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RF linguaggio

Abstract. If we want to reflect philosophically on Language it is necessary to differentiate the


concept of language as communication and the concept of language as a philosophical problem in
itself: human beings do not speak, but are spoken by Language, and we can only listen to
Language by listening to its silence. This second point of view on language entails many
consequences, like psychoanalytic theorizations which considers human beings as a speaking
beings. This condition of instinctual lacking in human beings (theirs condition of dependence on
the Other) makes language a way to have social recognition, which realizes itself upon founding
the institutions. The Law formalizes the social relations as symbolic recognizing. In the
"communication society" the role of Language (also as Law) in the human beings’ life is reduced
more and more as a function of administrative and commercial transactions, entailing a
degradation of social links.

La morte non è
Nel non poter comunicare
Ma nel non poter più essere compresi
(Pasolini, 1964, p. 113).

Secondo Heidegger (1959, pp. 29-30) la riflessione filosofica sul linguaggio non può non prendere
le mosse da un’iniziale e fondamentale presa di distanza di natura metodologica dalle diverse
discipline (dalla linguistica alla psicologia) che si occupano del linguaggio. Se esse infatti tendono
sostanzialmente a definirlo come un sistema di segni utili a veicolare dei significati (che
corrisponde alla concezione più diffusa) la filosofia si occupa del linguaggio in se stesso. Pur
riconoscendo il valore di tali discipline, la riflessione filosofica deve poterne prescindere, deve cioè
poter porre tra parentesi il dato del senso comune secondo il quale si parla per dire qualcosa,
trasmettere un messaggio (ivi, p. 30). La concezione del linguaggio come comunicazione considera
lo stesso su un livello di esteriorità1, rispetto alla quale la riflessione filosofica deve dunque
astrarre.
Nella prospettiva filosofica heideggeriana il linguaggio in se stesso è portatore di un’intrinseca
connotazione ontologica. Il parlare infatti non è semplicemente l’espressione di un messaggio tra
due esseri dotati di parola, ma fonda l’essere stesso delle cose di cui esso parla: la parola è già in sé
cosa di per se stessa (Heidegger, 1959b, p. 151). Colto in tale prospettiva, come qualcosa di più di
un semplice strumento in dotazione agli esseri umani per condividere esperienze, il linguaggio
(Λογος) si rivela essere legato all’atto del posare (λέγειν), al puro stare-dinnanzi delle cose
(Heidegger, 1954b, p. 145-146). Il linguaggio è legato alla presentazione delle cose in un «posare-
raccogliente», e, per questo motivo, può esser colto in tale valenza ontologica da un preciso tipo di
ascolto: ascoltare il silenzio del linguaggio significa andare ben oltre il semplice battere meccanico
del suono sul timpano. Il linguaggio, in quanto Λογος, richiede cioè un ascolto che si differenzia
dall’udire (“sordo”) del vivere quotidiano:

1
«La parola greca che corrisponde al nostro “linguaggio” è ϒλῶσσα, la lingua. Il linguaggio è φωνή σημαίντική,
un’emissione di suono che designa qualcosa. Questo modo di pensare il linguaggio come espressione, che è bensì
corretto, ma che lo considera dall’esterno, rimane in seguito determinante. Lo è ancora oggi. Il linguaggio è considerato
espressione e viceversa. Ogni specie di espressione tende ad essere considerata come una specie di linguaggio. [...]
Eppure una volta, all’inizio del pensiero occidentale, l’essenza del linguaggio balenò nella luce dell’essere. Una volta,
quando Eraclito pensò il Λογος come parola- guida, per pensare in questa parola l’essere dell’essente» (Heidegger,
1954b, p. 156).
“non me”, cioè questo individuo che parla, non il suono del suo discorso voi dovete ascoltare.
Voi non udite affatto autenticamente fino a che i vostri orecchi rimangono attaccati soltanto
al risuonare e al fluire di una voce umana per afferrare in essa una frase che faccia al caso
vostro. Eraclito inizia la sua sentenza con un richiamo contro l’udire esercitato per il puro
piacere dell’udito. Ma questo avvertimento si fonda su una indicazione che orienta verso
l’udire autentico (ivi, p. 147).

