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ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

SAGGI

37
Questo volume è frutto di una ricerca condotta nell’ambito dei programmi
dell Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

Copyright © 2000
by Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
Napoli, via Monte di Dio 14

Titolo originale:
Philosophisch-politiscbe Proftle
Edizione originale:
© Suhrkamp Verlag Frankfurt a.M. 1981

Titolo originale:
«Herbert Marcuse»,
in Die postnationale Konstellation
© Suhrkamp Verlag Frankfurt a.M. 1998

Traduzione dal redesco di Leonardo Ceppa

Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA


viale Filippetti 28 — 20122 Milano
e-mail: guerini@iol.it

Printed in Italy

ISBN 88-8335-096-0
Jiìrgen Habermas

PROFILI POLITICO-FILOSOFICI

Heidegger, Gehlen, Jaspers


Bloch, Adorno, Lowith
Arendt, Benjamin, Scholem
Gadamer, Horkheimer, Marcuse

a cura di Leonardo Ceppa

GUERINI
I i
E ASSOCIATI
INDICE

Prefazione all’edizione del 1981 9

Prefazione alla prima edizione (1971) 15

Introduzione.
A che cosa serve ancora la filosofia? (1971) 17

I. L’idealismo tedesco dei filosofi ebrei (1961) 39

II. Martin Heidegger. A proposito della pubblicazione


di una «Vorlesung» del 1935 (1953) 65

III. Arnold Gehlen 1. La crisi delle istituzioni (1956) 73

IV. Arnold Gehlen 2. Sostanzialità contraffatta (1970) 79

V. Karl Jaspers. Le figure della verità (1958) 99

VI. Ernst Bloch. Uno Schelling marxista (I960) 109

VII. Theodor W. Adorno 1. Un intellettuale prestato


alla filosofia (1963) 129

Vili. Theodor W. Adorno 2. Preistoria della soggettività


e autoaffermazione imbarbarita (1969) 137

IX. Karl Lowith. La rinuncia stoica


alla coscienza storica (1963) 151
8

X. Hannah Arendt 1. La storia


delle due rivoluzioni (1966) 173

XI. Hannah Arendt 2. Il concetto di potere (1976) 179

XII. Walter Benjamin. Critica che rende coscienti


oppure critica salvifica? (1972) 199

XIII. Gershom Scholem. La torah travestita (1978) 239

XIV. Hans-Georg Gadamer. L’urbanizzazione


della provincia heideggeriana (1979) 253

XV. Max Horkheimer. La Scuola di Francoforte


a New York (1980) 263

XVI. Herbert Marcuse. I tempi diversi della politica


e della filosofia (1998) 277

Postfazione di Leonardo Ceppa 285


PREFAZIONE ALL’EDIZIONE DEL 1981

Ho ampliato l’edizione del 1971 con contributi degli ultimi die­


ci anni. Il risultato è stato quello di raddoppiare il numero delle pa­
gine. L’ordine cronologico degli autori trattati si riferisce al primo
degli interventi che li riguardano.
I motivi che mi hanno indotto ad ampliare questa edizione non
coincidono più del tutto con quelli elencati nella prefazione alla prima
edizione. Si sono infatti aggiunti motivi di ordine più privato. Si trat­
ta di lavori giornalistici cui sono affezionato in quanto riflettono una
trama, per me importante, di relazioni intellettuali e personali. Nelle
note si citano di solito gli autori scomparsi oppure gli autori contem­
poranei che restano anonimi (com'è normale che avvenga nel dibattito
scientifico). Si scrive però in maniera diversa sugli autori che sono an­
cora in grado di rispondere (e non soltanto come può rispondere il testo
stampato). Questi ultimi sono dei destinatari: punti fermi di un pro­
cesso di formazione. Su nessun autore ho qui scritto senza averne prima
ricevuto un impulso intellettuale. Di ciascuno di loro potrei imme­
diatamente citare l’idea che ha influenzato il corso del mio pensiero.
Gli autori qui trattati appartengono tutti — chiedendo scusa ad
Hannah Arendt, non meno valorosa dei colleghi maschi — alla gene­
razione dei nostri padri. Naturalmente non ho conosciuto personal­
mente autori come Wittgenstein, Benjamin o Alfred Schutz1. Tutti e
tre sono però tornati a influenzare la cultura tedesca nel corso degli
anni Sessanta. E ciascuno di loro ha sollevato un’ondata di ricezione
di tipo diverso: Benjamin l’ondata più drammatica, Wittgenstein
quella più durevole. Heidegger, Jaspers e Gehlen rientrano (insieme

1 (Questa ridotta edizione italiana, tra l'altro, non comprende i saggi su Schutz,
Wittgenstein, Plessner, Abcndroth, Mitscherlich e Lówenthal qui citati dall aucore.]
10

a Plessner) tra le figure più importanti che influenzarono gli anni


della mia formazione. Heidegger l’ho incontrato una sola volta,
quando assistetti a un seminario privato nella casa di Gadamer. Ja­
spers mi scrisse un giorno una lettera — sollecitato dal mio articolo
pubblicato in «Frankfurter Allgemeine Zeitung» — usando quella ca­
ratteristica mescolanza di toni condiscendenti e toni didascalici che
non gli era del tutto estranea. Di Gehlen, la personalità forse più in­
quietante, feci conoscenza a casa di Schelsky.
Agli altri autori mi sento legato da relazioni personali di tipo di­
verso. Per esempio dalla relazione che deriva dal rispetto verso un
collega più anziano (Lowith, Plessner) o daH’ammirazione verso uno
spirito battistrada (Scholem, Hannah Arendt, Bloch). Oppure dalla
relazione complicata verso chi mi ha significativamente preceduto
come titolare della cattedra (Horkheimer), dall’ammirazione piena di
gratitudine per Adorno, non meno che per Abendroth e Gadamer, i
quali mi sono diventati maestri in anni nei quali la mia prima for­
mazione accademica (quella con Erich Rothacker e Oskar Becker) mi
stava ormai alle spalle. Infine dalla personale relazione di amicizia —
cordiale e senza riserve — che mi lega ad Alexander Mitscherlich e
Herbert Marcuse, oppure da quella che negli ultimi tempi mi ha av­
vicinato, in un rapporto cordiale e ricco di ricordi, a Leo LowenthaL
Se uno tiene presente tutti questi nomi e questi profili, capirà be­
ne perché ho voluto premettere agli articoli scritti «ad personam»
quel mio saggio giovanile (forse anche ingenuo) sull’idealismo tede­
sco dei filosofi ebraici. Dalla produttività imparagonabile dell’ultima
generazione di filosofi tedeschi ed ebraici io mi sono sentito travolge­
re come da un vortice. Di tutta questa schiera di emigrati — cui, per
certi versi, anche Mitscherlich è collegabile — possiamo tranquilla­
mente dire una cosa: essi non erano affatto dei pensatori d’ordine
[Ordnungsdenker]. In quasi tutti loro è possibile riscontrare sensibilità
per ciò che è stato sacrificato sull’altare dell’integrazione sociale e
spirituale, per i prezzi pagati alle vittorie della storia e della cultura.
Si pensi all’interesse mostrato da Benjamin per le «cesure» della con­
tinuità storica, alla credenza adorniana nel «frammento» quale forma
di conoscenza, alle indagini di Scholem circa le forze innovative del
fondamento religioso, alla sensibilità biochiana per l’elemento utopi­
co animante gli impulsi più banali, alle speranze riposte da Marcuse
nella produttività politica degli emarginati, all’enfasi con cui Ples-
11

sner sottolinea la posizione antropologicamente «eccentrica» dell’uo­


mo, alla passione di Hannah Arendt per i rari momenti in cui le
masse, da cui derivano le istituzioni, si presentano ancora nello stato
fluido. Questa sensibilità per gli elementi che la storia ha espulso da
sé, oppure ha trascurato, è ciò che caratterizza il «pensiero critico» in
una prospettiva pratica. Perciò la filosofìa di tutti questi autori non si
presenta mai come qualcosa di puro e inviolabile.
Se ripenso alla prospettiva con cui dieci anni fa avevo raccolto
questi «profili politico-filosofici», non posso non registrare due spo­
stamenti. Il primo riguarda il distacco sempre maggiore che mi al­
lontana dalla tradizione in cui mi ero formato negli anni francoforte-
si. Il secondo riguarda il mio sguardo generale sulla filosofìa.
Tra il libro di Martin Jay e quello di David Held2 è nel frattempo
sorta un’ampia letteratura su ciò che gli inglesi chiamano «criticai
theory». Nel leggere questa produzione, mi vado abituando agli
sguardi oggettivi e stranianti che cadono improvvisi su ciò che prima
si conosceva in maniera soltanto intuitiva. E apprendo particolari di
cui non mi sarei mai sognato. Inoltre, dallo stesso ambiente tedesco
provengono analisi acute e sorprendenti che gettano luce e chiarezza
sulle mie dipendenze intellettuali, per esempio sul mio rapporto con
Adorno. Penso ai lavori di Albrecht Wellmer, Axel Honneth e Mi­
chael Theunissen3. Ciò spiega in che senso il sottoscritto — come si
può vedere dalle mie prese di posizione su Marcuse o Horkheimer —
possa ormai assumere un atteggiamento analitico verso la Scuola di
Francoforte e concepire le sue stesse intenzioni come un ritorno al pe­
riodo formativo della Teoria critica. Su questo periodo iniziale della
Teoria critica, testi come la Dialettica dell'illuminismo avevano per
lungo tempo distolto lo sguardo4.

2 M. Jay, The Dialettical Imagination, Boston 1973 [tr. it. Einaudi, Torino 1979];
D. Held, Introduciion to Criticai Theory, London 1980.
3 A. Wellmer, «Kommunikation und Emanzipacion. Ùberlegungen zur spra-
chanalytische Wende der Kritischen Theorie», in U. Jaeggi, A. Honneth (hrsg. von),
Theorien des Historischen Materialismus, Frankfurt a.M. 1977, pp. 465-500; A. Hon­
neth, Adorno und Habermas, «Mcrkur», n. 374, luglio 1979, pp. 648-664; M. Theu-
nissen, Laudario aus Anlass der Verleihung des Adorno-Preises 1980, hrsg. von Dezernat
Kultur und Freizeit der Stadt, Frankfurt a.M. 1981, pp. 7-13-
4 H. Dubiel, Wissenschaftsorgamsation und polifische Erfahrung, Frankfurt a.M.
1978.
12

Di un secondo mutamento di prospettiva, invece, questa mia rac­


colta non dà ancora conto. NeH’«Introduzione» del 1971 mi ero im­
pegnato per una Teoria delle scienze con intenzione pratica. Allora
mi stava a cuore il nesso interno esistente tra «logica della ricerca e
logica delle comunicazioni che formano la volontà». Oggi disporrei
le cose in modo alquanto diverso. Per un verso, infatti, io ascrivo alla
filosofia un ruolo più attivo all’interno delle stesse scienze, soprattut­
to rispetto a quelle scienze ricostruttive che rischiarano i fondamenti
razionali dell’esperienza e del giudizio, dell’azione e dell’intesa reci­
proca (sia collaborando a una teoria della razionalità, sia in provviso­
ria e anticipante rappresentanza [als Platzhalter] di teorie empiriche
che — dotate di forti pretese universalistiche — non si siano ancora po­
tute affermare). Per un altro verso, non restringerei più le funzioni di
rischiaramento soltanto alla mediazione tra la scienza, da un lato, e la
prassi-di-vita, dall’altro. Il problema che è venuto alla coscienza nel
corso di questi anni Settanta (e che l’ideologia neoconservatrice vor­
rebbe frettolosamente rimuovere) potrebbe forse essere formulato
nella domanda che segue. Com’è possibile dischiudere e ricollegare
alle impoverite tradizioni del mondo di vita quei complessi di sapere
specialistico che sono riconducibili a singole pretese astratte di vali­
dità, ossia quelle sfere che si sono incapsulate quali «culture di esper­
ti» nella forma della scienza, della morale e dell’arte? Com’è possibile
fare ciò senza tuttavia inceppare la delicata logica interna di questi
complessi, e in maniera tale da armonizzare nuovamente, nella prassi
comunicativa quotidiana, quei momenti della ragione che si sono se­
parati e contrapposti l’uno all’altro? J1 ruolo ermeneutico di una filo­
sofia rivolta al mondo-di-vita io lo vedrei oggi nell’aiuto che la filo­
sofia potrebbe fornire nel disinceppare — e rimettere in moto — l’in­
granaggio che fa interagire tra loro il momento cognitivo-strumenta-
le con quello pratico-morale e con quello estetico-espressivo5.
Questo ingranaggio si è inceppato in maniera grave. Le forme-di-
vita delle società capitalistiche che si sono modernizzate (e il sociali­
smo burocratico ne è soltanto una variante meno piacevole) subisco­
no una doppia deformazione: sia per effetto dell’incessante svalutarsi
della loro sostanza tradizionale sia per effetto del loro sottomettersi

5 Cfr. J. Habermas, -Die Moderne: ein unvolicndetes Projekt», in Id., Kleinepoli­


tiche Schriften 1-1V, Frankfurt a.M. 1981.
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agli imperativi di una razionalità unilaterale, limitata al solo mo­


mento cognitivo-strumentale.
Mentre all'interno del sistema scientifico la filosofia si riserva di
occupare il posto per le strategie teoriche più esigenti, verso l’esterno
essa dovrebbe fare sua la missione di «flessibilizzare» una modernità
culturale ritiratasi nelle sue province autonome. Per un verso si trat­
ta di ricondurre questa modernità alla prassi-di-vita, per l’altro di
mantenere schermata tale prassi-di-vita dalle pretese di un'immediata
intromissione degli esperti.

Starnberg, novembre 1980 J.H.


PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE (1971)

I saggi qui raccolti sono il risultato di un esercizio quotidiano (e


anche molto borghese) di scrittura filosofica. Si tratta di lavori occa­
sionali, quasi sempre nati per commemorare filosofi contemporanei
oppure per segnalare importanti pubblicazioni filosofiche. Alcuni dei
saggi giovanili rientrano ancora in un contesto che nel frattempo mi
è divenuto estraneo. Resta tuttavia l’interesse per l’influenza politica
di otto filosofi tedeschi: un interesse rivolto al loro pensiero in quan­
to individui reali, un interesse che non può essere staccato dalla loro
persona in carne e ossa.
Ho l’impressione che questo tipo di pensiero abbia avuto il suo
canto del cigno nella Germania Federale degli anni Cinquanta e Ses­
santa, e che ora sia sostanzialmente finito. Se questa impressione do­
vesse trovare conferma, anche certe conseguenze tipiche dell’attività
filosofica verrebbero presto a cessare. Nell’«Introduzione» a questo
volume io cerco di capire se, per esempio, le conseguenze politiche di
una filosofìa ancora legata ai grandi autori (filosofìa su cui l’opinione
pubblica tedesca ha riaperto gli occhi con sospetto dopo i disordini
della protesta studentesca) non appartengano già a una figura della
filosofìa ormai entrata nella storia. Per un altro verso la filosofìa non
si limiterà a scomparire (o a trasformarsi in metodologia). Ci saranno
sempre delle interpretazioni praticamente rilevanti, e ricche di con­
seguenze, che dovranno accompagnare le diverse scienze, posto che il
trionfo del metodo scientifico non ci faccia dimenticare le peculiari
limitazioni del metodo stesso. Marx dichiarò un giorno morta la filo­
sofìa. Da quel momento la filosofìa cerca un nuovo elemento in cui
fare ingresso.

Novembre 1970 J. H.
F
|
I
INTRODUZIONE

A CHE COSA SERVE ANCORA LA FILOSOFIA? (1971)

Quasi nove anni fa, alla domanda sull’utilità della filosofìa Ador­
no rispondeva così:

Dopo tutto quanto è successo, la filosofia non deve più credersi padrona del­
l'assoluto. Deve anzi, per non tradirlo, proibirsi persino di pensarlo. Nello
stesso tempo, tuttavia, non deve tollerare di fare nessuno sconto sul concet­
to enfatico di verità. Questa contraddizione è il suo elemento1.

Si tratta della contraddizione in cui, dopo la morte di Hegel, vive


ogni filosofìa che voglia essere presa sul serio. Dunque la domanda di
Adorno non è casuale, ma accompagna come un’ombra ogni esercizio
filosofico a partire dalla fine della grande filosofìa. Dentro questa zo­
na d’ombra ritroviamo almeno quattro o cinque generazioni di filo­
sofi che sono sopravvissuti alla dichiarazione marxiana sulla «fine
della filosofìa». Oggi ci chiediamo se la figura dello spirito filosofico
non sia cambiata una seconda volta. Se al tempo di Marx cessava di
esistere la «grande» filosofìa (come retrospettivamente la si è chiama­
ta), oggi sembra che anche i grandi filosofi seguano lo stesso destino.
Certo anche in questi ultimi centocinquant’anni, da quando fu la­
sciata cadere la pretesa di sviluppare sistematicamente unaphìlosophia
perennisy si è pur sempre diffusa una filosofìa di maestri e di scrittori
influenti. Ora però si moltiplicano gli indizi secondo cui anche que­
sto tipo di pensiero — incarnato in singoli filosofi — sta perdendo il
suo vigore.
L’ottantesimo compleanno di Heidegger è rimasto un evento pri­
vato; la morte di Jaspers non ha lasciato tracce; a Bloch sembrano in-

1 Th.W. Adorno, Eingriffc, Frankfurt a.M. 1963, p. 14.


18

teressarsi soltanto i teologi; Adorno lascia dietro sé un paesaggio de­


vastato; l’ultimo libro di Gehlen ha un valore quasi soltanto biogra­
fico. Certo siamo all’interno di una prospettiva soltanto tedesca e
provinciale. Ma, se non vedo male, anche nei paesi anglosassoni e in
Russia la filosofìa è da decenni entrata nello stadio indicato in Ger­
mania dal titolo dell’organo ufficiale della disciplina [Zeitschrift fiir
philosophische Forschung], ossia nello stadio di una ricerca scientifica
che progredisce per organizzazione collettiva. Non che me ne voglia
lamentare, ma questa circostanza giustifica forse una riflessione sul
caso tedesco. Qui il fenomeno che ci interessa assume forme vistose.
Lo spirito che fino a ieri si era mosso nel medium della vecchia filo­
sofia si è ora trasformato. Il mio scopo non è naturalmente quello di
scrivere un’elegia della filosofia, bensì quello di esplorare quali com­
piti il pensiero filosofico possa ancora legittimamente porsi, dal mo­
mento che è giunta al capolinea non soltanto la grande tradizione,
ma (come credo) anche il pensiero filosofico legato all’erudizione e al­
la rappresentatività del singolo autore.

1. Vorrei prendere le mosse da quattro considerazioni che si pos­


sono ricavare osservando gli ultimi cinquantanni di filosofia tedesca.
a) La prima cosa che colpisce è la continuità delle scuole e delle
problematiche. Nell’area linguistica tedesca si ritrovano già negli an­
ni Venti le prospettive teoretiche che domineranno la discussione filo­
sofica fin dentro gli anni Cinquanta e Sessanta. S’imposero allora —
contro l’egemonia imperiale di un neokantismo diffusosi anche oltre
frontiera - sostanzialmente cinque tendenze filosofiche. Primo: la
tendenza fenomenologica di Husserl e di Heidegger, in parte logico­
trascendentale e in parte ontologica. Secondo: la filosofia della vita (in
parte esistenzialistica e in pane neohegeliana) con cui Jaspers, Litt e
Spranger si richiamavano a Dilthey. Terzo: l’antropologia filosofica di
Scheler e di Plessner (in certa maniera anche di Cassirer). Quarto: la
filosofia critica della società con cui Lukàcs, Bloch, Benjamin, Korsch
e Horkheimer si richiamavano a Marx ed Engels. Quinto: il positivi­
smo logico che collegava Wittgenstein, Carnap e Popper al circolo di
Vienna. Dopo la seconda guerra mondiale — dunque dopo l’esilio e la
repressione della migliore filosofìa tedesca — queste tradizioni non so­
no state affatto spezzate. Le stesse teorie e le stesse scuole fanno ritor­
no, spesso con gli stessi personaggi, in forme lievemente modificate.
19

L’unica eccezione è rappresentata da quel positivismo logico che ha


nel frattempo conosciuto una straordinaria fioritura e differenziazione
nei paesi anglosassoni. Negli anni Cinquanta questa filosofia ha re­
troattivamente influenzato la Germania a partire dall’estero, riscuo­
tendo indirettamente successo anche nei nostri seminari accademici:
ma nessuno degli esuli «viennesi» ha più fatto ritorno nell’area lin­
guistica tedesca. Tuttavia le figure più importanti che hanno domina­
to la scena filosofica tedesca negli ultimi ventanni (Heidegger e Ja­
spers, Gehlen, Bloch e Adorno, Wittgenstein e Popper) si possono
agevolmente ricondurre al quadro tradizionale degli anni Venti.
b) Questa continuità è rafforzata da un secondo elemento: la non
interrotta forma personalistica in cui s’incarna il pensiero filosofico.
Non è casuale che le costellazioni filosofiche possano essere facilmen­
te caratterizzate con nomi di persone. Fino a oggi il pensiero filosofi­
co si è mosso in una dimensione dove la forma espositiva non resta
estrinseca al contenuto concettuale. L’unità reale di ragione teorica e
ragione pratica che si esprime in questo modello di pensiero indivi­
dualizzato esige una comunicazione non soltanto sul piano dei conte­
nuti proposizionali, ma anche sul piano delle relazioni interpersonali.
In questo senso la filosofia non è mai diventata una scienza. Essa è
sempre rimasta legata alla persona del maestro di filosofia (o alla per­
sona dello scrittore). Che in Germania, a differenza di quanto sta ac­
cadendo in altri paesi, la filosofia abbia finora conservato questo ele­
mento retorico (persino presso coloro che dichiarano di volerlo elimi­
nare2 in una prospettiva scientista) costituisce di per sé una circostan­
za curiosa. Certo è avvertibile anche da noi un processo di spersonaliz­
zazione della filosofia. E in futuro potrebbe anche diventare «dé­
modé» quella gestualità che nel corso degli ultimi ventanni ci è an­
cora apparsa come ovvia. Alludo alla gestualità retorica con cui perso­
naggi accademici come Heidegger e Jaspers, Gehlen, Bloch o Adorno
hanno rappresentato, esercitato e diffuso il loro pensiero di fronte agli
studenti, di fronte alla sfera pubblica letteraria, all’interno della pub­
blicistica politica, persino sotto i riflettori dei mass media. A questo
fine non è stato neppure necessario (come dimostra l’esempio di Ja­
spers) un grande talento espressivo e linguistico, anche se la scelta ter-

2 Cfr. per esempio H. Albert, «Pladoyer flit kritischen Rationalismus», in


C. Grossner et al. (hrsg. von), Das 198. Jabrzebnt, Hamburg 1969, pp. 277-305.
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minologica dei concetti chiave (per quanto asciutto sia il tedesco ac­
cademico) ha sempre avuto un significato non soltanto terminologico,
ma anche una qualità espressiva finalizzata agli scopi della comunica­
zione indiretta. Non è escluso che nei prossimi anni anche questa filo­
sofia — finora personificata nell’opinione pubblica dalla rappresentati­
vità di certi autori — finisca per essere rimpiazzata semplicemente dal
«riassunto» di una certa visione scientifica del mondo, riassunto che
dovrebbe essere continuamente aggiornato da scienziati divulgatori
oppure da giornalisti esperti in cose scientifiche.
c) In Germania - in terzo luogo - lo sviluppo della filosofia si
scontra inevitabilmente con il fenomeno storico del fascismo. La vio­
lenza di questo evento oggettivo ha polarizzato tutti i campi filoso­
fici. Anche i filosofi e le filosofie degli anni Venti e dei primi anni
Trenta finiscono inevitabilmente per scivolare nella prospettiva di
una preistoria spirituale del fascismo. Filosofi e filosofie non possono
attestarsi su una posizione di indifferenza rispetto a ciò che è succes­
so dopo. In ogni caso, a partire dal 1945 diventa inconcepibile qual­
siasi neutralità innocente dell’autocomprensione filosofica. L’auto­
biografia politica di esuli come Bloch, Horkheimer e Adorno (e an­
che di altri, successivamente rientrati nel dopoguerra) è diversa sia da
quella (pur così differenziata) dei cosiddetti esuli «interni» quali Ja­
spers e Litt sia da quella dei precursori intellettuali del nazismo o di
suoi temporanei sostenitori quali furono Heidegger, Freyer e Gehlen.
Tuttavia questa ipoteca biografica non avrebbe pesato così gravemen­
te per questi ultimi ventanni, se fosse stato possibile in qualche mo­
do risolvere il problema dell’indiretta responsabilità intellettuale sui
crimini politici, ovvero se fosse stato possibile più in generale dare
una soluzione teorica e sistematica al problema delle conseguenze
pratiche (dirette e indirette) dell'attività filosofica. Nonostante la di­
scussione su colpa e responsabilità collettiva dei tedeschi (discussione
sollevata inizialmente da Jaspers ma presto lasciata cadere), nessuno
degli interessati ha voluto studiare — neppure nel caso di esempi neu­
trali tipo Rousseau o Nietzsche — il rapporto di causalità spirituale
esistente tra i contenuti filosofici delle dottrine e la loro funzione di
legittimazione per le azioni di persone terze che vi si richiamino. Per
un verso non è possibile imputare soggettivamente all’autore di testi
filosofici (o letterari) le conseguenze non intenzionali della sua dot­
trina. Per un altro verso, il contesto storicamente oggettivo degli ef-
21

fetti non resta esterno all’opera filosofica così come resta esterno a
opere d'altro genere. Ciò appare ancora più o meno comprensibile se
applichiamo la distinzione hegeliana di «moralità» ed «eticità» o la
teoria marxiana della «falsa coscienza». Ma cosa capita nel caso in cui
la coscienza biografica dell’autore e la coscienza storiografica dei po­
steri non siano così benevolmente separate nel tempo e nei ruoli so­
ciali? Nel caso cioè in cui la dottrina, da un lato, e l’esperienza delle
impreviste conseguenze politiche, dall’altro, vengano a coincidere
nella riflessione della medesima persona, ovvero debbano da questa
persona essere prospetticamente elaborate in riferimento a una prassi
futura? Come sono possibili, possiamo chiederci, sia il pensiero radi­
cale sia una dottrina dalle implicazioni politiche, atteso che il filosofo
non debba né essere moralisticamente schiacciato da una responsabi­
lità eccessiva (e dunque paralizzato dall’imprevedibilità delle conse­
guenze) né abbandonarsi a un’irresponsabilità oggettiva (accettando a
cuor leggero esiti azionistici oppure un astinente ritiro dalia prassi)?
Solo se sapessimo rispondere in maniera soddisfacente a queste do­
mande potremmo sperare di identificare a quali errori il pensiero fi­
losofico va incontro sul piano precario della Wirkungsgeschichte [conte­
sto delle conseguenze], nonché sperare di portare sotto controllo que­
sto margine di errore attraverso dei processi di apprendimento. Fino­
ra sembra che chiunque ammetta i propri errori debba essere imme­
diatamente punito con una perdita di identità. Per lo meno ciò è
quanto suggerisce il comportamento riluttante e refrattario di tutti
coloro che hanno concorso ad aiutare una causa da essi non voluta.
d) In quarto e ultimo luogo, l’esercizio filosofico è caratterizzato
in Germania da una relazione critica con la propria epoca, una rela­
zione che entra in contrasto con la sua impostazione accademica. No­
nostante l’utilità di alcune ricerche, infatti, nessuna tra le scuole che
si sentono più vincolate alla tradizione (al seguito dell’ontologia, co­
me la neoscolastica o Nicolai Hartmann, oppure al seguito della «fi­
losofìa della riflessione» come gli eredi del neokantismo), così come
anche nessuna tra quelle che vogliono perseguire modelli «puri» di
filosofìa (fondandosi per esempio sulle codificazioni della più recente
filosofìa analitica), ha generato interpretazioni di primo piano, o per­
sonalità veramente produttive, nella stessa misura delle correnti filo­
sofiche che invece non hanno avuto paura di «sporcarsi le mani». Le
scuole più produttive hanno lasciato cadere la pretesa di autonomia
22

che caratterizzava ogni filosofìa dell’origine lUrspn/ngsphilosophie] mi­


rante alla fondazione ultima. Antropologia filosofica e filosofìa critica
della società (quest’ultima nel contesto di una «filosofia della storia»)
stanno entrambe cercando di assimilare i contenuti materiali delle
scienze umane. Fenomenologia ermeneutica ed esistenzialismo fanno
saltare il quadro teorico dell’autosufficienza filosofica anche là dove si
riallacciano esplicitamente a problemi tradizionali (per esempio alla
domanda circa l’essere dell'ente). Persino teoria positivistica della
scienza e critica del linguaggio esprimono fin dall’inizio un interesse
pratico — a dispetto della loro autocomprensione scientista — al ri­
schiaramento e alla condotta di vita razionale. Insomma non trovia­
mo nessuna importante posizione filosofica che non si colleghi, alme­
no implicitamente, a una teoria diciamo così normativa dell’età con­
temporanea. La filosofìa tedesca del secondo dopoguerra si differenzia
da quelle accademicamente addomesticate di molte altri nazioni per
il fatto di racchiudere in sé (spesso al prezzo di una scarsa coerenza
teorica) un potenziale esplosivo di critica della propria epoca. Questo
potenziale va dall’istituzionalismo più autoritario fino alla critica so­
ciale più radicalmente utopica, passando attraverso le posizioni inter­
medie di una critica culturale atteggiata a «storia dell’essere» oppure
a un generico pessimismo culturale di sinistra.
Questa critica della propria epoca contrasta curiosamente con le
tendenze oggettive dell’epoca stessa. Nessuna delle filosofie che ab­
biamo ora ricordato assume atteggiamenti conformistici nei confron­
ti del vigente ordinamento politico-sociale. Ciò è vero sia per gli im­
pulsi irrazionalistici di Heidegger e di Gehlen non meno che per la
dialettica critica di un Bloch o di un Adorno. La filosofia tedesca non
è mai «rilassata», né quando vuole affidarsi all’immediatezza dell’es­
sere (o delle grandi istituzioni) né quando vuole progettarsi in avanti
e anticipare l’emancipazione. In Germania nemmeno il pensiero libe­
rale si attesta compiaciuto nel «juste milieu» identificandosi con il
progresso dell’epoca o accettando tranquillamente una prescritta di­
visione del lavoro. È quanto si vede nel sotterraneo giacobinismo di
un Jaspers non meno che nella rigidità astrattamente illuministica di
chi è influenzato da Popper (per esempio Topitsch e Albert).

La quarta osservazione d) - così come la terza c) - si riferisce al


contesto specificamente tedesco, ossia al fatto che in tale contesto sia
23

sopravvissuta, nell’ultimo mezzo secolo, una particolare «figura dello


spirito» altrove già scomparsa.
Questa strana miscela di intelligenza e autismo, cocciutaggine e
sensibilità, rientra nel contesto generale del cosiddetto ritardo (o sfa­
samento) dello sviluppo tedesco. Abbiamo tre diverse teorie — per al­
tro non incompatibili tra loro — che ci spiegano questa «non contem­
poraneità» [Ungleichzeitigkeit} come fenomeno «tipicamente tedesco»:
la teoria dello sviluppo capitalistico arretrato3, quella della nazione
ritardata4 e quella della modernità posposta5.
In questo quadro rientrano anche le ipotesi circa estrazione socia­
le e atteggiamento politico della borghesia colta tedesca, nonché le
ipotesi circa la burocratizzazione della cultura in Germania6. Per tut­
te queste teorie i fenomeni chiave sono rappresentati dalla sconfitta
dei contadini, dal prevalere di un protestantesimo legato a nobiltà e
chiesa territoriale, dal frazionamento geografico dell’impero e dal ri­
tardo del processo statale e nazionale di unificazione, dal lento affer­
marsi della nuova forma di produzione, dallo sviluppo prima ritarda­
to ma poi esplosivo del capitalismo industriale, dal compromesso di
classe tra una borghesia senza indipendenza politica e una nobiltà da
tempo egemone sul piano burocratico-militare, dalla funzione reden-
tiva e pseudoreligiosa dell’umanesimo culturale.
A tutti questi fenomeni potrebbero ancora essere aggiunti: inte­
riorità \lnnerlichkeìt\ radicalizzata ma impolitica, condizionamento
burocratico dello spirito, aristocraticismo intellettuale e ideologia
statalista, struttura autoritaria della famiglia nucleare borghese, ri­
dotto processo di urbanizzazione ecc.
Sarebbe possibile allungare a piacere questo elenco di stereotipi
tutto sommato superficiali. Esso designa un complesso di sviluppi
storici che si presentano come arcaismi geologici se confrontati ai
processi della modernizzazione in Francia e in Inghilterra. Se queste
teorie della «non contemporaneità» (cui funge da modello di norma­
lità lo sviluppo parallelo degli stati vicini) sono esatte, allora possia-

5 G. Lukàcs, «Ùber einigc Eigentùmlichkeicen dcr geschichtlichcn Entwick-


lung Deutschlands», in Id., Die Zerstòrung der Vernunft, Berlin 1955, pp. 31-74.
4 H. Plessner, Die vertpàtete Nation, Stuttgart 1959.
5 R. Dahrendorf, Geiellscbaft und Dcmokratie in Deutschland, Miinchen 1965.
6 F.K. Ringer, The Decime of thè Gcrman Mandarini, Cambridge (Mass.) 1969.
24

mo ipotizzare come vera un'ambivalenza cui Adorno ha dato la se­


guente formulazione:

Siccome in Germania — per lunghi periodi della prima storia borghese — le


maglie della rete civilizzatrice, cioè i nodi del processo di borghesizzazione,
non furono intessuti troppo strettamente, ne risultò una riserva disponibile
di forze naturali. Questa riserva ha prodotto sia un coraggioso radicalismo
dello spirito sia la permanente possibilità della regressione. Di conseguenza
non possiamo né ascrivere aprioristicamente Hitler al destino del carattere
nazionale tedesco né considerare del tutto casuale che proprio in Germania
egli abbia preso il potere. Hitler non avrebbe potuto affermarsi a prescinde­
re da quella «serietà» tedesca che deriva dal pathos dell'assoluto e che è il
presupposto di ogni miglioramento. Nelle altre nazioni dell'occidente — do­
ve le regole del gioco sociale sono penetrate più a fondo dentro le masse —
Hitler sarebbe caduto vittima del ridicolo7.

La stessa ambivalenza si esprime anche nello spirito filosofico. Un


atteggiamento defilato \schiefe Stellung] nei confronti del processo di
socializzazione — ossia nei confronti di un processo già di per sé ano­
malo rispetto allo sviluppo normale di capitalismo, coscienza nazio­
nale e modernizzazione — rende lo spirito filosofico tedesco sensibile
su entrambi i fronti. Esso vorrebbe infatti, per un verso, prevenire le
perdite di sostanza umana provocate dalla violenta razionalizzazione
di una società che non padroneggia i propri antagonismi, per l’altro
verso ribadire la necessità di accelerare il progresso nel paese arretrato,
al fine di limitare quella barbarie delle sfere arcaiche di vita che di­
venta visibile solo a partire dalle nuove possibilità di razionalizzazio­
ne. Tuttavia il sottile equilibrio di queste due ponderazioni — ossia
l’intelligenza di una complessiva dialettica dell’illuminismo — diven­
ta soprattutto difficile là dove la filosofia non riesca a valutare corret­
tamente se stessa e la propria posizione rispetto al processo comples­
sivo. Se la filosofia crede di potersi impadronite di un Primo assoluto
o di poter assumere pose demiurgiche, allora la dialettica viene a per­
dere la sua intelligenza. Di conseguenza essa o si contrappone alla
crescente razionalità semplicemente evocando una supposta origine,

7 Th.W. Adorno, «Auf die Frage: Was ist deutsch?», in Id., Stichuorte, Frank­
furt a.M. 1969, p. 106 (cfr. tr. it. Parole chiave. Modelli critici, SugarCo, Milano
1974, pp. 152-1551.
25

profondità, lontananza, o forza, oppure sacrifica l’intelletto a visioni


utopistiche nel nome di una ragione euforica (ma anche qui estatica­
mente mistica). Il passo di Adorno che abbiamo citato si concludeva
con queste parole: «La serietà sacra può sempre trasformarsi in quel­
la serietà bestiale che si erge con violenza ad assoluto, distruggendo
furiosamente tutto ciò che non le si sottomette» {ibidem'). Proprio
questa «furia» del pensiero filosofico ha spesso rappresentato in Ger­
mania il prezzo pagato per quel suo «atteggiamento defilato» (ri­
spetto al processo sociale della nazione) cui abbiamo prima fatto cen­
no. D’altro canto in Germania la filosofia ebbe anche il vantaggio —
rispetto ai paesi in cui trionfava il «common sense» — di poter più fa­
cilmente capire come l’assolutismo dell’intelletto possa talora trasfor­
mare il metodo in una corsa insensata [Raserei].
Se in Germania esistesse davvero un nesso tra le caratteristiche
della filosofia e lo sviluppo «sfasato» della nazione, allora sarebbe fa­
cile prevedere che anche nel nostro paese la filosofia personalizzata
sta per finire. Con la ricostruzione del secondo dopoguerra la Bundes-
republik ha infatti sanato le arretratezze del paese (in ciò paradossal­
mente favorita dalle trasformazioni sociostrutturali avvenute sotto il
nazismo). Per la prima volta dopo secoli di storia, e a opera di un ca­
pitalismo amministrativamente regolato, la parte occidentale della
Germania si è messa definitivamente al passo con gli altri paesi euro­
pei. Per scaramanzia non lo si vorrebbe dire a voce alta: noi tedeschi
viviamo oggi in uno dei sei o sette stati liberali del mondo e in uno
dei sei o sette sistemi sociali meno conflittuali del mondo (per quan­
to la conflittualità possa ancora essere alta anche qui). Nonostante la
nuova scissione del paese, quelli che un tempo erano i conflitti tipi­
camente tedeschi (paragonabili tutt’al più con quelli italiani) oggi
sono scomparsi. L’Europa sta trasformandosi in una comoda Svizzera.
Quelle tensioni conflittuali che qui erano state un tempo così pro­
duttive, ossia in grado di trasformarsi in maggiore sensibilità, moti­
vazione e provocazione spirituale, oggi stanno trasferendosi sul suolo
americano: in ogni caso si parla negli Stati Uniti di «europeizzazio-
ne», addirittura di «germanizzazione» della cultura8. Tra l’altro cre­
sce in America un curioso interesse per problematiche e correnti reo-

8 Cfr. C.E. Schorske, Weimar and thè Intellettuali, «The New York Review of
Books», VII, 21 maggio 1970.
26

riche nelle quali noi ravvisiamo immediatamente approcci filosofici


dei nostri anni Venti.
Se questa prognosi sulla fine imminente del pensiero «tedesco»
dovesse rivelarsi corretta — e per riflessioni di questo tipo non possia­
mo pretendere altro che una certa plausibilità — allora non potremmo
sfuggire all’inquietante domanda: «A che cosa serve ancora la filoso­
fia?». A prima vista - nel momento in cui si neutralizzano i proble­
mi che hanno generato (e fatto sopravvivere) una filosofia specifica­
mente «tedesca» - un interesse semplicemente critico potrebbe ac­
contentarsi del fatto che anche in Germania la filosofia diventi ora
meno interessante e meno pericolosa. Ma in realtà, al di là della sod­
disfazione di liberarci delle nostre idiosincrasie nazionali, continue­
rebbe a restare senza risposta la questione più interessante e più in­
quietante. Potremmo formularla così: dopo il crollo della filosofia si­
stematica e dopo il ritiro dalla scena degli stessi filosofi, resta ancora
in generale possibile il filosofare, e se sì, per quale fine questo filosofa­
re diventa indispensabile? Perché mai la filosofia non dovrebbe an-
ch’essa cadere vittima — come già è avvenuto per arte e religione — di
quel processo storico-mondiale di razionalizzazione che, inizialmente
descritto da Max Weber, è poi stato interpretato da Horkheimer e
Adorno in termini di «dialettica deH’illuminismo»? Perché mai la fi­
losofia non dovrebbe anch’essa tramontare sul cimitero di uno spirito
cui non è più dato di affermarsi e conoscersi come Assoluto? A che
cosa serve oggi la filosofia? A che cosa potrà servire domani?

2. Per cercare di abbozzare, quanto meno, una risposta dovremmo


poter stabilire con certezza a quali trasformazioni strutturali sia an­
data incontro la filosofia dopo quella «rottura della tradizione» che è
stata studiata sia da Lowith [Da Hegel a Nietzsche, tr. it. Einaudi, To­
rino 19491 sia da Marcuse [Ragione e rivoluzione, tr. it. il Mulino, Bo­
logna 19651- A questo fine vorrei avanzare e illustrare quattro tesi —
di tipo generale e semplificatorio — sulla filosofia, o meglio sui com­
piti e sulle intenzioni fondamentali che la filosofia ha mostrato di vo­
ler perseguire dalle sue origini fino a Hegel. Naturalmente queste te­
si partono dall’idea tradizionale per cui la filosofia greca, nei confron­
ti dell’interpretazione mitica del mondo, fece valere per la prima vol­
ta le «pretese del logos» (comunque poi si voglia intendere questo
logos). Così come il mito, anche la filosofia è un sistema interpretati-
27

vo che abbraccia la natura e il mondo umano. Essa comprende in sé il


cosmos, l’ente nella sua totalità. In questo senso la filosofia può sosti­
tuire il mito, anche se essa smette di raccontare ingenuamente delle
«storie» e comincia sistematicamente a interrogarsi sulle cause. Pos­
siamo dire che l’orientamento teoretico della filosofia — pur senza
cancellare del tutto i tratti «sociomorfi» (per dirla con Topitsch) del­
le visioni del mondo — implica sempre una spersonalizzazione dell’in­
terpretazione del mondo. Alla filosofia non basta più ricondurre
plausibilmente i fenomeni da spiegare all’interazione di soggetti so­
vrumani immaginari, capaci di linguaggio e di azione. In questo sen­
so la filosofia deve anche rinunciare a collegare il racconto mitico con
le pratiche rituali. È pur vero che una certa pratica cultuale sopravvi­
ve sempre, persino nelle forme sublimate delle nostre attività accade­
miche e seminariali; essa però non è più tematizzabile in maniera au­
tonoma. Di conseguenza, la filosofia non può rimpiazzare il mito nel­
la sua funzione di stabilizzare la prassi di vita. Piuttosto il suo rap­
porto con la prassi dev’essere garantito in forma indiretta a partire
dall’apprendimento di una certa forma di vita.

A partire da queste considerazioni preliminari vorrei difendere le


seguenti tesi:
a) Prima di Hegel non si era mai messa in questione l’unità di fi­
losofia e scienza. A partire dalla nascita del pensiero filosofico si era
formato il concetto di un sapere teoretico la cui validità poggiava su
«ragioni» esplicite: in questo senso «filosofia» e «scienza» erano la
stessa cosa. Fino alla fine del medioevo lo specializzarsi del sapere
scientifico si compì per via di differenziazione interna. Nella misura
in cui singole discipline, tipo la matematica o la fisica, avanzavano
pretese teoretiche, esse restavano sempre parti della filosofia. Nella
misura, invece, in cui scienze come la storiografia o la geografia ave­
vano mero valore descrittivo, esse venivano relegate nell’anticamera
di un’empiria non teorica, e negativamente definite da questo loro
rapporto con la filosofia come unica scienza autentica. Questa situa­
zione muta soltanto con la nascita delle moderne «scienze della na­
tura», le quali all’inizio vengono ancora considerate come una forma
di «philosophia naturalis». Ma anche rispetto a queste scienze la fi­
losofia non si ritira sul piano di competenze puramente scientifico-
formali oppure sul piano di campi complementari quali l’etica, Teste-
28

tica o la psicologia. Essa accampa, in un primo momento, la pretesa


di fornire la fondazione ultima [Letztbegrù'ndung] a tutto quel sapere
teoretico su cui si sostiene la metafisica: fino dentro il XIX secolo la
filosofia rimane la vera scienza dei fondamenti.
b) Prima di Hegel non si era mai messa in questione 1 unità di dot­
trina filosofica e tradizione (nel senso di un’ininterrotta legittimità
del potere). La filosofia è una figura dello spirito che nasce solo in con­
dizioni di cultura sviluppata, dunque in sistemi sociali dotati di pote­
re statale centralizzato. Qui il fabbisogno di legittimazione del siste­
ma politico è generalmente coperto da visioni-del-mondo di tipo mi­
tologico o religioso. Sebbene la pretesa-di-verità della filosofia sia in
competizione con quella di queste tradizioni, e sebbene certe filosofie
siano spesso entrate anche pubblicamente in conflitto con certe richie­
ste della tradizione, tuttavia la critica filosofica non volse mai comple­
tamente le spalle alla tradizione. Finché la filosofia pretese di afferrare
l’ente nel suo insieme, essa potè anche derivare assunti sociocosmici in
grado di accollarsi funzioni di legittimazione del potere. Nella società
borghese del Seicento, per esempio, il giusnaturalismo contestò l’im­
portanza delle giustificazioni cristiane del potere politico.
c) Fino a Hegel, filosofìa e religione avevano sempre preteso di ri­
spondere a funzioni diverse. A partire dalla tarda classicità, il pensie­
ro filosofico è costretto a definire il suo rapporto con la verità soterio-
logica della tradizione giudaico-cristiana. Le soluzioni teoretiche va­
riano da una critica frontale alla tradizione biblica (oppure da spiega­
zioni fondate sulla reciproca indifferenza e incompatibilità) fino ai
grandi tentativi di identificare la conoscenza filosofica con la rivela­
zione oppure la rivelazione con la conoscenza filosofica. Ma in nessun
caso (nonostante Boezio) la filosofia che prende sul serio il suo com­
pito ha mai inteso sostituirsi alla certezza soteriologica della fede re­
ligiosa. Essa non ha mai promesso redenzione o certezza appagante
[Zuversicht], e neppure ha mai offerto conforto. Quando affermava che
studiare filosofia significa imparare a morire, Montaigne rispolverava
soltanto un luogo comune della classicità. Ma proprio la preparazio­
ne stoica alla morte era ciò che esprimeva l’inconsolabilità pregiudi­
ziale del pensiero filosofico.
d) La filosofìa era faccenda di una ristretta élite culturale né mai
aveva raggiunto le grandi masse. Le forme in cui la dottrina filosofi­
ca trovava organizzazione e la composizione sociale del suo pubblico
29

sono certo cambiate nel corso della storia della filosofia. Ma sul piano
di fatto (oltre che sul piano della sua autocomprensione) la filosofia è
stata fin dall’inizio riservata a coloro che avevano tempo libero, ossia
a coloro che non erano impegnati nel lavoro produttivo. Il pregiudi­
zio aristocratico per cui la maggior parte degli uomini sarebbero per
loro natura incapaci di conoscenza filosofica ha accompagnato tutta la
filosofia fino a Hegel. Anche se nel Settecento questo pregiudizio
venne occasionalmente messo in discussione dai rappresentanti del­
l’illuminismo, mancavano a quel tempo le basi materiali per realizza­
re di fatto il programma di un generale sistema educativo.

Se queste tesi generali dovessero rivelarsi esatte, che cosa risulte­


rebbe cambiato a partire dalla scomparsa degli ultimi grandi filosofi
sistematici? Su quali trasformazioni strutturali si fonderebbe la tesi di
una fine della «grande» filosofia? Vorrei cercare di rispondere a que­
sta domanda facendo un commento alle quattro tesi esposte prima.
ad a) L’unità di filosofia e scienza si è nel frattempo fatta proble­
matica. La filosofia dovette cedere alla fisica la pretesa di essere la
scienza fondamentale, dal momento in cui, per sviluppare una co­
smologia, essa non potè più contare sulla propria competenza ma do­
vette affidarsi ai risultati della ricerca empirica. L’ultima «filosofia
della natura» fu quella di Hegel. Nell’età moderna la filosofia aveva
già reagito alla nascita della scienza autonoma rivestendo la sua pre­
tesa di «fondazione ultima» nei panni della gnoseologia. Ma dopo
Hegel la filosofia dell’origine [U rsprangphìlosophie] non è più difendi­
bile neppur in questa sua posizione di retroguardia. Con il positivi­
smo la gnoseologia {Erkenntnistheorìe] cede il posto alla teoria della
scienza [Wissenschaftstheorie], ossia alla ricostruzione a posteriori del
metodo scientifico.
ad b) Anche l’unità della filosofia con la tradizione si è fatta nel
frattempo problematica. Dopo l’autonomizzarsi della fisica dalla filo­
sofia della natura e dopo il crollo della metafisica, la filosofia teoreti­
ca si è ridimensionata a «teoria della scienza» oppure è diventata es­
sa stessa disciplina formalizzata. Così la filosofia pratica ha perso il
suo collegamento con quella teoretica. Con i Giovani hegeliani — e
con i motivi sistematici che vengono sviluppati da marxismo, esi­
stenzialismo e storicismo — la filosofia pratica si autonomizza. Da
quel momento la filosofia deve fare a meno della fondazione ontolo-
30

gica che, a partire da Platone, politica ed etica avevano sempre prete­


so per sé. Inoltre essa viene ad accollarsi l’ardita pretesa teoretica con
cui la filosofia della storia aveva eletto (con Vico) quale suo oggetto
privilegiato la sfera delle faccende umane (invece della natura). Con
ciò la filosofia perde per sempre la possibilità di appoggiare visioni
del mondo sociocosmiche. Solo adesso essa può farsi critica radicale.
Questa filosofia pratica autonomizzata viene subito coinvolta dagli
schieramenti della guerra civile europea. A partire da quel momento
può davvero esistere qualcosa come una filosofia «rivoluzionaria»
(oppure una filosofia «reazionaria»).
ad c) Anche il complesso e cangiante rapporto tra filosofia e reli­
gione si è nel frattempo trasformato. Ci sono qui due momenti che
vanno tenuti presenti. Per un verso — avendo rinunciato alla pretesa
della «fondazione ultima» e all’idea di unità e di assoluto — la filoso­
fia ha dovuto criticare l’idea religiosa dell’unico dio in maniera assai
più radicale di come aveva fino allora fatto una metafisica che si li­
mitava o a sostituire la concorrente visione del mondo oppure a «por­
tarla al concetto» (integrandola a sé). Il pensiero postmetafisico non
contesta le singole affermazioni teologiche, ma afferma piuttosto la
loro insensatezza. Esso vuole dimostrare che nel sistema concettuale
in cui è stata dogmatizzata (e con ciò razionalizzata) la tradizione
giudaico-cristiana non è più possibile avanzare nessuna affermazione
teologicamente sensata. Questa critica non nasce più dall’interno del­
l’oggetto. Essa si applica alle radici della religione spianando la stra­
da, a partire dal XIX secolo, a una dissoluzione storico-critica degli
stessi contenuti dogmatici. Per un altro verso (ecco il secondo mo­
mento) la filosofia pratica, essendosi autonomizzata, può ereditare
della religione salvifica proprio quegli aspetti per i quali la metafisi­
ca non aveva mai potuto svolgere funzioni di concorrenza o di sosti­
tuzione. Il rapporto ambivalente tra la vecchia teologia agostiniana e
gioachimita della storia e la nuova filosofia borghese della storia di
derivazione illuministica aveva già reso possibile l’ingresso di pretese
salvifiche all’interno dello stesso pensiero filosofico. Ma soltanto do­
po che fu spezzato il fondamento (sia cosmologico sia trascendentale)
dell’unità di filosofia «pratica» e filosofia «teoretica», e soltanto do­
po che al posto della «fondazione ultima» si sostituì un’autoriflessio-
ne circoscritta alla storia della specie, la filosofia fece proprio (con
una svolta caratteristica in direzione dell’utopia politica) queli’inte-
31

resse alla liberazione e alla conciliazione che era stato fino allora in­
terpretato in termini religiosi.
ad d) Nella filosofia, la contraddizione tra la pretesa di una vali­
dità universale della conoscenza e la restrizione aristocratica dell’ac­
cesso all’esercizio filosofico era stata presente fin dalle origini. A par­
tire da Platone, questa contraddizione aveva spesso trovato espressio­
ne in una filosofia politica che — riservando il potere a coloro che era­
no capaci d'intelletto [Einsichtsfàhigen} — forniva giustificazione filo­
sofica al potere stabilito e universalità dogmatica alla conoscenza filo­
sofica. Come dimostrano alcune ricerche sociologiche compiute su
studenti9, questo motivo di una formazione spirituale aristocratica è
ancora oggi presente nelle «immagini di società» improntate alla
cultura umanistica. Tuttavia questo dato segnala anche un modello
di sviluppo che — con l’estendersi a partire dall’ottocento del sistema
scolastico superiore — proprio in Germania aveva trovato il suo svi­
luppo paradigmatico. Infatti la formazione degli insegnanti ginnasia­
li nelle facoltà filosofiche delle università humboldtiane aveva diffuso
la filosofia — come disciplina accademica ma anche come ideologia
fondamentale delle nuove scienze umane — in quella fascia di pubbli­
co borghese che si riteneva umanisticamente colta. Dunque proprio
nel momento in cui la filosofia rinunciava alla sua più specifica pre­
tesa teorico-sistematica, e senza nessuna revisione della sua autocom­
prensione aristocratica, prese piede nella realtà la diffusione di una fi­
losofia scolastica istituzionalmente garantita. Su questa base essa di­
ventava un lievito ideologico della cultura borghese. Nell’ambito del
movimento operaio, invece, la filosofia ebbe effetti del tutto diversi
per merito di Karl Marx. Nel suo pensiero sembravano finalmente
cadere quelle limitazioni elitarie che avevano sempre posto la filoso­
fia in contraddizione con se stessa. Marx pensava certamente anche a
questo, quando affermava che per potersi realizzare la filosofia aveva
bisogno di essere superata.

A partire da Hegel, dunque, la filosofia entra in un altro medium.


Dopo aver preso coscienza delle quattro trasformazioni strutturali cui
abbiamo fatto cenno, la filosofia è costretta a pensarsi non più come

y J. Habermas et al., Student und Poliiik, Neuwied 1961.


32

«filosofia» bensì come «critica». Falsificando ogni «filosofia dell ori­


gine», essa rinuncia sia alla fondazione ultima sia a ogni interpreta­
zione affermativa dell’ente in generale. Criticando la definizione tra­
dizionale del rapporto teoria-prassi, essa si concepisce come 1 elemen­
to riflessivo della prassi sociale. Criticando la pretesa totalizzante del­
la metafisica e della religione, essa trasforma la critica radicale della
religione nel fondamento su cui far poggiare i contenuti utopici sia
delle tradizioni religiose sia dell interesse emanciparono della cono­
scenza. Criticando infine l’aristocraticismo della tradizione filosofica,
essa insiste sulla necessità di un rischiaramento universale che coin­
volga anche se stessa. Questo «autorischiaramento» fu dapprima in­
teso da Horkheimer e Adorno nei termini di una dialettica dell'illumi­
nismo'. ora esso trova il suo capolinea nella dialettica negativa di Ador­
no. Giunti a questo punto ci si deve però chiedere se questa filosofìa —
passando attraverso la critica e l’autocritica — non si sia interamente
spogliata dei suoi contenuti e non abbia finito per contraddire la sua
stessa intenzione di essere «teoria critica» della società10. Essa sembra
infatti presentarsi come un vuoto esercizio autoriflessivo applicato ai
contenuti della propria tradizione, né sembra più in grado di pensare
veramente in una maniera autonoma e sistematica11. Se le cose stes­
sero davvero così, a che servirebbe ancora la filosofìa?

3- Negli ultimi decenni la filosofia si è guadagnato un durevole


influsso politico sulla coscienza pubblica, anche se nel loro atteggia­
mento e nel loro pensiero i filosofi sono stati più legati ai contenuti
tradizionali e alla gestualità della grande filosofia che non alla sua
pretesa sistematica. Nel suo stadio critico — a prescindere dalla sua
consapevolezza di essersi trasformato in critica — il pensiero filosofico
ha vissuto in maniera parassitarla consumando la sua eredità. Nello
stesso tempo però esso ha anche dischiuso al movimento del pensie­
ro filosofico una nuova dimensione: quella di una critica materiale
della scienza.

10 A. Wellmer, Krttiiche Gesdlichaftsthtorie undPostiivismus, Frankfurt a.M. 1969.


11 B. Willms, «Theorie, Kritik, Diaiektik», in AA.W, (Jher Th.W. Adorno,
Frankfurt a.M. 1968, p. 44 e sgg.; R. Bubner, «Was ist Kritische Theorie?», in
AA.VV., Hmneneutik und Idcologickriiik, Frankfurt a.M. 1971.
33

Il modo in cui la filosofia ha definito il suo rapporto con la scienza


è stato determinante per lo sviluppo della stessa filosofia moderna. A
partire dal XVII secolo, gli impulsi capaci di plasmare o far saltare i
sistemi presero generalmente le mosse da questioni gnoseologiche.
Dopo però che la filosofia dell’origine è stata superata anche nella sua
versione gnoseologica, a partire dalla metà del XIX secolo la teoria
della scienza [Wissensebaftstbeone] ha di fatto preso il posto dalle gno­
seologia {Erkenntnistheorie\. Per «teoria della scienza» io intendo una
metodologia improntata all’autocomprensione scientista delle varie
scienze. Per «scientismo» intendo la fede della scienza in se stessa, os­
sia la convinzione che la scienza non sia più una delle forme possibili di
conoscenza, ma che si debba invece identificare la conoscenza con la
scienza tour court12. Scientistico è il tentativo di fondare un monopo­
lio conoscitivo delle scienze e di normare in questo senso la loro auto-
comprensione teoretica. Su un piano di sottile argomentazione, questo
tentativo è ora proseguito da quelle correnti interne della filosofia ana­
litica che continuano a sviluppare il programma del circolo di Vienna.
Ora, fino a qualche decennio fa lo scientismo poteva ancora essere
considerato una faccenda esclusivamente accademica. La situazione è
cambiata dal momento in cui — producendo un sapere tecnicamente
valorizzabile — gli scienziati hanno visto attribuirsi significative fun­
zioni sociali. Nei sistemi industriali avanzati, la crescita economica e
la dinamica sociale complessiva sono sempre più diventati un risulta­
to del progresso tecnico e scientifico. Nella misura in cui «la scien­
za» diventa la prima forza produttiva — e nella misura in cui (come
pensa Luhmann) i sottosistemi «ricerca» e «cultura» acquistano prio­
rità funzionale nel controllo dell’evoluzione sociale — un indiretto si­
gnificato politico viene a investire i concetti guida del sapere teoreti­
co (ossia i concetti del metodo e del progresso scientifico), così come
pure i contesti dell’applicazione tecnica e del rischiaramento pratico.
Acquistano, più in generale, un’indiretta valenza politica sia la tra­
duzione dei dati scientifici in pratica-di-vita sia l’interpretazione del
rapporto che unisce tra loro «esperienza», «teoria» e «discorso for­
mativo della volontà».

12 Cfr. J. Habermas, Erkenntnis und Interesse, Frankfurt a.M. 1968 (tr. ir. Cono­
scenza e interesse. Con il poscritto 1973, Laterza, Roma-Bari 1990).
34

Questa «critica della scienza» persegue due diversi punti di vista.


In primo luogo, va osservato che lo scientismo non riesce a spiegare le
pratiche di ricerca che sono caratteristiche delle scienze storiche e so­
ciologiche. Finché anche per l’ambito oggettuale dei sistemi d azione
comunicativi non sia stato sviluppato un sistema concettuale (fecondo
e operazionalizzabile) che sia paragonabile ai concetti vigenti per
l’ambito dei corpi in movimento e degli eventi osservabili, ogni teo­
ria pseudonormativa della scienza che non consenta (neppure sui pia­
no analitico) di differenziare la costituzione degli ambiti oggettuali
non può che avere effetti ritardanti. Ciò è soprattutto evidente se pen­
siamo allo sviluppo delle scienze sociali che producono non un sapere
tecnicamente valorizzatile bensì un sapere orientante l’azione. E proprio di
questo tipo di sapere noi avremmo bisogno per poter controllare e di­
rigere, in maniera razionalmente pratica, quella forza produttiva che è
la scienza insieme a tutte le sue conseguenze dirette e indirette.
In secondo luogo, lo scientismo consolida un concetto generale di
«scienza» che giustifica i controlli tecnocratici proprio con l’esclude­
re quella razionalità procedurale che è indispensabile al chiarimento
delle questioni pratiche. Ma una volta che le questioni pratiche non
siano più riguardate come suscettibili di verità [wahrheitsfàhig] — e
una volta che la decisione delle questioni suscettibili di verità condu­
cesse soltanto a informazioni tecnicamente valorizzabili, ossia utili
al l’agire strumentale —, allora la connessione tra progresso scientifico
e prassi sociale (una connessione diventata oggi straordinariamente
importante) diventerebbe oggetto esclusivo di analisi empirica e di
controllo tecnico. Oppure — cadendo fuori da ogni possibile raziona­
lizzazione pratica - essa finirebbe per essere abbandonata o all'arbi­
trarietà decisionistica o alla pseudonaturalità dell’autoregolazione si­
stemica. Così una problematica davvero cruciale per lo sviluppo so­
ciale complessivo verrebbe definitivamente estromessa dall’ambito
dei problemi che sono suscettibili di chiarimento discorsivo e acces­
sibili a una formazione razionale della volontà. Saremmo così abban­
donati alla perversa «divisione del lavoro» che verrebbe a crearsi tra
la pianificazione tecnocratica delle burocrazie statali e delle grandi
organizzazioni, da un lato, e le sintesi culturali (più o meno autodi­
dattiche) di scienziati e giornalisti, dall’altro (scienziati e giornalisti
che dovrebbero comunque limitarsi a una legittimazione meramente
scientistica della scienza).
Ò5

Se invece non escludiamo, in linea di principio, che una pianifi­


cazione democratica possa anche fungere da meccanismo di guida per
i sistemi sociali avanzati, allora una «critica» che si accolli l’eredità
della «filosofia» dovrebbe poter svolgere (almeno) tre compiti fonda­
mentali. In primo luogo essa dovrebbe criticare l’autocomprensione
oggettivistica delle scienze e i concetti scientistici di scienza e pro­
gresso scientifico. In secondo luogo, essa dovrebbe affrontare le que­
stioni metodologiche delle scienze sociali in maniera tale da non
ostacolare, ma piuttosto favorire, l’elaborazione di concetti adeguati
ai sistemi d’azione comunicativi. In terzo luogo, essa dovrebbe illu­
minare la dimensione in cui si evidenzia la connessione tra logica del­
la ricerca scientifica e dello sviluppo tecnico, da un lato, e logica delle co­
municazioni formative della volontà, dall’altro lato. Una critica di que­
sto tipo dovrebbe ricavare i suoi materiali per un verso dai contenuti
empirici delle scienze e per l’altro verso dai contenuti utopici delle
tradizioni. Così essa dovrebbe accertarsi di questi materiali in una
maniera inedita: secondo la terminologia convenzionale, questa criti­
ca dovrebbe configurarsi nello stesso tempo come «teoria delle scien­
ze» e come «filosofia pratica».

In effetti esistono oggi tre diversi approcci filosofici che sono ca­
ratterizzati da questo nesso. Anzitutto il razionalismo critico di Pop­
per, che è derivato dall’autocritica dei limiti empiristici e linguistici
del positivismo logico. Poi la filosofia metodologica di Paul Lorenzen
e della scuola di Erlangen che, riallacciandosi a motivi di Hugo Din-
gler, studia il fondamento pratico-normativo delle scienze e di una
razionale formazione di volontà. E, infine, la cosiddetta «teoria criti­
ca» che, riallacciandosi a Horkheimer, Marcuse e Adorno, persegue il
programma di una teoria critica della società.
Se vogliamo pensare a una filosofia che non debba più temere la
domanda «a che serve la filosofia?», allora dovremmo oggi pensare
a una filosofia non scientista della scienza. A patto di comunicare con
le scienze e con gli scienziati, questa filosofia potrebbe trovare nel­
l’espansione del sistema universitario la più ampia sfera d’influenza
di cui una filosofia abbia mai goduto nella storia. Essa non avrebbe
più bisogno di organizzarsi nella forma di una dottrina personificata
in singoli filosofi. Essa si vedrebbe persino investita di un compito
politicamente significativo, nella misura in cui sapesse parallelamen-
36

te criticare i limiti irrazionali sia dell’autocomprensione positivistica


delle scienze sia di un’amministrazione tecnocratica staccata dalla
formazione pubblicamente discorsiva della volontà. Sennonché, pro­
prio per questo motivo, non compete al potere immanente di una di­
scussione filosofico-accademica decidere se gli approcci già oggi ri­
conoscibili di una «teoria delle scienze con finalità pratiche» trove­
ranno alla fine sviluppo effettivo. Una filosofìa che idealisticamente
ascrivesse a se stessa questo potere mostrerebbe di aver dimenticato il
penso su cui — un secolo e mezzo fa — essa si era tanto travagliata pas­
sando nello stadio della critica.
Certo il pensiero filosofico deve oggi confrontarsi non soltanto con
le rigidezze della coscienza tecnocratica ma anche con il frantumarsi
della coscienza religiosa. Soltanto oggi si vede chiaramente come la
visione del mondo filosofica, aristocraticamente elitaria, dipendesse
sempre dall'esistenza di una religione più ampiamente diffusa. Anche
dopo aver accolto in sé gli impulsi utopici della tradizione giudaico-
cristiana, la filosofia è stata incapace di «mascherare» in maniera con­
solatoria e appagante (o dovremmo forse dire «padroneggiare»?) l’ef­
fettiva insensatezza della morte contingente, della sofferenza indivi­
duale, della sfortuna privata, insomma la negatività dei pericoli che
colpiscono l'esistenza umana. Nelle società industriali avanzate stia­
mo osservando per la prima volta il fenomeno generale di una perdita
della speranza salvifica e dell’attesa di grazia (speranza e attesa che,
seppure non più garantite dalla chiesa, poggiavano pur sempre sul­
l’interiorizzazione delle tradizioni di fede). Accade ora per la prima
volta alla massa della popolazione di venire sconvolta negli strati fon­
damentali della sua tutela d’identità, di non poter prescindere da una
coscienza quotidiana interamente secolarizzata, di non poter ricorrere
a certezze istituzionalizzate o quanto meno profondamente interioriz­
zate. Alcuni indicatori segnalano, come reazione alla massiccia perdi­
ta di certezza religiosa nella salvezza, il profilarsi di un nuovo elleni­
smo, dunque il profilarsi di una ricaduta dietro il livello storico delle
grandi religioni monoteistiche, di una regressione dietro l'identità
che si era già formata nella comunicazione con un solo dio. Molte
piccole religioni subculturali e surrogatorie si formano nei gruppi e
nelle sette marginali che si differenziano sul piano geografico, conte­
nutistico e sociale. Si va dagli estremi della meditazione trascenden­
tale all’ideologia radicale di piccoli gruppi azionistici che vogliono
37

cambiare il mondo in senso teologico-politico, anarchico o sessuo-


politico, passando attraverso le posizioni intermedie della nuova ri­
tualità delle comuni, dei programmi di «training» pseudoscientifico,
degli obiettivi (spesso solo apparentemente) pragmatici delle orga­
nizzazioni di autosoccorso. Tutte queste subculture poggiano forse su
un’analoga struttura motivazionale. Visti dalla prospettiva della tra­
dizione teologica, le nuove interpretazioni del mondo e dell’esistenza
si presentano come una forma di neopaganesimo che trova espressio­
ne in idolatrie e mitologie locali. Tuttavia questi paragoni di tipo re­
trospettivo sono pericolosi, in quanto non colgono l’ambivalenza spe­
cifica che si cela in questi «nuovi» potenziali di conflitto. Alludo a
quell’ambiguità tra carenza motivazionale e protesta, tra dedifferen­
ziazione regressiva e innovazione, che è probabilmente rintracciabile
sia sul piano delle strutture della personalità sia sul piano delle strutture
di gruppo che legano potenziali tra loro complementari.

Nei confronti di questo ambiguo fenomeno di «frantumazione»


delle identità individuali e collettive — identità già formatesi in pre­
cedenza nell’ambito delle grandi civiltà — un pensiero filosofico che
fosse socialmente diffuso e collegato alle scienze potrebbe soltanto
mettere in azione la fragile unità della ragione, ossia quell’unità di
«identità» e «non-identico» che si produce nel discorso ragionevole.
I

L’IDEALISMO TEDESCO DEI FILOSOFI EBREI (1961)*

«L’ebreo non può giocare nessun ruolo creativo, per ciò che attie­
ne alla vita tedesca, né nel bene né nel male.» Questa frase di Ernst
Jiinger è stata scritta una generazione fa, nello spirito antisemita del-
la rivoluzione conservatrice. Tuttavia l’affermazione è sopravvissuta a
quell’antisemitismo, se è vero che qualche anno fa l’ho sentita ripete­
re in un seminario universitario. Lì si diceva che gli ebrei non posso­
no che produrre cose di second'ordine. Allora ero ancora studente e
pur avendo già letto Husserl e Wittgenstein, Scheler e Simmel, non
sapevo ancora nulla della loro estrazione. Ma l’illustre professore che
contestava le qualità dei suoi colleghi ebrei non poteva non sapere. È
curioso come certi stereotipi ideologici restino indiscussi anche
quando basterebbe un semplice dizionario a smentirli. Se il problema
fosse quello di anatomizzare e contabilizzare (quale figura dello spiri­
to) la filosofia tedesca del XX secolo, allora proprio nel settore che il
pregiudizio vorrebbe riservato alla «profondità» tedesca noi dovrem-
mo^iconoscere la prevalenza di coloro che, secondo lo stesso pregiu­
dizio, dovrebbero stare fuori della genialità come meri talenti critici.
Non è il caso di dimostrare ancora una volta ciò che risulta eviden­
te da tempo. Piuttosto un’altra cosa va spiegata. È sorprendente come
l’esperienza della tradizione ebraica ci consenta di interpretare pro-
duttivamente alcuni motivi centrali deH’idealismo tedesco che, cqm’è
noto, fu sostanzialmente protestante. L’idealismo aveva effettivamente
accoltele assorbito in sé l’eredità cabalistica. Per questo la sua luce
sembra rifrangersi ora con più dovizia nello spettro di uno spirito in
cui sopravvive — benché inavvertito — lo spirito della mistica giudaica.

Pubblicato in Th. Koch (hrsg. von), Portrà'ts dcutsch-jiidischer Geìstesgeschichte,


Kóln 1961, pp. 99-125.
40

le profonda e feconda parentela degli ebrei con la filosofia tedesca


fa parte dello stesso destino sociale in cui rientra anche l’abbattimen-
to delle porte del ghetto. Lassimilazione, cioè l’accettazione degli
ebrei nella società borghese, divenne realtà effettiva solo per una mi­
noranza di intellettuali ebrei. La grande massa del popolo ebraico,
nonostante un secolo e mezzo di ininterrotta emancipazione, non
andò mai al di là di un'equiparazione giuridico-formale. D’altro can-
to non furono emancipati nemmeno gli ebrei di corte, né i loro suc­
cessori, i banchieri di stato ebraici deH’Ottocento, né più in generale
gli uomini d'affari. A essi, per la verità, non stava seriamente a cuore
abbattere le barriere deH'invisibile ghetto, giacché un’emancipazione
generale avrebbe soltanto minacciato i loro privilegi. L’assimilazione
sì lim[tò_a_distendere-.una.sottile pellicola osmotica intorno al corpo
estraneo dell 'ebraici tà. Medium dell’assimilazione fu la cultura acca­
demica, suo sigillo un battesimo spesso socialmente estorto. Questi
intellettuali ebrei ripagavano la cultura dei vantaggi che ne traevano.
Eppure la loro posizione sociale, fino agli anni Venti del XX secolo,
rimase sempre ambivalente. Tanto che uno come Ernst Jiinger può
non soltanto screditare la loro produzione come «chiacchiera giorna­
listica e pseudoprogressista», ma anche contestare il più generale
processo di assimilazione.

Nella misura in cui la volontà tedesca guadagna in chiarezza e forma, anche


la minima speranza degli ebrei di potere un giorno essere cittadini tedeschi
diventa sempre meno realizzabile. Si scontreranno con l’alternativa per cui
in Germania dovranno o restare ebrei oppure non esistere.

Siamo nel 1930. E a chi non accetta l’immorale politica dell'apar­


theid si comincia minacciosamente a promettere ciò che sarà poi or­
ribilmente mantenuto nei lager.
Così proprio in quelle frange estreme deH’ebraismo che più erano
riuscite a emanciparsi vediamo nascere la proposta di tornare alle
proprie scaturigini. Il sionismo fu l'espressione politica di questo
movimento. L'esistenzialismo precoce di un Martin Buber, che si col­
legava all’ultima fase della mistica ebraica, ne fu l’espressione filoso­
fica. Lo hasidismo polacco e ucraino del XV11 Isecolq_t rae le sue idee
dalla kabbala, ma la dottrina è tanto secondaria rispetto alla persona­
41

lità dei santi hasidich che la figura tradizionale del rabbino sapiente
quasi scompare dietro quella dello zaBdilF'popólaré7Ta sua esistenza.è
la personificazione della torah. Nello zelo di Buber contro la dottrina
sclerotizzata dei rabbini, nel suo recupero di una religione popolare
piena di leggende mitiche epersonaggi mistici, njoFvediamojiaccen-
dersi il pathos di una nuova filosofia esistenziale.

La distruzione della comunità ebraica aveva ridotto la fecondità della lotta


spirituale. La forza dello spirito aveva come obiettivo superstite quello di
mantenere il popolo al riparo dagli influssi esterni, di circoscrivere con ri­
gore il proprio ambito impedendovi l’ingresso di tendenze ostili, di codifi­
care i valori per impedirne la contaminazione, di formulare la religione in
maniera inequivoca, non fraintendibile, semplicemente consequenziale e ra­
zionale. Al posto dell’elemento divinamente ispirato, stimolante e creativo,
subentrava sempre più l’elemento rigido — esclusivamente protettivo, con­
servatore e difensivo - del giudaismo ufficiale. Questa rigidità si volgeva
contro l’elemento creativo che, per la sua arditezza e libertà, sembrava mi­
nacciare la saldezza del popolo. Si cominciò così a minacciare scomuniche e
a osteggiare la vita.

Ma è soltanto nell’opera di FranzJLosenzjveig che l’impulso hasi-


dico trova il suo linguaggio filosofico. Rosenzweig, che con l’amico
Buber traduce in tedesco la Bibbia, aveva già lavorato come allievo di
Friedrich Meinecke sulla filosofia dello stato di Hegel [1920, tr. it.
Hegel e lo Stato, il Mulino, Bologna 1976]. Ora la sua grande ricerca
in tre volumi, La stella della redenzione [1921, tr. it. Marietti, Casale
Monferrato 1985] tenta — com’è indicato dal titolo — di interpretare
la filosofia idealistica a partire dalle profpnditLde.lla,inis.dca.e.brai^.
E uno dei primi^ col legarsi a Kierkegaard, accogl iendo anche moti­
vi del tardo idealismo (soprattutto dall’ultima filosofia di Schelling).
In tal modo egli mette in luce l’albero genealogico della Filosofia del­
l’esistenza alcuni decenni prima che la storia ufficiale della filosofia
faticosamente lo riscoprisse. La questione su cui naufraga la fiducia
idealistica nel concetto può formularsi_cqsì: «Come può il mondo es^ ‘V
sere casuale, pur dovendo essere pensato come necessario?». Il pensie- K
ro si arrovella inutilmente sulla circostanza impenetrabile che le cose m
siano irrimediabilmente contingenti e che l’esistenza storica dell’up-
mo sia immersa in una sorta di enigmaticojirbitnQ.
42

Ma in quanto la filosofia non riconosce quescoscuro^Rresupposto della vita,


in quanto fa valere la morte non come unj<qualcosa>> ma come un «niente»,
essa può anche fingere di non dipendere da alcun presupposto [...]. Se la fi­
losofìa non volesse chiudersi le orecchie di fronte al grido atterritp_dell uma­
nità, allora dovrebbe partire dal presupposto che il «niente»'.della.morte
pur sempre un «qualcosa», anzi che ogni nuovo «niente» della morte è sem-.
pre una cosa inedita, terribile, non neutralizzabile né dalla parolané dal]a_
scritturaJ..Il niente non è niente ma è qualcosa di terribile .]. Nojjnon
vogliamo che la filosofia ci nasconda l'incessante signoria della morte con
l'armonia della sua danza. Nón”vogliamoìIIusìonì.

Smascherare l'illusione significa capire che il mondo in cui si


piange e si ride è ancora un mondo in via di compimento: i fenome­
ni stanno ancora cercando la loro sostanza. Nei fenomeni della natu-
ra visibile si rivela così la nascita di un regno invisibile: nel mondo lo
stesso Dio cerca redenzione. «Dio, redimendo il mondo attraverso
l'uomo e l'uomo nell'ambito del mondo, redime anche se stesso». A
questo punto l'idealismo viene sfidato dalla teologia della creazione.
Ancora influenzato dalla filosofia greca, l’idealismo non aveva guar­
dato al mondo irredento dal punto dijyista. della redenzione possibi-
le. La sua logica restava legata al passato. «La vera durata è quella che
I guarda al futuro. Non ciò che è 'sempre stato’ è durevole, né ciò che
i continuamente si rinnova. Durevole è soltanto ciò che sta per venire:
I il Regno». Ma ciò può essere compreso solo da una logica che, a dif­
ferenza di quella idealistica, non dimentichi la corporeità della di-
mensione linguistica. Questa logica antidealistica deve affidarsi ai
pensieri profondi che si nascondono nel linguaggio,. Risuona qui la
vecchia idea cabalistica per cui il linguaggio raggiunge Dio in quan­
to è stato inviato da lui. Invece l’idealismo rigetta il linguaggio come
organo di conoscenza facendolo sostituire da un'arte deificata. Qui, in
questa presa di coscienza significativa, noi vediamo un ebreo antici-
pare Heidegger, il philosophus teutonicus.
Alla fine della prima guerra mondiale Rosenzweig spedisce a casa
' il manoscritto del suo libro tramite la posta da campo. In una delle
, sue lettere ci racconta come sul fronte balcanico egli abbia concepito
la vocazione messianica dell’esilio ebraico. «IJ popolo ebraico è già al
di là del contrasto che_tiene in vita gli altri popoli (il contrasto di
specificità e storia universale, patria e fede, terra e cielo); per questo
motivo esso non conosce la guerra.» Nel Natale del 1914 un altro fi-
43

losofo ebreo, Hermann Cohen, aveva nello stesso senso ricordato agli
studenti precettati come l’espressione politica dell’idea messianica
consistesse nella pace perpetua.

Come politici internazionalisti, i profeti vedevano il male non esclusiva-


mente né precipuamente negli individui, bensì nei popoli. Perciò la fine.
delle guerre, la pace perpetua dei popoli^appariva loro come il simbolo del-
la moralità terrena.

Tuttavia, trasponendo in questo modo l’idea kantiana della pace


perpetua nel VecchioJIestamento, Cohen assumeva una posizione di­
versa da Buber e Rosenzweig. Egli rappresentava la tradizione libera-
Ie~dì quegli intellettuali ebrei che, intimamente legati aH’illumini-
smo, pensavano di potersi identificare con la nazione tedesca proprio
nello spinto^deirilluminismq. Subito dopo lo scoppio della guerra,
Cohen tiene una curiosa conferenza alla «Kantgesellschaft» di Berli­
no dal titolo Sulla specificità dello spirito tedesco. Qui egli offre alla Ger­
mania imperialistica di Guglielmo II, e ai suoi quadri militari, l’ori­
ginale testimonianza dell’umanismo tedesco. Egli si dissocia indi-
gnato da quanti vorrebbero distinguere in maniera insultance.il po-
polb deT poetili dei pensatori, da_unjaro, dal popolo dei guerrieri e
degli uomini di stato, dalfaltro. «La Germania è e resta in ideale
continuità con il XVIII secolo e con il suo umanesimo cosmopoliti­
co». Meno cosmopolitico è però il tono della sua apologia, in cui tra
l’altro si dice: «Lotta in noi Eorig inai ita di una nazione che non è
confrontabile con nessun’altra». Questo tipo di lealismo nei confron­
ti dello stato avrebbe più tardi consegnato tutu coloro che ciecamen-
te si gloriavano di essere «ebrei di nazionalità tedesca» al tragico pa-
radosso di un’identificazione con.Eaggress.QCfi.
Cohen era il leader della famosa Scuola di Marburgo. In essa sfo­
ciava l’erudizione ebraica di una generazione che pensava ancora nel­
lo spinto di Kant e ne trasformava gli insegnamenti in una gnoseo­
logia delle moderne scienze della natura. Anche Kant del resto - che
tanto amava la forza linguistica di Moses Mendelssohn da esclamare:
«Se mai la musa filosofica dovesse scegliersi una lingua prenderebbe
questa» — preferì affidare all’ebreo Marcus Herz (un noto medico di
allora) il ruolo di controrelatore per la sua «Habilitationsschrift».
Questo Herz — non diversamente da quanto faceva a Vienna Lazarus
44

Bendavid - s’impegnò grandemente a Berlino per diffondere la filo­


sofia di Kant. Ma il primo ad appropriarsi in maniera produttiva del
nuovo criticismo, sviluppandolo radicalmente al di là dei suoi stessi
presupposti, fu il geniale Salomon Maimon (in gioventù ispirato da
Spinoza). Da barbone e vagabondo qual era egli divenne un erudito,
protetto dai mecenati. Di lui persino Fichte, che non era un tipo mo­
desto, riconosceva senza invidia la superiorità. Maimon,— così Fichte
scrive a Reinhold - ha interamente rinnovato la filosofia di Kant. «E
ha fatto tutto ciò nell'indifferenza generale. Penso proprio che i seco-
li futuri rideranno^i noi». In realtà, gli storici tedeschi non si sareb­
bero affatto scandalizzati. Quella prima generazione di ebrei kantiani
stava per essere in breve dimenticata, proprio come dimenticato sta­
va per essere lo stesso Kant.
! bolo verso la metà dell’ottocento il pamphlet di un altro ebreo:
Otto Liebmann, significativamente intitolato Es must aufKant zuriìck-
gtgangen werden [Bisogna tornare a Kant!], aperse la strada a un secon­
do kantismo. Cohen potè tornare all’impostazione teorica elaborata
da Maimon. Sulla sua tomba, il grande allievo Ernst Cassirer ne rias­
sumeva le intenzioni con queste parole:

Ciò che bisognava realizzare in modo puro e integrale era la priorità detrat­
tivo sul passivo, delTautonomo-spirituale sul sensibile-materiale. Ogni ri-
chiamo al meramente dato doveva scomparire. Al posto dei supposti fonda­
menti empirici dovevano subentrare i puri fondamenti del pensiero, del vo­
lere, della coscienza artistica e religiosa. Così la logica di Cohen divenne una
logica dell’origine {des Ursprungs}.

Ma accanto alla linea diretta dei marburghiani, anche altri studio­


si ebrei come Arthur Liebert, Richard Hònigswald, Emil Lask e Jo-
nas Cohn giocarono un ruolo nella «teoria della conoscenza» kantia­
na vigente alla svolta del secolo. Max Adler e Otto Bauer svilupparo­
no persino una versione kantiana del marxismo. In questo clima fiorì
quell acutezza di commento e di analisi che un ambiguo giudizio di
valore attribuisce agli ebrei come loro seconda_natura e che persino
un Martin Buber critica come «mentalità dissociata».

Un dissociarsi della mente dalla matrice della vita naturale e dalle funzioni
dell autentica lotta spirituale, una mentalità disimpegnata, senza contenuti,
dialettica, che può applicarsi a tutti gli oggetti, anche i più indifferenti, per
45

sezionarli concettualmente oppure porli in relazione tra loro, pur senza ap­
partenere a nessuno di loro in maniera intuitivo-istintuale.

Ora, può ben darsi che le analisi teoretiche e scientifiche che si


credono più estranee alla storia e prive di presupposti vengano incon­
tro alle inclinazioni di quegli ebrei che per conquistarsi la libertà fu­
rono un giorno costretti a rinunciare alle loro tradizioni. L’uscita dal
ghetto e l’adesione alla cultura illuministica fu pagata con la rottura
dei vincoli tradizionali e con il salto in una storia estranea. Moses
Mendelssohn, per esempio, dovette tacerejcon i suoccqrreHgjonan
sul suo amore per la letteratura tedesca! La fisionomia del pensiero
ebraico è stata fórse anche segnata dal fatto di conservare in sé il «di-
stacco» che è caratteristico di uno sguardo originariamente estraneo.
Proprio come le cose un tempo familiari si presentano «più nude» al-
lo sguardo di chi rientra da una lunga emigrazione, così anche lo_
sguardo dellassimilato finisce per essere particolarmente acuto. A lui
manca ogni intimità con quelle certezze culturali che — raffreddatesi
per farsi oggetto di assimilazione — gli mostrano ora con crudezza
tutte le loro strutture.
D’altro canto l’ermeneutica rabbinica e cabalistica aveva educato
da secoli il pensiero ebraico alle virtù esegetiche del commento e del­
l’analisi. Esso veniva ora attratto dalla «teoria della conoscenza» pro­
prio perché il metodo gnoseologico dava veste razionale a una tradii
zionale problematica mistica. In fondo il mistico aveva sempre cq^
^truito~gli"staciF della tgogonia (lo sviluppo storico del mondanizzarsi
di Dio) semplicemente capovolgendo l’itinerario della sua anima ver-
so l’Assoluto. Perciò il sapere del mistico era sempre mediato da una
sorta di riflessione trascendentale sui modi della propria esperienza.
Non a caso l’introduzione di Simmel alla filosofia si serve della mi­
stica di Mastro Éckhart come di una.chiave .per la. riyoluzjonecoper­
nicana di Kant.

