempre più facile apprendimento da parte degli altri esseri
viventi. Quel che sono i fiori per le api, cioè, sarebbe il linguaggio verbale per gli animali umani.

10.4 IL LINGUAGGIO VERBALE COME ENTITÀ BIOLOGICA


Perché il linguaggio verbale è diverso dagli altri linguaggi animali? La riposta va cercata in quel
fondamentale universale zoosemiotico secondo il quale ogni linguaggio animale forma uno strettissimo
legame con l’ambiente della specie che lo usa.
Per comprendere il linguaggio umano è necessario comprendere com’è fatto l’ambientedel linguaggio degli
animali umani. Questo ambiente è costituito dal linguaggio stesso, ossia dall’insiemedellepratiche
semiotiche (l’insieme dei giochi linguistici) in cui si articola. Il linguaggio umano è adattato non a un
particolare ambiente fisico, bensì al linguaggio stesso. Una parola, una frase, non si collegano direttamente a
cose, ma ad altre parole e ad altre frasi e quindi ad altre pratiche semiotiche. Anche quando il legame dei
segni del linguaggio con le cose appare più immediato, di fatto quel legame presuppone già altre parole e
quindi altro linguaggio.
Cos’è una definizione ostensiva? È una indicazione. In una definizione ostensiva si dice il nome di un
oggetto indicandolo direttamente. Per spiegare un frammento del linguaggio bisogna ricorrere ad altre
regioni del linguaggio, la connessione da una regione del linguaggio ad un’altra avviene sempre nel
linguaggio umano, non è cosi per quanto riguarda il linguaggio delle api invece. Ciò spiega perché le lingue
si imparano: è innata la facoltà del linguaggio, mentre non sono innate le singole lingue che possiamo
parlare. Per gli animali umani che si muovono sempre all’interno del linguaggio, non c’è una connessione
prestabilita fra quel che si dice e ciò di cui si parla, perché quest’ultimo nonpreesiste al nostro parlante.
Nel caso del linguaggio umano non c’è qualcosa come un ambiente extrasemiotico, perché l’ambiente del
linguaggio verbale è lo stesso linguaggio, il fatto che fuori del linguaggio, nel suo ambiente, si trovi ancora
linguaggio, e che quindi il suo esterno coincida con il suo interno >ciò lo rendono profondamente diverso
dai linguaggi degli altri animali.

Bio-logica del tempo e dell’ipotesi


Nel linguaggio delle api un segno rimanda ad un’azione possibile; dal segno al suo oggetto. Nel caso del
linguaggio umano fra il segno e il suo oggetto c’è, potenzialmente, l’intero linguaggio. Che l’altro del
linguaggio sia lo stesso linguaggio, significa, dal punto di vista logico e bio-logico, che l’oggetto più
caratteristico dell’ambiente umano sia l’ipotesi.

Se analizziamo la meccanica dell’ipotesi, affinché l’ipotesi letteralmente esista, sono necessarie due
condizioni:
a) un repertorio di unità da poter comporre (le parole delle lingue umane);
b) la possibilità di assemblare liberamente questi dati, in modo da formare nuove combinazioni.
L’ipotesi presuppone il linguaggioe amplia il linguaggio stesso. Quando un’ipotesi entra stabilmente al
suo interno, diventa essa stessa un dato che può essere ulteriormente combinato con altri dati > l’operazione
che genera l’ipotesi è ricorsiva: le ipotesi verificate sono a loro volta presupposto di altre ipotesi. Questa
caratteristica manca nei linguaggi animali perché il loro linguaggio è diretto verso cose e non verso altri
segni.
L’ipotesi è il primo e fondamentale oggetto biologico dell’ambiente umano. Ha la funzione di allargare
i confini del linguaggio, di conquistare sempre nuove regioni per l’ambiente linguaggio.

La natura del linguaggio verbale


Il linguaggio verbale è un’entità biologica che presenta somiglianze e diversità con gli altri linguaggi
animali. Linguaggio verbale come entità biologica. Tre sono le caratteristiche principali del linguaggio
verbale sotto il profilo biologico:
1) il linguaggio verbale è quel sistema biologico del quale non è possibile definire la natura;
2) il linguaggio verbale è quel sistema che si autodefinisce come linguaggio;
3) il linguaggio verbale coincide con il nostro modo di vivere.
Da questo punto di vista non è corretto definire il linguaggio uno strumento di comunicazione, così come
sarebbe paradossale definire i polmoni come uno strumento per respirare: senza polmoni non può esistere un
essere umano, e lo stesso vale per il linguaggio verbale.
Un uomo privo della facoltà del linguaggio sarebbe privo di tutte le caratteristiche – cognitive ed emotive –
che definiscono biologicamente la nostra specie.
1) Se il linguaggio verbale non ha un ambiente esterno a sé (poiché è l’ambiente di se stesso), allora
non è possibile , per nessuna entità semiotica (come la mente), uscire dall’ambientelinguaggio.
Per definire la natura linguaggio, dovrebbe essere possibile collocarlo all’esterno del linguaggio, in
modo da poterlo comparare con altri possibili oggetti da cui differenziarlo. Tale spazio non esiste.
Se c’è linguaggio verbale, c’è perché – dal momento in cui l’ambiente della mente umana è diventato il suo
stesso linguaggio – c’è l’ipotesi; e l’ipotesi, proprio perché tale, testimonia l’esistenza di un <<mondo aperto
davanti a noi, e indefinitamente esteso oltre ciò che vendiamo>>. Di questo mondo non si può dire nulla:
dire qualcosa implica e presuppone il linguaggio, e quindi nulla possiamo dire là dove esso non c’è.
Dove non c’è linguaggio non c’è nemmeno una mente, e senza mente non solo non c’è nulla da dire, ma
neanche qualcuno che possa dirlo.
Un’ape è il suo linguaggio, così com’è le sue ali o il suo addome. L’ape esploratrice usa la sua danza
semiotica così come usa le ali per volare, come azioni possibili messe a sua disposizione dalla sua eredità
generica. Per l’umano non si dà, invece, questa perfetta sovrapposizione fra linguaggio e mondo. Proprio
perché esiste l’ipotesi. L’esistenza dell’ipotesi si traduce nella consapevolezza che esiste una macchina
biologica che, attraverso quella stessa ipotesi, cerca di superare i propri limiti; in questo senso il
linguaggio delle api, che non conosce ipotesi, non si conosce nemmeno come linguaggio.
Dunque:
2) Il linguaggio verbale è quel sistema biologico che non solo sfugge a una definizione precisa, ma che
tuttavia sa di essere una tale entità. È quindi definitorio del linguaggio verbale il fatto di sapersi e
potersi pensare come un linguaggio.

Prendendo dunque insieme queste due caratteristiche del linguaggio verbale, il fatto che non se ne può
definire la natura e che, tuttavia, si sa come linguaggio, si arriva alla sua terza caratteristica fondamentale:
3) l’animale umano è l’<animale semiotico>dunque vale anche per lui il vincolo essenziale del
linguaggio. Ciò significa che il linguaggionon può essere identificato come uno strumento, perché di
uno strumento si può anche farne a meno: un umano del tutto al di qua del mondo del linguaggio
non è un umano. Dunque: il linguaggio verbale è il modo specificamente umano di vivere.

L’uomo è caratterizzato dalla peculiarità del linguaggio. La conoscenza razionale nell’uomo non è un dono
aggiuntivo rispetto alla sua natura, ma è la sua natura stessa: l’uomo è caratterizzato biologicamente dalla
competenza logico-linguistica. (Prodi)

CAP. 11 COME FUNZIONA IL LINGUAGGIO DEL CINEMA


Garroni è stato uno dei padri degli studi semiotici contemporanei. Alcuni importanti autori come Metz, Eco
e lo stesso Garroni, avevano discusso la possibilità di applicare in modo rigoroso le nozioni di segno e
codice, proveniente dalla linguistica e dalla semiotica, alle manifestazioni espressive non-verbali, in modo da
fornire dei modelli di comprensibilità a un tipo di comunicazione non facilmente formalizzabile.
La comunicazione audiovisiva sembra caratterizzarsi soprattutto per l’effetto-di-realtà che porta ad
assumere come reale ciò che si percepisce dalle immagini in movimento, pur sapendo che queste
appartengono al dominio della rappresentazione (e quindi del linguaggio).

11.1 IL REALISMO DELL’IMMAGINE AUDIOVISIVA


Dato l’aspetto tecnologico e il suo alto grado di realismo, sembra che l’immagine filmica contenga
qualcosa che ecceda la nozione di “segno”.
Metz la definisce una pseudo-presenza di un frammento di realtà che è già di per sé significante, non il
rimando “a qualcos’altro”, come suggerirebbe una tradizionale definizione di segno.
Bazin indicò nella fotografia e soprattutto nell’immagine filmica il culmine estetico e tecnico di tutte le arti.
Tramite la tecnologia la realtà si presenterebbe nella sua essenza, senza la mediazione creativa dell’uomo. Il
cinema sarebbe non solo fedele riproduzione del reale, ma anche parte integrante del mondo. Immagini
filmiche> semplici calchi della realtà.
Pier Paolo Pasolini accolse l’idea dell’immagine filmica come una sorta di anàlogon della realtà; egli
afferma che il linguaggio filmico non è altro che la copia fedele delle azioni e di una realtà che presenterebbe
già di per sé un linguaggio significante, fatto di gesti. In quanto semplice anàlogon sfugge alla
formalizzazione in termini semiotici.
Linguaggio audiovisivo > linguaggio universale, intelligibile da tutti > è “la lingua scritta dell’azione”.

Lo statuto segnico dell’immagine filmica e lo specifico filmico


La natura dell’iconismo: modi di produzione segnica di tipo iconico, come i disegni, le fotografie e le stesse
immagini filmiche.
Jean Mitry aveva posto l’accento sulla natura segnica dell’immagine audiovisiva; cercava di confutare la
tesi della presunta immediatezza significante dell’immagine filmica, che toglieva a quest’ultima qualsiasi
valore segnico. Si basava sue due presupposti, a suo avviso fondanti anche per il cinema: quello estetico,
secondo cui ogni film nasce da un’esigenza espressiva personale; e psicologico, secondo cui la costruzione
filmica non è altro che l’organizzarsi del pensiero attraverso strutture significanti, specifiche per ogni
“linguaggio” artistico.
Si affrontava dunque il problema dello “specifico filmico”, cioè la domanda se il cinema utilizzi per
significare e comunicare strumenti esclusivi e specifici, che lo rendono diverso dagli altri mezzi di
comunicazione. Mitry rispose si per tre ordini di ragione:
1) ogni singola inquadratura acquista il suo pieno significato grazie alla concatenazione, mediante il
“montaggio”, con le altre inquadrature. Il suo significato dipende dalla sua collocazione
“sintagmatica”e all’interno della “diegesi” (andamento narrativo).
2) l’immagine filmica tramite la macchina cinematografica assume una funzione generalizzante che
trasforma ogni concreto oggetto o evento filmato nell’idea o nel concetto di quello stesso oggetto o
evento.
3) mostrando con ciò di costituire un vero e proprio linguaggio cinematografico, l’immagine filmica
riorganizza lo spazio e il tempo, derealizzando la realtà. Universo parallelo e autonomo che non si
confonde con quello in cui viviamo.
Casetti nota che tale riflessione non conta più la somiglianza delle immagini con la realtà, ma la continua
dialettica tra ciò che è rappresentato e la rappresentazione che restituisce quella stessa traccia del reale
secondo una diversa disposizione, altra del reale. La macchina semiotica filmica riorganizza il materiale
filmato in funzione dei suoi obiettivi comunicativi.
La semiotica consiste nel rinvio che l’immagine filmica istituisce tra ciò che si osserva sullo schermo, la
rappresentazione, e ciò di cui l’immagine è rappresentante, che non è più realtà ma una sua
riformulazione.
Per Mitry l’audiovisivo significa e comunica con specifiche modalità che non possono essere ricondotte a
modalità appartenenti ad altri processi comunicativi. Le modalità sono specifiche del mezzo.

L’approccio semiotico e la polemica sull’iconismo


La nozione semiotica di icona dipende largamente dal filosofo Charles Sanders Peirce: segno che presenta
una certa somiglianza con l’oggetto a cui rimanda. Entità connessa a ciò che significa in modo motivato.
Charles Morris >definì l’icona come quel segno che possiede alcune proprietà dell’oggetto rappresentato
<<simile, per alcuni aspetti, a ciò che denota>>.
Anche se può sembrare controintuitivo, la somiglianza non è la causa che fa sì che un’icona sia la
rappresentazione di un oggetto, ma è l’effetto di procedure codificate che producono giudizi di somiglianza.

11.3 IL CINEMA COME LINGUAGGIO E LA GRANDE SINTAGMATICA DELLA COLONNA


VISIVA
La concezione del cinema come un dispositivo linguistico non è un’invenzione della semiotica del cinema,
ma ha precedenti nella stagione culturale del cinema sovietico (anni ’20-’40) in cui emerse la nozione del
“montaggio sovrano”. La concatenazione delle sequenze diventò l’elemento caratterizzante e il principale
dispositivo semiotico in grado di conferire alla macchina filmica uno status autonomo rispetto alle altre arti
e un valore linguistico-funzionale.
<<il montaggio permette la costruzione di una superficie terrestre immaginaria, le singole parti sono
collegate fra loro da un unico tempo d’azione.>>
Il regista Kulesov parlò di découpage: volendo indicare la divisione, in sede di ripresa, delle singole
inquadrature che poi saranno assemblate e unite in sede di montaggio. Il découpage è dunque il
procedimento inverso e complementare rispetto al montaggio >PRINCIPIO PRATICO.
IL PRINCIPIO TEORICO >riguarda l’assemblaggio di tale materiale discontinuo che restituisce un senso
spazio-temporalmente unitario alla diegesi (la linea del racconto).
È dunque il montaggio, con l’accostamento delle in quadrature, il procedimento specificatamente
cinematografico che costruisce la sua significazione > un significato che è qualcosa di più della somma dei
significati delle immagini prese singolarmente. Alla domanda di Metz, se il cinema fosse una lingua o un
linguaggio, la risposta è che non è una lingua, cioè codice unitario e strutturato alla maniera delle lingue
verbali, ma un linguaggio, un insieme eterogeneo e flessibile di manifestazioni espressive e significanti.
Questo è ciò che Metz chiama <<discorso in immagini>>. Il discorso in immagini costruisce lo spazio e il
tempo nei diversi segmenti autonomi (indica una sequenza – le unità di narrazione – formata da più segmenti
minimi ovvero le inquadrature).

Metz individua otto tipi sintagmatici:


1) Il piano autonomo: una sequenza formata da un unico piano che Metz distingue a sua volta in:
a) piano-sequenza, una sequenza composta da un’unica scena senza discontinuità spazio-
temporale e senza stacchi tra i piani (il tempo degli eventi narrati e il tempo dell’enunciazione
o fruizione dello spettatore coincidono);
b) inserti, piani isolati dal resto del racconto filmico, a sua volta distinti in:
- inserto non-diegetico (all’interno del racconto viene inserito un piano che
“commenta” l’evento/personaggio);
- inserto soggettivo (un piano, adeguatamente segnalato anche da particolari effetti di
luce, che rappresenta la dimensione soggettiva);
- inserto diegetico dislocato (un piano che, pur facendo parte della narrazione, è
dislocato da un punto di vista spazio-temporale rispetto alla scena in cui è inserito – i
flashback);
- inserto esplicativo (un piano ingrandito e astratto dallo spazio finzionale per scopi
esplicativi).

2) Il sintagma parallelo: una sequenza di più piani e alterna due motivi tematici che non sono legati da
relazioni spazio-temporali; non ha una funzione denotativa, ma presenta un forte valore simbolico.

3) Il sintagma a graffa: è, come il precedente, una sequenza composta da più piani senza legami
spazio-temporali; ma si distingue perché non si basa sull’alternanza di due motivi tematici, ma sulla
frammentarietà dei vari piani, raggruppati in una singola scena secondo un unico tema.

4) Il sintagma descrittivo: sequenza composta da più piani, legati soltanto da un rapporto di


coesistenza spaziale e non di tipo temporale-narrativo.

5) Il sintagma alternato: è la sequenza classica del cinema moderno; i vari piani si raggruppano
secondo un legame cronologico, consecutivo e non lineare. Consequenzialità diegetica tra le azioni.

