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3.

Note sull’antropologia dei sensi* 1

di Vincenzo Matera

1. L’invisibilità sociale e culturale

Edmund Leach, nel suo famoso saggio sulla temporalità (Leach, 1973),
afferma che la complessità della società e delle culture implica la costruzione
di ‘cose’ (o di livelli percettivi) che sussistono, ma non necessariamente esi‑
stono: ciò conduce Leach a porre, dal punto di vista dell’analisi, una distinzio‑
ne fra ciò che esiste (grosso modo la realtà empirica) e ciò che sussiste, che
dipende dalla percezione delle persone (grosso modo la realtà sociale).
Secondo David Maines, antropologo statunitense, questa distinzione, tutta‑
via, cade non appena si consideri che a prescindere dal fatto che qualcosa pos‑
sa esistere empiricamente o sussistere socialmente, deve possedere o esprime‑
re una qualche sorta di continuità, cioè deve essere parte di un’organizzazione
di relazioni e processi. Non importa di quale forma di esistenza parliamo (un
organismo o una società), perché per affermare legittimamente che qualcosa
esiste dobbiamo far riferimento a un certo grado di persistenza. A prescindere
dalle differenti forme di persistenza, non è allora necessario, secondo Maines,
accogliere la distinzione di Leach. Il suo sembra il tentativo di collocare il
tempo nelle pratiche e nelle convenzioni sociali, il che è corretto, ma a disca‑
pito del riconoscimento del tempo come empirico e come parte della nostra
esperienza oggettiva. Maines al contrario afferma che focalizzando il discorso
sulla continuità propria di diverse forme di esistenza, si può abbastanza fa‑
cilmente parlare del tempo come qualcosa che è sia sociale, sia empirico e
oggettivo (Maines, 1989: 107).

*
  In una prima versione, ora parzialmente rielaborata, questo articolo è apparso come in‑
troduzione al numero 45 di Erreffe La ricerca folklorica del 2003 intitolato Antropologia delle
sensazioni, da me curato.

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L’idea dell’antropologo inglese può essere un buon punto di partenza che,
senza condurre a discussioni ontologiche, ci consenta di affrontare il tema
della sensorialità in termini antropologici come tipico ambito o livello sociale
e culturale invisibile, sia sul piano teorico, sia su quello esperenziale.

2. Il contesto teorico

Per fornire un’idea immediata e diretta della tesi dell’invisibilità socia‑


le, propongo un brano tratto dal romanzo Il palazzo degli specchi di Amitav
Ghosh, noto scrittore anglo-pakistano con una formazione specifica in antro‑
pologia. Vi si racconta un episodio di cui è protagonista Rajkumar, un ragaz‑
zino indiano che, dopo varie vicissitudini, approda in Birmania ed è testimone
dell’invio in esilio del re avvenuto nel 1885 per opera degli inglesi. Il ragazzi‑
no segue il corteo dietro la carrozza reale scortata dai soldati britannici:

Rajkumar riconobbe parecchi di quelli che la notte prima avevano preso parte al
saccheggio. Rammentò come spaccavano i mobili e schiodavano le assi dal pavimen‑
to. Adesso quegli stessi uomini e donne erano distrutti dal dolore, in lutto per il loro
re, scossi da quello che sembrava un dolore inconsolabile. Rajkumar era incapace di
capire quel dolore. Era in un certo senso una creatura selvatica, ignara del fatto che
in certi luoghi esistono dei legami invisibili che uniscono gli individui tramite perso‑
nificazioni della loro comunità. Nel Bengala dove era nato, quei legami erano stati
recisi da un secolo di conquista e non ne restava traccia neppure nei ricordi. Al di là
dei vincoli di sangue, di amicizia e di scambio immediato, nell’ambito del suo diritto
a provvedere a se stesso Rajkumar non riconosceva lealtà, né obblighi né limiti. Riser‑
vava la sua fiducia e il suo affetto a quelli che se li guadagnavano con dimostrazioni
concrete e provata benevolenza. Una volta conquistata, la sua lealtà veniva offerta
generosamente, senza nessuna di quelle clausole implicite con cui di solito le persone
si tutelano dal tradimento. Anche in questo non era dissimile da una creatura che è
tornata allo stato naturale (Ghosh, 2001: 46).

È un passo molto bello che, oltre a provare quanto sia utile la letteratura
come fonte etnografica (Matera, 2012), mostra molto bene la differenza fra
la dimensione esistenziale di Rajkumar, come quella di una “creatura selva‑
tica”, e la dimensione esistenziale delle persone che appartengono alla co‑
munità di Mandalay, unite da “legami invisibili”. Non solo: ci suggerisce il
perché Rajkumar sia incapace di percepire e di capire il dolore della comuni‑
tà. Parafrasando Marx, potremmo dire che un individuo isolato non può pos‑
sedere la terra, più di quanto non possa possedere parole, più di quanto non
possa possedere memoria, più di quanto non possa possedere sensorialità ed

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emotività. Al massimo può approvvigionarsi (anche metaforicamente) come
farebbe un animale.
Da qui, in prima approssimazione, possiamo definire la sensorialità come
la facoltà degli esseri umani di percepire il mondo esterno, anche nella sua
complessità, sempre e comunque attraverso i cinque sensi riconosciuti nella
tradizione occidentale da Aristotele in avanti. Questi sono la nostra “finestra sul
mondo”. Tuttavia qualcuno, forse in vena di originalità, potrebbe aggiungere
alla lista il cosiddetto “sesto senso”, o l’altrettanto famoso “intuito femminile”
e anche, perché no, il cosiddetto “senso comune” o “buon senso”. È noto che
Ruth Finnegan, per esempio, aggiunge al conto il senso dell’equilibrio e quello
della musica e del ritmo, evidenziando la molteplicità sensoriale che caratteriz‑
za i modi in cui gli esseri umani si interconnettono (Finnegan, 2008).
È altrettanto risaputo che, se si considera la svolta cartesiana-chomskyana,
si può aggiungere alla serie la facoltà stessa del linguaggio. Ma c’è innatismo
e innatismo. Leggiamo, per esempio, quanto scrive a riguardo Steven Pinker
nel suo The Language Instinct:

