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INTRODUZIONE

Alla base delle scienze cognitive vi è l'idea che uno dei modi per indagare la natura di un dato
fenomeno (che cos'è qualcosa), consiste nell' analisi delle condizioni che rendono possibile quel
fenomeno (come funziona qualcosa).
In questo libro vengono discussi due modelli teorici del linguaggio. Un primo modello che
identifica le facoltà verbali con la competenza grammaticale (da questo punto di vista, comprendere
e produrre il linguaggio equivale a comprendere e produrre frasi sintatticamente ben formate.
Un secondo modello che individua nelle competenze di natura pragmatica gli aspetti essenziali della
comunicazione umana (in questa prospettiva ciò che conta ai fini della comprensione e produzione
linguistica è l'appropriatezza contestuale dei proferimenti verbali).
(continua..)

MODELLI TEORICI
Il primato della competenza: la biolinguistica chomskiana
A partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento, la teoria della grammatica generativa di
Chomsky ha dominato la ricerca linguistica. Due sono i nodi concettuali principali che stanno a
fondamento di questa teoria: la centralità assegnata alla sintassi e il primato della frase. Se
analizziamo:
Alla base del modello chomskiano, vi è l'idea che nella mente cervello vi sia uno specifico organo
mentale: la facoltà di linguaggio.
Che cos'è esattamente questo organo?
Per rispondere dobbiamo esaminare la distinzione di Chomsky tra la competenza (competence) e
l'esecuzione (performance).
La competenza è la conoscenza implicita che il parlante-ascoltatore ha del linguaggio
L'esecuzione è l'uso effettivo del linguaggio in situazioni concrete
Importante è ricordare che secondo Chomsky, la competenza è indipendente dall'esecuzione

Il compito del linguista:


1. Deve costruire la grammatica di una lingua particolare; vale a dire deve fornire una teoria di
quella lingua. Subito dopo, a partire dalle regole che governano quella lingua, egli prova a costruire
un insieme di regole che valgono per qualsiasi lingua. Quando riesce in questa operazione allora
egli ha costruito una grammatica universale (GU).
2. Il linguista deve fornire una spiegazione del perchè i fatti della grammatica sono nel modo
in cui sono
I principi della GU sono entità di natura psicologica: riflettono il modo in cui la mente/cervello
acquisisce ed elabora il linguaggio. Dunque, nella prospettiva chomskiana il linguaggio coincide
con
la GU. Nella prospettiva chomskiana la frase è l'essenza del linguaggio.

Dal linguaggio del pensiero al modello del codice


Dal punto di vista concettuale, la tesi chomskiana poggia su uno sfondo teorico di carattere più
generale: la concezione secondo cui il pensiero ha una struttura proposizionale.
Aderendo a tale concezione, Fodor (1975) sostiene che gli umani pensano utilizzando una forma d
linguaggio, il linguaggio del pensiero LDP
saltato

Quando la competenza risiede nell'esecuzione: il primato della pragmatica


In molti casi il modello fondato sul significato letterale non è in grado di spiegare i reali processi
di comprensione linguistica. La grammatica lascia non specificati molti aspetti dell'interpretazione
di
un enunciato. Nelle situazioni d'uso effettivo è il riferimento al contesto extralinguistico che gioca
un ruolo chiave nella comprensione degli enunciati.
Non è possibile sostenere che il significato letterale di una frase corrisponde strettamente ai pensieri
comunicati dall'enunciato che la esprime: c'è un gap tra la rappresentazione semantica di una frase e
l'interpretazione dell'enunciato proferito.
Ammettere l'esistenza di questo gap, vuol dire non credere all'assunto della stretta identità tra
pensiero e linguaggio. Allora come possiamo spiegare la comunicazione umana?
Dobbiamo cercare la risposta in un altro modello del linguaggio diverso da quello di Chomsky.
Da un modello che era fondato sulla sintassi, dobbiamo passare ad un modello fondato sulla
pragmatica.
Searle (1974) sottolinea come le conoscenze relative all'uso del linguaggio debbano essere collocate
sullo stesso piano delle conoscenze che permettono di formare frasi sintatticamente ben formate.
Ma
l'analisi delle patologie del linguaggio ci mostra come questa non sia una condizione sufficiente
perchè la buona riuscita della comunicazione dipende da molteplici attività che non sono riducibili
solo all'analisi della struttura in costituenti dell'enunciato.
Dobbiamo considerare la dimensione pragmatica del linguaggio prioritaria rispetto alla dimensione
grammaticale. Dobbiamo allora passare alla discussione di uno dei modelli pragmatica più influenti
all'interno della scienza cognitiva: la teoria della pertinenza.

La comunicazione ostensivo-inferenziale
La teoria della pertinenza proposta da Sperber e Wilson (1986) è un modello pragmatico della
comunicazione umana legato allo studio delle capacità cognitive. I metodi adottati sono infatti
quelli della psicologia cognitiva. A fondamento di tale teoria della pertinenza vi sono alcune
intuizioni
del filosofo Grice (1957-1968). Alla base del modello di Sperber e Wilson vi è l'idea di Grice
secondo
cui la caratteristica essenziale della maggior parte della comunicazione umana è l'espressione e il
riconoscimento di intenzioni. Centrale al riguardo è la distinzione tra il significato dell'enunciato
(il
significato letterale) e il significato del parlante (il significato con cui il parlante usa l'enunciato).
Sperber e Wilson concepiscono la comunicazione umana come un processo di produzione e
riconoscimento delle intenzioni comunicative. Essi propongono un "modello ostensivo-
inferenziale"
in cui il parlante fornisce all'ascoltatore solo un indizio della sua intenzione di comunicare e
l'ascoltatore comprende il significato dell'indizio. In uno scambio comunicativo di questo tipo sono
in gioco due tipi di intenzione:
1. un'intenzione informativa
2. un'intenzione comunicativa

Che cosa governa però il buon esito di questa operazione? Sperber e Wilson sostengono che la
risposta a questa domanda stia nella nozione di pertinenza:
la pertinenza di uno stimolo per un individuo è la proprietà in grado di determinare quale
informazione particolare riceverà l'attenzione di quell'individuo in un dato momento.
Tale proprietà si definisce attraverso due nozioni:
1. l'effetto cognitivo
2. lo sforzo di elaborazione

Il grado di pertinenza di un'informazione è quindi il rapporto inversamente proporzionale tra lo


sforzo di elaborazione necessario per processare quell'informazione e l'effetto cognitivo che si
ricava dalla sua elaborazione.
Secondo la teoria della pertinenza, l'interpretazione di un indizio linguistico avviene in due fasi: una
fase di decodifica e una fase inferenziale.
Rimane da capire quali sono i dispositivi cognitivi che rendono possibile una comprensione di
questo genere.
Secondo i teorici della pertinenza (Sperber, Wilson), la comunicazione ostensiva.inferenziale è resa
possibile dalla teoria della mente: la capacità cognitiva che permette di rappresentare mentalmente
gli stati mentali.
Difficoltà esplicative del modello ostensivo-inferenziale: la pertinenza e *manca*

PERDERE LE PAROLE
Microanalisi e macroanalisi del linguaggio

A un livello generale, l'analisi del linguaggio si articola in due dimensioni: una dimensione
microelaborativa e una dimensione macroelaborativa.
La dimensione microelaborativa riguarda l'analisi delle relazioni tra gli elementi interni
all'enunciato ed è composta dai livelli di elaborazione fonetica, fonologica, morfofonologica,
morfologica..., tali livelli, a loro volta, costituiscono il livello di elaborazione lessicale e il livello di
elaborazione frasale.
La dimensione macroelaborativa è relativa all'analisi delle relazioni esterne tra enunciati nel
discorso ed è costituita da due livelli intrecciati tra loro: il livello dell'elaborazione pragmatica e
quello dell'elaborazione discorsiva.
La distinzione tra questi due livelli è rilevante anche per lo studio e la classificazione delle patologie
del linguaggio. Ad esempio si possono osservare casi in cui ad essere compromessa è
esclusivamente
l'elaborazione sintattica oppure prevalentemente la dimensione pragmatica e di conseguenza è
possibile elaborare strategie riabilitative mirate. La discussione dei disturbi del linguaggio prende
avvio dalle afasie.

La natura dell'afasia: il modello classico


Il termine “afasia” denota un disturbo centrale del linguaggio con alterazioni più o meno gravi delle
abilità legate alla comprensione e/o produzione di fonemi, parole o frasi, conseguenti a lesioni
cerebrali. L'afasia non dipende da problemi di natura articolatoria o uditiva (cioè da sistemi
periferici) ma da alterazioni funzionali che interessano il sistema cognitivo alla base
dell'elaborazione
linguistica. Insorgono generalmente in età adulta. Le manifestazioni cliniche dell'afasia sono
molteplici, complesse e dipendono da diversi fattori.