Naturalmente l’attrazione esercitata da Kant sullo spirito ebraico


è riconducibile al fatto che Kant non fu inferiore a Goethe nello svi-
luppare in maniera luminosa e sincera iLliberoj^
critica razionale e di un umanesimo cos m opo 1 iti co. L’umanesimo
kantiano caratterizzò, nei salotti berlinesi tra Settecento e Ottocento,
quella socialità cameratesca m cui un’assimilazione non avvilente ri-
46

scuoteva i suoi primi successi. Inoltre il criticismo fu anche il me-


dium attraverso cui gli stessi ebrei si emancipavano daH’ebraismo. Ol-
tre ad assicurare sentimenti urbani e tolleranza mondana da parte dei
cristiani, esso offrì lo strumento filosofico con cui il grandioso auto-
movimentò 'dello spi rito ebraico cercò di impadronirsi del proprio
^destino religTosòe-sociale. La filosofia ebraica, in tutte le sue versio­
ni ni, non abbandonò più il criticismQ.
Un’emancipazione integrale è naturalmente resa impossibile dalla
società. Siccome l’assimilazione assumeva forme di sottomissione,
molti ebrei assimilati divennero privatamente tanto più ebrei, quan­
to più essi, identificandosi rigorosamente con le aspettative dell’am­
biente, erano costretti a presentarsi pubblicamente soltanto in veste
di «buoni* tedeschi. Questa tensione — evidente da un punto di vista
sociopsicologico - emerge in un’opera postuma di Cohen dedicata al
ricordo del proprio padre ortodosso. Ha per titolo: Religion der Ver-
nunft aus den Quellen des Judentums [Religione della ragione a partire
dalle fonti dell’ebraismo]. Nella scuola di Marburgo il razionalismo
kantiano perde quel pathos particolare che gli derivava dalle sue ori­
gini luterane: la teoria trova, per così dire, un secondo momento di
secolarizzazione. Ma alla fine si rompe anche la crosta di «Zivilisa-
tion» cui gli «Zivilisationsjuden» (come li si chiamava) sembravano
essersi totalmente arresi: la domanda sulla prescrittività della parola
mosaica di Dio spinge il vecchio Cohen ai margini del suo sistema fi­
losofico. -Nella misura in cui l’umanità dei popoli fiorisce al l’altezza,
di un cultura forgiata filosoficamente e scientificamente, questipo-
'poli condividono la stessa religione della ragione. Tuttavia il concet­
to di ragione, quando viene metaforicamente immaginato a pàrtiTè
.daìTT sua fonte originaria, viene storicamente illuminato sulla base
/delle”testimonianze dei profeti ebraici. Da ultimo Cohen si sforza di
salvare 1 autonomia della ragione nei confronti di questa positività
della rivelazione. E la sua coscienza filosofica sembra alla fine acquie­
tarsi in questo pensiero tortuoso:

Per quanto io dipenda, circa il concetto di religione, dalle fonti letterarie


dei profeti, tuttavia queste stesse fonti resterebbero sempre mute e cieche se_
io non mi accostassi a loro (istruito da loro, ma non automaticamente dalla
loro autorità) con quel concetto che io stesso pongo a base dell’istruzione
che ne ricevo.
4n
Ora tuttavia la gnoseologia e l’epistemologia della nostra epoca
non sono più quelle influenzate da Cohen, bensì quelle di due altri
professori ebrei. In Germania ha preso piede la fenomenologia di Ed­
mund Husserl, sul piano internazionale il positivismo logico di Lud­
wig Wittgenstein:j>ggi sembrano essere queste le due teorie di mag­
gior successo sul piano filosofico.
Lo stesso anno in cui muore Hermann Cohen viene pubblicato il
famoso Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein, il quale, com’è
noto, si apre con la frase lapidaria: «Il mondo è tutto ciò di cui si dà
il caso». Quest’opera influenzò il cosiddetto Circolo di Vienna, dove
ebrei come Otto Neurath e Friedrich Waismann avevano una posi­
zione importante. Più tardi furono emigranti ebrei a dare diffusione
mondiale a questa dottrina: basti ricordare per gli Stati Uniti Hans
Reichenbach e per la Gran Bretagna lo stesso Wittgenstein. Que­
st’ultimo condusse a Cambridge la vita riservata di un libero docen­
te. Qui, senza mai pubblicare niente, nella quiete dei suoi seminari
con una piccola cerchia di studenti, egli compì la svolta dall’analisi
logica all’analisi linguistica. A quest’ultima non interessa più, in pri­
ma battuta, l’analisi e la costruzione coerente di un linguaggio uni­
versale rispecchiante i fatti. Non ha più obiettivi sistematici ma sol­
tanto terapeutici: essa intende indagare linguisticamente determina­
te formulazioni esprimendone il senso «con completa chiarezza». Le
risposte della filosofìa si limitano a dare raccomandazioni circa que­
sto o quel modo di esprimersi e sfociano nella padronanza formale di
giochi linguistici che solo in se stessi trovano soddisfazione.
Dopo un silenzio di venticinque anni, poco prima di morire,
Wittgenstein cede alle insistenze degli amici e pubblica un secondo
libro, le Philosopbische Untersuchungen. A esse premette queste parole
rassegnate:

A dire il vero, fino a poco tempo fa avevo rinunciato all’idea di pubblicare


il mio lavoro mentre ero in vita Ora do alle stampe le mie riflessioni
con sentimenti divisi 1...1. Che a questo lavoro — attesa la sua pochezza e
l’oscurità dei tempi — sia dato di gettare luce in questo o quel cervello, è co­
sa se non impossibile certo poco probabile.

Wittgenstein celebra come sua la scoperta di poter interrompere


il «filosofare» in qualunque momento lo si desideri. La filosofìa stes-
48

sa deve potersi acquietare senza più essere sollecitata da ulteriori do-


rnande. Si tratta di un desiderio profóndo, già emerso in un celebre
passo del Tratta

Noi sentiamo che, anche dopo che tutte le possibili domande scientifiche
abbiano avuto risposta, i nostri problemi virali non sono ancora neppure
toccati. Certo, allora non resta più nessuna domanda; e appunto questa è la
risposta. La soluzione del problema della vita si scorge allo sparire del pro­
blema. (Non è forse per questo che uomini_cui_il.sensp della,vita .divenne
chiaro dopo lunghi dubbi non seppero poi dire in che consisteva propria­
mente questo senso?)

Wittgenstein non esita ad applicare questa idea alle sue stesse


riflessioni:

Le mie proposizioni sono illuminanti nella misura in cui colui che mi com­
prende le riconosce alla fine come insensate, sempreché che egli sia passato
attraverso di esse, e salendovi sopra ne sia andato al di là. Egli deve, per cq-
sì dire, gettare via la scala dopo che vi è salito [...]. Su ciò di cui non si può
parlare, si deve tacere.

Questo «tacere» ha un senso transitivo1. Anche il già espresso


dev'essere ogni volta assimilato a questo silenzio interrotto. Ce un’os-
servazione di Rosenzweig che sembra quasi un commento a questo
passo: «Nulla è tanto profondamente ebraico quanto festrema diffi­
denza contro il potere della parola e l’intima fiducia verso il potere del
silenzio». Dal momento che la propriajjngua specifica, l’ebraico co­
rri ejingua sacra, è estranea alla quotidianità, l’ebreo assimilato non ha
più la possibilità di sublimare.i tormenti dell’esistenza attraverso Ja
normale espressione linguistica.

Con il fratello egli non può più parlare, con lui un'occhiata vale più di una
parola [...]. Proprio nel silenzio e nei silenziosi cenni del discorso, l'ebreo
avverte che persino il suo linguaggio quotidiano rientra ancora nella sacra;
lità della sua liturgia.

..La kabbala si differenzia da molte altre tradizioni_mis£iche,per la


penuria di tradizione scritta e per la totale assenza dell’elemento au-

1 (Ne! senso che esso dice qualcosa.]


49

tobiografìco. Gershom Scholem, lo storico del misticismo ebraico,


testimonia di questa peculiare autocensura dei cabalisti, che li obbli-
gava al silenzio oppure a una trasmissione esclusivamente orale. I
manoscritti erano soppressi e comunque, anche se conservati, veniva-
no raramente dati alle stampe. Visto da questa prospettiva, il modo
con cui Wittgenstein ci parla del mistico appare del tutto coerente:
«Esistono cose che non possono essere pronunciate. Esse si manifesta-
no. Sono il mistico»»,.
Il tentativo di Husserl — al contrario — consiste nella fondazione
della filosofia come «scienza esatta» proprio a partire dalla descrizione
rigorosa di quei fenomeni che si manifestano «da soli»» e che sono in­
tuitivamente «dati»» nell’evidenza immediata. La fenomenologia tra­
scendentale ha le stesse intenzioni del positivismo logico (pur seguen­
do una via completamente diversa). Entrambe le scuole partono dal
principio cartesiano di un dubbio che non può dubitare di sé. Sennon­
ché le «cose»» che Husserl vuole raggiungere non sono più le proposi­
zioni semanticamente e sintatticamente analizzabili del linguaggio
naturale o scientifico, bensì quelle prestazioni-di-coscienza che costi­
tuiscono le «trame di senso»» del nostro mondo di vita. Queste inten­
zioni e i loro «riempimenti»» non vengono dedotte logicamente da
Husserl, bensì semplicemente «lasciate vedere»» a partire da un punto
di vista ultimo dell'esperienza (in ciò la fenomenologia si differenzia
dal neokantismo e dal vecchio idealismo in generale). Plessner, dopo il
seminario, accompagnò un giorno il maestro Husserl verso casa:

Arrivati davanti al cancello del giardino, Husserl lasciò sfogare il suo malu­
more. «Ho sempre trovato disgustoso tutto l’idealismo tedesco» — disse
mentre agitava la sottile canna dal manico d'argento puntandola in avanti
contro lo stipite del cancello. «Io ho sempre cercato la realtà!» In maniera
insuperabilmente plastica la canna rappresentava l'atto intenzionale e lo sti­
pite il suo riempimento.

Husserl visse sempre più isolato nella sua casa di Friburgo mentre
l’orizzonte politico si andava oscurando. Conferenze sulla sua tarda
filosofìa (morì nel 1937) egli le potè tenere soltanto fuori dei confini
tedeschi, a Vienna e a Praga. A differenza di Wittgenstein, egli non
svilì mai la pretesa sistematica della sua filosofìa riducendola all’au-
tósufficienza linguistica di un «gioco delle perle di vetro» o addirit-
tura al silenzio ineffabile del mistico. Egli pose invece mano a un ul-
50

timo grandioso progetto, che doveva servire a comprendere e a stipe-


rare la crisi delle scienze europee come crisi dell’uomo europeo. Con-
tro la marea montante dell’irrazionalismo fascista Husserl innalzava
l’argine di un nuovo razionalismo. «Il motivo per cui la cultura razio­
nale è fallita non sta nella natura del razionalismo, bensì nel suo es­
sersi fatta superficiale e nel suo essersi contaminata con il naturali­
smo e con l'oggettivismo.»
In modo del tutto idealistico, Husserl crede jdi por_er stornare i£
disastro dando semplicemente fondazione rigorosa e fenomenologica
alle scienze dello spirito. Anzi, la crisi gli sembra addirittura radicar­
si nel fatto che un razionalismo troppo superficiale ricerchi i fonda-
menti di queste scienze in maniera falsa e pericolosa, riconducendo
naturalisticamente i fenomeni spirituali ai loro presupposti fisicah-
sticamente spiegabili. Invece lo spirito dovrebbe finalmente rientrare
in se stesso, esplicitando le prestazioni (a lui finora ignote) della co­
scienza. Husserl confidava che questo atteggiamento teoretico_ayesse
la forza di smuovere il mondo.

Non si tratta solo di un nuovo atteggiamento della conoscenza. Grazie alla


pretesa di subordinare l’intera empiria alle norme ideali, ossia alle norme
della verità incondizionata, ne risulterà presto anche una trasformazione
dell’intera prassi dell’esistenza umana, dunque dell'intera vita culturale.

Con una formulazione piuttosto discutibile, Husserl vuole tra­


sformare i filosofi in «funzionari dell'umanità». In opere precedenti
egli aveva già elaborato la procedura con cui i fenomenologhi si ac­
certano di un corretto atteggiamento teoretico. Una sorta di derealiz­
zazione della realtà deve allentare l’interessato coinvolgimento con il
processo reale di vita e consentire una teoria pura. A questa astinen­
za— l’epoché, come lui la chiamava - Husserl si esercitò quotidiana­
mente con ascetismo ammirevole. Dagli appunti di queste medita­
zioni nacquero montagne di manoscritti: testimonianze di un lavo­
ro filosofico che Husserl non potè mai né esporre dalla cattedra né
pubblicare come autore. Dunque ciò che egli volle praticare fu una
sorta di esercizio metodologico. A questo esercizio, dopo che la poli­
tica lo ebbe strappato alla contemplazione, il vecchio filosofo attri­
buiva il senso di una vera e propria filosofìa della storia. La teoria —
nata sul terreno dell’astinenza da ogni prassi — avrebbe reso alla fine
51

possibile un nuovo tipo di prassi caratterizzante una .politica scienti­


ficamente istruita.
Una prassi mirante a educare l’umanità, tramite la ragione universale e!
scientifica, secondo le molteplici norme di verità, trasformandola radical­
mente in un'umanità nuova, capace di essere autoresponsabile sulla base di
conoscenze intuitive assolute.

La filosofia della storia era già un paltoncino assai logoro ancor


prima che Husserl la impiegasse a coprire la sua dottrina (sostanzial­
mente a-storica). Con tutto ciò il suo atteggiamento suscita simpatia:
pur combattendo per una causa persa, egli tiene fede con fermezzajal
pathos e all’illusione di una «teoria pura».
Quanto questa causa fosse perduta lo si era già visto nel 1929 a •
Davos, nel famoso colloquio in cui si affrontarono Cassirer e Heideg- i
ger. Tema ufficiale dell’incontro era Kant, ma ciò che emerse con evi­
denza fu la fine di un’epoca. Lo scontro tra le scuole apparve meno
importante dello scontro tra le generazioni. Il mondo di Cassirer era
lo stesso mondo di Husserl, e a Davos Cassirer difendeva questo
mondo contro Heidegger. Il mondo della cultura umanistica europea
si scontrava contro un decisionismo che faceva appello alla primor-
dialità del pensiero. La radicalità di questa «Ursprunglichkeit» jnL-
nava effettivamente alle fondamenta la cultura goethjana.
Non a caso il culto di Goethe era stato creato agli inizi dell’Otto-
cento nel salotto di Rahel Varnhagen. Infatti, quelle che vennero
chiamate le «personalità eccezionali» della cultura ebraica persegui­
vano (con un’intensità mai più raggiunta in seguito) il modello del
Wilhelm Meister, ossia quel modello formativo così peculiarmente
frainteso da Goethe nei termini di un’assimilazione del borghese al
nobile. Ciò che queste personalità si attendevano dalla cultura fu
espresso assai bene da Simmel:

Forse nessuno più di Goethe ha vissuto una vita altrettanto simbolica. Egli
dette infatti a ciascuno soltanto un pezzo, o un aspetto, della sua personalità
e tuttavia, nello stesso tempo, dette «a tutti la totalità». Soltanto vivendo
in questa dimensione simbolica diventa possibile non essere commediante e
portatore di maschera.

Questo Goethe interiorizzato non indicava soltanto la via dell'as­


similazione ma anche la liberazione dai suoi tormenti (il disagio di
52

dover sempre recitare un ruolo e non poter mai_essere identico a sé).


In questo duplice senso la cultura del classicismo tedesco rappresentò,
una necessità sociale per la vita degli ebrei. Per questo forse dobbia­
mo loro, riguardo a tale proposito, le riflessioni estetiche più sensibi­
li: da Rosenkranz e Simmel fino ad Adorno, passando attraverso
Benjamin e Lukàcs.
i Durante quell’incontro di Davos uno studente pose tre domande a
| Cassirer, e ogni risposta terminò con una citazione di Goethe. Hei-
j degger invece polemizzò contro l’aspetto decadente di chi vuole sem­
plicemente «servirsi» delle opere dello spirito: lui, Heidegger, voleva
reagire con forza «alla durezza del destino». La discussione finì con
un Heidegger che si rifiutava di stringere la mano offertagli da Cas­
sirer. Come una prosecuzione di questo atteggiamento possiamo oggi
leggere ciò che Heidegger — schierandosi coi nazisti quattro anni più
tardi a Lipsia — dichiarava nella manifestazione elettorale della
«Deutsche Wissenschaft».

Finalmente abbiamo cessato di idolatrare un pensiero infondato e impoten­


te e vediamo anche finire la filosofia che gli si attaglia Il coraggio pri­
mordiale di chi non teme di crescere, oppure di spezzarsi nello scontro con
lente, rappresenta ciò che più intimamente spinge all'interrogazione una
scienza nazionalistica. Il coraggio infatti attira in avanti, il coraggio si stac-
ca dal passato, il coraggio osa l'ignoto e l'imprevedibile.

Proprio da questo «imprevedibile» Cassirer doveva in quegli anni


mettersi in salvo. L’emigrazione lo portò prima in Svezia e Inghilter-
ra, poi negli Stati Uniti. Là egli scrisse la sua ultima opera sul «mito
dello stato», che termina con un capitolo dedicato alla tecnica dei
moderni miti politici. Alla fine c’è un’osservazione su una leggenda
babilonese: «Il mondo della cultura umana non poteva nascere prima
che l’oscurità del mito fosse vinta e dissolta. Tuttavia i mostri mitici,
non erano stati annientati per sempre». Per quanto discutibile, la
vittoria di Heidegger sull'umanesimo di un Cassirer diventava irresi­
stibile solo nella misura in cui Heidegger sapeva dimostrare la debo­
lezza effettiva della posizione illuministica. Contro lo pseudoradicali-
smo di Heidegger, le radici illuministiche del XVIII secolo non ri-
sultayano abbastanza profonde. Sennonché prima del XVIII secolo
non era mai esistito un «occidente» ebraico, ma soltanto il medioevo
53

del ghetto. E un ritorno ai greci, là dove gli ebrei lo tentarono, tradì


sempre una certa inconsistenza. Cosi la vera forza rimase celata nella
profondità della loro tradizione: la kabbala.
Attraverso i secoli i cabalisti avevano sviluppato la tecnica dell’in­
terpretazione allegorica (dunque assai prima che Walter Benjamin ri­
scoprisse l’allegoria come una chiave della conoscenza). «Allegoria» è
concetto opposto a quello di «simbolo». Nel mondo delle forme sim­
boliche Cassirer aveva fatto rientrare uattH^t^tenuti^eHnito, della_
filosofia, dell’arte e del linguaggio. Solo nel mondo di questo spirito
oggettivo gli uomini possono vivere e comunicare tra loro. Cassirer
credeva di poter dire con Goethe che nell^forma^simbolicaavviene,
l’inconcepibile: l’ineffabile diventa parola, l’essenza diventa fenome­
no. Ma Benjamin ci ricorda invece che la storia — in tutto ciò che fin
dall’inizio essa contiene di immaturità, dolore ed errore — è esclusa
dall’espressione del simbolo e dall’armonia della forma classica. La
rappresentazione^ella stona universale come stojria del la sofferenza
può soltanto riuscire nella forma dell'allegoria. Nel regno del pensie^
ro, infatti, le allegorie sono ciò che le rovine sono nel regno delle cose.

Il classicismo non era sostanzialmente in grado di percepire illibertà, im­


perfezione e fragilità nella natura bella e sensibile. Tuttavia proprio questa
natura produce, con un’enfasi prima sconosciuta, le allegorie del barocco na­
scoste sotto il suo splendido sfarzo.

Di fronte a uno sguardo educato all’allegoria la filosofia delle for­


me simboliche perdeva la sua innocenza. Questo sguardo rivelava in­
fatti la fragilità della cultura estetico-illuministica che Kant e Goethe
credevano di aver fondato per sempre. Non che Benjamin avesse ri­
nunciato a quella cultura. Tuttavia egli vedeva l’ambi valenza di quei
«valori» e «beni» culturali che proprio gli ebrei celebravano con tan­
ta ingenuità. In realtà, la storia è la marcia trionfale dei vincitori so­
pra coloro che giacciono al suolo.

La preda, come si è sempre fatto, viene trascinata in catene.nella marcia


trionfale; la si designa come l’insieme dei beni culturali 1...1. Non c’è mai
un documento_di cultura che non sia insieme un documento di barbarie. E
come questo non è privo dj_barbarie, così non lo è neppure il processo della
tradizione attraverso cui esso passa da una mano all'altra.
54

Benjamin si tolse la vita nel 1940, quando, dopo una fuga attra­
verso il Sud della Francia, i funzionari di frontiera spagnoli lo minac­
ciarono di consegnarlo alla Gestapo. Le «Tesi di filosofia della storia.»
che ci ha lasciato sono una delle testimonianze più commoventi del­
lo spirito ebraico. In esse la dialettica deH’illuminismo — dominante
nel fragile progresso di una storia non ancora decisa — viene_fissata
nei termini dell’interpretazione alfegorica. La nona tesi suona così:

I C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus novus. Vi è rappresentato un


i angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo
sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispie­
gare. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al
passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede
un’unica catastrofe che ammassa incessantemente macerie su macerie e le
scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ri­
connettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata
nelle sue ali ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufe­
ra lo spinge inarrestabilmente nel futuro cui egli volge le spalle, mentre
cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chia­
miamo il progresso, è questa bufera2.

Ma non è solo Benjamin a rompere il cerchio chiuso di un pensie­


ro ebraico che esce dalla sfera gnoseologica per avventurarsi imme­
diatamente nelle dimensioni della filosofia della storia. Già Simmel —
amico tanto di George e Rilke quanto di Bergson e Rodin — oltre­
passa i confini delle filosofìe accademiche allora dominanti.

Ci sono tre tipi di filosofie. Le prime sentono battere il cuore delle cose; le
seconde solo il cuore dell’uomo; le terze solo il cuore dei concetti. Ce poi
un quarto tipo di filosofia, quella dei professori, che è attenta soltanto al
battere dei repertori bibliografici.

Nel lascito di Simmel troviamo un curioso frammento sull’arte


dell’attore. Esso elabora quell’esperienza tipica degli ebrei assimilati
che spesso conferisce alla loro esistenza privata un tratto di nervosa
dinamica. Hannah Arendt, l’intelligente storiografa dell'antisemiti-
smo, ci racconta come nella Parigi di fine Ottocento fossero proprio i

2 (Cfr. W. Benjamin, Sulamasio di storia, a cura di G. Bonola, M. Ranchetti, Ei­


naudi, Torino 1997, pp. 35-37.)
55

circoli filosemitici quelli che, nell’accogliere gli ebrei coki, si con­


gratulavano con loro per aver cancellato ogni traccia esteriore della
loro origine. Insomma: essi potevano essere ebrei, ma non dovevano
averne l'aspetto.

In questo ambiguo tira e molla, ogni individuo in questione diventava un


attore esperto. Solo che il sipario che avrebbe dovuto interrompere lo spet­
tacolo non veniva mai calato. Queste persone avevano trasformato la loro
esistenza in un ruolo teatrale e così, nemmeno quand’erano sole, sapevano
più chi veramente fossero. Quand’erano in pubblico, scoprivano istintiva­
mente i loro simili. Si riconoscevano automaticamente per l’inusuale mesco­
lanza di orgoglio e paura che caratterizzava ogni loro gesto. Da qui nasceva
anche quel sorriso di complicità esoterica ampiamente commentato da
Proust, sorriso che soltanto di nascosto doveva rivelare quanto già era noto
a tutti i presenti, ossia che in ogni angolo del salotto della contessa tal dei
tali sedeva un ebreo che non doveva riconoscersi come tale e che solo in
virtù di questo infingimento (di per sé irrilevante) egli era arrivato ad occu­
pare quel posto.

Ebrei ch’erario inoltre ritenuti personalmente responsabili della


spietatezza del loro ambiente, nei termini di un «enigmatico e mute­
vole demonismo della maschera», non potevano non essere sensibili
all’aspetto di ruolo dell’esistenza umana in generale. Se io riconduco
a questo nervo scoperto una certa intuizione di Simmel non lo faccio
certo per contestarne la validità. Nel saggio di Simmel sull’arte del­
l’attore leggiamo infatti:

Noi non facciamo soltanto le cose cui ci spingono esteriormente le vicende


della cultura e del destino. Siamo anche costretti a rappresentare qualcosa
che in realtà non siamo [...). Raramente un uomo determina il suo compor­
tamento a partire dalla propria esistenza più autentica. Generalmente noi
vediamo davanti a noi una forma preesistente, che abbiamo riempito con la
nostra condotta individuale. Che una persona esperisca o rappresenti un Al­
tro, predesignato, nei termini del proprio più personale e intimo sviluppo —
sì da non rinunciare semplicemente al proprio essere, ma da riempire piut­
tosto l’Altro con questo stesso essere, convogliandone nelle vene variamente
divise le proprie correnti, e assumendone l’obbligato percorso per dare con­
figurazione particolare al proprio essere interno — questa è la condizione
strutturale dell’arte teatrale E proprio in questo senso siamo tutti, in
qualche misura, degli attori.
56

Anche Helmuth Plessner sviluppa la sua antropologia generale a


partire da un’«antropologia dell’attore». A differenza dell’animale,
l’uomo non vive soltanto al centro della propria vita, ma ne esorbita
continuamentFCpur senza mai potersene staccare). Egli deve conti­
ti uamèhteìelazionarsi a sé e agli altri: se per un verso è lui a metter­
si in scena, per l’altro verso non può prescindere dalle «indicazioni di
regia» prescrittegli dalla società.

In quanto si rapporta con se stesso, l’attore è la persona che sviluppa un ruo­


lo per sé e per gli spettatori. Rispettando questo rapporto, attori e spettato­
ri non fanno altro che ripetere quella «presa di distanza» — da sé e dagli al­
tri - attraverso cui essi quotidianamente si destreggiano .]. Che cosa è,
dopo tutto, la serietà dell’impegno quotidiano se non quel sapersi-vincolato-
a-un-ruolo che tutti vogliono recitare nella società? Certo non si tratta sem­
plicemente di una recita (...) l’onere di progettare il nostro ruolo sociale
viene assunto dalla tradizione in cui nasciamo. Tuttavia, in quanto virtuali
spettatori di noi stessi e del mondo, dobbiamo vedere il mondo anche come
un palcoscenico.

Assumendo l’uomo nella prospettiva di un’inevitabile «recita di


ruolo», l’antropologia si sviluppa immediatamente come una sociolo­
gia. Simmel e Plessner furono infattidei sociologi, in questo non di­
versi da Max Scheler, il vero fondatore dell’antropologia filosofica.
Nei suoi ultimi anni Scheler insegnò filosofia a Francoforte, do­
ve l'università era diventata un importante centro di ricerca sociale
grazie a figure come Franz Oppenheimer, Gottfried Salomon, Cari
Griinberg e Karl Mannheim. Max Horkheimer unì alla sua cattedra
di filosofia la direzione dell’«Istituì fiir Sozialforschung». In questo
ambiente persino un Martin Buber divenne sociologo. La sociologia
tedesca era dominata dallo spirito ebraico fin dai tempi di Ludwig
Gumplowicz. L’esperienza che gli ebrei si facevano della società — co­
me di un qualcosa contro cui non potevano non cozzare — li predi­
sponeva fin dalfinizio allo sguardo sociologico. Anche nelle discipli­
ne affini essi furono ijjrimi a considerare l’oggettojda_un_punto di vi-
sta sociologico. Eugen Ehrlich e Hugo Sinzheimer fondarono la so­
ciologia defdiritto. Ludwig Goldscheid e Herbert Sultan furono i
più importanti sociologi della finanza. La potenza del denaro accen­
deva evidentementeja fantasia di ruttagli studiosi ebrei; e Marx, so­
prattutto nelle sue opere giovanili, ne offre una testimonianza evi-
57

dente. In ciò può aver avuto il suo peso l’ostilità segreta che contrap-
poneva gli ebrei «della cultura» agli ebrei «della finanza». ossia quel
sottile antisemitismo intraebraico contro lo strato sociale rappresen­
tato dai Rothschild. Simrnel, fig FIcTdTcornmercianu^scrisse egli stes-
so^iv^_Filosofìa del denaro. Ma in lui compare anche, accanto agli~Tn-
teressi sociologici, quell’altro tipico interesse ebraico che è rivolto a
^ina «filosofia della natura» misticamente ispirata. Scrisse un giorno
nel suo diario: «Trattare come ‘fine a sé’ non soltanto ogni uomo, ma
anche ogni cosa: solo questo generebbe una etica cosmica».
Qui il nesso mistico di «morale» e «fisica» viene ancora espresso in
una terminologia kantiana. Un amico di Simrnel, Karl Joèl, scrive un
libro intitolato Ursprnng der Naturphilosophie aus dem Geist der Mystik
[Origine della filosofia della natura dallo spirito della mistica]. E negli
anni Venti è David Baumgardt colui che pone riparo all’ingiustizia
nei confronti di Baader, totalmente dimenticato dal positivismo. Co­
sì, con una ricerca intitolata Franz von Baader und die philosophische
Romantik [Franz von Baader e la filosofìa del romanticismo], un autore
ebreo riportava alla luce quella tradizione speculativa sulle «età del
mondo» che, come una vena aurifera, collegava la «filosofia della na­
tura» e Jakob Bóhme agli ambienti del pietismo svevo e al Collegio
teologico di Tubinga (Schelling, Hegel e Holderlin). Ancor prima Ri­
chard Unger aveva individuato, nel contraddittorio rapporto che lega­
va Hammann all’illuminismo, quell’elemento «realistico» della mi­
stica protestante che, con l’assunto di un elemento naturalistico all’in­
terno di Dio, la differenziava dalla mistica spiritualistica medioevale.
Un’eco di questa tradizione la sentiamo ancora negli appunti di fi­
losofìa della natura di Scheler e di Plessner. Pur trattando scientifica­
mente i loro materiali, questi appunti tradiscono un elemento specu­
lativo derivante dalla mistica della natura. La cosmologia di Scheler
ritorna esplicitamente all’idea di un Dio che diviene. Ma ciò di cui ì
tutti questi studiosi ebraici non sembrano accorgersi è quale forza li |
abbia in realtà condotti sulle orme di questa tradizione. Essi hanno di^l
menticato ciò che era generalmente noto alla fine del Seicento e che
viene oggi richiamato da Gerschom Scholem. In quegli anni un di-
scepolo^èlla mistica di Bóhme, Johann Jakob Spaeth, si convertì al­
l’ebraismo essendo rimasto sconvolto dalla concordanza di questa dot­
trina con la teosofìa di Isaak Luria. In senso contrario, pochi anni do­
po, il pastore protestante Friedrich Christoph Oetinger (i cui scritti
58

saranno noti a Hegel e a Schelling non meno che a Baader) andò a tro-
vare nel ghetto di Francoforte lo studiosodi kabbala Koppel Hechtper
essere introdotto alla mìstica ebraica, e si sentii rispondere: «I cristiani
hanno un libro che parla della kabbala in maniera ancor più chiara
dello Zohar». Hecht alludeva con ciò all’opera di Jakob Bòhme.
Era proprio questa la «teologìa» cui pensava Walter Benjamin
quando osservava chejl materialismo storico poteva farcela contro
chiunque a patto di prendere al suo servizio la teologia. Ed è ciò che
noi oggi~véd7amo verificarsi in un autore come Ernst Bloch. Nel me­
dium di una mistica ebraica marxisticamente assimilata, Bloch co-
nìùga'dàlITnterno l'interesse «sociologico» a un interesse «filosofico-
naturalistìco», e lo fa nel quadro di un sistema esplicitamente orien­
tato allo spirito possente deH’idealismo tedesco. Nell’estate del 1918
apparve Lo spìrito dell'utopiay un testo che intendeva correggere il pre­
giudizio economicistico del primo marxismo, considerandolo^ come
una Critica della ragion pura cui avrebbe dovuto seguire una Critica
della ragion pratica.

Nel marxismo il dato economico viene superato, ma ancora non si vede l’ani­
ma, la fede che dovrebbe prenderne il posto. Uno sguardo intelligente e atti­
vo distrugge qui tutto, e molte cose senza dubbio meritavano di andare di­
strutte [..Viene anche giustamente criticato quel socialismo arcadico, uto­
pisticamente razionalistico, che a partire dal rinascimento riemerge talora
come forma secolarizzata del regno millenario, in realtà svelandosi semplice­
mente come una maschera, come un’ideologia funzionale al realismo dei con­
flitti sociali ed economici. Questa critica non è tuttavia in grado né di affer­
rare l’impulso utopico di questi fenomeni, né di coglierne e apprezzarne le
immagini di desiderio, né tantomeno di eliminare il bisogno primario del­
l’uomo — fatto valere dalla religione — di realizzarsi in maniera divina, di in­
stallarsi finalmente in maniera chiliastica nella bontà, libertà e luce del telos.

Nella mistica di Luria trova sviluppo l'idea che l’universo nasca


da un processo di restringimento e di contrazione. Dio si sprofonda e__
subisce, per così dire, un esilio al proprio interno. Trova così spiega­
zione sia l’originaria impenetrabilità e forza della materia, sia la posi­
tività del male, che non è più possibile ricondurre semplicemente al­
la messa in ombra del bene. D'altro canto, anche questo fondamento
oscuro resta pur sempre una natura in Dio, una natura di Dio, dun­
que una potenza divina operante come anima del mondo o «natura
59

nacurans». A queste profondità giungej’idea posta da Bloch a fonda­


mento del suo materialismospeculatjyo. La materia ha bisogno di re­
denzione? Ihfattra_partire da quellajratastrofe teologica che lo Zohar
descrive con fimmagine della «rottura dei recipienti», tutte.Le.cose_
portano dentro di sé una fratiuradesse esprimono se stesse,xom.e_d.ice.
Bloch, solo nella forma parziale di un «estratto». Sennonché, proprio
quando il processo di ristabilimento sta per essere compiuto, la colpa
di Adamo fa nuovamente precipitare il mondo ricacciando Dio nel-
T’esilio. Adesso questa^nuova età del mondo — assieme al vecchio
obiettivo di redimere non soltanto umanità e natura, ma lo stesso
Dio detronizzato — viene rimessa alla responsabilità deH’uomo. La
mistica diventa una «magia delfinteriorità», in quanto ora è la realtà
esteriore a dipendere da quella interiore^ Un vecchio detto dello
Zohar garantisce la salvezza quand’anche una sola comunità sapesse
fare compiutamente penitenza. La preghiera diventa manipolazione
attiva, direttamente operante sul piano.della filosofi a. della storia.
In Bloch questa prassi religiosa diventa una prassi politica. Il ca­
pitolo «Marx, morte e apocalisse» porta ancora per sottotitolo: «Sul­
le vie mondane attraverso cui ciò che è interno può diventare ester­
no». Qui troviamo il passo seguente:

Fin dall’inizio la materia ha rappresentato un enigma non soltanto agli oc­


chi del soggetto conoscente, ma anche in se stessa. La materia è la casa crol­
lata in cui l’uomo non è entrato. La natura è un cumulo rovinoso di vita in­
gannata, morta, confusa [...]. Solo l'uomo buono, saggio, che non ha getta­
to via le chiavi, può annunciare l’alba in questa notte della desolazione.
Purché coloro che sono rimasti impuri non lo indeboliscano, purché le sue
invocazioni al messia siano sufficientemente ispirate per stimolare le mani
salvifiche, per garantire la grazia dell’ottenimento, per risvegliare in Dio le
forze necessarie a noi e a Lui stesso, le forze ispiratrici e misericordiose del
regno sabbatico, insomma per assimilare e convertire in vittoria il fuoco
crudo, satanico e soffocante dell’apocalisse.

Più tardi Bloch spiegherà in termini filosofici questa visione gio­


vanile nelle cinque parti dell’opera Das Prinzip Hoffnung III principio
speranza] (anche se questa visione resterà ineguagliata per il senso
complessivo da essa attribuito alla storia dello spirito). Bloch ritrova
lo Schelling delle «epoche del mondo» dentro il Marx dei Manoscritti
del ’44.
60

La ricchezza dell’uomo, così come quella della natura in generale [...] la ve­
ra e propria «genesi», si colloca non all'inizio ma alla fine. Essa comincia a
nascere solo quando società ed esistenza si fanno radicali, cioè si afferrano a
partire dalle radici. Ma la radice della storia è l'uomo che lavora, crea, pla­
sma e supera le cose esistenti. Una volta che l'uomo abbia afferrato se stes­
so - disalienando l'essere e fondandolo in una democrazia reale - ecco na­
scere nel mondo qualcosa che a tutti appare durante l’infanzia ma che nes­
suno ha ancora veramente ritrovato: la patria \Hàmat\.

\i Dal momento che Bloch risale a Schelling, e dal momento che


Schelling fa rivivere — a partire dallo spirito del romanticismo —
l’eredità della kabbala nella filosofia protestante dell'idealismo tede­
sco, si può tranquillamente affermare (nella misura in cui queste
categorie hanno un senso) che gli elementi ebraici della filosofia di
Bloch coincidono con quelli più autenticamente tedeschi. Dunque es-
si falsificano a priori ogni tentativo di promuovere contrapposizioni
in questo campo.
Come Bloch assimila l'idealismo tedesco a partire da Schelling,
così Plessner lo fa a partire da Fichte. Tutti e due cercano di verifica­
re nello stato attuale delle scienze empiriche le anticipazioni^eoriche
dell idealismo. Analogamente sono stati studiosi ebrei, amici di Wal-
ter Benjamin, quelli che hanno pensato fmojn fondo la diale.tticajìe-
geliana dell’illummìsrno7puntando sul farro che il suo perdurante
inizio apre lo sguardo su esiti ancora inconclusi. Theodor W. Adorno,
Max Horkheimer e Herbert Marcuse furono in questo preceduti dal.
giovane Georg Lukàcs.

Dove comincia l'autentico filosofare, lì termina il semplice reso­


conto, e solo per un resoconto io mi ero impegnato3. Avevo esitato
nellaffrontarlo: temevo che, al di là delle generose intenzioni, questa
impresa potesse ancora una volta attaccare il contrassegno della stella
ebraica su tutti coloro che già erano stati cacciati o uccisi. Avevamo
quindici o sedici anni quando noi, sedendo davanti agli apparecchi

3 Avevo scritto questo lavoro per una serie di trasmissioni del «Norddeutsche
Rundfunk- dedicata ai personaggi della storia culturale ebraico-tedesca. Thilo
Koch, l’ideatore del programma, aveva anche pregato tutti i partecipanti di conclu­
dere il loro contributo evocando le esperienze da essi provate durante l'elaborazione
del tema.
61

radio, sentimmo parlare per la prima volta di ciò che si era discusso
al tribunale di Norimberga. Il vedere poi che altri, invece di ammu­
tolire davanti alle atrocità, cominciavano a contestare legittimità,
procedure e competenze del tribunale, ci fece provare quel primo
strappo che è tuttora lungi dall’essersi chiuso. Certo fu solo merito
della nostra età sensibile e facilmente vulnerabile se allora non ci
chiudemmo a riccio — come la maggior parte dei nostri compagni
più anziani — di fronte alla realtà di una disumanità collettivamente
perpetrata. Per lo stesso motivo, la cosiddetta questione ebraica restò
per me un passato molto presente e tuttavia~mai qualcosa di imme-
diatamente attualeTProvai sempre una certa riluttanza contro la ten-
denza a distinguere tra loro (fosse pure in termini semplicemente no-
mìhàllsticiyebrei“enon ebrei, origine ebraica enon ebraica. Ne è pro-
va il fatto che, dopo anni di studi filosofici e fino al momento in cui
intrapresi questo lavoro, per almeno la metà degli studiosi prima ci­
tati io ero debutto all oscuro della lonTestTazióne. Oggi non ritengo
più adeguata questa mia ingenuità.
Nemmeno venticinque anni fa il costituzionalista tedesco più in­
telligente e significativo — dunque non un nazista qualunque, ma
proprio Cari Schmitt in persona — potè inaugurare una conferenza
scientifica con queste incredibili parole:

Dobbiamo liberare lo spiritptedesco da tutte le falsificazioni ebraiche, da

ebrei a denunciare come qualcosa di non spirituale la grandiosa lotta del


gauleiter Julius Streicher.

Io spero che si sappia chi fu in realtà Julius_StreicherL A quel­


l’epoca FIugcTSinzhéimer, dal suo esilio olandese, rispose con un libro
sugli autori di origine ebraica che avevano dato lustro alla scienza
giuridica tedesca. Nella conclusione di questo libro, Sinzheimer si ri­
volge esplicitamente a questo medesimo Cari Schmitt:

Se si considera l’iniziale attività sciencifìcajJegli ebrei all’epoca della loro


emanapàzìone, si vede che non si tratcòjiffaupdf una_influenza dello spiri-
to ebraico sul lavoro scientifico tedesco].. .1. Alla vita spirituale tedesca non
Tocca ronól orse mai trionfi più grandi di quelli che caratterizzarono l’epoca
in cui le porte del ghetto si aprirono e consentirono alle forze spirituali del-
l’ebreo, da lungo tempo represse, di unirsi a ciò che era allora il vertice del-
62

la cultura tedesca. Il terreno su cui poggia l'influenza ebraica è senz’altro


_J*pi tedesco.

Ricordare ancora una volta questa verità - e dimostrarla ripercor­


rendo il destino della filosofia ebraica - non è certo cosa dappoco. E
tuttavia questa verità resta sempre inquadrata nei termini dettati dal
nemico, laddove lo stesso problema dell'antisemitismo appare nel
frattempo superato in quanto noi l'abbiamo superato tramite stermi­
nio fisico. Perciò nelle nostre riflessioni non sono più in ballo la vita o
la sopravvivenza degli ebrei, né il privilegiamento dTcerte influenze
culturali sopra le altre. Ora siamo noi stessi a essere messi diretta-
mente in questione. Intendo dire che l’eredità ebraica assimilata allo
spi ri tojed esco è diventata indispensabile alla nostra vita e alla nostra
sopravvivenza. Nello stesso istante in cui filosofi e scienziati tedeschi
cominciarono a jrolerla «sradicare» venne anche in luce l'ambivalenza
profonda che paurosamente offuscavacome un pericolo di barbarie
per tutti - infondo dello spirito tedesco. Ernst Jiinger, Martin Hei-
degger e Cari Schmitt furono i rappresentanti di questo spirito in tut­
ta la sua grandezza ma anche in tutta la sua pericolosità. Che essi ab­
biano potuto esprimersi come abbiamo visto nel 1930, 1933 e 1936
non fu certamente un caso. E che questa verità non sia stata compresa
nemmeno un quarto di secolo più tardi è ciò che davvero dimostra
J’urgenza di un pensiero sondante... Questo pensiero deve fare tut-
t’uno con la fatalità dello spirito tedesco e tuttavia deve potersi con­
frontare con esso per ammonirlo severamente come un oracolo: lo spi­
rito tedesco non dovrà più passare il Rubicone una seconda volta.^Se
anche non fosse mai esistita una tradizione ebraico-tedesca, noi do-
vremm£oggi inventarne una perjl nostro bene. Ma questa tradizione
è effettivamente esistita. E siccome ne abbiamo ucciso o spezzato i vi­
venti rappresentanti, e siccome è sorto un clima d'irresponsabile di­
sponibilità a lasciare che tutto venga perdonato o dimenticato (sì che
si realizzi ancor meglio ciò cui mirava l'antisemitismo), ecco che noi te­
deschi ci ritroviamo oggi paradossalmente costretti dalla storia a occu­
parci ancora una volta, pur non avendo ebrei, della questione ebraica.
L'idealismo tedesco degli ebrei produce il lievito dell’utopia criti­
ca. Le sue intenziónTnorTRanno trovato nessuna espressione più bel­
la, dignitosa e precisa di quella che troviamo nell'ultimo aforisma
kafkiano dei Minima moralia di Adorno:

La filosofìa, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è
il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebberojJal punto di
vistifdella redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che
emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostru-
zione a posteriori e^fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in
cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come
apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica. Ottene­
re queste prospettive senza arbitrio e violenza, dal semplice contatto con gli
oggetti, questo, e soltanto questore il compito del pensiero. E la cosa più
semplice di tutte, poiché lo stato attuale invoca irresistibilmentej]uesta co-
jioscenza f. drMa è ancheTàssolutamente impossibile, perché presuppone
un punto di vista sottratto, sia pure di un soffio, al cerchio magico dell'esi­
stenza, mentre ogni possibile conoscenza, non soltanto dev’essere prima
strappata a ciò che è per riuscire vincolante, ma, appunto per ciò, è colpita
dalla stessa deformazione e manchevolezza a cui si propone di sfuggire4.

4 Th.W. Adorno, Minima moralia, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1951 (tr. it. Mini­
ma moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994, p. 304).
II

MARTIN HEIDEGGER
A PROPOSITO DELLA PUBBLICAZIONE
DI UNA «VORLESUNG» DEL 1935* (1953)'

Del filosofo Martin Heidegger ci interessa qui non la statura filo­


sofica ma il carisma politico, non la sua influenza entro la corporazio­
ne scientifica bensì quella sul processo formativo di studenti sensibi­
li e capaci di entusiasmo. La genialità è sempre ambigua, e forse ha
ragione Hegel quando dice che gli attori della storia universale non
vanno valutati con criteri morali. Ma quando l’ambiguità consente, o
alimenta, un’interpretazione della genialità che ha effetti distruttivi
sul piano politico, allora la vigilanza.della^p.ubblica critica ha tutte le
ragioni di attivarsi. Naturalmente questa critica non deve contestare
quanto le è apriori sottratto, cioè la sfera delle decisioni esistenziali
strettamente private. Essa deve soltanto chiarire le condizioni che
hanno prodotto disturbi pubblici, condizioni che vanno cambiate af­
finché questi disturbi non si ripetano in futuro. Da diverse parti, do­
po il 1945, è stato sollevato il problema del fascismo di Heidegger.
La discussione ruota spesso sul «Discorso di rettorato» del 1933l,
dove Heidegger celebra il «rovesciamento del Dasein tedesco». Giu­
stificare in questa maniera la critica significa semplificare le cose. Fa
riflettere tuttavia il fatto che l’autore di Sein ittici Zeit (l’evento filoso­
fico più significativo dopo la Fenomenologici di Hegel), vale a dire un
pensatore di questo livello, possa essere caduto a un livello tanto ma­
nifestamente primitivo qual è quello dimostrato dalla nervosa man-

* M. Heidegger, Einfiihrung in die Metaphysik, Tùbingen 1953 (tr. ir. Introduzio­


ne alla metafisica, 1968, presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 1990].
Pubblicato con il titolo Al/r Heidegger gegen Heidegger dtnken in «Frankfurter
Allgemeine Zeicung», 25 luglio 1953.
1 (Raccolto in M. Heidegger, Scritti politici (1933-1966), a cura di F. Fédier,
G. Zaccaria, Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 129-142.1
66

canza di stile caratterizzante il proclama sull’autoaffermazione del­


l’università tedesca.
Il problema di un’ipotetica «intellighenzia fascista» diventa anco­
ra più intricato se si pensa al fatto che solo la mediocrità della élite
politica di governo (totalmente incapace di recepire le offerte degli
intellettuali) impedì in realtà il formarsi di una vera intellighenzia
fascista. Di pensatori dalle motivazioni e dalla mentalità fascista ce
n’erano a bizzeffe. Fare oggi dei nomi creerebbe solo malintesi. Ma
erano forze presenti, e l’idiozia dei funzionari politici le spinse tutte
all’opposizione. Tanto che il movimento nazista restò privo dei tito­
lari del retaggio culturale e potè dare l’impressione di derivare come
un relitto dalle correnti generali del secolo, di non avere radici, di
innestarsi solo estrinsecamente sul tronco delle tradizioni tedesche.
Naturalmente il nazismo non può essere visto come una conseguen­
za ineluttabile della tradizione tedesca. Ma non per questo vanno re­
spinti i tentativi — come quelli compiuti da Thomas Mann nel Dok-
torFaustus — di esplorare il radicamento delle motivazioni fasciste ne­
gli strati interni della storia tedesca e di portare alla luce le disposi­
zioni che furono successivamente in grado, in un’epoca di decadenza,
di generare il fascismo. Da questo punto di vista il problema dell’in­
tellighenzia fascista si presenta come il problema di una preistoria
del fascismo.
! A partire dal 1945 la situazione tedesca è contrassegnata dalla
• continua elusione di questo problema. Come ennesima riprova sia
• della legittimità del problema sia della generale tendenza a eluderlo
• possiamo ora addurre un significativo evento letterario: Heidegger
i ha dato alle stampe le sue lezioni del 1935 sotto il titolo Einfiihrung
inylie^Mjiapbysik- La prefazione avverte che le aggiunte, contrassegna­
te da parentesi tonde, risalgono allo stesso anno. A pagina 152 Hei-
deggerjgarla del nazionalsocialismo, «della verità e grandezza di que-
sto movimento, (vale a dire dell’incontro della tecnica planetaria con
1’uomo moderno)» [tr. it. cit., p. 203]. Queste frasi vengono pubbli-
cate soltanto oggi, nel 1953, e_— non essendo corredate da nessuna
nota esplicativa — dovrebbero riflettere anche oggi, senza modifiche,
la concezione sostenuta da Heidegger.
Sarebbe ozioso citare questo passo sulla «verità e grandezza» del
nazionalsocialismo se esso non risultasse intimamente collegato al
contesto della «Vorlesung». Heidegger pone espressamente in rap-
67

porto la questione delle questioni, la questione sull’essere, con il mo­


vi mento storico di quej giorni^
Com’è_notoJ.il presente si pone per Heidegger sotto il segno della
Seìnsvergessenheìt [dimenticanza_dell’essere]. I popoli hanno certo rap-
porto, nelle loro particolari vicende e creazioni, con le cose più diver­
ge, tuttavia essi sono, ormai-da_tempoxa_du.ti.fuori dell’essere stesso.
Perciò noi siamo - metafisicamente parlando - dei «vacillanti.». Que­
sto «vacillare» [tatnneln\ si rivela_concretamente nelle manifestazioni
della tecnica, anche se questa tecnica non si trova sviluppata dapper-
tutto allo stesso modo. L’Europa si trova come ristrettajdalle tenaglie
della Russia e dell’America, paesi che sono sostanzialmente la stessa
cosa. «La stessa furia senza conforto della tecnica scatenata e della
infondata organizzazione dell’uomo normale», per il quale il tempo
significa soltanto più fretta. Da entrambi i lati scende sull’Europa '
l’ombra del mondo, la maledizione degli dei, la distruzione della ter­
ra, la massificazione dell’uomo e l’odio, il sospetto contro tutto ciò i
che è creativo e libero. Perciò il destino della terra si deciderà in Eu- •
ropa, più precisamente neTcuore del popolo che ne occupa il centro e
che sperimentaJa «pressione più dolorosa della tenaglia»: «Il popolo
che, essendo il più a contatto con gli altri, si espone anche al rischio
maggiore, e che rappresenta insomma il popolo metafisico». Ma da
questa vocazione esso potrà trarre un grande destino solo se saprà ap­
propriarsi creativamente della tradizione. Cerchiamo di capire: nella
situazione politica del 1935, che delinea un doppio fronte tedesco
contro l’Est e l’Ovest, Heidegger vedej_l_rifle sso.di una situazione re-
lativa alla «storia dell’essere»: una situazione.che si staya^ preparando
da duemila anni e che oggi prescrive al popolo tedesco una missione,
storico-mondiale. Se vogliamo capire Bene la fisionomia di questa le-
zione, e quindi la forza escatologica che ne promana^jJobbiamo affer-
rare la dialettica che muove la causa per cui Heidegger fa appello_agli
uditori del_1935 e ai lettori del 1953.. Heidegger invoca l’esistenza
eroica contro l’insipida decadenza .dell’uomo medio. La peculiare to-
nalità di questo postulato si lascia chiarire^dopo sole tre pagine.

In primo luogo abbiamo la forza, come elemento che contrappone


findividiip aristocratico ai molti mediocri. Scegliendo la gloria, il no­
bile viene detto dal rango e dal potere appartenenti all’essere stesso,
laddove i molti — che secondo una citazione di Eraclito ricordata da
68

Heidegger sono sempre sazi come il bestiame — i molti sono come «j


cani e gli asini». Ciò che ha qualità è sempre l’elemento più forte; per
questo motivo l'essere si sottrae a chi cerca soltanto equilibrio, disten­
sione e tranquillità? «Il vero non è per tutti, ma solo per l’individuo
forte». In secondo luogo abbiamo lo spirito, come elemento che dlSUD-^
gue il vero «pensatore» dal semplice «intellettuale». Iljzalcolo razio­
nale si orienta agli oggetti e li rende disponibili. Di fronte al suo ap­
proccio livellatore tutte le cose scadono allo stesso livello: estensione e
quantità diventano le dimensioni decisive. «Potere» non significa
più^ per questo pensiero, una dissipazione-mossa da superiore abbon­
danza, bensì l’affaticato esercizio di una routine. Questo pensiero, ob­
bediente alle leggi della logica tradizionale, non può capire (né tanto
meno sviluppare) la «domanda sull’essere», in quanto questa logica
presuppone una risposta alla domanda sull’ente che nasconde in via
pregiudiziale l'essere Così gli studenti devpaojmparare che riflessa­
ne, calcolo e ponderazione degli oggetti esistenti sono solo questione
di rnenfattitudine, esercizio, dotazione diffusa. «Intelligenza» e «spi­
rito» vengonoj-nn.rrappa$»i-in ba^e ad attributi come superficiale e
profondo, vuoine pregnante, gratuitoe vincolante, giocoso e serio.
Anche se, a questo punto, dobbiamo ammettere che Heidegger ha
sempre difeso lo spirito da ogni scivolamento nell’entusiasmo arbitra­
rio [Schu armerei]. Solo l’intelligenza, non lo spirito, deve assoggettarsi
(rispettando la politica dell’eugenetica razziale) alla sana abilità fisica
e al carattere, in quanto la degenerazione del pensiero in mera intelli-
^enzaj^superabile solo attraverso il pensiero originario. Infine sarà il
coraggioj\ tgrzp_elemento cug tocca integrare la forza e lo spirito, un

coraggio ambiguo che non si lascia intimidire né dalla violenza né
I 111 — » - - —,

J dallerrgi^ Apparenza, inganno, il fusione e devianza sono potenze che


vengono «fatte avvenire» dall’essere stesso, solo che l’intelletto quoti­
diano non percepisce più la loro forza numinosa e le svaluta a sempli-
ì ce errore. L’uomo coraggioso ripercorre l’inizio della nostra esistenza
spirituale (cominciamento già vissuto nella grecità preplatonicaPH?-
cendo di sì a tutto ciò che in ogm vero cominciamento è estraneo,
oscuro, incerto. Infine l’individuo eroico sviluppa tutta la sua natura
come «colui che osa»._Egli è l'uomo violento [Geiualttdtige], un crea­
tore che s’impone all’essere esorcizzando il non detto nel suodiscorso,
il non visto nel suo sguardo, il non avvenuto nella sua azione. Laddo­
ve «violenza» non vuole mai dire banalità del puro~arBrtfÌó. Per con-
69

uo^ il pauroso è chi mira all’accordo, al compromesso, al reciproco


vantaggio, e che di conseguenza vede la violenza solo in termini di
«disturbo» alla propria esistenza- «Perciò l’uomo violento non cono­
sce bontTe^ pacificazione (nel senso usuale), non conosce sollievo e ri­
storo tramite successo e validità». Egli disprezza come apparenza ogni
immagine di compimento armonioso. L’uomo violento con£iap.pQQ£_al
disbrigo ordinario delle faccende un progetto pensante, un fare fidu­
cioso., urp agire politicamente creativo. L’uomo violento è il più eccgl-
lente, il più solitario^colui che alla fine non ha più vie di uscita, colui
che volendo l’inaudito sprezza ogni soccorso. A lui il non-esserci vale
da vittoria suprema sull’essere, a lui l’esistenza si chiude tragicamen-
te «con il sì più profondo e ampio nei confronti del fallimento».
Alla «Vorlesung» di Heidegger noi chiediamo di dirci chiara­
mente a che cosa si appella, a che cosa ci invita, contro che cosa si
schiera. Ed è facile vedere come Heidegger — proiettando sulle espe­
rienze spirituali di Hòlderlin e di Nietzsche il pathos eccessivo degli
anni Venti, nonché la smisurata coscienza di una missione personale
e nazionale — giochi l’uomo eletto e forte contro il «bourgeois», il
pensiero deH’origine contro il «common sense», il rischio mortale
Hélla situazione straordinaria contro la normalità di ciò che è garanti­
to. E come, nel farlo, egli esalti sistematicamente il primo termine
screditando il secondo. E anche superfluo aggiungere come questo
autore non possa non _ap.parÀ.r.e, nelle condizioni del nostro secolo,
ag i tatqree_propagand is ta id eolpg icq e, nel le condì z ioni esal tate del
1935, addirittura profeta.
Il nostro modo di valutare è sicuramente non-oggettivo, nel senso
che invece di riferirsi al contesto oggettivo prende di mira la fisiono­
mia della «Vorlesung». Esso è però legittimo nella misura in cui ri­
guarda l’atteggiamento politico di un’azione che intende formare la
volontà. La fisionomia dell’enunciato modifica direttamente, le situa-
zioni: essa è il focolaio del contagio. Lo stile infatti «atteggiamento
vissuto»; eterna matrice di motivi esistenziali, di scintille generanti
com portamenti-spontanei, di forza infiajxuztariteJ/appello. E caratte­
ristico della consapevolezza storica della filosofia di Heidegger il fat­
to che, laddove le strutture_di senso rimangono stabili attraversoJ
decenni del suo sviluppo spirituale, l’appello possa invece mutare ra­
dialmente Non è qui nostro~compito mostrare Ià"continuità delie
categorie che stanno alla base sia di Essere e tempo sia della Lettera sul-
70

l'umanismo. Per contro risulta evidente a tutti come la natura del­


l’appello si sia nel frattempo modificata. Così oggjLsentiamo Heideg­
ger parlare di custodia, rammemorazione, attenzione, omaggio, amo-
re, interrogazione e dedizione, in tutti i luoghi_in_cui nel 1935 egli
avrebbe invocato Inazione violenta» \Geivalttat\ ^ancora otto anni
prima avrebbe lodato una «decisione» che — di natura privata, esi­
stenziale e quasi religiosa — veniva intesa come autonomia finita nel
nulla di un mondo abbandonato dagli dei. L’appello ha assunto per
almeno duevolte la.tjnta dell’epoca, in rappojrtoalla_si,tuazione_pQlL
tìcaTmentre ciò che non ha mai subito variazione è la figura concet-
tuaTe della pr.eiesa.di autenticità (con relativa polemica contro la de­
cadenza). La «Vorlesung» del 1935 tradisce impietosamente la tonali­
tà fascista di quegli anni. Ma non si tratta solo di motivazioni estrin­
seche: ci sono anche ragioni derivanti dalla cosa stessa.

Secondo la concezione heideggeriana della «storia dell’essere», la


filosofia occidentale si sviluppa da Platonefino a Nietzsche come di-
menticanza progressiva dell’essere. Essa è segnata da tre grandi, crisi,
"cTfìansìzìoni: Hai pensiero presocratico al pensiero platonico-aristote-
lico, dal pensiero greco a jqugllo romano-cristiano, ejnfìne dal pen­
siero medioevale a quello moderno. Heidegger interroga in manie­
ra radicale e mette in luce uno strato originario: il contesto scoperto
è affascinante, e tuttavia la concezione resta nel suo complesso unila­
terale. Questa unilateralità risale a una doppia mancanza. In primo
luogo Heidegger non si accorge che la sua problematica non è affat­
to originale, ma deriva dal contesto tipicamente tedesco di.un pen­
siero che — attraverso Schelling, Hòlderlin.ed Hegel — risale fino_a
Bohme. In secondo luogo egli vorrebbe, di questa problematica, met-
tere alla, fine tra parentesi le origini teologiche, dimenticando il fatto
che, in Sebi und Zeit, l’esistenza storica enuclea l’ambito di esperien-
ze tipicamente cristiane che, attraverso Kierkegaard, risalgono fino a
Sant Agostino. Nel nostro contesto dobbiamo osservare come la ri­
mozione di questi due fatti elimini in Heidegger due importanti
istanze di controllo. Se il cristianesimo — con la sua consolidata pro­
spettiva dei «due mondi» — s’inserisce come una semplice tappa del
processodegenerar ivo dell’occidente, allora va completamente persa
1 idea, (che ancora per Hegel era fondamentale) dell’eguaghariZiLdi
tuttLd.i Jxoote-gJPio e della libertà di ciascuno. Questa idea non for-
71

ni se e più nessun effettivo contrappeso né, sul piano dell’egualitari­


smo individualistico, al privilegio naturalistico del più forte né, sul
piano cosmopolitico, all’idea di un’elezione storica del popolo tede-
sco. Se poi, in secondo luogo, non ci si rende conto che a partire da
Cartesio, accanto alla linea del pensiero calcolistico e oggettivante,
corre anche una seconda linea di pensiero capace di interrogare e di
comprendere il senso, allora viene cancellata ogni plasticità dialettica
dello sviluppo moderno (una dialettica che dà legittimità creativa al
primo pensiero, controllante e oggettivante, impedendone un’affret­
tata identificazione con l’opinione media comune). Dunque in questo
senso viene a mancare il correttivo della razionalità pratica. Questa
esaltazione di affetti anticristiani e antioccidentali sarebbe bastata da
sofà a favorire la psicosi dì un irrazionalismo non direttamente volu-
to da~Heidegger. Ma in più si aggiunse_EilLu$ione elementare in cui
cadde lo stesso Heidegger quando espose le idee che avrebbero dovu-
to portare aH’incontro di «tecnica planetaria» e «uomo moderno».
Heidegger sviluppava queste idee nel 1935, ossia in una situazione
dominata proprio da questa tecnica.planetaria. Il che doveva necessa­
riamente fare fraintendere, nelle false modalità delfadempimencp, la
sua intenzione di «superare» la vita tecnicizzata. Questo appello di
Heidegger agli studenti sembrò effettivamente coincidere con quan-
to veniva loro richiesto, qualche anno dopo, nella loro veste.dijiffi-
ciali. Né ài carattere apparente di questa coincidenza toglie qualcosa
il fatto che ne restasse per anni vittima lo stesso Heidegger, il diret­
to responsabile. Con tutto ciò non possiamo non porci due domande
conclusive. Primo: donde deriva quella (per quanto solo apparente) J
coincidenza? Forse che il fascismo ha in comune con la storia tedesca
più elementi di quanto non si voglia generalmente riconoscere? Se­
co nelo: perché Heidegger pubblica oggi, nel 1953, questa «Vorle-
sung» senza apportarvi nessun taglio qness.una riserva? In realtà, ciò
sembra esserecoerente non tanto con L’acteggiamenco esplicitamente
richiesto da Heidegger — di interrogare sempre di nuovo il passato
coinè se esso ci stesse ancora di fronte — quanto j>i ut tosto con l 'atteg-
giamento di chi è ancora impigliato nella_ripeiizione_tleLpassaX2.
fnoltre, ciò sembra anche tradire Timpostazione di chi vorrebbe,,al
posto di una chiarificazione morale, una giustificazione in termini di
«storia dell’essere» non soltanto del proprio.eirO££.p£.rsonale, n~\a an-
che dell’«errore» della direzione nazionalsocialista.
72

Di fronte alla constatazione che ci sono oggi di nuovo studenti


esposti al rischio di fraintendere quella «Vorlesung», noi abbiamo
sentito il bisogno di scrivere questo saggio (che corre a sua volta il ri­
schio di essere frainteso). Esso vorrebbe soltanto sollevare una doman­
da: forse che anche la pianificata eliminazione di milioni .di uomini
(eliminazione di cui sono oggi_tucùjnformatij è spiegabile ricorrendo
a una fatale «erranza» del la.storia dell'essere? Non è essa invece il cri-
mine reale di coloro che responsabilmente la misero in atto_,_nonché la
cattiva coscienza di un intero popolo? Non abbiamo già avuto ben ot-
toanni di tempo, dopo di allora, per affrontare il rischioso confronto
con ciò che è accaduto, con ciò che noi siamo stati? Non è forse com­
pito specifico degli uomini di pensiero quello di chiarire le azioni re­
sponsabili del passato e di tenerne desta la memoria? — Invece vedia­
mo che la massa della popolazione continua ad affaccendarsi nella ria­
bilitazione generale, con in testa i responsabili di ieri e di oggi. Inve­
ce vediamo che Heidegger dà alle stampe parole vecchie di di ci otto
anni su «grandezza e interna verità» del nazionalsocia 1 ismo, parole
cKe sono diventate ormai troppo vecchie e la cui comprensione non
può più starci dinanzi come un compito. Sembra venuto il tempo di
cominciare a pensare con Heidegger contro Heidegger.
Ili

ARNOLD GEHLEN 1
LA CRISI DELLE ISTITUZIONI (1956)*

Questo libro1 offre una filosofia delle istituzioni. Le sue due sezio­
ni principali seguono il filo del comportamento pratico-razionale e
del comportamento rappresentativo-rituale. Queste sono infatti le
due radici da cui nasce l’istituzione. L’ultima sezione, da cui il letto­
re si sarebbe atteso una composizione sistematica dei temi sollevati
in precedenza, offre in realtà una sorta di disposizione ulteriore. Essa
si chiude con la prospettiva secondo cui un’eventuale pace perpetua —
facendo gravare sulle spalle del singolo individuo «uno smisurato pe­
so morale» nonché «una nuova e finora inimmaginabile forma di
profonda illibertà» — devierebbe le tensioni accumulate in una radi-
calizzazione dei conflitti ideologici.
Sedici anni fa, in un suo libro meritatamente famoso2, Arnold
Gehlen aveva già definito l’uomo come un essere legato all’istinto,
dotato di un eccesso pulsionale e aperto al mondo. Ora la domanda
da cui Gehlen muove è: come può un essere_così definito stabilizzare
la sua esistenza? Come può l’uomo venire a capo della seducente pla-
sticità delle sue azjpnj,Infinitamente vìirìabìlf, così come dell’anar­
chia delle sue.jdjffuse energie pulsionali? L’antropologia dj Gehlen
mira a una meccanica della sopravvivenza nel quadro di una situazio-
ne «biologicamente disperata»^ L’uomo impara ad << agire»_ per com­
pensare le mancanze della sua dotazione naturale. Così peròjsii salva
solo per un istante. Un essere che non può pi ^contare sulle indica-

* Pubblicato in «Frankfurter Allgemeine Zeicung», 7 aprile 1956.


1 A. Gehlen, Urmensch und Spàtkultur, Bonn 1958 [tr. it. Le origini dell'uomo e la
tarda cultura. Il Saggiatore, Milano 19941.
2 Id., Der Mensch (1940) (tr. it. L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Fel­
trinelli, Milano 1983).
74

zioni sicure dei propri istinti ha bisogno di garanzie stabili. Ha_bjso-


gnÒTJFun «surrogato» per il rapporto che è andato perduto tra istig-
to e meccanismo scatenante, dunque di una «seconda natura» che si
■') staEilizzFsul 'livello dell'apprendimento comportamentale. E proprio
| a ciò provvede l’istituzionalizzazione dell'agire, sollevandoci dal pe-
I so di dover continuamente rinnovare e improvvisare motivazioni e
| orientamenti. Così anche l’istituzione diventa deducibile nel quadro
del modello di Gehlen. Anche se, in realtà, «deducibile» significa
soltanto ch'essa è necessaria alla soprawi ve nza~cli un essere che è per
natura debole o ad dirittura incapace di vivere
Le categorie «antropologiche» scoperte da Gehlen sono pertanto
qualcosa che l'uomo stesso ha prodotto, ancorché non in maniera in­
tenzionale. Ciò non vale per le categorie della natura. Si tratta di una
distinzione che già Vico aveva evidenziato con importanti riflessioni
gnoseologiche. Non altrettanto fa Gehlen. Analogamente a Hart­
mann nella sua analisi categoriale, anche Gehlen reclama per il suo
metodo l’irriflesso atteggiamento all'oggetto che è tipico delle scien­
ze empiriche, cioè la «intentio recta». Ciò dà alla sua filosofia il
pathos della ricerca empirica. Questo pathos tuttavia viene pagato al
prezzo di una certa ingenuità gnoseologica, evidente per esempio nel­
la violenta polemica contro la metodologia del «comprendere», inter­
pretare e decifrare testi e opere, metodologia che è propria delle scien­
ze dello spirito. È curioso osservare come Gehlen contesti la «com­
prensibilità» in generale delle opere e dei comportamenti cu 1 turali
proprio richiamandosi allo smasch e ra m e n to e alla relativizzazione
delle nostre certezze compiutidall'ermeneutica. Egli vuole invece ela-
borare le categorie comportamentali prescindendo dalla possibilità di
riempirne il contenuto «daH’internD». Ma che significa qui «conte­
nuto»? Forse che queste categorie (a differenza di quelle della natura)
non vengono comunque sempre percepite e comprese a partire dal lo­
ro contenuto interno? Non sono esse sempre riferite alla nostra situa­
zione, anzi progettate proprio partendo dall'orizzonte della nostra mo­
derna società industriale? L’uomo come essere che agisce \handelndé\ è
concezione che necessariamente rimanda a quella tradizione che — non
soltanto a partire da Hegel e Marx — ha sempre definito l’uomo (come
pensiero oppure come lavoro) nei termini di un essere che produce se
stesso. E d'altro canto: se fuomó fosse raHTcalmente tagliato fuori da
ogni facoltà di comprensione, se egli non fosse in grado, in linea di
75

principio, di tradurre i testi di ciò che è «altro» da lui, dove andrebbe


àlinire Ia~sua tanto~cèlebrata «apertura al mondo » ?
Ma non è toccata da queste riserve la deduzione intelligente, fan­
tasiosa e precisa deli’istituzione. Almeno in parte, le istituzioni deriva­
no dalla nuda pratica lavorativa, dall’«economia». Anche il lavoro
prìmi t ivo7~finalizzato alla semplice soprawivenza^scorre in sistemi
di abitudini stabilizzanti e specializzanti. Anche il semplice utensile
di pietra è come un «punto di appoggio» che serve a fissare un’azio-
pe determinata e circoscritta. Di più: è come un catalizzatore dotato
di un trattenuto effetto scatenante. Anche noi possiamo quotidiana­
mente avvertire questo effetto istituzionale degli strumenti quando,
entrando la mattina nel nostro abituale ambiente di lavoro, ci vedia­
mo automaticamente «dirottati» sul binario del nostro comporta­
mento lavorativo specializzato. L’istituzione diventa tuttavia davvero
strumento (ovvero sistema di strumenti e di pratiche consigliate) sol-
tanto quando il suo scopo originario, vale a dire la soddisfazione dei
bisogni primari, viene spinto sempre più lontano (quasi fosse una
condizione marginale di sfondo), oppure addirittura sospeso ejosti-
tuito da altri scopijntermedi. A questo punto «ragione originaria»_e
«scopo attuale» si divaricano, l’istituzione diventa trasferibile e pro­
prio perciò veramente istituzione. Diventando abitudine, il compor­
tamento si emancipa dagli scopi originari. Quando gli strumenti ces­
sano dTéssere guidati dai loro fini, e si rovesciano in una legalità au-
tofinalizzata e automatizzata, allora l’uomo apprenderòI agire_sulla
base della stessa istituzione. I momenti pulsionali si spostano sullk>g-
getto e occupano l’istituzione con contenuti normativi.
L’effetto è ambivalente. Spostandosi dal suo scopo originario, l’agi­
re si trasforma in un’«abituòine» che è dotata di valore intrinseco e
che si arricchisce, diciamo così, di nuove motivazioni. Per converso,
quando si orienta a obbl ighi_pregiudizialmente non indagati, i 1 com­
portamento ci rimette in termini di razionalità_e, se si^yuole, di «li­
bertà». Certo si tratta di un punto di vista applicabile solo a certe
condizioni di alto sviluppo culturale. Gehlen sottolinea esclusiva-)
mente il primo punto di vista, Marx il secondo. Gehlen infatti,
quando parla di «autonomizzazione delle azioni», non descrive in
fondo riùTTa’di diverso da quell’«estraniazione delle forze sostanziali
umane» che secondo il giovane Marx si coagulane in un potere og­
gettivo sovrastante.
76

Di fronte all’abbondanza di categorie individuate come pertinen­


ti all’ambito dell’«istituzione», di fronte all’intelligenza e alla sensi­
bilità delle osservazioni sparse per ogni pagina, noi proviamo l’ecci­
tante esperienza di avere a che fare con un libro in grado di trasmet­
tere vere e proprie percezioni (il che è raramente pretendibile da un
libro). Basti ricordare le categorie della reciprocità e dello scambio,
dell’adempimento-di-sfondo e del trattenimento-presso-di-sé, d e 1 -
l’orientamen to-d el - bisogno non meno che del rovesciamento-della-
direzione^puls lonale,(che avviene per esempio quando il rito viene
strumentalizzato, per produrre artificialmente i relativi stati di esal­
tazione estatica). Qui non possiamo analizzare in dettaglio né queste
categorie né il «comportamento rappresentativo» che viene studiato
nella seconda pane del libro e che ricomprende temi quali il rito, la
magia, l’estasi e l’ascesi.
Resta tuttavia ancora un tema da trattare: quello stesso indicatoci
dalla dicotomia del titolo. Alludo all’incessante riflettersi dei più an­
tichi processi antropologici nello specchio della nostra «tarda cultu­
ra» che sta diventando stazionaria. Stazionaria, si badi bene, ma non
stabile, perché la tesi di Gehlen è chejana cultura della soggettività
non può mai essere stabile, ma deve sempre, «sfociare in un massiccio,
ed effimero_eccesso di produzione». Ora, anche se questa utopia ne­
gativa non è del tutto nuova, essa presenta aspetti interessanti nella
sua impostazione e nelle sue intenzioni. Ancorché Gehlen prenda so­
vranamente le distanze da ogni atteggiamento pedagogico e propa­
gandistico, i suoi inconfondibili commenti alla situazione presente
sono chiaramente tendenziosi e mirano implicitamente a modificare
tale situazione. Né le cose potrebbero andare diversamente in uno
scrittore che, pur insistendo sulla neutralità delle scienze, disprezza
violentemente l’«irrilevanza pratica della mera rappresentazione».
Gehlen riflette sul significato culturale delle istituzioni proprio nel
momento in cui queste sono, com’egli dice, scosse, compromesse, re­
se insicure. E in questo «vuoto» che interviene — senza direzione — la
corrente dello psichico e del soggettivo. Per giunta questi elementi
accrescono il già comprensibile imbarazzo del comportamento con le
loro caratteristiche di vuota differenziazione e conflittualità. Nel
quadro di una cronica esaltazione d&H’io, la natura interna e la natu­
ra esterna vengono neutralizzate e razionaiizzate, mentre vita psichi-
ca «reale/» e vita psichica «rappresentata» si confondono tra loro,. La
77

rappresentazione dell’agire diventa in generale un elemento frenante.


Le rappresentazioni vengono acquisite con estrema rapidità, tanto
che l’esperienza dell’azione viene rimpiazzata da semplici «prese di
conoscenza». Mentre l’area della rappresentazione diventa sovrabbon­
dante e i centri della decisione sovraccarichi, lo spazio di azione si ri -
duce e s’impoverisce progressivamente. Una pacificata capacità-di-
consumo finisce per diventare il criterio supremodpuna sux.rQgaT.QXia,
igiene della vita. Il flusso delle idee diventa arbitrario e non impe­
gnativo: esse vengono discusse ma non più vissute.
Questa valutazione critica della situazione è senz’altro verosimile.
Tuttavia noi non pensiamo che essa sia riconducibile al crollo delle
istituzioni. Altrimenti dovrebbero bastare semplici indicazioni tera­
peutiche, tanto più che Gehlen non manca mai di contrapporre
un’eticità agonale al diffuso indebolimento del potere.
Oggi non c’è affatto carenza di controllo istituzionalmente coerci­
tivo (e lo stesso Gehlen lo conferma). Lajibertà formale deH’indjvi-
duo si accompagna str£r£arn.e.nte,a un universale controllo sociale.
Nell’organizzazione concorrenziale di una società impiegatizia, gli
individui diventano semplicemente i «punti di scambio» in cui s’in­
trecciano prescrizioni istituzionali. Lo schematismo delle istituzioni
si è moltiplicato e complicato. Questa violenza accumulata si rivela
per esempio nell’incessante fallimento che si maschera da abbondan­
za. Ciò che si presenta come «crescita dei consumi» finisce per sot­
trarre? proprio ciò che sembra offrire. Questa crescita «sottrae» in ma-
niera tale, da mascherare abilmente il clólore su cui potrebbe asceti­
camente accendersi una protesta umana. Tutto ciò non testimonia,
come vorrebbe Gehlen, l’esistenza di carenti legami istituzionali da
parte di una soggettività emancipata che vuole oltrepassare ogni li­
mite. Al contrario, testimonia di un’asimmetria perversa tra le cen- t
sure istituzionali che sono interiorizzate nella psiche del singolo indij
viduo e questo individuo medesimo. Gehlen si appoggia al dato ijv
contestabile della cosiddetta «individualità plasmata dal ruolo». Os­
sia al dato di fatto per cui ciascuno è oggi costretto a presentarsi co­
me un'individuo, sebbene proprio le condizioni sociali non tollerino
altro che~pseu3pindiyidualità disciplinate. Quali sono le conseguen­
ze? Semplicemente il fatto che gli strati più sublimi, e istituzional-
mente modellati, di ogni singolo individuo — per altri versi effettiva­
mente «liberato»» e differenziato — reagiscono in maniera «sbagliata»
78

a .questa regolazione coattiva. Essisi lasciano manipolare, senza tutta­


via poter mai completamente reprimere la coscienza che non dovreb­
bero lasciarlo fare: di quTla fuga in un’individualità vista come ruolo-
Certo ogni comportamento soggettivamente arbitrario — dunque
la protesta inadeguata nei confronti di un'istituzionalizzazione dalle
dimensioni sbagliate - appare del tutto sterile. Si tratta di comporta­
menti senza dubbio criticabili. E tuttavia la critica deve sempre mi­
rare a «mediare» tra loro in maniera equilibrata istituzione e indivi-
duo. Non semplicemente a «liquidare» un elemento a favore dell’al-
tro, invocando una rinascita dell'istituzione che sia pagata dalla re­
gressione deirindividuo. Sare bbe_ppi_d avvero terribile se Tindividua.-
ìità si lasciasse socialmente realizzare come un’«istanza senza gerar-
chie»J&nrg ohne Rànge] e non_semplÌGemente_CQme_L'.c>ccasioriare pri-
vilegiamento di un individuo importante? Sarebbe davvero così terri-
bile se potessimo-incontrare giruomini «semplicemente nella loro
umanità» e non a.partire dall’armatura delle lorcTìnsegne di status?
Gehlen adotta i motivi razionalistici dell’illuminismo soltanto per
capovolgerli contro i loro fondamenti umanistiche. prima vista sem­
bra una cosa giusta e intelligente irridere all’uomo «in formato ridot­
to», all’uomo «stile Luigi Filippo, avido e delicato», insomma pren­
dere in giro il «livello medio» delle creature di oggigiorno. In realtà
non dovremmo disprezzare troppo questQjuomo_«egoista e delicato».
L’uomo del futuro evocato da Nietzsche era senz’altro generoso e bru-
tale. Ma da quel tipo di futuro — e attraverso vicende storiche che
nessuno oserebbe definire di «piccolo formato» — noi tedeschi abbia­
mo definitivamente preso congedo.
Questo libro è inficiato da risenti menti troppo a 1 ungo covati (per
esempio, accanto a osservazioni profonde sulla natura del l’ascesi, ma­
nifesta un risentimento semplicistico contro le «esangui sciocchezze»
della pittura astratta).
IV

ARNOLD GEHLEN 2
SOSTANZIALITÀ CONTRAFFATTA (1970)*

1. Arnold Gehlen ha lavorato per più di un decennio alla sua


«Etica»1. Ed essendo il rappresentante più coerente di un istituziona­
lismo antilluministico, ha naturalmente finito per produrre un’opera
imbarazzante. Il tenore era già stato definito da Urmensch und
Spatkultur2: non sarebbe stato diffìcile prevedere contro chi, in sede
di filosofìa morale, si sarebbero rivolti gli esiti della sua antropologia.
Tenendo conto dei materiali forniti dalla rivoluzione culturale degli
ultimi anni per un’etica di tipo gehleniano, avremmo persino potuto
nutrire un certo timore. Ciò che invece non era prevedibile era la
commedia satirica che ci viene ora offerta dall’autore.
Gehlen mette la nostra epoca a confronto con l’ellenismo (owerc
con l’immagine tradizionale che ne abbiamo). Egli stesso ha,_piuttc
sto a lungo, civettato con il ruolo di un filosofo stoico. Ora questa d
visa non gli si adatta più. Nel suo ultimo libro Zenone e Antistent
sono presentati come i precursori e i rappresentanti di una cultura at­
tica cosmopolitica, mirante a scalzare in maniera impolitica l’eticità
dello stato. Essi anticipano il XVIII secolo, ossia l’epoca in cui gli in­
tellettuali si accinsero nuovamente a prendere il potere in una ma­
niera indiretta, diffamando il potere medesimo. Per il resto questi
primi due capitoli sono scritti nello stile della tradizione umanistica:
i precetti degli antichi sono presentati come i fondamenti di un’espe­
rienza contemplativa della vita.
I tre capitoli seguenti sviluppano l’obiettivo teorico del libro. In
quello stile saggistico-antropologico che ci è familiare dalle sue ope-

* Pubblicato in «Merkur», XXIV, n. 4, 1970, pp. 313-327.


* A. Gehlen, Moral und Hypcrmoral, Frankfurt a.M. 1969.
2 lei., Urmensch undSpà'tkultur, Frankfurt a.M. 19642 (tr. it. cit.L
80

re precedenti, questi capitoli offrono una panoramica delle radici bio­


logiche del comportamento morale. Ma con il sesto capitolo la criti­
ca dell'epoca si porta in primo piano ed evidenzia una direzione di
pensiero che viene successivamente ripresa a intervalli sempre più
brevi. Contrapponendosi alla moda dellautoincenerimento^, Gehlen
adotta il gesto dellautopietrificazione. L’odio verso l’umanitarismo —
quell’umanitarismo da lui mai citato tra virgolette, benché la parola
appartenga al gergo nietzscheano passato poi nel vocabolario nazista —
riduce penosamente l'acutezza di uno spirito che è notoriamente ca-
pace di sottigliezze. Una rispettabile saggezza di vita e interessanti
, si mescolano
ìpotesf teoriche . al, tono politic
” ’ o da caffè cui sembra in-
intellettuale di destra senz'altro originale, ma non più al-
Hulgerè un Tntéllettuale
Tàltezza delle contraddizioni inerenti alla sua biografia e al suo ruolo.
Per chiudere questo paragrafò nella maniera menoTlolorosa possibile,
mi limito a trascegliere e riprodurre direttamente dal testo qualche
chicca di lettura.

Colpa collettiva dei nazisti e delle vittime. «Dopo il 1933 l’integrità


istituzionale del Reich tedesco non venne soltanto ferita. Lo stesso
Reich fu distrutto dall'interno e dall'esterno sia dai nazisti sia dai lo­
ro nemici. Di conseguenza, coloro che collaborarono attivamente a
questo processo non possono ora tirarsi fuori e considerarsi innocenti,
anche se è loro mancata la consapevolezza dell'ingiustizia e hanno an­
zi creduto di agire nel nome di un diritto superiore, per esempio
umanitario» (p. 99).

Grandezza della nazione e dramma tedesco. «La prestazione storica


più significativa che possa compiere una nazione consiste nel realiz­
zare storicamente la propria unità costituzionale. Proprio in ciò i te­
deschi hanno fallito. L'autoconservazione presuppone l’autoafferma-
zione e l’autoriconoscimento spirituale della nazione di fronte al
mondo non meno della sua sicurezza nel senso politico più ampio.
Tale sicurezza consiste nella forza con cui un popolo neutralizza gli
attacchi fìsici e spirituali portati contro di sé» (p. 103). «I due o tre

5 (Nel gennaio 1969 lo studente praghese Jan Palach si era dato fuoco per pro­
testare contro i carri armati sovietici. Ai suoi imitatori tedeschi Habermas contrap­
pone l'atteggiamento stoico di Gehlen.1
81

popoli che oggi riescono a fare questo saranno liberi, ossia in grado di
determinare il loro destino» (p. 115).

Morale dei vincitori ovvero rieducazione. «Napoleone, che coperse


l’Europa di tombe, lacrime, ceneri, e fama universale, non sarà mai
dimenticato. La Prussia, invece, è stata cancellata dalla storia. Gli
sconfitti devono pagare caro, a loro viene prescritta una dieta morale
da ammalato, una coscienza ridotta, amministrata per il futuro dai
pubblicisti» (p. 120). «Il concetto [dell’integrità spirituale di un
gruppo] comprende in sé le tradizioni e l’eredità culturale di una da­
ta associazione non meno del suo onore. Privare violentemente un
popolo della sua storia o del suo onore equivale a ucciderlo. Alcuni
americani sembrano di recente averlo capito e cominciano a dubitare
del loro diritto a imporre violentemente agli altri la loro ideologia
politica» (p. 185).

Che cosa significa, e a che cosa induce, l’essere imbelli? «Negli uomini
che si rendono imbelli, e che vogliono ricevere solo ciò che essi stessi
offrono, vale a dire indulgenza, permane un piccolo germe diabolico:
quella gioia provata di fronte alla distruzione degli indifesi che è il
vero tema dei film horror. Non si ammirerà mai abbastanza l’astuzia
del destino toccato in sorte al nostro sconfitto ed esausto continente.
Per un verso gli si concede soltanto la facoltà della mera sopravviven­
za fisica (ruolo esercitato con zelo tramite l’eliminazione ansiosa di
tutto ciò che potrebbe spiritualmente dare sostegno). Per l’altro ver­
so gli si lascia aperta una via di uscita. Gli altri infatti hanno il pote­
re e chi vuole godersi fino in fondo questo ‘ethos del potere’ — laddo­
ve noi vorremmo convincerci che non esiste — ha appunto bisogno di
avversari da mantenere nel proprio raggio di offesa. Se questi ultimi
giocano come loro unica carta il diritto all’esistenza si abbassano al
livello del regno naturale: ma lì quel diritto si è sempre capovolto nel
diritto del più forte. Quando ciò viene alla luce, le vittime possono
chiedersi se non abbiano provato piacere anche di fronte alla distru­
zione degli indifesi» (p. 145 e sgg.).

Disgusto e modello. «Siccome ogni prestazione senza compromessi,


soprattutto in campo spirituale, genera automaticamente una distan­
za, e ciò risulta difficilmente sopportabile, i giudizi finiscono per
82

perdere di nettezza e ci si deve limitare alle idee vaghe: democratiz­


zazione, strutture repressive, riforma dell’istruzione superiore, ecc.»
(p. 147). «Presto non capiremo più perché il vecchio Clemenceau po­
tesse ancora esclamare: ‘Ogni tanto dovremmo saperci piegare sopra
l’abisso e respirare il fiato della morte: solo così tutto riacquista il suo
equilibrio’» (p. 77).

Demonizzazione, omero sparare eticamente dal basso. «Diabolico è chi


innalza il regno della menzogna costringendo altri uomini a viverci
dentro. S’impone così il regno del mondo capovolto, e l’anticristo
porta la maschera del redentore come nell’affresco di Signorelli ad
Orvieto. Il diavolo non è colui che uccide. Egli è 'diabolos', il calun­
niatore, il dio per cui la menzogna non è viltà, come negli uomini,
ma forma di potere» (p. 184)4.

