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Università Degli Studi Di Napoli Federico II

Dipartimento di Studi Umanistici - CDL Filosofia





"Spazi e tempi della vita tra
scienza, filosofia e morale"
Corso di Filosofia Morale 2013/14, prof. Paolo Amodio











Appunti, riflessioni e studio
di Vittorio Esposito

Testi in esame

- F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale
(qualsiasi edizione)

- H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987
(Parte Prima: Pensare, pp. 83-319)

- Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2007
(capitolo “L’intreccio – Il chiasma”, pp. 147-170)

- Viktor von Weizsäcker, Forma e percezione, Mimesis, Milano 2011
(saggio “Forma e tempo”, pp. 25-72)

- M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, pp. 110

- P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano
2004
(capitolo “La domesticazione dell’essere”, pp. 113-184)

Indice cronologico dei pensatori interessati


- Thomas Hobbes (1588 – Hardwick Hall, dicembre 1679)
- René Descartes (1596 – Stoccolma, febbraio 1650)
- Sir Isaac Newton (1642 – Londra, marzo 1727)
- Immanuel Kant (1724 – Königsberg, febbraio 1804)
- Johann Wolfgang von Goethe (1749 – Weimar, marzo 1832)
- Charles Robert Darwin (1809 – Londra, aprile 1882)
- Herbert Spencer (1820 – Brighton, dicembre 1903)
- Franz Clemens Hermann Brentano (1838 – Zurigo, marzo 1917)
- Friedrich Wilhelm Nietzsche (Röcken, 15 ottobre 1844 – Weimar, 25
agosto 1900)
Su verità e menzogna in senso extramorale (1873)
- Carl Stumpf (aprile 1848 – Berlino, dicembre 1936)
- Edmund Gustav Albrecht Husserl (aprile 1859 – aprile 1938)
- Johannes Johann von Uexküll (settembre 1864 – Capri, luglio 1944)
- Karl Theodor Jaspers (febbraio 1883 – Basilea, febbraio 1969)
- Viktor von Weizsäcker (Stoccarda, 21 aprile 1886 – Heidelberg, 9
gennaio 1957)
Forma e percezione (1942-43)
- Carl Schmitt (1888 – Plettenberg, aprile 1985)
- Martin Heidegger (Meßkirch, 26 settembre 1889 – Friburgo in
Brisgovia, 26 maggio 1976)
Lettera sull'”umanismo” (1946)
- Jean-Paul Charles Aymard Sartre (1905 – Parigi, 1980)
- Maurice Merlau-Ponty (Rochefort-sur-Mer, 14 marzo 1908 – Parigi, 3
maggio 1961)
Il visibile e l'invisibile (1959-64)
- Hannah Arendt (Linden, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre
1975)
La vita della mente (1978)
- Michel Foucault (1926 – Parigi, giugno 1984)
- Peter Sloterdijk (Karlsruhe, 26 giugno 1947)
Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001)

Introduzione agli appunti

La vita è un'invenzione recente. È uno dei meriti di M. Foucault aver mostrato che solo
alla fine del XVIII secolo - con il consolidarsi del processo di secolarizzazione, con il
compimento della matematizzazione del mondo e la lacerazione del legame tra le
parole e le cose - la “vita” diventa un oggetto di conoscenza tra gli altri.

Che cos'è la vita? Essa è legata a qualcosa, diversa da esistenza o dall'essere; dopo
Heidegger, spazio e tempo come si sono incontrati?

La filosofia è per molto tempo stata la mortificazione del corpo e della vita, in virtù di
un'apologia del pensiero trascendentale. È la disfatta della metafisica che, dopo secoli
di predominio sull'essere umano, e sul suo vivere in questo mondo - finalmente
abbandona tale oppressione.
Già Nietzsche comincia ad aggirarsi attorno al tema della vita, e fu tra i primi ad indicare
una strada filosofica che prospettava di ritrattare e ripensare totalmente non solo
concetti come vita, essere ed ente, essenza ed esistenza, etc., ma anche il linguaggio
stesso con cui tali concetti si designano;
si passa poi al tempo di Weizsäcker che ha sapientemente destrutturato l'oggettività
delle percezioni, e della realtà, e definisce quei fondamentali complementari alla nuova
soggettività moderna, la vita - come forma e tempo.
E infatti fondamentale adeguarsi mentalmente alla concezione fenomenologia di
Husserl, e poi di Merlau-Ponty. L'incursione del soggetto, e la sua inseparabilità
dall'oggetto, nella sfera delle percezioni sono il punto di partenza di tale studio;
attraversando l'ontologia heideggeriana, che la istituzionalizza con un linguaggio
nuovo. Si arriva infine ad Hannah Arendt e Sloterdjik, che ne scansionano nuovamente
tutti i passaggi, al fine di rendere possibile una comprensione che dia vita ad un post-
umanesimo, una ritrattazione ontologica per ridefinire i tratti fondamentali dell'uomo.


P.s.: I presenti appunti sono da considerarsi esclusivamente come tali, frutto di uno
studio più ampio, e postumi alla lettura dei testi in esame; non sono del tutto originali,
ma contengono estrapolazioni da fonti e riferimenti terzi. Tali fonti - che hanno
argomentato questo studio, e sicuramente più valenti di quest'ultimo - non sono qui
sempre citate; è necessario, pertanto, un'attento lavoro critico e complementare di
verifica dei contenuti, e dell'interpretazione di questi.
Tuttavia, mi auspico che questo possa essere d'aiuto a chi voglia o debba intraprendere
un tale studio filosofico, delineandone quantomeno i passaggi generali.
Detto ciò, vi saluto e a buon rendere! 

Friedrich Wilhelm Nietzsche


Biografia

Anni giovanili

Friedrich Wilhelm Nietzsche nasce a Röcken, villaggio della
Prussia meridionale (Sassonia-Anhalt) nei pressi di Lipsia, il 15 ottobre
1844.
Appartiene a una stirpe di pastori protestanti, è primogenito di Carl Ludwig - reazionario
monarchico, già precettore alla corte di Altenburg - e di Franziska Oehler, figlia anche lei
di un pastore. Nel 1846 e nel 1848 nascono altri due figli, Elisabeth e Joseph
(quest'ultimo morto nel 1850, per un'improvvisa febbre non meglio specificata).
Il 27 luglio 1849 muore il padre, dopo un anno di "apatia
cerebrale" (probabilmente un tumore, o la stessa malattia cerebrale che colpirà il figlio).
In seguito a tali disgrazie la famiglia si trasferisce nella vicina Naumburg, dove Friedrich
inizia gli studi di lettere classiche e religione. In famiglia apprende la musica e il canto. Si
impegna in composizioni musicali vocali e strumentali, compone poesie, legge Goethe,
Hölderlin e Byron. Già distintosi per le sue non comuni doti intellettuali, nel 1858 inizia a
frequentare il Gymnasium di Pforta (come esterno beneficiante di una borsa di studio
ecclesiastica) e due anni dopo, insieme agli amici Gustav Krug e Wilhelm Pinder fonda
l'associazione Germania, con la quale si propone di sviluppare i suoi interessi letterari e
musicali. Per questa associazione scrive alcuni saggi, come Fato e volontà e Libertà della
volontà e fato, visibilmente ispirati dalla lettura di "Fato" e altri saggi di Emerson, specie
quelli inclusi in "Condotta di vita" (1860), un'opera che è stata recentemente ritenuta
fondamentale nella genesi del pensiero di Nietzsche.
Conclusi gli studi secondari nel 1864, comincia gli studi nella facoltà teologica
all'Università di Bonn, studi che reggerà per appena una sessione, e s'iscrive alla
corporazione studentesca Franconia. Nel 1865 si iscrive all'Università di Lipsia per
continuare a seguire le lezioni di filologia classica di Friedrich Ritschl, già suo insegnante
a Bonn. Studia Teognide e la Suida, ma è più affascinato da Platone e soprattutto da
Emerson e Schopenhauer, che influenzeranno tutta la sua produzione. Conosce nel
1867 Erwin Rohde, futuro autore di "Psiche", e approfondisce lo studio dell'opera di
Diogene Laerzio, di Omero, Democrito e Kant, mentre un suo saggio su Teognide
appare nella rivista filologica Rheinisches Museum, diretta da Ritschl. Il 9 ottobre
comincia il servizio militare nel reggimento di artiglieria a cavallo di stanza a Naumburg.
Nel marzo dell'anno successivo si infortuna seriamente allo sterno cadendo da cavallo e
a ottobre si congeda anticipatamente. Tornato a Lipsia, l'Università lo premia per il suo
saggio sulle fonti di Diogene Laerzio e lo assume come insegnante privato. L'8
novembre 1868 conosce Richard Wagner in casa dell'orientalista Hermann Brockhaus. 

Grazie all'appoggio di Ritschl, il 13 febbraio 1869 ottiene la cattedra di lingua e
letteratura greca dell'Università di Basilea, tenendovi, il 28 maggio, la prolusione sul
tema Omero e la filologia classica, mentre l'Università di Lipsia gli concede la laurea
sulla base delle sue pubblicazioni nel Rheinisches Museum. A Basilea conosce Jacob
Burckhardt. All'età di 25 anni Nietzsche chiede l'annullamento della sua precedente
cittadinanza prussiana. Dal 17 maggio aveva cominciato a frequentare, nella villa di
Tribschen, sul lago dei Quattro Cantoni, Richard e Cosima Wagner, rimanendone
fortemente colpito. All'inizio del 1870 Nietzsche tiene a Basilea alcune conferenze ("Il
dramma musicale greco", "Socrate e la tragedia"), che anticipano il suo primo volume,
La Nascita della Tragedia (1872). A Basilea stringe amicizia col professore di teologia
Franz Camille Overbeck, che gli rimarrà vicino fino alla morte e sarà grande estimatore
delle sue opere, nonostante la sua posizione accademica rendesse la cosa alquanto
imbarazzante, considerate le vedute di Nietzsche in materia di religione.

L'esperienza della guerra e il lavoro filosofico

Allo scoppio della guerra franco-prussiana (1870-1871) chiede di essere
temporaneamente esonerato dall'insegnamento per partecipare, come infermiere
addetto al trasporto dei feriti, alla guerra. Dopo appena una settimana al fronte si
ammala di difterite, viene curato e quindi congedato. Nel frattempo scrive La visione
dionisiaca del mondo, abbozza La tragedia e gli spiriti liberi e un dramma intitolato
Empedocle, in cui vengono anticipati con molta chiarezza molti dei temi che verranno in
seguito ripresi nelle opere della maturità. Fra il 1873 e il 1876 scrive le quattro
Considerazioni inattuali.
Per motivi di salute (emicranie frequenti e dolori agli occhi), ma anche indubbiamente
per dedicarsi con assiduità ininterrotta alla sua attività filosofica, Nietzsche all'età di 34
anni abbandona l'insegnamento. Gli viene riconosciuta una modesta pensione che
costituirà, da quel momento in poi, l'unico suo introito. Inizia la sua esistenza da perfetto
apolide, coi suoi pellegrinaggi da viandante senza casa e senza patria spostandosi da
un luogo all'altro. Durante un breve viaggio a Messina e Taormina frequenta "l'Arcadia"
locale e inizia a scrivere Così parlò Zarathustra. Durante la Pasqua del 1882 incontra a
Roma, tramite la comune amica e nota scrittrice femminista Malwida von Meysenbug,
Lou von Salomé una giovane studentessa russa in viaggio d'istruzione attraverso
l'Europa. Questo incontro, proseguito poi attraverso due anni di intensi scambi affettivi e
culturali, è molto particolare, in quanto si tratta di una delle rare esperienze sentimentali-
affettive di Nietzsche con una donna di cui si abbia conoscenza.

L'ultimo periodo e il collasso mentale

Nel 1888, con già molte pubblicazioni alle spalle, Nietzsche si trasferì a Torino,
città che apprezzò particolarmente, e dove scriverà L'Anticristo, Il crepuscolo degli idoli
ed Ecce Homo (pubblicato postumo).
Nel 1889 avvenne infine il famoso crollo mentale di Nietzsche: è datata 3 gennaio 1889
la prima crisi di follia in pubblico; mentre si trovava in piazza Carignano, nei pressi della
sua casa torinese, vedendo il cavallo adibito al traino di una carrozza fustigato a sangue
dal cocchiere, abbracciò l'animale, pianse, finendo per baciarlo; in seguito cadde a terra
urlando in preda a spasmi. Per molti è un episodio leggendario, e Nietzsche si sarebbe
piuttosto limitato a fare vistose rimostranze e schiamazzi per i quali venne fermato e
ammonito dalla polizia municipale. Le cause della sua malattia non sono del tutto
chiare: sono state ipotizzate, tra molte, principalmente cinque-sei possibilità.
Ricoverato dall'amico Franz Camille Overbeck, un teologo protestante e suo ex
insegnante, a causa del suo stato alterato, che passava da momenti di esaltazione a
tristezza profonda, prima in una clinica psichiatrica a Basilea (Svizzera) in cura dal dottor
Wille, viene trasferito poi a Naumburg (Assia, Germania), per esser assistito dalla madre,
fino alla morte di lei, e dalla sorella Elisabeth Förster Nietzsche poi. Trasferitosi quindi
nel 1897 nella casa di Weimar (Turingia, Germania), dove la sorella ha fondato il
Nietzsche-Archiv, vi muore di polmonite il 25 agosto 1900.
La natura della sua follia rimane ancora parzialmente un mistero, data la
plausibilità di tutte le ipotesi. Nei frammenti teorizzava l'autodistruzione della
reputazione tramite una follia volontaria come una forma di ascesi superiore. Come
molti hanno ipotizzato, la causa del collasso nervoso, come detto anche prima, fu forse
l'enorme tensione, insopportabile per la sua mente, dovuta allo sforzo creativo e
filosofico svolto negli anni precedenti, come accenna egli stesso in un famoso aforisma:
« Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se
tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te »
(Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male)

Cronologia e periodizzazione delle opere

La prima fase del pensiero di Nietzsche è caratterizzata dagli studi filologici e
dalla passione per il mondo greco, dall'influenza della riflessione di Schopenhauer e
dalla sconfinata ammirazione per l'opera di Wagner: La nascita della tragedia riunisce
tali influssi per generare una nuova visione della civiltà greca. Nelle Considerazioni
inattuali, Nietzsche accosta, nella polemica, Socrate a Strauss, Feuerbach e Comte: l'idea
di un mondo che si svolge secondo un ordine oggettivo e conoscibile, ma non
modificabile, rende insensata l'azione storica. L'uomo, sommerso dalla propria
coscienza storiografica, è incapace di creare nuova storia: lo stoicismo è solo un altro
aspetto del razionalismo, ispirato dalla fede riposta nella scienza dal positivismo. A tali
segni di decadenza dell'uomo Nietzsche contrappone il ritorno alla cultura dionisiaca e
la rinascita dello spirito tedesco, preannunciati nella filosofia di Schopenhauer e nella
musica di Wagner.

- Aus meinem Leben, 1858
- Über Musik, 1858
- Napoleon III. als Präsident, 1862
- Fatum und Geschichte, 1862
- Willensfreiheit und Fatum, 1862
- Kann der Neidische je wahrhaft glücklich sein?, 1863
- Über Stimmungen, 1864
- Mein Leben, (La mia vita), 1864
- Homer und die klassische Philologie, (Omero e la filologia classica), 1868
- Die Teleologie seit Kant, (La teleologia a partire da Kant), 1868
- Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten
- Fünf Vorreden zu fünf ungeschriebenen Büchern, (Cinque prefazioni per cinque libri
non scritti) 1872
- Die Geburt der Tragödie, (La nascita della tragedia dallo spirito della musica ovvero
Grecità e pessimismo), 1872
- Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen, (La filosofia nell'epoca tragica dei
Greci), 1870-1873
- Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinn, (Su verità e menzogna in senso
extramorale), 1873
- Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, (Sull'utilità e il danno della storia
per la vita), 1874
- Unzeitgemäße Betrachtungen, (Considerazioni inattuali), 1876

Umano troppo umano inaugura la seconda fase del pensiero di Nietzsche, in cui il
filosofo attua una radicale critica della cultura, in particolare della metafisica e della
religione cristiana. La polemica antiscientifica e antipositivistica si attenua in vista di un
riavvicinamento al sapere scientifico, concepito ora come disinteressato e libero da
preoccupazioni metafisiche. Contemporaneamente il filosofo abbandona l'estetismo e
la cieca ammirazione per Wagner (il Parsifal viene ora definito il culmine della
decadenza europea), per esaltare la musica "mediterranea" di Rossini e Bizet. Egli
matura inoltre la decisione di lasciare gli studi filologici "dotti e insipidi". Progetta
pertanto di costruire una chimica delle idee e dei sentimenti morali che mostri come
ogni produzione spirituale abbia una base materiale: tutte le verità sono storicamente
situabili e l'evidenza di una proposizione non è segno della sua verità, ma dei fatto che
essa corrisponde meglio di altre ai condizionamenti psicologici e sociali.

- Menschliches, Allzumenschliches, (Umano, troppo umano),1878
- Morgenröte, (Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali), 1881
- Idyllen aus Messina, (Gli Idilli di Messina), 1882
- Die fröhliche Wissenschaft, (La gaia scienza), 1882

La terza fase si apre con Così parlò Zarathustra: l'opera, di difficile
interpretazione, è una requisitoria contro l'ideale della mediocrità e le varie forme di
morale della rinuncia, fra cui Nietzsche annovera adesso anche la filosofia di
Schopenhauer, causa il suo pessimismo e il suo rassegnato ascetismo.
Il cristianesimo, in particolare, è caratterizzato dallo spirito di risentimento dei deboli
verso i più forti, da una morale di schiavi che nega tutto ciò che è differente da sé. Alla
morale della rinuncia Nietzsche contrappone l'aristocratica morale della totale
affermazione di sé, dell'accettazione di tutto ciò che è terrestre e corporeo, della
trasmutazione di tutti i valori: è la morte di Dio, la fine di ogni trascendenza, religione o
metafisica, delle verità immutabili e dei sistemi di valori assoluti (nichilismo
nietzschiano). Le nuove virtù, la fierezza, la gioia, la salute, l'amore, l'inimicizia, la guerra,
l'amoralismo della politica di potenza e il senso di pienezza dell'arte.
Il superuomo (o oltreuomo) è l'uomo totalmente indipendente dai valori tradizionali,
l'uomo che si pone al di là del bene e del male: l'uomo superiore accetta con gioia la
vita come è, e segue volontariamente la via che gli uomini del gregge hanno seguito
ciecamente. In un mondo dominato dal caso e dall'irrazionalità, la sola necessità è
quella della volontà che vuole riaffermare se stessa; il superuomo ha saputo identificare
la propria volontà con quella del mondo, accettare la nonna terrestre che lo regge: egli
è volontà di potenza incarnata. Le dottrine del superuomo e della volontà di potenza
trovano il loro senso più compiuto in relazione al tema dell'eterno ritorno. Contro la
tradizione giudaico-cristiana che attribuisce al tempo una direzione lineare e una
struttura articolata in passato, presente e futuro, Nietzsche nega l'esistenza di un fine del
corso storico che trascenda i singoli momenti. Significati e direzioni sono solo
prospettive interne al gioco di forze della volontà di potenza: ogni momento, e ciascuna
esistenza in ogni attimo, ha tutto il suo senso in sé. Il superuomo, grazie all'amor fati,
all'accettazione gioiosa della vita così come è - nel passato, nel presente e nell'eternità -
deve costruire un'esistenza in cui ogni momento abbia tutto intero il suo senso: l'eterno
presente della vita.

- Also sprach Zarathustra, (Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno), 1885
- Jenseits von Gut und Böse, (Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia
dell'avvenire), 1886
- Zur Genealogie der Moral, (Genealogia della morale), 1887
- Der Fall Wagner, (Il caso Wagner), 1888
- Götzen-Dämmerung, (Il crepuscolo degli idoli, ovvero Come filosofare a colpi di
martello), 1888
- Der Antichrist, (L'Anticristo), 1888
- Ecce Homo, (Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è), 1888
Nietzsche contra Wagner, (Nietzsche contro Wagner. Documenti processuali di uno
psicologo), 1888
- Der Wille zur Macht, (La volontà di potenza: saggio di una trasvalutazione di tutti i
valori), 1901

La "conversione" alla vita

A primo impatto, una suddivisione della vita letteraria di Nietzsche in tre periodi,
costruiti su caratteristiche più o meno definite e anche antitetiche tra loro, può risultare
semplice. Ma in realtà è presente un filo conduttore più profondo in tutti i momenti della
produzione del filosofo, con elementi e caratteristiche che traslano, cambiano, si celano
e ricompaiono.
Importante è prendere in considerazione la sorta di svolta del pensiero di Nietzsche -
nello spostare la sua attenzione filosofica dal mero "pensiero" alla "vita" - quando
comincia ad includere nelle sue speculazioni il "corpo": un tutt'uno con la mente, che
deve essere tenuto in considerazione necessariamente per poter attingere ad una
concreta e pratica analisi della vita.

"Mi prese un'impazienza per me stesso: vidi chiaramente che era tempo, che ero
all'ultima occasione di ritornare a me stesso. D'un tratto mi apparve tremendamente
quanto tempo fosse già stato sprecato - che aspetto inutile, arbitrario avesse tutta la mia
esistenza di filologo rispetto al mio compito. [...] Avevo dietro di me dieci anni in cui non
avevo imparato nulla di utilizzabile [...]. Alla mia scienza mancavano completamente le
realtà, e le idealità chissà a che diavolo servivano! Mi prese una sete addirittura ardente:
da quel momento in poi, di fatto, non ho praticato altro che fisiologia, medicina, scienze
naturali..." (F. Nietzsche, Ecce Homo, 1888).

Nietzsche non ha mai letteralmente abbandonato la filosofia. Piuttosto, come già
detto, egli si impone una nuova considerazione del corpo - della realtà tangibile e
quindi della biologia - e lo include nel suo pensiero. Ne perviene quindi una
suddivisione tematica di questo tipo:

Logos

- Aus meinem Leben, 1858
- Über Musik, 1858
- Napoleon III. als Präsident, 1862
- Fatum und Geschichte, 1862
- Willensfreiheit und Fatum, 1862
- Kann der Neidische je wahrhaft glücklich sein?, 1863
- Über Stimmungen, 1864
- Mein Leben, (La mia vita), 1864
- Homer und die klassische Philologie, (Omero e la filologia classica), 1868
- Die Teleologie seit Kant, (La teleologia a partire da Kant), 1868
- Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten
- Fünf Vorreden zu fünf ungeschriebenen Büchern, (Cinque prefazioni per cinque libri
non scritti) 1872
- Die Geburt der Tragödie, (La nascita della tragedia dallo spirito della musica ovvero
Grecità e pessimismo), 1872
- Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen, (La filosofia nell'epoca tragica dei
Greci), 1870-1873
- Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinn, (Su verità e menzogna in senso
extramorale), 1873
- Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, (Sull'utilità e il danno della storia
per la vita), 1874
- Unzeitgemäße Betrachtungen, (Considerazioni inattuali), 1876
- Menschliches, Allzumenschliches, (Umano, troppo umano),1878-79


Bios

- Morgenröte, (Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali), 1881
- Idyllen aus Messina, (Gli Idilli di Messina), 1882
- Die fröhliche Wissenschaft, (La gaia scienza), 1882
- Also sprach Zarathustra, (Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno), 1885
- Jenseits von Gut und Böse, (Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia
dell'avvenire), 1886
- Zur Genealogie der Moral, (Genealogia della morale), 1887
- Der Fall Wagner, (Il caso Wagner), 1888
- Götzen-Dämmerung, (Il crepuscolo degli idoli, ovvero Come filosofare a colpi di
martello), 1888
- Der Antichrist, (L'Anticristo), 1888
- Ecce Homo, (Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è), 1888
Nietzsche contra Wagner, (Nietzsche contro Wagner. Documenti processuali di uno
psicologo), 1888
- Der Wille zur Macht, (La volontà di potenza: saggio di una trasvalutazione di tutti i
valori), 1901

Su verità e menzogna in senso extramorale
Über Wahrheit und Lüge in aussermoralischen Sinne, 1873


Verità e menzogna in senso extra-morale è un breve testo - scritto nel 1873 da un
giovane Nietzsche, a un anno dalla Nascita della tragedia, e 14 anni prima della
Genealogia della morale - nel quale chiare ed esplicite sono le affermazioni riguardo la
verità, sia in relazione alla sua genesi nello ambito umano, sia al suo uso in
quest'ambito.