Gli studi di Paul Broca e la nascita dell'afasiologia


Il documento più antico in cui si descrive la perdita delle capacità linguistiche a causa di una lesione
cerebrale è un papiro egiziano risalente al 1700 a.C.
La nascita dell'afasiologia risale al 1861, anno in cui il medico francese Paul Broca tenne una
relazione e descrisse il caso di un paziente di 51 anni di nome Leborgne. Leborgne, per vent'anni,
dal
giorno del suo ricovero in ospizio fino alla sua morte, fu in grado di pronunciare solo due sillabe,
“Tan Tan”. Il paziente aveva perso la capacità di parlare all'età di 30 anni, ma le sue abilità di
comprensione del linguaggio erano rimaste intatte. Nei primi anni Leborgne comunicava attraverso
i
gesti, dopo dieci anni però, i muscoli del braccio andarono incontro ad un indebolimento che si
trasformò in una completa paralisi dell'arto superiore. Broca ipotizzò che i suoi problemi fossero
dovuti a una lesione cerebrale localizzata nell'emisfero sinistro e l'autopsia lo confermò. Questa
zona
del cervello (modernamente corrisponde alle aree di Brodmann), è stata successivamente
denominata
in modo eponimico area di Broca.
Pochi mesi dopo, il medico francese conobbe un altro paziente, Lelong, di anni 84, che a causa di
un ictus avuto l'anno precedente, riusciva a pronunciare solo cinque parole. Dopo la sua morte,
l'esame autoptico rivelò che anche il cervello di Lelong presentava una lesione nella regione del
lobo frontale laterale sinistro.
Sulla base di queste osservazioni, Broca sostenne di aver individuato la localizzazione della facoltà
del linguaggio articolato. I pazienti avevano perso la facoltà di coordinare i movimenti propri del
linguaggio articolato. L'idea di Broca era che l'area lesionata fosse la sede dei programmi
articolatori
che attivano le zone che regolano l'attività dei muscoli facciali e la cavità orofaringea nella
produzione
del linguaggio. Tale disturbo fu denominato da Broca afemia, successivamente sostituito con afasia
da Trousseau.
Col tempo, Broca ebbe modo di studiare altri pazienti con disturbi del linguaggio e lesioni
nell'emisfero frontale sinistro. Così nel 1865 presentò la sua seconda scoperta, ovvero il fatto che
“noi parliamo con l'emisfero sinistro”. Questo costituì un dato rivoluzionario poichè tutto il
pensiero
Classico aveva invece considerato la simmetria come la forma più alta di organizzazione.

Gli studi di Carl Wernicke: l'afasia sensoriale


Un decennio dopo gli studi di Broca, il neurologo tedesco Carl Wernicke riuscì a localizzare, in una
porzione dell'area temporale dell'emisfero sinistro, un secondo aspetto specifico della funzione
linguistica: la comprensione del linguaggio articolato. Wernicke (1874) pubblicò una breve
monografia intitolata Il complesso sintomatico afasico. Uno studio psicologico su base anatomica,
nella quale propose un modello dell'organizzazione del linguaggio del cervello.
Il primo caso clinico è quello di Susanne Adam; la donna all'età di 59 anni accusò un improvviso
mal di testa, vertigini ed espressione verbale confusa. La donna non era in grado di comprendere ciò
che le veniva detto e aveva perso la capacità di leggere e scrivere. A dispetto di ciò la paziente si
comportava in modo normale. Tuttavia, con il passare del tempo Susanne Adams andò incontro ad
un progressivo miglioramento riuscendo a recuperare quasi del tutto il linguaggio (ma non la
completa capacità di scrivere).
Un altro caso è quello di Susanne Rother , di 75 anni; ella rispondeva in modo sbagliato alle
domande, non era in grado di eseguire gli ordini correttamente e presentava un vocabolario limitato.
Alla sua morte venne effettuata un'autopsia che evidenzi la presenza di una lesione in alcune
circonvoluzioni del lobo temporale sinistro, regione definita successivamente area di Wernicke.
Nello specifico, il neuropsichiatra elaborò un modello anatomo-funzionale. Secondo tale modello,
la
lesione di uno e di entrambi i centri del linguaggio e delle fibre responsabili del loro collegamento
porta a disturbi tra loro differenti. Un danneggiamento al centro delle immagini sensoriali è
all'origine
dell'afasia sensoriale (definita afasia di Wernicke).

Il modello Wernicke-Lichtheim-Geschwind
Il lavoro di Wernicke ha dato origine ad un modello che ha dominato la neuropsicologia del
linguaggio per oltre un secolo. Tale modello è stato rielaborato, in un primo momento, da Ludwig
Lichtheim (1885) e in un secondo momento da Normann Geschwind (1965) ed è oggi conosciuto
come modello Wernicke-Lichtheim-Geschwind.
Lichtheim ha ipotizzato l'esistenza, oltre ai due centri del linguaggio (uditivo e motorio) individuati
da Wernicke, di un centro di immagazzinamento dei concetti, per il quale non ha fornito però una
localizzazione precisa.
Il modello Wernicke-Lichtheim è stato successivamente rielaborato da Geschwind, il quale ha
avanzato una teoria associazionistico-connessionistica ponendo l'accento sul fatto che un danno alle
aree del linguaggio nell'emisfero sinistro, o alle loro interconnessioni, costituisca la causa primaria
delle afasie. Punto di partenza dalle osservazioni di Geschwind è rappresentato dall'osservazione di
alcune importanti differenze anatomiche tra le strutture cerebrali dei non umani e degli esseri
umani.
In base a queste osservazioni, Geschwind ha ipotizzato che il processo di comprensione uditiva
prenda avvio nella corteccia uditiva primaria. Da qui i suoni vengono successivamente inviati
all'area di Wernicke.
Il modello del linguaggio Wernicke-Lichtheim-Geschwind altro non è che la versione anatomo-
funzionale del modello del codice. Il modello del codice assume una stretta equivalenza tra pensiero
e linguaggio e descrive la comunicazione verbale come un processo di codifica-decodifica.
Il modello Wernicke-Lichtheim-Geshwind patisce le stesse difficoltà che caratterizzano il modello
della codifica. Tale difficoltà sono riassumibili in due punti: il primato assegnato al significato
letterale e il conseguente tentativo di liberare la comunicazione da tutte le impurità dovute al
contesto di enunciazione.

CLASSIFICAZIONE DELLE AFASIE


La Boston Group Classification
Il modello Wernicke-Lichtheim-Geschwind ha rappresentato una base eccellente per l'elaborazione
di una tassonomia delle afasie che va sotto il nome di Boston Group Classification. Tale tassonomia
suddivide le afasie in riferimento a due criteri fondamentali:
1. Le caratteristiche delle produzioni linguistiche del paziente (che danno luogo ad afasie
fluenti e non fluenti).
2. La localizzazione della lesione (afasie corticali, sottocorticali e transcorticali).

Nel caso delle afasie fluenti a essere compromessa è generalmente la comprensione del linguaggio,
mentre l'eloquio appare relativamente scorrevole, sebbene caratterizzato da parafasie fonologiche,
parafasie semantiche, parafasie verbali, fino ad arrivare a casi più gravi di gergo neologistico.
Le afasie fluenti sono anche associate ad anosognosia.
Nel caso delle afasie non fluenti la comprensione è relativamente preservata, mentre l'eloquio è
lento, telegrafico e caratterizzato da agrammatismo, come accade nell'afasia di Broca. I pazienti
affetti da afasia non fluente tendono anche a presentare paralisi del braccio e/o della gamba destra.
A seconda della lesione, distinguiamo: afasie corticali, transcorticali e sottocorticali.
Le afasie corticali sono dovute a lesioni che interessano porzioni della superficie dell'emisfero
sinistro. Vi rientrano le afasie di Broca, di Wernicke e l'afasia di conduzione; altre tipologie sono
l'afasia anomica (caratterizzata da eloquio spontaneo fluente e grammaticalmente ben formato ma
con frequenti pause) e l'afasia globale (è la forma più grave di afasia, è dovuta ad ampie lesioni
nell'area perisilviana del cervello con interessamento delle aree di Broca e di Wernicke. Nei pazienti
affetti da questa forma di afasia risultano compromesse sia la produzione sia la comprensione).
Le afasie transcorticali sono determinate da lesioni in aree lontane dalla scissura di Silvio; se ne
distinguono tre tipi: transcorticale motoria, mista e sensoriale.
Le afasie sottocorticali sono causate da lesioni in strutture collocate al di sotto della corteccia
cerebrale, ad es. i gangli della base o il cervelletto. I sintomi delle afasie sottocorticali possono
variare notevolmente in funzione della localizzazione della lesione.
Il modello di classificazione di Luria
La classificazione delle sindromi afasiche proposta da Luria, rappresenta il prodotto di un lavoro
basato sulle teorie psicologiche di Lev Vygotskij e sull'opera del linguista saussuriano Roman
Jakobson.
Il lavoro di Jakobson (1941) si fonda sull'assunto che la funzione linguistica vada intesa come un
complesso di livelli di organizzazione funzionale diversi. Secondo il linguista russo i disturbi afasici
possono essere definiti in riferimento a:
– la selezione di certe entità linguistiche
– la loro combinazione in unità linguistiche più complesse
Luria riprende l'analisi condotta da Jakobson e la inserisce in una prospettiva neuropsicologica al
fine di verificare l'esistenza di eventuali meccanismi neurofisiologici alla base della dicotomia
jakobsoniana selezione/combinazione. Attraverso le sue indagini cliniche Luria conferma l'esistenza
di differenti basi neurali per i due processi teorizzati da Jakobson. In particolare, secondo il
neuropsicologo russo, lesioni nelle parti anteriori dell'emisfero sinistro producono un
deterioramento dell'organizzazione sintagmatica (combinazione) della comunicazione linguistica,
mentre l'organizzazione paradigmatica (selezione) è relativamente preservata. Al contrario, lesioni
delle aree corticali posteriori dell'emisfero sinistro danno luogo a un'alterazione dell'organizzazione
paradigmatica a differenti livelli, mentre l'organizzazione sintagmatica rimane conservata.
Sulla base di osservazioni di questo tipo, Luria individua prevalentemente sei sottotipi di afasie:
– efferente motoria
– afferente motoria
– sensoriale
– acustico-mnestica
– semantica
– dinamica