Language is not a cultural artifact that we can learn the way we learn to tell time
or how the federal government works. Instead, it is a distinct piece of the biological
makeup of our brains. Language is a complex, specialized skill, which develops in the
child spontaneously, without conscious effort or formal instruction, is qualitatively
the same in every individual, and is distinct from more general abilities to process
information or behave intelligently. For these reasons some cognitive scientists have
described language as a psychologically faculty, a mental organ, a neural system, and
a computational module. But I prefer the admittedly quaint term “instinct” (Pinker,
1995: 18).

“Quaint” è un aggettivo adatto a caratterizzare il termine istinto e sarebbe


un buon punto di avvio per un’analisi delle tesi di Pinker, che peraltro ritengo
difficilmente condivisibili da una posizione socio-costruttivista come la mia;
va tuttavia ricordato che quell’idea non è poi del tutto nuova, se pensiamo che
già Filone di Alessandria, un filosofo del I secolo a.C., aggiungeva ai cinque
sensi che ben conosciamo appunto, come Pinker, la “parola”. Per tutto il Me‑
dioevo, inoltre, è stata costante l’idea che la parola fosse una facoltà naturale
e non acquisita dell’uomo. Ciò oggi può apparirci strano, perché una conso‑
lidata tradizione ci ha abituato a ritenere i sensi dei meccanismi di passiva
ricezione di dati, laddove la parola è emissione attiva di suono ed è dotata di
significato; analogamente, per noi i sensi sono una facoltà naturale, mentre
la lingua si impara, è acquisita socialmente. E si deve proprio a Descartes il
primo confine tra la mente e i sensi: il “cogito ergo sum” esprime appunto il

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rifiuto di ogni esperienza sensoriale, ingannevole, stabilendo il primato della
mente, del pensiero e della parola al fine di determinare la verità dell’esistenza
dell’individuo.
A questo proposito mi sembra opportuno ricordare quanto scrive Alessan‑
dro Duranti in un articolo sui “saluti cerimoniali” a Samoa (Duranti, 1992):
i saluti cerimoniali, scrive Duranti, vengono scambiati di solito quando una
persona di alto status sociale arriva a un evento pubblico o si reca in visita
ufficiale a casa di qualcun altro. Benché convenzionali, i saluti cerimoniali
non sono obbligatori. Chi entra in una casa ha modo di far sapere agli altri già
presenti se è lì per questioni ufficiali e prima di tutto lo fa scegliendo il posto
dove sedersi. Per questo, non tutte le persone importanti che entrano saranno
salutate: la scelta del posto è un elemento essenziale (il corpo e i movimenti
del corpo nello spazio sono una risorsa semiotica fondamentale in tutte le co‑
munità) per dichiarare la futura partecipazione di una persona all’evento. An‑
che l’atmosfera più rilassata può cambiare se una persona arriva e va a sedersi
nella parte della casa riservata ai grandi capi. Così come la collocazione nella
parte retrostante della casa indica la volontà di attenersi da parte del nuovo
arrivato a un ruolo di basso rilievo. Ciò significa che prima di qualsiasi parola,
la collocazione in un particolare spazio nella casa è già una dichiarazione.
L’epiteto esistenziale appropriato qui, allora, non è cogito, ergo sum, nemme‑
no loquor, ergo sum, ma qualcosa di molto più embodied e fisico, come, per
esempio una sorta di consido hic, ergo... (‘siedo qui, dunque sono’).

3. Il primato dell’esperienza

John Locke sostenne che è proprio attraverso l’esperienza sensoriale che


le idee si formano nella mente: un individuo può pensare la propria esistenza
solo dopo averne avuto prova sensoriale. Si tratta di un annoso dibattito: i ra‑
zionalisti ritengono le informazioni percepite attraverso i sensi non essenziali
per l’attività mentale, se non addirittura fuorvianti; gli empiristi ne sostengono
l’assoluta priorità. L’analisi culturale della sensorialità (quindi la prospettiva
dell’antropologia dei sensi) può inserirsi utilmente nella discussione filosofi‑
ca, offrendo qualche elemento di riflessione ulteriore.
L’antropologia dei sensi si articola su tre punti primari:
–– la collocazione dei sensi nell’universo culturale, che l’etnografia ci mostra
essere variabile;
–– l’enfasi posta sui differenti sensi, anche questa variabile da una società
all’altra;

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–– la credibilità attribuita alle impressioni sensoriali, ai dati ricavati attraverso
i sensi, non scontata e non costante: la discussione tra il “forse l’hai sogna‑
to”, cui si oppone il “l’ho visto con i miei occhi!” penderebbe, in certi posti
e in certi contesti culturali, verso l’attribuzione di un maggior peso, di più
affidabilità, alla prima espressione.
La considerazione scientifica della sensorialità è quella dei sensi come
meccanismi naturali, raccoglitori comuni a tutti gli uomini, cui consegue l’i‑
dea della percezione come atto puramente fisico, naturale, del tutto immune
da influenze sociali e culturali. Infatti, anche se di moltissimi aspetti dell’esi‑
stenza umana si è riconosciuta la rilevanza della variazione sociale e culturale,
dall’alimentazione all’abbigliamento, dalla classificazione dei parenti ai modi
di pensare, i sensi costituiscono ancora prevalentemente un dominio della na‑
tura. Un dominio però destinato a essere interrotto o, quantomeno, a essere
messo in discussione. Infatti, come sostiene Cardona:

