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SAGGI
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Questo volume è frutto di una ricerca condotta nell’ambito dei programmi
dell Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
Copyright © 2000
by Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
Napoli, via Monte di Dio 14
Titolo originale:
Philosophisch-politiscbe Proftle
Edizione originale:
© Suhrkamp Verlag Frankfurt a.M. 1981
Titolo originale:
«Herbert Marcuse»,
in Die postnationale Konstellation
© Suhrkamp Verlag Frankfurt a.M. 1998
Printed in Italy
ISBN 88-8335-096-0
Jiìrgen Habermas
PROFILI POLITICO-FILOSOFICI
GUERINI
I i
E ASSOCIATI
INDICE
Introduzione.
A che cosa serve ancora la filosofia? (1971) 17
1 (Questa ridotta edizione italiana, tra l'altro, non comprende i saggi su Schutz,
Wittgenstein, Plessner, Abcndroth, Mitscherlich e Lówenthal qui citati dall aucore.]
10
2 M. Jay, The Dialettical Imagination, Boston 1973 [tr. it. Einaudi, Torino 1979];
D. Held, Introduciion to Criticai Theory, London 1980.
3 A. Wellmer, «Kommunikation und Emanzipacion. Ùberlegungen zur spra-
chanalytische Wende der Kritischen Theorie», in U. Jaeggi, A. Honneth (hrsg. von),
Theorien des Historischen Materialismus, Frankfurt a.M. 1977, pp. 465-500; A. Hon
neth, Adorno und Habermas, «Mcrkur», n. 374, luglio 1979, pp. 648-664; M. Theu-
nissen, Laudario aus Anlass der Verleihung des Adorno-Preises 1980, hrsg. von Dezernat
Kultur und Freizeit der Stadt, Frankfurt a.M. 1981, pp. 7-13-
4 H. Dubiel, Wissenschaftsorgamsation und polifische Erfahrung, Frankfurt a.M.
1978.
12
Novembre 1970 J. H.
F
|
I
INTRODUZIONE
Quasi nove anni fa, alla domanda sull’utilità della filosofìa Ador
no rispondeva così:
Dopo tutto quanto è successo, la filosofia non deve più credersi padrona del
l'assoluto. Deve anzi, per non tradirlo, proibirsi persino di pensarlo. Nello
stesso tempo, tuttavia, non deve tollerare di fare nessuno sconto sul concet
to enfatico di verità. Questa contraddizione è il suo elemento1.
minologica dei concetti chiave (per quanto asciutto sia il tedesco ac
cademico) ha sempre avuto un significato non soltanto terminologico,
ma anche una qualità espressiva finalizzata agli scopi della comunica
zione indiretta. Non è escluso che nei prossimi anni anche questa filo
sofia — finora personificata nell’opinione pubblica dalla rappresentati
vità di certi autori — finisca per essere rimpiazzata semplicemente dal
«riassunto» di una certa visione scientifica del mondo, riassunto che
dovrebbe essere continuamente aggiornato da scienziati divulgatori
oppure da giornalisti esperti in cose scientifiche.
c) In Germania - in terzo luogo - lo sviluppo della filosofia si
scontra inevitabilmente con il fenomeno storico del fascismo. La vio
lenza di questo evento oggettivo ha polarizzato tutti i campi filoso
fici. Anche i filosofi e le filosofie degli anni Venti e dei primi anni
Trenta finiscono inevitabilmente per scivolare nella prospettiva di
una preistoria spirituale del fascismo. Filosofi e filosofie non possono
attestarsi su una posizione di indifferenza rispetto a ciò che è succes
so dopo. In ogni caso, a partire dal 1945 diventa inconcepibile qual
siasi neutralità innocente dell’autocomprensione filosofica. L’auto
biografia politica di esuli come Bloch, Horkheimer e Adorno (e an
che di altri, successivamente rientrati nel dopoguerra) è diversa sia da
quella (pur così differenziata) dei cosiddetti esuli «interni» quali Ja
spers e Litt sia da quella dei precursori intellettuali del nazismo o di
suoi temporanei sostenitori quali furono Heidegger, Freyer e Gehlen.
Tuttavia questa ipoteca biografica non avrebbe pesato così gravemen
te per questi ultimi ventanni, se fosse stato possibile in qualche mo
do risolvere il problema dell’indiretta responsabilità intellettuale sui
crimini politici, ovvero se fosse stato possibile più in generale dare
una soluzione teorica e sistematica al problema delle conseguenze
pratiche (dirette e indirette) dell'attività filosofica. Nonostante la di
scussione su colpa e responsabilità collettiva dei tedeschi (discussione
sollevata inizialmente da Jaspers ma presto lasciata cadere), nessuno
degli interessati ha voluto studiare — neppure nel caso di esempi neu
trali tipo Rousseau o Nietzsche — il rapporto di causalità spirituale
esistente tra i contenuti filosofici delle dottrine e la loro funzione di
legittimazione per le azioni di persone terze che vi si richiamino. Per
un verso non è possibile imputare soggettivamente all’autore di testi
filosofici (o letterari) le conseguenze non intenzionali della sua dot
trina. Per un altro verso, il contesto storicamente oggettivo degli ef-
21
fetti non resta esterno all’opera filosofica così come resta esterno a
opere d'altro genere. Ciò appare ancora più o meno comprensibile se
applichiamo la distinzione hegeliana di «moralità» ed «eticità» o la
teoria marxiana della «falsa coscienza». Ma cosa capita nel caso in cui
la coscienza biografica dell’autore e la coscienza storiografica dei po
steri non siano così benevolmente separate nel tempo e nei ruoli so
ciali? Nel caso cioè in cui la dottrina, da un lato, e l’esperienza delle
impreviste conseguenze politiche, dall’altro, vengano a coincidere
nella riflessione della medesima persona, ovvero debbano da questa
persona essere prospetticamente elaborate in riferimento a una prassi
futura? Come sono possibili, possiamo chiederci, sia il pensiero radi
cale sia una dottrina dalle implicazioni politiche, atteso che il filosofo
non debba né essere moralisticamente schiacciato da una responsabi
lità eccessiva (e dunque paralizzato dall’imprevedibilità delle conse
guenze) né abbandonarsi a un’irresponsabilità oggettiva (accettando a
cuor leggero esiti azionistici oppure un astinente ritiro dalia prassi)?
Solo se sapessimo rispondere in maniera soddisfacente a queste do
mande potremmo sperare di identificare a quali errori il pensiero fi
losofico va incontro sul piano precario della Wirkungsgeschichte [conte
sto delle conseguenze], nonché sperare di portare sotto controllo que
sto margine di errore attraverso dei processi di apprendimento. Fino
ra sembra che chiunque ammetta i propri errori debba essere imme
diatamente punito con una perdita di identità. Per lo meno ciò è
quanto suggerisce il comportamento riluttante e refrattario di tutti
coloro che hanno concorso ad aiutare una causa da essi non voluta.
d) In quarto e ultimo luogo, l’esercizio filosofico è caratterizzato
in Germania da una relazione critica con la propria epoca, una rela
zione che entra in contrasto con la sua impostazione accademica. No
nostante l’utilità di alcune ricerche, infatti, nessuna tra le scuole che
si sentono più vincolate alla tradizione (al seguito dell’ontologia, co
me la neoscolastica o Nicolai Hartmann, oppure al seguito della «fi
losofìa della riflessione» come gli eredi del neokantismo), così come
anche nessuna tra quelle che vogliono perseguire modelli «puri» di
filosofìa (fondandosi per esempio sulle codificazioni della più recente
filosofìa analitica), ha generato interpretazioni di primo piano, o per
sonalità veramente produttive, nella stessa misura delle correnti filo
sofiche che invece non hanno avuto paura di «sporcarsi le mani». Le
scuole più produttive hanno lasciato cadere la pretesa di autonomia
22
7 Th.W. Adorno, «Auf die Frage: Was ist deutsch?», in Id., Stichuorte, Frank
furt a.M. 1969, p. 106 (cfr. tr. it. Parole chiave. Modelli critici, SugarCo, Milano
1974, pp. 152-1551.
25
8 Cfr. C.E. Schorske, Weimar and thè Intellettuali, «The New York Review of
Books», VII, 21 maggio 1970.
26
sono certo cambiate nel corso della storia della filosofia. Ma sul piano
di fatto (oltre che sul piano della sua autocomprensione) la filosofia è
stata fin dall’inizio riservata a coloro che avevano tempo libero, ossia
a coloro che non erano impegnati nel lavoro produttivo. Il pregiudi
zio aristocratico per cui la maggior parte degli uomini sarebbero per
loro natura incapaci di conoscenza filosofica ha accompagnato tutta la
filosofia fino a Hegel. Anche se nel Settecento questo pregiudizio
venne occasionalmente messo in discussione dai rappresentanti del
l’illuminismo, mancavano a quel tempo le basi materiali per realizza
re di fatto il programma di un generale sistema educativo.
resse alla liberazione e alla conciliazione che era stato fino allora in
terpretato in termini religiosi.
ad d) Nella filosofia, la contraddizione tra la pretesa di una vali
dità universale della conoscenza e la restrizione aristocratica dell’ac
cesso all’esercizio filosofico era stata presente fin dalle origini. A par
tire da Platone, questa contraddizione aveva spesso trovato espressio
ne in una filosofia politica che — riservando il potere a coloro che era
no capaci d'intelletto [Einsichtsfàhigen} — forniva giustificazione filo
sofica al potere stabilito e universalità dogmatica alla conoscenza filo
sofica. Come dimostrano alcune ricerche sociologiche compiute su
studenti9, questo motivo di una formazione spirituale aristocratica è
ancora oggi presente nelle «immagini di società» improntate alla
cultura umanistica. Tuttavia questo dato segnala anche un modello
di sviluppo che — con l’estendersi a partire dall’ottocento del sistema
scolastico superiore — proprio in Germania aveva trovato il suo svi
luppo paradigmatico. Infatti la formazione degli insegnanti ginnasia
li nelle facoltà filosofiche delle università humboldtiane aveva diffuso
la filosofia — come disciplina accademica ma anche come ideologia
fondamentale delle nuove scienze umane — in quella fascia di pubbli
co borghese che si riteneva umanisticamente colta. Dunque proprio
nel momento in cui la filosofia rinunciava alla sua più specifica pre
tesa teorico-sistematica, e senza nessuna revisione della sua autocom
prensione aristocratica, prese piede nella realtà la diffusione di una fi
losofia scolastica istituzionalmente garantita. Su questa base essa di
ventava un lievito ideologico della cultura borghese. Nell’ambito del
movimento operaio, invece, la filosofia ebbe effetti del tutto diversi
per merito di Karl Marx. Nel suo pensiero sembravano finalmente
cadere quelle limitazioni elitarie che avevano sempre posto la filoso
fia in contraddizione con se stessa. Marx pensava certamente anche a
questo, quando affermava che per potersi realizzare la filosofia aveva
bisogno di essere superata.
12 Cfr. J. Habermas, Erkenntnis und Interesse, Frankfurt a.M. 1968 (tr. ir. Cono
scenza e interesse. Con il poscritto 1973, Laterza, Roma-Bari 1990).
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In effetti esistono oggi tre diversi approcci filosofici che sono ca
ratterizzati da questo nesso. Anzitutto il razionalismo critico di Pop
per, che è derivato dall’autocritica dei limiti empiristici e linguistici
del positivismo logico. Poi la filosofia metodologica di Paul Lorenzen
e della scuola di Erlangen che, riallacciandosi a motivi di Hugo Din-
gler, studia il fondamento pratico-normativo delle scienze e di una
razionale formazione di volontà. E, infine, la cosiddetta «teoria criti
ca» che, riallacciandosi a Horkheimer, Marcuse e Adorno, persegue il
programma di una teoria critica della società.
Se vogliamo pensare a una filosofia che non debba più temere la
domanda «a che serve la filosofia?», allora dovremmo oggi pensare
a una filosofia non scientista della scienza. A patto di comunicare con
le scienze e con gli scienziati, questa filosofia potrebbe trovare nel
l’espansione del sistema universitario la più ampia sfera d’influenza
di cui una filosofia abbia mai goduto nella storia. Essa non avrebbe
più bisogno di organizzarsi nella forma di una dottrina personificata
in singoli filosofi. Essa si vedrebbe persino investita di un compito
politicamente significativo, nella misura in cui sapesse parallelamen-
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«L’ebreo non può giocare nessun ruolo creativo, per ciò che attie
ne alla vita tedesca, né nel bene né nel male.» Questa frase di Ernst
Jiinger è stata scritta una generazione fa, nello spirito antisemita del-
la rivoluzione conservatrice. Tuttavia l’affermazione è sopravvissuta a
quell’antisemitismo, se è vero che qualche anno fa l’ho sentita ripete
re in un seminario universitario. Lì si diceva che gli ebrei non posso
no che produrre cose di second'ordine. Allora ero ancora studente e
pur avendo già letto Husserl e Wittgenstein, Scheler e Simmel, non
sapevo ancora nulla della loro estrazione. Ma l’illustre professore che
contestava le qualità dei suoi colleghi ebrei non poteva non sapere. È
curioso come certi stereotipi ideologici restino indiscussi anche
quando basterebbe un semplice dizionario a smentirli. Se il problema
fosse quello di anatomizzare e contabilizzare (quale figura dello spiri
to) la filosofia tedesca del XX secolo, allora proprio nel settore che il
pregiudizio vorrebbe riservato alla «profondità» tedesca noi dovrem-
mo^iconoscere la prevalenza di coloro che, secondo lo stesso pregiu
dizio, dovrebbero stare fuori della genialità come meri talenti critici.