Riassumendo, nella prospettiva di Luria il linguaggio è il prodotto dell'attività di diversi sistemi


funzionali tra loro indipendenti. L'esecuzione di una data funzione richiede l'attività coordinata di
numerose aree distribuite nel cervello. Importante da rilevare è il fatto che il neuropsicologo russo
ammette la possibilità che una stessa area cerebrale possa essere coinvolta in più funzioni
comportamentali.

Il modello classico alla luce delle moderne neuroscienze


Anche se il modello Wernicke-Lichtheim-Geschwind continua ad essere utilizzato come base per la
classificazione delle sindromi afasiche, le ricerche moderne neuroscientifiche mettono in
discussione alcuni dei suoi nodi concettuali relativamente alle due afasie classiche, quella di Broca
e quella di Wernicke. Le attuali ricerche mostrano che pur essendo ancora possibile continuare a
classificare tali afasie come disturbi, rispettivamente, della produzione e della comprensione del
linguaggio, non è però più possibile continuare a sostenere (come vorrebbe il modello classico) la
localizzazione cerebrale di tali disturbi a livello delle (sole) aree di Broca e di Wernicke.

Area di Broca: un concetto obsoleto?


A partire dagli studi di P. Broca, per molto tempo si è unanimemente sostenuto che la produzione
linguistica fosse controllata dall'area di Broca. Tuttavia, dalle ricerche degli ultimi decenni è emerso
un elemento importante: la corrispondenza tra nozione neuroanatomica di area di Broca e la nozione
clinica di afasia di Broca non è così lineare come per molto tempo si è ritenuto. Questo per due
motivi collegati:
– Il problema della localizzazione anatomica e del corrispondente ruolo funzionale dell'area di
Broca
– I sintomi associati all'afasia di Broca si manifestano a seguito di lesioni che interessano
regioni più ampie del cervello
Diversi studi hanno messo in discussione la nozione funzionale classica di “area di Broca” (= area
di produzione del linguaggio).
Le osservazioni hanno fatto sì che venisse ridefinito anche il concetto classico di “afasia di Broca”.
Tradizionalmente l'afasia di Broca è caratterizzata da due deficit fondamentali:
- il disturbo motorio
- l'agrammatismo

Studi condotti con le nuove tecniche hanno, però, mostrato che lesioni circoscritte alle aree BA44 e
BA 45 generano sintomi transitori e da sole non sono sufficienti a produrre i disturbi della classica
afasia di Broca. Perchè si osservino tali disturbi, oltre alle lesioni nelle aree BA 44 e BA 45, devono
essere presenti anche lesioni nell'insula, nella corteccia motoria inferiore e nella sostanza bianca
sottostante il giro frontale inferiore. Per tale ragione, Benson e Ardila hanno introdotto l'espressione
“afasia di Broca minore” (nei casi di lesioni localizzate nella sola area di Broca).
I dati oggi a nostra disposizione mostrano, dunque, che non esiste una localizzazione unanimamente
accettata di area di Broca.
Anche gli studi di neuroimmagine funzionale condotti su soggetti sani evidenziano la necessità di
abbandonare l'idea dell'area di Broca come quella della produzione del linguaggio. Tali studi
suggeriscono che la produzione linguistica, piuttosto che essere circoscritta in un'unica regione
corticale, poggia su un network distribuito di regioni cerebrali corticali e sottocorticali collocate sia
nell'emisfero sinistro sia in quello destro.

Il ruolo dell'area di Wernicke nell'elaborazione del linguaggio


I problemi contraddistinguono anche l'area di Wernicke.
L'espressione “area di Wernicke” non può più essere utilizzata per fare riferimento a zone cerebrali
critiche per la comprensione del parlato.
L'attuale dibattito verte soprattutto sulla sua localizzazione anatomica. Tale problema ha origine
quando Wernicke (1874) presenta graficamente il suo modello del linguaggio, disegnando un
piccolo puntino nel giro temporale superiore sinistro. Leggendo il testo di Wernicke, risulta
chiaramente che egli non intendeva ridurre in un solo punto il luogo specifico dell'elaborazione
linguistica. Ma diversi autori, presa sul serio l'indicazione puntiforme, hanno continuato a
considerare in modo riduzionistico la proposta di Wernicke, altri invece no.
Nel corso del tempo diversi studiosi hanno incluso nell'area di Wernicke altre aree.
Ad ogni modo gran parte delle moderne discussioni sulla localizzazione anatomica dell'area di
Wernicke è stata influenzata dal lavoro di Geschwind, il quale ha enfatizzato il ruolo determinante
della parte posteriore del giro temporale superiore sinistro nell'afasia sensoriale. Secondo
Geschwind, infatti, una lesione di tale porzione del lobo temporale sarebbe la causa dei sintomi
associati all'afasia di Wernicke.
Se le lesioni nel giro temporale superiore sinistro non sono la causa dei disturbi di comprensione
che si osservano nell'afasia sensoriale, quali sono le aree cerebrali danneggiate nei casi di disturbi di
comprensione caratterizzanti l'afasia di Wernicke? Le evidenze neuroscientifiche mostrano che i
disturbi di comprensione possono essere causati da lesioni che interessano diverse aree corticali
posteriori e frontali, e in alcuni casi anche regioni sottocorticali.
La comprensione semantico-lessicale, poggia su un network distribuito di regioni cerebrali,
collocate sia all'interno del lobo temporale sinistro sia al suo esterno.
Piuttosto che la classica area di Wernicke (BA 22 e BA 40), dunque, è il giro temporale medio
sinistro (BA 21) a svolgere un ruolo importante nella comprensione del linguaggio, nello specifico
nella comprensione delle frasi. Nel complesso, l'insieme degli studi riportati suggerisce un forte
ridimensionamento del modello neuropsicologico classico Wernicke-Lichtheim-Geschwind.

Conclusioni
In questo capitolo sono state esaminate le afasie. In particolare, due principali sindromi afasiche:
l'afasia di Broca e quella di Wernicke.
Grazie alle ricerche di Paul Broca e di Wernicke, a partire dalla seconda metà del XX secolo è stato
possibile costruire un modello anatomo-funzionale del linguaggio: il modello Wernicke-Lichtheim-
Geschwind. Tale modello dà conto del linguaggio facendo appello al funzionamento di due
principali
“centri” di elaborazione: il centro della produzione, localizzabile nell'area di Broca, e il centro della
comprensione, nell'area di Wernicke.

INCHIODATI AL SIGNIFICATO LETTERALE


I modelli teorici del linguaggio non riescono a dar conto in maniera adeguata dei reali processi di
elaborazione linguistica. I processi che permettono la produzione e la comprensione di frasi
grammaticalmente ben formate non garantiscono una comunicazione efficace. Dobbiamo spostare
l'attenzione dai processi che permettono la produzione di frasi ben formate ai processi che
permettono di usare gli enunciati nei contesti comunicativi, ciò equivale a spostare l'attenzione da
un modello del linguaggio fondato sulla grammatica a uno fondato sulla pragmatica.
La pragmatica clinica
La nascita della pragmatica clinica presenta forti analogie con la svolta pragmatica in filosofia del
linguaggio.
Sulla scia della riflessione filosofica, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, clinici e ricercatori
hanno iniziato a maturare la convinzione che anche la valutazione e il trattamento dei disturbi del
linguaggio dovessero essere studiati in riferimento alla loro dimensione pragmatica.
A partire dai primi anni Novanta del secolo scorso, nella letteratura clinica sulla comunicazione dei
traumatizzati cranici si è gradualmente fatta strada la convinzione che le analisi sintattiche e
lessicali non fossero sufficienti a spiegare le difficoltà nell'uso del linguaggio da parte di questi
pazienti.
La nuova enfasi clinica sulla pragmatica ha, dunque, portato alla nascita e alla progressiva
affermazione della pragmatica clinica come vero e proprio paradigma di ricerca.
Approfondendo: dobbiamo sottolineare l'enfasi posta sul linguaggio.
Dobbiamo distinguere tra disturbi pragmatici acquisiti e disturbi pragmatici dell'età evolutiva.
Dobbiamo sottolineare il ruolo che i fattori cognitivi e linguistici hanno nella pragmatica. Il
riferimento ai fattori linguistici è importante per distinguere i deficit primari dai deficit pragmatici
secondari.