Cosa effettivamente si proietti sulla nostra retina prima della nostra effettiva per‑
cezione ce lo dice bene la pellicola fotografica, che viene impressionata dalle vibra‑
zioni luminose così come esse arrivano all’obiettivo e non come noi le vediamo, o
il nastro del registratore, che raccoglie tutti i rumori che colpiscono il microfono.
Saranno le nostre conoscenze previe, l’adattamento del momento e tanti altri calcoli
del genere a dare un senso al tappeto di stimoli che colpiscono il nostro occhio; il che
non vuol dire che queste sensazioni che noi abbiamo – arbitrariamente – individuato,
abbiano un riscontro reale; possiamo ingannarci su tutto quello che colpisce il nostro
occhio, fino a che non possiamo ricorrere ad altre verifiche empiriche, che diano la
possibilità di controlli incrociati; una stessa immagine retinica può essere originata
da più configurazioni di stimoli esterni. Che cosa vuol dire tutto questo? Forse che
non esistono le cose fuori di noi, che ciascuno ha una sua propria, differente visione?
(Cardona, 1985; 8).

Cardona ci suggerisce di riflettere sull’influenza che sulla nostra percezio‑


ne del mondo esterno esercitano le premesse, i principi, i criteri le regolarità
che abbiamo acquisito e che abbiamo imparato a distinguere grazie alla nostra
appartenenza e partecipazione a una specifica società e che per questo potrem‑
mo definire culturali. A differenza della pellicola fotografica e del nastro del
registratore, noi diamo un senso1 alle vibrazioni luminose o alle onde sonore
in base a ciò che sappiamo (cioè le nostre conoscenze culturali), alla situazio‑
ne (sociale) in cui siamo ecc.

1
  È interessante notare a tale riguardo che, in molte lingue (come in italiano), uno stesso
termine indica sia i meccanismi attraverso cui percepiamo i dati esterni (vista, udito, odorato,
gusto, tatto), sia la possibilità che qualcosa ha di essere compresa.

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Possiamo dunque, pur se ancora in via preliminare, definire l’espressione
“antropologia dei sensi” come l’analisi delle modalità secondo cui la senso‑
rialità si articola in diversi contesti sociali, qualificando questa facoltà come
culturalmente orientata.

4. A favore della cultura

Pur con tutte le precauzioni del caso, è necessario – ciò a conferma del fat‑
to che la riflessione antropologica non può fare a meno del concetto e di una
qualche teoria della cultura – per introdurre un tema come quello dei sensi e
per sottolineare la possibilità e la rilevanza di uno studio antropologico della
sensorialità, usare il termine “cultura”. Indicando con questo termine qualcosa
di molto simile a ciò che si è inteso in antropologia a partire dalla definizione
di Taylor, fino alle più recenti decostruzioni del concetto (Matera, 2006).
Parlando di cultura, mi riferisco al modo in cui l’uomo, animale incom‑
piuto, soggetto di apprendimento, riempie le sue lacune partecipando alla vita
sociale; quindi faccio riferimento alle configurazioni di pensiero e azione che
gli uomini acquisiscono socialmente. Ciò significa anche, da una prospettiva
un po’ diversa, accogliere l’idea che non esiste una natura umana indipenden‑
te dalla cultura, che fra il nostro corredo genetico e ciò che abbiamo appreso
e dobbiamo continuamente apprendere per vivere c’è una distanza, e che la
cultura ci consente di mediare, di entrare in uno spazio collettivo (sociale) di
interazione.
La cultura o, meglio, le risorse culturali che un individuo ha a disposizione,
sono gli strumenti essenziali attraverso i quali le persone assumono consape‑
volezza di sé e degli altri, vale a dire si costruiscono un’identità. La cultura
così intesa mostra una struttura connettiva e agisce come principio di base
del collante sociale e dell’identità articolandosi lungo due dimensioni: quella
dello spazio e quella del tempo. Lungo la dimensione spaziale, perché lega gli
individui l’un l’altro costituendo un ambito comune di esperienze, relazioni,
azioni, significati, aspettative, percezioni, un comune sentire, forse, un luogo2.
L’azione della cultura come collante sociale si articola poi anche lungo la
dimensione temporale, legando il passato al presente e mantenendo attuali le
esperienze e i ricordi, cioè fornendo alla società quella persistenza che Mei‑

2
  Il luogo non deve essere necessariamente “fisico”, ma può anche essere “virtuale”: si
pensi, per esempio, ai siti di incontro come i social network, in cui la sensorialità agisce solo
mediata dal computer, ma dove ciascuno negozia la propria identità e riconosce anche dei mod‑
elli per entrare in relazione con gli altri.

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nes, come abbiamo ricordato, considera la qualità fondamentale perché essa
possa esistere.
L’ipotesi è, dunque, che si possano studiare i sensi da una prospettiva an‑
tropologica sulla base di una nozione di “sensorialità collettiva”, coniata evi‑
dentemente su quella molto più blasonata di “coscienza collettiva”.
La mia opinione è che, per l’antropologia, studiare in maniera sistematica
i sensi significhi avanzare una prospettiva che sottragga l’ambito della senso‑
rialità al soggettivismo e alla fisiologia che lo hanno, anche legittimamente,
monopolizzato, e che, sulla base della nozione di sensorialità collettiva, avvii
il tentativo di interpretare la percezione sensoriale come un fenomeno sociale
e culturale. Il carattere socialmente condizionato della sensorialità, dunque,
emerge come ipotesi di lavoro non del tutto infondata e neppure del tutto nuo‑
va (Howe, 1991; Classen, 1993; Finnegan, 2008).
Tralasciando la base neuronale e fisiologica della percezione, senza ov‑
viamente negarne l’importanza, un’antropologia della sensorialità si con‑
figura come l’analisi degli elementi sociali e culturali (quelle “conoscenze
previe, l’adattamento del momento e tanti altri calcoli del genere” di cui ci
parla Cardona) senza i quali nessuno potrebbe attribuire alcun senso a ciò
che percepisce. Si noti che questa affermazione non esclude la percezione,
esclude il senso, e ribadisce che un uomo in solitudine – tesi implicita anche
se mai formulata con chiarezza da molti studiosi, a cominciare da Ferdinand
de Saussure – non può produrre significato. La capacità di produrre senso e,
per la prospettiva che qui ci interessa, di sviluppare una sensorialità (vale a
dire, una percezione dotata di senso) cresce e si installa nell’individuo solo
grazie alla sua appartenenza a una collettività, nell’ambito del processo di
socializzazione.

