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Linguistica Testuale
Linguistica
Università degli Studi di Napoli L'Orientale
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La linguistica testuale

La linguistica testuale analizza i testi in quanto unità testuali, in quanto occorrenze unitarie.


Il testo possiede infatti una propria struttura che non corrisponde a quella di una frase, né
può essere visto come semplice somma di frasi.[2] La linguistica testuale, quindi, è qualsiasi
studio linguistico che si concentra sul testo in quanto campo primario di ricerca. Con la
linguistica ci si rese conto che il testo andava studiato come un fenomeno unitario,
concezione che sembrava sconcertante in passato.

La linguistica testuale si occupa di:


- Coesione e coerenza delle frasi nel paragrafo e dei paragrafi in unità più grandi
- Relazioni tra parti di testi (titoli, note, introduzioni, didascalie)
- Tipi di testi (distinti per struttura, funzione, ecc.)
- Operazioni sui testi (parafrasi, riassunti, traduzioni ecc.)

I linguisti si sono resi conto che la linguistica dell'enunciato, la linguistica della frase,
andava ormai superata; non era più possibile permanere in una prospettiva che fosse quella
linguistica e che andava superata con una linguistica che fosse la linguistica del testo: la
linguistica che spiega finalmente cosa è un testo in quanto unità testuale, in quanto
occorrenza unitaria. Si sono resi conto che per fare ciò avevano bisogno di un
metalinguaggio ancora inesistente perché ancora non esistevano le parole che servivano ad
indicare questi fenomeni. Determiniamo come testo qualsiasi occorrenza comunicativa,
che può essere breve o brevissimo, oppure lungo o anche lunghissimo.

Grammatica generativa, retorica e stilistica

La linguistica testuale è una disciplina relativamente giovane che si è sviluppata a partire


dagli anni sessanta del Novecento;[3] si basa sulla retorica e sulla stilistica.

Parte da due approcci linguistici del testo:

 il modello sistemico del testo sulla base della grammatica generativa;


 il modello comunicativo del testo sulla base della linguistica pragmatica.

E’ vero che l’attenzione al testo in senso stretto è recente (risale, infatti, agli anni
Sessanta/Settanta), ma in realtà già tempo fa si iniziò a prestare attenzione alla dimensione
testuale. Infatti la forma più antica di analisi dei testi la troviamo nella retorica che è giunta
fino a noi dagli antichi Greci e Latini. Anticamente il termine indicava l'arte del parlare in
pubblico e la finalità della retorica era quella di formare individui che avevano il compito di
parlare in pubblico e quindi dovevano persuadere gli altri delle loro idee. Dobbiamo
ricordare, infatti, che la testualità imita il discorso e molti testi che ci sono pervenuti
dall’antichità sono trascrizioni di discorsi. La retorica è tradizionalmente intesa come
l'arte del dire, del parlare, e più specificamente del persuadere con le parole.

La retorica antica, circa l’organizzazione del testo, ci ha insegnato che si devono avere delle
“caselle fondamentali” da rispettare se si vuole fare un discorso in pubblico. La gerarchia
che si deve rispettare è la seguente: per prima cosa, si deve rispettare l’inventio. Si deve
inventare ciò che si vuole dire. Dopo aver cercato le idee adatte al discorso che si vuole fare,

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si deve fare uno sforzo per ordinarle e abbiamo, dunque, la dispositio. Dopodiché, si
cercano le espressioni adatte a queste idee per poterle esprimere, ossia l’elocutio. C’è poi
l’ultimo passaggio tramite cui si fissa bene in mente tutti i passaggi che l’hanno preceduto:
la memoratio, l’imparare a memoria prima di presentarsi davanti ad un pubblico.
Il risultato finale di queste quattro operazioni è l’actio, l’azione. Si mette in atto l’acquisita
competenza. La retorica, quindi, aveva dei punti cardinali dai quali non si poteva
prescindere e che qualunque studioso o studioso di retorica riconosce.

Quindi, la retorica ci ha insegnato che quando si trasferiscono le idee in un discorso, si deve


fare con una sorta di training cosciente: ci si deve allenare a fare queste operazioni in modo
da dimostrare a chi ascolta che c’è una gerarchia tra gli elementi testuali. Si deve far capire
al destinatario quale è la consecutio di un testo rispetto a quello che lo precede. A tutta
l’operazione si deve dare poi una finalità.

Altra disciplina con cui la linguistica testuale è in contatto è la STILISTICA, cioè lo studio
e l’interpretazione di testi di ogni tipo in relazione allo stile linguistico ed espressivo. Lo
stile è il risultato di una tipica scelta di opzioni per produrre un testo e per stabilire lo stile di
un autore in termini linguistici si analizzano le strutture selezionate e le occorrenze
stilistiche: quanto più una struttura non è predicibile dal punto di vista testuale, tanto più è
caratterizzante lo stile di un autore. Chi si occupa di stilistica, infatti, ha ben presente che un
testo deve rispondere a delle qualità che ci consentono di collocare il testo in un determinato
stile. Quello che noi chiamiamo “stile” si stabilisce in base a 4 criteri ricorrenti che sono: la
correttezza, la chiarezza, l’eleganza e l’appropriatezza.
Qualunque testo che non sia elegante, in base alla gradazione di questa eleganza, può
risultare aggressivo, offensivo, inopportuno, inappropriato. Un testo, quale che sia, deve
sempre essere elegante. Ma non per renderlo formale oltremisura. La formalità non è
eleganza. L’eleganza, nel suo valore etimologico, si fonda sull’eligere, cioè sul fatto di stare
fuori da un certo modo di essere canonico. Praticamente, è ciò che fa la testualità.
Quindi, retorica antica, stilistica e linguistica testuale sono dei contesti di studio della
testualità che hanno in comune delle preoccupazioni.

In passato, tutte le strutture superiori all'enunciato venivano attribuite alla stilistica.

***

Nella seconda metà del Novecento c’è stata una rivoluzione che è nota come “linguistica
generativa” o, per meglio dire, “grammatica generativa”. La grammatica generativa è una
teoria del linguaggio ideata da Noam Chomsky negli anni cinquanta che si concentra sulla
facoltà del linguaggio, ponendo enfasi soprattutto sull’aspetto mentale del linguaggio.
Noam Chomsky, infatti, sostiene che il linguaggio è una capacità biologica propria della
sola specie umana, che si deve studiare e analizzare con una metodologia analoga a quella
delle scienze naturali. 
Secondo Chomsky, la nostra facoltà di linguaggio è come un organo (come il fegato, il
cuore) che si sviluppa e al quale noi non diamo ordini. Noi infatti - come afferma Chomsky
- non ordiniamo al nostro linguaggio di operare, la facoltà di linguaggio opera e basta. Noi
abbiamo la possibilità di costruire frasi complesse, con una forma e un significato definito;
questo non lo dobbiamo apprendere in base ad un ordine specifico, così come il bambino

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non ha un nessun tipo di ordine. Questo aspetto non è banale, perché è come se ci fosse una
predisposizione naturale tale che questa facoltà di linguaggio si può manifestare con una
straordinaria diversificazione a livello di superficie, ma a livello profondo sembra proprio
far parte del nostro patrimonio biologico.

Secondo Chomsky, quindi, la facoltà del linguaggio ha carattere organico. Dunque,


Chomsky ha voluto immaginare la facoltà del linguaggio come un organo di linguaggio, un
organo che si trova nel nostro corpo e senza il quale noi uomini possiamo regredire dal
punto di vista cognitivo perché è grazie al linguaggio se c’è stato l’avanzamento cognitivo
dell’umanità. Allora, dice Chomsky, è chiaro che ogni lingua è il risultato dell’interazione di
due fattori alla base di tutto: il primo è lo stato iniziale, il secondo è il corso
dell’esperienza. Noi dobbiamo pensare allo stato iniziale come una sorta di dispositivo di
acquisizione del linguaggio, che prende l’esperienza come un input e che restituisce la
lingua come output. Io sono immerso nel mondo, ma questa esperienza nel mondo non ha
nulla di linguistico; non appena io cerco di nominare quest’esperienza (cioè trasformare
questa esperienza in qualcosa di linguistico) allora parte la facoltà di linguaggio.
Quindi, questa teoria è la grammatica generativa. Il generativismo si chiama così perché
genera ciò per cui esiste. La grammatica generativa è una grammatica che viene generata
quando noi comprendiamo e produciamo.
Quindi, secondo la prospettiva della grammatica generativa, le lingue sono state fatte tutte
con lo stesso stampino. Così come ognuno ha un cuore diverso, per peso, posizione,
intensità del battito, durata della funzione… così questo cuore ha una funzione che non
cambia in nessuno. 

Tutto questo ha in qualche modo a che vedere con il significato, in quanto ha a che vedere
con una parte del linguaggio che non è visibile, che sta in profondità. Questo è uno degli
approcci allo studio del linguaggio e non può non generare degli effetti anche sullo studio
del testo (sulla definizione del testo) e ha, quindi, come oggetto quella che chiamiamo
facoltà di linguaggio (ossia lo stato iniziale e gli stati che seguono). A questo proposito, è
importante ricordare Igor Mel’čuk che è stato qualcuno che, quando ha riflettuto sulla
testualità, ha preso una strada originale e autonoma. Mel’čuk parla di qualcosa che ha fatto
sempre paura, in particolare alla linguistica del Novecento: il significato. La linguistica del
Novecento, infatti, ha preferito dedicarsi ad altre cose: moltissimo spazio è stato dato alla
fonetica, un po’ alla fonologia. Il significato faceva paura, perché se il suono lo sentiamo (è
qualcosa di tangibile) ed è qualcosa che puoi addirittura misurare se hai gli strumenti atti a
fare questo, il significato no (non lo vediamo, ci sfugge, non lo misuriamo, lo possiamo
descrivere, ma mentre lo descriviamo ci rendiamo conto che ci sfuggono delle parti). Quindi
il significato non soddisfaceva quell’esigenza di rigore scientifico che ci può offrire qualche
altro ambito del linguaggio, quindi nel Novecento ci si è dedicati molto meno al significato.
Secondo Mel’čuk, però, noi dobbiamo capire come il significato si converte in testo.

La fase embrionale della linguistica del testo, intesa in senso moderno, si sviluppa negli anni
’50 in ambito strutturale con Zellig Harris. Egli, infatti, affermò che il linguaggio si
presenta sotto forma di connected speech (o writing), e cioè che un testo consiste nella
ripetizione di elementi che ricorrono nello stesso contesto. Il punto debole del discorso di
Harris risiede nell’esclusione della semantica: non è possibile spiegare un testo senza
considerare la semantica. Si veda il seguente esempio:

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“Romano Prodi è a colloquio con Giorgio Napolitano. Se è maschio, lo chiameremo
Romano o Giorgio.”

Qui, formalmente c’è ripetizione, ma non c’è relazione semantica: i due enunciati sono
sconnessi: certo, c’è la ripetizione di elementi, ma non si può parlare di testo.

A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta si sviluppa la grammatica testuale, sviluppatasi
sulla falsariga della grammatica generativa. Gli obiettivi della grammatica testuale sono:
individuare cosa fa di un testo un testo, individuare i confini tra i testi, individuare le
tipologie testuali differenti in base agli elementi linguistici. Il nome più rilevante sullo
scenario della grammatica del testo è sicuramente quello di Teun A. van Dijk, il quale
introduce i concetti di macrostruttura e microstruttura. Diceva van Dijk che la
formazione di un testo deve partire da un'idea principale e questa idea principale
gradualmente si sviluppa nei significati particolari che entrano nei singoli passi del testo e
che hanno la lunghezza di un enunciato. Queste sono le sue parole: "Quando viene
presentato un testo, occorre che ci siano operazioni che agiscono in senso inverso, affinché
sia possibile ricavarne di nuovo l'idea principale. Queste operazioni vengono chiamate la
delezione, la generalizzazione e la costruzione:

 la delezione è la soppressione diretta di materiale testuale, quindi ha a che vedere


con la cancellazione;
 la generalizzazione è la trasposizione del materiale testuale in una forma più
generica;
 la costruzione è la creazione di materiale nuovo per arrivare ad una presentazione
più compatta. Quando noi facciamo quest’operazione, la facciamo all’interno di una
macrostruttura a noi già nota. Van Dijk diceva una cosa molto importante cioè che le
grammatiche tradizionali, ossia le grammatiche che si concentrano sull'enunciato,
cioè sulla parte più breve (ricordate gli esempi 1, 2 e 3 di prima), non hanno previsto
nessuna di queste operazioni di macrostruttura per il semplice fatto che analizzando
enunciati isolati un problema come questo non si presenterà mai. Invece quando tu
produci un testo più ampio, ti devi confrontare e misurare continuamente con
esigenze di delezione, di generalizzazione e di costruzione. Quindi, dice Van Dijk, il
riassunto di un testo si deve basare sulla sua macrostruttura. Fare un riassunto
significa capire qual è la macrostruttura ed educarsi a coglierla e restituirla ad un
significato unitario. Se io ho delle strutture come nell'esempio 2, è soltanto
cogliendo la macrostruttura di questo testo che io riesco a restituirlo ad una unità di
senso.

La macrostruttura è l'esposizione su larga scala del contenuto di un testo nel suo


complesso. La macrostruttura sarebbe la percezione dell’unità di senso di un testo, cioè io
colgo l'unità di senso di un testo, appunto la sua macrostruttura. La microstruttura, invece,
è la sequenza di proposizioni provviste di funzione illocutiva e collegate da un insieme di
relazioni (temporali, causali ecc.): è concretamente “la base semantica del testo”.

In seguito, la dimensione pragmatica acquisisce importanza e si inizia a prendere in


considerazione anche il contesto in cui viene prodotto il testo. La pragmatica, infatti, è una
disciplina della linguistica che si occupa dell'uso contestuale della lingua come azione reale
e concreta. Quindi, per comprendere se un testo è efficace e adeguato rispetto al contesto si

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fa affidamento sulla competenza pragmatica. Una nota teoria del testo è quella esposta da
Beaugrande e Dressler, secondo i quali il testo soggiace a sette principi di testualità e
diventa non-testo nel caso in cui una di queste condizioni non viene rispettata.

Beaugrande e Dressler sono critici rispetto alle posizioni dei generativisti, ma anche degli
strutturalisti, perché per loro il linguaggio è un sistema di interazione, cioè è un insieme di
elementi ciascuno dei quali ha una sua funzione che contribuisce al funzionamento del
complesso. Inoltre, secondo Beaugrand e Dressler “il testo è un grande sistema
cibernetico", cioè un sistema che si autogoverna, ossia che riesce, mediante un meccanismo
cibernetico, a orientare gli elementi che lo compongono verso un fine. Tutti gli elementi che
compongono il testo hanno una funzione, la funzione è quella di rendere chiaro l'obiettivo

del testo, di rendere perspicuo quel testo, in questo senso è un testo cibernetico. Secondo
De Beaugrande e Dressler, la linguistica testuale non può essere costruita estendendo la
linguistica della frase poiché testo e frase non sono entità omogenee. Frase e testo sono
differenti: la frase è un’unità grammaticale, mentre il testo è un’unità comunicativa.
Per questo, i due studiosi adottano un approccio al testo non strutturale, bensì procedurale.
Questa procedura focalizza i processi e le strategie che operano nella produzione e nella
comprensione dei testi.

In un testo, quando si registra un caso di divergenza dai sistemi di conoscenze che i


partecipanti alla comunicazione hanno della lingua, del contenuto e dell'intenzione, viene
disturbata la stabilità del sistema del testo. E appena io mi accorgo che c’è qualcosa che
non funziona, devo reintegrare l'elemento che contribuisce a regolarizzare il testo e devo
creare una continuità fra gli elementi che lo compongono.

Gli utenti del sistema testo devono avere le idee chiare su come funzionano i principi del
testo, altrimenti l'uso del sistema risulta compromesso o bloccato. Se io non so come
funziona il sistema e voglio essere uno specialista dei testi, allora l'uso che io faccio di quel
sistema risulta compromesso o bloccato. Il problema per lo scrittore è quello di creare il
testo così come lui ce l'ha in mente. Quindi scrivere un testo ma anche recepire un testo, dal
punto di vista cognitivo, equivale alla soluzione di un problema.
Se non si rende perspicua la connessione tra gli elementi del testo, il problema che si cerca
di risolvere scrivendo il testo è fallito o meglio fallisce il tentativo di soluzione del
problema, quindi bisogna sempre mantenere perspicua la relazione tra gli elementi, cioè la
connessione.

"Si è davanti a un problema difficile quando le probabilità di un fallimento sono


notevolmente più alte di quelle di successo. Il problema è considerato risolto quando si
trova una via di collegamento che conduca dallo stato di partenza allo stato di arrivo. Non
appena si arriva a un punto oltre il quale l’autore o il lettore non può più avanzare verso il
suo fine, si verifica un blocco." Quando noi studiamo un testo, dobbiamo arrivare dallo stato
di partenza a uno stato di arrivo, se c'è un blocco dobbiamo mettere in atto delle strategie
per superarlo, perché se non superiamo il blocco, il testo non si forma. Ci sono tre strategie
di soluzione del problema: la ricerca prima in profondità, la ricerca prima in ampiezza e
l'analisi mezzo-fine, ossia ci sono tre modalità per risolvere il problema di scrivere un testo.

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La ricerca prima in profondità  Quando si scrive un testo, si ha in mente il fine che ci
spinge a scrivere quel testo e si cerca di andare avanti guardando qual è il fine senza
cambiare mai strada, cioè si va dritto a quel fine. Questo tipo di ricerca, però, non è molto
sicuro perché lo scrittore deve avere chiarissimo l’obiettivo, il fine, cioè lo deve enunciare.
Se non lo enuncia, allora questo scambio è poco sicuro, cioè è una tipologia testuale che
richiede una vigilanza alta.
La ricerca prima in ampiezza  il solutore prende in considerazione solamente un sotto-
fine più a portata di mano e valuta le diverse vie a disposizione confrontandole tra di loro.
Questo tipo di ricerca è più prudente e sicuro ma può anche rivelarsi inefficace e laborioso
nei casi in cui la via da percorrere è evidente fin dall'inizio.
Analisi mezzo-fine  l’autore individua le differenze principali tra lo stato iniziale e quello
di arrivo e tenta di ridurle gradualmente.

Eugen Coseriu

Eugen Coșeriu è stato un importante linguista del ‘900, nato in Romania. Ad un certo
punto Coșeriu ha detto che non possiamo analizzare un testo, qualunque esso sia, senza
tenere conto del contesto. Coșeriu diceva che noi dobbiamo associare sempre il testo
scritto al contesto, perché se non lo facciamo poi non siamo in grado di decodificare nulla
del testo.
Coșeriu si preoccupò di creare anche un termine per indicare questa sua necessità e quindi
parlò di détermination (pronunciato in francese) e di contorno, ciò che sta intorno al testo.
Noi non possiamo decodificare il testo se ci sfugge ciò che sta intorno ad esso; il testo è
calato in una realtà e noi dobbiamo conoscere qualcosa di questa realtà, dobbiamo fare delle
associazioni, altrimenti noi quel testo non lo leggiamo, non lo sappiamo determinare.
Quando Coșeriu, quindi, parla di determinazione si riferisce al fatto di come i significati
delle parole possono essere applicati alle nostre conoscenze, come possono essere
estrapolati in quella che è la connotazione specifica che si vuole attribuire loro. Coșeriu
quindi dice che ogni significato va determinato, il che non significa altro che ogni
significato va circoscritto, delimitato, ritagliato e questa è una procedura che la nostra mente
opera in continuazione, senza che noi ce ne rendiamo conto, ma continuamente noi
facciamo un’operazione di determinazione e di contornizzazione, cioè delimitiamo e
cerchiamo di capire qual è il contorno all’interno del quale questa delimitazione si deve
produrre. Questo contorno non è più linguistico, ma è un contorno culturale, sociale,
storico, cognitivo; quindi se ci sfuggono questi passaggi, noi abbiamo delle difficoltà.