Non è il caso di dimostrare ancora una volta ciò che risulta eviden
te da tempo. Piuttosto un’altra cosa va spiegata. È sorprendente come
l’esperienza della tradizione ebraica ci consenta di interpretare pro-
duttivamente alcuni motivi centrali deH’idealismo tedesco che, cqm’è
noto, fu sostanzialmente protestante. L’idealismo aveva effettivamente
accoltele assorbito in sé l’eredità cabalistica. Per questo la sua luce
sembra rifrangersi ora con più dovizia nello spettro di uno spirito in
cui sopravvive — benché inavvertito — lo spirito della mistica giudaica.
lità dei santi hasidich che la figura tradizionale del rabbino sapiente
quasi scompare dietro quella dello zaBdilF'popólaré7Ta sua esistenza.è
la personificazione della torah. Nello zelo di Buber contro la dottrina
sclerotizzata dei rabbini, nel suo recupero di una religione popolare
piena di leggende mitiche epersonaggi mistici, njoFvediamojiaccen-
dersi il pathos di una nuova filosofia esistenziale.
losofo ebreo, Hermann Cohen, aveva nello stesso senso ricordato agli
studenti precettati come l’espressione politica dell’idea messianica
consistesse nella pace perpetua.
Ciò che bisognava realizzare in modo puro e integrale era la priorità detrat
tivo sul passivo, delTautonomo-spirituale sul sensibile-materiale. Ogni ri-
chiamo al meramente dato doveva scomparire. Al posto dei supposti fonda
menti empirici dovevano subentrare i puri fondamenti del pensiero, del vo
lere, della coscienza artistica e religiosa. Così la logica di Cohen divenne una
logica dell’origine {des Ursprungs}.
Un dissociarsi della mente dalla matrice della vita naturale e dalle funzioni
dell autentica lotta spirituale, una mentalità disimpegnata, senza contenuti,
dialettica, che può applicarsi a tutti gli oggetti, anche i più indifferenti, per
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sezionarli concettualmente oppure porli in relazione tra loro, pur senza ap
partenere a nessuno di loro in maniera intuitivo-istintuale.
Noi sentiamo che, anche dopo che tutte le possibili domande scientifiche
abbiano avuto risposta, i nostri problemi virali non sono ancora neppure
toccati. Certo, allora non resta più nessuna domanda; e appunto questa è la
risposta. La soluzione del problema della vita si scorge allo sparire del pro
blema. (Non è forse per questo che uomini_cui_il.sensp della,vita .divenne
chiaro dopo lunghi dubbi non seppero poi dire in che consisteva propria
mente questo senso?)
Le mie proposizioni sono illuminanti nella misura in cui colui che mi com
prende le riconosce alla fine come insensate, sempreché che egli sia passato
attraverso di esse, e salendovi sopra ne sia andato al di là. Egli deve, per cq-
sì dire, gettare via la scala dopo che vi è salito [...]. Su ciò di cui non si può
parlare, si deve tacere.
Con il fratello egli non può più parlare, con lui un'occhiata vale più di una
parola [...]. Proprio nel silenzio e nei silenziosi cenni del discorso, l'ebreo
avverte che persino il suo linguaggio quotidiano rientra ancora nella sacra;
lità della sua liturgia.
Arrivati davanti al cancello del giardino, Husserl lasciò sfogare il suo malu
more. «Ho sempre trovato disgustoso tutto l’idealismo tedesco» — disse
mentre agitava la sottile canna dal manico d'argento puntandola in avanti
contro lo stipite del cancello. «Io ho sempre cercato la realtà!» In maniera
insuperabilmente plastica la canna rappresentava l'atto intenzionale e lo sti
pite il suo riempimento.
Husserl visse sempre più isolato nella sua casa di Friburgo mentre
l’orizzonte politico si andava oscurando. Conferenze sulla sua tarda
filosofìa (morì nel 1937) egli le potè tenere soltanto fuori dei confini
tedeschi, a Vienna e a Praga. A differenza di Wittgenstein, egli non
svilì mai la pretesa sistematica della sua filosofìa riducendola all’au-
tósufficienza linguistica di un «gioco delle perle di vetro» o addirit-
tura al silenzio ineffabile del mistico. Egli pose invece mano a un ul-
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Forse nessuno più di Goethe ha vissuto una vita altrettanto simbolica. Egli
dette infatti a ciascuno soltanto un pezzo, o un aspetto, della sua personalità
e tuttavia, nello stesso tempo, dette «a tutti la totalità». Soltanto vivendo
in questa dimensione simbolica diventa possibile non essere commediante e
portatore di maschera.
Benjamin si tolse la vita nel 1940, quando, dopo una fuga attra
verso il Sud della Francia, i funzionari di frontiera spagnoli lo minac
ciarono di consegnarlo alla Gestapo. Le «Tesi di filosofia della storia.»
che ci ha lasciato sono una delle testimonianze più commoventi del
lo spirito ebraico. In esse la dialettica deH’illuminismo — dominante
nel fragile progresso di una storia non ancora decisa — viene_fissata
nei termini dell’interpretazione alfegorica. La nona tesi suona così:
Ci sono tre tipi di filosofie. Le prime sentono battere il cuore delle cose; le
seconde solo il cuore dell’uomo; le terze solo il cuore dei concetti. Ce poi
un quarto tipo di filosofia, quella dei professori, che è attenta soltanto al
battere dei repertori bibliografici.
dente. In ciò può aver avuto il suo peso l’ostilità segreta che contrap-
poneva gli ebrei «della cultura» agli ebrei «della finanza». ossia quel
sottile antisemitismo intraebraico contro lo strato sociale rappresen
tato dai Rothschild. Simrnel, fig FIcTdTcornmercianu^scrisse egli stes-
so^iv^_Filosofìa del denaro. Ma in lui compare anche, accanto agli~Tn-
teressi sociologici, quell’altro tipico interesse ebraico che è rivolto a
^ina «filosofia della natura» misticamente ispirata. Scrisse un giorno
nel suo diario: «Trattare come ‘fine a sé’ non soltanto ogni uomo, ma
anche ogni cosa: solo questo generebbe una etica cosmica».
Qui il nesso mistico di «morale» e «fisica» viene ancora espresso in
una terminologia kantiana. Un amico di Simrnel, Karl Joèl, scrive un
libro intitolato Ursprnng der Naturphilosophie aus dem Geist der Mystik
[Origine della filosofia della natura dallo spirito della mistica]. E negli
anni Venti è David Baumgardt colui che pone riparo all’ingiustizia
nei confronti di Baader, totalmente dimenticato dal positivismo. Co
sì, con una ricerca intitolata Franz von Baader und die philosophische
Romantik [Franz von Baader e la filosofìa del romanticismo], un autore
ebreo riportava alla luce quella tradizione speculativa sulle «età del
mondo» che, come una vena aurifera, collegava la «filosofia della na
tura» e Jakob Bóhme agli ambienti del pietismo svevo e al Collegio
teologico di Tubinga (Schelling, Hegel e Holderlin). Ancor prima Ri
chard Unger aveva individuato, nel contraddittorio rapporto che lega
va Hammann all’illuminismo, quell’elemento «realistico» della mi
stica protestante che, con l’assunto di un elemento naturalistico all’in
terno di Dio, la differenziava dalla mistica spiritualistica medioevale.
Un’eco di questa tradizione la sentiamo ancora negli appunti di fi
losofìa della natura di Scheler e di Plessner. Pur trattando scientifica
mente i loro materiali, questi appunti tradiscono un elemento specu
lativo derivante dalla mistica della natura. La cosmologia di Scheler
ritorna esplicitamente all’idea di un Dio che diviene. Ma ciò di cui ì
tutti questi studiosi ebraici non sembrano accorgersi è quale forza li |
abbia in realtà condotti sulle orme di questa tradizione. Essi hanno di^l
menticato ciò che era generalmente noto alla fine del Seicento e che
viene oggi richiamato da Gerschom Scholem. In quegli anni un di-
scepolo^èlla mistica di Bóhme, Johann Jakob Spaeth, si convertì al
l’ebraismo essendo rimasto sconvolto dalla concordanza di questa dot
trina con la teosofìa di Isaak Luria. In senso contrario, pochi anni do
po, il pastore protestante Friedrich Christoph Oetinger (i cui scritti
58
saranno noti a Hegel e a Schelling non meno che a Baader) andò a tro-
vare nel ghetto di Francoforte lo studiosodi kabbala Koppel Hechtper
essere introdotto alla mìstica ebraica, e si sentii rispondere: «I cristiani
hanno un libro che parla della kabbala in maniera ancor più chiara
dello Zohar». Hecht alludeva con ciò all’opera di Jakob Bòhme.
Era proprio questa la «teologìa» cui pensava Walter Benjamin
quando osservava chejl materialismo storico poteva farcela contro
chiunque a patto di prendere al suo servizio la teologia. Ed è ciò che
noi oggi~véd7amo verificarsi in un autore come Ernst Bloch. Nel me
dium di una mistica ebraica marxisticamente assimilata, Bloch co-
nìùga'dàlITnterno l'interesse «sociologico» a un interesse «filosofico-
naturalistìco», e lo fa nel quadro di un sistema esplicitamente orien
tato allo spirito possente deH’idealismo tedesco. Nell’estate del 1918
apparve Lo spìrito dell'utopiay un testo che intendeva correggere il pre
giudizio economicistico del primo marxismo, considerandolo^ come
una Critica della ragion pura cui avrebbe dovuto seguire una Critica
della ragion pratica.
Nel marxismo il dato economico viene superato, ma ancora non si vede l’ani
ma, la fede che dovrebbe prenderne il posto. Uno sguardo intelligente e atti
vo distrugge qui tutto, e molte cose senza dubbio meritavano di andare di
strutte [..Viene anche giustamente criticato quel socialismo arcadico, uto
pisticamente razionalistico, che a partire dal rinascimento riemerge talora
come forma secolarizzata del regno millenario, in realtà svelandosi semplice
mente come una maschera, come un’ideologia funzionale al realismo dei con
flitti sociali ed economici. Questa critica non è tuttavia in grado né di affer
rare l’impulso utopico di questi fenomeni, né di coglierne e apprezzarne le
immagini di desiderio, né tantomeno di eliminare il bisogno primario del
l’uomo — fatto valere dalla religione — di realizzarsi in maniera divina, di in
stallarsi finalmente in maniera chiliastica nella bontà, libertà e luce del telos.
La ricchezza dell’uomo, così come quella della natura in generale [...] la ve
ra e propria «genesi», si colloca non all'inizio ma alla fine. Essa comincia a
nascere solo quando società ed esistenza si fanno radicali, cioè si afferrano a
partire dalle radici. Ma la radice della storia è l'uomo che lavora, crea, pla
sma e supera le cose esistenti. Una volta che l'uomo abbia afferrato se stes
so - disalienando l'essere e fondandolo in una democrazia reale - ecco na
scere nel mondo qualcosa che a tutti appare durante l’infanzia ma che nes
suno ha ancora veramente ritrovato: la patria \Hàmat\.
3 Avevo scritto questo lavoro per una serie di trasmissioni del «Norddeutsche
Rundfunk- dedicata ai personaggi della storia culturale ebraico-tedesca. Thilo
Koch, l’ideatore del programma, aveva anche pregato tutti i partecipanti di conclu
dere il loro contributo evocando le esperienze da essi provate durante l'elaborazione
del tema.
61
radio, sentimmo parlare per la prima volta di ciò che si era discusso
al tribunale di Norimberga. Il vedere poi che altri, invece di ammu
tolire davanti alle atrocità, cominciavano a contestare legittimità,
procedure e competenze del tribunale, ci fece provare quel primo
strappo che è tuttora lungi dall’essersi chiuso. Certo fu solo merito
della nostra età sensibile e facilmente vulnerabile se allora non ci
chiudemmo a riccio — come la maggior parte dei nostri compagni
più anziani — di fronte alla realtà di una disumanità collettivamente
perpetrata. Per lo stesso motivo, la cosiddetta questione ebraica restò
per me un passato molto presente e tuttavia~mai qualcosa di imme-
diatamente attualeTProvai sempre una certa riluttanza contro la ten-
denza a distinguere tra loro (fosse pure in termini semplicemente no-
mìhàllsticiyebrei“enon ebrei, origine ebraica enon ebraica. Ne è pro-
va il fatto che, dopo anni di studi filosofici e fino al momento in cui
intrapresi questo lavoro, per almeno la metà degli studiosi prima ci
tati io ero debutto all oscuro della lonTestTazióne. Oggi non ritengo
più adeguata questa mia ingenuità.
Nemmeno venticinque anni fa il costituzionalista tedesco più in
telligente e significativo — dunque non un nazista qualunque, ma
proprio Cari Schmitt in persona — potè inaugurare una conferenza
scientifica con queste incredibili parole:
4 Th.W. Adorno, Minima moralia, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1951 (tr. it. Mini
ma moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994, p. 304).
II
MARTIN HEIDEGGER
A PROPOSITO DELLA PUBBLICAZIONE
DI UNA «VORLESUNG» DEL 1935* (1953)'
ARNOLD GEHLEN 1
LA CRISI DELLE ISTITUZIONI (1956)*
Questo libro1 offre una filosofia delle istituzioni. Le sue due sezio
ni principali seguono il filo del comportamento pratico-razionale e
del comportamento rappresentativo-rituale. Queste sono infatti le
due radici da cui nasce l’istituzione. L’ultima sezione, da cui il letto
re si sarebbe atteso una composizione sistematica dei temi sollevati
in precedenza, offre in realtà una sorta di disposizione ulteriore. Essa
si chiude con la prospettiva secondo cui un’eventuale pace perpetua —
facendo gravare sulle spalle del singolo individuo «uno smisurato pe
so morale» nonché «una nuova e finora inimmaginabile forma di
profonda illibertà» — devierebbe le tensioni accumulate in una radi-
calizzazione dei conflitti ideologici.