È in questo orientamento dell’udire come ascoltare che si può cogliere nel linguaggio il
riferimento alle cose stesse, e non in quanto significati o messaggi in cui il rappresentato è già dato
in una prefigurazione offerta nella medietà del senso comune. In tale udire vi è qualcosa di più: il
linguaggio parla e in quanto Λογος pone l’essere delle cose in se stesse, «l’essere dell’essente».
Ciò che quindi farebbe la differenza nel concepire filosoficamente il linguaggio è il punto di ascolto
di esso, donde deriva che non è tanto l’uomo a parlare quanto piuttosto il linguaggio (Heidegger,
1959c, p. 200).

Il linguaggio e l’essere parlante


Quella di distinguere tra la concezione del linguaggio come parlante e come strumento di
comunicazione è un’operazione fondamentale che diventerà un principio cardine anche nella
teorizzazione psicoanalitica di Lacan2, che non a caso tradusse in francese lo scritto Logos di
Heidegger. A partire da queste coordinate filosofiche la comprensione psicoanalitica del linguaggio
assume un valore differente rispetto a quella meramente psicologica, esso viene concepito cioè non
come semplice strumento di mediazione tra singoli ma piuttosto come tessuto che organizza e
struttura le relazioni sociali (Gurgel, 2009, p. 167), soprattutto a partire dalla funzione della parola
come atto di riconoscimento fondamentale del soggetto.
In questo senso Lacan descrive il rapporto che l’essere umano intrattiene con il linguaggio in
termini di “campo”, cioè come luogo entro il quale l’essere parlante è calato già fin da prima della
sua nascita biologica (che è quindi successiva alla sua nascita simbolica). Riflessioni che porteranno
lo psicoanalista a dire che l’inconscio, cioè ciò che abita l’umano nella maniera più profonda e
radicata, è strutturato come un linguaggio3.
Si vede bene come sia nella prospettiva filosofica heideggeriana che in quella psicoanalitica
lacaniana il linguaggio vada ben oltre la pura e semplice comunicazione tra individui4, quali