Disturbi pragmatici dell'età evolutiva: il disturbo dello spettro autistico


Il disturbo dello spettro autistico (ASD) è uno dei più comuni disturbi del neurosviluppo. La
diagnosi
di ASD viene effettuata in presenza dei seguenti sintomi:
1. Deficit continui nel tempo nella comunicazione e nell'interazione sociale in vari contesti
2. Schemi di comportamento, interessi o attività ristretti e ripetitivi

La diagnosi di ASD viene effettuata in presenza di due sintomi del dominio sociale (a) e uno del
dominio dei comportamenti stereotipati (b). Tali sintomi devono essere presenti nelle fasi iniziali
dello sviluppo.
Per quanto riguarda la severità del disturbo, il DSM-5 individua tre livelli di gravità:
- livello 3, per il quale è necessario un supporto molto significativo
- livello 2, per il quale è necessario un supporto significativo
- livello 1, per il quale è necessario un supporto

Il DSM-5 include nell'ASD anche la sindrome di Asperger.


Il problema dell'eziologia dell'ASD non è stato ancora completamente risolto. Tuttavia, c'è un
ampio
consenso sul fatto che l'autismo debba essere considerato il prodotto di una complessa interazione
tra fattori genetici, neurobiologici, ambientali e psicologici.
Diversi studi hanno rilevato che, rispetto ai soggetti a sviluppo tipico, nelle persone con ASD la
circonferenza della testa è maggiore e il cervello è più pesante. Altre ricerche hanno suggerito che
sull'insorgenza dell'autismo possa contribuire anche l'agenesia (il mancato sviluppo) del corpo
calloso, un insieme di fibre nervose che connettono i due emisferi del cervello e che hanno un ruolo
di primo piano nella trasmissione di informazione sensoriale, motoria e cognitiva.

Teorie psicologiche dell'autismo


L'obiettivo delle teorie psicologiche dell'autismo è di fornire una spiegazione funzionale dei disturbi
comportamentali osservabili nelle persone affette da questa sindrome.
A un livello generale, la caratteristica principale delle spiegazioni funzionali è di scomporre le
capacità mentali in rappresentazioni e processi.
Con rappresentazione mentale si intende un costrutto teorico con il quale si identifica “una struttura
di informazioni, codificata in qualche modo nella nostra testa, che media le risposte di un agente
agli stimoli sensoriali”. La mente si configura quindi come un insieme di processi di elaborazione
delle informazioni.
Negli ultimi trent'anni sono state proposte tre teorie psicologiche per dar conto dei deficit
comportamentali caratteristici dell'ASD:
1. TEORIA DELLA MENTE
2. COERENZA CENTRALE DEBOLE
3. FUNZIONI ESECUTIVE.

1. Teoria della mente


Con l'espressione teoria della mente ci si riferisce alla capacità cognitiva che permette di
rappresentare mentalmente gli stati mentali (ad esempio, le credenze e i desideri) propri e altrui. Lo
studio della capacità di lettura della mente è nato intorno a un paradigma sperimentale noto come
“test della falsa credenza” (Wimmer, Perner, 1983). La versione più famosa (Baron-Cohen, Leslie,
Frith, 1985) è quella della versione di Sally e Anne. I bambini al di sotto dei 4 anni di età
generalmente falliscono questo test dimostrando in questo modo di non riuscire a distinguere la
situazione attuale da essi percepita dalle credenze (false) che altri possono avere circa ciò che non
hanno visto. I risultati sembrano indicare che solo a partire dai 4 anni di età il bambino è capace di
rappresentare lo stato mentale di un'altra persona. Tuttavia, studi hanno mostrato che anche bambini
più piccoli sono in grado di rappresentare gli stati mentali altrui e di attribuire agli altri credenze
false.
Gli esperimenti sulla teoria della mente condotti sui bambini con ASD tramite l'utilizzo del test
della falsa credenza hanno mostrato che, quelli con autismo ottengono prestazioni
significativamente inferiori.
Dai risultati è emerso che la maggior parte dei bambini con sviluppo tipico e con sindrome di Down
forniva la risposta corretta alla domanda che richiedeva di ragionare sullo stato mentale di Sally
(“dove cercherà la biglia Sally?), mentre solo 4 bambini con ASD, su un totale di 20, erano in grado
di superare il test della falsa credenza.
Un altro test impiegato è il “test degli Smarties” (Perner, 1989). Dai risultati di questo esperimento
è emerso che, come nel test di Sally e Anna, i bambini di 4 anni fornivano una risposta corretta alla
domanda di previsione, mentre solo 4 dei 23 bambini con ASD erano in grado di prevedere
correttamente il comportamento di un'altra persona.
I deficit nella teoria della mente danno conto dei disturbi sociali e comunicativi tipici dell'autismo.
Tali deficit sono caratteristici di tutti gli individui con diagnosi di ASD, indipendentemente dall'età
e dal grado di capacità, sebbene si possano osservare diversi livelli di gravità.
Nei casi più gravi, la comprensione degli stati mentali altrui è del tutto assente.

2. Coerenza centrale debole


L'espressione “coerenza centrale” denota i processi di codifica percettiva e d'interpretazione
dell'input sensoriale.
Secondo la teoria della forma (o teoria della Gestalt), l'elaborazione della configurazione
complessiva di un oggetto è prioritaria rispetto alla percezione delle parti che lo costituiscono.
Vediamo l'esempio di un test delle figure nascoste: quando si guardano figure di questo tipo, in
effetti, le forme grandi, con linee che si intersecano, si impongono inevitabilmente: è come se ci
fosse una forza che tiene insieme le varie parti componenti di un'immagine in un tutto coeso. Tale
forza costituisce la coerenza centrale. Quando è molto forte, la coerenza centrale è responsabile
della difficoltà a vedere la figura emergere dall'insieme. Una coerenza centrale debole, al contrario
può facilitare l'individuazione delle forme nascoste nell'immagine globale (esempio carrozzina).
Secondo Frith (1989), le persone con autismo hanno una coerenza centrale debole. Diverse ricerche
sperimentali hanno mostrato che gli individui con ASD sono in grado di individuare le immagini
nascoste molto più rapidamente dei soggetti neurotipici dei gruppi di controllo.
Risultati simili si osservano anche attraverso il “test dei cubi”. La previsione è che gli individui
con una coerenza centrale forte avranno maggiore difficoltà a comporre le figure; al contrario i
soggetti con una coerenza centrale debole saranno in grado di segmentare la forma grande e di
riprodurre la figura.
I soggetti con ASD, in virtù della maggiore capacità di vedere le parti nell'intero, ovvero di prestare
maggiore attenzione ai dettagli, riuscivano significativamente meglio nel test rispetto al gruppo dei
bambini con sviluppo tipico e al gruppo dei bambini con ritardo dell'apprendimento.
Secondo Frith (1989), le persone con ASD, a causa di una ridotta coerenza centrale, hanno una
percezione frammentata delle azioni e degli stimoli uditivi, visivi e linguistici. Una coerenza
centrale debole come suggerito da Happé costituisce uno “stile cognitivo” piuttosto che un vero e
proprio deficit.
3. Funzioni esecutive
L'espressione “funzioni esecutive” (FE) è un termine che comprende un'ampia gamma di processi
di
elaborazione e capacità cognitive.
La maggior parte degli studiosi caratterizza le FE come i processi di ordine superiore necessari per
guidare il comportamento verso un obiettivo in contesti non abituali (non di routine) e in situazioni
complesse e conflittuali.
Secondo Lezak (1982), le FE permettono di formulare obiettivi, di pianificare e portate a termine i
piani in modo efficace. Per Fuster le FE sono necessarie per organizzare temporalmente
comportamenti finalizzati, linguaggio e ragionamento.
L'idea generale che emerge è che le FE siano implicate nella programmazione e nella messa in atto
di comportamenti orientati a uno scopo.
Un ruolo chiave è giocato da alcune componenti specifiche delle FE quali la pianificazione, il
monitoraggio dell'azione, la flessibilità cognitiva, l'inibizione e la memoria di lavoro.
Fra le teorie psicologiche dell'autismo, vi è quella che propone che esso sia caratterizzato da un
deficit delle FE.
La prima ricerca empirica che ha indagato la relazione tra FE e autismo è stata condotta da
Rumsey (1985); tale ricerca ha analizzato la flessibilità cognitiva in persone adulte con autismo
tramite l'utilizzo di un classico test neuropsicologico: il Wisconsin Card Sorting Test (WCST).
Dalla ricerca di Rumsey è emerso che il gruppo con ASD eseguiva il WCST in modo
significativamente peggiore rispetto al gruppo di controllo. In particolare, le persone con autismo
commettevano frequentemente errori di perseverazione nonostante il feedback negativo dato
dall'esaminatore. Tali errori sono un segno della difficoltà che essi hanno nel cambiare obiettivo,
spostando in modo flessibile il focus da un compito all'altro.
Oltre alla flessibilità mentale, un'altra componente delle FE che pare deficitaria nell'autismo è la
capacità di inibizione. Capacità valutabile con diversi test come ad esempio il test Go/No-Go e Stop
al segnale.
Da alcune ricerche effettuate su soggetti con autismo è emerso che essi fanno registrare
performance peggiori rispetto ai gruppi di controllo in entrambi i test.
È bene evidenziare che gli studi che hanno indagato la relazione tra autismo e FE non sono
caratterizzati da risultati omogenei: molte ricerche non hanno riscontrato differenze nell'esecuzione
dei test di FE tra le prestazioni dei soggetti con autismo e le performance dei gruppi di controllo.
Questo sembrerebbe indicare, quindi, che non tutti gli individui con ASD presentano disturbi nel
dominio del funzionamento esecutivo.

