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Introduzione
A partire dal Cratilo di Platone la filosofia si è occupata del linguaggio: della sua origine,
delle sue funzioni e, in particolare, delle diverse “parti del discorso” e delle loro funzioni e
dei diversi tipi di relazione semantica.
Se ne è occupata più intensamente in certi periodi (tardo Medioevo) e un po’ meno in altri
(Seicento), ma comunque il linguaggio non è mai uscito del tutto dall’orizzonte riflessivo
della filosofia. Eppure, quando oggi si parla di filosofia del linguaggio, si fa di solito
riferimento a ricerche la cui bibliografia risale molto di rado indietro nel tempo; certo,
vengono citate dottrine antiche come la distinzione di Leibniz tra intensione ed estensione,
la teoria “ideazionale” di Locke, tuttavia, si ha l’impressione che il riferimento a questi o ad
altri classici serva più che altro a nobilitare posizioni contemporanee.
Si possono addurre varie ragioni plausibili di questo distacco della filosofia del linguaggio
dalla tradizione filosofica.
Anzitutto, la filosofia del linguaggio ha instaurato fin dalle sue origini un rapporto
abbastanza stretto con la logica formale (inesistente prima di Frege) e la ricerca più recente
interagisce spesso con la linguistica generativa fondata da Chomsky alla fine degli anni
cinquanta.
Inoltre la filosofia del linguaggio è per molti aspetti interna alla tradizione filosofica analitica:
una tradizione che ha certamente dei precedenti insigni nella storia della filosofia
(Aristotele, Hume), ma che si svolge prevalentemente nel nostro secolo.
Infine, un’altra ragione di questo peculiare distacco della filosofia del linguaggio dalla
tradizione filosofica va cercata nel grado di consenso raggiunto in questa disciplina. I filosofi
del linguaggio hanno infatti convenuto sulla rilevanza di certi problemi e sulla centralità di
certi testi come contributi alla loro discussione difficili da definire in modo preciso, ma in cui
hanno gran parte le definizioni e le argomentazioni esplicite e l’uso di controesempi per
invalidare proposte di soluzione. Questo complesso consensuale lascia certamente fuori, per
una ragione o per l’altra, buona parte delle riflessioni filosofiche sul linguaggio pre-
freghiane.
Con questo non si vuole affermare che tra coloro che oggi si occupano del linguaggio da
filosofi il consenso sia universale, ma soltanto sottolineare quella che è stata ed è la
particolare autorevolezza di un gruppo relativamente piccolo di testi.
Da questo punto di vista è forse un po’ più facile capire anche il difficile rapporto tra la
filosofia del linguaggio e le attuali correnti ermeneutiche. Le differenze di stile filosofico sono
evidenti, ma a parte ciò, i problemi della filosofia del linguaggio analitica sono
sostanzialmente estranei all’ermeneutica. Ai filosofi infatti interessa ciò che le parole come
“cavallo” e “destriero” hanno in comune, agli ermeneuti interessa piuttosto ciò per cui sono
diverse.
Il programma di ricerca della filosofia del linguaggio è a volte identificato con lo slogan i
“problemi filosofici sono problemi del linguaggio”.
Questa identificazione è, oggi, un errore perché la maggior parte dei filosofi del linguaggio
non pensa affatto che i problemi filosofici della giustizia, della giustificazione delle teorie
scientifiche, della natura dell’arte o del rapporto tra mente e corpo siano problemi del
linguaggio. Tuttavia è un errore che ha una giustificazione storica: le ricerche filosofiche sul
linguaggio sono di fatto nate per buona parte all’insegna di quello slogan che può essere
interpretato come i problemi filosofici nascono dal linguaggio: dalle sua imperfezioni e
opacità.
Se è vero che la filosofia del linguaggio si è evoluta nel senso di una comprensione fine a se
stessa di che cos’è il linguaggio e come funziona, ci si può domandare se non sia diventata
identica alla linguistica. È facile, ma sbagliato, rispondere che la linguistica non si occupa
del “linguaggio” bensì delle lingue storico-naturali.
In primo luogo infatti, le idiosincrasie delle singole lingue non sono necessariamente
irrilevanti per la filosofia del linguaggio. Proprio in quanto essa mira a stabilire conclusioni
generali, non è indifferente che esse siano contraddette da fenomeni linguistici specifici di
questa o quella lingua. In secondo luogo, esiste una linguistica teorica, o generale, che
tratta le singole lingue storico-naturali essenzialmente come il materiale empirico di una
teoria generale del linguaggio verbale.