Definizione di testo e di testualità

Determiniamo come testo qualsiasi occorrenza comunicativa, che può essere breve o
brevissimo, oppure lungo o anche lunghissimo. Per un linguista non è testo solo quello che
si iscrive dentro una cornice di nobiltà, come il testo della grande letteratura, ma anche
qualunque formula che abbia una funzione comunicativa. Per esempio anche l’opera di un
writer, di qualcuno che scrive sui muri, è un testo. Le proprietà che distinguono un testo da
un cosiddetto “non testo” vengono chiamate testualità e le più importanti sono la coerenza e
la coesione, ossia tutti i fenomeni che mostrano rapporti logici e formali tra le parti del testo.
I parametri della testualità sono 7: coesione, coerenza, informatività, accettabilità,

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situazionalità, intenzionalità e intertestualità. È testo una poesia di due righi, così come
lo è “I Promessi Sposi”. Queste opere sono simili tra loro perché hanno in comune i
parametri di testualità, non per il genere o altro. Basta che cada anche solo uno di quei
parametri, che improvvisamente non lo definiremo più un testo.

Il testo è un'occorrenza comunicativa, breve o lunga, che deve soddisfare i sette criteri di
testualità di coesione e coerenza (incentrate sul testo), informatività, accettabilità,
situazionalità, intenzionalità e intertestualità, definiti da Beaugrande (Bogràn - francese)
e Dressler (tedesco).

Il testo è qualcosa di unitario e va dunque studiato come un fenomeno unitario. La parola


testo deriva dalla parola latina textus, che indicava il participio passato di texere, cioè
tessere. Quindi possiamo dire che i termini testo e tessuto sono cugini. In effetti, il tessuto
è qualcosa che si ottiene attraverso un intreccio più o meno complesso, e questa è la stessa
cosa che avviene nella nostra mente quando vogliamo produrre un discorso. Quando si
parla di testualità, infatti, si parla di discorso, cioè della capacità cognitiva di fare dei
collegamenti di elementi tra loro.

Se scaviamo ancora più a fondo nell'etimologia della parola testo, arriviamo al termine tak
che indicava un elemento con cui anticamente venivano costruite case (il mattone). Ancora
una volta troviamo un significato che non indicava un’operazione di scrittura o di lettura,
però gli elementi con cui si costruiva una casa non erano presi a caso e dovevano essere
potenzialmente sistemabili tra loro, in maniera tale che la casa non crollasse, e questo è ciò
che succede anche quando noi produciamo un testo.
L'idea di testo come un qualcosa che si potesse leggere arriverà molto anni dopo.

Quando si parla di testualità, infatti, si parla anche di discorso, cioè della capacità
cognitiva di fare dei collegamenti di elementi tra loro. Cos’è il discorso? È ciò che noi a
volte leggiamo come “logos”. Discorso è una possibile traduzione della parola logos, che è
una parola difficilmente traducibile. Ossia è la resa più vicina possibile per indicare
quell’operazione mentale che noi facciamo per collegare le parole tra loro. Quando
facciamo un discorso facciamo un’operazione di collegamento delle parole tra loro.
Dal punto di vista cognitivo, quando noi guardiamo un testo il nostro cervello lega gli
elementi tra loro, trova delle ragioni che tengono assieme, cerca e trova delle ragioni che
tengono assieme questi elementi. Quando leggo, lego gli elementi tra loro, ma affinché io
possa farlo devo trovarne il capo, devo riuscire a fare dei collegamenti. Se non ci riesco c’è
un problema di testualità.
Il testo è quindi dinamico, perché è sottoposto all’incontro con la mente di chi lo legge. Il
testo se ne sta in un libro finché io non lo confronto con le dinamiche della mia mente,
quindi è come se prima di ciò non esistesse.

Quando realizziamo un testo, realizziamo un progetto di cui dobbiamo conoscere le nozioni


di base. Qualunque testo, però, deve soddisfare i 7 criteri di testualità: coesione,
coerenza, intenzionalità e accettabilità (vanno a braccetto), informatività, situazionalità,
intertestualità. Quindi, quando studiamo un testo ne dobbiamo studiare i parametri, cioè
dobbiamo cercare se ci sono i 7 concetti fondamentali di Beaugrande e Dressler.

I tre principi regolativi del testo

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Tutti questi criteri (coesione, coerenza, situazionalità, intenzionalità, ecc.) costituiscono i
principi della testualità e sono dei principi regolativi. Essi devono rispondere a tre fattori:
efficienza, efficacia e appropriatezza. Cioè, un testo deve essere efficiente, efficace e
appropriato. Se non risponde a questi tre principi, significa che qualcosa non funziona,
siamo di fronte ad un non-testo.

Efficienza  Grado di impegno che un testo richiede ai partecipanti per il suo uso. Un testo
deve essere facilmente compreso; inoltre deve essere in stretto rapporto con una determinata
situazione e con gli scopi del testo stesso.
Efficacia  capacità del testo di rimanere impresso nella memoria del destinatario.
Appropriatezza  rapporto tra i contenuti e i caratteri testuali (il modo in cui vengono
espressi)

I sette requisiti fondamentali (o princìpi costitutivi) del testo sono presenti in varia misura
nei diversi tipi testuali. La coesione e la coerenza possono essere in parte trascurate nella
lingua parlata, ma devono essere osservate rigorosamente nei testi scritti.

Approccio procedurale e progettazione di un testo

Gli elementi all’interno del testo possono essere organizzati in modo modulare o
interattivo. Nel primo caso, le componenti del testo sono considerate come indipendenti
l’una dall’altra, sono quindi una serie di moduli messi insieme, e chi legge riesce tramite
delle inferenze a cogliere il legame tra i diversi elementi, ma di per sé il testo non risulta
compatto. (nei film, le scene)

Beaugrande e Dressler, invece, considerano il linguaggio come un sistema interattivo, cioè è


un insieme di elementi ciascuno dei quali ha una sua funzione che contribuisce al
funzionamento del complesso. Un modello linguistico modulare in cui sia autonoma la
sintassi, infatti, non può funzionare nella comunicazione reale; un modello linguistico in cui
la sintassi è autonoma, non può funzionare nella comunicazione reale a causa
dell‘ESPLOSIONE COMBINATORIA: in questo modo, infatti, la comunicazione
richiederebbe un impegno enorme a causa delle diverse strutture e delle diverse varianti da
tenere in considerazione e questo richiederebbe un tempo d’analisi lunghissimo.

Beaugrande e Dressler adottano un approccio procedurale al testo, in cui la pragmatica


cessa di essere considerata come un componente separato rispetto alla sintassi ed alla
semantica.

Secondo Beaugrand e Dressler “il testo è un grande sistema cibernetico", cioè un sistema
che si autogoverna, ossia che riesce, mediante un meccanismo cibernetico, a orientare gli
elementi che lo compongono verso un fine. Tutti gli elementi che compongono il testo
hanno una funzione, la funzione è quella di rendere chiaro l'obiettivo del testo, di rendere
perspicuo quel testo, in questo senso è un testo cibernetico. Secondo De Beaugrande e
Dressler, la linguistica testuale non può essere costruita estendendo la linguistica della frase
poiché testo e frase non sono entità omogenee. Frase e testo sono differenti: la frase è
un’unità grammaticale, mentre il testo è un’unità comunicativa.

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Beaugrande e Dressler si soffermano sulle fasi che sono necessarie per la produzione e la
comprensione di un testo:

“La prima fase della produzione del testo può essere introdotta normalmente con la
PROGETTAZIONE. Chi produce il testo ha l’intenzione di raggiungere un certo fine per
mezzo del testo: di diffondere ciò che sa, ad esempio, o di ottenere l’adesione a un suo
progetto. […] I testi sono integrati nel progetto mediante l’aggancio progettuale.”
L’aggancio progettuale è un sottotipo dell’aggancio procedurale. Quindi, l’aggancio
procedurale è la parte più generale, quando devo creare un testo ho bisogno dell’aggancio
procedurale. Se io devo inventare un testo, ho bisogno di una competenza sulla procedura,
sul procedimento. Se ad esempio devo scrivere un’e-mail, devo avere una competenza
rispetto alla procedura, come quando devo guidare una macchina, devo sapere come
procedere. Dopo posso fare ricorso all’aggancio progettuale, conosciuta la procedura,
sapendo come si fa, serve l’aggancio progettuale per determinare il progetto.1
Dopo che si è stabilito il fine e si è scelto il tipo di testo segue la fase dell’IDEAZIONE,
cioè la fase di invenzione in cui si inventa quello che si andrà a scrivere nel testo. Cos’è
un’idea rispetto alla procedura e alla progettazione di un testo? “Un’idea è una
configurazione di contenuto creata interiormente che mette a disposizione centri di controllo
per un agire creativo e sensato quale, ad esempio, la produzione testuale”. L’idea, quindi,
serve alla produzione testuale, senza di essa non avviene nessuna produzione. Persino per
scrivere una e-mail serve un’idea.

“È senza dubbio complicato trasferire una struttura progettuale su un’idea, soprattutto


quando non è utile parlare apertamente del proprio progetto.” Questo significa qualcosa che
è alla base di testi che partono proprio da questo presupposto. Prendendo ad esempio il
“Macbeth” di Ionesco ci si rende conto che, a differenza del testo di Shakespeare al quale
Ionesco si ispira, c’è qualcosa che disorienta continuamente lo spettatore. Ionesco non rivela
mai qual è il suo progetto.

“All’ideazione succede una fase di SVILUPPO che serve ad ampliare, precisare meglio,
elaborare e collegare fra loro le idee trovate. Si può considerare lo sviluppo come una
ricerca di spazi di sapere memorizzati, ossia di disposizioni di contenuto organizzate
nell’intimo della memoria. Lo sviluppo può oscillare tra due estremi: da un lato, quello del
richiamo di spazi di sapere più o meno intatti, e dall’altro quello di connettere combinazioni
davvero insolite.”

Poi c’è la fase DELL‘ESPRESSIONE, cioè quando cerchiamo le espressioni più adatte per
comunicare le idee che abbiamo trovato. Espressioni già attivate in passato verrebbero
assunte in quanto PREFERENZE.

La quinta fase, invece, è quella della SINTESI GRAMMATICALE, cioè quando


disponiamo le diverse espressioni in maniera lineare nel testo di superficie e sono
inserite entro dipendenze grammaticali. Quando noi vediamo un testo, infatti, qualunque
testo esso sia, come un fumetto, noi ci aspettiamo una sequenzialità. Noi abbiamo
l’aspettativa di vedere degli elementi in sequenza. Questa aspettativa non sempre viene
soddisfatta perché possiamo trovarci davanti un testo che ci disorienta in quanto si presenta
con una sintassi (adesso la chiamiamo così) che non è quella che noi ci aspettiamo. Questo

1A. de Beaugrande e W. U. Dressler, Introduzione alla linguistica testuale, Il Mulino, 1994, pag.54 par. 20.

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può succedere anche in un testo che non sia descrittivo, quindi anche in un testo ad esempio
disegnato, dove noi ci aspettiamo di trovare una sequenza di eventi descrittivi o disegnati
che ci orientano rispetto a quanto sta avvenendo in un contesto. Questo la chiamiamo
LINEARIZZAZIONE. La linearizzazione prevede che gli elementi che compongono un
testo siano governati da un principio di ADIACENZA, io mi aspetto che l’elemento A sia
adiacente all’elemento B e in qualche misura anche all’elemento C, mentre mi aspetto molto
meno che l’elemento A si adiacente all’elemento M o addirittura all’elemento Z che sta nel
testo. C’è una distanza tra gli elementi del testo che va di solito rispettata, tuttavia ci
possono essere dei testi che non rispettano questa distanza. Questo non significa che quei
testi siano poco coerenti o poco informativi e via dicendo, possono avere in misura più o
meno maggiore uno di questi parametri, tuttavia devono mantenerli in una misura
sufficiente affinché il testo sia fruibile.

Se voi ricordate l’esempio del razzo giallo che viene lanciato in alto, le persone che stanno lì
per togliersi dal pericolo derivante dal lancio, arretrano e vanno a proteggersi dietro un
parapetto e lì ci sono degli elementi, nella sequenza del testo, che devono stare
necessariamente in un certo ordine. Se noi cambiamo l’ordine di questi elementi abbiamo
una difficoltà.

Un’altra cosa che dobbiamo tenere a mente è la RICEZIONE DEL TESTO che è ancora
una volta un altro discorso. Il ricevente quando sente un testo o quando lo legge comincia a
interpretarlo vedendo qual è la sua organizzazione di superficie. E quindi fa appello alla sua
competenza, a quello che lui già sa, le conoscenze preliminari e poi scende verso una
dimensione più profonda per cercare di  capire meglio cosa significa quel testo. Però prima
deve analizzare il testo di superficie, cioè sciogliere la sua catena lineare, gli elementi nella
loro linearità di superficie, in dipendenza di ordine grammaticale. Bisogna vedere qual è
l’ordine grammaticale. Gli elementi di queste dipendenze sono, secondo Beaugrande e
Dressler, LE ESPRESSIONE CHE ATTIVANO CONCETTI E RELAZIONI CHE
VENGONO MEMORIZZATE MENTALMENTE. Esiste innanzitutto quando si legge o
sente un testo quella che viene chiamata fase di richiamo dei concetti, cioè io cerco di
capire quali sono i concetti espressi in quel testo e poi devo capire quali sono le relazioni
che legano tra loro questi concetti. La configurazione dei concetti si denota in modo sempre
più marcato facendo riconoscere DENSITÁ E DOMINANZE. Le idee essenziali possono
essere fissate in una fase di richiamo delle idee: io devo saper richiamare i concetti espressi
nel testo ma devo anche richiamare le idee che sono espresse nel testo. C’è un terzo
richiamo quando si sta di fronte ad un testo: è il richiamo del progetto, in base alla quale
io cerco di capire qual è il progetto di quel testo, che obiettivo ha. Questo ci porta al
progetto di colui che ha realizzato il testo, perché se c’è un testo significa che c’è qualcuno
che lo ha realizzato e che aveva un progetto che noi dobbiamo riuscire a ricostruire quando
siamo di fronte al testo.
Quindi la ricezione testuale contiene, come affermano Beaugrande e Dressler, una SOGLIA
TERMINE: significa che c’è una zona nella quale noi ci muoviamo in maniera
differenziata a seconda se sono io, se è lei o l’altro e comprendere cosa questo testo ci stia
comunicando. Dicono Beaugrande e Dressler che quando il testo è importante per il
ricevente questa soglia è corrispondentemente alta. Un critico letterario ad esempio
dedicherebbe in modo atipico un grande sforzo di elaborazione a certi testi di natura
letteraria prendendo in esame non solo gli aspetti più probabili ma anche aspetti che ad altri
destinatari di quel testo interessa poco.

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Soglia-termine

Beaugrand e Dressler introducono un altro elemento nella loro terminologia che è soglia-
termine. In ogni situazione c’è una soglia in cui il producente ritiene che il suo testo sia
soddisfacente ai fini dello scopo comunicativo prefissato e il destinatario ritiene che la sua
interpretazione sia adeguata riguardo allo sforzo cognitivo prodotto.
Fanno una considerazione molto semplice, di buon senso: se io voglio scrivere un'email, la
posso perfezionare quanto voglio, ma ad un certo punto mi dovrò pur fermare. Quindi, c'è
una soglia-termine oltre la quale non ha molto senso portarsi, perché se io volessi
continuare all'infinito questo perfezionamento, allora il testo non sarebbe mai concluso. Non
esiste il testo perfetto di un genere testuale, non esiste la poesia perfetta, perché questo
significherebbe che noi avremmo raggiunto la perfezione di un genere e quindi quel genere
non avrebbe motivo di essere. In un certo senso, bisogna accontentarsi, e quindi capire qual
è la soglia-termine nella produzione di un testo che lo rende anche recepibile.

C'è anche una considerazione di tipo diacronico, che noi dobbiamo fare: dobbiamo tener
presente che il modo di raggiungere la soglia-termine cambia nel tempo, il modo di scrivere
un semplice messaggio, un qualunque testo, così come ce lo si aspetta oggi è cambiato, è
diverso rispetto a quello di 10 anni fa. Il feedback, il riscontro che tu mi dai su una qualità
del mio testo, produce il tentativo di tentare un testo un po' più fruibile, migliore; cioè il
feedback che dà il lettore o il ricevente, in generale, serve a riequilibrare la soglia-termine.

La coesione testuale

Quando ci approcciamo per la prima volta ad un testo, c’è necessità che quel testo sia coeso,
cioè gli elementi devono avere un ordine superficiale minimo che mi consenta di fare dei
collegamenti perché se è tutta roba messa a caso o non vediamo nessun collegamento
oppure cominciamo a fare dei collegamenti che non erano nelle intenzioni di chi ha scritto il
testo. Il nostro compito è trovare per prima cosa nel testo la coesione o un principio di
coesione, ossia gli elementi che io materialmente vedo o sento devono essere coesi tra loro.

Quindi un testo, nel momento in cui lo vedo e lo leggo, deve risultare coeso, cioè i diversi
elementi devono avere un ordine di superficie che mi permette di fare dei collegamenti.

es.
Un cartello stradale che indica di rallentare a causa della presenza di bambini "SLOW,
CHILDREN AT PLAY".

La coesione è fondamentale perché mi deve dare, in alcune circostanze, l’immediato


significato del testo e se io devo formulare un testo che dice “attento, qui ci sono bambini
che giocano” gioco tutto sul piano della coesione, devo essere molto sintetico e dare il
messaggio più chiaro possibile nel più breve spazio possibile anche perché quel messaggio
viene letto da uno che molto probabilmente lo deve leggere tutto e non posso indurlo in un
fraintendimento, quindi la coesione è importante.

Talvolta però il testo di superficie può ingannare:

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es.
“Topo, topo, senza scopo
dopo te, cosa vien dopo?”

Si tratta di una delle filastrocche di Toti Scialoja (Scialòia) in cui al centro vi sono spesso
degli animali. Anche se le filastrocche dovrebbero essere brevi testi per far sorridere i
bambini attraverso delle rime, notiamo che questo testo appare come una domanda sul senso
della vita in cui topo sta per topos, appunto luogo, mondo, universo, vita.
Il testo risulta dunque solo apparentemente semplice. Il criterio di coesione da solo non
basta per comprenderlo. Nella testualità fantastica noi tendiamo ad accettare tutto ciò che
leggiamo anche se non ci sono dei collegamenti logici, questo perché ci sono diversi criteri
di accettabilità.