Sedici anni fa, in un suo libro meritatamente famoso2, Arnold
Gehlen aveva già definito l’uomo come un essere legato all’istinto,
dotato di un eccesso pulsionale e aperto al mondo. Ora la domanda
da cui Gehlen muove è: come può un essere_così definito stabilizzare
la sua esistenza? Come può l’uomo venire a capo della seducente pla-
sticità delle sue azjpnj,Infinitamente vìirìabìlf, così come dell’anar
chia delle sue.jdjffuse energie pulsionali? L’antropologia dj Gehlen
mira a una meccanica della sopravvivenza nel quadro di una situazio-
ne «biologicamente disperata»^ L’uomo impara ad << agire»_ per com
pensare le mancanze della sua dotazione naturale. Così peròjsii salva
solo per un istante. Un essere che non può pi ^contare sulle indica-
ARNOLD GEHLEN 2
SOSTANZIALITÀ CONTRAFFATTA (1970)*
5 (Nel gennaio 1969 lo studente praghese Jan Palach si era dato fuoco per pro
testare contro i carri armati sovietici. Ai suoi imitatori tedeschi Habermas contrap
pone l'atteggiamento stoico di Gehlen.1
81
popoli che oggi riescono a fare questo saranno liberi, ossia in grado di
determinare il loro destino» (p. 115).
Che cosa significa, e a che cosa induce, l’essere imbelli? «Negli uomini
che si rendono imbelli, e che vogliono ricevere solo ciò che essi stessi
offrono, vale a dire indulgenza, permane un piccolo germe diabolico:
quella gioia provata di fronte alla distruzione degli indifesi che è il
vero tema dei film horror. Non si ammirerà mai abbastanza l’astuzia
del destino toccato in sorte al nostro sconfitto ed esausto continente.
Per un verso gli si concede soltanto la facoltà della mera sopravviven
za fisica (ruolo esercitato con zelo tramite l’eliminazione ansiosa di
tutto ciò che potrebbe spiritualmente dare sostegno). Per l’altro ver
so gli si lascia aperta una via di uscita. Gli altri infatti hanno il pote
re e chi vuole godersi fino in fondo questo ‘ethos del potere’ — laddo
ve noi vorremmo convincerci che non esiste — ha appunto bisogno di
avversari da mantenere nel proprio raggio di offesa. Se questi ultimi
giocano come loro unica carta il diritto all’esistenza si abbassano al
livello del regno naturale: ma lì quel diritto si è sempre capovolto nel
diritto del più forte. Quando ciò viene alla luce, le vittime possono
chiedersi se non abbiano provato piacere anche di fronte alla distru
zione degli indifesi» (p. 145 e sgg.).
5 Anche all'interno delle ipotesi di Gehlen è insensato postulare due radici di
verse. La «famiglia» dovrebbe per lui essere non meno istituzione dello «stato».
Perché solo i sistemi valoriali del potere statale, e non anche l'ethos di clan, dovreb
bero fungere da esempio dell'ethos delle istituzioni? Qui c'è quanto meno una con
fusione linguistica.
86
6 Cfr. Th.W. Adorno, Negatiti Dialektik, Frankfurt a.M. 1967, p. 209 e sgg., in
particolare p. 277 e sgg.
89
Ci sembra difficile accertare che dalla dottrina della felicità si possa deriva
re un etica, ma senza questa intuizione non capiremmo neppure il senso
della parola «sociale», che trasforma in postulato etico proprio questa acces
sibilità generale dei beni materiali di vita (p. 62).
rate. S.e essa viene tenuta in piedi anche nella mutata situazione di un
capitalismo assoggettato a regole statali (oppure nei paesi industria-
lizzati del cosiddetto socialismo reale), allora può accader^che_alla
correzione dello sfruttamento si accompagni una conservazione del-
l’illibertà, con l’ulteriore svantaggio d[ non poter più identificare
concettualmentelale iìlibertà. Il dominio i nfattf rischia ora divenite.
legittimatoTBal momento che reliminazionejellajfame-è-stata-pre-
maturamente intesa come un realizzarsi della libertà e il superamento
della miseria di massa come un'emancipazione delle masse medesime.
Ceno Marx riteneva irrealistico ogni sgravio economico che non si
accompagnasse a una liberalizzazione del dominio economicamente
istituzionalizzato. Sennonché il soddisfacimento della fame - che in
quanto prerequisito della //AerZ^puÒ'benissimo essere inteso come un
imperativo morale — non è ancora, in sé e per sé, una categoria politico-
morale (com’è invece l’istituzione della libertà). Si tratta di una di-
stinzionè che inTiférimentoallà tradizione marxista venne per_la_pri-
ma volta illustrata còn~là~massima chiarezza da Ernst Bloch. Un tem
po gli affaticati e gli oppressi coincidevano con gli umiliati e gli offe7
sirmà'chfe oggi affrancato dalla fatica e dallo sfruttamento non può,
perciò stessólcónsiderarsi automaticamente redento e conciliato9.
Non si tratta di cinismo dei benessere, ma semplicemente del ripristi-
no di una differenza effettivamente messa tra parentesi daH’«eudemo-
nismo sociale»10. Storicamente questa confusione può essere stata fa
cilitata dal fatto che il concetto illuminisiicorborghese di «emancipa
zione» si appuntava contro le ingiustizie di.un feudalesimo cheuden-
tìfìcàva costitutivamente repressione e povertà, dominio e possesso.
Sólo dimenticandosi di questa differenza, Gehlen può di nuovo ti
rare in ballo (irridendola) la categoria deirumahìtarismo. Egli mette
criticamente a nudo il carattere inedito di un «privatismo del benes
sere» contro cui anche Adorno sarebbe altrettanto severo. Tuttavia
Gehlen attribuisce jmmediatamentejale privatismo alla stessa mora-
je universalistica, senza vedere come esso deriyi_piuttosto dalla neu
tralizzazione e spoi iticizzazione SI questa morale. Gehlen confonde
KARL JASPERS
LE FIGURE DELLA VERITÀ (1958)’
101
1 K. Jaspers, Die grosse» Philosophen, Miinchen 1957, Bd. I [cr. ir. / grandi filoso
fi, a cura di F. Costa, Longanesi, Milano 197.31.
102
103
107
ERNST BLOCH
UNO SCHELLING MARXISTA (I960)*
Ili
mento: nel corso ^Jella sua realizzazione, l’utopia potrebbe venire tra
dita dallo «schematismo di chi è soltanto ricco digitazioni», oppure
dalla «prassi_di chi ha le mani vuote». Così egli dedica il massimo
impegno ad afferrare le dimensioni deli'utopiain sé e a preservarla rin-
novata per le generazióni successive^.
Bloch vuole conservare nel socialismo — che pure vive di critica
della tradizione - la tradizione di quanto esso critica. A differenza
dell’antistoricismo di una critica ideologica «à_la» Feuerbach — che
toglie allo «aufheben» hegeliano metà del suo senso, accontentando
si del «tollere» e rinunciando allo «elevare» — Bloch vuole estrarre
idee anche dalle ideologie e salvare la «vera» coscienza anche nella
«falsa». «Ogni grande cultura del passato è previsione di una riusci
ta, almeno nella misura in cui essa si lasciò costruire con immagini e
pensieri sull’altura lungimirante del tempo». Così anche la critica
della religione che Marx riassunse nelle sue Tesi su Feuerbach può esse
re reinterpretata. Dio è morto, ma il posto da lui occupato gli è so
pravvissuto. Lo spazio in cui l’immaginazione degli uomini aveva col-
locato Dio e gli dei resta — dopo che queste ipostasi sono crollate —
come una sorta di contenitore vuoto. L’averne sondato le dimensioni
profónde,"comprendendo alla radice il senso dell’ateismo, dischiude
iTdisegno di un futuro «regno della libertà».
If sovrappiù culturale, la verità cifrata dei mitologemi, Bloch la
strappa all’economicismo riduttivistico del «diamat» con una varia-
zione che fa l’occhiolino a Leibniz (il quale a sua volta lo aveva fatto
a Locke). Nulla c’è nella sovrastruttura che non sia già presente nella
struttura (a parte la sovrastruttura stessa). Un’ortodossia salomonica,
sistematicamente applicata. E tuttavia non (come pure sembrerebbe)
una regressione da Marx a Hegel. La fenomenologia della speranza, a
differenza di quella dello spirito, non corre dietro alle proprie figure
trascórse ."Per Bloch, piuttosto, le figure dello spirito traggono og
gettività dalla validità sperimentale di un novum progettato in antici
po. La filosofia ha finora tenuto celato il suo segreto: l’oggettiva pos
sibilità di un regnimi libertatis. «Finora, la coperta gettata dall’anam
nesi platonica sull’eros dialetticamente aperto ha continuato a rin
chiudere la vecchia filosofia, inclusa la filosofia hegeliana, in una di-
4 Queste riflessioni, alla fine degli anni Cinquanta, volevano definire la posizio
ne di Bloch rispetto a quella di Gehlen e Benn, da un lato, di Heidegger e Jùnger,
dall'altro. (N.d.A. all'edizione dei 1977.]
113
Talora si sente dire, persino da filosofi: «Se non ci fosse questo o quell’altro,
tutto andrebbe per il meglio». Probabilmente, invece, se non ci fosse questo
o quell’altro le cose starebbero ancora peggio. Per tacere del fatto che non
appena scompare un certo spauracchio, subito ne nasce uno nuovo che lo
rimpiazza. Tesi di questo genere poggiano sull’equiparazione di ragione e
morale. Il mondo è pieno di sottili ragionatori che si rimproverano a vicenda
di essere irragionevoli. Con tutto ciò, le cose continuano a seguire il loro cor
so, che è manifestamente diverso da quello che tutti preconizzano. Chi sa os
servare con attenzione questo corso è certo più vicino alle fonti di chi prefe
risce invece schierarsi con questo o quel partito, sia che questo partito voglia
affrontare di petto l’intera situazione sia che tenti di modificarne i dettagli.
114
È un radicato pregiudizio degli uomini credere che ciò che si suol chiamare
il «mondo del futuro» sia cosa già bella e scodellata per loro, come una sor
ta di casa già pronta in cui essi non abbiano che da entrare. Invece quel
I mondo è soltanto l’edificio che gli uomini saranno in grado di costruire, un
1 edificio che cresce insieme a loro5.
6 «Tra le varie qualità innate della materia il movimento è la prima e la più eccel
lente, non soltanto come movimento meccanico e matematico, ma ancor più come
pulsione, spirito vitale, tensione, tormento della materia (per usare questa espressione
117
di Jakob Bòhme)» K. Marx, F. Engels, Werke, Bel. Il, Berlin 1958, p. 135 (tr. ir. La
latra famiglia, a cura di A. Zanardo, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 169].
7 Cfr. infra, cap. IX.
118
non si è ancora presentato, ogni attimo si colloca nell’anno zero della nasci-
ta del mondo.
le, e ciò a partire dalla misura in cui il mondo esterno, indipendente dagli
uomini, diventa anche un mondo che cresce con loro e interagisce con loro.
Non a caso vive nel marxismo, oltre all’elemento, diciamo così, tollerante,
che si esprime nel regno della libertà, anche l’elemento, diciamo così, catte
dratico, che si esprime nel regno della libertà, nella libertà intesa come re
gno. Anche le vie per giungervi non sono liberali: conquista del potere nel
lo stato, disciplina, autorità, pianificazione, linea generale, ortodossia, ecc.
Come dire che la libertà totale, lungi dal dissolversi in una serie di atteg
giamenti arbitrari che porterebbero alla disperazione, prevale soltanto in
quanto volontà per l’ortodossia.
11 K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. I, Berlin 1957, p. 384 |tr. it. Opere complete,
voi. 3 (1843-1844), Editori Riuniti, Roma 1976, p. 196).
125
zione della filosofia solo per quella sviluppatasi «fino a quel momen-
to» (e non anche per ogni filosofia del futuro). Marx intende invece,
.con tutta evidenza, sostenere il contrario. Il passo citato prosegue in-
fatti affermando che solo verso se stessa la filosofia dei Giovani hege
liani ha assunto un atteggiamento acritico, in quanto essa
Tra i presupposti della filosofia c’è anche la coscienza della sua au
tonomia, vale a dire la coscienza della possibilità per lo spinto filoso-
ììco di fondare se stesso. Invece quando la filosofia si atteggia «criti
camente» contro i propri presupposti, quando si trasferisce integral
mente dentro la critica, allora essa concepisce se stessa come una_par-
ìe del processo critico, come un’espressione sia dell’alienazione che,
ancor più, del suo superamento. Solo nella misura della sua autorevo-
ca, cioè del suo realizzarsi in prassi, la filosofia sarà in grado di «guar-
"Harsi» da sopra la propria spallatolo allora la conoscenza diventerà
posfibìlè~nélTa~fbrma in cui ìa speculazione ha sempre creduto di po
terla pensare.
L’errore di Bloch non è soltanto un’interpretazione sbagliata: esso
cancella la validità meramente sperimentale che dev’essere assegnata
anche all’utopia. Così anche il rapporto della critica filosofica con le
scienze continua — proprio come nel diamat — a non essere chiarito.
Se, dall’esperienza delle contraddizioni esistenti, l’utopia vuole deri
vare sul piano teorico la necessità pratica di superarle, essa deve anche
scientificamente legittimare da un doppio punto di vista l'interesse
che guida la sua conoscenza. Questo interesse deve essere non solo un
bisogno realmente oggettivo, ma anche un bisogno oggettivamente
suscettibile di soddisfazione.
La modestia sperimentale del pensiero utopico va tenuta distinta
da£la consapevole autonòmhrdel pensiero speculativo. Il primo, il
pensiero utopico, ritiene che il progetto filosofico possa sempre essere
confutato dall’analisi scientifica delle sue condizioni di realizzazione.