Autismo e comunicazione
I problemi nella sfera della comunicazione costituiscono una delle caratteristiche centrali dell'ASD.
Le persone con autismo presentano, infatti, deficit comunicativi sia nella sfera verbale sia in quella
non verbale. Tra i deficit comunicativi di natura verbale, frequentemente si riscontrano difficoltà
nelle abilità pragmatiche. Come abbiamo visto nel capitolo 1, nella comunicazione è fondamentale
mettere in atto operazioni che permettano di sganciarsi dal significato convenzionale dell'enunciato
e cogliere l'intenzione comunicativa del parlante. Gli individui con ASD hanno enormi difficoltà in
operazioni di questo tipo: essi rimangono inchiodati al significato letterale delle espressioni verbali.
Dagli esempi (libro), si vede l'incapacità da parte dei soggetti con autismo di cogliere l'intenzione
comunicativa del parlante.
Secondo diversi studiosi, tale incapacità è imputabile a un deficit di teoria della mente. Le
intenzioni comunicative sono, infatti, rappresentazioni mentali dei pensieri altrui e, in quanto tali,
sono elaborate dal dispositivo di mindreading. Poiché le difficoltà di comunicazione degli autistici
evidenziano la dipendenza della comprensione dalla capacità di attribuire stati mentali agli altri, la
teoria della pertinenza (Sperber, Wilson, 1986) si rivela particolarmente “adatta”.
Uno dei primi studi che ha analizzato i disturbi pragmatici dell'autismo alla luce del framework
teorico della pertinenza è la ricerca di Happé (1993) in cui la studiosa ha indagato la relazione tra le
abilità di teoria della mente e le capacità di comprensione del linguaggio figurato in persone con
ASD. La ricerca prevedeva due fasi:
In una prima fase il gruppo degli ASD è stato suddiviso in tre sottogruppi sulla base dei risultati
ottenute nei test di teoria della mente (TOM)
- 6 soggetti gruppo TOM di primo-ordine
- 6 soggetti gruppo TOM di secondo-ordine
- 6 soggetti gruppo no TOM

Nella seconda fase i tre sottogruppi di ASD sono stati sottoposti a compiti di comprensione di
similitudini, metafore e ironie. Secondo la teoria della pertinenza di Sperber e Wilson (1986), le
similitudini vengono comprese a un livello puramente letterale. La previsione di Happé era che il
sottogruppo no TOM sarebbe stato in grado di elaborarle.
La comprensione di metafore, invece, presuppone una comprensione delle intenzioni altrui. La
previsione di Happé era che il sottogruppo no TOM non sarebbe stato in grado di elaborarle.
Infine, la comprensione dell'ironia richiede una metarappresentazione di secondo ordine (poiché
l'ironia gioca sulla rappresentazione tra il pensiero del locutore e il pensiero di un terzo). Secondo la
previsione di Happé (1993), nessuno dei tre sottogruppi di soggetti con ASD sarebbe riuscito a
elaborare le frasi ironiche.
Il protocollo sperimentale prevedeva due condizioni:
- una prima in cui venivano paragonate la comprensione delle similitudini e la comprensione
delle metafore
- una seconda in cui l'elaborazione delle metafore era messa a confronto con l'elaborazione
dell'ironia.

I risultati dell'esperimento hanno confermato le previsioni di Happé. Nel complesso i risultati


dell'esperimento di Happé portano acqua al mulino della teoria della pertinenza e avvalorano
l'ipotesi che i deficit della capacità di mentalizzazione abbiano un ruolo nelle difficoltà pragmatiche
delle persone con autismo.
I risultati di questa prima ricerca di Happé sono stati confermati anche in studi successivi. Ad
esempio negli studi di Martin e McDonald (2004) i quali hanno indagato la capacità di comprendere
gli enunciati ironici nelle persone affette da autismo attraverso un esperimento in cui venivano
narrate storie che includevano espressioni metaforiche ed ironiche.
Secondo gli autori dell'esperimento, i risultati di questo studio confermano che “l'abilità di inferire
gli stati mentali altrui gioca un ruolo significativo negli individui con ASD nell'interpretazione del
significato non letterale, come l'ironia.
Altre ricerche hanno indagato la possibilità che le disfunzioni pragmatiche dell'ASD siano
imputabili, in parte, anche a problemi di coerenza centrale (ad esempio Joliffe, Baron-Cohen,
1999a,1999b). In particolare, i problemi nella coerenza centrale spiegherebbero, secondo alcuni
autori, le difficoltà che le persone con autismo hanno nell'utilizzare il contesto per l'interpretazione
degli enunciati. I risultati del loro studio hanno mostrato che il gruppo degli individui con ASD
aveva
maggiori difficoltà rispetto al gruppo di controllo (formato da soggetti a sviluppo tipico) nel dare
giustificazioni contestualmente appropriate dei proferimenti dei personaggi delle storie.
Infine, alcune ricerche hanno mostrato che anche il deficit nelle FE gioca un ruolo nelle disfunzioni
pragmatiche osservabili nell'autismo (ad esempio, Landa, Goldberg 2005, Akbar, Loomis, Paul
2013). Akbar, Loomis e Paul hanno analizzato la relazione tra abilità linguistiche, sia strutturali sia
pragmatiche, e FE in 62 bambini con ASD. Dai risultati è emersa una correlazione tra la capacità di
memoria lavoro e le abilità pragmatiche.
Nel complesso, i risultati discussi in questo paragrafo evidenziano le difficoltà delle persone con
autismo nell'utilizzo del linguaggio a fini comunicativi. Gli studiosi sono, in effetti, concordi nel
ritenere che queste difficoltà di natura pragmatica costituiscano una caratteristica universale
dell'ASD.

Disturbi pragmatici dell'età evolutiva: il disturbo della comunicazione sociale (pragmatica)


Il disturbo della comunicazione sociale (pragmatica) (DCSP) è un disturbo del neuro-sviluppo
caratterizzato, secondo il DSM-5 da difficoltà nell'uso sociale della comunicazione verbale e non
verbale continue nel tempo. La diagnosi di DCSP viene fatta in presenza dei seguenti sintomi:
1. Deficit nell'uso della comunicazione per il conseguimento di scopi sociali con modalità
appropriate al contesto sociale
2. Difficoltà a modificare gli atti comunicativi per renderli adeguati al contesto e alle esigenze
dell'ascoltatore;
3. Difficoltà a seguire le regole della conversazione e della narrazione
4. Difficoltà a comprendere ciò che non viene detto esplicitamente e a cogliere i significati
ambigui e non letterali delle parole.