6) La scena è costituita da più piani, è cronologica, consequenziale e lineare. Il significante è


frammentato ma la diegesi è esibita in una continuità spazio-temporale attorno a un unico evento,
mostrato senza interruzioni o salti temporali. Detto anche minimo in quanto il tempo di enunciazione
di una scena (significante) coincide con il tempo della diegesi (significato).

7) La sequenza a episodi costituisce un insieme di scene, talvolta separate da effetti ottici, che
mostrano una serie di avvenimenti legati da un nesso consecutivo e cronologico; in cui vi sono salti
sia sul piano del significante (scena) sia su quello del significato (diegesi) ed è grazie al nesso
cronologico che la sequenza a episodi si distingue dal sintagma a graffa.

8) La sequenza ordinaria è cronologica e consecutiva; ma il tempo diegetico è generalmente


compresso e condensato in modo da eliminare particolari non rilevanti. Nella sequenza precedente
ogni singolo episodio è chiaramente separato dall’altro e rappresenta una micro-scena all’interno
della narrazione, mentre la sequenza ordinaria restituisce solo una singola unità d’azione e di
avvenimenti, in modo consecutivo, anche se con salti diegetici ed ellissi temporali per taglia gli
elementi non pertinenti. É una singola unità di azione.

Béla Balazàs diceva che, ogni volta che due immagini si succedono, interviene <<una corrente di
induzione>>, un procedimento intellettuale che cerca automaticamente e necessariamente di rinvenire un filo
logico-narrativo e di motivare quel collegamento, indipendentemente da ciò che le immagini stesse
mostrano. Il passaggio da un’inquadratura all’altra, funziona perché <<si suppone a priori un’intenzione
comunicativa; è come se lo spettatore intuisse che lo stacco è un procedimento semiotico funzionale alla
comprensione. Metz presuppone, dunque, che il cinema sia un dispositivo essenzialmente narrativo.
Il linguaggio cinematografico si pone a metà tra la retorica e la grammatica: è una retorica, poiché il
modello indica una serie concatenazioni fisse di elementi non fissi, composte da un insieme di unità
significative specifiche del mezzo; ma è anche una grammatica perché con il tempo tali concatenazioni sono
diventate a loro volta schemi di intelligibilità della denotazione.
Così come nella poesia ciò che viene detto dipende intrinsecamente da come viene detto, non potendo essere
espresso in diverso modo, nell’audiovisivo il “cosa” e il “come” fanno un tutt’uno. Ogni regista si ritrova
con una serie di procedimenti altamente codificati (tipi d’inquadratura e d’illuminazione, schemi di
montaggio…). Questi non rappresentano una serie di regole vincolanti, ma un insieme d’istruzioni o
abitudini significanti che il regista deve adoperare per comunicare, ma può anche modificare.
Questa contrapposizione, tra regole codificate e libertà di poterle sempre modificare, è forse la
caratteristica più attraente per chi utilizza il linguaggio audiovisivo.
11.4 IL CINEMA TRA NARRAZIONE E PRODUZIONE DI SENSO
- La “fabula”> organizzazione generale e astratta degli eventi e dei personaggi di un racconto
- L’”intreccio”> la modalità concreta, linguistica ed estetica, attraverso cui quei materiali si
dispongono narrativamente.
Lévi-Strauss e Propp furono due studiosi i quali vennero ripresi da diversi autori ed ebbero un’influenza
decisiva anche sugli studi prettamente cinematografici. Gli approcci di L. e P. si distinguevano per il tipo di
metodologia e per gli obiettivi che guidavano all’analisi narrativa. Il primo era volto all’individuazione e
alla scomposizione delle relazioni tra gli eventi e i personaggi; il secondo approccio evidenziava
l’importanza della trama e del tempo per l’analisi della forma narrativa soffermandosi sulle funzioni e sui
ruoli dei personaggi (cioè sulle tipologie delle azioni).
La sintagmatica di Metz s’inseriva in questo tipo di studi, poiché cercava di individuare le diverse
tipologie che strutturano lo spazio e il tempo narrativi nel film, collocandosi tra il livello della fabula e la sua
concreta attualizzazione tramite il procedimento del montaggio.
Subentrò a quest’ottica l’apporto del “decostruzionismo” di Jacques Derrida: il linguaggio non è tanto un
sistema funzionale, volto alla rappresentazione del mondo, ma è una pratica in continuo divenire, in cui gli
slittamenti semantici e le differenze costituiscono l’essenza del testo.
Si passò dunque dall’idea di opera all’idea di testo, cioè da una concezione unitaria del messaggio narrativo,
in cui c’è un autore che dispiega un sistema di vari elementi significanti che il fruitore ripercorre per capirne
il senso, ad una concezione in cui si assiste allamorte dell’autore e alla nascita del lettore.
Il lettore diviene, nella concreta pratica interpretativa, produttore della costruzione del senso>la
scrittura non è la comunicazione di un messaggio che parte dall’autore e va al lettore; è specificatamente la
voce stessa della lettura: nel testo parla solo il lettore. Barthes

CAP. 12 COM’È FATTO UN LINGUAGGIO DI PROGRAMMAZIONE


Essi presentano varie peculiarità rispetto ad altri sistemi fino a qui analizzati. Si tratta di manufatti che hanno
le caratteristiche di oggetti formali. Questi linguaggi non presentano misteri: di essi si sa tutto quello che c’è
da sapere.

12.2. ALGORITMI E COMPUTABILITÀ


Intuitivamente, si dispone di un “algoritmo” per risolvere un problema se si dispone di un insieme finito di
istruzioni tali che:
a partire dai dati iniziali, le istruzioni sono applicabili in maniera rigorosamente deterministica, in maniera
cioè che ad ogni passo sia sempre possibile stabilire univocamente qual è l’istruzione che dev’essere
applicata al passo successivo;
- c’è un criterio univoco per stabilire quando il processo deve considerarsi terminato e il risultato, se
esiste, è stato ottenuto;
- lo stato finale, se esiste, deve sempre essere raggiungibile in un numero finito di passi.

Input → i dati di partenza del calcolo; Output → il suo risultato.


Una funzione si dice calcolabile in modo algoritmico se esiste un algoritmo che consente di calcolarne i
valori per tutti gli argomenti.
Tautologia> enunciato che risulta sempre vero.
Nacque un settore di ricerca che è stato detto in seguito teoria della computabilità/calcolabilità effettiva, in
cui vengono indagati concetti come quello di algoritmo e di funzione computabile in modo algoritmico. Ogni
calcolo consiste nell’operare su di un certo insieme di simboli scritti su di un supporto.
Si è affermato che una delle domande che hanno motivato la nascita della teoria della computabilità era
stabilire se tutti i problemi matematici fossero, almeno in linea di principio, risolubili con un algoritmo. Dalla
tesi di Church si può affermare che esistono problemi indecidibili, ossia problemi che non possono essere
risolti per mezzo di alcun algoritmo.
Dall’esistenza di problemi indecidibili segue che esistono problemi che non potranno mai essere risolti da un
programma per calcolatore scritto in qualsivoglia linguaggio di programmazione.

12.3 CALCORATORI E LINGUAGGI


Linguaggi macchina, assembler, linguaggi di alto livello:
Il linguaggio macchina è molto scomodo per un interprete umano: ogni programma si presenta come una
lunga serie di cifre binarie, la cui decifrazione è estremamente ardue. Per ovviare a tale inconveniente furono
introdotti livelli linguistici ulteriori> il primo consiste nei cosiddetti codici assemblatori o assembler.
Nel passaggio da linguaggio macchina a codice assemblatore ogni elemento sintattico del linguaggio viene
espresso con un simbolo che, per un essere umano, risulti più facilmente interpretabile. I simboli consistono
in sigle formate da lettere dell’alfabeto.
A livello hardware tuttavia ciò che un calcolatore capisce davvero è soltanto il linguaggio macchina. Di
conseguenza, affinché un programma in assembler possa essere eseguito deve essere prima tradotto in
linguaggio macchina ed è possibile scrivere programmi che li traducano automaticamente. Tali programmi
detti assemblatori prendono in input un programma scritto in assembler e producono in output un
corrispondente in linguaggio macchina.
I codici assemblatori costituiscono solo il primo passo nell’evoluzione dei linguaggi di programmazione.
L’assembler infatti è quasi soltanto una traduzione letterale del codice macchina. Questi codici assemblatori,
così come i codici macchina, sono legati a un tipo di calcolatore specifico: un programma scritto nel codice
assembler di un certo calcolatore non può essere eseguito da un calcolatore che abbia un processore diverso.
Per superare questi limiti sono stati sviluppati i cosiddetti linguaggi di alto livello>si presentano come
formalismi per la formulazione di algoritmi che non dipendono dalla struttura fisica di un tipo specifico di
calcolatore. Essi consentono una stesuraestremamente più sintetica e perspicua dei programmi.

Per comunicare con un calcolatore in un linguaggio diverso dal suo linguaggio macchina è sempre necessaria
una traduzione. Nel caso dei linguaggi di alto livello questa traduzione viene effettuata in due modi diversi:
1. vi è un programma traduttore, il quale prende in input il programma da tradurre (codice sorgente) e
ne produce in output una traduzione completa in linguaggio macchina (codice oggetto). Si dice che il
programma tradotto viene compilato e il programma traduttore viene detto compilatore;
2. il programma traduttore prende in input il programma che deve essere tradotto e, con un’unica
operazione, lo traduce applicandolo ai dati e producendo immediatamente il risultato. Il programma
traduttore viene detto interprete(simultaneo) e il programma tradotto interpretato.

Sia i linguaggi di alto livello che di basso livello (macchina e assembler) sono formalismi universali, nel
senso che consentono di rappresentare (in base alla tesi di Church) qualsiasi algoritmo.

12.4 LE FAMIGLIE DEI LINGUAGGI DI PROGRAMMAZIONE


Con ciascuno dei linguaggi di programmazione si possono fare esattamente le stesse cose. Ciò tuttavia non
ha evitato che si sviluppassero moltissimi linguaggi di programmazione.
- FORTRAN: è stato usato soprattutto per il calcolo scientifico;
- COBOL: per applicazioni di tipo gestionale;
- LISP e PROLOG: sono linguaggi sviluppati per le applicazioni di intelligenza artificiale;
- PASCAL: ha avuto a lungo un posto di rilievo nella didattica della programmazione per la sua
chiarezza;
- JAVA: oggi tanto diffuso, è stato progettato per applicazioni che girano in Internet.

I linguaggi di programmazione possono essere ricondotti a tre grandi famiglie: (1) linguaggi imperativi, (2)
linguaggi di tipo dichiarativo – funzionale e (3) linguaggi di tipo dichiarativo – logico.
(1) è senz’altro la più feconda in termini numerici. È costituito dalla definizione di un insieme di
strutture dati e da un elenco di istruzioni per manipolarle. L’esecuzione di un programma consiste
nell’eseguire sequenzialmente le istruzioni in base all’ordine che è stato specificato dal
programmatore. È compito del programmatore specificare quali operazioni vanno eseguite e in quale
ordine.
(2) Il LISP è il più rappresentativo di questa famiglia; si basa sulla nozione matematica di funzione
calcolabile. Un programma corrisponde alla definizione di una funzione. Il programmatore deve
occuparsi esclusivamente di definire correttamente la funzione, senza preoccuparsi dei dettagli
relativi al controllo dell’esecuzione.
(3) nei linguaggi dichiarativi logici un programma non esprime una serie di istruzioni da eseguire una
dopo l’altra per risolvere un problema. Un programma consiste nella rappresentazione di un insieme
di conoscenze relative a un determinato dominio di oggetti. Tali conoscenze vengono espresse sotto
forma di fatti e di regole che consentono di dedurre fatti nuovi a partire dai fatti rappresentati
esplicitamente. Il più diffuso è il PROLOG.

12.5 PROGRAMMAZIONE STRUTTURATA E PROGRAMMAZIONE AD OGGETTI: LINGUAGGI


IPERATTIVI -> IL PARADIGMA CLASSICO DI PROGRAMMAZIONE
La sequenza può essere rappresentata in modi diversi. Storicamente un programma era costituito da un
elenco di istruzioni numerate. L’esecuzione aveva inizio dalla prima e procedeva sequenzialmente. Questo
modo di progettare i programmi presenta numerosi svantaggi. Per superare certe difficoltà è stato proposto
un nuovo stile di programmazione imperativa: la programmazione strutturata.
I primi furono ALGOL e PASCAL. Sono programmi organizzati gerarchicamente come un insieme di
moduli.Tali moduli prendono la forma di procedure, ossia moduli che possono essere richiamati più volte,
nello stesso o in programmi diversi.
La programmazione strutturata ha costituito un primo passo nella direzione di un processo di astrazione nella
progettazione dei programmi. Questo modo di procedere accresce la possibilità di riuso del software, cioè di
adattare un programma a esigenze parzialmente diverse rispetto a quelle per cui era stato programmato in
origine.
L’organizzazione gerarchica degli oggetti in un sistema di programmazione comporta che le classi che si
trovano più in alto nella gerarchia siano caratterizzate in termini più astratti rispetto a quelle collocate più in
basso. Descrivere in termini più astratti e generali significa non impegnarsi in scelte particolati riguardo a
specifici dettagli.

Conclusioni: alcuni sviluppi recenti


Vi sono due linee di sviluppo:
(1) consiste nella cosiddetta programmazione orientata agli agenti, che può essere considerata una
naturale evoluzione della programmazione orientata agli oggetti.
(2) concerne i linguaggi visuali.
Wooldrige e Jennings definiscono gli agenti come programmi scritti per svolgere un compito in modo
autonomo e finalizzato al raggiungimento di un obiettivo.

CAP. 13 COME SI LEGGE UN TESTO TEATRALE


Testo teatrale → inteso come rapporto dialettico tra testo drammatico e messa in scena reale.
13.1 DEFINIZIONE DI TESTO TEATRALE. TESTO DRAMMATICO E TESTO SPETTACOLARE
L’espressione testo teatrale è correttamente utilizzata per indicare due ordini di fenomeni connessi tra loro,
ma differenti dal punto di vista semiotico:
a) nel lessico comune tale espressione indica di solito il testo drammatico (TD); in quanto tale, il TD
ricade a pieno titolo nella categoria di testo letterario, di cui costituisce un particolare genere.
b) nel lessico degli studiosi di semiotica è testo anche lo spettacolo. Testo spettacolare (TS)

Abbiamo dunque a che fare con due specie di testo: a) sono connesse, ma sono anche b) differenti dal punto
di vista semiotico.
1. Tra TD e TS intercorre un’implicazione reciproca. Sul versante dello spettacolo (TS), questo include
il TD come una delle sue componenti (il copione). Sul versante del TD, la questione dell’ (eventuale)
implicazione al suo interno del TS è più complessa e richiede chiarimenti.
Ciascun TD è costruito presupponendo un’ipotesi di rappresentazione e dunque presupponendo le
convenzioni spaziali, recitative ecc. della scena per la quale è previsto. Anche l’evocazione di mondi fittizi
avviene conformemente a quanto consentono le credenze, le abitudini e le possibilità sceniche che l’autore
del TD condivide con il suo pubblico. La comprensione del TD non può prescindere dalla conoscenza dei
potenziali TTSS per cui esso fu concepito.
La Semiotica se ne interessa piuttosto in quanto esse includono la somma di nozioni ed esperienze condivise,
l’enciclopedia culturale e i codici comuni all’autore e al pubblico che questi aveva in mente, e inscritti in
quanto tali nel TD stesso.
Il tratto fondamentale del discorso teatrale, secondo Anne Ubersfeld: consiste nel fatto di poter essere
compreso solo come una serie di ordini dati in vista di una produzione scenica, di una rappresentazione, e
indirizzati a dei destinatari-mediatori, incaricati di ripercuoterlo a un destinatario-pubblico.
2. nel passaggio dal TD al TS (talvolta viceversa) attraverso il processo di transcodificazione – cioè il
trasferimento di alcuni messaggi da uno a altri sistemi di segni – si determina una produzione di
senso

TD e TS sono fenomeni totalmente differenti e autonomi.