La coesione riguarda la stabilità del testo in quanto sistema, un sistema che si caratterizza
per la continuità delle occorrenze. Il concetto di continuità è fondamentale nella nozione di
coesione perché noi ci aspettiamo una continuità basata sulla contiguità degli elementi,
elemento A contigua ad elemento B e non a elemento M o addirittura a elemento Z e via
dicendo. Noi ci aspettiamo di avere accesso a questo livello di superficie e questo
ovviamente è immediatamente percepibile sul piano della sintassi.

Noi abbiamo una memoria di portata lunga e abbiamo una memoria di portata breve. La
memoria di breve portata è fondamentale per accompagnarci nell’operazione che vede la
coesione del testo. Se un elemento in un testo mi viene detto troppo in là, troppo avanti
rispetto all’elemento precedente che sta in quel testo, io ho dimenticato delle informazioni.
Quindi gli elementi devono essere in qualche modo contigui in una sorta di continuità
altrimenti io lo dimentico. Il testo deve avere la sua forza di coesione.
Sintagma  il sintagma è la formula che identifica lo stato larvale della testualità, siamo
oltre la parola ma siamo già ad un livello strutturale che ci dà qualche informazione. Certo
non è un’informazione definita. Il sintagma è un’unità con un elemento principale e
almeno un elemento dipendente. Per esempio, “panda turchese”: c’è l’elemento
principale e c’è l’elemento dipendente. Un ENUNCIATO può essere PARZIALE,
significa che possiamo avere un’unità testuale dotata di un sintagma nominale e di un
sintagma verbale che sia congruente con questa prima parte: “una panda turchese correva”.
Un ENUNCIATO, però, può essere anche PIENO: ossia una unità delimitata, ben chiara,
che a sua volta ha un enunciato parziale dipendente. Quindi partiamo da questo presupposto:
sintagma, enunciato parziale e enunciato totale.

Beaugrande e Dressler evidenziano i mezzi, i dispositivi necessari per la coesione: la


ricorrenza, il parallelismo, la parafrasi, la proforma, l'ellissi e le congiunzioni.

Ricorrenza  La ricorrenza rappresenta la ripetizione delle stesse parole o espressioni


all'interno del testo. La ricorrenza è frequente nel discorso spontaneo, o perché si ha poco
tempo per pianificare l'enunciato o perché il discorso spontaneo è soggetto a interruzioni o
altri avvenimenti improvvisi; inoltre, viene spesso usata per sottolineare o rafforzare il
proprio parere, oppure per esprimere sorpresa o rifiuto. Ad esempio: “Qui c'è acqua e fango
dappertutto – l'acqua ha sommerso le auto, il fango entra dentro le case.“

Distinguiamo tra ricorrenza e ricorrenza parziale: La RICORRENZA è la semplice

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ripetizione di elementi e pattern (es: “Egli arrivò ieri sera. Egli arrivò e i bimbi furono
messi a letto.“), mentre la RICORRENZA PARZIALE è la ripetizione di parole con
qualche variazione: si usa lo stesso materiale linguistico cambiando genere di parola (es:
“Egli arrivò inaspettatamente: il suo arrivo infatti colse di sorpresa tutti”).

Parallelismo  è la ricorrenza della stessa struttura sintattica con cambio di materiale


lessicale (es. «Paolo ama la montagna. Rebecca adora il mare. Giulio disprezza la
campagna»). Le collocazioni (dal latino cum locare, stare nello stesso posto) sono
occorrenze di parole che tendono ad aggregarsi. Due parole, oppure nome-preposizione,
verbo-nome, sono dei costrutti ricorrenti che chi ha competenza sa che hanno un
determinato significato. Infatti, a volte, il verbo perde il suo valore semantico, si “svuota”.
Se io dico “cosa stai facendo?” “Sto facendo la cucina” se io non sono uno che sta
imparando l’italiano, ma già lo conosco, allora so che “fare la cucina” in italiano non
significa farla nel senso di costruirla con gli attrezzi da muratore

Proforme  Le proforme sono spesso elementi brevi o privi di contenuto (pronome,


avverbio (lì, così), pro-aggettivo (tale, siffatto), quasi-pronome ecc.), i quali però rimandano
ad altro contenuto o a strutture basilari (ripresa anaforica). Queste proforme consentono agli
utenti di tenere a mente il contenuto senza dover ripetere ogni volta l'esatta parola o
espressione; le proforme più note sono i pronomi, i quali prendono il posto dei
relativi sostantivi o sintagmi nominali (avendone in comune la referenza).

Anafora  L'anafora è una delle più importanti funzioni di coesione linguistica dei testi.


[1] Serve a mettere in opera dei legami tra porzioni di un testo più o meno vaste e più o meno
distanti tra loro. Questo legame coinvolge soprattutto sintagmi nominali e pronomi. Per
esempio:

“Ho incontrato un vagabondo vicino alla spazzatura e l'ho portato a casa”:


Il pronome l' (lo) rappresenta la ripresa anaforica dell'entità "vagabondo", che viene
denominata "antecedente"[1]. Come si vede, l'anafora è uno strumento per "economizzare" le
dimensioni di un testo (a prescindere che si tratti di parlato o scritto), senza rinunciare alla
sua coesione. Quindi, l’anafora è una pro-forma che sta dopo l’espressione coreferente.

Catafora  Si tratta dell'opposto dell'anafora, perché la catafora mette prima l’elemento
che è ignoto e poi dopo svela a cosa si riferisce. Così, ad esempio, nella frase:

“Te lo dico per l'ultima volta: no!”


il pronome lo, pur costituendo una "ripresa anaforica", di fatto precede il determinante no.

Ellissi  L'ellissi è l'omissione di qualche elemento che resta sottinteso in una frase e
risulta ricavabile dal contesto. Gli elementi che si possono omettere sono il soggetto, il
predicato verbale, una preposizione ecc.. Ad esempio: “Sono partiti i tuoi genitori? No, [i
miei genitori] non sono ancora partiti“.

Parafrasi  La parafrasi è un modo di spiegare un testo mediante delle circonlocuzioni,


cioè dirlo in modo diverso. Cerco di dire quello che significa con altre parole, comincio a
girare attorno al termine che devo parafrasare, che devo spiegare. Quindi, quando
parafrasiamo facciamo degli ampliamenti del significato, modifichiamo il significato,

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aggiungiamo o sottraiamo qualcosa; facciamo qualcosa che modifica quel testo. Quindi la
parafrasi è alla fine l’esposizione di un testo che può essere semplificato o può essere
adattato alle esigenze del momento. Questa riformulazione spesso è operata mediante degli
indicatori di parafrasi, che sono delle espressioni ricorrenti come ad esempio: “in altre
parole”, “per dire diversamente”, “per dirla altrimenti”. Stiamo quindi comunicando che
stiamo cercando di dire la stessa cosa con altre parole. Ma il problema è esattamente questo:
la stessa cosa con altre parole non la si dirà mai.
A volte invece la parafrasi serve proprio a rafforzare o ad attenuare l’intensità di quello che
noi vogliamo dire. Ad esempio se io dico: “La tua indifferenza… anzi, per meglio dire, il
tuo completo disinteresse rispetto a quello di cui ti sto parlando mi offende”.

Giunzione  sono delle parti del discorso che utilizziamo per segnalare le relazioni tra
avvenimenti e situazioni. Quattro sono i tipi fondamentali di giunzione:
- congiunzioni, che collegano elementi dello stesso status (e, inoltre),
- disgiunzioni, che collegano elementi con status alternativo (oppure, altrimenti)
- controgiunzioni, che collegano elementi dello stesso 'status', ritenuti talvolta inconciliabili
(ma, però)
- subordinazioni, che collegano elementi per i quali lo 'status' di uno dipende da quello
dell'altro (poiché, infatti, perché). Può essere espressa mediante relazioni di causalità,
ragione, prossimità temporale e modalità.

Deissi (o esofora)  Con il termine deissi si definisce, in linguistica, il ricorso ad


espressioni che, all'interno di un enunciato, facciano riferimento:
 alla situazione spazio-temporale in cui lo stesso enunciato è emesso;
 alle persone che emettono o ricevono l'enunciato.

Gli elementi linguistici tipici della deissi sono detti "elementi deittici" e sono, quindi,
elementi che consentono un riferimento diretto alla situazione del discorso nello spazio e nel
tempo. Ci sono tre tipi principali di deissi:

- la deissi personale  che organizza i ruoli del discorso;


- la deissi spaziale  che mette in rapporto il linguaggio alla posizione delle persone
e degli oggetti nello spazio;
- la deissi temporale  che è il mezzo per indicare il momento stesso
dell‘enunciazione

In genere la deissi viene espressa principalmente con aggettivi


dimostrativi (come questo e quello), con pronomi personali, avverbi di tempo e luogo
(come adesso, ieri, qui, là) e con il tempo verbale.

Ad esempio, nella frase


Io questo qui non lo voglio!
ci sono tre elementi deittici, io (la persona che parla, definita dal contesto
enunciativo), questo (una persona, un animale o un oggetto) e qui (il luogo in cui si
trovano emittente e destinatario).

Intonazione, invocazione e proclamazione (fanno parte della coesione): Abbiamo


un’invocazione quando viene presentato materiale perlopiù già noto, cioè io invoco

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qualcosa che già è stato detto nel testo. C‘è una proclamazione, invece, nei casi in cui il
parlante apporta qualcosa di nuovo.
L’INTONAZIONE è un sistema che appoggia la coesione dei testi parlati. Solitamente,
l’inizio e la fine di un enunciato hanno un’intonazione più alta dell’inizio e della fine di un
paragrafo. Con l’intonazione, noi mettiamo nella nostra lettura già delle informazioni,
cioè noi orientiamo l’ascoltatore rispetto a quella che è la tematica del testo, il valore
semantico, il suo significato. Senza rendercene conto, inconsapevolmente, noi informiamo il
destinatario sul significato del testo.

La coerenza testuale

La coerenza è la relazione che lega i concetti degli enunciati che formano un testo. Un testo


produce senso solo se c’è una continuità di senso, se c’è una relazione coerente fra gli
enunciati che lo compongono, e fra le espressioni testuali e le porzioni di sapere che queste
attivano. Un testo risulta coerente quando nel riceverlo il destinatario è in grado di attivare
una serie di conoscenze già immagazzinate e condivise. La traccia dell’esperienza passata
accumulata nella memoria lascia nella conoscenza delle tracce che permettono di collegare
le frasi di un testo tra loro, anche quando ci sono lacune di informazione concettuale, e
questo serve a ricostruire la continuità di senso all’interno del messaggio.

La coerenza, quindi è il prodotto del nostro pensiero, del nostro pensiero che fa appello alle
conoscenze che già abbiamo, alle conoscenze testuali, le conoscenze dei tipi testuali e alle
conoscenze memorizzate dentro ognuno di noi, per collegare tra loro i concetti. Quindi
quando vediamo un testo per prima cosa lo incaselliamo in un genere come poesia, mail,
racconto breve ecc., e non sarebbe possibile questo se non avessimo preconoscenze e
precompetenze.

Quindi, ogni testo si basa su concetti e relazioni e affinché sia coerente è necessario mettere
in relazione tra loro i concetti. I concetti possono essere messi in relazione tra loro
attraverso gli anelli di congiunzione. Le relazioni sono gli anelli di congiunzione fra i
concetti che si presentano assieme nel mondo testuale; ogni anello dovrebbe apportare una
designazione del concetto con cui stabilisce un collegamento (ad es. 'stato di', 'attributo di'
ecc.). Sono queste relazioni a delimitare il valore d'uso di ciascun concetto.
I concetti non sono tutti uguali tra loro, per esempio abbiamo il concetto d’oggetto, il
concetto d’azione, il nesso di causa ecc…

Es: Paolo (c. d'oggetto) è caduto (c. d'azione) e si è ferito (nesso causale).

Se per significato s’intende la capacità che una espressione linguistica ha di rappresentare o


trasmettere conoscenze, possiamo chiamare SENSO quelle conoscenze che vengono
effettivamente trasmesse mediante le espressioni all’interno di un testo. Se il senso inteso
dal parlante non è palese, si ha un caso di INDETERMINATEZZA. Se questa
indeterminatezza persiste, si registra allora un’AMBIGUITA’ quando si suppone che essa
non sia stata voluta coscientemente dal parlante o una POLIVALENZA quando, invece, il
producente del testo ha avuto l’intenzione di esprimere più sensi contemporaneamente. Un
testo “produce senso” perché c’è una CONTINUITA’ DI SENSO all’interno del sapere
attivato con le espressioni testuali. Un testo è “privo di senso” quando i riceventi non
riescono a rilevare una continuità. Il senso è alla base della coerenza, perché la coerenza è la

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relazione che lega i significati (i concetti) degli enunciati che formano un testo e così
facendo conferisce senso al testo.

Per capire se un testo è coerente possiamo servirci anche della causalità, cioè il rapporto tra
causa e effetto. Infatti non si può non esplicitare i nessi causali all’interno di un testo perché
sennò si farebbe un “torto” al destinatario del testo e anche al fatto che il testo deve essere
un’occorrenza comunicativa. Per esempio, nella frase “Gianni è caduto e si è rotto la testa”
c’è un evento che è il CADERE che è la causa della rottura della testa.

Altri elementi importanti all’interno del testo che lo rendono coerente sono lo scopo e il
tempo. E’ importante saper costruire e rilevare nel testo la condizione temporale, la
consecutio temporali, la successione delle sequenze temporali. Quindi, la coerenza è il
risultato dell’unione di tutti questi elementi: causalità, scopo, tempo ecc…

Es: Paolo manda fuori Marco che deve fare la spesa (la ragione\lo scopo).

Sapere accidentale, determinato e tipico:

Un concetto è una configurazione di conoscenze (sapere, contenuto cognitivo) che possono


essere attivate o richiamate alla coscienza con maggiore o minore unitarietà e consistenza.
Il nostro sapere si articola in tre livelli, e questo noi lo dobbiamo adattare a quello che è il
concetto e relazioni che sta alla base della testualità, la relazione tra concetto e relazione
all’interno del testo è quello che ci permette di cominciare a comprendere un testo.

Si deve pensare che i concetti contengano delle componenti che possono essere tenute
insieme da una particolare FORZA DI CONNESSIONE. Le componenti essenziali per
l'identità di un concetto costituiscono un sapere determinato, un sapere generale e vero (ad
es. tutti gli uomini sono mortali/tutti gli animali respirano). D'altro lato, le componenti che
sono vere solo nella maggior parte dei casi in cui viene adoperato un concetto, si
definiscono sapere tipico, cioè un sapere specifico di una situazione (ad es. gli uomini di
solito vivono in comunità/ i gatti di solito fanno le fusa). Infine, le componenti che possono
essere vere o no rappresentano un sapere accidentale (ad es. alcuni uomini sono grassi/
alcune persone hanno i capelli rossi).

Le relazioni sono gli anelli di congiunzione fra i concetti che si presentano assieme nel
mondo testuale; ogni anello dovrebbe apportare una designazione del concetto con cui
stabilisce un collegamento (ad es. 'stato di', 'attributo di' ecc.). Sono queste relazioni a
delimitare il valore d'uso di ciascun concetto.

L’uso di espressioni linguistiche in un’attività comunicativa comporta l’ATTIVAZIONE di


relazioni e concetti corrispondenti ad un DEPOSITO ATTIVO (=spazio di lavoro mentale;
la maggior parte di coloro che usano il linguaggio, impiegando o ascoltando una data
espressione linguistica attivano più o meno la stessa porzione di sapere ossia la richiamano
nel deposito attivo della loro memoria). L’attivazione di un’unità di sapere comporta la
conseguente attivazione di altre unità che sono in stretta correlazione e sono collocate nel
DEPOSITO DELLA MEMORIA(ATTIVAZIONE AMPLIATA). Questo ci riporta, poi,
ai pattern globali.

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Pattern globali: i pattern rappresentano le sequenze di concetti immagazzinati dagli utenti;
la loro memorizzazione globale dipende dalla loro alta incidenza d'uso. Si possono
distinguere le seguenti tipologie di pattern: le cornici che racchiudono conoscenze condivise
legate alle COMPONENTI CONTESTUALI (interviste, colloquio di lavoro, festa di
compleanno); gli schemi raccolgono avvenimenti e situazioni connessi da prossimità
temporale e da una disposizione sequenziale dei fatti (progetto di ricerca: ipotesi, obiettivi
materiali, risultati ecc.); i progetti, raccolgono avvenimenti e situazioni caratterizzati da uno
scopo preciso (discorso che mira a convincere sulla bontà di un prodotto), se la cornice e lo
schema devo necessariamente fornirli, il progetto non si svela subito. Il progetto si
differenzia da schemi e cornici perché spesso si può giocare sull'effetto sorpresa; i copioni,
infine, sono dei progetti stabilizzati che spesso vengono richiamati per definire i ruoli e le
azioni dei partecipanti alla comunicazione, si distinguono dai progetti perché hanno una
routine d'uso già consolidata (per esempio, i “buoni” nelle storie, o in una stazione: dialogo
con controllore, dialogo con il bigliettaio, con i passeggeri).
***
Es: “Il gatto camminava sul tetto. Il gatto saltò sull’albero che stava a fianco al tetto.
Giunsero i pompieri, chiamati da un vicino allarmato. Uno dei pompieri recuperò il
gatto”.

Dressler e Beaugrande creano un elenco di concetti che secondo loro sono rinvenibili nei
testi e che ci aiutano ad esaminare, ricostruire il quadro di coerenza di un testo. Dressler e
Beaugrande suddividono questi concetti in primari e secondari che sono i pilastri della
testualità, pilastri della coerenza. Se io analizzo un testo devo individuare i concetti primari
di quel testo e poi quelli secondari. I CONCETTI PRIMARI sono 4:
- OGGETTI: entità concettuali con identità e costituzione stabili (“la macchina
bianca correva”)
- SITUAZIONI: configurazioni di oggetti in relazione reciproca nel loro stato attuale;
“il cervo si fermò in mezzo alla strada e poi andò a nascondersi in un cespuglio”
- AVVENIMENTI: casi occorrenti che modificano una situazione o uno stato
all’interno di essa “… poi mio padre scese dalla macchina e andò a prenderlo”
- AZIONI: avvenimenti prodotti intenzionalmente da un agente “Paolo prese a pugni
il cuscino”

Posso immaginare un testo molto semplice come un gatto camminava sul tetto. In questo
testo l’oggetto è il gatto, immaginiamo che il gatto si muove perché si trova sul testo e
possiamo immaginare che ad un certo punto il gatto saltò su un albero che stava affianco al
tetto. In questo caso c’è una situazione relativamente al tetto e all’albero che sono in
relazione reciproca.