Secondo il DSM-5 affinché vi possa essere una diagnosi di DCSP, tali sintomi non devono
dipendere da altre manifestazioni mediche o neurologiche.
L'etichetta “disturbo della comunicazione sociale (pragmatica) è stata introdotta recentemente con
la pubblicazione nel 2013 del DSM-5 ma la storia della sindrome che tale etichetta descrive ha
origine negli anni Ottanta del Novecento; diverse sono le nominazioni che sono precedute.
Rapin e Allen (1983) sono stati tra i primi ricercatori ad aver introdotto l'espressione “sindrome
semantico-pragmatica”. Secondo Rapin e Allen la sindrome semantico-pragmatica é caratterizzata
da sintomi quali: deficit di comprensione del discorso, verbosità, deficit di accesso lessicale,
risposte convenzionali stereotipate, scarsa coerenza narrativa. La dimensione della sintassi e
l'articolazione verbale non appaiono, invece, deficitarie.
I problemi linguistici che si osservano in tale sindrome sono, pertanto, caratterizzabili come deficit
primari. Diversamente da quanto indicato nel DSM-5, secondo questa prima caratterizzazione di
Rapin e Allen, la diagnosi di sindrome semantico-pragmatica non é circoscritta agli individui con
disordini del linguaggio dell'età evolutiva, ma può essere applicata anche a persone con
caratteristiche dell'autismo o affette da altri disturbi con eziologie note.
Qualche anno più tardi, Bishop e Rosenbloom (1987) hanno proposto una nuova descrizione dei
disturbi della sfera pragmatica introducendo l'etichetta “deficit semantico-pragmatico”. Tale
etichetta identifica i bambini con difficoltà a comprendere e seguire le regole conversazionali e con
un linguaggio non appropriato ai fini comunicativi. Questa etichetta viene applicata solo nei casi di
un deficit specifico nel linguaggio pragmatico e non può essere utilizzata nel caso dell'autismo o in
presenza di un disturbo con eziologia nota.
Questa etichetta é stata a sua volta modificata da Bishop (1998), secondo la studiosa, ulteriori