Seppure ciascun TD è costruito a partire dall’ipotesi di rappresentazione che aveva in mente l’autore e dalle
convenzioni teatrali condivise da questi e dal suo pubblico originario, il necessario modificarsi ogni volta
delle condizioni e del contesto d’enunciazione spettacolare genera situazioni comunicative e significati
sempre nuovi e non prevedibili. Ancora di più se il TD viene messo in scena in epoche o ambienti culturali
differenti da quelli per cui fu creato.
Il continuo modificarsi di codici e convenzioni condivisi fa sì che possa esistere un numero potenzialmente
infinito di differenti TTSS che si richiamano ad uno stesso TD, dando luogo a rapporti di comunicazione di
significazione non previsti dall’autore del TD.
Del resto, se è tipico del genere drammatico fornire indicazioni per la sua rappresentazione, è anche vero che
tali direttive non hanno un carattere prescrittivo. Il TD somiglia più a una scatola di costruzioni “lego”, con
la quale è possibile costruire molte forme a scelta.

13.2 TRA “TD” E “TS”: ALCUNI CONCETTI TEORICI


Transcodificazione – la messinscena rende immediatamente evidente la diversità circa la qualità dei segni
utilizzati nel processo di significazione e di comunicazione.
TD → testo scritto; TS → è costituito dall’intersecarsi e dal sovrapporsi i segni eterogenei (la parola, la
gestualità, l’intonazione, la scenografia, i costumi).
In termini semiotici si dirà che, al teatro è possibile rinviare a uno stesso concetto – significato – tramite una
molteplicità di significanti. In ciò consiste quel che abbiamo chiamato processo di transcodificazione. Sulla
scena teatrale molti sistemi di segni agiscono contemporaneamente, intersecandosi. Potenzialmente sono tutti
quei sistemi di segni che sono in funzione nella vita, più alcuni specifici del teatro. Si è parlato del teatro
come di un sistema di sistemi.
Rispetto alla vita, vi è però a teatro unamaggiore intensità della semiosi > fenomeno della semiotizzazione
dell’oggetto teatrale. Tutto ciò che è sulla scena è un segno. Il fatto stesso che degli oggetti appaiano
sulla scena sopprime la loro funzione pratica in favore di un ruolo significante e simbolico. Mentre nella
vita reale la funzione utilitaristica di un oggetto è di solito più importante della sua significazione, sulla scena
teatrale la significazione ha la massima importanza.
a) Il rapporto tra l’oggetto materiale presente sulla scena e il senso che lo spettatore gli assegna è
mediato da classi generali più astratte >il significante e il significato. Se è presente sulla scena uno
sgabello, il suo funzionamento in quanto segno fa sì che, egli lo collochi mentalmente in una classe
di oggetti fatti per sedersi, per poi assegnargli, in un certo contesto, il senso di “trono del re”.
La necessaria limitatezza spazio-temporale della scena fa sì che, le classi semantiche e formali
dimostrino una straordinaria flessibilità>dinamismo o trasformabilità del segno teatrale. Per
esprimere un contenuto, per esempio, “c’è una nave”, è possibile utilizzare a teatro una gamma di
significanti potenzialmente infinita: significanti iconici> riproduzione scenografica della nave o un
disegno o una sagoma abbozzata; o di contiguità spaziale o logica > il rumore delle vele, l’andatura
barcollante; o di pura convenzione > la nave può essere soltanto evocata linguisticamente.

b) Uno stesso elemento scenico può stare per diversi significati – flessibilità denotativa – a seconda
del contesto in cui è inserito. Ciascuno di questi segni funziona spesso a teatro come una sineddoche
esibendo una parte per il tutto: una vela per la nave, una grata per la prigione.
c) Come ogni segno, anche il segno teatrale porta con sé, oltre al proprio significato primario
(denotazione), tutta una seria di valori aggiuntivi e variabili (connotazioni), in gran parte dipendenti
dalle sceneggiature in cui sono collocati e che possono essere attivati dal contesto in cui tali segni
sono collocati. Quasi sempre uno stesso segno connota più valori contemporaneamente, un
costume connota abitualmente l’epoca, il livello sociale, la professione, l’indole del personaggio.

Deissi, costruzione di mondi possibili, metateatralità


In linguistica i deittici sono parole di per sé “vuote”, prive di un significato intrinseco, ma che acquistano
senso in relazione alla situazione contestuale in cui vengono enunciate. L’analisi statistica ha dimostrato
che, nei TD, la presenza di espressioni deittiche è particolarmente alta; ciò ha importanti conseguenze nella
semiotica del teatro, per quel che concerne il rapporto tra TD e TS.
1. <<una modalità di discorso come quella drammatica è incompleta fino a che non vengono
debitamente forniti i necessari elementi contestuali (parlante, destinatario, tempo e luogo).
Diversamente da altri indicatori descrittivi o spazio-temporali, che rinviano a quanto già detto nel
testo,il “deittico”rinvia a un contesto pragmatico, fisico, designato “per ostensione simultanea”.
Il deittico nel TD resta sospeso attendendo di essere riempito da un gesto.
2. TTSS molteplici possono riempire in maniera differente i vuoti deittici di uno stesso TD,
facendone deviare indefinitamente il senso. È dunque intrinseca alla natura deittica del TD la
molteplicità praticamente infinita di varianti spettacolari cui uno stesso TD può legittimamente dar
luogo.
3. La deissi del TD è il tramite logico fondamentale tra il mondo attuale (l’ora e il qui degli attorie
del pubblico)e il mondo inventato fictional. Tale sovrapposizione tra mondi, è reso accettabile dalla
sceneggiatura o frame cognitivo del gioco e dello spettacolo.
4. Come ogni altro universo fittizio creato dall’arte o dalla letteratura, anche quello teatrale rientra
nella categoria dei “mondi possibili”.Caratteristica peculiare dei mondi possibili della
fictionnarrativa è che essi sono degli insiemi “pieni” e “ammobiliati”, ossia dotati di individui e di
loro proprietà concretamente affermate.
Il TS manifesta un effetto di realtà in cui appare determinante proprio il funzionamento deittico
attraverso l’elevata frequenza di espressioni deittiche già presenti nel TD.
5. Nel TS la deissi può essere deviata fino a sortire l’effetto opposto, fino a “derealizzare” l’illusione
scenica. Ciò accade quando la deissi indica il teatro stesso (spettatori, regista, tecnici): è questa la
cosiddetta metateatralità.

Dall’enunciato all’enunciazione: gli atti linguistici


La deissi nel TD, per cui il senso è pienamente definito e compiuto soltanto nell’ambito di un TS, colloca le
modalità comunicative del dramma nel macrogenere del “discorso”.
La distinzione tra “storia” e “discorso” è stata introdotta in linguistica da Benveniste. Da un lato la
“storia”, costruita come un insieme di segni compatto e largamente autosufficiente, tale cioè da determinare
essi stessi il loro valore senza appoggiarsi alle circostanze dell’enunciazione; dall’altro il “discorso” che,
s’inserisce pienamente nel contesto dell’enunciazione, anzi prende valore determinato soltanto facendo
riferimento continuo ad esso.
Il linguaggio drammatico (“discorso”) non soltanto è determinato dalcontesto, ma soprattutto agisce sul
contesto, lo crea e lo guida nella sua evoluzione dinamica. Il linguaggio del dramma va inteso come una
rete di pragmatiche enunciazioni. Per affrontare quest’analisi viene in aiuto la teoria degli atti linguistici.
La semplice produzione di enunciati nel rispetto delle regole fonetiche e grammaticali, cioè l’atto di dire
qualcosa >atto locutorio; contemporaneamente, nel dire qualcosa in relazione a un sistema di convenzioni
sociali (atto illocutorio), il parlante compie anche un’azione sociale (nozione del performativo>
performance). Vi è infine un terzo tipo di atto che il parlante compie: egli ottiene un effetto sui sentimenti, le
credenze e i comportanti del suo interlocutore (atto perlocutorio).
È evidente che, per comprendere la qualità di un atto linguistico, bisogna innanzitutto identificarechi lo
enuncia e a chi si rivolge. Bisogna tenere presente che anche le sequenze di enunciati e i testi nella loro
interezza hanno valore di atti linguistici complessivi.
Si ottiene la definizione schematica dei principali livelli di atti linguistici che è necessario osservare
nell’analisi e nell’interpretazione dell’evento teatrale:
a) TD nel suo complesso: il discorso di teatro è conativo >atto di parola che suppone e crea le proprie
condizioni di enunciazione: X (autore) ordina a Y (attore) di dire che (enunciato) e X (autore)
ordina a Z (regista) di fare che (enunciato didascalico). L’autore del TD si propone di agire sui
destinatari sia sul piano cognitivo (far credere ad una storia) sia sul piano ideologico-emozionale
(suscitare pietà, commozione).
b) TD analizzato a livello del mondo fittizio rappresentato. Simulando in parte quanto avviene nella
conversazione reale, ma con una coerenza e una coesione testuale molto più stretta (ad es. turni di
battuta). Come già per la polisemia connotativa e per la deissi, anche riguardo agli atti linguistici il
TD rimane dunque parzialmente aperto, in attesa della realizzazione fisica di un contesto
enunciativo.
c) TS nel suo complesso.L’emittente regista agisce su due fronti:
1. quello della mediazione rispetto al TD, transcodificando i segni verbali in altri sistemi di segni,
determinando il contesto fisico dell’enunciazione che resta in sospeso nel TD;
2. il TS realizza degli atti linguistici in proprio. Esso agisce sulle credenze, i sentimenti, le idee dello
spettatore tramite illocuzioni e perlocuzioni facendo leva su presupposti, conoscenze e riferimenti
condivisi col pubblico e che non sono necessariamente gli stessi dell’autore del TD.

13.3 APPLICAZIONI
Deissi, creazione di mondi possibili, metateatralità
1) L’impiego della deissi per la determinazione dei luoghi (e del tempo) e per la costituzione delle
identità.Il TD “crea”, costruisce e articola questo mondo fittizio tramite affermazioni contenute
nelle battute dei vari personaggi e indicano deitticamente i rapporti spaziali di vicinanza/lontananza,
dentro/fuori. Nella determinazione del luogo e della sua strutturazione il TS aggiunge dei segni
supplementari (scenografici ecc..), realizzando il contesto cui si riferisce deitticamente
l’enunciazione.
Un’analisi dovrebbe dunque includere i seguenti passi:
a) reperire nel TD i riferimenti spaziali in esso contenuti osservando se particolari valori
connotativi siano a essi attribuiti;
b) reperire nel TD i riferimenti deittici spaziali;
c) reperire e analizzare i segni che, nel TS, realizzano il contesto spaziale;
d) osservare le modalità deittiche realizzate nel TS tali da mettere fisicamente in contatto
l’enunciazione (verbale/gestuale) degli attori/personaggi con il contesto spaziale.

Quanto alla definizione dell’identità dei personaggi tramite la deissi> l’analisi procederà reperendo nel TD le
qualità attribuite al personaggio tramite deissi e confrontando, nel TS: quali qualità sono rafforzate,
contraddette, aggiunte dai segni specifici del TS (per es. la regalità, per mezzo dei costumi, della gestualità) e
se i rapporti deittici sono confermati, rafforzati, contraddetti ecc.
2) Lo spostamento della deissi nell’interpretazione registica (dunque nel TS).
3) L’attivazione di un rafforzamento della deissi metateatrale.

Percorsi isotopici
L’analisi delle isotopie connotative, ossia di aree di senso semanticamente omogenee a livello di valori
connotati, ci fornirà al proposito alcuni interessanti spunti di riflessione. Ad esempio, l’oggetto denotato
“letto” è posto all’intersezione di tre differenti percorsi isotopici, relativamente alle connotazioni che esso
evoca: la malattia, la sessualità , il sonno.
Atti linguistici
Il riconoscimento degli atti linguistici è importante per comprendere la dinamica profonda dell’azione
drammatica. Tra TD e TS può esservi piena cooperazione. Non è infrequente però il caso in cui i segni del
TS conferiscano alle battute del TD valenze pragmatiche differenti rispetto a quelle che la sola lettura del TD
potrebbe far supporre.
Lezione 8 30/04/2018
CAP. 14 COME SI LEGGE UN TESTO PUBBLICITARIO
14.1. STORIE NELLE STORIE. PECULIARITÀ DEL DISCORSO PUBBLICITARIO
Il testo pubblicitario si caratterizza per essere uno dei testi più diffusi e peculiari della nostra forma
occidentale di cultura. Costituisce uno specifico e particolare momento all’interno di un più ampio e
determinato processo sociosemiotico, quale quello del “consumo”, dotato di sue caratteristiche peculiari che
lo differenziano da altri processi sociosemiotici.
Come tutti gli altri testi, anche i gesti pubblicitari operano sulla costituzione di VALORI e SOGGETTI, nel
senso in cui la dimensione semiotica di ogni testo implica una soggettività e un progetto di generazione di
senso (per lanciare un messaggio) il quale si basa sul posto funzione di un sistema di valori. I valori possono
essere anche quelli commerciali, ovvero materiali: come i soldi
A differenza di tutti gli altri tipi di testo (e.g. romanzo, film etc.), però, i testi pubblicitari lavorano per
associare questi valori a merci acquistabili, beni o servizi che siano, e per far apparire queste merci appetibili
e desiderabili, o meglio ancora INDISPENSABILI.
Le pubblicità sociali (per il fumo, per la guida etc.) sono create per trasmettere un messaggio, non un valore
materiale.
Un testo pubblicitario non si fa apprezzare per le sue caratteristiche estetiche, o almeno non solo, quanto
invece per le sue caratteristiche persuasive, e cioè per le sue capacità di stimolare e orientare, più o meno
direttamente e più o meno immediatamente un determinato comportamento (generalmente, l’acquisto).
In termini semiotici diremo che la comunicazione pubblicitaria è sempre riconducibile a uno dei momenti
costruttivi del cosiddetto “Percorso Narrativo Canonico”, lo strumento usato nella semiotica di ispirazione
greimasiana per descrivere e analizzare le sequenze narrative , le sequenze di azioni orientate alla
trasformazione della relazione di giunzione di un Soggetto con un Valore

14.2. PUBBLICITÀ E MANIPOLAZIONE


Il momento narrativo specifico a cui la comunicazione pubblicitaria è riconducibile è quello della
MANIPOLAZIONE, ossia il momento in cui si costituisce per un determinato Soggetto il desiderio (voler-
fare) o la necessità (dover-fare) di delineare un certo programma di azione finalizzato al congiungimento con
un Valore, che sarà un programma di acquisto.
Adottando una proposta di JOSEPH COURTÉS, possiamo schematizzare il PERCORSO NARRATIVO
CANONICO:
▪ L’AZIONE costituisce il momento centrale, ciò che viene compiuto dal Soggetto in questione e si
suddivide a sua volta in due aspetti: 1) quello della COMPETENZA (saper fare e poter fare); quello
della PERFORMANZA e cioè del vero e proprio (i capelli sono più lisci se uso quel balsamo)
▪ La PERFORMANZA presuppone sempre la competenza -> non si fa nulla senza la capacità di farlo,
e il cattivo esito di un'azione denota una scarsa competenza.
▪ L’azione presuppone a sua volta una MANIPOLAZIONE, ossia un momento narrativo in cui il
SOGGETTO, agente dell'azione, si persuade, o viene persuaso, a compiere quella determinata azione
▪ Sull'azione si esercita una SANZIONE, un giudizio volto a valutare la rispondenza dell’AZIONE
alla MOTIVAZIONE da cui è stata generata. Nella pubblicità sociale la sanzione (= giudizio) è
molto forte, e ha una morale (a differenza della pubblicità commerciale, il cui giudizio è solo
materiale)
ESEMPIO → il momento dell’AZIONE
sarà quello dell’acquisto vero e proprio
(PERFORMANZA), il quale
presuppone una COMPETENZA ,
ovvero un Saper-fare (e.g. cosa, dove e
come acquistare) e un Poter-fare (e.g. il
possesso del denaro necessario).
Quest’azione presupporrà una
MANIPOLAZIONE, un momento in cui
il Soggetto si convince della desiderabilità o della necessità di un prodotto. Questa motivazione si tradurrà in
un’immagine (detta “immagine scopo”) in cui il Soggetto si rappresenta congiunto al servizio o al prodotto
in questione. Infine ci sarà un giudizio, una SANZIONE, che potrà essere esercitato dall’autore dell’acquisto
stesso o da qualche altro attore sociale
14.3. LA COSTITUZIONE DEL DESIDERIO
La persuasione che il testo pubblicitario persegue è volta alla costituzione del desiderio o della necessità di
acquisizione di un bene o un servizio da parte di un attore sociale.
A seconda che la persuasione giochi sulla proposta di un valore positivo o negativo e a seconda che giochi
sul sapere o sul potere del Soggetto da persuadere, si possono identificare 4 tipi generali di strategia:
1. Seduzione
2. Tentazione
3. Intimidazione
4. Provocazione

SEDUZIONE
La seduzione caratterizza comunicazioni sottili e meno immediate, e si ha quando viene messa in scena e
lusingata la competenza del Soggetto, il suo saper fare, che può ad esempio venir manifestato da un suo
modo di essere, da un suo stile, pubblicitariamente caratterizzabile come adesione ad una certa estetica o a un
certo mondo di valori, che dichiarano il “buon gusto” del Soggetto. Questa strategia è più della pubblicità di
marca, che di prodotto -> Il valore sarà tanto più intenso quanto più il Soggetto che dovrà servirsene
apparirà competente.
ESEMPIO→ Il testo pubblicitario del profumo, dove viene anche pubblicizzato uno stile di vita, che si
assume, che si abbraccia se si usa quella marca di profumo. Non si pubblicizza il prodotto, ma la marca. I
protagonisti della pubblicità sono tutti noti

TENTAZIONE
La tentazione si ha quando la comunicazione mette in scena un prodotto qualificato come capace di
trasformare o migliorare la competenza del Soggetto, promettendogli di fare cose che altrimenti non
potrebbero fare o che potrebbero fare solo con difficoltà. È la forma comunicativa più diffusa per i prodotti
di largo consumo. Il prodotto assume il ruolo di ‘aiutante’ o di ‘facilitatore’.
ESEMPIO → Pubblicità dei telefoni, compagnie telefoniche o di prodotti casalinghi. Si pubblicizza il
prodotto e le sue capacità di migliorare la vita. I personaggi non sono noti e il messaggio è più immediato.