I concetti secondari sono fondamentali per descrivere le caratteristiche di un testo, per


capire cosa succede sul piano della coerenza. I concetti secondari sono:

- STATO: le circostanze attuali e non necessariamente tipiche di un’entità (“il cane si


trova sul divano”)
- AGENTE: entità dotata di forza che compie l’azione modificando la situazione; (“il
vento scompiglia i capelli di Laura”)
- OGGETTO DELL’AZIONE: entità cui viene mutato lo stato da parte dell’agente;

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- RELAZIONE: questa è interessante perché mi impone di cercare dentro un testo
anche le relazioni che a volte non sono chiare (per esempio le relazioni tra
personaggi, quindi la relazione madre-figlio);
- ATTRIBUTO: condizione particolare dell’entità; per esempio se sta scritto “il gatto
si muove”, se lo avesse voluto disegnare, lo avrebbe presentato con le zampe in
movimento, quindi noi attribuiamo attributi alle entità testuali anche senza
esplicitarle.
- LOCALIZZAZIONE: posizione di un’entità nello spazio;
- TEMPO: posizione di una situazione nel tempo;
- MOVIMENTO: cambio di luogo “Laura salì le scale e andò in camera sua”
- STRUMENTO: oggetto privo d’intenzioni proprie che fornisce i mezzi per un dato
avvenimento;
- FORMA: figura, contorni e simili;
- PARTE: componente o membro di un’entità;
- SOSTANZA: materiali di cui è composta un’entità;
- CONTENIMENTO: localizzazione di un’entità all’interno di un’altra;
- CAUSA;
- AGEVOLAZIONE;
- RAGIONE;
- SCOPO;
- IL RAPPRESENTANTE: è “un elemento di una classe che eredita tutti gli attributi
non cancellati di questa classe”: sia il gatto sia il vicino sia il pompiere possono
essere considerati rappresentanti da ricondurre ad una classe da cui ereditano tutta
una serie di attributi non esplicitati nel testo.

Il MONDO TESTUALE è caratterizzato dalla combinazione di concetti e relazioni. Cioè


ogni concetto si presenta con una o più RELAZIONI con altri concetti.

***
Parlando della coerenza, dobbiamo accennare all' ereditarietà, cioè tutto ciò che si presume
di sapere non viene esplicitato nel testo. L'ereditarietà è la trasmissione di conoscenze tra
unità di tipi e sottotipi identici o simili. L'ereditarietà agisce in modo da identificare e
catalogare le conoscenze: quanto più sono determinati e tipici i tratti di un rappresentante o
di una sottoclasse, tanto più celermente essi verranno riconosciuti come elementi di questa o
quella classe. Cioè tutte le volte che si scrive un testo non si deve parlare di tutti gli antefatti
possibili che riempiono i pattern, ma bisogna tenere anche conto dell'immenso spazio di
fraintendimento, della carenza di fattori di coerenza che ci sono tra queste due polarità 'il
fatto che io dia per scontato' e 'il fatto che tu non mi dica'. Ci sono 3 tipi di ereditarietà:

- Il rappresentante che può esercitare tutte le caratteristiche della sua classe a meno che
esse non vengano cancellate in modo esplicito. Ad esempio, diamo per scontato che
Napoleone abbia dieci dita dei piedi perché si considera scontato che ne abbia anche se
nessuno ha effettuato uno studio specifico su questo.
- Le sottoclassi ereditano dalle sopraclassi solo quelle proprietà in base a cui si
definiscono con più esattezza le sottoclassi. Per esempio, la sottoclasse “struzzi” si
differenzia dalla sopraclasse “uccelli” poiché lo struzzo non può volare ma può correre
molto veloce.
- Le unità possono prendere qualcosa in eredità dalle altre unità con cui hanno un

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rapporto di ANALOGIA: si tratta di classi di unità diverse che però possono essere
paragonate tra loro. Cioè, se io dico “la gallina è un animale” e “la gallina è un uccello”,
la nostra mente arriva più rapidamente ad una conclusione sul primo esempio che non
sul secondo. Però se io dico in un testo “la gallina è un uccello” allora avrò un motivo e
ho l’obbligo di esplicitare questo motivo sennò può creare problemi sul piano della
coerenza. Infatti, la sopraclasse “animale” occupa un posto più alto della sua sottoclasse
“uccello”

Quindi, quanto più sono determinati e tipici i tratti di un rappresentante o di una sottoclasse,
tanto più essi verranno riconosciuti come elementi di questa o quella classe (ad. es. la
frase la gallina è un uccello, quindi un animale contiene il concetto 'gallina' affiliato alla
sottoclasse 'uccello', della classe degli animali. Il rappresentante gallina però ha tratti poco
tipici rispetto alla sottoclasse 'uccello'; per conseguenza, verrà più facilmente identificato
come facente parte della classe animale). Cioè se io dico “la gallina è un animale” e “la
gallina è un uccello” la vostra mente arriva più rapidamente ad una conclusione sul primo
esempio che non sul secondo.

L’ereditarietà è connessa alle questioni di economia del testo. Quando parliamo di economia
ci riferiamo all’economia testuale e quindi che dobbiamo provare a mettere il numero
necessario di elementi nel testo.

Intenzionalità e accettabilità

Intenzionalità e accettabilità sono due parametri della testualità che fanno riferimento al
mondo extra testuale. L'intenzionalità è quel parametro che riguarda l'atteggiamento di
colui che produce il testo. Un autore deve avere l'intenzione di formare un testo coeso e
coerente perché deve far arrivare agli altri le sue conoscenze e queste conoscenze devono
rendere chiaro il fine per cui quel testo è stato costituito. In senso più ampio, indica tutti i
mezzi utilizzati da chi produce il testo per perseguire e realizzare le proprie intenzioni.

L’accettabilità, invece, riguarda l’atteggiamento del ricevente rivolto ad attendersi un testo


coesivo e coerente. In senso ampio, l’accettabilità comprende anche la disponibilità del
ricevente a partecipare a un discorso e a collaborare per il perseguimento di un fine
comune. Le relazioni esistenti fra intenzionalità e accettabilità appaiono riconducibili al
principio di cooperazione.

Per esempio, abbiamo visto i fumetti di Sio che, molto spesso, sono dei fumetti
incomprensibili. Tuttavia, nonostante non abbiano un senso, fanno comunque divertire e
infatti l’intento dell’autore è quello di far ridere. Di fronte a questi testi molto spesso noi
siamo tolleranti. Rispetto ad un testo, come quello che abbiamo appena visto di Sio, la
nostra tolleranza è molto larga, siamo talmente tolleranti che accettiamo che non ci sia uno
scopo, una causalità, l'agevolazione e ci accontentiamo di tutto questo, dicendo che tutto
sommato questo testo è coerente. Inoltre, siamo sempre tolleranti quando parliamo con
qualcuno, perché nel parlato spesso facciamo un sacco di pause e di esitazioni prima di
arrivare all’informazione che ci interessa.

Poi accettiamo che una rana avesse un milione di anni, ma ancora più curioso è accettare
che la figlia ne avesse 90 mila, cioè la rana madre ha fatto la figlia quando aveva 910mila
anni, come dire, è un po' curiosa questa storia, non funziona tanto bene. Poi un giorno la

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rana muore di infarto, attenzione, quale rana morì d'infarto? Perché il testo dice, questa
rana, ma lì le rane sono due e si parla di due rane e non è così scontato che a morire sia stata
quella più anziana. Questo è l'esempio di un testo molto semplice, che ci fa sorridere, ma
non appena cerchiamo di mettere le mani anche soltanto nel livello di superficie, ci
rendiamo conto che ci sono delle difficoltà, dei fenomeni che non riusciamo a spiegare. Per
questo si dice che è necessario anche un altro criterio della testualità che è quello
dell'accettabilità. L'accettabilità è l'altra faccia dell'intenzionalità. Da una parte abbiamo
l'intenzionalità che è il fine, il progetto, lo scopo che soggiace alla condizione del testo,
quindi l'intenzionalità è di chi produce il testo. Un testo, però, dev’essere anche accettabile:
chi lo scrive non può produrre un testo per sé stesso, altrimenti non avrebbe senso produrlo.
Un testo che l’autore produce per sé stesso è un testo che non rappresenta un'occorrenza
comunicativa e quindi non è accettabile.

Quando l'accettabilità subisce una restrizione, allora questo può causare un appesantimento
del testo. Ad esempio, se un personaggio dice: “sai ora dovremmo agire in questa
situazione” e l’altro risponde “no, però adesso hai visto che bel tempo”, significa che in
qualche modo c'è un intoppo sulla comunicazione, e in questo modo l’autore sta rallentando
la coesione del testo, sta appesantendo la comunicazione e rendendo il testo quasi
inaccettabile.

Quindi il testo noi lo intendiamo sempre come qualcosa che deve avere la sua coesione,
però ci possono essere delle difficoltà, delle difficoltà più o meno volontarie che disturbano
la coesione. E quindi si possono come slegare tra loro le superfici del testo/dei testi e noi
sappiamo che la superficie del testo è proprio la sede della coesione e questa slegatura può
essere ad esempio provocata da fattori di contesto e quindi dalla situazione (per questo poi
dovremo parlare appositamente di situazionalità). Questo è per quanto riguarda la coesione.
Altra cosa appare quando si disturba la coerenza: la coerenza come si disturba? La
coerenza si disturba quando io ti dico delle cose che contengono magari anche delle
ripetizioni, che contengono anche delle frasi fatte che dovrebbero significare che le cose che
sto dicendo sono semplici, però poi in realtà queste cose sono un po’ slegate tra di loro. Ad
esempio: c’è un esempio in cui ci sono due soggetti che si parlano: c’è un poliziotto che
parla ad un signore. “Allora, Sir”, disse il poliziotto, ‘è l’uomo che cercavamo, non c’è
dubbio; però non è l’uomo che cercavamo. Infatti l’uomo che cercavamo non era l’uomo
che volevamo trovare, Sir, se comprende le mie semplici parole’. Diciamo che qui c’è un
disturbo della coerenza.

Dicono Beaugrande e Dressler che, nella gran parte dei casi, anche se c’è un difetto di
coerenza, l’interlocutore (il destinatario) lo accetta e lo tollera perché tutto sommato riesce a
capire quello di cui si sta parlando. Ma ci sono delle situazioni in cui il difetto di coerenza è
tale che si crea difficoltà di comunicazione.

In ogni cosa che facciamo, sul piano comunicativo, noi abbiamo un obiettivo e questo
obiettivo fa seguito ad un progetto; oppure al contrario, noi abbiamo in mente un obiettivo e
cerchiamo di costruirci attorno un progetto, ci immaginiamo rapidamente in mente come
costruire questo obiettivo. Il modo in cui noi vogliamo realizzare questo obiettivo si
rappresenta, dal punto di vista testuale, con degli elementi di base.
La prima cosa da fare è fissare il ruolo, cioè in un testo, che sia esplicito o meno, va fissato
il RUOLO DEGLI INTERLOCUTORI, cioè devo far passare un’informazione su me

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stesso (cioè io che ruolo ho nell’economia del testo). Poi c’è un’AZIONE DI DISCORSO,
cioè un atto intenzionale che volge una situazione in una direzione che essa non avrebbe mai
preso. E’ un’azione che provoca cambiamenti nella situazione e nelle diverse condizioni dei
partecipanti alla comunicazione. L’azione di discorso, che modifica una situazione, sarebbe
guidata da un progetto ogni volta che il producente del testo tenta di orientare la situazione
verso un fine. Spesso infatti il producente del testo tenta di orientare la situazione verso un
fine e quindi parliamo di ORIENTAMENTO DELLA SITUAZIONE e CONTROLLO
DELLA SITUAZIONE:

L’orientamento della situazione è quando si cerca di orientare la situazione in una certa


direzione, di orientare il discorso in una certa situazione e di arrivare ad un grado alto di
tentativo di questo orientamento. Inoltre, io posso cercare non solo di darti un’idea, ma in
qualche modo anche a costringerti a dichiararti d’accordo con me. Quindi si può arrivare,
attraverso queste procedure, anche ad una testualità manipolativa. Vediamo, come
esempio, il dialogo tra zia Rachele e il signor Tupman, scritto da Dickens:

L’esempio più centrale è quello di un’odiosa conversazione tra i personaggi. Uno è Zia
Rachele (una signora) e l’altro è il signor Tupman (il suo interlocutore). In sostanza, questo
testo è una conversazione nella quale Zia Rachele (Zia sottointende il fatto che non sia
sposata) cerca di mettere in cattiva luce le sue due nipoti perché è preoccupata del fatto che
il Signor Tupman possa essere distratto dalla bellezza e dalla giovinezza delle ragazze. La
zia, invece di dire che lei è preoccupata, trova una strategia manipolativa e comincia a parlar
male delle due nipoti. Questo meccanismo è interessante perché rende il testo credibile,
inoltre noi sappiamo che queste cose sono difficilissime, è difficile parlare di una cosa senza
parlare direttamente di quella cosa e pretendendo al tempo stesso di non essere scoperti
nelle nostre reali intenzioni. Sono operazioni difficili da mettere su. Questo è il gioco
dell’INTENZIONALITA’ e dell’ACCETTABILITA’. Comunque, la prima azione del
discorso è una domanda perché la zia chiede al signore se trova carine le sue nipoti. La zia,
però, sussurra e la sua voce sussurrata rivela (dicono Beaugrande e Dressler) la sua speranza
in una risposta che deluda le due nipoti. La risposta del sig. Tupman a quel sussurrare della
zia, indica che, in linea di massima, lui è disposto ad essere cooperativo e ad appoggiare il
fine degli sforzi amorosi di zia Rachele.

[…]Tapman risponde: “Ne troverei carine se non vi fosse qui la loro zietta” replicò pronto
il Pickwickiano con uno sguardo appassionato. 

Quindi lui è stato al gioco e significa anche che il gioco è già partito. Al tempo stesso, però,
la risposta mette la zia in agitazione in quanto si capisce che Tupman pone sullo stesso
piano sia Zia Rachele che le due nipoti. Anzi, egli dà proprio intendere (come sostengono
Beaugrande e Dressler) che ci sono buoni motivi per considerarle carine. Il sig. Tapman,
giustamente, non ha risposto che non sono carine perché la domanda di Zia Rachele aveva
un fine (o un valore) pragmatico che andava oltre l’aspetto letterale. Cioè, lei non voleva
che lui rispondesse in modo educato. Lei voleva un’altra risposta, ossia “mi piaci di più tu”
o anche “trovo migliore te”. Invece lui dice: “Si, sono carine ma visto che ci sei qui tu,
allora per me il fatto che loro siano carine importa poco”. Rachele allora si spaventa e inizia
a sottolineare alcuni aspetti negativi delle nipoti (come la brutta carnagione o il fatto che
sono curve etc…). Dunque maschera le sue critiche dietro questa difesa, quasi tentasse più
di sminuire un difetto che di richiamare l’attenzione su di esso: un tipico caso di

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mascheramento del progetto. Questo esmepio mostra come zia Rachele ORIENTI la
situazione fingendo di CONTROLLARLA soltanto (lei infatti orienta la conversazione
sui difetti delle sue nipoti e attribuisce a Tupman la progettazione di un’azione di
discorso che egli non aveva alcuna intenzione di realizzare e lui non può respingerla
perché sennò sarebbe come negare le sue capacità percettive).

Lo scrittore, quindi, deve essere in grado di mascherare e mettere su dei dialoghi improntati
al mascheramento del progetto però deve anche comunicare al lettore che lo fa con piena
cognizione di causa.

Vediamo, adesso, l’esempio di Totò:


c’è un breve video tratto da un film con Totò, in cui Totò parla con un vescovo. In questo
video la prima cosa che notiamo è che Totò all’inizio usa un lessico che richiede
un’attenzione da parte dell’altro. Lui sta parlando con un uomo di chiesa, con un vescovo, e
quando ci parla usa delle parole che richiedono la cooperazione di quest’uomo, e quasi lo
obbliga a dirgli che ha ragione. Notiamo immediatamente che questo lessico che usa Totò è
manipolativo. Il vescovo ha quantomeno due possibilità di base: la prima è respingere
l’invito alla comunicazione che Totò gli fa con un lessico manipolativo; la seconda è
accettare. Spesso si accetta questa comunicazione. Se una persona vuole respingere questa
comunicazione, deve ragionare anche sul ruolo che ha, perché se il suo ruolo è inferiore a
colui che impone un linguaggio manipolativo può essere rischioso respingere una
comunicazione come questa. Se, invece, il ruolo è superiore allora si può scegliere se far
parlare l’altro oppure di dirglielo immediatamente che non può parlare in questo modo.

Questo esempio ci dimostra che l’accettabilità, considerata in un senso più ampio,


comprende anche l’ACCETTAZIONE, ossia la disponibilità a partecipare a un
discorso e a perseguire un fine comune.

Atti linguistici e Massime conversazionali (fanno parte dell’intenzionalità)

La filosofia ha influenzato molto la linguistica, in effetti molti filosofi si sono chiesti come
le intenzioni siano effettivamente correlate alla forma delle enunciazioni. I tre grandi padri
fondatori degli atti linguistici sono John Austin, Paul Grice e John Searle. Questi sono i
tre grandi nomi da tenere a mente quando si parla di questo argomento e quando si vuole
parlare nel più ristretto campo della linguistica testuale di intenzionalità e accettabilità.
Sebbene la teoria degli atti linguistici abbia apportato contributi notevoli alla pragmatica,
essa ha alcuni limiti oggettivi. Infatti, c’è una grossa differenza fra atti relativamente ben
definiti come il “promettere”, o il “minacciare” e altri atti più vaghi come “descrivere”,
“esporre”, “affermare” eppure tutti quanti sono raggruppabili negli “atti illocutivi”.

Atti linguistici: John Austin rifletteva sul fatto che attraverso il parlare, quindi attraverso il
linguaggio, noi possiamo causare modifiche nel mondo, abbiamo il potere di cambiare le
cose. Secondo Austin, dire qualcosa equivale a compiere tre atti simultanei: un atto
locutorio, un atto illocutorio e un atto perlocutorio:

- atto locutorio: quando semplicemente diciamo qualcosa, senza avere intenzione di


produrre nessun cambiamento. E’ la produzione fisico-acustica dell’atto linguistico. Quali
sono i difetti del livello locutivo? I difetti del livello locutivo possono essere ad esempio,

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piccoli problemi di pronuncia, errori, difficoltà nel pronunciare una parola, oppure possono
essere i lapsus, posso dire una parola al posto di un’altra, ci può essere un ambiguità in quel
che dico, ci può essere una vaghezza di senso, di riferimento, però attenzione questi difetti
possono mantenere perspicuo il discorso, possono consentirci di continuare ad intenderci,
quindi sul piano della accettabilità tu capisci qual è la mia intenzionalità, tu diciamo che sei
disponibile a bypassare, accettare, ammettere, il mio lapsus, il mio difetto di pronuncia, la
mia vaghezza ecc. Vedete stiamo dicendo che io posso produrre un testo che manca un po’
di coesione, che manca un po’ di coerenza però sul piano della intenzionalità e
dell’accettabilità mostra un collegamento;
- atto illocutorio: è quando noi produciamo un enunciato che realizza di per sé ciò che
dichiara, sono quindi atti illocutivi quelli di affermare, diagnosticare, comandare,
promettere, ringraziare, fare una domanda, fare un’obiezione, ecc. Quindi, è quando noi
pronunciamo un enunciato per raggiungere un certo fine o rispondere ad una certa esigenza
(ad es. rispondere ad una domanda, dare informazioni, annunciare un'intenzione, dare una
dexcrizione, fare una critica). nmmmm
- atto perlocutorio: è la conseguenza dell'atto locutorio con la forza dell'atto illocutorio, il
risultato nel mondo oggettivo dell'atto linguistico. E’ il raggiungimento di certi effetti sui
riceventi del testo. L'atto perlocutorio è costituito dalle conseguenze provocate, dai risultati
ottenuti tramite l'atto illocutorio. È un processo incentrato sul destinatario. (“Sparale!”)