La grammatica universale è una teoria della facoltà del linguaggio, il modulo della mente
umana devoluto alla conoscenza linguistica: i principi della grammatica universale
dovrebbero, in linea di principio, poter essere messi in relazione con le caratteristiche fisiche
del cervello.
Questi cenni bastano ad evidenziare le ambizioni di universalità del programma di ricerca di
Chomsky, ambizioni che, peraltro, non sono prerogativa esclusiva della linguistica generale.
La filosofia del linguaggio non può dunque essere distinta dalla linguistica per il fatto di
essere teorica anziché storica, interessata al linguaggio in generale piuttosto che alle
singole lingue o a gruppi di lingue, pura anziché empirica; e farebbe bene a non
distinguersene per il fatto di ignorare i fenomeni linguistici e le peculiarità delle singole
lingue.
Si è visto come la filosofia linguistica fosse dominata da preoccupazioni filosofiche
extralinguistiche. Di conseguenza, essa si è spesso impegnata in analisi di notevole rilievo
per la filosofia, ma di scarso interesse linguistico: è chiaro che non interessa più di tanto alla
linguistica il ruolo dell’aggettivo “volontario” o quello dell’enunciato “io provo dolore”; la
linguistica non si occupa di espressioni singole, ma di classi di espressioni.
Per i filosofi che avessero a cuore la liberazione della filosofia, e della scienza, dalle oscurità
e confusioni del linguaggio naturale, la teoria del linguaggio era anzitutto teoria dei
linguaggi artificiali della logica, opportunamente incrementati per accrescerne il potere
espressivo.
Il paradigma dominante
Introduzione
Il paradigma dominante nella filosofia del linguaggio del Novecento può essere
caratterizzato dalla congiunzione di tre tesi, due positive e una negativa:
1. il significato di un enunciato dichiarativo si identifica con le sue condizioni di verità,
cioè con la specificazione delle circostanze in cui l’enunciato è vero. L’enunciato
dichiarativo è dunque l’unità linguistica privilegiata: la teoria semantica è
essenzialmente una teoria del significato degli enunciati.
2. il valore semantico di un’espressione complessa dipende funzionalmente dai valori
semantici dei suoi costituenti (composizionalità del significato); il modo della
dipendenza è determinato dalla struttura sintattica dell’espressione complessa.
Gottlob Frege (1848-1925) fu uno dei fondatori della logica contemporanea ed alcuni
decenni dopo la sua morte è stato considerato anche il fondatore di una disciplina
filosofica detta “filosofia del linguaggio”. A Frege si devono nozioni centrali del
paradigma dominante, come l’analisi della predicazione e degli enunciati quantificati,
l’idea della composizionalità del significato e la coppia senso/denotazione; e fu Frege a
porre per primo problemi canonici come quelle del significato delle descrizioni definite o
quello dei contesti di atteggiamento preposizionale.
Buona parte delle idee semantiche di Frege sono esposte in tre brevi saggi degli anni
1891-1892, Funzione e concetto, Senso e denotazione e Concetto e oggetto.
Frege chiama “nomi propri” quelli che oggi si chiamano di solito termini singolari, cioè le
espressioni linguistiche che designano uno e un solo oggetto (es. Vercelli, l’uomo più ricco di
Vercelli, Aldo Rossi).
Ad ogni nome proprio sono associati, secondo Frege, un senso e una denotazione.
La denotazione del nome è l’oggetto designato (nell’esempio, la città di Vercelli, l’uomo più
ricco della città, la persona che porta quel nome).
Il senso è il “modo in cui un oggetto viene dato” dal nome; può essere concepito come il
contenuto cognitivo associato al nome, ovvero come uno dei vari modi in cui un oggetto può
essere determinato, in quanto “da luogo ad un particolare nome” di quell’oggetto.
È chiaro che uno stesso oggetto può essere designato da più espressioni linguistiche,
ciascuna delle quali costituisce uno specifico percorso per giungere a quell’oggetto.
L’attuale Regina d’Inghilterra può essere designata mediante l’espressione Elisabetta II o
appunto la regina d’Inghilterra, ciascuna di queste espressioni presenta la sua denotazione
(che è la stessa in tutti i casi) in un suo modo specifico, che è il suo senso.
Secondo Frege non basta dire che espressioni diverse (nomi diversi) hanno la stessa
denotazione, ma dobbiamo associare a ciascuna espressione un senso, cioè un modo in cui
essa presenta la sua denotazione; questo perché, sempre secondo Frege, le parole non sono
strumenti di conoscenza ne veicoli della comunicazione, lo diventano soltanto in quanto
associate a una denotazione.