5. La sensorialità collettiva

Possiamo spingerci a questo punto fino ad affermare che la nozione di


sensorialità collettiva, allora, non va intesa in senso metaforico, perché se è
vero che le società non hanno sensi, è pur vero che l’appartenenza a una col‑
lettività, per quanto mai definitiva e sempre negoziata, agisce concretamente
nella mente delle persone, e ne orienta in modo determinante la percezione.
Leggiamo, per esempio, Evans-Pritchard:

Gli Azande, per descrivere le parti psichiche della sostanza stregante e degli altri
organi usano lo stesso termine impiegato per designare ciò che noi chiamiamo l’anima

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di un uomo. Qualunque cosa la cui azione non sia rilevabile dai sensi può parimenti
essere spiegata dall’esistenza di un’anima, che ne spiega la capacità di vedere quanto
un uomo non può vedere (Evans-Pritchard, 2002: 14).

Quale studio meglio di quello sulla stregoneria tra gli Azande può illustrare
la capacità di un sistema sociale di limitare, acutizzare, formare, indirizzare,
dare senso alla percezione?

Gli Azande osservano l’azione dell’oracolo del veleno come l’osserviamo noi, ma
le loro osservazioni sono sempre subordinate alle loro credenze, sono incorporate in
esse sono fatte per spiegarle e giustificarle (ivi: 174).

Le percezioni sensoriali nascono – anche le più personali – solo attraverso


la comunicazione e l’interazione entro un contesto sociale. Tutti noi vivia‑
mo le nostre esperienze entro quadri di significatività prestabiliti socialmente,
come sottolinea Costance Classen:

Proust’s rich sensory imagery and Cleopatra’s indulgent in perfume are not simply
bits of sensory exotica which serve to awaken us to the wonder of the senses, but
expressions of particular cultural codes of perception, and sensory specialization does
not only occur in trained individual such a musicians, chefs and perfumers, but in
whole societies (Classen, 1993: 5).

Quindi, la sensorialità individuale si stabilisce in una persona attraverso la


sua partecipazione (Duranti, 2001) ai processi comunicativi e il suo coinvol‑
gimento nei diversi gruppi sociali (famiglia, comunità religiosa, professionale
ecc.). Vive e si mantiene nella pratica sociale; se questa si interrompe, se cam‑
biano i riferimenti sociali, la sensorialità cambia. Centrale, in questa dinami‑
ca, il rapporto con il corpo umano e le sue connotazioni:

Si spiegano meglio i pericoli del corpo immaginandoselo come un recipiente con


particolari orifizi attraverso cui devono entrare e uscire in modo regolare e controllato
cibi, escrezioni, odori, suoni, respiro e immagini visive (Hugh-Jones, 1998: 145).

Il corpo è centrale punto di riferimento per tutto ciò che concerne l’or‑
dinamento del mondo in cui viviamo. I sensi hanno una funzione in questo
processo talmente naturale che potrebbe non esserci consapevolezza della loro
azione, come sembra implicito in questi usi linguistici Korawai:

The human face is called lulgelip, a compound of lul, “eye” and gelip, “nose”. The
usual term for eye is lulop. Expression of seeing and the eye are also used in the area

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of human relationships. The verb imo means “to see, to look at”, but may also mean
“to pay (positive) attention to someone with whom one has a relationship”. The Koro‑
wai discern something like the “evil eye”; people with red eyes (lulop khafümtelo) are
suspected of applying ndafun “magic power” with bad intentions (Gerrit J. Van Enk,
Lourens de Vries, 1997: 42).

Un ruolo cruciale nel determinare la connotazione del corpo umano (le


connotazioni buone o cattive degli odori che emana, per esempio) è quello
esercitato dalla tecnologia (l’interazione con il computer, e con altri esseri
umani ma attraverso il computer, non annulla la sensorialità ma certo la orien‑
ta in modi specifici). Pur senza allontanarci troppo da una cultura familiare,
possiamo trovare molti esempi di come l’aumento dei fattori di mediazione
(in primo luogo quella tecnologica) comporti spesso un abbassamento della
soglia di sopportazione della contiguità con il corpo:

La sensibilità moderna si ribella con disgusto all’idea che il corpo dell’uomo, del
nostro vicino, possa servire al benessere medico della società. Il rapporto fra l’uomo
e il suo corpo, fra l’uomo e il corpo degli altri è profondamente mutato in un periodo
di tempo molto breve. La rivoluzione batteriologica ottocentesca e la chimica far‑
maceutica hanno dato un colpo mortale all’immagine della carne terapeutica e degli
escrementi umani portatori di benessere corporale e di salute (Camporesi, 1996: 15).

Questo meccanismo riguarda naturalmente anche ciò che attraverso ap‑


punto gli “orifizi” del corpo viene percepito. Scrive Giorgio Cardona a propo‑
sito degli odori:

Sappiamo che la nostra soglia di sopportazione delle sensazioni odorose va ab‑


bassandosi, per accordarsi con una certa ideologia della modernità che prevede tra le
altre connotazioni l’asetticità, l’anosmia persino; è evidente che il sempre maggior
richiamo a modelli ispirati a una tecnologia sofisticata, il sempre maggior uso di ma‑
teriali neutri (metallo, plastica) rispetto ai materiali tradizionali odorosi (legno, pelle,
osso) mai si accordano con i coinvolgimenti olfattivi. Non sopportiamo nessun odore
“cattivo” e preferiamo semmai il non odore assoluto (che viene raggiunto attraverso
una meticolosa opera di eliminazione e pulizia fino all’asepsi); il punto giusto è quindi
il non odore, indizio per noi di sanità (Cardona, 1985: 179).