Nello scritto possiamo rintracciare, senza nulla sottrarre alla ricchezza del testo, tre
tipi di livelli d’analisi: uno gnoseologico, uno epistemologico ed uno etico-
antropologico. Il primo ci informa riguardo l'attingere della verità, presunta tale, da
parte dell’uomo e cioè il suo conoscere generico; il secondo ci spiega di quale verità
stiamo parlando, ovvero del tipo di episteme inteso; il terzo interessa il rapporto
dell’uomo fra se stesso e la società - un rapporto fra l’uomo e l'altro che deve essere
necessariamente simile, ma che anche caratterizza proprietà immanenti all’agire umano.
Questi tre livelli in realtà non sono altro che tematici, di fatto non possono essere scissi,
in quanto vi è una intima influenza reciproca.
Come si evince dal titolo dell'opera, Nietzsche analizza verità e menzogna al di fuori dei
contesti della morale e dell'etica, partendo da concetti molto più lontani. Già i modi con
cui si esprime la realtà sono menzogneri; persino la realtà stessa che, percepita dal
senso della vista (principale senso descrittivo), passa dallo stimolo ottico a quello
nervoso, poi diviene parola e da qui linguaggio: tutte metafore. Ogni essere umano
rappresenta la realtà attraverso le parole, chiama le cose e così organizza il mondo.
Nell'ambito della tragedia greca, nella disindividuazione da se, la menzogna era
cosciente, e circoscritta a piccolo ambito. I "nomi" permettono di riconoscere sensazioni
simili, mai uguali, e di appellarle nel medesimo modo; si riesce a vivere in un mondo
abitabile, approssimativamente organizzato. Già la parola è menzogna, ma l'uomo
(vivendo in branco, in gruppo) deve confrontarsi con parole dette da altri mentitori
come lui, e quindi con il linguaggio. Un altro livello di menzogna, il linguaggio: esso
esprime una relazione tra cose - che in realtà non hanno nome in sé - e parole. A cose
uguali (o meglio simili), nomi uguali - in una convenzione artificiosa dell'uomo,
comunemente accettata. Di solito le parole che si affermano sono le più efficaci, quelle
più attinenti alla cosa da definire; non tanto per chi le produce, ma per tutta la società
che deve comprendersi ed organizzarsi. Infine, a seconda della verità stabilitasi, si
avranno produzioni dell'uomo differenti; è nella morale comunitaria che Nietzsche
identifica delle antropotecniche: livello genealogico .
Nell'ultima parte del testo - in cui si sentono fortemente residui dell'opera La nascita
della tragedia, scritta dal filosofo l'anno precedente - Nietzsche perviene alla
considerazione di due tipi di uomini, l’uno razionale l’altro intuitivo, l’uno che persegue
alla costruzione per riparo, l’altro che di contro decostruisce, forma e sforma, tiene le
mani così a fondo nel molteplice fenomenico che la sua difesa sta proprio nello scherno
della vita.

(livello gnoseologico ed epistemologico)

"Che cos’è una parola? Il riflesso sonoro di uno stimolo nervoso. Ma dedurre dallo
stimolo nervoso l’esistenza d’una causa fuori di noi, è già il risultato d’una falsa e indebita
applicazione del principio di causalità"1 


Gia verso la prima parte del testo Nietzsche espone la sua riflessione riguardo il
linguaggio, ove chiara è la posizione nominalista assunta; il linguaggio non è una fedele
rappresentazione delle cose, e dal testo si può ricavare uno schema che può spiegare
meglio la gnoseologia nietzschiana:

1. La realtà, esterna all'uomo, viene percepita mediante stimoli nervosi provenienti dai
sensi. Già in questa trasposizione si evince una prima metafora.
2. Segue un'altra trasposizione dello stimolo nervoso in un'immagine riprodotta,
seconda metafora.
3. L'immagine si tramuta, infine, tramite una cristallizzazione impropria, in suono e
quindi concetto, terza metafora.

"Essi sono profondamente immersi in sogni e illusioni, il loro occhio scivola soltanto sulla
superficie delle cose e non vede che «forme», in nessun modo la loro sensibilità conduce
al vero, bastandole di ricevere stimoli ossia di giocare un gioco tattile sul dorso delle
cose".

L'uomo che inizialmente conosce il mondo, lo fa attraverso i sensi, componendo
man mano un'esperienza sensibile; è qui che si assumono questi dati sensibili come
forme. La natura in se, come essa è in realtà, per noi è inarrivabile e inaccessibile; essa si
presenta ai nostri occhi come forme, che l'uomo però concepisce come la realtà vera.
Ora l'uomo nomina queste forme (sebbene al di fuori di noi potrebbero non esistere), e
crede che queste si appellino in se proprio come l'uomo le chiama. A questo punto si
comincia a capire come sono legati fra di loro il discorso epistemologico e quello
gnoseologico.

"Che cos’è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie,
antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate,
tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine
sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si
è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e
hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi
vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete".

"La dimenticanza di ciò che è reale e individuale ci dà il concetto così come anche la
forma, là dove invece la natura non conosce né forme né concetti, e neppure generi,
bensì soltanto una X per noi inattingibile".

1 Susseguono cit. da Su verità e menzogna in senso extramorale, F. Nietzsche, 1873.



Qui si intrecciano i due temi. Quello gnoseologico - l’uomo non è che un essere
che costruisce forme, si mette in moto per costruzioni concettuali, “columbarium di
concetti”, che cristallizzano le esperienze, si serve ovvero di qualitas occultae per
privilegiare, invece, una fissazione che è corruzione o perversione del piano genuino
dei sensi - e quello epistemologico: la dimenticanza, ovvero l'obliare che forme e
relazioni sono mere costruzioni convenzionali, e lontanissime dalla verità stessa. L'uomo
mente per forza di assuefazione dell'utilizzo di secoli di tali metafore, egli mente
inconsciamente, così diventa un mentitore inconsapevole. Egli costruisce un mondo di
metafore che ha per fondamenta delle menzogne convenzionali, prese non più come
tali, ma come verità. Proprio per tal motivo, si ricerca la motivazione di questa tendenza
costruttrice tipicamente umana che fa invidia al mondo animale; cercando quindi la sua
caratteristica antropologica, subentra anche un discorso di tipo etico: dalla possibilità
del pervertimento della rappresentazione sensibile, nasce lo spazio necessario della
menzogna, e della verità.

"L’intelletto, come mezzo per la conservazione dell’individuo, sviluppa le sue forze più
importanti nella simulazione; infatti è questo il mezzo attraverso cui si conservano gli
individui più deboli, meno robusti, visto che a loro è negato di condurre la battaglia per
l’esistenza con le corna o con i morsi laceranti degli animali feroci. Nell’uomo quest’arte
della simulazione tocca il suo culmine: qui l’ingannare, l’adulare, il mentire, e il fingere, lo
sparlare dietro le spalle, il rappresentare, il vivere in una magnificenza d’accatto, il
mascherarsi, le convenzioni che servono a nascondere, il recitare una parte dinanzi agli
altri e a se stessi, in una parola l’incessante svolazzare intorno a quella fiamma che è la
vanità, tutto ciò così spesso è la regola e la legge che niente è più inconcepibile del fatto
che tra gli uomini possa emergere un impulso onesto e puro verso la verità".

(livello etico-antropologico)

Proprio tale caratteristica antropologica ci porta sulla strada del discorso etico,
l’uomo mente a sé stesso quando crede di aver fissato in forme la sua esperienza
sensibile, i qualia; mente ancora, la seconda volta, quando si allontana dal giudizio
comune, dal “codice dominante”. Si può ora delineare il terzo livello, quello etico-
antropologico, andando a ricapitolare il tutto:

1) Finché si è soli, si nominano cose e forme, assunte da mera esperienza sensibile, con
suoni/parole/verbi che ne la natura, ne alcun animale, ne tantomeno nessun altro
uomo comprenderà al di fuori di se stessi; si mente gnoseologicamente a se stessi.
2) Nel momento in cui v'è l'intrinseco bisogno umano di vivere in relazione con altri
uomini, nasce il consequente bisogno di potersi comprendere l'un l'altro; si
stabiliscono allora dei suoni/parole/verbi, convenzionali e uguali per i più, in modo
che si possa "parlare la stessa lingua", rapportarsi e viversi ordinatamente. Accade
però la dimenticanza che tali denominazioni artificiose, e "trasposizioni arbitrarie",
siano solo metafore convenzionalmente stabilite per rendere possibile l'esistenza
comunitaria; accade che per secoli ci si è abituati a chiamare la realtà con questi o
quei nomi, che li abbiamo elevati a fondamento stabile della conoscenza,
dimenticando che sono trasposizioni, menzogne atte a semplificare la vita. È la
grande bugia epistemologica che l'uomo continua a ripetersi inconsapevolmente.
3) Sono proprio tali menzogne comunemente accettate da tutti - seppur necessarie per
potersi comprendere nella vita ordinaria - che compongono la verità del "codice
dominante". E in egual modo, specularmente, nasce la figura del mentitore, ovvero
colui che si allontana da suddetto codice e usa denominazioni sbagliate
volontariamente.

Quando si crea una tale convenzione, ognuno è tenuto a dire le cose nello stesso modo,
e chi non lo fa diviene mentitore. Nietzsche analizza la questione partendo dal supporre
che non è il mentitore ad essere mal visto o odiato dalla comunità/società; piuttosto è il
danno che la frode causa, ad essere odiato. L'uomo mente a se stesso, per ottenere
stabilità e sicurezza, e vuole in ogni modo mantenerle: egli fugge da ogni danno che
nuoce alla stabilità e che minacci la sicurezza di una vita ordinata razionalmente; anche
fosse proveniente dalla verità, spaventato dalle sue traballanti e imprevedibili
conseguenze, l'uomo si difenderebbe egualmente sia dal danno creato dalla
menzogna, sia da chi diffonde questa.
Egli preferisce rifugiarsi nelle benefiche e consolanti rassicurazioni della verità, o meglio
delle sue conseguenze positive. La ricerca della verità aiuta l'uomo nella sua esistenza,
gli facilita la sopportazione di questa; un "pathos" della verità, un impulso a ricercare e
smascherare le frodi menzognere, per aggiungere, mattone dopo mattone, un'altra
evanescente verità all'edificio di un muro contro le insicurezze e i timori del caos.
Quell’impulso verso la formazione di metafore - impulso fondamentale dell’uomo di cui
neppure per un attimo non si può non tenere conto, perché allora non si terrebbe conto
dell’uomo - è in continua attività; spinto come e con i suoi prodotti evanescenti, ossia i
concetti, viene edificato un nuovo mondo, regolare e saldo come un baluardo.
Nasce prima la verità, o prima la morale? La verità ha un carattere relazionale: essa
non è buona in sè, piuttosto sino le sue conseguenze ad essere positive per la società.
Nel momento in cui c'è qualcuno che mente, attraverso il linguaggio, e fa danno alla
società, a causa delle conseguenze negative della menzogna - anch'essa relazionale -
quel tale viene preso di malocchio dalla società: è qui che nasce la morale, il dover dire
la verità poiché alla società nuoce chi non lo fa, chi mente; è rispettoso, è giusto, e
quindi è morale dire la verità nei confronti di chi, nella medesima società, dice anch'egli
il vero.
La verità può essere metaforicamente paragonata alla salute: finché il nostro corpo e
l'insieme dei rapporti fenomenici che compongo la salute funzionano in modo
equilibrato e regolare tra loro, noi non vi facciamo caso; analogamente, se viviamo nella
verità, non vi facciamo caso: è la menzogna ad essere notata dall'individuo, e da coloro
che subiscono le sue dannose conseguenze. La morale è quindi ciò che indirizza la
società verso precetti che fanno bene alla stessa, che non la nuocciono e che anzi la
proteggono. Se la morale esprime la comunità, per Nietzsche non è solamente questo;
all'interno della società esistono individui tutti diversi tra loro, che hanno volontà di
potenza diverse tra loro, e "vite" differenti; la morale coincide quindi con l'utilità sociale
e comunitaria, l'obbiettivo comune. In relazione a verità e menzogna, non tutti gli
individui che compongono tale società sono propensi ad una simile utilità sociale: ciò
che è vero e morale, non lo è necessariamente per tutti; solo coloro che non vogliono
subire le conseguenze immorali e dannose della menzogna, sono propensi a
comportarsi secondo le buone direttive dell'etica.
In effetti, Nietzsche comincia a distaccarsi - a partire dagli anni ottanta del 1800 - dal
positivismo di Spencer e affini, e comincia ad interessarsi alla vita in senso stretto. Egli
rinviene nel sistema spenceriano una confusione tra la risposta alla domanda «cosa
devo fare?» e la ricerca delle origini della morale. Ancor più che nella teoria darwiniana
in sé, il filosofo tedesco vedeva in Spencer il problema maggiore perché questi,
vestendo i panni del “Darwin della psicologia”, poteva con la sua teoria dell’adattamento
incoraggiare l’istituzionalizzazione di una società in cui l’individuo avrebbe funto da
adeguato utensile e, peggio ancora, non avrebbe aspirato a niente di meglio, se non al
fine della conservazione dello status proprio e di “un ambiente le cui coordinate sono
ben riconoscibili.” Il serrato confronto con Spencer sulla dinamica degli istinti, porterà
Nietzsche a dichiarare “di aver individuato qual è l’istinto che pertiene alla formazione
della morale moderna e all’elezione del suo sistema di valori: l’”istinto gregario” o
“istinto del gregge” (Heerdeninstinkt), conformazione che trova nella paura la sua
determinante originaria. A seconda della verità che si sceglie di seguire, si otterrà una
comunità diversa, e uomini differenti: è in questo senso che verità e menzogna sono
antopotecniche, ovvero tecniche di formazione dell'uomo.


Nell'ultima parte del testo, Nietzsche menziona due tipi di uomini, come già detto,
riferendosi a quei modelli presocratici, evidenza dei residui del periodo tragico-
filologico del filosofo, sebbene in traslazione verso una maggiore attenzione al tema
della vita.

"Entrambi vogliono dominare la vita: l’uno, in quanto sa affrontare le principali necessità
con accortezza, intelligenza e coerenza, l’altro in quanto è una sorta di «eroe traboccante
di gioia» che non vede quelle necessità e considera reale solo la vita che la simulazione
trasforma in apparenza e in bellezza".

Secondo Nietzsche, lo spirito greco delle origini era dominato dall'impulso
dionisiaco, cioè dal sentimento della fondamentale caoticità dell'essere: è il trionfo di
Dioniso, dio dell'ebbrezza, dell'orgia e della passione, che trova la sua migliore
espressione nella musica. Vi è un secondo impulso, quello apollineo, che corrisponde
invece all'immagine tradizionale della classicità, quale serena e limpida armonia di
forme, è per il filosofo solo la reazione di una sensibilità morbosa e decadente
dell'irrazionalità e dell'eccesso dell'esistenza: spirito razionale la cui espressione più
compiuta è la scultura. I due impulsi si compongono nella tragedia di Eschilo e di
Sofocle. L'uomo "apollineo" aridizza e razionalizza il fenomeno, l’altro invece si
arricchisce di questo, seppur necessariamente condannato a fare i conti con un
continuo spaesamento caotico.
Come uno scienziato contrapposto ad un artista.
Il primo, passa la vita a costruire concetti, ripulirli e aggiornarli, producendo cultura e
conoscenza; il secondo, l'artista, vive nello stesso mondo dello scienziato, ma lo
rappresenta in modo onirico, come se giocasse con i concetti, li mescola e ne tira fuori
una realtà che non esiste. Entrambi vogliono prevalere sull'altro: entrambi sono soggetti
creatori, in modi diversi ma entrambi costruiscono concetti.

Nella Nascita della tragedia (1872), Nietzsche si sofferma sulla prima parte della
produzione tragica greca; egli comincia a partire del coro, dal corteo in cui "attori"
prendevano parte in senso religioso. Un processo di disidentificazione di tali
partecipanti, e l'assunzione - in maniera catartica - di qualcos'altro, qualcosa di diverso
dalla ordinaria identità: ciò permetteva di assumere e sopportare la vita in tutte le sue
condizioni, anche quelle oscure e negative del male. È questa fase della tragedia greca
ad interessare il filosofo, poiché derivante dalla musica - descrive un mondo caotico,
colmo di passioni ed emozioni - è messa in scena dello spirito dionisiaco. L'uomo pre-
socratico, privo di inibizioni etiche e razionali, è colui che affronta la vita attraverso l'arte,
colui che rende sopportabile l'esistenza senza negare il carattere dell'esistenza. L'arte
può fare questo, in particolare la musica, creando e inventando.
Ma la produzione della tragedia, da Socrate in poi, si trasforma; il maestro rappresenta
la figura simbolica di una visione del mondo razionalistica e ottimistica, della filosofia
della scissione di soggetto e oggetto, del primato dell'intelletto sull'istinto e sulla
passione, e del disprezzo per la libera e innocente creatività dionisiaca. Con Socrate si
impone all'uomo l'ideale della scienza e della mediocrità, di una vita solo teorica:
prevale il sentimento di sicurezza, dato dalla pretesa esistenza di un vero ordinamento
dei mondi. In effetti, il teatro greco si affilia allo spirito razionale e apollineo, fino a
soffocare lo spirito dionisiaco, e destabilizzare l'equilibrio tra le due forze opposte: ciò
che il filosofo definisce il suicidio della tragedia, o almeno quella da lui intesa come tale.
Questo sopravvento della razionalità nella produzione tragica, indica che il modo di
concepire generalmente il mondo si era trasformato anch'esso; da una visione caotica e
disordinata del mondo, si diffonde l'intellettualismo socratico che concepisce un mondo
razionale e ordinato. Già con Socrate quindi si giustifica razionalmente l'esistenza
umana, ma ancora di più con l'iperuranio platoniano: un mondo sopraelevato alla terra,
ove risiedono essenze eterne, perfette, immutabili, dalle quali derivano tutte le figure
intellegibili della terra, ovvero mere immagini/riproduzioni/copie imperfette. Così
Platone trova un'ulteriore giustificazione intellegibile e razionale del funzionamento del
mondo: è l'intelletto che fonda il mondo, cosa che Nietzsche attaccherà profondamente,
attribuendo proprio a Socrate, e poi Platone, il suicidio della tragedia.
Verità e menzogna sono egualmente presenti in entrambi i due modelli di uomini.
La verità resta quello strumento di difesa contro il caos dell'instabilità e delle incertezze;
le conseguenze positive della verità rafforzano e riparano quei concetti metaforici che
l'uomo ha costruito nel corso dei secoli. D'altro canto, anche la menzogna resta sempre
tale: sono da allontanare quegli effetti negativi causati dai mentitori, e le loro frodi, che
destabilizzano la sicurezza razionale di quel mondo di illusioni già descritto. È bene
ricordare che l'uomo razionale, come l’uomo intuitivo, si lasciano sempre ingannare
finché la menzogna è a loro d’aiuto, e finché gli effetti negativi della loro menzogna non
vengono scoperti e condannati.
In effetti l'uomo apollineo si è espresso, nel corso dei secoli, attraverso la scienza: la
ricerca di una verità che, avvolta da una metafisica sacralità, non si pone più il problema
dell'uomo umano, ma piuttosto di un'empia ricerca di concetti evanescenti, posti come
salde fondamenta di uno statico mondo. Essa ha dato vita ad un vero e proprio
problema morale: il suo compito, la finalità della scienza, mira a disincantare al massimo;
la ricerca scientifica si propone di non voler ingannare nemmeno se stessa, in quanto
fatta da uomini. Ma questa ricerca, diviene già una ricerca metafisica della verità stessa,
come fosse un'attenta fede da seguire; la scienza costruisce, un mondo che non è lo
stesso della "vita". E tale verità scientifica dell’uomo razionale sta sacrificando una fede
dietro l’altra, portando ad una desertificazione nociva, che doveva essere invece sempre
bilanciata dalla presenza dell’uomo intuitivo, ossia da quello che è lo spirito dionisiaco.
Nietzsche arriva il concetto di collettività come l'insieme dei singoli apollinei, che
hanno una volontà di potenza più fiacca e che non riescono ad imporre la propria verità.
Ed è così che essi si riuniscono in classi, in comunità, in collettività che sono comunque
"deboli". La categoria di communitas, ha a che fare con la comunità, con ciò a cui la
comunità obbliga l’individuo per poterne far parte e ciò che ne deriva in termini di
disciplinamento, governo e limitazione della libertà dell’individuo, che mette a
repentaglio l’identità stessa del singolo, a protezione della comunità. Communitas è
l’insieme di persone unite non da una “proprietà”, ma, appunto, da un dovere o da un
debito, quindi da una mancanza, da un onere, un limite. Poiché c'é sempre un noi che
prevale rispetto all'io; difatti ciò era già conclamato all'epoca, e si nota, ad esempio,
negli scritti anche di Marx, ove si parla di classe e non di singoli. 

Poco prima, anche Darwin, alla domanda "cosa e chi evolve", aveva risposto "la specie";
e già prima del Dio di Nietzsche, moriva l'Adamo di Darwin, compreso che l'uomo è
prodotto da un'evoluzione naturale e biologica, non creazione divina: evolve sempre la
specie, non l'individuo. Più vicino ai giorni nostri, anche Peter Sloterdijk sostiene che
"l'uomo è un prodotto", non finito, ma costantemente aperto a nuove evoluzioni: esso si
è forgiato, e quindi formatosi attraverso ibridazioni, mescolanze ed influenze con l'altro
da sé.
In quest'ottica evolutiva, anche una volontà di potenza superiore, una genialità fuori dal
comune tende a sacrificarsi proprio per quella comunità, per quella società condivisa e
debole, affinché si realizzi il cosiddetto "noi"; un'individualità forte e capace di fare del
bene, viene sprecata in un'ottica evoluzionista. Se il fine ultimo è la collettività,
l'individuo verrà appiattito, neutralizzato in virtù di un'evoluzione comunitaria e
condivisa; non è da intendersi come martirio delle libertà dionisiache, ma piuttosto
sacrificio al fine di conseguire un obiettivo. Tale sacrificio del singolo per la collettività, è
proprio in funzione alla propria evoluzione, che puó concernere solo tutta la specie e
non il singolo individuo. Da qui l'abbagliante incursione dell’inestricabile nesso tra bios
e nomos - di cui Nietzsche in quest'opera getta le basi - albori di una bio-politica, intesa
non come insieme di pratiche di mediazione, ma come riconoscimento ed espressione
immediata della potenza della vita, caratterizzante un costante tentativo di immunizzare
il singolo dal rischio gregario della communitas e del debito totalizzante, a protezione
della sua individualità.
Il testo Su verità e menzogna in senso extramorale (1873) è molto importante, non
solo in se stesso, ma per tutta l'intera produzione filosofica di Nietzsche. Esso contiene
la particolare questione della morale, approfondita anni dopo in opere più consistenti e
che si conclude con la Genealogia della morale (1887). Nietzsche è il primo che si
sofferma e "scopre" il fatto che anche l'uomo, come essere finito, è plasmabile così
come lo sono tutti gli esseri viventi (questione poi ripresa da Darwin). Come per il lupo -
che è stato plasmato dall'uomo ed è addomesticato in cane - esistono diverse razze,
alcune più docili e altre più feroci, anche l'uomo è diviso in razze diverse tra loro.
A partire dalla scolastica della teologia cristiana l'uomo è animo, mentre il corpo uguale
per tutti; dalla fine del '600 e '700 inoltrato, il corpo non è più estraneo alla definizione
di uomo, ma comincia ad essere incluso nelle considerazioni filosofiche. Nietzsche
comincia a considerare la possibilità che si possa lavorare filosoficamente anche sul
corpo, per plasmarlo e trasformarlo; egli comincia a sospettare che l'uomo, dalla Grecia
classica sino a tutta l'Europa, sia stato lavorato su se stesso. Quando individui si
riconoscono in sistemi morali e vi aderiscono in larga scala, (etiche nicomachea e
aristotelica, poi quella cristiana, etc.), vengono cresciuti, allevati, prodotti diversi tipi di
uomini: attraverso determinati precetti morali, abbiamo elevato tipi umani diversi tra
loro; e se attraverso la morale è possibile lavorare sull'uomo - così da plasmarlo e
formarlo sino a farlo divenire una "razza" - allora essa può essere definita
un'antropotecnica, ovvero una tecnica (apprendibile e riproducibile) di produzione
dell'uomo. La morale quindi, per Nietzsche, è il più grande strumento per poter
trasformare e influenzare la produzione umana. Esistono uomini che hanno un grande
quantum di potenza, ma che non possono esternare poiché inibita dai precetti morali
cui questi tali seguono; senza quei principi o precetti, quell'energia assopita avrebbe
potuto produrre una società diversa. Darwin, insieme con il cugino Dalton, si pone il
problema della formazione delle razze, già prima degli studi veri e propri di genetica;
pensano al fatto che le stesse tecniche di accoppiamento che l'uomo utilizza per gli
animali - relative alla miglioria delle varie specie e razze o alla riduzione delle malattie
genetiche - potrebbero essere applicate anche all'uomo. Pur essendo fortemente
teoriche, quest'argomento era all'ordine del giorno in quegli anni; già prima della
Germania nazista, in America e in alcuni stati europei si imposero restrizioni etniche ai
matrimoni.
L'uomo abita una società che subisce fortissimi e continui cambiamenti, siano
industriali, economici, lavorativi, soggetta anche a nuove discipline scientifiche, che
operano scoperte sconcertanti; eppure i valori morali, non cambiano, perdurano e sono
sempre i medesimi: il filosofo sottolinea il fatto che siamo in un mondo in continuo
divenire, in trasformazione perenne e su cui non si potrebbe costruire nulla di stabile;
l'uomo è riuscito invece a costruire una conoscenza che attraversa il cambiamento, e
servendosi della morale è riuscito a mantenere la forma di se stesso nel tempo.