(Non perciò esso si attende da questa analisi la prova definitiva della
propria riuscita, in quanto la prassi rivoluzionaria trascende sempre
126
THEODOR W. ADORNO 1
UN INTELLETTUALE PRESTATO ALLA FILOSOFIA (1963)*
minio. Per contro, un progresso nel vero senso della parola presup
porrebbe che l’umanità si rendesse conto di questo residuo di natura
lismo caratterizzante anche le conquiste tecniche più avanzate. Inve-
ce di lasciarsi guidare dai conflitti geopolitici, per esempio, l’uma-
nità dovrebbe poter ragionevolmente riflettere se la conquista astro
nautica dello spazio e davvero più urgente dell elementare soddisfa-
zio_ne_dijzo,ntinenu_^famatL Adorno individua proprio nel concetto
di «decadenza» le intenzioni di un progresso autentico (un progresso
che sarebbe'sémplicemente inceppato dal carattere irriflesso del pro
gresso tecnico). La «debolezza nervosa» di cui parla Altenberg desi-
gnerebbe oggi qùèirunìca formà^dT raffinata individuazione psichica
càpacFdfconsentire alla specie umana di progredire un giorno fino
aH’«umanità». L’obiezione più ovvia è anche la meno temibile. È ve
ro che nelle nostre regioni i cavalli non si maltrattano più, e questo
grazie ai progressi della tecnica più che ai progressi della sensibilità.
Sennonché, soppiantando le carrozze, il traffico automobilistico ha
semplicemente generalizzato l’inciviltà dei vetturini. Nemmeno la
dialettica del vecchio esempio riesce a smentire la causa per cui esso
veniva addotto.
Ricorderò sempre questa citazione adorniana di Altenberg in
quanto nient’altro — in quella conferenza — avrebbe potuto caratteriz
zare meglio lo spirito che contrapponeva Adorno ai suoi colleghi pro
fessori. Uno scrittore in mezzo a funzionari dello stato. Anche se,
dobbiamo dire, persino in Germania erano già comparsi degli scrit
tori dentro la corporazione accademica. Adorno non era affatto il pri
mo. Il rapporto conflittuale di certi intellettuali con l’organizzazione
ufficiale del sapere è vecchio almeno quanto l’università. Dopo la
morte di Hegel alcuni scrittori erano persino assurti al ruolo di gran
di filosofi: Kierkegaard si riteneva uno scrittore teologo, Nietzsche
uno scrittore filosofo.
Il primo scrisse trattati, il secondo aforismi. Walter Benjamin —
che si collocava in questa stessa tradizione e aveva esercitato una du
revole influenza su Adorno — mise un giorno a confronto il «trattato»
(che è di origine araba) con l’architettura islamica. In entrambi i casi
l’organizzazione strutturale si dischiude a partire dall’interno.
gective da cui aveva preso inizialmente le mosse: per questo esso non
può, a posteriori,~gmstificarè~formalmenté~ra sua genesi logicai Ador-
no esprime questa intuizione in due formulazioni diverse, sia quando
Offende «le lacune» presenti nel pensiero, sia^uajid£u_del pensiero,
disapprova~^gTi~atteggiamenti awocateschi». Proprio quando coglie
nel segno — troviamo scritto in un suo passo — il pensiero infrange la
promessa implicita alla forma del giudizio.
Questa insufficienza assomiglia alla linea della vita — linea che scorre piega
ta, deviata, delusa, rispetto alle premesse della vita stessa, e che tuttavia so
lo scorrendo così può rendere conto, nelle condizioni attuali, di un’esistenza
non regolamentata.
1 (Cfr. Th.W. Adorno, Minima mr/ralia, tr. it. cit., aforisma 44, pp. 73-74.]
133
* (Cfr. Th.W. Adorno, Minima moralia, tr. it. cit., aforisma 86, p. 155.1
136
più intellettuale una parte dei pericoli cui alludevano i vecchi miste-
ri_greci. In ogni caso Adorno ha dedicato a Kafka e a Proust i suoi
due saggi migliori. E certi tratti del carattere di Adorno che più di
spiacciono a coloro che lo ammirano e lo amano possono anche riac-
qui stare,_ini_questo contesto, un loro parziale diritto. Se la forza del-
l'intelligenza e dell’analisi è pari alla sofferenza da cui esse nascono,
allora il_^rado di vulnerabilità e le stessere ri te di Adorno devono
considerarsi come un potenziale filosofico.^
Vili
THEODOR W. ADORNO 2
PREISTORIA DELLA SOGGETTIVITÀ
E AUTOAFFERMAZIONE IMBARBARITA (1969)*
sassina) con la natura che veniva garantita dai sacrifici rituali del Sé.
Ma allora la storia della civilizzazione deriverebt£e_da un atto di vio-
lenza che colpisce egualmente l’uomo e la natura. La marcia trionfale
dello spirito strumentale è la storia di un’introversione del^sacri fleto
(dunque di una rinuncia) non meno che la storia di un dispiegamene
to delle forze produttive. Nella metafora del «padroneggiamento
della natura» risuona ancora questo accoppiamento di controllo tec-
nico e dominio istituzionalizzato: il padroneggiamento della natura è
legato alla violenza interiorizzata dell’uomojull’uqmo, alla violenza
del soggetto sulla propria natura interna. Così anche la fiducia ripo
sta da Marx nello sviluppo delle forze produttive appare precipitosa.
La libertà derivante da un accresciuto controllo tecnologico non ri
sulterebbe più utilizzabile per rivoluzionare le forme del commercio
sociale, se è vero che i soggetti sono stati anticipatamente mutilati
proprio da quello stesso spirito strumentale cui si deve il potenziale
liberatorio. Qui sta l’irrazionalità di un illuminismo che non riflette
su se stesso. «Quando si rinnega la natura che è nell’uomo, diventa
confuso ed opaco non soltanto il telos di una padroneggiamento ester
no della natura, ma anche il telos della propria vita».
Nella comune coscienza positivistica si riflette oggi la riluttanza e
l’incapacità di percepire le dimensioni storiche della soggettività,
quasi che i soggetti rimangano gli stessi sia nelle grotte di Altamira
sia nella capsula spaziale. La specifica afasia di coloro che — portando a
termine una gigantesca impresa rivolta allo spazio esterno — hanno fi
nalmente posto piede sulla luna, così come l’eco altrettanto muta de-
gli spettatori, potrebbero avere dimostrato una cosa: che si è definiti
vamente spenta ciò che Hegel chiamava ^«esperienza della coscien
za». Gli astronauti — e noi assieme a loro — non fanno più parte della
serie dei successori di Odisseo. Il destino naturalistico di quest’ultimo
continua tuttavia a esistere finché la riproduzione della vita non ha
spezzato il sortilegio della mera autoaffermazione (e in maniera ancor
più evidente laddove l’autoaffermazione celebra i suoi trionfi). La nuo
va trascendenza di un’autonomizzazione tecnico-scientifica che si è
isolata dai bisogni comunicabili diventa autoaffermazione imbarbarita.
Se però diamo per corretta la diagnosi dell’epoca formulata da
Adorno e Horkheimer sulla base della «dialettica deH’illuminismo»,
allora dobbiamo anche chiederci quale esperienza esclusiva — di fronte
all’impoverimento della soggettività contemporanea — giustifichi la
140
Liberi sono i soggetti, secondo il modello kantiano, nella misura m cui so
no consapevoli di se stessi e_ase stessHdentici. Mamquesta stessa identità
essi sono di nuovo non liberi nella misura in cui soggiacciono alla sua co
strizione e anzi la perpetuano. Non liberi sono i soggetti in quanto natura
non identica e diffusa. E tuttavia, in questa loro qualità,liberi' in quanto nei
moti che li dominano possono anche 1 iberarsTdèlla costrizione del l’identità.
Questa aporia si fonda sul fatto che la verità si colloca al di là della costri-
zione dèli identità, senza però esserne sernp.licemente un capovolgimento.
Da questa identità essa continua ad essere mediata.
la sofferenza che è causata da ciò che grava sui soggetti. Perciò la co
noscènza del nesso~oggettivo deriva dalfinteresse a_stornare^questa
sofferenza. In terzo luogo l’espressione indica la priorità della natura
di fronte a ogni soggettività che la natura colloca fuori di sé. In ter
mini kantiani: l’io puro è mediato dall’io empirico. In quarto luogo,
questa priorità materialistica dell’oggettivo è inconci liabile^con la
pretesa di una conoscenza assoluta. Così anche l’autoriflessione resta
sempre una forza finita, in quanto fa parte dello stesso contesto og
gettivo che vuole penetrare. Questa fallibilità di principio induce
Adorno a difendere un «surplus di tolleranza».
1 Cfr. ora il mio approccio a una teoria della comunicazione linguistica in J. Ha
bermas, N. Luhmann, op. cìt.
147
KARL LOWITH
LA RINUNCIA STOICA ALLA COSCIENZA STORICA (1963)*
1. Due libri hanno reso giustamente famoso Lowith sia per l’arte
della parola sia per la precisione e ampiezza del pensiero: Von Hegel zu
Nietzsche, Stuttgart 19584 [tr. it. Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Tori
no 1971], e Weltgeschichte und Heilsgeschehen, Stuttgart 19614 [tr. it.
Significato e fine della storia, prefazione di P. Rossi, EST, Milano
1998]. Entrambe le ricerche, tuttavia, non solo non hanno avvantag
giato molto il Lowith filosofo, ma hanno piuttosto finito per ingene
rare due pesanti fraintendimenti. Si pensò infatti che^Taptore. inda-
gasse - con acribia storiografica e stilizzazione grandiosa — la rottura
ottocentesca verificatasi tra il pensiero di Hegel e quello di Nietzsche
solo in quanto intendesse sottolinearne la necessità storica (sembrava
quasi che lui stesso volesse presentarsi come l’ultimo dei Giovani he
geliani). Si pensò inoltre che lo stesso Lowith riconducesse, attraver
so un montaggio retrospettivo, la filosofìa settecentesca della storia ai
taciti o dimenticati presupposti teologici delLTsoteriologia Bìblica
solo in quanto volesse criticare l’awenuta secolarizzazione della fede,
giudaico-cnstiana ovvero rintracciare a posteriori una certa primor-
dialità kierkegaardiana. Eppure in entrambe le ricerche riemergeva
chiaramente la prospettiva da lui già sviluppata negli anni Trenta
con le monografìe su Nietzsche e su Burkhardt (elaborazioni, a loro
volta, di lezioni da lui tenute a Marburgo prima di emigrare). A par
tire dall’intrinseca complementarità dei motivi teorici di quei due auto
ri, Lowith costruiva, per così dire, il meccanismo girevole di un
grandioso cambiamento di scena: quell’inversione di rotta che avreb
be dovuto ricondurci indietro dalla «modernità» alla «classicità». Di
Noi ci chiediamo come si sia giunti a questo fraintendimento, per cui l'uni
co cosmo della natura si è dissolto in una pluralità di mondi storici e l'eter
na natura dell’uomo si è dissolta in una pluralità di esistenze storiche. A
questa domanda si può rispondere soltanto con una ulteriore presa di co
scienza [Besinnung] storica, la quale tuttavia ha per scopo proprio di dissol
vere le costruzioni della coscienza storica2.
5 Ibid., p. 153 [ora in SàmtlìcbeSchrtften, Bd. II, eie., p. 347; cfr. tr. ir. eie., p. 203].
158
Una volta che abbiamo accettato questa idea di cosmo, allora ba
stano poche frasi di tipo tautologico per illustrarlo (per esempio: «Il
mondo della natura è sempre lo stesso»). Ogni concezione successiva
si commisura a questa così come le interpretazioni prospetticamente
accorciate si commisurano alla sostanza della cosa stessa. In questi
passaggi l’argomentazione viene involontariamente ad assomigliare,
6 Ibid., p. 160 [ora in Sà'mtUcheSchrtfìen, Bd. II, cit., p. 356; cfr. tr. ir. eie., p. 2131.
7 K. Lowith, Wisscn, Ginuba und Skepsis, cit., p. 17 [ora in Sàmtlichc Schrìften,
Bd. Ili, eie., p. 209; cfr. tr. it. cit., pp. 53-54].
164
la visione naturale del mondo. In via di principio Lowith non può ri-
conoscèrè~clTe"Ì1 rapporto tra «scienza» e «filosofia» si è rovesciato.
Egli non è disposto ad ammettere che la filosofia o si impegna ad af-
frontare i compiti pratici derivanti dalle conseguenze sociali della
tecnica oppure non può che prendere congedo da se stessa.
L’unico risultato della scienza moderna per cui Lowith mostri un
certo interesse è la penetrazione nello spazio cosmico. Questo passo gli
sembra «esorbitante» in un senso che va al di là della lettera, in quan
to provoca oggettivamente il decentramento del geocentrismo caratte
rizzante la visione naturale del mondo. Ma non si tratta forse del l’evi
denziarsi di un processo implicitamente presente fin dal momento in
cui gli uomini hanno riprodotto la loro vita col lavoro delle mani?
Marx aveva un giorno sollevato questa obiezione contro Feuerbach:
Egli non vede che il mondo sensibile che lo circonda non è un dato imme
diato ed eterno, non è sempre la stessa cosa, bensì il prodotto (...) della si- I
tuazione sociale. Nel senso che in ogni epoca storica esso è il risultato, il
prodotto dell'attività di un’intera serie di generazioni. Ogni generazione sta l
sulle spalle della generazione precedente, ne sviluppa industria e commer- ’
ciò, ne modifica l’ordinamento sociale a partire dalla trasformazione dei
propri bisogni.
HANNAH ARENDT 1
LA STORIA DELLE DUE RIVOLUZIONI (1966)*
hanno capito cosa è una rivoluzione, che cosa essa è capace o incapace di fare,
mentre tutti coloro che giocano la carta della «Machtpolitik» classica, pun-
tando ancora sulla sopravvivenza della guerra come «ultima ratio» di politi-
caestera, dovranno presto accorgersi di come la loro arma sia ormai spuntata?