Questi sono gli atti linguistici e sono intrecciati tra loro. La prima cosa da dire è che
Austin naturalmente aveva presente che doveva fare una classificazione degli atti e
classificò gli atti linguistici illocutori in cinque classi:

- atti verdittivi  sono quelli con cui si esprime un giudizio, un verdetto (“valutare”);
- esercitivi  quando esercitiamo un potere attraverso il nostro parlare (“te lo
ordino”);
- commissivi  sono gli atti linguistici con i quali si assume un obbligo oppure sono
delle dichiarazioni relative a quest’obbligo. I commissivi sono tipicamente verbi
come ‘promettere’, ‘giurare’ e via dicendo;
- quelli relativi alle espressioni del comportamento  tipicamente sono quelli con
cui io ti dico qualcosa che è relativo al mio comportamento. Quando, ad esempio, io
mi scuso, quando ad esempio io ti ringrazio, quindi se io ti ringrazio per qualcosa
sto, in qualche modo, descrivendo il mio comportamento, ti sto ringraziando e
quindi tu hai una descrizione in quel momento del mio comportamento.
- Espositivi  gli atti linguistici espositivi, secondo Austin, sono quelli che
chiariscono delle ragioni; sono quelli con i quali noi esprimiamo le nostre
argomentazioni. Tipicamente, un verbo che rientra fra questi atti è ‘spiegare’: “lascia
che ti spieghi”, oppure ‘negare’ oppure ‘affermare’.

Anche John Searle si dedica a suo tempo, naturalmente, alla classificazione degli atti
linguistici e cambia la terminologia in misura pressoché totale. Per quanto riguarda la
classificazione di Searle, abbiamo:

- Atti rappresentativi: gli atti rappresentativi sono quelli che impegnano il parlante
rispetto a ciò che sta dicendo, rispetto alla verità di ciò che dice. Cioè quando io
parlo ad una persona, creo in quella persona una rappresentazione di me stessa
basata sulla veridicità di ciò che dico. Anche quando noi diciamo la cosa più banale

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del mondo, noi costituiamo una rappresentazione di noi stessi e c’è un’enunciazione
implicita di verità e quindi c’è un impegno reciproco rispetto alla verità di ciò che
stiamo dicendo (tipo il verbo “asserire”).
- Atti direttivi: i direttivi sono gli atti linguistici che hanno lo scopo di far fare
qualcosa al destinatario. E qual è il direttivo che noi utilizziamo continuamente
senza nemmeno dirlo? È domandare, oppure chiedere, oppure richiedere.
- Atti commissivi. I commissivi sono gli atti linguistici che impegnano il parlante a
fare qualcosa nel futuro, per esempio il verbo “offrire”.
- Atti espressivi, il cui scopo illocutorio coincide con l’espressione dello stato
psicologico relativo al contenuto dell’atto stesso. Se dovessimo dire verbi che
rappresentano gli espressivi, anche stavolta sarebbe scusarsi, oppure ringraziare.
- Atti dichiarativi: cioè quando il contenuto di ciò che dico coincide con la situazione
(“battezzare”, “scomunicare”).

“E ti porterò lontano con la forza di un missile e ti prenderò per mano, ti porterò a giocare
su un prato e il telefono l’ho buttato e ho buttato tutte le pare” (tratto da “Tutto tua madre”,
J-Ax) anche questo è interessante ed è fatto per noi perché io posso dire “ma qui ci sono i
commissivi” oppure “c’è un livello illocutivo commissivo” cioè quello con cui ci si assume
un obbligo o si fa una dichiarazione relativa a questo obbligo, promettere giurare.

Un approccio più generale è stato elaborato da Paul Grice. Egli propone una serie di
massime cui normalmente si attiene chi produce un testo in una conversazione. Queste
massime sono strategie direttive e non “regole” come le immagina Searle.

Le massime conversazionali, definite negli anni settanta nella teoria


della conversazione del filosofo inglese Herbert Paul Grice, sono i principi regolativi che
governano la conversazione secondo logica e pertinenza, come pure nel rispetto del
principio di cooperazione fra parlanti. Second Grice, filosofo inglese e linguista che ha dato
un enorme apporto alla teoria della comunicazione, sono 4 le massime attraverso cui i
soggetti impegnati in un atto linguistico possono avere comunicazioni efficaci. Il filosofo ha
fissato regole fondamentali alla conversazione fra individui soggetti al principio di
cooperazione. Per Grice, infatti, una conversazione inizia quando c’è cooperazione tra i
soggetti e, inoltre, la comunicazione deve essere intesa e accettata. Intenzionalità e
accettabilità.

Ogni interlocutore, quindi, dovrebbe contribuire allo scambio comunicativo conformandosi


a quattro massime:

I. Massima della quantità: cerca di dare un contributo che soddisfi la richiesta di


informazioni in un modo adeguato agli scopi del discorso; non fornire più
informazioni del necessario;
II. Massima della qualità: dai un contributo vero, non dire cose che credi false e per
cui non hai prove adeguate;
III. Massima della relazione: sii pertinente, il parlante cercherà di essere pertinente al
tema della conversazione
IV. Massima del modo: sii chiaro, evita l’ambiguità e l’oscurità di espressione, sii
conciso e ordinato.

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Le massime costituiscono delle norme comportamentali in genere seguite dal parlante, ma
possono anche essere violate in determinati casi. Tuttavia, se un parlante vìola una o più
massime, non significa necessariamente che egli stia rifiutando la cooperazione; conscio di
ciò, l'interlocutore tenterà di armonizzare la comunicazione. Prima di tutto il parlante ha
sempre la possibilità di dissociarsi dal principio di cooperazione rifiutandosi di rispondere e
non portando così avanti la conversazione. Oltre alla possibile uscita dal Principio di
Cooperazione, Grice individua vari modi in cui una massima può essere violata:

1. È possibile violare una massima in maniera non evidente;


2. È possibile ritrovarsi in “conflitto”, nel senso che non è possibile soddisfare una
massima senza contemporaneamente però violarne un’altra.
3. È possibile, infine, burlarsi o prendersi gioco di una massima, ostentandone la
mancata soddisfazione.

Spesso si viola una massima per comunicare implicitamente qualcos’altro. Cioè, spesso si
è intenzionalmente indiretti, far capire, illudere, fare intendere piuttosto che dire
esplicitamente ciò che pensiamo.

Le implicature conversazionali sono delle informazioni implicite che stanno sempre in uno
scambio comunicativo. La teoria delle implicature conversazionali afferma che in una
comunicazione è sempre possibile ricavare un numero sorprendentemente alto di
implicature, delle quali noi non ci rendiamo neanche conto nella maggior parte dei casi.
Per esempio, se dico “hai visto l’ultimo di Woody Allen?” e tu mi rispondi “Francamente
no, da quando si è messo a fare le cose europee non mi interessa più”, quante implicature ci
sono in questo? C’è un’implicatura, la prima è che tu sai chi è Woody Allen, e la seconda è
che tu sei pure aggiornato sulla sua produzione.

Se in un negozio di calzature dico al mio interlocutore: “Quella scarpa non mi piace perché


è troppo alta”, e questi replica: “Che bella giornata oggi, non è vero?”, egli dimostra di
non rispettare la massima della relazione (la sua risposta manca di pertinenza).
Tuttavia, nonostante il mio interlocutore stia rispettando il principio di cooperazione
inferisco che la violazione della massima è deliberata e non accidentale: la sua
conversazione quindi implica che egli non voglia pronunciarsi sulla scelta della scarpa che
sto indicando e a cui mi riferisco.

Così, ad esempio, se a un professore universitario viene chiesto che ne pensa di un certo


studente, e lui risponde “Conosce la lingua italiana”, vedremo infranta la massima della
quantità: l'informazione, non certo falsa, risulta però reticente e al contempo ironica[5].

Tutto questo ad un livello un po’ più alto rientra in quello che chiamiamo
COMUNICAZIONE. La comunicazione è l’insieme di parole, gesti e immagini e, come
dice Paul Watzlawick, la comunicazione modella la realtà. Perché la realtà non è quella che
molti pensano che sia, quello che noi vediamo, la realtà è quella che noi modelliamo
attraverso la nostra comunicazione e ogni fatto di comunicazione non trasmette solo
informazioni, ma nel momento stesso in cui si verifica ti impone un comportamento quindi
io non ti trasmetto solo informazioni, ma ti impongo un comportamento. Quindi questo che
significa ? Che la comunicazione ha una funzione pragmatica, ha la capacità di provocare

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cambiamenti nei contesti nei quali avviene esperienza comunicativa. Watzlawick ci dice
che la comunicazione si basa su 5 assiomi, cioè su 5 regole:

- Il primo assioma: è che non si può non comunicare. Ricordate quando vi ho fatto
l’esempio di quello se aveva sentito l’ultima canzone di Eminem e lui risponde solo
si? Comunque sta comunicando qualcosa.

- Il secondo assioma: ogni fatto di comunicazione ha sempre due aspetti: un aspetto


che riguarda la relazione e un altro riguarda il contenuto. Cioè la comunicazione non
ha solo un aspetto relativo al contenuto, ma ha anche sempre un aspetto relativo alla
relazione in atto, quella in cui avviene il fatto di comunicazione, cioè io ti comunico
qualcosa e ti comunico qualcosa sulla comunicazione che ti sto facendo. 

- Il terzo assioma: il flusso comunicativo è espresso secondo la punteggiatura


degli eventi. La comunicazione comprende diverse versioni della realtà, che si
creano e modificano durante l’interazione tra più individui.

- Il quarto assioma: la comunicazione è sempre di due tipi, ossia: analogica e


verbale. Nella comunicazione analogica rientrano la comunicazione non verbale e
l’utilizzo di immagini. 

- Il quinto assioma: Watzlawick individua due tipologie di relazioni che si possono


instaurare tra individui che interagiscono tra loro, riguardanti la posizione di
leadership assunta durante la conversazione. Gli scambi comunicativi possono
essere simmetrici o complementari. Si ha un’interazione simmetrica quando gli
interlocutori si considerano sullo stesso piano, e quindi di pari livello: nessuno dei
due sembra voler essere sottomesso dall’altro, arrivando spesso ad accesi scontri e
toni aggressivi. L’interazione complementare, al contrario, si verifica quando gli
interlocutori non si considerano sullo stesso piano; ciò emerge chiaramente dai loro
scambi, che pongono uno dei due in una posizione di superiorità (one-up) e l’altro
in una posizione subordinata (one-down): ne sono un classico esempio le
interazioni tra dipendenti e datori di lavoro, o tra genitori e figli. 

A questo ragionamento si accompagna e succede il fenomeno della metacomunicazione.


Cosa significa metacomunicare? Metacomunicare significa comunicare sulla
comunicazione. E’ una comunicazione di secondo grado relativa alla comunicazione stessa.
Un esempio di comunicazione e metacomunicazione è quello in cui un'affermazione verbale
(comunicazione) è contraddetta da una non verbale (tono della voce o postura del corpo),
che è metacomunicazione. Per esempio, rientra nella comunicazione dire: «ti amo
tantissimo», e rientra nella metacomunicazione dirlo con tono inespressivo e fare distratto. È
evidente che la metacomunicazione è un livello di comunicazione più significativo della
comunicazione, visto che è in grado di svuotarne i contenuti.

Azione di discorso
Fra le massime di Grice e la classificazione degli “atti linguistici” di Searle c’è un campo
ancora inesplorato: come si manifestano le azioni nei testi o nei tipi testuali e sotto quali
controlli particolari? Bisogna cominciare con la definizione di AZIONE data da Von Wright.

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È un atto intenzionale che volge una situazione in una direzione che essa non avrebbe mai
preso. L’AZIONE DI DISCORSO è un atto che provoca dei cambiamenti nella situazione e
nelle diverse condizioni dei partecipanti alla comunicazione: stato cognitivo, sociale,
sentimentale ecc. L’azione di discorso, che modifica una situazione, sarebbe guidata da un
progetto ogni volta che il producente del testo tenta di orientare la situazione verso un fine.

Informatività

C'è un quinto criterio della testualità, che si chiama informatività, e questo è uno dei
criteri forse più sottili e difficili da individuare, è un po' intuitivo. Si tratta del grado di
informazione veicolato dal testo. Noi siamo portati a pensare che il testo sia tanto più
informativo quante più informazioni ci dà, ma questo non è vero. Il testo non è informativo
se ci dà più informazioni, al contrario il testo può essere molto informativo se trattiene
informazioni. Sicuramente ogni testo è in una qualche misura sempre informativo, cioè deve
dare delle informazioni perché altrimenti quel testo non avrebbe motivo di esistere. Per
esempio, se diciamo “il mare è composto d’acqua”, stiamo dando un'informazione inutile
perchè quasi tutti lo sanno, se invece diciamo che "il mare è composto d'acqua, di sale, e di
batteri, ecc.", allora in questo caso stiamo fornendo informazioni perché non tutti potrebbero
saperlo.

Il livello dell’informatività di un testo cresce con la minore prevedibilità dell’informazione


nel contesto. Ci sono poi una serie di esempi che servono solo a mostrare che l’informatività
procede per gradi differenti e nell’ambito di una ripartizione ci sono tre gradi di
informatività, cioè una scala di probabilità generali: uno superiore, uno inferiore e uno
che è apparentemente estraneo a quello di cui si sta dicendo:

- Grado superiore o primo grado: è il grado più basso, infatti i testi che non
arricchiscono la comunicazione di fatti nuovi hanno un livello di informatività molto
basso. Le occorrenze di primo grado sono piuttosto banali perché sono integrate così
bene in un contesto o in un sistema da attirare su di sé ben scarsa attenzione. Per
esempio, il segnale dello stop  si tratta di un testo che per quanto riguarda la
coesione e la coerenza e altri fattori, persino gli elementi di contesto come la forma
o il colore, portano tutti ad una predicibilità del significato di contesto per cui noi la
riconduciamo ad un’informatività di primo grado. C’è poco da ragionare, insomma.
Tanto è vero che in tante lingue, come anche la nostra, ci sono le PAROLE-
FUNZIONE (cioè articoli, preposizioni, congiunzioni) che segnalano più relazioni
che contenuti, suscitando quindi poca attenzione anche quando sono presenti in un
numero considerevole all’interno di uno stesso testo. A proposito di queste parole-
funzione, si tratta di parole che in un contesto comunicativo essenziale o di
emergenza posso anche farne a meno. Questo noi lo vediamo quando in letteratura
viene descritto il modo in cui si parla con qualche straniero. Questo, istintivamente,
testimonia il fatto che noi pensiamo che le parole-funzione siano accessorie e che
quindi le PAROLE-CONTENUTO (es. scopa, prendere, casa, pulire), ovvero
quelle che hanno valore lessicale, siano invece più importanti. Le parole-funzione
addirittura possono essere pronunciate velocemente, poco o male in alcune
occorrenze comunicative tanto da essere cancellate in una comunicazione. Nel
telegramma, infatti, si è tenuti alla massima economia e si cercano di evitare le
parole-funzione e si usano spesso contenuti cristallizzati. Questo fa parte

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dell’informatività di primo grado. In qualsiasi testo c’è sempre presente
dell’informatività di primo grado, che siano raggiunti o meno gradi anche più
elevati.
- Grado inferiore o secondo grado: quando le occorrenze stanno al di sotto del grado
superiore della probabilità esse trasmettono un’informatività di SECONDO
GRADO. Diciamo che questo è lo standard abituale di informatività che troviamo in
un testo.
- Terzo grado: Quelle occorrenze che sembrano essere al di fuori dell’insieme di
opzioni più o meno probabili veicolano un’informatività di TERZO GRADO. Sono
rare e richiedono molta attenzione nonché un elevato potenziale di elaborazione. Le
DISCONTINUITÀ ovvero quando sembra che manchino degli elementi nella
struttura e le DISPCREPANZE costituiscono i tipi più frequenti di occorrenze di
terzo grado.

Svalutazione dell’informatività:
Chi riceve il testo intraprende una ricerca di motivazione che serve a capire perché sono
state scelte determinate occorrenze. Quando ci troviamo davanti ad occorrenze di terzo
grado, quindi molto informative, noi dobbiamo prestare maggiore attenzione per cercare di
coglierne il significato e in qualche modo reinserirle in quella che è la continuità di un
contesto. Se questa ricerca ha successo, allora le occorrenze di terzo grado possono essere
svalutate al fine di ottenere il secondo grado.

In certe occasioni, occorrenze di primo grado potrebbero essere RIVALUTATE e altre di


terzo SVALUTATE al fine di ottenere il secondo grado.

Fonti di attese:

Dicono Beaugrande e Dressler di fare attenzione perché ci sono delle fonti di attese, cioè
quando noi elaboriamo un testo applichiamo delle strategie che servono a cogliere e a
ordinare il mondo reale, a meno che la complessità del mondo reale non diventi indomabile,
cioè qualcosa che non riusciamo a domare. Queste strategie Beaugrande e Dressler le
chiamano “fonti di attesa", un riferimento che sta a monte di tutti i nostri tentativi di
comprensione di quel testo:
- Prima fonte di attesa: sicuramente la prima fonte di attesa è l'ordine temporale
degli elementi. Per quanto le scene possano sembrare molto sorprendenti e inattese
c’è sempre una sequenza temporale. Io mi aspetto che gli eventi disposti nel testo
seguano un ordine cronologico. Prima esce dalla doccia, poi mette l'accappatoio, poi
si pettina, ecc. Ci sono dei modelli strutturali dai quali veramente non possiamo
prescindere.
- Seconda fonte di attesa: la seconda fonte di attesa riguarda l'organizzazione della
lingua che noi utilizziamo in un testo. Questo riguarda proprio la lingua, anche
proprio tipologicamente e strutturalmente. Dicono Beaugrande e Dressler “ad
esempio in lingue come il tedesco o l’inglese, molte combinazioni sono dettate da
convenzioni arbitrarie";
- Terza fonte di attesa: la terza fonte di attesa deriva dalle tecniche con cui si
ordinano gli elementi o i gruppi di elementi in considerazione della loro
informatività. Quindi le proforme, le ellissi, l’intonazione. Io ti posso dire qualcosa
con delle parole che viene smentito dall'intonazione con cui te lo dico. Io ti posso

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dire ad esempio “mi fa proprio piacere quando dici queste cose" (il prof lo ha detto
in modo arrabbiato) e ti sto lanciando un doppio messaggio. Sul piano delle parole ti
ho detto che mi fa piacere qualcosa, ma è pur vero che ho utilizzato un'intonazione
aggressiva. Allora, in questa comunicazione doppia, a quale livello tu devi fare
riferimento? Qual è il livello vero della comunicazione che in qualche modo
rappresenta il mondo nel quale io e te siamo?;
- Quarta fonte di attesa: è il tipo testuale, cioè i tipi testuali sono configurazioni
globali che controllano il repertorio delle opzioni utilizzabili. Noi abbiamo dei tipi
testuali in base ai quali realizziamo il nostro agire linguistico. Per esempio, se io
voglio fare il tentativo di utilizzare il tipo testuale poetico per comunicare con te,
allora penso di dover utilizzare un lessico un po’ prezioso.
- Quinta fonte di attesa: è il contesto immediato in cui si presenta e si utilizza il
testo. Il contesto è la fonte di attesa che più di ogni altra determina l’informatività a
livello finale.
Esempio di Kafka (informatività)

"La transcodificazione della metamorfosi di Franz Kafka" ad opera di Peter Cooper: Peter
Cooper fa una trasposizione de la Metamorfosi di Kafka in un fumetto. Un altro autore che
lavora alla transcodificazione di Kafka in fumetto è Robert Crumb.