INTIMIDAZIONE
L’intimidazione si ha quando il Soggetto anziché lusingato, viene “minacciato”, quando gli si dice non cosa
potrà fare con un prodotto, ma cosa non potrà fare senza. L’immagine scopo proiettata non sarà più quella di
una congiunzione con il valore desiderato, ma quello di una disgiunzione di esso.
ESEMPIO → Pubblicità sociali che indicano lo stile di condotta da adottare. Raramente si usa nelle
pubblicità commerciali, perché è difficile convincere un persona che se non usa quel prodotto la sua vita non
sarà bella. Una pubblicità commerciale che usa questa tecnica è quella del Martini (No Martini, no party!)
del 2007, il messaggio che fa passare è che neanche George Clooney senza il Martini può entrare in casa (in
realtà si tratta di una seduzione mascherata da ‘intimidazione’)

PROVOCAZIONE
Anche la provocazione è poco frequente nel testo pubblicitario commerciale, in quanto anch’essa deve
mettere in scena un’immagine scopo negativa, conseguenza della mancanza di competenza, del non sapere
fare, di un Soggetto. È una forma che si caratterizza spesso per il tono ironico.
Se non si capisce l’ironia, la pubblicità non funziona e può avere l’effetto opposto.
ESEMPIO →Nell’immagine si vede che la cannuccia si rompe appena capisce che deve entrare nella Coca-
Cola (capisce che si tratta di questa marca, dai colori convenzionali).La provocazione è molto sottile,
bisogna ragionare per capire il “messaggio” ironico della pubblicità.
Riferimento alla recente pubblicità del Buondì

14.4. IL TESTO PUBBLICITARIO E I SUOI SOTTOGENERI


Difficilmente un testo pubblicitario dirà che sta cercando di convincersi a comprare qualcosa, ma lavora, il
più delle volte, in modo sottile, alla costruzione dell’unicità e della desiderabilità di quel dato bene o
servizio.
In termini semiotici, lavorerà alla definizione del Valore di quell’Oggetto particolare che si vuole che sia
acquistato o di quella marca alla quale si vuole che venga prestata fiducia.
La PUBBLICITÀ DI PRODOTTO e la PUBBLICITÀ DI MARCA (o di brand) costituiscono due
sottogeneri particolari del testo pubblicitario.
1. Pubblicità di prodotto → lavora di solito alla presentazione delle caratteristiche peculiari del
prodotto mostrandone i possibili, o impossibili, pregi, che potrebbero derivare dal suo possesso o
uso.
2. Pubblicità di marca → lavora di solito alla costruzione di una vera e propria identità di un Soggetto
particolare a cui si dovrebbe prestare fiducia indipendentemente dalle qualità peculiari del singolo
prodotto. In tal modo, all’interno del testo pubblicitario, il prodotto assume frequentemente il ruolo
narrativo del cosiddetto “Aiutante”; mentre la marca tende ad assumere il ruolo narrativo del
“Destinante”
In entrambi i casi, la pubblicità si realizza attraverso testi che hanno poco o nulla a che fare con la
narrazione di cui fanno parte.
I testi pubblicitari mettono in scena storie che possono essere costruite intorno all’uso (o consumo) degli
oggetti pubblicizzati o agli esiti di tali usi, sottolineandone l'efficacia nel risolvere il problema, i benefici che
ne potrebbero conseguire dal loro uso o possesso, o la personalità di chi li usa e così via.
Il testo pubblicitario si trova a dispiegare tutte le possibili strategie narrative, esibendo strutture più o meno
complesse, intrecci avvincenti che toccano tutte le fasi del Percorso Narrativo Canonico e complicazioni a
incastro dello stesso, o micro sequenze che focalizzano meno di un momento narrativo, lasciando all’intuito
dello spettatore il compito di tracciarne i contorni.
La focalizzazione sull’uno o sull’altro dei diversi momenti narrativi possibili può anche essere assunta quale
e vero proprio criterio per la definizione di una tipologia dei generi pubblicitari (e.g. pubblicità avventurosa /
pubblicità morale / pubblicità manipolatoria etc.)
Product placement →La pubblicità occulta, quando si inseriscono delle pubblicità subliminali.
È stato usato per la prima volta in The Truman show
14.5. OGGETTI, VALORI E SOGGETTI
Quindi, la comunicazione pubblicitaria mette in scena Oggetti e lavora alla costruzione del Valore di
questi Oggetti, in modo tale che essi siano desiderabili per qualcuno.
OGGETTO e VALORE sono concetti contigui, ma non identici:
• Oggetto → si riferisce a un fenomeno percepibile, a un’entità del mondo che ci circonda e che può
circolare all’interno di esso
• Valore → si riferisce a qualcosa di astratto, di immanente agli oggetti o dissociato da qualsiasi entità
mondana percepibile (e.g. libertà, giustizia etc.), qualcosa che costituisce però lo “spirito” di quegli
oggetti, e ciò che può rendere un dato Oggetto interessante per un qualsiasi Soggetto.
Il valore della comunicazione viene a specificarsi come lavoro di associazione di Valori e Oggetti.
La comunicazione pubblicitaria non mette in circolazione solo Oggetti valorizzati, ma anche Soggetti
parimenti valorizzati in quanto caratterizzati da una tensione o da un desiderio verso certi determinati Valori.
Soggetti a cui il pubblico reale è invitato ad adeguarsi riconoscendovi stili e modi di vita sanzionati
positivamente: siano Soggetti “bravi” / “belli” / “astuti” / “saggi” saranno sempre soggetti a un
riconoscimento positivo all’interno delle comunicazioni in cui trovano spazio

14.6. OGGETTI CHE “SERVONO A” E OGGETTI CHE “NON SERVONO A”


I valori di cui gli oggetti vengono caricati possono ulteriormente specificarsi a seconda del ruolo che
assumono all’interno della narrazione
• Valore d’uso → In molte comunicazioni centrate sull’azione, il prodotto viene caricato di valori
eminentemente funzionali: “serve a”, e dunque assume il ruolo di AIUTANTE, apportando all’eroe
la necessaria competenza per compiere l’impresa che interessa (pubblicità deodoranti). Il possesso di
questo valore d’uso non è fine a se stesso, ma funzionale al conseguimento di un altro valore, quello
a cui il Soggetto mira davvero.

• Valore
ESEMPI di base
DEI DUE → Al
TIPI DI contrario,
VALORI in comunicazioni centrate sulla Manipolazione, il prodotto non
Vanish →viene
giocacaricato di valori
su un valore funzionali:
d’uso, il prodotto
la direzione non
è critica “serve
(come a”, èrisolvere
posso anzi puramente fine delle
il problema a se stesso in
macchie
quanto coincide con il valore finale a cui il Soggetto mira (pubblicità profumi)
resistenti? Usando il Vanish), c’è un valore d’uso anche pratico (risoluzione immediata di un problema)
Dior → gioca su un valore di base, il valore è ludico (evasivo), è evasivo e rimanda a un ideale di vita.

Un semiologo francese JEAN-MARIE


FLOCH, in occasione di uno studio sulla
pubblicità di automobili ha proposto di
articolare queste due forme di
valorizzazione su uno degli strumenti
della teoria semiotica greimasiana, il
cosiddetto QUADRATO SEMIOTICO,
definendo un sistema dei valori di
consumo -> delle possibili forme che
possono essere attribuite a un oggetto di
consumo.
Il quadrato semiotico è uno schema
grafico usato per visualizzare le relazioni
logiche costitutive di un micro universo
semantico genericamente inteso.
In alto troviamo i due termini costitutivi
di una categoria semantica qualsiasi (e.g.
uomo vs donna). Da ciascuno di essi viene proiettata la relativa ‘contraddizione’, ovvero la negazione do
ciascuno dei due termini (per la categoria di genere sarebbero “non uomo” e “non donna”, che potrebbero
denotare una perdita di virilità o di femminilità), che si troverebbero a loro volta posti in relazione di
contrarietà (asse dei sub-contrari). Ciascuno di questi due termini si troverebbe in relazione di implicazione
con il termine di categoria opposto (contrario) rispetto a quello da cui è stato generato per negazione.
La costruzione del quadrato deve essere effettuata a partire da una categoria semantica e non da un termine.
Secondo Floch la valorizzazione pubblicitaria può essere ricondotta a uno di questi tipi, ma ciò non significa
che ogni comunicazione pubblicitaria possa presentare solo uno di questi tipi di valore → questi sono i valori
che può assumere il prodotto pubblicizzato, ma la narrazione pubblicitaria può mettere in scena più tipi di
valore all’interno di una stessa narrazione.
Inoltre a questi tipi di valore non sono automaticamente associabili determinati valori specifici, poiché la
loro caratterizzazione come d’uso o di base non è assoluta, ma dipende dalla narrazione e dal testo che la
mette in scena

14.7. VOCI: LA STRUTTURA ENUNCIAZIONALE DEL TESTO PUBBLICITARIO

Caratteristica essenziale di un testo pubblicitario è quella di essere progettato per generare effetti più o meno
immediati “fuori dal testo”. Proprio per questo il testo pubblicitario fa un uso tutt’altro che occasionale di
ancoraggio al mondo reale → prima di convincerci di acquistare, deve convincerci che le cose di cui
parliamo esistono e sono accessibili nel mondo reale e che, quest’ultimo è genericamente ciò che esiste fuori
dalla cornice del testo stesso.
Dovrà convincerci che proprio noi siamo i destinatari di quella comunicazione e che quelle situazioni che il
testo ci mostra sono possibili anche nel mondo reale.
Dal punto di vista semiotico, tali ancoraggi al mondo esterno si traducono nella presenza all’interno del testo
di rimandi all’unica situazione extratestuale che può essere data per certa: quella della produzione del testo
stesso.
Il “io e tu” che si trovano dentro l’enunciato sono Soggetti qualsiasi, comparabili a tutti gli altri, solo che
vengono messi in scena proprio per rappresentare l’enunciatore e l’enunciatario. Questo simulacri
dell’enunciazione possono rivelarsi in modo diretto (quando all’interno del testo si dice “io” o “tu” senza che
questi pronomi siano riconducibili a qualcuno dei personaggi lì presenti) o in modo meno diretto (quando si
fa uso di altri indicatori di riferimento che rimandano al luogo o al tempo).
La pubblicità fa uso di diversi meccanismi, ricorrenti o stereotipati, per evidenziare questi agganci al mondo
reale. Uno di questi è l’attribuzione della parola a un testimonial, in genere un personaggio famoso nei panni
di se stesso, che noi dovremmo conoscere come persona reale.
Un altro meccanismo è quello di allestire un duplice spazio, uno dei quali contorna o incornicia l’altro ed è
chiamato esplicitamente a simulare il mondo esterno.
L’ancoraggio alla realtà extratestuale comporta anche dei rischi, in quanto fa sì che la credibilità di quanto
venga enunciato nel testo sia vincolata all’attendibilità dell’istanza enunciativa, chiamata a concretizzarsi in
un vero e proprio Soggetto Enunciatore: se c’è qualcuno che afferma ciò che viene detto nel testo chi è
questo qualcuno e perché dovrei credere a ciò che dice? La comunicazione pubblicitaria è chiamata a
lavorare non solo alla costruzione del Valore del prodotto pubblicizzato, ma anche a rendere quella “voce”
che afferma tale valorizzazione per rendere la valorizzazione stessa credibile.
Deve lavorare alla costruzione di una accettabile Identità del soggetto enunciatore, che quindi è artificiale,
non data naturalmente.

14.8. UN ESEMPIO DI ANALISI


I diversi aspetti che abbiamo toccato finora possono essere
ordinati gerarchicamente, seguendo una strutturazione per livelli,
denominata Percorso generativo della significazione. Questo
processo parte dalla superficie del testo e scende verso le
strutture immanenti più astratte.
Per affrontare l’analisi di qualsiasi testo, è necessario partire dal
dato sensibile, dalla manifestazione testuale o,
dall’organizzazione del piano dell’espressione, del ‘significante’,
dietro il quale ritroveremo l’organizzazione stratificata del
contenuto o ‘significato’.
Per dare un esempio proviamo ad analizzare un testo
pubblicitario concreto: una campagna stampa (profumo di una
celebre marca, la Givenchy)
La comunicazione a stampa ha sue caratteristiche peculiari,
dovute tanto alle specificità del mezzo quanto alla presenza di
stilemi e convenzioni espressive peculiari adottati via via per
rispondere a esigenze di efficacia comunicativa.
14.8.1. PRIMO PASSO: DESCRIZIONE DEL TESTO E CRITERI DI ARTICOLAZIONE. IL
DISPOSITIVO PLASTICO
Il primo passo dell’analisi è quello della “segmentazione” (= suddivisione in unità minori) del testo,
operazione che avrà caratteristiche diverse a seconda del tipo di testo prescelto e del suo supporto materiale.
Un testo interamente verbale sarà segmentabile in sequenze, mentre un testo visivo potrà essere segmentato
in base all’organizzazione della superficie, alla distribuzione dei
colori o dei tipi di linee e di forme delle immagini. Queste tre
dimensioni → spazio, colori e forma costituiscono le tre
componenti dell’organizzazione plastica del testo visivo.
1. Iniziamo con una descrizione dell’organizzazione spaziale
del testo
Abbiamo quindi 4 spazi distinti:
• Uno di fondo contenente la foro che simula presenza di
uno spazio tridimensionale che “apre” la superficie verso il
fondo, verso il punto di fuga
• Uno più superficiale, la base, che si dà come spazio di
superficie monocromatico, contenente un commento
verbale a esso sovrapposto
• Un secondo spazio planare di superficie, sovrapposto a
quello della fotografia, contenente due diversi commenti
verbali
• Un ultimo spazio contenente la simulazione di un volume
solido (il prodotto) sovrapposto agli altri e simulante di
una tridimensionalità che non si apre verso il fondo, come lo spazio fotografico, ma che aggetta
verso la posizione dello spettatore, verso il punto di vista
Questa articolazione tipologica viene ripresa e confermata dall’organizzazione cromatica. Troviamo infatti:
- Il primo degli spazi (foto) contenente elementi in bianco e nero virati “seppia”
- La base che si presenta ancora in bianco e nero ma senza viraggio, con base grigio scuro
semitrasparente e scritta in bianco
- Lo spazio del prodotto in rosso e grigio brillante.
Sotto il profilo dell’organizzazione delle forme e dei tipi di forma troviamo invece una contrapposizione fra:
- Il piano di sfondo (foto) in cui dominano linee e forme di andamento curvilineo
- I due spazi planari di superficie (base e piano trasparente) in cui troviamo una maggiore presenza di
tratti rettilinei (linea retta che delimita la base rispetto alla foto, lettering maiuscolo)
- Lo spazio del prodotto che combina in modo equilibrato tratti rettilinei (verticali e littering) e
curvilinei (orizzontali e occhiello del vaporizzatore)
Fa eccezione la scritta di commento centrale, in caratteri maiuscoli (“the gentleman is back”), che si trova ad
occupare una posizione ambigua (come il prodotto): cromaticamente riconducibile al piano trasparente
sovrimposto (stesso bianco delle scritte) ma allo stesso tempo ancorata all’immagine fotografica da un punto
di vista del tipo di forma (dominanza curvilinea). Espressione che si caratterizza inoltre per essere l’unica in
lingua inglese, mentre tutte le altre sono in francese.
Come si è detto, è artificio ricorrente della pubblicità mettere in scena congiuntamente, tanto l’enunciato (il
mondo rappresentato contenente l’immagine-scopo) quanto una simulazione dell’enunciazione.
Questa immagine non fa eccezione; il dispositivo plastico che articola le componenti topologica, cromatica
ed eidetica, offre una differenziazione di queste due dimensioni. Ci sembra evidente che:
- Lo spazio di fondo (“enunciato 1), contenente la foto, vada identificato come lo spazio
dell’enunciato, in cui viene messo in scena (“oggettivato”) un certo evento
- I due spazi planari di superficie trasparenti paiono riconducibili alla simulazione della dimensione
enunciazionale: vi riconosciamo voci diverse da quelle dei personaggi in foto, la voce dunque di un
enunciatore esterno alla foto
- Infine, lo spazio riservato al prodotto, oggettivato ma su un piano diverso rispetto a quello della foto
(per colore, dimensione, posizione) che identificheremo come “enunciato 2”