Il senso di un’espressione quindi non è altro che il modo particolare in cui essa rinvia alla
sua denotazione.
Due espressioni distinte possono avere lo stesso senso: perciò il senso non è un altro modo
di chiamare ciò per cui un’espressione linguistica si differenzia da un’altra.
Dal senso di un’espressione linguistica va tenuta distinta la rappresentazione connessa
all’espressione, cioè l’ente mentale che l’espressione può richiamare nella nostra mente;
infatti le rappresentazioni sono inevitabilmente soggettive perché ciascuno di noi associa a
una stessa espressione una rappresentazione diversa.
Ma il linguaggio deve essere capace di esprimere un contenuto oggettivo se la
comunicazione dev’ essere possibile, per esempio per comunicarci reciprocamente un
contenuto di conoscenza.
L’imperfezione del linguaggio naturale consente la formazione di espressioni anomale, che
hanno un senso ma non una denotazione (es. il corpo celeste più lontano). In un linguaggio
perfetto ciò non dovrebbe avvenire: nessun segno infatti potrebbe essere introdotto o
formato senza che gli venisse garantita una denotazione, ma noi nel linguaggio naturale in
qualche modo parliamo sul presupposto che i termini singolari che usiamo abbiano una
denotazione.
Non sempre il valore semantico è del tutto in funzione dei valori semantici delle parti. È il
caso dei contesti enunciativi che Frege chiama indiretti, come:
• Copernico credeva che le orbite dei pianeti fossero cerchi (3)
Contiene, come suo costituente, l’enunciato (4)
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Predicati e concetti
Nel saggio Funzione e concetto, Frege cerca di chiarire la nozione matematica di funzione, e
mostra che essa è di applicazione più generale di quanto i matematici credano. Si dice
abitualmente che
(6) 2 . x3 + x
è funzione di x, o che
(7) 2 . 23 + 2
è funzione di 2.
Ma l’espressione (7) non designa certamente una funzione: essa è un simbolo complesso
che denota un numero (il num. 18). Se (7) fosse l’espressione di una funzione, le funzioni
non sarebbero altro che numeri.
L’essenza della funzione sta nella forma comune a (6) e (7), che potremmo rappresentare
con
(8) 2 . ()3 + ()
come (8) fa vedere, una funzione è essenzialmente incompleta; quel che si ottiene
completando la funzione è il suo valore per un determinato argomento. Chiamiamo decorso
di valori di una funzione l’insieme dei suoi valori per i suoi argomenti.
Non tutte le funzioni hanno per valori dei numeri: vi sono funzioni il cui valore è un valore di
verità (il Vero o il Falso).
Secondo Frege ciò che in logica è chiamato concetto è intimamente connesso con ciò che
noi chiamiamo funzione. Un concetto è una funzione il cui valore è sempre un valore di
verità.
Anche il linguaggio naturale è capace di esprimere funzioni. Per esempio, l’espressione la
“capitale di……….” Può essere considerata designare una funzione, che fa corrispondere a
ciascuna nazione la sua capitale.
E il linguaggio naturale è pure capace di esprimere concetti, cioè funzioni il cui valore è
valore di verità. Per esempio, l’espressione “………è la capitale della Francia” denota una
funzione che assume il valore Vero per l’argomento Parigi, e Falso per tutti gli altri
argomenti.
Le espressioni “………… è un uomo” sono dette predicati. I predicati risultano essere
espressioni linguistiche che denotano un particolare tipo di funzioni: funzioni i cui valori
sono valori di verità, cioè concetti.
Il predicato “……….è un uomo” denota il concetto uomo, cioè una funzione che assegna ad
un argomento il Vero se l’argomento è un uomo, e il Falso altrimenti. C’è dunque una certa
asimmetria tra il trattamento del soggetto e il trattamento del predicato: ma per Frege è
cruciale che non sia così, i predicati devono denotare funzioni, cioè enti insaturi. Solo così,
infatti, è possibile spiegare il nesso preposizionale, ciò che tiene insieme una proposizione:
una proposizione si ottiene saturando un concetto con un oggetto.