ricerche avrebbero mostrato che i problemi semantici non costituiscono un sintomo centrale di tali
deficit, venne quindi sotituita con l'etichetta: “deficit pragmatico del linguaggio”. Inoltre, secondo la
studiosa, il deficit pragmatico del linguaggio, poichè può co-occorrere con disturbi del linuguaggio
strutturale, si situerebbe lungo un anti continuum (?) tra la sindrome dello spettro autistico e il
disturbo specifico del linguaggio (DSL).
Con DSLsi indica un disturbo evolutivo del linguaggio non direttamente attribuibile ad alterazioni
neurologiche o ad anomalie di meccanismi fisiologici dell'eloquio, a compromissioni sensoriali, a
ritardo mentale o a fattori ambientali. Tale espressione ne descrive un insieme di quadri clinici
molto eterogenei , caratterizzati da un disordine nella comprensione e/o produzione linguistica in
una o più componenti, quali la fonologia, semantica, sintassi e pragmatica.
Le principali teorie riconducono questo disturbo a cause di natura genetica, neurobiologica e
neuropsicologica.
Le teorie neurobiologiche ipotizzano che il DCSP possa essere dovuto a un'anomalia nell'emisfero
destro del cervello.
Le teorie neuropsicologiche suggeriscono l'esistenza in questa popolazione di un deficit di
<em>mindreading</em> che, come abbiamo visto, è un problema caratteristico anche
dell'autismo.</p>
<p>3.3.1 Caratteristiche della comunicazione verbale nel DCSP</p>
<p>Uno dei sintomi comportamentali principali del DCSP è 'incapacità di comunicare per
conseguire
scopi sociali.
Secondo Murphy, Faulkner e Farley (2014), caratteristiche conversazionali di questo tipo
testimoniano le difficoltà dei bambini con DCSP a condividere informazioni con le altre persone a
causa di ridotte abilità di attenzione condivisa, necessari sono anche i diversi fattori extralinguistici.
Tale valutazione sembra essere problematica per i soggetti con DCSP.
I bambini con DCSP tendono ad avere difficoltà anche nella comprensione delle espressioni
idiomatiche. Kerbell e Grunwell (1998b) hanno analizzato la comprensione idiomatica in un gruppo
di bambini con DCSP di età compresa tra i 6 e gli 11 anni. Le performance di questo gruppo sono
state messe a confronto con altri due gruppi (uno sviluppo tipico e uno problemi linguaggio). Dai
risultati è emerso che il gruppo con DCSP produceva, rispetto agli altri due, maggiori
interpretazioni idiomatiche inappropriate.
Alcune ricerche mostrano che i bambini con DCSP hanno problemi in un'altra abilità pragmatica
fondamentale: la capacità inferenziale. Tale capacità permette di dedurre le informazioni necessarie
per la corretta comprensione di una frase.
Adams, Clarke e Haynes (2009) hanno indagato la capacità inferenziale in bambini con DCSP, in
bambini con DSL e in bambini a sviluppo tipico.
Dai risultati è emerso che i bambini con DCSP avevano maggiore difficoltà a rispondere
correttamente alle domande di comprensione inferenziale.
Le ricerche effettuate sul profilo cognitivo del DCSP non sono molte. Poichè i deficit che si
osservano nel DCSP sono molto simili a problemi comunicativi che caratterizzano l'autismo, alcuni
autori hanno ipotizzato che tali deficit siano imputabili a problemi di teoria della mente. Questa
ipotesi ha trovato conferma in un recente studio condotto da Freed e colleghi (2015). è stato
effettuato il test delle Strange Stories su un gruppo di bambini con DCSP e un gruppo di bambini a
sviluppo tipico.
Dai risultati è emerso che il gruppo di bambini con DCSP aveva un punteggio significativamente
inferiore rispetto al gruppo di controllo. Un simile dato è indicatore del fatto che i bambini con
DCSP hanno difficoltà a elaborare gli usi non letterali del linguaggio. I dati di questo studio
lasciano supporre he alcuni dei problemi pragmatici dei bambini con DCSP siano imputabili a un
deficit di teoria della mente. È opportuno sottolineare che una conclusione di questo tipo non è nè
esaustiva nè definitiva perchè:
- la ricerca sui correlati cognitivi dei problemi linguistici nel DCSP è esigua (?)
- Perchè è possibile fornire spiegazioni alternative dei dati appena discussi.</p>
<p>La relazione fra la teoria della mente e le abilità linguistiche non è sempre unidirezionale, cioè
non
necessariamente un deficit nella capacità di mentalizzazione determina un problema di linguaggio.
È pertanto possibile ipotizzare che i problemi di <em>mindreading</em> nel DCSP costituiscano
un effetto
secondario dei problemi linguistici che caratterizzano tale sindrome.</p>
<p>3.3.2 DCSP e ASD: differenze e somiglianze
Il DCSP presenta molti elementi in comune con il disturbo dello spettro autistico: entrambi sono
caratterizzati da:</p>
<ul>
<li>difficoltà conversazionali;</li>
<li>Uso di un linguaggio stereotipato e ripetitivo;</li>
<li>Deficit marcati in diversi pattern di comportamento non verbale.
Tali comunanze sono e sono state oggetto di numerose ricerche. Vi sono diverse ipotesi; vi è
l'ipotesi di coloro che sostengono la presenza, in alcuni casi, di un'eziologia comune tra DCSP e
ASD e che ritengono, non possibile differenziare il DCSP dall'autismo (es. Brook, Bowler). Vi è poi
lìipotesi di coloro che sostengono che i bambini con DCSP non hanno un disturbo dello spettro
autistico (anche se condividono diversi aspetti) (es. Adams, Simkin..) → a sostegno di questa
ipotesi vi sono i risultati di ricerche che hanno portato alla luce differenze tra i due; tra queste il
fatto che i deficit pragmatici del linguaggio che si osservano del DCSP non co-occorrono con i
problemi nella sfera sociale e con i pattern di comportamento e interessi ripetitivi e stereotipati che
caratterizzano, invece, l'ASD. Ciò suggerisce che nei due disturbi sia possibile identificare classi
distinte di sintomi. Nel complesso, la tendenza oggi prevalente è di considerare il DCSP una
condizione intermedia tra il DSL e l'ASD.</li>
</ul>
<p>3.4 Disturbi pragmatici acquisiti: pazienti con lesioni all'emisfero destro
Oltre allo studio delle patologie del linguaggio, un altro campo di indagine della pragmatica clinica
è costituito dall'analisi dei disturbi pragmatici acquisiti.
Successivamente focalizzaremo la nostra attenzione sui disturbi pragmatici conseguenti a lesioni
emisferiche destre.
A partire dagli studi clinici e anatomo-patologici si è consolidata l'idea di una superiorità funzonale
della parte sinistra del cervello sulla parte destra. A sostegno di tale teoria anche il fatto che ad
esemoio lesioni cerebrali specifiche a sinistra, ma non a destra, possono causare l'incapacità di
eseguire azioni e gesti su comando verbale o imitazione.
Nella seconda metà del XX secolo questa idea di superiorità funzionale dell'emisfero sinistro è stata
riveduta e corretta grazie a rilevanti osservazioni sperimentali che hanno permesso di riconoscere
anche all'emisfero destro un ruolo preminente in importanti processi mentali e la partecipazione in
alcuni aspetti delle cosiddette funzioni dell'emisfero sinistro. In seguito a lesioni dell'emisfero
destro si manifestano diversi quadri sindromici, tra cui il disorientamento, l'eminattenzione<em>,
l'agnosia</em> visiva percettiva..
Rilevante il fatto che numerosi studi hanno attestato un coinvolgimento dell'emisfero destro anche
in alcune funzioni linguistche. Nello specifico, le ricerche condotte sulle abilità verbali dei pazienti
con RHD hanno portato alla luce il ruolo di primo piano che che la parte destra del cervello svolge
nell'elaborazione di alcuni aspetti pragmatici della comunicazione verbale.
I pazienti con RHD costituiscono una popolazione clinica abbastanza eterogenea. Relativamente ai
deficit comunicativi, in seguito a lesioni emisferiche destre si manifestano generalmente problemi
sia di produzione sia di comprensione del linguaggio.
(Pezzo saltato?)
Un aspetto pragmatico ampiamente studiato nei pazienti con RHD è la comprensione del linguaggio
non letterale.
Nel complesso, le ricerche sui deficit comunicativi dei pazienti con RHD suggeriscono che le loro
difficoltà nell'elaborazione degli aspetti non letterali del linguaggio siano imputabili a un più
generale deficit nella capacità di riconoscere l'intenzione comunicativa del parlante.
Anche nei pazienti con RHD i problemi pragmatici sembrano derivare da un deficit nella capacità
di</p>
<p>“vuoto”, cioè povero di contenuto semantico.
I problemi nell'elaborazione lessicale hanno indotto per molto tempo i ricercatori a classificare il
disturbo linguistico della DA alla stregua di un disturbo afasico. Questa classificazione è stata
messa in discussione da uno studio condotto da Blanken e colleghi (1988). Gli autori hanno rilevato
che i discorsi di questi pazienti, pur contenendo meno elementi lessicali (dei gruppi di controllo) ,
non presentavano caratteristiche di anomalia comparabili a quelle dei pazienti con afasia fluente.
Blanken e i colleghi hanno notato inoltre che, se stimolati a completare i loro messaggi, i pazienti
con DA, a differenza di quelli afasici, non erano in grado di soddisfare le richieste dell'esaminatore.
Sulla base dell'osservazione di queste differenze tra il linguaggio degli afasici e e il linguaggio delle
persone con DA, gli autori hanno ipotizzato che il linguaggio vuoto dei pazienti con Alzheimer sia
interpretabile nei termini di un disturbo dell'elaborazione pragmatico-concettuale. In altri termini, il
linguaggio vuoto dei pazienti con DA sarebbe imputabile a un disturbo macroelaborativo.
I deficit cognitivi extralinguistici sono tipicamente alla base anche del disturbo della produzione
discorsiva osservabile nei pazienti con DA. Le persone con DA producono, infatti, discorsi vuoti,
ripetitivi e faticano a fornire le informazioni necessarie affinchè l'interlocutore possa comprenderli.
Più nello specifico le produzioni discorsive dei pazienti DA sono prive di coerenza globale.
In una ricerca condotta da St-Pierre, Ska e Bèland (2005) è stato analizzato il deficit di coerenza
globale osservabile nei pazienti con DA (test della macchina e incidente). I risultati dell'analisi
hanno mostrato che le storie prodotte da pazienti affetti da DA il numero degli enunciati pertinenti
era inferiore agli altri. Gli autori hanno quindi suggerito che l'assenza di coerenza globale nelle
narrazioni dei pazienti con DA è riferibile al limitato numero di informazioni che questi pazienti
sono in grado di veicolare nelle loro produzioni narrative.
La capacità dei pazienti con DA di costruire discorsi coerenti è al centro anche di uno studio
condotto da Lima e colleghi (2014) (favola di Cappuccetto &lt;rosso). Le narrazioni sono state
valutate in riferimento a 2 indicatori: coerenza globale e coerenza locale (vedi dignificati su
dispensa). I risultati ottenuti mostravano che i pazienti con DA ottenevano punteggi inferiori, sia
nell'indicatore di coerenza globale, sia nell'indicatore di coerenza locale. Inoltre dai risultati è
emerso che il deficit discorsivo nella DA tende a peggiorare con il progredire della malattia.
(Riv. Pezzetto che non ho capito)
Più avanti si vedranno ulteriori argomenti a sostegno dell'idea che l'elaborazione della coerenza
discorsiva richieda il corretto funzionamento della memoria di lavoro.
Per concludere: i risultati discussi in questo paragrafo mostrano che il disturbo del linguaggio nella
malattia di Alzheimer tende a evolvere con il progredire della demenza e, coinvolge in misura
prevalente gli aspetti legati all'elaborazione lessicale e pragmatico-discorsiva.</p>
<p>4.2 Deficit nel discorso nel trauma cranico-encefalico
L'espressione trauma cranico-encefalico indica una qualsiasi lesione al cranio o al cervello dovuta a
un evento traumatico.
Esistono due tipi di trauma cranico: il trauma cranico aperto, caratterizzato da lesioni alle ossa del
cranio con conseguenti danni diretti alle parti adiacenti del cervello; il trauma cranico chiuso, che
non comporta lesioni ossee.
Sulla base della gravità delle lesioni, il trauma cranico viene classificato come lieve, medio e grave.
I traumi cranici lievi sono generalmente asintomatici; i traumi cranici di media gravità si
accompagnano a una perdita della coscienza durante o subito dopo l'incidente; i traumi cranici
severi, comportano un'alterazione persistente della coscienza.
In seguito a un trauma cranico le regioni cerebrali più frequentemente danneggiate sono le zone
frontali e temporali del cervello.
I disturbi conseguenti a un trauma cranico possono essere di varia natura: deficit attentivi, disturbi