2. Ora voglio limitarmi a discutere l’approccio teorico di un'etica


antropologica. A pagina 47 Gehlen distingue quattro punti: a) un
ethos che deriva dalla reciprocità; b) una pluralità di regolazioni
istintuali che sono traducibili sul piano comportamentale e fisiologi­
co, ivi compresa l’etica delia soddisfazione e della felicità (eudemoni­
smo); c) un comportamento etico riferito alla famiglia, con le relative
estensioni fino al l’umanitarismo;. infine d) un ethos delle istituzioni
che ricomprende lo stato.
Gehlen sostiene che questi quattro programmi etici hanno radici
biologiche indipendenti e che le relative regolazioni del comporta­
mento, in competizione tra loro, si equilibrano a vicenda nella routi­
ne quotidiana. Quando un sistema di valori pretende per troppo
tempo di prevalere sugli altri,esscTfinisce per diventare incompatibi­
le nei lóro confronti. Allora nascono conflitti in linea di principio
solubili non soltanto tra gruppi e individui ma anche nel cuore del
singolo individuo. Inoltre, la stilizzazione e l’imposizione unilaterale

4 Com’è caratteristico di ogni mondo fantasticato, l'elemento diabolico non vie­


ne mai chiamato per nome. Ciò a cui Gehlen si riferisce sono i grandi illuministi e
intellettuali, da Lessing e Lichtenberg fino a Benjamin e Brecht, da Kant fino a
Popper e Adorno. Il diavolo di Gehlen resta pierò insistentemente anonimo. Solo
una volta troviamo citato il nome di Marx: a partire dalla citazione di un libro di
Hugo Ball del 1919.
83

di una morale pura_consente sempre di scaricare l’aggressività sen-


tendosi giustificati nel nome di questa stessa morale.
Applicando queste tesi alla situazione attuale, Gehlen giunge ad
affermare che l’ethos delle istituzioni viene represso a partire dalla ge­
neralizzazione della morale familiare."Il cosiddetto «umanitarismo»,
aggressivamente diffuso da una certa, intellighenzia, spezza_fequili-
brio metaetico e.biologico dei cooriginari sistemi di valore e distrug­
ge - com'è dimostrato dai fenomeni degenerativi del soggettivismo —
la buona salute antropologica_della..specie_umana. Questa prognosi fa
subito vedere qual è il nemico da combattere. Bisogna opporsi af ce-
to degli intellettuali, che sono gli irresponsabili portatori di ^umani­
tarismo». Siccome essi esercitano il potere indirettamente, attraverso
i mass media, solo con la censura diventa possibile porre termine ai
loro maneggi.

La parola «responsabilità» ha un senso solo quando uno — sapendolo in an­


ticipo - si vede pubblicamente giudicato in base alle conseguenze delle sue
azioni. Così sul politico decide il successo, sul produttore il mercato, sul
funzionario la critica dei superiori, sull’operaio il controllo di prestazione, e
così via. Laddove questa autorità non è visibile o è espressamente proibita —
come avviene per la censura neH’articolo 5 del Grundgesetz relativo alla «li­
bertà di stampa» — allora si è sollevati da ogni responsabilità e ci si può fa­
re carico, con piena dedizione, della morale degli altri (p. 151).

Per permettersi conclusioni così estese e radicali, uno dovrebbe


essere ben sicuro dei propri postulati teorici. Epperò non convince
l’argomento centrale, quello cui spetta di dimostrare sia la deduzione
del cosiddetto umanitarismo dall’ethos di parentela sia la contraddit­
torietà tra universalismo ed etica di stato. Il ragionamento sviluppa­
to da Gehlen è il seguente. La cosiddetta etica familiare è nata all’in­
terno del clan. Essa istituzionalizza i valori della coesistenza pacifica,
vale a dire riconoscimento reciproco, assistenza individuale, rispetto
e solidarietà. Da un’applicazione allargata di questa etica deriva
l’«umanitarismo» che oltrepassa la cerchia visibile del clan giungen­
do ad abbracciare l’umanità astratta. Invece Vethos di stato — cristalliz­
zatosi intorno ai valori di servizio, dovere e sacrificio — rimanda a una
radice diversa. L’eterogeneità di questi due sistemi valoriali viene
giustificata da Gehlen sul piano fenomenologico a partire dal contra­
sto esistente tra virtù private e pubbliche, pacifiche e bellicose, e sul
84

pianojtorico-sociale a partire dall’evidente conflitto esistente tra lea-


lismo di clan~è~reàirsmO~dFStàtòT " ” ~~~~
Ma entrambe le indicazioni sono fuorviatiti. Gehlen fa discendere
la distinzione fenomenologica dal fattoci considerare lethos-di-clan
come una morale interna e di mettere tra parentesi le connesse rego­
lazioni dei rapporti^èsterni. Eer_cqntro egli descrive l’etica-di-stato
principalmente sotto l’aspetto esterno dellautoaffermazione rispetto
| a nemici potenziali. Anche se prescindessimo per un istante dal fatto
■ che l'ethos familiare, caratterizzante pacifici e sicuri rapporti di vici-
i nato, non andò mai disgiunto dall’esercizio di una manifesta violenza
patriarcale, resterebbe pur sempre vero che quell’ethos riguarda sol-
' tanto l’aspetto interno di una morale di gruppo etnocentrica, la qua-
' le mantiene latenti i conflitti interni semplicemente scaricando l’ag-
i gressività sui gruppi esterni. Una conflittualità incessante ed epider­
mica, collegata a relazioni esterne bellicose, si presenta così come l’al-
tra faccia dèllasolidarietà di gruppo centrata suT clan. Gehlen si di­
chiara d'accordo (p. 169) con un passo di Bergson, secondo cui fori-
ginaria e fondamentale struttura morale dell’uomo «si adatta a so-
cìèta~semplici_e chiuse » r ossia alle società che da un lato postulano
l’interna armonia del gruppo e dall’altro lato la virtuale ostilità Hi
ogni gruppo nei confronti delTaltro: «Bisognava sempre essere pron­
ti ad attaccare o a difendersi». Se però le cose stanno in questi termi­
ni, allora il modello valoriale cristallizzato intorno a onore, discipli­
na, sacrificio ^coraggio, eo.tra-egualm.eDie-aJai_pane_sia_deirethos-
di-clan sia deH’etica-di-stato. Tutte e due le etiche richiedono virtù
pacìfiche verso l’interno e virtù belliche verso l’esterno. Anzi, la mo-
ralé~famiiràre è ancora più distante^daJlajnprale universalistica di
quanto non lo sia la morale di stato.
Nello stadio delle grandi civiltà [Hochkultur] il principio organiz­
zativo prima vigente, ossia la differenziazione della società secondo
statuti di parentela, viene sostituito da un principio organizzativo
nuovo. Laparentela viene mediata dal potere statale centralizzato e
dalle classi socioeconomiche^ Le tracce di questo passaggio al sistema
dellegrandi civiltà - passaggio che rappresenta per le condizioni di
vita la seconda grande rivoluzione dopo il consolidamento dell’agri­
coltura — restano visibili per tutta questa fase di sviluppo culturale.
L'incessante lotta tra «lealismo di famiglia» e «valori dello stato»
non rispecchia un antagonismo di tipo biologico bensì un conflitto
85

di tipo srnriro. Esso segnala la rimozione e la relativizzazione di una


morale di «piccolo gruppo», inizialmente legata al ruolo primario
della famiglia, da parte di un’eticità più astrattagli «grande gruppo»
politicamente organizzato («grande gruppo» che in Europa si chiama
polis, stato, nazione). La concorrenza di questi due sistemi valoriali
rinvia a stadi storici diversi della coscienza morale, stadi che conti­
nuano per altro a essere caratterizzati dal dlifferenziarsi tra _un aspetto
pacifico interno e un aspetto bellicoso esterno5.
Piaget - collegandosi a Durkheim e in relativo accordo con Freud —
ha spiegato lo sviluppo ontogenetico della coscienza morale nei ter­
mini di una progressiva umversafizzazione e interiorizzazione di si-
stemi di valore. In questa prospettiva l’etica-di-stato è forma più
«sviluppata» dell’etica-di-clan. Essa è più «astratta» in quanto allar-
ga al di là del sistema di parentela l’ambito di validità della morale
'ìhte’rna-cùi spetta*!! controllo dell'aggressività. Tale ambito viene
esteso alla sfera d’interazione di un grande gruppo: la persona di rife-
rimento moralmente vincolante non è più l’appartenente alla fami­
glia, al clan, alla stirpe, bensì il cittadino dello stato. L’etica-di-stato
è più «astratta» anche nel senso ulteriore per_cuiJe norme vigenti..
vengono interiorizzate in una misura maggiore. Quando Vagire mo-
rale non puo più effettuarsi «sotto gli occhi» delle autorità sanzio-
nanti (cioè dei membri fisicamente presenti di un piccolo gruppo),
allora l’ottemperanza delle norme deve farsi sempre più indipenden­
te dal controllo di stimoli esterni.
ÀncheTrehlen si serve, per i sistemi morali, della categoria del-
l’allargamento. Per esempio egli deriva 1’«umanitarismo» dall’allarga­
mento dell’etica familiare. Sennonché per allargamento egli non in-
tende il meccanismo generativo di morali astratte all’interno di siste­
mi sociali sempre più complessi- Nel quadro teorico delle sue costan­
ti antropologiche, «allargamento» significa semplicemente lo sforza-
to dilatarsi di un_sistema normativo che è originariamente calibrato
sull’ottica dei piccoli gruppi: dunque un processo sostanzialmente

5 Anche all'interno delle ipotesi di Gehlen è insensato postulare due radici di­
verse. La «famiglia» dovrebbe per lui essere non meno istituzione dello «stato».
Perché solo i sistemi valoriali del potere statale, e non anche l'ethos di clan, dovreb­
bero fungere da esempio dell'ethos delle istituzioni? Qui c'è quanto meno una con­
fusione linguistica.
86

disfunzionale aU’equilibrio biologico. Questo.pregindizio, impedisce


a Gehlen di vedere come anche J etica-di-stato, e non soltanto il co­
siddetto umanitarismo, derivi da un allargamento deH’ethos-di-clànT^
«Umanitarismo» è dunque la formula che serve a squalificare la
morale universalistica. Ma di che sLcrattajn realtà?.
La coscienza morale non si sviluppa solo ontogeneticamente_a_parr
tire dalloìtrepassamento (in una forma ancora più astratta) dell’etica
della pubertà, la quale è ancora uno stadio appoggiato esternamente.
Esiste anche un processo parallelo^ questo sul pianò della storia uni­
versale: il passaggio alla modernità. Nel corso di questo processo —
che con l’imporsi del capitalismo si è dapprima compiuto nel quadro
di una civiltà particolare (vale a dire la nostra) — per l’etica dello sta­
to vediamo nascere una concorrente. Questa nuova morale_universali-
stica è stata studiata da Max Weber nella forma dell’«etica protestan­
te». È significativo che Gehlen non nomini nemmeno questo tipo di
morale. Si tratta della morale che fu concettualizzata compiutamente
da Kant. Ogni norma valida è caratterizzata dal fatto di essere vinco-
lante, m egual misura e nello stesso modo, per tutte le persone: ora la
differenzajfino a quel momento tenuta in piedi) di morale «interna»
e morale «esterna» viene superata. Inoltre, questa morale universali-
stica è caratterizzata da un estremo grado di interiorizzazione. Il con-
trollo sull’ottemperanza delle norme non viene più agito da sanzioni
esterne, ma trasferito all’interno. L’autorità morale appoggiata mono-
teisticamente viene sostituita da Kant con una «ragione pratica»:
questa si dà da sola le sue leggi a partire da un principio universali­
stico. Il concetto borghese di autonomia fa saltare i limiti di una mo-
rale nazionale che, pur essendo già astratta, resta ancora limitata dal
particolarismo. Questa autonomia è il concetto portante dell’illumi-
nismo europeo: per Gehlen semplicemente il nucleo del cosiddetto
'«umanitarismo». --------- ----------- '

3- È solo a questo punto — collegabile per comodità al nome di


Kant — che diventa visibile la logica evolutiva della coscienza mora­
le. Finché universalizzazione e interiorizzazione non si erano ancora
sviluppate del tutto, cera bisogno di un’interpretazione globale (ri­
guardante la natura e la società) che provvedesse per un verso a deli­
mitare la sfera di validità delle norme e per l’altro verso a fissare e le­
gittimare istanze esterne di controllo, appoggio e sanzionamento del-
87

la condotta. Entrambe le funzioni diventano superflue dal momento


in cui la morale diventa universalistica e pretende, in base al suo stes­
so concetto, di essere del tutto interiorizzata. Insieme a queste due
funzioni diventano anche superflue le stesse immagini-del-mondo
fondative della morale: il sistema delle norme viene ora infatti ricon­
dotto esclusivamente alla «legislazione della ragione».
Ciò fa però nascere il problema seguente. Da un lato, assieme alle
interpretazioaLdel-mondo che-Sorreggevano i sistemi morali viene
anche meno la possibilità di ontologizzaresingole norme privilegia-
te: l’etica diventa necessariamente formale. Dall’altro lato lo stesso
principio del formalismo — che pretende dalle norme soltanto la for­
ma universale della validità — diventa problematico. Le norme infat-
t[, non ancorandosi più neLmondo^attraverso-un’interpretazione on-
tologica ma esclusivamente nel soggetto agente, perdono ogni carat-
tere vincolante. Nessuna doverosità universale può più essere ascritta
alle arbitrarie posizioni individuali di una molteplicità di singoli in-
dividui irrelati. L’etica diventa necessariamente soggettivistica. Per,
sfuggirla questo dilemma Kant ontologizza lo stesso io, distingue!?;
dòTiointelligjbnedaH’io empirico. Questa soluzione - che sarà mol­
to criticata sia da Schiller che da Schelling — maschera le aporie di
una morale universalistica che è stata portata al concetto.
[Divello più alto della coscienza morale coniuga 1’universale vali-
dità delle norme con un’estrema individuazione deglg attori. Il residuo
di pensiero ontologico ancora presente nella filosofia trascendentale,
induce Kant a col legare entrambi questi momenti in un modello di
soggetto che, pur essendo soggetto, resta tuttavia innalzatoal_dj_so-
pra della molteplicità empirica dei soggetti. Questo «super-io» tra­
scendentale deve garantire simultaneamente universalità e indivi-
duazione, ossia per un verso la trascendenza della legislazione dell’io
morale nei confronti di quello empirico e per l’altro verso l’indipen­
denza di questo io da ogni potere esterno. Sennonché anche questa
forza - eretta interiormente — dell’universale astratto resta estranea
all’individuo. HegeJ infatti ha messo in luce il punto debole sia del­
l’etica borghese sia della filosofia morale kantiana: l’interiorizzazione—
non e in gradó^a’sofa di realizzare l’individuazione, ossia la concilia­
zione di universale e particolare. Essa rende ragione al momento di
indipendenza da ogni potere esterno. Tuttavia, se volesse agire in ma­
niera ragionevole e non più ciecamente autoritaria, l’autorità interna.
88

non dovrebbe più essere caratterizzata dalla dignità quasi oncologica


di un legislatore intelligibile, posto «più in alto» della comunicazio­
ne reale dei soggetti agenti.
I due momenti che devono essere armonizzati dalla morale univer­
salistica - individualità del singolo soggetto e universale validità del­
le norme - richiedono allora di essere mediati attraverso il discorso,
vale a dire da un processo pubblico di formazione della volontà che
si subordini al principio della comunicazione illimitata e del libero
[herrschaftsfrei] consenso. Eassolutizzazione del privatismo della sog-
gettività borghese — un privatismo generalizzato ma privo di comuni­
cazione — sta alla base della fondazione trascendentale della morale
compiuta da Kant. Per Tultima volta un*immagine-di-mondo serve j
giustificare una morale (anche se questa immagine-di-mondo non
vuole più essere percepita come tale e dunque cancella la forma del­
l’ontologia). Se smascheriamo quest’ultima ipostatizzazione del «ter-
ritorio straniero interno» di cui parlava Freud, e se sganciamo la rno-
rale universai isticadalle determinazioni paradossali dell’io intelligi-
bile6, allora possiamo identificare nella struttura del discorso possibi­
le - nella forma d’intersoggettività dell’intesa possibile — Vunico prin-
cipio dell’eticità. Alta fine il processo storico-mondiale di_«universa-
lizzazione» e simultanea «interiorizzazione» delle norme di azione -
ossia delle regole e metaregojejdie_&HÌdano finterazione de.Uinguag-
gio ordinario — fa saltare in aria non soltanto miti e religioni locali
pensi lo stesso concetto di una «ragion pratica» pura. E*indipendenza
assoluta da ogni costrizione esterna (implicita al concetto di autono­
mia) non meno deH’illimitata ed eguale validità delle norme (richie­
sta dall’imperativo categorico) diventano determinazioni desumìbili
dal Ieri ca che è strutturalmente immanente al discorso possibile.
Dopo che anche l’ultima visione-del-mondo su cui si fondava la
morale è andata distrutta, abbiamo dovuto imparare che non è più
possibile giustificare in maniera assoluta le norme di azione: tutte le
norme sono in linea di principio discutibili. D'altro canto noi sappia­
mo che tutte le discussioni, anche quelle scientifiche, avvengono nel
quadro di condizionamenti empirici: perciò ogni consenso empirica-

6 Cfr. Th.W. Adorno, Negatiti Dialektik, Frankfurt a.M. 1967, p. 209 e sgg., in
particolare p. 277 e sgg.
89

mente raggiunto può essere sospettato di dare semplicemente voce


alla costrizione di un’opinione privilegiata. Un ragionevole processo
formativo della volontà dipendécerto dalla comunicazione deg li in te-
ressatj. Ma la pretesa di decidere ragionevolmente questioni pratiche
potrà collegarsi alla comunicazione ordinaria solo se quest’ultima si
obbliga a rispettare i princìpi dell’accesso illimitato e dell’assenza di
costrizioni. Così le determmazioni dell’io intelljgibile ritornanQ_c.Q-
me idealizzazioni “della situazione linguistica in cui si argomenta in-
torno a questioni pratiche.
Queste idealizzazioni sono in realtà impli.ciieJn.ogni discorrere,
per quanto distorto esso sia. In ogni comunicazione infatti - e persi­
no quando cerchiamo d ingannare — noi pretendiamo di distinguere
vero da falso. In ultima istanza però l’idea di verità.esige che.si ricor­
ra a un accordo \fjbereinstimmung\ che, per poter valere da index veri et
falsi_, dev’essere pensato come,.se. fosse ..raggiungi bile. a_p.artire dalle
condizioni ideali di una discussione jibera e illimitata7.
Lo statuto di questo — inevitabile e anticipante — ricorso alla si­
tuazione linguistica ideale è del tutto peculiare. Le condizioni del di­
scorrere empirico si differenziano dalla situazione linguistica ideale.
E tuttavia appartiene alla struttura di ogni possibile discorrere il fat­
to che noi — nel Pagi re in maniera controfattuale — intraprendiamo
questa identificazione e operiamo come se essa non fosse soltanto una
finzione. Questa anticipazione ha anche, in quanto tale, un aspetto di
realtà. E in questa struttura del discorrere possibile che si fonda ciò
che Gehlen e Schelsky chiamano l’ethos della reciprocità. Fattasi con­
sapevole dFsé, la morale universalistica fa esplicitamente appello a
quelle norme fondamentali .che sono già da sempre valide sul piano
dFfatto. Suqueste essa fonda l’obbligo della legittimazione, dichia-
rando ragionevoli soltanto norme che siano suscettibili di (rin­
novata) giustificazione nell’ambito di una discussione senza costrizio-
ni né limiti8.

7 Cfr. le mie osservazioni preliminari a una reoria della competenza comunicati­


va in J. Habermas, N. Luhmann, Theorie der Gesellschaft oder Soztaltechnologie, Frank­
furt a.M. 1971.
8 Cfr. l'interessante proposta, per la fondazione di una filosofia pratica pura, for­
mulata da P. Lorenzen, «Szientismus versus Dialektik», in R. Bubner, K. Cramer,
R. Wiehl (hrsg. von), Hennencutik und Dialektik, Tùbingen 1970, Bd. I, pp. 57-72;
O. Schwemmer, Philosophie der Praxis, Frankfurt a.M. 1971.
90

Se si segue la logica evolutiva della coscienza morale, cui abbiamo


prima fatto cenno, noi vediamo che l’ethos della reciprocità - impli­
cito per così dire nelle simmetrie fondamentali di ogni possibile si­
tuazione dialogica — è in linea di principio {'unica radice-delletica: e
non si tratta affatto di una radic£_b_iologica. Se lavoro e interazione
sono cooriginari, la vita della specie è egualmente dipendente sia dal-
le condizioni materiali della produzione sia dalle condizioni etiche
dell^organizzazione sociale. Se lajocializzazione si compi_e_n.e.i_rner.
dium della comunicazione linguistica ordinaria, allora l’identità del
sìrìgofó^ndìviduo viene a dipendere dalla comunità della comunica-
zione, ossia non dal suo sistema corporeo individuale bensì dalle rela-
zioni simboliche di attorijndividualmente interagenti. Si tratta di
una vulnerabilità profonda,, che non può fare a meno di appoggiarsta
una regolazione etica del comportamento. Essa rinvia non alle debo­
lezze biologiche délFuomo, né alla carente dotazione organica del
neonato o ai pericoli inerenti aJTeccezionale_durata dellallevamento,
bensì alla stessa struttura compensatoria del sistema culturale.
Il problema fondamentale dell’etica sta nella necessità di garanti­
re effettivamente, sul piano del comportamento, integrità e rispetto
reciproco. Questo è il nucleo di verità delle etiche della compassione.
Ma la compassione — intesa come sensibilità per la vulnerabilità del­
l’altro — diventa motivazione etica soltanto nella misura in cui si rife­
risce alla specifica vulnerabilità dell’«identità dell’io» in quanto tale,
vale a dire alla cronicamente fragile e costitutivamente minacciata
integrità della persona (dunque solo indirettamente alla vulnerabile
integrità del corpo). Siccome, sul piano socioculturale, la relazione in­
terno-esterno si istituisce non organicamente ma simbolicamente
(vale a dire nelle forme d’intersoggettività costituite dal linguaggio
ordinario), le prestazioni etiche di un sistema istituzionale dovranno
anzitutto commisurarsi in base alla loro capacità d_i_risolvere i probìe-
_mi relativi alla formazione e alla salvaguardia delle identità.
Questasfìdà^può essere-affrontata su tutti i livelli di «repressività»
inerenti al sistema istituzionale. Il grado di repressività — variante, se­
condo la mia ipotesi, con il livello delle forze produttive e con l’orga­
nizzazione del sistema di potere — si traduce in una sistematica limi­
tazione^ distorsione .delle, comunicazioni abituali. Le società repressi -
ve hanno bisogno di legittimare preventivamente e automaticamente
il pominio attraverso barriere comunicative relativamente impermea-
91

bili. Invece le società liberali possono affidare alla discussione pubbli­


ca una porzione relativamente grande di legittimazioni del potere.
Quanto minori. sono_xepressivi.tà_e-.distorsione_comunicativa,,tanto
più facilmente si diffondono morale universalistica e possibilità di in­
dividuazione crescente. Se queste ipotesi empi richedovesserò trovare
conferma, allora potremmo evidenziareunacorrispondenza tra grado
di Repressione istituzionale _eJorme_diJjir£rsogg£tti.vi.tà, da_unjato,
con deformazione sistematica (ovvero margine di tolleranza) della co­
municazione e livelli d£coscienza morale, dall’altro lato^
' Da qùesta7:orrispondenza dipenderanno a loro volta sia l’organiz­
zazione simbolica dell’io che l’individuo si guadagna nel corso dei
suoi processi di socializzazione, sia quella forza d’identità che consen­
te all’io di salvaguardare la propria integrità nei confronti di distur­
bi, tensioni e ferite. Ma se le cose stanno così, allora lo sviluppo del-
la coscienza morale corrisponde a una vulnerabilità che cresce assieme
al livello deH’indiyiduazipne. In altri termini, la ri flessività-della per­
sona cresce solo in misura della sua simultanea esteriorizzazione. Que­
sta persona viene così spinta entro una rete sempre più intricata di
reciproche vulnerati!lità e bisogni di tutela. Umanità significa non la­
sciare che si laceri questa rete paradossale {unwahrscheinlich]. Umanità
è il coraggio che ancora ci resta dopo aver visto come ai danni dell jini-_
versale fragilità si possa resistere soltanto con il rischioso e fragile
strumento della comunicazione. «Nemo contra deum nisi Deus ipse».
Afcòhtrario Gehlen ci raccomanda paradossalmente di retrocedere
intenzionalmente in fatto di umanità: di retrocedere all'ethos delle
istituzioni grandi e non trasparenti. Una proposta che, negli anni, in
cui era ancora possibile farsi illusioni su questo tipo di raccomanda­
zioni, soleva definirsi come «rivoluzione di destra».

4. La mia argomentazione ha cercato finora di dimostrare l’unità


della coscienza morale. Etica familiare ed etica statale non rinviano a
radici diverse, bensì sono pensabili come due livelli nello sviluppo
socioculturale della coscienza morale. La morale universalistica, scre-
ditata da Gehlen come «umanitarismo»j SÌ colloca al termine di un
processo di universalizzazione e interiorizzazione. Alla fine, la logica
interna di questo processo ci rivela come il fondamento della morale
debba cercarsi in un «ethos della reciprocità» immanente ai rapporti
di simmetria della situazione linguistica ideale. Questo fondamento
92

della morale non ha radice biologica. Piuttosto tutte le etiche dipen­


dono dall'eticità che è immanente al discorrere.
Qual è però lo statuto dei sistemi di valore che (come per esempio
l’edonismo) fanno appello a istinti naturali, per quanto residuali essi
siano? La vita della specie si organizza in forme di intersoggettività
inerenti alla comunicazione linguistica ordinaria; queste forme sono
in se stesse morali o immorali. Si tratta di forme-di-vita sociali e cul­
turali in cui sono ricompresi anche i potenziali istintuali ereditati
dalla natura (in particolare le pulsioni di aggressività e sessualità au-
tonomizzatesi in maniera disfunzionale rispetto agli imperativi di
autoconservazione). Gehlen individua invece le radici dell’etica in
una pluraliràdi regolazioni istintuali e fìsiologico-comportamentali,
per esempio nella regolazione deLsentirsi bene e del sentirsi felici
(edonismo). Può darsi che alcuni residui istintuali, come gli impulsi
protettivi scatenati dalla maschera .infanti k 9 più in generaleìe pùP
sTónf libìdiche, possano più facilmente tradursi nella forma di moti-
I vazioni socialmente legittime. Può anche darsi che essi siano più re­
cettivi verso l’etica del discorso che non, per esempio, gli impulsi di­
struttivi. Ma questo non basta certo a farne delle «radici» dell’etica.
Infatti — a prescindere dall’assimilazione di questi residui alle fonda­
mentali simmetrie su cui si basa la comunicazione quotidiana — ciò
che è eticamente rilevante non è il potenziale derivato dalla storia na­
turale bensì la forma della sua strutturazìonesimbolica. Si tratta del-
la stessa differenza antropologica salvaguardata da Kant con la distin­
zione tra «dovere» e «inclinazione».
Geh len prende le mosse da un’etica biologicamenteradì caca come.
feudemonismo (o, più esattamente, l’edonismo) - vale a dire da una
dottrina che sublima a norma etica il piacere e il benessere privato —
per poi passare a costruirèTeudemonismo sociale come una sua forma
degenerata.

Ci sembra difficile accertare che dalla dottrina della felicità si possa deriva­
re un etica, ma senza questa intuizione non capiremmo neppure il senso
della parola «sociale», che trasforma in postulato etico proprio questa acces­
sibilità generale dei beni materiali di vita (p. 62).

Il nesso di umanitarismo ed eudemonismo, per quanto già preparato dagli


intellettuali dell illuminismo, pote~divelTtarè~cèrtezza ovvia e indubitabile

solo a partire dal momento in cui rindustrializzazione europeo-occidentale


e americana ebbe sensibilmente innalzato il tenore di vita e dal momento in
cui il traffico mondiale complessivo (includente anche la tecnica delle noti­
zie) ebbe^messovìsrosameTHé^in rilievo, ex negativo, il grande numero di bi­
sognosi cui era preferibile prestare soccorso sia per senso di umanità.che per.
interesse allo smercio. In nessuna costellazione storica precedente questo
ethos aveva potuto mettere radici» (p. 84).

Qui non interessa tanto sottolineare il lamento sentimentale, far­


cito di citazioni, con cui Gehlen prosegue la tradizione del masochi­
smo borghese. Questo lamento era già cominciato, se non vado erra­
to, con Ferguson e Montesquieu; poi aveva trovato grandiosi sviluppi
in Hegel e in Tocqueville; ma dopo Ortega, Cari Schmitt e i neoro­
mantici di destra non ha più saputo produrre prospettive nuove. Ora
questo lamento è diventato una litania. Il benessere privato corrompe
la disponibilità ad affrontare i rischi, la priorità del sociale distrugge
ogni politica di grandezza, l’interesse della società ogni sostanza del-
Io stato. Dalle sue letture del settimanale_«Spiegel» Gehlen desume
anche toccanti esempi di decadenza morale, a cominciare dai ripetuti
e scandalosi incìdenti agli aeroplani «starfìghter», finora affrontati
soltanto «in termini di responsabilità individuale», tanto che.QCCortg.
davvero temere*cKè’«~da'hoi ih Germania"!‘elemento personale diven-
ti più plausibile di quello nazionale» (p. 157). Non menodiyeuemi
appaiono le divagazioni antifemministe.
Ora, non c’è dubbio che la burocratizzazione dello stato sociale
produca fenomeni di ^politicizzazione delle masse. Ma da un punto di
vista sistematico sono interessanti piuttosto le difficoltà incontrate
da Gehlen nello spiegare questa costellazione.
Con il socialismo si è infine affermata l’idea che remancipazione
degli umiliati e degli offesi — emancipazione già promessa dal giusra-
zionalismo e dalla rivoluzione borghese — non può essere effettiva-
mente realizzata se prima non vengono liberat^economicamente colo-
ro~cRe risultano oppressi dalla fatica e dal bisogno. Sennonché questa
definizione dell’« il libertà» in termini di sfruttamento, sostanzial-
mente giusta nel quadro di una prospettiva economica, finisce tutta-
via per istituire una correlazione sbagliata tra la miseria_dell,e_rnasse e
Iadoro repressione politica. Si tratta infatti di una.d.efiniziope applica-
bile^sojtanto a partire dalle condizioni specifiche deJLcapitalismO~Zz^è-
94

rate. S.e essa viene tenuta in piedi anche nella mutata situazione di un
capitalismo assoggettato a regole statali (oppure nei paesi industria-
lizzati del cosiddetto socialismo reale), allora può accader^che_alla
correzione dello sfruttamento si accompagni una conservazione del-
l’illibertà, con l’ulteriore svantaggio d[ non poter più identificare
concettualmentelale iìlibertà. Il dominio i nfattf rischia ora divenite.
legittimatoTBal momento che reliminazionejellajfame-è-stata-pre-
maturamente intesa come un realizzarsi della libertà e il superamento
della miseria di massa come un'emancipazione delle masse medesime.
Ceno Marx riteneva irrealistico ogni sgravio economico che non si
accompagnasse a una liberalizzazione del dominio economicamente
istituzionalizzato. Sennonché il soddisfacimento della fame - che in
quanto prerequisito della //AerZ^puÒ'benissimo essere inteso come un
imperativo morale — non è ancora, in sé e per sé, una categoria politico-
morale (com’è invece l’istituzione della libertà). Si tratta di una di-
stinzionè che inTiférimentoallà tradizione marxista venne per_la_pri-
ma volta illustrata còn~là~massima chiarezza da Ernst Bloch. Un tem­
po gli affaticati e gli oppressi coincidevano con gli umiliati e gli offe7
sirmà'chfe oggi affrancato dalla fatica e dallo sfruttamento non può,
perciò stessólcónsiderarsi automaticamente redento e conciliato9.
Non si tratta di cinismo dei benessere, ma semplicemente del ripristi-
no di una differenza effettivamente messa tra parentesi daH’«eudemo-
nismo sociale»10. Storicamente questa confusione può essere stata fa­
cilitata dal fatto che il concetto illuminisiicorborghese di «emancipa­
zione» si appuntava contro le ingiustizie di.un feudalesimo cheuden-
tìfìcàva costitutivamente repressione e povertà, dominio e possesso.
Sólo dimenticandosi di questa differenza, Gehlen può di nuovo ti­
rare in ballo (irridendola) la categoria deirumahìtarismo. Egli mette
criticamente a nudo il carattere inedito di un «privatismo del benes­
sere» contro cui anche Adorno sarebbe altrettanto severo. Tuttavia
Gehlen attribuisce jmmediatamentejale privatismo alla stessa mora-
je universalistica, senza vedere come esso deriyi_piuttosto dalla neu­
tralizzazione e spoi iticizzazione SI questa morale. Gehlen confonde

* E. Bloch, Naturrecbt und menschhcbe Wiirdc, Frankfurt a.M. 1961.


10 Una differenza su cui, da un'altra prospettiva, insiste anche Hannah Arendt a
cominciare da Vita acuta, Stuttgart I960 [tr. it. Vita adiva: la condizione umana, in­
troduzione di A. Dal Lago, Bompiani, Milano 1989, edizione riveduta).
95

entrambe le cose sotto l’unica etichetta di «soggettivismo», inten-


dendo con ciò tuttTgli atteggiamenti che minacciano di erodere la fi­
ducia nelle istituzioni.

Non mi sarei affatto stupito se Gehlen avesse voluto applicare


questa sua tesi del «soggettivismo» ai fenomeni contemporanei delle
controculture anarchiche e «underground». È infatti evidente che
queste culture rappresentano il nucleo istituzionale di un più super­
ficiale movimento di protesta. Stranamente però Gehlen non affronta
questi fenomeni.
Il nuovo anarchismo culturale sembra caratterizzato dal fatto che
i suoi, rappresentanti conoscono molto bene la differenza esistente tra
la dimensione privata di un tenore di vita già garantito e la dimen­
sione politica di un’emancipazione autentica. In maniera intenzional-
mente parassitarla, essi puntano sulle esperignze classisticamente pri­
vilegiate!_d_i un benessere privato, da cui possono in realtà prendere le
distanze solo in quanto è a loro disposizione. Facendo leva sulle forze
della spontaneità e dell’interazione immediata, essi tentano di speri- )
mentare — talvolta con l’aiuto di droghe — le forme di una vita se non
«buona» quanto meno «migliore». Nel medium di una comunica­
zione incessante, essi cercano sia di superare norme profondamente
radicate sia di verificare le condizioni atte a liberare dalla repressione
i rapporti interpersonali. Gehlen avrebbe potuto senz’altro chiedersi
se queste nuove forme subculturali di vita non rappresentino un mo-
dello per quell’etica che è immanente alla struttura di ogni possibile
discorso (etica in cui sembra trovare compimento lo sviluppo della
coscienza morale). Avrebbe anche potuto chiedersi se questo esempio
non rappresenti la prova più calzante alla sua tesi sul soggettivismo:
ossia alla tesi per cui — portata fino in fondo — l’etica della reciprocità^
sembra destinata a distruggere la rigidità delle istituzioni e a sfocia­
re in irrazionalità autodistruttiva. Avrebbe potuto, per esempio, cita­
re un libro come «Acid» e quei fenomeni che hanno indotto Leslie A.
Fiedler a parlare di «nuovo irrazionalismo».
Questi fenomeni testimoniano effettivamente di una svalutazione
del principio di «ragionevole discorso», svalutazione tanto più para­
dossale in quanto esercitata da gruppi che, per la prima volta, sem­
brano voler radicalmente fluidificare tutte le norme nel quadro di
una comunicazione incessante. Questi fenomeni culminano, come
96

Fiedler ha giustamente osservato, nell’idealizzazione di uno stato di


natura che mina alle radici ogni forma socioculturale di vita a partire
dalla pretesa di «tentare l’ultimo salto evolutivo, cancellando com­
pletamente lo stadio dell’età adulta, per lo meno per quanto attiene
alla sessualità»11. Tuttavia, eludendo e aggirando l’intero sviluppo
della coscienza morale, alla nuova forma di vita resta inumano soltan-
to un guscio di comunicazione quotidiana cui è stata tolta la struttu-
ra morale del discorso e che può dunque servire, cut_caLpiùt per
espressioni linguisticamente private. Pensare fino in fondo l’impulso
che muòve questa forma di vita è un’impresa paradossale: e_sso equi­
vale infatti aH intenzione di tornare allo stadio di un’organizzazione
simbolica prelinguistica. La sua produttività consisterebbe nella ge­
nerazione artificiale di paleosimboli (Arieti). Non senza una certa
coerenza vediamo allora l’amore della saggezza essere rimpiazzato
dal l’attrazione per la follia.
Fonando avanti fino a questo punto il discorso, io sto semplice-
mente tentando di rispondere alle domande che ho ipoteticamente
posto in bocca a Gehlen. L’anarchismo culturale ci fa prendere co^.
scienza di una possibilità prima imprevista. Esso isola la categoria po-
1 itico-morale della «liberazione» e della «vita indiyiduàta» dal suo
precedente irretimento con altre categorie di soddisfacimento mate.-
riale e socioamministrativo. Con tutto ciò l’anarchismo riesce soltan­
to a sostituire il vecchio^rìvatismo con un privatismo di tipo nuovo:
Fiedler parla, a questo proposito, di una conversione «dalla polis al
thiaso»12. Anche i contromondi subculturali non hanno un seno ac-
cesso alla situazione in cui si realizza la comunicazione pubblica. Essi
confermano piuttosto una spoliticizzazione che fa da sotterraneo ri^
scontro alla spoliticizzazione rappresentata dal dominante privatismo
del benessere. La violenza dell*anarchismo culturale non è assoluta-
mente capace di modificare ragionevolmente le norme. Essa può solo
inpescare un’erosione di norme, che gli slogan liquidano semplice-
mente perché si presentano come norme. Il risultato è impolitico: es-
so è suscettibile di generalizzazione solo nella forma che possono assu­
mere mode sempfè ^ovejjormkxbeponjocca minimamente la moj_

11 L.A. Fiedler, «Die neuen Mutanten», in Brinkmann, Rygulla (hrsg. von),


Acid, Darmstadt 1969.
12 {Thiaso era un'associazione religiosa dedita al culto di Dioniso.]
97

dalità delle decisioni). Ritengo perciò abbastanza verosimile che que-


ste controculture, nel caso dovessero diffondersi, potranno senzatrop-
pa difficoltà essere riconvertite in culture soggettivistiche del tempo
libero e risucchiate nella divisione-del-lavoro rappresentata dal siste­
ma esistente. Inoltre, vedremo presto le amministrazioni dello stato
sociale impegnarsi al di là delle vecchie definizioni di criminalità e
‘malattia, vedremo nascere nuove patologie sociali e zone grigie cultu-
ralmente accettate nella futura megalopoli.
Ci sarà reazione politica solo nel momento in cui questi atteggia­
menti subculturali dovessero minacciare — tramite abbattimento mo­
tivazionale — la soglia minima di disponibilità all’obbedienza e di
morale del lavoro. Solo in quel caso il.nuovo .soggettivismo potrebbe
essere letto nel senso di un’etica istituzionale à la Gehlen e potrebbe
servire a legitfimare~quejla restrizione della democrazia formale che
già oggi Gehlen suggerisce. Gehlen maschera le sue raccomandazioni
con eufemistici richi ami ai meriti dello stalinismo: «(Analogamen te
alla cultura universalistica dell'atticismo classico! la cultura dei mass
media diffonde oggi tra commercianti, studenti e soldati una menta­
lità umanitaria e liberale da cui solo gli stati dell’Est risultano im­
muni» (p. 29).

Perciò fummo tutti sconvolti quando i russi, nell’agosto 1968, liquidarono


in Cecoslovacchia questo tipo di libertà (una sorta di governo ombra eretto
dagli intellettuali), per tacere della quasi inimmaginabile decisione cinese
di trasformare periodicamente gli intellettuali in contadini (p. 117).

«Il drastico rigetto di questo tipo di libertà da parte delfUnione


sovietica nell’agosto 1968 è stato un evento di grande portata, capa­
ce di procurare un vero trauma» (p. 164).
Da quali carri armati — ci chiediamo — dovremmo noi ora farci
traumatizzare? Nel nostro paese abbiamo già sperimentato una volta
a che cosa mette capo una politica deli’«originarietà contraffatta»
[nachgeahmte Urspriinglichkeit] nel quadro di una civiltà tecnologica
avanzata. Gehlen non può certo farsi illusioni sul tipo di conseguen­
ze che sarebbero oggi generate — nel quadro di uno sviluppo tecnolo­
gico ancora più progredito — da una politica che restituisse artificio­
sa sostanzialità agli istituti del potere. L'istituzionalismo che trovia­
mo coltivato nel triangolo Cari Schmitt, Konrad,Lorenz e Arnold
98

Gehlen porrebbe facilmente accreditare pregiudizi diffusi, scatenan-


do un’aggressività contagiosa e dirigendola contro supposti nemici
interni (in mancanza di quelli esterni). Per questo ritengo opportu­
no — trovandoci noi in un’epoca di relativo liberalismo — di prendere
fin da ora sul serio la coscienza infelice degli intellettuali di destra. Si
tratta semplicemente di ricondurre questa coscienza alle sue vere ra-
dici_stori che, servendoci deU'unico strumento che gli intellettuali di
sinistra possono far valere contro una teoria cpngiuratoria come quel-
la di Gehlen: l’analisi, appunto,.
V

KARL JASPERS
LE FIGURE DELLA VERITÀ (1958)’

Secondo Jaspers, la verità può soltanto essere afferrata a partire


dalla profondità, autenticità e importanza della sua rappresentazione
esistenziale. Sul piano filosofico non esiste verità razionalmente uni­
voca e onnivincolante. La molteplicità storica delle sue figure è ineli-
minaEile: ognuna di esse ha direttp_rapporto con Dio. Nessuno può
pensare di entrare in tutte loro (o anche solo in molte di loro) in qua­
lità di rappresentante innato della verità. Tutte le si deve tollerare e
rispettare come «possibilità» in cui la verità si manifesta agli altri. In
tal modo Jaspers crede di poter conciliare facilmente l’intenzione del-
la completa tolleranza con l’atteggiamento della risolutezza incondi-
ziónàtàrE~chfnon fosse pronto a comunicare in questo modq_con je
verità «altre»,..darebbe soltanto prova della propria non-verità. Così
tutte le idee filosofiche devono assoggettarsi — come a una sorta di
criterio supremo — al principio di promuovere (e non impedire) la co-
municazione. Come conseguenza dellisolamento coatto sotto il ter-
rorismo statale nazista, e delle sue precoci esperienze biografiche,
ogni interruzione della comunicazione deve apparire agji occhi di Ja-
spers comejl male assoluto.
La procedura — per così dire «parlamentare» — con cui il professo­
re americano Paul Arthur Schilpp dà la parola ai «grandi filosofi del
XX secolo» (così il titolo della sua collana) sembrerebbe inventata
apposta per un filosofo della comunicazione qual è Jaspers. Venti-
quattro studiosi affrontano criticamente la dottrina di un noto filo­
sofo vivente, sviluppando osservazioni e ponendo domande, e alla fi­
ne viene concessa a quest’ultimo la possibilità di rispondere in prima

Articolo apparso in ««Frankfurter Allgemcine Zcitung», 22 febbraio 1958.


100

persona. Dopo Cassirer, Dewey, Einstein, Russell e altri ancora, ora è


stata la volta di Karl Jaspers (The Philosophy of KarlJaspers, Library of
Living Philosophers, La Salle (111.] 1981, voi. IX; ristampa dell'edi­
zione tedesca Karl Jaspers, Stuttgart 1957). Quest’impresa editoriale
americana è animata dall’idea ottimistica secondo cui i fecondi meto­
di del dibattito parlamentare possono essere vantaggiosamente tra­
sferiti in campo filosofico. E proprio in questa prospettiva la-filosofia
di Jaspers acquista risonanze particolari, in quanto essa cerca di svi­
luppare - di contro al liberalismo tradizionale - gli strumenti di un
liberalismo storicamente riflessivo, che in un mondo di pretese totalità^
rie vorrebbe incrementare umanità e tolleranza civile. Questo nuovo
tipo di liberalismo (oggi ancora sulla difensiva) vuole rivedere il mo-
dello classico di un sistema concorrenziale di individui che difende­
rebbero la razionalità complessiva solo perseguendo il proprio utile.
Al suo posto esso costruisce un modello di forze che, in competizione
tra lorq^dannopestimonianza (nei loro rappresentanti) delle loro ve­
rità storiche particolari, senza tuttavia permettere di definire.un’uni-
ca verità complessiva. Le questioni universali non sono più decidibili.
attraverso una discussione razionale e in maniera vincolante per tutti.

Hannah Arendt, nel suo contributo al volume, presenta Jaspers


come un «cittadino del mondo» cercando di illustrare l’intenzione
politica della sua filosofia. Il progresso tecnico ed economico ha rac­
colto i paesi del mondo, a partire dall’Europa, in una sola unità di
commercio. Per la prima volta tutti i popoli vivono lo stesso presen­
te: però a questo presente non corrisponde nessun comune passato.
Non che il pluralismo in quanto tale dei diversi passati, o la diversità
delle tradizioni sociali, culturali e politiche, debba, di per sé, rappre­
sentare automaticamente un impaccio al solidarismo dell’umanità.
Ciò che è d’impedimento è piuttosto il pluralismo non pacificato, va-
le a dire tradizioni reciprocamente isolate e «passati» che permango­
no estranei. Una lacerazione autodistruttiva sembra internamente
minacciare il processo mondiale dì unificazione, almeno finchéJJ re-
taggio dei diversi destini non venga reciprocamente, assi mi lato e non
contribuisca a reaJjX2a££jJJ_pLeser>te comune. A tal fine deve instau-
rarsi^una comunicazionejra quelle tradizioni storico-mondiali che —
nei paesi in cui sorsero le civiltà — furono fondate dai_grandi indivi-
dui della cosiddetta epoca assiale (tra 1'800 a.C. e il 200 d.C.): da
1

101

Confucio e Lao-tze in Cina, da Budda in India, da Zaratustra in Per­


sia, dai profeti in Palestina, dai filosofi e dai tragici greci in Occiden­
te. Che cosa potrebbe attagliarsi meglio a questa comunicazione uni­
versale che un pensiero abituato a leggere le filosofie come tante «ci­
fre»? I contenuti dogmatici non vengono affrontati direttamente e
tuttavia il nucleo di verità di tutte le possibili metafisiche, razional­
mente in contrasto tra loro, può essere egualmente salvato. I pensieri
metafisici non valgono come veri nella loro~im med iatezza \feradef)TnV,
ma garantiscono tuttavia la verità di un proprio «spazio di fede»: SQ-
no veri come «contenuti di un impulso esistenziale». Una storia del-
Ìalììosofia di quésto tipo può fornire la parola chiave della comunica­
zione universale a un’umanità che, pur costretta a unificarsi, è ancora
in sé profondamente divisa, schiudendole l’orizzonte in cui essa po-
TrebEiTrealizzare una solidarietà più che mai necessaria.

Nel frattempo Jaspers ha pubblicato il primo volume di una sto­


ria della filosofia che ne prevede tre1. Egli intende dare a questa sto­
ria della filosofia un taglio politico in senso ampio, facendone un me­
dium della conciliazione in analogia alla filosofia universale dell’elle-
nismo, ovvero alla filosofia ecumenica di un Plotino e di un Boezio.
Non che la filosofia debba di per sé guarire il mondo. Però il
mondo potrebbe sempre imparare dalla filosofia a comportarsi razio­
nalmente. Un’umanirà solidale potrebbe affermarsi il giorno in cui
ognuno cercasse di migliorare se stesso neH’atteggiamento^della «tol­
leranza militante» {polemischer Toleranz] (un atteggiamento che limi­
tasse l’obbligatorietà delle proprie idee e delle proprie decisioni a fa­
vore delle obbligatorietà di diversa origine). Subito viene spontaneo
obiettare che la filosofia è debole e lo spirito impotente. Jaspers fa rii
questa obiezione un elemento stoico interno alla sua filosofia alterna­
tiva della storìaTMa ammettiamo pure che si riesca miracolosamente
a diffondere — attraverso una filosofia mondiale della comunicazione —
questa forte coscienza di una tolleranza Alitante. Resterebbe pur
_semprè~in piedi il sospetto che siano le contraddizioni reali inerenti
all’unificazione tecnico-economica del mondo quelle che producono
fjdea normativa di un unico fondamento dello sviluppo sociale e non

1 K. Jaspers, Die grosse» Philosophen, Miinchen 1957, Bd. I [cr. ir. / grandi filoso­
fi, a cura di F. Costa, Longanesi, Milano 197.31.
102

invece.la coscienza - improntata a un’amabile e scetticheggiante ur­


banità tardo-borghese - di una «tolleranza militante» che comunque
non si sentirebbe, alla fine, obbligata da nessuna ragione.

Jaspers tratta la storia della filosofia come storia di grandi filosofi.


Tutte le grandi creazioni risalgono sempre a singoli individui, e ciò
vale anche nel campo della filosofia. L’esistenza dei grandi uomini
sembra essere una garanzia contro la vittoria del nulla. Un presente
che non si rispecchiasse nel ricordo di grandi predecessori resterebbe
schiavo della sua insignificanza. I grandi uomini sono immediata­
mente ravvisabili dovunque si veda il «nuovo» irrompere nella sto­
ria. Come possibilità essi non sono mai immaginabili prima di esser­
si fatti reali. Anche nell'elemento dell'universalità da essi rappresen­
tata sono unici e insostituibili. Il peso e il formato della loro esisten­
za fanno saltare le proporzioni del contesto storico. Essi sono nel tem­
po e al di sopra del tempo: tuttavia non come accade ai grandi della
filosofia hegeliana quando, nell’afferrare col pensiero la loro epoca,
essi si sollevano a un livello superiore ma pur sempre temporale. Ai
grandi pensatori di Jaspers i diversi costumi dell’epoca restano sem­
pre esterni. E se un pensatore può essere_coltp adeguatamente-conj.
soli strumenti dell anaÌTsrsronca, allora è segno che non appartiene
veramente ai grandi. Questi ultimi si presentanonitidiainostrio^chi
solo nel momento in cui, staccandosi dal loro contesto storico, si_riu-
niscono in un eterno «regno degli spiriti». Contemporanei dell’ete.r-
nità, essi-sono-gli-jererni contemporanei di noi mortali. Ciò.che è
eterno neH'opera e^nellajYjta rende i{^grande uomo (Jaspers non in-
trawede grandi donne) come un’apparizione in grado di parlare a
chiunque in qualsiasi tempo. L’individuo può «risvegliare» l’indivi­
duo scavalcando le epoche della storia.
Questo universalismo spazio-temporale dei contatti appare sor­
prendente. Ammesso che esista oggi veramente, non è forse reso pos­
sibile proprio dalla specificità della situazione presente? Le possibi­
lità che io ho, muovendo dalle tradizioni della storia europea, di «in­
traprendere» effettivamente qualcosa con le tradizioni di un Confu­
cio o di un Budda risultano difficilmente separabili dall’oggettiva si­
tuazione storica in cui mi trovo. Le opportunità della comunicazio-
ne — anche rispetto ai grandi personaggi — non sembrano esserejaibi-
trarie bensì piuttosto epocali, ogni volta legate al contesto di una de-
I

103

terminata situazione storica. Non a caso ogni epoca reagisce solo a


determinate altre epoche — quelle nel cui passato essa intrawede il
proprio futuro e la continuità della propria storia — mentre restaJn^
sensibile a tutte le altre. Di questo rapporto attivo anche Jaspers dà
ragione quando parla della «storicità». Ma se riguardasse soltanto
esistenze disperse e isolate, questq rapporto finirebbe per risultare
una mera storicità senza storia. La storia diventerebbe il materiale
d'inesauribili interpretazioni, il materiale in cui ogni esistenza inter-
preta se stessa a modo suo. In realtà, questa autqinperpretazionejlQn
può essere arSitraria, in quanto deve ogni volta assimilarsi ij_suo^pas-
sato particolare? Ci chiediamo allora da che cosa può essere a sua vol­
ta determinato questo modo vincolante di assimilazione se non Ballo
stessoprocesso oggettivo della storia. Questo processo prescindei_da
ogni singola biografia epperò, passando attraverso ognuna di_esseLac­
comuna tutte.le esistenze in una certa situazione. Le obiezioni di.
Merleau-Ponty, contro l’esistenzialismo di Sartre valgono finche per.
l’esistenzialismo_di.jaspers: esso dimentica il «milieu mixte, ni cho;
ses ni personnes», la realtà di quell oggettivo contesto-di-vita che
pur essendo creato dall’uomo gli si contrappone_come.potenza estra-,
néa. Certo, neppure Jaspers ritiene del tutto irrilevante che, nella for-
ma sociologica della sua esistenza, un filosofo si presenti come perso­
na blasonata, piuttosto che come «rentier», letterato, predicatore in
trasferta o funzionario statale. Sennonché la grandezza del personag­
gio fa saltare ogni forma storica, il nucleo di eternità ogni involucro
terreno. Nel loro farsi accessibili a chiunque in ogni epoca della sto­
ria, i grandi personaggi si spogliano appunto della natura vincolante
della loro storicità, ossia del fatto di poter diventare.L’elemento_specL_
fico di una storia determinata e irripetibile.

Il fatto è che la storia universale della filosofia non si limita a stac-


care i grandi personaggi dal loro contesto. reaie._Essali raccoglie an-
cHeTrTun «al di là» della storia riservato a_lpro:_un «regnoJdei^ran-
di spiriti», una sorta di repubblica metafisica deLsapientj, dove essi
s’incontrano tra loro come fanno i filosofi della «Scuola di Atene»
nell’affresco di Raffaello. Anche se le loro figure non sembrano mai
sussumibili a un’epoca determinata o a un tipo ideale, nondimeno es­
se diventano «parlanti» solo nella misura in cui rappresentano delle po­
tenze [AlààA/e]- E qui l'eco del discorso di Ranke sulle grandi potenze
104

non è forse casuale. Nell’interessante «Postfazione» alla nuova edi­


zione della sua Philosophie in tre volumi (Heidelberg 1956) [tr. it. a
cura di U. Galimberti, Mursia, Milano 1972, 1977, 1978], Jaspers
parla di un «organismo delle originarie potenze-di-vencà in concor­
renza tra loro». Esse acquistano ilrango di «idee», di tipo evidente-
mente più platonico che kantiano. E quando Jaspers cerca di rag-
gruppare i grandi filosofi a_ parti reda .queste idee — conferendo a essi
il «riflesso umbratile di ordini eterni» — ecco che noi troviamo gHDD
di contatto_tra. iplatonismo,organico del giovane Schelling e il pla-
tonismo storicistico del vecchio Jaspers.
" ITprimo tipo abbraccia gli «uomini esemplari»: Socrate, Budda,
Confucio e Gesù. Pur non avendo essi scritto nulla (se si esclude Con­
fucio), hanno dato tuttavia inizio, con la loro dottrina, a tradizioni
impressionanti. Filosofi in.senso stretto li troviamo invece nel secon-
do tipo, quello che raggruppa gli «incessanti generatori di discorso fi­
losofico»: Platone, Agostino e Kant. Più che una tradizione di idee
prestabilire, essi istituiscono delle inesauribili possibilità di pensiero.
Nel gruppo dei metafisici seguono anzitutto quelli che sj-acquietano,
per così dire, nella visione delle loro idee, in prima linea Plotino e
Spinoza. Poi i mondanamente pii, come Empedocle e Bruno. Poi i so­
gnatori di verità e follia tipo Bóhme e Schelling. E finalmente i co­
struttori come Fichte, che non sono però facilmente distinguibili dai
grandi sistematici come Aristotele, Tommaso e Hegel. I «trivellatori
negativi» come Cartesio e (stranamente) Hume, vengono contrappo­
sti ai «radicali risvegliatoti» tipo Pascal e Kierkegaard. Jaspers mano­
vra i suoi strumenti con grande sensibilità psicologica e biografica. I
risultati migliori sono ottenuti nell’illustrazione di quegli uomini
esemplari in cui «vita» e «dottrina» sembrano ancora presentarsi co­
me le facce d'una stessa medaglia. Al secondo tipo, i «generatori di
. discorso filosofico», Jaspers si sente simpateticamente collegato. Ep-
però solo nel trattare gli scritti sporico-poi iti ci di Kant egli raggiun­
ge nuovamente quella sottile padronanza che aveva già conferito uno
splendore ineguagliabile alla monografia su Schelling. Dal_suo modo
di esporre Kant^si^ intuisce chiaramente come l’esistenzialismo di Ja_-
spers sia una forma di neokantismo (se mi si perdona questa frettolo­
sa attribuzione). E qui sta forse la radice profonda della sua sotterra­
nea contrapposizione a Rickert. D’altro canto, la sua nervosa recetti­
vità proprio nei confronti di un «sistematico» come Spinoza tradisce
105

le intenzioni metafisiche della sua filosofia, che in questo opus magnimi


viene organizzata - a partire dai temi classici di cosmologia, psicolo­
gia e teologia razionale — secondo la tripartizione di «orientatone fi­
losofica nel mondo», «chiarificazione della_esisc-enza» e «metafisica».

Una storia mondiale della filosofia come storia di grandi filosofi,


anzi «dei» grandi filosofi, deve disporre di una misura non inganne­
vole della grandezza (anche se non è detto che questa misura debba
garantire una selezione completa e definita). Pur con tutte le riserve
che possono sempre rimettere in discussione un certo giudizio (sulla
grandezza realizzata oppure mancata), questa storia deve insistere
sull’oggettività delle gerarchie di valore.
Jaspers non è accusabile di arroganza aristocratica dello spirito, jn
quanto egli non attenta minimamente a ciò che — nel linguaggio del­
la «cifra» metafìsica — si chiama «eguaglianza di tutti gli uomini da­
vanti a Dio» né sottovaluta la reafe importanza etica dei molo. Tra
gli uomini non esiste nessuna differenzaassoluca, «benché le distan­
ze si ano m os t ruose ». Tuttavia Fritz Kaufmann — nel suo contributo
al citato volume KarlJaspers della collana di Paul Arthur Schilpp - si
chiede se, enfatizzando le affi.rii.cà_di uomini che autonomamente si
collocano ai vertici dell’esistenza, Jaspers non finisca_per sottovaluta
re la forza della compassione e dell'amore nei confronti di tutti. Kauf
mann riconduce l'ethos dell’autorealizzazione aristocratica all’interio­
rità protestante, ossia a quel

profondo e intenso autoinreressamento, rispetto al quale anche il lavoro so­


ciale più altruistico — tutto quell'impegno per l’esteriore benessere degli
uomini - deve apparire cosa vuota e secondaria. Questo atteggiamento ha
guidato Lutero nella sua presa di posizione durante la guerra dei contadini,
e risuona ancora nella lettura che Nietzsche dà della religione o nella stessa
opera di Thomas Mann, soprattutto in libri come le «Considerazioni di un
impolitico».

Jaspers^oLtolineadue direzioni della giustizia. La prima mira a sal-


vaguardare l’efficacia degli uomini migliori., la seconda il diritto con
cui tutti cercano di migliorare le condizioni materiali di vita. Così la
distinzione ontologica di Heidegger tra «autenticità» e «decadenza»
si ripresenta in Jaspers come differenza tra la libertà dell'impulso esi­
stenziale e il mero «essere-così» di chi si lascia vivere. Allo stesso
106

modo si divaricano tra loro la «storia effettuale» innescata dai grandi


uomini e il «condizionamento delle masse».
Questa doppio piano informativo non risolve certo l’imbarazzante
problema di determinare chi siano i grandi uomini. La filosofia della
«tolleranza militante» perderebbe jl suo aspetto,migjiore se dovesse
compiere in segreto ciò che nonjyuoie confessare di essere: giudizio di |
Dio sugli uomim. Jaspers si accontenta di osservare: io non giudico
nessuno in modo definitivo, interrogo con insistenza, ma non do va­
lutazioni complessive. In effetti, però, egli attribuisce agli uomini la
qualifica della «grandezza» non soltanto in riferimento a questo o a.
quell’aspetto, bensì rispetto alla loro sostanza interna. Se la grandezza
di cui parla Jaspers riguardasse soltanto le oggettivazioni estrinseche
degli uomini — cioè prestazioni riferite ad aspetti esterni e non coin­
volgenti il vulnerabile centro della persona — allora noi non potrem­
mo affatto parlare di un ordine gerarchico delle esistenze. Jaspers tut­
tavia riconduce esplicitamente la grandezza alla gerarchia deIllesi
zi. E non basta ancora. Chi non accetta questo giudizio gerarchico,
viene da lui accusato di nutrire «istinti bassi», istinti che livellano
l’autentico formato dell’uomo a vantaggio di maghi, superuomini e
leader totalitari. Queste alternative, ripetutamente espresse, tradisco­
no in Jaspers un comprensibile impulso di reverenza conservatrice;
tuttavia sono eguali a quelle adoperate da altri per mettere sulla-stes--
so pianffdemocrazia e fascismo. Una filosofia che personal izza jnjque^
sto modo il processo storìccfnon è più in grado di distinguere tra la
vita e l’opera del singolo individuo: alla fine ogni giudizio sul senso^
oggettivo della prestazione diventa anche una sentenza irrevocabile^
sull'esistenza. Questa filosofia non si rende conto che la stessa con­
traddizione tra la vita e le opere può_talora essere il risultato necessa-
rio delle forze oggettive. Essa non capisce come tale contraddizione
possa persino diventare la «normalità» di una situazione alienante
(anzi, come questa normalità si sia forse già persino realizzata).
Perjaspers la grandezza dev’essere qualcosa di positivo da_qua-
lunque parte la si consideri. Perciò egli deve chiedersi se non possa
esistere anche-ùnaTgràhdezza della confusione e della pazzia, una
grandezza dell’apparenza e della seduzione. Una filosofia per cui au-
: tenticità e profondità, e (in ultima istanza) anche grado e grandezza,
, siano poste come identiche alla verità deve necessariamente negare
grandezza alla falsità e alla cattiveria. Non che Jaspers non veda lo
r

107

splendore luciferino con cui certe creazioni nascono artificialmente


dal nulla. Ma alla fine queste creazioni devono sempre lasciarsi sma­
scherare come «vuote di esistenza», come incanto illusorio. Analoga­
mente a Schelling, anche Jaspers definisce il male come uno «sradi­
carsi» dellojpi rito dal fondamento dell’esistenza. Isolandosi, lo spiri­
to producejncantamento: già la sua irresolutezza tra bene e male ba-
sta a farlo scivolare nel male. La grandezza invece ospita il male soL
tanto in modo provvisorio. Nei grandi personaggi possono talora es­
serci degli elementi illusori e negativi, ma agli occhi di Jaspers non
esistono mai grandi stregoni in quanto tali, persone grandi nel fare il
maletnon esiste l’elemento demoniaco, in_sé_e_per_sé. E anche se le
grandi esistenze non sono mai immediatamente e interamente «buo-~
ne», tuttavia è «buono» ciò per cui esse sono da ritenersi «grandi»,
Come possiamo tuttavia distinguere nel grande personaggio ciò
che è bene da ciò che è male, se è soltanto la «grandezza» a caratte­
rizzarlo nella sua sostanza interna? Pensata in questo modo, la gran­
de personalità si giustifica automaticamente da sola. Come si può
sensatamente esortare a prendere partito contro un personaggio fata-
le o contro le conseguenze da lui fatalmente prodotte? Inoltre, anche
sulle premesse siamo costretti a dubitare. Non abbiamo forse speri­
mentato che persino le cose più infami si possono dire in maniera
grande - veramente grande seppure non veritiera? Anche nel male lo
stile può talora presentarsi come perfetto. Alla fine, una verità for­
mulata semplicemente in termini esistenziali non riesce a fornire nes-
suna dimensione critica per l’assimilazione della storia. Una verità si­
mile - non sapendo staccarsi dalle manifestazioni dei grandi perso­
naggi - finisce per equiparare apologeticamente ciò che è imponente
a ciò che è importante, e ciò che è importante a ciò che è giusto.
L’imperativo morale di Jaspers — quello di oltrepassare tutte le fazio-
sitàTlottrinali per mirare all’unico impegno in favore della ragione,
dell’umanità e della bontà — perde ogni capacità discriminante nel
momento in cui deve accettare la condizione di un impegno altret-
tanto indeterminato quanto risoluto.
Per Jaspers solo la scienza può pretendere validità universale. Al­
la filosofia invece non è dato appellarsi alla logica della coscienza co­
mune. Andando al di là di questa logica, la filosofia deve piuttosto
appellarsi alla meta-logica dell'esistenza individuale^Essa deve — an­
che se non dispone dell’attrezzatura adeguata — trattare oggettiva-
108

mente di cose che non sono oggettivabili. E proprio questa tensione,


secondo Jaspers, la filosofia dovrebbe saper riflettere dentro di sé, fi­
no al punto in cui la stessa logica sembra avvitarsi e precipitare su se
stessa. Resta solo da chiedersi se il «crollo» de Ila logica sia davvero
così rapido e indolore come Jaspers sembra credere nel postulare una
differenza assoluta tra sapere scientifico e fede filosofica.
VI

ERNST BLOCH
UNO SCHELLING MARXISTA (I960)*

Non fosse che per il leggero fastidio derivato dall’uso eccessivo


fattone da Bloch, avremmo scelto di cominciare proprio da questo
motto: «La ragione non può fiorire senza speranza, la speranza non
può parlare senza ragione: entrambe legate in marxistica unità.
Un'altra scienza non ha futuro, un altro futuro non ha scienza». È tra
i non molti epigrammi del nostro pensatore epico il quale — al di là
di Spurenx e delle sue stesse predilezioni — non sempre prova la sua
forza nel piccolo formato dell'aforisma e della parabola. Bloch si la­
scia trascinare dalla piena del pensiero nei meandri del racconto.
L'opera voluminosa e riassuntiva del filosofo di Lipsia — opera scritta
negli Stati Uniti, rivista e completata nella parte orientale del nostro
paese, data per la prima volta integralmente alle stampe nella sua
parte occidentale2 — riflette così bene nella sua storia esterna quella
interiore: l'odissea di uno spirito che muove dallo spirito dell’esodo.
Per esperienze e traviamenti cova il pensiero, ispirandosi al «covare»
con cui Jakob Bòhme designava l’oscuro fondamento del mondo. «Il
nulla ha fame di qualcosa - aveva scritto Bòhme - e questa fame rap­
presenta anche il primo verbo come pura voglia: fiat». Seguendo
questo motivo, Bloch contrappone la fame come pulsione fondamen­
tale alla libido freudiana. Una fame inestinguibile spinge avanti gli
uomini, trasforma lautoconservazione in autoaccrescimento, diventa
(con figura illuminata) forza esplosiva contro le prigioni della po-
vertà. La fame istruita — altra forma di dotta spes — diventa decisione

‘ Originariamente pubblicato in «Merkur», XIV, n. 153, I960, pp. 1078-1091.


1 (E. Bloch, Tracce, a cura di L. Boella, Coliseum, Milano 1989.]
2 E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt a.M. 1959 Itr. it. Il principio speran­
za, introduzione di R. Bodei, Garzanti, Milano 1994].
110

di eliminare tutti i rapporti in cui gli uomini devono vivere un’oscu.-


ra miseria. La fame appare come un’energia elementare della sperane
.?a. La stessa opènTche Bloch ha dedicato alla speranza trattiene in sé
qualcosa della fame: partita dalla grandiosa intenzione di sistematiz­
zare in sé tutte le speranze, essa non porta a termine il sistema di una
loro compiuta concettualizzazione.
Che la ragione debba anzitutto comprendere è anche l’obiezione del
positivista, quando sente dire che una ragione senza speranza non po­
trebbe mai essere in grado di fiorire. Bloch però recupera con una let­
tura positiva ciò che il motto positivistico sembra dissolvere nell’ap­
parenza delle domande mal poste. Non diversamente dal positivista,
anche Bloch denuncia come apparenza i miti, le religioni e le filoso­
fie; tuttavia, come indicazione di ciò che l’uomo dovrà costruire nel
futuro, egli li prende terribilmente sul serio. Quasi seguendo una di­
stinzione della moderna logica scientifica, Bloch mette da parte l’ele-
mento normativo, scremandolo per così dire dagli elementi fattuali,
e tuttavia non lo intende•'còmFun'fàttÒreÓmòlogico bensì, piuttosto,
come là’séclé"dì quelle esperienze intenzionali che muovono dalla
realtà esistente per trascenderla. Alla filosofiajradizionale Bloch non
rimproverajtanto il suo coraggioso impulso di trascendimento, quan­
to la «falsa coscienza» con cui essa lo ha coltivato: come se ciò che si
dischiudesse veramente al trascendimento filosofico potesse essere^
una sostanza passata o_«già da sempre» presente. Così Aristotele ve­
deva nella sostanza qualcosa di passato, e ancora Heidegger concepi­
sce l’assente presenza dell’essere come l’imminente ritorno di qualco­
sa che già era all’origine. La conoscenza — che dall’anamnesi platoni­
ca fino all’analisi freudiana sembra seguire la direzione del ritorno
rammemorante — in realtà si riferisce anche a qualcosa che è ancora
«in arrivo» e oggettivamente possibile. Questo «qualcosa» designa i
tratti di una «vérité à faire» che, non essendo ancora reale da nessuna
parte, può effettivamente dirsi «utopica». D’altro canto l’utopia, dal
momento in cui così venne battezzata da Thomas More nel suo De
nova insula utopia, potè svilupparsi in utopia concreta solo nella misu­
ra in cui l’analisi dello sviluppo storico e delle forze motrici della so­
cietà ha portato allo scoperto le condizioni della sua possibile realiz­
zazione. Di questa analisi Bloch non si preoccupa: egli dà per sconta­
to che labbia già compiuta il materialismo storico. Piuttosto, il peri­
colo maggiore si nasconde per lui all’interno del suo stesso schiera-
!

Ili

mento: nel corso ^Jella sua realizzazione, l’utopia potrebbe venire tra­
dita dallo «schematismo di chi è soltanto ricco digitazioni», oppure
dalla «prassi_di chi ha le mani vuote». Così egli dedica il massimo
impegno ad afferrare le dimensioni deli'utopiain sé e a preservarla rin-
novata per le generazióni successive^.
Bloch vuole conservare nel socialismo — che pure vive di critica
della tradizione - la tradizione di quanto esso critica. A differenza
dell’antistoricismo di una critica ideologica «à_la» Feuerbach — che
toglie allo «aufheben» hegeliano metà del suo senso, accontentando­
si del «tollere» e rinunciando allo «elevare» — Bloch vuole estrarre
idee anche dalle ideologie e salvare la «vera» coscienza anche nella
«falsa». «Ogni grande cultura del passato è previsione di una riusci­
ta, almeno nella misura in cui essa si lasciò costruire con immagini e
pensieri sull’altura lungimirante del tempo». Così anche la critica
della religione che Marx riassunse nelle sue Tesi su Feuerbach può esse­
re reinterpretata. Dio è morto, ma il posto da lui occupato gli è so­
pravvissuto. Lo spazio in cui l’immaginazione degli uomini aveva col-
locato Dio e gli dei resta — dopo che queste ipostasi sono crollate —
come una sorta di contenitore vuoto. L’averne sondato le dimensioni
profónde,"comprendendo alla radice il senso dell’ateismo, dischiude
iTdisegno di un futuro «regno della libertà».
If sovrappiù culturale, la verità cifrata dei mitologemi, Bloch la
strappa all’economicismo riduttivistico del «diamat» con una varia-
zione che fa l’occhiolino a Leibniz (il quale a sua volta lo aveva fatto
a Locke). Nulla c’è nella sovrastruttura che non sia già presente nella
struttura (a parte la sovrastruttura stessa). Un’ortodossia salomonica,
sistematicamente applicata. E tuttavia non (come pure sembrerebbe)
una regressione da Marx a Hegel. La fenomenologia della speranza, a
differenza di quella dello spirito, non corre dietro alle proprie figure
trascórse ."Per Bloch, piuttosto, le figure dello spirito traggono og­
gettività dalla validità sperimentale di un novum progettato in antici­
po. La filosofia ha finora tenuto celato il suo segreto: l’oggettiva pos­
sibilità di un regnimi libertatis. «Finora, la coperta gettata dall’anam­
nesi platonica sull’eros dialetticamente aperto ha continuato a rin­
chiudere la vecchia filosofia, inclusa la filosofia hegeliana, in una di-

* Questo saggio fu scritto prima che Bloch abbandonasse la DDR e si trasferis­


se nella Germania Federale.
112

mensione antiquaria e contemplativa». Antiquaria, per via del travg-


stimento del futuro in abiti da tempo superati. Contemplativa, in
quanto una genesi in tal modo rigettata sugli inizi (dalla fine solo au­
spicata) r i serva erroneamente al rispecchiamento teoretico ciò che,
dopo essere stato preparato criticamente, dovrebbe essere realizzato
solo dalla prassi responsabile.

Resistenze contro l’utopia, sul piano letterario e psicologico

A prima vista, la congiuntura non sembra troppo favorevole alle


utopie. Da quando Karl Mannheim, alcuni decenni fa, diagnosticò
come moribondo, sul piano sociologico, l’impulso utopico, il quadro
sintomatico sembra avere trovato molte conferme. Più si dilata la
pianificazione militare della guerra fredda, più l’occidente si corazza
politicamente contro il futuro. Nella Germania Occidentale la rivo­
luzione di destra (benché frantumata) festeggia postuma i suoi suc­
cessi letterari contro la rivoluzione di sinistra. Molti argomenti sca­
gliati contro il «vuoto sentimentalismo» dello storicismo derivano
evidentemente da Nietzsche. Pur essendo notoriamente contrario a
ogni mero opinare, Hegel finiva sempre per credere nel progresso
(seppure attraverso la lente soggettiva rappresentata dalla coscienza
della libertà).
NellZattuale campagna contro l’utopia sono state sviluppate, due
linee strategiche diverse4. Nella prima di esse noi troviamo una dj-
retta negazione della storia. A ciò mira, tutto sommato, sia quel pla­
tonismo antropologico isce le condizioni di una «sopravvivenza
ottimale» e crede_di-poter indicare.gli standard immutevoli dipana
vita ora sublimantesi ora degenerante. Sia — in direzione apparente­
mente complementare — quel platonismo estetico che, nel mondo delle
forme pure, promette eternìta~ànpér?etti «cristalli» formati dai gran­
di individui ne[ loro momenti felici. In entrambi i casi vengono bo-
nificatTgli aajuitriiiLd£lla_s_toiia: ciòcche in essa appare come una
possibile realizzazione-di-senso svapora negli insensati cicli della na-

4 Queste riflessioni, alla fine degli anni Cinquanta, volevano definire la posizio­
ne di Bloch rispetto a quella di Gehlen e Benn, da un lato, di Heidegger e Jùnger,
dall'altro. (N.d.A. all'edizione dei 1977.]
113

tura. Sennonché, proprio ora, la scoria mondiale ci trascina con rutta


evidenza verso cesure epocali. La dialettica della razionalizzazione
smaschera il carattere ideologico di ogni natura umana concepita co­
me immutabile e di ogni negazione pregiudiziale del progresso. Per­
ciò la seconda linea strategica cerca di venire incontro a questi dati di
fatto: essa non mira più a una diretta negazione della storia, ma piut­
tosto a una sua indiretta persuasione \ì)berredung]. Il pensiero es.catP~
logico punta sul ritorno.dcujn’epoca. mitologica, sia quando ritieOJ?
che tale ritorno venga favorito dalla rammemorante evocazione del
'destino dell’essere sia quando lo affida a una botanizzante filosofia della.
'storiadeipianeta. In tal modo la filosofìa dialettica della storia verreb­
be battuta sul piano di una meta-storia, e la situazione storica reale
non avrebbe più bisogno di sottoporsi alla discussione^azionale^circa
ìe^ sue possibilità oggettive. Questo pensiero strumentalizza la consa­
pevolezza della crisi semplicemente per riassimilare tutta la storia ai
cicli di una «superstoria». Esso sottrae il processo storico alle possi-
biTTta di autodeterminarsi e lo rigetta nelle proporzioni invariabili di
un «accadere» naturale. Il libro della storia viene ritradotto nel libro
di una mineralogia epocale. Il principio di conservazione dell’ener­
gia; riducendo metafìsicamente allo stesso denominatore fìsica e mo­
rale, esclude ogni innovazione e ogni possibilità di progredire verso il
meglio, persino in quella dose omeopatica rappresentata dal «sogna-
re a occhi aperti». Bloch invece registra i moti più sottili di questa
tendenza~cò'me le cellule di un unico grande sogno rivolto in avanti,
come nucleo di quel «principio speranza» che è il cardine della storia
umana. Di fronte a cose simili Ernst Jiinger, facendosi capofila di un
intero settore culturale, si limita a scrollare le spalle:

Talora si sente dire, persino da filosofi: «Se non ci fosse questo o quell’altro,
tutto andrebbe per il meglio». Probabilmente, invece, se non ci fosse questo
o quell’altro le cose starebbero ancora peggio. Per tacere del fatto che non
appena scompare un certo spauracchio, subito ne nasce uno nuovo che lo
rimpiazza. Tesi di questo genere poggiano sull’equiparazione di ragione e
morale. Il mondo è pieno di sottili ragionatori che si rimproverano a vicenda
di essere irragionevoli. Con tutto ciò, le cose continuano a seguire il loro cor­
so, che è manifestamente diverso da quello che tutti preconizzano. Chi sa os­
servare con attenzione questo corso è certo più vicino alle fonti di chi prefe­
risce invece schierarsi con questo o quel partito, sia che questo partito voglia
affrontare di petto l’intera situazione sia che tenti di modificarne i dettagli.
114

Bloch vedrebbe qui il linguaggio di chi, preposto come guardia­


no a sorvegliare le porte, vorrebbe di nuovo (e apparentemente non
senza qualche ragione) «chiudere» l’apertura del mondo — di quel
mondo che in quanto amministrato è già in ogni caso sempre più
chiuso. Contro questo nuovo romanticismo egli potrebbe portare la
testimonianza di un antesignano come Franz Baader:

È un radicato pregiudizio degli uomini credere che ciò che si suol chiamare
il «mondo del futuro» sia cosa già bella e scodellata per loro, come una sor­
ta di casa già pronta in cui essi non abbiano che da entrare. Invece quel
I mondo è soltanto l’edificio che gli uomini saranno in grado di costruire, un
1 edificio che cresce insieme a loro5.

Nietzsche riscoprì la vecchia idea dell'eterno ritorno al fine di


santificare ristante? NelFz/zwr fati la volontà che assalta le cime rag­
giunge l’apice del Paltò meriggio. Se anche al più effimero dei mo­
menti,nel_ciclo inarres tabi le delle energie finite della vita, viene con­
cesso un ritorno, e dunque uffeternità — come dire serietà, significa­
to indimenticabile nel succedersi dei fenomeni, equilibrio di valore
con tutti gli altri momenti -, allora, e soltanto allora, può dischiu­
dersi alla coscienza disillusa la felicità piena dell’istante, la felicità
dell’istante pieno. La tensione della «volontà ultima» cancella infatti
il proprio proiettarsi nel futuro. In ogni singolo istante essa non sem­
plicemente accetta, ma anche gioiosamente afferma tutta la profon­
dità del presente. Bloch si lascia guidare da questo motivo_nietz-
scheano: «L’ultima volontà è quella di essere autenticamente presen­
te. Alla fine l’uomo vuole essere se stesso nel ‘qui e ora’, vuole essere
nella pienezza della sua vita senza rinvii e distanze». Ma l’idea re­
dentrice di Bloch — la speranza — va in direzione opposta all’idea dej-
l’eterno ritorno di Nietzsche. Ogni semplice «riforma» della coscien­
za morale (cioè qualunque trasvalutazione che fissasse in altro modo
il trasvalutato) renderebbe ancora più impenetrabile l’pscurità dej-
1 istante vissuto. Per questo dobbiamo spezzare la catena del l’eterno
ritorno e guadagnare per via utopica l’uscita che porta ai paesaggi
non ancora percorsi.

5 F Baader, Sàmtliche WerJte (ristampa dell’edizione Leipzig 1851-1860), Bd. VII,


Aalen 1963, p. 17 esgg.
115

La spinta inavanti_quinon trova soltanto uno sbocco e uno spazio libero —


dove ancora si può percorrere, scegliere o abbandonare un certa strada. Al di
là di questo spazio, nell'ambito della possibilità oggettiva, noi troviamo an­
che qualcosa che ci corrisponde, qualcosai_per-cui la nostra spinta non è de-
stinata a girare sempre ajvuotq.

Il «carpe diem» diventa effettivo solo se viene sciolto il sigillo del-


r«amor feti», solo se viene sollevata la coperta che_l’anamnesi plato­
nica ha gettato suLLeros_diaIetticamente aperto. Questo modo di rife­
rirsi a Nietzsche colloca Bloch agli antipodi delle varie correnti antil-
luministiche_che — servendosi di Nietzsche — vorrebbero togliere il
vento dalle vele dell’utopia.
Anche prescindendo da queste resistenze esterne, la ricezione del­
l’opera di Bloch potrebbe però essere ostacolata dalla sua stessa forma
interna. Ciò che Benn rappresenta in campo letterario e Schmidt-
Rottluff in campo pittorico, potrebbe ora essere rappresentato da
Bloch in campo filosofico. Alludiamo al tardo espressionismo, a uno
stile trasferito dai primi decenni del nostro secolo direttamente nella
sua metà, uno stile della vecchiezza con segni di chiarificazione ma
anche di rilassamento. I frammenti ormai «scoppiati» di una termi­
nologia piena di trattini e di parole composte, il proliferare di locu­
zioni pleonastiche, il lungo respiro delle cadenze ditirambiche, una
scelta di metafore che a tratti ricorda più Bócklinjche Benjamin, tut­
to ciò - pur tradendo ancora grandezza e forza — rinvia a un’epoca de­
cisamente trascorsa. Inoltre il raggio utopico di Bloch si colora nello
spettro di esperienze generazionali che oggì~noh"nsultano più così
evidenti. Andando fuori moda, lo «Jugendbewegung» non può man­
tenere la stessa serietà di un «Biedermeier». Fenomeni come la fuga
nella natura selvaggia, la nostalgia per la vita errabonda dei « Wande-
rer», il sentimentalismo verso circo e prostitute, sembrano oggi di­
ventati obsoleti in una misura che va al di là del normale processo di
invecchiamento che colpisce nella modernità tutto ciò che si presen­
ta come nuovo. La psicologia giovanile del «Wandervogel» ha così
lasciato le sue «tracce» nello stesso concetto blochiano di speranza.
Sennonché alla gioventù di oggi si è voluto attribuire, non senza una
qualche ragione, il carattere dello scetticismo. Ed è lecito chiedersi se
in questo scetticismo non trovino espressione esperienze diverse,,
sfuggite al romanticismo tradizionale deH’esploratore fine-secolo,
116

esperienze che contraddicono non tanto l’utopia quanto la maniera


biochiana d7condurci a essa.

L’eredità della mistica ebraica

Facendo il suo ingresso inaspettato sotto il cielo di Bonn, Ernst


Bloch ha sconvolto la topografia consolidata.
Appropriandosi della filosofia europea senza prima immergerla
nel crogiuolo della critica trascendente, il marxismo (almeno nel caso_
di Bloch) produce una sorprendente mediazione tra tradizioni filoso-
fiche che, soprattutto in Germania, risultano tra lorQ.srparate .dai
fronti confessionali. L’elemento ebraico all’interno del marxismo pro-
duce una sensibilità particolare verso tradizioni in precedenza cust<>
dire daìTTkabbala e dalla mistica, nonché verso tradizioni pitagoriche
ed ermeticITe spesso censurateTcomunque mai saìiLe_alla ribalta del-
làTilosofia ufficiale. È noto come il medioevo cristiano non si sia mai
veramente applicato ÌTsgomitolare il nodo della filosofìa ellenistica.
Sotto l’etichetta di neoplatonismo, questa antica tradizione si è con-
fusamente riaffacciata alla consapevolezza dell’era moderna a partire
dal rinascimento (in particolare nel quadro del rinascimento tedesco
ruotante attorno a Paracelso). Si tratta di una corrente che è già vita-
le in Bóhme, lascia tracce visibili nella monadologia. di Leibniz, rag­
giunge i tre seminaristi di Tubinga (Hegel, Schelling e Hólderlin) at­
traverso la mediazione del pietismo svevo di Oetinger. Ma soltanto
con la filosofia della natura schellinghiana — e soprattutto con la rela­
tiva dottrina delle «età del mondo» — essa oltrepassa la soglia della
grande speculazione. Già soltanto dalle etichette di una filosofìa con­
cernente «natura» ed «età del mondo» comprendiamo come questa
corrente di pensiero orbiti ellitticamente sui due «fuochi» della ma­
teria e del processo storico: una vera tradizione apocrifa di «materiali­
smo storico» cui persino Marx fa esplicito riferimento nel corso di un
suo passo polemico contro il materialismo meccanico del Seicento in-
glese e del Settecento francese (il passo si trova nella Heilige Familitf.

6 «Tra le varie qualità innate della materia il movimento è la prima e la più eccel­
lente, non soltanto come movimento meccanico e matematico, ma ancor più come
pulsione, spirito vitale, tensione, tormento della materia (per usare questa espressione
117

In Germania, com’è noto, la filosofia vive di spirito protestante, ai


punto che i cattolici, quando vogliono filosofare, sono quasi costretti
a farsi protestanti. Per converso, il pensiero cattolico non si è quasi
mai spinto fuori dalla torre d’avorio del tomismo (se non indossando
vesti extrafilosofiche). Tenendo presente tutto questo, si capisce bene
lo sfondo su cui la filosofia di Bloch (che ha sempre inteso Cristo in
maniera vetero-testamentaria, ossia come profeta di un regno di que­
sto mondo) viene ad assumersi, in campo filosofico, funzioni d’inter­
mediazione del tutto particolari. L’ascolto e l’obbedienza del logos
divino nella storia hanno allontanatola filosofia protestante dalla na­
tura non meno di quanto l’intuizione (attraverso l’occhio) del logos
divino nella natura abbia allontanato il pensiero cattolico dalla storia.
Un dato di fatto che non sarebbe difficile spiegare in termini sociolo­
gici. Nella tradizìòne~ébfaica'F'nébpTatonica, invece, convergono fin
dall’inizio entrambe le idee: l’attiva autoliberazione deH’uomo nel
corso della storia così come la resurrezione di una natura decaduta-
Nei Manoscritti del ’44 di Marx, Bloch trova la formula per risolvere
razionalmente questa utopia ancora impigliata nel mito: il socialismo
promette, nello stesso tempo, di naturalizzare l’uomo e umanizzare la
natura. Nell’orizzonte del futuro, la natura compiutamente dispiega­
ta coinciderà con una stòria fimàTmehte prodotta. «Perciò la natura si
chiude in sé senza trascorrere, ci circonda e ci avvolge di mistero, in­
determinatezza ed enigmaticità: un paesaggio che, senza aprirsi da­
vanti a noi, allude al futuro».
In questa frase risuonano armonie che rinviano alle melodie di
Schelling7. L’esperienza base di Bloch sta negli aspetti oscuri, inde-
terminati e anelanti, dell’attimo vissuto, in quel «nulla affamato di
qualcosa» di cui avevano già parlato i mistici e il cui astratto splen­
dore ancora riluce'nell’«ouverture» della Logica hegeliana. In questa
«fame arcaica» il nodo del mondo chiede d’essere sciolto e, fintanto
che non lo è, rigetta continuamente la vita sulle sue origini.