Il filosofo e matematico inglese Bertrand Russel (1872 – 1970), autore dei Principi della
Matematica, nell’articolo Sulla denotazione attaccò il quadro concettuale freghiano di Senso
Nel linguaggio, oltre alle proposizioni semplici, ve ne sono altre dette complesse. Queste
proposizioni, come le negazioni, le congiunzioni, le disgiunzioni, contengono espressioni
dette costanti logiche (non, e, o, ecc..) che secondo Russel significano oggetti logici mentre
per Wittgenstein, invece, le costanti logiche non hanno valore designativi. Le costanti
logiche hanno la sola funzione di determinare in che modo il senso di una proposizione
complessa in cui compaiono dipende dal senso delle proposizioni più semplici di cui essa è
costituita. Il senso di ogni proposizione complessa, infatti, dipende dal senso delle
proposizioni elementari di cui è costituita.
Nel Tractus, il principio di composizionalità risulta essere una conseguenza della definizione
del senso della proposizione. Una proposizione è sensata se e solo se mostra di quali stati di
cose asserisce la sussistenza o la non sussistenza. Dunque, affinché una proposizione sia
sensata, bisogna che si veda dalla proposizione stessa quali stati di cose sussistono (o non
sussistono) se la proposizione è vera; cioè quali proposizioni elementari sono vere (o false)
se la proposizione è vera.
Il senso dell’intera proposizione (la sua possibilità di verità) dipende dai sensi delle
proposizioni costituenti (dalle loro possibilità di verità). Se abbiamo a che fare con una
proposizione sensata, dobbiamo essere in grado di calcolare per quali valori di verità dei
costituenti elementari la proposizione è vera e per quali è falsa. La proposizione è una
funzione di verità delle proposizioni elementari.
Il Tractus chiama le possibilità di verità dei costituenti elementari condizioni di verità delle
proposizioni, e sostiene che la proposizione è l’espressione delle sue condizioni di verità.
Tra i possibili gruppi di condizioni di verità vi sono due casi estremi: quello di una
proposizione vera per qualsiasi combinazione di valori di verità dei suoi costituenti
elementari e quello di una proposizione falsa per qualsiasi combinazione. Il primo caso è
quello della tautologia (es. o nevica o non nevica) il secondo quello della contraddizione (es.
piove e non piove).
Le proposizioni della logica si distinguono da tutte le altre perché sono vere comunque
stiano le cose: la loro verità è indipendente dai fatti del mondo, e perciò può essere
determinata senza confrontarle col mondo, diversamente da quanto avviene nel caso delle
altre proposizioni. Esse non hanno alcun contenuto raffigurativo: non sono immagini della
realtà, non trattano di nulla, non dicono nulla.
Ma se si può asserire che una situazione sussiste, dev’essere possibile asserire che essa non
sussiste: dev’essere possibile, cioè, dire come starebbero le cose se non si dessero le
condizioni della rappresentazione, il che è assurdo.
Questa drastica posizione di Wittgenstein sul simbolismo dev’essere ricondotta al fatto che
per il Tractatus c’è un solo linguaggio (il linguaggio) e non c’è quindi un altro linguaggio in
cui descriverne le proprietà.
È merito storico di Alfred Tarski (1902–1985) aver reso possibile l’estensione dell’analisi ad
enunciati quantificati di qualsiasi complessità, e aver fornito un metodo di determinazione
delle condizioni di verità degli enunciati semplici più facilmente applicabili al linguaggio
naturale.
Entrambi questi risultati sono, in un certo senso, un corollario della Teoria della verità di
Tarski.
Come già per Aristotele, anche per Tarski la verità è una proprietà degli enunciati di un
linguaggio. Ma quali condizioni bisogna soddisfare, definendo una proprietà di enunciati, per
poter dire che ciò che abbiamo definito è la verità? Tarski propone, come condizione di
adeguatezza materiale di una definizione di verità, la seguente: una definizione di vero (per
il linguaggio L) è materialmente adeguata se e solo se da essa sono deducibili tutti gli
enunciati della forma
(T) N è vero (in L) se e solo se p,
dove N è il nome di un dato enunciato di L, e p è la sua traduzione nel metalinguaggio in cui
la definizione è formulata (e rispetto al quale L è il linguaggio-oggetto).
Lo schema (T) cattura, secondo Tarski, il nucleo minimo delle nostre intuizioni sulla verità:
quali che siano le nostre idee filosofiche al riguardo, siamo tutti d’accorso ad esempio che,
se l’enunciato “Platone era allievo di Socrate” è vero, allora Platone era allievo di Socrate, e
viceversa se Platone era allievo di Socrate allora l’enunciato “Platone era allievo di Socrate”
è vero.
Tarski pensava che lo schema (T) esplicasse la concezione classica della verità (quella per
cui vero è sinonimo di realtà).