Non è così, naturalmente, in altre società. Per esempio, i Dassanecht


(dell’Etiopia) si dividono in allevatori e pescatori; il bestiame e tutto ciò che
ha a che fare con esso, anche l’odore, è superiore al pesce, di conseguenza, gli
allevatori sono di status sociale più elevato. Costoro fanno di tutto per raffor‑
zare la loro identificazione con il bestiame, specialmente per acquisire l’odore

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socialmente prestigioso. Si bagnano le mani con l’urina delle bestie, si cospar‑
gono di letame – gli uomini – per celebrare la fertilità delle mandrie, mentre le
donne di burro fuso per attirare gli uomini. I pescatori, invece, sono associati
all’odore del pesce, animale sospetto, inferiore perché imprevedibile, sfug‑
gente, disordinato e puzzolente. Quando gli allevatori passano per le zone
abitate dai pescatori, si turano il naso disgustati, sebbene quelli, pur sapendo
di pesce, non lo enfatizzano. Per un estraneo, il misto di urina, letame e burro è
senz’altro olfattivamente più forte del semplice odore di pesce. Tuttavia, per i
Dassanecht gli allevatori sono profumati, i pescatori puzzano (Classen, 1993).
Anche in Europa, tuttavia, prima della rivoluzione industriale le cose olfat‑
tive erano un po’ diverse da come appaiono adesso; nel Settecento i membri
dell’aristocrazia emanavano un caratteristico “puzzo” (di cui erano orgogliosi
e che era segno distintivo dell’appartenenza di classe). Dopo la rivoluzione
industriale, con l’avvento delle macchine asettiche (e in seguito all’affermarsi
di molte teorie mediche sull’organismo, le abluzioni, l’uso della cipria ecc.)
il “puzzore” divenne il tratto spregiativo attribuito dalle stesse classi domi‑
nanti – che ora vivevano in ambienti inodori – ai proletari – che vivevano e
lavoravano in condizioni tutt’altro che inodori. Il puzzare diventò un segno
di discriminazione sociale. Possiamo da ciò ricavare un principio generale:
la rielaborazione culturale di una sensazione – in questo caso olfattiva – la
rende uno strumento per tracciare confini sociali: la classe dominante si defini‑
sce “beneodorante” o “inodore” rispetto a una classe dominata “puzzolente”.
Questo stesso principio si ritrova in tempi e luoghi diversi.
Risalendo nel tempo, abbiamo un esempio di collocazione odorosa ancora
più sorprendente:

Attraverso la mediazione del “sacro cadavero” che, aperto il sepolcro per scoprire
il “prodigio dell’odore”, “fu venduto intiero, bello e vivace, come se vivo fosse stato”
gli aromi celesti del paradiso filtrano sulla terra, addolciscono, inebriano, stordisco‑
no. Si forma un labile, precario ed effimero canale che ha nel corpo santo il centro
d’irradiazione e di distribuzione di aree grazie odorose. “L’odore di santità” non era
una semplice metafora ma qualcosa di più profondo: una presenza concreta alimen‑
tata dalle allucinazioni collettive. Gli odori del paradiso, ritrasmessi dai beati, erano
avvertiti come reali da un’emotività impressionabile ed eccitata pronta a captare –
con una sensibilità oggi totalmente perduta – il sentore del soprannaturale, l’effluvio
dell’uranico, il sapore dell’ineffabile. Questa allucinata sensitività era un prodotto
diretto dell’altissimo grado di sacralità in cui era immersa la vita degli uomini, abituati
a forme di percezione e di conoscenza illogiche e irrazionali, ma fortunatamente bal‑
samiche e consolatorie, a loro modo euforizzanti, rilassanti, ansiolitiche. L’esperienza
del sacro (o del magico, che è quasi la stessa cosa) assorbita ora dopo ora, giorno dopo
giorno, a tavola, a veglia, sul lavoro, per strada, a letto, portava a forme di conoscenza

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fideistiche, a contatti e colloqui con l’impossibile e coll’ultrasensibile, cui era estra‑
nea la nozione sottile ma torturante, illuminante ma destabilizzante, di “ragione”. La
logica dei più sottili e melliflui maestri era lo strumento per giustificare l’ordine d’un
mondo costruito sull’irrazionalità della fede, sui miti paradossali di favole orientali o
sulle acrobazie funamboliche di teologi sognanti. Le suore di Montefalco che aprono
il cuore di Chiara credendo di trovarvi i misteri (gli strumenti miniaturizzati della
Passione); il vicario generale e i teologi che confermano il ritrovamento e sanzionano
con la loro autorità l’evento miracoloso si muovono dentro una ragnatela onirica di
allucinazioni collettive, sulla scena di una drammaturgia notturna e sanguinolenta. I
tre “globuli” rinvenuti nella vescica del fiele, “simbolo molto chiaro” – secondo la
scienza teologale – “del mistero ineffabile della santissima Trinità”, posti sulla bilan‑
cia furono trovati uguali di peso e di qualità (Camporesi, 1991: 10-11).