Così ogni attimo vissuto, se avesse occhi, darebbe testimonianza di quel-


l’origine del mondo^he in lui continuamente riaccade. Nella misura in cui

di Jakob Bòhme)» K. Marx, F. Engels, Werke, Bel. Il, Berlin 1958, p. 135 (tr. ir. La
latra famiglia, a cura di A. Zanardo, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 169].
7 Cfr. infra, cap. IX.
118

non si è ancora presentato, ogni attimo si colloca nell’anno zero della nasci-
ta del mondo.

Un'idea che potrebbe essere stata presa dal primo frammento


schellinghiano delle Età del mondo., là dove s’indaga sul «tempo tota-
le»^Anche la frase seguente vi Jarebbe..pens_ace:

Un «non» inteso come «non-ancora» attraversa (e oltrepassa) tutto quanto è


accaduto finora. La fame diventa forza produttiva sul fronte, sempre esplosi-
vo, deH'incompiutezza del mondò7Pérciò lo stesso mòndcTe^ in quanto pro­
cesso, un gigantesco esperimèntó~mirante a trovare la soluzione soddisfacen-
te, vale a dire dil rregno
egno di una propria compiuta soddisfazione.

Nel Sistema dell'idealismo trascendentale Schelling aveva già dato al­


l’inconscio due diversi significati: per un verso elemento pulsionale
collocato, al di sotto della coscienza, sull’«oscuro fondamento della
natura», per l’altro verso elemento animatore donato, al di sopra del­
la coscienza, dal «gratuito favore di una superiore natura». Analoga­
mente Bloch.disringue_l’in.conscio del sogno notturno daH’inconscio
del «sogno a occhi_aperti», il «non-più-conscio» che affiora dal pas-
sato dal «non-ancora-conscio» che mira al futuro. Il pathos romanti­
co seguirebbe prospettive troppo arcaicizzanti e dunque si lascerebbe
sfuggire, secondo Bloch, un’intera serie di segreti, simboli, elementi
mitici, che sono presenti non soltanto nel mito_ma anche nella natu­
ra e nell’arte, nei sogni e nei volti, nella poesia e nella filosofia. Bloch
sottopone questi elementi a «trattamento utopico» proprio. perché_
essi tradiscono una richiesta di adempimento e si lasciano interpreta­
re come emblemi del futuro8. Dalla coscienza anticipante - di cui si
adducono come esempi persino gli invertiti archetipi di Jung e le di­
luviana immagini di Klages — sembra ogni volta emergere un «re­
gno della libertà» dove ['umanità, affrancandosi dall’alienazione^po-
trà guidare liberamente la propria storia. Quel regno sarà prodotto
dal socialismo tramite il superamento del dominio dell’uomo sull’uo­
mo. Soltanto allora infatti la fortuna e felicità degli uni non dovrà
più nascere e commisurarsi sulla sfortuna e infelicità degli altri.

8 Si veda, per esempio, la grandiosa interpretazione della dottrina di Bachofen


in E. Bloch, Naturretht und wnscbliche Wùrde, eie., p. 115 e sgg.
119

Materia come «anima mundi» e tecnica senza violenza

Ogni sogno di vita migliore si ridurrebbe, tuttavia, a una sortaci


«fuga in avanti», interiorizzata e inspiegabile, ove a esso e al suo mo-
mento anticipante non venisse incontro {entgegenkànie] un certo poten­
ziale, anzitutto sul piano storico. Senza troppo preoccuparsi di stu­
diare in termini sociologici le possibilità oggettive derivanti dialetti­
camente dal processo sociale, Bloch affronta immediatamente il loro
sostrato universale nel processo del mondo: la materia. Infatti «la
possibilità reale non è altro che materia dialettica». Il momento del-
^Tpotenza — già implicito al concetto aristotelico di materia — si arric­
chisce nelle correnti_sotterranee del neoplatonismo fino a diventare
un concetto assolutamente pregnante. Come «natura naturans» la
materia non ha più bisogno delie entelechie^formali; come «unità e
^totalità» essa le genera e produce da sé nelle diverse forme della sua
fecondità9. Èssa è l’ente che esiste^ome_possibilità, tuttavia in ma­
niera tale che la «storia della natura» si orienta alla «storia dell’uma­
nità» e ne viene, in un certo senso, a dipendere. Nella storia dell’uo­
mo, infatti, è racchiusa la facoltà di un poter «fare» e di un poteri
«disfare» — facoltà che nell’interazione con la natura vi libera un pò-1
ter «diventare così» piuttosto che un poter «diventare altrimenti». Il '
potenziale soggettivo reagisce a un potenziale oggettivo, in maniera
Tuttavia maTarbitraria ma sempre mediata: in primo luogo a partire
dallTtèndènze oggettive dello sviluppo sociale, poi da ciò che una
natura ancora inconclusa rende via via possibile o impossibile. Il mo­
mento autentico del mondo \das Eigentliche] non si è ancora mostrato.
Esso attendemessere realizzato — «nella paura del fallimento e nella
speranza della riuscita» - attraverso l’opera e la fatica manuale degli
uomini socializzati. Bloch dà alla dottrina delle potenze scheìlinghia-
na un’interpretazione marxista.

La potenza soggettiva coincide non soltanto con l'elemento inconsciamente


diveniente ma anche con il fattore intenzionalmente realizzante, e ciò a par­
tire dalla misura in cui gli uomini diventano produttori consapevoli della
loro storia. La potenzialità oggettiva coincide non soltanto con ciò che è co­
munque modificabile ma anche con ciò che appare storicamente realizzabi-

9 Cfr. Id., Avicenna unddii aristotelische Linke, Frankfurt a.M. 1963.


120

le, e ciò a partire dalla misura in cui il mondo esterno, indipendente dagli
uomini, diventa anche un mondo che cresce con loro e interagisce con loro.

Nella consonanza, utopicamente progettata, dell'oggetto disalie­


nato con il soggetto manifestato — del soggetto liberato con l'ogget­
to dispiegato — questa nuova filosofia crede di decifrare l'eco di una
vecchia identità.
Bloch non esita a impiegare una kantiana «facoltà del giudizio»
allargata alla filosofia schellinghiana della natura. Parallelamente al-
[Tàlienazione dell’uomo socializzato anche la natura è andata, per così
' dire, dispersa. Ora la stessa natura chiede - essendo fallito il progetto
del suo segreto «soggetto» — di essere presa in carico dalla mano del­
l’uomo, interpretata come «natura naturans» e realizzata nei suoi sco­
pi. La considerazione «meccanica», sfociante nel padroneggiamento
tecnico Jelle forze naturaTh~non~nesce a^cogliereja natura comg^un
qualcosa^be chiede di «tornare a casa». Solo se una considerazione
«teleologica» delle cose riuscisse a coglierle come emanazioni della na­
tura, allora l’organizzazione soggettiva delle imprese umane non reste­
rebbe più sospesa nel vuoto, ma potrebbe ricollegarsi a un’oggettiva e
intrinseca legalità naturale. Riprendendo la polemica di Goethe con­
tro Newton — e attingendo a piene mani dalla simbolica pitagorica e
cabalistica, dalla fisiognomica ermetica, dall’alchimia e dall’astrolo-
gia—, Bloch contrappone alle scienze empiriche una «dottrina espressi-
vistica» della natura intesa come simpatetica costellazione di forme.
Ma solo l'accenno all’esperienza conoscitiva del «bello natutale» (vale
a dire l’accenno, ancora una volta ripreso da Schelling, a una sorta di
scienza della natura passante attraverso l'arte) maschera penosamente
fimbarazzanre assenza, in questa «dottrina espressivistica» della na­
turaci una qualsivoglia metodologia. Tutti i tentativi precedenti,
com’è noto, si.erano arenati sopra l'inservibile paragone di una prete­
sa «analogia» tra microcosmo^ macrocosmo, uomo e universo.
Comunque sia, è nel corso di queste considerazioni che Bloch si
scontra con il rilevante problema di una tecnica che non faccia vio­
lenza alla natura. Le scienze naturali, assieme alle loro applicazioni
tecniche, risultano effettivamente estranee alla natura. Esse dispon­
gono della natura secondo leggi_£h.e ne_stabi li scono il comportamen-
to «rispetto a noi». I nessi.funzionali, stabiliti da queste leggi, pre­
scindono completamente da ciò che la natura potrebbe essere «in se
121

stessa» e si attengono a una produttiva ignoranza nei confronti della


sua «sostanza». Dovendo ottemperare a queste leggi, la tecnica non
gode di nessun collegamento diretto con il «favore» della natura e
con le sue memorie profonde. Bloch identifica l’insufficiente «fedeltà
alla terra» della tecnica con l’eccessiva artificialità, povertà e antieste­
ticità del «mondo borghese delle macchine». Emerge qui un uso in­
discriminato dell’epiteto «borghese»: esso vorrebbe richiamare l’at­
tenzione sul fatto che, nel quadro dei rapporti capitalistici di produ­
zione, la tecnica viene non soltanto prodotta ma anche deformata^
Così come - nell’ambito del mercato — le relazioni astratte del valore
di scambio resterebbero estranee al concreto valore d’uso delie merci,
così le leggi astratte formulate dalle scienze della natura resterebbero
estranee al sostrato di quest’ultima. Alludendo con mano leggera a
questa analogia — sviluppata qualche decennio prima da Lukàcs in
Storia e coscienza di classe — Bloch si spinge a sperare che all’interno del
socialismo le forze tecnico-produttive potranno un giorno deporre la
loro figura astratta e orientarsi concretamente a un tipo di produtti­
vità interna e solidale con la natura medesima. La libertà raggiunta
sul piano di una politica dellasocietà verrebbe così~a svilupparsi su?
piano di una politica della natura.

Come nell’operaio collettivo il marxismo ha scoperto il reale soggetto delia


storia (quel soggetto che soltanto nel socialismo potrà veramente conoscersi
e realizzarsi), così è probabile che nella tecnica esso possa addirittura spin­
gersi ad afferrare il soggetto segreto, e non ancora mamiestatosi. dei proces­
si naturali, e ciò in una mediazione radicale degli uomini con tale soggetto,
di quest'ultimo con gli uomini, dunque di questo stesso soggetto con sé.

Secondo l’originaria concezione di Marx, i fattori autentici della


ricchezza sociale coincidevano sempre con le forze produttive (ivi
comprese quelle tecniche). Queste forze venivano semplicemence
«messe in libertà» attraverso il superamento di vecchi e obsoleti rap­
porti di produzione. Anzi, l’irrazionalità di ogni vecchio ordinamen­
to che inceppasse il progresso veniva imputata esclusivamente a que­
sti rapporti di produzione. Ora invece vediamo Bloch mettere m
questione proprio l’innocenza delle forze produttive (innocenza per
l’addietro garantita da una certa filosofia della storia), ed è chiaro che
egli si sente spinto a farlo sulla base di precise esperienze politiche.
122

Alcuni indicatori inducono a pensare che, al di là del perdurante con­


flitto, gli sviluppi sociali a Est come a Ovest stiano assestandosi su
un terreno mediano comune. Sia qui sia là si presentano fenomeni su­
scettibili di analoga lettura sociologica e sussumibili a una medesima
etichetta, quella della «società industriale». Un orientamento che in
occidente ha anche spinto qualcuno a sottovalutare pericolosamente
le divergenti tendenze derivanti dai due diversi ordinamenti della
proprietà. In sostanza, gli sviluppi tecnici sembrano produrr^di per
sé un quadro organizzativo assai più indipendente dai rapporti di
produzipne di quanto i marxisti fossero un tempo disposti a credere.
E tuttavia sembra che anche queste istituzjonHnedite, nate dalla tec­
nologia, generino un «potere di alienazione» non inferiore a quello
specificamente capitalistico. Bloch riesce a tenere in piedi l’utopia
soltanto promettendo una resurrezióne socialistica non solo al capita-
lismò,“ma anche alla tecnica da esso prodotta. In tal modo la natura
apparentemente capitalistica della tecnologia nei paesi di socialismo
reale (e delle relative forme sociali di organizzazione) può venire in­
terpretata come una semplice forma di «cultural lag».

Utopia troppo generosa e adempimento melanconico

Non dobbiamo confondere questa idea con i pregiudizi cui lo


stesso Bloch non sa sottrarsi. Ossia con le emozioni che danno voce al
risentimento della «Kulturkritik» e si abbandonano a una sorta di
ingenuo romanticismo sociale. È quanto viene chiaramente in luce,
per esempio, nella polemica di Bloch contro Gropius e Le Corbusier,
contro l’arte ingegneristica degli architetti del cemento, contro i mo­
bili in acciaio e i tetti a terrazzo. Secondo questa polemica, la male­
dizione della tecnica astratta si trasmetterebbe alle stesse linee del­
l’architettura. «L’effetto è tantp,più_raggelante in quanto questa ar-
chitettura non ha più nessun angolo dove ci si possa nascondere, ma
soltanto volgari effetti di luce». In realtà, Bloch e Lukàcs possono
permettersi di_offendere l’arte moderna non soltanto per un innato
senso del dovere, ma anche perché la loro vicinanza all’estetica del
classicismo.li induce ad apprezzare il «realismo». Come Hegel, an-
ch’essi interpretano l'arte secondo il modello del «simbolico». La
bella apparenza dell’arte riflette quella apparenza che cose e figure
123

proiettano su ciò ch’esse potrebbero un giorno diventare: «materia»


anticipatamente luminosa piuttosto che «idea» in procinto di rive-
larsi.Questa estetica si atteggia in maniera significativamente con-
traria rispetto a quella di ÀdornóTl*arte non deve provare la sua ve-
rità arrovellandosi contro le contraddizioni dell’esistenza.
Il problema este tico_cLri conduce così al problema politico: B1 och
è un cittadino della DDR10. Il suo pensiero si rivolge a destinatari
diversi da noi, per esempio quando cerca di far sciogliere al sole del­
l’utopia il «diamante» dogmatico ed empiristico dell’ortodossia
marxista. Il suo stile letterario si collega a tradizioni diverse dalle no­
stre, per esempio quando non disattende il gergo del leninismo, at-
tacca la fenomenologia esistenzialistica e piccolo-borghese di Heideg­
ger, insulta Klages come un tarzan della filosofia e svaluta H.D. Law­
rence come un sentimentale poeta del pene. Qui ciò che più irrita è
soltanto l’insufficienza del rigorejconcettuale. ItLveitiyt^analoghe con­
tro Jaspers vanno invece spiegate come una reazione control’etichetz
ta, che gli è stata affìbbiata, di «Jaspers delì’Ést»: un paragone che ef­
fettivamente si confuta da solcx Con tutto ciò Bloch finisce per dare
alfa sua polemica un taglio che una certa stampa tedesco-occidentale
potrebbe ora ritorcergli contro (e non senza un’apparenza di ragione).
Egli stesso non disdegna di scendere al livello su cui il nostro antico­
munismo settario chiede a lui di rendere conto. Ma né le accuse sol­
levate contro Bloch in termini faziosi né il tentativo complementare
di sollevarlo alle astrattezze della teologia gnostica devono farci per­
dere di vista la particolare prospettiva politica da cui il suo pensiero
prende le mosse. Sull’intimo rapporto che collega tra loro violenza e
strategia leninista Bloch si limita a gettareyun.velopietoso.

Non a caso vive nel marxismo, oltre all’elemento, diciamo così, tollerante,
che si esprime nel regno della libertà, anche l’elemento, diciamo così, catte­
dratico, che si esprime nel regno della libertà, nella libertà intesa come re­
gno. Anche le vie per giungervi non sono liberali: conquista del potere nel­
lo stato, disciplina, autorità, pianificazione, linea generale, ortodossia, ecc.
Come dire che la libertà totale, lungi dal dissolversi in una serie di atteg­
giamenti arbitrari che porterebbero alla disperazione, prevale soltanto in
quanto volontà per l’ortodossia.

10 Si veda supra, nota 3.


124

Un pensiero che può forse presentarsi in linea con le tradizioni


più profonde della filosofia tedesca, ma che tuttavia finisce per dare
alle parole «ordine», «autorità» e «sostanza» — pronunciate d’un so­
lo fiato — una sorta di santificazione che, con rispetto parlando, sfiora
il totalitarismo.

Ordine in tutti settori immaginabili e in tutte le sfere possibili, cominciando


da pulizia e puntualità, controllo su ciò che è maschile e normativo, per
giungere fino all’etichetta e allo stile architettonico, dall’ordine dei numeri
fino alla sistematica filosofica.

La violenza pratica dei mezzi contamina qui gli obiettivi, e rende


persino imprecisa la loro anticipazione teorica. Bloch conosce molto
bene la «melanconia dell'adempimento»: egli parla di un elemento
disatteso nello stesso avvento, dell’amaro residuo implicito in ogni
reaiizzazione. Non si può togliere dall'idea di realizzazione proprio
l'azione degli attori: infatti solo attuando la loro causa essi possono
progressivamente realizzarsi. Il circolo generato dal problema di
«educare l’educatore» si ripresenta anche sul piano dell'utopia. E an­
che qui troviamo pronta una pseudosoluzione attraverso la formula
di una crescente automediazione tra uomo e natura.
Un'utopia che concepisce la propria realizzazione in termini, a lo­
ro volta, utopistici non è ancora così concreta come pretende di essere.
Forse fimmagine biochiana del «regno della libertà» s’irrigidisce nel-
l'autoritarismo cattedratico per via della maniera esorbitante con cui è
stata inizialmente concepita. Un eccesso di generosità \Uberschweng-
lichkeit] che, da parte sua, potrebbe nascere da quel tipo di «materiali­
smo speculativo» che taglia via al materialismo proprio il momento
della speculazione. Polemizzando contro i Giovani hegeliani, Marx
fondava nella maniera che segue il famoso principio per cui «la filoso­
fia non può essere realizzata se non attraverso la sua soppressione». I
Giovani hegeliani - lottando con la loro «filosofia critica» contro il
mondo — si sarebbero semplicemente dimenticati del fatto «che la fi-
, losofia, così come si era fino a quel momento sviluppata, apparteneva
; anch'essa al mondo, anzi ne rappresentava una sorta di compimento
I ideale»11. Bloch legge questa frase come se Marx auspicasse la nega-

11 K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. I, Berlin 1957, p. 384 |tr. it. Opere complete,
voi. 3 (1843-1844), Editori Riuniti, Roma 1976, p. 196).
125

zione della filosofia solo per quella sviluppatasi «fino a quel momen-
to» (e non anche per ogni filosofia del futuro). Marx intende invece,
.con tutta evidenza, sostenere il contrario. Il passo citato prosegue in-
fatti affermando che solo verso se stessa la filosofia dei Giovani hege­
liani ha assunto un atteggiamento acritico, in quanto essa

ha continuato a poggiare sui presupposti della filosofìa e.ha conrinnarn ad


accettarne i risultati [...J sebbene questi stessi presupposti e risultati — po­
sto che siano giustificati — potrebbero essere salvati solo a partire dalla ne-
gazione della filosofia quale si è avuta finora, cioè dalla negazione ckllg_fìlQ=.
sofia in quanto filosofia.

Tra i presupposti della filosofia c’è anche la coscienza della sua au­
tonomia, vale a dire la coscienza della possibilità per lo spinto filoso-
ììco di fondare se stesso. Invece quando la filosofia si atteggia «criti­
camente» contro i propri presupposti, quando si trasferisce integral­
mente dentro la critica, allora essa concepisce se stessa come una_par-
ìe del processo critico, come un’espressione sia dell’alienazione che,
ancor più, del suo superamento. Solo nella misura della sua autorevo-
ca, cioè del suo realizzarsi in prassi, la filosofia sarà in grado di «guar-
"Harsi» da sopra la propria spallatolo allora la conoscenza diventerà
posfibìlè~nélTa~fbrma in cui ìa speculazione ha sempre creduto di po­
terla pensare.
L’errore di Bloch non è soltanto un’interpretazione sbagliata: esso
cancella la validità meramente sperimentale che dev’essere assegnata
anche all’utopia. Così anche il rapporto della critica filosofica con le
scienze continua — proprio come nel diamat — a non essere chiarito.
Se, dall’esperienza delle contraddizioni esistenti, l’utopia vuole deri­
vare sul piano teorico la necessità pratica di superarle, essa deve anche
scientificamente legittimare da un doppio punto di vista l'interesse
che guida la sua conoscenza. Questo interesse deve essere non solo un
bisogno realmente oggettivo, ma anche un bisogno oggettivamente
suscettibile di soddisfazione.
La modestia sperimentale del pensiero utopico va tenuta distinta
da£la consapevole autonòmhrdel pensiero speculativo. Il primo, il
pensiero utopico, ritiene che il progetto filosofico possa sempre essere
confutato dall’analisi scientifica delle sue condizioni di realizzazione.
(Non perciò esso si attende da questa analisi la prova definitiva della
propria riuscita, in quanto la prassi rivoluzionaria trascende sempre
126

l’anticipazione teorica.) Il secondo, il pensiero speculativo, pensa al


contrario di portare avanti la filosofia attraverso la ricerca; pensa, in
altre parole, che questa ricerca possa soltanto corroborarlo e non inva-
TidarÌck_BÌoch cerca di percorrere una terza via. Egli vuole salvare la
speculazione dandole, nello stesso tempo, una modulazione utopica.
La garanziadel lassai v^zzamórTE’ è: tuttavia l’anticipazione della salvez-
za non perde mai di certezza. Le cose si svilupperanno così oppure non
si svilupperanno affatto. Tutto si risolverà per il meglio oppure nien-
te troverà soluzione. Alla fine la speranza si riempirà delle sue imma-
g in ian tlcipate oppure trionferà~il caos.
Se l'utopia rafforza la sua consapevolezza dall’avere sperimentato
che limiti apparentemente naturali sono poi risultati storicamente
superabili, allora essa — applicando a sé lo stesso rigore — dovrà anche
foggiarsi una consapevolezza dei propri limiti. Certo l’analisi dialet­
tica non opera attraverso semplici approssimazioni alla totalità, bensì
attraverso anticipazioni della totalità. Per questo non può ridursi a
una semplice analisi differenziale né il concetto di utopia può limi­
tarsi all’insieme delle idee regolative. Tuttavia, l’jnopia non deve mai
dimenticare la possibilità che intervengano delle modificazioni capa-
ci di inghiottirla e farla sparire. E se un’utopia può naufragare nel
corso della sua realizzazione, allora può anche nascere una situazione
insuscettibile, sul piano categoriale, di_essere concepita come antici-
pazione utopica. Possono emergere difficoltà e problemi di tipo così
nuovo, così totalmente diverso, così poco riconducibile alla struttura
finora vigente dei problemi noti, che essi, riguardatfdall^osseryatorio
della vecchia coscienza utopica, potrebbero persino npn_ess.ei£_più
identificabili come problemi. Così, una volta realizzata, l’utopia ap­
parirebbe cosa diversa. Questa consapevolezza dei propri limiti non
deve naturalmente annientare la coscienza utppica né giustificare
quellaj<rinuncia all’utopia» che è propagandata dagli antillurmnisti.
Paventare le conseguenze giacobine delle iniziative utopiche, e predi-
care contraddittoriamente contro il «terrorismQjdella moralitàw^ser-
vé solo ad accrescere i pericoli rendendoci ciechi nei loro confronti.
Il materialismo di Bloch resta speculativo, la sua dialettica dell 'il­
luminismo trapassa — al di là della dialettica — in una dottrina delle
«potenze». Metaforicamente parlando (e l’utopia contiene sempre re-
siduimetaforici) Bloch orienta il suo pensiero non tanto a risolvere le
contraddizioni sociali esistenti, quanto ad alleviar'e~unà supposta
127

«gravidanza» del mondo. La filosofia del natura diventa così la natu­


ra della sua filosofia.
Per i filosofi della superstite tradizione europea — stretti oggi tra
il positivismo anglosassone da un lato e il materialismo sovietico dal­
l’altro - appare in ogni caso irritante il fatto che, da un territorio po­
sto al di là dell’Elba, si faccia loro incontro una filosofia ancora sor-
retta dallo spirito dell’idealismo tedesco (benché al prezzo di scaval­
care Kant e dunque in forme precritiche). Il pensiero allarga le ali e si
mette a volare. Fa bene a farlo, anche se il tempo degli aruspici è pas-
sato per sempre.
VII

THEODOR W. ADORNO 1
UN INTELLETTUALE PRESTATO ALLA FILOSOFIA (1963)*

Adorno chiama «postsocracico» l’intellettuale che cerca oggi di


assolvere i compiti un tempo propri della filosofia. Nell’ironia di
questo aggettivo non si esprime soltanto una larvata polemica con il
«presocraticismo» di Heidegger. Dopo la fine della «grande filoso-
fìa» Adorno intende anche schierarsi - nel dibattito sulPeredità so­
cratica - con la retorica illuministica di incorreggibili sofisti piutto-
sto che con i discepoli di Platone.
Nemmeno un anno fa Adorno tenne una conferenza davanti alla
corporazione dei filosofi. Mi è rimasta in mente soprattutto la cita­
zione di una pagina di Peter Altenberg (tratta dall’edizione di Karl
Kraus), dove si parla di «umanità» a partire dal maltrattamento quo-
tidiano dei cavalli. Questi casi di maltrattamento «non cesseranno
mai finché,di fronte a essi, i passanti non saranno diventati così de­
cadenti e così poco padroni di sé da commettere essi stessi, nella loro
sensibilità irritata, un delitto rabbioso e disperato sparando diretta-
mente al vetturino vigliacco. La semplice incapacità a reggere oltre
la vista del maltrattamento sarebbe l’azione più significativa che
spetta airuomo-del-futuro, decadente e debole di nervi! Finora infat-
ti gli uomini hanno sempre avuto la forza di ritenere qufsre facceade
corn£_insignifi.canti ed estranee». Richiamandosi a questa pagina,
Adorno intendeva purificare l’idea di progresso é~irhpedire che essa
venisse confusa con i «progressbrìirTirrsempttré'padróneggiamento
tecnico della natura. Nella costrizione del progresso tecnico soprav-
vive infatti quel sortilegio mitico per cui le forze razionalizzate della
natura riaffermano — contro i loro nuovi padroni — il loro vecchio do-

’ Pubblicato per il sessantesimo compleanno di Adorno in «Frankfurter Allge-


rneine Zeitung», 11 settembre 1963.
130

minio. Per contro, un progresso nel vero senso della parola presup­
porrebbe che l’umanità si rendesse conto di questo residuo di natura­
lismo caratterizzante anche le conquiste tecniche più avanzate. Inve-
ce di lasciarsi guidare dai conflitti geopolitici, per esempio, l’uma-
nità dovrebbe poter ragionevolmente riflettere se la conquista astro­
nautica dello spazio e davvero più urgente dell elementare soddisfa-
zio_ne_dijzo,ntinenu_^famatL Adorno individua proprio nel concetto
di «decadenza» le intenzioni di un progresso autentico (un progresso
che sarebbe'sémplicemente inceppato dal carattere irriflesso del pro­
gresso tecnico). La «debolezza nervosa» di cui parla Altenberg desi-
gnerebbe oggi qùèirunìca formà^dT raffinata individuazione psichica
càpacFdfconsentire alla specie umana di progredire un giorno fino
aH’«umanità». L’obiezione più ovvia è anche la meno temibile. È ve­
ro che nelle nostre regioni i cavalli non si maltrattano più, e questo
grazie ai progressi della tecnica più che ai progressi della sensibilità.
Sennonché, soppiantando le carrozze, il traffico automobilistico ha
semplicemente generalizzato l’inciviltà dei vetturini. Nemmeno la
dialettica del vecchio esempio riesce a smentire la causa per cui esso
veniva addotto.
Ricorderò sempre questa citazione adorniana di Altenberg in
quanto nient’altro — in quella conferenza — avrebbe potuto caratteriz­
zare meglio lo spirito che contrapponeva Adorno ai suoi colleghi pro­
fessori. Uno scrittore in mezzo a funzionari dello stato. Anche se,
dobbiamo dire, persino in Germania erano già comparsi degli scrit­
tori dentro la corporazione accademica. Adorno non era affatto il pri­
mo. Il rapporto conflittuale di certi intellettuali con l’organizzazione
ufficiale del sapere è vecchio almeno quanto l’università. Dopo la
morte di Hegel alcuni scrittori erano persino assurti al ruolo di gran­
di filosofi: Kierkegaard si riteneva uno scrittore teologo, Nietzsche
uno scrittore filosofo.
Il primo scrisse trattati, il secondo aforismi. Walter Benjamin —
che si collocava in questa stessa tradizione e aveva esercitato una du­
revole influenza su Adorno — mise un giorno a confronto il «trattato»
(che è di origine araba) con l’architettura islamica. In entrambi i casi
l’organizzazione strutturale si dischiude a partire dall’interno.

La superficie argomentativa non è visualizzata in modo pittoresco, ma co­


perta da una rete ornamentale che prolifera senza soluzioni di continuità.
131

Nella densità ornamentale dell’esposizione si attenua la differenza tra trat­


tazione tematica ed excursus divagante.

Con questa chiave si possono decifrare - come trattati segreti —


molti saggi di Adorno, soprattutto quelli più complicati e profondi.
Essi si presentano come labirinti che una luce interna permette di_ro-
vesciare come un_guanto. I pensieri affilati assumono invece la forma
dell’aforisma: essi traggono forza da_quanLO_c!è_di_più individuato e
meno assimilato, al punto che il loro contenuto si sottrae a ogni for-
ma sistematica.
Il fatto che Adorno non abbia mai intrapreso ricerche sistematiche
in senso stretto è espressione non soltanto di un certo stile di discorso
filosofico, ma anche di una precisa intuizione teorica. Egli condivide
con Hegel la convinzione che l’universalità faccia torto alla forma lo­
gica dell’individuale. Ma anche la dialettica — come tentativo di spez­
zare la costrittività della logica coi suoi stessi mezzi — finisce, in quan­
to sistema, per trapassare dalla singolarità riflessiva alla totalità rrasfi-
gurata^Questo passaggio si rivela nella stona non meno^riieatodl
quanto problematica si presenti la storiajtessa nella logica_di_HegeJ.
Adornojjsservò un giorno come il pensiero sistematico non si liberi
mai del tutto di ciò che gli artisti parigini chiamaao_«le-gpnre rhef
d’ceuvre». Nella sua animosità contro il «capolavoro» si riflette la ri­
luttanza contro la costrizione del sistema e le gerarch!é~del pensiero
teorico. Di questa animosità è pervaso il monumento adorniano dei
Minima moralìa. Ciò che gli ignoranti addebitano all’autore come un
difetto, in realtà gli fa onore: il fatto che questo capolavoro si presen­
ti come una semplice raccolta di aforismi. Ma è una «raccolta» che
può essere tranquillamente studiata come fosse una «stimma».

Adorno è ostile alla logica ferrea della connessione deduttiva: egl£


vuole piuttosto che, in un testo filosofico, tutte le frasi si collochino
alla stessa distanza dal centro (ristabilendo così il diritto dialettico di
vecchie intuizioni ermeneutiche). Testi che volessero, in ogni loro
passo, certificarsi secondo le leggi formali della logica e del metodo
analitico finirebbero per essere banali, oppure si trasformerebbero da
testi filosofici in strumenti d’indagine scientifica. Nella tradizione fi­
losofica non esistono testi di questo genere. Quando investe l’ogget­
to, il pensiero riassorbe nelle sue oscillazioni anche le vibrazioni sog-
132

gective da cui aveva preso inizialmente le mosse: per questo esso non
può, a posteriori,~gmstificarè~formalmenté~ra sua genesi logicai Ador-
no esprime questa intuizione in due formulazioni diverse, sia quando
Offende «le lacune» presenti nel pensiero, sia^uajid£u_del pensiero,
disapprova~^gTi~atteggiamenti awocateschi». Proprio quando coglie
nel segno — troviamo scritto in un suo passo — il pensiero infrange la
promessa implicita alla forma del giudizio.

Questa insufficienza assomiglia alla linea della vita — linea che scorre piega­
ta, deviata, delusa, rispetto alle premesse della vita stessa, e che tuttavia so­
lo scorrendo così può rendere conto, nelle condizioni attuali, di un’esistenza
non regolamentata.

Alla rinuncia alla dimostrazione rigorosa fa riscontro la rinuncia a


voler avere sempre ragione. NeH’aforisma dedicato ai postsocratici1 il
pensiero calcolistico viene contrapposto a un pensiero diverso, che
dal dialogo e dalla dialettica ha imparatola vincere la coazione a con-
cìu3èré~con rigore ogni discussione^

Occorrerebbe avere conoscenze che non siancujfper sé assolutamente esatte,


salde e inoppugnabili — le conoscenze di questo tipo si-risolvono necessaria­
mente in tautologie —, ma tali~che,^T fronte ad esse, la questione dell'esat­
tezza sig ludi chi da sé. Con questo non si tende aH’irrazionalismo, alla pro-
clamazione di tesi arbitrarie, giustificate dalla fede in una rivelazione intuiti­
va, ma alla liquidazione della differenza tra tesi e argomento. Pensare dialet­
ticamente significa, da questo punto di vista, che l’argomento deve acquista­
re la drasticità della tesi e la tesi contenere in sé la piénezzgjeffe sue ragioni.

Adorno respinge con indignazione la richiesta (che pure segue


una consuetudine scientifica assai diffusa) di concludere le sue confe­
renze con una ricapitolazione generale delle tesi. Le tesi non si legit­
timano in quanto residuo, ma in quanto mostrano ciò che è impor­
tante e dichiarano le loro ragioni. Può darsi che Adorno, con questo
suo atteggiamento, abbia voluto tenere presente le Tesi su Feuerbach
di Marx oppure le Tesi sul concetto di storia di Benjamin (uno dei lasci­
ti filosofici più importanti di questo autore).

1 (Cfr. Th.W. Adorno, Minima mr/ralia, tr. it. cit., aforisma 44, pp. 73-74.]
133

lo una delle tesi di Benjamin, a proposito delle utopie naturalisti-


che coltivate da Fourier, si parla anche di una forma di lavoro che,
lungi dallo sfruttare la natura, sarebbe in grado di «sgravarla dalle
creazioni che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo»2. Con
ciò si tocca un tema sul quale si era infiammato il pensiero non sol­
tanto di Benjamin, ma di tutta la cerchia che aveva in Adorno il suo
rappresentate più giovane. Bloch, Horkheimer, Marcuse e Scholem,
10 stesso Friedrich Pollock (per altro competente in economia): tutti
si mostrano estremamente interessati al problema di come sia possi -
bile conciliare tra loro «civilizzazione» e «natura». Se jn questa for­
mulazione la questione ha ancora aspetti settecenteschi, ora essa vie-
nè~còncepita anche iri~ùha~prospettiva postmarxista~é freudiana, sen-
za per questo perdere nulla di quel potenziale mistico che in Schel­
ling si era coniugato a un potenziale romantico. Fondamentale resta
11 vecchio principio per cui, se la natura non «risorge» dalla sua ca­
duta e non «ritorna a casa» daj_suo esilio, neppure gTFuomini posso­
no sperare di essere emancipati—

I concetti estremi entro cui si dipana la rete adorniana della «dia­


lettica dell’illuminismo» — i concetti di Io e Natura — ereditano il
nome e il significato più prossimo dall’idealismo tedesco. Sennonché
Adorno e Horkheimer hanno piantato questi paletti in terra stranie­
ra. La natura mostra un volto nemico e un volto amico; tuttavia an-
che sulla natura amica e seduttiva si stende un’ombra particolare di
ambivalenza. Questo filo di inquietudine attraversa tutto Lopus_di
Adorno. Tratti terribili, come quelli conservati nei miti, continuano^
a caratterizzare la natura dal momento che la specie umana deve lot-
tare con essa per strapparle una povera e arrischiata esistenza. Nel
processo storico-Tnóndiale del lavoro sociale cresce il potere di dispo­
sizione tecnica sulla natura; la superstizione animistica nei suoi terro-
ri ancestrali e l’adeguamento magico ai suoi poteri vengono progres­
sivamente disincantati. La vita si assoggetta aH’unico obiettivo di sot-
tomettere la natura, sia esterna che interna, mentre la natura stessa
diventa semplice materia per fatti vitali un lochesist abili zza sulla
repressione delle pulsioni. In questo contesto l’/o identico — cui l’illu­
minismo affida ogni speranza di emancipazione — finisce per diventa­

2 (Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 41.]


134

re il centro testardo della violenza e del fallimento. Allora il sistema


scientifico costruito da questo Io, assieme all’impalcatura della logica
formale, può di nuovo essere considerato come un semplice organo
della natura (come accade a ogni intelligenza che si assoggetta al sor­
ti legìò^éUautoconservazione fisica). Invece di fungere da leva dell’e­
mancipazione, la ragione gioca qui il ruolo di un semplice strumento
ìidattativo. Essa fa proliferare gli uomini come una specie animale, e
la civilizzazione resta unaj>rotuberanza di quella stessa natura daaii
" essi avrebbero voluto liberarsi. "
Solo se potesse un giornojronciliarsi con la natura, la civilizzazio-
ne potrebbeTlìsfarsi di questi suoi aspetti naturalistici. Solo allora la
natura potrebbe guardare alla civilizzazione con un volto amico. Ma
per fare_questo bisognerebbe_che_l.o spirito potesse autoriconoscersi
come natura separata da sé, come «natura che diventa percepibile
nella sua estraniazione». Il_che non significherebbe il naufragare_del-
la ragione nel suo contrario. L’identità dell’io — costruita nelle repres­
sioni della nuda autoconservazione — non sarebbe certo spenta dal-
lautoriflessione. Portando a compimento se stessa, l’individuazione
si priverebbe solo di quella crosta indurita che nella società borghese
resta attaccata al feticcio della personalità. Anche nell’unica passione
umana, ossia nell’amore — dove il dominio tecnico della natura è so­
stituito da un rapporto mimetico con essa, da una dedizione assimi­
lante e trasformante — l’individualità estrema viene salvaguardata e
l'io si concilia alla natura senza sacri ficarvisi. Del resto, l’unica for­
mula con cui Adorno infrange il tabù gettato sulla situazione sperata
è quella di «dedizione» [Hingabe] senza egoismo. Per l’utopia il di-
vieto di immagine vale con lo stesso rigore che per £1 futuro messia-
nicò'degii ebrei. Questo è l’unico punto in cu£_Adorno spezzajfcor-
done di una filosofia integralmente negativa.
La tenerezza [Zàrtlichkeìt] risveglia dunque nella dedizione la di­
menticata forza della mimesi. Nella società sviluppata essa rappre­
senta un modello di possibile conciliazione con la natura. Tuttavia,
nel quadro della civilizzazione, la natura_c£_prome.tte felicità non sol-
tanto in queste anticipazioni di progresso autentico, bensì anche nel­
l’ebbrezza euforica con cui il Sé viene sospeso dal servizio. Nel «can­
to delle sirene» una natura amorfa attira l’uomo a un rientro imme­
diato, offrendogli una via di fuga dalla civilizzazione e un confortan-
re sgravio dall’identità.
135

Ogni tanto sembra che lo stesso Adorno soggiaccia a questo can­


to. Nei suoi passaggi più tenebrosi la «dialettica dell’illuminismo»
sembra dubitare di poter compiere l’ultimo balzo. Arrendendosi alla
tesi antilluministica — per cui il terrore sarebbe insuperabile e la civi-
lizzàziónécl?stinata a durare - la «dialettica deH’illuminismo» si con-
segna, seppure riluttante,al vortice distruttivo dell’istinto di morte.
Del resto, il vecchio amico Horkheimer è sempre stato attratto da
Schopenhauer e dai tentativi del Sé di sopravvivere a se stesso attra­
verso una resa incondizionata alla natura. In Adorno questo «topos» —
di un Io che si lascia riassorbire dalla natura — assume tràttTanarchi-
ci e utopico-sessuali. In qualche passo, per disperazione, l’utopia di
una natura conciliata alla civilizzazione si capovolge e si confonde
con ìrsdgho”cli una natura seducente, pronta a offrire i suoi favori
purché l’uomo rinunci all’individuazione. Allora — in maniera franca­
mente irritante — l’individuazione si presenta come una semplice ma­
ledizione e femancipazione come una semplice eco.
Alla fine Adorno non sa risolversi di fronte all’ambivalenza eh'
percepisce nel volto amichevole della natura. A questa ambivalenz
egli riconduce la «questione di vita» sperimentata da ogni intellet
tuale: l’umiliante alternativa di «diventare un adulto come tutti gli
altri oppure restare un bambino»3. Certo, gli sforzi con cui l’autono­
mia viene pagata lasciano traccia di sé nella restrizione dell’orizzonte,
mentre un frammento di infantilismo può talora acuire la vista e ren­
dere felici. Non a caso si dice che il segreto della genialità consiste
nella capacità di trattenere la fanciullezza dentro l’età adulta^ Sennon­
ché nèf momento in cui questa stessa genialità diventa utopica, e i
rapporti oggettivi impediscono di trattenere il fanciullo dentro l'adul­
to^ (mèntfFbTsógnerebbe pure continuare a farlo), àilorasòltànto una
regressione consolatoria diventa forse capace di superare (irfigidencló"
l’autonomia) un’emancipazione ristretta. In queste circostanze la pre­
tesa di far coincidere l’opera con la biografia-- una pretesa avanzata
con spirito liberale da Jaspers e da lui posta addirittura a misura dei
grandi filosofi — è destinata a restare astratta. Nel momento in cui il
cattivo stato del mondo rendesse inevitabile far pagare l’imparzialità^
della teoria con il pregiudizio biografico, e l’emancipazione con la re­
gressione, allora vedremmo ricadere proprio sulla filosofia di chi è

* (Cfr. Th.W. Adorno, Minima moralia, tr. it. cit., aforisma 86, p. 155.1
136

più intellettuale una parte dei pericoli cui alludevano i vecchi miste-
ri_greci. In ogni caso Adorno ha dedicato a Kafka e a Proust i suoi
due saggi migliori. E certi tratti del carattere di Adorno che più di­
spiacciono a coloro che lo ammirano e lo amano possono anche riac-
qui stare,_ini_questo contesto, un loro parziale diritto. Se la forza del-
l'intelligenza e dell’analisi è pari alla sofferenza da cui esse nascono,
allora il_^rado di vulnerabilità e le stessere ri te di Adorno devono
considerarsi come un potenziale filosofico.^
Vili

THEODOR W. ADORNO 2
PREISTORIA DELLA SOGGETTIVITÀ
E AUTOAFFERMAZIONE IMBARBARITA (1969)*

Nel nostro ultimo incontro, qualche settimana fa, Adorno ci ha


raccontato un aneddoto sull’impareggiabile bravura di Charlie Cha-
plin. Accadeva a un party hollywoodiano in onore del protagonista
del film The Best Years ofOur Lives, un mutilato di guerra che aveva
perso entrambe le mani. Adorno — l’unico a non essere stato avverti
to - fece per stringere le mani all’eroe che veniva festeggiato, m
balzò indietro quando sentì il freddo metallo della protesi. Con rea
zione fulminea, Chaplin seppe subito tradurre in pantomima l’evi­
dente spavento di Adorno e il suo disperato tentativo di mascherarlo.
Naturalmente questo aneddoto su Chaplin riguarda in realtà lo stes­
so Adorno.
Egli vide nella «freddezza» d principio della soggettività borghe-
se. Senza di essa Auschwitz non sarebbe stata possibile. Anche nella
quotidianità più normale Adorno decifrava il congelamento della vi­
ta. Una sensibilità che aveva assunto in lui tratti_yirtuos-istici e che
non testimoniava tanto, (come credeva Bloch) lo sguardo impietoso
del misantropo, quanto un residuo nascosto, ma sempre funzionante
e irritato, di ingenuità. Ne 1 cuore di una festa che era stata organiz-
zata proprio per quell’arto inanimato, la freddezza metallica della
protesi aveva coìto Adorno del tutto impreparato. Ciò che la mimesi
muta del grande clown riuscì a fare in quell’istante — risolvere la ten­
sione e lo sconcerto di un Adorno atterrito — sarebbe in seguito ri­
masto come una motivazione segreta delle capacità linguistiche edl
evocative del filosofo. '

’ Pubblicato in «Die Zeit», 12 settembre 1969. Il giorno 11 dello stesso mese


Adorno, scomparso il 6 agosto precedente, avrebbe compiuto 66 anni.
138

Nell’ultima opera filosofica di Adorno, Dialettica negativa, trovia­


mo riassunto in un solo (e non facile) passo la tesi centrale della Dia­
lettica dell’illuminismo.

Che la ragione sia qualcosa di diverso dalla natura e tuttavia un momento


"interno ad èssa, questo rappresenta, per la ragione, una preistoria diventata-
le determinazione interna. Lajagione è elementojiaturale in quanto forza
psichica deviata ai fini delTautoconservazione. Ma non appena separatale
messa a confronto con la natura, essa diventa anche un elemento «altr0>’
dalla natura. Soprawanzandola in maniera effimera, la ragione è identica e
non identica alla natura, «dialettica» già a partire dal suo stesso concetto.
Tuttavia, quanto più sfrenatamente la ragione usa questa dialettica per con­
trapporsi assolutamente alla natura, dimenucando^quanta-natura-restfsem-
pre presente dentro^di_sé, tanto più essa regredisce alla natura .cometauyjaf-
fermaziòne imbarbarita. Solo come riflessione sulla natura la ragione po-
trebbe essefè~sùpéfnatura. ' '—-

Adorno si è servito dell’odissea per salvare le tracce quasi cancella­


te di una «preistoria della soggettività». Gli episodi avventurosi del
fuggiasco Ulisse ci raccontano delle crisi che il Sé sperimenta — su di
sé e con sé — nel processo formativo della propria identità. L’astuto
Ulisse si sottrae agli incanti animistici e ai poteri mitici, sfugge ai
sacrifici impostigli dal rito facendo finta di accettarli e di sottomet-
tersi. Ingannare con intelligenza le istituzioni che originanamente
collegano un~Semimetico, plastico e ancora diffuso, allo strapotere
della natura è la primaJorma^IfltrumTnismo. Con questo atto si for­
ma un Io identico e ostinato che si guadagna potere su una natura di-
sanimataTLTo acquista la^sua organizzazione interna nella misura in
cui esso — per piegare la natura esterna — piega dentro di sé l’elemen-,
to amorfo, la propria natura interna. Sul_rapportqj:he lega tra loro
« a u tonomia» e «dominio-s u 1 la- na t ura» la coscienza t r ionfa n te del­
l’illuminismo gioca tutte le sue carte. Adorno mette in questione la
certézza non dialetti cadi q uesta coscienza.
Se ifsoggiogamento della natura esterna ha successo solo nella
2 jnisura in cui viene soggiogata quella interna, allora il crescente po-
tere di disposizione tecnica si rovescia anche sulla soggettività forma-
Zj tasi in queste conquiste. Già il costituirsi originario di un Io capace
d’identifìcarsr^urevolmente deriva, secondo l’ipotesi di Adorno, dal­
lo scioglimento di quella connessione (tanto simpatetica quanto as-
139

sassina) con la natura che veniva garantita dai sacrifici rituali del Sé.
Ma allora la storia della civilizzazione deriverebt£e_da un atto di vio-
lenza che colpisce egualmente l’uomo e la natura. La marcia trionfale
dello spirito strumentale è la storia di un’introversione del^sacri fleto
(dunque di una rinuncia) non meno che la storia di un dispiegamene
to delle forze produttive. Nella metafora del «padroneggiamento
della natura» risuona ancora questo accoppiamento di controllo tec-
nico e dominio istituzionalizzato: il padroneggiamento della natura è
legato alla violenza interiorizzata dell’uomojull’uqmo, alla violenza
del soggetto sulla propria natura interna. Così anche la fiducia ripo­
sta da Marx nello sviluppo delle forze produttive appare precipitosa.
La libertà derivante da un accresciuto controllo tecnologico non ri­
sulterebbe più utilizzabile per rivoluzionare le forme del commercio
sociale, se è vero che i soggetti sono stati anticipatamente mutilati
proprio da quello stesso spirito strumentale cui si deve il potenziale
liberatorio. Qui sta l’irrazionalità di un illuminismo che non riflette
su se stesso. «Quando si rinnega la natura che è nell’uomo, diventa
confuso ed opaco non soltanto il telos di una padroneggiamento ester­
no della natura, ma anche il telos della propria vita».
Nella comune coscienza positivistica si riflette oggi la riluttanza e
l’incapacità di percepire le dimensioni storiche della soggettività,
quasi che i soggetti rimangano gli stessi sia nelle grotte di Altamira
sia nella capsula spaziale. La specifica afasia di coloro che — portando a
termine una gigantesca impresa rivolta allo spazio esterno — hanno fi­
nalmente posto piede sulla luna, così come l’eco altrettanto muta de-
gli spettatori, potrebbero avere dimostrato una cosa: che si è definiti­
vamente spenta ciò che Hegel chiamava ^«esperienza della coscien­
za». Gli astronauti — e noi assieme a loro — non fanno più parte della
serie dei successori di Odisseo. Il destino naturalistico di quest’ultimo
continua tuttavia a esistere finché la riproduzione della vita non ha
spezzato il sortilegio della mera autoaffermazione (e in maniera ancor
più evidente laddove l’autoaffermazione celebra i suoi trionfi). La nuo­
va trascendenza di un’autonomizzazione tecnico-scientifica che si è
isolata dai bisogni comunicabili diventa autoaffermazione imbarbarita.
Se però diamo per corretta la diagnosi dell’epoca formulata da
Adorno e Horkheimer sulla base della «dialettica deH’illuminismo»,
allora dobbiamo anche chiederci quale esperienza esclusiva — di fronte
all’impoverimento della soggettività contemporanea — giustifichi la
140

posizione privilegiata di questi autori..Adorno ha cercato di dare una


risposta”nèlT«Introduzione» a Minima moralia, un testo che si presen­
ta (senza ironia) come dottrina della «vita giusta». Secondo Adorno,
Esperienza individuale non potrebbe fare a meno dTappog_giarsTal
vecchio soggetto, storicamente condannato (il soggetto «che^ancoja
per sé, ma non più in sé»). Se noi vogliamo (con Hegel) intendere co-
me essenziale ciò che sta scomparendo, allora è Fa soggettività borghe­
se in procinto di scomparirFquella ^t^^a_che^i-sia-s£ib,rando nella
sofferenza causatale dallo strapotere delloggettività sociale.
Da un punto di vista psicologico, considerando la persona di
Adorno, questo risultato è senz’altro convincente. Infatti, l’impara­
gonabile e brillante genialità di Adorno lasciò sempre trasparire que­
gli aspetti contorti e fragili che caratterizzano la posizione di un sog-
getto ancora per sé majgià non più in sé. Adorno non accettòjnaiXal-
t'ernatTva cTi «rimanere bambino» oppure «diventare adulto». Egli
non vollè'mai ne accettare l’infantilismo né pagare, il., prezzo di una
ngìdà^ifesa contro la regressione (neppure quando si trattava di una
«regressione al servizio dell'io»). In lui era sopravvissuto uno strato
di esperienze e di atteggiamenti precoci. Questo «terreno di risonan­
za» — facendolo reagire in maniera ipersensibile contro ogni ostaco­
lo — gli consentiva di svelare gli aspetti dissonanti, spezzati o offensi­
vi della realtà sociale. Talora, sul piano del comportamento, questo
complesso primario poteva anche-* fare-blocco» irT mani era mordace;
tuttavia restava'sempre in rapporto di libera comunicazione con il
pensiero, aperto (per così direEsul vei3ante~dèTnnteÌletto. Vulnerabi­
lità dei^ensi eTmperturbabilità del pensiero eTano-Cpsì Je due facce di
una^stessa medaglia. Questo privilegio — qualcosa di diverso da una
semplice dote naturale — non gli fu certo concesso senza che dovesse
pagare una contropartita. "
Indifeso Adorno non lo fu nel senso di essere perseguitato da un
destino particolarmente crudele. Certo dobbiamo qui pesare le paro­
le e non dimenticare né la sua cacciata dal paese per motivi di antise­
mitismo né il difficile periodo dell’emigrazione. Tuttavia quel suo
complesso primario — di cui riuscì a non privarsi mai — poteva fiorire
soltanto in condizioni di relativa protezione, in quello spazio di sicu­
rezza che gli fu salvaguardato inizialmente dalla madre e dalla zia, e
successivamente da Greti, sua moglie e collaboratrice. Indifeso Ador­
no lo fu in un altro senso. Di fronte a «Teddie» chiunque poteva im-
141

m ed latamente assumere il ruolo superiore di un adulto «maturo». Di


questo ruolo, infatti, Adorno non fu mai realmente capace_dLassimi-
lare le strategie di immunizzazione e di adeguamento alla realtà. Co­
sì egli era destinato a restare un elemento estraneo dentro tutte le
istituzioni, e questo a prescindere da ogni sua intenzione consapevo­
le. Alla sua stessa università — se mi è concesso per un momento di
generalizzare — questo collega fuori del comune restò sempre un og-
getto misteriosq^per non dire sospetto. La filosofia accademica (vo­
lendo usarequesto termine immediatamente comprensibile) non pre­
se mai veramente sul serio questa strana figura di intellettuale. E
persino nella sTera pubblica letteraria, nella quale Adorno fu protago;
nlstaìn discusso per circa quindici anni, non gli venne mai attribuito
nessuno dei soliti riconoscimenti. Per questo egli espresse una gioia
incontenibile”quando la «Deutsche Gesellschaft file Soziologie» lo
elesse a presidente. Insomma Adorno si trovò indifeso tutte le volte
in cui — circondato da adulti scaltri e sicuri — veniva automaticamen-
te a trovarsi nella situazione per cui chiunque fosse più smaliziato di
lui poteva sfruttarne le debolezze, non comprendendo (o non volendo
comprendere) che le debolezze specifiche di Adorno erano profonda­
mente collegate alle sue qualità eccezionali. E persino tra i suoi stu­
denti — purtroppo — non mancarono questi tipi smaliziaci.
Certo su Adorno hanno di recente pesato molte altre cose, anche
offese che sarebbe stato facile neutralizzare con poche frasi. Mi limito
qui a citare la critica, da più parti sollevata, contro l’edizione adornia-
na di Benjamin. Si disse che Adorno aveva voluto nascondere gli
aspetti materialistici di un Benjamin schierato con il partito comuni­
sta. I critici sottolineavano come Adorno avesse a suo tempo criticato
e respinto il lavoro in tre parti che Benjamin aveva scritto su Baude­
laire. La seconda di queste parti — nella successiva rielaborazione del­
l’autore che era stata accettata e pubblicata dalla Zeitschrift fiir So-
zialforschung nel 1940 — venne inclusa da Adorno nella sua antologia
in due volumi degli scritti di Benjamin. Posso qui aggiungere, tra pa­
rentesi, che la versione originaria del Baudelaire uscirà questo stesso
autunno presso Suhrkamp. Ora, le lettere che in quell'occasione — tra
il novembre e il dicembre 1938 — furono scambiate tra Adorno e
Benjamin non fanno altro che confermare al lettore imparziale quanto
egli già si aspetta e quanto lo stesso Benjamin non volle, per altro ver­
so, mai contestare. Vale a dire che anche in questa discussione Adorno
142

si dimostrò il teorico più consapevole nonché il marxista più erudito e


più saldamente in sella. Proprio in una prospettiva marxista lasua ar­
gomentazione si rivela stringente. Comunque si vogliano giudicare
questi testi, l’accusa secondo cui Adorno avrebbe falsificato Benjamin
in una sorta di pregiudìzio antimarxista ricade sul piano della sempli-
ce (nonché cattiva) propaganda politica. Secondo Scholem, Benjamin
?u vicino ad Adorno più che a ogni altro; Adorno comunicò con lui,
imparò da lui, e lo stimolò a sua volta. Con la sua edizione in due vo­
lumi delle Schriften di Benjamin (Frankfurt a.M. 1955) — non meno
che con le sue interpretazioni e i frequenti riferimenti, nei suoi scrit­
ti, a temi benjaminiani — Adorno è stato in realtà quello che più di
ogni altro ha contribuito a fàrè^ef pensiero dell’amico un_elemento
non falsificatole imprescindibile della discussione tedesca. Per questo
non poteva che essere duramente colpito dallindicela polemica di co­
lorò che àvevanò^ohosciuto Benjamin^proprio attraverso di luÈ_
lino degli allievi di Adorno, parlando sulla sua'tomba ancora
aperta, ha rimproverato al maestro di avere sì sviluppato critiche ir­
resistibili all’individualità borghese, ma di essere poi rimasto lui
: stesso incantato da quelle rovine. Questo è senza dubbio vero. Sen­
nonché, al di là di questo, la pretesa che Adorno — seguendo il noto
principio: «Abbatti quanto sta per cadere» — si strappasse eli dosso
anche~l’ultinw velo di_ «spirilo radical-borghese» e si facesse corifeo
degli studenti in rivolta testimonia non soltanto un’idiozia politica e
ps i cologica norrd ìschi ibi Ib'^m^uesla sedè, quanrto~sòp_rattutto, per
quel che più-dà.vicino_ci~nguarda, una^totale incompetenza filosofi­
ca. Infatti la figura storicamente superaTa~délFindividualità borghese
potrebbe essere lasciata tranquillamente caci ere — senzari morsi e sen­
za tristézza —'sólò'quando un nuovo soggetto fosse emerso dalla dis­
soluzione del precedente. E Adorno non si sarebbe mai spinto a favo­
leggiare della nascita di un «nuovo soggetto». Di una cosa era certo:
quella «libertà» immaginabile come reazione alle sofferenze causate
dalla repressione sociale ^dovrebbe, in realtà, non soltanto superare la
repressione dell’io, ma anche salvaguardare la forza con cui l’io non
vuole dissolversi nelle dimensioni amorfe della natura interna e del
collettivo. C’è un testo — che, voglio aggiungere, sa Iddio se non si
dimostra anche formalmente elaborato secondo i canoni della filoso­
fia accademica — in cui Adorno ha inteso mostrare il rapporto interno
che lega questi due momenti.
143

Liberi sono i soggetti, secondo il modello kantiano, nella misura m cui so­
no consapevoli di se stessi e_ase stessHdentici. Mamquesta stessa identità
essi sono di nuovo non liberi nella misura in cui soggiacciono alla sua co­
strizione e anzi la perpetuano. Non liberi sono i soggetti in quanto natura
non identica e diffusa. E tuttavia, in questa loro qualità,liberi' in quanto nei
moti che li dominano possono anche 1 iberarsTdèlla costrizione del l’identità.
Questa aporia si fonda sul fatto che la verità si colloca al di là della costri-
zione dèli identità, senza però esserne sernp.licemente un capovolgimento.
Da questa identità essa continua ad essere mediata.

In questo passo adorniano viene espresso il diritto che la soggetti­


vità borghese - per altro «non vera» — continua a mantenere di fron­
te a ogni sua falsa negazione persino nell’istante del suo scomparire.
Questo è ciò che Adorno aveva capito, e per questo non cercò mai di
«saltare» fuori della sua propria ombra.
Lo slancio che aveva già sostenuto la costruzione della Dialettica
dell’illuminismo viene integralmente ripreso da Adorno nella Dialetti­
ca negativa (un testo che a questo punto dobbiamo considerare il suo
testamento filosofico). Si tratta di recuperare ciò che lo spirito identi­
ficante deve purtroppo tagliar via daìloggetto: i 1 non identico.
Il concetto di non iden ti co si trova anticipato nell’interpretazione
di Odisseo. Lì esso riguardava quel Sé - preistoricamente amorfo —
che cade vittima dei dispositivi di un Io che, essendo «identico a sé»,
è anche capace di pensiero identificante. In Dialettica negativa il non
identico rappresenta invece «tutto ciò che i concetti riescono a co­
gliere del la~vèr irà quando vanno^LdjJkdUe_sLQSsi_[. • J. Utopia del-
la conoscenza sarebbe quella di dischiudere con concetti il non con­
cettuale (senza tuttavia assimilarlo al concettuale)». Con ciò viene
esplicitamente ripresa la vecchia_d.ialet.tica hegeliana di particolare e
universale. Sfi tratta di una dialettica desumibiled.ai_ modelli della co­
municazione quotidiana e che può e.$se.r_e_£acilenente resa plauplaussibile
ibile
attraverso di loro.
Che ih un discorso esplicito non si possano mai descrivere com­
pletamente gli oggetti concreti è cosa risaputa. Quando noi pronun­
ciamo un enunciato sopra alcunché di particolare — sia esso un ogget­
to, un avvenimento o una persona — noi lo afferriamo di volta in vol­
ta in riferimento a una sua determinazione generale. Sennonché, li­
mitandoci a sussumerlo sotto sempre nuove generalità, noi non riu­
sciremo mai a «esaurirne» il significato. Non appena però i soggetti
144

parlano fz/zzo coti l'altro (e non semplicemente intorno a qualcosa di og­


gettivo), allora essi avanzano la pretesa, l’uno rispetto all'altro, di ri­
conoscersi - nella loro determinatezza assoluta - come individui non
interscambiabili. Questo riconoscimento richiede una prestazione pa­
radossale: si tratta di afferrare, con l’aiuto di determinazioni in linea
di principio generali e, per così dire, attraverso di loro, la piena con­
cretezza di chi che non è, per l’appunto, identico a esse. Questo mo­
mento di «non identità» operante nelle inevitabili «identificazioni»
viene giocato da Adorno contrcple-costrizioni della logica formale, la
quale determina in maniera non dialettica il rapporto di generale e
particolare.
Fin qui, egli non fa altro che rinnovare la critica hegeliana ai li­
miti del pensiero intellettuale (limiti senza i quali, tuttavia, il pen­
siero non sarebbe possibile). Adorno, però, appunta di nuovo questa
critica contro lo stesso Hegel. Alla fine, anche la dialettica hegeliana
si rivela indifferente al peso specifico del singolo individuo. Infarti
Hegel non concepisce affatto la totalità — per esempio una società,
quando media il particolare (gli individui interagenti tra loro) con
l’universale (le categorie del lavoro sociale, del potere politico e delle
sue legittimazioni) — nei termini di una «connessione di costrizio­
ne» . Perciò Hegel non ha capito che la forza ricostruttiva della dia­
lettica può solo dischiudere le relazioni derivanti dalla repressione
della libera comunicazione, vale a dire quelle relazioni-di-forza (di
una comunicazione sistematicamente distorta) che non.consentono
agli individui di riconoscersi quali potrebbero oggettivamente essere.
Nelle parole di Adorno: la società è sia un insieme di soggetti che la
negazione di loro. Se la società non esistesse più, allora_scomparireb-
be anche quella «connessione di costrizione?> che la dialettica vorreb­
be dissolvere dall’interno. In questo senso, la totalità che J1 pensiero
cerca dialetticamente di decifrare e^ peFXdorno, il «non vero»^— an­
che seTa categoria^TègelianaHij<nop verità» dey&, a questo punto,
valere in senso ironico contro lo stesso Hegel.
NeWa. Dialettica nègcitiva'Xa parola chiave è «priorità dell’oggetti-
vo» \Vorrang des Objektiven]. A essa si collegano almeno quattro signi­
ficati. Anzitutto, oggettività significa la costrizione di una connes­
sione storico-mondiale che è soggetta alla causalità deTcIestino. Que­
sta connessione può essere spezzata dalTàrfiìl essi one~/de, nél”suo in­
sieme, contingente. Priorità dell’oggettivo indica, in secondo luogo,
145

la sofferenza che è causata da ciò che grava sui soggetti. Perciò la co­
noscènza del nesso~oggettivo deriva dalfinteresse a_stornare^questa
sofferenza. In terzo luogo l’espressione indica la priorità della natura
di fronte a ogni soggettività che la natura colloca fuori di sé. In ter­
mini kantiani: l’io puro è mediato dall’io empirico. In quarto luogo,
questa priorità materialistica dell’oggettivo è inconci liabile^con la
pretesa di una conoscenza assoluta. Così anche l’autoriflessione resta
sempre una forza finita, in quanto fa parte dello stesso contesto og­
gettivo che vuole penetrare. Questa fallibilità di principio induce
Adorno a difendere un «surplus di tolleranza».

Anche la persona più critica sarebbe totalmente diversa se si trovasse in una


situazione di libertà rispetto a coloro che vuole trasformare. Probabilmente,
un mondo vero risulterebbe insopportabile agli occhi di ogni cittadino del
mondo falso: sarebbe troppo danneggiato per esso. Ciò dovrebbe suggerire,
alla coscienza dell’intellettuale in conflitto con lo spirito del mondo, un
pizzico di tolleranza.

Nemmeno la facoltà conoscitiva si sottrae alla caducità del sog­


getto e ai suoi danneggiamenti. Ma è proprio in quanto le cose stan­
no così che noi non possiamo eludere la questione riguardante i fon­
damenti del pensiero critico. Una questione che non si accontenta di
risposte psicologiche, ma che pretende vengano rese esplicite le ra­
gioni giustificative della critica.
Adorno si è sempre rifiutato di dare una risposta positiva a questa
domanda. Ha anche negato che la semplice intenzione di superare la
sofferenza equivalga già a possedere quesce_ragioni giustificative. Que­
sta intenzione — soprattutto se espressa in condizioni estreme — non
implicherebbe, di per sé, nessuna «negazione determinata». Per un
altro verso, tuttavia, Adorno si vede costretto a fare ripetutamente
appello, per ragioni sistematiche, alfidea di «conciliazione» Wersòh-
E~come se non potesse farng^ajpeno^ Nonappena infatti la sof-
ferenza si sublima al di là delfimmediato dolore fisico, per essere su­
perata essa deve poter chiamare per nome ciò che è represso dall’og-
gettività della costrizione sociale. E quanto Adorno ha una volta in­
teso fare richiamandosi alla poesia di Eichendorff Sehone Fremete [Bella
lontananza], poesia che si differenzia dal lamento meramente senti­
mentale e romantico sull’estraniazione.
146

Lo stato conciliato, lungi dall’annettersi con imperialismo filosofico gli ele­


menti estranei, si sentirebbe felice se questi elementi potessero rimanere
j lontani e diversi in una prossimità tutelata, sfuggendo così all’alternativa
j dell’essere o completamente eterogenei o completamente assimilati.

Se noi riflettiamo su questa frase, ci accorgiamo che lo stato da es­


sa descritto, ancorché non ci appaia mai come realmente esistente, è
' tuttavia quanto abbiamo di più vicino e di più familiare. Questo sta-
| to ha la struttura del convivere in libera comunicazione. E proprio gli
aspetti formali di questa convivenza noi non possiamo fare a meno di
anticipare tutte le volte che vogliamp__dire qualcosa di vero. L’idea di
verità, già_ùnplicita alla prima^frasp che pronunciamo, può infatti
formarsi soltanto sul modello di un consenso idealizzato, raggiungi­
bile in una comunicazione libera dal dominio. In questo senso la ve-
rità degli enunciati si lega all'intenzione di una vita vera. Ciò che la
critica vuoleJntenzionaìmente rivendicare non è niente di più — ma
anche niente di meno — che questo elemento implicito alla nostra co­
municazione quotidiana. Niente di più, ,e niente di meno, di questa
anticipazione formale di una «vita giusta» è, per altro, anche..ciò che
Àdprnp_deyjeLpresupporre_qu.aodp.eg^h (d’accordo con Hegel) critica il
pensiero identificante deH’intelletto e (questa volta in disaccordo con
lui) la costrizione identificante della ragione idealistica. Con tutto
ciò, Adorno non si sarebbe lasciato convincere da questi nostri svi­
luppi. Egli avrebbe piuttosto insistito sul fatto che noi non possiamo
dire nient’altro se non la metafora~della «conciliazione». E anche
questa metafora noi la possiamq^pronunciare solo in quanto essa non
infrange il «divieto delle immagino», ma anzi finisce quasi per can­
cellare se stessa. Il «totalmente altro» è solo indicabile con negazione
indeterminata, mai conoscibile in termini concettuali.
Questa incoerenza, che espone fa filosofia eli Adorno a un’obiezio­
ne tutto sommato evitabile, ha una ragione profonda. Se l’idea di con­
ciliazione si risolvesse interamente nell’idea dell’emancipazione indi­
viduale, della convivenza in una libera comunicazione, dunque se essa
si lasciasse anche sviluppare nella formulazione di una «logica del lin-
guaggio quotidiano»»^, allora — secondo Adorno — questa conciliazione

1 Cfr. ora il mio approccio a una teoria della comunicazione linguistica in J. Ha­
bermas, N. Luhmann, op. cìt.
147

non sarebbe veramente universale. Essa infatti non includerebbeja


pretesa che anche la natura «apra i suoi occhi» e che noi si cominci a
parlare - nella situazione conciliata — con gitani mali, le piante e le
pietre. Nel nome di un’umanizzazione della natura, anche Marx era
attaccato a questa idea. Proprio come Marx, anche Adorno e una schie­
ra di filosofi come lui (Benjamin, Horkheimer, Marcuse e, natural­
mente, Bloch) ritengono che sia impossibile emancipare l’uqnrio senza,
nello stesso tempo, far risorgere la natura. Potrebbero mai gli uomini
liberarsi dalla repressione, e parlarsi reciprocamente senza timore, se
non avessero anche un rapporto fraterno con la natura che li circonda?
La Dialettica dell’illuminismo resta profondamente indecisa su una que­
stione di fondo: se cioè non tocchi ora alla conciliazione il compito di
ripristinare quella^«connessione simpatetica» che era andata spezzata
con il primo atto di un'autoaffermazione violenta (affermazione che
produsse insiemFpotéfé tecnico sulla natura esterna e repressione del­
la natura interna), oppure se questa «conciliazione universale» non sia
destinata a restare semplice idea esorbitante e stravagante.
Forse è possibile dire che nel metodo della scienza e della tecnica
noi «reprimiamo», per così dire, la natura nel senso che la «lasciamo
parlare» soltanto in relazione ai nostri imperativi, invece di pensarla e
di trattarla a partire da lei stessa. Il dolore causato da questa situazio-
ne è stato sepolto da una mtradizione giudaico-cristiana (la
quale ne conserva però tracce sotterranee nei testi apocrifi). Noi ci as­
soggettiamo senza inibizionijl pianeta, e adesso lo stesso universo di-
sincantato. Per contro la «dialettica delf illuminismo» vorrebbe inse­
gnarci che — se vogliamo prendere coscienza della repressione della
nostra natura interna e dunque dellad^orsjone dejja nostra soggetti­
vità - non_dovremmo mai dimenticare il lutto [Trauerì rimosso circa
ciò che abbiamo-Commesso contrp unajiatura tecnicamente dominata.
Ma è evidente che noi, pur volendo superare ogni repressione social-
mente superflua, non potremo mai rinunciare a quello sfruttamento
della natura esterna che ci è indispensabile per vivere. Il concetto di
una scienza e di una tecnica categorialmente «diverse» è vuoto pro­
prio com’è infondata l’idea di una conciliazione universale. Questa
idea si fonda piuttosto su qualcosa di diverso, vale a dire su quel biso­
gno di conforto e di sicurezza nei confronti della morte che nessun ac­
canimento critico potrà mai soddisfare. ST trarrà di un dolóre che~è in­
consolabile a prescindere dalla teologia (sebbene neppure esso dovreb-
148

be mostrarsi indifferente di fronte alla possibilità che la società possa


un giorno riprodursi senza più sfruttare le nostre paure rimosse).
Adorno restò sempre incorreggibilmente ateo e tuttavia esitòad
attenuare l'idea di conciliazione universale \Versohnung] nell’idea di.
un'emancipazione individuale \MundigkeiÌ\. Egli temeva, facendolo,
di inquinare la luce deH’illuminismo, giacché «nessuna luce può ri­
schiarare uomini exosg.se non riflettendo in sé una trascendenza».
A ciò potrebbe anche ricollegarsi il fatto che Adorno — ai cui oc­
chi il lavoro teoretico rappresentò sempre una «natura seconda» -
non si fidò mai completamente delle pretese avanzate dalla teoria pu­
ra. Egli fu anzi piuttosto avaro neH'elaborazinne di «modelli». Un
giovane critico gli ha di recente mosso il rimprovero^— muovendo da
un'ortodòssa prospettiva hegeliana — che ogni teoria che assuma la
totalità sociale come il «non vero» finisce necessariamente per essere
una teoria sulla impossibilità della teoria. Anche per questo la teoria
adorniana della società si sarebbe semplicemente limitata a riprende­
re ì vecchi contenuti della dottrina marxiana, Pur trattandosi di una
tesi diffìcilmente sostenibile dopo aver letto laxelazigne adorriiana di
apertura al XVI Congresso dei sociologi tedeschi, tuttavia essa tocca
un~punto che non può essere facilmente sottaciuto.
Adorno era convinto che il principio identitario fosse diventato
onnipotente da quando lorganizzazione della società borghese era
/ stata sottomessa aT principio di scambio. «Esso ha il suo modello so-
< ciale nello scambio-esso rende commensurabili e identici sia gli indi-
> yiHuTcfie le prestazioni più diverse. Sfruttando il principio di scam-
/'■ bio il mondo diventa qualcosa di identico e totalitario». Lo scambio
compie in modo manifestamente reale loperazione astrattiva. In que­
sta affinità elettiva tra pensiero identificante e principio di scambio
Adorno vide il legame tra la critica dello spirito strumentale e la teo-
ria della società borghese. Da questo legame si sentì immediatamen­
te autorizzato a utilizzare nella teoria sociale le analisi marxiane più
tradizionali. Adorno non si occupò mai di economia politica. Albre-
cht Wellmer - in un recente libro intitolato Krilische Gesellschaftstheo-
rie und Positivismus, Frankfurt a.M. 1969 — ha messo in.guardia dai ri­
schi che insorgerebbero se si interpretasse la dialettica delTillumini-
smojiei termini di una trasposizione della «critica della economia
politica» al piano più generale di una «filosofìa della storia». Questa
generalizzazione trasformerebbe infatti la critica dello spirito stru-
149

mentale in un passe-partout della critica ideologica, ossia in una sor­


ta di «ermeneutica del protondo» che - immediatamente applicabile
a qualsiasi oggettivazione della «vita offesa» — non avrebbe più nes­
sun bisogno di ricorrere agli sviluppi empirici della teoria sociale.
Naturalmente non possiamo muovere ad Adorno questo tipo di accu­
sa. Tuttavia l’azionismo di alcuni suoi studenti ci fa sospettare che es­
si confondano prematuramente una decifrazione dello spirito oggetti­
vo fatta in termini di critica dell’ideologia (ossia l’impresa cui Ador­
no dedicò sempre tutte le sue energie) con una teoria della società
tardo-capitalistica. Il fallimento della prassi non si lascia imputare
soltanto alla congiuntura storica. Può anche contribuirvi il fatto che
questi impazienti azionisti non abbiano ancora inteso quanto sia im­
perfetta la teoria impiegata. Essi non sanno precisamente che cosa,
nella situazione attuale, deve ancora sfuggire alla loro conoscenza.
jn questa situazione l’aiuto di Adorno ci era indispensabile. Esso
ci è stato invece tolto dalla sua morte. E non lo possiamo più sosti­
tuire con nessun tipo di surrogato, per quanto debole lo si pensi.
IX

KARL LOWITH
LA RINUNCIA STOICA ALLA COSCIENZA STORICA (1963)*

1. Due libri hanno reso giustamente famoso Lowith sia per l’arte
della parola sia per la precisione e ampiezza del pensiero: Von Hegel zu
Nietzsche, Stuttgart 19584 [tr. it. Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Tori­
no 1971], e Weltgeschichte und Heilsgeschehen, Stuttgart 19614 [tr. it.
Significato e fine della storia, prefazione di P. Rossi, EST, Milano
1998]. Entrambe le ricerche, tuttavia, non solo non hanno avvantag­
giato molto il Lowith filosofo, ma hanno piuttosto finito per ingene­
rare due pesanti fraintendimenti. Si pensò infatti che^Taptore. inda-
gasse - con acribia storiografica e stilizzazione grandiosa — la rottura
ottocentesca verificatasi tra il pensiero di Hegel e quello di Nietzsche
solo in quanto intendesse sottolinearne la necessità storica (sembrava
quasi che lui stesso volesse presentarsi come l’ultimo dei Giovani he­
geliani). Si pensò inoltre che lo stesso Lowith riconducesse, attraver­
so un montaggio retrospettivo, la filosofìa settecentesca della storia ai
taciti o dimenticati presupposti teologici delLTsoteriologia Bìblica
solo in quanto volesse criticare l’awenuta secolarizzazione della fede,
giudaico-cnstiana ovvero rintracciare a posteriori una certa primor-
dialità kierkegaardiana. Eppure in entrambe le ricerche riemergeva
chiaramente la prospettiva da lui già sviluppata negli anni Trenta
con le monografìe su Nietzsche e su Burkhardt (elaborazioni, a loro
volta, di lezioni da lui tenute a Marburgo prima di emigrare). A par­
tire dall’intrinseca complementarità dei motivi teorici di quei due auto­
ri, Lowith costruiva, per così dire, il meccanismo girevole di un
grandioso cambiamento di scena: quell’inversione di rotta che avreb­
be dovuto ricondurci indietro dalla «modernità» alla «classicità». Di

* Pubblicato in «Merkur», XVII, n. 184, 1963, pp. 576-590. (Ringrazio Enri­


co Donaggio per le informazioni utili alla traduzione di questo capitolo.]
152

Nietzsche, infatti, egli apprezzava la dottrina dell'eterno ritornc^co-


me il primo — e tuttora valido — tentativo di fuoriuscire da una mo­
dernità «senza mondo», tornando ad assumere la visione cosmologica
che era propria degli antichi greci. Nietzsche aveva però il difetto -
secondo Lowith — di compiere questo ritorno in una maniera dialet­
tica, ossia come preludio a una filosofia del futuro. Nietzsche, in altri
termini, assumeva l’intuizione riflessiva deIla totalità cosmica non
come quel l'imperturbabile ciclo naturalistico che.solo la.teoria (inte­
sa come semplice e silenziosa presa di coscienza) gli jivrebbe potuto
rivelare in maniera non distorta, bensì come una sorta d’inquieto
progetto e di intenzionale postulato. Perciò diventava così impor­
tante per Lowith ricostruire il dialogo che si era intrecciato tra un
Nietzsche-Anticristo ancora prigioniero dell'ambivalente esperienza
cristiana e un Burckhardt capace invece di perfezionare la sua sicurez­
za borghese in una sorta di rassegnazione tardo-borghese. Di questo
dialogo Lowith amava sottolineare soprattutto un punto: Nietzsche
non era riuscito a essere così semplice e sereno da continuare a fare il
professore a Basilea, ma aveva dovuto penosamente atteggiarsi a giul-
lare profetico delle nuove eternità. Lowith, in sostanza, voleva stacca­
re la verità di Nietzsche dall'orizzonte tormentoso, ed estatico della
sua volontà, di potenza. Così egli cercava di tenersi al largo dagli sco­
gli della coscienza storica coniugando semplicemente le intuizioni
unilaterali e le verità incandescenti del filosofo di Zaratustra alla cul­
tura classica e alla compostezza urbana di Jakob Burckhardt.
All'interno del dialogo Nietzsche-Burckhardt ricadono anche le
due grandi ricerche di Lowith che non avrebbero dovuto essere frain­
tese. La riduzione della filosofia-della-storij ai suoi presupposti teolo­
gici mira in realtà ad azzerare la tradizione ebraico-cristiana nel suo
insieme. E lo studio della critica posthegeliana a Hegel (e ai presuppo­
sti ontologici della filosofia) mira a fondare la metacritica di tutta
quella «coscienza storica» che, dopo lunga preparazione teologica,
era giunta ateisticamente al potere soltanto nel. XIX secolo. Frattan­
to, ogni possibile dubbio è stato definitivamente chiarito dallo stesso
Lowith. I quattro saggi raccolti con il titolo Wissen, Glaube und Skep-
sis (Gòttingen 19582) intendono dimostrare l'inconciliabilità della
ricerca filosofica con la fede cristiana, mentre le Gesammelte Abhand-
lungen uscite a Stuttgart nel I960 hanno come loro elemento comune
la critica di ciò che l'autore chiama «l'esistenza storica» (e che noi
153

vorremmo piuttosto chiamare la «coscienza storica»). Un leitmotiv


di questi saggi sta nella ripetuta citazione di un frammento risalente
al I o al li secolo: «Per il fastidio degli uomini, verrà giorno iiycui il
cosmo non sarà più ammirato né venerato. Questo bene supremo nel­
la sua totalità — la cosa più perfetta che ci sia stato concesso di con-
templaje — verrà messo in pericolo».
Non a caso Lowith si rifa alla stoà, anzi alla denuncia stoica di una
sopravvenuta impossibilità di cogliere il cosmo in modo autoeviden­
te. Nella s_niisurata^estensione deH’impero romano, infatti, il logos
della natura poteva essere afferrato solo in una maniera astratta e pri­
vata. Esso non era più intuitivamente e concretamente presente —
per tutti coloro chetano capaci di libero sguardo - nello specchio vi­
vente della polis. Già allora l’esercizio profondamente raccolto del
«theorèin» — così come la ricerca ironica della verità o la sospensione
scettica del giudizio — doveva venire costrittivamente assicurato dal­
la disciplina del saggio privatizzato o dalle applicazioni dell'atarassia.
Questo ripristino riflessivo della visione clàssicaTlel mondo (ripristi­
no che intendeva allora reagire all’ascésa deTcnstianesimo) è il terre­
no su cui Lowith vorrebbe tornare a far leva per una restaurazione
postcristiana. Egli vorrebbe di nuovo far valetela visione greca djjjn
«cosmos» inteso come totalità senza principio e senza fine. Vorrebbe
ripristinare l’esperienza di una «physis» intesa come unità e totalità
naturale delle cose esistenti. Si tratta di una tesi semplice, motivata
da preoccupazioni tutt’altro che peregrine. Lowith teme che la cre-
scente storicizzazione della coscienza, fissandosi unilateralmente sul­
la contemporaneità, finisca per imprigionare lo sguardo sulle variabi­
li dello sviluppo, sulla mera attualità dell’accadere, suH’effirnero e sul
relativo. In tal modo la coscienza s’irretisce nel la passionai ita dei suoi,
bisogni^ cade vittima delle necessità pratiche, smarrisce l’obiettività
teoretica che solo la contempràrrvità^cLLùrià'«conoscenza j>er la^ cono­
scenza» rende possibile. Nell'orizzonte di questo «mondo» — falso
perché storicamente e praticamente ridotto alle dimensioni «umane,
troppo umane» degli avvenimenti mondani — viene persa dj vista
1‘awolgente dimensione del mondo naturale, vale a dire la dimensio­
ne di un cosmo elle, come ordinamento^vitale, effettivamente ci so-
stiene e conserva. Il mondo della natura avvolgente, portante e indi-
'pendente viene fataimente_assorbko da un mondo-per-noi. Così però
gli esseri umani (e ai loro occhi tutte le specie viventi) perdono la po-
154

sizione loro assegnata nella totalità vivente del cosmo. E le irrilevan­


ti sciocchezze del mondo umano entrano ir^collisione con lordi na­
rri entodercìeloT della terra.
Giunti a questo punto, noi dobbiamo tuttavia chiederci come
questa passione grandiosamente conservatrice di Lowith possa sposarsi
al ripristino di una visione-del-mondo imperturbabile com’è quella
1 stoica. Com’è infatti possibile fondare questo padroneggiamento
\Bewàltigun£\ di un destino storicamente diagnosticato a partire dal-
l’autocomprensione — totalmente non-storica — della cosmologia gre­
ca? La difficoltà è evidente. Proprio a partire dall’esperienza squisita­
mente pratica di un pericolo che sembra minacciare la coscienza mo­
derna, Lowith vorrebbe ora recuperare queiratteggiamento classica-
mente teoretico verso il mondo che si presumg._supgriore_aUa,prassi
perché non prigioniero del pragmatismo della coscienza. Così come
proprio analizzando storicamente la genesi della coscienza moderna
in termini di degenerazione del pensiero cosmologico, Lowith vor­
rebbe ora riaprirsi un varco verso quella antica concezione-del-mondo
che si presume superiore alla storia perché non ristretta dalla storici­
smo della coscienza. In sostanza egli vuole mettere in scena un'«in-
versione di rotta» dalla modernità alla classicità. Ma egli non può ri-
| costruire la visione naturalistica"del mondo senza fare appello alla
| «porta girevole» di Nietzsche e di Burckhardt, ossia senza servirsi di
. quelle quinte sceniche del Theatrum mundi che ne dovrebbero però
; spezzare l’incantesimo cristiano.