Viktor von Weizsäcker


Biografia

Medico e antropologo (Stoccarda 1886 - Heidelberg 1957);
studiò a Tubinga, Friburgo, Berlino e Heidelberg, dove si laureò in
medicina nel 1910 e dove divenne primario di neurologia nel
1923. Nel 1941 divenne docente di neurologia all'Università di
Breslavia, e nel 1945 tornò a Heidelberg come professore di
medicina.
Weizsäcker dedicò i suoi studi al rapporto tra la malattia ed il profilo psicologico del
malato e a quello tra medico e paziente. È noto, in oltre, per i suoi studi pionieristici sulla
medicina psicosomatica e per le sue teorie riguardanti l'antropologia medica. A partire
dalla psicologia della Gestalt, ha elaborato il concetto di Gestaltkreis, "ciclo della forma",
relativo alla costante rimodulazione degli eventi biologici attraverso l'esperienza: le
forme (nel senso della psicologia della Gestalt) percepite sono il prodotto di un
processo di interazione fra percezione e movimento, mente e corpo, soggetto e oggetto
in cui i due termini, se pur non emergono simultaneamente, sono connessi nel "ciclo"
come un tutto organico.
Manifesto del suo pensiero fu Patosophie (1956): ispirandosi alle dottrine del suo
maestro, l'internista L. von Krehl, all'esistenzialismo di M. Heidegger e alla psicanalisi -
Weizsäcker applicò alla medicina le sue concezioni teoriche, insistendo sulla necessità
di considerare la malattia organica in rapporto alla personalità del malato, sul significato
psicologico ed esistenziale che la malattia esprime per l'individuo malato e sulle
implicazioni che ne risultano per il rapporto medico-paziente e la terapia in generale.
Espose queste sue concezioni, da lui denominate patosofia, nell'opera dallo stesso
titolo; fu pioniere in Germania dell'applicazione al trattamento delle malattie organiche
e funzionali di procedimenti psicanalitici rielaborati nel quadro di una "patologia
antropologica" di notevole originalità e profondità speculativa.
Gli scritti di Weizsäcker sono infatti di alto valore filosofico, poiché partono appunto da
una speculazione teoretica - ove vi è una propria e convinta considerazione del mondo,
e ancor di più della vita. È a tal proposito l'interesse verso lo scritto Forma e percezione
(1942), che più avanti si tenterà di comprendere ed analizzare.

Tra le altre opere: Der Gestaltkreis (1940); Gestalt und zeit (1942); Wahrheit und
Wahrnehmung (1943); Der kranke Mensch (1946); Natur und Geist. Erinnerungen eines
Arztes (1954); Patosophie (1956).

Introduzione ai concetti di "vita" e "ambiente", prima di Weizsäcker.

Vi è una sostanziale differenza tra il mero esistere, e vivere. Vivere significa
conoscere, la vita stessa conosce: tutti i sistemi viventi sono dei anche sistemi cognitivi, i
quali per poter sopravvivere e convivere nel mondo, devono poterlo percepire e
conoscere. L'organismo è in stretta correlazione con l'ambiente che lo circonda; in
effetti in questo periodo la nozione di ambiente - che sino al XIX secolo designava
l'etere come sua definizione fisica - e quindi la sua concezione, cambiano ampiamente.
nel 1838, Comte introduce la parola ambiente nell'ambito della biologia per la prima
volta. Ma gli unici organismi capaci di poter influenzare l'ambiente - non nella sua
individualità - ma nella sua intera totalità, sono quelli appartenenti al genere umano. Egli
analizza il mondo dei viventi da una concezione ancora fisica della biologia, sebbene
l'intuizione degli ambienti - comunque contrapposti e interagenti solo attraverso regole
definite. Tutto ciò fino a Darwin, che comincerà un intreccio molto importante tra fisica e
biologia. Allora ciascun soggetto vivente diviene costruttore del proprio ambiente; tutti i
sistemi viventi sono costruttori di mondi; ciò che noi cambiamo ambiente, è piuttosto un
insieme di ambienti, ognuno proprio del sistema vivente che l'ha costruito.
A sostenere fortemente questa linea filosofico/biologica fu un famoso zoologo,
Jakob von Uexküll, che comincia ad analizzare specie animali, alcune dei quali anche
poco studiate e comincia a teorizzare una diversa concezione dell'ambiente. Attraverso
una fenomenologia della zecca, egli esemplifica il concetto di ambiente/mondo; la
zecca reagisce a tre soli stimoli: quando la femmina gravida si posiziona su un ramo e
attende il passaggio di un animale, un primo stimolo olfattivo (l'acido butirrico emesso
dai follicoli sebacei dei mammiferi) le suggerisce di lasciarsi cadere; grazie a un organo
sensibile alla temperatura capisce se è caduta su un animale; se ha avuto fortuna
attraverso il tatto si posiziona su uno spazio di pelle nuda conficcandosi fino alla testa in
modo da poter succhiare il sangue caldo. Una volta sazia si lascia cadere, depone le
uova e muore. Sebbene limitato in confronto al nostro questo è un mondo a parte; dove
la scienza classica vedeva un unico mondo, comprensivo di tutte le specie viventi
disposte gerarchicamente, von Uexküll pone un'infinita varietà di mondi percettivi,
collegati fra loro anche se reciprocamente esclusivi. Ciò può essere utile all'uomo per
tentare lontanamente di comprendere il mondo di una zecca - totalmente diverso da
quello di un pipistrello o da quello umano: ogni sistema vivente, seleziona il proprio
ambiente e lo costruisce secondo le proprie necessità vitali.


Forma e tempo
Gestalt und zeit, (1942)


Nelle prime pagine dell'opera - presentando così un discorso tutto visibilmente
architettato da occhi e mani scientifiche, seguendo attentamente i criteri logici della
dimostrazione - Weizsäcker introduce e definisce in modo embrionale i concetti di
forma e tempo, citando Goethe.
Cos'è la forma? Innanzitutto la forma non è nulla di fermo, definito e immobile. Al
contrario, essa è un continuo divenire ed evolvere - inarrestabilmente in movimento;
cioè che si mostra ai nostri occhi, è soltanto un frammento di una forma, che già non è
più tale.
"[...] queste però non sono manifestamente né inizio né fine, ma piuttosto esse stesse
qualcosa di divenuto e diveniente".2 La forma è qualcosa di mutevole, e segue delle
 

precise regole che talvolta sono in contrapposizione con quelle del classico mondo
della fisica. In particolare, diviene paradossale la relazione delle forme biologiche con il
tempo - quello ordinario meccanico-spaziale.
In effetti, già nell'introduzione, si apre la fondamentale disputa intorno alla quale
ruota tutto il discorso di Weizsäcker: l'irrisolta contesa delle percezioni (delle forme) tra
la biologia e la fisica. Il meccanicismo fisico, che spesso prevale, è l'analisi oggettiva,
pratica e scientifica della realtà; il vitalismo biologico è piu una pratica filosofica,
prevalentemente teorica. Un vitalista, quando analizza il corpo affetto da una patologia,
più che trovarne la causa e il rimedio, egli osserva il decorso e la capacità del corpo ad
autoripararsi; l'approccio meccanicistico è assolutamente antitetico a questo, poiché
comincia con lo studiare il corpo come una macchina, attraverso gli strumenti della fisica
e della matematica con processi, parti e funzioni ben definiti da regole e leggi,
decscrivibili e analizzabili - metodo che trova la sua massima rappresentatività nel voler
costruire droni e automi sulla base del corpo umano.
Le percezioni e gli organi di senso seguono quindi le leggi di quale ambito, fisico o
biologico? Una questione ancora irrisolta, da cui il "patosofo" parte: egli vede l'apice
della poeticità nella disputa tra Goethe e Newton (che, defunto, non ha mai potuto
difendersi da sé) - con il primo che scrisse la Teoria dei colori (1810), criticando
aspramente il fisico. In effetti, il poeta - innamorato della vita aveva un estremo bisogno
di credere nella forza dell'individuo e nella sua indipendenza dalla natura - tentò di
dimostrare (in un tempo in cui non esisteva la fisiologia, o la biologia) l'esattezza del
vero delle percezioni umane, la corrispondenza tra percezioni e una verità reale; non
avendo un ambito in cui collocare la sua teoria, tentò di argomentate in termini fisici e
scientifici, che prevedibilmente ebbero scarsi risultati. Ne conseguì che sia il testo di
Goethe, sia il suo tentativo di valorizzare la percezione dei sensi, vennero entrambi
sottovalutati.

2 Da qui cito V. von Weizsäcker, da Forma e tempo.


Il tentativo che Weizsäcker sapientemente ha fatto, è stato quello di recuperare le
argomentazioni utili del poeta tedesco, estrapolarle e collocarle nel proprio ambito di
discussione - un nuovo ambito di discussione, che egli con questo testo cerca di creare -
cercando di superare così quel dualismo nelle scienze naturali di cui si è accennato, e
ripristinare l'unità della natura. Questo dualismo, tra le scienze naturali esatte e quelle
descrittive, è quello che W. vuole risolvere per riportare le scienze ad unità; per fare ciò,
egli parte dal concetto di percezione ed introduce l'inadeguatezza della fisica classica.
Le misurazioni fisiche divengono erronee quando applicate al mondo della biologia, gli
strumenti di misura sono inadatti, come lo sono altrettanto le unità di misura; le scienze
esatte presuppongono la costanza e la logica delle leggi naturali, per poter effettuare
delle osservazioni. Lo studio delle forme, invece, non può essere statico; esso deve
muoversi insieme al volgere della forma, insieme al sul divenire. Solo così si può almeno
tentare di ovviare errori di parallasse, per usare termini fisici.
Weizsäcker esemplifica differenziando stimolo ed eccitazione: lo stimolo è il dato
oggettivo che viene percepito, esso può essere misurato con metodologie e strumenti
propri alla fisica - come ad es. la notte ed il buio sono stimoli per il sonno; l'eccitazione,
e quindi la reazione, è la risposta dell'individuo a un determinato stimolo: questa al
contrario non risponde alle domande della fisica, ne può essere misurabile con tali
strumenti - poiché incostantemente imprevedibile, e interconnessa ad altri fattori non
causali: il suddetto stimolo del buio, non implica necessariamente il dormire; la risposta
allo stimolo del buio è il sonno - determinato da varie situazioni che possono essere
stanchezza, stress, etc. Analizzando lo stato di un determinato atto biologico, non sarà
possibile ricercare scientificamente le cause delle reazioni agli stimoli ad infinitum,
seguendo una coerenza metodologica fisica; in effetti, bisognerebbe regredire non uno
stimolo o una reazione, ma un'intero sistema ambientale precedente, con annesse le
intere esperienze, che a loro volta sarebbero connesse con sistemi ed esperienze
ancora precedenti, e così via - non è plausibilmente realizzabile. Evidentemente
l'incostanza dell'atto biologico nel rispondere o meno ad uno stimolo, implica il fatto
che tra stimolo, eccitazione e reazione vi sia un'incognita, importantissima e necessaria
affinché ci possa essere la scelta dell'individuo, ed il suo adattamento suggerirebbe
Darwin; quest'incognita, e la sua propria incostanza dell'esserci o meno, è
inevitabilmente legata al concetto di tempo e percezione, che sono il tema vero della
trattazione.
Ecco che W. differenzia il tempo biologico da quello oggettivo: il tempo
oggettivo, lineare, è diverso da quello biologico; esso sussiste al di là di chi lo subisce,
proprio perché oggettivo e uguale per tutti. Ma ci sono delle inadeguatezze che il
tempo classico della fisica mostra quando misura atti biologici, quali W. evidenzia
attraverso l'esempio dell'uovo e la gallina: il tempo oggettivo non può dire nulla
rispetto a cosa sia nato prima, poiché vittima del paradosso; caso diverso se di
riferimento all'ambito della "casualità meccanica, che attribuisce sempre a ciò che
precede temporalmente il primato causale su ciò che segue".
Al contrario, è piuttosto l'atto biologico che definisce il tempo; è il determinato stadio
dell'essere uovo o gallina a costruire il tempo (soggettivo) di tale atto biologico. È
questo il cambiamento di prospettiva che propone Weizsäcker: "è la direzione dello
sguardo che determina la direzione del tempo - non il contrario". Il punto temporale
biologico non è determinabile su di un "asse oggettiva", piuttosto è esso stesso a
determinare - non un punto d'arrivo - un punto di partenza dal quale si possono formare
asserzioni come prima, dopo, quanto prima, quanto dopo, troppo presto o tardi, etc.; già
si può riconoscere che il tempo biologico, quello che viene strutturato dalla forma, è
costruito differentemente da quello lineare. Deve risultare chiaro che allora la forma non
nasce o esiste nel tempo, ma "il tempo nasce e passa nella forma come principio e fine,
come durare e trapassare".
Mentre il tempo oggettivo scorre in un presente, che è già passato per una metà e non
ancora futuro per l'altra; il tempo biologico al contrario concepisce un presente
strettamente collegato con il suo stesso passato e futuro, presupponendo
conservazione e anticipazione. Un altro brillante esempio in Forma e tempo, ove
l'autore si serve delle diverse andature del cavallo: a seconda del passo, trotto, galoppo
o carriera, la velocità del cavallo cambia, e cambia il suo rapporto con il tempo; è ancora
una volta l'atto biologico a determinare il tempo, non il contrario. Il tempo della fisica è
in successione lineare, quello biologico è prolettico - nel senso della particolare
caratteristica percettiva umana. Sorge il problema che tutto ciò quanto detto sin ora,
implica il fatto di non poter fissare alcun atto biologico su quell'asse temporale lineare
e oggettiva, perciò impossibile collocarlo passato (determinatezza non modificabile) e
nel futuro (indeterminatezza imprevedibile).
L'imprevedibilità del futuro, in contrapposizione alla determinatezza del passato,
è una debolezza nel calcolo fisico - proprio a causa della possibilità di essere tanto
approssimato, quanto imprevisto. Per la biologia, invece, Weizsäcker trova un altro
accesso al problema, che spiega con l'esempio della partita di scacchi: perché il famoso
gioco di logica abbia luogo, l'elemento essenziale è il non conoscere le mosse
dell'avversario; l'indeterminatezza del futuro della partita, l'imprevedibilità dello
sfidante è la condizione operante che permette la fattibilità della partita. Così in
biologia, esistono dei principi attivi, degli atti di movimento, generazione, etc. che sono
possibili proprio per grazie a tale imprevedibilità; si può caratterizzare ciò come
conforme a legge in un indeterminismo metodologico. Inoltre, finché un evento
biologico non si è formato, non è possibile determinarlo ante festum, esso è
imprevedibile finché non si è costruito: non sono le condizioni dell'atto biologico a
determinare, ma è la sua realizzazione che svela le forze condizionanti.
Per poter fondare una ricerca metodologica universale, essa deve supportare sia
legalità - nel senso del rispetto degli assiomi e regole della fisica - che sviluppo, ovvero
il considerare gli oggetti d'osservazione in costante movimento, e l'adeguarsi a tale
movimento per poterli studiare: bisogna che essi si completino a vicenda, in un metodo
che W. designa come "complementarismo". Bisogna quindi verificare le condizioni
affinché un tale metodo possa essere attuabile.
"Il tempo biologico è presente che getta un ponte sul tempo" - ma non è mai solo
presente, ma sempre e comunque un "ponte" che lega a se passato, e futuro. Quel che
subito si evince è che tanto la legalità, quanto lo sviluppo, "sono centrati nell'attualità di
un presente". Ne consegue l'analisi di un'altra importante divergenza tra le
considerazioni fisiche e quelle biologiche, ovvero la costanza/incostanza: il generico
mantenimento dell'identità, il ripetersi uguale a se stesso - che in fisica è inessenziale - in
biologia è di primaria importanza, per quanto gli elementi costitutivi di un atto, e l'atto
stesso, sono in incostante movimento e cambiamento, e l'energia affluisca e defluisca
continuamente. In biologia, è la modificazione che crea sempre l'uguale; ma accade
anche che lo stesso stimolo provoca reazioni diverse in tempi differenti.
Allora ne consegue che "la vita è là dove, in ogni momento, un indeterminato diviene
invariabile. L'indeterminatezza si completa con l'invariabilità della vita." Non che venga
causalmente determinato attraverso qualcosa di futuro, e nemmeno scaturito da un'idea
"kantiana" - lo sviluppo è una relazione tra attesa e compimento. Solo se questi si
completano reciprocamente, "nel senso che il dopo realmente completa il prima", lo
sviluppo adempie una legge. I fenomeni viventi, considerati come fenomeni della
materia, vengono considerati in biologia, tanto conformi a leggi quanto soggetti a
sviluppo. Tutto ciò riguarda sia l'osservatore, che l'oggetto:"se vogliamo in qualche
misura giungere alla vivente intuizione della natura, dobbiamo comportarci in modo
altrettanto mobile e formativo, secondo l'esempio con il quale essa ci viene
incontro" (J.W.Goethe, Zur Morphologie). Ma la forma, è da considerarsi in ottica
kantiana - possibilità trascendentale priva di forma - oppure secondo la visione di
Goethe, ossia realtà formata in movimento? Per rispondere a tale quesito, Weizsäcker
introduce un excursus necessario alla sua presentazione sul tema della percezione
sensibile.
La percezione presenta diverse incongruenze con l'andamento del tempo fisico-
spaziale. Oltre all'incostanza tra già citati stimolo, eccitazione e reazione, vi sono
particolari caratteristiche della percezione quali nomofilia e nomotropia. Queste due
caratteristiche, presuppongono il fatto che tra l'esposizione ad un fenomeno formato e
la realizzazione di tale forma nella percezione, vi sia un lasso di tempo più o meno
breve, a seconda dell'accordanza (nomofilia) o discordanza (nomotropia) della forma
percepita, con le leggi fisiche che governano l'ordinaria realtà. In effetti, la
visualizzazione mentale di una percezione di una forma è più o meno veloce, distorta,
apparente, etc., a seconda se la forma sia riconoscibile nell'ordinaria memoria, o sia
irregolare. La percezione è capace, e preferisce rappresentare in modo intuitivo le leggi
geometriche e meccaniche, "l'occhio vede al meglio i movimenti che rappresentano le
più semplici leggi di geometria, meccanica, fisica, e astronomia".
Il carattere delle forme percettive è "anamnestico-prolettico". Altri due caratteri
importantissimi alla conclusione della presentazione di Weizsäcker, sono prolessi e
anamnesi. La prima è quella caratteristica dell'uomo che tende a completare con il
pensiero un atto biologico in procinto di verificarsi, ma non ancora verificatosi, in
relazione al movimento che ne risulta, in relazione alla sua direzione. Il nostro occhio, già
osservando in prima istanza la direzione possibile di un determinato fenomeno, include
e vede cose che in realtà non sono presenti sullo sfondo.
La facoltà dell'anamnesi - l'attività mentale che completa un movimento, donando forma
a tale movimento - viene spiegata invece attraverso un esempio particolare; con l'aiuto
dell'esperimento dello "stroboscopio", ove la percezione costruisce una sola forma a
partire da due oggetti distinti e in sé immobili, egli presenta l'anamnesi: attraverso un
atto della rimemorazione del percorso (impossibile nella fisica, poiché essa non
possiede memoria), la rappresentazione di passati in successione che danno forma al
movimento. Tale simultaneizzazione delle successioni di un formato in movimento
mostra ancora una volta che il tempo biologico è essenziale alla comprensione di un
simile evento, laddove la fisica con i suoi strumenti non può intervenire. È la formazione
di una struttura temporale soggettiva, quella che riesce a conciliare in un presente
assolutistico, - come ponte tra passato e futuro - la transitorietà delle "vacillanti forme" in
continuo divenire e la loro regolarità costante.
Risulta quindi necessario una sincronizzazione metodologica tra le scienze esatte,
con le proprie impostazioni fisiche, e le scienze descrittive/biologiche, che
presuppongono strutture differenti. È dalla percezione sensibile, che ci si rende conto di
un'inevitabile collaborazione tra tempo oggettivo, che scansiona il verificarsi del
fenomeno percettivo, e tempo biologico, scandito e costruito intorno alla percezione.
Sebbene possano presentarsi discrepanze di tipo percettivo-spaziali tra fenomeno
esperito e fenomeno percepito (vedi l'esempio della sedia girevole, da Forma e tempo,
pag. 61), il fatto che le nostre percezioni, e la mente in generale, sia ben disposta ad
accogliere forme che seguono parametri fisici e lineari - evoca un'insita rivalutazione
della sfera sensoriale e percettiva: essa è capace di scovare e leggere le regole fisico-
geometrico-matematiche, comportandosi in maniera diversa a seconda di esse.
Estrapolare il vero attraverso la percezioni sensibili, vuol dire tirare in gioco una logica
della sensibilità, una logica inconscia dei sensi: essi diventano così strumento per
misurare il mondo, conoscerlo. Ma ciò non è a senso unico: come il pensiero che
amante delle leggi e delle regole, sottopone a validità logica e li sottopone a critica;
così vi è un'altrettanta caratteristica speculare, eidofilia, secondo la quale ogni
speculazione teorica è sempre volta in direzione di un'intuizione pratica che la
rappresenti. È questa la sorta di continua collaborazione tra pensiero e facoltà sensibili,
che specularmente la scienza logico-fisica insieme con la biologia deve condurre.