14.8.2. L’ORGANIZZAZIONE DISCROSIVA DEL TESTO


L’enunciato 1, ovvero la fotografia, ci descrive un incontro tra una Lei e un
Lui. L’ambiente di sfondo messo in scena della foto è naturale con prato e
vegetazione che si estendono fino al fondo della scena, senza una
specificazione di tipo temporale (spazio bucolico). C’è poi una separazione
tra primo piano e piano di sfondo, suggerita da un elemento non naturale:
un cancello (che porta a un ambiente impreciso, forse un parco); in primo
piano abbiamo invece un oggetto-ambiente inglobato (= compreso nello
spazio circostante): un’auto con la portiera aperta, dalla quale si affaccia
Lei.
Nel complesso, l’ambientazione sembra suggerire un equilibrio armonico di
natura e cultura, o un’idea di natura “controllata”.
Il centro della scena è occupato dai due personaggi:
▪ Sulla sinistra -> Lui, atletico e rilassato, con il volto non inquadrato,
ma apparentemente rivolto verso di lei, è in piedi di fianco all’auto.
Mostra il dorso denudato, in quanto l’immagine lascia supporre che
fosse fino a poco prima coperto dall’indumento bianco che vediamo
ora gettato a terra ai piedi di Lei. La camicia ha cambiato funzione:
indossata da lui era un mezzo di copertura del corpo (gli indumenti
servono a fornire anche un’interfaccia culturale); stesa a terra ha ancora una funzione culturale di
separazione, quella del tappeto, che è allo stesso tempo mezzo di separazione fra “purità” e
▪ “impurità” (preservazione dalla contaminazione) e mezzo di innalzamento del puro sull’impuro
(nobilitazione)

▪ Sulla destra -> Lei, elegante e curata, viene colta nell’atto di attraversare la soglia della portiera
dell’auto. La troviamo seduta all’interno, ma con una gamba fuori e con un piede che poggia a terra,
mentre una mano poggia sulla soglia. Lo sguardo intenso è rivolto verso l’alto, verso il volto di Lui.
L’azione potrebbe essere orientata sia verso l’interno (entrata) quanto verso l’esterno (uscita
dell’auto), aprendo l’interpretazione a due percorsi narrativi diversi: 1) si stanno lasciando / 2) si
stanno incontrando.
All’interno dei due percorsi potrebbe assumere un diverso ruolo anche la camicia gettata a terra: 1) si stanno
lasciando → potrebbe essere vista come una traccia di incontro “consumato”, che viene calpestata come se
fosse il corpo di Lui / 2) si stanno incontrando → vista come un tappeto offerto da Lui a Lei quale atto di
omaggio
Questa seconda lettura appare più convincente della prima, perché supportata da più elementi sia figurativi
(Lei si trova dal lato passeggero, non conducente) sia verbali (il commento: the gentleman is back).
Nella frase “The gentleman is back” resta indicibile il senso della seconda parte “is back” in quanto nulla
nell’immagine ci permette di fare supposizioni sul senso di questo “ritorno”, e in caso potrebbe portarci a
una lettura in termini di critica sociale: ritorna la figura del gentleman che si era perduta.
Una seconda interpretazione potrebbe suggerire che “is back” si riferisca solo a Lei, che scende dall’auto
mentre Lui è lì ad attenderla. Se la vediamo in questo modo, bisogna capire a cosa può essere riferita
l’espressione gentleman.
Il termine gentleman si riferisce a un attore sociale dotato di particolari competenze -> attore maschio, ben
educato, conoscitore delle buone maniere, elegante e raffinato, capace di controllarsi in pubblico. Quindi,
accogliendo l’opposizione semantica fra natura e cultura, il gentleman si porrebbe dal lato della natura,
opponendosi al “selvaggio” o al “cafone” che verrebbero a porsi dal lato della natura dal punto di vista delle
competenze sociali.
Se queste sono le caratteristiche culturali del gentleman, l’immagine appare ambigua in quanto:
- Se il termine viene riferito a Lei, si configura come un ossimoro (come un gioco retorico) con
l’attribuzione di una qualificazione strettamente maschile (gentle-man) a una donna
- Se il termine viene riferito a Lui, ci mostra un Lui denudato, deculturalizzato, ricondotto alla natura.
È dunque un gentleman anomale, rispetto alla convenzione del termine. Il gentleman è tornato ma è
qualcosa di completamente nuovo: questo sembra volerci dire il discorso presente dalla foto
14.8.3. L’ORGANIZZAZIONE NARRATIVA
Dall’analisi appena fatta si capisce l’immagine visiva non si lascia leggere banalmente. Il senso di ciò che
vediamo non è ovvio, ma impone un lavoro più complesso, che possiamo specificare come riferimento
continuo non solo alle nostre tassonomie di classificazione delle qualità percettive del mondo, ma anche
all’organizzazione narrativa interna che ci permette di attribuire un significato alle figure. Tale significato
varierà a seconda che noi selezioniamo l’uno o l’altro dei percorsi narrativi: ad esempio, quello della salita o
della discesa dall’auto.
▪ Nel primo caso (SALITA) avremmo una Lei che assume un ruolo narrativo di Soggetto che si è
congiunto con un Lui Oggetto di valore, ormai consumato e dunque de valorizzato (denudato e
calpestato). Ci troveremmo davanti alla fase terminativa di un evento, in cui Lei dopo il compimento
dell’azione si allontana. Questa lettura si adeguerebbe meglio a un’associazione del termine
gentleman a lei
▪ Nel secondo caso (DISCESA) avremmo un Lui Soggetto attivo e una Lei investita dal duplice ruolo
di valore e destinatario di una comunicazione gestuale, che si presenta come Manipolazione di tipo
Seduttivo. Verrebbe sottolineato il savoir-faire di Lui.

14.8.4. L’ENUNCIATO 2: LA PRESENZA DEL PRODOTTO


Nella foto nessuno ci autorizza che uno dei due Soggetti fa uso del prodotto, o che
esso serve nel processo di seduzione. La presenza del profumo pubblicizzato
emerge a un livello diverso → sia gli aspetti topologici (posizione spaziale e
dimensione), sia quelli cromatici (è l’unico elemento “colorato”) pongono il
prodotto fuori dall’enunciato secondario che non contiene altro che il prodotto
stesso. Questo non si trova incorporato all’interno di una narrazione, ma sembra il
frutto di una pura ostensione: questo è il prodotto guardatelo! (grazie all’effetto di
solidità tridimensionale, derivante dalla posizione prospettica).
Trattandosi di un profumo, questo resta nella sua essenza completamente
irrappresentabile., almeno visivamente, salvo il fatto che, per metafora, potremmo
essere indotti ad attribuire al profumo alcuni tratti semantici derivabili dalle qualità e dalla struttura plastica
della confezione che lo contiene, costruendo così una metafora a partire dalla sineddoche (attribuiamo al
contenuto delle proprietà del contenete stesso).
Ne potremmo derivare una certa idea di intensità a partire dal colore o l’idea di un certo equilibrio a partire
dall’armonia eidetica o dalla linearità delle forme.
Che relazione c’è dunque fra questi due enunciati giustapposti e volontariamente distinti (per mezzo del
dispositivo plastico)? E che cosa crea la loro relazione? Per rispondere dobbiamo procedere all’analisi del
terzo piano, quello dell’enunciazione simulata e infine quello dell’enunciazione effettiva.

14.8.5. RITORNO ALL’ENUNCIAZIONE: DEI MONDI REALI E DEI MONDI IMMAGINARI


La struttura enunciazionale simulata ha ad uno stesso tempo la funzione di spiegare (o suggerire) e
commentare ciò che viene enunciato, quella di legare i due enunciati “oggettivi” (1 e 2) e infine quella di
creare un ancoraggio fra il mondo della pubblicità e quello esterno del messaggio. Assume quindi una
funzione di connessione fra i diversi livelli semiotici chiamati in causa, generando una continuità fra di essi.
Questa cornice enunciazionale simulata è identificabile con i due spazi planari trasparenti: base e strato
trasparente sovrimpresso nella foto, che possiamo trattare in modo omogeneo, salvo il fatto che la base, con
la sua trasparenza assume un aspetto di maggiore solidità che le consente di assolvere a una funzione di
piedistallo nei confronti del prodotto, rimarcando che la scritta che contiene si riferisce esattamente al
prodotto stesso (Le nouveau porfum)
Altre due scritte compongono questo piano intermedio. La prima in alto, enuncia a caratteri maiuscoli
disposti su due righe il nome del prodotto (Givenchy pour homme). A prima vista si tratta di una pura
didascalia identificativa del prodotto e che, in tal caso, si ricollega direttamente alla scritta sovraimpressa che
troviamo sulla base (Le nouveau porfum), che si collega al prodotto sia per la contiguità plastica (è vicino
alla confezione) sia perché si trova nello spazio che funge da piedistallo al prodotto stesso.
Prende forma una triangolazione che unisce:
- La confezione del prodotto, con nome sovraimpresso
- Il nome del prodotto in grande in alto
- Una specificazione valutativa (rivolta al prodotto), che qualifica il prodotto non semplicemente come
profumo, ma come “il” (singolarizzazione) “nuovo” (categorizzazione) profumo, rivelando la
presenza di un preciso punto di vista (un enunciatore)
Inteso in tal senso, questo piano di enunciazione simulata sembra riferirsi solo all’enunciato 2, quello del
prodotto, senza toccare il contenuto della foto. Bisogna considerare, però, altri due aspetti. Innanzitutto il
nome in alto tocca (per sovrapposizione) il corpo dell’uomo della foto, suggerendo una qualche forma di
legame fra nome del prodotto e uomo. Secondo aspetto: all’interno di questo medesimo piano c’è anche la
scritta “the gentleman is back”, un’affermazione soggettiva, che per la posizione che occupa e per il lettering
sembra riferirsi più allo spazio della foto che non a quello del prodotto, qualificando il Lui o il Lei della foto
(a seconda delle interpretazioni fatte in precedenza).
In tal senso il nome del prodotto posto in alto, per mezzo di questa qualificazione rivolta a Lui, sembra
suggerire che “l’homme” a cui è destinato il prodotto è interno alla rappresentazione fotografica e si qualifica
come “gentleman”.
C’è una seconda possibile lettura → l’espressine gentleman potrebbe essere riferita al nome di un altro,
classico e fortunato profumo della stessa marca Givenchy Gentleman. Lettura che potrebbe venir confortata
dalla contiguità plastica: la scritta non si trova solo al centro del triangolo Lui – Lei – Camicia, ma anche
vicina all’immagine del prodotto, che va a sovrapporsi alla gamba di Lui.
In questo caso il senso di “the gentleman is back” potrebbe essere parafrasato semplicemente come “Il
profumo classico di Givenchy è tornato”, mentre
il senso dell’enunciazione specificherebbe che si
tratta sì di un ritorno ma in forma nuova: Le
nouveau porfum. In questo secondo caso il
contenuto dell’enunciato 1 (foto) resterebbe
nuovamente estraneo all’enunciazione. È come
se ci trovassimo a due isotopie di lettura distinte
e parimenti pertinenti, ognuna delle quali
legherebbe la dimensione enunciazionale
(simulata) ad uno solo dei due enunciati (1 o 2)
L’espressione gentleman si troverebbe ad avere
un doppio riferimento → da un lato il prodotto,
dall’altro il Lui della foto. Questa indicibilità è
aumentata dal fatto che entrambi si caricano delle medesime valorizzazioni fondamentali, entrambi vengono
qualificati “tradizionali” e “innovativi”.
La comparazione fra “prodotto” e “Lui” appare rafforzata dal fatto che non solo il nome-titolo ma anche
l’immagine del prodotto va a sovrapporsi in modo molto preciso a quella di Lui, e dal fatto che essi
costituiscono gli unici due elementi marcatamente verticali del testo considerato.
Il testo però non rinuncia alla sua ambiguità di lettura. Se infatti per contiguità e orientamento il prodotto si
trova ad essere comparato a Lui, esso, poggiando su una sorta di piedistallo, si trova ad essere comparato a
Lei, separata dal terreno per mezzo della camicia-tappeto: entrambi si presentano come Oggetti di valore.
A entrambi viene offerta sia una preservazione della “naturalità” del terreno sia un contatto con la naturalità
di un corpo maschile denudato, messo in scena esplicitamente per la Lei della foto e solo implicitamente per
il prodotto.
Anziché semplificarsi, la lettura si complica:
- Il prodotto ci si dà ad immagine di Lui, ne riceve la qualificazione di “nuovo gentleman”che sa
sedurre conciliando tradizione e trasgressività
- Il prodotto ci si dà ad immagine di Lei, e dunque valore destinato al gentleman, che lo innalza
preservandone la purezza e offrendo ad esso il proprio corpo. Il testo produce una comparazione fra
la Lei e il prodotto mettendoli in relazione con il corpo denudato maschile
Se riprendiamo in considerazione un altro aspetto che avevamo indicato, la parziale sovrapposizione del
prodotto (immagine e nome) al corpo di Lui, alla luce di queste ultime considerazioni, potremmo spingere
ancora oltre la lettura → il prodotto è sul corpo di Lui, ma essendo il prodotto stesso isolato dalla
“contaminazione” con la terra, si presenta come prodotto interamente culturale chiamato a “rivestire” il
corpo di Lui. In tal modo, il corpo non sarebbe più completamente denudato, ma sarebbe rivestito dal
profumo (non da abiti). Il corpo che il “nuovo Gentleman” starebbe offrendo non sarebbe più un corpo
effettivamente denudato, naturale, ma sarebbe un corpo culturale.
14.9. IN CONCLUSIONE
Si può concludere che il testo scelto non si lascia imbrigliare in una lettura univoca, ma sembra che ad ogni
tentativo di chiusura esso risponda ambiguamente supportando più di un’isotopia di lettura., tutte
parzialmente convincenti, tutti insoddisfacenti, proprio nella misura in cui aprono ad ulteriori ambiguità che
impediscono di mettere la parola “fine”.
L’ambiguità che abbiamo rilevato non è un caso raro. Accade nella maggioranza dei casi che i testi non
supportino una sola lettura e non accettino di lasciarsi liquidare come capiti/interpretati.
Compito della semiotica non sarà quello di definire la lettura vera o quella giusta, ma quello di individuare le
diverse possibili isotopie di lettura e di comprendere su quali elementi e su quali meccanismi sintattici esse si
costituiscono.
Questi principi vanno tenuti in particolare considerazione quando si analizza un testo che è un testo a fine
manipolatorio, come quello pubblicitario.