2. Agli occhi di chi ora affronti — con ammirazione, ma anche con


una certa sorpresa — l’insieme delle Abhandlungen raccolte da Lowith,
e le integri magari con le sue ultime pubblicazioni1, si fa senz’altro
riconoscibile l’ardito nesso storico che emerge dalle singole interpre­
tazioni. Si tratta di interpretazioni tanto sottili quanto suggestive,

* K. Lowith, «Der Weltbegriff der neuzeitlichen Philosophie», in AA.VV.,S/7-


zungherichte der Heidelberger Akadtmie der Wissenschaften, Universitatsverlag Heidel­
berg I960; Id., «Der philosophische Begriff des Besren und Bosen», in Studien aus
dem C.G. Jung-Institut, Ziirich, Bd. XIII, pp. 211-236 [ora in Sàmtliche Schrifttn,
Bd. Ili, Metzler, Stuttgart 1985, pp. 275-298); Id., Nietzsches antichrhtlicbe Bergprt-
digt, «Heidelb. Jahrbuch», VI, 1962, p. 39 e sgg. [tr. it. in «Archivio di Filosofia»,
3, 1962, pp. 107-1291.
155

che vanno da Anassagora ad Aristotele, da Agostino a Pascal, da Car­


tesio a Kant, da Kierkegaard a Heidegger. Senza sforzo si configura­
no gli stadi di una lunga storia_di_decad.enza: una disgregazione che
comincia con il rovesciamento biblico operato da Paolp eXzioyanni
sul concetto greco-romano di cosmo. Questo rovesciamento viene ul­
teriormente rafforzato in sede filosofica da Agostino con una serie_<li
conseguenze importanti. Prima il mondo esisteva per natura, dunque
poggiava su se stesso, trapassava e nuovamente si formava. Adesso si
trasforma in un'evento salvifico ['H.eilsgeschehen}, depotenziandosi in
una creazione effimera avvenuta in funzione deH'uomo e non per se
stessa. La bellezza visibile del cosmo viene sacrificata all’ascolto di un
invisibile «logos» divino; la «theoria» viene svilita a curiosità; la pre­
senza della «physis» sospesa in favore dell’accertamento d’una futura
salvezza. Il mondo si riduce al mondo degli uomini, gli enti diventa­
no creature, la verità diventa certezza. Questi sono i presupposti del­
la teologia cristiana che successivamente — a partire da Bacone, Car­
tesio e Galilei — daranno un fondamento secolarizzato alle scienze.
Questa seconda epoca di disgregazione del pensiero cosmologico si
conclude con Hegel il quale - pur assumendo ancora la logica come
ontologia e verità e dunque giustificandola come eterna e onnipresen­
te - è il primo che osa promuovere la «storia» al rango della «filoso-
fia». Le conseguenze di questo nuovo punto di vista trovano, da ulti­
mo, sviluppo nella rottura radicale e irreversibile compiuta dal pen­
siero storico nei confronti dell’immagine naturale del mondo. Storici­
smo, pragmatismo ed esistenzialismo sono soltanto gli esiti ideologi­
ci obbligati di questa fondamentale rivoluzione del modo di pensare.
Benché impostata da Marx e KierkegaàrcTTn sede filosofica, questa ri­
voluzióni travolge alla fine la stessa filosofia. Si viene così a dare per
acquisito che i filosofi non possono la (senza rimorsi di coscienza)
concedersi il lusso di contemplare tranquillamente 1 ’universo.
Come in ogni storia di decadenza che si rispetti le cose appaiono
sotto una doppia contabilità, a seconda che si presentino sulla pagina
del «non ancora» oppure sulla pagina del «di già». Per un verso, la
fatale concorrenza tra fede e pensiero naturale - l’autunnale irruzione
della coscienza soreriologica nell’innocenza di una sapiente intuizio­
ne naturale — comincia già con il giudaismo. Per un altro verso, la re­
ligione mosaica della legge ha mantenuto fino ai giorni nostri il pri­
vilegio - di fronte all’invocazione cristiana della «morte del salvato-
156

re» intesa come momento storicamente determinato — di testimonia­


re come continuità visibile, nell’incessante rigenerazione del popolo
ebraico, l'eternità del dio biblico. Possiamo dire lo stesso anche del
cristianesimo, che per un verso fatalmente dissacra il cosmo dei greci
antichi, ma che per l’altro verso ancora presenta il vantaggio, rispet­
to alle epoche di compiuta secolarizzazione, di non rompere i ponti
i
con la classicità (nell'orizzonte teologico, infatti, l’esperienza della
storia resta compatta e ordinata). E, per quanto ormai lontano dalle
sue origini greche, persino il pensiero di autori come Cartesio e Gali­
lei, Vico e Voltaire — autori ancora inquadrati nel sistema naturale
delle scienze dello spirito — non ha tuttavia oltrepassato la soglia di
quella storicizzazione posthegeliana che lo stesso Hegel ha provvedu­
to a dischiudere./
Quanto più restiamo impressionati da questo progetto di progres­
siva de-mondanizzazione [Entwelt/ichf/ng] del mondo naturale (un pro­
getto che si orienta evidentemente al grande respiro della metafisica
occidentale), tanto maggiore diventa con l'ammirazione anche la no­
stra sorpresa, se pensiamo a quale scopo questo progetto avrebbe do­
vuto servire. Lowith disegna con maestria il processo di decadenza
della coscienza antica e di nascita della coscienza moderna. Sennonché
ogni filo ch’egli aggiunge a questa trama rende alla fine sempre più
imbrogliato e oggettivo il contesto storico da cui vorrebbe condurci
fuori (liberandoci da una connessione dell’accecamento imputabile al­
la coscienza storica). Egli riflette sulla sua impresa con queste parole:

Noi ci chiediamo come si sia giunti a questo fraintendimento, per cui l'uni­
co cosmo della natura si è dissolto in una pluralità di mondi storici e l'eter­
na natura dell’uomo si è dissolta in una pluralità di esistenze storiche. A
questa domanda si può rispondere soltanto con una ulteriore presa di co­
scienza [Besinnung] storica, la quale tuttavia ha per scopo proprio di dissol­
vere le costruzioni della coscienza storica2.

In questo «tuttavia» si nasconde una difficoltà con cui non si vuole


fare i conti. La costruzione di Lowith è talmente legata a quella logi-

2 K. Lowith, Gesammelte Abhandlungen, Stuttgart I960, p. 164 [ora in Sàmtlichc


Schriften, Bd. II, Metzler, Stuttgart 1985, p. 360; cfr. tr. it. in Critica dell'esistenza
storica, Morano, Napoli 1967, p. 218].
157

ca storica da cui nessuno — dopo Hegel — può più prescindere, ch'egli


non appare in grado di formulare in maniera plausibile la sua tesi pa­
radossale. In effetti questa tesi dovrebbe suonare all’incirca così: a
partire dalla pretesa di aver ragionevolmente capito la storia, falsifi­
care la pretesa stessa della comprensione storica in quanto tale.

Il postulato di ogni pensiero storico, che le questioni oggettive della filoso­


fia siano trattabili esclusivamente in modo storico, si lega a un modo di
pensare non più vecchio di un secolo e mezzo, un modo di pensare che po­
trebbe di nuovo scomparire5.

In questo passo caratteristico, Lowith utilizza la figura concettua­


le che sta alla base del suo approccio critico: il pensiero storico è nato
storicamente, dunque potrebbe nuovamente scomparire. Sennonché
anche questo tipo di argomento Lowith deve in realtà rubarlo al suo
avversario più acuto. Alla critica marxista, com’è noto, esso serviva
non a riguadagnare l’orizzonte delle verità eterne, bensì a mettere
aprioristicamente in questione ogni dottrina che si fondasse su delle
costanti. Anzi, Io stesso principio-speranza doveva poter contare sul
fatto che assieme all’origine storica dei rapporti esistenti ne venisse
anche dimostrata la possibile superabilità (nonostante che questi rap­
porti rivendicassero la validità ontologica del «sempre eguale»). An­
che nel senso inverso — cioè di una critica che abbia lo sguardo rivolto
all’indietro — l’argomento non si sottrae ai postulati del pensiero sto-
rico da cui deriva. In questa direzione, infatti, esso mira a ristabilire
un «principio» (un «cominciamento») che risulta però pensabile sol-
tanto in maniera retrospettiva e continuamente destinato a scivolare
neH’ideologia Noi vediamo infatti un determinato .principio, prevale­
re continuamente sull'altro: la cosmologia batte la logica, il mito la
cosmologia, la magia il mito, e così via. Alla fine, anche il principio
che dovrèbbe valere come «primo» non può che essere proclamato
nella prospettiva dello sviluppo storico, finendo per legittimarsi sul­
l'aura di una primoreiia lj_t à immemoriale. Ciò vale anche nel caso in
cui tale principio venga rintracciato, e debba di nuovo essere pensato,
nei termini filosofici della «physis» greca: ossia come ciclicità deter­
minata, epperò senza inizio né fine, di un incessante crescere e perire.

5 Ibid., p. 153 [ora in SàmtlìcbeSchrtften, Bd. II, eie., p. 347; cfr. tr. ir. eie., p. 203].
158

Con più sobrietà, e senza esibizionismi etimologico-fìlosofìci, an­


che la Ubenvindung [superamento] della coscienza storica proposta da
/ Lowithnon poteva che _________ --------------
andare nello stesso senso dellarpresuntuosa
, Verwindung della metafisica già teorizzata da Heidegger (prossimità,
estremamente spiacevole per Lowith). Veniamo così a
j questa, certo estremami
■ sapere che la «physis» èj un «venire alla luce», il principio più mani-
I festo e nello stesso tempo più nascosto, genesi e morte nello stesso
j tempo. Anche Lowith sente come Heidegge r il bisogno di ri
_____ ricostrui-
!
l.rcl.l’ontologia. Con la de-mondanizzazione del mondo anche Lowith
costruisce una storia della Seinsvergessenheit [dimenticanza dell’essere].
Ceno, nelle due versioni filosofiche della decadenza le cesure vengo­
no a cadere diversamente. Laddove,Heideggerpjivilegia ontologica­
mente i presocratici, Lowith ribadisce l’unità della cosmologia greco­
romana fino a Plinio. Per Lowith la vera deformazione metafisica sta
nèllacòincidenza tra fede cristianie fede secolarizzata, laddove inve­
ce Heidegger civetta con la coscienza escatologica. Inóltre idue_filo-
sofi'si diTferenzianq_nettamente nella valutazione del ruolo teorico gip;
caro da Nietzsche, anche se entrambi testimoniano jn misura eguale
"de! fascino (oggi d i fiicìTmente'comprensibile) con cuiNietzscheTn-
cantò e sviò la generazione della prima guerra mondjale._Tutto som­
mato, però, queste differenze non mi sembrano essere così decisive.
Soprattutto se pensiamo al fatto che Lowith riconduce letteralmente,
proprio come fa Heidegger, due millenni di fatale sviluppo occiden­
tale alla storia segreta di una certa visione filosofica e teologica del
mondo. Oppure se pensiamo al fatto che entrambi i filosofi cercano
tutto sommato di ritrovare (e ristabilire) una giusta comprensione
ontologica, a prescindere dal fatto che la distorsione metafisica del­
l’essere venga raddrizzata da Heidegger con la rammemorazione pro­
fetica e che la dissacrazione del cosmo venga esorcizzata da Lowith
con il disincanto scettico. L’unico punto^sostanziale di differenza re-
sta il fatto che Heidegger non intende mai spezzare il nesso che ri­
collega la verità (inclusa la visione vera del cosmo e l’immanenza del
suo logos) al mondo storico degli uomini. E .devo confessare che
nemmeno Lowith è riuscito a convincermi della possibilità d£ ri met­
tere in discussione il carattere intrinsecamente storico della media­
zione dialettica tra natura e mondo umano (comunque questa media­
zione venga poi concettualizzata). Tanto meno questo carattere stori­
co mi sembra contestabile a partire dalla logica con cui gli uomini
159

hanno concepito ontologicamente il mondo. Ma naturalmente l’inda­


gine di Lowith va ben al di là di questo.

3. Proprio come Lowith diffida deH’eterno ritorno di Nietzsche


quale visione naturalistica del mondo — in quanto tale visione sareb­
be ancora dialetticamente e storicamente agganciata all’idea della vo­
lontà di potenza — così egli dovrebbe allo stesso modo dubitare di
poter spezzare l’incantesimo della coscienza storica con semplici for­
mule attinte da questa stessa coscienza. A rigore egli dovrebbe poter
fare a meno, in virtù dell’immediatezza della visione cosmologica, di
tutti gli artifici della mediazione storica che pure continua a impie­
gare con tanto virtuosismo. E, in effetti, non è ch’egli non cerchi di
volgere anche uno sguardo ingenuo e affermativo sul mondo della
«physis». Allora, con il gesto deittico del fenomenologo esperto, cer­
ca di rappresentarsi il cosmo in una maniera immediata. Lo stesso so­
le di Omero splende anche su di noi. Anche se le nostre concezioni
della natura si sono modificate, la natura in sé resta sempre quella
che è. La visione greca della natura è l’unica che veramente intuisca
come da essa ogni essere vivente nasca e fiorisca per poi in essa torna­
re a dissolversi -

La parola cosmos deriva da una esperienza specificamente greca del mondo.


Ma chi potrebbe sostenere con certezza che noi non viviamo più dentro un
cosmo? (...) Ogni biologo non presuppone forse, trovandone continuamen­
te conferma, che il mondo naturale è un mondo mirabilmente ordinato e
sorprendentemente ragionevole, che esso ricomprende in sé l’uomo e che so­
lo perciò egli è in grado di distanziarsene?4

Una volta che abbiamo accettato questa idea di cosmo, allora ba­
stano poche frasi di tipo tautologico per illustrarlo (per esempio: «Il
mondo della natura è sempre lo stesso»). Ogni concezione successiva
si commisura a questa così come le interpretazioni prospetticamente
accorciate si commisurano alla sostanza della cosa stessa. In questi
passaggi l’argomentazione viene involontariamente ad assomigliare,

4 K. Lowith, Wtoe», Glanbe und Skefrsis, Gòttingen 19582, p. 76 (ora in Sdmtliche


Schriftcn, Bd. Ili, cit., p. 263; cfr. tr. it. in Storia e fede, Laterza, Roma-Bari 1985,
pp. 79-80).
160

«mutatis mutandis», a quell'irruzione «realistica» con cui Nicolai


Hartmann era riuscito a interrompere — con una fresca presa «ontolo­
gica» sull’essere reale e ideale — le autistiche riflessioni di un’episte­
mologia ormai stanca. Lowith si richiama qui, per un verso, all’espe­
rienza quotidiana del mondo naturale di vita, all’attendibilità di gior­
no e notte, cielo e terra, primavera e autunno, e, per l’altro verso, a
quei fenomeni morfologici ed ecologici che hanno da sempre sugge­
rito agli indagatori descrittivi della natura l’immagine teleologica di
una totalità armoniosa. Lowith — che non senza esitazione era passato i
dallo studio della biologia a quello della filosofia — raggiunge qui di­
rettamente la filosofia romantica della natura di stampo goethiano.
La physis dei greci si trasforma senza volcrlpin un'immagine neo-
umanistica di natura: il «cosmos» acquista la fisionomia plasmata
- —

Naturalmente sentiamo anche dire che la natura è «naturale» non


soltanto quando lascia crescere e fiorire, ma anche quando distrugge,
ossia fa tremare la terra, sconvolgere mari, eruttare i vulcani. Ma al­
lora, secondo me, diventa tanto più pericoloso assumere come totalità
dell’essere una natura siffatta e assimilare a essa anche gli uomini
(con il sottinteso ch’essi siano semplicemente «flora umana»). Io cre­
do che questa immagine di uomo avviluppato nel cosmo (un’imma­
gine che rivive negli «Eranos-Jahrbùcher») non possa che essere peri­
colosa al superiore spirito umanistico, attento com’esso è a non la­
sciare che la fede naturale degli stoici si rovesci in una visione sem­
plicemente biologicistica del mondo. E in questa prospettiva, io cre­
do, che va giudicato il ruolo strategico del saggio di Lowith intitola­
to Natur und tìumanitdt des Menschen [Natura e umanità dell’uomo].
Naturalmente Lowith conosce bene i risultati dell'antropologia fi­
losofica, la quale ha già messo in luce la posizione tutta particolare
dell’uomo all'interno dalla natura. Lowith non mette certo sullo stes­
so piano delle piante e degli altri animali quell'essere speciale che
cammina diritto, conduce la sua vita attraverso l’azione, si riproduce
in società, quell’uomo che sa parlare e tacere, domandare e risponde­
re. Insiste tuttavia sul fatto che l’uomo non può mai esorbitare -
nemmeno nei punti estremi e contrari del suicidio e dell’autorealiz-
zazione — dall’ambito di una circolazione organico-naturale. La matu­
razione dell’uomo produce per natura ciò ch’egli è. Il suo essere aper-
to-al-mondo non implica un trascendimento della natura. «L’oltre-
161

passamente che distingue l’uomo e il suo linguaggio dagli altri ani­


mali potrebbe sempre avvenire dentro l’orizzonte inoltrepassabile del­
la natura»5. Dunque, nella formazione dell’uomo, l’umanità si realiz­
za come un trascendimento «conforme alla natura». La natura viene
trascesa solo in direzione di una ragione immanente — logosextralin-
guistico della natura medesima — che si manifesta sia contemplativa­
mente nell’atem potai ita della teoria sia attivamente nella vita della
polis. Per essere in ordine, an£h^J^cPXi^venza..deg.li_j.ipJ3}.*ni neHa
polis deve conformarsi alle modalità del cosmo.
L’umanità è però minacci ara ^dovunque severi guardiani blocchino
la dimensione della storia nel nome di una natura totalizzante. Sareb­
be infatti messa a repentaglio quella formazione culturale dell’uomo
che — conquistata attraverso il lavoro — viene nello stesso tempo cu­
stodita e presupposta dal linguaggio. Naturalmente Lowith non è se­
condo a nessuno nell’awertire questa minaccia. Per questo cerca di
compensare 1 assimilazione deH’uomo alla natura con una trasfigura­
zione umanistica della natura stessa. Politicamente ciò significa un
ritorno al diritto naturale~classicq, anche se (abbastanza curiosamen­
te) Lowith non vi ricorre mai in maniera esplicita. Troviamo al mas­
simo qualche accenno all’antropologia politica degli storici classici,
di cui si sottolinea la capacità di narrare le vicende umane senza la­
sciarsi coinvolgere dal pathos della storicità. Viene menzionata l’idea
di Tucidite, secondo cui l’intricata lotta per il potere da parte dei ce-
ti dominanti ha radici nelFimmutabile natura delfuomo e deve per-
tanto ripetersi irTforme sempre eguali. Viene anche ricordata la-dot­
trina di iPolibio, secondo la quale il ciclo con cui le costituzioni si al-
ternànò7la~vittoria rovesciandosi in sconfitta e il potere in schiavitù)
obbedisce fondamentalmente a una legge di natura. Lowith ripete
queste opinioni in una maniera affermativa, assumendole come indi-
scutibili. In tal modo egli elude l’urgente problematica storica del­
l'età contemporanea. E, in effetti, oggi risultano modificate sia le for-
me strutti!tali del dominio sia la sua stessa sostanza, e ciò vale non
soltanto nei confronti dell’età di Polibio ma persino nei confronti
dell'età di Machiavelli. Oggi, per un verso, l’eliminazione della guer­
ra è diventata l’obiettivo delle normali trattative diplomatiche men-

5 Id., Gesammelte Abhandlungcn, cit., p. 205 (ora in Samtliche Scbriften, Bd. I,


Metzlcr, Stuttgart 1981, p. 291; cfr. tr. it. in Critica dell'esistenza storica, cit., p. 2791.
162

tre, per l’altro verso, l’eliminazione della pena di morte ha trovato in


alcuni paesi una ratifica costituzionale. Se quest’ultimo caso mostra
come l’organizzazione del dominio e della violenza si sia modificata
in modo da incidere su strati antropologicamente profondi, il primo
caso dimostra invece come dovremo in futuro modificare rapporti fi­
nora percepiti come delle costanti antropologiche. In questo senso è
significativo il modo in cui Lowith è di recente intervenuto, in una
trasmissione radiofonica, sul problema della pena di morte. Introdu­
cendo il suo contributo con il titolo «Uccisione, omicidio, suicidio»,
egli ha dapprima brevemente illustrato la differenza esistente tra l’w-
cidere in una situazione di guerra e il commettere omicidio nell’ambito
delle leggi di uno stato. Poi, senza minimamente preoccuparsi né
della pena di morte né degli esperimenti nucleari che tengono oggi il
mondo con il fiato sospeso — esperimenti che, ove ponessero termine
con funghi atomici alio stato di natura tra le nazioni, finirebbero per
sopprimere ogni distinzione tra uccisione e omicidio — Lowith si è
dilungato sulla figura storica del suicidio quale prova di libertà per
una vita governata filosoficamente. Sennonché ci si può chiedere qua­
le tipo di saggezza sia quella ottenuta attraverso un restringimento
così selettivo del campo visivo.
Lowith sostiene che allo stesso modo in cui non c’è una natura mo­
derna, bensì soltanto una scienza moderna della natura, così non c’è
una moderna natura dell’uomo, bensì soltanto un’antropologia più o
meno adeguata o superata. Contro questa tesi si potrebbe obiettare
che rautocomprensione dell’uomo è, con tutta evidenza, una compo-
nente essenziale di ciò clfegli è per natura. Infatti ciò che luomo ritie-
ne dLessere-divenra determinante per la sua condotta. Forse che la na­
tura dell'uomo non è necessariamente mediata alla sua seconda naturai
Ossia a quella natura che trova espressione nelle forme storiche del la­
voro, nelle regole (acquisite e progettate) di convivenza, obbedienza e
comando, nelle modalità di esperifnyq inrerprera/ioneleTontrollo
che sono storicamente scoperte e linguisticamente fissate e sviluppate
(oppure rigettate e dimenticate), dunque anche nelle immagini che
determinate società, in certe epoche storiche, hanno di se stesseT'Noi
ci trovi amooggi in una situazione in cui le condizioni di sopravvT-
venza si sono fatte esorbitanti, ossia incompatibili con le forme di vi-
ja che nel corso dei millenni hanno assunto un’ingannevoleapparenza
di naturalità. In questa situazione diventa del tutto realistico reagire
163

ai rischi mortali progettando modifiche alla pseudonaturalità delle


forme di vita. E noi non dovremmo mascherare l’esperita plasticità
della natura umana con il tabù dottrinale delle costanti antropologi­
che. Al contrario, nel rispondere all’esigenza pratica di controllare
tutto lo spettro delle trasformazioni, sembrerebbe più conform£_al-
Patteggiamentoscettico avanzare progetti teorici fondati euristica-
mente sul principio di un’estesa variabilità dei bisogni, delle capacità
e delle debolezze umane. Appaiono invece dichiaratamente dogmati­
che tesi di questo genere : « A nche la distinzione tra cultura e barbari e
nasconde, sotto condizioni diverse, un’identica natura dell’uomo. Ah;
finizio della storia l’uomo non era meno~ùmano_di_quanto lo sarà al
termine di essa»6. Anche se validità e verità di questa proposizione ri­
sultassero mai decidibili, resterebbe pur sempre aperto un problema.
Al livello avanzato delle società industriali sembra infatti che l'uma-
nità deH’uomo possa essere salvaguardata solo a parto di trasformare
radicalmente le categorie dell’interazione sociale, fino al punto di
coinvolgere anche le strutture pulsionali e le forme di razionalità, le
costellazioni eli soddisfacimento e rinuncia, le tonalità emotive, le for-
rne della^ubTTmazionej? i meccanismi delì’autoapprendirnentp intel­
lettuale. Tanto che, se la nostra specie potesse restare, nella supposta
«fine della storia», altrettanto «umana» di quanto lo era_stata agli
inizi del suo processo dii civjHzzazione, allora ciò sarebbe la migliore
dimostrazione dell’intrinseca plasticità della sua natura.
___________________________ _____________________________ _________—.................................— ----------------------- — ■ ———•— -

4. Tuttavia questi argomenti rientrano pur sempre injmajìlosofia


che si lascia praticamente influenzare dai bisogni. E Lowithci obietta^
che, in riferimento alf/zvAW necessariuni, non possiamo far valere sol-
tanto la Heilsivabrheit, la verità salvifica. «Che cosa centra la nostra
professione di fede con la conoscenza oggettiva?»7. Se per conoscenza
s’intende qui l’ambiziosa pretesa^teorica di un’ontologia complessiva
degli enti, le riserve di Lowith sono giustificate. Non è infatti plausf-
bile che la coscienza storica, operante sul piano pratico, faccia coinci­
dere la questione di ciò che è praticamente necessario, secondo una
certa diagnosi della situazione, con la. quest ione ontologica circa il

6 Ibid., p. 160 [ora in Sà'mtUcheSchrtfìen, Bd. II, cit., p. 356; cfr. tr. ir. eie., p. 2131.
7 K. Lowith, Wisscn, Ginuba und Skepsis, cit., p. 17 [ora in Sàmtlichc Schrìften,
Bd. Ili, eie., p. 209; cfr. tr. it. cit., pp. 53-54].
164

mondo nella sua totalità. E resta in effetti discutibile se «una neces­


sità storica, per quanto grande e urgente essa sia, possa mai fungere da
motivazione essenziale per una riflessione filosofica sull’essenza del­
l’essere e della verità»8. Per questo non sono del tutto d’accordo con
Lowith quando egli, per via di una certa fissazione al suo maestro
Heidegger, continua a presentare Sein und 7-eit come l’approdo estre­
mo dello storicismo radicale. Secondo Lowith, nessuno più di Hei-
degger avrebbe saputo prendere congedo dall’eternità. A me pare in­
vece che, seppur muovendo dall’orizzonte del tempo, Heidegger abbia
pur sempre di mira Yessere. Egli non rinuncia aH’ontologia e ricondu­
ce anzi fa storia alla struttura della storicità. Questo — pur senza sot-
trarlo alla critica sopra citata - dimostra come non vada imputato a
Heidegger l’ultimo stadio della storicizzazione e pragmatizzazione
della coscienza. Si tratta di una decadenza che aveva già raggiunto il
suo estremo nella rottura rivoluzionaria caratterizzante la filosofia
dell’ottocento. Una rottura le cui conseguenze sono state recente­
mente messe in evidenza da Lowith, con tutta la dovuta chiarezza,
nella sua brillante introduzione a un’antologia dei Giovani hegeliani9.
A partire da quel momento la filosofia — recuperando esclusiva-
mente nella riflessione il suo interesse più caratteristico — rinuncia
’el tutto alla sua pretesa classica e si trasferisce dalla dimensione on-
ilogica a quella critica. Lowith è un avversario acuto: nella Sinistra
egeliana egli trova degli avversari radicali e tuttavia anche uno spi-
*ito a lui più vicino di quello heideggeriano.

Il fondamentale e rivoluzionario significato di Marx non si riduce al fatto


che egli rimise sui «piedi» uno Hegel poggiante sulla «testa» e rovesciò il
suo storicismo metafisico in materialismo storico. Piuttosto risiede nel fatto
che Marx, volendola «realizzare», intese «superare» la filosofia in quanto fi­
losofia. Anche se espresso programmaticamente da Marx, questo «supera­
mento» della filosofia era già stato preparato e facilitato da autori come
Feuerbach e Stirner, Ruge e Hess, Bauer e Kierkegaard [...]. Questi autori si
chiamano ancora «filosofi» pur non essendo più gli amanti della saggezza e
di una teoria autosufficiente. Non credono più alla filosofia come alla supre-

8 Id., Gesammelte Ahhandlungen, cit., p. 176 e s&g. [ora in Sàmtliche Schriften,


Bd. Il, cit., p. 375; cfir. tr. it. cit., p. 237).
9 Id., Die htgelsche Linke, Stuttgart 1962, pp. 7-38 [tr. it. La sinistra hegeliana,
Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 437-470).
165

ma e libera attività dell’uomo, né alla possibilità di fondarla sul «bisogno


d'infondatezza» di cui parlavano i classici. Il punto di partenza di questi
«ultimi filosofi» sta nel bisogno pratico caratterizzante i condizionamenti
sociali e politici — e più in generale la dimensione storica — dell'epoca loro.
Essi non pensano a ciò che è eterno e stabile, bensì alle necessità del loro
tempo. Per loro lo spirito diventa «spirito dell'epoca». Se ancora filosofano,
lo fanno non in un senso contemplativo, ma piuttosto al servizio pratico del
movimento storico. Il mondo diventa per loro il «mondo dell'uomo», la sag­
gezza circa il mondo diventa una conoscenza scientifica del movimento sto­
rico di questo mondo, mentre la stessa verità e conoscenza scientifica traggo­
no validità dalla loro intrinseca conformità all’epoca \Zeitgemdssheit\lQ.

E poco oltre leggiamo ancora:

Per questa sua caratteristica tendenza storico-pratica il marxismo è un av­


versario radicale della filosofia e, nello stesso tempo, la forma estrema e più
istruttiva di pensiero radicalmente storico. Questo contrasto tra marxismo e
filosofia viene spesso frainteso, oppure visto come antitesi di filosofia e non
filosofìa soltanto per motivi non filosofici, pratico-politici. La causa di que­
sta assenza di chiarezza sta nella cattiva coscienza della stessa filosofia, la
quale ha voluto di sua iniziativa rinunciare alla distinzione di teoria e pras­
si nonché alla tradizionale priorità della prima sulla seconda (ibid., p. 37)
)cfr. tr. it. cit., p. 468).

Riassumiamo ancora una volta la prospettiva da cui Lowith criti­


ca questa storicizzazione e pragmatizzazione della coscienza filosofi­
ca. A partire da Aristotele per arrivare fino a Hegel, la teoria aveva
sempre escluso dai suoi interessi ogni elemento relativo(per quanto
ricco di relazioni fosse), ogni elemento transitorio (per quanto attua­
le esso apparisse) e ogni elemento_cpntingence (per quanto minaccio­
so si presentasse). La critica dei Giovani hegeliani intende invece oc­
cuparsi proprio di queste cose. Essa intende legarsi alla riflessione di
una prospettiva storica mai superabile, vale a dire all'esperienza del-
l’assoluta rilevanza di quanto è supremamente relativo, temporaneo e
contingente. A sua volta, Lowith critica di rimando questa esperien­
za come un presupposto dogmatico. E lo fa mettendo in luce il rap­
porto che lega, sul piano concettuale, la dottrina cristiana della crea-

10 Ibid., p. 9 e sgg. kfr. tr. it. eie., p. 441).


166

zione con quella radicalizzazione dell’idea di esistenza che da Pascal,


Kant e Kierkegaard giunge fino a Nietzsche, Heidegger e Sartre. Una
volta che il mondo non sia più visto come un cosmo — ossia come ciò
che è eterno per natura —, bensì ^ome qualcosa di creato nel tempo e
ricavato dal nulla, allora anche resistenza di ogni singolo essere resia
garantita soltanto dalla fede in una creazione fattuale. <jj un mondo
fattuale. Ma nella misura in cui questa stessa fede cade vittima della
secolarizzazione, 1 esistenza diventa un «dato di fatto» cieco e assolu-
tam e n te probi e m anco. L’idea di esistenza designerà allora il carattere
incalzante e insieme problematico della fattualità, l'ingovernabile rilevan­
za di un relativo non più deducibile né giustificabile in base al suo
rapporto con l’assoluto (benché l’esigenza della giustificazione conti­
nui a permanere). Da qui la filosofia moderna trae il suo impulso a
una riflessione che non può esimersi~3ai suoi compiti giustificativi.
Da qui la critica posthegeliana ricava la sua spinta a perfezionare sul
piano pratico l’impresa in cui fallisce la semplice forza della riflessio­
ne. Secondo Lowith, sia questa filosofìa sia questa critica ricavano le
loro motivazioni — e in una maniera tanto più dogmatica quanto più
inconsapevole — dall’implicita negazione cristiana dell’indipendenza
della natura, dunque dalla ribadita inaffidabilità di un mondo che
non poggia più su se stesso. Sul piano della storia^della cultura, Lowith
si sforza di articolarequesto argomento nelle maniere più diverse. Ma
in realtà, per poter funzionare, questo argomento deve poggiare sui
tre postulati che restano impliciti alla sua prospettiva. In primo luo-
£o, che la storia si determini e si trasformi sostanzialmenteJn base
al 1 ’autocomprensione ontologica del mondo volta per volta dominan­
te. In secondo luogo che la storia si compia — secondo il modello ro­
mantico — come una sorta di decadenza che muove dal vero comin-
ciamento e procede verso la fine autodistruttiva. In terzo luogo, che
semplicemente^riHettendo sufla^^giprensione deh mondo prevalsa
jJopo i greci sia oggi possibile dimostrare a) che la tradizione storica
in quanto tale èjalsa, b) che della storia stessanoci suo insieme, pos­
siamo fare a meno. -------------------- -------------------------
A questo punto io mi chiedo tuttavia se non sia possibile far vale­
re in senso contrario questo rapporto — messo in luce da Lowith — tra
fede cristiana nella creazione, da un lato, e autocomprensione critica di
una coscienza storica praticamente impegnata, dall’altro. Non potrem-
mo cioè pensare che proprio la secolarizzazione e la demitologlzzazTo-
167

ne delle proposizioni di fede evidenzia il momento di verità contenu-


to nel mito? Se il mondo naturale entro cui la specie umana si jdpro;
duce è del tutto contingente, vale a dire se esso non poggia più se-
gretamente su un logos eterno, allora la storia puòeffettivamentejdL.
ventare il processo eli una «creazione» recuperata e fatta valere, per
così dire, a posteriori. A partire dal contesto della natura — e andando
ai di là di esso —"IìTstoria diventa la formazione culturale del mondo
umano per opera dell'uomo stesso. Decifrato così, il mito della crea­
zione diventerebbe persino compatibile con il naturalismo pagano.
Basterebbe pensare la specie umana come un elemento, della natura,
altrettanto contingente della natura stessa, e basterebbe concepire la
storia dell’uomo come una storia naturale. Questa storia dovrebbe
tuttavia veder ridotta la sua contingenza nella misura in cui fosse au­
tocriticamente recuperabile — dal caotico svilupparsi di un controllo
tecnico su società e natura reificate — una razionalizzazione progressi­
va, a partire dalla ragionevole comunicazione degli uomini circa il
padroneggiamento pratico dei loro destini. Accenno al profilo di
questa versione utopica solo per dimostrare che nei suoi confronti
non avrebbe più senso parlare di «presupposti teologici». La secola­
rizzazione diventerebbe infatti — in maniera esplicita e intenzionale —
ì^sirrulazione critica di quelle tradizioni che rappresentano pur sem­
pre l'unica sorgente possibile perii logos di un'umanità {Humanitàt]
che si realizza nella mediazione storica della natura con il mondo
umano. L'unica sorgente, ho detto, in quanto in tal caso noi dovrem­
mo prendere terribilmente sul.serio (nei confronti di un mondo glo­
balmente contingente) la necessità di produrre il logos a partire dal la­
voro con cui, sul piano storico-universale, l'uomo riproduce material-
mente la propria esistenza. Può ben darsi che a questa riproduzione
della nostra esistenza sia «naturaliter» sottesa una sorta di «logos
spermatikos». Di certo~vl~è però anche sottesa la smisurata {masslos]
pretesa che la vita del genere umano possa alla lunga conservarsi soltan­
to in quanto vita umana. Se ammettiamo che esista qualcosa di «co-
stante» nella storia, allora è a questo dato che dobbiamo — rutt ai più —
fare riferimento. Alludo alla consapevolezza di questa smisuratezza
antropologica, alla consapevolezza di questa elementare incondizio-
natezza di un proliferante impulso civilizzatore presente nell'uomo.
Si tratta di una conoscenza che nasce dalle esperienze più crudeli e
primitive così come da quelle più sublimi e avventurose, dalla prassi
168

quotidiana così come dai momenti straordinari. Una conoscenza che-


insieme alle altre tracce superstiti delle esperienze arcaiche della spe­
cie — si è storicamente sedimentata nei miti, nelle religioni, nelle fi­
losofie, nelle figure dello spirito oggettivo. Di questa conoscenza noi
sappiamo in astratto soltanto che non è acquisibile in astratto.
Anche questo potrebbe essere all’origine del pesante potere che le
tradizioni storiche esercitano su di noi. Questo potere non è mai sca­
valcabile, nemmeno nel momento in cui noi ci sforziamo, nella tra­
sparenza dell’autoriflessione storica, di liberarci dall’irrazionalità di
tradizioni meramente vigenti, dunque dalla storia intesa come storia
naturale. Paradossalmente invece Lowith finisce per concordare con
la critica della religione s vi luppataudaj. Giovani hegeliani. Egli condi-
vide con loro l’idea cKè4e-ef>oche postcristiane possano semplicemen­
te «cancellare» il cristianesimo, quasi che si potesse scavalcare d'un
salto la tradizione del pensiero soteriologico e la ragionevole pretesa
dei suoi jmotivi secolarizzati, quasi che si potesse superare per via_di
sempiice negazione la base ermeneutica della nostra autocomprensio-
ne. .Tutto sommato, la critica di Lowith contro la coscienza posthege-
liana della dialettica storica si rivela come una radicalizzazione della
critica giovane-hegeliana della religione11. E la sua apologia della vi­
sione naturale del mondo potrebbe coincidere con uri-ri pensamento
cosmologicamente rinnovato deH’antropolpgia di Feuerbach (se sol­
tanto Feuerbach avesse ancora voluto pensare in termini filosofici).

5- Al di là dell’imbarazzo di confrontarsi con una mente superio­


re, il misurarsi criticamente con Lowith cozza contro una difficoltà
| tutta particolare. Ancor prima di aver portato a termine l'argomenra-
, zione, noi proviamo l’irritante sensazione che Lowith labbia già stu-
, diata in anticipo e formulata ancor meglio. I critici di Lowith si muo­
vono così su un terreno da lui stesso ampiamente dissodato. Provia-
i mo a citare un esempio. Egli non manca di osservare come il rigido
i mantenimento del concetto classico di «filosofia» — e della relativa
| visione cosmologica — possa anche configurarsi alla nostra coscienza

11 Si veda soprattutto il saggio di Lowith intitolato «Hegels Aufhebung der


christlichen Religion», raccolto in Festschrift fiir Gerhard Kruger, Frankfurt a.M.
1962 (ora in Sàmtliche Schrìften, Bd. V, Metzler, Stuttgart 1988, pp. 116-166; ir. it.
in Hegel e il crntianesimo, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 3-69).
169

storica come un ritorno impossibile al mondo degli antichi greci, un


mondo in cui ancora esistevano uomini schiavi e uomini liberi, igno­
ranti e filosofi. Studiando i testi di Lowith, ho imparato che in casi
come questo è sempre meglio accettare di passare per ignoranti e —
senza nessuna eleganza ma anzi contravvenendo alle regole — rispon­
dere francamente di sì a queste domande retoriche. Lowith è insupe­
rabile nel padroneggiare la coscienza storica con tutti i suoi sofismi.
In fondo egli mira soltanto a metterla fuori gioco: ne impara sì tutte
le sottigliezze tecniche, ma con lo spirito di chi impara le regole non
tanto per giocare quanto per schiacciare lawersario. E tuttavia: pro­
prio in quanto egli conosce così bene le posizioni di una coscienza
storica impegnata sul piano pratico — tanto che bisogna stare attenti
a non contestare la sua metacritica con argomenti da lui stesso antici­
pati - la sua rinuncia stoica alla coscienza storica (quella sua proposta
insistente e immediata di «invertire la rotta» e fare ritorno alla clas­
sicità) finisce per apparire ancor più sorprendente.
Una regressione vive di paure inconsce, non ji quella familiarità
critica con lo stadio negato che è facilmente riscontrabile nella meti
critica di Lowith. Perciò non mi sembra giusto addossare tutta la co
pa a un passionale pregiudizio antimodernp, assumendolo come funi
ca motivazione per reazioni non altrimenti spiegabili sul piano razio­
nale. Anche se, occorre aggiungere, la consapevole vicinanza spiritua­
le di Lowith a Burckhardt potrebbe essere rivelativa del limitato
orizzonte critico di chi rifiuta l’età presente semplicemente perché
essa non ospiterebbe più in sé «nessun vero filosofo». Qui avvertiamo
tutto il disprezzo umanistico verso lo sgraziato [niasslos] XIX secolo,
oppure il timore aristocraticamente spirituale di fronte alle violenze
del XX secolo. Ma ce un altro spunto che mi sembra più convincen­
te. Quando lessi la meditata autobiografia dello scienziato Lowith, il
suo discorso inaugurale di fronte all'Accademia delle Scienze di Hei­
delberg12, restai affascinato dalla logica silenziosa della sua carriera
filosofica. Com’è stato possibile che il destino esistenziale esterno di
questo emigrante — spinto dalle catastrofi politiche a trasferirsi da

12 K. Lowith, Jahresheft der Heidelb. Akad. d. Miss. 1958-1959, p. 23 e sgg. [ora


in Mein Leben in Dentschland vor und nach 1933- Ein Bericht, Metzlcr, Stuttgart 1986,
pp. 146-157; tr. it. in La mìa vita in Germania prima e dopo il 1933, Il Saggiatore,
Milano 1988, pp. 191-2041.
170

Roma a Tokyo, dairoiience-airoccidente (e, bisognerebbe aggiunge-


re, dagli Staci Uniti alla Germania Federale) — rendesse nondimeno
possibile sul piano interiore qualcosa di più della mera identità perso­
nale., d e 11 a se mpiice_continuità temporale nella produzione filosofica?
Com e stato possibile che - in una sorta di evoluzione ciclica - i ger-
mi iniziali maturassero e giungessero a fruttificare dentro una scorza
di questo genere? Pur tenendo conto della tendenza all’autostilizza-
zione che deve influenzare ogni grande scrittore, noi continuiamo a
cercare motivazioni più plausibili per questo vistoso e commovente
squilibrio. Una motivazione forte, interna alla stessa biografia, po­
trebbe esserexpel la del rifiuto-pregiudiziale e privatistico della sfera
politica. Un rifiuto che troviamo espresso in maniera insuperabile
nello stampo, davvero classico, di frasi come questa: «I disordini del­
la repubblica consigliare mi avevano spinto da Monaco a Friburgo,
dove potei godere della rigorosa formazione fenomenologica imparti­
ta da Edmund Husserl».
Proprio in virtù di questo.suo «voltare le spalle»jalle_siriiazÌQni
politiche, Lowith diventa alla fine incapace di percepirle (o.di accet­
tarle) come una sfida. Non si rende conto che non è più oggettiva-
mente possibile rifugiarsi nella contemplazione — prendendo distan­
za dal propri «pragmata» — allo stesso modo in cui lo si poteva anco-
ra fare ai tempi di Eraclito o persinodi Aristotele, Da quell’agire im­
mediato in sfere di azione circoscritte, e sempre abbracciabili con lo
sguardo, la riflessione teorica poteva allora staccarsi al fine di lasciare
guidare l’azione se non dalla riflessione almeno dalla prudenza. Oggi
. inveceTazione — persino quella quotidiana — è sempre intrinseca-
mente mediata da una tecnica che ha assunto Faspetto di una poten-
za pratica scientificamente istruita. L’agire perde la sua relativa inef­
fettualità [Foigen/osigkeit] e diventa praticamente rilevante anche per
la coscienza filosofica, spingendola a riflettere sulla contemporaneità
storica. Anche se cent’anni di filosofìa «impegnata» hanno messo ter­
ribilmente a nudo la dialettica dell’«engagement», questo non basta
certo a esonerarci automaticamente da tutti gli obblighi della co­
scienza storica.
Lowith misconosce le conseguenze pratiche delle scienze attuali,
dipendenti dalla tecnica. Si accontenta di inquadrare la sua interpre­
tazione filosofica delle scienze entro il «contesto di accecamento»
rappresentato da un’awenuta pragmatizzazione e storicizzazione deh
171

la visione naturale del mondo. In via di principio Lowith non può ri-
conoscèrè~clTe"Ì1 rapporto tra «scienza» e «filosofia» si è rovesciato.
Egli non è disposto ad ammettere che la filosofia o si impegna ad af-
frontare i compiti pratici derivanti dalle conseguenze sociali della
tecnica oppure non può che prendere congedo da se stessa.
L’unico risultato della scienza moderna per cui Lowith mostri un
certo interesse è la penetrazione nello spazio cosmico. Questo passo gli
sembra «esorbitante» in un senso che va al di là della lettera, in quan­
to provoca oggettivamente il decentramento del geocentrismo caratte­
rizzante la visione naturale del mondo. Ma non si tratta forse del l’evi­
denziarsi di un processo implicitamente presente fin dal momento in
cui gli uomini hanno riprodotto la loro vita col lavoro delle mani?
Marx aveva un giorno sollevato questa obiezione contro Feuerbach:

Egli non vede che il mondo sensibile che lo circonda non è un dato imme­
diato ed eterno, non è sempre la stessa cosa, bensì il prodotto (...) della si- I
tuazione sociale. Nel senso che in ogni epoca storica esso è il risultato, il
prodotto dell'attività di un’intera serie di generazioni. Ogni generazione sta l
sulle spalle della generazione precedente, ne sviluppa industria e commer- ’
ciò, ne modifica l’ordinamento sociale a partire dalla trasformazione dei
propri bisogni.

Naturalmente Lowith conosce benissimo questo passo.


;;
X

HANNAH ARENDT 1
LA STORIA DELLE DUE RIVOLUZIONI (1966)*

Del libro di Hannah Arendt On Revolution — ora anche disponibi­


le nell’edizione tedesca1 — il recensore del «Times Literary Supple-
ment» non ha saputo farsi una ragione. Nel dedicarle le sue tre co­
lonne, egli non fa altro che scuotere il capo sull’intelligenza dell’au­
trice, esprimendo una perplessità tutta anglosassone circa un libro
che pure si presenta come un’esaltazione unica delle tradizioni anglo­
sassoni. Il fatto è che questa esaltazione sceglie di esprimersi in un
linguaggio argomentativo più consono alle vecchie rigidità del pen­
siero astratto, procedente per principi, che non al senso pragmatico
per la politica di ogni giorno.
Nel libro Vita adiva [Stuttgart I960; tr. it. Bompiani, Milano
1989, edizione riveduta], considerato il suo capolavoro filosofico,
Hannah Arendt aveva, a modo suo, rinnovato la pretesa della dottri­
na politica classica. Pur senza appellarsi al gius razionai ismo_tradizio-
nale, essa aveva voluto^nondimFno riabilitare — agli occhi di un mon­
do>non più adatto a essere interpretato da quelle categorie — la visio­
ne del mondo di cjuella vecchia filosofia politica. Il nuovo libro porta
avanti questo processo di riabilitazione. Proprio prendendo a model­
lo il fenomeno della rivoluzione — ossia gli aspetti apparentemente
più moderni dell’esperienza del politico - Hannah Arendt ha inteso
verificare ciò che ancora possiamo apprendere da Aristotele. Dato il
rigore con cui l’autrice procede in questa impresa, il libro finisce per
essere avvincente e istruttivo. Esso ci fa soprattutto vedere come una

* Pubblicato in «Merkur», XX, n. 218, 1966, pp. 479-483 e nuovamente in


J. Habermas, Kultur und Kritik, Frankfurt a.M. 1973, pp. 365-370.
1 H. Arendt, 0ber die Revolution, Mùnchen 1965 (cr. it. Sulla rivoluzione, intro­
duzione di R. Zorzi, Edizioni di Comunità, Milano 1996].
174

filosofia un tempo capace di abbracciare l’intero orizzonte si irrigidi­


sca oggi, persino nelle sue forme intellettualmente più vivaci, in una
sorta di impressionante unilateralità.
Hannah Arendt non è affatto cieca di fronte alle trasformazioni
strutturali della sfera politica. Essa vede come la guerra (uno dei feno­
meni più antichi) non sia affatto una grandezza costante nelle relazio­
ni internazionali. Essa sa che i confronti bellici non sono più gli stes­
si da quando le rivoluzioni determinano i rapporti politici all’interno
delle nazioni. Guerra e rivoluzione si sono fatte mutuamente dipen­
denti; nella fase della «guerra civile mondiale» i loro confini si sono
spesso fatti indiscernibili. A guidare il gioco sono oggi quelli che

hanno capito cosa è una rivoluzione, che cosa essa è capace o incapace di fare,
mentre tutti coloro che giocano la carta della «Machtpolitik» classica, pun-
tando ancora sulla sopravvivenza della guerra come «ultima ratio» di politi-
caestera, dovranno presto accorgersi di come la loro arma sia ormai spuntata?

La guerra del Vietnam sembra oggi essere la prova cruenta di que­


sta tesi.
Solo che l’interesse dichiarato dalla Arendt per il fenomeno «rivq-
luzione» è stranamente circoscritto. La rivoluzione equivale per lei a
fondare una «costituzióne della libertà», dove per ii berrà s’intende
semplicemente la partecipazione dei cittadini alle faccende della «po­
lis». Hannah Arendt riconduce l’evento rivoluzionario al classico
quadroTJeìla rotazione delle forme politiche e sciog 1 ie così il nesso
specifico caratterizzante le rivoluzioni della modernità, ossia il rap-
porto sistematico tra rovesciamento politico ed emancipazio.ne delle
classisociali. Naturalmente l’autrice non può negare, i dati di fatto.
Tuttavia, l’inevitabile intrecciarsi della rivoluzione con ciò ch'ella
chiama la «questione sociale» — usando una terminologia ottocente­
sca borghesemente distaccata e caritatevolmente condiscendente —
diventa ai suoi occhi il criterio per denunciare la contaminazione di
un evento puramente politico. L’isTitùzionalìzzazione della libertà
pubblica non dovrebbe essere disturbata dai conflitti del lavoro spera­
le, né le questioni politiche mescolate con quelle socioeconomiche.
Così la pensava certamente Aristotele e così leggiamo in tutti i ma­
nuali di politica classica. Ora, per convincerci di come questi princi­
pi non siano soltanto storicamente venerabili, ma anche conformi al-
175

la natura dell’uomo, l’autrice si inventa la storia delle due rivoluzio­


ni, una buona e una cattiva.
La rivoluzione buona ebbe luogo in America. Essa derivò da una
lotta per la libertà politica e non da una protesta contro sfruttamen-
to e repressione sociale. Perciò il suo risultato fu una buona coscitu-
zione politica. Purtroppo essa cadde in oblio. Invece la rivoluzione
cattiva, vale a direja Rivoluzione francese, finì per diventare il mo­
dello di tutte le rivoluzioni successive. Fin dairinizìoessa aveva get^
tato le masse pauperizzate sulla scena politica, facendo degenerare
una «lotta per la libertà» di tipo politico in una «lotta di classe» di
tipo sociale. Il suo strumento fu il terrore e il suo esito fu la controri-
voluzione. Una spirale interminabile di sospetto non giunse mai a
stabilizzarsi nelle istituzioni della libertà pubblica.
Ora, sarebbe affettivamente impossibile misconoscere le differen­
ze delle due rivoluzioni, tanto più che soltanto a posteriori quella
americana fu intesa come una vera e propria rivoluzione. Hegel, per
esempio, non viene nemmeno sfiorato dal sospetto di una «rivoluzio
ne americana». Riferendosi alla valvola della colonizzazione interna
che negli Stati Uniti aveva dato sfogo a ogni tensione sociale, Hege.
osservò che la Rivoluzione francese non sarebbe mai nata se ancora
fossero esistite le antiche foreste renane. Mentre la Rivoluzione fran­
cese può dischiudergli la concezione teorica della storia universale, ij_
Nordamerica cade invece totalmente fuori (come semplice «terra del
futuro») dalla sua considerazione filosofica. Quanto agli_americani,
essi prendono davvero coscienza della dimensione rivoluzionaria del
loro distacco dalla mad repatria solo nel momento in cui si guardano
nello specchio della Rivoluzione francese.^ Invero, sia gli americani
sia i francesi fanno “egualmente appello ai principi del moderno dirit­
to naturale. Ma nel ricorrere ai diritti dell’uomo i coloni americani
vogliono legittimare la loro indipendenza daH’impero britannico, i
francesi invece abbattere Cantico regime^I «bills of rights» degli j
americani non facevano sostanzialmente altro che inventariare quan-1
to i cittadini britannici già possedevano. L’universalizzazione e fon- |
dazione giusrazionalistica serviva soltanto a giustifTcarFTTcITstacco
dalla madrepatria. Invece la «déclaration» dei francesi doveva dare
validità a un diritto radicalmente nuovo. In Francia si voleva fondare
una nuova costituzione, ih America soltanto l’indipendenza (anche se
poi questa ebbe presto bisogno di una nuova costituzione).
176

Hannah Arendt interpreta questi fatti a modo suo. Essa afferma


che solo nella Rivoluzione francese la dichiarazione dei diritti del­
l’uomo e del cittadino aveva avuto un ruolo decisivo, in quanto solo
qui lo status sociale delle persone private doveva essere tutelato con
diritti prepolitici dallo strapotere dello stato. In America, invece, la
costruzione dello stato e l’impresa rivoluzionaria intendevano risolve­
re il problema politico della divisione dei poteri. Insomma, in Ameri­
ca si trattava di dare costituzione alla libertà, in Francia semplice-
mente di dare soluzione ai conflitti sociali.
Con questa versione la Arendt capovolge la realtà delle cose. In ve­
rità la rivoluzione americana si interpretava nel solco di un giusrazio-
nalismo liberale che — derivando da Locke — vedeva nascere lo stato
dalle funzioni della società. Paine poteva addirittura identificare i di­
ritti naturali dell'uomo con le leggi naturali del commercio e del la­
voro sociale. In America la costituzione rivoluzionaria aveva unica-
mente il senscTdi salvaguardàfF^alIeTntrusioni dispotiche del gover­
no le forze spontanee del sistema lavorativo dei privaci- Perciò, una
generazione più tardi, Marx potrà affermare: «Attraverso la emanci­
pazione della proprietà privata dalla sostanza comune lo stato ha svi­
luppato una_su^£SÌS.t.enza_particQlaie.ac.ca oto e al di fuori della società
borghese .]. L’esempio più perfetto di stato moderno è il Nordame-
.~ica». Assai più che in Europa, la libertà politica è stata in America
fin dall’inizio concepita come un’emancipazione dalle costrizioni na^_
turali a opera del lavoro sociale: l’alternativa «libertà oppure benesse­
re» non è mai esistita nella tradizione dell’America di Jefferson.
Non è possibile, come fa la Arendt, suddividere gli obiettivi del­
la rivoluzione in maniera alternativa tra la Francia e l’America, come
se il nesso di «interessi sociali» e «movimenti politici» oggettiva­
mente materializzatosi nelle costituzioni borghesi fosse esclusiva-
mente riconducibile alla sollevazione della miseria francese (e non
piuttosto a quel capitalismo che la Arendt non nomina). Essa vorreb­
be farci credere «che la povertà della vecchia Europa ha finito per
prendersi la sua vendetta con il benessere di massa della società ame­
ricana, benessere che minaccia ora di travolgere e distruggere l’intera
sfera politica». Così la rivoluzione cattiva avrebbe finito per divorare
anche la rivoluzione buona. In un primo momento, la fondazione
4?y^Jibgiàj?fìl£xdfìQfare in America data l’assenza della questione
sociale. Poi però la libertà politica avrebbe avuto, secondo la Arendt,
177

j giorni contati, in quanto il resto del mondo aveva continuato a es­


sere dominato dalla miseria delle masse.
In realtà non ha senso discutere delle condizioni della libertà po­
litica se non si tematizza anche l’emancipazione dal dominio. La ca­
tegoria del dominio [Herrschaft] non può separare «violenza politica»
da «potere sociale», ma deve mostrare la vera natura di entrambi,
cioè la repressione. In una situazione di dipendenza sociale anche il
miglior diritto alla libertà politica resta mera ideologia. D’altroncan­
te Hannah Arendt insiste con ragione sul fatto che la realizzazione
del benessere non basta, da sola, ad assicurare Temancipazione dal
dominio. Persino il venerabile concetto di «libertà poiitica» che si
esprimeva nella partecipazione attiva dei c i t tad i n i al la cond azione
della cosa pubblica aguzza oggi lo sguardo su} pericqlq^che ci_minac-
cia, ossia sul fatto che proprio la vittoria della rivoluzione potrebbe
infine tradirne le intenzioni» Sia a Est sia a Òvest l’impulso iniziale ;
sembra esaurirsi nell’obiettivo di padroneggiare tecnicamente la mi- i
seria e di gestire amministrativamente un sistema economico libera­
to dai conflitti sociali. Questi sistemi possono essere intesi come de­
mocrazie di massa senza però garantire nemmeno un minimo di Ih
.berrà politica. !

Nonostante tutti i sondaggi di opinione, le opinioni di un popolo restano


sostanzialmente sconosciute dal momento che esse semplicemente non esi­
stono. Le opinioni si forma no soltanto nel processo di una discussione pub­
blica, esse sono il risultato _di_un vivace scambio di idee. Là dove_questo
scambio è impossibile, potranno esistere emozioni di ogni tipo ma nessuna
vera opinione.

Finché la formazione politica della volontà non si collega al prin­


cipio di una generale e libera discussione, l'obiettivo politico di tutte
le rivoluzioni a partire dal Settecento deve restare una chimera. Per­
ciò la Arendt si lamenta del fatto che la rivoluzione abbia istituzio­
nalizzato praticamente tutto, z//<v_7/o?/Jo^piLL£0-caiaLterisucQ_clie.Fave-
va fatta nascere. Essa sottolinea la flagrante contraddizione peccai «il
principio della libertà e della felicità pubblica — principio senza di
cui nessuna rivoluzione è immaginabile — non potè di fatto sopravvi -
vere al di là della generazione dei padri fondaton».
Con tutto ciò, dobbiamo storicamente registrare tutta una serie di
tentativi per istituzionalizzare la clemócrazra difetta’: per esempio le
178

«sociétés populaires» tra il 1789 e il 1793, le sezioni della Comune di


Parigi nel 1871, i soviet del 1905 e del 1917, la rivoluzione consiglia­
re tedesca del 1918. Queste forme di «sistema consigliare» sono le
costituzioni autentiche dello spirito_riypluzionario^ Hannah_AreridLÌ
coerente quanto basta per riconoscere in esse la vera costituzione del­
la libertà. Anche se non giunge mai a porsi seriamente la domanda
sul perché proprio le rivoluzioni di tipo «cattivo» non abbiano mai
mancato (seppure in maniera effimera) di dare vita a organizzazioni
consigliati, laddove la rivoluzione americana — anche nell’immagina­
zione più radicalmente democratica di Jefferson — non abbia fatto al-
tro che «sognare» questo sistema consigliare. Questo non riduce tutz.
tavia i m«iu_deJ_libxQ,j:apace di istituire un confronto severo tra il
sogno americano del benessere privato e il sogno del radicalismo de­
mocratico di Jefferson. Quest’ultimo aveva capito '

quanto avrebbe potuto essere pericoloso concedere al popolo soltanto lo spa­


zio di un’urna elettorale e di una scheda anonima. Aveva cioè intuito quale
pericolo mortale si nascondesse nel fatto che la costituzione aveva sì conces­
so tutto il potere al popolo, ma non aveva nello stesso tempo definito il
quadro entro cui tale popolo avrebbe potuto effettivamente dare prova di sé
come «repubblica di cittadini». Ciò aveva significato concedere tutto il po­
tere a un popolo di individui privati, dal momento che in quanto cittadini
essi finivano per non avere nessuna funzione riconosciuta.

Questo significava che Jefferson era effettivamente andato «al di


là» della coscienza della rivoluzione borghese, e che per farlo aveva
dovuto appellarsi allo spirito autentico della rivoluzione. Vale a dire,
allo spirito di una rivoluzione che avrebbe dovuto produrre — in ma­
niera ancora più radicale che in America — un nuovo ordinamento
dello stato e della società, e che invece finì per accontentarsi sempli-
cemente del Codice napoleonico.
XI

HANNAH ARENDT 2
IL CONCETTO DI POTERE (1976)*

Max Weber definì il potere [Macht] come la possibilità di imporre^


la propria volontà al comportamento altrui. Hannah Arendt, al con­
trario, intende per potere la capacità umana di mettersi d’accordo,
discutendo liberamente, su un certo agire collettivo. Entrambi im­
maginano il potere come una potenzialità che si realizza in azioni,
sennonché ognuno fa poi riferimento a un modello di azione diverso.

Il potere in Max Weber, Talcott Parsons e Hannah Arendt

Max Weber prende le mosse dal modello teleologico: un soggetto


(un individuo, oppure un gruppo riguardato come un individuo) sce­
glie i mezzi più appropriati per realizzare un certo fine. Il successo
consiste nel produrre nel mondo una situazione in grado di realizzare
il fine. Se questo successo dipende dal comportamento altrui, l’attore
deve disporre dei mezzi per indurre gli altri al comportamento desi­
derato. Weber chiama Macht (potere] questa facoltà di disporre di
mezzi per influenzare la volontà altrui. Hannah Arendt la chiama
Gewalt [forza]. Colui che — agendo in maniera razionale rispetto-allo-
scopo — si interessa esclusivamente al successo delle proprie azioni,
deve disporre di mezzi che possano imporsi alle scelte di un altro o
con la minaccia di sanzioni o con la persuasione o con un’abile mani­
polazione delle opzioni alternative. Come afferma Weber: «Il potere
designa qualsiasi possibilità di far valere la propria volontà entro una

Pubblicato in «Merkur», XXX, n. 341, 1976, pp. 946-961 e nuovamente


in J. Habermas, Politik, Kunst, Religion, Stuttgart 1978, pp. 103-126.
180

relazione sociale, anche di fronte a chi rilutta»1. L’unica alternativaa


questa «coercizione» sarebbe il libero accordo delle persone interessa;
te, se non fosse che il.modello teleologico di azione prevede soltanto.
attori orienta.ti.AL successo e non all’intesa. Il modello teleologico dà
infatti spazio a processi d'intesa jolo nella misura in cui questi pro­
cessi si presentino agli interessati quali mezzi funzionali per raggiun­
gere certi obiettivi. Ma un’intesa di questo genere — perseguita uni­
lateralmente con la clausola di essere strumentale al proprio succes­
so — non e davvero impegnativa e non soddisfa le condizioni di un
consenso liberamente prodotto.
Hannah Arendt parte da un altro modello di azione, quello co­
municativo. «Potere corrisponde alla capacità umana non solo di agi­
re, ma di agire di concerto»2. Il fenomeno fondamentale del potere
non è la strumentalizzazione per i propri fini di una volontà altrui,
bensì la formazione di una volontà comune in una comunicazione di­
retta all’intesa.
Ciò potrebbe però essere inteso nel senso che «potere» e «forza»
designano semplicemente due aspetti diversi di uno stesso processo
di governo politico. «Potere» sarebbe allora fa mobilitazione pérTini
comuni del consenso dei governati, vale a dire la loro accettazione ad
appoggiare una leadership politica. Invece «forza» indicherebbe quel- z
la disponibilità di risorse e mezzi coercitivi con cui una leadership po­
litica — al fine di realizzare obiettivi comuni — prende (e impone nei
fatti) decisioni vincolanti per tutti. E questa è stata infatti l’idea con
cui la «teoria del sistema sociale» ha sempre generalmente pensato il
’ concetto di potere. Talcott Parsons, per esempio, intende per potere
la capacità generale di un sistema sociale di «fare delle cose nell’inte­
resse di obiettivi comuni»5. La mobilitazione di consenso produce

1 M. Weber, Wìrtschaft und Gesellschaft, Tiibingen 1925, Bd. I, p. 16 (tr. ir. Eco­
nomia e società, 5 voli., Edizioni di Comunità, Milano 1980, voi. I, p. 51]. Parsons
distingue quattro tipi di uso del potere: persuasione, attivazione dell’impegno, in­
centivazione, coercizione. Cfr. T. Parsons, «On thè Concepì of Politicai Power», in
Id., Sociological Theory and Modem Society, New York 1967, p. 310 e sgg.
2 H. Arendt, Macht und Geualt, Mùnchen 1970, p. 45 (tr. it. Sulla violenza,
Guanda, Parma 1996, p. 40],
3 T. Parsons, «Authority, Legitimation, and Politicai Action», in Id., Strutture
andProcess in Modem Societies, New York I960, p. 181.
181

quel potere che viene trasformato, utilizzando le risorse sociali,Jn de­


cisioni' vincolanti per tutti. I due fenomeni che la Arendt contrappo­
ne tra loro in termini di «poterewVdj «forza» vengono invece assi­
milati da Parsons in un unico concetto di potere, in quanto egli in-
tende per power la capacità che un sistema ha di comportarsi verso le
proprie componenti secondo lo stesso schema di comportamento_con
cui un attore razionale rispetto-allo-scopo agisce yerso il mondo
esterno. «Ho definito il potere come la capacità del sistema sociale di
^nobilitare risorse per conseguire fini collettivi». Egli riproduce così
sul piano della concettualizzazione sistemica la stessa idea teleologica
di potere (come potenzialità di realizzare fini) che Weber aveva svi­
luppato sul piano della teoria dell’azione. In entrambi i casi si perde
di vista l’elemento caratteristico capace di contrapporre il potere del
discorso, che unifica attraverso ragioni, alla pura violenza della strate­
gia strumentale. La forza (generante consenso) di una comunicazione
orientata all’intesa è del tutto diversa dalla violenza dell’agire stru­
mentale. Infatti, ogni intesa presasul serio \ertsgemeinte Verstandigung
dagli interessati è un «fine a sé» \Selbstzweck\ che non può essere su
bordi nato ad altrijfini.
L’intesa di coloro che si cons_ultanpjua_lorn al fine di^agire di con­
certo - quella «opinione su cui molti si sono pubblicamente messi
d’accordo»4 — significa potere nella misura in cui si basa sulla convin­
zione, quindi su quella peculiarmente libera costo zi One [zwangtósér
ZuwJgTcon cùrie idee si impongono a noi. In altri-termini, la forza
di un consenso derivante da una comunicazione libera e spontanea
non si commisura sulle probabilità di successo, ma sulla pretesa di
vàli-dltTragipnevole che è implicita al discorso. Anche unàTconvinzio^
ne formatasi con pubblico dibattito può, naturalmente, essere mani­
polata: ma qualunque manipolazione, anche la più~ri usei ta,’noiTpùp
sottrarsi alle pretese della ragione. Noi ci lasciamo convincere dalla
«ventaceli un enunciato, dalla «giustezza» dirupa norma, dalla «sin­
ceri tà» di un'espressione. L’autenticità della nostra convinzione cTi-
pencle'cJàlla consapevolezza_cheZil_iJiLQripsó_me_nto di queste pretese di
validità sia motivato razionalmente, cioè tramite ragioni. Manipola-
bili sono le convinzioni, non la pretesa razionale da cui esse traggono
soggettivamente la loro forza.

4 H. Arendt, Oher die Revolution, eie., p. 96 (tr. it. eie., p. 80}.


182

In breve, il potere comunicativamente prodotto delle convinzio-


ni comuni deriva dal fatto che in esse gli interessati si lasciano gui-
dare dall'intesa reciproca, non da un qualche successo particolare. Co­
sì facendo essi non usano il linguaggio in senso perlocutivo, semplice-
mente per influenzare gli altri a un certqj:omportamento, bensì in
senso zV/or/tfzw^per intrecciare, 1 ibere relazioni interpersonali. Hannah
Arendt stacca il concetto di pntere_dal modello teleologico di azione:
iljpotere si forma nell agire comunicativo, eun~~«effetto di gruppo»
che si genera nel discorso (dove tutti i partecipanti si orientano al­
l’intesa come a un «fine a sé»). Ma se non pensiamo_più il potere co­
me un «potenziale» funzionale alla realizzazione di certi fini, e non
lo attualizziamo più in un agire razionale, rjspettprajjp-scopo, allora
in che cosa il potere si esprime e per che cosa esso può essere usato’
Lo sviluppo del potere viene^igyardarn da_Hannah “Arendt come
un serve a mantenere in vita la prassi
da cui, nasce. Come potere politico, esso si consolida in istituzioni tu­
telanti le forme di vita che ruotano intorno al reciproco discorrere [re-
ziproke Rede]. Così il potere, si manifesta: a) in ordinamenti tutelanti
la libertà politica; b) nella resistenza contro le forze minacciami dal­
l’esterno e dall’interno la libertà politicale) nelle azioni rivoluziona-
rie che fondano nuove istituzioni di libertà.

È il sostegno del popolo che dà potere alle istituzioni di un paese, e questo


sostegno non è altro che la continuazione del consenso che inizialmente ha
dato origine alle leggi [...]. Tutte le istituzioni politiche sono manifestazio­
ni e materializzazioni del potere; esse si fossilizzano e decadono non appena
il potere vivo del popolo cessa di sostenerle. Questo è ciò che Madison in­
tendeva quando affermava che tutti i governi sono, in ultima istanza, fon­
dati sulla opinione5.

A questo punto diventa chiaro come il concetto comunicativo di


potere abbia anche un contenuto normativo. E non possTarno_gv itare
di^chiederci come questo concetto possa essere utilizzato in sede
sci£n£i£ca. E esso davvero adoperabile per scopi descrittivi? Cercherò
di rispondere per gradi a questa domanda. In primo luogo mostrerò
come Hannah Arendt presen.t£L£_gi usti fica il suo concetto. In secon-

5 Id., Macht undGeualt, cit., p. 42 (tr. ir. cit., p. 37).


183

do luogo cercherò di mostrare come lo utilizza. Infine, affronterò al­


cuni lati deboli della sua concezione. Questi difetti non derivano tan­
to dall’impianto normativo del concetto, quanto piuttosto — secondo
me - dal fatto che la Arendt rimane legata alla costellazione storica e
concettuale della filosofia aristotelica.

La struttura dell’intersoggettività intatta [unversehrt]

La principale opera filosofica di Hannah Arendt, The Human Con-


<//7/<wICKicago-r9587tr. it.Vita attiva: la condizione umana, cit.], vor­
rebbe sistematicamente rinnovare il concetto aristotelico di prassi.
Senza difun^arsTneirinterpretazione di testi classici, la Arendt ab­
bozza qui un’an tropologia,dell’aziQne comunicativa, una sorta di
contraltare all'antropologia deld’agire,strumentale che Arnold Gehlen
ha sviluppato in Der Mensch (1940, 1950). Laddove Gehlen esamina
la sfera funzionale dell’agire strumentale come il principale meccani­
smo riproduttivo della specie, la Arendt studia la forma di interso^
gettività generata nella prassi linguistica come il fondamento del
riproduzione culturale della vita. L’agire comunicativo è il medium i
cui si forma un «mondo di vita» intersoggettivamente condiviso.
Questo mondo è lo spazio di «presenza visibile» in cui gli attori de­
vono entrare per incontrarsi, vedersi e udirsi. La d i mensione spaziale
del mondo di vita è determinata dal «fatto della^pluralità umana»:
ogniJnterazione unifica le diverse^ prospettive sensoriali e pragmati­
che dei presenti, i quali come individui occupano posizioni.jiQD-J.r)-
terscambiabili. La dimensione temporale del mondo di vita è determi­
nata dal «fatto della natalità umana»: la nascita di ogni individuo si-
gmfica-laJpossì b i 1 ità di ricominciare daccapo, «agire» significa poter
prendere l'iniziativa compiendo qualcosa di inatteso. Inoltre, il mon-
'3?Tdrvrra~è”S6stàhziàIrnénte incaricato di assicurare l'identità (indivi­
duale e di gruppo) nello spazio sociale e nel tempo storico. Nell'agi-
re comunicativo,! singolLindividui^Lfahno^accivamente^ayanti_come
«esseri imparagonabili» e si rivelano nella loro soggettività. Nello
j>tesso_cernpo, tuttavia, essi devòno“rìconoscersi mutuamente quaffes^
seri responsabili (ossia capaci dì intésa intersoggettiva), giacché la
pretesa razionale che è implicita al discorso fonda un’eguaglianza ra-
dicale. Infine, lo stesso _mondo?dì^vTta è, per cósì^if^saturò'dT'pras-
184

si, riempito dalla rete delle relazioni umane, vale adire dalle «storie»
con cui gli attori si coinvolgono nel loro_ agire e patire.
Anche se noi ritenessimo inadeguato il metodo fenomenologico
di cui Hannah Arendt si serve per sviluppare la sua filosofia della
prassi, chiare tuttavia resterebbero le sue intenzioni. Nelle proprietà
formali dell'agire e della prassi comunicativa essa vuole leggere per
trasparenza le strutture universali di una soggettività non danneggia-
ta [unbeschàdigt]. Queste strutture fissano le condizioni di normalità
dell'esistenza umana, cioè di un’esistenza degna di essere vissuta. Per
via del suo potenziale di innovazione, l’ambito della prassi è alta­
mente instabile e bisognoso di tutela. Nellesocietà ^statalmente orga­
irrorai
nizzate sono le istituzioni polirichea dover assolvere a questo compi-
to. Per un verso le istituzioni politiche traggono alimento dal potere
che scaturisce dalle strutture di un’intatta intersoggettività; per un
altro verso, se vogliono evitare di deteriorarsi, le stesse istituzioni de-
vono proteggere le delicate strutture cui si alimentano e impedire che
si delormTho. Da ciò consegue l’ipotesi centrale che Hannah Arendt
instancabilmente ripete: nessuna leadership politica può impune­
mente sostituire il «potere» con la «forza» e? d’altro canto, soltanto
da una sfera pubblica non deformata essa è in grado di ricavare que-
stojxxere. La sfera pubblica politica è stata concepita anche da altri
come generatrice'se^on'HT^iàtbrg^iuantojneno'delfa sua legittima­
zione^ Ma Hannah Arendt sostiene che tale sfera può produrre potere
legittimosolo nella ^nisura in cui sappia esprimere strutture comuni-
cative non distorte. ——

Ciò che tiene insieme un corpo politico è il suo potenziale di potere, così co­
me ciò che mina e infine distrugge le comunità politiche è la perdita di que­
sto potere e, da ultimo, l'impotenza. Si tratta di un processo incomprensibi-
le in quanto il potenziale del potere - a differenza degli strumenti di vio­
lenza fisica che possono sempre essere immagazzinati e impiegati in caso di
bisogno — esiste solo nella misura in cui esiste anche come atto reale. Dove,
senza esistere come atto reale, il potere viene invece inteso come qualcosa
cui si può eventualmente ricorrere in caso di bisogno, esso semplicemente
scompare. La storia è piena di esempi che provano come nessuna ricchezza
materiale al mondo possa mai compensare questo venire meno del potere6.

6 H. Arendt, Vita adiva, eie., p. 193 Itr. it. eie., p. 146).


185

Alcune applicazioni della concezione comunicativa del potere

Hannah Arendt non ha verificato questa ipotesi prendendo a


esempio il declino dei grandi imperi. Le sue ricerche storiche si sono
piuttosto concentrate su due casi limite: a) l’annientaménto della li­
bertà politica sotto un regime totalitario; b) raffermazione rivoluzio­
naria della Libertà politica. Le sue due monografie intitolate Elemente
und Ursprù'nge totalitarer Herrschaft (1955) e Uber die Revolution (I960)
applicano il concetto di potere in modo da illuminare le deformazio­
ni delle democrazie occidentali da due versanti opposti.
a) Degenera in dominio violento ogni ordinamento statale che isoli
tra loro, e contrapponga nel sospetto, i cittadini? proibendone il pub­
blico scambio di opinioni. Si distruggono così le strutture comunica­
tive da cui soltanto può nascere il potere. La paura — elevandosi a ter­
rore - per un verso costringe ciascuno a isolarsi da tutti gli altri, per
lai t ro verso distrugga gli Spazi separanti tra Toro i_ singoli éndiviclui.
~Lssa toglie loro la forza delTiniziativa e sot^iae^alla loro.inteTazmne
linguistica la forza di unificare spontaneamente quanto è_separato.
«Ciascuno si ritrova schiacciato su tutti gli altri, e nello stesso tempo
completamente isolato da loro». Con tutto ciò, il totalitarismo che
l'autrice studia nei casi del nazismo e dello stalinismo non é~sempìi-
cemente una nuova versione della tirannide classica/Sé così fosse,_e^-
so si limiterebbe a distruggere il movimento comunicativo della sfe­
ra pubblica politica. Invece il suo risultato peculiare consiste^piutto-
sto nella mobilitazione di masse spoliticizzate.

Lo stato di polizia distrugge da un lato tutte le relazioni interumane che an­


cora sussistono dopo il crollo della sfera pubblica politica. Dall’altro lato,
esso costringe uomini totalmente isolati e mutuamente abbandonati a mo­
bilitarsi nuovamente nell’azione politica (anche se, naturalmente, non in un
autentico agire politico)7.

Solo in una tipologia astratta il totalitarismo nazista può essere in­


teso come uno sviluppo della tirannide classica. Sul piano storico esso
nasce piuttosto dal terreno della democrazia di massa. Per questo
Hannah Arendt è indotta a criticare con decisione!] privatismo impfi-

7 H. Arendt, Elemente und Ursprù'nge totalcr Herrschaft, Frankfurt a.M. 1955, p. 749
(tr. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1996).
186

cito nelle società moderne. Lad d ove i teorici dellelitismo democrati­


co esaltano il regime rappresentativo e i partiti — in quanto essi cana­
lizzerebbero, come dice Schumpeter, la partecipazione politica di una
popolazione spoliticizzata -, la Arendt al contrario vede in essi un pe­
ricolo reale. L’intermediazione della popolazione da parte di strutture
governative estremamente burocratizzare (così come sono Burocratiz­
zati partiti, gruppi di potere e parlamenti) non fa altro, secondo Han-
nah Arendt, che estendere e rafforzare quel privatismo delle forme di
vita che rende possibile mobilitare gli «impolitici» e fornire base psi-
cologica al totalitarismo8.

8 Su questa intuizione è basata la tesi della «banalità del male», che la Arendt
illustra prendendo a esempio il caso di Eichmann {Eichmann in Jerusalem, Mùnchen
1964; tr. ir. La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 19968).
Questa tesi si trova già elaborata in un saggio sulla «colpa organizzata» scritto nel
1944 e pubblicato immediatamente dopo la guerra in «Die Wandlung» (una tradu­
zione inglese apparve in «Jewish Frontier» nel gennaio 1945). «Heinrich Himmler
non rientra nella categoria degli intellettuali emersi in quella 'terra di nessuno’ di
bohémiens e giovani eccentrici più volte indicata come il brodo di cultura della éli­
te nazista. Infatti egli non era né un bohémien come Goebbels, né un criminale ses­
suale come Streicher, né un fanatico perverso come Hitler, né un avventuriero come
Goering. Era soltanto un piccolo borghese apparentemente rispettabile, con tutte le
caratteristiche del bravo padre di famiglia che non tradisce la moglie e vuole assicu­
rare un futuro decoroso ai propri figli. Nell'organizzare la sua modernissima mac­
china del terrore, con la quale riuscì a dominare l'intera nazione, egli partì consape­
volmente dall'assunto che la stragrande maggioranza degli uomini non fossero né
bohémiens, né fanatici, né avventurieri, né criminali sessuali, né sadici, ma piutto­
sto, in primo luogo, onesti lavoratori e buoni padri di famiglia. Mi pare sia stato Pé-
guy a definire il padre di famiglia come il grande avventuriero del ventesimo seco­
lo'. Egli però morì prima di poterlo personalmente vedere come il grande criminale
del secolo. Siamo stati talmente abituati a considerare con ammirazione o benevo­
lenza la generosa sollecitudine del padre di famiglia, la sua concentrata dedizione al
benessere familiare, il suo sereno impegno nel dedicare la vita alla moglie e ai figli,
che abbiamo stentato ad accorgerci di come quel padre premuroso, tutto teso a inse­
guire la sicurezza, si fosse trasformato senza volerlo - schiacciato dalle caotiche con­
dizioni economiche della nostra epoca — in un avventuriero che, nonostante tutte le
sue ansie, non può mai essere sicuro del domani. La sua arrendevolezza si era già am­
piamente dimostrata nei processi di ‘normalizzazione’ con cui il regime aveva preso
piede. Allora si era già chiaramente visto come egli fosse disposto a sacrificare co­
scienza, onore e dignità umana in cambio di una pensione, di una assicurazione sul­
la vita, di una garantita tranquillità per moglie e figli» (H. Arendt, Die vcrborgcne
Traditici, Frankfurt a.M. 1976, p. 40 e sgg.) Fu questa l'intuizione che indusse sia
Hannah Arendt sia il suo maestro Karl Jaspers ad assumere posizioni nettamente ra-
187

Thomas Jefferson, il democratico più conseguente tra i padri della


costituzione americana, aveva già presentito

quanto avrebbe potuto essere pericoloso concedere al popolo — per espri­


mersi nella sfera pubblica — soltanto lo spazio di un'urna elettorale e di una
scheda anonima. Aveva cioè intuito quale pericolo mortale si nascondesse
nel fatto che la costituzione aveva dato per un verso tutto il potere al popo­
lo, ma non aveva nello stesso tempo definito il quadro entro cui tale popolo
potesse effettivamente dare prova di sé come «repubblica di cittadini». Ciò
aveva significato concedere tutto il potere a un popolo di individui privati,
dal momento che in quanto cittadini essi finivano per non avere nessuna
funzione riconosciuta (H. Arendt, Ober die Revolution, cit., p. 324).

dical-democratiche, al di là della loro innegabile mentalità elitaria. Come Hannah


Arendt ritenesse di poter collegare alla democrazia partecipativa le strutture elitarie,
da essa considerate altrettanto necessarie, può evincersi dal passo seguente, in cui si
parla del Ràtesystem, il sistema dei soviet o consigli: «Si sarebbe tentati di concedere
in astratto sempre più competenze ai consigli. Ma è certamente più saggio dire con
Jefferson: 'Createli per un unico scopo, scelto a caso; e in breve essi stessi dimostre­
ranno per quali altri scopi possono essere gli strumenti più adatti’. Al giorno d’og­
gi, per esempio, i consigli risulterebbero senz'altro adatti a distruggere la moderna
società di massa e la sua intrinseca, pericolosa tendenza a formare movimenti pseu­
dopolitici (caratterizzati da élites né direttamente elette dalla base né costituitesi
per autoselezione). Solo allora libertà e felicità pubblica, così come la responsabilità
per le faccende politiche, toccherebbero in sorte alle poche persone (presenti in ogni
strato sociale e professionale) che saprebbero anche trarne piacere. Queste persone
rappresentano in ogni caso la élite politica di un paese, e nessuno stato può afferma­
re di assolvere i suoi compiti, né un governo pretendere di essere veramente repub­
blicano, se non servendosi di questa élite e mettendole a disposizione lo spazio pub­
blico necessario. Una simile forma statale - ‘aristocratica’ nel vero senso della paro­
la - non avrebbe probabilmente più bisogno di ricorrere allo strumento del suffra­
gio universale, in quanto soltanto i membri volontari di una ‘repubblica consigliare’
avrebbero dimostrato effettivamente di avere a cuore qualcosa di diverso dal loro be­
nessere privato e dai loro pur legittimi interessi personali. Solo chi è effettivamente
interessato alle sorti del mondo dovrebbe anche avere voce per governarlo. Essere
esclusi dalla politica non dovrebbe tuttavia significare nessuna vergogna (come acca­
de oggi a chi viene privato dei diritti civili). Se coloro che attivamente partecipano
si sono in realtà selezionati da soli, allora anche coloro che restano tagliati fuori lo
dovranno soltanto a se stessi. Questa regolata e prevista estraneità dalle faccende
pubbliche renderebbe semplicemente reale una delle libertà negative più importan­
ti, ossia quella libertà dalla politica che noi abbiamo sperimentato a partire dalla fi­
ne del mondo classico, che era sconosciuta sia a Roma che ad Atene, e che rappre­
senta forse la parte più politicamente significativa della nostra eredità cristiana»
(H. Arendt, ì) ber die Revolution, cit., p. 359 e sgg.) [cfr. tr. it. cit., pp. 323-324).
188

b) E qui viene alla luce il motivo che ha spinto Hannah Arendt a


studiare le rivoluzioni borghesi del Settecento, l’insurrezione unghe­
rese del 1956, la disobbedienza civile e le proteste studentesche degli
anni Sessanta. Ciò che le interessa — dei movimenti di emancipazio­
ne — è il potere che nasce da una convinzione condivisa* sia che si tratti del-
ja negata obbedienza a istituti delegittimati, sia che si tratti dello
scontro tra il potere della comunicazione e gli strumenti coercitivc-di
uno stato tanto violento quanto impotente, sia che si tratti del sorge-
re di un nuovo ordinameoiLQ,_politicp e del tentativo di fissare questo
pathos aurorale istituzionalizzando la produzione comunicativa del
potere. È affascinante vedete come Iiannah.^rendx rintracci sempre
lo stesso fenomeno. Nei rivoluzionari che raccolgono il potere abban-
donato per strada, nella popolazione che si decide per una resistenza
passiva affrontando a mani nude i carri armati, nelle minoranze con­
vinte che contestano la legittimità di leggi in vigore organizzando la
disobbedienza civile, nel movimento della protesta studentesca in cui
si rivela un «puro piacere_per laziofie», in tu££i_jq.uesti diversi feno­
meni la Arendt crede di vedere la conferma di un medesimo princi­
pio. «Il potere non~è proprietà di nessuno: esso sorge dagli uomini
quando essi agiscono di concerto e svanisce non appena si disperdo­
no»9. Questo enfatico concetto di prassi è più marxista che aristoceli-
co. Marx lacnTamava «attività critico-rivoluzionaria».

/ limiti della teoria classica

La Arendt considera quali primi tentativi di istituzionalizzare la


democrazia diretta i «town meetings» americani del 1776, le «so-
ciétés populaires» a Parigi tra il 1789 e il 1793, le sezioni della Co­
mune di Parigi del 1871, i soviet russi del 1903 e del 1917, la de­
mocrazia consigliare nella Germania del 1918. In queste forme di
democrazia diretta essa vede gli unici seri tentativi di istituire una
«costituzione della libertà» a partire dalle condizioni della moderna
società di massa. Essa riconduce anche ij fallimento di_questi esperi­
menti — ottocenteschi e novecenteschi — alla sconfitta politica del mo-

9 Id., Vita adiva, eie., p. 194 (cfr. tr. it. eie., p. 147].
F

189

vimento operaio rivoluzionario e al parallelo successo economisti™ dei


sindacati e dei partiti operai.

Con la trasformazione della società di classe in una società di massa, e con la


sostituzione di un salario annuo garantito alla paga giornaliera o settima­
nale, gli operai non si ritrovano più, oggi, al di fuori della società. Non so­
lo essi sono cittadini politici a pieno titolo, ma stanno anche diventando
membri giuridicamente equiparati della società economica, svolgendo delle
mansioni analoghe a quelle di qualunque altro cittadino. In tal modo il mo­
vimento operaio perde il suo specifico significato politico e si traforma in
uno dei qualsiasi gruppi di pressióne che collaborano a regolare la società10.

Nel contesto in cui si inserisce, questa tesi suona alquanto sem­


plicistica: più che risultare da indagini ben ponderate essa trae origi­
ne da una costruzione filosofica. Siccome Hannah Arendt eleva a so­
stanza del politico un’immagine stilizzata della polis greca, essa fini­
sce anche per costruire una serie di rigide dicotomie concettuali - tra
«pubblico» e «privato», stato ed economia, libertà e benessere, atti­
vità politica e produzione materiale — che sembrano difficilmente ap­
plicabili alla società borghese e allo stato moderno. Il semplice fatto,
per esempio, che in età moderna il modo capitalistico di produzione
abbia fatto nascere un rapporto inedito e complementare tra stato ed
economia, viene da lei immediatamente inteso come sintomo patolo­
gico e deprecabile sovvertimento.

La sfera sociale (...] ha liberato una crescita innaturale, per così dire, del na­
turale. Ed è contro questa crescita [...] che la sfera privata e dell’intimità, da
una parte, e quella politica (nel più stretto senso della parola), dall'altra, si
sono dimostrate impotenti (Vita adiva, p. 34 e sgg.) (cfr. tr. it. eie., p. 35).