In definitiva - anche se in realtà provvisoria, poiché Weizsäcker sostiene più volte


nel suo scritto che lo stesso è solo un abbozzo, uno schizzo in evoluzione e da definirsi -
il filosofo arriva alla concezione della biologia e dell'approccio ad essa, come
"Gestaltkreis", ovvero circolo della forma. La percezione della forma (senso interno),
secondo un tempo che non è lineare, dev'essere complementare e integrativa all'analisi
del fenomeno oggettivo (senso esterno); una continua cooperazione tra Innenwelt e
Umwelt, tra mondo interno dell'organismus e ambiente. Una pura concezione fisico-
matematica puramente quantitativa, perderebbe non solo una tale cooperazione
fondamentale, ma anche tutti i particolarismi e specificità di quel particolare atto
biologico. Weizsäcker, in effetti, si propone di radicalizzare il pensiero del sopra citato
zoologo e biologo estone, e continua quel processo d'inserimento del soggetto
antropocentrico nella biologia: l'esperienza vissuta degli organismi, applicata anche a
quelli inferiori, rappresenta una rivoluzione epistemologica nel modo di pensare la
biologia. La vita è realtà ibrida, in continuo rapporto con l'alterità, con l'ambiente
esterno al di fuori di sé, come già s'è accennato; lo studio della vita, la biologia, si
intreccia sempre di più con le leggi naturali, andando oltre poiché non dipende
esclusivamente da queste.
Nell'accezione moderna, ambiente sono le circostanze che generano delle
influenze sugli organismi. "Gestalkreis" di W. ha un significato simile al "Funktionskreis"
teorizzato da von Uexküll; sebbene le due nozioni teoriche hanno sfumature differenti.
Ciascun atto biologico è un'unità imprescindibile di percezione e movimento.
Percezione e movimento, per l'uomo, sono due atti scissi che vengono temporalizzati in
una dialtettica lineare (prima uno poi l'altro). Al contrario, partendo dal fatto che gli
organismi formano con il proprio ambiente un sistema unico, in cui in realtà questi due
atti non sono scissi; la scissione ha una funzione piuttosto euristica, serve a l'uomo per
semplificare la comprensione e lo studio degli organismi.
Von Uexküll teorizza tre livelli di interconnessione tra ambienti e organismi: "Welt,
unwelt, umgebung". Welt equivale all'ambiente basilare, ovvero il mondo, così come si
presenta alla scienza, con le sue proprietà oggettive; unwelt si riferisce invece
all'ambiente soggettivo, ovvero l'entrata nello studio scientifico la soggettività biologica.
Ciascun ambiente, come ampiamente delucidato, è la personale e contingente nicchia
che - lungi dall'oggettività del welt - ogni organismo diverso tende a costruirsi,
selezionare e interpretare; a stimoli diversi, ambienti e mondi altrettanto diversi,
relativamente accordati ai sensi e caratteristiche dell'organismo che li sceglie.
Ma esso sceglie con autocoscienza? È qui che sta la grande differenza tra l'uomo e tutto
il resto dei viventi. Tutti i viventi, tutti gli organismi che interpretano e selezionano l'uno
o l'altro ambiente, ritagliano i propri dintorni in modo naturale e incosciente, e scelgono
l'ambito geografico in base alle proprie caratteristiche vitali ed essenziali; sembra che
ad organismi più completi ed evolutivamente avanzati corrispondano ambienti
geograficamente più estesi. La umgebung viene a coincidere la umwelt dell'uomo, che
a differenza all'intera varietà di specie organiche, è colui che ha l'accesso all'ambiente
più vasto, il mondo intero. È quindi capace di descrivere i fenomeni e gli organismi che
lo attorniano, e attraverso la tecnica, di riprodurne alcuni.
Un importante fenomeno che si mostra importantissimo nella biologia
contemporanea è il nuovo concetto di feedback, introdotto dai due biologi Francois
Jacob e Jacques Monod; nel1961, i due biologi scoprirono per la prima volta un
"feedback loop" osservando le cellule dell'Escherichia coli. La parola feedback indica la
"retroazione" della natura, la capacità di un sistema di autoregolarsi, tenendo conto
degli effetti scaturiti dalla modificazione delle caratteristiche del sistema stesso. Nei
viventi, ad esempio, i sistemi a feedback negativo e positivo sono ampiamente utilizzati
per regolare l'omeostasi dell'organismo. Quando un sistema infatti è soggetto ad una
perturbazione, esso tende ad autoregolarsi, ovvero all'omeostasi, attraverso un
feedback negativo: un dispositivo, stratagemma che segnala la perturbazione e che
aiuta appunto l'omeostasi. In questo caso il feedback segnala un processo conservatore,
ma l'organismo, non tende solo all'omeostasi, e quindi all'equilibrio: l'evoluzione, il
cambiamento quindi provengono da un feedback positivo, ovvero il reale e biologico
tendere alla sregolatezza, al disordine, al cambiamento. Tutto ciò rimanda alla
interpretazione nietzschiana del mondo, avendo qui due conferme a delle possibili
evoluzioni del suo pensiero: l'assunzione da parte dello 'studio della vita' di un punto di
vista, ove così viene superata epistemologicamente la dimenticanza cui Nietzsche fa
riferimento quando parla del linguaggio; e la strabiliante scoperta del feedback
positivo, che conferma il concetto che l'individuo possa essere predisposto al
cambiamento, alla sregolatezza, al divenire indeterminato; è come un ribaltamento
dell'umanesimo, in direzione di una rivalutazione di quello spirito dionisiaco di cui ci
parlò Nietzsche.
Così per riportare quell'unità all'interno e tra le scienze, e per risolvere quel
dualismo contenzioso di cui si parla nelle prime pagine di Forma e tempo, bisogna
cambiare e riformulare quindi le questioni da porsi: domande come «cosa accade?»
rimandano ad una visione pretenziosamente oggettiva e fisica. Dopo quanto analizzato,
bisogna chiedersi piuttosto «cosa è stato visto, cosa è stato esperito?» Comprendere
quindi che si parte sempre da un punto di vista: il mondo non è la realtà, ma è l'insieme
artificioso e simbolico in cui gli organismi hanno (inconsapevolmente) creato i propri
diversi e innumerevoli ambienti; costruzione attiva di ambienti che insieme formano il
mondo, analizzabile dall'uomo, senza obliare però che il punto di vista rimane
comunque umanamente indiretto.
Altri pensatori partiranno da questi nuovi presupposti filosofico-scientifici, su cui
fonderanno il loro pensiero, quali M. Merleau-Ponty con cui Weizsäcker condivide molti
aspetti importanti del suo pensiero, ma anche M. Heiddeger il quale con una
concezione di ambiente e di esser(ci) più estesamente filosofica ed esistenziale,
prosegue il discorso sull'individuo, e sulla vita nella sua accezione più ampia.

Martin Heidegger


Biografia

La vita di Heidegger si svolse pressoché interamente in Germania;
egli infatti viaggiò pochissimo, quasi esclusivamente per alcune
conferenze (come a Roma, Zurigo ecc.), o seminari. In sostanza, egli
si dedicò per l'intera durata della sua esistenza all'insegnamento
accademico e all'elaborazione delle sue opere filosofiche, alcune delle quali
strettamente legate ai corsi universitari.
Nato nel 1889 a Meßkirch, nel Baden, in una famiglia cattolica, compie i primi
studi a Costanza e Friburgo presso i gesuiti, frequentando corsi di teologia. Dopo una
convinta adesione al sistema di valori del cattolicesimo, a poco a poco tuttavia se ne
discosta per preferire un orientamento religioso ispirato al protestantesimo luterano,
finché nel 1919 dichiarerà: «convinzioni gnoseologiche coinvolgenti la teoria del
conoscere storico hanno reso per me problematico ed inaccettabile il sistema del
cattolicesimo, non però il Cristianesimo». Dopo essere intanto divenuto allievo del
neokantiano Heinrich Rickert, conclude i suoi studi conseguendo nel 1913 il dottorato
presso l'università di Friburgo con una tesi su La dottrina del giudizio nello
psicologismo, di impostazione kantiana; due anni dopo vi ottiene la libera docenza con
una dissertazione sul pensiero di Duns Scoto. Divenuto nel 1919 assistente di Husserl,
inizia con lui un periodo di intensa collaborazione e di ricerca, in particolare riguardante
Aristotele, Kant e Fichte; nello stesso tempo, svolge esercitazioni accademiche sulla
fenomenologia seguendo l'indirizzo tracciato da Husserl. Fra il 1923 ed il 1927, divenuto
professore presso l'università di Marburgo, svolge corsi su diversi temi filosofici, in
particolare sull'ontologia medievale; in questo periodo comincia il distacco da Husserl,
che si concretizzerà poi nella pubblicazione, nel 1927, di Essere e tempo, la sua opera
principale, dedicata al suo maestro e tuttavia segnata da un'applicazione molto
originale dei suoi insegnamenti circa la fenomenologia, dalla quale di fatto si allontana.
L'opera sarà interpretata infatti come un approdo all'esistenzialismo, in quanto sono
presenti profonde implicazioni con le tematiche esistenziali affermatesi in quegli stessi
anni, anche in Francia, sulla scia di pensatori come Kierkegaard, Nietzsche, Dilthey,
Bergson, Scheler e altri (si ricordi in particolare l'opera capitale di Sartre, Essere e nulla,
di poco successiva). Sono altresì presenti considerazioni sull'"esperienza del tempo"
vissuta dalle originarie comunità cristiane e sul significato del momento escatologico
della parusia.
Nel 1928 sarà quindi Heidegger a succedere, a Friburgo, alla cattedra che era stata di
Husserl. A questi anni risalgono altre opere come Che cos'è la metafisica?, Kant e il
problema della metafisica, L'essenza del fondamento (1929), e la conferenza
dell'essenza della verità (1930).

Il coinvolgimento col nazismo

Il 21 aprile 1933 Heidegger è nominato rettore dell'Università di Friburgo,
proprio mentre Husserl viene allontanato, a causa delle sue origini ebraiche,
dall'insegnamento; è allora che aderisce, seppur brevemente, al partito
nazionalsocialista. In quest'occasione egli pronuncia un discorso dal titolo
"l'autoaffermazione dell'università tedesca", nel quale difende l'autonomia
dell'istituzione universitaria rispetto alla cosiddetta "scienza politicizzata", ma senza
alcun riferimento al Partito nazista.
Nello stesso anno, tuttavia, il 3 novembre pronuncia un altro discorso, dal titolo "Appello
agli studenti tedeschi", in cui si esprime in questi termini: «Non teoremi e idee siano le
regole del vostro vivere. Il Führer stesso e solo lui è la realtà tedesca dell'oggi e del
domani e la sua legge». A ogni modo si dimette dall'incarico di rettore nel 1934, pur
continuando ad insegnare; da quel momento in poi Heidegger non parteciperà più
direttamente all'azione politica del nazismo.
Intanto, parallelamente alla vita matrimoniale con la moglie Elfride, aveva intrapreso sin
dagli anni di Marburgo una relazione sentimentale con la filosofa ebrea Hannah Arendt,
al tempo sua giovane allieva, caratterizzata dal forte ascendente del pensatore su di lei;
la giovane studentessa riuscirà a riconoscere solo molto più tardi il coinvolgimento di
Heidegger col nazismo, e in ogni caso resterà interiormente sempre devota al suo
maestro, pur dissociandosi dalle sue idee politiche.
Nel 1987 un libro di Victor Farias ha sollevato nuovamente la polemica, del resto mai
sopita, sulla compromissione biografica e filosofica di Heidegger con l'ideologia e la
vicenda storica del nazismo. Le tesi di Farias, tuttavia, sono state criticate a fondo da
François Fédier, pensatore francese, allievo di Jean Beaufret, che ne ha
denunciato la mancanza di basi documentali e l'intento esclusivamente diffamatorio. In
ogni caso, ancora oggi molti ritengono che Heidegger non abbia mai pronunciato
un'abiura esplicita riguardo al nazismo, sebbene egli in realtà abbia fornito varie
spiegazioni del suo coinvolgimento politico, come, ad esempio, in un'intervista al
periodico tedesco Der Spiegel, pubblicata, per suo stesso volere, dopo la sua morte.
Molte sono state le reazioni e le interpretazioni, in particolare di condanna, seguite al
coinvolgimento politico del pensatore tedesco. Alcuni suoi allievi o discepoli, come Karl
Löwith o Emmanuel Levinas, hanno preso le distanze sin dagli anni Trenta e Quaranta,
sottolineando anche quanto l'esplicito anti-umanismo dell'opera heideggeriana abbia
contribuito, in un certo senso, all'elaborazione di un'ideologia totalitaria negatrice dei
diritti umani, quale quella nazista. Altri, come Hans-Georg Gadamer, hanno preso le
difese del maestro, sottolineando la superficialità di molte accuse, spesso scarsamente
documentate e tendenziose, che non tengono conto di come Heidegger, nei suoi corsi
degli anni '30, abbia anzi cercato di mostrare il fondamento nichilistico del nazismo,
soprattutto in relazione al biologismo razziale. Altri ancora, come Jürgen Habermas,
hanno preso una posizione per certi versi neutrale e maggiormente filosofica; secondo
Derrida il cosiddetto «silenzio di Heidegger sul nazismo» sarebbe scaturito dalla
consapevolezza, da parte del filosofo, della propria inadeguatezza nel misurarsi
criticamente con lo spirito di questa ideologia. Recentemente, l'intervista di Heidegger
allo Spiegel è stata analizzata dal punto di vista filosofico e psicoanalitico, sulla base dei
principi della decostruzione: in particolare, l'intervista è caratterizzata da una serie di
lapsus che tradirebbero la "cattiva coscienza" del filosofo di fronte alla "questione
ebraica". La posizione di Heidegger nei confronti del nazismo rimane un argomento
controverso, la cui discussione tra gli studiosi è ancora aperta.


La "svolta" e gli ultimi anni.

Dimessosi dal rettorato, ed evitando ogni coinvolgimento politico diretto,
Heidegger aveva continuato a tenere i suoi corsi accademici, ma senza pubblicare più
alcuna opera fino al 1942. Fra i corsi di questo periodo troviamo soprattutto quelli su
Nietzsche, poi editi nel 1961, mentre del 1935 è la conferenza su L'origine dell'opera
d'arte, e dell'anno seguente quella tenuta a Roma dedicata a Hölderlin e l'essenza della
poesia.
Alla caduta del regime nazista, per un'interdizione accademica predisposta dalle
potenze occupanti nel periodo post-bellico, per alcuni anni fu allontanato
dall'insegnamento, al quale verrà riammesso nel 1949 su sollecitazione di Jaspers, il
quale era al corrente della compromissione di Heidegger col nazismo, ma ritenne
ugualmente di prendere le sue difese. Cessata l'interdizione, nel 1947 Heidegger
pubblica La dottrina platonica della verità, con una «lettera sull'umanismo», in cui
prende le distanze dall'esistenzialismo umanistico in primo luogo di Sartre, allora molto
diffuso in Francia, rilevando come, a differenza di quest'ultimo, la propria filosofia sia
volta principalmente alla riflessione sull'essere, lontana dalla metafisica.
Del resto è proprio in questo periodo che egli comincia a tracciare, attraverso una serie
di saggi e conferenze come Sentieri interrotti, La questione della tecnica, L'abbandono,
poi riuniti in varie raccolte, i temi di una «svolta» intellettuale (Kehre) che sposterà la sua
ricerca dai temi più prettamente esistenzialistici a quelli riguardanti la verità dell'essere;
per adeguarsi a questa svolta, anche il linguaggio delle sue opere diverrà sempre più
vicino a quello della poesia e dunque più oscuro e ambiguo. D'altra parte proprio il
tema del linguaggio e della poesia sarà messa in risalto in quest'ultima fase, come
testimonia lo scritto In cammino verso il linguaggio del 1959, nonché gli incontri con
poeti come René Char e Paul Celan.
Nel 1969 Heidegger, a 80 anni, accetta un'intervista televisiva, svolta da Richard
Wisser per la Zdf; in questa come in altre conferenze ed interviste giornalistiche degli
ultimi anni, centrale è la questione della tecnica, assurta ad evento dell'essere che
scuote l'uomo nel profondo, minacciandolo nel suo stesso fondamento. A ottantasette
anni morirà a Friburgo, nel 1976.

Cronologia delle opere

Dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto (1915)
Fenomenologia della vita religiosa (1919–20)
Il concetto di tempo (1924)
Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925)
Essere e tempo (1927)
Che cos'è metafisica (1929)
Kant e il problema della metafisica (1929)
L'essenza del fondamento (1929)
Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-Finitezza-Solitudine (1929)
L'origine dell'opera d'arte (1935–36)
Hölderlin e l'essenza della poesia (1936)
Contributi alla filosofia. Sull'evento (1936–38)
La storia dell'Essere (1938–40)
La dottrina platonica della verità (1942)
L'essenza della verità. Sul mito della caverna e sul "Teeteto" (1943)
L'essenza del nichilismo (1946–48)
Lettera sull'umanismo (1947)
Sentieri interrotti (1950)
Il linguaggio (1950)
Introduzione alla metafisica (1953)
La questione della tecnica (1953)
Saggi e discorsi (1954)
Che cosa significa pensare? (1954)
Il principio di ragione (1957)
Identità e differenza (1957)
L'abbandono (1959)
In cammino verso il linguaggio (1959)
Nietzsche (1961)
Tempo e essere (1962)
La tesi di Kant sull'essere (1963)
Segnavia (1967)
Ormai solo un dio ci può salvare (1969)
Il trattato di Schelling sull'essenza della libertà umana (1971)
Quattro seminari (1977)

Introduzione all'esistenzialismo heideggeriano,
e il distacco da Husserl e Sartre.

Sin dagli albori del novecento, persisteva forte la consapevolezza che la filosofia
tradizionale era entrata in crisi, in una sorta d'impasse in cui essa si era arenata; nasceva
altrettanto forte il bisogno di riformarla, di ripensare a fondo l'accadere della filosofia
occidentale nel suo insieme. Le scienze, all'epoca, erano entrate in crisi anch'esse: si
pensi agli enormi cambiamenti del secolo precedente, alle nuove teorie
evoluzionistiche, alla nuova rivoluzione industriale delle fabbriche - che da allora, non ha
mai arrestato il suo enorme progresso tecnico-tecnologico; nel XIX secolo, travolgenti
scoperte in campo fisico e scientifico, e personaggi - come ad esempio Einstein - che
hanno scosso violentemente il mondo scientifico, mettendo in discussione leggi naturali
credute assiomi.
Heidegger si propone di assumere questo compito, se così si può dire; egli intende
ripensare la filosofia dalle sue basi, una ricerca epistemologica per tirare fuori la filosofia
dal circolo vizioso in cui era rimasta intrappolata. Il filosofo dell'accademia Friburgo non
intendeva muovere questa o quell'altra pedina sulla scacchiera della tradizione
filosofica; Heidegger di fatto ribaltò la scacchiera, sostenendo che le regole del gioco
andavano riformulate, ripensate, poiché falsate da quel fardello della metafisica e della
trascendentalità che la filosofia classica si porta dietro da troppo tempo. Egli vuole
fondare una nuova fenomenologia, partendo però dall'Essere - nel essenza e nell'ente -
dal suo esserc-ci nel mondo, e gettato nella radura dell'essere; da qui progettare la
propria vita e-sistendo nell'essere, proiettati verso un destino destinante. Pressato da alti
burocrati per la pubblicazione di una qualche sua opera, Heidegger ricercò e mise
insieme degli appunti, che rifinì in fretta sotto il nome di Essere e tempo - parte del
progetto di un'opera più grande, però mai completata - che fu pubblicato nel 1927.
Esso rappresenta una rottura epocale negli schemi speculativi della filosofia
novecentesca, che rivoluziona la visione del mondo filosofico da un nuovo punto di
vista, cercando di liberarsi del tutto dell'osteggiata metafisica.

Pur non volendo mai che lo si categorizzasse tra i filosofi esistenzialisti, il primo
Heidegger, quello di Essere e tempo, apparentemente è vicino alla tesi sartriana, da cui
poi il filosofo stesso si discosterà totalmente; è la sua giovane opera, e sicuramente la
più importante, ad ispirare il filosofo francese Jean-Paul Sartre ed il suo esistenzialismo.
L'esistenzialismo, quindi, a detta dello stesso Sartre (cfr. "L'esistenzialismo è umanismo")
vuole essere una filosofia della responsabilità: l'uomo non ha scusanti di fronte alla
scelta, è "condannato ad essere libero". Nessuno insomma può giustificarsi, e invocare
la necessità di una determinata posizione, magari mascherandosi dietro a varie forme di
determinismi (la volontà di Dio, oppure le leggi storiche/sociali), semplicemente perché
anche la non scelta è una scelta. Il sentimento dell'angoscia, quindi, è intimamente
connesso alla possibilità dell'uomo che ha di scegliere, che si pone davanti alle diverse
possibilità; alla libertà dell'uomo. La libertà è intimamente connessa col nulla, e l'uomo
nella sua esistenza convive con il non essere. Questo, come chiarisce Sartre in più punti,
non porta ad una concezione pessimista, ma è una filosofia non consolatoria e della
responsabilità, perché sottolineando l'essere prima dell'essenza, invita l'uomo a "creasi
una propria morale", a scegliere autenticamente, e nel momento in cui opera questa
scelta a livello personale, in realtà sta scegliendo per l'umanità. L'uomo è ciò che
sceglie, in questo senso, che non vi è un concetto, un'essenza predefinita dell'uomo
prima della sua scelta, ma è esattamente quello che sceglie di diventare.
Appena ne ebbe l'occasione, Heidegger spiega e si dissocia dall'esistenzialismo
sartriano; nella «lettera sull'umanismo», delucida le sue ragioni spiegando che il filosofo
francese, quando si riferisce all'esistenzialismo - all'esistenza che precede l'essenza -
"assume existensia ed essentia nel senso della metafisica, la quale, da Platone in poi,
dice: l'essenza precede l'esistenza. Sartre rovescia questa tesi, ma il rovesciamento di
una tesi metafisica rimane una tesi metafisica. Come tale, anche questa tesi resta, con la
metafisica, nell'oblio della verità dell'essere". In effetti, nella stessa "lettera" Heidegger
respinge pertanto ogni forma umanistica di etica, cioè che riconduca l'etica alla volontà
e soggettività di «un'umanità che, come subiectum, è a fondamento di tutto l'ente»,
facendone qualcosa di intrinsecamente nichilista. L'unica etica possibile è quella che
viene prima di ogni etica, che tenga conto di quella differenza ontologica che consente
all'uomo di esperire la trascendenza dell'essere rispetto all'ente, e quindi di
abbandonare la pretesa di impossessarsi dell'ente e di manipolarlo riducendolo a mero
strumento della propria tecnica. Tutto ciò, come si evince, è appunto lontanissimo da
quanto teorizzato da Sartre.
Ma l'errore - come già accennato prima - non è da ricercarsi, secondo Heidegger,
in questa o quella teoria; l'errore sta nelle regole di gioco, che sorreggono castelli e
fortificazioni concettuali delle stesse, obliando che proprio le stesse regole fanno parte
di un progetto metafisico. Infatti, la causa di questa deviazione della filosofia
tradizionale, un tale fardello che essa si porta dietro e che ha viziato la coscienza; esso è
riscontrabile sin dal presupposto cartesiano, ovvero da quella spaccatura tra 'res
extensa' e 'res cogitans', dividendo l'essere in due grandi metà. Queste sono collegate
tra loro, tramite l'ipotesi di Dio, il quale garantisce la connectio tra l'ordo rerum e l'ordo
idearum, ovvero tra il mondo dei miei pensieri e il mondo delle cose; i miei pensieri
dovrebbero riflettere perfettamente le cose, come specchio della coscienza - e se Dio
fosse un 'genio maligno' cadrebbe anche l'ipotesi della garanzia di tale specchio. Kant e
Husserl, sono gli ultimi rimasugli di quella dicotomia ontologica cartesiana; nel senso
che presupponendo una separazione tra pensiero ed estensione, si costruisce tutta una
filosofia della soggettività trascendentale, che pretende di svelare i misteri ed i segreti
dell'architettura del pensiero, per arrivare a spiegare la costituzione degli oggetti, nel
loro orizzonte e, alla fine, l'orizzonte stesso. È questo il tavolo di gioco che Heidegger
ribalta: egli presenta nuove regole, in termini di esistenza (e non quella di tipo sartriano)
ovvero dell'esser-ci nel mondo sempre e comunque aperto nel mondo, in un flusso di
tempo che inevitabilmente scorre; è questo il passaggio e la dislocazione del pensiero,
della coscienza, dal piano gnoseologico a quello ontologico, dal cogito all'esserci.