Questo è il fumetto di Crumb. Qui è quando la madre e la sorella entrano nella stanza di
Gregor, il protagonista, che una mattina si sveglia e si ritrova trasformato in un insetto, che

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solitamente viene rappresentato come uno scarafaggio.

La sorella un giorno entra nella stanza e vede Gregor che si arrampica sulla parete, allora lei
impedisce alla madre di entrare nella stanza perché non vuole che la madre veda il figlio
trasformato, però la madre lo vede comunque e sviene, questo è il modo in cui rappresenta
questo drammatico passaggio del racconto breve di Kafka in disegno.

Peter Cooper rappresenta la stessa scena con una espressività assolutamente diversa,
molto più marcata, e rappresenta in modo diverso anche il modo di parlare, le nuvolette:
infatti, ci sono quattro tipi diverse di nuvolette in una sola tavola. Quindi ci sta suggerendo
che queste voci cambiano, sono modulate in modo diverso di scena in scena. Quindi sta
facendo appello alla nostra competenza metalinguistica dicendoci di immaginare la donna
che parla a voce bassa, o immaginarla che urla.
La struttura resta la stessa, però il testo di Peter Cooper è sicuramente più informativo
perché dice quello che io già so. Robert Crumb prende alla lettere quello che Kafka racconta
(la madre e la figlia entrano nel soggiorno e lo scarafaggio si sta arrampicando alla parete
ecc.) e la reazione della madre, seppur disegnata, è quella che ci si aspetta. Peter Cooper,
invece, restituisce ad assoluta novità questi elementi perché li rappresenta in un modo che il
lettore non si aspetta. Anche il modo in cui fa svenire la madre è diverso, il modo in cui la
rappresenta è diverso; rompe le aspettative, quindi è un testo più informativo rispetto a
quello di Robert Crumb.

I casi standard sono quelle corrispondenze ricorrenti nei testi che noi ci aspettiamo. come
Beaugrande e Dressler le chiamano preferenze, ossia la tendenza a scegliere una possibilità
tra le tante a disposizione. Da queste immagini si può vedere che Peter Cooper rompe lo
schema delle aspettative, rompe lo schema dello stato standard e della preferenza perché

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crea un’immagine che non è esattamente quella che ci aspettiamo, non possiamo dire sia
standard. E’ molto standard invece quello che disegna Robert Crumb.

Beaugrand e Dressler dicono che "è evidente che il pensiero umano trova privo di interesse
tutto quello che è pienamente noto o, per dirla in termini di cibernetica, totalmente stabile”.
Il testo di Robert Crumb dal punto di vista cibernetico è troppo stabile, mentre quello di
Peter Cooper smuove le cose e vivacizza il racconto di Kafka. "Ecco perché la
comunicazione funziona come un costante sconvolgimento e ristabilimento della stabilità
mediante l'interruzione e il ripristino della continuità del testo e delle sue parti”. Allora gli
utenti del sistema (inteso come testo) devono avere le idee chiare su come funzionano i
principi del testo, altrimenti l'uso del sistema risulta compromesso o bloccato. Se chi vuole
essere uno specialista dei testi non sa come funziona il sistema, allora l’utilizzo che ne fa
risulterà compromesso o bloccato. A questo punto possiamo forse affermare che Robert
Crumb sia un bravissimo disegnatore, ma non conosce bene come funziona il sistema testo,
perché dovrebbe sapere che un testo si completa nella sua testualità se vi ricomprende
anche l'informatività, altrimenti è inutile. Robert Crumb disegna uno scarafaggio che si può
reggere a una parete, non va contro le leggi di gravità, però ancora una volta il suo testo è
meno informativo, dimostra di non conoscere fino in fondo le leggi del testo.
Ci sono dei casi in cui l'ambiguità, le contraddizioni e le discrepanze che impediscono l'uso
del sistema sono tenute in serbo per raggiungere effetti particolari (è il caso delle barzellette
o degli aforismi). In pratica l’autore può addirittura introdurre degli strumenti di disturbo
perché ha un obiettivo, quello di raggiungere effetti particolari.

Situazionalità

La situazionalità riguarda la rilevanza e l’adeguatezza di un testo all’interno di una


determinata situazione comunicativa. Per situazione comunicativa si intende l’insieme
delle circostanze, sia linguistiche sia sociali, nelle quali l’atto linguistico viene prodotto.
Qualunque testo deve essere riferito ad una situazione sua propria, il testo al di fuori di una
sua situazione può non avere nessun valore pragmatico, può addirittura non avere
significato. Quindi, si tratta della dipendenza del testo dalla situazione in cui è prodotto.

Baugrande e Dressler invitano a tenere distinti il CONTROLLO DELLA SITUAZIONE


dall' ORIENTAMENTO DELLA SITUAZIONE. La prima è un'operazione più impegnativa
rispetto alla seconda, è qualcosa di molto netto, è qualcosa che io contrappongo in maniera
decisa affinché si fermi un certo ragionamento e si vada. Se noi vogliamo controllare la
situazione attraverso il testo allora dobbiamo essere agili nel sistemare ogni elemento
testuale al posto giusto. Si ha un controllo della situazione se la funzione dominante di un
testo consiste nel fornire una rappresentazione immediata del modello situazionale.
Abbiamo visto l'esempio della volta scorsa in cui il Signor Tupman è vittima delle avances
mal celate di Zia Rachele, in questo caso lui si trova di fronte ad un CONTROLLO e ad un
ORIENTAMENTO della situazione in base al quale Zia Rachele cerca di indurlo a dire delle
cose.
Se io in un testo vedo evocati più’ volte gli stessi elementi allora è probabile che qui c'è un
controllo, cioè la frequenza è un segnale del controllo della situazione. (esempio
dell’esame). Quindi la frequenza è un fattore situazionale, un indicatore di situazionalità.
Poi il controllo, dicono Baurgraude e Dressler, può anche essere accompagnato dal

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tentativo di spiegare e quindi svalutare la frequenza sorprendentemente alta di avvenimenti
o oggetti, quindi nel caso della storia di Dickens noi abbiamo una frequenza
sorprendentemente alta di oggetti , cioè di venditori di ostriche e questo è  il tentativo che
Charles Dickens trova per fare prendere il controllo della situazione da uno dei protagonisti
di questo racconto, che ricorre a questo espediente per attirare l’attenzione degli altri. Il
controllo della situazione però, dicono Baugraude e Dressler, può anche essere indice di
mancanza di continuità e richiedere una svalutazione, ad esempio quando le azioni di
qualcuno non paiono avere una ragione evidente: non a caso  gli esempi facilmente si
possono prendere da “Alice nel paese delle meraviglie” perché’ ci sono le continue
situazioni incredibili in Alice nel paese delle meraviglie. Situazioni che inducono alla
confusione il lettore perché’  ci troviamo di fronte a rappresentazioni del mondo che non ci
aspettiamo (racconto di Alice che, con il grifone, vede dei giudici che scrivono il proprio
nome su delle lavagnette perché sennò poi se lo dimenticano  con il grifone c'è’ una
svalutazione della situazione perché lui la fa sembrare una cosa normale , però poi Alice
dice “che sciocchi” e quindi lei di nuovo prende il controllo della situazione e la descrive.
Inoltre, affermare “oh, ma che sciocchi, che scemi!” può essere un tentativo di ricondurre
l’argomento ad uno standard predicibile, a qualcosa di scontato e normale per noi (per noi
è scontato che siano stupidi a scrivere il loro nome). È una sorta di attenuazione.

Chi produce il testo, registra un oggetto o avvenimento inatteso e lo assume come TOPIC
del testo. Quando si produce un testo, posto un topic, noi dobbiamo essere pronti ad
accettare dei NEGOZIATI (cioè o rifiuto quel topic o lo accetto). Negoziato che può
svolgersi all’interno del testo, oppure negoziato che l’autore del testo propone a noi in
quanto destinatari del testo. Noi, in quanto destinatari, non dobbiamo avere un
atteggiamento stolido. Dobbiamo essere pronti ad accettare dei negoziati. Ci sono dei testi
che presentano dei negoziati che noi rifiutiamo, in quel caso rifiutiamo di leggere quel testo;
oppure rifiutiamo di comprendere il significato di quel testo. Ma il più delle volte, noi
accettiamo il negoziato che ci viene proposto all’interno di un testo. Il negoziato cosa è? È
un’operazione di scambio, dove io ti do qualcosa e tu mi dai qualcosa in cambio. Tutti i
contesti prevedono un negoziato.

Come si trasferisce il negoziato nel testo? Dov’è il negoziato nel testo e nel parlare? Per
esempio, in questo testo di Shakespeare (Enrico V):

Il testo ci sta invitando ad immaginare un mondo diverso, a non pensare al nostro modello
del mondo o della realtà, ma ad immaginare quel tipo di mondo, che esso sia reale, e che noi
concediamo all'autore che quel mondo sia fatto in quella maniera, altrimenti la lettura
diviene inutile.

Oppure, quando parliamo con qualcuno e diciamo “Ti prego, non rispondermi così”, questo
è un negoziato. “Ti prego, non rispondermi così”; “Ti supplico, non parlarmi in questo
modo”. C’è una richiesta, una domanda. C’è l’attivazione di un negoziato ed è un modello
che si trasferisce anche nelle strutture testuali. 

Questo è quello che avviene in un testo che la gran parte di noi conosce. Mi riferisco a “I
promessi sposi”. “I promessi sposi” comincia proprio con un espediente di questo tipo,

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anche se non è dichiarato, perché non dice mai “Fingiamo che” ma apre il suo romanzo
scrivendo “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non
interrotte di monti, ecc...”. Il testo si riferisce a quella porzione del lago che guarda ad ovest
ed ha una certa conformazione. Allora la parola “quel” rimanda ad un elemento del mondo
esterno al testo, come se noi lo conoscessimo, come se noi fossimo a conoscenza che esiste
un lago di Como, che esiste Como. Ma quanti di noi non sono mai andati a vedere Como,
non sanno come è fatto? Manzoni fa appello ad una nostra accondiscendenza ad accettare
questa informazione facendo finta che la conosciamo. Questa si chiama ESOFORA, cioè
un elemento che rimanda al di fuori del testo, ad una realtà che è esterna al testo.

Esistono delle proforme che rimandano a delle realtà che sono esterne al testo. Quindi o si
fa appello ad una conoscenza del lettore, come nel testo di Manzoni, o si chiede di
immaginarlo. Anche le proforme sono elementi che a pieno titolo concorrono alla
definizione della situazionalità. Ed in particolare dobbiamo imparare a riconoscere le
esofore, e dobbiamo imparare a riconoscere se l'autore del testo fa esplicitamente appello a
noi e alla nostra conoscenza o se dà per scontato una nostra finta o reale conoscenza.
Allora, vedete, i pronomi di prima e seconda persona sono di per sé esoforici perchè
designano chi produce e riceve il testo, tuttavia posso utilizzare il pronome di prima e
seconda persona in modo generico, però questi comunque conserveranno una carica
designativa che riguarda sia chi produce sia chi riceve il testo, bisogna quindi fare
attenzione a queste cariche residuali. Tuttavia, l’esofora può designare anche altri
partecipanti alla comunicazione oltre a chi produce e a chi riceve il testo, ad esempio per
mezzo di pronomi di terza persona o deittici quali questo o quello (per esempio, “questo è
il mio amico Luigi”). I deittici, infatti, possono servire ad indicare una situazione o una
successione di avvenimenti nella loro globalità.

Parliamo, adesso, dell’ORIENTAMENTO DELLA SITUAZIONE. Con l’orientamento ci


sono in gioco quelli che Beaugrande e Dressler chiamano i fini superiori.  Il controllo è
qualcosa di diverso dall’orientamento. Il controllo della situazione è qualcosa di molto
netto, è qualcosa che io contrappongo in maniera decisa affinché si fermi un certo
ragionamento e si vada oltre. Invece l’orientamento presuppone strategie più articolate,
non a caso, l’orientamento della situazione è quello che mette in atto zia Rachele nei
confronti della persona che vuole sedurre e a cui non può dire direttamente che lo vuole
sedurre, ma deve girarci intorno. Ci sono, infatti, dei contesti nei quali ad esempio non si
dice quello che si vuole veramente dire, ma si parla in modo indiretto, oppure si parla di
qualcosa per parlare di qualcos’altro. Tutto questo poi si stratifica e corrisponde ad un
orientamento della situazione. (che cosa dice quando uno entra in banca e fa una rapina? Se ci
va Luisa, se ci va Anna, se ci va uno di voi domani mattina a fare una rapina, cosa dice quando entra
all’ufficio postale per fare la rapina? Probabilmente se ci va uno di voi o se ci vado io, poi quando
entreremo là dentro a fare la rapina probabilmente diremo
<<Mani in alto, questa è una rapina>>, perchè noi pensiamo che così si debba fare, no? 
Cioè lo spazio di mediazione sui fini si è talmente ristretto direbbero Beaugrande e Dressler che non
possiamo fare altro che rimandare allo standard con cui si segnala la situazione in atto, non è che
posso dire altre cose, che posso fare una descrizione diversa della situazione, che posso usare una
terminologia diversa. No perchè la necessità di controllo, di orientamento anzi della situazione è
talmente marcata e forte che io non posso fare altro che dire quello, posso dire soltanto quello
<<Mani in alto, questa è una rapina, non stiamo scherzando>> Non ho altre possibilità, quindi
l’orientamento della situazione può arrivare ad una restrizione dei fini talmente forte e talmente
esasperata che io faccio ricorso a formule già consolidate. Non c’è mediazione, non c’è una

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possibile altra interpretazione rispetto alla situazione in atto. Perché se ti dico <<Mani in alto,
questa è una rapina>> tu capisci che devi fare solo una cosa, devi mettere le mani in alto e ti devi
stare fermo e zitto perché anche soltanto se respiri in maniera che può dare fastidio al rapinatore,
rischi di essere ucciso o rischi che venga ucciso l’ostaggio . Cioè non c’è mediazione. Questo
significa che non c’è mediazione, non c’è scambio, non c’è possibilità di negoziato, non si può fare
niente. L’orientamento è totale)

A volte può succedere che anche su fini per i quali noi di solito siamo d’accordo, ci possono
essere delle difficoltà in situazioni normali, in situazioni semplici come ad esempio il fatto
che io ti voglio chiedere una mela e vedo che tu hai lì vicino una bella mela. Questa mela è
tua, io te la voglio chiedere e però so che se te la chiedo in modo diretto tu non me la dai.
Allora io devo mettere in atto una strategia di orientamento della situazione, alla fine della
quale tu quasi mi chiedi di prenderti questa mela perché me la vuoi regalare, e io quasi quasi
ti dico pure “ma no guarda, non esiste proprio”. Allora proprio perché ti sto dicendo non mi
permetterei mai, tu insisti ancora di più per regalarmela. E alla fine quasi ho fatto un favore
io a te prendendoti la mela che ti ho indotto a darmi con l’orientamento della situazione.
Quindi, vediamo che l’orientamento della situazione deve coinvolgere pure un
NEGOZIATO SUI FINI, ossia dei metodi atti a raggiungere l’approvazione e la
collaborazione di altri. Noi spesso non negoziamo solo sul contenuto, ma anche sui fini.
Dicono Beaugrande e Dressler che il primo livello in cui noi negoziamo sui fini è quello del
CHIEDERE, quando noi abbiamo dei testi in cui chiediamo qualcosa. Noi possiamo
semplicemente CHIEDERE a qualcuno di fare o di dirci qualcosa e questo già è un
negoziato. Poi possiamo invocare un tema (un tema è un topic che ritorna sempre nel
discorso) o informare l’interlocutore delle nostre ragioni e questo è diverso perché se io ti
dico le mie ragioni allora ci troviamo ad un livello più alto di negoziato (quindi, chiedere-
invocare-informare). Con il negoziato si può concludere col partner un’azione di scambio
per un favore o per un oggetto desiderato, ma nel caso in cui falliscono tutte le azioni di
discorso e non si arriva a nessun risultato, secondo Beaugrande e Dressler si potrebbe
passare ad altro, come minacciare o sopraffare il partner. In questo caso, quando un agente
passa alle azioni più estreme, possiamo usare il termine di ESCALATION della
PRATICA PROGETTUALE. Una simile escalation potrebbe verificarsi anche all’interno
di una singola pratica progettuale. Cioè, io posso formulare in modo più dettagliato la
domanda e, inoltre, si può intensificare l’azione di scambio offrendo favori più grandi o
oggetti più prezioso, o si può minacciare in modo sempre più deciso e violento o accentuare
la SOPRAFFAZIONE con armi più distruttive.

(maestro di questo è proprio Shakespeare perché Shakespeare riesce a creare dei dialoghi
soprattutto, nei quali mostra come il negoziato può arrivare a un livello talmente alto che addirittura
poi si può risolvere in vere e proprie tragedie, e quindi qualcuno magari si uccide, si suicida.)

Inoltre, l’escalation nella pratica progettuale implica una relazione di guadagno/perdita.


Quando si parla c’è sempre un guadagno o una perdita, sempre! Si guadagna e si perde, se
tu parli è perché hai un fine da raggiungere, se mi dici qualcosa è perché hai un obiettivo,
c’è sempre una relazione di guadagno/perdita. Chi progetta deve trovare un equilibrio tra
EFFICIENZA (comodità, minimo sforzo) ed EFFETTIVITÀ (massime probabilità di
successo) che sia APPROPRIATO alla situazione e ai ruoli dei partecipanti.

L’escalation nella pratica progettuale è una reazione normale al perdurare di un fallimento


di cui occorre, tuttavia, fare un uso accorto. Io rilevo che c’è un fallimento, nel senso che

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non riesco a convincerti, con le parole che ho usato fino a questo momento non riesco a
negoziare sui fini e quindi si attiva l’escalation. In un testo si deve attivare per forza
l’escalation altrimenti la scrittura di un testo, di un racconto o un romanzo ad esempio, se
non mete in atto le strategie di escalation testuale lascia tutto su un piano di orizzontalità
permanente, non c’è avanzamento della storia, la storia non progredisce. Quindi l’escalation
nella pratica progettuale è una reazione normale al perdurare di un fallimento di cui
occorre, tuttavia, fare un uso accorto. Bisogna stare attenti perché più mettiamo in atto le
strategie di escalation, più la situazione ci può sfuggire di mano.