CAP. 15 COME SI LEGGE UN TESTO LETTERARIO, UN ESEMPIO DI


ANALISI. MONTALE, GLORIA DEL DISTESO MEZZOGIORNO.
15.1 LA SEMIOTICA LETTERARIA: UNA RICCA TRADIZIONE
La semiotica letteraria si applica ai testi artistici di realizzazione verbale ed ha una lunga tradizione nel
Novecento; molti studiosi hanno contribuito ad arricchire la comprensione del fatto letterario come fatto
segnico. Poesia o prosa che sia, il testo letterario si realizza come congegno semiolinguistico pronto a
generare significati sempre nuovi nel circuito comunicativo scrittura-lettura.

15.2 DI FRONTE AL TESTO POETICO COME SEGNO


Tra i vari possibili, ci sono 3 modi distinti di intendere testi letterari e poetici:
1) testo come ‘documento’, che rientra nel settore ‘storia letteraria’ e ci porta a considerarlo come oggetto
capace di farsi depositario di una testimonianza storica.
2) testo come ‘oggetto specifico’, e quindi, come struttura formale autonoma, dotata di leggi proprie e
caratteristiche di funzionamento.
3) testo come ‘processo’, spinge nella direzione di ‘lingua letteraria’ e consiste nel considerarlo come un
organismo che si realizza nell’interazione concreta tra un materiale significante e un destinatario che lo
attualizza.
In ogni caso, il testo letterario è una potente macchina semiotica, che genera senso e produce interpretazioni
continue.

15.3 GLI OSSI DI SEPPIA: GLORIA DI UN DISTESO MEZZOGIORNO


Gloria del disteso mezzogiorno è l’undicesimo componimenti della sezione Ossi di Seppia. La poesia
compare a stampa, come risulta dall’edizione critica dell’opera in versi di Montale.

15.4 LA LINGUA DEL TESTO: METRICA, SUONI, LESSICO E SINTASSI


Il primo aspetto che l’analisi semiotica prende in esame è il ‘piano del significante’, che nel caso dei testi
letterari è la linguastessa (cit. Jakobson). Occuparsi della lingua in un testo significa cerca nella materialità
del testo gli accordi, i rinvii, le relazioni, i giochi, le strategie dei significanti sui piani che sono loro propri
all’interno di una struttura letteraria, come la metrica, la sintassi, i suoni e il lessico. Ogni livello linguistico,
è dotato di una propria autonomia strutturale, ma allo stesso tempo si fa carico di una serie di obblighi della
tradizione.

15.4.2. I SUONI
Le considerazioni sin qui proposte sembrerebbero indicare un’idea di fondo della semiotica applicata ai testi
poetici: in un testo poetico tutto è significativo e, spesso, la casualità con cui pensiamo siano distribuite le
parole in realtà sottintende un disegno probabilmente inconsapevole di nessi e richiami che si caricano, per
associazione, di valori semantici. La cosa è particolarmente evidente per l’allestimento fonico delle parole di
questo testo: il significante sembra garantirsi una sua autonoma struttura narrativa. Tutto sta a puntare
l’attenzione sulla prima parola del testo (gloria) che, come vedremo, funziona come una sorta di accordo
dominante del tessuto sonoro della poesia: quella che è stata chiamata “cellula fonica isotopica”, per
sottolineare il fatto che alcune parole particolarmente rilevanti all’interno dei testi poetici svolgono il ruolo di
disseminatori di suono lungo il corso del testo. Qui la parola gloria si presenta come la principale eroina del
testo, perché, presentata perentoriamente in apertura con il suo carico di durezza (g è in questo caso velare,
cioè ha un suono duro), si vede contrapposta alla terz’ultima parola del testo gioia (con g palatale, cioè un
suono morbido), come se il testo stesso volesse in qualche modo celebrarne la trasformazione. Ma dire che la
parola programma foneticamente il testo significa semplicemente riconoscere l’insistenza con cui tornano,
variati, i suoi suoni costitutivi. In questo senso si parlava sopra di “isotopie”.

15.4.3. Il LESSICO
Le parole utilizzate nella poesia tendono a confermare l’intento di contrapporre due registri linguistici: uno
aulico-poetico di tipo rigorosamente letterario, con parole come gloria, parvenze, greto, occaso, e il secondo
colloquiale e umile, come dimostrano i termini quali mezzogiorno, ombra, luce, sole etc. Ma ci sono altre
soprese, perché il lessico è caratterizzato dalla straordinaria presenza di citazioni e rinvii ad altri poeti:
prendiamo, ad esempio, il termine gloria, una parola che è soprattutto dantesca (incipit della terza cantica).
Evidenti sono anche i richiami a D’Annunzio: ad es., quando si decide di ricorrere a falbe per qualificare le
parvenze. In breve, il testo sembra denunciare una dichiarata volontà di corrosione del testo letterario, non
solo per il confronto dialettico con il lessico umile, ma soprattutto per un effetto di riuso di materiali
tradizionali tramite una loro “ricontestualizzazione”, che porta alla parola una nuova vita semiotica. C’è in
Montale un gioco di spostamento e rielaborazione del linguaggio letterario che potremmo definire come
“decostruttivo”. Un gioco decostruttivo che vale anche per la sintassi, un’altra importante dimensione del
significato poetico.

15.4.4. LA SINTASSI
Le parole sono disposte nel testo secondo uno schema che conferma l’incontro-scontro tra moduli aulici e
moduli colloquiali. Si veda il ricorso alla postposizione del soggetto nella prima quartina:
quand’ombra non rendono gli alberi
Questa tecnica sottolinea una disposizione letteraria in qualche modo mitico-celebrativa. Ma vi è anche
l’operazione contraria, dove torna una costruzione più normale: Soggetto+Predicato:
il mio giorno non è dunque passato
Di rilievo anche la costruzione “ellittica (con l’assenza) del verbo”, o meglio, “nominale”, che viene ripetuta
nei primi versi della quartina:
gloria del disteso mezzogiorno
Nonostante all’interno del testo vi siano dei rimandi al Novembre di Pascoli, soprattutto nei primi 3 versi
delle strofe saffiche, non bisogna pensare che il rapporto di citazione esprima un’adesione globale
all’ispirazione pascoliana. Al contrario, quello che Montale fa, è riprendere noti moduli sintattici o
riecheggiarne il lessico, per ricostruirne il senso (DECOSTRUIRE). Arrivati a questo punto, possiamo dire
che tutti gli ingredienti formali del testo formano un programma narrativo, ossia la modalità attraverso cui le
parole contribuiscono a creare una storia e a metterla a disposizione di chi legge. Il lettore è quindi pronto a
entrare in scena.
15.5
Il lettore e il senso: significati, racconti, modelli
Per la semiotica letteraria, analizzare il significato di un testo poetico è comprenderne il senso. Da questo
punto di vista, un testo poetico è un testo virtuale che contiene un progetto di senso, non dei significati già
bell’e pronti disponibili per essere consumati. Se così non fosse, cioè se sostenessimo che esiste una lettura
ultima e definitiva di una qualsiasi poesia, andremmo contro l’esperienza empirica, perché saremmo costretti
a sostenere che le diverse generazioni che si applicano su un testo artistico vi rintracciano sempre lo stesso
senso. Ma questo è palesemente falso: noi non leggiamo più Dante o Leopardi come si leggevano,
rispettivamente, nel 500 o nell’800, o anche solo 20 anni fa. Il testo nella sua materialità non è cambiato;
quello che cambia è il noi semiotico, che ne accetta l’avventura di conoscenza. Come possiamo pensare che
si legga un testo poetico in prospettiva semiotica? Ci sono almeno due modalità di lettura, una centrata, come
ci suggerisce Barthes, sul sapore, e l’altra sul sapere. La prima è disincantata, privata e, per certi aspetti,
passionale e libera; la seconda, invece, è pubblica, ragionata e produttiva. Per questa seconda lettura, lo
scopo è arrivare a una “comprensione” di quanto il testo ci vuol “far sapere”. Ma come si realizza questa
lettura?
a) Analisi del titolo
b) La realizzazione di una parafrasi
c) La divisione in sequenze e la loro analisi
d) La ricomposizione delle sequenze nella sintesi globale del testo

15.5.1. IL TITOLO
Come sappiamo, Gloria del disteso mezzogiorno uscì in primissima versione a stampa col titolo di Meriggio,
poi soppresso sin dalla prima edizione del 1925. Si tratta, dunque, di un titolo molto provvisorio che in ogni
caso è in grado di testimoniare una volontà di tipo descrittivo. Se così è, vi riconosceremo un atteggiamento
tipico della poetica Montaliana: quello di assumere una descrizione per trasformarla prima in “narrazione” e
poi in “spiegazione”.

15.5.2 LA PARAFRASI
Parafrasare un testo è un’operazione assolutamente necessaria per molte ragioni. Anzitutto solo attraverso la
parafrasi più letterale possibile ci si garantisce un controllo adeguato delle immagini che il testo vuole
veicolare e in più si arriva a una prima comprensione della poesia. Questo non vuol dire che si dia una sola
parafrasi del testo di cui si tenta la versione. Se così fosse, la parafrasi non sarebbe nemmeno necessaria:
basterebbe cogliere il senso. Come ha osservato invece uno dei più noti esperti italiani di semiotica letteraria,
Cesare Segre, quest’operazione è invece un primo momento di attività interpretativa, perché punta a
sciogliere le oscurità del testo, a riorganizzarne una linea tematica unitaria e consegnare un livello
denotativo su cui esercitare l’analisi della poesia.

15.5.3. Prima sequenza: vv. 1-4


Gloria del disteso mezzogiorno
Quand’ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d’attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.
La sequenza si apre con quella che oggi si chiamerebbe una “presa diretta”, per intendere l’immediato
configurarsi di un’immagine nitida e precisa. La presa diretta sulla situazione fisica e temporale, lancia, sul
piano figurativo, un vero e proprio programma narrativo di cui possiamo attendere vari sviluppi: di esso il
mezzogiorno è il Soggetto esecutore (l’eroe). Dato che nessuno si è ancora presentato ad assumere la
responsabilità della parola e dato che a nessuno è rivolta la parola (se non in forma extratestuale) il risultato è
la produzione sul testo di un attante osservatore (l’attante è l’unità narrativa di livello profondo di un testo-,
in cui vengono a coincidere “enunciatore” (poeta) ed “enunciatario” (lettore). Si fa avanti così un effetto di
contraddizione che il testo dovrà risolvere:
a) ciò che è non appare (l’ombra che non viene restituita dagli alberi)
b) ciò che appare non è (le parvenze)
L’analisi ci induce dunque a pensare che il testo disegni l’idea dell’assenza di una conoscenza positiva della
realtà. Un’ipotesi così impegnativa si traduce nella figura del mezzogiorno, al quale si attribuisce sia una
dimensione spaziale che temporale. Di quale temporalità si tratta?? In effetti il tempo del mezzogiorno è
“puntuale” e non “durativo”. In breve, il nostro eroe getta sul testo un piano di coerenza tematica che unifica
il testo, ponendo al suo centro il tema del tempo. La realizzazione del tema in questa prima sequenza avviene
congiungendo il nostro Soggetto (mezzogiorno) con l’Oggetto di valore (l’essere). Il problema a questo
punto è: voler far sapere cosa? Probabilmente che esiste un tempo naturale, sia pure momentaneo, capace di
attribuirsi l’essere. Nel nostri testo, questo tema si presenta come il rapporto tra l’io (attante osservatore) e la
natura (il mezzogiorno) e si realizza attraverso un’armonizzazione di contrari: tempo-spazio, luce-ombra,
essere-apparire. Nella 1° sequenza del nostro testo, la natura celebra anche il trionfo del tempo ciclico, il
tempo dell’eterno ritorno. Dunque, l’oggetto di questo “voler far sapere”, è il tema del rapporto tra tempo ed
essere, risolto in questo caso a favore di un tempo ciclico e sostanzialmente acronico. Il tempo senza tempo
della natura.

15.5.4. Seconda sequenza: vv. 5-8


Il sole in alto, - e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l’ora più bella al di là del muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.
In questo caso, il programma narrativo resta quello di un’attività cognitiva che consiste nell’assumere un
oggetto di sapere attraverso un’operazione che installa sulla scena una nuova dimensione spaziale, la
verticalità, per cui l’alto (sole e cielo) è contrapposto al basso (greto e terra). Il sole prosciuga il torrente e,
nel farlo, trasforma l’acqua in aria. Quello che era terra + acqua (greto) diventa terra – acqua (secco) e questo
passaggio ridà voce al programma narrativo della prima sequenza: il fare naturale si appropria dell’essere
(come la luce inghiotte l’ombra, così il sole si appropria dell’acqua). A ben vedere questo mondo si
ammobilia secondo un motivo tradizionale, quello che Frye avrebbe chiamato “motivo figurativo
ascensionale”, per il quale l’alto domina il basso e il cielo la terra. Ricordiamo anche che nell’appropriarsi
degli oggetti (esseri), il mezzogiorno li ingloba in una dimensione temporale tipica dell’assoluto, dove il
tempo si installa acronico e puntuale. Ma, a questo punto, irrompe nella scena una marca personale che ha
una serie di conseguenze rilevanti per il senso del nostro testo: Il mio giorno non è dunque passato. Intanto,
il lettore prende atto che sulla scena si instaura una presa di coscienza in cui quel che conta è il rapporto e la
durata del rapporto del Soggetto con il Reale. Si presti attenzione al fatto che “il mio giorno non è dunque
passato” può voler significare almeno due cose:
a) La mia vita (=giorno) non è trascorsa ancora;
b) La mia vita non è il passato (come dire: il mio giorno è ancora futuro).
Infine, il mezzogiorno si contrappone ad un’altra figurazione temporale: l’ora più bella è al di là del muretto.
L’attribuzione del valore “più bella” si accompagna a uno spostamento, con una nuova dimensione spaziale,
questa volta orizzontale. L’ora più bella si trova al di là di una zona di frontiera (il muretto). Al modello
ascensionale si contrappone, quindi, un modello orizzontale. La zona di frontiera, il muretto, segna dunque il
limite entro il quale si contiene il mezzogiorno.

15.5.5. Terza sequenza: vv. 9-12


L’arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia su una reliquia di vita.
La buona pioggia è al di là dello squallore,
ma in attendere la gioia è più compita.
Nella seconda sequenza, l’analisi segnica ci ha fatto cogliere come il mezzogiorno degeneri, per l’intervento
dell’enunciatore, in un tramonto pallido. Ma l’esordio della terza strofa riporta il mezzogiorno e la natura al
centro del testo e per certi aspetti ne chiude la trama narrativa. L’intera configurazione discorsiva
(mezzogiorno-sole-arsura) si concentra poi nella costruzione di una nuova dimensione spaziale (l’arsura, in
giro), quella della circolarità. Interviene ad un certo punto un aiutante animato: il martin pescatore. Va
osservato come proprio a questo uccello tocchi il ruolo di collegare l’alto con il basso, in una ricerca che
sembra invertire la direzione: è nel basso che vanno cercati gli oggetti di valore. Ma la figurazione del martin
pescatore è portatrice di un nuovo modello, questa volta discensionale, verso il basso e verso l’acqua. E’ qui
che il senso del testo sembrerebbe dichiarare le proprie scelte: alla luce della strofa iniziale si contrappone
l’acqua come elemento di vita. Si dice “reliquia di vita” perché ciò che resta della vita è nel basso ed è
nell’acqua. E l’acqua è chiamata in causa anche nel penultimo verso, quando prende le sembianze della
“buona pioggia”, cioè di quell’acqua che simbolicamente ha la possibilità di cancellare il passato. Da questo
punto di vista, la pioggia non è solo rigenerazione, ma concentra dentro di sé l’idea del processo storico e del
divenire. Il testo ci regala una conclusione e anche una spiegazione: il fare naturale del tempo dell’eterno
ritorno risulta trasformato nella gioia del tempo della coscienza.
15.6 Il senso letterario
La semiotica dei testi letterari punta a descrivere questi ultimi come messaggi. Al pari di ogni messaggio,
l’analisi semiologica va alla ricerca di un significato, ben sapendo che esso coinvolge almeno 3 ordini di
fattori: la storia (i codici), il significante (la lingua) e l’interpretazione (i lettori). Per farlo, si deve però tenere
di conto di un dato di fondo: nei testi letterari tutto è significativo e tutto può essere ambiguo, nel senso di
polisemico, cioè di progettato per provocare più letture.