2
«Lacan si sbarazza così di ogni concezione ingenua, psicologistica, del linguaggio: il linguaggio non si esaurisce
affatto in una facoltà soggettiva che si acquisisce evolutivisticamente mediante l’esperienza e la memoria. All’opposto,
l’idea di Lacan sostiene non che l’uomo impari a parlare ma che è il linguaggio che parla l’uomo, nel senso che l’essere
dell’uomo dipende strutturalmente dall’orizzonte del linguaggio. Il linguaggio non è dunque un mero strumento della
comunicazione ma è un campo, una rete, una struttura che determina il soggetto. È questo il carattere “primordiale” che
Lacan, come per Heidegger, non è l’uomo che parla, ma il linguaggio; è il linguaggio che fa l’uomo» (Di Ciaccia,
Recalcati, p. 45).
3
Riguardo tale concezione del linguaggio come campo di strutturazione relazionale che precede la nascita del soggetto
stesso anzi la permette al livello simbolico è ben esemplificato da quanto Lacan dice a proposito dell’ignoranza della
legge penale: «Si presume che nessuno ignori la legge, - questa formula trascritta dall’humor di un Codice esprime
peraltro la verità di cui la nostra esperienza si fonda e che conferma. Nessun uomo l’ignora infatti, poiché la legge
dell’uomo è la legge del linguaggio da quando le prime parole di riconoscimento hanno presieduto ai primi doni […]»
(Lacan, 1966, pp. 264-265). Si veda ancora a questo proposito Gurgel, 2009, pp. 167-168.
4
«Ce sujet conscient, maîtrisant, fait la différence entre linguistique et psychanalyse. Leurs terrains épistémologiques
sont distincts. Les linguistes et les psychanalystes “écoutent” certes des paroles, mais de façon différente. Les premiers
cherchent à décrire des langues, à construire une théorie scientifique de leur fonctionnement. Leur souci est
l’objectivité, le général, suivant en cela le chemin aristotélicien. Aussi pour-chassent-ils “tout” subjectivité, alors que les
psychanalystes la revendiquent dans l’écoute associative et que leur but consiste non en une théorie du langage mais de
l’Incoscient» (Houdebine, 2005, pp. 987-988).
soggetti che si scambiano, in piena coscienza e consapevolezza, messaggi e significati, quasi come
si trattasse di merci5. L’uomo è piuttosto parlato dal linguaggio e, anzi, è traumatizzato fin nel
corpo dal significante. Un rapporto che in psicoanalisi è spesso sintetizzato con il gioco di parole
motérialité (Lecoeur, 2016, p. 33), quale sintesi di parola e materia, per indicare l’effetto materiale
che hanno le parole sul soggetto, sul suo corpo (la parola è già cosa).
Quanto l’uomo sia segnato dal linguaggio si nota sin dalle prime fasi dello sviluppo infantile. Sin
dalla nascita l’uomo è gettato in uno stato di incompletezza biologica e carenza istintuale che lo
rendono estremamente dipendente dal proprio ambiente, ciò obbliga l’infans a costruirsi degli
strumenti per esprimere le proprie necessità e a indirizzarle all’Altro da cui dipende in maniera
totale (Romano, 1989, p. 178). In tale stato di dipendenza già il vagito, il pianto, il grido diventano
delle forme primordiali di comunicazione, fino a che la parola non si istaura come rappresentazione
di qualcosa che manca (simbolo), come domanda rivolta all’altro rispetto ad un proprio appetire
che tuttavia già nell’essere comunicato è mancato. La domanda così mediata dalla parola si sazia
non dell’oggetto che essa potrebbe ottenere come risposta ma del gesto stesso di risposta da parte
dell’Altro (cioè del significante). Così il linguaggio fin dal principio possiede l’uomo nei suoi
bisogni, dai quali questi risulta sempre essere decentrato: le sue domande non chiedono
soddisfazione specifica in un oggetto ma veicolano un desiderio, il quale a sua volta si soddisfa
della propria insoddisfazione, di quel vuoto che corrisponde al desiderio stesso che è il desiderio
dell’Altro. La dipendenza fondamentale che chiede accudimento diviene così, nella mediazione
simbolica del linguaggio, domanda di riconoscimento (Romano, 2002, p. 34). In questo senso il
linguaggio è per l’uomo ben più che comunicazione, esso è la cifra stessa del proprio desiderare,
cioè (nel riconoscimento) del proprio esser soggetto e, quindi, del proprio stare al mondo.
A partire da tale strutturazione del rapporto tra soggetto e linguaggio si rileva come quest’ultimo
funga da operatore delle relazioni interpersonali garantendo una funzione di terzietà, di
mediazione e garanzia simbolica della relazione. L’effetto di riconoscimento e regolazione delle
relazioni sociali assume consistenza specifica nell’istituzione della Legge, quale organizzazione
della soggettività in rapporto alla struttura sociale. Un luogo simbolico in cui il soggetto trova un
proprio orientamento nel vivere sociale, organizzando il proprio agire e desiderare entro
l’orizzonte del Terzo (l’Altro della Legge e del linguaggio):

la nozione di ordine simbolico […] significa che l’animale parlante intrattiene con il mondo un
legame di identità/alterità e che ogni soggetto intrattiene con sé un legame della stessa natura. Così
precisato, il simbolico comporta l’idea di un elemento di costrizione, caratteristico della struttura
linguistica (Legendre, 2007, p. 49).

Linguaggio e società
Così, se il linguaggio è la struttura che impernia l’umano nella relazione sociale, facendolo con ciò
nascere come soggetto di fronte alla Legge, il diritto ne è per certi versi l’oggettivazione. Nella
funzione di reférence (cioè rimando infinito dell’autorità simbolica ad un altro: “in-nome-di”) il
diritto istituisce formalmente la funzione di terzietà, garanzia del riconoscimento del soggetto
come titolare di desideri-diritti. In tale organizzazione sociale, afferma Legendre, il soggetto nasce
all’interno del mondo sociale e ciò gli permette di avanzare una domanda di riconoscimento di sé
come essere parlante desiderante.