HANNAH ARENDT 2
IL CONCETTO DI POTERE (1976)*
1 M. Weber, Wìrtschaft und Gesellschaft, Tiibingen 1925, Bd. I, p. 16 (tr. ir. Eco
nomia e società, 5 voli., Edizioni di Comunità, Milano 1980, voi. I, p. 51]. Parsons
distingue quattro tipi di uso del potere: persuasione, attivazione dell’impegno, in
centivazione, coercizione. Cfr. T. Parsons, «On thè Concepì of Politicai Power», in
Id., Sociological Theory and Modem Society, New York 1967, p. 310 e sgg.
2 H. Arendt, Macht und Geualt, Mùnchen 1970, p. 45 (tr. it. Sulla violenza,
Guanda, Parma 1996, p. 40],
3 T. Parsons, «Authority, Legitimation, and Politicai Action», in Id., Strutture
andProcess in Modem Societies, New York I960, p. 181.
181
si, riempito dalla rete delle relazioni umane, vale adire dalle «storie»
con cui gli attori si coinvolgono nel loro_ agire e patire.
Anche se noi ritenessimo inadeguato il metodo fenomenologico
di cui Hannah Arendt si serve per sviluppare la sua filosofia della
prassi, chiare tuttavia resterebbero le sue intenzioni. Nelle proprietà
formali dell'agire e della prassi comunicativa essa vuole leggere per
trasparenza le strutture universali di una soggettività non danneggia-
ta [unbeschàdigt]. Queste strutture fissano le condizioni di normalità
dell'esistenza umana, cioè di un’esistenza degna di essere vissuta. Per
via del suo potenziale di innovazione, l’ambito della prassi è alta
mente instabile e bisognoso di tutela. Nellesocietà ^statalmente orga
irrorai
nizzate sono le istituzioni polirichea dover assolvere a questo compi-
to. Per un verso le istituzioni politiche traggono alimento dal potere
che scaturisce dalle strutture di un’intatta intersoggettività; per un
altro verso, se vogliono evitare di deteriorarsi, le stesse istituzioni de-
vono proteggere le delicate strutture cui si alimentano e impedire che
si delormTho. Da ciò consegue l’ipotesi centrale che Hannah Arendt
instancabilmente ripete: nessuna leadership politica può impune
mente sostituire il «potere» con la «forza» e? d’altro canto, soltanto
da una sfera pubblica non deformata essa è in grado di ricavare que-
stojxxere. La sfera pubblica politica è stata concepita anche da altri
come generatrice'se^on'HT^iàtbrg^iuantojneno'delfa sua legittima
zione^ Ma Hannah Arendt sostiene che tale sfera può produrre potere
legittimosolo nella ^nisura in cui sappia esprimere strutture comuni-
cative non distorte. ——
Ciò che tiene insieme un corpo politico è il suo potenziale di potere, così co
me ciò che mina e infine distrugge le comunità politiche è la perdita di que
sto potere e, da ultimo, l'impotenza. Si tratta di un processo incomprensibi-
le in quanto il potenziale del potere - a differenza degli strumenti di vio
lenza fisica che possono sempre essere immagazzinati e impiegati in caso di
bisogno — esiste solo nella misura in cui esiste anche come atto reale. Dove,
senza esistere come atto reale, il potere viene invece inteso come qualcosa
cui si può eventualmente ricorrere in caso di bisogno, esso semplicemente
scompare. La storia è piena di esempi che provano come nessuna ricchezza
materiale al mondo possa mai compensare questo venire meno del potere6.
7 H. Arendt, Elemente und Ursprù'nge totalcr Herrschaft, Frankfurt a.M. 1955, p. 749
(tr. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1996).
186
8 Su questa intuizione è basata la tesi della «banalità del male», che la Arendt
illustra prendendo a esempio il caso di Eichmann {Eichmann in Jerusalem, Mùnchen
1964; tr. ir. La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 19968).
Questa tesi si trova già elaborata in un saggio sulla «colpa organizzata» scritto nel
1944 e pubblicato immediatamente dopo la guerra in «Die Wandlung» (una tradu
zione inglese apparve in «Jewish Frontier» nel gennaio 1945). «Heinrich Himmler
non rientra nella categoria degli intellettuali emersi in quella 'terra di nessuno’ di
bohémiens e giovani eccentrici più volte indicata come il brodo di cultura della éli
te nazista. Infatti egli non era né un bohémien come Goebbels, né un criminale ses
suale come Streicher, né un fanatico perverso come Hitler, né un avventuriero come
Goering. Era soltanto un piccolo borghese apparentemente rispettabile, con tutte le
caratteristiche del bravo padre di famiglia che non tradisce la moglie e vuole assicu
rare un futuro decoroso ai propri figli. Nell'organizzare la sua modernissima mac
china del terrore, con la quale riuscì a dominare l'intera nazione, egli partì consape
volmente dall'assunto che la stragrande maggioranza degli uomini non fossero né
bohémiens, né fanatici, né avventurieri, né criminali sessuali, né sadici, ma piutto
sto, in primo luogo, onesti lavoratori e buoni padri di famiglia. Mi pare sia stato Pé-
guy a definire il padre di famiglia come il grande avventuriero del ventesimo seco
lo'. Egli però morì prima di poterlo personalmente vedere come il grande criminale
del secolo. Siamo stati talmente abituati a considerare con ammirazione o benevo
lenza la generosa sollecitudine del padre di famiglia, la sua concentrata dedizione al
benessere familiare, il suo sereno impegno nel dedicare la vita alla moglie e ai figli,
che abbiamo stentato ad accorgerci di come quel padre premuroso, tutto teso a inse
guire la sicurezza, si fosse trasformato senza volerlo - schiacciato dalle caotiche con
dizioni economiche della nostra epoca — in un avventuriero che, nonostante tutte le
sue ansie, non può mai essere sicuro del domani. La sua arrendevolezza si era già am
piamente dimostrata nei processi di ‘normalizzazione’ con cui il regime aveva preso
piede. Allora si era già chiaramente visto come egli fosse disposto a sacrificare co
scienza, onore e dignità umana in cambio di una pensione, di una assicurazione sul
la vita, di una garantita tranquillità per moglie e figli» (H. Arendt, Die vcrborgcne
Traditici, Frankfurt a.M. 1976, p. 40 e sgg.) Fu questa l'intuizione che indusse sia
Hannah Arendt sia il suo maestro Karl Jaspers ad assumere posizioni nettamente ra-
187
9 Id., Vita adiva, eie., p. 194 (cfr. tr. it. eie., p. 147].
F
189
La sfera sociale (...] ha liberato una crescita innaturale, per così dire, del na
turale. Ed è contro questa crescita [...] che la sfera privata e dell’intimità, da
una parte, e quella politica (nel più stretto senso della parola), dall'altra, si
sono dimostrate impotenti (Vita adiva, p. 34 e sgg.) (cfr. tr. it. eie., p. 35).
,} H. Arendt, 0ber die Revolution, cit., p. 63 e sgg. (cfr. tr. ic. cit., p. 52 e sgg.l.
194
culturali, non esistono per lui limiti strutturali nella produzione del
potere. D altro canto, alla luce dei casi concreti di inflazione e defla-
zione del potere, a Parsons avrebbe pure fatto comodo poter distin
guere tra crediti di potere «seri» e crediti di potere «non seri».
verso tutti i generi di opinioni tra loro contrastanti, fino al momento in cu£
abbandona finalmente tutte ^uestejparticolarìta per raggiungere una qual-
che generalità imparziale15.
Abbiamo già parlato del potere che si genera quando le persone si riuniscono
e agiscono di concerto, un potere che si dissolve non appena esse si separano.
La forza che tiene insieme queste persone [...] è la forza vincolante della reci
proca promessa, la quale alla fine si sedimenta nel contratto giuridico17.
La base del potere diventa così il contratto stipulato tra parti libe
re ed eguali, un contratto con cui le parti si assoggettano a reciproca
obbligazione. Per salvaguarHaréTl nucleo normativo di un’originaria
equivalenza postulata tra «potere» e «libertà», la Arendt finisce per
riporre più fiducia nella venerabile figura del contratto che non nel
suo stesso concetto di prassi comunicativa.
Con il che essa scivola di nuovo nella tradizione del diritto naturale.
17 Id., Vita attiva, cit., p. 240 [cfr. tr. ic. cit., p. 180].
XII
WALTER BENJAMIN
CRITICA CHE RENDE COSCIENTI OPPURE
CRITICA SALVIFICA? (1972)*
Benjamin è attuale anche nel senso più banale: c’è guerra su come
interpretarlo. I fronti suscitati dall’uscita delle Schriften^ e dalla sto
ria — intensa e quasi esplosiva — della sua ricezione nella Bundesrepu-
blik sembrano già anticipati nella sua biografia. Nella vita di Benja
min è stata determinante la costellazione Scholem, Adorno e Brecht.
A essa si aggiunge la dipendenza giovanile da Gustav Wyneken, il
riformatore della scuola, e l’influenza successiva da parte dei surreali
sti. Scholem, l’amico e mentore più prossimo, è nella riunione di og
gi rappresentato da Scholem in persona, ossia dall’inflessibile difen
sore (al di sopra di qualunque polemica) di quell’aspetto della perso
nalità di Benjamin che era stata catturata dalle tradizioni della misti
ca ebraica2. Adorno - erede, collaboratore critico e precursore in una
a.M. 1970, pp. 121-167 [tr. it. di M. Bertaggia, Concetti fondamentali dell'ebraismo,
Marietti, Genova 1986. Sul rapporto di Scholem con Benjamin cfr. ora G. Scholem,
Walter Benjamin. Storia di una amicizia (1975), Adelphi, Milano 1992].
3 Th.W. Adorno, Ober Walter Benjamin, Frankfurt a.M. 1970.
4 P. Szondi, «Nachwort», zu W. Benjamin, Stàdtebilder, Frankfurt a.M. 1963,
pp. 79-99; R- Tiedemann, Studien zur Philosophie W. Benjamms, Frankfurt a.M.
1965; Id., «Nachwort», zu W. Benjamin, Charles Baudelaire, eie., pp. 165-191;
R. Tiedemann, «Nachwort», zu W. Benjamin, Versuche iiber Brecht, cit., pp. 117-
138. H. Schweppenhàuser, «Einleitung», zu W. Benjamin, Uber Haschisch, Frank
furt a.M. 1972, pp. 7-30.
5 H. Brenner, Die Lesbarkeit der Bilder. Skizzen zum Passagenentuurf, «Alternati
ve», fase. 59-60, 1968, p. 48 e sgg.; H. Lethen, Zur materialistischen Kunsttheorie
Benjamms, «Alternative», fase. 56-57, 1967, pp. 225-234; M. Scharang, Zur Eman-
zipation der Kunst, Neuwied 1971; H.H. Holz, Vom Kunstuerk zur Ware, Neuwied
1972.
6 P. Burger, Der franzosische Surrealismi, Frankfurt a.M. 1971; K.H. Bohrer, Die
gefahrdete Phantasie oder Surrealismi und Terror, Miinchen 1970; E. Lenk, Der spnn-
gende Narziss, Miinchen 1971; G. Steinwaehs, Mythologie des Surrealismi oder die
201
La cultura affermativa è stata la forma storica in cui sono stati custoditi i bi
sogni umani che andavano al di là della riproduzione materiale dell'esisten
za; per questo verso, vale per la cultura affermativa quello che vale anche
per la forma di realtà sociale in cui essa rientra: il diritto è anche dalla sua
parte. È vero che ha tolto ai «rapporti esterni» il peso della responsabilità
per la «destinazione dell uomo», rendendo così stabile la loro ingiustizia;
ma vi ha anche contrapposto l’immagine di un ordine migliore, la cui rea
lizzazione è affidata, come compito, all’ordine presente [tr. it. eie., p. 73).
H [Tr. ir. in H. Marcuse, Cultura e società. Saggi di teoria critica 1935-1965, Ei-
naudi, Torino 1969, pp. 43-85.]
203
Nella misura in cui la cultura ha dato forma alle nostalgie e agli impulsi
appagabili, ma di fatto inappagati, degli uomini, essa perderà il proprio og
getto ( ..]. La bellezza si incarnerà diversamente, quando non dovrà più es
sere rappresentata come apparenza reale, ma dovrà soltanto esprimere la
realtà e la gioia ch'essa procura (zZ>/<7.7p- 83).
9 Id., Versuch iiber Befreiung, Frankfurt a.M. 1969 (tr. it. Saggio sulla liberazione,
Einaudi, Torino 1973], in particolare cap. II. Marcuse ha poi sviluppato, e in parte
modificato, questa prospettiva in Id., Counterrevolution and Revolt, Boston 1972 (tr.
it. Controrivoluzione e rivolta, Mondadori, Milano 1973]. Cfr. G. Rohrmoser, Herr-
schaft und Versbhnung. Asthetik unddie Kulturrevolution des Western, Freiburg 1972 (sul
l’estetica del tardo Marcuse cfr. ora i testi inediti pubblicati in «L'indice dei libri del
mese», XVI, n. 11, novembre 1999].
204
abilità tecnica. Così sembra quasi che Marcuse si sia limitato a con-
cettualizzare - in termini_di_critica. ideologica — le sottili osservazio-
ni di Benjamin. Anche per Benjamin infatti il tema è rappresentato
dal «superamento» dell’arte autonoma. Il culto profano della bellez
za non si sviluppò che nel rinasci mento e sopravvive ormai da tre se-
coli. Ma nella misura in cui l’arte si stacca dal suo fondamento litur
gico viene meno anche l’apparenza della sua autonomia. La tesi avan
zata da Benjamin - che l’arte si sottragga alla sfera della «bella appa-
i renza» — viene giustificata facendo ricorso sia a un diverso status del-
Il’opera artistica sia a una diversa modalità di ricezione.