mnemonici...
Per dar conto dei problemi linguistici e comunicativi dei pazienti con TBI è particolarmente
rilevante l'analisi dei disturbi neurocomportamentali osservabili dopo un trauma cranico dovuti a
lesioni in zone specifiche dei lobi frontali. Tali lesioni sono la principale causa di un problema:
il</p>
<p>deficit delle FE.
Numerose ricerche hanno attestato che traumatizzati cranici con lesioni nelle aree fronbtali e
prefrontali del cervello sono abitualmente affetti da deficit esecutivi che coinvolgono la
pianificazione, il monitoraggio dell'azione e la flessiblità mentale.
Ad esempio Zalla e colleghi (2001) hanno mostrato che pazienti con TBI con lesioni alle parti
anteriori e dorsolaterali della corteccia prefrontale hanno difficoltà nella formulazione e valutazione
concettuale di un piano di azione coerentemente strutturato.
Similmente Kliegel Eschen e Thoene-Otto (2004) hanno rilevato che i traumatizzati cranici non
sono in grado di pianificare e portare a compimento alcune azioni (vedi disp.)</p>
<p>4.2.1 Incoerenza discorsiva
Le prime ricerche sui problemi comunicativi dei pazienti con TBI risalgono agli anni settanta del
novecento. L'obiettivo di tali ricerche era di mettere in luce le differenze generali tra i problemi
comunicativi dei traumatizzati cranici e i deficit linguistici di altre patologie di origine neurologica,
quali ad esempio le afasie.
Questi primi studi hanno evidenziato alcuni tratti distintivi della comunicazione dei traumatizzati
cranici; a differenza dei soggetti afasici, che presentano deficit descrivibili in termini fonologici,
morfologici, sintattici e semantico-lessicali, nei pazienti con TBI è il livello conversazionale e
discorsivo a essere gravemente compromesso.
Dalla fine degli anni Ottanta del Novecento le capacità linguistiche e comunicative dei traumatizzati
cr anici sono state indagate attraverso gli strumenti dell'analisi del discorso. I nuovi studi hanno
attestato nei pazienti con TBI l'esistenza di un'associzione tra l'elaborazione frasale (microanalisi) e
l'elaborazione discorsiva (macroanalisi). Nello specifico i soggetti con trauma cranico riescono a
produrre frasi ben formate da un punto di vista sintattico-lessicale, ma non sono in grado di
costruire discorsi globalmente coerenti, allo stesso modo dei pazienti con Alzheimer.
Uno dei primi studi ad aver analizzato le capacità comunicative dei pazienti con TBI attraverso gli
strumenti dell'analisi discorsiva è una ricerca di Glosser e Deser (1990); essi hanno testato e messo
a confronto le abilità linguistiche di tre popolazioni neurologiche:</p>
<ul>
<li>pazienti con afasia fluente;</li>
<li>pazienti con demenza di Alzheimer;</li>
<li>pazienti con trauma cranico chiuso
è emerso che i pazienti con afasia fluente avevano deficit nell'elaborazione sintattica e lessicale
(dimensione microlinguistica), ma performance normali nell'organizzazione macrolinguistica.
I pazienti affetti da demenza di Alzheimer esibivano problemi nella gestione della coerenza
discorsiva, ma avevano capacità sintattiche e fonologiche relativamente intatte.
I soggetti con trauma cranico avevano pattern normali nella produzione di forme sintattiche
intrafrasali complesse, ma significativi problemi nell'elaborazione della coerenza globale.
I pazienti con Alzheimer e con TBI, inoltre avevano maggiori difficoltà nella gestione della
coerenza globale rispetto a quella locale.
Secondo gli autori, si supponeva che i problemi discorsivi dei soggetti con Alzheimer e dei pazienti
con TBI siano imputabili a deficit di macroelaborazione e supportano l'idea che “coerenza locale e
coerenza globale siano due costrutti non completamente sovrapponibili”.
I risultati di questa ricerca hanno trovato conferma in numerosi altri studi. Interessante è che da tali
studi è emerso che i deficit discorsivi dei traumatizzati cranici dipendono, in larga parte, dalle
disfunzioni esecutive di cui soffrono questi pazienti.
Esempio: Biddle, Mccabe e Bliss (1996) in una ricerca sulle capacità narrative spontanee di adulti e
bambini con trauma cranico, hanno messo esplicitamente in relazione i disturbi di coerenza globale
dei pazienti con TBI con i deficit di FE.
Mozeiko e i colleghi (2011) hanno indagato la produzione discorsiva di pazienti con TBI in
relazione alla capacità di costruire storie coerentemente strutturate. I risultati hanno mostrato che i
punteggi che i traumatizzati cranici riportavano erano di molto inferiori ai punteggi riportati dai
soggetti del gruppo di controllo composto da individui neurologicamente sani. Secondo gli autori,
i</li>
</ul>
<ol start="2">
<li>deliri</li>
<li>pensiero disorganizzato</li>
<li>comportamento catatonico o disorganizzato</li>
<li>sintomi negativi
Ai fini della diagnosi, almeno uno dei sintomi osservati deve ricadere nelle categorie delle
allucinazioni, dei deliri o del pensiero disorganizzato.</li>
</ol>
<p>4.3.2 Pensieri e discorsi deraglianti
I deficit nella comunicazione verbale costituiscono una delle caratteristiche diagnostiche della
schizofrenia. I pazienti che soffrono di disturbo del linguaggio sono coloro che esibiscono quello
che è stato definito pensiero disorganizzato.
I problemi comunicativi riscontrabili nei pazienti schizofrenici riflettono un disordine primario a
livello del pensiero piuttosto che un deficit specifico del linguaggio (Kraepelin 1913; Bleuler 1911).
In effetti è il “deragliamento del pensiero” che rende il linguaggio schizofrenico incoerente o
incomprensibile.
Nel corso del tempo sono state elaborate diverse proposte di classificazione del pensiero
disorganizzato schizofrenico. A un livello generale possiamo distinguere due tipologie: disturbo
negativo del pensiero (si osserva un linguaggio povero), e disturbo positivo del pensiero (include
diversi fenomeni che portano a un discorso disorganizzato e difficile da seguire).
I fenomeni linguistici che fanno parte del disturbo positivo del pensiero includono il deragliamento,
la tangenzialità (“il tema centrale viene toccato ma solo per un attimo in maniera superficiale”), la
perdita delle associazioni (il paziente associa tra loro parole che non sono legate al contesto
generale dell'enunciato o del discorso). Tali fenomeni riguardano, soprattutto, la dimensione
discorsiva del linguaggio.
Come nei pazienti affetti da demenza di Alzheimer e da trauma cranico, anche nei soggetti
schizofrenici è il piano macroelaborativo, piuttosto che il livello di microanalisi, a essere
compromesso in modo più severo.</p>
<p>4.3.3 Teorie cognitive dei disturbi del linguaggio nella schizofrenia</p>
<p>Nel contesto teorico delle neuroscienze cognitive i disturbi del linguaggio dei pazienti
schizofrenici
sono stati spiegati (prevalentemente) attraverso due teorie.
Da una parte. Vi sono le prospettive teoriche che legano i problemi comunicativi degli schizofrenici
a deficit nella struttura e nelle funzioni della memoria semantica;
dall'altra, le teorie che ipotizzano che alla base del disturbo del linguaggio schizofrenico vi sia una
compromissione nell'elaborazione contestuale (generalmente attribuita a un deficit delle FE).
Il principale modello di riferimento per gli studi dei problemi linguistici in pazienti schizofrenici è
quello che ipotizza l'esistenza di un deficit nell'attivazione della memoria semantica, un tipo di
memoria a lungo termine in cui sono immagazzinate le informazioni enciclopediche sulle parole,
sul mondo e sugli oggetti.
La causa dei problemi del linguaggio va rintracciata in una iperattivazione in tale sistema di
memoria. (vedi dispensa per priming)</p>
<p>Il secondo modello teorico proposto fa riferimento a un danneggiamento nella capacità di
elaborare
le informazioni contestuali (esempio Kuperberg, McGuire, David 1998) → pazienti schizofrenici
esibiscono difficoltà nella comprensione discorsiva (vedi dispensa).
Secondo questa ipotesi interpretativa, i disturbi cognitivi che caratterizzano la schizofrenia in vari
domini, sono riconducibili a un unico fattore, “un'incapacità di rappresentare attivamente nella
memoria di lavoro le informazioni relative agli obiettivi delle azioni che sono necessarie per guidare
il comportamento”.
L'idea che nei pazienti schizofrenici esista un'asssociazionr tra i problemi nell'elaborazione
contestuale e i deficit di controllo cognitivo è stata confermata dai risultati di diverse ricerche</p>
<p>esempio Boudewyn e colleghi (2017) → vedi dispensa per test nocciolina
Vedi dispensa per test N400.
Ricerche hanno mostrato che l'effetto N400 in risposta alle parole target è influenzato dal contesto
discorsivo. Le risposte dei pazienti schizofrenici alle parole target hanno generato un N400 ridotto a
causa delle loro difficoltà nell'integrazione contestuale.
Per concludere, i risultati di questo studio confermano l'ipotesi secondo cui i problemi nella
comprensione del discorso ossevabili nei pazienti schizofrenici dipendono da una compromissione
nei meccanismi di controllo cognitivo mediati dalla corteccia prefrontale.
RIV. QUESTO PARAGRAFO</p>
<p>4.4 L'elaborazione del carattere temporale del discorso: il caso dell'autismo</p>
<p>I soggetti con sindrome dello spettro autistico hanno difficoltà nell'interpretazione pragmatica
degli
enunciati (nello specifico nell'elaborazione del significato non letterale delle frasi). Imoltre hanno
anche difficoltà a comprendere e produrre storie coerentemente organizzate.
È stato proposto che i problemi nell'elaborazione della coerenza globale da parte degli individui con
ASD siano riconducibili a difficoltà nell'identificazione delle connessioni causali che legano tra loro
gli eventi della storia. Tali problemi son imputabili, secondo Joliffe e Baron Cohen (2000), a un
deficit di coerenza centrale (secondo i due autori i soggetti con ASD non sono in grado di costruire
catene causali inferenziali per connettere eventi distanti sul piano discorsivo globale a causa di una
coerenza centrale debole che li porta, invece, a focalizzarsi sui dettagli delle narrazioni.
L'ipotesi di joliffe e Baron-Cohen spiega solo una parte dei disturbi discorsivi osservabili
nell'autismo. Una narrazione infatti, è caratterizzata sì da eventi di ordine causale, ma anche di
ordine temporale.
A partire da considerazioni di questo tipo, Ferretti e colleghi (2017) hanno ipotizzato che parte dei
disturbi narrativi dell'autismo possa essere spiegata in riferimento a un deficit nella capacità di
elaborare la dimensione temporale del discorso. Tale elaborazione dipende da uno specifico sistema
cognitivo definito Mental Time Travel (MTT).
Il MTT è un dispositivo cognitivo che consente agli esseri umani di viaggiare mentalmente nel
tempo. Tale dispositivo è costruito da due sottosistemi, la memoria episodica (EM) e il pensiero
episodico rivolto al futuro (EFT). A differenza della memoria semantica (che consente la
costruzione di rappresentazioni astratte che costituiscono la base di conoscenze del soggetto), la
memoria episodica permette di rievocare eventi della propria vita o di altri individui, collocandoli
nel loro contesto spazio-te mporale.
Studi recenti hanno mostrato che le persone con autismo hanno problemi nella rappresentazione
temporale dell'esperienza. Ad esempio da alcune ricerche è emerso che gli individui con ASD
hanno
difficoltà sia nel recupero dei ricordi autobiografici, sia nella simulazione e nella descrizione di
eventi futuri (vedi vari test dispensa). Vari test confermano che l'EFT è un'abilità compromessa
nelle persone affette da autismo.
Al fine di verificare una possibile relazione tra deficit di proiezione temporale e disturbi narrativi
nell'autismo, Ferretti e colleghi (2017) hanno condotto uno studio su bambini con ASD. RIV.
Risultati.
Questi risultati rappresentano una conferma dell'ipotesi secondo cui le difficoltà narrative
riscontrate nell'autismo sono riconducibili (almeno in parte) a un deficit nella capacità di
organizzazione temporale degli eventi (RIV.)</p>
<p>4.5 Conclusioni</p>
<p>In questo libro si è sostenuto che la dimensione pragmatica del linguaggio, costituisce il livello
di
analisi privilegiato per indagare alcune proprietà fondamentali dellla comunicazione umana.
Abbiamo osservato soggetti che, pur costruendo frasi ben formate non sono in grado di comunicare
in maniera efficace perchè incapaci di produrre discorsi appropriat

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