Edmund Husserl, maestro di Heidegger, merita un'attenzione particolare.
Husserl fu allievo sia di Brentano, che di Stumpf - ed è da entrambi che riprende
la distinzione tra il modo proprio ed improprio di presentazione della mente; H. spiega
questa distinzione con un esempio: quando ci si trova davanti ad una casa, si ottiene
una presentazione propria e diretta di questa casa nell'intuizione; ma se invece la si
stesse cercando, e si disponesse solo di una descrizione (la casa all'angolo tra le strade
tale e tale), allora questa descrizione sarebbe una presentazione indiretta ed impropria
della casa. In altre parole, una presentazione propria è possibile solo quando si ha
accesso all'oggetto presentato in maniera diretta, quando è attualmente presente. Una
presentazione impropria si ha quando questo non è possibile, e bisogna ricorrere a
maniere indirette, come segni, simboli, descrizioni, etc..
Un ulteriore elemento importante - che Husserl riprese da Brentano - è quello
dell'intenzionalità; l'idea che la coscienza sia sempre intenzionale, cioè che sia diretta ad
un oggetto, che abbia sempre un contenuto. Brentano definì l'intenzionalità come la
caratteristica principale dei fenomeni psichici (o mentali), tramite cui essi possono
essere distinti dai fenomeni fisici. Ogni fenomeno mentale, ogni atto psicologico ha un
contenuto, è diretto a qualche cosa (l'oggetto intenzionale). Ogni credere, desiderare,
ecc. ha un oggetto: il creduto, il desiderato. Brentano adopera l'espressione "inesistenza
intenzionale" per indicare l'"esistenza" degli oggetti nella mente.
Riprendendo Cartesio, Husserl propone di "mettere tra parentesi" (ovvero
sospendere il giudizio, atto da lui definito in greco epochè) tutto ciò che si conosce; egli
vuole costruire una nuova fenomenologia, che sia al contempo un metodo, con cui si
parte appunto da ciò che appare. Dinnanzi al fenomeno, non potendone comprendere
l'essenza sino a fondo, devo sospendere il mio giudizio, e limitarmi ad effettuare una
descrizione di ciò che vedo, ciò che mi si mostra tramite i sensi: una mera descrizione di
ciò che accade. Sospendendo il giudizio, quel che ne rimane è soltanto la relazione
soggetto-oggetto; ciò che però si può trarre è il concetto che entrambi appartengono
ad un orizzonte comune. E soggetto, e oggetto sono entrambi nel mondo, e subiscono
il medesimo mondo - ad es.: il docente e gli alunni, che nella stessa aula diventano
molteplicità. Questa sospensione del giudizio, come Descartes , può avvenire sino al
tentativo di mettere tra parentesi anche la propria coscienza, non essendo ciò possibile.
Per dirlo con termini husserliani, “è indubbiamente certo che io dubito”. Ma è anche
certo che le mie cogitationes (ossia le cose che percepisco, rappresento, giudico,
inferisco) non sono avvolte dal dubbio: “è assolutamente chiaro e certo che io
percepisco questo o quest’altro”. Difatti, la coscienza husserliana, non è mai fine a se
stessa; piuttosto è sempre diretta, tramite un atto di "puro guardare", a pensieri o
percezioni definiti "cogitationes". Tali cogitationes sono puri fenomeni di conoscenza
assolutamente slegati dall'esistenza. Husserl insiste sulla distinzione tra esistenza ed
essenza: la prima consiste nel fatto che l'oggetto di una cogitatio esista realmente al di
fuori della coscienza del soggetto pensante, mentre la seconda è il senso oggettivo e
immanente nella coscienza che viene intenzionalmente attribuito alla cogitatio (ad
esempio l'idea di rosso)
In altri termini, non posso dubitare né di me come soggetto dubitante né delle
percezioni che ricevo: non posso cioè dubitare del blu del divano che vedo, ad
esempio.
Ciò non significa che il divano percepito esista effettivamente e sia fuori di me: questo,
infatti, resta in dubbio. Significa piuttosto che “le figure di pensiero che io attuo
realmente mi sono date, purché io rifletta su di esse, le rilevi e le ponga in un puro
guardare”. In questa maniera, l’atteggiamento fenomenologico si configura come un
“puro guardare” incentrato sulla “piena chiarezza offerta allo sguardo”: si tratta di una
“chiarezza di tipo essenziale”, che ha cioè a che fare con le “pure essenze” e non con le
esistenze. E la “trascendenza” che accompagna ogni conoscenza (vale a dire il fatto che
le cogitationes rimandino a qualcosa di esistente in sé e fuori di me) resta comunque
nel dubbio.
Per Edmund Husserl, la fenomenologia è un approccio alla filosofia che assegna
primaria rilevanza, in ambito gnoseologico, da un lato l'esperienza intuitiva e dall'altro i
puri eventi intrapsichici; essa infatti guarda ai fenomeni (che si presentano a noi in un
riflesso fenomenologico, e quindi da sempre indissolubilmente associati al nostro punto
di vista (soggettività moderna), come punti di partenza e prove per estrarre da esso le
caratteristiche essenziali delle esperienze e l'essenza di ciò che sperimentiamo. Ma
quest'attenzione per il fenomeno, ovvero ciò che a noi è mostrato, deriva dal fatto che la
coscienza ed il pensiero sono sempre diretti verso qualcosa (intenzionalità). Husserl
sostiene che ciasciun fenomeno, è solo uno dei tanti modi di apparire di esso; ogni
fenomeno è, secondo il fenomenologo, legato all'esperienza di ognuno di noi che lo
intenziona in maniera diversa: non esiste l'apparenza di un oggetto univoca, ma questo
muta nel tempo e appare diversamente in base a chi lo guarda e lo pensa. Egli vuole
ripensare la verità, partendo dal coinvolgimento del soggetto e con l'oggetto; il
soggetto che conosce l'oggetto non può dimenticare di essere nel mondo, non può
mettersi distante da esso e pretendere di pensarlo su due piani diversi.
Definita l'imprescindibilità soggetto-oggetto, e dato il presupposto che la percezione di
tale oggetto è strettamente legate al soggetto percepente, tale fenomenologia si
configura come "trascendentale", poiché essa si prefigura di studiare i fenomeni mentali
"puri" legati alla percezione degli oggetti, quei "pensieri" diretti alle cogitationes; essa si
configura quindi come uno studio degli eventi intrapsichici, presi come assoluti in
quanto trascendenti la realtà esterna, cosa che ha fatto parlare i critici di un "platonismo
husserliano". Ripulita dalla presunzione dell'esistenza di una realtà esterna, la coscienza
può quindi accostarsi alla pura contemplazione dei suoi fenomeni interni, e in questo
consiste in ultima analisi la Fenomenologia. La riduzione fenomenologica (o riduzione
eidetica, dal greco eidos, cioè idea) serve proprio a questo, ed il suo ruolo
epistemologico viene indicato chiaramente anche dal fatto che all'inizio Husserl
parlasse proprio di una "riduzione epistemologica".

Distinti i pensieri di Sarte e di Husserl, ora si può tentare di traslare queste due tesi,
verso l'approccio delle tesi heideggeriane.
Con quella sospensione del giudizio dell'essenza ontologica, e dell'oggetto percepito,
e del soggetto percepente, non rimane che l'orizzonte in cui sono compresi questi due,
il piano su cui poggiavano entrambi: la temporalità. Essa è in realtà quell'orizzonte
comune ove si svolge la relazione soggetto-oggetto, nella quale vi è un coinvolgimento
inevitabile. Husserl lo definisce una sorta di sincronizzazione tra le coscienze che si
pensano, anche affettiva ed emotiva.
Questo è il punto di svolta: Heiddeger sostiene che, nel suo arrestare la sospensione
del giudizio dinnanzi la temporalità che contiene tutte le relazioni fra enti, il suo maestro
esegua un passaggio arbitrario e contraddittorio; si chiede se sospendere il giudizio su
quell'orizzonte temporale sia dunque possibile. In effetti, una simile temporalità - di cui
non si può sospenderne il giudizio, poiché altresì non sarebbe possibile trascorrere
cognitivamente la propria vita nel tempo dell'esistenza - deve presupporre un garante
della propria continuità e coerenza, che sia al di fuori di essa. Per fare ciò, vi è bisogno di
una dimensione trascendentale atemporale in cui comunque un prevalere del soggetto
riesca a pensare e sospendere la temporalità, e il contesto in cui è immerso. È questo
passaggio che Heidegger contesta fortemente; al contrario il tempo è uno scorrimento,
immaginando che il mondo sia sempre in costante movimento.
Ed ecco che si comincia ad intravedere l'essenza della speculazione filosofica
heideggeriana: bisogna comprendere l'essere a partire dall'esserci. Esclusivamente a
partire dall'essere nel mondo, e-sistere aperti alla radura dell'essere - si può porre la
questione dell'Essere. Qui sta la sostanziale differenza, con la quale il filosofo si distacca
dal maestro, e successivamente si difenderà dall'accostamento al pensiero di Sartre.
Il linguaggio che utilizza Heidegger - seguendo anche le considerazioni di
Nietzsche sul linguaggio - è difficile e ostico, pieno di cacofonie e ripetizioni di parole;
inoltre alle stesse parole vengono date sfumature di significato differenti, talvolta
complicate da cogliere. Ma ciò è determinato dalla volontà di abbandonare del tutto la
metafisica, anche delle parole di cui per tanto tempo si è appropriata e servita; allora
egli tenta di evitare termini cari alla tradizione classica, e li traspone spesso in latino, per
appunto delinearne la lontananza concettuale. I termini che contraddistinguono
principalmente la speculazione in esame, «lettera sull'umanismo», sono la chiave per
comprendere il senso heideggeriano. L'essere assume una nuova connotazione: non vi
è un essere pensabile in sé, al di fuori del mondo; l'essere è sempre nel mondo,
comunque e dovunque: dunque esser-ci, ove la particella -ci rimanda proprio a
quell'imprescindibile ed inevitabile "gettatezza" nella radura dell'essere. La gettatezza è,
secondo il filosofo, la provenienza ontologica dell'uomo; questi non è generato, non è
creato, ma semplicemente gettato nell'esserci, dall'Essere stesso, e aperto alla radura
dell'essere - ovvero ciò che si assume qui per "mondo", realtà sensibile. 


«lettera sull'umansimo»,
Brief über den «Humanismus», (1947)

«La lettera sull'umanismo» è una lettera con la quale heidegger risponde ad un
intellettuale francese, Jean Beauffret, cui gli domandava attraverso scambi culturali
epistolari, come restituire un significato alla parola umanismo. La lettera fu composta
nel 1946, in segno di risposta alla famosa conferenza di Sartre del 1945 e dopo un
lungo silenzio filosofico, e comparve parziale sulla rivista "Fontaine", con una prefazione
dello stesso Beauffret. L'anno successivo fu riesaminata da Heidegger, ampliata e poi
pubblicata; Beauffret sostiene inoltre l'esistenza di tre versioni della stessa, l'originale
delle quali egli stesso ha perso in un taxi. In un tempo ove la Germania, non solo usciva
sconfitta da una guerra mondiale, ma portava addosso un fardello enorme che è quello
dei più grandi crimini commessi contro l'umanità (dunque inumani) durante questa
guerra - Heidegger, che aderì persino al partito nazista, ebbe tuttavia un ruolo
privilegiato nelle vie della cultura del dopoguerra; proprio grazie a quell'esplosiva
tendenza intellettuale che aveva portato l'esistenzialismo sartriano ad un successo
sempre crescente in tutti meandri culturali della Francia, e dell'Europa, il filosofo
tedesco ebbe la simpatia dei letterati dell'epoca in quanto ispiratore dello stesso Sartre.
Inoltre, con la pubblicazione della lettera, Heidegger rese note le tematiche
dell'evoluzione del suo pensiero, rispondendo anche alla pressante richiesta di un'etica
che completasse la sua ontologia - difendendosi dalle accuse di aver concitato il
nazismo con un nichilista anti-umanismo.
In questa lettera, ci si chiede se l'epoca contemporanea - testimone
caratterizzante di una guerra terribile - consenta ancora un'operazione del genere; se
abbia ancora senso porsi il problema di restituire significato all'umanismo, e all'uomo. E
da qui che parte la critica della metafisica, e della tecnica: si giunge a desumere che la
tecnica ha portato l'uomo lontano dalla sua essenza, poiché estrema ripetizione di
strutture fisse e metafisiche. Non è questa la natura dell'uomo, e Heidegger è proprio
da questo che inizia.
Risalendo al detto di Eraclito, secondo cui «Ethos anthròpo daimon» («il carattere
proprio dell'uomo è il suo destino»), Heidegger lo analizza interpretando
etimologicamente la parola ethos come soggiorno, dimora (attraverso il linguaggio).
L'uomo, non può imporre all'essere la sua verità, ma si deve piuttosto comportare, nei
confronti di ciò che è, come nei confronti dell'ospite atteso: custodire e preparare la
dimora, rammentando un incontro passato, e predisponendosi consapevolmente alla
possibilità di un incontro futuro. Il suo umano essere-nel-mondo, connotato dalla ricerca
del senso dell'essere quale fondamento della sua possibilità di scelta, viene ora
interpretato come un soggiornare e-statico (ossia fuori di sé) nella verità dell'Essere,
concetto dal resto già presente in Essere e tempo dove, come sottolinea Heidegger, il
Dasein «esperisce l'esistenza estatica come "cura"». L'uomo diventa così il «pastore
dell'Essere», «la cui dignità consiste nell'esser chiamato dall'Essere stesso a custodia
della sua verità» e «la cui essenza, in quanto e-sistenza, consiste nell'abitare nella
vicinanza dell'essere».



Tale riferimento all’essere deve essere la guida capace di ricondurre l’uomo nella
giusta direzione. L’uomo ritrova la sua humanitas quando ex-siste, sta fuori - non nel
senso di stare all’esterno di sé - ma di «essere aperto nel senso del ‘ci’, cioè nella radura
dell’essere». «Ma l’esser-ci, a sua volta è in quanto è gettato. Esso è nel getto dell’essere
che è il destino destinante»
Si propongono così alla riflessione critica due direzioni: Da una parte, l'uomo che deve
avviarsi per una "qualche" strade; dall'altra l'essere, il destino destinante.
E-sistere significa riportare l'uomo alla sua humanitas, ovvero l'essere aperto fuori nella
radura dell'essere, ossia il mondo, in direzione di ciò che è realemente il suo destino,
ovvero la sua essenza, il suo essere uomo.
In particolare nel corso universitario del semestre invernale 1929-30, poi pubblicato con
il titolo di "Concetti fondamentali della metafisica", Martin Heidegger riprende il
contributo fondamentale dato da Uexküll (vicino anche a Weizsäcker) alla storia della
biologia mediante l'introduzione della nozione di Umwelt, ovvero di una totalità chiusa
che Heidegger definisce anche come "il cerchio disinibente", all'interno del quale
l'animale espleta le sue funzioni vitali; le relazioni che esistono con l'altro, sono
unicamente azioni disinibitorie, atte alla sopravvivenza dell'individuo stesso.
La peculiarità dell'interpretazione data da Heidegger alle scoperte di Uexkull - e di
conseguenza all'indagine sul mondo-ambiente proprio degli animali, consiste nel
tentativo, svolto in questo corso, di differenziare dal punto di vista ontologico, più
ancora che qualitativamente, l'animale dall'uomo. "L'uomo è il grande asceta della vita":
egli è capace anche di andare contro la propria vita, può decidere di non sopravvivere,
e addirittura decidere di togliersi la vita; a differenza del mondo animale in cui non è
previsto. In questo senso, come rilevato anche successivamente da J. Derrida, si
evidenzia un residuante umanismo proprio della prima fase del pensiero di Heidegger:
dunque per il pensatore tedesco - anche sulla scorta delle ricerche di Uexküll - è
possibile concludere che la pietra è senza mondo, l'animale é povero di mondo
(ovvero ha un mondo-ambiente suo proprio, ma questo è piuttosto un ambito
ontologicamente limitato cui l'animale è vincolato, e nel quale non è in grado di
esperire la relazione l'ente in quanto tale, nella sua relazione con l'essere), l'uomo è
formatore di mondo. In effetti, solo l'uomo è quell'ente particolare, che è in grado di
esperire in modo consapevole la relazione con l'essere che lo determina e con gli altri
enti, che compongono il suo mondo-ambiente.
Trasposizione e accessibilità, sono termini densi e colmi di significato: Heidegger si
chiede se l'uomo fosse capace di trasporsi in un altro ente, ad esempio una pietra; e nel
frattempo, se questi altri enti dessero l'accessibilità per questa trasposizione, ne
permettessero lo svolgimento: l'uomo, a differenza di altri animali, è capace di
penetrare e quindi descrivere, osservare, analizzare un ambiente diverso da quello
umano. Il problema di tale trasposizione è l'accesso al sentirsi animale, o al sentirsi
pietra; entrambi non possono parlare di se - essi sono muti, e sordi - quindi non hanno
quell'accessibilità di cui si parlava. L'uomo, potendo parlare degli altri enti, ha la
capacità di trasporsi; gli animali, e gli inanimati non possono: i primi vivono nel costante
presente degli istinti e delle necessità; i secondi non hanno nemmeno coscienza di
dove si trovino o cosa siano.
È possibile trasporsi nell'altro da me? Nagel risponde in modo negativo, ma argomenta
differentemente da Heidegger. Non è l'accessibilità della pietra o dell'ente animato a
mancare; è propria dell'uomo una tale manchevolezza. È l'uomo che, per sua natura,
non è capace di trasporsi in altro: si può immaginare di vivere come un pipistrello; si
può osservare ed immaginare, sebbene con difficoltà, di essere un animale. Nonostante
tutte le analisi ed traposizioni fatnasiose possibili, tuttavia rimane comunque un circolo
chiuso; poiché l'uomo immaginerà l'altro-da-se sempre secondo la sua visione, secondo
il suo punto di vista umano, imprescindibile.

Un'attenta critica viene mossa nei confronti della metafisica, come già esplicato, e
dell'appropriazione arbitraria che questa ha fatto nel corso dei secoli di una
terminologia anche di uso comune. Il linguaggio della metafisica ha occulto il vero
significato delle parole, immettendo per secoli l'uomo in false determinazioni, strutture
e sovrastrutture. Heidegger ricorda come i pensatori della antica Grecia, usavano
speculare liberamente e creativamente, senza determinismi o ideologismi; non
dovevano riempire alcun castello vuoto con metafisici concetti, e non si chiamavano
neppure filosofi.
Al contrario, il linguaggio è ora considerato, da Heidegger, appunto come il luogo
aperto, la finestra, attraverso cui l'Essere si può manifestare all'uomo nella sua verità;
esso è la casa dell'essere, ed è attraverso questo che l'uomo si accompagna verso la sua
essenza, il suo destino. Il linguaggio, libero da ogni metafisicismo e distorsione
semantica, dev'essere affettuosamente custodito e preso in "cura".

« Nel pensiero l'essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella
sua dimora abita l'uomo. I pensatori ed i poeti sono i custodi di questa dimora. » 3
 


Ricapitolando, è precisamente nel linguaggio che l’essere riacquista il proprio spazio,
dimo- rando come a casa propria: «il linguaggio è la casa dell’essere».
Il linguaggio, poi, come elemento umano, ex parte hominis, è anche, per così dire, la
dimora dell’uomo stesso. Non tutti gli uomini però hanno il compito di custodire la
dimora dell’essere, il linguaggio; i poeti ed i pensatori sono tali custodi, che donano
sempre nuove sfumature e significati al linguaggio - e vegliando, por- tano a
compimento il riferimento all’essere.
In conclusione, c'è da chiedersi se il corso della metafisica (e la sua relativa
conquista del linguaggio) sia stato semplicemente un tracciato causato dall’uomo o non
piuttosto un accadimento proprio dell’essere. La Lettera mantiene aperto il campo ad
entrambe le posizioni e sembra voler suggerire la loro reciproca interconnessione.

« L’oblio dell'essere si manifesta indirettamente nel fatto che l’uomo considera e si dà da
fare sempre e solo intorno all’ente »
« Il linguaggio si concede piuttosto al nostro semplice volere e alla nostra attività come
strumento di dominio sull’ente »

Emergono dunque unitariamente, due facce della stessa medaglia; l'uomo per sua
natura insieme con il percorso della storia dell'essere indirizzato alla metafisica, hanno
permesso l'allontanamento e l'oblio dell'essere.
In definitiva, la metafisica è stata il corso del pensiero occidentale nel quale,
erroneamente, l'essere è stato obliato, entizzato, per una naturale propensione
dell’uomo che ne ha determinato il percorso - e al contempo per opera dell’essere
stesso, nella direzione dell’ente, non lasciandolo essere ciò che esso è.


3Heidegger, Über den Humanismus, 1947
Con il secolo breve, si assiste ad una una rivoluzione repentina, in costante e
rapido cambiamento, fortemente tecnica-biologica - sino ad arrivare alla creazione di
internet, o le clonazioni genetiche, etc..Ma se da un lato vi è l'enorme progresso
tecnologico, dall'altro il XX secolo ha visto chiudersi un'era che iniziò con l'umanesimo e
che aveva caratterizzato tutti gli anni avvenire: la seconda guerra mondiale, ed i relativi
crimini contro l'umanità.
Sino alla seconda guerra mondiale, il progresso e la ragione - e la tecnica - hanno
sempre lavorato in funzione di un avanzamento della specie umana, a favore di essa. Ma
con i campi di sterminio, la bomba atomica, e i terribili crimini di guerra, si e arrivati ad
usare quell'enorme progresso tecnologico proprio contro l'uomo: la ragione ed il
progresso vengono improvvisamente meno, l'umanisimo cade.
Si pensava che il progresso tecnologico portasse un beneficio a tutti i problemi,
comprese le guerre; al contrario, con la tecnica le guerre sono diventate più dure. Non
morivano più i soldati sui campi di battaglia, ma civili: il terrorismo è l'evoluzione tecnica
della guerra. Paradossalmente si è cominciato a sentire che lo sviluppo sociale, al quale
nessuno più riusciva a mettere freno, rischiasse di rendere antiquato tutto ciò che
permette la libera estrinsecazione delle potenzialità umane, quali ragione, intelligenza,
moralità.
Quindi, in certo senso, Heidegger è stato il primo ad aver innescato in maniera
eclatante una meditazione seria sul fatto che forse siamo arrivati in un epoca in cui
l'uomo è diventato antiquato. Cos'è che minaccia di rendere antiquato l'uomo? La
tecnica, ancella della metafisica. La metafisica ha condizionato il sapere filosofico, ed è
andata ad intaccare le fondamenta del sapere, distorcendole; la tecnica, è per sua
natura osservazione, apprendimento, organizzazione e riproduzione: si osserva un
qualcosa, ne si apprende l'essenza, e lo si riproduce in serie. Sulla base di fondamenta
metafisiche, si hanno delle cose stabili e se ne conosce l'essenza, esse divengono
malleabili ed utilizzabili - sviluppando delle tecniche apposite; Taylor, scrittore
statunitense, sostiene che l'aumento di produttività non dipende dall'operaio carente di
creatività o di intelligenza adeguata, ma di una cattiva gestione del lavoro: organizzando
il lavoro, distribuendo le risorse, e sopratutto "addestrando" l'operaio si può aumentare
la produzione di industrie e fabbriche; esiste un'evidente rapporto tra la ricerca di
estrema stabilità speculativa e la prassi dell'organizzazione totale delle cose. La
metafisica, nel suo svilupparsi, ha dovuto per forza di cose ha dovuto portare l'uomo
all'organizzazione delle cose tramite la tecnica. La metafisica cammina quindi di pari
passo con la prassi organizzativa dell'uomo.
Ora, tale allontanamento dall'essere - dovuto dalla distorsione della metafisica e
dall'antiquatezza della tecnica, dell'asservimento del linguaggio a queste - provoca
nell'uomo che interpella se stesso, una sorta di spaesamento/angoscia: è come se gli
esseri umani esistessero in una condizione che propriamente non è più paragonabile
alla condizione umana vera e propria.

Esserci significa essere tra le cose, tra i cosiddetti utilizzabili. La considerazione
delle cose, è che esse abbiano uno scopo, una funzione essenziale; ciò implica il fatto
che tali cose debbano funzionare. E qualora non fosse così, quando l'utilizzabile non è
più tale, ciò provoca una sensazione di disagio, proprio perché il funzionamento
dell'oggetto viene meno al mio servizio: esso provoca un'angoscia.
Siamo gettati nella radura dell'essere, costretti a subire una vita di angosce e di perdite,
la paura della scomparsa, del nulla, e infine della morte.
L'angoscia, secondo H., è quel sentimento fondamentale che si vive di fronte alla
minaccia della morte - intesa come ‘presenza’ del nulla, di quella impossibilità
dell’esistenza. Il filosofo definirà questo cosiddetto esserci come "Sein zum Tode",
essere-per-la-morte. Ciò non significa attendere o prepararsi per la morte; piuttosto
equivale a vivere per la morte, accanto ad essa consapevolmente, e quindi anticipare la
morte. Comprendere la “possibilità” della l’impossibilità dell’esistere in quanto tale, che
fa parte del destino destinante (Daimon).
L'angoscia è quindi sentimento (emotività fondamentale) del nostro essere-nel-mondo
come perdita di senso e quindi il venir meno di ogni “appoggio"; per cui ciò che ci
minaccia, non lo si riesce più ad identificare in questo, in quello o in altro oggetto. È
differente dalla paura che si riferisce sempre ad un oggetto; l'angoscia invece è
sentimento della perdita, della mancanza. A differenza dell'uomo, l'animale, osserva H.,
non sa di dover morire, non conosce questa possibilità della propria fine. Fintanto che
l'uomo non adempierà al ricongiungimento all'essere, egli non potrà fare esperienza
della propria finitudine. È qui che l'uomo si sente spaesato, non sentendosi a “casa
propria” nel mondo.

"Con il termine angoscia non intendiamo quell'ansietà assai frequente che in fondo fa
parte di quel senso di paura che insorge fin troppo facilmente. L'angoscia è
fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di
quell'ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La
paura di... è sempre anche paura per qualcosa di determinato. Nell'angoscia, noi
diciamo, uno è spaesato. Ma dinanzi a che cosa v'è lo spaesamento e cosa vuol dire
quell'uno? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è
nell'insieme. Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza. Questo,
tuttavia, non nel senso che le cose si dileguino, ma nel senso che nel loro allontanarsi
come tale le cose si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell'ente nella sua totalità, che
nell'angoscia ci assedia, ci opprime. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi
dell'ente, rimane soltanto e ci soprassale questo nessuno. L'angoscia rivela il niente. Che
l'angoscia sveli il niente, l'uomo stesso lo attesta non appena l'angoscia se n'è andata.
Nella luminosità dello sguardo sorretto dal ricordo ancora fresco, dobbiamo dire: ciò di
cui e per cui ci angosciavamo non era "propriamente" - niente. In effetti il niente stesso,
in quanto tale, era presente".4
 

4 M. Heidegger, Che cos'è metafisica?


La spaesatezza è quella dell’uomo moderno che non dimora nella propria patria e
questo non è certo da intendersi in senso nazionalistico, ma essenziale, cioè in rapporto
all’essere o, più precisamente, alla vicinanza dell’essere che è l’essenza dell’uomo, dove
l’uomo è a casa sua; è la mancanza del ‘-ci’, luogo della radura dell’essere.
Autori come Marx, cui «ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come
l’alienazione dell’uomo affondi le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno»
Di fronte a tale spaesatezza, continua l’autore, «il futuro destino dell’uomo si mostra al
pensiero che pensa la storia dell’essere nel fatto che egli trovi una via verso la verità
dell’essere, e si metta in cammino verso tale scoperta».
È l’indicazione di un cammino, una costruttiva provocazione, una sorta di appello: se
l’uomo non compie questo ‘sforzo’ verso la verità dell’essere «gira attorno a se stesso
come animale razionale» eccetto che possa «tracciare un sentiero migliore, cioè più
adeguato al problema». Si tratta in definitiva di vincere l’alienazione, la spaesatezza e ciò
significa innanzitutto cominciare a comprendere che «l’essenza dell’uomo consiste nel
fatto che egli è qualcosa di più del mero uomo per come ce lo si rappresenta quando lo
si intende come essere fornito di ragione».