Strategie:
Prendiamo il testo tratto dal libro “Le Avventure di Tom Sawyer”. Si tratta di una scena ben
costruita, c'è Tom che è costretto a verniciare uno steccato, allora passa Ben e lo prende in
giro "ti è andata male oggi, io vado a farmi un bagno" e Tom che da un lato è infastidito da
questo approccio e però ha anche un fine, però questo fine non lo può dire ed è un fine
veramente malefico, cioè vuoi vedere che io riesco a far fare a questo scemo il lavoro che
sono costretto a fare io? Non solo questo, mi deve anche ringraziare che glielo faccio fare.
Twain riesce a costruire questo dialogo e lo rende anche credibile. Questo dialogo dimostra
tutto ciò che noi stiamo dicendo sui fini e sulla progettualità.
L'invocazione di un atteggiamento cortese e amichevole o il tentativo di nozioni di
scambio, possono avere più fortuna di altre strategie.

Beaugrande e Dressler fanno una lista di strategie su come orientare una situazione,
affermando però che non tutte queste strategie possano funzionare:
- Strategia 1  quando si esercita un controllo sulla situazione per cominciare un
discorso. Per esempio, quando incontriamo qualcuno e ci inizia a parlare del tempo,
questo ci fa capire che non vuole parlare di altro. Questa considerazione è poco
informativa, perché tutti possono vedere che tempo fa, però non suscita conflitti. (a
volte un controllo riferito al tempo può anche essere rivalutato).
- Strategia 2  se il contributo di qualcuno non si accorda con la propria opinione
non lo si deve accettare. Lo si può rifiutare, mettere in dubbio, ignorare o sostituire
col proprio controllo. La scelta di una di queste possibilità dipende, molto spesso,
dalla dominanza sociale che c’è tra i partecipanti.
- Strategia 3  per incoraggiare una escalation della pratica progettuale si rivaluta
l’oggetto o l’azione che ci si chiede di dare o fare;
- Strategia 4  se un controllo non viene accettato, lo si sostituisce con una versione
meno mediata. Per esempio, nel racconto di Tom Sawyer, Ben si accorge che il suo
controllo non viene riconosciuto e quindi si mette vicino a Tom per essere notato
meglio e cerca di cambiare strategia.
- Strategia 5  si proiettano i propri desideri e fini sugli altri partecipanti; a meno
che non vi sia un’evidenza contraria. Questa strategia è fine perché fa riferimento
proprio al meccanismo della proiezione, che è uno dei meccanismi più potenti
nell’ambito della psiche umana, per esempio io posso proiettare nell’altra persona il
negativo di cui ho paura. Quindi quando qui parliamo di strategia numero 5 (la
rilegge) stiamo parlando di un meccanismo parecchio articolato, parecchio difficile
da mettere in atto.
- Strategia 6  se i controlli dei partecipanti non sono in pieno accordo reciproco, si
dovrebbe negoziare il senso dei concetti controversi del topic;
- Strategia 11  per rivalutare il proprio contributo e avviare l’escalation a

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un’AZIONE DI SCAMBIO vantaggiosa occorre INFORMARE riguardo al
pensiero di persone assenti che non possono obiettare nulla, oppure INVOCARLO,
per non sembrare irragionevoli o avidi (per esempio, come fa Tom con Ben,
dicendogli che la zia Polly voleva lo steccato pitturato bene). Questa è una strategia
importantissima, tutte lo sono, questa é particolarmente rilevante perché la
conosciamo tutti per un suo elemento un po’ antipatico. Spesso ci troviamo in
conversazioni nella quali viene invocato un argomento utilizzato da qualcuno che
però è assente, noi diciamo qualcosa che ha detto qualcuno. Questo è un
meccanismo che confligge un po’ con le massime di Grice, tu non puoi parlare di
ciò, non puoi dire qualcosa che ha detto un altro che non è presente.  Quando noi
facciamo questo é perché vogliamo ricavare un vantaggio.

Tutto questo è per dire che quando si mettono in atto queste strategie quello che noi
rivediamo di solito è che chi lo fa invoca dei temi, cioè c’è un tema, faccio riferimento a
quel tema, invoco quel tema, mi aggancio a quel tema e quel tema di solito tu non me lo
puoi negare. Quindi invocazione di temi e informazione sulle ragioni: quanto più il tema
che tu invochi è alto (per esempio la patria), tanto meno io ti chiedo informazioni sulle
ragioni, non mi permetto nemmeno di chiedertele. Se mi parli del padre eterno non ci
mettiamo a discutere se esiste. 

Beaugrande e Dressler  dicono che i testi devono essere accettabili, se un testo diventa
accettabile non è dovuto necessariamente alla sua correttezza rispetto al mondo reale, un
testo non è corretto solo perché riflette la realtà del mondo. In un testo possiamo anche
trovare una persona con 3 braccia e 2 nasi, l’importante è che l’autore renda questo testo
credibile, rilevante.

Intertestualità e tipi testuali

L’intertestualità è l’insieme di rapporti che ogni testo intrattiene con tutti gli altri testi e che
permette al ricevente di collocarlo in una determinata tipologia testuale (per es.: indicazione
stradale, messaggio pubblicitario, poesia, fiaba). Quindi, i testi si organizzano in base a
categorie e tipi riconoscibili dal lettore e ogni tipo è caratterizzato da delle regole proprie
che inducono nel lettore una serie di aspettative che lo aiutano nella comprensione dei testi.

A cosa serve l’intertestualità? E‘ importante perché ci aiuta a cogliere le allusioni ad altri


tipi testuali all’interno di una conversazione o in un testo. E‘ importante capire anche a
quale tipo testuale si sta riferendo il nostro interlocutore

I tipi di testo (o tipi testuali) sono classi di testi in cui sono attese determinate
caratteristiche per determinati scopi. Per la determinazione della tipologia di un testo si può
far riferimento a fattori sia interni che esterni. Le classificazioni quindi dipendono dalla
forma e l'uso di un testo. In particolare, si classificano i testi in base allo scopo
dell'emittente, il tipo di destinatario e il contesto comunicativo. Tali variabili influenzano o
determinano le caratteristiche linguistiche del testo (in particolare, la scelta del lessico,
della sintassi, delle forme verbali). I fattori interni di un tipo testuale sono caratteristiche
strutturali che si mostrano nella costruzione del testo, come la divisione in paragrafi,
i riferimenti incrociati o la costruzione del periodo. Fattori esterni al testo sono quelli che ne
determinano la nascita, l'utilizzo e lo scopo.

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Ci sono dei tipi testuali che possono essere definiti in base alla loro FUNZIONE, ossia
secondo il contributo che essi danno alla comunicazione. Quella per funzioni è la prima
classificazione dei tipi testuali. Si basa sui differenti tipi di discorso individuati dalla
retorica classica: la narrazione, la descrizione, l'esposizione e l'argomentazione. Nella
tipologia di De Beaugrande e Dressler, i tipi di testo sono:

 Descrittivo   è un tipo di testo in cui la funzione prevalente è la descrizione. La


descrizione consiste cioè nella trasposizione di una parte di mondo in una sua
versione linguistica. E‘ un testo che mette al suo centro oggetti, persone, ambienti e
situazioni che hanno la funzione di centro di controllo e la categoria cognitiva
maggiormente implicata è quella dello spazio. Lo scopo di un testo descrittivo è
quello di indicare al lettore o all'ascoltatore le caratteristiche visibili di una certa
realtà (persona, cosa, ecc.).
 Narrativo e argomentativo  i testi narrativi sono quelli che dispongono in un
determinato ordine sequenziale azioni e avvenimenti. In questo caso le relazioni
concettuali sono quelle di causa, ragione, agevolazione e prossimità temporale. In
un testo narrativo, inoltre, troviamo molte subordinazioni e il pattern globale più
ricorrente è la cornice. I testi argomentativi sono quelli che favoriscono come vera
o falsa o positiva o negativa l’accettazione di determinate idee e convinzioni. Cioè
quando tu ti trovi di fronte a un testo che ti vuole, in qualche modo, portare a dire se
un argomento è vero o falso, positivo o negativo. Per i testi argomentativi sono
tipiche relazioni concettuali come ragione, significanza, volontà, valore e
opposizione.
 Letterario e poetico  Il testo letterario è scritto con l’intento di costituire
un’opera d’arte. Nel testo letterario viene rappresentato un mondo alternativo rispetto
a quello che conosciamo e l’intento dell’autore è quello di stimolare la sensibilità
emotiva e la capacità interpretativa del lettore. I testi POETICI sarebbero, in
questa prospettiva, quella sottoclasse di testi letterari in cui l’alternatività viene
ampliata tanto da riorganizzare le strategie con cui sono riprodotti nel testo i
progetti e il contenuto. Il testo poetico, infatti, è un’opera in versi in cui l’autore
esprime un messaggio. È possibile vedere i testi letterari e poetici come opposti ai
tipi testuali che hanno il compito di ampliare e diffondere le conoscenze sul “mondo
reale” accettato al momento.
 Scientifico e didattico  I testi scientifici hanno lo scopo di esplorare, allargare o
chiarire il bagaglio di conoscenze che una società ha in un determinato ambito di
fatti. I testi didattici servono semplicemente alla diffusione di conoscenze assodate a
un gruppo di riceventi testuali in fase di studio o non specializzato.

Noi facciamo in continuazione una mediazione tra tipi testuali. Se io faccio una citazione o
un’allusione a testi letterari che già esistono, la mediazione si restringe perché faccio una
mediazione ristretta a quel testo. Quindi CITAZIONE E ALLUSIONE indicano che la
MEDIAZIONE si RIDUCE. Attenzione però, perché è vero che esistono questi testi già
decisi e selezionati però è anche vero che ogni individuo è diverso e il linguaggio di ogni
individuo ha versioni proprie. IL LINGUAGGIO DI OGNI INDIVIDUO HA VERSIONI
PROPRIE DEI TIPI TESTUALI COMUNI dice Dressler.

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Allusioni del testo: cioè quando scrivo un testo oppure dico una cosa riferendomi ad altri
testi che già conosco e che magari conosce anche il mio interlocutore. L’allusione, però,
deve essere adattata ai tempi in cui viene fatta e per questo motivo è diversa dalla citazione,
perché comunque noi alludiamo ad un testo cambiando alcuni elementi. Le citazioni
appaiono sempre tra virgolette, ossia, quando si ricalca perfettamente ciò che sta dicendo
qualcun altro. L’allusione al testo è legittima come la citazione purché si abbia l’onestà di
segnalare che sia stata presa dal lavoro altrui. Allusione e ipertestualità sono fondamentali.

Per esempio, c’è un componimento di Marlowe che fa:

“Vieni a vivere con me e sii il mio amore e proveremo tutte le gioie che offrono valli,
boschetti, colline e campi, foreste o ripide montagne.”

Nello stesso anno in cui Marlowe scrive questo componimento, c’è un altro autore, Walter
Raleigh, che scrive la risposta della ragazza al pastore:

“Se tutto il mondo e l’amore fossero giovani e verità sulla lingua di ogni pastore, queste
gioie potrebbero indurmi a vivere con te e ad essere il tuo amore.”

Raleigh suggerisce di superare quello schema, ma la cosa che ci interessa dal punto di vista
dell’intertestualità è che se non ci fosse stato il testo di Marlowe, lui non avrebbe fatto il suo
testo. Quindi c’è un ALLUSIONE AL TESTO di Marlowe.

Raleigh e Donne hanno deriso le richieste del pastore, ma non la scelta dei temi
operata da Marlowe. Quindi loro stanno prendendo in giro le richiesta del pastore, ma non
la scelta del tema. Il tema, quello che 300 anni prima aveva individuato Marlowe, se voi ci
fate caso non è mutato, è identico, è lo stesso. Però c’è questa allusione al testo su un altro
livello che costituisce una derisione di quel contenuto.

Quando queste allusioni al testo sono esattamente perspicue, con tanto di nome e cognome
del testo, allora, l’intertestualità è evidentissima. 

“Quanto stai bene con quella maglietta Fila


Ho preso un disco solo per la copertina” oppure SCARY MOVIE CHE E’ UNA PARODIA DI
SCREAM E ALTRI FILM HORROR

Nella conversazione predomina l’intertestualità con una mediazione minima. In precedenza


abbiamo preso in esame alcuni dei modi in cui l’organizzazione della conversazione può
derivare dall’intenzionalità e dalla situazionalità. Nessuno di questi fattori è tuttavia, in
grado di fornire una spiegazione pienamente soddisfacente. Un testo non deve essere
rilevante solo per le intenzioni dei partecipanti o il contesto situazionale, ma anche per altri
testi dello stesso discorso. I topic devono essere selezionati, sviluppati e spostati. Questo è
molto importante, perché fa capire come non basta l’intenzionalità e la situazionalità.
Molte volte noi dobbiamo sapere capire nella conversazione normale, quotidiana a quale
tipo testuale si sta riferendo il nostro interlocutore. Noi facciamo questa operazione in modo
talmente spontaneo che non ne siamo consapevoli.

Il topic di una conversazione emerge dall’intreccio di concetti e relazioni all’interno dei

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mondi testuali reciprocamente connessi. Il nostro cervello fa questa operazione quando ci
troviamo in una conversazione, ovvero fare riferimento, cogliere concetti e relazioni dei
mondi testuali che sono reciprocamente connessi. Io dovrei sapere quali sono gli aspetti
variabili e problematici del topic che ho presentato e dovrei prendermi cura proprio di
quegli aspetti. Questo è centrale, altrimenti non si coglie tutto quel livello di allusione ad
altre testualità, che io do per scontato che tu sappia nel momento che ti propongo questo
topic. Se non mi curo di questo, in realtà sto infrangendo anche le regole della
conversazione di Grice. Se non mi prendo cura di questi aspetti variabili e problematici, i
miei interlocutori mi faranno delle domande per far sì che vengano chiariti: questo è il
segnale chiarissimo che il topic non era ben esplicitato e che all’interlocutore è sfuggita
l’intertestualità, l’allusione a un testo o ad altri testi.

Per esempio:

“Pfeiffer: …ma nella notte sentimmo i carri armati e l’artiglieria motorizzata, e


pensammo e adesso come ce ne andiamo di qui?
Procuratore: chi è noi? (agente)
Giovane soldato: … non sopporto ingiustizie.
Madre Courage : ha ragione, ma per quanto tempo? Per quando tempo non sopporta
ingiustizie? Un’ora, o due? (tempo)
Rampf: Era un giorno d’autunno grigio e piovoso. Lo passai al Comando di Divisione
di Pliskoje, svogliato e depresso.
Procuratore: Quanto c’era da Pliskoje al fronte? (localizzazione) Saint-Claude: e tua
moglie?
Mississippi: l’ho uccisa.
Saint-Claude: a che scopo? (scopo) Elsa: questo era il suo scrittoio.
Mario: se posso fare una domanda… Elsa: prego!
Mario: di chi è lo scrittoio adesso? (relazione di possesso)”

Nella prima domanda del procuratore, c’è una richiesta di chiarire chi è l’agente, cioè chi è
noi. Il procuratore non si focalizza sugli altri aspetti della narrativa, ma dice qualcosa che
non c’entra nulla con ciò che ha detto Pfeiffer. Il procuratore irrompe con una domanda “chi
è noi?”, ovvero fa una richiesta del chiarimento del topic. Poi il testo continua, Madre
Courage chiede per quanto tempo non sopporta ingiustizie, un’ora o due. Qui Madre
Courage sta facendo una richiesta di esplicitazione del topic riguardo alla relazione di
tempo. Nel testo, Madre Courage vuole avere delle informazioni precise. Quindi relazioni di
agente, di tempo (come ci ha fatto rilevare Giovanna), di localizzazione, di scopo, di
possesso.

Una pro-forma è per sua natura variabile e tu la devi rendere perspicua quando qualcuno
te lo chiede. Che significa variabile? Significa che tu usi una pro-forma e questa pro-forma
può essere riferita a diverse parti del testo, o meglio a parti diverse nel testo e tu non puoi
approfittare di questo. Questa variabilità della pro-forma, che può essere sempre la stessa
ma riferita a parti diverse nel testo, ad esempio IT in inglese, tu la devi riferire in modo
perspicuo e univoco a un referente.

L'inferenziazione

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Si tratta di un processo cognitivo che viene messo in atto quando nel testo non è presente
l'informazione esplicita necessaria per comprenderlo. In questo caso si ricorre a quelle che
definiamo le 'pre-conoscenze'. Quindi un'inferenza è la conclusione tratta da un insieme di
fatti o circostanze.
Formularità

Per scrivere un testo bisogna conoscerne anche i criteri di formularità. Di cosa si tratta? La
formularità raggruppa i criteri che dobbiamo padroneggiare quando abbiamo la pretesa di
produrre un certo tipo testuale. Per scrivere un testo devo conoscerne le meta-regole, come
per esempio l’attacco e la conclusione. Per esempio, l’attacco formulare di una email può
essere “gentile professore”, “egregio professore”, ecc.. Quelle più utilizzate sono abbastanza
poche, quindi se qualcuno scrivesse “gentile docente” capiremmo che chi scrive ha poco
presenti gli attacchi formulari del testo che ha scritto. Anche le formule di commiato sono
poche. Inoltre, queste formule possono cambiare a seconda delle varie lingue e della persona
a cui ci si rivolge.

Per-testualità e precarietà testuale

Quando un linguista vede un testo, che sia anche un testo minuscolo in un fumetto o su una
panchina della stazione, si chiede “cos’è questo testo? E’ informativo? C’è coerenza e
coesione? C’è un pensiero dietro a questo testo?”. Questi testi non hanno un nome proprio,
non hanno uno studio dal punto di vista dell’intertestualità, e si caratterizzano per la loro
precarietà. Esistono moltissimi testi che sono considerati secondari e che si possono
definire precari. Questa è la testualità precaria. Questi testi, quindi, sono testi scritti sul
corpo, sulle panchine, sui banchi, sugli alberi ecc… Sono testi che a volte possono essere
importantissimi.  La testualità precaria noi la troviamo continuamente e non dobbiamo
pensare che questi testi siano inutili, o che sporchino soltanto, ma da un punto di vista
linguistico dobbiamo cercare di capire quale sia il loro statuto testuale. Questi testi possono
essere anche più forti di quelli che solitamente sono considerati importanti. Possono avere
un aspetto illocutivo. Che significa? In linguistica, illocutivo è l’enunciato con il quale il
parlante esprime la sua volontà di affermare, chiedere, ordinare, offrire, promettere, rifiutare
ecc… Tale volontà, o forza illocutiva, si manifesta nell’enunciato in varî modi: tramite una
particella, il modo del verbo, l’intonazione; per esempio, nell’enunciato «Sei andato dal
medico?», l’indicatore di forza illocutiva è l’intonazione interrogativa.
Bisogna analizzare un testo in base alla sua informatività, cioè la misura in cui una
presentazione testuale è nuova rispetto alla precedente. La loro densità informativa. 

Come si classifica un testo? 

Noi, per adesso, non ci possiamo soffermare su quelle che sono le vere e proprie
classificazioni dei testi. A cosa pensiamo quando pensiamo ad un testo? Ad un giornale, ad
un libro, ad una poesia ecc… Sono poche le forme testuali che ci vengono in mente e,
sicuramente, non ci vengono in mente i testi precari (tipo scritte sulla sabbia o scritte sul
corpo, per esempio). Come classifico, però, questi testi? In realtà un’etichetta esatta non
esiste per questi testi. Ma anche per i testi a cui siamo più abituati (tipo i testi sui vestiti) non
ci siamo mai preoccupati di dargli un nome. 
Tuttavia, per alcuni testi si sono formate delle etichette. Come chiamiamo, ad esempio, quel
testo che ha avviato la possibilità di lanciarsi un messaggio in forma testuale, quando l’unica

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alternativa possibile era ancora la telefonata? L’SMS. L’SMS, dal punto di vista
metalinguistico, è un termine che si è fissato subito e che identifica quel tipo testuale; questa
etichetta è atta a soddisfare la descrizione implicita di quel testo che io non confondo con
altri testi. 