Hannah Arendt ha certo Ragione nel sottolmearecomefeli mi na­


zione semplicemente tecnica ed economica della povertà non impli­
chi ancora, di per sé, nessuna garanzia pratico-politica di libertà pub­
blica. Tuttavia essa cade vittima di un’idea di politica inapplicabile
alle condizioni moderne quando asserisce che «la intrusione di que­
stioni sociali ed economiche nello spazio politico», nonché «il tra-

10 Ibid., p. 213 (cfr. tr. it. cit., p. 161).


190

sformarsi del governo in apparato amministrativo, dove ilpotere


personale viene sostituito dal potere burocratico e leggi e misure
anonime vengono sostituite da_degreti ad hoc» (Uber die Revolution t
cit., p. 115 e sgg.), finiscono necessariamente per distruggere ogni
sforzo verso una sfera pubblica politicamente attiva. In questa pro­
spettiva sconsolata essa ha anche visto la Rivoluzione francese, laddo­
ve in America l’iniziale successo della fondazione della libertà sareb­
be riconducibile al fatto che lì non «c’era l’intralcio di una questione
sociale politicamente insolubile» (ibid., p. 85). Ho già discusso que­
sta interpretazione nella mia recensione al libro Ùber die Revolution".
Qui vorrei soltanto sottolineare da quale inverosimile prospettiva la
Arendt sembra intenzionata a lasciarsi guidare. Nessun tipo di so­
cietàj3iQderna-pnrr.ehbe mai intraprendere il percorso indicato dalla
Arendt, vale a dire sollevare lo stato dal compito amministrativo di
trattare i problemi sociali, «purificare» la politica .dal le questioni so­
cioeconomiche, istituzionalizzare una libertà pubblica slegata dal-
Forganizzazione della ricchezza, escludere dalla formazione radical-
democratica della volontà i problemi relativi alla repressione e all'in-
g i usri zia, sociale^
Eccoci così posti di fronte a un dilemma. Il concetto comunicativo
di potere illumina certamente quei fenomeni limite della modernità
per i quali la scienza politica non ha ancora dimostrato sufficiente at­
tenzione. Per un altro verso, tuttavia, esso si ricollega a una concezio­
ne della politica che, se applicata alle società moderne, porta eviden­
temente a conclusioni assurde. Occorre così tornare ancora una volta
ad analizzare il concetto di potere. '
TI concetto arendtiano di «potere comunicativo» può diventare
uno strumento penetrantesolo se noi lo liberiamo dalla sua com pro­
missione con una teoria aristotelica dell’azione. Hannah Arendt può
ridurre il potere politico alla prassi (cioè al parlare e all’agire colletti-
vo degli individui) soltantoperché lei separa questa prassi dalle atti­
vità impolitiche per un verso del «produrrete de.l.«.lavorare» per
l’altro verso del «pensare». Così, sia rispetto alla produzione di og­
getti sia rispetto alla conoscenza teoretica, l’agire comunicativo fini­
sce per presemaj^juJiQie^ categoria politica. Certo, proprio que­
sta restrizione concettuale del politico all’elemento della prassi pone

11 Cfr. supra, cap. X.


191

l'autrice nella vantaggiosa (e controcorrente) situazione di poter de­


nunciare l’odierna, vistosa eliminazione dal processp_poJj.CÌ.c.O_dLso­
stanziali contenuti pratici. In cambio, tuttavia, la Arendt è costretta
a pagare il triplice prezzo di: a) espellere dalla politica_tutti gli ele­
menti strategici tipo la forza; b) scorporare la politica da quei conte­
sti economi co-soc i ali cui essa resta sempre col legata tramite l’appara-
to amministrativo; c) non poter più comprendere i fenomeni della
violenza strutturale.

La competizione strategica per il potere politico

La conduzione della guerra è l’esempio classico dell’agire strategi­


co. Per i greci antichi la guerra era qualcosa che avveniva «al di fuo­
ri» delle mura cittadine e anche per Hannah Arendt l’azione strate­
gica è essenzialmente impolitica, una pura questione di esperti. Na­
turalmente l’esempio della guerra si presta bene a dimostrare il con­
trasto tra potere politico e forza. Fare la guerra implica l’impiego cal­
colato degli strumenti di forza, sia per minacciare sia per sopraffare
l’avversario. Ma l’accumulazione dei mezzi di distruzione non rende
le superpotenze più potenti: la forza militare è abbastanza spesso (co­
me ha dimostrato la guerra del Vietnam) l’altra faccia dell’impoten­
za. Inoltre, l’esempio della guerra si presta bene a dimostrare come
l’agire strategi.c.o_.sia_sj.i$sumibile allagire strumentale. Al di là del­
l’azione comunicativa, in Vita activa si studiano anche le attività - so-
stanzialmente non sociali — del lavorare e del fabbricare. Ora, dal mo­
mento che l’impiego razionale rispetto-afto-scopo di mezzi militari
sembra avere la stessa struttura dell’impiego di strumenti per fabbri­
care oggetti e trasformare la natura, la Arendt_equipa£a frettolosa­
mente tra loro agire stracegico_£_agire strumentale. La conduzione
della guerra dimostrerebbe così che l’agire strategico è strumentale e
nello stesso tempo violento. Un agire di questo tipo si colloca fuori
dell’ambito del politico^
La questione appare sotto una luce diversa se noi accostiamo l’agi­
re strategico all agire comunicativo - come altra forma di interazione
sociale (ancorché orientata al successo invece che all'intesa) — e se lo
contrapponiamo al l’agire strumentale come a un agire non sociale
che può essere intrapreso anche da un soggetto solitario. Allora di-
192

venta evidente che anche l’agire strategico si colloca all'interno delle


mura cittadine, per esempio nelle lotte del potere oppure nella con­
correnza per accedere a posizioni da cui esercitare potere legittimo.
L’accaparramento e il mantenimento del potere politico vanno tenuti
distinti sia dal suo uso effettivo (cioè dal governo in senso stretto) sia
dalla sua generazione. Soltanto nell'ambito della generazione del pote-
re politico ci è utile ricorrere al concetto di prassi. Nessuno che occu-
pi posizioni di governo può conservare ed esercitare il potere, se que-
ste posizioni non risultano ancorate a leggi e istituzioni politiche
poggianti da ultimo su convinzioni collettive (ossia sull’«opinione su
cui molti si sono pubblicamente messi d’accordo»).
Nelle società moderne, lambito e Timportanza del Pagi re strategi­
co si sono indubbiamente estesi- Con l’imporsi della forma capitali­
stica di produzione_questo tipo di agi.ce^che nelle società premoder-
ne era soprattutto dominante nelle relazioni coQ l’esierno, è stato ac­
cettato anche al [ interno della società come una modalità normale del
traffico~ecohóm icoTÀtut t i i proprietari di merci il moderno diritto
privato concede sfere formalmente eguali di agire strategico. Inoltre-
hell’integrazione politica attuata dallo stato moderno sulla sfera so­
cioeconomica — la lotta per il potere politico viene disciplinata pro-
prio daH’istituzionalizzazione del Lag ire strategic_Q.(dunque tramite
legalità dell’opposizione, concorrenza tra partiti e gruppi di pressio­
ne, giuridificazione dei conflitti di lavoro ecc.). Questi fenomeni di
accaparramento e mantenimento del potere hanno indotto erronea­
mente i filosofi della politica, da Hobbes a Schumpeter, a vedere nel
potere il potenziale per un vittorioso agire strategico. Contro questa
tradizione (In cui rientra anche Max Weber) la Arendt insiste giusta-
mente sul fatto che le lotte strategiche per il potere-politico non han-
no_mai, in realtà, né fatto nascere né salvaguardaroje istituzioni in
cui quel potere si àncora. Le istituzioni politiche-seno tenute in vita
non dalla terza [Gezzalt] bensì dal riconoscimento [Anerkennung].
Etuttavia l'elemento dell'agire strategico non può mai essere esclu-
so dal concetto del politico. La «forza» esercitata attraverso l’agire
strategico noi vogliamo intenderla come la capacità di~7mpedire ad
altri individui o ad altri gruppi di realizzare i loro interessi12. In que-
’sto’ senso essa e sempre stata uno dei mezzi più usati per accaparrarsi

12 Cfr. le mie tesi in J. Habermas, N. Luhmann, op. cit., pp. 250-257.


193

e mantenere posizioni di potere. Tanto che, negli stati moderni, que-


sta lotta per il potere politico è stata addirittura istituzionalizzata,
diventando una componente normale del sistema politico. D’altra
parte, non è affatto scontato che qualcuno sia in grado di generare po-
tere legittimo semplicement£ perché si trova in grado d* impedire,
agli altri diTéalizzare i loro interessi. Il potere legittimo nasce solo tra
coloro che si formano convTnzìóni comuni comunicando in maniera
libera e spontanea.

L'uso del potere nel sistema politico

Sia la produzione comunicativa di potere sia la concorrenza strate- /


gica per il potere sono astrattamente concepibili anche nel quadro di /
una «teoria dell’azione». Sennonché per l’impiego del potere legitti-
,mo non sono le strutture dell’azione a essere rilevanti. Potere legitti-
jpo è ciò che consente a chi comanda di prendere decisioni vincolan-
ti per tutti. Questa modalità d’uso del potere può~essere affrontata
meglio dal punto di vista eli- una «teoria~cTel sistema sociale» che non
dal punto di vista di una «teoria dell'azione». A che cosa si riferisca­
noli prestazioni staraii e quali funzioni esse rivestano per i diversi
ambienti del sistema politico, sono tutte questioni agevolmente af­
frontabili nel quadro teorico sviluppato da TaIcott Parsons. Invece
Hannah Arendt non intende né abbandonare il terreno della «teoria
dell'azione» né integrarlo con analisi funzionalistiche. Secondo lei, la
sfera delle faccende umane non dev’essere estraniata dai criteri del-
loggettivismo sociologico, in quanto le conoscenze che così si otter­
rebbero - dalla prospettiva dell’osservatore — non sarebbero riassi mi-
labi Italia prassi degli interessati. In questo senso, agli occhi di Han-
nah Arendt non c’è differenza tra Hegel e Parsons: entrambi studia­
no processi sociali e storici che passano sopra le teste degli interessa­
ti15. Per quanto sta in lei, essa vorrebbe di nuovo catturare questo
aspetto processuale della vita sociale in una categoria dell’azione. E
proprio per questo, aH’interno dell’agire strumentale, lei distingue
tra «fabbricazione» e « lavoro»A II lavoro si distingue dalla fabbrica-
zione non per le strutture dell’agire in quanto tali, ma per il fatto che

,} H. Arendt, 0ber die Revolution, cit., p. 63 e sgg. (cfr. tr. ic. cit., p. 52 e sgg.l.
194

i1 concetto di «lavoro» inseris^eJLaixùùxà_j>roduttiva nel ciclo funzio­


nale di «produzione, con sumo e riproduzione» e la vede come di -
spendio di una forza lavoro che dev'essere riprodotta.
Con queste riserve teoriche e con questi limiti concettuali — tutti
riconducibili alla «teoria dell’azione» — Hannah Arendt finisce in
realtà per cadere in una posizione di svantaggio di fronte alle analisi
sistemiche oggi correnti. Da un altro punto di vista, invece, essa ha
più che ragione nel temere che la teoria sistemica si autonomizzi ri­
spetto alla teoria dell’azione. Ritroviamo lo stesso timore in Parsons,
là dove egli critica la concezione del potere «a somma zero» proposta
da C. Wright Mills. Parsons vuole pensare il potere come una sorta di
bene incrementabile (tipo un credito o un potere di acquisto).Jìejina
parte guadagna in potere politico non per questo l’altra parte deve
perdere. Il gioco_«a_somma_zero»_esiste soltanto là doMe-piÌLpartiti
lottano per conquistarsi posizioni già date e non riguarda la questio­
ne della nascita (o del venir meno) del potere nel quadro delle istitu­
zioni-politiche. Parsons e la Arendt sono d’accordo su questo punto.
Anche se hanno poi idee piuttosto divergenti riguardo al processo di
generazione e accrescimento del potere. Parsons considera questo pro­
cesso come un innalzamento del «livello di attività» e lo descrive al-
l’incirca così: affinché possano moltiplicarsi gli «output» dello stato,
bisogna allargare il raggio di azione del sistema amministrativo, ma
questo richiede, a sua volta, un «input» maggiore di sostegno diffuso
e di lealtà di massa. Così il processo di aumento del potere comincia
dal lato di «input». I leader politici dovrebbero suscitare nuovi biso-
gni nell’elettorato, affinché sorgano richieste crescenti che si possano
soddisfare intenslfi cando l’at rivi tà amministrati va14.
Dunque daLpunto di vista della teoria sistemica la produzione di
potere si presenta come un problema risolvibile a partire da una mag­
giore influenza della leadership politica sulla volontà della popolazio-
ne. Se pero si usassero strumenti di coercizione psichica, oppure tec-
niche di persuasione e manipolazÌDH£, per la Arendt ci_troveremmo
di front£a_unjsemplice incremento di «forza», non d i « potere poi i ti -
co»- Secondo lei, infatti, il potere può soltanto nascere dalle struttu-
redi una libera comunicazione e non può essere generato «dall’alto».
Parsons avrebbe contestato questa ipotesi: dato un insieme di valori

14 T. Parsons, «On thè Concepì of Politica! Power», cit., p. 340.


195

culturali, non esistono per lui limiti strutturali nella produzione del
potere. D altro canto, alla luce dei casi concreti di inflazione e defla-
zione del potere, a Parsons avrebbe pure fatto comodo poter distin­
guere tra crediti di potere «seri» e crediti di potere «non seri».

Ce un confine impercettibile tra una leadership politica solida, responsabi­


le e costruttiva - che impegna di fatto la collettività anche al di là delle sue
capacità di soddisfare tutti gli obblighi — e uno spericolato strapotere, pro­
prio come ce un confine impercettibile tra la gestione responsabile di una
banca e la speculazione selvaggia (ibid., p. 342).

Ora, sembra difficile vedere come questo «confine impercettibi­


le» possa essere definito nel quadro della teoria sistemica. Proprio su
questo punto Hannah Arendt ci offre la sua soluzione: essa individua
i requisiti indispensabili alla generazione ed espansione comunicativa
del potere rinviando alle strutture di un’«intersoggettività intatta».

La produzione comunicativa del potere. Una variante

Cerchiamo ora di riassumere il nostro discorso. La concezione del


politico non può non includere anche la concorrenza strategica per il
potere e l’uso di quest’ultimo nel quadro del sistema politico. La po-
litica non può — come vuole la Arendt — essere identificata semplice­
mente con la prassi dibattimentale di chi discute per agire di concer­
to^ Andando in una direzione opposta, la teoria dominante restringe
invece il politico ai fenomeni della concorrenza e dell'allocazione dèT
potere, finendo così col perdere di vista la questione reale deììa produ­
zione di esso. È qui che la distinzione tra «potere» e «forza» diventa
tagliente. Essa ci fa capire come il sistema politico non possa mai di­
sporre a suo piacimento del potege. Il potere è un bene"gcr il quale
certi gruppi politici lottano e con il z/z/rz/c una certa leadership politi-
ca governa: entrambi però lo ntrovano come già esistente, non sono
essi a generarlo. In questo senso i potenti non hanno mai veramente
potere: essi devono farselo «prestare» da chi è in grado di generarlo.
Questo è il credo di Hannah Arendt.
Molte obiezionTvengono spontanee. Anche se è vero che nelle de­
mocrazie moderne la leadership deve periodicamente legittimarsi, la
storia è piena di casi che provano come il governo politico abbia fun-
196

zionato, e continui a funzionare, in maniera diversa da quella indica­


ta dalla Arendt. A favore della sua tesi depone certo il fatto che un
governo politico non può durare se non viene anche riconosciuto co-
me legittimo. Contro la sua tesi depone però il fatto che i rapportixhe
si consolidano tramite questo governo solo raramente sono l’espres- !
sione di un'opinione «su cui molti si sono pubblicamente messi^
d’accordo». (Il che è ancora più vero ove si coltivi, come la Arendt,
un’idea esigente di sfera pubblica.) Questi due dati di fatto diventa-
l
no spiegabili soltanto se diamo per scontata la presenza di una violen­
za strutturale all’interno delle istituzioni politiche (e non soltanto di
esse). Senza presentarsi visibilmente come violenza fisica, e senza
neppure essere chiaramente percepibile, questa «violenza struttura­
le» blocca le comunicazioni in cui si genera e si riproduce la forz?
delle convinzioni legittimanti Solo un’ipotesi di questo_tip2 — circa
l’esistenza di invisibili quanto efficaci barriere comunicative - è in
grado di spiegarci la nascita delle ideologie. Essa può infatti renderci
verosimile il formarsi soggettivo di convinzioni illusorie su di sé e
sulla situazione oggettiva. Dopo tutto noi chiamiamo «ideologie»
proprio le illusioni che sono rafforzate dal potere derivante_da_con-
yinzioni diffuse e condivise~7
Proponendo questa variante alla dottrina di Hannah Arendt, io
cerco di dare una versione realistica alla sua produzione comunicativa
jel potere. Quando le comunicazioni sono sistematicamente ristrette,
gli interessati si formano convinzioni die, pur essendo soggettiva­
mente libere^ risultano anche oggettivamente illusorie. Le loro co­
municazioni generano un potere che, non appena istituzionalizzato,
può essere rivolto anche confrò~dì lóro. Naturalmente, per poter ac­
cattare questa proposta, noi dobbiamo disporre di un criterip teorico
oggettivo che ci consenta di distinguere criticamente le convinzioni
illusone da quelle non illusòrie.
Proprio questa possibilità ci viene però contestata da Hannah
Arendt. Essa si attiene alla distinzione classica di «teoria» e «prassi»:
la prassi si fonda su opinioni e convinzioni che sono insuscettibili di
verità in senso stretto.

Nessuna opinione è autoevidence. In materia di opinione — a differenza che


in materia di venta — il nostro pensiero è veramente discorsivo, come se
* trascorresse» per così dire da un posto all'altro del mondo e passasse at fra­
197

verso tutti i generi di opinioni tra loro contrastanti, fino al momento in cu£
abbandona finalmente tutte ^uestejparticolarìta per raggiungere una qual-
che generalità imparziale15.

Questa antiquata concezione della conoscenza teorica, basata su


intuizioni e certezze definitive, impedisce alla Arendt di interpretare
il raggiungimento dell’intesa discorsiva su questioni pratiche nei ter­
mini di una formazione razionale della volontà. Solo se noi riteniamo
che il pensiero rappresentativo16 — cui tocca il compito di esaminare
la giustezza delle norme a partire dalla generaiizzabilita dei punti di
vista pratici — non sia abissalmente separato dal piano dell’argomen-
tazione, allora possiamo anche attribuire fondamento cognitivo al po-
tere delle convinzioni condivise. In tal caso però il potere viene ad

15 H. Arendt, «Truth and Politics», in P. Laslect, W.G. Runciman (eds), Phdo-


sophy, Politici and Society, Oxford 1967, voi. Ili, p. 115 e sgg.
16 «Il pensiero politico è rappresentativo. Mi formo una opinione considerando
un problema da punti di vista diversi, tenendo presenti i punti di vista degli assen­
ti, cioè rappresentandoli. Questa rappresentazione non adotta ciecamente le effetti­
ve opinioni di chi sta altrove, guardando semplicemente il mondo da un angolo vi­
suale diverso. Non si tratta né di empatia, come se io cercassi di essere o di sentire
al posto di qualcun altro, né di contare le teste e di unirsi a una maggioranza. Si
tratta piuttosto di essere e pensare, a partire dalla mia identità, là dove io non sono
realmente. Di quanti più punti di vista io tengo conto nel valutare un dato proble­
ma, e quanto meglio io riesco a immaginare quel che proverei e penserei al posto di
altri, tanto più forte sarà la mia capacità di pensiero rappresentativo e tanto più va­
lide le mie conclusioni finali, la mia opinione. (È questa capacità di una «mentalità
allargata» ciò che mette gli uomini in grado di giudicare. Kant la scoprì nella pri­
ma parte della Critica del giudizio, anche se non ne riconobbe tutte le implicazioni
morali e politiche.) Il vero processo di formazione dell'opinione è determinato da
coloro al posto dei quali qualcuno pensa e fa uso della propria mente, mentre l'uni­
ca condizione per questo esercizio di immaginazione è il disinteresse, la liberazione
dai propri interessi privati. Perciò, anche se evito ogni compagnia o sono compieta-
mente isolato quando formo la mia opinione, io non sono mai soltanto in compa­
gnia di me stesso nella solitudine del pensiero filosofico. Io rimango in questo mon­
do di mutua interdipendenza, dove posso sempre fare di me il rappresentante di
qualsiasi altro. Senza dubbio, posso anche rifiutare questo comportamento e formar­
mi una opinione che tenga conto soltanto del mio interesse, o dell'interesse del mio
gruppo; niente è infatti più comune, anche tra le persone più colte, di questa cieca
ostinazione che si manifesta in carenza d'immaginazione e insufficienza di giudizio.
Ma l'autentica qualità di una opinione, così come di un giudizio, dipende sempre
dal suo grado di imparzialità» (H. Arendt, «Truth and Politics», cit., p. 115).
198

ancorarsi nel riconoscimenro fattuale di pretese di validità che sono


discorsivamente riscattabili e intrinsecamente criticabili.
La Arendt vede invece spalancarsi un abisso tra la «conoscenza» e
^«opinione», un abisso che non è colmabile da nessuna argomentazio-
ne. Per il poterè~delle opinioni ella deve cosi cercarsi un fondamento
diverso, e crede di trovarlo nella capacita degli attori linguistici di far­
si a vicenda déné~promesse (nonché nella lorocapacìtà di assolverle).

Abbiamo già parlato del potere che si genera quando le persone si riuniscono
e agiscono di concerto, un potere che si dissolve non appena esse si separano.
La forza che tiene insieme queste persone [...] è la forza vincolante della reci­
proca promessa, la quale alla fine si sedimenta nel contratto giuridico17.

La base del potere diventa così il contratto stipulato tra parti libe­
re ed eguali, un contratto con cui le parti si assoggettano a reciproca
obbligazione. Per salvaguarHaréTl nucleo normativo di un’originaria
equivalenza postulata tra «potere» e «libertà», la Arendt finisce per
riporre più fiducia nella venerabile figura del contratto che non nel
suo stesso concetto di prassi comunicativa.
Con il che essa scivola di nuovo nella tradizione del diritto naturale.

17 Id., Vita attiva, cit., p. 240 [cfr. tr. ic. cit., p. 180].
XII

WALTER BENJAMIN
CRITICA CHE RENDE COSCIENTI OPPURE
CRITICA SALVIFICA? (1972)*

Benjamin è attuale anche nel senso più banale: c’è guerra su come
interpretarlo. I fronti suscitati dall’uscita delle Schriften^ e dalla sto­
ria — intensa e quasi esplosiva — della sua ricezione nella Bundesrepu-
blik sembrano già anticipati nella sua biografia. Nella vita di Benja­
min è stata determinante la costellazione Scholem, Adorno e Brecht.
A essa si aggiunge la dipendenza giovanile da Gustav Wyneken, il
riformatore della scuola, e l’influenza successiva da parte dei surreali­
sti. Scholem, l’amico e mentore più prossimo, è nella riunione di og­
gi rappresentato da Scholem in persona, ossia dall’inflessibile difen­
sore (al di sopra di qualunque polemica) di quell’aspetto della perso­
nalità di Benjamin che era stata catturata dalle tradizioni della misti­
ca ebraica2. Adorno - erede, collaboratore critico e precursore in una

* Conferenza tenuta ali'Università di Francoforte nel luglio 1972, a ottantanni


dalla nascita di Walter Benjamin, e successivamente pubblicata in J. Habermas,
Kultur und Kritik, cit., pp. 302-344.
1 W. Benjamin, Schriften, 2 Bde, Frankfurt a.M. 1955 (tr. ir. Angelus novus, a cu­
ra di R. Scimi, Einaudi, Torino 1962; edizione aggiornata con un saggio di F. Desi­
deri, Einaudi, Torino 19951. Nel seguito citerò dalle Ausgeu ahlte Schriften (d ora in
poi AS seguito dal numero del volume), Bd. I: llluminattonen, Frankfurt a.M. 1961 e
Bd. II: Angelus novus, Frankfurt a.M. 1966. Citerò anche dalle edizioni singole: Ur-
sprung des deutschen Trauerspiels, Frankfurt a.M. 1963 (tr. it. Il dramma barocco tedesco,
Einaudi, Torino 1971; nuova traduzione con introduzione di G. Schiavoni, Einaudi,
Torino 1999); Versuche ù'ber Brecht, Frankfurt a.M. 1966; Charles Baudelaire, Frankfurt
a.M. 1969 Icfr. ora l'edizione definitiva in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, hrsg.
von R. Tiedemann, H. Schweppenhiiuser, 7 Bde, Frankfurt a.M. 1974-1989).
2 G. Scholem, «Walter Benjamin», in AA.VV., ì)ber Walter Benjamin, Frankfurt
a.M. 1968, pp. 132-16-4; G. Scholem, «Nachwort», zu W. Benjamin, Berlincr Chro-
nik, Frankfurt a.M. 1970, pp. 125-135; G. Scholem, «Zum Verstandnis der messia-
nischen Idee im Judcntum», in ld., uber einige Grundbcgriffe desJudentums, Frankfurt
200

stessa persona - ha non solo dischiuso ma anche influenzato la prima


ondata della ricezione postuma di Benjamin3; dopo la morte di Peter
Szondi (che oggi avrebbe dovuto senza dubbio essere qui al posto
mio) la posizione di Adorno è rappresentata soprattutto dagli editori
di Benjamin: Tiedemann e Schweppenhàuser4. Brecht, che ha sempre
rappresentato per Benjamin una sorta di principio di realtà, è quello
che lo ha indotto ad abbandonare l’esoterismo del pensiero e dello sti­
le; sulla scia di Brecht, teorici marxisti dell'arte quali Brenner, Lethen
e Scharang possono oggi collocare il tardo Benjamin nella prospetti­
va della lotta di classe5. Gustav Wyneken, dalla cui influenza Benja­
min — attivo nella «Freie Schulgemeinde» — si liberò già durante gli
anni universitari, segnala la persistenza di certi legami e impulsi. Si
tratta di quell’elemento jungkonservativ [giovane-conservatore] della~
personalità di Benjamin che trova oggHn HannaFTArendt un avvo­
cato intelligente e polemico: la Arendt vorrebbe difendere (contro le
pretese ideologiche degli amici marxisti e sionisti) il Benjamin este-
ta sensibile e vulnerabile, collezionista e docente privato. Infine, la
prossimità-di Benjamin ai surrealisti è stata riportata alla nostra at-
tenzione dalla seconda ondata della, sua ricezione e per effetto della
rivolta stude.nxesca; cosa che documentano, tra l’altro, i lavori di
Bohrer e di Biirger6.

a.M. 1970, pp. 121-167 [tr. it. di M. Bertaggia, Concetti fondamentali dell'ebraismo,
Marietti, Genova 1986. Sul rapporto di Scholem con Benjamin cfr. ora G. Scholem,
Walter Benjamin. Storia di una amicizia (1975), Adelphi, Milano 1992].
3 Th.W. Adorno, Ober Walter Benjamin, Frankfurt a.M. 1970.
4 P. Szondi, «Nachwort», zu W. Benjamin, Stàdtebilder, Frankfurt a.M. 1963,
pp. 79-99; R- Tiedemann, Studien zur Philosophie W. Benjamms, Frankfurt a.M.
1965; Id., «Nachwort», zu W. Benjamin, Charles Baudelaire, eie., pp. 165-191;
R. Tiedemann, «Nachwort», zu W. Benjamin, Versuche iiber Brecht, cit., pp. 117-
138. H. Schweppenhàuser, «Einleitung», zu W. Benjamin, Uber Haschisch, Frank­
furt a.M. 1972, pp. 7-30.
5 H. Brenner, Die Lesbarkeit der Bilder. Skizzen zum Passagenentuurf, «Alternati­
ve», fase. 59-60, 1968, p. 48 e sgg.; H. Lethen, Zur materialistischen Kunsttheorie
Benjamms, «Alternative», fase. 56-57, 1967, pp. 225-234; M. Scharang, Zur Eman-
zipation der Kunst, Neuwied 1971; H.H. Holz, Vom Kunstuerk zur Ware, Neuwied
1972.
6 P. Burger, Der franzosische Surrealismi, Frankfurt a.M. 1971; K.H. Bohrer, Die
gefahrdete Phantasie oder Surrealismi und Terror, Miinchen 1970; E. Lenk, Der spnn-
gende Narziss, Miinchen 1971; G. Steinwaehs, Mythologie des Surrealismi oder die
201

Trasversale su questi fronti sta emergendo una filologia benjami-


niana che affronta con competenza il proprio oggetto, segnalando
agli sprovveduti che non si tratta più di entrare in territori inesplora­
ti7. Rispetto alle dispute faziose che avevano quasi frantumato l’im­
magine di Benjamin, questo trattamento accademico potrebbe oggi
rappresentare un correttivo, seppure non un’alternativa. Tanto più
che quelle interpretazioni incompatibili non erano certo piovute dal
_cielo, né era per amore del mistero che (come ci racconta Adorno)
Benjamin preferiva tenere i suoi amici separati l’uno dall’altro. Solo
come scena surrealistica noi potremmo immaginare di vedere raccol­
ti convivialmente — magari a discutere sul Geist der Utopie di Bloch o
sul Geist als Widersacher der Seele di Klages — Scholem, Adorno e Brer
cht seduti allo stesso tavolo, Breton o Aragon appollaiati su uno sga­
bello e Wyneken che fa capolino alla porta. L’esistenza intellettuale
di Benjamin è stata così impregnata di elementi surreali da non la­
sciarsi valutare sulla base di inadeguace_pretese di coerenza. Benja-
min ha collegato tra loro motivi che di solito sono antagonistici,
senza tuttavia mai unirli veramente. Ma se li avesse uniti, allora lo
avrebbe fatto in molte unità differenti, tante quanti sono i momenti
jn cuHo sguardo interessato dei successivi interpreti perfora la erose
per raggiungere la viva roccia. Benjamin appartiene a quegl] auto
inafferrabili là cui opera ^ajneontro a_UH..d^tipo im prevedi bile prc
ducendo gli effetti più disparati. Noi incontriamo questi autori sol­
tanto nell’attualità lampeggiante di un pensiero che diventa domi­
nante perT>revi secondi della storia. Per illustrare il significato di
«attualità», Benjamin soleva citare la leggenda talmudica secondo
cu i«glia rigeli — rinnovati ad ogni istante in schiere innumerevoli —
sono creati per cessare di esistere e sprofondare nel nulla una volta
che abbianòcahtàtoTrDio“iITófó mnó» (AS, II, p. 574).

Ruckveruandlung ton Kultur in Natur, Neuwied 1971. La critica di Adorno a! surrea­


lismo si trova in Id., Noten zur Literatur l, Frankfurt a.M. 1958, pp. 155-160; sulla
sua onda H.M. Enzensber^er, «Die Aporien der Avangarde»*, in Id., Einzdhattn,
Frankfurt a.M. 1962, pp. 290-515; sullo stato della letteratura secondaria ci infor­
ma W.S. Rubin, The D-S Expedition, «The New Yorker Review of Book», XVIII,
nn. 9-10, 1972.
7 Cfr. il fascicolo dedicato a Benjamin di «Text und Kritik», nn. 51-52, 1971,
con saggi di B. Lindner, L. Wiescnthal, P. Krumme, c una bibliografia ragionata.
202

Vorrei prendere le mosse da una frase che Benjamin rivolse un


giorno contro i procedimenti della storia culturale. «Essa [la storia del
la cultura] aumenta certo il mucchio dei tesori accumulati sulle spal­
le dell'umanità. Tuttavia essa non dà poi all’umanità la forza di scuo­
tere questo mucchio e di prenderne in mano i tesori >> (AS, II, p. 312).
Proprio questo sarebbe invece il compito della critica secondo Benja-
mim I monumenti della cultura — che sono nello stesso tempo mo­
numenti di barbarie — non sono visti da lui nella prospettiva storica^
un accumulo delle merci cukuralLTbensì nella prospettiva crìtica
(com'egli rigidamente si esprime) del degenerare della culturajdn
merci trasformabili per Pumanità in Aggetto di possesso» . Con tutto
ciò Benjamin non parla mai di «superamento della cultura» [Attfhe-
bung der Kultur].

1. Di superamento della cultura parla invece Marcuse in un sag­


gio del 1937 intitolato appunto «Sul carattere affermativo della cul­
tura»8. Nell’arte classico-borghese egli critica l’ambiguità di un mon­
do di «bella apparenza», che si è autonomizzato «al di sopra» dei
conflitti della concorrenza borghese e del lavoro sociale. Si tratta di
un autonomia soltanto apparente, in quanto l’arte limita la pretesa di
felicità alla sfera deH’illusione,mascherando finfe 1 icità della vita quo-
tidiana. Nello stesso tempo, però, l’autonomia dell’arte contiene in sé
un momento di verità, nella misura in cui l’ideale del bello esprime
anche la nostalgia per una vita più felice, per un’umanità, un’amici­
zia e una solidarietà che sono carenti nella vita di tutti i giorni. In
questo senso l’arte trascende l’esistenza.

La cultura affermativa è stata la forma storica in cui sono stati custoditi i bi­
sogni umani che andavano al di là della riproduzione materiale dell'esisten­
za; per questo verso, vale per la cultura affermativa quello che vale anche
per la forma di realtà sociale in cui essa rientra: il diritto è anche dalla sua
parte. È vero che ha tolto ai «rapporti esterni» il peso della responsabilità
per la «destinazione dell uomo», rendendo così stabile la loro ingiustizia;
ma vi ha anche contrapposto l’immagine di un ordine migliore, la cui rea­
lizzazione è affidata, come compito, all’ordine presente [tr. it. eie., p. 73).

H [Tr. ir. in H. Marcuse, Cultura e società. Saggi di teoria critica 1935-1965, Ei-
naudi, Torino 1969, pp. 43-85.]
203

Di quest’arte Marcuse accetta alla lettera la pretesa ideologica di­


voler prendere sul serio la verità — quella verità che gli ideali borghe­
si da un lato esprimono e dall’altro relegano alla sfera della bella ap­
parenza. Ciò significa per Marcuse prendere sul serio la pretesa di su­
perare [attfheben]l’arte in quanto sfera staccata dalla realtà.
Se la «bella apparenza» è il medium attraverso cui la società bor­
ghese per un verso esprime i propri ideali, per l’altro verso_ne ma­
schera la sospensione e il rinvio, allora la critica dell'ideologia^artisti­
ca deve pretendere il superamento dell’arte autonoma e, più in -gene­
rale. una riconduzione (o reintegrazione) della cultura al processo
materiale di vita. Rivoluzionare i rapporti borghesi di vita significa
superare la cultura:

Nella misura in cui la cultura ha dato forma alle nostalgie e agli impulsi
appagabili, ma di fatto inappagati, degli uomini, essa perderà il proprio og­
getto ( ..]. La bellezza si incarnerà diversamente, quando non dovrà più es­
sere rappresentata come apparenza reale, ma dovrà soltanto esprimere la
realtà e la gioia ch'essa procura (zZ>/<7.7p- 83).

In quegli anni, di fronte all’arte di massa fascista, Marcuse non


poteva farsi molte illusioni circa i rischi di un falso superamento del­
la cultura. All’arte fascista Marcuse contrapponeva una diversa politi­
cizzazione dell’arte, quella stessa che trentanni dopo sembrò per un
istante prendere corpo sulle barricate, adorne di fiori, degli studenti
parigini. Nel suo Saggio sulla liberazione Marcuse ha ancora interpre- 1
tato la prassi surrealistica della rivolta giovanile nei termini di un su­
peramento della cultura — un superamento attraverso cui l’arte può
entrare nella vita9.
Un anno prima del saggio marcusiano sul carattere affermativo
della cultura, la «Zeitschrift fiir Sozialforschung» aveva pubblicato il
saggio di Benjamin intitolato L’opera d'arte nell’epoca della sua riprodu-

9 Id., Versuch iiber Befreiung, Frankfurt a.M. 1969 (tr. it. Saggio sulla liberazione,
Einaudi, Torino 1973], in particolare cap. II. Marcuse ha poi sviluppato, e in parte
modificato, questa prospettiva in Id., Counterrevolution and Revolt, Boston 1972 (tr.
it. Controrivoluzione e rivolta, Mondadori, Milano 1973]. Cfr. G. Rohrmoser, Herr-
schaft und Versbhnung. Asthetik unddie Kulturrevolution des Western, Freiburg 1972 (sul­
l’estetica del tardo Marcuse cfr. ora i testi inediti pubblicati in «L'indice dei libri del
mese», XVI, n. 11, novembre 1999].
204

abilità tecnica. Così sembra quasi che Marcuse si sia limitato a con-
cettualizzare - in termini_di_critica. ideologica — le sottili osservazio-
ni di Benjamin. Anche per Benjamin infatti il tema è rappresentato
dal «superamento» dell’arte autonoma. Il culto profano della bellez­
za non si sviluppò che nel rinasci mento e sopravvive ormai da tre se-
coli. Ma nella misura in cui l’arte si stacca dal suo fondamento litur­
gico viene meno anche l’apparenza della sua autonomia. La tesi avan­
zata da Benjamin - che l’arte si sottragga alla sfera della «bella appa-
i renza» — viene giustificata facendo ricorso sia a un diverso status del-
Il’opera artistica sia a una diversa modalità di ricezione.
Con la distruzione dell’aura, l'interna struttura simbolica dell’ope­
ra si trasforma. La sferajjottratta e contrapposta al processo materiale
di vita si sfalda. L’opera si spoglia della sua ambivalente pretesa al­
l’autenticità e aH’inviolabilità. Essa sacrifica sia la sua testimonianza
storica sia la sua posizione di superiorità rispetto allo spettatore. Già
nel 1927 Benjamin aveva osservato: «Ciò che eravamo soliti chiama­
re ‘arte’ cominciava almeno a due metri di distanza dal corpo» (AS,
II, p. 160). L’opera d’arte banalizzata acquista così accessibilità e visi-
bilità al prezzo del suo precedente valore cultuale1^.
questa trasformazione strutturale dell’opera corrisponde una
mutata organizzazione della percezione e della ricezione dell’arte.
L’arte autonoma, già predisposta alla fruizione individuale, perde
l’aura e si converte alla ricezione di massa. Alla contemplazione dello
spettatore isolato, Benjamin contrappone la distrazione reattivamen­
te stimolata del collettivo. «Al rapimento, che con la decadenza del­
la borghesia è diventato una scuola di comportamento asociale, si
contrappone la distrazione come una variante del comportamento so­
ciale»11. Nella ricezione collettiva Benjamin vede un piacere artistico
che è istruttivo e critico nello stesso tempo.
Queste espressioni — ancorché non del tutto coerenti — consento­
no secondo me di comprendere una modalità ricettiva che Benjamin

10 «Certe immagini di madonna rimangono invisibili per quasi rutto l'anno,


certe sculture dei duomi medioevali non sono visibili per il visitatore che stia in
basso. Con l'emancipazione di determinati esercizi artistici dall'ambito del rituale,
le occasioni di esposizione dei prodotti aumentano» [W. Benjamin, L'opera ciarle nel­
l'epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. Einaudi, Torino 1966, p. 27).
" l/W.,p.43.J
205

ricavò dalle reazioni del pubblico cinematografico, un pubblico che è


rilassato e insieme spiritualmente presente.

Si confronti la tela su cui viene proiettato il film con la tela su cui si trova
il dipinto. Quest’ultimo invita l’osservatore alla contemplazione, di fronte
ad esso lo spettatore può abbandonarsi al flusso delle sue associazioni. Di
fronte alla immagine filmica non può farlo [7..]. Effettivamente, il flusso as-
sociativo di colui che osserva queste immagini proiettate viene immediata­
mente interrotto dal loro mutare. Su ciò si basa l’effetto di shock del film,
phe,_come ogni effetto-di~shock, esige di essere intercettato da una accre­
sciuta presenza di spirito. In virtù della sua struttura tecnica, il film scate­
na lo stesso shock fisico del dadaismo, liberandolo però da queU'imballag-
gio semplicemente morale in cui il dadaismo lo aveva impacchettato (ibid.,
pp. 43-4^7

Dopo essersi spogliata dell'aura, l’opera d’arte libera da sé — in


una sequenza di shock — esperienze che prima stavano racchiuse nel-
l’esotericità dello stile. Nella consapevole elaborazione di questi
shock Benjamin registra irdìssolversi essoterico di quel sortilegio
cultuale che il carattere affermativo della cultura borghese gettava
sul losservatore j>ol i tarici
La diversa funzione che l’opera d’arte assume nell’emanciparsi
«dalla dipendenza parassitarla del rituale religioso» viene intesa da
Benjamin come urià~pólìticizzazione dell’arte. «Al posto della sua
fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale
a dire il suo fondarsi sulla politica» (ibìd., p. 27). Certo, di fronte a
un’arte di massa fascista che si pr e t e n d e va pò 1j.t icj z zara, Benjamin,
denuncia (non meno di Marcuse) il pericolo di un falso superamento
dell’arte autonoma. L’arte propagandistica del nazisti realizzava certo
]a liquidazione dell’arte come sferaautonorna, tuttavia, dietro la.ma­
schera della politicizzazione, essa finiva.per estetizzare la nuda vio­
lenza politica. Essa sostituiva il distrutto valore cultuale dell’arte bor-
ghese con un valore prodotto per manipolazione. Il sortilegio cultua­
le veniva infranto solo per essere rinnovato in maniera sintetica: la ri­
cezione di massa diventava suggestione di massa.
Sembra proprio che la teoria benjaminiana dell’arte sviluppi già
quel concetto di cultura che — tipico della critica dell’ideologia, —
sarà ripreso da Marcuse l’anno successivo. Ma sono paralleli inganne-
voli. Io registro quattro differenze essenziali.
206

In primo luogo Marcuse critica come apparenza ideologica le fi­


gure esemplari dell’arte borghese, sottolineando in esse la contraddi­
zione esistente tra ideale e realtà. Da questa critica il superamento
dell’arte autonoma deriva come una sorta di conseguenza logica. Per
contro Benj amin non solleva nessun a o b i ez i o ne critica contro una
cultura borghese ancora stabile nella sua sostanza. Egli descrive quel-
l’oggettivo disintegrarsi dell’aura su cui poggia l’apparente autono­
mia dell’arte borghese. Egli procede in maniera descrittiva, regi­
strando semplicemente quella trasformazione funzionale dell arte che
ìrTKfarcuse troviamo invece anticipata nella prospettiva di un rivolu­
zionamento dei rapporti borghesi di vita.
In secondo luogo, colpisce il fatto che Marcuse, così come l’esteti­
ca idealistica in genere, si limita ai periodi che la stessa coscienza
borghese ha riconosciuto^come classici. Il concetto di «bello artisti­
co» cui Marcuse si orienta viene desunto dall'arte simbolica, cioè dal-
l’arte nella quale la sostanza viene a manifestazione. Le opere d’arte
classiche (soprattutto il romanzo e la tragedia borghese in letteratura)
si prestano in modo particolare a essere oggetto della critica ideologi-
ca per via del loro carattere affermativo (così come il moderno diritto
nàruralenel campo della filosofia politica).
Invece l’interesse di Benjamin è rivolto alle forme «non affermati­
ve» di arteTServendosi del dramma barocco, egli prospetta il concet-
to di allegoria come un concetto antitetico alla totalità individuale
dell’opera trasfigurante12. LaHegoria esprime un’esperienza negativa
dì^otferenza, oppressione, conflitto e fallimento. Essa contrasta con
lane simbolica che vuole riflettere e anticipare positivamente feli-
cità, libertà, conciliazione e adempimento. Mentre l’arte simbolica
ha ancora bisogno di una «critica della ideologia» che daiì'esterno la
decifri e la superi, l’allegoria è già in se stessa critjca, o quanto meno
vi rimanda intuitivamente.

12 «Mentre nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità fuggevolmente si


rivela il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, nella allegoria si
propone agli occhi dell’osservatore la faci# hippocrattca della storia come un pietrifi­
cato paesaggio primevo È questo il nucleo della concezione allegorica, della
esposizione barocca, mondana della storia in quanto storia dei dolori del mondo; che
è significante soltanto nelle stazioni del suo decadere» (W. Benjamin, Il dranmia ba­
rocco tedesco, eie., p. 174J.
207

Ciò che resta è il curioso dettaglio dei rimandi allegorici: oggetto di cono­
scenza che si annida nel ripensamento riflessivo delle rovine. La critica è una
.mortificazione delle opere. A questa mortificazione si presta, meglio di qua­
lunque altra, la sostanza di questa produzione13.

In terzo luogo, importa rilevare che mentre Marcuse risparmia


quelle trasformazioni avanguardistiche dell’arte borghese che non so­
no colpite dalla critica dell’ideologia, Benjamin individua il processo
di superamento dell’arte autonoma lungo la storia della modernità.
Benjamin non solo vede nella nascita delle gradi masse urbane la ma­
trice «da cui nasce rinnovato ogni comportamento tradizionale nei
confronti delle opere d’arte» (AS, I, p. 172), ma scopre anche un
punto di contatto con questo fenomeno proprio nelle opere che sem­
brerebbero ermeneuticamente più lontane da esso. «La massa è tal­
mente intrinseca a Baudelaire che si cerca invano in lui una descri­
zione di essa» [Di alcuni motivi in Baudelaire^ tr. ir. in Angelus novus,
cit., p. 101]. Perciò Benjamin si oppone a una comprensione superfi­
ciale deH’tfr/ pour l’art.

Sarebbe ora di affrontare una impresa che ci illuminerebbe come nessun’al-


tra sulla crisi delle arti cui stiamo assistendo: alludo a una storia della poe­
sia esoterica (...]. Sulla sua ultima pagina noi dovremmo trovare la radio­
grafia del surrealismo (AS, II, p. 207).

Benjamin segue le tracce della modernità solo perché esse condu­


cono al punto dove «la sfera della poesia viene fatta saltare daH’inter-
no» (ibid, p. 201). L’inevitabilità del^superam.enxo_del 1 arte autonoma
deriva inJBenjamin dallajric.os.Ctuzipne.di ciò che dell’arte borghese
lavanguardia artistica disvela, proprio nel processo di trasformarla.
In quartoiuogo, la differenza fondamentale con Marcuse sta_ nel
fatto che Benjamin concepisce la dissoluzione dell'arte autonoma co­
inè il risultato di una,rivo1 uzione nelle tecniche di riproduzione.
Confrontando tra loro le funzioni della pittura e della fotografia,
Benjamin sottolinea Le.,conseguenze prodotte dalle nuove tecniche
che si affermano nej_ corso deH’Ottocento. Rispetto alle precedenti
procedure di stampaggio_mnsistenti nel versare, imprimere, intaglia-
re legno, incidere rame, premere pietra, le nuove tecniche di riprodu-

B 1/W., p. 193J
208

zione rappresentano una fase nuova, paragonabile cutc’al più alla sco­
perta della carta stampata. Ai suoi tempi Benjamin può già osservare
nelle riproduzioni fonografiche, fìlmiche e radiofoniche un processo
che si sarebbe poi accelerato con i media elettronici. Queste tecniche
riproduttive modificano la struttura interna dell’opera d’arte. Da .un
lato l’opera perde in individualità spazio-temporale, dall’altro guada-
gna in autenticità documentaria. La struttura temporale deli’«effime-
ra ripetibilità» rimpiazza quella di «inconfondiBile durata» tipica
dell’arte autonoma, distrugge l’aura — «l’apparizione irripetibile di
una distanza» - ^affina il «senso per ciò che nel mondo è congene-
re». Spogliate della loro aura, le cose si avvicinano alle masse anche
perché il mezzo tecnico,Jnserendosi tra la selettività degli organi di
senso e l’oggetto, ri produce .questo oggettojn maniera più esatta e
realistica. Tuttavia l’autenticità della cosa pretende ora un’applicazio­
ne costruttiva cjei~mezzi reàrisucFHrrTpródùzTóhè/dunque montaggio
e interpretazione letteraria (cioè diritto d’autore sulle fotografie)14.

2. Queste distinzioni mostrano come Benjamin non si lasci gui­


dare da un concetto di arte orientato alla critica dell’ideologia. Il dis­
solvimento dell’arte autonoma cui mira Benjamin è altra cosa dal
«superamento della cultura» richiesto da Marcuse. Laddove Marcuse,
paragonando l’ideale alla realtà, porta a coscienza il contenuto incon­
scio dell’arte borghese (arte che giustifica e, senza volerlo, denuncia
la realtà borghese), l’analisi di Benjamin rinuncia fin daH’inizio alla
forma
*•— dell
— ’autoriflessione.
------ - ---------- ... Laddove Marcuse — dissolvendo analitica-
mente l’apparenza oggettiva - vuole smascherare i consolidati rap­
porti materiali di vita, renderli suscettibili di trasformazione e pro­
muovere così il superamento della cultura in cui questi rapporti si ir-

14 Anche qui Benjamin vede nel dadaismo un precursore delle arci tecniche: «La
forza rivoluzionaria del dadaismo consisteva nel mettere alla prova l’arte nella sua
autenticità. Si componevano nature morte incollando biglietti, nastri, mozziconi di
sigaretta, con i tradizionali mezzi pittorici. Poi l’opera veniva incorniciata. Ed era
come se si dicesse al pubblico: — vedete? la cornice dei vostri quadri fa saltare il
tempio, e il più piccolo frammento di vita quotidiana diventa più rivelativo della
pittura. Proprio come l’impronta digitale insanguinata di un assassino sulla pagina
del libro diventa più rivelativa del testo stampato. Molti di questi contenuti rivolu­
zionari del dadaismo si sono poi salvati passando nel fotomontaggio» (W. Benja­
min, Versucbc iiber Brecht, eie., p. 206).
r

209

rigidiscono, Benjamin non può intendere il suo compito jie£ termini


di un attacco portato contro un arte gTa in via di dissoluzione. Nei
confronti del suo oggetto la critica di Benjamin si atteggia sempre in
maniera conservatrice, sia che si tratti del dramma barocco tedesco o
delle Affinità elettive di Goethe, delle Fleurs dii di Baudelaire o
dei film sovietici degli anni Venti. Questa critica mira certo alla
«mortificazione delle opere» [cfr. Il dramma barocco tedesco, tr. it. cit.,
p. 193], ma il fine di questa «devitalizzazione» è quello di trasferire
l oggetto della conoscenza dal medium del «bello» al medium del
«vero», e con ciò stesso di salvarlo.
L'impulso salvifico spiega la peculiare concezione benjaminiana
della storia1*. La storia è“36minàta da una causalità mistica. «Ce
un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra [...]. A noi, co­
me ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una
debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto» [Tesi di filosofia
della storia, tr. it. in Angelus novus, cit., p. 76]. Questo diritto può es­
sere azionato solo se lo sguardo storico s’impegna sempre di nuovo
nella redenzione del passato. Questo impegno j^conservatore in un
senso eminente «poiché è una immagine irreypcabile_del_passato che
rischia di svanire ad ogni presente che non si riconosca significato,
indicato in esso» [ibid., p. 77]. Se questo diritto viene disatteso, allo­
ra «il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto
coloro che lo ricevono» [ibid., pp. 77-78].
La continuità della storia consiste per Benjamin nel permanere
deH’insopportabile. Progresso è l’eterno ritorno della catastrofe. «Il
concetto di progresso dev’essere fondato nell’idea di catastrofe», scri­
ve Benjamin in Parco centrale, un appunto preparatorio al lavoro su
Baudelaire [tr. it. in Angelus novus, cit., p. 141], «La catastrofe è che
tutto continui come prima». Perciò la salvezza «deve realizzarsi quan­
do già stiamo saltando nella catastrofe» (AS, I, p. 260). L’idea di un
presente in cui il tempo si arresti e si metta in attesa appartiene a una
delle^intuizioni più antiche di Benjamin. Nelle Tesi di filosofia della
storia, scritte poco prima della sua morte, troviamo questa afferma­
zione centrale:

15 R. Ticdemann, Studien zur Pbiloiophie Walter Benjamins, eie., p. 103 e sgg.;


H.D. Kicrsceiner, Die Geschicbtsphilosophischen Thesen, «Alternative», nn. 55-56,
pp. 243-251.
210

La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo


e vuoto, ma quello pieno di «attualità» [Jetztzeit]. Così, per Robespierre, la
Roma antica era un passato carico di attualità, che egli faceva schizzare dal­
la continuità della storia (Tkn di filosofìa della storia, tr. it. in Angelus novus,
cit., p. 83].

Uno dei suoi primi saggi, quello su Das Leben der Studenten [La vi­
ra degli studenti] si apre nella stessa prospettiva.

C’è una concezione della storia che confida nell’infinità del tempo e si limi­
ta a distinguere il ritmo con cui uomini ed epoche s’inseriscono - più o me­
no celermente - nella corsia del progresso [...]. Noi risaliamo invece, così co­
me è sempre avvenuto nelle immagini utopiche dei filosofi, a una determi­
nata posizione la quale, come in un punto focale, concentra in sé tutta la sto­
ria. Gli elementi costitutivi di questa posizione finale non sono dati in anti­
cipo quali confuse tendenze progressiste, ma sono inclusi nel profondo dì
ogni presente come creazioni e pensieri fragili, screditati e irrisi (AS, I, p. 9).

Certo, l'interpretazione àe\\'intervento salvifico che riscatta un passato


si è modificata rispetto alla «dottrina de 11 e idee^ contenuta nel libro
sul dramma barocco tedesco. Allora, lo sguardo rivolto al passato ser-
viva a trasferire nel mondo riparato delle idee il fenomeno da salvare,
sottraendolo al divenire e allo scomparire. Entrando nella sfera del-
1 eternità, iTTenomeno primordiale lasriava^cadere tutti i suoi prece­
denti e le sue conseguenze storiche (ora fattesi virtuali) quasi fossero
un vestito relativo alla storia naturale [cfr. «Premessa gnoseologica»,
in II dramma barocco tedesco, tr. it. cit., p. 25 e sgg.J. Successivamente
questa costellazione di «storia naturale ed eternità» cede il posto alla
costellazione di «storia e attualtrzrf-/etZTzfit]»: 1 ’arresto messianico
dell’evento prende il posto che prima occupava.Torigine16. Tuttavia
Onerai cri minacciente sia i vivi che i morti — nel caso in cui prenda
piede non la critica salvifica bensì l’oblio — resta sempre lo stesso: il
potere di un destino mitico. Il mito caratterizza un genere umano
— irrimediabilmente sviato dalla sua vocazione alla vita giusta e
buona - si ritrova esiliato nel ciclo riproduttivo della mera sopravvi-

16 B. Lindner, Natur-Geschichte: cine Geschichtsphilosophie und Welterfahrung in


Benjannns Scbrifun, «Text und Kririk», nn. 31-32, 1971, p. 18.
211

yenza17. Il destino mitico può essere arrestato sempre soltanto per


brevi istanti. I frammenti d’esperienza che — sottratti al destino e al­
la continuità del tempo vuoto — vengono per questi brevi istanti ri­
conquistati all’attualità dello /erz/zez7 costituiscono la sostanza,..della
tradizione messa in pericolo^ A questa^tradizione appartiene la storia
(jell'arte. Tiedemann cita questa frase dal Passagenwerk".

In ogni autentica opera d’arte ce un punto in cui, a chi vi si espone, soffia


il vento di un'alba ventura. Ne consegue che l’arte, spesso ingiustamente
accusata d’essere refrattaria al progresso, può invece servire a definire auten­
ticamente il progresso. Il progresso non risiede _nella._GOnrinuirà dello scor­
rere temporale, bensì nelle sue interruzjoni_e interferenze: là dove qualcosa
di autenticamente nuovo si rende per la prima volta percepibile con la fre­
schezza dell’alba (citato in R. Tiedemann, Studien, cit., p. f03 e sgg.’X

In questo contesto va anche visto quel progetto di una «preistoria


della modernità» che Benjamin realizzò solo frammentariamente.
Baudelaire era diventato per lui una figura centrale in quanto la sua
poesia «fa apparire il nuovo nel sempreuguale e il sempreuguale nel
nuovo» [Parco centrale, tr. it. in Angelus novus, cit., p. 137].
La critica di Benjamin scopre, negli accelerati processi d’invec­
chiamento che si fraintendono come progresso, la coincidenza con il
tempo immemoriale. Essa identifica, nella modernizzazione delle for­
me di vita spinta avanti dalle forze produttive, una mitica «coazione
a ripetere» affermantesi nello stesso capitalismo: il sempreuguale den­
tro il nuovo. Ma la critica di Benjamin mira a salvare un passato ca­
rico di «attuaiità» e, cosi.facendo, si differenzia dalla critica delficieo-
logia. La critica di Benjamin si accerta dei momenti in cui la sensibi-
Ììtaartistica arresta H.destino camuffato da progresso e decifra l’espe­
rienza utopica nell’ i_m niagine dialettica: jl nuovo dentro il sempreu­
guale . Il rovesciarsi della modernità in preistoria ha in Benjamin que­
sto significato ambivalente. P rei stori co [ U rgeschichtlich] è sia il mito
sia il contenuto di quelle immagini che devono essere strappate al
mito e che — per essere salvate come tradizione di un progresso vero —
devono essere criticamente rinnovate in un altro presente (un presen-

17 In questo senso le scienze del disincanto come la teoria sistemica e la psicolo­


gia comportamentale trattano l'uomo da essere «mitico».
212

te per così dire «atteso») e tradotte in una versione differente. La


concezione antievoluzionistica della storia coltivata da Benjamin -
concezione secondo la quale Inattualità» si contrappone trasversal­
mente al «continuum» della storia naturale — non si rende del tutto
cieca jiei confronti delle possibilità emancipative del genere umano.
Tuttavia è assai pessimista circaJajjossibilità che le.irruzioni puntua-
li che spezzano il sempreuguale possano trovare collegamento con la
tradizione invece di caderej/irtLmardell'óblio?
Oltre a ciò Benjamin conosce anche una continuità che, nel suo
progresso lineare, spezza sì il circolo della storia naturale ma proprio
perciò minaccia la sostanza della tradizione. Si tratta della continuità
del «disincantamento», il cui ultimo stadio viene diagnosticato da
Benjamin come perditadell’aura.

Nella preistoria l’opera d’arte, per via dell’assoluta preminenza_arx-FÌbuiia_al


suo valore cultuale, venivrànzitutto vista come uno strumento di magia, e
solo successivamente fu intesa anche come un 'opera jTarteOggi, l’opera
d'arte, per via deil’assoluta preminenza attribuita al suo valore di esposizio­
ne, diventa_una creazione dalle funzioni totalmente nuove. Ma di queste
funzioni quella che oggi ci è più familiare, quella estetica, potrebbe in fu­
turo rivelarsi come assolutamente secondaria (AS, I, p. 157).

Benjamin non ci spiega per nulla questa de-ritualizzazione del­


l’arte. Dobbiamo dunque intenderla come un aspetto di quel proces­
so universale di razionalizzazione che le forze produttive determina­
no nelle forme sociali di vita con il mutare della struttura economi­
ca: anche Max Weber usava il termine «disincantamento». L’arte au­
tonoma si afferma soltanto nella misura in cui, con la nascita della
società borghese, i sistemi derTeconomia e del la poi itica si staccano
dal sistema culturale e nella misura in cui le visioni tradizionali del
mondo, minate alla radice daH’ideologia dello scambio eguale, libe­
rano le arti dalla loro funzione rituale18. E_grazie al suo carattere di
merce che l’arte viene resa disponibile alla privata fruizionè^fi-ùn
pubblico borghese di lettori e di spettatori (in teatri, concerti e mo-

18 Qui -autonomia» significa indipendenza delle arti dalle pretese esterne del
loro impiego. Invece l'autonomia della produzione artistica in quanto tale si era già
sviluppata prima, all'interno delle forme di sostentamento offerto dai mecenati.
213

stre)19. Ma proprio lo sviluppo di questo processo cui l’arte deve l_a


sua autonomia è anche responsabile della sua liquidazione. Già nel
corso dell’Ottocento il pubblico delle persone private viene sostituito
dai collettivi urbani delle masse lavoratrici. Perciò Benjamin si con­
centra su Parigi (come la capitale per eccellenza) e sul fenomeno del­
l’arte di massa. Al termine del passo che abbiamo citato egli scrive
infatti: «È quanto meno evidente che oggi sono la fotografia e il film l
a fornirci le conoscenze più utili per conoscere questa deritualizzazio- /
ne dell’arte» (ibidem). I

3- Su nessun punto Adorno ha contraddetto Benjamin più che su


questo^Nell’arte di massa che nasce dalle nuove tecniche di riprodu­
zione Adorno vede una degenerazione dell’arte. Pur avendo aU’inizio
facilitato l’autonomia dell’arce borghese, il mercato fa po[ nascere
un’industria culturale che penetra nei pori dell’opera d’artee, parai -
lelamente alla sua mercificazione, impone_allo spettatore unatteg-
giamento consumistico.
Adorno ha per la prima volta sviluppato nei confronti del jazz
questa critica, in un saggio del 1938 intitolato Fetischcharakter in der
Mnsik und die Regressioni des Horens [tr. it. in Dissonanze, Feltrinelli,
Milano 1974, pp. 9-51]. Dopo averla applicata a tutta una quantità
di oggetti, Adorno ha infine riassunto e generalizzato questa critica
nelle pagine della sua postuma ì\.sthetische Theorie con il titolo «Disar­
tizzazione dell’arte».

Dell’autonomia delle opere d’arre, che indigna i clienti della cultura per il '
fatto che li si ritiene qualcosa di meglio di ciò che essi credono di essere, non ’
resta se non il carattere feticistico della merce (...]. Tuttavia intesa come ta­
bula rasa di proiezioni soggettive l’opera d’arte viene squalificata. I poli del­
la sua disartizzazione sono che essa venga resa tanto res fra res quanto veicolo
della psicologia dell’osservatore. Ciò che le opere d’arte reificate non dicono
più, l’osservatore lo sostituisce con l'eco standardizzata di se stesso, che ria­
scolta da quelle. L’industria culturale mette in moto questo meccanismo e lo
sfrutta [Teoria estetica, tr. it. Einaudi, Torino 1975, pp. 26-27].

19 A. Hauser, Sozialgeschichte der Kunst, 2 Bde, Miinchen 1953 {tr. ir. Storia socia­
li ddl'arte, Einaudi, Torino 1987]; J. Habermas, Strukturu-andd dcr Oeffentlichkcit,
Neuwied 19715 (tr. it. Storia e critica deU'opinione pubblica, Laterza, Bari 1974).
214

L’esperienza storica che si riflette in questa critica dell’industria


culturale è una delusione nei confronti non tanto del declino storico
di arte, religione e filosofia, quanto piuttosto nei confronti delle suc­
cessive parodie di un loro superamento. Se ci è lecito una semplifica­
zione eccessiva, possiamo caratterizzare la costellazione della cultura
borghese nell’epoca del suo apogeo a partire dalla dissoluzione delle
visioni del mondo tradizionali, dunque in primo luogo dal ritiro del-
la religione nella sfera delle «potenze di fede» privatizzate, in secon-
doluogo dal collegarsi della filosofia empiristica e razionalistica alia
fisica moderna, in terzo luogo dallautonomizzarsi di un’arte cui toc-
ca ora il compito di «compensare» i sacrifici della razionalizzazione
capitalistica. L’arte diventa così la riserva per il soddisfacimentQ (sep­
pure solo virtuale) di bisogni messi per così dire fuori legge dal ma-
teriale processo di vita della società borghese. Penso al bisogno di un
rapporto mimetico con la natura (sia quella esterna sia quella del pro­
prio corpo), al bisogno di una convivenza solidale, al bisogno di una
felice esperienza comunicativa che, sottraendosi agli imperativi della
razionalità strumentale, lasci spazio alla fantasia e al comportamento
spontaneo. Tuttavia, questa costellazione della cultura borghese non
potè affatto stabilizzarsi. Come accadde allo stesso liberafismo, ancHè
la cultura borghese durò soltanto per un istante e poi dovette soc-
combere alla dialettica deH’illuminismo~(o meglio, a quello stesso ca­
pitalismo che la veicolava in maniera tanto travolgente).
Già Hegel, nella sua Estetica, aveva annunciato la perdita dell’au­
ra20. Hegel concepiva l’arte e la religione come forme limitate del sa-
pere assoluto, le quali vengono poi penetrate dalla fdpsofia-qjiale li­
bero pensiero dello spirito assoluto. In tal modo egli metteva in mo-
vimento una dialettica del «superamento» che avrebbe presto trava-

20 «L’arte ai suoi inizi lascia ancora sussistere un che di misterioso, un presenti­


mento pieno di mistero, uno struggimento [...]. Ma se il contenuto compiuto è
compiutamente venuto a rilievo in forme artistiche, lo spirito lungimirante ritorna
nel proprio interno a partire da questa oggettività [Ohjektivitàt] che ora esso respinge da
sé. Quest’epoca è la nostra. Si può, sì, sperare che l’arte si innalzi e si perfezioni sem­
pre di più, ma la sua forma ha cessato di essere il supremo bisogno dello spirito. E
per quanto possiamo trovare eccellenti le immagini degli dèi greci, e vedere degna­
mente e perfettamente raffigurati il Padreterno, Cristo e Maria, tuttavia questo non
basta più a farci inginocchiare» (G.W.E Hegel, Estetica, tr. it. Einaudi, Torino 1967,
pp. 120-121 ; corsivo di HabermasJ.
X

215

licaro i limiti della sua logica. I suoi allievi perfezionano infatti upa
critica profana prima della religione e poi della filosofia, per giunge­
re da ultimo al superamento della stessa filosofia (ovvero alla realiz­
zazione di essa) nellambito di un superamento del potere politico.
Questo è, com’è noto, il contesto in cui nasce la critica di Marx al­
l’ideologia. E qui emerge anche ciò che nella costruzione hegeliana
stava ancora nascosto. Vale a dire la posizione speciale che, nell’ambi­
to delle figure dello spirito assoluto, l’arte viene ad assumere per il
fatto che — lungi dall’accollarsi funzioni positive per il sistema eco­
nomico e quello politico, come nel caso della religione privatizzata e
della filosofia scientificizzata — essa viene piuttosto a catturare i biso­
gni residuali che non possono essere soddisfatti nel «sistema dei biso­
gni», ossia nell’ambito della società borghese. Per questo motivo la
sfera dell’arte rimane curiosamente risparmiata dalla critica ideologi­
ca fin dentro il XX secolo Nel momento in cui anch’essa finalmente
cade vittima di questa critica/u modo ironico in cui erano state «su­
perate» religione e filosofia era già diventato evidente per tutti.
Oggi la religione non è neppure più una faccenda privata. Tutta­
via nell’ateismo di massa sono andati persi anche i contenuti utopici
della tradizione. La filosofia si è spogliata della sua pretesa metafisi­
ca, ma nello scientismo dominante sono cadute anche quelle costru­
zioni concettuali di fronte a cui la cattiva realtà doveva giustificarsi.
Nel frattempo si è persino parlato di un «superamento» della scien­
za. Esso ne distruggerebbe l’apparente autonomia in virtù non di una
sua regolazione discorsiva, bensì di una sua mera funzionalizzazione
al carattere irriflesso e naturalistico degli interessi21. È in questo con-
testo che va letta la critica di Adorno a ogni falso superamento del-
1 arte che non si limiti a distruggerne l’aura, macche si spingala col­
pire, insieme alla sua organizzazione repressiva, anche la sua intrinse­
ca pretesa di verità.
Il disappunto contro ogni falso superamento (proclamato ma non
realizzatofsìa della reiigione sia della filosofia e dell'arte ha suscitato,
in Adorno, per reazione, un atteggiamento di irrigidita esitazione.
Pur continuando astrattamente ad affermare che lo spirito assoluto va
eliminato, Adorno non crede più dijpotere dkre realizzazione allo spi-

21 È la tesi sviluppata da G. Bòhme, W. van den Dacie e W. Krohn nei loro stu­
di sulla finalizzazione della scienza.
216

rito assoluto sul piano della prassi. A ciò si collega un’opzione per la
salvezz^erotorà dei momenti veri. Questo è ciò che contrappone
Adorno a Benjamin, per il quale invece ì momenti veri della tradi-
zione o vengono salvati per lo stato messianico in maniera essoterica
oppure non vengono salvati affatto. Control 1 falso superamento del-
la religione Adorno (ateo come Benjamin, seppure in manieradiyer-
sa) propone il recupero dei contenuti utopici quali fermento di un
ostinato pensiero critico, e tuttavia non nella forma di una generaliz­
zata illuminazione profana. Contro il falso superamento della.filoso­
fia Adorno (non meno antipositivista di Benjamin) propone il recu­
pero dell’impulso trascendente in una critica che è sì per certi versi
autarchica, ma che tuttavia non penetra dentrólescienze positive per
generalizzarsi come una loro autoriflessione. Contro il falso,supera-
rnento^deLTarte aùtònomanAdorno propone Kafka^Schònberg e la
modernità ermetica, e tuttavia non quell’arte di massa che renderete
be pubbliche le esperienze incapsulate dall’aura. Dopo aver letto il
manoscritto di Benjamin sull’opera d’arte, Adorno (in una lettera
del 18 marzo 1936, ora in Th.W. Adorno, Uber Walter Benjamin, eie.,
p. 127 e sgg.) gli rimprovera quanto segue.

Il centro dell’opera d’arte non si colloca anch’esso sul versante mitico (...)
Per quanto il Suo lavoro sia dialettico, esso non lo è nei confronti dell’opera
d’arte autonoma. Esso non coglie l’esperienza elementare — da me quotidia­
namente vissuta nella musica — per cui è proprio lo sviluppo coerente ed
estremo di una legge tecnologica interna all’arte ciò che modifica questui*
rima, rendendola non qualcosa di tabuizzato e feticizzato, bensì qualcosa di
liberamente e consapevolmente producibile e fattibile.

Dopo la distruzione delTaura, solo l’opera d’arte formalistica e


inaccéssìETÌe alle masse resiste alle pressioni che vorrebbero assimilai
la ai bisogni e agli atteggiamenti imposti dal mercato.
Adorno persegue una strategia d'ibernazione, la cui debolezza sta
evidentemente nel suo carattere difensivo. È interessante notare che
la tesi di Adorno si lascia facilmente dimostrare — con esempi lette­
rari o musicali — nei^ settori che ancora dipendono da tecniche di ri-
produzione implicanti lettura solitaria e ascolto^contemplativo (la via
regia dell’individuazione borghese). Per le arti invece che hanno una
ricezione collettiva (architettura, teatro, pittura), così come per la let-
teratura e la musica popolare la cui diffusjpne_dipendf- oggi da media
217

elettronici, sembra registrabile uno sviluppo che va al di là della


semplice industria culturale e che nonvalida a priori le speranze di
Benjamin in una generalizzata illuminazione profana.
Certo, anche per Benjamin la de-rituafizzazione mantiene un sen­
so ambivalente. È come se Benjamin temesse una cancellazione del
mito non accompagnata dall’avvento della liberazione. Quasi che il
mito potesse alla fine essere sconfitto e tuttavia, impedendo che i suoi
contenuti si trasferiscano nella tradizione, continuasse a trionfare an­
che nella sconfitta. Infatti, dopo che il mito ha indossato la maschera
del progresso, quelle immaginicele solo la tradizione è in^grado di
«stanare» dai recessi più interni, deimito rischiano ora di cadere a rer-
ra e di farsi irrecuperabili alla critica che salva. Così il nemico cui
Benjamin contrappone tutto il pathos della salvezza è il miro che —
annidatosi dentro la modernità —si esprime nella fede posjti_vistica del
progresso. Lungi dall’essere una garanzia di liberazione, la de-ntualiz-
zazione implica anchedl rischio di una perdita specifica di esperienza.

4. Benjamin è sempre stato ambiguo nei confronti della perdita


dell’aura22. Infatti, nell’aura dell’opera si nasconde l’esperienza stori-
ca di un’«attualità» del passato che vuole essere rinnovata: se l’aura
sj frantuma in maniera non dialettica, quella esperienza va persa, Al­
l’epoca in cui, ancora studente, Benjamin ardiva scrivere il Programma
di una filosofia del futuro (AS, II, pp. 27-41), il concetto di un’espe­
rienza non mutilata stava al centro delle sue riflessioni. Lì egli pole­
mizza contro un'esperienza ridotta «ai minimi termini», ossia contro
quell’esperienza deg 1 i oggetti fisici cui Kant aveva, in maniera. pa-
>radigmatica, orientato il suo tentativo di^tudiate le condizioni del­
l’esperienza possibile. Benjamin perjontro_di^_ndeJ^iù complessi,
modelli di esperienza tipici dei popoli naturali e dei pazzi, dei veg­
genti e degli artisti^In quegli anni egli sperava ancora che fosse la
metafisica a ristabilire il continuum sistematico dell'esperienza. Più
Tardi egli affiderà alla critica estetica questo compito. Nel trasferire il
«bello»_nel medium del «vero», la critica estetica deve fare attenzio­
ne che «la. verità non è un’esplicitazione che distrugge il mistero^

22 «Nella espressione fuggevole di un volto l’aura si fa per l'ultima volta sentire


nelle prime fotografie. Questo è ciò che le rende - al di là di ogni paragone - così
malinconiche c belle» (AS, 1, p. 158).
218

bensì una rivelazione che gli rende giustizia» [Il dramma barocco tede­
sco, tr. it. cit., p. 12]. Alla fine, il posto della bella apparenza come in­
volucro necessario viene preso dal concetto di aura. Nel frantumarsi,
I aura rivela il segreto dell’esperienza complessa.

L'esperienza dell'aura implica che si imputi, al rapporto che le cose inani­


mate e naturali hanno con l'uomo, una forma di reazione che è normale nel­
la società umana. Chi è guardato, o si crede guardato, alza gli occhi. Avver­
tire l'aura di una cosa significa dotarla della capacità di guardare [cfr. Di al­
cuni motivi in Baudelaire, tr. it. in Angelus novus, cit., p. 124].

L’aura può manifestarsi solo nel rapporto intersoggettivo di un Io


con il suo mteHocu'toYe (un «alter ego»). Imputando alla natura la
capacità di «alzare gli occhi», noi la trasformiamo da oggetto esterno
in un partner di comunicazione7~Dare universalmente vita alla nacu-
ra è una caratteristica delle visioni magiche del mondo. In esse non è
stata ancora perfezionata la separazione tra la sfera HéTl'oggettivazio­
ne(su cui noi disponiamo in modo manipolativo)^ la sfera deH’inter-
soggettività (in cui ci poniamo l’uno di fronte all’altro in modo comu­
nicativo). Nella visione magica il mondo è ancora organizzato secondo
analogie e corrispondenze, quali possiarrìo~vedere per esempio nelle
classificazioni totemiche. Un soggettivistico residuo percettivo di
queste corrispondente sono le associazionisinestetiche^
Nell’apparizione dell 'aura Benjamin svi lu pp_a_ Ijdea enfatica d i
un’esperienza che dev’essere criticamente conservata e attualizzata
(semprecché la promessa messianica di felicità debba realizzarsi).
D’altro canto egli considera la perdita dell’aura anche in una maniera
positiva.. Ritroviamo la stessa ambivalenza nel fattoche Benjamin ce-
lebra nell’arte autonomaTTe stesse qualità che caratterizzano anche
(opera d'arte deritualizzata. Anche l’arte che si è del tutto spogliata
oegli elementi cultuali — in maniera esemplare l’arte dei surrealisti, i

23 «L'importante è che le correspondences fissano un concetto di esperienza che ri­


tiene in sé elementi culturali. Solo facendo propri questi elementi, Baudelaire pote­
va valutare appieno il significato della catastrofe di cui egli, come moderno, si tro­
vava ad essere testimone. Solo così poteva riconoscerla come la sfida rivolta a lui so­
lo, e che egli ha accettato nelle Fleurs du mal» [W. Benjamin, «Di alcuni motivi in
Baudelaire-, in Angelus nwus, cit., pp. 117j. «Baudelaire descrive occhi di cui si po­
trebbe dire che hanno perduto la capacità di guardare» [ibid., p. 126).
T

219

quali hanno ripreso da Baudelaire l’idea delle correspondences — persegue^


lo stesso obiettivo dell'arte autonoma, ossia quello di sperimentare gli
oggetti quali felici «alter ego» in una rete di riscoperte correspondences.
------- ■ . ■ ■ ....................... ■ in™ !.................. , Il ■

Le correspondences rappresentano l’istanza davanti alla quale l’oggetto dell’ar­


te appare fedelmente riproducibile, anche se, proprio perciò, completamen-
te aporetico. Se si volesse ritrovare questa aporia nello stesso materiale lin-
guistico, si arriverebbe a definire il Tello come Póggettò delfesperienza nel­
lo stato della somiglianza (/ZwZ7”p7T18, nota).

Questa ambivalenza può essere risolta solo se noi separiamo, nel


concetto di apparizione auratica, il momento cultuale dai momenti ge­
nerali^ Con il superamento dell’arte autonoma e il frantumarsi del­
l’aura vengono meno sia l'accesso esoterico all’opera d’arte sia la sua
distanza cultuale dal l'osservatore. Di conseguenza scompare anche il
carattere contemplativo del piacere estetico solitario. Tuttavia l’espe­
rienza che si libera con lo scoppio deH’involucro auratico — ossia il
trasformarsi dell'oggetto esterno in una controparte comunicativa -
era già in qualche modo contenuta nella stessa esperienza dell’aura.
Ecco dischiudersi allora un campo di sorprendenti «corrispondenze»
tra la natura animata e quella inanimata, mentre vediamo anche le
«cose» venirci incontro nelle strutture di un’intersoggettività vulne­
rabile. In queste strutture, il rivelarsi della sostanza Idas erscheblende
Wesen] si sottrae aH’oggettiyistica manipolazione deH’immediatq.
Quella« vicinanza delFalfro» che appare interrotta dalla distanza [die
in der Ferne gebrochene Nà'he des Anderen] è la cifra deTf’adempimento
possibile e di una felicità reciproca24. Benjamin vorrebbe una situa­
zione che rendesse pubbliche e generali le esperienze esoteriche di fe­
licità. Infatti, solo in un contesto comunicativo in cui fosse ricompre­
sa anche la natura — una natura risorta e affratellata — rutti i soggetti
potrebbero per davvero «rialzare gli occhi».
Con la sua de-ritualizzazione, l’opera d’arte corre il rischio di di­
ventare banale e di perdere, assieme all’aura, anche il suo contenuto
di esperienza. Per converso solo la distruzione dell'aura dischiude la,
possibilità di universalizzare e stabilizzare l’esperienza della felici tip

24 Sull'idea di «conciliazione con la natura» che guida molte speculazioni di


Adorno, soprattutto in Alsn/wa moralia (Frankfurt a.M. 1951), cfr. saprà, cap. Vili.
220

La perdita dell'involucro protettivo - da parte di una felicità che si fa


essoterica e impara a fare a meno della rifrazione auratica — produce
un'esperienza aitine al rapimento del mistico, il quale è interessato
non tanto a Dio quanto alla sensazione della sua presenza-e.aH'attua-
ìirà della sua vicinanza. Sennonché il mistico chiude gli occhi ed è
solitario: la sua esperienza e la trasmissione di questa esperienza re­
stano cose esoteriche. Proprio questo aspetto distingue dall’esperien­
za religiosa l'esperienza di felicità cui mira la critica salvifica di Benja­
min. Egli chiama profana l’illuminazione presente negli effetti delle
opere surrealiste, le quali non sono più arte autonoma bensì manife­
stazione. s.ogan. documento, bluff e inganno. Queste opere cLrendo-
no coscienti de! fatto che «noi penetriamo il mistero solo nella misu-
ra in cui lo ritroviamo nel quotidiano, in virtù di un’ottica dialettica
che riconosce ciò che è quotidiano nell’impenetrabile e ciò che è im­
petrabile nel quotidiano» (AS, II, p. 213)- Questa espgrienza è prò-
a in quanto è essoterica.
Nessuna interpretazione — nemmeno quella che lotta per guada­
gnarsi l'anima dell’amico, come fa l’affascinante contributo di Scho-
lem al volume, curato da Siegfried Unseld, Zur Aktualitàt Walter Ben-
jamins, Frankfurt a.M. 1972 — potrà mai «mettere tra parentesi» la
rottura che Benjamin volle compiere nei confronti dell’esoterismo.
Reagendo con intelligenza alla crescita del fascism.Q, Benjamin si ve­
de costretto a rompere con queU’esoterismo che aveva in gioventù
coltivato sotto il concetto dogmatico di Lehre [dottrina], Benjamin
scrive ad Adorno che «per affrontare con qualche speranza di succes­
so il suo voio necessariamente rischioso, la speculazione non-deve in-
dossare^je ali di egra dell'esoterismo, ma vedere j 1 ,.suoxentro di forza
soltanto nella costruzione» (JBriefe, voi. II, p. 793). Con altrettanta de­
cisione Benjamin si volge contro l’esoter i s mo dell 'ad em pimento e del­
la felicità. Benjamin ha di mira - ciò che a Scholem pare quasi un rin­
neganeen to — un «superamento vero e crear ivo d e 11 a i 1 luminazione reli­
giosa .]. Esso consiste in una illuminazione profana r in una ispira­
zione materialistica e antropologica», nei confronti_del_la quale l’esta­
si sciitaria^ò_al_lDassimo servire da premessa (AS, II, p. 202).
Se ora, a partire da questa prospettiva, noi riconsideriamo la tesi
di Benjamin sul superamento dell’arte autonoma, allora capiremo
perché essa non deve essere intesa come una «critica della ideologia».
Benjamin propone una teoria dell’arte come teoria dell’esperienza
221

(ma non dell’esperienza della riflessione)25. Nelle forme dell’illumi­


nazione profana, l’esperienza dell’aura fa saltare l’involucro auratico e
si fa essoterica. Essa non deriva da un’analisi che porti alla luce il ri­
mosso e liberi il represso. Contrariamente a come vorrebbe la rifles­
sione, questa esperienza viene guadagnata recuperando una semantica
divelta dal mito, liberata e insieme conservata messianicamente (a fi­
ni emancipativi) nelle grandi opere artistiche. Ciò che però questa
concezione non spiega è il vortice particolare contro cui una critica,
salvifica deve opporre resistenza. Senza l’incessante sforzo di questa
critica, Benjamin ritiene che cadrebbero nel vuoto sia le testimonian-
ze momentaneamente sottratte al mito sia i contenuti semantici a es­
so strappali- Così i contenuti della tradizione cadrebbero vittima del­
l’oblio e non lascerebbero traccia di sé. Ma perché accade tutto que­
sto? Benjamin pensa evidentemente che il senso non sia un bene dila­
tabile a piacere e che non sia possibile produrre arbitrariamente espe­
rienze di «rapporto felice» con la natura, con gli altri e con il proprio
sé. Al contrario, Benjamin parte dall’idea che il potenziale semantico cui
jjli uomjni attingono per dotare il mondo di senso, e renderlo così co­
noscibile, sia originariamente quello racchiuso dentro il mito. Questo
potenziale non può però_es.s<?X.e_dilaxa[£), ma sempre soltanto trasfor­
mato. Benjamin. teme che nel corso di questa trasformazione le ener­
gie semantiche possano..s£uggu:e_e.andare perse per l'umanità. Espli-
citi punti di appoggio circa questa «decadenza universale» intesa in
termini storicistici sono rintracciabifi nella filosofia del linguaggio di_
Benjamin: su essa si fonda la sua teoria dell’esperienza26.

5. Per tutta la vita Benjamin tenne fede a una teoria mimetica del
linguaggio. Anche negli ultimi lavori egli torna sul carattere onoma-

25 «Si potrebbe dimostrare come la teoria dell’esperienza sia il centro, per nulla
segreto, di tutte le concezioni di Benjamin» (P. Krumme, Z.ur Konzepuon der dialek-
tlichen Bitter, «Text und Kritik», nn. 31-32, 1971, p. 80, nota 5).
26 Già nel Programni der kommenden Philosophie Icfr. tr. it. in W. Benjamin, Meta­
fisica della gioventù, Einaudi, Torino 1982, pp. 214-228] troviamo scritto: «Un con­
cetto di filosofia che derivasse dalla riflessione sulla natura linguistica della cono­
scenza creerebbe un concetto corrispondente di esperienza’ in grado di includere
anche settori che neppure Kant riuscì mai a sistematizzare veramente» (AS, li, p. 38
e sgg.). Era quello che ai tempi di Kant già aveva cercato di fare Hamann.
222

topeico delle singole parole e persino dell’intero linguaggio. Eglhion


può pensare che il rapporto tra la parola e la cosa sia casuale. Benja­
min concepisce le parole come se fossero dei nomi. Tuttavia, nomi­
nando le cose l’uomo può cogliere la loro essenza oppure mancarla.
Dare un nome alle cose è come tradurre in jome Tinnominabile, co­
me tradurre nel linguaggio umano l’imperfetto linguaggio della na­
tura. Benjamin non ha caratterizzatoli linguaggio umano né in base
alla sua struttura sin tattica 7 per la quale in realtà nutriva scarso inte­
resse) né in base alla sua funzione rappresentativa (ch’egli considera­
va comunque subordinata alla funzione espressiva)27. Non sono tanto
le qualità specificamente umane del linguaggio quelle che interessa­
no Benjamin, quanto piuttosto la funzione che ricollega il linguag-
gio dell’uomo ai linguaggi degli animali. Il linguaggio espressivo-
egli pensa — è solo una forma di quell’istinto animale che si manife­
sta anche nei moti d’espressione. Questi, a loro volta, vengono ricon­
dotti da Benjamin a una più generale facoltà mimetica di percepire e
riprodurre le somiglianze. Un esempio di ciò può essere la danza, in
cui si fondono insieme espressione e mimesi. A questo proposito egli
ita una frase di Mallarmé: «La danzatrice non è una donna, ma una
letafora capace di portare ad espressione un aspetto delle forme ele-
nentari della nostra esistenza: una spada, un bicchiere, un fiore o
qualcos'altro» (AS, II, p. 91). La mimesi originaria è rispecchiamen­
to BelTecorr i spond enze:

È noto che l'ambito vitale che appariva un tempo governato dalla legge del­
la somiglianza era quanto mai esteso: essa regnava nel microcosmo come nel
macrocosmo. Ma quelle corrispondenze naturali acquistano tutto il loro pe­
so solo quando si conosca che esse sono, nella loro totalità, stimolanti e reat­
tivi della facoltà mimetica che risponde loro nell’uomo [Sulla facoltà mimeti­
ca, tr. it. in Angelus nouus, cit., p. 68].