Con la distruzione dell’aura, l'interna struttura simbolica dell’ope
ra si trasforma. La sferajjottratta e contrapposta al processo materiale
di vita si sfalda. L’opera si spoglia della sua ambivalente pretesa al
l’autenticità e aH’inviolabilità. Essa sacrifica sia la sua testimonianza
storica sia la sua posizione di superiorità rispetto allo spettatore. Già
nel 1927 Benjamin aveva osservato: «Ciò che eravamo soliti chiama
re ‘arte’ cominciava almeno a due metri di distanza dal corpo» (AS,
II, p. 160). L’opera d’arte banalizzata acquista così accessibilità e visi-
bilità al prezzo del suo precedente valore cultuale1^.
questa trasformazione strutturale dell’opera corrisponde una
mutata organizzazione della percezione e della ricezione dell’arte.
L’arte autonoma, già predisposta alla fruizione individuale, perde
l’aura e si converte alla ricezione di massa. Alla contemplazione dello
spettatore isolato, Benjamin contrappone la distrazione reattivamen
te stimolata del collettivo. «Al rapimento, che con la decadenza del
la borghesia è diventato una scuola di comportamento asociale, si
contrappone la distrazione come una variante del comportamento so
ciale»11. Nella ricezione collettiva Benjamin vede un piacere artistico
che è istruttivo e critico nello stesso tempo.
Queste espressioni — ancorché non del tutto coerenti — consento
no secondo me di comprendere una modalità ricettiva che Benjamin
Si confronti la tela su cui viene proiettato il film con la tela su cui si trova
il dipinto. Quest’ultimo invita l’osservatore alla contemplazione, di fronte
ad esso lo spettatore può abbandonarsi al flusso delle sue associazioni. Di
fronte alla immagine filmica non può farlo [7..]. Effettivamente, il flusso as-
sociativo di colui che osserva queste immagini proiettate viene immediata
mente interrotto dal loro mutare. Su ciò si basa l’effetto di shock del film,
phe,_come ogni effetto-di~shock, esige di essere intercettato da una accre
sciuta presenza di spirito. In virtù della sua struttura tecnica, il film scate
na lo stesso shock fisico del dadaismo, liberandolo però da queU'imballag-
gio semplicemente morale in cui il dadaismo lo aveva impacchettato (ibid.,
pp. 43-4^7
Ciò che resta è il curioso dettaglio dei rimandi allegorici: oggetto di cono
scenza che si annida nel ripensamento riflessivo delle rovine. La critica è una
.mortificazione delle opere. A questa mortificazione si presta, meglio di qua
lunque altra, la sostanza di questa produzione13.
B 1/W., p. 193J
208
zione rappresentano una fase nuova, paragonabile cutc’al più alla sco
perta della carta stampata. Ai suoi tempi Benjamin può già osservare
nelle riproduzioni fonografiche, fìlmiche e radiofoniche un processo
che si sarebbe poi accelerato con i media elettronici. Queste tecniche
riproduttive modificano la struttura interna dell’opera d’arte. Da .un
lato l’opera perde in individualità spazio-temporale, dall’altro guada-
gna in autenticità documentaria. La struttura temporale deli’«effime-
ra ripetibilità» rimpiazza quella di «inconfondiBile durata» tipica
dell’arte autonoma, distrugge l’aura — «l’apparizione irripetibile di
una distanza» - ^affina il «senso per ciò che nel mondo è congene-
re». Spogliate della loro aura, le cose si avvicinano alle masse anche
perché il mezzo tecnico,Jnserendosi tra la selettività degli organi di
senso e l’oggetto, ri produce .questo oggettojn maniera più esatta e
realistica. Tuttavia l’autenticità della cosa pretende ora un’applicazio
ne costruttiva cjei~mezzi reàrisucFHrrTpródùzTóhè/dunque montaggio
e interpretazione letteraria (cioè diritto d’autore sulle fotografie)14.
14 Anche qui Benjamin vede nel dadaismo un precursore delle arci tecniche: «La
forza rivoluzionaria del dadaismo consisteva nel mettere alla prova l’arte nella sua
autenticità. Si componevano nature morte incollando biglietti, nastri, mozziconi di
sigaretta, con i tradizionali mezzi pittorici. Poi l’opera veniva incorniciata. Ed era
come se si dicesse al pubblico: — vedete? la cornice dei vostri quadri fa saltare il
tempio, e il più piccolo frammento di vita quotidiana diventa più rivelativo della
pittura. Proprio come l’impronta digitale insanguinata di un assassino sulla pagina
del libro diventa più rivelativa del testo stampato. Molti di questi contenuti rivolu
zionari del dadaismo si sono poi salvati passando nel fotomontaggio» (W. Benja
min, Versucbc iiber Brecht, eie., p. 206).
r
209
Uno dei suoi primi saggi, quello su Das Leben der Studenten [La vi
ra degli studenti] si apre nella stessa prospettiva.
C’è una concezione della storia che confida nell’infinità del tempo e si limi
ta a distinguere il ritmo con cui uomini ed epoche s’inseriscono - più o me
no celermente - nella corsia del progresso [...]. Noi risaliamo invece, così co
me è sempre avvenuto nelle immagini utopiche dei filosofi, a una determi
nata posizione la quale, come in un punto focale, concentra in sé tutta la sto
ria. Gli elementi costitutivi di questa posizione finale non sono dati in anti
cipo quali confuse tendenze progressiste, ma sono inclusi nel profondo dì
ogni presente come creazioni e pensieri fragili, screditati e irrisi (AS, I, p. 9).
18 Qui -autonomia» significa indipendenza delle arti dalle pretese esterne del
loro impiego. Invece l'autonomia della produzione artistica in quanto tale si era già
sviluppata prima, all'interno delle forme di sostentamento offerto dai mecenati.
213
Dell’autonomia delle opere d’arre, che indigna i clienti della cultura per il '
fatto che li si ritiene qualcosa di meglio di ciò che essi credono di essere, non ’
resta se non il carattere feticistico della merce (...]. Tuttavia intesa come ta
bula rasa di proiezioni soggettive l’opera d’arte viene squalificata. I poli del
la sua disartizzazione sono che essa venga resa tanto res fra res quanto veicolo
della psicologia dell’osservatore. Ciò che le opere d’arte reificate non dicono
più, l’osservatore lo sostituisce con l'eco standardizzata di se stesso, che ria
scolta da quelle. L’industria culturale mette in moto questo meccanismo e lo
sfrutta [Teoria estetica, tr. it. Einaudi, Torino 1975, pp. 26-27].
19 A. Hauser, Sozialgeschichte der Kunst, 2 Bde, Miinchen 1953 {tr. ir. Storia socia
li ddl'arte, Einaudi, Torino 1987]; J. Habermas, Strukturu-andd dcr Oeffentlichkcit,
Neuwied 19715 (tr. it. Storia e critica deU'opinione pubblica, Laterza, Bari 1974).
214
215
licaro i limiti della sua logica. I suoi allievi perfezionano infatti upa
critica profana prima della religione e poi della filosofia, per giunge
re da ultimo al superamento della stessa filosofia (ovvero alla realiz
zazione di essa) nellambito di un superamento del potere politico.
Questo è, com’è noto, il contesto in cui nasce la critica di Marx al
l’ideologia. E qui emerge anche ciò che nella costruzione hegeliana
stava ancora nascosto. Vale a dire la posizione speciale che, nell’ambi
to delle figure dello spirito assoluto, l’arte viene ad assumere per il
fatto che — lungi dall’accollarsi funzioni positive per il sistema eco
nomico e quello politico, come nel caso della religione privatizzata e
della filosofia scientificizzata — essa viene piuttosto a catturare i biso
gni residuali che non possono essere soddisfatti nel «sistema dei biso
gni», ossia nell’ambito della società borghese. Per questo motivo la
sfera dell’arte rimane curiosamente risparmiata dalla critica ideologi
ca fin dentro il XX secolo Nel momento in cui anch’essa finalmente
cade vittima di questa critica/u modo ironico in cui erano state «su
perate» religione e filosofia era già diventato evidente per tutti.
Oggi la religione non è neppure più una faccenda privata. Tutta
via nell’ateismo di massa sono andati persi anche i contenuti utopici
della tradizione. La filosofia si è spogliata della sua pretesa metafisi
ca, ma nello scientismo dominante sono cadute anche quelle costru
zioni concettuali di fronte a cui la cattiva realtà doveva giustificarsi.
Nel frattempo si è persino parlato di un «superamento» della scien
za. Esso ne distruggerebbe l’apparente autonomia in virtù non di una
sua regolazione discorsiva, bensì di una sua mera funzionalizzazione
al carattere irriflesso e naturalistico degli interessi21. È in questo con-
testo che va letta la critica di Adorno a ogni falso superamento del-
1 arte che non si limiti a distruggerne l’aura, macche si spingala col
pire, insieme alla sua organizzazione repressiva, anche la sua intrinse
ca pretesa di verità.
Il disappunto contro ogni falso superamento (proclamato ma non
realizzatofsìa della reiigione sia della filosofia e dell'arte ha suscitato,
in Adorno, per reazione, un atteggiamento di irrigidita esitazione.
Pur continuando astrattamente ad affermare che lo spirito assoluto va
eliminato, Adorno non crede più dijpotere dkre realizzazione allo spi-
21 È la tesi sviluppata da G. Bòhme, W. van den Dacie e W. Krohn nei loro stu
di sulla finalizzazione della scienza.
216
rito assoluto sul piano della prassi. A ciò si collega un’opzione per la
salvezz^erotorà dei momenti veri. Questo è ciò che contrappone
Adorno a Benjamin, per il quale invece ì momenti veri della tradi-
zione o vengono salvati per lo stato messianico in maniera essoterica
oppure non vengono salvati affatto. Control 1 falso superamento del-
la religione Adorno (ateo come Benjamin, seppure in manieradiyer-
sa) propone il recupero dei contenuti utopici quali fermento di un
ostinato pensiero critico, e tuttavia non nella forma di una generaliz
zata illuminazione profana. Contro il falso superamento della.filoso
fia Adorno (non meno antipositivista di Benjamin) propone il recu
pero dell’impulso trascendente in una critica che è sì per certi versi
autarchica, ma che tuttavia non penetra dentrólescienze positive per
generalizzarsi come una loro autoriflessione. Contro il falso,supera-
rnento^deLTarte aùtònomanAdorno propone Kafka^Schònberg e la
modernità ermetica, e tuttavia non quell’arte di massa che renderete
be pubbliche le esperienze incapsulate dall’aura. Dopo aver letto il
manoscritto di Benjamin sull’opera d’arte, Adorno (in una lettera
del 18 marzo 1936, ora in Th.W. Adorno, Uber Walter Benjamin, eie.,
p. 127 e sgg.) gli rimprovera quanto segue.
Il centro dell’opera d’arte non si colloca anch’esso sul versante mitico (...)
Per quanto il Suo lavoro sia dialettico, esso non lo è nei confronti dell’opera
d’arte autonoma. Esso non coglie l’esperienza elementare — da me quotidia
namente vissuta nella musica — per cui è proprio lo sviluppo coerente ed
estremo di una legge tecnologica interna all’arte ciò che modifica questui*
rima, rendendola non qualcosa di tabuizzato e feticizzato, bensì qualcosa di
liberamente e consapevolmente producibile e fattibile.
bensì una rivelazione che gli rende giustizia» [Il dramma barocco tede
sco, tr. it. cit., p. 12]. Alla fine, il posto della bella apparenza come in
volucro necessario viene preso dal concetto di aura. Nel frantumarsi,
I aura rivela il segreto dell’esperienza complessa.
219
5. Per tutta la vita Benjamin tenne fede a una teoria mimetica del
linguaggio. Anche negli ultimi lavori egli torna sul carattere onoma-
25 «Si potrebbe dimostrare come la teoria dell’esperienza sia il centro, per nulla
segreto, di tutte le concezioni di Benjamin» (P. Krumme, Z.ur Konzepuon der dialek-
tlichen Bitter, «Text und Kritik», nn. 31-32, 1971, p. 80, nota 5).
26 Già nel Programni der kommenden Philosophie Icfr. tr. it. in W. Benjamin, Meta
fisica della gioventù, Einaudi, Torino 1982, pp. 214-228] troviamo scritto: «Un con
cetto di filosofia che derivasse dalla riflessione sulla natura linguistica della cono
scenza creerebbe un concetto corrispondente di esperienza’ in grado di includere
anche settori che neppure Kant riuscì mai a sistematizzare veramente» (AS, li, p. 38
e sgg.). Era quello che ai tempi di Kant già aveva cercato di fare Hamann.
222
È noto che l'ambito vitale che appariva un tempo governato dalla legge del
la somiglianza era quanto mai esteso: essa regnava nel microcosmo come nel
macrocosmo. Ma quelle corrispondenze naturali acquistano tutto il loro pe
so solo quando si conosca che esse sono, nella loro totalità, stimolanti e reat
tivi della facoltà mimetica che risponde loro nell’uomo [Sulla facoltà mimeti
ca, tr. it. in Angelus nouus, cit., p. 68].
Ciò che si esprime sia nella fisiognomica linguistica sia nella ge
stualità espressiva non è semplicemente uno stato soggettivo, bensì,
al di là di questo, la connessione non ancora interrotta dell’organismo
27 «La parola deve comunicare qualcosa (fuori di se stessa). Ecco il vero peccato
originale dello spirito linguistico. La parola esteriormente comunicante, quasi una
parodia della parola espressamente comunicabile» (AS, II, p. 22) (tr. it. «Sulla lin
gua in generale», in Angelus novus, cit., p. 66].
223
Dove bisogna tener presente che né le forze mimetiche né gli oggetti mi
metici sono rimasti gli stessi nel corso dei millenni. Bisogna invece suppor
re che la facoltà di produrre somiglianze — per esempio nelle danze, la cui
più antica funzione è appunto questa —, e quindi anche quella di riconoscer-
le, si è trasformata nel corso della storia [Sulla facoltà mimetica, tr. it. in An
gelus not'us, eie., pp. 71-72].