Infine, riferendosi alla questione “Dio”, Heidegger attira l’attenzione sul pensiero
disponibile fin dal 1929 in “Vom Wesen des Grundes”:

«Con l’interpretazione dell’esserci come essere-nel-mondo non si è ancora deciso nulla
in senso positivo, né in senso negativo, circa la possibilità di un essere in rapporto con
Dio. È soltanto con la chiarificazione della trascendenza che si raggiunge un concetto
sufficiente dell’esserci, in riferimento a tale ente è poi possibile porre il problema di
come stiano ontologicamente le cose circa il rapporto dell’essere con Dio».

Dunque la fenomenologia resta al di qua della decisione tra teismo o ateismo e questo
non per indifferenza verso Dio, ma per rispetto dei limiti del pensiero come tale.

«Se l’humanitas è così essenziale al pensiero dell’essere, non è allora essenziale
completare l’ontologia con un’etica?»
«Il desiderio di un’etica si fa tanto più urgente quanto più il disorientamento manifesto
dell’uomo, non meno di quello nascosto, aumenta a dismisura»

La problematica che Heidegger intende approfondire ha di mira il pensiero della verità
dell’essere; nel corso di tale analisi ontologica l’autore si domanda se tale pensiero
debba restare unicamente sul piano teoretico o se contemporaneamente offra
indicazioni per la prassi. La risposta è alquanto decisiva: «Questo pensiero non è né
teorico né pratico», «esso avviene prima di questa distinzione»; questo pensiero
propriamente «rammemora l’essere e nient’altro». Per heiddeger l'etica, come la
religione, non fanno parte della filosofia: ciò significa che il pensiero dell’essere non ha
niente a che fare con qualsiasi determinazione di tipo metafisico, con nessuna specie di
soggettivismo che domina l’ente a danno dell’essere.
Al contrario, se la strada che porta ad un’etica - altrettanto originaria quanto il pensiero
che pensa la verità dell’essere - riposa sull’assegnazione della destinazione dell’essere,
allora il nomos non è solo legge che guida l'uomo, ma più originariamente è
assegnazione nascosta nella destinazione dell’essere. In conclusione, nella stessa
"lettera" Heidegger respinge pertanto ogni forma umanistica di etica, cioè che
riconduca l'etica alla volontà e soggettività di «un'umanità che, come subiectum, è a
fondamento di tutto l'ente», facendone qualcosa di intrinsecamente nichilista. Esigenza
di pensare una morale che fosse implicita - l'unica etica possibile è quella che viene
prima di ogni etica, che tenga conto di quella differenza ontologica che consente
all'uomo di esperire la trascendenza dell'essere rispetto all'ente, e quindi di
abbandonare la pretesa di impossessarsi dell'ente e di manipolarlo riducendolo a mero
strumento della propria tecnica.



Maurice Merleau-Ponty


Biografia

Maurice Merleau-Ponty (Rochefort-sur-Mer, 14 marzo 1908
– Parigi, 3 maggio 1961) è stato un filosofo francese, esponente
di primo piano della fenomenologia francese del Novecento.
Dopo gli studi secondari, terminati al liceo Louis-le-Grand di Parigi, Maurice Merleau-
Ponty diviene allievo della École normale supérieure, nello stesso periodo di Sartre, e
consegue il diploma di laurea in filosofia (agrégé) nel 1930. Dopo il servizio militare
inizia la sua carriera di insegnante nei licei: a Beauvais, dal 1930 al 1933, poi a Chartres
fino a 1939 e dal 1940 al 1944 a Parigi, al liceo Carnot. Entrato nella Resistenza continua
a studiare e a scrivere per il dottorato, che consegue nel 1945. Il dottorato in Lettere
1945 lo ottiene con due libri già molto significativi: La struttura del comportamento
(1942) e La fenomenologia della percezione (1945). Nel 1948 è docente all'Università di
Lione, ma nel 1949 ottiene la docenza in psicologia e pedagogia alla Sorbona. Dal 1952
fino alla morte, avvenuta nel 1961, sarà titolare della cattedra di filosofia del Collegio di
Francia: diventando il più giovane eletto a una cattedra. È stato anche membro del
comitato direttivo della rivista "Les Temps modernes", oltre che editorialista politico,
dalla fondazione della rivista nell'ottobre 1945 fino al dicembre 1952. Merleau-Ponty
muore per arresto cardiaco la sera del 3 maggio 1961 all'età di 53 anni e viene sepolto
al cimitero Père Lachaise a Parigi.
Nella formazione di Merleau-Ponty sono importanti l'influenza dal pensiero di
Edmund Husserl, che però egli interpreta in maniera originale, e di Max Scheler, inoltre
il rapporto con Sartre, Simone de Beauvoir e altri intellettuali della Parigi degli anni '40,
coi quali condivide un clima culturale che permea il suo pensiero. Un rapporto però per
niente pacifico e spesso conflittuale, che porterà alla fine alla rottura con Sartre e non
solo per ragioni politiche ma anche prettamente speculative. Può essere
ragionevolmente classificato come un pensatore esistenzialista anche proprio per la sua
affinità di fondo con Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir e la sua concezione
fondamentalmente heideggeriana dell'essere. Inoltre M.-P. presenta molte affinità con il
biologo e filosofo prussiano Weizsäcker. 

Il visibile e l'invisibile
Le visible et l'invisibile, 1964


Cosa s'intende per soggettività moderna? Essa è il risultato del capovolgimento
della tradizionale visione che, sin da Cartesio come abbiamo esplicato, sconcepisce una
trascendentalità del soggetto dall'oggetto; il soggetto prima esiste, poi percepisce il
mondo, e ancora dopo lo conosce e lo comprende, come se passasse in serie da un
piano all'altro del momento conoscitivo. Tale capovolgimento della fenomenologia
avviene muovendo da una filosofia "verticistica" (ove risiede il ricorrente problema del
trascendentale) ad una di tipo orizzontale, insieme con quel esistenzialismo, fortemente
influenzato da Heidegger, che pone in un inevitabile e imminente intreccio le cose
percepite, con chi le percepisce. Nella fenomenologia moderna, il soggetto è immerso
in un mondo ove è cosa tra le cose; il soggetto di qualcosa, e insieme l'oggetto di
qualcos'altro, che subiscono insieme il mondo in cui sono coinvolti. Divengono
importantissimi i concetti di spazialità, e di posizione in cui ci si trova: la conoscenza
parte dall'esperienza sensibile, ovvero dalle percezioni; la sensitività è inevitabilmente
legata al corpo, e alla sua posizione nel mondo. Allora soggetto e oggetto divengono
due variabili intrecciate ed inseparabili tra loro: ciò comporta che all'analisi di un
oggetto, vi si deve tenere sempre presente il soggetto che lo guarda e l'ambiente in cui
essi sono immersi.
Merlau-Ponty è stato un grande esponente della fenomenologia francese, accordando
anche a quella di Husserl, ed è uno dei pochi filosofi che hanno fornito dati
concretamente importanti per la scienza, ed è stato un punto fondamentale per la
ricerca biologica. Cosa vuol dire "percezione", e perché è così importante per il
fenomenologo? Tra la Fenomenologia della percezione (1945), e Il Visibile e l'invisibile
(1959 - rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel '64) vi è un passaggio dalla
fenomenologia di matrice husserliana, all'ontologia di tipo heideggeriano: più che un
passaggio, era un dover interrogarsi su - uno spostamento dell'attenzione filosofica sulla
questione dell'essere. La percezione non è un atto o un'azione; essa è piuttosto da
considerarsi come lo sfondo su cui si svolgono le nostre azioni, i nostri movimenti -
attraverso il quale essi sono comprensibilmente relazionati alla realtà. Sul piano della
percezione non vi è rappresentazione; vi è una differenza tra percezione e
rappresentazione al quanto sostanziale: guardando un cubo, ci saranno dei lati che
esistono, ma che non posso vedere. Io percepisco e deduco che essi ci siano, pur non
vedendoli; non li sto rappresentando, perché il cubo è una presentazione diretta: i due
lati esistono, ma non sono visibili. Il fatto è che la percezione, non rappresentazione, sul
piano pre-logico riconosce la materia ordinata in figure, forme, che risponde a leggi
coerenti e costanti. La fenomenologia vuole riconquistare questo piano, e capire quali
sono i modi con cui si relazionano la nostra coscienza con il processo percettivo. In
questa fase, l'elemento che regge tale soggettività moderna è di fatto la verità delle
percezioni: esse devono pur contenere un qualcosa di essenziale dell'oggetto;
provenendo da esso, tali percezioni ci dicono un qualcosa di vero a riguardo.
M.-P., nell'opera Le Visible et l'invisible, presenta innanzitutto la necessità di
ristabilire gli strumenti della riflessione e intuizione, e che la filosofia "si installi in un
luogo in cui esse non si distinguano ancora"; inesperienze non ancora elaborate, che
offrano contemporaneamente soggetto e oggetto, esistenza ed essenza. È come se tra il
visibile attorno a noi, e la visione nostra di esso, ci sia una stretta relazione intima;
tuttavia non è possibile confondere tale visione con il visibile, perché ne svanirebbe
immediatamente uno dei due. Piuttosto, è una sorta di predisposizione delle cose, a
rendersi comprensibili a colui che le osserva.
Bisogna aver chiaro che, le caratteristiche delle cose, come i colori, non sono da definirsi
oggettivamente veri; anzi, questo o quel rosso, diventano - non solo più imprecisi e
particolari se vi ai pone concentrazione - costellati a tutti gli altri colori che lo attorniano.
È così che entra fondamentale in gioco l'attenzione per il contesto e per l'ambiente;
M.P., definisce l'apparenza del colore come una determinato "nodo nella trama del
simultaneo e del successivo": in questa frase si riflette il riferimento a quel "tempo
biologico" di cui parlava Weizsäcker, scandito proprio dalle caratteristiche dell'atto
percepito come ponte tra passato e futuro. In una enorme varietà di colori, si può
dedurre che un colore nudo, o intero, non esiste come lembo d'essere indivisibile; esso
rappresenta quindi una specie di stretto fra orizzonti esterni ed orizzonti interni sempre
aperti: è qui che si scorge la concezione dell'essere heideggeriana.
Come ad esempio determinati movimenti della mano che tocca, esprimano
sensazioni di liscio e di ruvido, è necessario tuttavia che ci sia un essere che
tangibilmente le tocchi: i due sistemi si applicano l'uno all'altro; non può esserci
tangibile liscio o ruvido senza che possa essere toccato, o senza qualcuno che lo tocchi.
Analogamente, sguardo guarda le cose come se fosse con loro in un'armonia
prestabilita, come se le conoscesse prima di saperle; è come se ci fosse una chiave di
decifrazione insita nelle cose, che però lo sguardo conosce e applica: esso tocca,
accarezza, sfrega e scruta gli oggetti, proprio come quei movimenti tattili che
percepiscono il liscio e il ruvido; e come per il tangibile, anche il visibile richiede che ci
sia un vedente che osservi. E che la visione dello spazio e del mondo, richiede che
l'osservatore sia all'interno di questo, cosa tra le cose. L'uomo, che è "ne è", essendo
uno di essi, per un singolare rivolgimento, può vedere i visibili. Il visibile non è altro che
il contorno esterno delle cose, che in realtà sono profonde e inaccessibili, nascondono
la propria essenza celandola dietro l'invisibile.
I colori, come si diceva, sono solo dei modi brevi e perentori di dare un unico
qualcosa, in un unico tono dell'essere, nelle loro visioni passate e future. Ma più
precisamente esse sono fortemente condizionate dagli altri rossi presenti nel contesto
in cui si è: l'ambiente in cui si è immersi è fondamentale. In effetti, egli concepisce la
formazione della massa del sensibile, a partire proprio dalla massa in cui egli è immerso
e alla quale rimane aperto in quanto senziente: egli lo definisce un processo di
formazione per segregazione (vedi segreg. chimica). È il mondo stesso che ha fornito,
attraverso questo processo, gli strumenti all'uomo per poterlo percepire; è esso che ha
formato l'essere in quanto sensibile e senziente, visibile e vedente, tangibile e toccante,
etc.. Se da un lato, l'uomo in quanto essere senziente, percepisce le cose - dall'altro
esso è stato formato dalle cose stesse : si può dire che sono fatti della stessa carne.
Tra la pronfodità dell'essenza dell'oggetto visto, e la profondità del soggetto che
guarda, vi é la medesima carne. Tale carne non è da considerarsi materia, spirito, o
sostanza. Essa, come M.-P. argomenta, non ha mai avuto uno specifico nome nella storia
filosofica; magari ci si può riferire ad essa, come gli antichi si riferivano agli "elementi",
come acqua e fuoco. In effetti la carne è come se fosse la matrice che scandisce nel
dove e nel quando l'aggregazione di questi, o quegli atomi, attorno a qualcosa che
diventi massa profonda sensibile (e senziente); è il "medium formatore dell'oggetto e
del soggetto", che li rende compatibili alla sensibilità vicendevole, e li interconnette.
Il motivo per cui l'uomo é in grado di muoversi percettivamente nel mondo, è la
sua co-appartenenza allo stesso; possiamo dire che è un essere profondo a due fogli,
da una parte cosa fra le cose, dall'altra ciò che le vede e le sente. Questa relazione,
quest'intreccio tra soggetto e oggetto porterà a conclusioni non ordinariamente
sospettabili: si può considerare che l'uomo è parte della stessa famiglia, nello stesso
ordine delle cose, ed è per tale ragione che le esso può percepire. Metaforicamente, "il
corpo sentito e il corpo senziente sono [...] come due segmenti di un unico percorso
circolare che, in alto va da sinistra a destra e, in basso, da destra a sinistra, ma che è un
unico movimento nelle due fasi"; ciò rimanda visivamente anche a quel "Gestaltkries" di
W. che abbiamo trovato alla fine di Forma e tempo, anch'essa opera in oggetto di
studio. Se l'uomo fa parte del mondo, e nel contempo guarda il mondo, si può
osservare che è il mondo che guarda se stesso, senza dover uscire da sé per farlo.
Questo genera un paradosso, poiché l'uomo che è vedente (e visibile), è insieme anche
mondo che guarda se stesso. M.-P. fa presente che tra l'uomo e il mondo, tra vedente e
il visibile, vi è una specie particolare di reciprocità: essi sono come due specchi che,
messi l'uno dinnanzi l'altro, riflettono e replicano delle immagini all'infinito; le prime non
si confondono con le altre, perché esse non sono se non repliche racchiuse l'una
nell'altra. Però quel che ne emerge chiaro, è che il vedente, essendo preso egli stesso in
ciò che vede, vede ancora se stesso. Quando l'uomo guarda il mondo, egli guarda se
stesso; e nel contempo, è il mondo stesso che si guarda.
Esiste un'interconnessione all'interno del corpo: tutte le percezioni, quelle ad esempio
di mano destra e sinistra, occhio destro o sinistro, aperto o chiuso, e tutte le variabili
della percezione sensibile, esse non risultano a noi scandagliate e separate, ma bensì
sensazioni unitarie e reciproche al contempo: una mano che tocca, è toccata dall'altra
mano e diventa insieme senziente e sensibile. Per fare ciò però, per ottenere tale doppia
ma diversificata relazione senziente-sensibile, non basta un'univoca coscienza; per
ottenere quest'unità vi è bisogno del medesimo corpo. Riesaminando la questione, c'è
da segnalare il fatto che, pur sempre imminente, quella reciprocità tra senziente e
sensibile non si realizza mai: ci sarà sempre una sorta di scarto tra il senziente ed il
sensibile, proprio per via del fatto che le percezioni arrivino al medesimo corpo; non è
un vuoto ontologico, ma bensì il confine che tiene in collegamento i due lati del
senziente/sensibile.
Tenendo da parte questo mosso, continuiamo col chiederci se allo stesso modo, non
sarebbe questa doppia relazione possibile anche tra due corpi diversi? Essi
appartengono tutto sommato allo stesso ordine delle cose, come detto; unificati non
dalla stessa coscienza, ma dallo stesso corpo, o meglio dalla medesima matrice con cui
si sono formati. Il mio verde, che non è il medesimo del suo verde, è comunque
riconoscibile nel suo verde - riconosco i connotati del mio nel suo; perché non sono ne
io, ne lui a vedere, ma una visione in generale che abita tutti - in virtù di quella carne,
che ovunque e chiunque irradia.
Il fatto che esistano, contemporaneamente alla nostra, altre visioni del tutto simili - limita
di fatto l'illimitata visione del uomo-mondo che ritorna su di sé, e la spinge verso una
limitata concezione solipsistica.
Esiste quindi una visione vera, che connette vedente e visibile in una relazione di
reciprocità; "alla giuntura del corpo e del mondo opachi, c'è un raggio di generalità e di
luce". M.- P. si esprime in termini molto simili a quello del mitologo Vernant quando
definisce la questione della vista nella grecia presocratica. I Greci pensavano che lo
sguardo, sotto forma di una specie di 'raggio' invisibile, quando raggiunge l'oggetto,
scambia con esso le sue passioni, gli trasferisce gli stati d'animo. L'uomo è sguardo, e
perché comunica rapportandosi alla visibilità del mondo, e perché l'uomo è esso stesso
visibilità: finché è, questi appare, e quando non é più, perde di colpo anche la sua
visibilità.
Ora, abbiamo esaminato una visibilità prima, nel senso della percettività dei quale -
come i colori; questa ha bisogno di una visibilità seconda, quella che vede le linee di
forza, e le dimensioni, le regole della coerenza e dell'ordine percettivo. La ricerca si
sposta ora su quali siano tali forze, e da cosa sono determinate - ovvero quel rapporto
tra la carne delle cose, e le relative leggi di comprensione: le idee. Se il corpo è dotato
dei mezzi percettivi per segregazione, la mente è adagiata alla comprensione della
carne attraverso le idee, che sono sublimazione della carne. Si fa un'importante
distinzione tra le idee: un primo livello, e un secondo livello più alto e intellegibile. Le
prime sono inconsce, e "vere", che ci sono fornite per sublimazione e ci permettono di
leggere, vedere, ascoltare, toccare e gustare la realtà; noi non le udiamo, non le
vediamo ma esse sono lì, dietro i suoni e dietro le immagini, e ne permettono una
coerente e comprensibile visione o audizione. Nel momento in cui si tenta di afferrarle,
e si fa entrare in gioco l'intelletto, divengono idee dell'intelligenza; e non sono
rappresentanti di quelle idee primarie, ma sono estrapolazioni di quelle regole che le
costituiscono mescolate all'intelletto. Importante è la relazione che non v'è idealità
intellegibile pura, senza carne: le idee del livello invisibile, nascosto - dalle quali
nascono quelle pure - derivano dalla prima visibilità, dalla prima esperienza, dal primo
piacere - che non consegna un contenuto chiuso, ma che apre a un livello che non potrà
più essere interrotto, al quale tutte le altre esperienze faranno riferimento.
Orbene, come c'è quella reversibilità tra sensibile e senziente che si incrociano nel
momento percettivo, esiste una medesima reciprocità tra le idee pure e le idee
primarie: la parola paesaggio (veicoli delle idee) può designare un paesaggio; il
paesaggio empirico ha un suo posto tra le idee e suscita la parola paesaggio. Ma allo
stesso modo è presente quel mosso, quella discrepanza tra sensibile e senziente, quel
cosiddetto "scarto" che è altrettanto presente nella reversibilità della parola. È qui che si
gioca tutta la partita: le due reversibilità della percezione e della parola sono il punto
focale; esse determinano l'inevitabile punto di vista umano, che crea discrepanza tra il
sentire ed il sentirsi, tra il percepire ed il percepirsi, e infine tra avere l'assunzione di idee
primarie, e trasformarle idee pure, ossia in parole.
Infine, esistono tutti i presupposti perché nell'uomo si installi una tecnica di linguaggio;
l'uomo possiede le carte in regola perché tra l'uno e l'altro ci sia la parola. L'uomo
possiede, nella sua struttura ontologica, l'integrale di tutte le "differenziazioni delle
catene verbali" possibili. Il linguaggio, è il respiro autentico delle cose che comunicano
di se stesse; la parola è espressione di idee sempre riferite al mondo percettivo, ovvero
all'essere stesso - si può dire che la parola ed il linguaggio sono la voce stessa delle
cose.
La veridicità delle percezioni, che contengono in sé il vero, è un tema che
accordandoci a Weizsäcker abbiamo già esposto, per quanto brevemente. Bisogna
quindi perdere quell'oggetto di natura come grande oggetto, piuttosto includervi
l'uomo; ripensare la natura, significa poi ripensare la biologia stessa, la vita: non siamo
noi a pensare la natura, ma siamo da essa pensati. È qui l'intreccio di cui si accennava, la
mistione tra uomo e natura che caratterizza comunque, in modi diversi, tutti gli autori
presenti in questo studio. A differenza di W. - che nomina particolari caratteristiche della
percezione come anamnestico-prolettiche - M.-P., va più a fondo, e ricerca in questo
piano pre-logico, studia questi schemi di pre-comprensione che identifica nelle idee;
quelle del primo livello della visione e della sensorialità, le particolari caratteristiche
della mente che ci fanno apparire il mondo ordinato in figure e forme. Esse
rappresentano nell'insieme quell'unità che intende le percezioni della realtà, che mette
ordine al caos; e tali idee nascoste - che se diventano idee "pure" o d'intelligenza,
perdono quel connotato di invisibilità onnipresente - vengono formate proprio in base
alla carne: è da li che comunque provengono le idee, formatesi come per sublimazione
dalla carne, allo stesso modo in cui il corpo si è formato per segregazione.
Quindi sia per W., che per M.-P., sia le percezioni, sia le idee nascoste che le regolano,
contengono il vero o una parte di esso.