Ciò che si esprime sia nella fisiognomica linguistica sia nella ge­
stualità espressiva non è semplicemente uno stato soggettivo, bensì,
al di là di questo, la connessione non ancora interrotta dell’organismo

27 «La parola deve comunicare qualcosa (fuori di se stessa). Ecco il vero peccato
originale dello spirito linguistico. La parola esteriormente comunicante, quasi una
parodia della parola espressamente comunicabile» (AS, II, p. 22) (tr. it. «Sulla lin­
gua in generale», in Angelus novus, cit., p. 66].
223

umano con la natura circostante. I moti dell’espressione sono così si­


stematicamente intrecciati alle qualità scatenanti dell’ambiente.
Per quanto arrischiata possa essere questa teoria mimetica del lin­
guaggio, Benjajpin ha tuttavia ragione nel pensare che lo strato ^se­
mantico più antico sia quello delle_.espressioni. La ricchezza espressi­
va del linguaggio dei primati è cosa ampiamente riconosciuta^ co-
me ha scritto Ploog> «nella misura in cui il linguaggio esprime emo-
zioni attraverso £suonj, non esiste nessuna differenza di principio con
la facoltà vocale espressiva dei primati extraumani»28.
Lasciandoci andare a speculazioni, potremmo pensare che dalle
forme subumane di comunicazione una riserva semantica si sia trasfe­
rita nel linguaggio umano. Qui essa rappresenterebbe quel «poten­
ziale di significati» — non dilatabile a piacere — con cui l’uomo inter­
preta il mondo alla luce dei suoi bisogni, producendo una rete di cor­
relazioni. Comunque stiano le cose, Benjamin fa affidamento sulla fa-
coltà mimetica di cui la specie era fornira_ag_li_inizi dei processo di
umanizzazione, prima cioè di entrare nel processo storico dell’auto-
produzione. Fa parte delle convinzioni non marxistiche di Benjamin
i 1 pensare che «il senso» non sia un valore prodotto dal lavoro, ma
venga ruttai più modificato a^paciJre dal processo d£produzione29.
L’interpretazione storicamente mutevole dei bisogni attinge da un
potenziale di cui la specie deve fare economia, nel senso che può tra­
sformarlo ma non accrescerlo.

Dove bisogna tener presente che né le forze mimetiche né gli oggetti mi­
metici sono rimasti gli stessi nel corso dei millenni. Bisogna invece suppor­
re che la facoltà di produrre somiglianze — per esempio nelle danze, la cui
più antica funzione è appunto questa —, e quindi anche quella di riconoscer-

28 D. Ploog, «Kommunikation in Affengesellschaften und deren Bedeutung fiir


die Verstàndigung des Menschen», in H.-G. Gadamer, P. Vogler (hrsg. von), Neuc
Anthropologie, Bd. II, Stuttgart 1972, p. 141 e sgg. Sulla filosofia del linguaggio di
Benjamin, della quale non mi pare si sia ancora tenuto conto a sufficienza nella di­
scussione, cfr. H.H. Holz, «Prismatisches Denken», in AA.VV., Uber Walter Benja­
min, eie., pp. 62-110.
29 La tesi (marxistica) «per cui senso, significato ecc. sarebbero prodotti solo dai
processi storico-mondiali del lavoro con cui la specie umana si riproduce non è mai
stata fatta propria da Benjamin» (B. Lindner, Natur-Getchichte: cine Geschicbtsphilo-
sophie und Wclterfabrung in Bcnjannns Schriften, cit., p. 55).
224

le, si è trasformata nel corso della storia [Sulla facoltà mimetica, tr. it. in An­
gelus not'us, eie., pp. 71-72].

Questo processo ha un significato ambivalente. Nella facoltà mi­


metica Benjamin vede, per un verso, la sorgente della ricchezza se-
mantica che i bisogni culturaljmente articolati spargono sopra un
mondo che‘solj^sl^ò3Ìv«margjiinaDO. Per un altro verso, nella
facoltà di percepire le somiglianze, Benjamin vede la costrizionejl-
caica del rendersi simile, cioè quella costrizione all’adattamento chfci
un’eredità animale. In questo senso la facoltà mimetica è anche segno
di un’origi natia-dipendenza dai poteri della natura. Essa si esprime
nelle pratiche magiche, sopravvive nella paura arcaica delle visioni
animistiche del mondo, viene conservata nel mito. Compito dell’uo­
mo sarebbe quello di liquidare questa_dipendenza, badando però a
non fare esaurire le forze della mimesi e le correnti delle energie se­
mantiche (in quanto ciò implicherebbe il fallimento della facoltà
poetica d’interpretare il mondo alla luce dei bisogni umani). Questo
è il contenuto profano della promessa messianica. La storia dell’arte -
da quella cultuale a quella postauratica — viene così interpretata da
Benjamin sia come il tentativo, da un lato, di dare forma a queste in­
visibili somiglianze e corrispondenze, sia di spezzare, dall’altro, ij
sortilegio che imprigiona la mimesi. Benjamin ha chiamato «divini»
quei tentativi, in quanto essi frantumano il mito e nello stesso tem­
po ne liberano e recuperano tutta la ricchezza.
i
I Dopo aver seguito Benjamin fino a questo punto, dobbiamo ora
chiederci donde mai provengano quelle forze divine capaci di libera­
re e di conservare. Infatti anche la forza conservatrice-rivoluzionaria
della critica - su cui Benjamin fa affidamento — dipende retrospetti-
i vamente dalle «attualità» del passato. Le opere in cui si sono deposi­
tati contenuti_sottratti al mito, dunque i documenti delle passate
imprese emancipati ve, devono ess.ere già disponibili per la critica. Ma
chi produce questi documenti, chi è il loro autore? Evidentemente
Benjamin non intendeva affidarsi idealisticamente a un’illuminazio-
ne aprioristica riservata ai grandi autori, ossia a una.fonte assoluta-
mente non profana. Nondimeno egli non era molto lontano dal dare
una risposta idealistica a questo problema, in quanto una teoria del­
l’esperienza poggiante unicamente su una teoria mimetica del lin­
guaggio non permetteva moke altre risposte. Sennonché all’ideali-
225

smo facevano resistenza le sue convinzioni politiche. Benjamin aveva


scoperto il mondo preistorico attraverso Bachofen, conosceva Schuler,
studiava e apprezzava Klages, aveva corrispondenza con Cari Sch­
mitt. Ma essendo un intellettuale ebreo nella Berlino degli anni Ven­
ti non poteva ignorare dove stavano i suoi (e i nostri) nemici. Questa
consapevolezza lo costringeva a cercare una risposta materialistica.
Questo è lo sfondo della ricezione del materialismo storico da par­
te di Benjamin. Egli doveva però anche coniugare questo materiali­
smo alla concezione messianica della storia sviluppata come-critica
salvifica. Alla domanda su chi fossej.l soggetto della storia artistica e
culturale,_q uesto materialismo storico,^addomesticato».. dpy.e.ya ri -
spondere in una maniera materialistica e, tuttaviacompatibile con la
teoria benjamin iana_dgll.’.espeiienzg. Credere di essere riuscito a dare
questa risposta fu per un verso l’errore di Benjamin, per l’altro verso
il pio desiderio dei suoi amici marxisti.
Il concetto di "cultura coltivato dalla «critica dell’ideologia» ha il
vantaggio di presentare metodologicamente la tradizione culturale
come una parte dell’evoluzione sociale, rendendola così suscettibile
di spiegazione materialistica. Benjamin è ricaduto dietro questo con­
cetto, in quanto la critica che si appropria della storia dell’arte nella
prospettiva di salvare momenti messianici e potenziali semantici
vuolessere. i n tesa non. ■C.ome-T.i fi essio.ne_s.uauL. processo di formazione
ma come identificazione e ripetizione di esperienze enfatiche e conte­
nuti utopici. Benjamin ha concepito anche la filosofia della storia in
termini di teoria dell’esperienza30. Ma in questo quadro diventa im­
possibile, senza operare delle mediazioni, sviluppare una concezione
materialistica della storia come Benjamin intendeva fare per motivi
politici. Perciò egli ha tentato di integrare la sua dottrina con gli as­
sunti fondamentali del materialismo storico. Un’intenzione dichiara-
ta fin dalla prima delle Test di filosofia della storia: i 1 nano gobbo del -
la teologia deve prendere a servizio il fantoccio del materialismo sto-

30 È quanto dimostra anche la XIV tesi di filosofia della storia. A Benjamin inte­
ressano di più i contenuti esperienziali della Rivoluzione francese che non le trasfor­
mazioni oggettive da essa avviate: «La Rivoluzione francese si intendeva come una
Roma ritornata. Essa richiamava l’antica Roma esattamente come la moda richiama
in vita un costume d'altri tempi» [W. Benjamin, «Tesi di filosofia della storia», tr. it.
in Angelus novus, eie., pp. 83-84, cfr. Id., Sul concetto di storia, cit., pp. 46-47].
226

rico. Sennonché questo tentativo è destinato a fallire, perché la con­


cezione anarchistica delle «attualità» \Jetztzeiten\ che imprevedibil­
mente attraversano e colpiscono dall’alto il destino non può inserirsi
«sic et simpliciter» dentro una teoria materialistica dello sviluppo
sociale. Il materialismo storico è fermamente .interessato a-UitrH
« pass i avanti» che si compiono non solo nella dimensione delle.forze
produttive ma anche in quella del potere. Perciò esso non si lascia
semplicemente mettere in testa — come cappuccio fratesco — una con­
cezione anti£Yoluzionistica della storia. La mia tesi è che Benjamin
non ha saputo realizzare la sua intenzione di coniugare tra loro «mi­
stica» e «illuminismo». Il teologo cheterà in lui non poteva infanti
accettare che il materialismo storico prendesse a servizitì_la_Leojda
messianica dell’esperienza. Almeno su questo credo che dobbiamo
dare ragione a Scholem.
Vorrei ora intervenire su due difficoltà incontrate da Benjamin: a) lo
strano adattamento_della critica marxiana dell’ideologia; b) l’idea di
un’artepoliticizzata.

6. Su richiesta dell’istituto per la ricerca sociale, Benjamin redasse


lei 1935 un «Exposé» — Paris, die Hauptstadt des X.IX. Jahrhunderts -
in cui riassumeva per la prima volta i motivi della sua opera sui «pas-
sages» parigini. In una lettera ad Adorno in cui si ripercorre la lunga
gestazione del progetto, Benjamin parla di un processo di rifusione

che ha condotto l’intera massa di pensiero, in origine metafisicamente ani­


mata, a uno stato di aggregazione in cui ii mondo delle immagini dialetti­
che è al sicuro da tutte le interferenze provocate dalla metafisica [W. Benja­
min, Lettere 1913-1940, tr. ir. Einaudi, Torino 1978, p. 2891-

Qui egli accenna anche alle «nuove e penetranti prospettive socio­


logiche che forniscono il quadro sicuro delle linee interpretative»
(ibid., p. 290). Io credo che la risposta di Adorno a questo «Exposé» e
la sua critica al primo studio su Baudelaire, uscito tre anni dopo sulla
«Zeitschrift», riflettano molto bene — sia per quanto ad Adorno è da­
to capire sia per quanto egli mostra di fraintendere — la maniera con
cui Benjamin assimila a sé le categorie del marxismo31.

31 Mi riferisco alle due lettere di Adorno a Benjamin datate 2 agosto 1935 e 10


227

L’impressione di Adorno è che Benjamin, nel lavoro sui «Passa-


ges» parigjni, faccia violenza j-tse stesso per pagar££ribu£i^al manti;
smo e che questa violenza.finisca in realtà per danpeggiare_siZLBejo-
jamin che il marxismo.. Adorno non approva i] metodo di Benjamin
di «interpretare in chiave 'materialistica' singoli tratti evidentijleL-
1 ambito sovrastrutturale, stabilendo una loro relazione immediata e
addirittura causale con tratti corrispondenti della struttura» [Lettere
1913-1940, cit., p. 364). In particolare Adorno si riferisce alLusO-SoL
tanto metaforico della categoria di_«fetjccio_ del la merce». Di essa
Benjamin aveva parlato in una lettera a Scholem, annunciandogli
ch’essa stava al centro del suo nuovo lavoro, proprio come la catego­
ria di «dramma» era stata al centro del libro sul barocco. Adorno cri-
tica la tendenza, solo apparentemente materialistica, di «riferire im­
mediatamente i contenuti di. Baudelaire ad aspetti analoghi della
teoria sociale del suo tempo, possibilmente di natura economica». In
ciò Benjamin dà la stessa impressione di un «nuotatore che con una
terribile pelle d’oca si tuffa nell’acqua gelida.». Ora, questo è senz'al­
tro un giudizio acuto, che non è reso meno calzante dal fatto che
Adorno provasse gelosia nei confronti di Brecht. Tuttavia questo giu­
dizio è in curiosa contraddizione con il poco intelligente insistere di
Adorno affinché l’amico — completando la sua «non ancora esplicita­
ta teoria» e la sua «ancora mancante interpretazione» — rendesse fi­
nalmente evidente la mediazione dialettica che lega gli aspetti cultu- .
tali al processo sociale complessivo. Adorno si sbagliava nell’attribui-^ j
re con tanta sicurezza anche a Benjamin quella «critica dell’ideolo-
già» ch’erari! suo modello di lavoro.
Ciò si vede chiaramente dalle obiezioni che dovrebbero indurre
Benjamin a rivedere il concetto di «immagine dialettica» — centrale
per la sua teoria dell’esperienza - al fme-di-Qttenere così una «purifi-
cazione della teoria stessa» (jbid., p. 295). Adorno non capisce come
Benjamin possa voler realizzare con strumenti ermeneutici — cioè in­
terpretando immagini dialettiche - il progetto di una preistoria della
modernità mirante a decifrare semantiche sepolte e dimenticate. Per

novembre 1938 (W. Benjamin, Lettere 1913-1940, cr. ir. cir., p. 294 e sgg., 361 e
sgg.J. Oltre alia risposta di Benjamin [ihìd., p. 368 e sgg.l cfr. anche J. Taubes,
«Kultur und Ideologie», in AA.VV., Sfùtkapitalismus trfer Induitrugesellschaft, Stutt­
gart 1869, pp. 117-138.
228

Benjamin, furto di un «nuovo» che ribadisce la continuità del sem-


preuguale scatena immagini fantastiche del passato preistorico. Me­
scolandosi con il nuovo, queste immagini generano l’utopia. Nel suo
«Exposé» Benjamin parla dell’inconscio collettivo in cui le esperien­
ze sono accumulate come in un deposito. Adorno è giustamente irri­
tato da questa maniera di esprimersi. Ma ha torto quando pensa che
il_disincantamento benjaminiann delllimmagìne dialettica debba im­
mediatamente sfociare nel mito, Infatti g 1^aspetti arcaici della mo­
dernità — che per Adorno tradiscono l’inferno e non l’età dell’oro -
contengono jn_sé proprio quelle esperienze che spingono verso lo sta-
to utopico della società liberata. Un esempio sta nella ripresa del
classicismo romano da parte della Rivoluzione francese. Qui Benja­
min si serve, come paragone, della valorizzazione di elementi onirici
durante il risveglio: una tecnica molto utilizzata dai surrealisti ma
che Benjamin, in maniera alquanto sviante, considera come un mp-
dello di pensiero dialettico. Adorno prende questo esempio troppo
alla lettera. Far diventare l’immagine dialettica un semplice sogno
della coscienza gli sembra essere puro soggettivismo. Egli ribadisce
contro Benjamin che il carattere di feticcio della merce non è un da-
tocella coscienza, bensì piuttosto.un fatto «dialettico» nel senso
eminente di produrre esso stesso coscienza (cioè immagini arcaiche
negli individui borghesemente alienati). Ma Benjamin non ha biso-
gno di accollarsi questa pretesa della critica ideologica. Egli non vuo­
le — andando al di là delle formazioni di coscienza — risalire fino al-
loggettività di quel processo di valorizzazione attraverso cui il fetic-
cio della merce fa violenza alla coscienza degli individui. La pretesa
di Benjamin è semplicemente quella di studiare come viene concepi­
to dalla coscienza collettiva il carattere di feticcio, in quanto per lui
le immagini dialettiche sono fin dall’inizio fenom e n i del la coscienza
e non sono — come crede Adorno — «trasposte» nella coscienza.
Certo nemmeno Benjamin capiva bene la differenza separante il
suo procedimento dalla critica marxista dell’ideologia. Nei mano­
scritti inediti per il lavoro sui «passages» parigini troviamo scritto:

Se la base determina in qualche modo la sovrastruttura (per quanto attiene


al contenuto dell'esperienza e del pensiero), e se questa determinazione non
è quella del semplice rispecchiamento, come la potremmo noi caratterizzare
pur volendo totalmente prescindere dalle cause che la producono? Come sua espressìo-
229

ne: la sovrastruttura è espressione della base. Le condizioni economiche che


regolano la società trovano nella sovrastruttura la loro espressione32.

«Espressione» è una categoria della teoria benjaminiana dell’espe-


rienza. Essaci riferisce a quelle sottili corrispondenze tra natura ani­
mata e natura inanimata su cui si arresta lo sguardo fisiognomico del.,
bambino e dell’artista. Espressione è per Benjamin una categoria se­
mantica più vicina al pensiero di autori come Kassner oJClagesjrhg
non al teorema marxiano sul rapporto base-sovrastruttura. Lo stesso
fraintendimento lo ritroviamo ne Leon fronti-della critica adorniana
deH’ideologia quando Benjaminra proposito degli studi di Adorno
su Wagner, osserva: « Mi ha interessato in modo particolare una ten­
denza di questo lavoro: il fatto di collocare il momento fisiognomico
immediatamente, quasi senza mediazione psicologica^jadlo.spazio
sociale» [Lettere 1913-1940, cit., p. 3311- Effettivamente a Benjamin
non interessava né la psicologia né una critica ideologica intesa come
critica della falsa coscienza. La sua critica mirava piuttosto alle im­
magini fantastiche e collettive che - depositatesi nelle qualità espres­
sive della vita quotidiana, della letteratura e dell’arte — nascevano
dalla segreta comunicazione tra il potenziale semantico più primitivo
dei bisogni umani e le condizioni di vita generate dal capitalismo.
Nelle sue lettere sul Passagenarbeit Adorno si appella all’obiettivo
in nome del quale Benjamin era pronto a sacrificare la teologia [cfr.
Lettere 1913-1940, cit., p. 295]. Certo, Benjamin aveva fatto questo
sacrificio accettando di trasformare l’illuminazione mistica in espe­
rienza soltanto profana, vale dire generalizzabile ed essoterica. Tutta­
via Adorno — che era certo più marxista di Benjamin — non aveva an-
cora capito che l’amico non avrebbe mai rinunciato all’eredità teolo­
gica. Benjamin infatti aveva preventivamente «impermeabilizzato»
dalle obiezioni del materialismo storico (che non è un fantoccio che
possa essere preso tanto facilmente a servizio) la sua teoria mimetica
del linguaggio, la sua teoria messianica della storia-g. la sua concezio-
ne conservativo-rivoluzionaria della critica. Ciò si vede anche nelle
pagine in cui7 come comunista impegnato, Benjamin acconsente alla
politicizzazione strumentale dell’arte. Questo consenso — chiaramente

32 Citato in R. Tiedemann, Studien zur Phìlosophie W. Bcnjatnins, cit., p. 106 (cor­


sivo di Habermas).
230

dichiarato nel saggio Der Autor als Produzent (in Versuche uber Brecht,
cit., pp. 95-116) — io lo interpreto come una perplessità derivante
! dal fatto che la prassi politica non ha nessuna relazione interna con
I una critica intesa come salvezza messianica ( 1 addove avrebbe senz’altro
| relazione con una critica intesa come presa di coscienza).
La critica del l’ideologia funziona immediatamente da forza politi­
ca nel disvelare l’interesse della classe dominante, che è particolaristi-
co epperò si maschera nel fittizio interesse generale. Scrollando le
strutture normative che imprigionano la coscienza degli sfruttati, la
critica dell’ideologia sfocia in un’azione politica che cercaci liberare
la violenza strutturale accumulata nelle istituzioni. Questa azione
vuole neutralizzare in_senso partecipatorio la violenza liberata. La
violenza strutturale può anche essere scatenata dall’alto in forma pre­
ventiva o reattiva. Allora assume la forma di una mobilitazione fasci-
stica dijnassa, che invece di neutralizzare la violenza la moltiplica in
un diffuso «acting out».
Io ho dimostrato perché la critica di Benjamin non può rientrare
in questo modello di «critica dell’ideologia». Una critica che voglia
irrompere nelle «attualità» del passato per liberarne i potenziali se­
mantici ha una posizione solo indirettamente collegabile alla prassi
politica. E di tutto ciò Benjamin non si rende abbastanza conto.
Nel saggio giovanile Zur Kritik der Gewalt egli distingue la vio­
lenza che produce diritto dalla violenza che mantiene diritto. Questa è
la violenza legittima esercitatajdagli organi dello stato, quella è la
violenza strutturale che è presente, in forma latente, in tutte le isti­
tuzioni e che viene liberata nella guerra e nelle lotte civili35. A diffe­
renza della violenza che mantiene il diritto^la violenza che lo produ­
ce non ha carattere strumentale: essa piuttosto «si manifesta». E più
precisamente si manifesta — come violenza strutturale delle interpre-

53 In questo contesto Benjamin svolge una critica del parlamentarismo che ri­
scuote l'ammirazione di Cari Schmitt. «I parlamenti offrono sempre lo stesso mise­
revole spettacolo, in quanto essi non hanno più consapevolezza delle forze rivoluzio­
narie cui devono la propria esistenza. In Germania, anche l’ultima manifestazione di
queste violenze è passata senza lasciare traccia sui parlamenti. Ad essi manca il senso
di quella violenza produttrice di diritto che pure rappresentano. Non stupisce perciò
che essi non giungano mai a prendere le decisioni che sarebbero degne di questa vio­
lenza e che si limitino piuttosto, nello spirito del compromesso, a trattare le questio­
ni politiche in forme solo apparentemente non violente»» (AS, II, p. 53 e sgg.).
231

razioni e del le istituzioni — nel la sfera che, propriocome HeggL-an­


che Benjamin riserva al destino,jossia nei destini della guerra_£.delle
famiglie. Naturalmente in questa sfera della NatiirgèscEichte le modi­
ficazioni non modificano nulla. ~~~ ~~

Uno sguardo fìsso alla successione temporale coglie tutt'al più alti e bassi in
quella dialettica con cui la violenza si configura ora come produttrice di di­
ritto ora come conservatrice di diritto [..Ciò si ripete nella misura in cui
forze nuove, oppure forze finora represse, vincono continuamente la violen­
za che ha per l'addi erro prodotto diritto e fondano in tal modo nuovo dirit­
to, destinato anch'esso a cadere (AS, II, p. 65).

Incontriamo di nuovo quella concezione benjaminiana del destino


che - affermando la continuità naruralisticaTwrfW^KZ>/t‘Z>z//có] del
sempreuguale — esclude ogni modificazione cumulativa nelle struttu­
re del potere.
A questo punto entra in gioco la figura della «critica salvifica»
che induce Benjamfn a teorizzare la «violenza rivoluzionaria». Benja-
min costruisce il concetto di violenza rivoluzionaria dando in dota­
zione le insegne della prassi all’atto interpretativo - quell’atto^ che
dall’opera d’arte passata estrae (recuperandola per il presente) l'irru­
zione verticale attraverso il continuum della storia naturale. Avremo
così quella violenza «pura» o «divina» che cerca di spezzare il perdu-
rantesortilegio delle forme mitiche del diritto {ibidem). Benjamin con-
cettualizza la violenza «pura»_nel quadr.Q_dgllaj.ua teoria "dell’éspé-
rienza: perciò deve spogliarla delle connotazioni di un agire razionale
rispetto-al-fìne. La violenza rivoluzionaria semplicemente «si mani­
festa», proprio come la violenza.mitica. Essa è «la suprema manife­
stazione di violenza pura attraverso l’uomo» {ibid?, p. 66). Di conse­
guenza Benjamin può riferirsi al mito soreliano dello sciopero gene­
rale e a una prassi anarchica che caccia fuori dalla sfera politica ogni
strumentai ità del Pagi re, negando ^razionalità rispetto-al-fìne ed
esaltando «una politica dei puri mezzi». «Il carattere violento di
questa prassi non dev’essere giudicato a partire né dai suoi effetti né
dai suoi scopi, bensì soltanto a partire dalla legge intrinseca dei mez­
zi impiegati» {ibid., p. 58).
Questo accadeva nel 1920. Nove anni dopo Benjamin scriveva il
suo famoso saggio sul movimento surrealista, che aveva trasformato
232

in realtà l’idea di coniugare tra loro sogno e azione (alla maniera di


Baudelaire). Ciò che Benjamin aveva teorizzato come «violenza pu­
ra» prendeva ora forma nella provocazione dei surrealisti. Nei loro at­
ti insensati l'arte si traduceva in agire espressivo, mentre veniva su-
perata ogni separazione tra azione poetica e azione politica. Nel sur­
realismo Benjamin trovava la conferma della sua teoria estetica. Non­
dimeno gli esempi di violenza pura offerti dai surrealisti vedevano in
lui uno spettatore ambivalente. Politica come rappresentazione o ad­
dirittura politica poetica: pur apprezzando questa conquista, Benja-
min non voleva eliminare ogni differenza di principio esistente tra
l'azione politica e la manifestazione. Infatti ciò avrebbe implicato
«subordinare la disciplinata e metodica preparazione della rivoluzio­
ne a una prassi oscillante tra mera esercitazione e festeggiamento pre­
liminare» (AS, II, p. 212). Perciò Ben jamjn^stj molato dal contatto
con Brecht, si libera delle sue precedeRFi-tendenze-anarchiche e pren-
de a considerare il rapporto tra «arte» e «prassi politica» prevalente-
~ménte dal~punto di vista dTqna possibile strumentalizzazione propa-
i gandistica dell’arte ai fini della lotta di classeTQuesta politicizzazio­
ne intenzionale dell’arte è una concezione che Benjamin trova già
pronta. Per buoni che siano i motivi che lo spingono ad adottarla,
questa concezione non ha tuttavia un rapporto sistematico con la sua
teoria dell’arte e della storia. Accettando senza riserve questa conce­
zione, Benjamin ammetteimplicitamente che dalla sua teoria del-
l’esperienza non è ricavabile nessuna relazione interna con la prassi
politica. L’esperienza dello choc^non è una prassi e rilluminazione
profana non è un'azione rivoluzionaria54.
Benjamin intendeva mettere il materialismo storico «al servizio»
della sua teoria dell’esperienza. Ma ciò finiva per spingerlo verso
un'identificazione di Rausch e Politik — ebBrezzà e politica.— che egli
non poteva veramente volere. Svincolare la tradizione culturale dei
potenziali semantici .richiesti dallo stato messianico non è la stessa
cosa che sYinmlace il porexe. politico della violenza strutturale. Dun-
que Benjamin non è attuale come teologo della rivoluzione55. La sua

54 Cfr. K.H. Bohrer, Die gefàhrdete Phantasie oder Surreahinui und Terror, eie., p. 53
e sgg-‘. B. Lypp, Asthetischer Abiolutinnut undpolitische Vernunft, Frankfurt a.M. 1972.
Cfr. H. Salzinger, WC Benjamin. Ttologe der Revolution, «Kiirbiskern», 1969,
pp. 629-647.
1
i
233

attualità emerge invece completamente non appena noi — rovescian­


do il suo programma — poniamo la sua teoria deH’espenejQza. al ser-
vizio» del materialismo storico. ~—

7. Presentandosi-Come teoria dialettica del progresso, il materiali-


smo storico deve stare attento: ciò che si presenta come progressp
può in breve rivelarsi come ra“perpetu^zione_-di.riò_ch£^p.en§axamo
superato? bercitela dialettica ~deTTniuminismo ha dovuto sempre più
assimilare teoremi dell.’antilLuminjsmo, e la teoria_del progresso sem-
pre più elementi della critica del progresso. Per non cadere vittima
dTun’emancipazione apparente, occorreva rendere l’idea di «progres­
so» solida e sottile nello stesso tempo. Ma una cosa l’idea di progres­
so doveva continuare_a_respingere: l’identificazione tra emancipazio­
ne e incanto (la tesi, cioè, che sia l’emancipazione stessa ciò che.jsoi-
tilmente ci inganna)56. ~
Nel concetto di sfruttamento che guida la critica marxiana po­
vertà e dominio erano ancora tutt’uno. Ora lo sviluppo del capitali-
smo ci ha insegnatb~a~dìHerénzìare tra fame e repressione,. I-bisogni,
cui si può fare fronte accrescendo il benessere sono diversi dai bisogni
cui si può porre rimedio accrescendo non la ricchezza sociale ma la li­
bertà. Bloch ha teorizzato queste distinzioni in Naturrecht undmensch-
liche Wurde'. si tratta di differenziazioni prodotte nel coacmo-dt-pre-
gtesso dal successo delle forze produttive sviluppatesi sotto il capita­
lismo57. Nella misura in cui vediamo crescere nelle società sviluppa­
te la possibilità di collegare «repressione» a «benessere» — ossia la
possibilità di soddisfare richieste economiche lasciando nello stesso
tempo inevase richieste genuinamente politiche — tanto più l’elimi-
nazione della fame passa in secondo piano rispetto all’esigenza di
emancipazióne.
Ora Benjamin fu uno dei primi, nell’ambito della tradizione
marxista, a tematizzare ancora un ulteriore momento nella teoria dello

36 È questa la prospettiva in cui la stessa teoria critica viene vista come «moder­
na sofistica», per esempio da R. Bubner, «Was ist Kritische Theorie?», cit.
37 «L’utopia sociale mirava alla felicità dell'uomo, il diritto naturale alla sua di­
gnità. L'utopia sociale immaginava rapporti in cui scomparissero gli affaticati e gli
oppressi, il diritto naturale costruiva rapporti in cui scomparissero gli umiliati e gli
offesi» (E. Bloch, Naturrecht und numchliche Wurde, cit., p. 13).
234

sfruttamento e del progresso. Alle dimensioni della fame e della re­


pressione, infatti, egli aggiunse quella del «fallimento» IVersagungì;
alle dimensioni del benessere e della libertà egli aggiunse quella del­
la «felicità» {Gluck\. Parlando di «illuminazione profana» Benjamin
intendeva l’esperienza di felicità connessa al salvataggio della trad.i-
zione. La pretesa di felicità può essere soddisfatta solo a patto che non
si esaurisca la sorgente dei potenziali semantici indispensabili a in-
terpretare il mondo alla luce dei nostri bisogni. I beni della cultura
sonb~ìrBòftìnoche i vincitori si trascinano dietro nella marcia trion-
fale: per questo bisogna liberare la tradizione dalla presa del mito.
Ora, non si può liberare la cul
sì'puo tura senza eliminareja repressione ra­
cultura
dicata nelle istituzioni. Ma eccoci afferrati da un sospetto: e se esi­
stesse jm’emancipazione incompleta e infelice, così come in realtà
esiste un benessere relativo che non toglie la repressione? Questione
temibile, e tutt’altro che oziosa, ora che siamo giunti alle soglie del­
la «posthistoire», ossia al punto in cui le strutture simboliche sono
consumate ed esaurite, spogliate delle loro funzione prescrittiva.
Benjamin non si sarebbe posto questa domanda. Egli insisteva
sempre sulla felicità come massiccia esperienza spirituale e sensuale
nello stesso tempo. Era terrorizzato dalla prospettiva di perdere defi-
nitivamente questa esperienza in quanto, continuando a fissare lo
sguardo sullo stato messianico, egli vedeva_il_progresso privarsi poco
alla volta del proprio obiettivo e del proprio adempimento. La critica
alla versione di progresso teorizzata da Kautsk.Y-fu perciò la sostanza
politica delle Tesi sulla filosofia della storia. Anche se non troviamo ri­
badito entro ognuna delle tre dimensioni che non può esserci accre­
scimento del benessere, ampliamento della libertà e promozióneTlel-
la felicità fino al giorno in cui benessere, libertà e felicità non saran­
no diventati generali, s[ può comunque verosimilmente sostenere,
per quanto riguarda la gerarchia delle tre dimensioni, che il benesse­
re senza libertà non è benessere e che la libertà senza felicità non è h-
bertà. Benjamin era profondamente persuaso del fatto che prima di
giungere al giorno del^Tudizio noi^non possiamo essere certi di nes-
sun progresso parziale. Un’idea enfatica, da lui intrecciata tuttàvuTa
quella concezione di destino per cui nessun cambiamento storico
cambia veramente qualcosa se non riflettendosi negli ordinamenti
della felleitàT^X’ordine~di .aÒL.cHe è profano deve trovare conforto_nel-
la idea di felicità». Il carattere totalizzante di questa prospettiva fini-
235

sce per ricacciare confusamente lo sviluppo cumulativo delle forze


produttive, da un lato, e l’orientata modificazione delle strutture
d’interazione, dall’altro, nella stessa indistinta dimensione del sem-
preuguale. Benjamin ha uno sguardo manicheo: misurando li pro­
gresso in base ai soli apici eruttivi della felicità, egli intende la storia
còrnèTòfSitàré dTuno spento pianeta sulla cui superfìcie vede ogni
tanto cadere un fulmine. Così si crede obbligato a interpretare il_si-
stémà economico e politico con concetti che sono in realtà adeguati
soltanto ai processi culturali. Nell’ubiquità del cosiddetto «nesso di
co!pa>T\Sch~uldzusamnienhang] sprofondano come irrilevanti quelle
trasformazioni che si sono realizzate — seppure in misunTproblemati-
ca e parziale — sia nella dimensione delle forze produttive e della ric-
chezza sociale sia nella dimensione in cui il peso della repressione
rendcTestremamente difficile fare~distinzioni. Alludo ai progressi —
per quanto precari e perennemente minacciati di regressione — consi­
stenti nei prodotti della legalità, e persino nelle strutture formali
della moralità. La melanconia nel ricordare ciò che è fallitO_eJLevpca.-
zione dei fuggevoli momenti della felicità minacciano di compro-,
mettere il senso storico e la percezione dei progressi profani. Ma per
quanto sia vero che quéstl progressi producono le loro regressioni, è
anche vero che proprio in queste regressioni l’agire politico trova la
sua occasione d’intervento.
La critica benjaminiana al «vuoto progresso» si appunta contro
un riformismo che è incapace_di sentimento ed è diventato insensibi-
le alla differenza separante una migliore riproduzione della vita da
una vita realizzata [erfu//ten], o per esprimerci con più correttezza: da
una vita non sbagliata \nicht verfehlt\. Per diventare tagliente, tutta- ',
via, la critica di Benjamin dovrebbe riuscire a evidenziare questa dif- .
ferenza proprio nei piccoli e non disprezzabili miglioramenti dell’esi- •
stenza. Questi miglioramenti non producono nuovi ricordi, ma ne |
eliminano di vecchi e fatali. Le riduzioni progressive della miseria
mi___ e \
persino della repressione spariscono. Bisogna riconoscerlo, senza la- '
sciare traccia. Esse producono sollievo ma non adempimento [Erfiil-
lungfl in quanto solo un sollievo ricordato potrebbe preludere a un
adempimento. Di fronte a questo fatto ci sono ora due posizioni,
estreme e contrarie. L’antilluminismo delle antropologie pessimisti-
che fìnge di sapere che le immagini utopiche dell'adempimento sono
soltanto le «menzogne vitali» di una creatura finita, totalmente inca­
236

pace di trascendere la sua esistenza fattuale in una «vira buona». Per


contro, la teoria dialettica del progresso si mostra molto sicura del
fatto che l’emàncipàziòhe, una volta realizzata, includerà automatica­
mente in sé anche l’adempimento. Intesa non semplicemente come
tonaca ma comTliucTéointerno del materialismo storico, la teoria
elei l'esperienza proposta da Benjamin potrebbe contrapporre alla por
sizione degli antilluministi una speranza fondata e alla posizione dei
dialettici un dubbio profilattico.
Qui stiamo parlando soltanto di un dubbio. Del dubbio che ci
viene suggerito dal materialismo semantico di Benjamin: possiamo
davvero escludere la possibilità di un’emancipazione insensata?
Emancipazione significa, nelle società complesse, riorganizzazione
partecipatoria delle strutture decisionali di governóTTa domanda è:
l’uomo emancipato del futuro potrebbe un giorno vedersi privato -
pur godendo di una più ampia formazione dibattimentale della vo-
lontà — della luce necessaria a interpretàfe~ là"propria v.ita come una
«vita buona»? Allora, dopo essere stata strumentalizzata per millen-
ni a legittimare il dominio, la cultura si vendicherebbe — proprio
nell’istante in cui le repressioni arcaiche venissero superate —fascian­
do cadere non soltanto la propria violenza ma anche ogni suo conte­
nuto sostanziale. Una volta scollegate da quelle energie semantiche
su cui poggia la critica salvifica di Benjamin, leTstrptture del discor­
so praiImjdiYeDierébbero~infeconde proprio neH’istante_della loro, fi­
nal mente riuscita, implementazione.
Benjamin arriva quasi a sottrarre aH’antilluminismo la denuncia
della vuota riflessione, per riutilizzarla all’interno di una teoria del
progresso. Certo, questa lettura dell’attualità di Benjamin si espone
all’obiezione per cui - di fronte a realtà politiche così poco incrina­
te — non bisognerebbe accollare con tanta leggerezza ai partigiani
dell’emancipazione anche queste ipoteche ulteriori (ancorché subli­
mi): first things first. Io credo tuttavia che differenziando il concetto di
progresso si produce una prospettiva che, lung-i-dal bloccare il corag-
gio, potrebbe rendere più puntuale l’azioiwpplicica. Nelle condizio­
ni storiche che vietano di pensarFaTlajnvqlLizione» suggerendo piut-
tostolJattesadiprqcessiTìvoTuzionar^diJungadurata, anche_l_idea
della rivoluzione come processo formativo di una nuova soggettività
dev’essere modificato. In questo senso l’ermeneutica di Benjamirp-
che orientandosi alla «rivoluzione conservatrice» decifra la storia del-
237

la cultura nella prospettiva di salvarla per poterla rovesciare — po-


irebbe indicarci una via preziosa.
Una teoria della comunicazione linguistica che volesse riportare le
intuizioni di Benjamin entro una teoria materialistica deH’evoluzione
sociafè dovrebbFessere capace dTpensare simultaneamente due diversa
tesi da lui avanzate. Penso allaffermazione secondo cui esiste «una
sfera non violenta dell’accordo umano, una sfera completamente
schermatà~dallà forzi brucarsi tratta del linguaggio come sfera tipica
della reciproca in tesa >71AS, p. 55). E penso all’altra affermazione,
che noi dovremmo immediatamente collegare alla prima:

Pessimismo su tutta la linea! Assolutamente e completamente (...) ma so­


prattutto sfiducia, sfiducia e ancora sfiducia nella possibilità di un’intesa
tra le classi, tra i popoli, tra i singoli individui. E fiducia senza riserve sol­
tanto nella I.G. Farben e nel pacifico perfezionamento della Luftwaffe (ibid.,
p. 214).
XIII

GERSHOM SCHOLEM
LA TORAH TRAVESTITA (1978)*

Caro, stimatissimo signor Scholem’


su invito del console tedesco noi — cittadini della Repubblica Fe­
derale di Germania — siamo venuti in Israele per festeggiarLa. Anche
se sappiamo di poter contare sullamichevole consenso della persona
festeggiata, non possiamo non sollevare una domanda delicata: che
cosa ci autorizza a compiere questo passo? Chi potrebbe pensare, per
esempio, di mandare una missione analoga a Parigi, per festeggiare
gli ottant'anni di Sartre? Se, senza essere presuntuosi, possiamo avan­
zare un certo qual diritto di fare le nostre congratulazioni a Scholem,
questo lo dobbiamo semplicemente a un dato di fatto. Noi oggi ab­
biamole intenzionalmente uso questa formula possessiva) ben_npye
libri scritti da Scholem in lingua tedesca. E fimpeccabilità della loro
prosa scientifica è la prova migliore che il tedesco rappresenta lajjri?
gua madre dell’autore.
Questo «dato di fatto» non solleverebbe problemi solo se la comu- ’
nanza linguistica significasse semplice condivisione di cultura, tradi­
zione, esperienze storiche. Ora è certamente vero che ebrei e tedeschi ’
hanno condiviso un buon tratto di storia. Sennonché rischi, dolori e
sacrifici essi li hanno assai più suddivisi che non condivisi: suddivisi .
in maniera molto ingiusta, e questo ancor prima che la violenza fisica ,
degli uni contro gli altri cancellasse ogni idea di comunità. Questo è
ciò che Lei, signor Scholem, ha chiarito a me e a tutti noi.
Consenta ch’io parli per un istante di «noi», cioè di quella gene­
razione che si è spiritualmente sviluppata nel dopoguerra ripensando

Discorso per l'orrantesimo compleanno di Gershom Scholem, pubblicato in


«Merkur», XXXII, n. 1, 1978, pp. 96-104 e poi nuovamente in J. Habermas, Po-
litik. Kunst, Religion, cit., pp. 127-143.
240

alla catastrofe. Per noi il Suo discorso del 1966, che denunciava resi­
stenza di asimmetrie profonde nei rapporti ebraico-tedeschi, rappre­
sentò un vero shock. Avevamo appena finito di reinserirci nelle tradi­
zioni migliori (quelle che erano andate indenni dalla corruzione) e
avevamo appena finito col riconoscere — per la prima volta senza ri­
serve — le grandi correnti della produttività ebraica. Non avevamo
forse scelto di collocarci sotto l’ombra spirituale di autori come Marxt
Freud e Kafka? Non eravamo forse stati accettati come allievi da co-
loro che - come Bloch, Horkheimer, Adorno, Plessner e Lowith -
erano rientrati dallemigrazione? Non avevamo forse scoperto — gra-
zie ad Adorno e all’aiuto di Lei, signor Scholem — un autore come
Walter Benjamin? E quello di Benjamin non era che il caso più
drammatico. Altri fili ci conducevano verso Hanaah_Aiendt, Nqrbert
Elias, Erik H. Erikson, Herbert Marcuse, Alfred Schiitz, altri fili an­
cora ci riportavano indietro verso KarT Kraus, Franz Rosenzweig,
Georg Simmel, i freudo-marxisti degli anni Venti. A me era poi an-
' che capitato nelle mani uno strano libro sulle correnti della mistica
, ebraica1, che mi aveva sorpreso evidenziando le affinità elettive esi-
\ stenti tra la teosofia di Jakob Bóhme e la dottrina di un certo Isaak
Luria. Dunque alle spalle dei Weltalter [Età del mondo] di Schelling e
della Scienza della logica di Hegel, alle spalle di Baader, non c’erano
soltanto i precedenti svevi, il pietismo e la mistica protestante, ma
anche quella versione della kabbala (mediata da Knorr von Rosen-
roth) i cui sviluppi antinomici prefiguravano già chiaramente le fi­
gure concettuali e gli impulsi della grande filosofia dialettica. Scho-
. lem era stato l’autore che mi aveva dischiuso queste conoscenze2, e
proprio da questo Scholem ci toccava ora sentir dire che l’assimilazio­
ne degli ebrei alla cultura tedesca — assimilazione cui noi dovevamo
tutta questa ricchezza - era stata fin dall’inizio una «falsa partenza».
«Come prezzo della emancipazione i tedeschi pretendevano un rinne-

1 G. Scholem, Die judische Mystik in ihren Hauptstromungen, Ziirich 1957 (poi


Frankfurc a.M. 1967; tr. ir. Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Melangolo, Ge­
nova 1986J.
2 Cfr. il mio saggio - sulla transizione dell’idealismo dialettico al materiali­
smo — che ha per titolo Geschichtsphilosophische Folgerungen aus Schelhngs idee etner
Kontraktion Gotta, ora raccolto in J. Habermas, Theorie and Praxis, Frankfurt a.M.
1971, pp. 172-227.
241

gamento deciso della nazionalità ebraica — un prezzo che le avan­


guardie culturali ebraiche furono fin troppo disposte a pagare»3.
Di fronte a questa verità io provo ancora oggi una reazione di di­
fesa, e tuttavia essa è, a tutti gli effetti, una faccia di quella verità
storica da cui l’opera della Sua vita, signor Scholem, trae giustifica­
zione. Oggi io credo di poter vedere le due facce della medaglia. Do­
po che tutto fu finito, un’ultima generazione di intellettuali, filosofi,
scrittori e artisti ebrei ha fatto rientro in Germania e vi ha esercitato
un’impareggiabile influenza culturale. Su queste tradizioni ebraico-
redesche noijziguadagniamo un diritto - anche e precisamente «do-
po Auschwitz» — nella misura in cui riusciamo a svilupparle produt-
tivamente. Dobbiamo usare queste trad^zionii in manieraLtale che, lo
sguardo degli esiliati — addestrato su Marx, Freud e Kafka — possa
ora vólgersPsu di noi, recuperando come qualcosa di vitale lecompo-
nenti che erano state ri mosse, estraniate e congelate. Questo è il fu­
turo di un’assimilazione ebraico-tedesca che è diventata parte del no-
sjtropassato. Ma il futuro per cui Lei si batte, signor Scholem, è inve-
ce un altro.
In Johann Peter Hebel Lei trova la grande eccezione, colui che la­
sciò l’ebreo essere tranquillamente ebreo, colui che «vide nell’ebreo
ciò che egli poteva dare e non soltanto ciò cui egli doveva rinuncia­
re»4. Rientra nelle Sue convinzioni più profonde, signor Scholem,
l’idea che la simmetria tra il dare e il prendere si sia in realtà prodotta
soltanto attraverso il deciso ritorno dello spirito e della nazione ebrai­
ca alla propria storia. Così Lei si è soprattutto impegnato a fare sì che
il mondo della mistica ebraica — un tesoro che gli ebrei offrono attin­
gendo a quanto hanno di più proprio — sia oggi tolto all’oscurità ed
esposto davanti agli occhi di tutti. È così che Lei ha spiegato la si­
tuazione del dare e del prendere. Per questo il mio compito non è
quello di tenere una «laudario», come prevede il protocollo, bensì
piuttosto un discorso di ringraziamento.
Chi dice grazie dovrebbe anche saper indicare per quale oggetto
egli prova gratitudine. È quanto vorrei ora cercare di fare, ma non si
tratta di un compito facile. Infatti il discorso cristallino di Scholem è
trasparente solo «prima facie»: la sua esposizione storico-filologica ha

3 G. Scholem, Judaica II, Frankfurt a.M. 1970, p. 25.


4 Ibìd., eie., p. 40.
242

moki strati. Io non sono certo in grado di apprezzare completamente


il filologo e lo storico; ma chiunque si immerga nei testi di Scholem
scopre subito dietro lo scienziato altri tipi di filologo: l’amatore, lo
scopritore, il sionista impegnato, e infine il filologo che diventa filo­
sofo proprio attraverso la sua materia.
Per riconoscere in Lei l’appassionato di filologia, signor Scholem,
non occorre averta accompagnata in quella libreria antiquaria di
Ackermann che, da cinquantanni a questa parte, Lei non tralascia
mai di visitare passando per Monaco. Nello Scholem ottantenne noi
ritroviamo immediatamente l’amatore bibliofilo quando io sentiamo
ricordare com’egli, all’età di diciassette anni, comprasse per cinquan­
ta pfennig a Berlino, su una bancarella nei pressi dell’università, la
satira di Lichtenberg sul tentativo di conversione compiuto su Moses
Mendelssohn da Lavater. Per immediatamente aggiungere — compia­
ciuto — di averne visto vendere una copia lo scorso anno al prezzo di
millecinquecento marchi5.
Più avanti traspare la passione della scoperta filologica, quando
Scholem ci ricorda come potè risolvere un’annosa questione degli
studi su Reuchlin scovando nel 1938 un reperto di manoscritti pres­
so il Jewish Theological Seminar di New York. «Fu per me un mo­
mento di gioia non appena gettai lo sguardo su quelle pagine: esse
riunivano praticamente tutte le citazioni presenti nell’opera di Reu­
chlin»6. Fino a quel momento, infatti, non si era capito come Reuch­
lin avesse potuto conoscere le varie fonti della kabbala (non di rado
citate in modo erroneo). Affinché tuttavia Scholem potesse diventare-
nella tradizione della scienza del giudaismo — un studioso originale e
imparziale del mondo simbolico della mistica ebraica c’era ancora bi­
sogno di un impulso ulteriore.
Nel lavoro infaticabile di questo grande filologo convergono lo
slancio intellettuale, l’esperienza storica e la sensibilità di una gene­
razione che era stata influenzata, prima del 1915, dalla «Jugend-
bewegung». Il rinnovamento dato da Scholem allo studio della kab­
bala si ispira alla coscienza risvegliata in lui dal movimento sionista.
Lui stesso riconduce l’esplorazione della mistica ebraica al «movi-

5 G. Scholem, Von Berlin nach Jerusalem, Frankfurt a.M. 1977, p. 69 (tr. it. Da
Berlino a Gerusalemme: ricordi giovanili, Einaudi, Torino 1988].
6 ìà.,Judaica III, Frankfurt a.M. 1973, p. 252.
243

mento di rinascita del popolo ebraico — movimento che rese possibi­


le anche una nuova prospettiva sulla storia degli ebrei»7.
Ma io resto affascinato da un aspetto della figura di Scholem che
va al di là dello scienziato incorruttibile, dal fanatico amatore, dello
scopritore appassionato, dell’educatore pubblico e politicamente con­
sapevole: alludo al teoretico che lui non ammette mai di voler essere,
preferendo invece nascondersi dietro molte corazze filologiche.
I filologi devono anche capire ciò di cui parlano i loro testi, altri­
menti non potrebbero renderli comprensibili agli altri. Quanto più
l’argomento del testo si allontana dalla coscienza quotidiana tanto
meno il mestiere di filologo può esercitarsi in maniera semplicemen­
te strumentale, tanto più esperto deve farsi il filologo del suo ogget­
to di studio. Così i grandi filologi e gli storici della cultura hanno
sempre dovuto farsi — almeno in parte — anche giuristi, teologi e filo­
sofi. Ma come stanno le cose quando un filologo ha a che fare con te­
sti di misticismo? In questo caso egli deve superare, per così dire,
una doppia distanza. Gli stessi testi esprimono già quella sorta di iro­
nia su cui tutti i romantici, Kierkegaard compreso, non hanno man­
cato di riflettere. Questi testi devono infatti dire l’indicibile e comu­
nicare l’incomunicabile. Si tratta di una distanza che potrebbe ancb
essere superata ove l’interprete di queste indirette comunicazioni
facesse esperto religioso e diventasse, lui stesso, un mistico. Ma qi
sto non dipende da lui, e d’altro canto nemmeno Scholem è, per t
che effettivamente lo riguarda, un mistico. In questi casi il filologi,
deve accostarsi al suo oggetto passando attraverso una teoria dell’og­
getto. Assimilare teoreticamente il contenuto delle tradizioni mistiche
diventa allora l’unica via di accesso che la filologia del misticismo
può percorrere, se essa vuole capire (e far capire) qualcosa. Tuttavia,
per la conoscenza che io ho dei suoi scritti, Scholem ha parlato sol­
tanto una volta come teoretico, e per giunta impiegando un titolo
che tradisce una cattiva coscienza da parte dello storico e del filologo.
Alludo ai «Zehn unhistorischen Sàtze iiber Kabbala»8 [Dieci tesi non
storiche sulla kabbala].
Si tratta di un testo breve e alquanto diverso dagli altri scritti di
Scholem. In esso il chiaro linguaggio cartesiano cede il posto alla

7 Ihid., p. 261.
8 Ibìd., p. 264 e sgg.
244

concettualità dialettica, potremmo quasi dire: all’immaginazione


dialettica. Solo in questo testo Scholem si serve di quella dizione
enigmaticamente disvelante che tanto aveva ammirato nell’amico
Walter Benjamin. Il testo prende le mosse dall’elemento ironico che
deve per forza caratterizzare la filologia quando si applica a una disci­
plina mistica come la kabbala. «Nella figura del filologo, resta forse
visibile qualcosa della legge che guida la cosa stessa, oppure in que­
sta proiezione storica finisce per sparire proprio l’essenziale?». La ri­
sposta è ambigua. Infatti solo quando è in rovina, una tradizione può
diventare oggetto di filologia e avere bisogno di filologia. D’altro
canto, la grandezza di una tradizione diventa visibile solo nel me­
dium di un’appropriazione oggettivante: «La vera tradizione rimane
sempre nascosta».
Nei nove capoversi successivi Scholem elenca tutti i motivi teori­
ci che sono rintracciabili — come snodi ermeneutico-sistematici - nei
suoi lavori materiali. Almeno due di questi motivi meritano di esse­
re sottolineati: uno di carattere gnoseologico e uno relativo alla filo­
sofia della storia.
Il primo motivo è quello definito dai concetti di rivelazione, tra­
dizione e dottrina. Punto di partenza è la parabola rabbinica secondo
cui la Sacra Scrittura somiglia a una grossa casa dalle molte stanze.
Davanti a ogni stanza ce una chiave, ma non è quella giusta. Tutte le
chiavi risultano scambiate tra loro9. La tradizione viene immersa in
una luce kafkiana: che cosa significa «tradizione»? In primo luogo:
trasmissione della dottrina. La dottrina della parola profetica è il me­
dium trasmissivo della conoscenza nato con le grandi religioni mon­
diali. Il giudaismo rabbinico ha elaborato in maniera sublime la pra­
tica dottrinale, l’esegesi delle sacre scritture. In questa forma l’aveva
anche conosciuta lo Scholem sedicenne, quando aveva cominciato a
studiare il talmud presso il rabbino Isaak Bleichrode10. Si trattava
però di «dottrina» e di «tradizione» in senso integro?
Nel corso dell’ottocento si erano sviluppate le scienze dello spiri­
to. Ambiguo prodotto deH’illuminismo, esse formavano i filtri [Schleu-

9 G. Scholem, Zur Kabbala und ìhrer Symbolik, Frankfurt a.M. 1973, p. 22 (ir.
it. La Kabbala e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980].
10 Id., Von Berlin nach Jtrasalem, cit., p. 63.
245

sen] che interrompevano le correnti della tradizione. La struttura del­


la tradizione veniva portata ermeneuticamente alla coscienza, tradi­
zione e dottrina venivano smascherate come forme dogmatiche del
pensiero. D’altro canto, era anche interesse delle scienze dello spirito
che quelle tradizioni cui esse, seppure riflessivamente, davano svilup­
po non si dissolvessero completamente in pura opinione. Così le
scienze dello spirito operavano con un'ambivalenza tutta loro: nello
stesso istante in cui mettevano in luce documenti di importanza vita­
le, ne disincantavano anche tutte le pretese dogmatiche. Questa am­
bivalenza non ha mai cessato di animare ogni filologia che partecipi
alla vita dell’oggetto. Da Schleiermacher fino a Gadamer, l’ermeneu­
tica filosofica ha sempre cercato di venire a capo di questo problema.
Essa deve tenere insieme la contraddittorietà intrinseca a ogni assimi­
lazione sostantiva della tradizione, ossia a un’appropriazione cultura­
le che rende possibile e simultaneamente annienta il metodo delle scienze
dello spirito11. Questo problema si pone certamente anche per Scho-
lem, e tuttavia esso non sembra preoccuparlo più di tanto. Egli può
affrontare il problema dello storicismo (giacché di questo stiamo par­
lando) disponendo di un concetto di «tradizione» che si è severamer
te addestrato alla scuola della kabbala. Cerco di spiegarmi meglio.
Il mistico le cui intuizioni pretendono di avere accesso immedis
to al processo della vita divina si scontra subito con la gerarchia sa
cerdotale incaricata di amministrare l’autentica parola di Dio (anche
se la mistica ebraica si presenta, fino al XVII secolo, come forza orto­
dossa e corrente conservatrice). I kabbalisti hanno naturalmente inte­
resse a valorizzare la torah orale rispetto alla Bibbia: essi danno molto
rilievo ai commentari con cui ogni generazione si riappropria dacca­
po della rivelazione. La rivelazione non è più identificata con la torah
scritta. La verità non coincide più con una quantità fìssa e ben deter­
minata di citazioni (il che ridurrebbe la tradizione a semplice «ripro­
duzione», benché la più fedele possibile). Come «rivelazione» vale
piuttosto il processo stesso della tradizione: la rivelazione dipende
dalia.cre.at ivi tà del commentario. La torah scritta ha bisogno dfesse^
re integrata da quella orale: la voce di Dio ci parla a partire dalle di-

11 H.-G. Gadamer, Wahrheit und Metbode, Tubingen I960 [tr. ir. Verità e metodo,
a cura di G. Vattimo, Fabbri, Milano 1972; ora Bompiani, Milano 19949).
246

spute interpretative di tutte le generazioni dei saggi (un conflitto er­


meneutico che durerà fino al giorno del Giudizio)12. Se queste dispu-
te cessassero, la stessa sorgente divina si inaridirebbe. Più avanti,
questa stessa concezione kabbalistica viene ulteriormente radicalizza-
ta. Alla fine la stessa torah scritta vale come semplice traduzione del­
la parola divina nella lingua dell’uomo: anche essa diventa così sem­
plice e contestabile interpretazione. Tutto è torah orale: la torah^
scritta vale come concetto mistico che allude allo stato messianico di
una conoscenza futura Noi sappiamo della rivelazione, ma tutte le
ehiavi di accesso sono state scambiate tra loro.
Il pensiero di Scholem si applica con insistenza su questo punto,
che modifica la mistica ebraica in una molteplicità di simboli e di
parabole14. Qui egli sembra cercare la soluzione del problema di co­
me si possa conciliare la fallibilità della conoscenza umana (la molte­
plicità storica delle interpretazioni) con la pretesa assoluta e universa­
le di raggiungere la verità.
Nella sua traboccante pienezza di senso la torah rivolge volti di­
versi a ogni generazione, persino a ogni singolo individuo, eppure re­
sta sempre la stessa. La torah dell’albero della conoscenza è una torah
nascosta. Essa cambia di continuo i propri abiti e questi abiti sono la
tradizione. Solo nello stato della redenzione — quando teoria e prassi,
albero della conoscenza e albero della vita, ££jaranno_ri_u.niti_— la to­
rah verrà scopertamente alla luce. Solo in questa luce la molteplicità,
discordante delle,interpretazioni rivelerà la sua nascosta unità. Così il
concetto mistico di «tradizione» nasconde in sé un concetto messia-
nico di «verità» che sembra capace di resistere allo storicismo. La_di-
mensione deftempo, i sècoli fungo i quali il dialogo dottrinale non si
interrompe_-_secoli, anzi, che si orientano al «punto di fuga» di un
consenso finale («in thè long run», per dirla nella formula secolariz­
zata di Peirce) - sono ciò che consente di conciliare il fallibilismo del
processo conoscitivo con la prospettiva incondizionatamente valida
della conoscenzàTn sé.

12 G. Scholem, (jber einige Grundbegriffe des Judentums, eie., p. 90 e sgg.


13 Id., Zur Kabbala und ihre Symbolik, eie., p. 71 e sgg.
14 Cfr. \d.,Judaica III, eie., pp. 67 e sgg., 187 e sgg., 265 e sgg.; Id., 0ber eini­
ge Grundbegriffe des Judentums, eie., pp. 90-120; Id., Zur Kabbala und ihre Symbolik,
eie., p. 46 e sgg., p. 50 e sgg.
247

Collocate in questa prospettiva, anche le scienze oggettivanti del­


lo spirito si liberano della paura di dover fronteggiare una relativizza-
zione integrale delle pretese di verità. Come del resto tutte le altre
forme di conoscenza, anche esse condividono, con le tradizioni di cui
si appropriano, la natura ambivalente di una torah travestita, ossia di una
torah che conserva scintille di verità senza però concedere — finché
non sorga il giorno del Giudizio — la luce della certezza. Naturalmen­
te questa teoria della verità si affida a un concetto di «tradizione» che
non è semplicemente rivoltó^IljndTétnT7«Tfadrzione» nón^ignifìca
più prosecuzione e rinnovamento di una vecchia verità: come nelTil-
luminazione dei mistici, la verità può irromperejyertjcalmente nella
tradizione e spezzarne la continuità. La tradizione non poggia su una
direzione univoca della conoscenza, bensì su un’idea di conoscenza
che — nell’attesa della soluzione messianica — vive dello scontro tra
contenuti conservatori e contenuti utopici. Dunque questo concetto.
di tradizione abbraccia in sé sia rivoluzioni sia restaurazioni: esso spo­
glia la vecchia idea di tradizione di ogni carattere dogmatico.

* * *

Qui il motivo gnoseologico viene a intrecciarsi al motivo attinen


te la filosofìa della storia. Non diversamente dal complesso «cono­
scenza, tradizione e dottrina», anche il pensiero di una forza creatrice
della negazione, il pensiero dell’autonegazione di Dio, può servire a
dimostrare la fecondità teoretica di una lettura «non storicistica»
della kabbala. Tra le «dieci tesi non storiche» avanzate da Scholem
noi troviamo anche la seguente:

Il linguaggio materialistico della kabbala di Lucia — soprattutto nella sua


deduzione dello zimzum (l'autocontrazione di Dio) — suggerisce l’idea che il
simbolismo adoperante queste immagini e questi discorsi possa essere, tut­
to sommato, la cosa stessa15.

Nel quadro sia del pensiero mitico sia delpensiero .metafisico i


processi creativi erano sempre stati pensati come una creazione a par-
tire «da qualcosa», sia che questo «qualcosa» fosse inteso come caos

15 \d.,Judaica HI, eie., p. 266.


248

sia che fosse pensato come una materia antecedente i principi creato­
ri. Con la formula giudaico-cristiana della «creatio ex nihilo» entra
invece in azione un pensiero radicalmente nuovo: i 1 nulla da cui la
volontà assoluta tira fuori il mondo non deve più essere concepito co­
me una potenza ertene alla forza creatrice. E soprattutto il pensiero
dei mistici che, sprofondandosi nel processo della vita divina, si ap-
plica con più vigore a questa formula16. Al concetto di un Dio che
discende nei propri abissi per crearvi se stesso, Isaak Luria e Jakob
Bòhme possono collegarsi pensando la «creatio ex nihilo» secondo
l’immagine dialettica di un Dio che si restringe e si contrae. Dio ge­
nera dentro di sé un abisso in cui sprofondare, 1 iberando in tal modo
lo spazio che può essere occupato dalle creature. Il primo atto della
creazione è autonegazione con cui Dio, per così dire, evoca il nul-
la (una dottrina che si colloca agli antipodi deH’emanatismo neopla­
tonico). Questo modello concettuale offre l’unica soluzione coerente
al problema della teodicea: ~~~~

Un mondo perfetto non è creabile perché esso sarebbe un raddoppiamento


di Dio, il quale non può duplicarsi ma soltanto restringersi. I kabbalisti
non cadono nell'ingenuità di chi vorrebbe che Dio ripetesse se stesso. Dio
non potrà mai tallo, e così la creazione dovrà sempre essere soggetta a que­
sta «estraniazione» che, come avrebbe detto Hegel, è indispensabile per
consentirle di estrarre da sé, come creazione, Jo stessomale17.

Z L’autocontrazione divina è la forma archetipica dell’esilio e del-


< l’autoespulsione. Essa ci fa capire «perché ogni essere — a partire da
quell’atto primordiale — sia un essere in esilio, bisognoso di essere q-
> condotto a casa e redento»18. Da questa concezione dell’abissp, della
materia, dell’ira con cui Dio si ritrae nel suojvero.e proprio egoismo,
linee diverse ci conducono verso Marx passando attraverso Schelling
ed Hegel. Una prima linea sfocia nellajjialettica materialistica della
natura. Giàagli occhi dei mistici luriani, infatti, la creazione inces­
sante significa che la contrazione divina si ripete in ogni..processo
della natura e che ogni processo della vitarinnova questo contatto
con il nulla. Una seconda linea conduce verso la dialettica storica del-

16 Id., (jbtr einige Grundbtgriffe des Judenturns, cit., p. 53 e sgg.


17 Id., Von der mystischen Gestalt der Gottheit, Frankfurt a.M. 1977, p. 79.
18 Id., Zar Kabhala und ihrer Symbolik, cit., p. 151.
249

la rivoluzione e una terza linea verso una «presa di coscienza» nichi­


listica postrivoluzionaria,. Di queste due ultime correnti Scholem non
ha mancato di occuparsi a Fondo
Un Dio che si autoesilia dà naturalmente senso profondo alle espe-
rienze reali dell’esilio storico. Esso dà significato apocalittico ai mo­
menti in cui la violenza del negativo — le catastrofi della cacciata, del­
la repressione e dell’isolamento — già sembrano testimoniare la forza
creatrice del negativo e la svolta verso il bene..La parola poetica di HqI-
derlin, là dove afferma che l’elemento salvifico cresce proprio con il
crescere del pericolo, sembra essere qui anticipata alla lettera. Se per­
sino la creazione ha inizio con l’autoesilio di Dio, allora l’istante della
____ _ ' , ----- ----------— -- ------- ’ _______ w. - W

catastrofe suprema diventa un segnale di redenzione- «Quando sarete


precipitati nel liyellp^più_basso, in^^y/e/jTLOnientO-iQj/isalverò»20.
In realtà, più che rafforzare un’idea apocalittica di salvezza spon­
tanea e imprevedibile, il mondo concettuale di Isaak Luria aiutò il
messianismo di chi voleva «forzare la mano» alla redenzione. Ilgestq
dell’autoesilio, dopo tutto, significava anche che Dio si ritirava e la­
sci avajid altri uno spazio di libertà e di responsabilità. Il suo ritiro
rendeva possibili le catastrofi che, nella stessa vita divina, comincia­
no con la «rottura dei vasi» e che, con la caduta di Adamo, vengono
a ripetersi nella stessa storia dei_popo]L Anzi, Dio finisce poi per ri­
tirarsi tanto lontano, che il compito di riportare le cose al loro postr
dev’essere affidato alla responsabilità del fuorno. Come ogni peccar
ripete in sé revento_originario dell’autoesilio divino, così ogni nostr
buona azione contribuisce al recupero delle cose esiliale. «La venuta
del Messia non significa altro, per Isaak Luria, che la firma apposta in
calce a un documento che noi stessi abbiamo scritto»21. Alla mistica
era sempre stata familiare l’idea di una forza magica della contempla­
zione, in grado di suscitare moti nel cuore ddla.dfinità.e^dij.nnesca.-
re, nel cuore del mondo, un processoci redenzione della natura deca-
duta. La kabbala successiva rivolge alfesterno questo movimento in­
teriore, trasformandolo in un azionismo messianico che alla fine ac-

19 Id., ììber einige Grundhegriffe dei Judenturni, cit., p. 84 e sgg.; ìd.,Judaica III,
eie., pp. 198-217; Id., Zur Kabbala und ihrer Symbolik, cit., p. 135 e sgg.; Id., Vender
myitischen Geitalt der Gottbcit, cit., p. 77 e sgg.
20 Id., Ober einige Grundhegriffe dei Judentums, cit., p. 135.
21 Id., Zur Kabbala und ibrer Symbolik, cit., p. 156 e sgg.
250

qui sta il senso profano di una liberazione politica daH’esilio. Così,


partendo dal giovane Marx per arrivare fino a Bloch e al tardo Benja­
min, la parola d’ordine diventa: nessuna resurrezione della natura
senza una rivoluzione della società.
Sennonché Sabbatai Zwi e Nathan Gaza, suo profeta, cominciaro­
no a fare uso di queste idee in un senso non soltanto messianico, ma
anche antinomia)22. Sabbatai Zwi fu costretto dal sultano a scegliere
tra il morire martire oppure convertirsi all’IsIam. Egli si risolse per
l’apostasia e questo rinnegamento del Messia venne interpretato e
giustificato — secondo il modello dello «zimzum» — come un atto
creativo di sprofondamento nell’oscurità. Lo stesso tradimento diven­
ta componente tragica della missione cui tocca di superare la forza
dell’antidivino a partire dalla zona più interna di esso. Le conseguen­
ze nichilistiche di questa dottrina vengono studiate da Scholem sul­
l’esempio delle sette religiose frankiste. Egli analizza i fenomeni del
nichilismo ripercorrendo una storia ereticale che risale da taboriti e
adamiti, beghini e begardi, «fratelli» e «sorelle» del libero spirito,
fino alle più antiche sette gnostiche23. Tutti volevano soddisfare, sul­
la base di una prassi che infrangeva la legge, il vero senso messianico
della legge. Il modello di un Dio disceso nell’abisso giustificava, nel
messianismo eretico dei Sabbatiani, infernali visioni sulla forza re­
dentrice del sovversivo, giustificava il compimento di azioni rituali
simultaneamente distruttive e liberatorie, miranti a dimostrare la
forza della negazione.
Il modo con cui Scholem illustra il nichilismo religioso del XVIII
secolo suggerisce al lettore contemporaneo analogie e parallelismi
che devono essere maneggiati con cautela. Servendosi di esempi bio­
grafici, Scholem dimostra la tendenza della mistica a rovesciarsi in il­
luminismo. Il nichilismo di un Jakob Frank, per esempio, sembra
spingere la mistica ebraica fino al punto di far saltare l’involucro re­
ligioso, liberando impulsi profondi che si sposano alle idee della Ri­
voluzione francese. Tuttavia questa conversione di contenuti religiosi
in contenuti politici è avvenuta così frequentemente, e senza bisogno.
di mediazioni specifiche, che noi dobbiamo per forza chiederci se lo

22 Id., Die jiidi.sche Mysfik in ihren Hauptstromungen, eie., pp. 315-355.


23 Id., Der Nihilismus als religióse; Phànomen, «Eranos-Jahrbiicher 1974», 1977,
pp. 1-50.
251

stesso antinomismo non sia già, di per sé, una risposta allattisi del­
l’elemento religioso (così come il surrealismo è stato, nella moder-
nità, una risposta alla crisi dell’arte auratica). Sappiamo dell'interesse
di Benjamin per n_surrealismo: potremmo forse trovare dei paralleli­
smi con l’interesse di Scholem verso l’antinomismo?
I casi del nichilismo religioso e del nichilismo estetico sembrano
per certi versi analoghi. I contenuti sia della religione sia dell’arte (la
sostanza di queste due «sfere di valore», come avrebbe detto Max
Weber) avrebbero dovuto salvarsi, nel momento del loro crollo, attra­
verso una sorta di radicale autosuperamento distruttivo. Il che spiega
anche il carattere spettacolare di azioni destinate ad autoconsumarsi e
lo shock cui esse esplicitamente miravano. Oggi noi ritroviamo ca­
ratteristiche non troppo dissimili in una variante contemporanea di
terrorismo che, nelle intenzioni dei promotori, potrebbe salvare il ve­
ro contenuto della rivoluzione passando attraverso attentati spettaco­
lari e distruttivi. Questi attentati sono messi a segno nell’istante in
cui nei paesi sviluppati la rivoluzione non sembra più essere possibi­
le, nell’istante in cui lo stato moderno e la prassi rivoluzionaria a es­
so adeguata entrano in crisi, o comunque vanno soggetti a una tra­
sformazione difficilmente decifrabile.

** *

Dal ramificato pensiero di Scholem mi sono limitato a enucleare i


due motivi della gnoseologia e della filosofia della storia. Entrambi
condizionano la sua valutazione odierna del sionismo e del giudai­
smo. L’energia politica e spirituale di molte generazioni di intellet­
tuali ebrei ha trovato espressione nei valori universalistici dell’eman­
cipazione borghese e dell’emancipazione socialista. Per contro Scho­
lem insiste nel chiedere che questo universalismo trovi una sua incar­
nazione materiale. Del sionismo egli apprezza il fatto che, lungi dal­
l’essere un movimento messianico, esso sappia fare i conci.con le li­
mitatezze dell’esistenza storico-politica. Per contro Scholem non
identifica il giudaismo né con la figura politica di Israele né con
quella dei suoi contenuti religiosi tradizionali. Per lui il giudaismo è
soprattutto una questione morale, un progetto storico mai definibile
una volta per tutte. Il giudaismo è un’impresa dello spirito: per que­
sto, pur scaturendo da sorgenti religiose, è in grado di sopravvivere
252

alla loro secolarizzazione. Cerco si tratta di un concetto di giudaismo


abbastanza indeterminato, in quanto si riferisce solca fenomeni sto­
rici particolari. E tuttavia in esso si riflette un problema assai più ge­
nerale: come può un popolo salvare la propria identità nelle condizio­
ni della modernità?
In un’intervista del 1970 Le fu chiesto, signor Scholem, quale si­
gnificato possa ancora rivestire per il giudaismo odierno il pensiero
kabbalistico. In quell’occasione Lei mise in dubbio la possibilità che
la kabbala trovi una risposta vitale alla nostra situazione. Nel rispon­
dere, tuttavia, Lei fece uso di una figura concettuale kabbalistica:
«Good will appear as non-God. All thè divine and symbolic things
can also appear in thè garb of atheistic mysticism». Dopo che l’auto-
rità di chiunque proclami «Io sono il tuo Dio e Signore» non può più
pregiudizialmente sottrarsi alla critica, non ci resta che riformare
concettualmente la tradizione. Ora si tratta di considerare come uni­
co crimine quello commesso da chi spezza con la violenza il'legarne
vivente esistente tra le generazioni. Di tutte le società moderne, solo
quella che saprà trasferire in ambito profano i contenuti essenziali
delle sue tradizioni religiose — contenuti che guardavano «al di là»
del meramente umano - sarà anche capace di salvaguardare la sostan­
za dell’umano.
Per il giudaismo e per Israele la questione dell’identità si pone se­
condo Scholem in questi termini:

L'accecante paesaggio della redenzione ha concentrato su di sé (come in una


sorta di fuoco ottico) lo sguardo storico del giudaismo. Nessuna sorpresa se
vediamo qualche sopratono messianico accompagnarsi all ’i m pegno ir revoca­
bile della prassi concreta e della volontà di fare ritorno.a Sion. Si tratta di un
impegno che non vuole più alimentarsi di illusioni, che è nato dagli orrori e
dalle distruzioni della storia ebraica più recente, e che tuttavia — legato alla
storia e non alla metastoria — non intende lasciarsi completamente andare al
messianismo. Se questojmpegno sia anche in grado dì durare, senza affonda­
re nella crisi di quella pretesa messianica che, almeno virtualmente, esso evo-
ca, questo è l'interrogati vo che l'ebreodei nostri giorni eredita dal suo gran-
dè"e pericoloso passato e pone alla nostra epoca e al suo futuro’^.

24 Id., (Jbtr eimge Grundbegriffe dts Judtritumi, eie., p. 167.


XIV

HANS-GEORG GADAMER
L’URBANIZZAZIONE
DELLA PROVINCIA HEIDEGGERIANA (1979)*

7. Nella domenica di Pentecoste del 1940 Gadamer aprì il conve­


gno hegeliano di Weimar con una relazione dal titolo: «Hegel e la
dialettica degli antichi». Se vogliamo credere al ricordo ancora un po’
spaventato del Gadamer settantasettenne, la reazione allora scatenata
da questo «outsider» nel campo degli specialisti hegeliani non dovet­
te essere delle più cordiali. «Ora, io non rientravo nella schiera degli
hegeliani. Ma, dopo tutto, nulla vietava che si capisse qualcosa di
Hegel. O mi sbagliavo? [...) Mi rifeci da questa fatica spirituale an­
dando a visitare le tombe dei nostri grandi poeti nel cimitero di Wei­
mar»1. Nonostante gli anni trascorsi, Gadamer non è mai entrato
nella schiera degli hegeliani. Tuttavia è lui che negli anni Sessanta
dette vita alla «Deutsche Hegel-Vereinung», lui che organizzò im­
portanti convegni internazionali in cui gli specialisti di Hegel di­
scussero i loro lavori, lui che nel 1970 (anno del giubileo) prese l’ini­
ziativa per il convegno hegeliano di Stoccarda. Del resto quella confe­
renza che nel 1940 aveva suscitato scandalo, per il fatto di avere trop­
po avvicinato Hegel a Platone, apre oggi il libro che raccoglie tutti i
contributi di Gadamer su Hegel2; un libro che si chiude con un sag­
gio dal titolo «Hegel e Heidegger». E questi sono effettivamente i
due astri che hanno illuminato il percorso filosofico di Gadamer.

«Laudario» per Hans-Georg Gadamer, nel conferimento del premio Hegel


della città di Stoccarda il 13 giugno 1979. Pubblicato in H.-G. Gadamer, J. Ha­
bermas, Das Erbe Hegels, Frankfurt a.M. 1979, pp. 9-31 (tr. it. L’eredità di Hegel, a
cura di R. Racinaro, Liguori, Napoli 19881.
1 H.-G. Gadamer, Philosopbische Lehrjahre, Frankfurt a.M. 1977, p. 115 e sgg.
(tr. it. Autobiografia filosofica: uno sguardo retrospettivo, Queriniana, Brescia 1979).
2 Id.» Hcgels Dialcktik, Bonn 1971 (tr. it. La dialettica di Hegel, Marietti, Torino
19731.
254

Non appena la circa di Scoccarda si risolse a iscicuire lo «Hegel


Preis», Gadamer, che riencrava era i suoi promocori, impegnò la sua
influenza per fare assegnare a Heidegger la prima edizione del pre­
mio. Turcavia il primo vincicore risulcò poi essere Bruno Snell. Que­
sti ancefacti possono ora avere indocco la giuria — bilanciando era loro
esponenti significativi delle discipline umanisciche — ad assegnare la
nuova edizione del premio a Gadamer, cioè al filosofo che, per auto­
definirsi, ama ricordare di essere nello scesso cempo un allievo di
Heidegger e un culcore della filologia classica. Ed, effeccivamence,
nessuno meglio di lui porrebbe «fare da ponce» sulla discanza sempre
più profonda che separa oggi la filosofìa dalle scienze umane.
D'akronde, mencalicà e stile di quesco filosofo si collocano pro­
prio socco il segno del Briickenschlagen, del «fare da ponce». «Distin-
guendum est, cerco, ma più imporrance ancora è saper vedere l’insie­
me»3. Una massima che esce dalle sue labbra, e che avrebbe pocuco
suonare in modo ancora più gadameriano se al posco del «discinguen-
dum» noi crovassimo sericeo: bisogna saper «coscruire ponci». Ponri
che Gadamer ha sapuco gerrare non solranco sulla discanza che sem­
pre più separa era loro le diverse discipline, ma anche, e soprarcucro,
suH’inrervallo remporale che separa noi discendenci dai resci eredira-
ci, sulle diversicà linguistiche che rendono necessario il lavoro dell’in-
rerprece, suH'isolamenco che viene generare dalla violenza di un pen­
siero radicale. E quello di Heidegger è appunto uno di quei pensieri
che scavano fessaci incorno a sé. Io penso che il grande merico filoso­
fico di Gadamer sia consiscico nell’aver sapuco colmare quesci fessaci.
La merafora del «ponce» porrebbe però risvegliare associazioni sba­
gliare, e far pensare alla prescazione pedagogica di un «aiuco» per ac­
cedere a luoghi irraggiungibili. Non si rracra di quesco. Perciò prefe­
rirei dire: Gadamer urbanizza la provincia heideggeriana. E in realcà non
dovremmo mai dimenticare che - soprarcucro nella lingua cedesca -
il cermine «provincia» allude non solcanco aH'elemenco della limica-
cezza, ma anche a quello della caparbiecà e dell’originariecà.
Cerco Gadamer vedrebbe le cose in modo diverso. Un giorno egli
affermò che Heidegger aveva bisogno di uno come Karl Marx, il qua­
le, pur essendo avversario di Hegel, aveva sempre sapuco polemizzare
conrro chiunque craccava Hegel da «cane morto». Ma se giudico cor-

5 Id., Philosophische Lehrjahre, eie., p. 23.


255

rettamente la situazione di questi ultimi anni Settanta, Heidegger


non ha più nessun bisogno del suo Marx. Le subculture neoromanti­
che hanno già esplorato e occupato la dimora «quadrata» e strava­
gante [z>zr Geviert und ins Verstiegene] di Heidegger4. Tanto più impor­
tante diventa allora un pensatore come Gadamer, il quale traccia per­
corsi che consentirebbero anche a Heidegger di «tornare indietro»
dal vicolo cieco in cui si era spinto. Gadamer per un verso non si è ;
mai identificato con Heidegger, per l’altro verso lo ha seguito fino al
punto da poterne ora sviluppare in maniera produttiva, e su fonda­
mento sicuro, il pensiero filosofico. Io direi che è proprio qui che si
deve cercare la produttività di Gadamer.

2. Il rapporto di Gadamer con Heidegger è segnato dalla distanza


già semplicemente imputabile alle circostanze obiettive. Soltanto un­
dici anni separavano Gadamer dal più anziano Heidegger. Ma nel
momento in cui ne faceva conoscenza, Gadamer aveva già messo ra­
dici nel mondo del neokantismo di Marburgo: lì egli aveva preso la
libera docenza come allievo di Natorp e godeva dell’amicizia di Ni­
colai Hartmann, suo collega più anziano. Nella sua autobiografìa —
che porta il titolo ambiguo di Lehrjahre [anni di apprendistato e anni
di insegnamento] — Gadamer descrive bene il mondo in cui Heideg­
ger stava per fare irruzione. Egli ci descrive l’ambiente che circonda­
va lo storico dell’arte Richard Hamann, il fascino che Stefan George
esercitava sugli spiriti giovani, le passeggiate con E.R. Curtius, le
violenti discussioni dei teologi evangelici, e poi i circoli privati che s
raccoglievano regolarmente per seminari di lettura, per esempio i
circolo attorno a Rudolf Bultmann, dove ogni giovedì sera si legge­
vano i classici greci, oppure quello attorno a Gerhard Krùger, il qua­
le dava personale lettura di pagine della letteratura mondiale. Tutto
questo durò più di quindici anni, schermato come da un vetro dalle
vicende politiche della repubblica di Weimar. Quello era il mondo
che Heidegger, come un fulmine, doveva mettere a soqquadro. Il
vecchio Gadamer ricorda: «L'ingresso di Heidegger a Marburgo non
potrà mai essere immaginato con abbastanza drammaticità».
Nel chiederci, da un punto di vista biografico, perché la figura di
Heidegger sia stata così importante per Gadamer, noi potremmo par-

4 (Heidegger era morto il 26 maggio 1976 a Friburgo.)


256

tire dal fatto che Gadamer caratterizza se stesso attraverso una sene
di «prese di distanza». Gadamer viene dalla Slesia, una provincia
prussiana in cui, da giovane, gli era stata preconizzata una carriera da
ufficiale. Sennonché lui non si presenta affatto come un prussiano ed
è indubitabilmente un civile. Gadamer viene da una famiglia di
scienziati accademici (il padre era professore di chimica), ma fin dal
suo primo semestre lui si orienta verso le discipline umanistiche. Poi
si trasferisce a Marburgo, centro universalmente noto della filosofia e
della teologia. Ma anche da questo mondo di filosofia accademica e
di umanesimo troppo sicuro di sé Gadamer prende ancora una volta
le distanze, e questo avviene — con tutta evidenza — in virtù della
spinta che riceve da Heidegger. Fino a quel momento, egli aveva
guardato alla tradizione dell’occidente con gli occhi dello storicismo
ottocentesco. Poi viene Martin Heidegger che, in una maniera radi­
calmente nuova, rende viva e presente questa tradizione con un balzo
improvviso alle sue origini. Pur continuando a evocare la tradizione
culturale dell’occidente, Gadamer vuole ora andare al di là della «re­
ligione borghese in cui essa era stata conservata»5.
Questo è l’impulso fondamentale che è sotteso al suo capolavoro
filosofico, maturato nei decenni. Si tratta della volontà di chiarire,
agli occhi propri e altrui, ciò che significa incontrare testi eminenti,
ciò che significa il carattere normativo della classicità in generale,
laddove Gadamer sa benissimo di non potersi più appellare a nessun
canone, ma di dover anzi risalire «dietro» a ogni canone per spiegare
le condizioni storiche che hanno consentito a una certa opera di ac­
quisire un significato esemplare.

Rientra nelle esperienze fondamentali del discorso filosofico il fatto che i


classici del pensiero avanzino autonomamente una pretesa di verità che la
coscienza contemporanea non può né rigettare né semplicemente soprav-
vanzare. L’arroganza ingenua del presente può anche pensare di ribellarsi
[...]. Ma certo una debolezza ancora più grande colpirebbe ogni pensiero fi­
losofico che volesse sottrarsi a questa prova e preferisse vestire i panni di un
«folle» che pensa di testa sua. Che nella comprensione dei testi dei grandi
pensatori si giunga a conoscere una verità irraggiungibile per altra via è quan­
to noi dobbiamo senz’altro ammettere, anche se questo contraddice il crite­
rio autonomo della ricerca e del progresso.

5 H.-G. Gadamer, Philoiophiscbe Lebrjahre, eie., p. 181.


257

3- Questo passo è tratto dall’«Introduzione» a Wahrheit undMetho-


de, il libro che dette al Gadamer sessantenne una notorietà interna­
zionale relativamente tarda, dopo i lunghi anni di fecondo insegna­
mento a Lipsia, a Francoforte e soprattutto a Heidelberg (sulla pre­
stigiosa cattedra che era stata di Jaspers). Dallo stile discorsivo di
questo libro possiamo persino arguire il contesto dell'insegnamento
orale da cui il testo scritto deriva. L'ermeneutica filosofica disegnata
da Gadamer non va intesa come una dottrina metodologica, bensì
piuttosto come il tentativo — dopo Hegel, dunque dopo la fine ambi­
gua della metafìsica — di rinnovare la «pretesa di verità» che era ca­
ratteristica della filosofia. L’ermeneutica filosofica affronta coraggio­
samente il compito di ristabilire la continuità di questa «pretesa di
verità» al di là di una triplice interruzione della tradizione. Essa vuo­
le «fare da ponte» sopra le tre fratture che si sono dischiuse^tra noi e
la filosofìa classica dei greci: alludo alle tre «rotture» rappresentate
neH’Ottocento dallo storicismo, nel Seicento dalla fisica, e nel ri na­
sci mento dal passaggio a una visione-del-mondo moderna.
IL primo di questi «ponti» assume in Gadamer la figura di una
critica a Dilthey e alla sua teoria delle «scienze dello spirito». Gada­
mer supera la sedicente differenza tra mera presentifìcazione storica e
conoscenza sistematicamente fondata. La polemica è diretta contro
una coscienza storica che vorrebbe appropriarsi delle tradizioni chiu­
dendole in un museo e privandole di forza motivazionale. Conti
questo tipo di oggettivismo Gadamer fa valere la tesi per cui

il momento storico-effettuale [wirkungsgeschìchthch\ continua a influenzar»,


qualunque comprensione della tradizione, persino là dove la metodologia
delle moderne scienze storiche si è affermata attraverso una oggettivazione
di quanto storicamente ereditato6.