5
«[…] è più importante ricordare che questa ideologia del soggetto-cosciente ha costituito la filosofia implicita della
teoria dell’Economia Politica classica, e che Marx ha criticato proprio la sua versione “economica”, rifiutando l’idea di
“homo economicus”, secondo la quale l’homo è il soggetto cosciente dei propri bisogni e questo soggetto-di-bisogno è
l’elemento ultimo e costitutivo di ogni società» (Althusser, 1993, p.215).
Un’organizzazione che tuttavia viene messa sempre più in crisi nella società contemporanea
dall’operazione di riduzione del diritto a mero strumento amministrativo, il che erode il suo
statuto genealogico (cioè la sua fondazione simbolica nella forma di “a-nome-di”). La visione
tecnico-scientifica del diritto riduce l’organizzazione della struttura simbolica, garanzia del
riconoscimento, a mera funzionalità tecnica, utile a regolare unicamente i rapporti individuali
entro un contesto di scambi commerciali svuotati dell’orizzonte di significato (Romano, 2002, p.
125). Un processo di degradazione del diritto da garante del riconoscimento a mera
amministrazione funzionale dei rapporti di soggetti di mercato “indipendenti”, che conduce già in
sé una visione pre-filosofica (pre-heideggeriana) del linguaggio quale mero strumento di
comunicazione, veicolo di messaggi. Il diritto così nella sua degradazione da ordine simbolico ad
astratta operatività porta con sé, sincronicamente, una degradazione al livello sociale del
linguaggio stesso. Nella dimensione del mercato globale il vivere sociale tende sempre più ad
essere amministrato secondo una modalità economicistica, in cui il linguaggio diffuso è sempre più
di natura tecnica e avalutativa (ivi, p. 125). Il sapere tecnico che impregna e desertifica l’universo
simbolico muta il linguaggio da evocante (col suo rimandare ad un orizzonte di senso) a numerico
(ivi p. 202), riducendosi così a veicolo di disposizioni amministrative e contabili. Il numero
sostituisce la lettera, per cui il linguaggio non organizza più il riconoscimento soggettivo ma
diviene mera cifra che comunica se stessa. In altri termini si tratta di un linguaggio e di un diritto
che si auto-fondano e si auto-giustificano in nome della propria funzionalità e non in quanto
genealogia dell’autorità simbolica (per usare un termine legendriano) (Avitabile, p. 349).
Nello perdita del valore di riconoscimento simbolico del linguaggio, la società occidentale
contemporanea si delinea come “società della comunicazione”, cioè una società in cui il linguaggio
è ridotto a veicolo pubblicitario, strumento per comunicare ed eseguire transazioni commerciali,
cifra numerica per indicare il prezzo di un prodotto, il saldo da pagare (Romano, 2002, p. 125). Un
mondo in cui l’individuo riscopre la propria assoluta libertà privata, privata anche del terreno del
riconoscimento che ne garantirebbe l’effettiva realizzazione (Honneth, 2001). Il desiderio del
singolo, lasciato libero dalle costrizioni che i vincoli sociali e simbolici che di per sé operano
(Legendre, 2007, p. 49), non si realizza in una pretesa di carattere normativo ma precipita nella
condizione di appetito, di bisogno soddisfatto dall’oggetto di consumo (Romano, 2002, p. 124-125).
Nella società della comunicazione si ha a che fare con individui liberi ma privi di autentica
autonomia (Perniola, 2004, p. 52), si tratta cioè di “io”, di soggetti atomistici in una relazione
casuale tra loro e privi di mediazioni simboliche. Per questa ragione anche il compito della
psicoanalisi assume un connotato differente rispetto a quello che avrebbe potuto assumere
precedentemente, esso cioè «non consiste nell’adattare le persone allo statu quo sociale e
comunicativo, ma semmai nel ristabilire la loro relazione con l’ordine simbolico» (ibidem).
Nella degradazione simbolica del linguaggio la società della comunicazione, quale società degli
scambi economicamente orientati, realizza il massimo del potenziale tecnico, lo stesso che
Heidegger (1954, p. 21) designa «minaccia» per l’uomo: essa lo distoglie dal raccoglimento, gli
impedisce cioè di ascoltare nel silenzio del linguaggio l’essere delle cose.

Riferimenti bibliografici
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Cortina, Milano, 1994.
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Di Ciaccia A., Recalcati M., Jacques Lacan. Un insegnamento sul sapere dell’inconscio, Bruno
Mondadori, Milano, 2000.
Gurgel I., Linguaggio, in “attualità lacaniana. Rivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi”, n. 10,
2009, pp. 167-169.
Heidegger M. (1954), trad. it. Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 2014.
- (1959), trad. it. In cammino verso il Linguaggio, Mursia, Milano, 1973.
Houdebine A.-M., voce “Linguistique et psychanalyse”, in de Mijolla A. (a cura di), Dictionnaire
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Honneth A. (2001), trad. it. Il dolore dell’indeterminato, una attualizzazione della filosofia politica di
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