Camporesi parla di “allucinata sensitività”, di “forme di percezione e di


conoscenza illogiche e irrazionali”, di uomini che vivono immersi in “una
ragnatela onirica di allucinazioni collettive”, tutte espressioni che possono,
nella prospettiva che qui ci interessa, convergere nella nozione di sensorialità
collettiva. L’ambito sensoriale descritto sopra, d’altronde, non appare molto
diverso da quello, più noto agli antropologi, descritto da Evans-Pritchard (re‑
lativamente agli Azande, che abbiamo già ricordato):

Gli Azande ritengono che la stregoneria consista in una sostanza che risiede nel
corpo degli stregoni; una credenza che si riscontra in molti popoli dell’Africa centrale
e occidentale. (…) È difficile dire a quale organo gli Azande associno la stregoneria.
Io non ho mai visto sostanza umana stregante, ma mi è stata descritta come una pro‑
tuberanza o sacca di forma ovale e di colore nerastro… Essi affermano: è attaccata
all’estremità del fegato. Aprendo il ventre, basta perforarla perché la sostanza stregan‑
te schizzi fuori schioppettando.
(…) Gli Azande conoscono la collocazione della sostanza stregante, poiché in pas‑
sato veniva talvolta estratta con l’autopsia. Credo che si tratti dell’intestino tenue in
certe fasi della digestione. A suggerire che si tratti di questo organo sono le descrizioni
zande delle autopsie (Evans-Pritchard, 2002: 2).

I sensi sono localizzati: si percepisce solo ciò che si può localizzare entro
il quadro di riferimento della sensorialità collettiva. Naturalmente può essere
importante inoltre distinguere una sensorialità individuale e una sensorialità
collettiva. Anche se entrambe sono un fenomeno sociale; è una questione di
punto di vista:

It is principally through a subtle interplay between seeing and not seeing, and by
exploiting the gamut of possible incompatibilities between various types of sensa‑
tions, that interaction between the living and the dead seem to be judged to be either

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illusory or real. The dead who are deprived of sight, are determined to see the living
by using the eyes of the animals in which they are embodied. Failing this, they take
advantage of the nocturnal darkness to try to touch women without themselves being
seen yet at the same time without attempting to disguise their nature, which is revea‑
led by their behaviour (…).
All these different kinds of interactions between the living and the dead seem to be
organized around a series of oppositions between the continuity of the visual field and
the discontinuity of sonorous and tactile sensations (Descola, 1997: 372-3).

La vista è senza dubbio il nostro più potente canale sensoriale; tuttavia al


buio la vista non serve, è totalmente inutile. La continuità del campo visivo
si interrompe e noi entriamo in un mondo che ci spaventa, in cui siamo in
balia dei canali infidi del tatto e dell’udito, discontinui, sfuggenti. Qualcuno
in grado di muoversi silenziosamente al buio potrebbe toccarci, aggredirsi, e
noi non potremmo vederlo. Gli Jivarò dell’Amazzonia dell’Ecuador hanno
costruito un campo culturale di comunicazione fra i vivi e i morti in base
all’incrocio fra le continuità del campo visivo e le discontinuità delle sen‑
sazioni tattili e sonore. Dalla parte dell’individuo, infatti, la sensorialità è il
risultato della sua partecipazione alle dinamiche molteplici di gruppo; dalla
parte del gruppo, la sensorialità è una questione di distribuzione del sapere tra
i suoi membri. Quella individuale è tale solo perché è una combinazione unica
di differenti sensorialità collettive.
È legittimo pensare che sia in questo passaggio che il dato naturale, fisiolo‑
gico, le reazioni chimiche innestate dalle particelle che giungono in contatto con
la mucosa nasale (nel caso dell’olfatto), oppure dalle particelle che giungono in
contatto con le papille gustative (nel caso del gusto) acquisiscano le connotazio‑
ni culturali che fanno sì che, da una società all’altra oppure entro una medesima
società da un livello a un altro, sussistano differenze rilevanti nella valutazione
delle sensazioni; per esempio nel distinguere fra odori (o sapori) buoni vs cattivi.
Un’impostazione di questo tipo non solo apre la possibilità di un’analisi
antropologica dei sensi, ma anche quella di arrivare a una generalizzazione in
direzione di una teoria della cultura, poiché si presta allo studio dei processi di
trasmissione e di distribuzione della cultura in generale.

6. Problemi epistemologici

Il secondo senso dell’invisibilità sociale emerge da considerazioni più


epistemologiche. Davis Howes conclude l’introduzione a un volume che co‑
stituisce il primo tentativo di approfondire il tema della sensorialità da una

221
prospettiva antropologica (Howe, 1991), tracciando un parallelo fra il nucleo
tematico di un testo di Wole Soyinka (Jero’s Metamorphosis) e quello dell’an‑
tropologia dei sensi:

(…) Soyinka calls us to open our minds to the different meanings that different
senses have for different people; to resist the hegemony of the visual faculty (and the
imperialist order it supports); to respect other ways of combining the senses (instead
of dismissing them as nonsense); and, to recognize that the division of the world’s
cultures into two categories, literate and non literate, masks a far more interesting and
complex reality of multiple, conflicting sensory (and cognitive) models, which we
really ought to be exploring. That, very briefly, is also the call of the anthropology of
the sense (Howe, 1991: 19).