Il procedimento di Tarski per definire il predicato di verità per questo linguaggio è piuttosto
complesso. Basti dire che Tarski definisce la nozione ausiliaria di soddisfazione, definisce il
predicato di verità per L1 sulla base della soddisfazione, e fa vedere che questa definizione
implica tutti i bicondizionali della forma (T).
La nozione di soddisfazione (e indirettamente quella di verità) è definita da Tarski come
relazione tra formule e oggetti o sequenze di oggetti. Intuitivamente, per esempio, una
coppia di oggetti (a,b) soddisfa la formula Pxy se )e solo se) a e b sono nella relazione
Atteggiamenti proposizionali
L’efficacia dell’apparato teorico di Carnap non si estende a tutti i contesti non estensionali,
cioè a tutti quegli enunciati la cui estensione non è funzione delle estensioni costituenti.
I contesti di atteggiamento preposizionale non sono composizionali nemmeno rispetto
all’intensione. Per ovviare a questa difficoltà, Carnai introduce un nuovo concetto: quello di
struttura intensionale, e prova a sostenere che enunciati come (18), pur non essendo
composizionali rispetto all’intensione, lo sono rispetto alla struttura intensionale. Risulta,
infatti che ’68 + 57 = 125’ e ‘3 + 3 0 6’, pur avendo la stessa intesione, non hanno la stessa
struttura intensionale ( e per questo (18) e (19) non sono semanticamente equivalenti). La
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Il ‘secondo’ Wittgenstein
Wittgenstein fu sempre interessato ai problemi della filosofia in generale e non pensò mai
che il suo fine ultimo fosse la formulazione di una teoria del linguaggio.
Tuttavia è indubbio che il Tractatus logico-philosophicus contenga una tale teoria, sia pure
finalizzata alla chiarificazione di problemi quali la natura della logica o lo statuto dell’etica.
Ma nella seconda fase della vita di Wittgenstein le cose cambiano e negli anni 1929-1933
egli si libera gradualmente dell’idea stessa di teoria generale del linguaggio perché non gli
appare più come una condizione preliminare delle analisi filosofiche che intende svolgere,
ma gli sembra il frutto di un pregiudizio metafisico.
Con tutto ciò, le ricerche filosofiche (1953) contengono, oltre che una miriade di
osservazioni acute e profonde su singoli fenomeni linguistici, anche idee che è difficile non
prendere come elementi di una teoria del linguaggio, o come indicazioni sulla forma di una
tale teoria, come la proposta di sostituire alle domande sul significato, domande sulla
spiegazione del significato.
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Il centro del lavoro filosofico di J.L. Austin (1911-1960) è rappresentato dall’analisi del
linguaggio comune. Austin pensava che ogni indagine filosofica dovesse cominciare da un
inventario il più possibile completo del materiale linguistico pertinente al problema scelto: si
trattava di cogliere tutte le parole, e le costruzioni linguistiche, che l’uso comune associa al
problema.
Disegnare la mappa di un territorio concettuale ripercorrendo le distinzioni tracciate dal
linguaggio comune è, per Austin, quasi tutto il lavoro del filosofo. Quasi tutto, perché il
linguaggio comune (a) è organizzato dal punto di vista di interessi pratici più che teoretici,
(b) è fondamentalmente prescientifico, (c) incorpora a volte ‘superstizioni, errori e fantasie
di tutti i generi’.
Di conseguenza, esso non è l’ultima parola in filosofia. Tuttavia, ricorda Austin, è la prima.
In realtà accertare le circostanze d’uso di un’espressione linguistica non è operazione che
non dia luogo a controversie.
Austin era consapevole del fatto che l’analisi del linguaggio comune poteva avere esiti
divergenti, ma invitava a non drammatizzare.
Differenti determinazioni delle circostanze d’uso corrispondono a schemi concettuali diversi:
accertare e localizzare le divergenze è comunque illuminante.
Austin, quindi, non pensava né che l’uso comune fosse assolutamente autorevole (esso è la
prima parola, non l’ultima), né che la sua determinazione fosse univoca. Pensava invece che
la riflessione sull’uso delle parole avesse molti vantaggi, non ultimo dei quali l’isolamento e
la precisazione dei punti di contrasto tra visioni del mondo. L’analisi del linguaggio comune,
da questo punto di vista, condivide molte motivazioni del ‘passaggio al modo formale di
Carnap’ e ‘dell’ascesa semantica’ di Quine.
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Davidson
Donald Davidson ha proposto un’idea di teoria semantica basata sulla teoria della verità di
Tarski; egli sostiene che dare le condizioni necessarie e sufficienti per la verità di un
enunciato è un modo di darne il significato.
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