Hannah Arendt

Biografia

Hannah Arendt (Linden, 14 ottobre 1906 – New York, 4
dicembre 1975) è stata una filosofa, storica e scrittrice tedesca
naturalizzata statunitense. La privazione dei diritti civili e la
persecuzione subite in Germania a partire dal 1933 a causa
delle sue origini ebraiche, unitamente alla sua breve
carcerazione contribuirono a far maturare in lei la decisione di emigrare. Il regime
nazista le ritirò la cittadinanza nel 1937, quindi rimase apolide fino al 1951, anno in cui
ottenne la cittadinanza statunitense.
Inoltre lavorò come giornalista e maestra di scuola superiore e pubblicò opere
importanti di filosofia politica. Rifiutò sempre di essere categorizzata come filosofa, in
quanto preferì che la sua opera fosse descritta come teoria politica piuttosto che come
filosofia politica.
Nata da una famiglia ebraica a Linden, località oggi parte del comune di
Hannover, e cresciuta a Königsberg prima (città natale del suo ammirato precursore
Immanuel Kant) e Berlino poi, Arendt fu studentessa di filosofia di Martin Heidegger
all'Università di Marburgo. Ebbe una relazione sentimentale segreta con quest'ultimo,
scoprendone solo piuttosto tardi le simpatie naziste, da cui si dissociò, non riuscendo
tuttavia mai del tutto a cancellare l'amore e la devozione verso il suo primo maestro.
Dopo aver chiuso questa relazione, Hannah Arendt si trasferì a Heidelberg dove si
laureò con una tesi sul concetto di amore in Sant'Agostino, sotto la tutela del filosofo (ex
psicologo) Karl Jaspers.
La tesi fu pubblicata nel 1929, ma a Arendt fu negata la possibilità di venire abilitata
all'insegnamento nelle università tedesche (mediante la possibilità di scrivere una
seconda tesi) nel 1933, per via delle sue origini ebraiche. Nel 1929 sposò il filosofo
Gunther Anders da cui si separò nel 1937. Dopo di che lasciò la Germania per Parigi,
dove conobbe il critico letterario marxista Walter Benjamin. Durante la sua permanenza
in Francia Hannah Arendt si prodigò per aiutare esuli ebrei della Germania nazista. Ad
ogni modo, dopo l'invasione tedesca (e conseguente occupazione) della Francia
durante la seconda guerra mondiale, e la successiva deportazione di ebrei e ebree
verso i campi di concentramento tedeschi, Hannah Arendt dovette emigrare anche da
qui. Nel 1940 sposò il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, con cui emigrò
(assieme a sua madre) negli Stati Uniti, con l'aiuto del giornalista americano Varian Fry.
Dopo di che divenne attivista nella comunità ebraica tedesca di New York, e scrisse per
il periodico Aufbau.
Dopo la seconda guerra mondiale si riconciliò con Heidegger e testimoniò assai
generosamente, visto il totale disinteresse che il suo ex amante manifestò per lei al
proclamare delle leggi razziali tedesche, in suo favore durante un processo in cui lo si
accusava di aver favorito il regime nazista. Morì il 4 dicembre 1975 in seguito ad un
attacco cardiaco, fu sepolta al Bard College, in Annandale sullo Hudson, New York. Nel
1985 a Parigi si tenne un convegno sull'opere della Arendt organizzato da Françoise
Collin, filosofa e saggista belga nonché illustre appartenente al Movimento femminista
francese; questo ciclo di conferenze aprì la strada ad una innovativa interpretazione del
pensiero arendtiano.
Arendt difese il concetto di «pluralismo» in ambito politico. Grazie al pluralismo, il
potenziale per la libertà politica e l'uguaglianza tra le persone si sviluppano. Importante
è la prospettiva di inclusione dell'altro, ovvero di ciò che ci è estraneo. Politicamente, le
convenzioni e le leggi dovrebbero funzionare per modalità pratiche livelli appropriati, e
quindi tra persone ben disposte. Come risultato dei suoi assunti teorici, Arendt si trovò
contro la democrazia rappresentativa, che criticò fortemente, preferendole un sistema
basato sui consigli o forme di democrazia diretta.
Spesso tuttavia continua a essere studiata soprattutto come filosofa, a causa delle sue
analisi critiche su filosofi come Socrate, Platone, Aristotele, Immanuel Kant, Martin
Heidegger e Karl Jaspers, insieme ai maggiori rappresentanti della filosofia politica
moderna come Machiavelli e Montesquieu. Principalmente grazie al suo pensiero
indipendente, alla teoria del totalitarismo (Theorie der totalen Herrschaft), ai suoi lavori
sulla filosofia esistenziale e alla sua rivendicazione della discussione politica libera, la
Arendt detiene un posto centrale nei dibattiti contemporanei.
Come fonti delle sue disquisizioni utilizza, oltre a documenti filosofici, politici e storici,
anche biografie e opere letterarie. Questi testi vengono interpretati letteralmente e in
rapporto con il suo pensiero personale. Il suo sistema di analisi - in parte influenzato da
Heidegger - contribuisce a renderla una pensatrice originale, trasversale ai diversi
campi del sapere e specialità accademiche. La sua evoluzione personale e il suo
pensiero mostra un elevato grado di sovrapposizione.


Cronologia delle opere

Der Liebesbegriff bei Augustin, 1929
Aufklärung und Judenfrage, in "Zeitschrift fur Geschichte der Juden in Deutschland", a.
4. (1932), n. 2/3.
What is Existenz Philosophy?, 1946
Introduzione a Bernard Lazare, Le fumier de Job, 1948
The Origins of Totalitarianism, 1951; 1958; 1966
Rahel Varnhagen: Lebensgeschichte einer deutschen Jüdin aus der Romantik, 1957
The Human Condition, "Vita Activa", 1958
Die ungarische Revolution und der totalitäre Imperialismus, 1958
Between Past and Future: six exercises in political thought, 1961; poi 8, con due esercizi
aggiunti nell'ed. 1968.
On Revolution, 1963; 1965
Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil 1963; 1965
Eichmann in Jerusalem: Exchange of Letters between Gershom Scholem and Hannah
Arendt, in Encounter, 22/1, 1964
Men in Dark Times, 1968
Isak Dinesen, 1885-1962, in "New Yorker", 9 novembre 1968
Walter Benjamin, in "Merkur", XXII, 1968
On Violence, 1970
Crises of the Republic, 1972
Lying in Politics; Thoughts on Politics and Revolution
The Jew as Pariah: Jewish Identity and Politics in the Modern Age, 1978
The Life of the Mind, 1978

Introduzione alla ricerca del Pensiero

Assunto fondamentale della presente ricerca
Hannah Arendt dichiara di essersi apertamente schierata tra coloro che hanno tentato di
smantellare la metafisica, con la filosofia e le sue categorie, così come le abbiamo
conosciute dal loro esordio in Grecia. Tale smantellamento della metafisica è possibile
se si muove dall’assunto che il filo della tradizione è spezzato e non lo si potrà
riannodare. Da un punto di vista storico si è dissolto il complesso di religione, autorità e
tradizione (trinità romana). Tale perdita è un dato di fatto nel mondo contemporaneo.
Ciò che è perduto è la continuità del passato, così come sembrava tramandarsi di
generazione in generazione, sviluppando nel corso del processo la sua coerenza
interna. Il processo di smantellamento ha del resto una sua tecnica, di cui la Arendt
riconosce di aver fatto uso «in modo periferico». Tutto ciò che resta è ancora il passato,
ma un passato in frammenti, che ha perduto la certezza del suo criterio di valutazione.
La tecnica di smantellamento deve tuttavia aver cura di non distruggere “perle” e
“coralli” che la “trasformazione marina” produce dal passato, e che possono ancora
essere recuperati come frammenti.
La causa per la quale Arendt decide di intraprendere la sua speculazione
sull'attività della mente del 'pensare', fu duplice: da un lato, racconta, "lo stimolo
immediato mi venne assistendo al processo Eickmann a Gerusalemme"; dall'altro, "quei
problemi morali che, scaturiti da un'esperienza concreta, si scontravano con la saggezza
dei secoli".


"Banalità del male"

Nel 1961 Hannah Arendt seguì le 120 sedute del processo Eichmann (il
famigerato criminale nazista) come inviata del settimanale New Yorker a Gerusalemme.
Otto Adolf Eichmann (nato nel 1906), era stato responsabile della sezione IV-B-4
(competente sugli affari concernenti gli ebrei) dell'ufficio centrale per la sicurezza del
Reich (RSHA), organo nato dalla fusione, voluta da Himmler, del servizio di sicurezza
delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, inclusa la polizia segreta o Gestapo.
Eichmann non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma, per l'ufficio
ricoperto, aveva svolto una funzione importante, su scala europea nella politica del
regime nazista: aveva coordinato l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i
vari campi di concentramento e di sterminio. Nel maggio 1960 agenti israeliani lo
catturarono in Argentina, dove si era rifugiato, e lo portarono a Gerusalemme.
Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si
era occupato "soltanto di trasporti". Fu condannato a morte mediante impiccagione e la
sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel processo e le
considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivista e poi riunite nel 1963
nel libro "La banalità del male" (Eichmann a Gerusalemme).
Il sovrano e colui che riesce a decidere sopra gli altri, in una situazione eccezionale
e confusionaria. Il principio politico di base è la decisione. La legittimità la ottiene quindi
chi è in grado di decidere, di individuare il nemico e annientarlo, sopprimendo quella
verità (considerata come bugia) e imponendo autoritariamente la propria verità
(considerata come verità assoluta). Come si arriva a Hitler? Hitler non cambiò leggi, ne
costituzione; egli governava per decreti. Sistematicamente individuava nemici, in
continue situazioni "emergenziali", e decideva autoritariamente: esercitava il potere.
Hitler, avendo pensato la realizzazione del III Reich in un processo necessario di durata
millenaria, con i decreti riesce a velocizzare questo processo.
Arendt sostiene che la deportazione degli ebrei poteva avvenire solo attraverso una
sorta di spersonalizzazione: i deportati viaggiavano ammassati in carri bestiame e,
obbligati a tagliare i capelli, venivano trattati peggio di animali e vivevano in condizioni
miserabili. Questo sistema spersonalizzava tali individui, la cui individualità stessa veniva
affievolita fino alla morte, nelle camere a gas. Ecco che viene realizzato il male radicale, il
male per il male, ciò che Kant aveva pensato irrealizzabile: si tenta di cancellare
l'umanità, di eliminare un'umanità particolarmente caratterizzata.
Il totalitarismo si separa da tutte le altre forme di dittatura perché utilizza
sistematicamente l'ideologia (propaganda, atta a trascinare) ed il terrore. Esso è diverso
dalla paura: non è un'emozione o una sensazione riguardante qualcosa; piuttosto è una
condizione di paura perenne, di qualcosa di impreciso, vago, improvviso (nel regime
nazista, il terrore era utilizzato come strumento di controllo sociale). Il regime totalitario
inizia quando l'opposizione è annientata, ed il popolo è assoggettato passivamente, ed
insieme terrorizzato: non fu la pazzia di 20 persone, ma di un'intera popolazione che,
attraverso proprio ideologia e terrore, fu assoggettata e rispondeva a tale ideologia.
Particolare è stato il "risveglio" dei tedeschi... Com'è stato possibile arrivare a tutto ciò?
Come è stato possibile permettere la realizzazione di un male tanto grande?

In questo libro la Arendt analizza i modi in cui la facoltà di pensare può evitare le
azioni malvagie. La banalità del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare,
la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro
implicazioni morali, compiti che sono stati estremamente significativi nel lavoro della
Arendt fin dai primi scritti nel tardo 1940 del fenomeno del Totalitarismo. La prima
reazione della Arendt alla vista di Eichmann è più che sinistra. Lei sostenne che "le azioni
erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso".
La percezione dell'autrice di Eichmann sembra essere quella di un uomo comune,
caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel
considerare il male commesso da lui, che consiste, nell'organizzare la deportazione di
milioni di ebrei nei campi di concentramento. Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann
non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di
pensare. Eichmann ha sempre agito all'interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e
dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può
essere vista come una cieca obbedienza. Egli non era l'unica persona che appariva
normale mentre gli altri burocrati apparivano come mostri, ma vi era una massa
compatta di uomini perfettamente "normali" i cui atti erano mostruosi. Dietro questa
"terribile normalità" della massa burocratica, che era capace di commettere le più
grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della
"banalità del male". Questa "normalità" fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente
ripudiati dalla società - in questo caso i programmi della Germania nazista - trova luogo
di manifestazione nel cittadino comune, che non riflette sul contenuto delle regole ma le
applica incondizionatamente .
Eichmann ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Ma il guaio del caso
Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che quei tanti non erano né
perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. E questa normalità
è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica - come fu detto e
ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni - che questo nuovo tipo di
criminale, realmente "hostis generis humani", "commette i suoi crimini in circostanze che
quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male." L'analisi delle
interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la
facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali, come detto sopra rappresentano il
nucleo tematico dell'opera . A questo proposito la Arendt si è chiesta se la facoltà di
pensare, nella sua natura e nei suoi attributi intrinseci, coinvolge la possibilità di evitare
di "fare il male". In altre parole, "Il fenomeno del male ha necessariamente una radice
desiderata?" Era innegabile che questo nuovo insieme di domande del fenomeno del
male, di cui le radici non sono state ancorate negli standard filosofici, morali, religiosi
tradizionali, almeno aprirà una prospettiva nuova sulla comprensione del male.
Tale nozione è stata menzionata da Arendt nelle prime pagine dell'introduzione de "La
Vita della Mente", l'opera in oggetto di studio; assistendo al processo Eichmann, la
Arendt disse:" mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie
di male". La perplessità davanti ad un fenomeno che ha contraddetto le teorie note di
male, e la relazione chiara tra il problema di male e la facoltà di pensare, era quello che
la Arendt ha espresso con la frase "la banalità del male". Un accenno alle sue tesi sulla
banalità sono presenti ne "Le Origini di Totalitarismo" (1951), il suo primo libro, nel
quale sosteneva che l'aumento di totalitarismo era dovuto all'esistenza di un nuovo
genere di male, il male assoluto, che, "non poteva essere a lungo spiegato e capito con
malvagie ragioni di egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sete per potere, e
codardia". Spesso ha detto che la tradizionale comprensione del male non era di nessun
aiuto riferita a questa variante moderna, e ha voluto seguire il processo probatorio ad
Eichmann , del quale ha riferito per il New Yorker, per confrontare chiarificare le sue
idee.
Come può dunque la capacità di pensare muoversi in modo da evitare il male?
Per prima cosa, secondo la Arendt, gli standard etici e morali basati sulle abitudini e
sulle usanze hanno dimostrato di poter essere cambiati da un nuovo insieme di regole
di comportamento dettate dall'attuale società. Lei domanda come sia possibile che
poche persone non aderiscano al regime malgrado ogni coercizione. A tale domanda
risponde in maniera semplice: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla
maggioranza, sono gli unici che osano essere "giudicati da loro stessi"; e sono capaci di
farlo non perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di
"giusto e sbagliato" siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza,
ma perché essi si domandano fino a che punto essi sarebbero capaci di vivere in pace
con loro stessi dopo aver commesso certe azioni; e loro decidono che è meglio non far
nulla. La Arendt chiaramente presuppone alla facoltà del pensare questo tipo di
giudizio. Questa presupposizione non necessita di una elevata intelligenza ma
semplicemente l'abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, che significa,
essere occupato in un dialogo silenzioso tra io e io, che da Socrate è stato chiamato
"pensare". L'incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente nella gente più
intelligente e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male.
Dunque l'uso del pensiero previene il male. Una delle questioni principali della
Arendt è il fatto che un'intera società può sottostare ad un totale cambiamento degli
standard morali senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò che sta
accadendo. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore. Una maniera per
prevenire il male è come detto sopra rintracciabile nel processo del pensare. Questo
pensare per Socrate provoca essenzialmente la perplessità che ha il potere di dislocare
gli individui dalle loro regole di comportamento. La capacità di pensare ha dunque la
potenzialità di mettere l'uomo di fronte ad un quadro bianco senza bene o male, senza
giusto o sbagliato, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un
dialogo con se stesso e permettendogli dunque di deliberare un giudizio circa tali
eventi. La Arendt sta cercando di evitare l'aderire degli uomini a ogni tipo di standard
morale, sociale o legale senza esercitare la loro capacità di riflettere, basata sul dialogo
con se stessi circa il significato degli avvenimenti, in altre parole la manifestazione del
pensiero è capace di provocare perplessità e obbliga l'uomo a riflettere e a pronunziare
un giudizio (Ciò si può riscontrare nell'attività di politica diretta non rappresentativa).

«La banalità del male che appare attraverso Eichmann rende evidente come il fenomeno
del male può mostrare la sua faccia banale, senza radici. La Arendt afferma inoltre: "la
mia opinione è che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non
possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e
devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho
detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici,
ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua
"banalità"... solo il bene ha profondità e può essere integrale».



Introduzione a Kant

Kant introduce l'atteggiamento critico. L'uomo, è limitato dal suo stesso essere;
può pretendere di conoscere il mondo, ma solo entro le sue possibilità: criticare
significa infatti indagare limiti e possibilità della ragione, stabilirne i confini. Kant si
oppone quindi al mondo della filosofia moderna che tendeva a voler ampliare i confini
e le possibilità della ragione. Infatti sostenendo "il cielo stellato sopra di me, la legge
morale dentro di me", egli intendeva porre la condizione umana in due momenti, quello
in cui si è in un mondo empirico avvolto da un cielo di leggi fisiche a cui tutti gli esseri
viventi sottostanno, e quello della legge morale verso la quale tutti gli esseri dotati di
dignità (ne possiede che l'uomo, per Kant) debbono tendere. Non è possibile
conoscere le cause, ne i motivi per i quali esistiamo; posti in un certo sistema, trovatisi
già in un luogo di bios, in un posto ove si svolge la vita, ciò che l'uomo deve fare non é
ricercare le cause di tale posizione, ma bensì deve porre i limiti a priori, stabilire i confini
entro i quali si può conoscere tale mondo. Per poter stabilire questi limiti della ragione
umana, v'è bisogno di una certa distanza dal mondo empirico: uno sguardo da lontano
per vedere se stessi e (auto)limitarsi, la percezione di star percependo = appercezione
trascendentale. Questa appercezione dev'essere fatta da un unità trascendentale: l'io
penso. Kant definisce l'appercezione con la parola trascendentale non a caso: i
trascendentali, nella filosofia medievale, erano delle strutture eterne a priori quali il vero,
il bello, etc., su cui si fonda tutto il resto della realtà, strutture pure proprie di ogni essere
umano. Con la stessa logica, in riferimento a quella medievale, si pensi l'appercezione
come l'unità che a priori mette le condizioni per poter esistere: è come se un Io dietro di
me attesti che io esisto; percepirsi, con uno sguardo critico, all'interno di confini e limiti,
al di fuori dei quali è impossibile conoscere. In effetti, quando si è all'interno del mondo
empirico, è inevitabile percepire sensazioni. I primi due sensi ad essere messi in
funzione sono quello interno e quello esterno, rispettivamente il tempo e lo spazio. Essi
sono le prime due categorie kantiane della conoscenza: le prime due categorie a priori,
in cui i dati provenienti dai cinque sensi empirici vengono sempre, e spesso
inconsciamente, catalogati (più precisamente, lo spazio è una categoria che deriva
comunque dal senso interno, una distensione del tempo al di fuori del corpo). Quando
si è nel trascendentale invece, si è per un attimo al di fuori di spazio e tempo, per poter
porre quelle condizioni e quei limiti entro i quali ragionare. Tutto ciò è l'Io-penso, che
diventa Io-puro quando la speculazione a priori diviene universalmente valida. Il
momento puro, ovvero il trascendentale, è l'unico momento uguale per tutti poiché
privo di esperienza "personale". Ma se le condizioni dello scibile umano sono poste
dall'uomo stesso, la verità e la conoscenza che ne conseguono sono, per Kant, adottabili
solo dagli uomini: una data conoscenza può essere vera solo in relazione all'uomo; la
medesima conoscenza potrebbe avere un'altra verità se interpretata da una mucca, o da
un bambino, o da un marziano.


Kant ribalta la visione tradizionale soggetto-oggetto. In effetti, la verità di cui
parla Kant è una conoscenza che viene percepita, che viene recepita passivamente dai
sensi empirici, e poi analizzata dalla ragione. Non è più il soggetto che conosce
l'oggetto (puro), ma è l'oggetto che si mostra al soggetto, il quale poi ne percepisce la
natura in base ai sensi. Il mondo si mostra come un insieme di fenomeni, come ciò che
appare ai nostri sensi; un fenomeno viene percepito dai sensi in una dimensione spazio-
temporale a priori, viene collocato dall'intelletto umano attraverso le categorie della
conoscenza - che si applicano affinché si possa analizzare e comprendere il mondo -
infine inizia la speculazione attorno a tale fenomeno effettuata dalla ragione. È possibile
quindi conoscere solo ciò che si mostra ai sensi; Kant parte sempre dall'esperienza
sensibile, da cui inizia la fase conoscitiva. Infatti, ciò che non appare, ciò di cui si ha
soltanto l'idea senza averne il minimo dato sensibile, non si può conoscere; un oggetto
che non appare, non è detto che non esista, ma tentando di conoscerlo si cadrebbe in
una pura speculazione fantasiosa: ciò è detto noumeno. Esperienza (apparire, mostrarsi
ai sensi) + ragione (applicazione delle categorie, ragionamento) = conoscenza di un
oggetto.
Esistono tre idee che Kant stabilisce essere inspiegabili, inconoscibili: l'idea di mondo,
di anima e di dio. Esse non possono essere spiegate, ma devono essere considerate
come postulati di vita: bisogna vivere come se esistano per davvero, anche se non si
può dimostrarne l'esistenza. Kant doveva inoltre superare uno scetticismo importante, di
cui l'apice lo si vedeva in Hume: si deve distinguere il fatto dal valore che esso ha; il
fatto è conoscibile, ma il valore che esso comporta no. [Kant va incontro ai limiti posti
dallo scetticismo di Hume: in quest'ottica, anche se un fenomeno si ripete medesimo
tutti i giorni, non è detto sia legge universale che ripetutosi sino a ieri, si ripeterà anche
l'indomani; essa è piuttosto abitudine, e pertanto non è possibile svilupparne una tesi
universale.
Cos'è il male, si chiede Kant? Dopo aver affrontato il tema morale, ossia
quello dell'effettuazione del bene per il bene, era d'obbligo affrontare l'argomento
immorale, del male. Inoltre, avendo pensato le intenzioni pure delle azioni morali,
doveva essere possibile pensare teoricamente strutture a priori che contemplino
l'intenzione pura del male. Ma trasposto poi alla pratica, Kant non riesce a definire
l'uomo cattivo a tal punto, da riuscire a perseguire il male solo per il male stesso, solo
per la pura volontà di farlo. Piuttosto, lo individua come convergenza verso le passioni,
quelle che talvolta causano male; nulla di costruito a priori, nessuna intenzione pura del
male. È semplicemente una convergenza del male, l'effettuazione delle passioni che
causano male, non una costruzione a priori del male. Si può pensare, quindi, il bene per
il bene stesso, ma non si può fare lo stesso ragionamento per il male.
Kant passa dall'uomo naturale all'uomo culturale. L'uomo che Kant definisce,
è un essere che conosce, che produce cultura e sapere, capace di trasmettere questo
sapere di generazione in generazione, avanti nel tempo. Inoltre, Kant - come la maggior
parte della filosofia vuole - pone l'uomo al di sopra di tutti gli altri animali, per via del
suo intelletto maggiormente evoluto. Solo la scimmia più evoluta e simile all'uomo,
sostiene dapprima Kant, un giorno potrebbe arrivare a progredire sino ad una forma
simil-umana; tornando sui suoi passi corregge poi il tiro, pensando che questa scimmia
ipoteticamente evoluta non sarebbe accettata dalla società e quindi emarginata: non
avrebbe la possibilità di sussistere. È coerente con l'ideale di superiorità dell'uomo
rispetto agli animali, e del concetto che Kant ha di quest'ultimi: essi sono un mezzo,
strumenti che devono essere al servizio dell'uomo; il compito della scienza e della
tecnica è di sfruttare al massimo gli strumenti, animali compresi. Essi sono sacrificabili, e
possono soffrire: la tradizione cristiana sostiene che anche se soffrono, gli animali non
hanno anima; Kant argomenta invece dicendo che essi non soffrono, poiché non hanno
dignità che infatti è propria solo dell'uomo. Pertanto sacrificare animali in nome
dell'utilità dell'uomo non é immorale. Deridat, sosterrà che Kant, in sordina, ha
introdotto una giustificazione all'uccisione degli animali, aprendo alla crudeltà verso
questi.

La disfatta della metafisica

Rispetto alla prospettiva classica, secondo cui l'attività speculativa della mente sia
espressione di quiete della mente in opposizione alla praxis del corpo, Arendt
preferisce citare Catone: «mai un uomo è più attivo di quando non fa nulla, mai è meno
solo di quando e solo con se stesso». È evidente che si considera, come appena detto, il
dialogo silenzioso di Socrate con se stesso, il punto di partenza.
Ma il pensare era affidato alla filosofia e alla metafisica! Curioso è il fatto che prima di
Cartesio, non vi erano manifestazioni del concetto di 'follia'. Il concetto esplode subito
dopo: Bosch lo immortalizza nella sua 'Nave dei folli' Micheal Focault esamina questo
particolare fenomeno, ove l'avvento della razionalità sulla vita fa si che il rapporto con
l'alterità, e con ciò di inspiegabile, diviene ostile: sono le carceri, gli ospedali di cura, i
manicomi - tutte espressioni di esclusione da parte di una società che non capisce il
diverso.
Il pensiero è proprio questo diverso: speculazione fantasiosa, che ha a che fare con la
metafisica; e son stati gli stessi interpreti della metafisica a screditarla: già da Hegel si
trova il concetto di 'morte di Dio'. E non è Dio in quanto tale a morire, ma il modo con
cui fino ad ora ci si era rapportati a lui; era la morte della concezione del sovrasensibile,
e della conseguente distinzione dal mondo delle mere sensazioni. E se cade la
dimensione di Dio in quanto tale, cade anche la concezione positivista del mondo
sensibile: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero [Dio]. Quale mondo ci è rimasta,
quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello
apparente» (crepuscolo degli idoli, nietzsche) - e ancora prima Democrito «O misera
ragione, tu, che attingi da noi tutte le tue prove, tenti di abbatterci? La nostra disfatta
significherà la tua rovina». L'intero sistema di riferimento va quindi in pezzi, e ci si sente
ora disorientati e spaesati. Ma è stato demolito che il sistema di riferimento del
pensiero, non la capacità di pensare; rimaniamo essere pensanti come lo siamo sempre
stati. Tuttavia, il tramonto della metafisica e filosofia è un vantaggio duplice.
Per un verso, si possiede un bagaglio d'esperienza speculativa enorme dietro di sé, e si
hanno strade filosofiche già percorse e comprensibili; inoltre si è liberi da schemi di
pensiero prefissati, e si può guardare a tali esperienze passate con occhi nuovi. Per
l'altro verso, cadendo inoltre la distinzione tra chi si dedica alla vita contemplativa, i
"pensatori di professione", e gli uomini comuni; anche tale distinzione non è più
plausibile: si dovrà esigere il pensiero da ogni persona sana.
Allora la speculazione della "Vita della Mente" parte dalla distinzione kantiana tra
ragione ed intelletto. Evidentemente, questa distinzione fa riferimento a due attività
spirituali diverse: l'intelletto conosce, la ragione pensa. Il primo è soggetto a regole di
non contraddizione che rendano la realtà intellegibile; la seconda, non è soggetta a tali
leggi e, infatti, è capace di speculare su temi di cui non conosce. Kant, immerso nelle
bugie epistemologiche della metafisica, pur avendo intuito una tale e fondamentale
distinzione, non era riuscito a conferire alla ragione il suo giusto valore; anzi,
difendendosi l'ha valutata secondo i criteri dell'intelletto, e poi svalutata a semplice
speculazione negativa. Ma considerando tale distinzione, e presupponendo che la
ragione ed il pensiero trascendano le regole dell'intelletto, perché relativi ad un altra
funzione - si tenta di ristabilire ora il loro ruolo, e il loro significato.
È l'errore comune a tutte le fallacie metafisiche, che danno per ovvia l'identità della
Verità con il Significato. Essi non sono la stessa cosa, poiché significherebbe ammettere
che dalla conoscenza derivi il senso della vita; Hannah Arendt tenterà di stabilire che
non e così. "Il bisogno di ragione non è ispirato dalla ricerca di verità, ma dalla ricerca di
significato".