Il passo ci invita a liberarci dall’egemonia che la vista esercita da molto


tempo sulla nostra vita intellettuale; è noto che la visione è una potente me‑
tafora conoscitiva: la vista in molte culture esercita una funzione guida sugli
altri sensi nel processo di formazione della conoscenza (Marazzi, 2002; Fin‑
negan, 2008). In Melanesia è attestata da molti studi etnografici la rilevanza
della vista come canale cognitivo particolarmente rilevatore: i Gapun di Papua
Nuova Guinea, scrive Don Kulick (1992), sanno bene che la lingua – ciò che
le persone dicono – nasconde le cose, mentre il “vedere” – osservare ciò che
le persone fanno – rivela la verità. Analogamente, continua Kulick, le fonti
ritenute più attendibili dai Gapun per apprendere la dottrina cristiana sono le
illustrazioni relative ai vari aspetti della religione. Le persone non richiamano
mai come prova di un’affermazione di carattere religioso i testi liturgici, non
solo perché non li leggono, ma anche perché ritengono che i testi, come la
parola parlata, siano ambigui. Decisamente più affidabili dei testi sono anche
i disegni; ciò non solo perché i nativi di Gapun, come altri gruppi che han‑
no poca familiarità con le tecniche di rappresentazione bidimensionale, non
colgono la differenza fra fotografia e disegno. Ma la loro propensione per le
immagini deriva anche dalla premessa che il “vedere” qualcosa consenta di
conoscere questo qualcosa molto più a fondo.
Questo fatto, come lo stesso Kulick nota, è molto simile a quello sottoline‑
ato da Chagnon nel suo celebre studio sugli Yanomamo del Brasile (1968), per
i quali le illustrazioni (disegni) sono come le fotografie fatte dai preti o da altri
bianchi, anche quelle che fa l’antropologo con la sua macchina fotografica. Si
tratta comunque di rappresentazioni della realtà. Le immagini sono per i nati‑
vi prove non solo dell’esistenza di tali cose, ma anche del fatto che i bianchi
hanno accesso a quei posti e a quelle persone. Anche Remo Guidieri pone la
vista come senso guida dei Fataleka:

222
Che il vedere non sia considerato una semplice facoltà umana simile alle altre
è evidente già dalla definizione che ne danno i Fataleka, la quale come prima cosa
privilegia la vista rispetto agli altri sensi. Se è vero che la percezione non è mai una
semplice questione di sistematizzazione del campo del percepito, ma è piuttosto
una questione di dosaggi estremamente sottili dell’esperienza e della sua concet‑
tualizzazione, è vero altresì che in questo caso la percezione visiva viene investita
di attributi che le altre attività sensoriali non possiedono. Queste attività sono ca‑
talogate e gerarchizzate: la vista domina e controlla gli altri sensi e, posta com’è al
vertice della gerarchia, in certo modo legittima le sensazioni rendendole plausibili.
MAANA è “vedere”, come MAA è l’occhio o qualsiasi altra apertura che conduca
a un luogo chiuso (I MAA è l’apertura della casa maschile attraverso la quale si ac‑
cede all’interno; far visita si dice “vedere – raggiungere”, MAATOO; veder arrivare
qualcuno, MAANI DAO’ADA). L’aggiunta del suffisso verbale TAE (sollevare,
crescere, montare) alla categoria che designa la vista definisce un’attività altrettanto
cruciale, che possiede una qualità sensoriale tanto evidente quanto problematica.
Questa “vista che cresce”, che “s’innalza” (e alla quale viene associata l’idea di un
accumulo di precetti), MAANATAE (o MAANAYA), è precisamente la memoria
(Guideri, 1988: 93).

Il dato su Gapun, quello sugli Yanomamo, quello infine sui Fataleka avva‑
lorano l’ipotesi che presso i melanesiani sia diffusa la premessa secondo cui
la visione è ciò che decifra e il mondo e che la relazione fra apparenza super‑
ficiale e sostanza profonda è sempre oggetto di speculazione. È importante
però chiarire che non sono uguali il ruolo della vista nelle pratiche cognitive
melanesiane e il ruolo della vista come strumento di conoscenza in Occidente
(Foucault, 1975). Ciò che Kulik sottolinea è che la vista, rispetto agli altri
sensi, a Gapun è quella che fornisce alle persone il criterio più importante per
valutare i pensieri e le intenzioni.
In Occidente il primato della vista assume connotazioni specifiche poiché
deriva dall’invenzione dell’alfabeto e dal graduale processo di alfabetizzazio‑
ne della società, fenomeni che hanno avviato il passaggio da un’acquisizione
della conoscenza dominata dell’udito – la “parola” orale che si ascolta, come
la parola di Dio – a una cultura dominata dalla vista – allorché lo strumento
principale di trasmissione della conoscenza diventa la scrittura, poi la stam‑
pa, quindi la tecnologia elettronica (Cardona, 1986; Goody, 1989; McLuhan,
1991; Ong, 1986).

La vista ha poi aumentato il suo prestigio a partire dall’Illuminismo – termine


esso stesso del campo visivo – quando è diventata il senso dello studio, del pensiero,
della conoscenza e della scienza occidentali. Esiste pertanto un forte legame tra la
vista, il pensiero, la conoscenza, la scienza. Emerge – linguisticamente – dall’analisi
delle espressioni – a livello del lessico e della grammatica – attraverso cui è codifi‑

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cata l’esperienza visiva, che poi sono usate anche per caratterizzare le condizioni del
pensiero, della conoscenza, della scienza. Si pensi alla seguente terminologia: riflet‑
tere, illuminare, idea, punto di vista, supervisione, visione del mondo, panoramica,
osservazione, vedere chiaro, mettere in luce, essere o parlare chiaro/scuro, avere il
buio nella mente, lampo di genio, ragionamento brillante oppure opaco ecc. (Matera,
2005).

Viceversa esiste tutta una terminologia affine a quella appena ricordata che
affonda nell’esperienza tattile: comprendere, afferrare, ponderare, cogitare,
supporre, soppesare, espressioni – in parte meno usate – attraverso le quali il
processo cognitivo acquista connotazioni più vicine a un toccare l’oggetto da
conoscere che a un semplice osservarlo: forse perché c’è stato prima dell’af‑
fermarsi indiscusso della vista un binomio tatto-udito preponderante nella rap‑
presentazione dei processi cognitivi.
Naturalmente quello di Soyinka è un invito che vale anche per l’antropo‑
logia, i cui paradigmi dominanti risentono della metafora visiva non solo nel
senso classico del primato che la scienza empirica concede all’osservazione,
per cui le culture sono oggetti da osservare, ma anche nelle più recenti elabo‑
razioni, come quelle dell’antropologia interpretativa (con alla base la metafo‑
ra delle culture come testi, quindi oggetti che devono essere letti) e persino
nelle proposte dialogiche, come quelle di James Clifford:

Se le culture non vengono prefigurate visivamente – come oggetti, teatri, testi –


diventa possibile pensare a una poetica culturale che sia una relazione tra voci, tra
enunciazioni parziali (Clifford, Marcus, 1997: 35).