CAP. 16 COM’E’ FATTA LA LINGUA DEI SEGNI


16.1 INTRODUZIONE
L’apparire nel 1960 dell’opera di William Stokoe “Sign Language Structure” segna l’inizio della riflessione
linguistica e semiotica contemporanea sulle lingue dei segni, i codici visivo-testuali in uso presso le diverse
comunità sorde del mondo. Lo stesso termine “segni” si afferma definitivamente nel corso degli anni settanta
come un’etichetta che si sostituisce alle altre forme di denominazioni possibili per le unità di base di queste
lingue visivo-gestuali. Se riflettiamo sul fatto che le lingue dei segni appaiono, davvero, come l’unico
sistema comunicativo distinto dalle lingue vocali a cui possa essere ascritto lo status di lingue, appare
immediatamente chiaro la centralità di questo oggetto di studio per le discipline semiotiche. Tuttavia, questa
impostazione del problema che appariva chiara nel testo di Stokoe, non pare essere stata perseguita
attivamente da coloro che si sono occupati di linguistica dei segni e tantomeno da chi si muove all’interno
della tradizione semiotica. Sino alla fine degli anni ’90 è prevalso, infatti, il desiderio di sottolineare
soprattutto le caratteristiche delle lingue dei segni che apparivano simili o in tutto assimilabili a quelle delle
lingue vocali. E’ merito soprattutto di un linguista ed educatore dei sordi francese, Paul Jouison, d’aver posto
le basi per una riflessione sui tratti peculiari dei segni di ampio respiro semiotico. Alla base delle sue
riflessioni vi era la convinzione metodologica per cui i segni vanno osservati con occhi liberi dai
condizionamenti della linguistica delle lingue vocali per cogliere in piena autonomia i caratteri essenziali
della loro struttura e del loro funzionamento.

16.2 LINGUE DEI SEGNI, LIVELLI E UNITA’ DI ANALISI

16.2.1. Variabilità e stratificazione della comunità linguistica sorda

Come osservazione preliminare è importante ricordare che non esiste un’unica lingua dei segni e che in
ognuna delle diverse comunità sorde esistenti nel mondo sono presenti diversi sistemi linguistici segnati (es:
American Sign Language, British Sign Language etc.). Questi diversi sistemi linguistici variano non solo
sulla base delle diverse unità lessicali che li compongono (i singoli segni), ma anche sulla base dei
sottocomponenti del lessico e sul piano delle regole grammaticali. Le lingue dei segni sono, dunque,
caratterizzate dalla proprietà della variabilità e da una mutabilità sia in “sincronia” (coesistenza di diverse
varietà linguistiche) e in “diacronia” (mutabilità nel corso del tempo di una singola lingua dei segni).
16.2.2. Doppia articolazione: cheremi e fonemi
Oggi, infatti, ai segni viene riconosciuta una ricchezza di strutture sintattiche, grammaticali e sublessicali che
li rendono uno strumento semiotico del tutto comparabile per potenza e complessità alle lingue vocali.
Com’è noto fu il linguista De Saussure a introdurre, per primo, la nozione di sistema per lo studio delle
lingue vocali. Parlando di sistema linguistico De Saussure voleva sottolineare che le unità linguistiche sono
caratterizzate da una rete di somiglianze e differenze sul piano della forma espressiva che trovano riscontro
in somiglianze e differenze sul piano del contenuto. I segni vengono articolati, innanzitutto, a differenza
delle produzioni gestuali, in uno spazio ristretto che va dal bacino del segnante sino all’altezza della testa,
senza mai fuoriuscirne. Un’osservazione accurata dei singoli segni rivela, infatti, che le unità minimali da cui
è composto ogni segno appartengono a 4 tipi fissi:
a) luoghi sul corpo
b) configurazioni della mano
c) orientamenti di questa
d) tipo di movimento
Queste 4 caratteristiche articolatorie assumono una rilevanza particolare nell’analisi dei segni e sono alla
radice delle regolarità nella formazione dei segni e del lessico. Ogni segno, in sostanza, è caratterizzato da un
luogo di articolazione, una configurazione, un orientamento e un movimento tra quelli previsti dal sistema
linguistico. Possiamo individuare così 56 configurazioni, 16 luoghi, 6 orientamenti e 40 movimenti. Queste
componenti vennero definite da Stokoe come “Cheremi” (dal nome greco della mano “keir”) e, dato che
sono arbitrarie e, in molti casi, prive di un valore semantico autonomo, possono essere paragonate alle unità
di seconda articolazione delle lingue vocali: i fonemi.
I cheremi di una lingua dei segni assumono combinazioni rilevanti per il significato che non sono casuali:
l’unione tra un determinato segno a un determinato luogo, ad esempio, indica una radice verbale. Con
l’unione dei vari cheremi, elementi privi di significato, si passa al livello morfologico: livello della prima
articolazione e delle unità dotate di un significato grammaticale e lessicale. A metà tra questi due livelli c’è
quello definito “morfofonologico”, livello in cui alcune unità cherematiche giocano un ruolo preferenziale
nell’organizzazione del lessico e della grammatica.
Penny Boyes Braem → svolge un’analisi incentrata sui legami “iconici” tra i singoli parametri e
determinate aree semantiche. Iconicità → quando il segno e il suo significato hanno una qualche
somiglianza.
Si può pensare che l’iconicità sia una prerogativa della
lingua dei segni. In un segno come “tavolo” c’è un
forte legame tra la configurazione a mano aperta e dita
giunte chiamata, configurazione B, e la superficie del
tavolo e il movimento sembra indicare proprio
l’estendersi di una superficie.
Ci sono invece segni in cui l’iconicità non viene colta
immediatamente ma si rende riconoscibile subito dopo
essere venuti a conoscenza del significato del segno.
Questi sono segni opachi ad un primo sguardo che diventano però trasparenti una volta che ne conosciamo il
valore. (Es. “pesce”: una volta saputo il significato possiamo vedere nella configurazione e nel movimento
qualcosa che richiami il movimento della coda del pesce). Edward Klima e Ursula Bellugi, due ricercatori
americani, definiscono questi segni “segni traslucidi”→ un segno è traslucido quando non è subito chiaro,
senza conoscere il significato, sotto quale rispetto è stata stabilita la relazione iconica che lo lega all’oggetto.
Questo ci fa capire il perché la lingua dei segni cambia da
paese a paese che selezionano prospettive diverse da cui
stabilire la relazione iconica. (Fig. 16.5)
La Boyes Braem individua legami iconici anche tra i cheremi
e determinati campi semantici. La configurazione B, ad
esempio, si ritrova all’interno di diversi segni che alludono a
superfici piatte. Il legame iconico però si determina in modi
diversi sulla base della coesistenza di altri parametri e sulla
base che il significato è andato via via acquisendo. In “casa”
la configurazione è legata al tetto mentre in segni come
“stanza” è legata alle pareti. In segni invece come “superficiale” c’è un’estensione semantica di tipo
metaforico che si lega però allo stesso nucleo di significato: si indica l’incapacità di guardare al di là
dell’aspetto esterno delle cose ed eventi e non si intende più una superficie come oggetto concreto. Ci sono
quindi raggruppamenti di segni in cui la stessa configurazione sembra legata allo stesso significato o allo
stesso nucleo di significato.
Notate queste regolarità nel lessico segnato, la Boyes Braem ha formulato un’ipotesi per capire quali siano i
tratti che accomunano i diversi segni all’interno di un singolo paradigma. Analizzando le diverse
configurazioni presenti nelle diverse lingue dei segni si nota il ricorrere di alcune caratteristiche legate al
modo di usare le mani nella vita quotidiana:
a) Afferrare
b) Instaurare un contatto
c) Spingere, muovere oggetti
d) La deissi
e) L’enumerazione
Queste diverse funzioni si ritrovano legate a diverse configurazioni presenti nel lessico di ogni lingua dei
segni. I tratti che accomunano i segni sembrano richiamare schemi corporei di base all’interno della struttura
arbitraria del lessico segnato, sfruttando le potenzialità di estensione semantica che sono concesse ad ogni
lingua storico-naturale.

Il livello morfologico e le caratteristiche del verbo


L’iconicità convive con il carattere sistematico della lingua. Ad ogni livello le singole unità si
contrappongono tra loro e si combinano in unità superiori secondo regolarità autonome del sistema
presentando un’arbitrarietà di tipo radicale. Per arbitrarietà radicale si intende la possibilità che i rapporti tra
componenti del piano del contenuto e quelli tra i componenti del piano dell’espressione di una lingua varino
in maniera non predeterminabile, nel corso del tempo, e che siano diversi da lingua a lingua. Inoltre in ogni
lingua segnata un singolo elemento cherematico, benché dotato di valore iconico, può assumere su di sé
diverse funzioni nel lessico e nella grammatica. I segni quindi sono caratterizzati da proprietà come doppia
articolazione, arbitrarietà radicale, la composizionalità dei cheremi, la ridondanza e l’estensibilità dei
significati. Tuttavia le regolarità intrinseche ad una lingua dei segni, sono naturalmente distinte da quelle
tipiche di una lingua verbale, anche perché si realizzano attraverso il canale visivo-gestuale. Nelle lingue dei
segni inoltre è possibile isolare costituenti della frase segnata appartenenti a diverse parti del discorso:
sostantivi, verbi, avverbi e aggettivi. I segni si differenziano tra loro da un punto di vista grammaticale grazie
alla loro forma e alla possibilità di entrare o meno in combinazione con altri segni e quindi grazie alla
morfosintassi e alla sintassi della frase. Per quanto riguarda i nomi, sono state individuate due categorie
principali di sostantivi che si differenziano tra loro sulla base del luogo di articolazione e in relazione ai
meccanismi di pluralizzazione a cui sono soggetti:
prima categoria→ segni articolati nello spazio neutro, ovvero lo spazio di fronte al segnante in cui spesso il
segno viene ripetuto creando una pluralizzazione tipica di questa categoria.
seconda categoria→ segni articolati ad un luogo sul corpo del segnante. Qui la pluralizzazione avviene con
l’aggiunta di un morfema creante pluralità
In LIS inoltre esistono forme la cui natura verbale o nominale non può essere determinata sulla base dei soliti
tratti morfologici, ma si evince sulla base del significato dei segni, della loro posizione sintattica e del
contesto di concorrenza. In altri casi la distinzione nome/verbo avviene attraverso dei movimenti: brevi e
relativamente stazionari (nomi), prolungato e dislocato nello spazio (verbi).

Possiamo raggruppare i verbi della LIS in almeno tre classi:


1. Articolati sul corpo: non hanno inflessioni per indicare la persona del verbo
2. Articolati nello spazio neutro sulla base di due punti di articolazione: sfruttano la direzione del
movimento per indicare la persona verbale e l’accordo con un oggetto
3. Alla maggiore o minore presenza dell’uso dello spazio per stabilire l’accordo: unico punto di
articolazione nello spazio e il luogo di articolazione del segno coincide con il soggetto o con il
paziente dell’azione.
Nella lingua dei segni non vengono usate preposizioni e desinenze che vengono invece articolate in luoghi
posti nello spazio subito davanti al segnante. Inoltre i costituenti non seguono lo stesso ordine della lingua
parlata e gli ordini sintattici si dividono in preferenziali e secondari. L’ordine più comune nella LIS è
Soggetto – Oggetto – Verbo (il burro mangiare no = io non mangio il burro).

Asse paradigmatico e sintagmatico, il discorso in lingua dei segni e la molteplicità degli


articolatori segnati
La lingua dei segni è una lingua che si serve dello spazio e della dimensione simultanea per istituire relazioni
tra le sue parti del discorso e tra i suoi elementi di prima e seconda articolazione. Da questo punto di vista, le
unità segnate non sono mai unità puramente sequenziali, ma sono unità pluriarticolate che si delineano anche
sulla dimensione della simultaneità. Così seguendo la distinzione proposta da Saussure, i linguisti tendono a
contrapporre l’esistenza di due diversi assi rispetto a cui si ordinano nella mente le unità linguistiche:
1. L’asse paradigmatico, ovvero l’asse legato ai rapporti di somiglianza e differenza che le parole
intrattengono tra loro a prescindere dal loro ordinamento della frase
2. L’asse sintagmatico ovvero l’asse legato ai rapporti che le parole intrattengono quando si
combinano sequenzialmente in una frase, secondo la dimensione della linearità.
Oltre agli articolatori manuali ci sono anche articolatori non manuali che entrano in gioco nel discorso
segnato: tra questi hanno un ruolo importante la posizione del busto e delle spalle, l’espressione facciale,
l’articolazione con la bocca di componenti non manuali e lo sguardo dei segnanti. Ognuno di questi elementi
può contribuire a veicolare aspetti rilevanti dell’informazione. Anche nelle lingue vocali e nel parlato faccia
a faccia, la multimodalità della comunicazione è un fatto evidente. I cosiddetti classificatori sono
morfofonemi che veicolano distinzioni legate alla forma e alla disposizione dei referenti a cui sono applicati
e si tratta di forme dotate di iconicità il cui significato è parzialmente adattabile al contesto.
L’impersonamento è invece una modalità di segnato narrativo in cui i movimenti del corpo e degli
spostamenti del busto nello spazio servono a indicare che l’azione viene compiuta dall’uno o dall’altro dei
personaggi della narrazione, il cui ruolo viene assunto in quel modo dal segnante.

Iconicità, arbitrarietà e oltre


L’iconicità non trova spazio in quei casi in cui entrerebbe in conflitto con la sistematicità delle opposizioni e
delle distinzioni grammaticali che vengono stabilite ai diversi livelli linguistici: dalla seconda articolazione
alle unità discorsive. Il sistema linguistico segnato si fonda su regole e processi autonomi e non dipende dalla
realtà percepita nel senso in cui ne dipenderebbe un’immagine pittorica o una rappresentazione pantomimica.
Inoltre l’analisi delle strutture discorsive segnate mette in evidenza come accanto a caratteristiche iconiche
fisse e ricorrenti, detti tratti iconici congelati, l’iconicità emerga accanto all’interno delle strutture discorsive
in forme che sono produttive e sono legate dinamicamente ai processi di comprensione del segnato. In fine,
le lingue dei segni sarebbero un sistema comunicativo iscritto nel nostro codice genetico e che si realizza
come prima lingua solo nelle persone sorde. Inoltre le ricerche sulle somiglianze e sulle differenze tra codici
segnati e parlati dimostrano come la facoltà del linguaggio si realizza a partire da materie dell’espressione
diverse e da un diverso accesso sensoriale alla realtà.

CAP.17
Platone si occupa del problema del linguaggio nel dialogo Kràtilos, opera interamente dedicata al tema.
Vengono confrontate le teorie eraclitee di Cratio, il quale affermava il “naturalismo essenzialista” secondo il
quale le parole sono imitazione dell’essenza delle cose, e le teorie di Ermogene secondo il quale invece i
nomi sarebbero frutto di un patto esplicito tra i parlanti che non implica alcun impiego veritativo nei
confronti della realtà. Fa da “moderatore” Socrate che se prima prende le parti di Cratio poi favorisce
Ermogene arrivando a smantellare entrambi i punti di vista evidenziandone i limiti e le incongruenze.
Platone arriva infine ad affermare che il linguaggio non può essere considerato fonte attendibile per la
conoscenza autentica e che bisogna quindi sostituirlo con una contemplazione intellettuale del vero.