30 È quanto dimostra anche la XIV tesi di filosofia della storia. A Benjamin inte
ressano di più i contenuti esperienziali della Rivoluzione francese che non le trasfor
mazioni oggettive da essa avviate: «La Rivoluzione francese si intendeva come una
Roma ritornata. Essa richiamava l’antica Roma esattamente come la moda richiama
in vita un costume d'altri tempi» [W. Benjamin, «Tesi di filosofia della storia», tr. it.
in Angelus novus, eie., pp. 83-84, cfr. Id., Sul concetto di storia, cit., pp. 46-47].
226
novembre 1938 (W. Benjamin, Lettere 1913-1940, cr. ir. cir., p. 294 e sgg., 361 e
sgg.J. Oltre alia risposta di Benjamin [ihìd., p. 368 e sgg.l cfr. anche J. Taubes,
«Kultur und Ideologie», in AA.VV., Sfùtkapitalismus trfer Induitrugesellschaft, Stutt
gart 1869, pp. 117-138.
228
dichiarato nel saggio Der Autor als Produzent (in Versuche uber Brecht,
cit., pp. 95-116) — io lo interpreto come una perplessità derivante
! dal fatto che la prassi politica non ha nessuna relazione interna con
I una critica intesa come salvezza messianica ( 1 addove avrebbe senz’altro
| relazione con una critica intesa come presa di coscienza).
La critica del l’ideologia funziona immediatamente da forza politi
ca nel disvelare l’interesse della classe dominante, che è particolaristi-
co epperò si maschera nel fittizio interesse generale. Scrollando le
strutture normative che imprigionano la coscienza degli sfruttati, la
critica dell’ideologia sfocia in un’azione politica che cercaci liberare
la violenza strutturale accumulata nelle istituzioni. Questa azione
vuole neutralizzare in_senso partecipatorio la violenza liberata. La
violenza strutturale può anche essere scatenata dall’alto in forma pre
ventiva o reattiva. Allora assume la forma di una mobilitazione fasci-
stica dijnassa, che invece di neutralizzare la violenza la moltiplica in
un diffuso «acting out».
Io ho dimostrato perché la critica di Benjamin non può rientrare
in questo modello di «critica dell’ideologia». Una critica che voglia
irrompere nelle «attualità» del passato per liberarne i potenziali se
mantici ha una posizione solo indirettamente collegabile alla prassi
politica. E di tutto ciò Benjamin non si rende abbastanza conto.
Nel saggio giovanile Zur Kritik der Gewalt egli distingue la vio
lenza che produce diritto dalla violenza che mantiene diritto. Questa è
la violenza legittima esercitatajdagli organi dello stato, quella è la
violenza strutturale che è presente, in forma latente, in tutte le isti
tuzioni e che viene liberata nella guerra e nelle lotte civili35. A diffe
renza della violenza che mantiene il diritto^la violenza che lo produ
ce non ha carattere strumentale: essa piuttosto «si manifesta». E più
precisamente si manifesta — come violenza strutturale delle interpre-
53 In questo contesto Benjamin svolge una critica del parlamentarismo che ri
scuote l'ammirazione di Cari Schmitt. «I parlamenti offrono sempre lo stesso mise
revole spettacolo, in quanto essi non hanno più consapevolezza delle forze rivoluzio
narie cui devono la propria esistenza. In Germania, anche l’ultima manifestazione di
queste violenze è passata senza lasciare traccia sui parlamenti. Ad essi manca il senso
di quella violenza produttrice di diritto che pure rappresentano. Non stupisce perciò
che essi non giungano mai a prendere le decisioni che sarebbero degne di questa vio
lenza e che si limitino piuttosto, nello spirito del compromesso, a trattare le questio
ni politiche in forme solo apparentemente non violente»» (AS, II, p. 53 e sgg.).
231
Uno sguardo fìsso alla successione temporale coglie tutt'al più alti e bassi in
quella dialettica con cui la violenza si configura ora come produttrice di di
ritto ora come conservatrice di diritto [..Ciò si ripete nella misura in cui
forze nuove, oppure forze finora represse, vincono continuamente la violen
za che ha per l'addi erro prodotto diritto e fondano in tal modo nuovo dirit
to, destinato anch'esso a cadere (AS, II, p. 65).
54 Cfr. K.H. Bohrer, Die gefàhrdete Phantasie oder Surreahinui und Terror, eie., p. 53
e sgg-‘. B. Lypp, Asthetischer Abiolutinnut undpolitische Vernunft, Frankfurt a.M. 1972.
Cfr. H. Salzinger, WC Benjamin. Ttologe der Revolution, «Kiirbiskern», 1969,
pp. 629-647.
1
i
233
36 È questa la prospettiva in cui la stessa teoria critica viene vista come «moder
na sofistica», per esempio da R. Bubner, «Was ist Kritische Theorie?», cit.
37 «L’utopia sociale mirava alla felicità dell'uomo, il diritto naturale alla sua di
gnità. L'utopia sociale immaginava rapporti in cui scomparissero gli affaticati e gli
oppressi, il diritto naturale costruiva rapporti in cui scomparissero gli umiliati e gli
offesi» (E. Bloch, Naturrecht und numchliche Wurde, cit., p. 13).
234
GERSHOM SCHOLEM
LA TORAH TRAVESTITA (1978)*
alla catastrofe. Per noi il Suo discorso del 1966, che denunciava resi
stenza di asimmetrie profonde nei rapporti ebraico-tedeschi, rappre
sentò un vero shock. Avevamo appena finito di reinserirci nelle tradi
zioni migliori (quelle che erano andate indenni dalla corruzione) e
avevamo appena finito col riconoscere — per la prima volta senza ri
serve — le grandi correnti della produttività ebraica. Non avevamo
forse scelto di collocarci sotto l’ombra spirituale di autori come Marxt
Freud e Kafka? Non eravamo forse stati accettati come allievi da co-
loro che - come Bloch, Horkheimer, Adorno, Plessner e Lowith -
erano rientrati dallemigrazione? Non avevamo forse scoperto — gra-
zie ad Adorno e all’aiuto di Lei, signor Scholem — un autore come
Walter Benjamin? E quello di Benjamin non era che il caso più
drammatico. Altri fili ci conducevano verso Hanaah_Aiendt, Nqrbert
Elias, Erik H. Erikson, Herbert Marcuse, Alfred Schiitz, altri fili an
cora ci riportavano indietro verso KarT Kraus, Franz Rosenzweig,
Georg Simmel, i freudo-marxisti degli anni Venti. A me era poi an-
' che capitato nelle mani uno strano libro sulle correnti della mistica
, ebraica1, che mi aveva sorpreso evidenziando le affinità elettive esi-
\ stenti tra la teosofia di Jakob Bóhme e la dottrina di un certo Isaak
Luria. Dunque alle spalle dei Weltalter [Età del mondo] di Schelling e
della Scienza della logica di Hegel, alle spalle di Baader, non c’erano
soltanto i precedenti svevi, il pietismo e la mistica protestante, ma
anche quella versione della kabbala (mediata da Knorr von Rosen-
roth) i cui sviluppi antinomici prefiguravano già chiaramente le fi
gure concettuali e gli impulsi della grande filosofia dialettica. Scho-
. lem era stato l’autore che mi aveva dischiuso queste conoscenze2, e
proprio da questo Scholem ci toccava ora sentir dire che l’assimilazio
ne degli ebrei alla cultura tedesca — assimilazione cui noi dovevamo
tutta questa ricchezza - era stata fin dall’inizio una «falsa partenza».
«Come prezzo della emancipazione i tedeschi pretendevano un rinne-
5 G. Scholem, Von Berlin nach Jerusalem, Frankfurt a.M. 1977, p. 69 (tr. it. Da
Berlino a Gerusalemme: ricordi giovanili, Einaudi, Torino 1988].
6 ìà.,Judaica III, Frankfurt a.M. 1973, p. 252.
243
7 Ihid., p. 261.
8 Ibìd., p. 264 e sgg.
244
9 G. Scholem, Zur Kabbala und ìhrer Symbolik, Frankfurt a.M. 1973, p. 22 (ir.
it. La Kabbala e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980].
10 Id., Von Berlin nach Jtrasalem, cit., p. 63.
245
11 H.-G. Gadamer, Wahrheit und Metbode, Tubingen I960 [tr. ir. Verità e metodo,
a cura di G. Vattimo, Fabbri, Milano 1972; ora Bompiani, Milano 19949).
246
* * *
sia che fosse pensato come una materia antecedente i principi creato
ri. Con la formula giudaico-cristiana della «creatio ex nihilo» entra
invece in azione un pensiero radicalmente nuovo: i 1 nulla da cui la
volontà assoluta tira fuori il mondo non deve più essere concepito co
me una potenza ertene alla forza creatrice. E soprattutto il pensiero
dei mistici che, sprofondandosi nel processo della vita divina, si ap-
plica con più vigore a questa formula16. Al concetto di un Dio che
discende nei propri abissi per crearvi se stesso, Isaak Luria e Jakob
Bòhme possono collegarsi pensando la «creatio ex nihilo» secondo
l’immagine dialettica di un Dio che si restringe e si contrae. Dio ge
nera dentro di sé un abisso in cui sprofondare, 1 iberando in tal modo
lo spazio che può essere occupato dalle creature. Il primo atto della
creazione è autonegazione con cui Dio, per così dire, evoca il nul-
la (una dottrina che si colloca agli antipodi deH’emanatismo neopla
tonico). Questo modello concettuale offre l’unica soluzione coerente
al problema della teodicea: ~~~~
19 Id., ììber einige Grundhegriffe dei Judenturni, cit., p. 84 e sgg.; ìd.,Judaica III,
eie., pp. 198-217; Id., Zur Kabbala und ihrer Symbolik, cit., p. 135 e sgg.; Id., Vender
myitischen Geitalt der Gottbcit, cit., p. 77 e sgg.
20 Id., Ober einige Grundhegriffe dei Judentums, cit., p. 135.
21 Id., Zur Kabbala und ibrer Symbolik, cit., p. 156 e sgg.
250
stesso antinomismo non sia già, di per sé, una risposta allattisi del
l’elemento religioso (così come il surrealismo è stato, nella moder-
nità, una risposta alla crisi dell’arte auratica). Sappiamo dell'interesse
di Benjamin per n_surrealismo: potremmo forse trovare dei paralleli
smi con l’interesse di Scholem verso l’antinomismo?
I casi del nichilismo religioso e del nichilismo estetico sembrano
per certi versi analoghi. I contenuti sia della religione sia dell’arte (la
sostanza di queste due «sfere di valore», come avrebbe detto Max
Weber) avrebbero dovuto salvarsi, nel momento del loro crollo, attra
verso una sorta di radicale autosuperamento distruttivo. Il che spiega
anche il carattere spettacolare di azioni destinate ad autoconsumarsi e
lo shock cui esse esplicitamente miravano. Oggi noi ritroviamo ca
ratteristiche non troppo dissimili in una variante contemporanea di
terrorismo che, nelle intenzioni dei promotori, potrebbe salvare il ve
ro contenuto della rivoluzione passando attraverso attentati spettaco
lari e distruttivi. Questi attentati sono messi a segno nell’istante in
cui nei paesi sviluppati la rivoluzione non sembra più essere possibi
le, nell’istante in cui lo stato moderno e la prassi rivoluzionaria a es
so adeguata entrano in crisi, o comunque vanno soggetti a una tra
sformazione difficilmente decifrabile.
** *
HANS-GEORG GADAMER
L’URBANIZZAZIONE
DELLA PROVINCIA HEIDEGGERIANA (1979)*
tire dal fatto che Gadamer caratterizza se stesso attraverso una sene
di «prese di distanza». Gadamer viene dalla Slesia, una provincia
prussiana in cui, da giovane, gli era stata preconizzata una carriera da
ufficiale. Sennonché lui non si presenta affatto come un prussiano ed
è indubitabilmente un civile. Gadamer viene da una famiglia di
scienziati accademici (il padre era professore di chimica), ma fin dal
suo primo semestre lui si orienta verso le discipline umanistiche. Poi
si trasferisce a Marburgo, centro universalmente noto della filosofia e
della teologia. Ma anche da questo mondo di filosofia accademica e
di umanesimo troppo sicuro di sé Gadamer prende ancora una volta
le distanze, e questo avviene — con tutta evidenza — in virtù della
spinta che riceve da Heidegger. Fino a quel momento, egli aveva
guardato alla tradizione dell’occidente con gli occhi dello storicismo
ottocentesco. Poi viene Martin Heidegger che, in una maniera radi
calmente nuova, rende viva e presente questa tradizione con un balzo
improvviso alle sue origini. Pur continuando a evocare la tradizione
culturale dell’occidente, Gadamer vuole ora andare al di là della «re
ligione borghese in cui essa era stata conservata»5.
Questo è l’impulso fondamentale che è sotteso al suo capolavoro
filosofico, maturato nei decenni. Si tratta della volontà di chiarire,
agli occhi propri e altrui, ciò che significa incontrare testi eminenti,
ciò che significa il carattere normativo della classicità in generale,
laddove Gadamer sa benissimo di non potersi più appellare a nessun
canone, ma di dover anzi risalire «dietro» a ogni canone per spiegare
le condizioni storiche che hanno consentito a una certa opera di ac
quisire un significato esemplare.
6 Id., Wahrbàt und IWetbode, eie., p. XV |rr. ir. eie., pp. 19-20].
258
Possiamo forse dire infondato [grandiosi il dialogo con l’intera nostra tradi
zione filosofica, vale a dire con quella totalità in cui noi siamo immersi e
con la quale, come filosofi, ci identifichiamo? È davvero necessaria una fon
dazione per ciò che già da sempre ci sorregge?7
7 Id., «Prefazione alla seconda edizione», in Id., Wahrheit und Methodt, cit.,
p. XXIII [tr. it. eie., p. 16J.