Come si chiama, invece, un testo su facebook? Post. Questa è un’altra etichetta perché la
parola “post” identifica questo tipo testuale su facebook. Se vogliamo parlare di un
messaggio su whatsapp o telegram, invece, parliamo solo di “messaggio”, non c’è una
etichetta in questo caso per un testo su whatsapp o telegram. 

Tutto questo ci porta al metalinguaggio. Il metalinguaggio, secondo Beccaria, è un


neologismo introdotto nella linguistica per indicare la prerogativa specifica ed esclusiva del
linguaggio verbale di codificare messaggi aventi come contenuto il linguaggio stesso.
Noi dobbiamo avere le etichette, dobbiamo dare un nome a ciò di cui parliamo: questo è il
compito fondamentale della linguistica. Il linguista deve sapere come si chiamano i
fenomeni linguistici. 

PERTESTUALITA’

Il pertesto rientra nella pertestualità. Un testo rappresentato su un supporto specifico (un


albero, una panchina ecc) può ripresentarsi in un altro testo più complesso sul piano
semiotico, ad esempio un fumetto, una pubblicità, un film, un videogioco. I testi
rappresentanti in altri testi, quindi, sono pertesti. Il pertesto, quindi, è un testo riprodotto su
un supporto specifico e, a sua volta, è un testo riprodotto in un altro testo. E’ la
rappresentazione in un testo figurativo di un testo scritto su supporto specifico. 

Secondo l’Encyclopedia of Language and Linguistics, nel fumetto ci sono solo tre gruppi
principali di testo scritto:
 Il testo nella nuvoletta
 Il testo nella vignetta
 La cosiddetta “didascalia”. 

E’ come se la pertestualità non fosse vista o considerata, i pertesti non vengono classificati. 
Il testo nel corpo della vignetta (ad esempio “bam!”) non sempre è indispensabile, mentre il
pertesto molto spesso è indispensabile perché dà una informazione al lettore che è
necessaria (ad esempio un cartello stradale su cui c’è scritto “Warning!” o una lettera nella
quale c’è scritto qualcosa di importante). Quindi, quella definizione dell’Encyclopedia è
sbagliata. 
Quindi c’è una volontà dell’autore di rendere quella che è la funzione del pertesto. 

I pertesti non sono né testi nella nuvoletta né testi nella vignetta, né didascalie, ma sono altre
cose.
Molto spesso il pertesto è perspicuo, nel senso che ci dà delle informazioni molto precise,
per esempio nome e cognome del ricercato e anche perché è ricercato, per assassinio, c’è
un’informazione molto precisa. Questo è un fumetto che risale all’epoca fondativa di
Wonder Woman, questo personaggio è Wonder Woman, non è certamente la W. Woman che
noi conosciamo adesso, diciamo che si è evoluta, qui siamo negli anni ’50. Nella vignetta
numero 2, il pertesto non è leggibile, nella vignetta numero 3 il pertesto diventa leggibile.

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Questo significa che prima della vignetta numero 2 gli autori hanno presentato il pertesto
nelle mani del personaggio maschile, poi nella vignetta successiva lo fanno vedere come
una sorta di ingrandimento nelle mani del personaggio femminile: in realtà stanno mettendo
noi nella condizione di leggere il contenuto di quel pertesto, questo significa anche che gli
autori hanno scelto di non farci sapere qual è il contenuto del pertesto attraverso la
nuvoletta, perché a volte il pertesto non si rende leggibile, però faccio finta nella nuvoletta,
cioè ti faccio vedere che il personaggio ne legge il contenuto, ma questa è una pertestualità
riferita, non una in senso proprio, perché anche da questo punto di vista la testualità è
diversa, perché se il pertesto è riferito, il tipo scrittivo è comunque parlato-scritto, perché
starà nella nuvoletta, quindi queste sfumature sono importanti. 

Stessa cosa, spero che vediate il topolino qui, con la lettera in mano, “Topolino contro
Wolp” , storia vecchissima. Lui riceve una lettera perché Minnie viene rapita con scritto
“Topolino se volete che Minnie sia resa, venite a prenderla al castello della Rocca,
conducendo con voi mille capi di vaccine che mi terrò come riscatto, se tarderete non la
vedrete più, firmato Wolp”. Il pertesto è enorme, vi ho fatto vedere questo per
sensibilizzarvi rispetto al fatto che la pertestualità, anche è diacronica, non è che il pertesto
nasce in modo già ben definito. Il pertesto ha una sua storia e una sua evoluzione. Oggi
giorno rappresentare un pertesto così ingrandito, forse sarebbe un po’ percepito come
qualcosa di superato, questo per dire che c’è una storicità anche da questo punto di vista. Vi
mostro adesso una slide in cui ci sono tutti gli elementi metatestuali del fumetto: la
nuvoletta è il nome con cui si designa il contenitore del parlato scritto, se voi prendete testi
della prima produzione, soltanto se vogliamo parlare di quella italiana, qui sto prendendo la
tradotta, che è un periodico dei cosiddetti giornali di trincea, che venivano mandati ai soldati
che stavano al fronte, durante la prima guerra mondiale. Quindi contenevano anche delle
brevi storie, e qui si cominciava a vedere qualche esempio di nuvoletta, perché la tradizione,
ad esempio nel corriere d iPiccoli che compare nel 1908 in avanti voleva che il testo parlato
fosse rappresentato, magari in rima, e sotto la vignetta, non certo nella nuvoletta, che era
considerata una cosa un po’ di registro basso, comunque si comincia a vedere qualche
nuvoletta, e qua la pipetta, ovvero la punta della nuvoletta, che indica la direzione da cui
proviene il parlato.

Allora, se voi vedete, vi ricordo rapidamente i parametri della variazione linguistica: sono la
diacronia (variazione in rapporto al tempo), diatopia (variazione, il fenomeno linguistico in
rapporto allo spazio), diastratia (la variazione del fenomeno in rapporto alla condizione
sociale dei parlanti), diamesia (in rapporto al mezzo che abbiamo tangenzialmente
accennato all’inizio), diafasia (variazione con rapporto alla situazione), quello che non è
rilevato è la pertestualità cioè il testo mediato da un altro testo, i pertesti così come altre
forme della testualità che sono le imitazioni del parlato, la didascalia, ecc. hanno sempre
una funzione, se c’è quel testo là dentro è perché ha sempre una funzione, un testo non sta
mai per caso da nessuna parte, nemmeno se un bambino scrive una dedica, la più tenera del
mondo, alla sua mamma, quello ha una funzione.

I testi hanno sempre una funzione, così come ce l’hanno i testi riconosciuti come tali, ce
l’hanno anche i pertesti, ora noi, se voi vedete questo schemino “+  scrittivo, - (meno)
scrittivo” i tipi testuali che entrano nel parlato o se ne distanziano sono diversi, cioè è come
se ci fosse una gradazione, una gradualità, non è che sono tutti allo stesso modo
intenzionalmente scrittivi o imitazione del parlato, ma c’è una gradazione: ci sono dei testi

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che sono più scrittivi e dei testi che lo sono meno, tra quelli più scrittivi ci sono gli
ideosegni, cioè quei testi che rappresentano un’idea, solitamente i disegni. Per esempio,
una donna in trance che produce una nuvoletta che significa che sta pensando, qualcosa che
io ho nella mia mente, c’è poco di parlato in questo. Il pertesto, invece, non si presta
assolutamente a nessuna trasformazione in parlato, il pertesto è scritto, c’è poco da fare.
E’ il tipo più scrittivo di tutti. 
Poi ci sono testi che imitano di più il parlato, come i fonosegni, ovvero quelli che imitano i
rumori, le onomatopee che mi costringono ad evocare una dimensione sonora quanto
meno dal punto di vista mentale. Poi c’è il testo nella nuvoletta che per antonomasia imita il
parlato.
C’è una graduazione della testualità scritta e tutto questo noi dobbiamo metterlo in relazione
con coesione, coerenza, accettabilità, informatività, situazionalità, intertestualità e
intenzionalità, perché ogni testo considerato dal punto di vista funzionale può essere
oggetto di un’analisi che tenga conto di questi parametri. 

Molto spesso, i traduttori dei fumetti si limitano a tradurre ciò che c’è nelle nuvolette e tutto
il resto, tralasciando però i pertesti. Spesso i traduttori ritengono di non dover intervenire sul
pertesto e questo, dal punto di vista funzionale, indebolisce il testo nella sua complessità,
perché ha tolto un’informazione che poteva essere rilevante (per esempio, in un fumetto di
Batman c’è il protagonista che esce dalla banca e sull’edificio c’è scritto “Bank” nella
versione italiana, quindi il pertesto non è stato tradotto). Inoltre, spesso il pertesto viene
proprio cancellato in alcune traduzioni, come se fosse percepito come qualcosa che non è
importante.

Vittorio Giardino, invece, è un fumettista italiano che dedica al pertesto una cura
eccezionale. Mostra una vignetta in cui c’è un personaggio che sta davanti a un botteghino
del teatro e sta comprando o chiedendo un’informazione. Vittorio Giardino disegna anche la
locandina dello spettacolo che c’è quella sera e se ingrandiamo, vediamo che in questa
locandina riusciamo a leggere anche i nomi degli attori, dei personaggi, ecc. Quindi c’è una
cura attenta, meticolosa al pertesto.

Vediamo adesso alcune definizioni dei pertesti da parte di alcuni specialisti del fumetto: 
David Berona, su un articolo dedicato al testo nel fumetto, definisce i pertesti rappresentati
nel fumetto con la parola signs, mentre gli altri tipi di testo li chiama words, parole. Un altro
autore significativo, N.C. Couch, in un articolo dedicato a Yellow Kid, che rappresenta la
fondazione del fumetto moderno, e che tra l’altro è pieno di pertesti, definisce i pertesti con
la parola text, quindi per lui sono dei testi. Per Annalisa Miglietta i pertesti rientrano tra le
immagini, questa studiosa quando incrocia i pertesti, lei li classifica come immagini, non
vede proprio che siamo di fronte a un testo. F. Ruggiano, invece, che anche opera nel
campo della linguistica italiana, chiama i pertesti oggetti. Ruggiano non identifica l’aspetto
testuale nel pertesto, è lampante. Ladinse Lotti  non sa come definire il pertesto, oppure li
definisce come messaggi che si inseriscono dentro il disegno, però riconosce una cosa
importantissima: “Questi messaggi che si inseriscono dentro il disegno, che non saprei come
definire, a pensarci bene rappresentano la zona più critica per il traduttore”. Se ne rende
conto, ma non affronta la cosa. J. Podeur ha dedicato parte della sua attenzione di ricerca
alla traduzione del fumetto e definisce il pertesto come una “scrittura dentro il disegno” o
come “iscrizioni”, poi però anche lei dice effettivamente che questo è l’aspetto più difficile
da gestire per i traduttori, queste iscrizioni sono il luogo dell’incertezza. 

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Testo del razzo

 “Un grande razzo V-2 nero e giallo e lungo 46 piedi stava in un deserto del Nuovo
Messico. Vuoto pesava cinque tonnellate. Come carburante aveva caricato otto tonnellate
di alcool e ossigeno liquido. Tutto era pronto. Scienziati e generali si ritirarono ad una
certa distanza e si misero al riparo dietro dei terrapieni. Due razzi luminosi rossi si
alzarono come segnale per la partenza del razzo. Con un grande frastuono e una grande
emissione di fiamme l'imponente razzo si levò, prima lentamente e poi sempre più veloce.
Dietro di sé trascinava una striscia gialla di fiamme lunga venti metri. Ben presto la
fiamma ebbe l'aspetto di una stella gialla. Pochi secondi dopo sparì alla vista, ma sul radar
si poteva osservare come esso schizzasse via alla velocità di tremila miglia all'ora. Pochi
minuti dopo la partenza il pilota di un aereo ricognitore lo vide ritornare ad una velocità di
duemilaquattrocento miglia all'ora e schiantarsi al suolo a 40 miglia dal punto del
decollo.”

Questo testo è importante perché viene utilizzato per dimostrare che se noi
volessimo spiegare tutte le reti concettuali, tutti gli relazioni che tengono assieme tra loro i
vari elementi, si tratterebbe di un lavoro infinito. Lo sforzo che fanno qui B. e D. è quello di
mostrare come questo testo abbia una sua coerenza, sebbene manchino informazioni, e per
farlo loro ricorrono a uno schema dei vari elementi, ossia le parole che compongono il testo,
collegandolo tra di loro grazie ai concetti primari e secondari e dimostrando che mediante
questi concetti noi possiamo riprodurre il ragionamento che facciamo quando leggiamo un
testo.

Quando ci troviamo davanti ad un testo, la prima cosa che dobbiamo fare è individuare il
centro di controllo di quel testo, cioè capire qual è l’elemento attorno al quale ruota
tutta la coerenza testuale e in questo caso il centro di controllo è il razzo. Bisogna
immediatamente individuare il centro di controllo perché è da qui che partono tutte le
informazioni e qualunque informazione, anche quella in fondo al testo, la devo poter
collegare al razzo. Il centro di controllo è anche il concetto di oggetto, cioè quello che si
riferisce a entità concettuali con identità e costituzioni stabili.

A questo concetto sono assegnati degli attributi, cioè delle condizioni particolari e questi
attributi sono: la grandezza, infatti leggiamo che è molto grande e lungo, poi un altro
attributo è il colore (sappiamo che è nero e giallo) e poi un altro attributo è quello della
localizzazione, infatti sappiamo che si trova in Messico e in un deserto. Sappiamo anche il
nome del razzo: V-2. Dicono Beaugrande e Dressler che tutte queste relazioni concettuali
possono essere inserite in una rete e al centro di questa rete mettiamo il concetto d’oggetto,
quindi il razzo che è il centro di controllo, e da questa parola dipartono gli altri concetti,
quindi noi andiamo a mettere in corrispondenza  di ogni concetto la sigla del concetto
stesso, quindi “grande, nero e giallo” sono definiti con la sigla “at”, ossia sono attributi di
razzo, per V-2 invece scriviamo che è un “sp”, cioè un attributo di specificazione ecc. In
questo modo abbiamo trasformato un frammento di testo in uno schema.

Questo schema ci mostra come un certo autore lavora ai suoi testi e come li crea.
L’elaboratore, infatti, passa da uno stato attuale a quello successivo in modo da tentare di
identificare il tipo di nodo da raggiungere appoggiandosi all’attivazione ampliata, 

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all’inferenziazione e ai pattern globali. Quando arrivo alle informazioni successive, infatti,
i pattern globali sono urgenti. Quando un autore scrive un testo non è che mi dà tutte le
informazioni, me ne dà un po’ alla volta, e questo serve a mettere l’accento sulla
proceduralità del testo. Noi adesso abbiamo fatto il primo schema, abbiamo ridotto a prima
schematizzazione queste poche parole, poi però andiamo avanti e facciamo uno schema
delle parti successive per vedere se queste parti sono ben collegate e se sono coerentemente
collegate con la prima parte.

E’ importante sapere che nel primo paragrafo del testo sul “razzo” c’è un MACROSTATO
concettuale nel quale i singoli concetti sono MICROSTATI.

Una cosa importante dicono B. D. è che nello schema la pro-forma deve essere soppressa,
non è necessario riprenderla perché in questo modo, di volta in volta, prenderebbe il posto
della nozione centrale e questo impedirebbe l’analisi più estesa del testo.

Anche le inferenze sono molto importanti per la coesione di un testo e questo testo è pieno
di inferenze. Inferenziare vuol dire combinare e collegare le informazioni allo scopo di
costruire dei piani testuali coerenti. Per esempio, quando dice: “scienziati e generali si
ritirarono in una certa distanza e si misero al riparo dietro dei terrapieni”. Qui abbiamo
un’inferenza; non ci viene spiegato perché si ritirarono a una certa distanza, ma noi
sappiamo che lo fanno per non rimanere bruciati, per non morire. Quindi, noi dalla nostra
enciclopedia mentale ricaviamo l’informazione che è persino inutile dare e cioè che, se
quelli stavano lì, finivano polverizzati dalla fiammata del razzo. Noi accettiamo questa cosa,
la diamo per scontato. Questo è molto importante, perché quando noi ci troviamo di fronte a
un testo che, tutto sommato si capisce, allora siamo portati a pensare che, chi ha scritto quel
testo non ha visto la necessità di aggiungere quel determinato dettaglio perché ha fatto
affidamento sulle nostre capacità di fare inferenze condivise. Il problema si pone allora, in
questi termini: fino a che punto si assomigliano il mondo testuale di chi produce il testo e il
mondo di chi lo recepisce? E’ un mistero (ad esempio il prof non capiva l’email della
studentessa, non capiva a quale esame si riferiva perché lei aveva detto “il seguente esame”
senza specificare). Però la capacità di fare inferenze non è una cosa che hanno tutti.

Beaugrande e Dressler vogliono farci vedere che a mano a mano che andiamo avanti
nell’analisi di questo testo lo schema diventa sempre più complicato, ma sarebbe molto più
complicato fare uno schema di tutte le possibili inferenze che noi facciamo quando
leggiamo un testo. Alla fine, noi vediamo che un testo così semplice mostra una complessità
che non avevamo mai pensato fosse possibile, con questa rete di collegamenti basati sui
concetti primari e secondari.

In qualsiasi testo c’è sempre una discontinuità. Anche in questo testo così semplice ci sono
delle discontinuità, infatti noi non sappiamo, per esempio, cosa stessero guardando quegli
scienziati. Quindi è vero, ci sono delle discontinuità, ma la maggior parte delle volte non ce
ne accorgiamo.

Allora, questo esperimento per B. e D. costituisce come una topografia del testo
(rappresentazione grafica).

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***
Il mondo reale è il mondo extratestuale, che sta fuori dal testo e a cui apparteniamo noi con
le nostre inferenze, preconoscenze ecc. Il mondo testuale, invece, è quello dei testi, degli
enunciati. Se noi scriviamo un testo dobbiamo tener conto del MONDO REALE del
ricevente, quindi dobbiamo andargli incontro il più possibile affinché accetti e capisca il
testo. Quando lasciamo delle informazioni implicite perché le diamo per scontato, per
esempio, dobbiamo comunque stare attenti e considerare se tutti posseggano quelle
conoscenze.

(Distinzione tra descrizione e spiegazione: Spiegare significa togliere la piega, dispiegare,


qualcosa che si è spiegato è qualcosa che si è aperto perché prima era piegato; descrivere
non è spiegare, i manuali spesso sono descrittivi, descrivono delle cose ma hanno meno
spazio per spiegare ciò che descrivono.)

Testo coeso ma non coerente: “con tutti i miei compagni di classe ho fatto subito amicizia;
con qualcuno no, perché è meno simpatico.”

Testo coerente ma non coeso: “

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