Il passaggio auspicato da Clifford è noto, quello dal paradigma visivo al


paradigma discorsivo, ed è senz’altro un passaggio importante, che nei ter‑
mini dell’antropologia dei sensi si configura come il passaggio dall’occhio
che osserva e descrive all’orecchio che ascolta le voci che si levano durante
la ricerca etnografica (cfr. anche Tedlock, 2002). Entrambe le prospettive,
tuttavia, sono alla fine centrate sulle parole. Ciò, secondo la prospettiva di
Howe (1991; Classen, 1993; Stoller, 1997; Finnegan 2008) è insufficiente;
occorrono, per colmare le carenze cognitive dell’antropologia, dei passaggi
ulteriori.

Thus, the shifts from the ocular to the oral must be accompanied by a further
shifts, which takes in the gustatory, olfactory, and tactile modalities as well. With the‑
se other senses in mind, it becomes possible to think of cultures as contrasting in terms
of the distinctive patterns to the interplay of the senses they present (Howe, 1991: 8).

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Tutto questo, in termini di epistemologia antropologica, conduce a deline‑
are nuovi ambiti di ricerca empirica, sulla base di alcune considerazioni. Per
esempio quelle per cui:
–– l’articolazione sensoriale, essendo culturale, non è identica in tutte le so‑
cietà;
–– le differenti articolazioni e gli incroci sinestesici possono portare a diffe‑
renti trame socio-culturali, appunto a dare senso a quel livello invisibile
(perché percepibile attraverso altre modalità sensoriali inedite) che acco‑
muna chi condivide particolari storie, particolari esperienze;
–– all’antropologia si presenta il problema di come dar senso, appunto, a
eventuali sconosciute modulazioni di percezione multisensoriale e modali‑
tà di mettere in ordine (o di scardinare) il mondo.
Non è nuovo alla cultura occidentale, d’altronde, il richiamo a sovvertire le
modalità consuete di conoscenza, di esplorazione del mondo, proprio attraver‑
so un esaltazione delle molteplici potenzialità sensoriali ed è fin troppo scon‑
tato, ma pur sempre illuminante a tal riguardo, il richiamo alle corrispondenze
dei poeti “maledetti”.
Facendo attenzione alle maniere sociali di esaltare, preferire, o ignorare
alcuni sensi rispetto agli altri (il tatto o l’odore, il gusto oppure l’udito) e al si‑
gnificato culturale di queste modalità, si potrebbero scoprire inediti percorsi di
ricerca e di riflessione. Come ci ricorda Ruth Finnegan, per esempio, in fatto
di gerarchie sensoriali un ruolo molto influente è quello svolto dall’ideologia.
Così, il tatto e l’olfatto sono per noi i canali sensoriali dai quali passano le
forme meno “nobili” della comunicazione, quelle più “animali”, metaforica‑
mente ma anche letteralmente: altre specie animali si annusano, si strofinano,
entrano in contatto, ed è proprio per prendere le distanze (ideologiche) da
queste forme così “animali” di comunicazione e di percezione che la comuni‑
cazione umana formale (quella che ci contraddistingue in quanto specie “elet‑
ta”), ed educata passa attraverso la vista e l’udito, i canali della parola, orale e
scritta, che è lo strumento più razionale di espressione del pensiero. Questa è
“natura”, oppure è ideologia?
La letteratura etnografica ancora ci offre molti esempi su cui riflettere a
questo proposito: i suya del Brasile per dire “mi è chiaro” usano un’espressio‑
ne che suona più o meno come “c’è l’ho nelle orecchie”; l’”ascoltare denso”
è il principio che guida il loro ordinamento del mondo, proprio come il nostro
“osservare attentamente” (Classen, 1993). Analoghi principi “uditivi” sono
alla base dell’ordinamento del mondo e delle attività – del sapere – essenziali
per la sopravvivenza fra gruppi di cacciatori subartici: “sentire le voci”, i ru‑
mori, i suoni dell’ambiente circostante è molto più importante che osservarlo

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semplicemente per la buona riuscita della caccia (Ridington, in Matera, 1997).
I paez della Colombia ritengono che la scrittura trasmetta un sapere freddo,
falso, impersonale, sfuggente rispetto al vero sapere, trasmesso oralmente at‑
traverso la parola detta e udita (Rappaport, 1987).
La strada delle “corrispondenze” sensoriali ci indica così nuovi ambiti per
la ricerca empirica, ma anche nuove prospettive teoriche. Infatti:

What if exists different forms of reasoning, memory, and attention for each of
the modalities or faculties of consciousness (seeing, smelling, speaking, hearing etc.)
instead of reasoning, memory, and attention being general mental power? (Howe,
1991: 10).

Cogliere la suggestione di Howe significa porre in questione – relativiz‑


zandone la portata – le modalità stesse del pensiero logico-scientifico, ipotiz‑
zare, sulla scia dei lavori di Gardner sull’intelligenza multipla (1985), che si
possa pensare non solo per immagini e parole, ma anche per suoni, sensazioni
tattili, olfattive e di altro tipo. Non che non ci siano studi anche importanti in
queste direzioni3, e tuttavia si tratta ancora di ambiti marginali, perché, al di là
dell’entusiasmo suscitato da alcune ipotesi, il sapere che conta è ancora quello
che passa attraverso la scrittura.

3
  Si veda, per una rassegna molto articolata, Finnegan (2008).

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