Il secondo di questi «ponti» assume in Gadamer la figura di una


ricostruzione della tradizione umanistica orientata alla kantiana fa­
coltà del giudizio. Egli supera così la sedicente differenza tra metodo
scientifico e ragione pratica. La polemica è diretta contro quel con­
cetto di «conoscenza metodologicamente oggettiva» che vorrebbe ri­
servare alle sole scienze sperimentali il monopolio della facoltà uma-

6 Id., Wahrbàt und IWetbode, eie., p. XV |rr. ir. eie., pp. 19-20].
258

na del conoscere. Gadamer invece vuole far valere la legittimità di


una «comprensione» che precede il pensiero oggettivante e collega le
esperienze della prassi comunicativa quotidiana con quelle dell’arte,
della filosofia, delle scienze dello spirito.
Infine, Gadamer s’impegna a riabilitare il contenuto oggettivo
della filosofia platonica e hegeliana. Qui egU vorrebbe superare il
contrasto, da lui ritenuto falso, tra visione-del-mondo metafisica e vi;
sione-del-mondo moderna. Le posizioni contrapposte nella celebre
quereiles des anciens et des inódernes sono, a suo giudizio, alternative fit­
tizie. Qui Gadamer si serve paradossalmente di una mossa simile a
quella con cui Wittgenstein voleva superare gli pseudoproblemi del­
la filosofia. Se studiamo seriamente il dato di fatto per cui ci trovia­
mo sempre dipendenti da certe tradizioni storiche, noi scopriremo
anche il motivo [Grand] per cui siamo costretti a interessarci a esse.
La tradizione può effettivamente rivelarci qualche cosa che noi, con le
nostre sole forze, non riusciremmo mai a conoscere. L’argomento si
presenta in questa forma interrogativa:

Possiamo forse dire infondato [grandiosi il dialogo con l’intera nostra tradi­
zione filosofica, vale a dire con quella totalità in cui noi siamo immersi e
con la quale, come filosofi, ci identifichiamo? È davvero necessaria una fon­
dazione per ciò che già da sempre ci sorregge?7

Come Wittgenstein si richiama al «dato di fatto» del funziona­


mento complessivo del nostro linguaggio quotidiano, così Gadamer
si richiama all’esperita impossibilità di esaurire il contenuto nascosto
dentro testi eminenti. All’autorità di questa esperienza Gadamer fa
appello con la stessa insistenza con cui un positivista si richiama alla
percezione sensibile.

4. Questa concezione è in stridente contrasto con la dispotica di­


struzione heideggeriana del pensiero occidentale, ossia con il proget­
to di screditare — come dimenticanza progressiva dell’essere — l’inte­
ra storia filosofica da Platone e san Tommaso fino a Cartesio e Hegel.
Possiamo forse immaginarci contrasto più netto di quello esistente

7 Id., «Prefazione alla seconda edizione», in Id., Wahrheit und Methodt, cit.,
p. XXIII [tr. it. eie., p. 16J.
259

tra il misticismo con cui Heidegger affonda nell’essere ogni articolata


figura della tradizione e il tentativo di Gadamer di rinnovare l’umane­
simo ricostruendo le idee di «formazione», «senso comune», «facoltà
del giudizio», «gusto» ecc. a partire da Platone fino alle «scienze
dello spirito» ottocentesche (passando attraverso il rinascimento, Vi­
co e la filosofia morale degli scozzesi)? Si tratta di un umanesimo che
si legava per Gadamer alle esperienze di cittadini metropolitani e la
cui decadenza aveva coinciso con la crisi della civiltà urbana.
Gadamer si è spinto con Heidegger assai più avanti di molti altri.
Lo ha infatti seguito nella «Kehre» [svolta] con cui ha rivisto l’auto-
comprensione trascendentale di Essere e tempo. Qui può essere interes­
sante ricordare una disputa che Gadamer ebbe con Lowith negli anni
Cinquanta, nel corso di un comune seminario sul testo di Heidegger
Vom Wesen der Wahrheit. Lowith

aveva scoperto da solo il giovane Heidegger e non aveva certo sottovalutato


l’importanza di Essere e tempo. Ma la cosiddetta «svolta» e il discorso sull’es­
sere, che non deve mai essere l'essere dell’ente, tutto questo gli pareva pura
mitologia e pseudopoesia. Tuttavia [e qui vediamo Gadamer difendere il suo
maestro, J. H.] non si tratta né di mitologia né di poesia, bensì di pensiero,
anche se questo parlare per metafore e questi tentativi poetici, derivanti
dalla penuria linguistica del nuovo pensiero, danno una testimonianza piut­
tosto confusa. Nonostante tutto, io ho cercato di lasciarmi aiutare a modo mio
dal pensiero di Heidegger8.

Se non vado errato, Gadamer può difendere con tanto più vigore, co­
me fosse pensiero [Dew^w], la «rammemorazione» [Andenken\ del mi­
sticismo heideggeriano, in quanto egli interpreta l’essere nei termini di
una tradizione, in quanto, cioè, egli non si abbandona al vortice infor­
male di un essere senza peso, bensì rende precisamente ragione (vol­
gendo il suo sguardo a Hegel) del flusso massiccio di parole oggetti-
vate, concrete, effettivamente pronunciate in un certo luogo e in un
certo tempo. Che qui sia avvenuto una sona di fraintendimento pro­
duttivo non è, dopo tutto, molto rilevante: come può una tradizione
continuare a vivere se non riproducendosi attraverso fraintendimenti?

8 Id., Philosophiscbe Lehrjabre, cit., p. 177.


260

Tuttavia c’è una circostanza che, come si vede dalla Postfazione al­
la terza edizione di Wahrheit und Methode, ha dato a Gadamer un mo­
tivo per riflettere. Egli ha sempre sottolineato che l’ermeneutica filo­
sofica non deve ridursi a teoria epistemologica e che il fenomeno del­
la «comprensione» caratterizza, prima di qualsiasi scienza, le diverse
modalità con cui una forma-di-vita comunicativa si rapporta al mon­
do. Tuttavia la Wirkungsgeschichte [storia effettuale] del suo libro ha
influenzato profondamente il quadro sia dell’epistemologia scientifi­
ca sia delle scienze umane. Più che avvicinare le scienze all’ambito
esperienziale della filosofia e dell’arte, la discussione aperta da questo
libro ha contribuito a mettere in evidenza come esista una dimensio­
ne ermeneutica interna alle stesse scienze, soprattutto alle scienze del­
la società e della natura. Negli ultimi anni l’ermeneutica filosofica -
favorita dalla traduzione inglese di Wahrheit und Methode e anche dal­
le numerose «guest lectureships» dell’autore presso università ameri­
cane — ha influenzato non poco la discussione anglosassone. I suoi ef­
fetti si sono fatti sentire anche al di là delle «divinity schools». Essa
si è unita a impulsi che sono stati liberati anche dal movimento di
■>rotesta degli studenti. Mentre sono stati individuati punti di con­
irto con l’analisi linguistica del tardo Wittgenstein e con l’episte-
lologia postempiristica di Thomas Kuhn, l’ermeneutica filosofica di
Sadamer si è anche coniugata alle prospettive fenomenologiche, in-
terazionistiche ed etnometodologiche della sociologia comprendente.
Tutti questi risultati non rovesciano per nulla il senso polemico che
era implicito al titolo del libro: verità contro metodo. Al contrario,
essi mostrano come l’ermeneutica abbia persino contribuito a rischia­
rare dall’interno il pensiero metodologico, a liberalizzare l’epistemo­
logia, a differenziare le pratiche di ricerca scientifica.

5. Cerco bisogna aggiungere che l’ermeneutica non circoscrive af­


fatto le sue intenzioni e i suoi effetti soltanto all’ambito di questa revi­
sione epistemologico-scientifìca. Così come la fenomenologia e l’ana­
lisi linguistica, anche l’ermeneutica evidenzia rapporti quotidiani di
vita e promuove il rischiaramento di strutture profonde del mondo
vitale. Sulla scia della filosofia linguistica di Humboldt, e per certi
versi parallelamente al pragmatismo (hegelianamente istruito) di un
Peirce, di un Royce, di un George Herbert Mead, l’ermeneutica di
Gadamer mette in luce qxieW intersoggettività linguistica che collega
261

preliminarmente individui socializzati in maniera comunicativa. Es­


sa cerca ostinatamente di individuare forma e contenuto di una «so­
lidarietà che lega tra loro tutti quelli che si servono del linguaggio»9-
Questa domanda è supremamente attuale ai nostri giorni, quando
una coscienza sensibilizzata vede ormai quali pericoli minaccino le
forme storiche della vita: una colonizzazione del mondo vitale da par­
te degli imperativi di un’incontrollata crescita economica, da parte
delle intromissioni burocratiche, da parte dei costi esterni di una set-
torializzazione formalizzata e giuridificata della società. Gadamer
non esita a estendere all’intera realtà sociale la critica heideggeriana a
un «soggettivismo della modernità» che è capace di «mettersi in cro­
ce da solo». Egli prima osserva l’autonomizzarsi di sottosistemi so­
ciali «che, essendo caratterizzati dall’autoregolazione, ci fanno imme­
diatamente pensare a una vita organizzata in cicli disciplinati». Poi
aggiunge subito dopo: «Sarebbe però un errore misconoscere la vo­
lontà di dominio che si esprime in questi nuovi metodi di controllo
sulla natura e sulla società»10. Qui la critica heideggeriana della tec­
nica si coniuga con un critica della ragione strumentale che ha origi­
ni diverse. Entrambe le critiche concordano però nell’attribuire la ca­
ratterizzazione filosofica della soggettività alla violenza unilaterale del
pensiero oggettivante. Ed entrambe concepiscono la soggettività co­
me un’autocoscienza fattasi rigida, un’«autonomia indurita» che può
essere strumentalizzata a fini di autoaffermazione. Qui Gadamer s’in­
serisce nel solco di una tradizione assolutamente tedesca. Egli accetta
una lettura della modernità contro cui sono state sollevate obiezioni
da parte di chi, di questa modernità, intende invece difendere le ra­
gioni di legittimità.
Se volessimo localizzare l’influenza filosofica di Gadamer nel qua­
dro politico del dopoguerra tedesco, io evidenzierei come elemento
significativo e purificante la sua grandiosa attualizzazione della tradi­
zione umanistica, orientata alla formazione del libero spirito. Questa
tradizione corre — attraverso tutta la modernità — come un elemento
di sotterranea concorrenza e integrazione rispetto alla forza struttu­
rante della scienza moderna. Sennonché lo stesso Gadamer è anche

9 Id., Vernunft ini Zeitalter der Wissenschaft, Frankfurt a.M. 1976, p. 10 (cr. ir. La
ragione nell'età delle scienze. Il Melangolo, Genova 1984).
Io/W.,p. 24.
262

consapevole del facto che in Germania — paese da cui non è mai par­
tita nessuna rivoluzione - l’umanesimo estetico è sempre stato assai
più sviluppato dell’umanesimo politico. Gadamer è consapevole del
fatto che in altri paesi europei le discipline umanistiche si sono arric­
chite di una coscienza politica assai più robusta11. Per questo mi
sembra che egli dovrebbe anche chiedersi, nel contesto tedesco, che
cosa sia più pericoloso: se svalutare la tradizione greca a semplice pre­
figurazione della modernità oppure misconoscere la dignità della
modernità stessa. Alla fine Gadamer respingerebbe questa alternativa
appellandosi alla dignità della tradizione', certo non di qualunque tra­
dizione, bensì di quelle tradizioni la cui forza risiede nella ragionevo­
lezza. «In verità la tradizione — che non è mera difesa di quanto tra­
smessoci, bensì sviluppo della vita etico-sociale — riposa sempre su una
presa di coscienza che si fa carico nella libertà»12. In realtà, noi pos­
siamo farci liberamente carico delle tradizioni solo quando siamo li­
beri di dire entrambe le cose: sì oppure no. Ciò che voglio dire è che
non si deve sottrarre alla tradizione umanistica proprio l’illumini­
smo, l’universalistico XVIII secolo. Ma aggiungendo ciò, non voglio
certo avere l’ultima parola. Gadamer è il primo a riconoscere l’infini­
ta apertura del discorso. Da lui possiamo tutti apprendere la fonda­
mentale saggezza ermeneutica per cui è illusorio supporre di poter
mai disporre dell’ultima parola.

11 H.-G. Gadamer, «Prefazione alla seconda edizione», in Id., Wahrheit und


Methode, eie., p. XIV [tr. ir. eie., p. 71.
12 Id., «Postfazione alla terza edizione», in Id., Wahrheit nnd Mtthodc, cit., p. 533
e sgg.
XV

MAX HORKHEIMER
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE A NEW YORK (1980)*

Dieci anni fa l’editore Kòsel ha ristampato i nove volumi (1932-


1941) della Zeitschrift fur Sozialforschung, integrandoli con un’intro­
duzione di Alfred Schmidt e un indice generale. Ora, in cofanetto ce­
leste, il Deutsche Taschenbuch Verlag rende accessibile questa ri­
stampa a un pubblico ancor più vasto di acquirenti. A prima vista
sembra una cosa normale. Dopo tutto la Zeitschrift contiene i testi
classici dei collaboratori di quell’«Istituto per la ricerca sociale» che
nel 1933 dovette emigrare prima a Ginevra poi a New York. Fino al­
lo scoppio della seconda guerra mondiale la Zeitschrift continuò a
uscire in tedesco presso un editore parigino; gli ultimi quattro ni’
meri uscirono invece a New York in lingua inglese.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, l’opinione pubblica ha re
trospettivamente imparato a collegare un gruppo di esuli antifascisti
al nome di quella «Teoria critica» che trovava nella Zeitschrift il suo
centro organizzativo e culturale. Spesso le discussioni scientifiche av­
venivano durante le sedute di redazione e gli obiettivi della ricerca si
collegavano strettamente ai progetti editoriali. La Zeitschrif non era
soltanto l’organo di un gruppo scientifico, ma il cuore di una vera e
propria scuola. Di ciò Max Horkheimer, il direttore editoriale, non
faceva mistero con i suoi lettori. Nella «Prefazione» alla raccolta del­
la sesta annata egli giustifica così, senza ambagi, la selezione dei
principali saggi pubblicati:

Nello scegliere di sviluppare una cerca tradizione filosofica, noi abbiamo de­
ciso di considerare elemento determinante per la selezione dei lavori non
soltanto la loro pertinenza scientifica, ma soprattutto modalità e direzione

Pubblicato in «Suddeutsche Zeicung», 2-3 agosto 1980.


262

consapevole del facto che in Germania — paese da cui non è mai par­
tita nessuna rivoluzione — l’umanesimo estetico è sempre stato assai
più sviluppato deH’umanesimo politico. Gadamer è consapevole del
fatto che in altri paesi europei le discipline umanistiche si sono arric­
chite di una coscienza politica assai più robusta11. Per questo mi
sembra che egli dovrebbe anche chiedersi, nel contesto tedesco, che
cosa sia più pericoloso: se svalutare la tradizione greca a semplice pre-
figurazione della modernità oppure misconoscere la dignità della
modernità stessa. Alla fine Gadamer respingerebbe questa alternativa
appellandosi alla dignità della tradizione', certo non di qualunque tra­
dizione, bensì di quelle tradizioni la cui forza risiede nella ragionevo­
lezza. «In verità la tradizione — che non è mera difesa di quanto tra­
smessoci, bensì sviluppo della vita etico-sociale — riposa sempre su una
presa di coscienza che si fa carico nella libertà»12. In realtà, noi pos­
siamo farci liberamente carico delle tradizioni solo quando siamo li­
beri di dire entrambe le cose: sì oppure no. Ciò che voglio dire è che
non si deve sottrarre alla tradizione umanistica proprio l’illumini-
smo, l’universalistico XVIII secolo. Ma aggiungendo ciò, non voglio
certo avere l’ultima parola. Gadamer è il primo a riconoscere l’infini­
ta apertura del discorso. Da lui possiamo tutti apprendere la fonda­
mentale saggezza ermeneutica per cui è illusorio supporre di poter
mai disporre dell’ultima parola.

” H.-G. Gadamer, «Prefazione alla seconda edizione», in Id., Wahrheit und


Methode, eie., p. XIV [cr. it. cit., p. 7).
12 Id., «Postfazione alla terza edizione», in Id., Wahrheit undMetbodc, cit., p. 533
esgg.
XV

MAX HORKHEIMER
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE A NEW YORK (1980)“

Dieci anni fa l’editore Kósel ha ristampato i nove volumi (1932-


1941) della Zeitschrift fiir Sozialforschung, integrandoli con un’intro­
duzione di Alfred Schmidt e un indice generale. Ora, in cofanetto ce­
leste, il Deutsche Taschenbuch Verlag rende accessibile questa ri­
stampa a un pubblico ancor più vasto di acquirenti. A prima vista
sembra una cosa normale. Dopo tutto la Zeitschrift contiene i testi
classici dei collaboratori di quell’«Istituto per la ricerca sociale» che
nel 1933 dovette emigrare prima a Ginevra poi a New York. Fino al­
lo scoppio della seconda guerra mondiale la Zeitschrift continuò a
uscire in tedesco presso un editore parigino; gli ultimi quattro nu­
meri uscirono invece a New York in lingua inglese.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, l’opinione pubblica ha re­
trospettivamente imparato a collegare un gruppo di esuli antifascisti
al nome di quella «Teoria critica» che trovava nella Zeitschrift il suo
centro organizzativo e culturale. Spesso le discussioni scientifiche av­
venivano durante le sedute di redazione e gli obiettivi della ricerca si
collegavano strettamente ai progetti editoriali. La Zeitschrif non era
soltanto l’organo di un gruppo scientifico, ma il cuore di una vera e
propria scuola. Di ciò Max Horkheimer, il direttore editoriale, non
faceva mistero con i suoi lettori. Nella «Prefazione» alla raccolta del­
la sesta annata egli giustifica così, senza ambagi, la selezione dei
principali saggi pubblicati:

Nello scegliere di sviluppare una certa tradizione filosofica, noi abbiamo de­
ciso di considerare elemento determinante per la selezione dei lavori non
soltanto la loro pertinenza scientifica, ma soprattutto modalità e direzione

’ Pubblicato in «Suddeutsche Zeirung», 2-3 agosto 1980.


264

dell’interesse. Gli articoli portanti, nei vari settori disciplinari, devono svi­
luppare e sfruttare una prospettiva filosofica condivisa. Quanto più negli al­
tri ambiti della vita già stanno diffondendosi indifferenza verso le questioni
generali dell’uomo e rinuncia a una loro ragionevole decisione, e quanto più
l’atteggiamento spirituale del relativismo finisce per essere dichiarato e ac­
cettato anche dalle persone più oneste, tanto meno la scienza medesima do­
vrà rinunciare a tener fede a certe determinate idee.

Parole che non esprimono nessun dogmatismo, bensì piuttosto la


decisa preferenza per interessi scientifici che avevano già caratterizza­
to i temi trattati fin dal primo numero della rivista.

Punti di fondo teoretici

Horkheimer aveva aperto il primo numero con un saggio dal tito­


lo Wissenschaft undKrise [Scienza e crisi]. Qui aveva sviluppato i linea­
menti di una «critica della scienza» in cui già si riconoscono i due
fronti su cui si impegnerà la teoria critica fino al «dibattito sul posi­
tivismo» degli anni Sessanta, ossia la duplice presa di posizione con­
tro lo scientismo e contro la metafisica. Queste due contrapposte va­
rianti di una stessa idea teorica formano lo sfondo polemico a partire
dal quale Horkheimer — in collaborazione con Herbert Marcuse —
svilupperà successivamente gli elementi per una teoria critica della
società. Analogamente a quanto intrapreso da Husserl nella Krisis der
europaischen Wissenschaften [Crisi delle scienze europee], anche Hork­
heimer vuole spezzare l'autocomprensione oggettivistica delle scien­
ze empiriche, portare alla luce il mondo-di-vita quale contesto sotte­
so all’indagine, evidenziare i fili ricolleganti la prassi sociale alla me­
todologia. Anche gli altri saggi di quel primo fascicolo, ancora pub­
blicato a Francoforte, costituiscono dei caratteristici punti di parten­
za per il successivo sviluppo della teoria. Erich Fromm scrive sui
compiti di una psicologia sociale analitica, Lowenthal e Adorno tratta­
no temi di sociologia letteraria e musicale, Friedrich Pollock e Henryk
Grossmann di capitalismo, crisi economica e «speranze in una nuova
pianificazione».
Sulla base di pochi energici assunti, Erich Fromm elabora i prin­
cipi di una feconda assimilazione del marxismo alla psicoanalisi. La rivo­
luzione mancata, il trionfo della dittatura fascista in Germania, la
265

deformazione burocratica del socialismo nella Russia di Stalin: questi


erano gli avvenimenti che inducevano ad approfondire le mediazioni
psichiche tra le forme della coscienza, da un lato, e i mutamenti so­
cioeconomici, dall’altro. Toccava alla psicoanalisi spiegare come la
pressione delle situazioni economiche si traducesse — passando per la
struttura pulsionale — in modalità di azione e in ideologie. Negli an­
ni successivi, una così felice coniugazione tra teoria della società e
psicologia freudiana dello sviluppo riuscirà soltanto a Talcott Par­
sons. Tutti i collaboratori della cerchia interna dell'istituto francofor-
tese poterono immediatamente servirsi degli strumenti teorici ap­
prontati da Fromm.
Lo stesso vale anche per la teorìa della cultura di cui i lavori di
Lowenthal, Adorno e Benjamin erano esempi significativi. Fin dal
suo primo saggio Lowenthal denunciava il «rapporto inadeguato»
che collegava le dottrine letterarie a psicoanalisi, storia e sociologia,
criticandone la tendenza a trasfigurare metafisicamente i loro ogget­
ti. D’altro canto, il «rapporto tra i processi culturali e quelli econo­
mici» non doveva essere indagato in termini empiristici, nel senso di
una «messa in parallelo» di tipo sociologico. Pur partendo da un'ana­
lisi immanente dell’opera, i francofortesi radicai izzavano l’analisi
estetica in maniera tale da decifrare i meccanismi sociali e le dinami­
che psichiche (radicate nella sfera economica) a partire dagli aspetti
apparentemente più lontani, esoterici e difficili dell’opera d’arte. Stu­
diando criticamente l’ideologia borghese nelle opere narrative e tea­
trali della letteratura europea, Lowenthal dischiudeva una strada suc­
cessivamente percorsa da generazioni intere di studiosi di germani­
stica. Lowenthal insisteva sia su elementi formali (modalità narrative
e conduzione del dialogo) sia sull’organizzazione materiale e sulla
scelta tematica. In maniera ancor più evidente, lo stesso metodo qua­
si poliziesco di rintracciare le valenze sociali della forma estetica lo ri­
troviamo negli studi dedicati da Adorno a Schònberg e a Wagner,
oppure nel saggio di Benjamin su Baudelaire. Si tratta di testimo­
nianze affascinanti di una critica estetica sviluppata in termini di
teoria sociale, una critica di cui soltanto nella produzione di Lukàcs
ci è dato trovare qualche parallelo.
Tra questi lavori — tutti teoreticamente esemplari — i meno origi­
nali erano forse quelli dedicati al quarto tema: l'economia politica (un
tema che vediamo trattato soprattutto nei saggi di Pollock e Gros-
266

smann). In una rivista di orientamento marxista, questo tema doveva


solitamente occupare il centro della discussione. E, in effetti, nell’in­
dice della rivista possiamo trovare, a firma di Kurt Mandelbaum e
Gerhard Meyer, rassegne sulla letteratura economica concernente la
pianificazione. Troviamo anche — nella sezione intitolata «movimen­
to sociale e politica sociale» - informate recensioni circa temi concer­
nenti il movimento operaio. Tuttavia la teoria economica non risulta
qui effettivamente approfondita e sviluppata. Le interessanti tesi di
Pollock sul capitalismo di stato, nonché i famosi studi di Wittfogel
sul dispotismo orientale, confermano piuttosto un mutamento signi­
ficativo della prospettiva teorica. Oggetto d’interesse non erano più i
conflitti immediatamente generati dal sistema economico, quanto
piuttosto i meccanismi di ammortizzazione con cui lo stato aveva
imparato, governando le crisi economiche, a neutralizzare i conflitti
economici e culturali della società. Su questa linea si collocavano an­
che i lavori politologici e giuridici di Franz Neumann e di Otto Kir-
chheimer, due giuristi che solo durante l’emigrazione vennero a di­
retto contatto con l’istituto francofortese. Anche se il loro orienta­
mento socialdemocratico contribuì a tenerli fuori dalla cerchia inter­
na dell’istituto, i loro originali lavori sulla «teoria della democrazia»
ronservano anche oggi tutto il loro interesse.
I grandi saggi pubblicati rispecchiano l’impareggiabile produtti­
vità di una piccola cerchia di scienziati che, nello spazio sempre più
angusto dell’emigrazione, si raccolgono intorno alla rivista come a
una sorta di bandiera. La rivista funge da punto focale di aggregazio­
ne. La cosiddetta Scuola di Francoforte — se mai la si volesse datare e
localizzare nel tempo e nello spazio - fu in realtà quella che tra il
1934 e il 1941 si raccolse a New York, nell’edificio 429 offerto dalla
Columbia University sul lato ovest della 117a strada.

Ciò che fa della «Zeitschrift» un documento

Proprio la parte più importante della Zeitschrift, quella di cui ab­


biamo parlato finora, è stata anche quella più ampiamente saccheg­
giata. All’uscita del reprint — nel 1970 — tutti i saggi importanti di
Marcuse, Adorno e Benjamin, Lowenthal e Fromm, Neumann e Kir-
chheimer, risultavano già ristampati e disponibili sul mercato. Dopo
267

non poche esitazioni, persino Horkheimer aveva acconsentito a ri­


pubblicare i suoi saggi della Zeitschrift. Tuttavia, ai due volumi usci­
ti presso Suhrkamp nel 1968 egli antepone una Premessa in cui sem­
bra prendere esplicitamente le distanze. Delle «concezioni economi­
che e politiche» che ancora negli anni Trenta avevano orientato il suo
pensiero egli dice ora che «non hanno più una validità immediata».
Ammonisce anche gli studenti: «Un’applicazione sconsiderata e dog­
matica della teoria critica alla prassi, nella realtà storica mutata non fa­
rebbe che accelerare il processo che invece essa dovrebbe denunciare»
[Teoria critica. Scritti 1932-1941, tr. it. Einaudi, Torino 1974, voi. I,
p. VII]. Ma se tutto ciò che contava era già stato pubblicato, e anche
rimesso nella sua giusta prospettiva, perché si è sentito ancora il bi­
sogno, dieci anni fa, di ristampare integralmente la Zeitschrift?
Per un caso fortunato è stato lo stesso Horkheimer a mettermi in
grado di rispondere a questa domanda. Nella seconda metà degli an­
ni Cinquanta io ero suo assistente all’istituto francofortese, e proprio
le riserve di cui ho parlato prima lo inducevano a sconsigliarci dal
prendere in mano la rivista. Nella cantina dell’istituto c’era sì la col­
lezione completa, ma restava chiusa in baule e inaccessibile. Così ic
conoscevo soltanto pochi numeri della Zeitschrift, e nel momento i
cui potei finalmente sfogliarne la collezione completa erano già sta
ristampati altrove tutti i contributi più importanti. Allora, ritenendc
di conoscere già tutto quanto si doveva, io restai molto stupito nello
scorrere l’indice delle annate e nello scoprire l’ampiezza e l’importan­
za delle sezioni dedicate alle recensioni. Il contenuto di una rivista
non si riduce ai saggi importanti che le danno profilo teorico.
I libri hanno un loro destino. Possono andare persi, essere dimen­
ticati, essere riscoperti. Anche i libri che durano nel tempo hanno un
loro destino. Le nuove edizioni sono come punti fermi da cui ogni
nuova generazione di lettori produce imprevedibili sequenze di rea­
zioni. Con le riviste le cose stanno altrimenti: esse stesse inceppano la
portata della loro influenza. Il ritmo del loro apparire scandisce la lo­
ro attualità. Ogni nuovo numero neutralizza il precedente e dopo
l’ultimo numero la rivista finisce in archivio. I periodici restano lega­
ti al luogo del loro apparire più che le monografie all’anno della pri­
ma edizione. Tuttavia i periodici hanno anche un’altra «chance»: se
hanno assorbito a sufficienza dello spirito del loro tempo, possono di­
ventare un documento. E talora anche i documenti hanno un loro desti-
268

no. Forse potrebbe essere questa la chiave per studiare il successo del­
la Zeìtschrift fììr Soztalforschung.
I saggi che definiscono teoricamente i capisaldi della scuola occu­
pano meno della metà di ogni numero. La parte dedicata alle recen­
sioni è più di un terzo dello spazio. E siccome la redazione esigeva re­
censioni estremamente concentrate e brevi, noi troviamo annualmen­
te recensiti più di 350 titoli (nel corso degli anni quasi 3500). Nelle
linee direttive della politica redazionale — come Horkheimer ci ricor­
da nella sua prefazione alla sesta annata — non rientra soltanto il per­
fezionamento di una certa posizione teorica.

Se, di fronte al disorientamento intellettuale, appare anzitutto necessario


perseguire con accanimento determinate idee nei vari settori della teoria so­
ciale, tuttavia ogni tipo di pensiero filosofico ha anche il bisogno di osser­
vare continuamente il lavoro svolto dalle singole discipline. Al lettore della
nostra rivista ciò dev'essere reso possibile soprattutto dalle recensioni. Noi
cerchiamo per lo meno di segnalare tutto quanto d’importante viene pub­
blicato anche nei campi meno conosciuti. La parte della rivista dedicata ai
saggi trova così ampliamento nelle rassegne specialistiche che trattano sin­
gole questioni sociologiche. Qui la differenza delle posizioni teoretiche pas­
sa in secondo piano rispetto alla illustrazione delle singole fattispecie. La
critica che noi facciamo alla scuola positivistica non ci impedisce di ricono­
scere e di promuovere le sue prestazioni specialistiche (voi. VI, p. 2).

Nello stesso fascicolo, accanto a lavori di Horkheimer, Marcuse e


Fromm vediamo comparire anche pubblicazioni di Otto Neurath e
Paul Lazarsfeld: il primo proveniente dal Circolo di Vienna, il secon­
do specializzato nei rilevamenti e nelle tecniche dell’indagine socio­
logica. Tuttavia il monito horkheimeriano circa la necessità di «os­
servare continuamente il lavoro svolto dalle singole discipline» si ri­
ferisce soprattutto alla parte dedicata alle recensioni. Qui si nasconde
1 imponente lavoro di Leo Lowenthal, nelle cui mani convergevano le
fila di tutto 1 impegno redazionale. Senza di lui, senza la parte (da lui
curata) dedicata alle recensioni, non avrebbe mai potuto essere realiz­
zato il progetto di Sozialforschung [ricerca sociale] cui si riferisce Hork­
heimer nella prefazione al primo numero della rivista. L’idea era quel­
la di elaborare una teoria della società contemporanea, la quale in
tutte le singole discipline sociali fosse in grado di sottoporsi al giudi­
zio della ricerca empirica.
269

L’unità delle scienze sociali

Nelle scienze ottocentesche dello spirito, la filosofia implicita alla


«Historische Schule» tedesca aveva sviluppato per due o tre genera­
zioni una sorta di forza unificante, che sarà poi portata al concetto da
Wilhelm Dilthey. Qualcosa di analogo riesce a fare Horkheimer con
questa rivista per quanto attiene alle scienze sociali, seppure soltanto
per la durata di un decennio. La letteratura presentata e discussa nella
sezione delle recensioni costituisce una sorta di materiale grezzo che
quasi spontaneamente confluisce nel quadro della teoria. E su questo
materiale che trova conferma la forza organizzatrice dei principali in­
teressi guida della ricerca. La sezione dedicata alle recensioni si suddi­
vide a sua volta negli scomparti di filosofìa, sociologia generale, psi­
cologia, storia, movimento sociale e politica sociale, sociologia specia­
le ed economia. La sociologia speciale ricomprende in sé anche scien­
za politica, antropologia culturale e teoria giuridica. Mai, nelle scien­
ze sociali, ritroveremo superate con più intelligenza le distanze sepa­
ranti tra loro discipline e nazionalità, mai ritroveremo esposta in ma­
niera così convincente l’unità delle diverse discipline - il tutto a par­
tire dalla prospettiva di un marxismo non ortodosso, di un marxismo
«occidentale» (per usare l’espressione di Merleau-Ponty) capace di co­
niugare l’eredità della filosofìa tedesca da Kant a Hegel con la tradi­
zione della teoria sociale da Marx e Durkheim fino a Max Weber.
In tutto ciò le discussioni all’interno del marxismo non vengono
quasi tematizzate. Certo, abbiamo un Lukàcs o un Borkenau che scri­
vono sulla vecchia «Gesamtausgabe» di Marx ed Engels, Korsch che
parla di Lenin, Paul Mattick del giovane Sidney Hook, Marcuse di
Cornu e di marxologia francese. Troviamo recensiti Labriola e il noto
saggio di Natalie Moszkowska sulle teorie della crisi. Ma tutto ciò
non viene disturbato dai consueti riverberi della lotta intestina tra le
frazioni. Karl Korsch, per esempio, pare assai più interessato a Dono­
so Cortés, alla violenza di stato nell’Italia fascista, agli studi su Sorel
di Michael Freund, alle istruttive ambivalenze di un autore giovane­
conservatore come Wilhelm Eschmann (circa la cosiddetta «rivolu­
zione» del 1933).
Horkheimer e Lòwenthal non avrebbero potuto realizzare i loro
ambiziosi obiettivi di politica redazionale se non avessero saputo
guadagnarsi la collaborazione di specialisti internazionalmente noti,
270

vale a dire di personaggi come Alexandre Koyré, Maurice Halbwa-


chs, Raymond Aron e George Friedmann da Parigi, Moris Ginsberg
e T.H. Marshall dall’Inghilterra, Charles A. Beard, Margaret Mead,
Harold D. Laswell e Otto Lipmann dagli Stati Uniti.
Le risorse a disposizione della rivista sono invidiabili. Così essa
può guadagnarsi la collaborazione di molti appartenenti all’emigra­
zione tedesca antifascista. Naturalmente ci sono anche assenze carat­
teristiche: mancano Ernst Bloch, Hannah Arendt e Hans Morgen-
thau. Della cerchia della New School troviamo soltanto Adolf Lòwe e
Hans Speier. Ma della schiera dei recensenti fanno pur sempre parte
Ernst von Aster, Otto Fenichel, P. Honigsheim, Karl Landuaer, Karl
Lowith (prima da Roma, poi dal Giappone), Ernst Manheim, Sieg­
fried Marck, Paul Massing, Hans Mayer, F. Neumark (da Istanbul),
Arthur Rosenberg, Ernst Schachtel e Giinther Stern. Singoli contri­
buti giungono anche da Ossip Flechtheim, Hans Gerth, Bernhard
Groethuysen, A.R. Gurland, Herta Herzog, Ernst Krenek, Frieda
Reichmann e Paul Tillich.
La redazione può utilizzare questa dovizia di esperti per indagare
accuratamente i diversi settori di ricerca. La rivista può familiarizza­
re il pubblico tedesco con le nuove tendenze straniere, per esempio
con la scuola funzionalistica dell’antropologia culturale americana
(Malinowski, M. Mead, R. Benedict), con gli sviluppi sociologici sia
della scuola di Durkheim sia della scuola di Chicago, con A.C. Pigou
e con gli inizi dell’economia del benessere, con il pragmatismo di
G.H. Mead e di Dewey, con i grandi lavori storici di Pi renne o Toyn­
bee. Soprattutto, la rivista può reagire criticamente a novità scientifi­
che quali la teoria del campo di Kurt Lewin, l’incipiente psicologia
analitica dell’io, l’opera rivoluzionaria di Keynes o quella di Joan Ro­
binson, oppure quel movimento della «Unifìed Science» che derivava
daH’empirismo logico. Sono questi alcuni esempi della forza integrati­
va e della capacità di reazione che caratterizzarono la rivista. Essi illu­
strano anche l’ampiezza degli stimoli intellettuali rispetto ai quali es­
sa rappresentò un organo ricettivo estremamente sensibile e analitico.
Non fosse che per questa sola impresa — la capacità di realizzare
con ispirazione filosofica l’unità della scienza sociale in un momento
storico determinato — la rivista porrebbe essere considerata un docu­
mento estremamente influente e significativo della sua epoca. Io cre­
do però che questa impresa non avrebbe mai potuto realizzarsi se non
271

fosse stata sostenuta da un impulso storico-politico. In una sua ricer­


ca esemplare — uscita presso Suhrkamp nel 1978 con il titolo Studien
zur friìhen Kritischen Theorie [Studi sulla prima teoria critica] — Hel­
mut Dubiel ha mostrato il ruolo determinante che nello stesso svi­
luppo della teoria critica ebbero le esperienze storico-politiche relati­
ve alla fine del movimento operaio rivoluzionano, al nazismo e allo
stalinismo. Egli ha anche mostrato come queste esperienze abbiano
progressivamente soffocato le speranze che avevano tenuto a battesi­
mo la rivista, e abbiano anzi finito per spingere la cerchia interna
dell'istituto in quella versione dialettico-negativa della teoria del totali­
tarismo con cui Horkheimer e Adorno — con nelle mani soltanto una
critica della ragione strumentale — fecero infine ritorno nella Germa­
nia Federale del dopoguerra.

L’impulso storico-politico

La «Prefazione» {Foreword\ che Horkheimer appose nel luglio


1940 al primo numero inglese della rivista illustra i motivi di cui la
rivista aveva fino allora vissuto:

Fin qui la rivista non è stata fatta uscire in America in quanto i nostri let­
tori sono stati, negli ultimi otto anni, soprattutto europei. Tradizioni filo­
sofiche e scientifiche che non era più possibile sviluppare in Germania han­
no così continuato a vivere nella nostra lingua madre. La lingua in cui gli
articoli vengono scritti non manca mai d’influenzare il contenuto del pen­
siero [...]. Sennonché oggi dobbiamo subordinare questa idea al desiderio di
mettere tutte le nostre fatiche (persino nella forma linguistica esteriore) al
servizio della vita sociale americana. In quasi tutte le regioni d’Europa la fi­
losofia, l’arte e la scienza non hanno più patria (voi. Vili, p. 321).

Basta guardare le pagine dedicate alle recensioni negli ultimi


quattro numeri in lingua inglese per capire immediatamente su qua­
le problema naufragò la rivista: era stato tagliato il cordone ombeli­
cale con la cultura accademica della madrepatria. Fino a quel mo­
mento gli esuli avevano ancora guardato alla Germania con quello
sguardo particolare in cui amore e attaccamento si mescolano a tri­
stezza, irritazione e paura. In molti sguardi spaventati è rintracciabi­
le qualcosa che rende ancor oggi opprimente la lettura di queste re-
272

censioni da parte di chiunque conosca la notorietà degli autori. Sono


pagine in cui si riflette la putrefazione dello spirito avvenuta nelle
università tedesche.
I primi numeri pubblicati a Francoforte erano ancora immersi nel
mondo accademico degli anni Venti. Le molte e sintetiche recensioni
lasciavano emergere un paesaggio familiare. Ci sono noti scienziati so­
ciali come Vierkandt, Tònnies e Thurnwald, Karl Mannheim, Alfred
Weber, Emil Lederer, Robert Michels, Theodor Geiger o A. von Mar­
tin. Troviamo affiancati e discussi nello stesso contesto C.G. Jung e
Freud, Hans Freyer e Neurath, Ludwig von Mises e Lenin, Kurt Brey-
sig e Franz Mehring. Il ventaglio va da Eugen Rosenstock fino a Ni­
colai Hartmann, da Lujo von Brentano fino a Kautsksy, da Alfred
Schiitz ed Eduard Heimann fino a Kuczynski, da Malinoski e Bergson
fino a Croce. Regna qui un pacifico clima di arbitrato in cui raramen­
te appaiono toni aspri. Adorno parla dell’emotività vibrante e genero­
sa di Spengler, il giovane Dolf Sternberger smaschera con intelligenza
il ruolo ideologico di Othmar Spann. Anche Richard Lòwenthal è cri­
tico: da un punto di vista ancora marxistico fa a pezzi proprio quella
teoria democratica — sviluppata da Schumpeter e Weber — cui egli
stesso in anni successivi farà ritorno. Ma Karl Korsch esalta ancora i
punti di forza della teoria di Cari Schmitt e Hans Speier avanza solo
esitanti riserve contro la riduzione del politico ai rapporti di «amico­
nemico». Due fascicoli dopo troviamo già un’atmosfera compieta-
mente diversa. Allorché dello stesso libro di Schmitt, Der Begriff des
Politischen [Il concetto del politico], appare la terza edizione, Marcuse
può limitarsi a enumerare le modifiche — vuoi opportunistiche vuoi
provocatorie — che dopo il 30 gennaio 1933 l’autore aveva ritenuto
opportuno inserire tacitamente nel testo.
Horkheimer mette tuttavia in guardia da giudizi affrettati, quan­
do fa riferimento alle «correnti intellettuali oggi dominanti in Ger­
mania, che sono assai complesse da un punto di vista sociologico». Ed
effettivamente dalle recensioni delle pubblicazioni tedesche emerge
un quadro piuttosto complicato. Naturalmente la rivista non perde
di vista le opere degli emigrati — anche di quelli con cui non sembra
esistessero rapporti personali —, recensendo per esempio opere di Karl
Mannheim, Ernst Heller, Helmuth Plessner, Leo Strauss, E. Voege-
lin, W. Hallgarten e Gotthard Giinther. Ma l’attenzione principale
resta rivolta agli autori che ancora possono sviluppare in Germania le
273

tradizioni scientifiche tedesche. E qui sono da citare Jaspers, Lite e


Nicolai Hartmann in campo filosofico, Franz Schnabel, Friedrich
Meinecke, Erich Kahler e Hermann Oncken nel campo degli storici.
Vengono accuratamente registrate sia le nuove edizioni dei classici
(Hegel, Dilthey) sia le sottili differenziazioni politiche all’interno
delle scuole più note (come quella di Heidegger a Friburgo o di Fe­
lix Kriiger a Lipsia). Con Marcuse, Lowith e Giinther Stern (che do­
po la guerra sarà noto con lo pseudonimo di Giinther Anders) la rivi­
sta può disporre di tre filosofi cresciuti intellettualmente nella Fri­
burgo di Husserl e di Heidegger. Non senza un certo senso di sollie­
vo, alla fine del 1936, Marcuse apre una sua recensione collettiva fa­
cendo osservare come alcuni testi provenienti dalla cerchia heidegge­
riana, benché non direttamente concernenti la ricerca sociale, meriti­
no di essere ricordati in quanto non si sono piegati all’ideologia do­
minante e hanno «cercato di offrire una trattazione oggettiva della
loro materia». Si nota qui lo sforzo di distinguere contorni che la di­
stanza fa apparire sfocati e confusi.
E caratteristico ciò che Adorno scrive sul libro di Erich Rothacker
Die Schichten der Personlichkeìt [Gli strati della personalità], vale a dire
proprio sul libro che noi — allievi di Rothacker — studiammo nell’im­
mediato dopoguerra per i nostri corsi di psicologia, senza però cono­
scere queste acute distinzioni adorniane scritte a New York nel 1938.

li libro mostra tutta l’erudizione della scuola di Dilthey ed è organizzato in


maniera sapiente. Colpisce il suo silenzio in campo politico e manca ogni
strumentalizzazione ideologica della stratificazione organica della persona­
lità. Il capitolo dedicato alla psicologia dei popoli - sottolineando contro le
costanti i momenti di storicità — potrebbe persino significare una nascosta
polemica contro la dottrina razziale. Troviamo citati i nomi di Bergson,
Koffka, W. Stern, Geiger, Kurt Goldstein. Manca invece quello di Freud.
Ed è un vero peccato, dal momento che l’unica idea meritevole dei libro —
quella degli «strati» della persona e del loro rapporto — è già compiuta-
mente rinvenibile nella teoria freudiana dei «sistemi» inconscio, preconscio
e conscio nonché nell’elaborazione delle loro interpretazioni topologiche e
dinamiche (voi. VII, p. 423).

Su un’altra pagina scanno le ironiche osservazioni di Giinther


Stern a proposito della pubblicazione, avvenuta nel 1936, delle lezio­
ni americane di C.G. Jung. In America Jung si era espresso in fermi­
274

ni più cauti di quelli da lui usati subito dopo l’instaurazione del


«nuovo ordine» nazista. «Sarebbe ingiusto, scrive Stern, sottovaluta­
re la diversa sensibilità dimostrata da Jung nelle diverse sedi geogra­
fiche». E ancora su un’altra pagina sta la rassegna che Erich Trier in­
via da Francoforte sugli ultimi sviluppi della teologia evangelica
(Barth, Gogarten, Muller), oppure quella che Hugo Marxen e Hans
Mayer inviano da Zurigo a proposito della tragica farsa messa in sce­
na - nel campo del diritto statuale tedesco — da Cari Schmitt e dalla
sua cerchia, da gente come Ernst Anrich, E.R. Huber, Ernst For-
sthoff, Otto Koellreutter, Herbert Kriiger e Karl Larenz.
In questo contesto si colloca il saggio di Herbert Marcuse Der
Kampf gegen den Liberalismi in der totalitaren Staatsauffassung [La lotta
contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello stato]. Solo con
questo lavoro Marcuse prende le distanze dal maestro Heidegger, do­
po lo scalpore sollevato tra gli emigrati dal «Discorso di rettorato» e
dall’articolo uscito sulla Studentenzeitung di Friburgo il 10 novembre
1933. Tuttavia Marcuse si stacca da Heidegger solo con un piccolo
trucco. Il decisionismo di Cari Schmitt gli appare come lo smasche­
ramento di un’ontologia esistenziale astratta, un’ontologia che volge
le spalle ai rapporti concreti della società. «L’esistenzialismo crolla
nel momento in cui esso realizza la sua teoria politica». E, capovol­
gendo ironicamente il senso in cui Cari Schmitt aveva celebrato il
giorno della presa del potere nazista come giorno della «morte di
Hegel», Marcuse ora scrive: «L’esistenzialismo ha ricusato la maggio­
re eredità spirituale della storia tedesca. I titani della filosofia classica
tedesca non sono caduti nel giorno in cui morì Hegel: soltanto oggi
è la vera data del loro crollo» (voi. Ili, p. 194).

Dna fine che lascia aperte due possibilità

Il senso della fine si aggrava nel corso degli anni: coinvolgendo


gli stessi fondamenti normativi della teoria critica, esso determina
anche la chiusura della rivista. Martin Jay, nella sua documentata sto­
ria della Scuola di Francoforte [L’immaginazione dialettica, 1973, tr. it.
di N. Paoli, Einaudi, Torino 1979], ricorda le difficoltà finanziarie
che bloccarono i programmi dell’istituto. In realtà la rivista si fermò
come un orologio cui venga meno la carica.
275

La decisione di aprire la rivista a un pubblico americano di letto­


ri dava rilievo esplicito all’intenzione d’impegnare più fortemente
l’istituto sul piano della ricerca empirica, integrandolo sul posto al
sistema scientifico americano. Il gruppo di «radio-research» guidato
da Paul Lazarsfeld costituisce il punto di raccordo, mentre un fasci­
colo della rivista viene dedicato ai problemi della comunicazione di
massa. Ma ben più significativi sono gli «appunti» di Horkheimer
che compaiono nello stesso fascicolo. Essi tradiscono insicurezza e in­
certezza sugli esiti dell’operazione che si voleva dichiarare: far saltare
le tecniche sociologiche del rilevamento empirico inserendovi i con­
tenuti critici delle categorie teoriche. Questo tentativo cadeva troppo
tardi, quando la teoria critica — ormai senza fondamenti — si vedeva
abbandonata al vortice di una «dialettica deH’illuminismo» che ave­
va consumato la ragione e ogni fede nella ragione. Nel 1941 la rasse­
gnazione si era fatta irreversibile.
Nel penultimo fascicolo Horkheimer pubblica il saggio Das Ende
der Vernunft [La fine della ragione! che sostanzialmente anticipa la
Kritik der ìnstrumentellen Vernunft (Critica della ragione strumentale].
Ciò che è ora venuta meno è la fiducia nella forza della tradizione fi­
losofica, nella sostanza utopica degli ideali borghesi, vale a dire in
quei «potenziali di ragione» della cultura borghese che — spinti dal­
lo sviluppo delle forze produttive — avrebbero dovuto tradursi in mo
vimenti sociali. Il nucleo razionale della teoria critica si era svuotato
né essa confidava più di poter distinguere — criticando dall’interno le
figure dello spirito oggettivo — «ciò che l’uomo e le cose potrebbero
essere da ciò che esse sono di fatto» (voi. V, p. 23). Giustamente Mar­
cuse aveva individuato in questa distinzione «la leva centrale della
teoria». Le forze produttive si erano capovolte nelle forze distruttive
della «machinerie» bellica.
E dov’era finito il movimento sociale, il «soggetto» che doveva
sostenere la teoria, quella «coscienza d’individui e gruppi determina­
ti che lottano per una organizzazione ragionevole della società»? Do­
po il 1941 resta soltanto la diagnosi di un processo autodistruttivo
della ragione. Questa diagnosi anticipa già tutti i motivi più impor­
tanti della «critica al progresso» tornata di moda in questi anni Set­
tanta — certo, senza quello sciocco semplicismo per cui si vorrebbe
oggi leggere la dialettica deH’illuminismo nei termini di una filoso­
fìa postmoderna.
276

A partire dal momento in cui la rivista cessa di esistere, e la figu­


ra originaria della «teoria critica» si sfalda, due percorsi diversi ci
possono condurre fino ai tardi anni Sessanta. Dalla Dialettica dell’illu­
minismo Adorno e Marcuse hanno tratto conseguenze opposte. Marcu­
se riconduce sotto la soglia della cultura, in termini di teoria pulsio-
nale, le pretese di una ragione storicamente disattesa. Adorno invece
ripone la sua speranza frustrata nell’esercizio solitario di un filosofare
che si autonega. Una terza possibilità è quella personificata da Leo
Lòwenthal, la cui fama è finita oscurata da quella dei due colleghi. La
tesi di una «fine della ragione» — purché la si intenda come una de­
nuncia — può essere discussa senza cadere in balìa né della metafisica
né di una delle tante forme scientistiche (oggi correnti) di «liquida­
zione della ragione». L’esaurimento filosofico che, non soltanto in
Germania, sembra oggi dominare la scena culturale rende di nuovo
interessanti quegli esperimenti di teoria critica che furono bruscamen­
te interrotti all’inizio degli anni Quaranta. Una possibile spiegazione
per la fine prematura di quell’impresa potrebbe anche essere formu­
lata così: pur avendo ribattezzato il marxismo con lo pseudonimo di
«teoria critica», quegli autori non avevano saputo procedere in una
maniera abbastanza eterodossa. Avendo dato una lettura troppo tra­
dizionale di ciò che Marx definiva «forze produttive», essi dovettero
presto accorgersi che la crescita della razionalità cognitivo-strumen-
tale non basta a garantire forme di vita più degne dell’uomo. Per
questo non è escluso che le vere forze produttive, i veri potenziali
della ragione, debbano essere collocati nei rapporti d’intesa piuttosto
che nei rapporti di lavoro.
XVI

HERBERT MARCUSE
I TEMPI DIVERSI DELLA POLITICA
E DELLA FILOSOFIA (1998)*

Dopo la morte della sua prima moglie Sophie, Herbert Marcuse il


3 marzo 1951 scrive a Horkheimer e Pollock le seguenti righe:

L'idea che anche la morte faccia parte della vita è falsa, e noi dovremmo pren­
dere molto più sul serio il pensiero di Horkheimer secondo cui solo con l’eli­
minazione della morte gli uomini potranno diventare davvero liberi e felici.

La vita eterna nell al di qua: un pensiero non-protestante, formu­


lato la prima volta da Condorcet, di cui ora Marcuse si appropria con
spirito vitalistico. Un pensiero che per il momento, nonostante i pro­
gressi della tecnologia genetica, non è ancora stato realizzato. Altri­
menti Herbert Marcuse avrebbe potuto festeggiare con noi il suo
centesimo compleanno secondo quella curiosa sequenza temporale —
1898-1968-1998 — con cui si è voluto ricordarlo a Genova qualche
settimana fa1. In quell'occasione sono convenuti anche dotti amici
del filosofo. Ma l'interesse più appassionato riguardava soltanto, nel
ricordo della rivolta studentesca, il suo controverso ruolo di mentore.
Sembra quasi che — piuttosto della risonanza della sua produzione fi­
losofica — sia il coincidere del suo centesimo compleanno con l’anni­
versario del Sessantotto a sottrarre Marcuse all’oblio.
Che si spenga la risonanza filosofica di testi in precedenza molto
diffusi è spesso soltanto il sintomo di un provvisorio attenuarsi della
loro influenza. Così è avvenuto per Adorno, anche se la sua opera re-

Pubblicato in «Neue Ziircher Zeitung», 18-19 luglio 1998. Ora raccolto


in J. Habermas, Die postnattonale Konstellation, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1998,
pp. 232-239.
1 (Il convegno genovese del 14 giugno 1998 fu organizzato dal Centro cultura­
le Primo Levi e dal Goethe Inscitut.]
278

sta giustamente una sfida per il nostro presente. Anche i lavori di


Horkheimer continuano a suscitare interesse se proiettati nel conte­
sto della scuola da lui fondata. Ma nel caso di Herbert Marcuse noi
vediamo curiosamente come la sua figura di autore scientifico scom­
paia dietro il ruolo — ch’egli pure ebbe — di maestro e ispiratore poli­
tico. Noi conosciamo gli «alti e bassi» nella ricezione di filosofi più o
meno significativi. La risonanza degli interventi politici — certo assai
più legati delle opere filosofiche aH’immediatezza del contesto stori­
co — è soggetta a ritmi diversi e dal respiro più breve. Nel caso di
Marcuse sembra invece che sia avvenuta una sorta di cortocircuito tra
i tempi della sua figura teorica e quelli della sua figura politica. Il ri­
lievo della sua dottrina filosofica risulta coinvolto nel discredito get­
tato sul suo impegno politico. Si sarebbe quasi tentati di risollevare
la dottrina a svantaggio dell’impegno. Ma se la mia interpretazione è
corretta, allora siamo piuttosto di fronte a una deformazione prospet­
tica in entrambe le direzioni: sia nell’ottica dell’impegno politico sia
in quella più strettamente filosofica.
Rispetto alla cerchia più ristretta degli altri colleghi di Horkhei­
mer, Marcuse era certo il temperamento più autenticamente politico.
Già nel 1918 faceva parte di un soviet berlinese di soldati rivoluzio­
nari e — a sessantanni di distanza — ancora ci ricorda l’amara delusio­
ne per il «fallimento della rivoluzione tedesca, [...] che i miei amici
e io sperimentammo dopo l’assassinio di Karl e di Rosa». Negli anni
della seconda guerra mondiale Marcuse lavora presso la sezione poli­
tica dell'«Office of Strategie Services», elaborando «analisi del nemi­
co» e partecipando in questa maniera alla lotta contro il regime che
lo aveva cacciato dalla Germania. Nei primi anni Sessanta egli viene
nuovamente politicizzato dal movimento americano dei diritti civili,
prima ancora di prendere parte all’opposizione contro la guerra in
Vietnam e di influenzare il movimento degli studenti al di là e al di
qua dell’Atlantico. Questo suo durevole attivismo politico non deve
tuttavia farci dimenticare che Marcuse — senza sfigurare di fronte a
Horkheimer e Adorno — resta sempre una figura accademica in senso
stretto: un insegnante che soddisfa le regole dell’università e scrive
dotti libri.
Si era accostato ai temi e agli standard della filosofìa contempora­
nea sotto la guida di Heidegger. Prima figura di «heideggero-marxi-
sta», egli scrive un’abilitazione dallo stile tradizionale e pubblica sag-
279

gi, intorno al 1930, su imporranti riviste accademiche. Non è Adorno


bensì Marcuse colui cui tocca assumere — nella sezione newyorkese
dell’istituto di Francoforte organizzata da Horkheimer — il ruolo del
filosofo e commentare il saggio-manifesto intitolato «Traditionelle
und Kritische Theorie».
Nel 1941 Marcuse si guadagna l’ammirazione della corporazione
filosofica con una ricerca storico-sistematica sulla nascita della teoria
sociale a partire dalla filosofia di Hegel. Reason and Revolution [tr. it.
Ragione e rivoluzione, il Mulino, Bologna 1965] regge sotto ogni aspet­
to il confronto con l’opera di Karl Lowith intitolata Von Hegel zu
Nietzsche [tr. it. Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 19491, un’opera
altrettanto famosa che andava però nella direzione contraria a quella
di Marcuse. Anche Eros and Civilization [tr. it. Eros e civiltà, Einaudi,
Torino 1964], che resta per certi versi il suo testo più radicale e carat­
teristico, viene ancora inteso da Marcuse come un contributo alla di­
scussione accademica. One dimensionai Alan [tr. it. L’uomo a una dimen­
sione, Einaudi, Torino 1967] è il suo libro più celebre, anche se non il
migliore. Viene pubblicato nel 1964 e termina — in maniera ancora
molto pessimistica — con il motto di Walter Benjamin: «Solo grazie a
chi non ha più speranza ci è ancora concesso di avere speranza», vale a
dire senza quel «riferimento alla prassi politica» che sarà impegno de­
gli studenti, di lì a poco, costruire.
Nella prefazione a Reason and Revolution Marcuse giustificava le
tesi del libro dicendo che «la nascita del fascismo [lo] costringeva a
cercare una nuova interpretazione della filosofìa hegeliana». Ora a
noi sembra che l’opera teorica di Marcuse venga messa in ombra dal
superamento di ciò che gli appariva come politicamente urgente. Ma
in realtà — per quanto riguarda Marcuse — dal mutamento del pano­
rama politico contemporaneo noi dovremmo trarre un insegnamento
diverso. Invece di interpretare «in una nuova luce» il suo pensiero
teorico, noi dovremmo piuttosto cercare di sottoporre a verifica i no­
stri pregiudizi circa il suo impegno politico.
La minuziosa documentazione raccolta da Wolfgang Kraushaar
sulla Frankfurter Schule und die Studentenbewegung ci consente di stu­
diare bene le prese di posizione con cui Marcuse influenzò in Germa­
nia il movimento del Sessantotto studentesco. Motivi importanti so­
no già contenuti nel discorso che Marcuse tenne il 22 maggio 1966
all’LJniversità di Francoforte, durante un congresso sul Vietnam orga-
280

nizzato dal SDS [Sozialistischer Deutscher Studentenbund\. Lì egli pren­


deva le mosse dalla

contraddizione esistente tra ricchezza sociale, progresso tecnico e dominio


della natura, da un lato, e strumentalizzazione di tutte queste forze alla ra-
dicalizzazione della lotta per l’esistenza (al cospetto di miseria e povertà) sul
piano nazionale e sopranazionale, dall’altro lato.

Oggi — dopo che è terminata la corsa agli armamenti da parte del­


le superpotenze - questa «applicazione distruttiva della ricchezza ac­
cumulata» dà certo meno nell’occhio che durante gli anni della guer­
ra in Vietnam. Ma nel quadro di un capitalismo globalizzato, che fa cre­
scere con lo stesso ritmo il numero dei disoccupati e le quotazioni di
borsa, la tesi centrale di Marcuse circa una «fatale unità di produttività
e distruzione» trova ancora una drastica (anche se diversa) conferma.
Marcuse vede che le forze produttive vengono piuttosto scatena­
te — e non imprigionate — dai rapporti di produzione esistenti. Ciò
che egli mette in questione è il modello produttivistico dell’emanci­
pazione sociale. Molto prima del Club di Roma, egli lotta contro
«l’orribile concetto di una produttività del progresso che vede la na­
tura come una semplice preda da sfruttare gratis». Nel frattempo il
movimento ecologistico ha portato questo tema alla coscienza di tut­
ti. La differenza tra socialismo e capitalismo non sta per Marcuse nel­
lo «sviluppo delle forze produttive, ma piuttosto nel loro rovescia­
mento. Questo rovesciamento delle forze produttive è il presupposto
per eliminare il lavoro, liberare i bisogni e pacificare la lotta dell’esi­
stenza». Anche questo tema appare oggi ragionevole se pensiamo al­
le tesi sulla «fine della società del lavoro». Secondo una stima diffu­
sa, nei paesi dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo svi­
luppo economico) l’intero prodotto sociale potrebbe essere creato an­
che soltanto dal venti per cento della popolazione in età lavorativa.
Ma se fasce sempre più estese di popolazione lavorativa diventano
«superflue» ai fini della riproduzione della società, allora diventa
sempre più difficile mantenere internamente collegati tra loro «suc­
cesso professionale» e «status sociale».
Anche la valutazione offerta da Marcuse circa i «potenziali di pro­
testa» non è affatto irrealistica. Nell’Unione sovietica egli non vede
una forza antagonistica all'occidente capitalistico. Altrettanto poco
281

egli condivide l’opinione secondo cui gli interessi generalizzabili del­


la società possono esprimersi soltanto nella sofferenza e nella resisten­
za delle masse sfruttate. Già allora prendeva forma negli Stati Uniti
un rapporto diverso tra maggioranza e minoranza. A una maggioran­
za integrata si contrappongono ora minoranze marginalizzate, sprov­
viste di qualsiasi potenziale di minaccia. Per questo le speranze di
Marcuse puntano sulla sensibilità morale di giovani, intellettuali,
donne, gruppi religiosi, e così via. Gli impulsi di carattere normati­
vo [die normativen Antriebskrafte] devono venire in aiuto agli interessi
materiali degli affaticati e degli oppressi. «Una delle cose che ho im­
parato [...] è che ‘morale’ ed ‘etica’ non sono mera soprastruttura e
semplice ideologia». In maniera esplicitamente idealistica Marcuse
parla di una «solidarietà della ragione e del sentimento». Da quando
i sociologi hanno registrato una certa evoluzione negli orientamenti
di valore — che da materiali si sarebbero fatti postmateriali — anche
questa concezione di Marcuse sembra diventare più verosimile.
Naturalmente non sono gli argomenti più strettamente teorici
quelli che possono in primo luogo spiegarci l’ampia eco riscossa in
quegli anni da Marcuse nel pubblico degli studenti. Erano piuttosto
gli impulsi di una «filosofia della vita» influenzata dal freudismo s
procurargli una grande risonanza nelle generazioni più giovani. Mai |
cuse stesso era stato influenzato dalla «Jugendbewegung» d’inizio st
colo e aveva immediatamente capito il carattere di «rivoluzione cul­
turale» inerente alla nuova «Jugendbewegung» del Sessantotto. Egli
era sensibile agli impulsi di rivolta che animavano i ribelli: «Questa
opposizione è (...) sessuale, morale, intellettuale e politica nello stes­
so tempo. In questo senso è opposizione totale, indirizzata contro la
totalità del sistema».
In realtà questa formulazione ci fa capire come mai Marcuse ten­
desse a collegare immediatamente la sua descrizione esistenzialistica
della rivolta con quel concetto di «rovesciamento» o di «rivoluzio­
ne» che era invece tipico della filosofia dialettica della storia. Pur
senza scambiare la rivolta per una rivoluzione, Marcuse pensava tut­
tavia che la rivolta potesse funzionare da detonatore iniziale. E sug­
geriva ai suoi ascoltatori che essi potevano senz’altro intendersi come
parte di un futuro movimento rivoluzionario. Ciò è dimostrato anche
dalle sue ambigue dichiarazioni sul problema della violenza. Già nel
luglio 1967, contraddicendo in Knut Nevermann un portavoce del-
282

l’ala moderata del SDS, Marcuse affermava: «Io non ho mai identifi­
cato ‘umanità’ con ‘non-violenza’. Al contrario, io ho ricordato situa­
zioni in cui il passaggio alla violenza si colloca proprio nell’interesse
della umanità». Questa tendenza era rafforzata in Marcuse da un con­
cetto di filosofia e di illuminismo che poggiava sull’autorità della ra­
gione e sull’aristocrazia dello spirito. Era un concetto che egli condi­
videva con altri intellettuali della sua generazione e che risaliva al
curriculum politicamente discutibile del liceo classico tedesco (anche
Hannah Arendt non ne era poi così lontana).
L’avere erroneamente equiparato gli studenti all’avanguardia della
rivoluzione può almeno in parte spiegarci come mai la filosofia di
Marcuse sia oggi caduta nel dimenticatoio. La falsa attualizzazione
compiuta allora rende oggi retrospettivamente più diffìcile sganciare
la prestazione filosofica di Marcuse dal «kairos» che non volle mani­
festarsi, ossia da quel contesto storico che lo stesso Marcuse aveva in­
nalzato a istanza suprema di falsificazione. Non è certo la prima vol­
ta che una filosofia viene smentita proprio da quella storia da essa
eletta a criterio di verità. Questo giudizio avrebbe però un tono in­
giustamente beffardo, e non coglierebbe il contenuto di verità impli­
cito nell’analisi marcusiana. Marcuse afferrò il peculiare intreccio di
«produttività economica» e «distruttività sociale» attraverso una se­
rie di concetti evocativi e totalizzanti che ci sono oggi diventati estra­
nei. Egli condensò le sue diagnosi nella metafora di una società totali­
taria e chiusa, semplicemente perché credeva di dover esaltare il chia­
roscuro e inventare una terminologia che ci facesse «aprire gli occhi»
su fenomeni apparentemente familiari ma in realtà non percepiti.
Oggi la situazione è diversa. Qualunque lettore di giornale è im­
mediatamente informato sul legame esistente tra produttività e di­
struzione. Un’efficiente «concorrenza di posizione» fa scivolare i no­
stri governi nella competizione per una «deregulation» che mira al­
l’abbassamento dei costi. Nell’ultimo decennio questa concorrenza ha
prodotto guadagni inverecondi, drastici squilibri di entrate, abban­
dono delle infrastrutture culturali, aumento della disoccupazione,
marginalizzazione di una crescente popolazione povera. Per capire
tutto questo non abbiamo più bisogno di nuove terminologie, né c’è
ancora chi si faccia illusioni sulla «società consumistica».
Anche la situazione culturale si è frattanto modificata. Il postmo­
dernismo ha per così dire disarmato l’autocomprensione della moder-
283

nità. La gente non capisce più bene se la concezione democratica del­


la società — di una società che dovrebbe trasformare politicamente se
stessa a partire dalla volontà e dalla coscienza dei cittadini riuniti —
non debba ormai essere considerata altro che un’utopia graziosamen­
te antiquata o addirittura pericolosa. Inoltre, alleandosi a un’antropo­
logia pessimistica, il neoliberalismo ci fa quotidianamente assuefare a
una situazione mondiale dove diseguaglianza sociale ed esclusione
vengono nuovamente assunti come semplici «dati di fatto». Le costi­
tuzioni politiche vigenti negli stati di diritto ci suggerirebbero ben
altra prospettiva. Sorge allora spontanea la domanda: e se noi avessi­
mo davvero bisogno di rinnovare la nostra terminologia per togliere
dal dimenticatoio questa prospettiva normativa e per farla valere con­
tro le costrizioni rappresentate da un semplice adeguamento agli im­
perativi funzionali?
POSTFAZIONE

di Leonardo Ceppa

Profili politico-filosofici raccoglie i saggi habermasiani di alcuni de­


cenni e si presenta come un’opera singolare nell’ampia produzione
dell’autore. Questi interventi sono dispersi e coerenti nello stesso
tempo: alla fine ci restituiscono come in una cifra la personalità teori­
ca dell’autore. Réspice finem. Leggendoli viene spontaneo pensare agli
esiti più recenti del pensiero di Habermas. Per esempio alla ricostru­
zione della filosofìa del diritto in Fatti e norme (1992) o alla fondazio­
ne linguistico-prammatica della conoscenza in Wahrheit und Rechtferti-
gung (1999). Allora diventano immediatamente visibili due caratteri­
stiche della sua personalità filosofica: il carattere assimilatorio-rifor-
mistico e la straordinaria coerenza teorica. Nella storia del pensiero —
così come in quella dell’arte — ci sono personalità che assimilano il
passato e l’ambiente circostante, laddove altre assumono atteggiamen­
ti di rottura (Bach, per esempio, è come un grande bacino collettore
cui i corsi d’acqua convergono, mentre Beethoven è come un grande
displuvio montuoso). Nessun dubbio che Habermas è un pensatore di
tipo assimilatorio, non rivoluzionario ma riformistico, che costruisce i
suoi pensieri mosso dalla solidarietà e dalla curiosità professionale più
che dalla polemica corporativa. L’altra caratteristica che emerge pre­
potente da questi saggi è la coerenza teorica. È come se la planimetria
della cattedrale, il disegno dei suoi fondamenti, fosse già stata intuita
da Habermas — almeno in parte — all’inizio degli anni Settanta. Da al­
lora ha sviluppato l’edifìcio assai più in altezza che in estensione.
Nel periodo che intercorre tra l’«Introduzione» del 1971 e la «Pre­
fazione» del 1980 Habermas mette a fuoco i fondamenti del suo si­
stema. Theorie der Gesellschafi oder Sozialtechnologie? — scritta insieme a
Niklas Luhmann — esce nel 1971, Zar Rekonstruktion des historischen
M.aterialismus è del 1976 (se ne veda l’ottima traduzione italiana, a
1
286

cura di F. Cerarti, del 1979), i due volumi della Theorie des komrnu-
nikativen Handelns escono a Francoforte nel 1981. I mutamenti deci­
sivi sono quelli elencati da Habermas stesso nella Prefazione all'edi­
zione del 1981 di Profili polìtico-filosofici. Egli viene in chiaro sulla
propria distanza teorica dalla vecchia Scuola di Francoforte nello stes­
so momento in cui riesce a disegnare lo schema della modernità come
triplice processo di differenziazione razionale (ragione scientifica,
giuridico-morale, estetica).

Il ruolo ermeneutico di una filosofìa rivolta al mondo-di-vita io lo vedrei


oggi nell'aiuto che la filosofìa potrebbe fornire nel disinceppare — e rimette­
re in moto — l'ingranaggio che fa interagire tra loro il momento cognitivo-
|9 strumentale con quello pratico-morale e con quello estetico-espressivo.

Riletta a partire da questa nuova prospettiva, l’«Introduzione»


del 1971 che apre questo volume — intitolata «A che cosa serve anco­
ra la filosofia?» — sembra ancora soffrire di una riduttiva applicazione
al solo discorso scientifico. La filosofìa avrebbe infatti dovuto limitar­
si a tematizzare — con riflessività antipositivistica — il significato e le
conseguenze politiche della scienza e della tecnica. Ma proprio in chiu­
sura di questa «Introduzione» Habermas già anticipa l'imminente
sviluppo ermeneutico del suo pensiero proponendo il «discorso ra-
2,7 gionevole» e la «fragile unità della ragione» quale risposta alla fran­
tumazione contemporanea della coscienza religiosa e dei vecchi mo­
delli convenzionali d’identità collettiva.
Impossibile dar conto della ricchezza tematica e teorica dei saggi
raccolti in questo volume. Ci limitiamo a evidenziare quattro aree
ideali del discorso habermasiano, aree che sembrano reggere l’intero
peso dello sviluppo sistematico successivo. Alludiamo al grande tema
dell’ebraismo filosofico (qui sviluppato nei capp. I, VI, XII e XIII),
alla critica delle antropologie antistoriche e naturalistiche (capp. Ili,
IV, IX), alla presa di distanza dalla vecchia Scuola di Francoforte
(capp. VII, Vili, XV e XVI), alla valorizzazione antiheideggeriana
del modello linguistico-comunicativo di Hannah Arendt (cui vanno
aggiunte le suggestioni del modello ermeneutico di Hans-Georg Ga­
damer) (capp. Il, V, X, XI e XIV).

1. Le radici comuni della cultura ebraica e tedesca, sotto il segno


dell’umanesimo goethiano e kantiano, vengono polemicamente evi-
287

denziate da Habermas contro la pretesa nazista di sradicare l’influen­


za ebraica dalla civiltà tedesca. «L'eredità ebraica assimilata allo spi­
rito tedesco è diventata indispensabile alla nostra vita e alla nostra
sopravvivenza.» Dopo la catastrofe morale dell’olocausto — con cui i
tedeschi, automutilandosi, eliminarono fisicamente la comunità
ebraica di cittadinanza tedesca — la tematizzazione della tradizione
ebraico-tedesca (da Bóhme e Luria a Benjamin e Bloch) diventa im­
prescindibile per rinnovare l’identità collettiva della Germania de­
mocratica. I tedeschi devono ripensare la loro storia e fare l’esame di
coscienza: questo tema ricollega i saggi qui raccolti agli interventi
habermasiani nello «Historikerstreit» degli anni Ottanta, alla pole­
mica sulle modalità verticistiche e antidemocratiche della riunifìca-
zione tedesca, al dibattito sul monumento berlinese all’olocausto
(sul settimanale «Die Zeit» del 31 marzo 1999).
Sottolineando, nel capitolo I di questo libro, le dimensioni nor­
mative del misticismo di Wittgenstein e dell’umanesimo di Husserl,
Habermas evidenzia l’insufficienza della cultura democratica tedesca
del primo Novecento a fare argine contro la marea della rivoluzione
conservatrice e del fascismo. L’incontro di Davos tra Cassirer e Hei­
degger (1929) acquista un valore fortemente simbolico. La vecchia
cultura dell’umanesimo goethiano si scontrava (soccombendo) con il
decisionismo esistenzialistico prefascista. Al lettore viene subito il
mente la figura di Serenus Zeitblom, dal Doktor Faustus di Thoma
Mann. Solo con gli occhi di poi si possono retrospettivamente sogna­
re irrealizzate alleanze tra l’illuminismo democratico e la cultura
ebraica del ghetto, il simbolismo classicistico di Goethe e Cassirer e
l’allegorismo barocco di Walter Benjamin.
Un altro tema notevole, emergente dai saggi «ebraici» dei Profili
politico-filosofici, sta nel nesso implicito costruito da Habermas tra
«antropologia dell’attore» e «cosmopolitismo culturale». Simmel,
Plessner e Scheler furono sociologi e antropologi a partire dalla stessa
prospettiva. L’uomo si differenzia dagli animali per il fatto di dover­
si continuamente «mettere in relazione» con sé e con gli altri. Egli
deve mettere in scena la propria autonomia a partire da «indicazioni
di regia» prescrittegli dalla società e dalla storia. E nella dialettica
antropologica che collega assunzione-di-ruolo a presa-di-distanza tro­
va anticipazione la dialettica sociologica che sta al centro della «ra­
gione comunicativa» sviluppata successivamente da Habermas: allu-
288

diamo al reciproco condizionamento tra prospettiva del partecipante


e prospettiva dell'osservatore. Quanto al cosmopolitismo culturale
con cui gli ebrei anticipano una caratteristica fondamentale della se­
colarizzazione contemporanea, è sufficiente rileggere certe pagine del
saggio su Scholem.

II giudaismo è una impresa dello spirito: per questo, pur scaturendo da sor­
genti religiose, è in grado di sopravvivere alla loro secolarizzazione [...].
Tuttavia in esso si riflette un problema assai più generale: come può un po­
polo salvare la propria identità nelle condizioni della modernità?

Dove già s’intrawede la dialettica tra discorso morale e discorso


etico successivamente sviluppata da Habermas (cfr. anche l’intervista
di Habermas a Eduardo Mendieta, Dialogo su Dio e il mondo, tradotta
in «Teoria politica», nn. 2-3, 1999, pp. 419-438).

2. Nell’antropologia biologica di Gehlen l’uomo deve agire per


compensare le mancanze della sua dotazione naturale. Egli deve sta­
bilizzare la sua condotta a partire dalla legalità autofìmalizzata e auto­
matizzata delle istituzioni. In questa prospettiva, etica familiare e
etica statale rimandano a radici istintuali diverse: virtù private con­
tro virtù pubbliche, lealismo solidaristico contro disponibilità al sa­
crificio, pacifismo contro bellicismo. Nell’antropologia normativa di
Habermas, invece, le due etiche non rappresentano che stadi diversi
dello stesso sviluppo. Le società parentali poggiano sulla morale del
piccolo gruppo, le società statali sulla morale del grande gruppo (po­
lis, stato, nazione). Agli occhi di Habermas viene a crearsi un paral­
lelismo tra l’evoluzione sociale dell’etica familiare in etica statale e
l’evoluzione psicologica dell’etica di appartenenza in morale universali­
stica. L'etica di appartenenza poggia sulla condivisione particolaristi­
ca di un sistema di valori concreti, «buoni per noi», laddove la mo­
rale universalistica poggia sulla reciprocità di riconoscimento giusti­
ficante 1 adottabilità di norme astratte, «buone per tutti».
Nel secondo saggio su Gehlen, Habermas trova le parole giuste
per definire l’idea forse più importante della sua costruzione filosofi­
ca: quella progressiva universalizzazione, interiorizzazione e decentramen­
to dei sistemi di valore che sta alla base sia del concetto kantiano di
autonomia sia del concetto weberiano di modernità. (Linteriorizza-
289

zione, tra l’altro, è l’obiettivo di ogni processo educativo: essa consi­


ste nel trasferire dentro la coscienza l’istanza esterna deputata a puni­
re, cioè la persona reale incaricata di sanzionare le infrazioni normati­
ve.) Tuttavia con il crollo delle visioni metafisiche del mondo le nor­
me sembrano perdere il loro fondamento. Kant reagisce a questa dif­
ficoltà ontologizzando l’io trascendentale e il privatismo dell’interio­
rità. Habermas invece teorizzando la struttura del discorso possibile,
l’intersoggettività dell’intesa, i presupposti del l’agire comunicativo.
Senza nulla perdere della sua doverosità, la ragione si fa nei secoli
sempre più universale sul piano logico e sempre più individualizzata
sul piano empirico.
Le condizioni della comunicazione sono le stesse condizioni della
formazione d’identità. Così l’idea di giustizia sociale sarà costretta
d’ora in poi a commisurarsi alla salvaguardia istituzionale dell’indivi­
duo (cooriginarietà di autonomia privata e autonomia pubblica). Lo
sviluppo della coscienza morale corrisponde a una crescente vulnerabi­
lità dell’io. Habermas lega dall’interno il bisogno di riconoscimento
e la coscienza morale dell'individuo all’eticità democratica delle isti­
tuzioni. In un passaggio emotivamente toccante del suo secondo sag­
gio su Gehlen, Habermas ci descrive il processo di universalizzazione
e interiorizzazione morale nei termini di una «rete sempre più intri­
cata di reciproche vulnerabilità e bisogni di tutela», una rete dentro
cui l’individuo viene spinto dalla stessa modalità linguistica (artifi
ciale, simbolico-culturale) della sua socializzazione. «Umanità è i
coraggio che ancora ci resta dopo aver visto come ai danni dell’uni­
versale fragilità si possa resistere soltanto con il rischioso e fragile
strumento della comunicazione». In questa prospettiva, alla richiesta
di senso, di autonomia soggettiva e giustificazione morale che emer­
ge con prepotenza dal pluralismo culturale delle società complesse
non si potrà più rispondere né con il regressivo culto fascistico delle
istituzioni né con la fuga in avanti della risata dionisiaca né con
un’evocazione neostoica dell’eterno ritorno (cfr. il brillante saggio su
Lowith che costituisce il capitolo IX di questo libro).

3. Contro le antropologie naturalistiche e neostoiche di Gehlen e


LowithjHabermas fa valere il momento normativo e deontologico del
suo pensiero critico. Invece contro il totalitarismo dialettico di Ador­
no e Marcuse egli fa valere il mutato fondamento giustificativo della
290

ragione comunicativa. Di fronte ai padri fondatori della Scuola fran-


cofortese l'atteggiamento di Habermas è ambiguo: egli è d’accordo
sulla denuncia politica ma in disaccordo sugli strumenti teorici. Ha­
bermas non accetta l’idea romantica di «conciliazione» (implicante la
resurrezione della natura decaduta), non accetta l’idea pseudohegelia­
na di totalità sociale intesa come il «non-vero» (JJnwesen, essenza ca­
povolta), non accetta la strategia marcusiana della rivolta sessuale e
del «grande rifiuto». Habermas contrappone alla logica sistemica
dell’economia (Luhmann) la logica comunicativa del «role-taking»
(Mead). Di conseguenza può ampliare e differenziare l’idea (marxisti-
camente negativa) di scambio coltivato da Adorno. Quest’ultimo col­
legava il concetto di scambio all’alienazione capitalistica, alla sussun­
zione del lavoro vivo alla forma di merce, alla deformazione pulsiona-
le della soggettività borghese. Habermas invece lo collega all’idea il­
luministica di una reciprocità di riconoscimento intersoggettivo ed
emancipazione comunicativa. Laddove Adorno deduceva l’identità
soggettiva dalla determinatezza formale della riproduzione capitali­
stica, Habermas riattualizza la ragion pratica di Kant nel paradigma
della comunicazione linguistica.
A prima vista non si potrebbe essere più distanti. E tuttavia, si ve­
da come, nell’ultimo dei saggi qui raccolti, Habermas rivaluti provo­
catoriamente il Marcuse sessantottino contro chi vorrebbe metterlo
nel dimenticatoio. Il contesto attuale della globalizzazione rende più
che mai plausibili le denuncie di Marcuse: i mercati mondiali divari­
cano ricchezza finanziaria e disoccupazione di massa proprio mentre la
società della piena occupazione sta per tramontare definitivamente.
Certo Marcuse ha ingenuamente scambiato, secondo Habermas,
la Jugendbeuegung esistenzialistica e psicologica del 1968 con l’avan­
guardia proletaria della rivoluzione ottocentesca. Egli ha anche
marxisticamente sottovalutato (con Adorno e gli altri francofortesi) i
potenziali emancipativi della democrazia formale e dello stato di di­
ritto. Ma oggi, secondo Habermas, si possono tranquillamente lasciar
cadere le vecchie metafore francofortesi della società totalitaria, del
grande rifiuto, dell’utopia sessuale, della resurrezione della natura
decaduta. Già nel secondo saggio su Adorno (1969), Habermas aveva
tradotto nell’idea di «convivenza in libera comunicazione» la vecchia
idea dialettica della «conciliazione». Così, con riformistica spregiu­
dicatezza, egli aveva abbandonato la filosofia hegeliana della storia
291

per approdare ai lidi del radicalismo democratico. Ora invece, nel re­
cente saggio su Marcuse (1998), Habermas ribadisce l’attualità politi­
ca dei vecchi francofortesi e sottolinea come, nell’epoca della globa­
lizzazione, ^qualunque lettore di giornale è immediatamente infor­
mato sul legame esistente tra produttività e distruzione».
Il senso del riformismo teorico di Habermas è tutto qui. Proprio
per ricollegarsi al vecchio impegno politico francofortese egli vuole
abbandonare la vecchia filosofia dialettica e reinventarsi un nuovo
vocabolario teorico di democrazia radicale. Rivalutare il progetto
interrotto della modernità (di contro al Kulturpessimismus di Adorno)
significa per lui rivalutare il senso giusnaturalistico delle nostre costi­
tuzioni democratiche (la citizenship come promessa di eguaglianza e
libertà). Per questo egli ha sviluppato in Fatti e nonne una teoria pro-
ceduralista del diritto che coniuga il paradigma liberale a quello socia­
le nella ristrutturazione democratica dello stato di welfare. Per que­
sto egli condivide del suo massimo avversario filosofico americano,
Richard Rorty, lo spirito polemico contro il pregiudiziale pessimismo
culturale della vecchia sinistra postsessantottina (cfr. R. Rorty, Una
sinistra per il prossimo secolo, prefazione di G. Vattimo, Garzanti 1999)

4. Se per un verso Habermas respinge come olistico e totalizzante


il concetto vetero-francofortese di dialettica, per l’altro verso egli cri­
tica come idealistico e aristocratico il concetto neoaristotelico di po­
litica proposto da Hannah Arendt. Il costituirsi politico della libertà
non può essere contrapposto agli interessi economici della società
mercantile. Il concetto normativo e comunicativo di potere teorizzato da
Hannah Arendt si rivela utilissimo a evidenziare in controluce l’alie­
nazione sistemica delle società moderne. E tuttavia, restringendo la
politica al solo «dialogo civico», la Arendt perde di vista le dimen­
sioni strategiche, burocratiche ed economiche che continuano a ope­
rare anche all’interno della legittimità costituzionale. Così Haber­
mas è d’accordo con Hannah Arendt nel ribadire che la democrazia
non è riducibile a semplice lotta per il potere, in quanto essa incarna
un’idea normativa che è inassimilabile alla ragione utilitaristica e
strumentale. Per converso Habermas non condivide l’illusione classi­
cistica della Arendt di poter tenere «fuori» dalle mura cittadine (cioè
fuori dal concetto di politica) l’elemento della violenza strutturale,
economica e sociale. La legittimità del potere comunicativo e gli
292

aspetti sistemici della violenza strutturale devono essere coniugati, se­


condo Habermas, in un unico quadro di teoria democratica. (Nel suo
libro Fatti e norme Habermas teorizzerà esplicitamente la tensione esi­
stente tra l'uso democratico-emancipativo del diritto e il suo uso
strumentale-accaparratorio. In tal modo egli darà corpo a quella
«versione realistica» della dottrina arendtiana qui semplicemente au­
spicata nelle ultime pagine del cap. XI.)
Dall’aristotelismo di Hannah Arendt tuttavia — non meno che dal­
l’ermeneutica umanistica di Gadamer — Habermas ricava strumenti
preziosi per contrastare il senso heideggeriano del linguaggio come
evento esoterico e fatale. Certo Habermas condivide l’antipositivismo
implicito all’idea heideggeriana del linguaggio come «apertura di
mondo» (su Heidegger sono fondamentali il capitolo VI del Discorso
filosofico della modernità, Roma-Bari 1987, e il capitolo III di Testi filo­
sofi e contesti storici, Roma-Bari 1993). Tuttavia egli non contrappone
dall’esterno la verità ontologica alla vita sociale, perché così facendo si
rischierebbe di svalutare snobisticamente la modernità e di far sprofon­
dare nell’inautenticità della «chiacchiera» tutti i discorsi democratici,
giuridici e scientifici. Per un verso la vita sociale deve subordinarsi al­
l’idea normativa di giustizia, per l’altro la verità ontologica deve
emergere come «trascendenza interna» ricollegante l’idea di autono­
mia all’orientamento nel mondo e al coordinamento pragmatico.
Così per Habermas la verità del linguaggio non è la decisione eroi­
ca ed esistenziale del primo Heidegger né la vigile passività buddisti­
ca dell’ultimo Heidegger. Si tratta, piuttosto, di una prassi comunica­
tiva e intersoggettiva che è gravata di funzioni cognitive, normative
ed espressive. Anche nella sua teoria giuridica più recente, la ragione
comunicativa sembra in grado di collegare dall’interno ragione e so­
cietà, idealità e fatticità. Ciò che incessantemente Habermas cerca di
ricostruire è il processo àe\Vuniversalizzazione e interiorizzazione della
ragione già tematizzato nel 1970 nel secondo saggio dedicato a Geh-
_len. Per un verso la ragione s’incarna nelle procedure argomentative
miranti alle differenziate forme della validità (scientifica, morale­
giuridica, estetico-espressiva). Per l’altro verso, l’illuminante trascen­
denza della validità (che in Habermas ha preso il posto della «concilia­
zione» adorniana) resta rigorosamente immanente al mondo e alla
prassi storica (equi la «trascendenza dall’interno» habermasiana sem­
bra ribadire la «fedeltà alla terra» già coltivata da Marx e Nietzsche).
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