259
Se non vado errato, Gadamer può difendere con tanto più vigore, co
me fosse pensiero [Dew^w], la «rammemorazione» [Andenken\ del mi
sticismo heideggeriano, in quanto egli interpreta l’essere nei termini di
una tradizione, in quanto, cioè, egli non si abbandona al vortice infor
male di un essere senza peso, bensì rende precisamente ragione (vol
gendo il suo sguardo a Hegel) del flusso massiccio di parole oggetti-
vate, concrete, effettivamente pronunciate in un certo luogo e in un
certo tempo. Che qui sia avvenuto una sona di fraintendimento pro
duttivo non è, dopo tutto, molto rilevante: come può una tradizione
continuare a vivere se non riproducendosi attraverso fraintendimenti?
Tuttavia c’è una circostanza che, come si vede dalla Postfazione al
la terza edizione di Wahrheit und Methode, ha dato a Gadamer un mo
tivo per riflettere. Egli ha sempre sottolineato che l’ermeneutica filo
sofica non deve ridursi a teoria epistemologica e che il fenomeno del
la «comprensione» caratterizza, prima di qualsiasi scienza, le diverse
modalità con cui una forma-di-vita comunicativa si rapporta al mon
do. Tuttavia la Wirkungsgeschichte [storia effettuale] del suo libro ha
influenzato profondamente il quadro sia dell’epistemologia scientifi
ca sia delle scienze umane. Più che avvicinare le scienze all’ambito
esperienziale della filosofia e dell’arte, la discussione aperta da questo
libro ha contribuito a mettere in evidenza come esista una dimensio
ne ermeneutica interna alle stesse scienze, soprattutto alle scienze del
la società e della natura. Negli ultimi anni l’ermeneutica filosofica -
favorita dalla traduzione inglese di Wahrheit und Methode e anche dal
le numerose «guest lectureships» dell’autore presso università ameri
cane — ha influenzato non poco la discussione anglosassone. I suoi ef
fetti si sono fatti sentire anche al di là delle «divinity schools». Essa
si è unita a impulsi che sono stati liberati anche dal movimento di
■>rotesta degli studenti. Mentre sono stati individuati punti di con
irto con l’analisi linguistica del tardo Wittgenstein e con l’episte-
lologia postempiristica di Thomas Kuhn, l’ermeneutica filosofica di
Sadamer si è anche coniugata alle prospettive fenomenologiche, in-
terazionistiche ed etnometodologiche della sociologia comprendente.
Tutti questi risultati non rovesciano per nulla il senso polemico che
era implicito al titolo del libro: verità contro metodo. Al contrario,
essi mostrano come l’ermeneutica abbia persino contribuito a rischia
rare dall’interno il pensiero metodologico, a liberalizzare l’epistemo
logia, a differenziare le pratiche di ricerca scientifica.
9 Id., Vernunft ini Zeitalter der Wissenschaft, Frankfurt a.M. 1976, p. 10 (cr. ir. La
ragione nell'età delle scienze. Il Melangolo, Genova 1984).
Io/W.,p. 24.
262
consapevole del facto che in Germania — paese da cui non è mai par
tita nessuna rivoluzione - l’umanesimo estetico è sempre stato assai
più sviluppato dell’umanesimo politico. Gadamer è consapevole del
fatto che in altri paesi europei le discipline umanistiche si sono arric
chite di una coscienza politica assai più robusta11. Per questo mi
sembra che egli dovrebbe anche chiedersi, nel contesto tedesco, che
cosa sia più pericoloso: se svalutare la tradizione greca a semplice pre
figurazione della modernità oppure misconoscere la dignità della
modernità stessa. Alla fine Gadamer respingerebbe questa alternativa
appellandosi alla dignità della tradizione', certo non di qualunque tra
dizione, bensì di quelle tradizioni la cui forza risiede nella ragionevo
lezza. «In verità la tradizione — che non è mera difesa di quanto tra
smessoci, bensì sviluppo della vita etico-sociale — riposa sempre su una
presa di coscienza che si fa carico nella libertà»12. In realtà, noi pos
siamo farci liberamente carico delle tradizioni solo quando siamo li
beri di dire entrambe le cose: sì oppure no. Ciò che voglio dire è che
non si deve sottrarre alla tradizione umanistica proprio l’illumini
smo, l’universalistico XVIII secolo. Ma aggiungendo ciò, non voglio
certo avere l’ultima parola. Gadamer è il primo a riconoscere l’infini
ta apertura del discorso. Da lui possiamo tutti apprendere la fonda
mentale saggezza ermeneutica per cui è illusorio supporre di poter
mai disporre dell’ultima parola.
MAX HORKHEIMER
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE A NEW YORK (1980)*
Nello scegliere di sviluppare una cerca tradizione filosofica, noi abbiamo de
ciso di considerare elemento determinante per la selezione dei lavori non
soltanto la loro pertinenza scientifica, ma soprattutto modalità e direzione
consapevole del facto che in Germania — paese da cui non è mai par
tita nessuna rivoluzione — l’umanesimo estetico è sempre stato assai
più sviluppato deH’umanesimo politico. Gadamer è consapevole del
fatto che in altri paesi europei le discipline umanistiche si sono arric
chite di una coscienza politica assai più robusta11. Per questo mi
sembra che egli dovrebbe anche chiedersi, nel contesto tedesco, che
cosa sia più pericoloso: se svalutare la tradizione greca a semplice pre-
figurazione della modernità oppure misconoscere la dignità della
modernità stessa. Alla fine Gadamer respingerebbe questa alternativa
appellandosi alla dignità della tradizione', certo non di qualunque tra
dizione, bensì di quelle tradizioni la cui forza risiede nella ragionevo
lezza. «In verità la tradizione — che non è mera difesa di quanto tra
smessoci, bensì sviluppo della vita etico-sociale — riposa sempre su una
presa di coscienza che si fa carico nella libertà»12. In realtà, noi pos
siamo farci liberamente carico delle tradizioni solo quando siamo li
beri di dire entrambe le cose: sì oppure no. Ciò che voglio dire è che
non si deve sottrarre alla tradizione umanistica proprio l’illumini-
smo, l’universalistico XVIII secolo. Ma aggiungendo ciò, non voglio
certo avere l’ultima parola. Gadamer è il primo a riconoscere l’infini
ta apertura del discorso. Da lui possiamo tutti apprendere la fonda
mentale saggezza ermeneutica per cui è illusorio supporre di poter
mai disporre dell’ultima parola.
MAX HORKHEIMER
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE A NEW YORK (1980)“
Nello scegliere di sviluppare una certa tradizione filosofica, noi abbiamo de
ciso di considerare elemento determinante per la selezione dei lavori non
soltanto la loro pertinenza scientifica, ma soprattutto modalità e direzione
dell’interesse. Gli articoli portanti, nei vari settori disciplinari, devono svi
luppare e sfruttare una prospettiva filosofica condivisa. Quanto più negli al
tri ambiti della vita già stanno diffondendosi indifferenza verso le questioni
generali dell’uomo e rinuncia a una loro ragionevole decisione, e quanto più
l’atteggiamento spirituale del relativismo finisce per essere dichiarato e ac
cettato anche dalle persone più oneste, tanto meno la scienza medesima do
vrà rinunciare a tener fede a certe determinate idee.
no. Forse potrebbe essere questa la chiave per studiare il successo del
la Zeìtschrift fììr Soztalforschung.
I saggi che definiscono teoricamente i capisaldi della scuola occu
pano meno della metà di ogni numero. La parte dedicata alle recen
sioni è più di un terzo dello spazio. E siccome la redazione esigeva re
censioni estremamente concentrate e brevi, noi troviamo annualmen
te recensiti più di 350 titoli (nel corso degli anni quasi 3500). Nelle
linee direttive della politica redazionale — come Horkheimer ci ricor
da nella sua prefazione alla sesta annata — non rientra soltanto il per
fezionamento di una certa posizione teorica.
L’impulso storico-politico
Fin qui la rivista non è stata fatta uscire in America in quanto i nostri let
tori sono stati, negli ultimi otto anni, soprattutto europei. Tradizioni filo
sofiche e scientifiche che non era più possibile sviluppare in Germania han
no così continuato a vivere nella nostra lingua madre. La lingua in cui gli
articoli vengono scritti non manca mai d’influenzare il contenuto del pen
siero [...]. Sennonché oggi dobbiamo subordinare questa idea al desiderio di
mettere tutte le nostre fatiche (persino nella forma linguistica esteriore) al
servizio della vita sociale americana. In quasi tutte le regioni d’Europa la fi
losofia, l’arte e la scienza non hanno più patria (voi. Vili, p. 321).
HERBERT MARCUSE
I TEMPI DIVERSI DELLA POLITICA
E DELLA FILOSOFIA (1998)*
L'idea che anche la morte faccia parte della vita è falsa, e noi dovremmo pren
dere molto più sul serio il pensiero di Horkheimer secondo cui solo con l’eli
minazione della morte gli uomini potranno diventare davvero liberi e felici.
l’ala moderata del SDS, Marcuse affermava: «Io non ho mai identifi
cato ‘umanità’ con ‘non-violenza’. Al contrario, io ho ricordato situa
zioni in cui il passaggio alla violenza si colloca proprio nell’interesse
della umanità». Questa tendenza era rafforzata in Marcuse da un con
cetto di filosofia e di illuminismo che poggiava sull’autorità della ra
gione e sull’aristocrazia dello spirito. Era un concetto che egli condi
videva con altri intellettuali della sua generazione e che risaliva al
curriculum politicamente discutibile del liceo classico tedesco (anche
Hannah Arendt non ne era poi così lontana).
L’avere erroneamente equiparato gli studenti all’avanguardia della
rivoluzione può almeno in parte spiegarci come mai la filosofia di
Marcuse sia oggi caduta nel dimenticatoio. La falsa attualizzazione
compiuta allora rende oggi retrospettivamente più diffìcile sganciare
la prestazione filosofica di Marcuse dal «kairos» che non volle mani
festarsi, ossia da quel contesto storico che lo stesso Marcuse aveva in
nalzato a istanza suprema di falsificazione. Non è certo la prima vol
ta che una filosofia viene smentita proprio da quella storia da essa
eletta a criterio di verità. Questo giudizio avrebbe però un tono in
giustamente beffardo, e non coglierebbe il contenuto di verità impli
cito nell’analisi marcusiana. Marcuse afferrò il peculiare intreccio di
«produttività economica» e «distruttività sociale» attraverso una se
rie di concetti evocativi e totalizzanti che ci sono oggi diventati estra
nei. Egli condensò le sue diagnosi nella metafora di una società totali
taria e chiusa, semplicemente perché credeva di dover esaltare il chia
roscuro e inventare una terminologia che ci facesse «aprire gli occhi»
su fenomeni apparentemente familiari ma in realtà non percepiti.
Oggi la situazione è diversa. Qualunque lettore di giornale è im
mediatamente informato sul legame esistente tra produttività e di
struzione. Un’efficiente «concorrenza di posizione» fa scivolare i no
stri governi nella competizione per una «deregulation» che mira al
l’abbassamento dei costi. Nell’ultimo decennio questa concorrenza ha
prodotto guadagni inverecondi, drastici squilibri di entrate, abban
dono delle infrastrutture culturali, aumento della disoccupazione,
marginalizzazione di una crescente popolazione povera. Per capire
tutto questo non abbiamo più bisogno di nuove terminologie, né c’è
ancora chi si faccia illusioni sulla «società consumistica».
Anche la situazione culturale si è frattanto modificata. Il postmo
dernismo ha per così dire disarmato l’autocomprensione della moder-
283
di Leonardo Ceppa
cura di F. Cerarti, del 1979), i due volumi della Theorie des komrnu-
nikativen Handelns escono a Francoforte nel 1981. I mutamenti deci
sivi sono quelli elencati da Habermas stesso nella Prefazione all'edi
zione del 1981 di Profili polìtico-filosofici. Egli viene in chiaro sulla
propria distanza teorica dalla vecchia Scuola di Francoforte nello stes
so momento in cui riesce a disegnare lo schema della modernità come
triplice processo di differenziazione razionale (ragione scientifica,
giuridico-morale, estetica).
II giudaismo è una impresa dello spirito: per questo, pur scaturendo da sor
genti religiose, è in grado di sopravvivere alla loro secolarizzazione [...].
Tuttavia in esso si riflette un problema assai più generale: come può un po
polo salvare la propria identità nelle condizioni della modernità?
per approdare ai lidi del radicalismo democratico. Ora invece, nel re
cente saggio su Marcuse (1998), Habermas ribadisce l’attualità politi
ca dei vecchi francofortesi e sottolinea come, nell’epoca della globa
lizzazione, ^qualunque lettore di giornale è immediatamente infor
mato sul legame esistente tra produttività e distruzione».
Il senso del riformismo teorico di Habermas è tutto qui. Proprio
per ricollegarsi al vecchio impegno politico francofortese egli vuole
abbandonare la vecchia filosofia dialettica e reinventarsi un nuovo
vocabolario teorico di democrazia radicale. Rivalutare il progetto
interrotto della modernità (di contro al Kulturpessimismus di Adorno)
significa per lui rivalutare il senso giusnaturalistico delle nostre costi
tuzioni democratiche (la citizenship come promessa di eguaglianza e
libertà). Per questo egli ha sviluppato in Fatti e nonne una teoria pro-
ceduralista del diritto che coniuga il paradigma liberale a quello socia
le nella ristrutturazione democratica dello stato di welfare. Per que
sto egli condivide del suo massimo avversario filosofico americano,
Richard Rorty, lo spirito polemico contro il pregiudiziale pessimismo
culturale della vecchia sinistra postsessantottina (cfr. R. Rorty, Una
sinistra per il prossimo secolo, prefazione di G. Vattimo, Garzanti 1999)