CAP. 18
Aristotele invece, affronta il tema del linguaggio nella sua opera “la Politica” dove spiega il ruolo del
linguaggio nella genesi e nell’organizzazione civile della polis mettendo in evidenza le differenze tra umani e
gli altri animali, e nel “De Interpretatione” dove il linguaggio viene inquadrato nel sistema della coscienza.
Al centro c’è la teoria del giudizio, caratterizzato dalla significatività ma anche dalla possibilità di essere
vero o falso. Nonostante il dettato appaia semplice, le affermazioni del filosofo sono molto problematiche: in
seguito a una traduzione tardo-antica, per molto tempo si è creduto che Aristotele volesse fondare una
dottrina convenzionalistica basata sul carattere universale dei concetti e sul carattere mutevole e arbitrario
delle unità fonico-acustiche a essi correlate.
CAP. 19 LUCREZIO: IL LINGUAGGIO, GLI UMANIE GLI ALTRI ANIMALI
Viene analizzato il libro V del poema latino De rerum natura, che è un opera di Tito Lucrezio Caro. Il
poema è composto da sei libri di circa 7500 versi ed è una esposizione realizzata di teorie fisiche,
gnoseologiche ed etiche del filosofo greco Epicuro, il caposcuola del materialismo antico. In questo saggio la
concezione naturalista e immanentista della cultura umana viene applicata all’origine del linguaggio. Due
sono i punti principali rappresentati da Lucrezio:
1. Linguaggio umano e linguaggio delle specie animali dipendono tutti da un impulso naturale, che
esprime, mediante la voce, la propria sfera emozionale, i propri bisogni e desideri.
2. Il mondo del linguaggio-espressione, che è il mondo della varietà: la differenza delle voci dipende
dalla differenza della natura delle specie.
La affinità tra umani e animali ha una ragione evolutiva. Secondo Lucrezio gli umani nascono al mondo
come essere brutali, dotati di forza corporea che trascinano la vita privi di qualsiasi regola e legge, soggetti al
bisogno di cibo, acqua, sesso e solo gradualmente imparano a unirsi in società per sopravvivere e a produrre i
beni necessari per la comunità. Le idee sul linguaggio furono bollate come immorali ed eretiche nel corso del
Medioevo, e vennero riscoperte dall’Umanesimo e dal rinascimento alimentando il pensiero moderno.

CAP. 20 RENÉ DESCARTES: MENTE E LINGUAGGIO


Pagine estratte dalla opera più nota di Cartesio, il Discours sur la methode, manifesto riconosciuto del
razionalismo e dell’illuminismo francese ed europeo. Cartesio si pone il problema dell’essenza dell’umano
che identifica in una dimensione mentale. Si configura una posizione dualista: la mente è un dispositivo
specie-scientifico, immateriale e innato di cui Dio ci ha dotati, mentre il corpo è un’entità fisica soggetta al
determinismo. Il linguaggio autentico, con la capacità di attribuire senso alle parole e agli enunciati, pertiene
alla sfera del mentale: quelle di un animale non sono autentiche forme di linguaggio, perché esso è incapace
di associare ai suoni veri significati.

CAP. 21 JHON LOCKE: LA ARBITRARIETA’ DELLE PAROLE


Jhon Locke è il padre dell’empirismo inglese, la dottrina che fa derivare ogni conoscenza dall’ esperienza
sensibile. Il terzo dei quattro lirbi di cui si compone l’ “Essay on Human Understanding” si intitola “On
Words” → Locke svolge la tesi che il processo di pensiero è condizionato dall’operare dei segni linguistici.
Locke dà avvio allo smantellamento dell’aristotelismo linguistico, che riduceva il linguaggio da un apparato
di etichette convenzionali a significati universali e rispecchianti oggetti/referenti “uguali per tutti”.
L’argomento di Locke si snoda attraverso una ricostruzione delle tappe, tramite le quali costruiamo entità
mentali astratte (i concetti), i quali categorizzano il reale in classi. Il nome è la entità simbolica che fissa
nella mente il processo astrattivo e gli consente di funzionare. Il significato linguistico non si confonde con
l’oggetto esterno, ma coincide con un dato mentale, interiore, “arbitrario” nei rispetti dell’oggetto.
Il linguaggio si pone come un che di soggettivo e autonomo, nel quale si rispecchia la psicologia sociale
della comunità parlante. Diversamente dalla tradizione aristotelica le “essenze” delle cose non hanno
rilevanza linguistica, ma se esse ci sono restano per noi inconoscibili; le uniche essenze si cui ha senso
discutere sono quelle nominali consistenti nei concetti-significati rappresentati dia nomi. La teoria linguistica
di Locke ha influenzato le dottrine gnoseologiche del Sette e dell’Ottocento.

CAP. 22GOTTFRIED W. LIEBNIZ: SEGNO E PENSIERO


Il filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz ha avuto un ruolo essenziale nel passaggio dalla concezione
convenzionalista del segno (secondo la quale il linguaggio sarebbe un sistema di etichette apposte a
significati specularmente rifatti su entità del mondo reale) a una concezione che vi vede l’ingrediente
costitutivo della conoscenza come un qualcosa senza la quale il pensiero non riesce ad assumere identità e a
determinarsi. Presenta i suoi nessi semiologici in stretto nesso con la teoria della “caratteristica universale”,
ovvero di quel linguaggio artificiale cui Liebniz affidava la possibilità di organizzare le conoscenze e di
derivarne di originali mediante la pura manipolazione dei simboli. L’idea centrale è quella di rappresentare il
fatto che i segni (non solo la parola) funzionano in modo cieco, cognitivo, non richiedono di operare la
evocazione intuitiva dei contenuti e non è necessario sapere quali entità concrete stiamo trattando. In tal
modo la mente è “alleggerita” nel suo lavoro e può pretendersi al di là dei limiti cognitivi posti dalla natura.
Un secondo aspetto riguarda la nozione di segno presentata da Liebniz come classe di differenti sistemi
comunicativi fra cui vanno comprese parole e linguaggi artificiali. Un terzo aspetto riguarda la asimmetria di
funzionamento propria a lingue e calcoli quanto alla organizzazione del significato, e viene dedotta la
esigenza di una caratteristica universale, esente da oscillazioni proprie dell’uso di un linguaggio naturale. Il
frammento si conclude con la spiegazione della tecnica di costruzione della caratteristica dove è necessario
fare attenzione all’uso dei termini importanti come “primitivo” e “arbitrarietà” che Liebniz libera da ogni
substrato di tipo ontologico.

CAP. 23WILHELM VON HUMBOLDT: IL LINGUAGGIO COME FORMA E


CREAZIONE
Pagine estratte dall’opera l’”Introduzione” che il filosofo tedesco Von Humboldt dedicò al suo studio della
lingua Kawi, la lingua dei poeti dell’isola di Giava. Il titolo completo “Sulla differenza della struttura
linguistica umana e sul suo influsso sullo sviluppo spirituale del genere umano” fa capire che siamo davanti
ad uno sforzo di risalire dalle differenze interne delle lingue alle ragioni e modalità del loro radicamento
nelle forme del pensiero e della conoscenza umana. La idea centrale è che il linguaggio sia un dispositivo che
condiziona la articolazione e la fisionomia del pensiero. Ciascuna lingua struttura il mondo della comunità
parlane cerando intorno a questa una sorta di circolo dal quale si esce solo entrando nel circolo di una lingua
differente. Dunque la “forma interna della lingua” è un principio attivo che modella il nostro pensiero e la
nostra reazione al mondo. Con questa opera si influenza la filosofia dell’Otto e Novecento.

CAP. 24. CHARLES SANDERS PERICE: semiosi e interpretazione

PEIRCE
Dai Collected Papers si comprende l'idea del processo semiotico come interpretativo, legato alla conoscenza
legata alla prassi, al pragmatismo, all'esperienza primaria sensibile col soggetto. Non essendo "fotografica",
la semiosi adotta un percorso interpretativo, per accedere all'oggetto solo nei termini di un segno (tra dato
sensibile, representamen, ed evento mentale o "oggetto immediato"): per riformulare il segno è possibile
ricorrendo ad un altro, sempre in tendenza all'oggetto, senza mai attingervisi per una presunta obiettività,
solo per circorscriverlo. La semiosi è triadica, tra oggetto, segno e intepretanti, secondo una classificazione
dei segni, tra indici, icone e simboli, veri e propri momenti di un segno.
228. Un segno, o rappresentamen, sta a qualcuno per qualcosa, e si rivolge a qualcuno, e quel segno del
segno è l'interpretante, riferito all'oggetto, a sua volta riferito all'idea, un pensiero coerente.
229. La scienza della semiotica ha tre branche: la grammatica speculativa (Duns Scoto), la verità nei
rapresentamen per il significato; la logica, sulla verità scientificamente valida per gli oggetti; la retorica pura.
230. Segno sta a Oggetto percettibile o immaginabile, e deve rappresentare qualcosa. La condizione del
Segno altro dal suo Oggetto è arbitraria: c'è anche il Segno parte del Segno.
239. Le relazione triadiche sono suddivise in dieci classi.
247. Un segno può essere detto Icona, Indice o Simbolo. Il primo è a riferimento all'Oggetto in virtù di
caratteri suoi propri, sia che esista o meno nel contesto.
248. Un indice è un segno all'Oggetto determinato da esso: le qualità sono indipendentemente da altro: se
l'Oggetto agisce sull'indice, allora l'Indice ha qualche cosa in comune con essa (Icona peculiare).
249. Un Simbolo è un segno che si riferisce all'Oggetto, per una legge, un'associazione di idee generali, a
riferimento diretto. Simbolo e Oggetto sono di natura generale, in azione per Replica, e in atto di esistere.
CAP. 25. FERDINAND DE SASSURE: l’arbitrarietà radicale

SAUSSURE
Dal Corso di Linguistica Generale l'analisi del ritaglio arbitrario della materia fonico-acustica, e del pensiero
preverbale in un sistema di valori. Gli idiomi più diversi condividono la capacità di formare sia il significante
sia il significato, veri organismi autonomi, radicati nei bisogni espressivi delle comunità, vera forma
materiale del fatto linguistico. Il sistema delle unità semantiche ed espressive regge indipendentemente dal
tipo di sostanza fonica o grafica, proprio da teoria culturalista alla Humboldt.
La lingua come pensiero organizzato nella materia fonica. La lingua è un sistema di valori puri: il pensiero è
una massa amorfa; la sostanza fonica pure, plastica divisa in parti distinte per i significati richiesti. Da una
parte la confusione mentale, dall'altra la cacofonia, e in mezzo la formazione di legami tra significanti e
significati distinti. La lingua deve servire da intermediario tra pensiero e suono, sottratte dal caos. La lingua è
il regno delle articolazioni, e ogni porzione di essa è una forma precisa e delineata. L'arbitrarietà della scelta
della porzione denota il fatto sociale intrinseco al sistema linguistico; l'idea di valore non vuole considerare
un termine dall'unione tra suono e concetto, dalla somma del sistema, ma da altro, dalla sottrazione da esso.
Il valore linguistico considerato nel suo aspetto concettuale. Il valore è la proprietà per rappresentare un'idea,
elemento della significazione, contropartita dell'immagine uditiva. Il concetto è contropartita di questo e il
segno in sé, il rapporto tra i suoi due elementi. Com'è possibile che il valore si confonda con la
significazione? Se tutti sono costituiti da una cosa dissimile scambiabile con quella per determinare il valore
e da cose simili da confrontare con quella, allora si può scambiare con cose diverse e confrontare con
qualcosa di simile; il valore non è fisso se può essere scambiato con le significazioni, e confrontato con
opponibili. Una parola è rivestita di una significazione e d'un valore (es. mouton è "pecora reale" e/o
"cucinata", sheep è solo "reale"), ma non si esprime il fatto linguistico nella sua essenza e nella sua
ampiezza.

CAP. 26. LEV S.VYGOTSKIJ e ALEXANDER R. LURIJA: strumento e simbolo


Lev Vygotskij e Alexander Lurija
Da Lo Strumento e segno nello sviluppo del bambino. La teoria storico-culturale delle funzioni psiciche e il
rapporto tra psicologia e teoria del linguaggio ha favorito una nuova lettura linguistica. L'ambiente socio
culturale media l'attività del cervello, essendo la vita biologica del cervello non separabile dai processi di
adattamento ambientali, come la sua interazione e il suo funzionamento nell'inserimento sociale e nella
risoluzione. Gli strumenti cerebrali oggettivano i processi mentali per arricchirsi, come il linguaggio, sia
esteriore per l'apprendimento culturale, sia interiore per quello comportamentale per obiettivi cognitivi e
pratici a lungo termine, e non solo bisogni temporanei. La teoria ha portato nuova linfa agli studi della
psicologia americana e alle neuroscienze.
Il linguaggio e l'attività pratica nel comportamento infantile. L'uso degli strumenti nel bambino ricorda
quello delle scimmie, ma appena si manifesta la manipolazione degli strumenti il linguaggio si forma l'uso
umano del linguaggio, con nuove relazioni con l'ambiente e con nuovi comportamenti, quali parlare mentre
agisce. Il linguaggio di un bambino è parte integrante e necessaria del processo, e più è complessa e
maggiore è l'importanza del linguaggio nel processo, e maggiore è l'uso nel rafforzarlo (metodo Piaget). Il
linguaggio egocentrico infantile è una forma transitoria tra linguaggio esterno e interno. Cos'è il peculiare
nelle azioni del bambino rispetto ai problemi pratici della scimmia? C'è una libertà incomparabilmente
maggiore nelle operazione, una indipendenza dalla struttura, maggiori possibilità, anche con una serie di
azioni preliminari complesse con metodi strumentali ausiliari. Le operazioni pratiche sono meno impulsive
della scimmia, risolvendo il problema sul piano verbale, e sul piano motorio. La manipolazione diretta è
sostituita dal processo psichico complesso stimolatore dello sviluppo e della realizzazione dell'obiettivo, cosa
che manca alla scimmia. A sua volta anche il comportamento si modifica, padroneggiandolo col linguaggio
così come ha fatto prima con gli elementi esterni, anche se non è un momento particolare dello sviluppo del
comportamento. Le serie di stimoli, principali e ausiliari, dirigono il suo comportamento, arrivando a livelli
superiori a quelli delle scimmie, limitate dalle manipolazioni da parte dell'animale. Gli stimoli ausiliari come
il linguaggio servono come mezzo di contatto sociale con le persone circostanti e come mezzo di influenza
su se stesso e di autostimolazione. Messi allo stesso livello in fatto di processo di soluzione afasici e
scimmie, si sottolinea l'importanza del linguaggio nell'organizzazione delle funzioni psichiche, così come nel
comportamento, più primitivo e confusionario nelle reazioni, a-contestualizzate in questo caso; afasico e
scimmia diventano schiavi della situazione immediata, incapaci di pianificazione.

CAP. 27. NOAM CHOMSKY: linguaggio e natura umana


Noam Chomsky
La rivoluzione cognitiva del Professore ha portato alla modifica delle teorie della conoscenza e del
linguaggio e della scienza contemporanea della mente. Con Le strutture della sintassi e Programma
minimalista si sono sviluppate le considerazioni sulla facoltà di linguaggio parte di una: più comprensiva
capacità mentale e del carattere innato di essa nell'istruzione contenuta nel DNA; del carattere formale
sintattico e calcolistica di essa eguale al software; del carattere specie-specifico del linguaggio come punto di
rottura nella trafila evolutiva fra umani e animali contro ogni dottrina continuista neodarwiniana. La
rinnovata visione cartesiana del nesso mente-linguaggio contro i comportamentalisti alla Skinner e gli
strutturalisti arbitrari. Il tentativo di costruire una teoria generale seconda prospettiva universalistica risulta
difficoltoso per le differenze linguistiche tra e varie strutture e significati.
Managua Lectures, il programma di ricerca per gli studi contemporanei sul linguaggio e le lingue. La facoltà
del linguaggio è uno dei componenti della mente/cervello, unico nel Creato. All'esposizione dei dati la
facoltà di linguaggio determina una lingua particolare, determinata da un ampio spettro di fenomeni
potenziali. Il bambino con la funzione del linguaggio apprenderà la lingua utilizzando i dati appresi secondo
la sua struttura interiore, e parlerà e comprenderà la lingua una volta concluso il processo. Il linguaggio
diventa uno dei monti sistemi di conoscenza, uno dei suoi sistemi cognitivi, ricco e complesso, con ampi
spettri di fenomeni potenziali, assegna una struttura alle espressioni linguistiche che superano di molto ogni
esperienza. Nell'intendere lingua bisogna riferirsi al fenomeno individuale, rappresentato nella
mente/cervello dell'individuo, la cui rassomiglianza ad altri individui non è totale. A sua volta bisogna
riferirsi come proprietà di cui una certa comunità è dotata, anche se molte lingue hanno varianti interne
molto diverse. Per una ricerca del linguaggio serve una precisione concettuale da raffinare per cogliere le
proprietà del linguaggio nel senso della psicologia individuale. La necessità della lingua è impagabile davanti
alle altre creature.

Potrebbero piacerti anche