La vita della mente
The Life of Mind, (1978)

Capitolo I: L'apparenza

Apparenza è esistenza.
In questo mondo ove stiamo entrando, vi entriamo con la soggettività moderna. Qui
soggetto e oggetto coincidono, esso insieme sono mondo; ripercorrendo i tratti
essenziali della fenomenologia anche di Merlau-Ponty, si arriva al concetto della visibilità
che è al contempo sia apparenza, sia esistenza. Non esiste nulla che sia mera apparenza,
e non esiste nulla che esista senza apparire visibile: ognuno è spettatore nel mondo e
attore del mondo, in un'esistenza mondana. Ai numerosissimi e variegati prototipi
dell'essere, esistono altrettanti e differenti configurazioni sensoriali: ogni animale
diverso, vive mondanamente in modo diverso. Tali essere mondani, sensibili e senzienti,
sono soggetti al tempo: essere vivi significa vivere in un mondo che esisteva già prima,
e che continuerà ad esistere, ove la mia comparsa è solo una piccola apparizione/
esistenza nella grande vita Umana. La concezione del tempo in rapporto al soggetto,
sorta di tempo biologico, cambia in base alle fasi della vita, relazionandosi alla posizione
temporale che ci avvicina o ci allontana dalla morte, ovvero dalla nostra scomparsa -
rendendo il tempo più o meno veloce. Ma, comunque tutti gli esseri naturali che
transitano su questo mondo, sono insieme soggetti ad un tempo oggettivo, uguale per
tutti e prosegue indistintamente dalla nostra relazione con la vita.
Le creature viventi non sono mere apparenze, ma progettati all'impulso di
autoesibizione: apparire significa parere agli altri, ed è relazionato al punto di vista di
chi guarda, di chi osserva. Siamo spettatori ed attori insieme, come già esposto; non è
possibile sfuggire a tale apparenza, anche quando siamo assopiti nelle invisibili attività
della mente. Allora resta da capire se anche il pensiero è destinato ad apparire, o esso
non potrà mai trovare posto nel mondo.

(Vero) essere e (mera) apparenza: la teoria dei «due mondi».


La vecchia dicotomia metafisica di (vero) essere e (mera) apparenza riposa sulla priorità
della apparenza: il filosofo – per conoscere ciò che veramente è - deve lasciare il mondo
delle apparenze tra le quali si sente naturalmente e originariamente a suo agio. [103]
Il mondo delle apparenze precede qualsiasi regione il filosofo possa scegliere come
propria «vera» dimora: lo stesso carattere di apparenza di questo mondo ha suggerito
alla mente dell’uomo che debba esistere qualcosa che non sia apparenza. Allorché il
filosofo si accomiata dal mondo dato ai sensi e si converte alla vita spirituale (periagōgē
platonica), egli si fa guidare da quel primo mondo ricercando qualcosa che possa
rivelare la verità soggiacente (alētheia, «ciò che è disvelato» per Heidegger): essa è
concepita proprio come un’altra apparenza, un fenomeno originario, di ordine
superiore, significando il persistente dominio della apparenza. Qualcosa di simile
accade nella scienza moderna: anche lo scienziato dipende dalle apparenze, sia in
quanto sezioni ciò che appare in superficie per osservare l’interno, sia che cerchi di
captare oggetti nascosti mediante strumentazioni che privano le cose delle proprietà
esteriori con cui si mostrano ai nostri sensi. [104]
Il primato della apparenza è un dato di fatto della vita quotidiana, cui filosofi e scienziati
non possono sottrarsi e che non possono scuotere con le loro “strane” nozioni.
A questa incrollabile convinzione del senso comune si oppone la antichissima
supremazia teoretica dell’Essere e della Verità sulla mera apparenza, cioè la supremazia
del fondo (ground) che non appare sulla superficie che appare. Tale idea di «fondo»
presumibilmente risponde alla interrogazione più antica di scienza e filosofia: come può
accadere che qualcosa appaia e che cosa lo fa apparire proprio in quella determinata
forma? La interrogazione ricerca più una causa che una base o fondamento: la nostra
tradizione ha trasformato la base da cui una cosa nasce nella causa che la produce, per
poi assegnare a questo agente produttivo un grado di realtà più alto di quello attribuito
a ciò che viene immediatamente incontro ai nostri occhi. [105] Esse non solo non
rivelano spontaneamente ciò che nasconde la loro superficie, ma, in genere, le
apparenze non si limitano a rivelare, occultano anche. La ricerca incessante del fondo
sottostante da parte della scienza moderna ha conferito forza nuova all’antico
argomento: essa ha di fatto costretto allo scoperto il fondamento delle apparenze, così
che l’uomo – creatura predisposta per le apparenze – se ne impadronisse e lo
manipolasse. I risultati sono piuttosto dubbi: nessun uomo può vivere tra «cause» o
rendere conto, nel naturale linguaggio umano, di un Essere la cui verità può essere
dimostrata scientificamente in laboratorio e verificata praticamente nel mondo reale
mediante la tecnologia. [106]

Il rovesciamento della gerarchia metafisica: valore della superficie.
Il mondo quotidiano del senso comune conosce l’errore e la illusione, ma nessuna
eliminazione di errore o dissipazione di illusione possono condurre a una regione al di
là della apparenza: ogni evidenza è perduta a vantaggio di un’altra, ogni apparenza è
distrutta per lasciare posto a una nuova apparenza. [107]
Gli studi di Portmann, lo portano a concludere che «l’apparenza rivela un potere di
espressione massimo a paragone di ciò che è interno, le cui funzioni sono di ordine più
primitivo»: l’uso del termine «espressione» rivela le difficoltà cui un approfondimento di
tali conseguenze è destinato ad andare incontro.
Che cosa esprime l’espressione? Qualcosa di interno! Ma la espressività di una
apparenza è di ordine diverso: l'apparenza esprime se stessa, cioè si mostra o si
esibisce. I nostri criteri di giudizio abituali, saldamente radicati in postulati e pregiudizi
metafisici, sono, nei rilievi di Portmann, errati. La nostra vita interiore non è più inerente a
quello che siamo di ciò che appare all’esterno: quando, tuttavia, correggiamo questi
errori, ecco che il nostro linguaggio ci fa difetto. [111]

Corpo e anima; anima e mente.
Siamo propensi a pensare che nessun interno corporeo appare mai autenticamente da
sé e senza interferenza all’esterno: se parliamo di una vita interiore espressa in una
apparenza esterna, pensiamo alla vita dell’anima.
È come se relazione interno-esterno funzionasse per il corpo, ma non per l’anima,
sebbene si parli di vita psichica e del suo luogo dentro di noi. L’uso di metafore è tipico
del nostro linguaggio concettuale, inteso a rendere manifesta la vita della mente: le
parole da noi impiegate nel discorso filosofico sono derivate da espressioni
originariamente collegate al mondo percepito. [111-2] Ciò che vale per la mente, cioè
che il linguaggio metaforico è la sola sua possibilità di apparire sensibilmente
all’esterno – il che vale in genere anche per il pensare, in quanto dialogo silenzioso di sé
con sé – non può ripetersi per la vita dell’anima: a differenza di pensieri e idee,
sentimenti, passioni, emozioni non possono divenire parte integrante delle apparenze,
più di quanto avvenga per i nostri organi interni. Ciò che appare all’esterno delle nostre
emozioni non è genuino, ma è quanto noi trasformiamo attraverso operazioni di
pensiero. [112] Le attività mentali sono concepite nel discorso ancor prima di essere
comunicate: il pensiero senza parola non è concepibile. Tutte le attività mentali si
ritraggono dal mondo delle apparenze, ma non verso un interno dell’io o dell’anima: il
pensiero, con l’associato linguaggio concettuale, ha luogo e trova espressione in un
essere che è a casa propria nelle apparenze, dunque è nella necessità di ricorrere a
metafore per colmare lo scarto tra un mondo dato alla esperienza dei sensi e una sfera
in cui una simile apprensione immediata dei sensi non esiste. [113] Il pensiero, e il
linguaggio metaforico, sono il tramite fra corpo, e anima.
Oltre all’impulso alla autoesibizione, per il quale gli esseri viventi si adattano a un
mondo di apparenze, gli uomini si presentano con atti e parole, indicando il modo in cui
desiderano apparire: questo elemento di scelta deliberata interno a ciò che si mostra o
si nasconde sembra specificamente umano. [115]
L’autopresentazione si distingue dalla autoesibizione, di cui si parlava. Alla scelta attiva
e consapevole della immagine mostrata: l’esibirsi non può che mostrare tutte le
proprietà di un essere vivente; la autopresentazione implica un certo grado di
consapevolezza di sé, connessa al carattere riflessivo delle attività spirituali. [118]

Apparenza e parvenza.
Dato che la scelta, il fattore decisivo della autopresentazione, ha a che fare con le
apparenze, e dato che la apparenza ha la duplice funzione di celare un interno e di
svelare una «superficie», esiste sempre la possibilità che ciò che appare possa, alla fine,
scomparendo, risultare null’altro che mera parvenza. A causa della frattura tra interno ed
esterno, tra il fondamento della apparenza e la apparenza, resta sempre un elemento di
parvenza in ogni apparenza. Le parvenze non sono possibili che in mezzo ad
apparenze, presuppongono l’apparenza, come l’errore presuppone la verità. [119] La
parvenza è connaturata a un mondo governato dalla duplice legge dell’apparire a una
pluralità di creature senzienti. Nulla che appare si manifesta a un singolo osservatore,
capace di percepirlo sotto i suoi aspetti intrinseci. Il mondo appare nel modo del
«mipare», secondo le prospettive particolari determinate dalla ubicazione nel mondo e
dalla particolarità degli organi percettivi. Tale modo non solo genera l’errore, che posso
correggere mutando la mia posizione o rafforzando gli organi di percezione con
apparecchi appropriati, ma anche vere e proprie parvenze: apparenze ingannevoli che
non posso correggere perché prodotte dalla mia posizione sulla terra e restano avvinte
alla mia esistenza di apparenza tra le apparenze terrestri. [119-120]


L’ego che pensa e l’io: Kant
Il concetto di apparenza, e quindi di parvenza (Erscheinung e Schein), è decisivo in Kant:
la «cosa in sé» è qualcosa che non appare sebbene sia causa di apparenze. È stata
spiegata sullo sfondo della tradizione teologica: Dio può essere pensato solo come ciò
che non appare e non si dà alla nostra esperienza, è «in sé» e, poiché non appare, non è
per noi. Interpretazione per la Arendt non priva di difficoltà: le idee della ragione (Dio,
anima, mondo) sono per-noi nel senso che la ragione non può fare a meno di pensarle.
[122] La conclusione kantiana per cui le apparenze devono fondarsi su un oggetto
trascendente che le determini come semplici rappresentazioni, cioè su qualcosa che si
situa per principio su un piano ontologico diverso sembra derivare per analogia dai
fenomeni di questo mondo: apparenze autentiche e inautentiche. Le apparenze
inautentiche producono le prime, (apparato stesso del processo vitale: radici delle
piante, nascoste sotto terra, ma che si possono portare alla luce). [123]
La gerarchia tradizionale di Essere e Apparenza, non scaturisce tuttavia dalle nostre
esperienze ordinarie del mondo delle apparenze (che suggeriscono che il fondamento
dietro le apparenze ha significato per gli effetti che produce), piuttosto nella esperienza
particolare dell’io che pensa. [124] Kant identifica esplicitamente il fenomeno alla base
della sua credenza in una «cosa in sé» dietro le «mere» apparenze: si tratta del fatto che
«nella coscienza che ho di me stesso, nella semplice attività di pensare, io sono la cosa
stessa sebbene così nulla di me sia dato al pensiero». L’io che pensa – che rimane celato
dietro pensieri che sono «semplici rappresentazioni» - è la vera «cosa in sé» di Kant: esso
non appare agli altri e, diversamente dall’io della consapevolezza di sé, non appare a se
stesso, e tuttavia non è nulla. [124-5]
Concludere, in base alla esperienza dell’io che pensa, che esistano «cose in sé», che,
nella propria sfera intelligibile, sono nello stesso modo in cui noi «siamo» in un mondo
di apparenze - rientra tra le parvenze della ragione (fallacie metafisiche), di cui si deve
giudicare se siano autentiche o inautentiche, risultato di assunti arbitrari, miraggi che si
dissolvono con una analisi più accurata, ovvero connaturate alla condizione paradossale
di un essere vivente che, pur parte del mondo delle apparenze, è in possesso di una
facoltà – la capacità di pensare – che permette alla mente di ritrarsi dal mondo senza
riuscire mai a staccarsene o trascenderlo. [127-8]

La realtà e l’io che pensa: il dubbio cartesiano e il «sensus communis».
In un mondo di apparenze la realtà è caratterizzata in primo luogo dallo «star ferma e
permanere» la stessa così a lungo da diventare un oggetto per la conoscenza e per il
riconoscimento di un soggetto. Husserl coglie con la massima precisione la
intenzionalità della coscienza, il fatto che nessun atto soggettivo è mai senza un
oggetto: la oggettività è incorporata nella soggettività stessa della coscienza.
Analogamente si può parlare di intenzionalità delle apparenze e della loro soggettività
incorporata: per il fatto di apparire, gli oggetti indicano un soggetto. [128] Che la
apparenza esiga sempre uno spettatore comporta che per noi, esseri che appaiono in
un mondo di apparenze, la realtà di ciò che percepiamo dipenda dal fatto che esso
appaia come tale anche ad altri. Si tratta del solipsismo che ha costituito la fallacia più
tenace della filosofia. Per il filosofo che parla della esperienza dell’io che pensa, l’uomo
è per natura non semplicemente verbo ma pensiero fatto carne, la incarnazione sempre
misteriosa, mai pienamente chiarita, della capacità di pensare. [129] Si tratta della
parvenza del tutto autentica della stessa attività del pensiero: quando un uomo si
abbandona al puro pensare vive completamente al singolare, in completa solitudine,
come se non gli uomini ma l’Uomo popolasse la terra. Ritirarsi dalla «bestialità della
moltitudine» nella eletta compagnia di «pochissimi» (Platone, Filebo), ovvero nella
assoluta solitudine dell’Uno ha rappresentato la caratteristica saliente della vita dei
filosofi, sin da quando Parmenide e Platone scoprirono che per i sophoi la «vita di
pensiero» - che non conosce né gioia né dolore – è tra tutte la più divina e il nous è il «re
del cielo e della terra» (Platone, Filebo). [130] Il sospetto cartesiano nei confronti
dell’apparato sensoriale, conseguenza della decisiva perdita di certezze provocata dalle
grandi scoperte scientifiche della età moderna, indusse a valorizzare per la prima volta,
come proprietà della res cogitans, caratteristiche non ignorate ma secondarie per gli
antichi: soprattutto la «autosufficienza» della ragione, per cui questo io «non ha
bisogno di alcun luogo né dipende da alcuna cosa materiale», e la assenza dal mondo,
fingendo di non avere corpo, che non esista un mondo ecc.. [130-1] Tuttavia la res
cogitans cartesiana, creatura fittizia e incorporea, priva di sensi, abbandonata a se stessa,
non avrebbe mai potuto conoscere la esistenza di una cosa chiamata realtà e di una
possibile distinzione tra il reale e l’irreale. [131] È l’attività del pensare, la esperienza
dell’io che pensa, a dare origine al dubbio sulla realtà del mondo e di me stesso. Il
pensiero può afferrare e far propria ogni cosa reale; il loro essere reali è l’unica
proprietà che resta al di là della sua portata. Dall’io penso si può inferire solo l’esistenza
di cogitationes; vi è presupposto l’io sono, ma tale presupposizione non può essere
dimostrata né confutata. La realtà non si può dedurre. [132] La realtà di ciò che
percepisco è garantita da un lato dal suo contesto mondano, che comprende altri
uomini che percepiscono come me, e dall’altro dalla azione combinata dei cinque sensi.
Il sensus communis è una sorta di sesto senso necessario per tenere insieme gli altri
cinque e garantire che si riferiscano allo stesso oggetto. Esso intona le sensazioni dei
cinque sensi strettamente privati (per cui esse nella loro qualità sensoriale pura sono
incomunicabili) a un mondo comune condiviso con gli altri. La soggettività del mi-pare è
rimediata dal fatto che lo stesso oggetto appare anche agli altri, sebbene possa
apparire in modo diverso. [133]

La sensazione della realtà ha origine da:
(i) i cinque sensi, assolutamente diversi l’uno dall’altro, hanno lo stesso oggetto in
comune;
(ii) i membri della stessa specie hanno in comune il contesto che fornisce a ogni singolo
oggetto il suo significato particolare, sensus communis, proprietà mondana;
(iii) tutti gli altri esseri provvisti di sensi, benché percepiscano tale oggetto da
prospettive completamente diverse, concordano sulla sua identità. [133-4]

La proprietà mondana corrispondente al sesto senso, è l’essere-reale, che non può
essere percepita alla stregua delle altre proprietà sensoriali. Quindi il rapporto che
esiste con il contesto in cui appaiono i singoli oggetti e nel quale noi stessi, come
apparenze, esistiamo tra altre creature che appaiono. Il contesto in quanto tale è
sfuggente, non appare mai, in questo simile all’Essere che in quanto Essere non appare
mai in un mondo pieno di enti. L’Essere, tuttavia, in quanto ente del pensiero mai ci
aspettiamo che sia percepito dai sensi; laddove, invece, l’essere-reale è affine alla
sensazione: un senso di realtà o irrealtà si accompagna di fatto a tutte le percezioni dei
miei sensi, che senza di esso non avrebbero «senso». [134] Il senso comune condivide
con la facoltà di pensiero la proprietà della invisibilità, ma il pensiero ha anche oggetti
invisibili. Il pensiero può procedere a sottoporre a dubbio tutto ciò di cui si
impadronisce perché non possiede una relazione naturale e scontata con la realtà. Fu
proprio il pensiero che distrusse in Descartes la fede del senso comune nella realtà: il
suo errore fu di sperare che sarebbe riuscito a superare il proprio dubbio ritraendosi
completamente dal mondo e concentrandosi solo sulla attività di pensiero. Il pensare
non può distruggere né dimostrare il senso di realtà originato da ciò che in francese,
non casualmente, si definisce bon sens: quando si ritrae dal mondo, il pensiero si ritrae
dai dati sensoriali e dunque anche dal senso di realtà assicurato dal senso comune.
[136] La perdita di senso comune non è appannaggio dei soli «pensatori di
professione», ma in genere di tutti coloro che pensano. Ai filosofi, semplicemente,
capita più spesso, e la ragione per cui tale estraneità e distrazione non rappresentano
un rischio per la perdita di realtà che comportano è che l’io che pensa si afferma solo
temporaneamente. [136-7]

Scienza e senso comune. La distinzione di Kant tra intelletto e ragione: Verità e
significato
Lo scienziato moderno distrugge le parvenze autentiche senza perdere la sua
sensazione di realtà: senza il pensiero non sarebbe mai stato possibile penetrare le
apparenze e smascherarle come parvenze; il ragionamento di senso comune non
avrebbe mai osato sconvolgere così radicalmente tutte le verosimiglianze dell’apparato
sensoriale.
Differenza con la riflessione antica: salvare i fenomeni vs scoprire l’apparato funzionale
nascosto che li produce. Gli atomi di Democrito erano invisibili: fu preso per pazzo; la
teoria eliocentrica fu proposta da Aristarco di Samo, accusato per ciò di empietà. [137]
Il pensiero svolge un ruolo enorme in ogni impresa scientifica, con un ruolo di mezzo in
vista di un fine, determinato da una decisione intorno a ciò che vale la pena conoscere.
Tale decisione non è a sua volta scientifica. Il fine si identifica in un sapere o in una
conoscenza che, una volta ottenuta, appartiene al mondo delle apparenze, come verità
è integrata nel mondo. Sapere e sete di conoscenza non abbandonano mai del tutto il
mondo: se lo scienziato se ne ritrae è solo per scoprire strade migliori (metodi) verso
quel mondo. Continuità fondamentale tra scienza, in cui si rettificano gli errori, e
ragionamenti di senso comune, in cui sono costantemente dissolte le illusioni dei sensi:
il criterio comune è la evidenza, connaturata a un mondo di apparenze. [137-8] Il
concetto stesso di progresso illimitato che accompagnò la nascita della scienza
moderna e ne è rimasto principio ispiratore dominante, testimonia chiaramente che la
scienza si muove ancora entro la sfera della esperienza del senso comune, soggetta
all’inganno e all’errore correggibile. Quando la esperienza della correzione sistematica
della ricerca scientifica si generalizza, sfocia nella "illimitatezza del progresso". [138] La
trasformazione della Verità in mere verità deriva dal fatto che lo scienziato rimane legato
al senso comune, grazie al quale gli uomini si orientano in un mondo di apparenze.
Mentre il pensiero si ritrae dal mondo e dal suo carattere di evidenza in modo radicale e
nel suo esclusivo interesse, la scienza si avvantaggia del ritiro in vista di risultati specifici.
Nell’ambito della scienza è il ragionamento di senso comune che si avventura nella
speculazione pura, senza disporre della salvaguardia intrinseca al puro pensiero: la
capacità critica (che cela in sé una forte tendenza autodistruttiva). [139] Il fatto che la
scienza moderna, sempre a caccia di manifestazioni dell’invisibile, abbia prodotto una
quantità spettacolare di nuove cose percepibili è paradossale solo in apparenza. Per
scoprire che cosa fa funzionare le cose, essa prese a imitare il funzionamento dei
processi operanti in natura, a tale scopo producendo le apparecchiature con cui
costringere il non apparente ad apparire: tale era il solo modo per persuadere lo
scienziato della sua realtà. In questo senso, sebbene le teorie si distacchino dal senso
comune, devono alla fine farvi ritorno, per evitare che ogni senso di realtà dilegui
dall’oggetto delle loro indagini. Il passaggio richiede il laboratorio, dove ciò che non
appare spontaneamente è costretto ad apparire. [140] La tecnologia, un po’ spregiata
dallo scienziato che vi riscontra un sottoprodotto dei suoi sforzi, introduce la scoperta
scientifica – compiuta in isolamento – nel mondo quotidiano delle apparenze, la rende
accessibile al senso comune. Nella prospettiva del mondo «reale» il laboratorio già
prefigura un ambiente modificato, in cui lo scienziato fa esperienza; i processi cognitivi
che sfruttano l’attitudine a pensare e inventare come mezzo per i loro fini costituiscono
modalità raffinate di ragionamento di senso comune. La attività conoscitiva è dunque
legata al nostro senso di realtà, nella misura in cui contribuisce a costruire il mondo.
[140-1]
La facoltà di pensare (Venunft) è completamente diversa. Kantianamente i concetti
della ragione servono a concepire (Begreifen), i concetti dell’intelletto (Verstand) a
comprendere (Verstehen). L’intelletto comprende ciò che è dato ai sensi, la ragione
desidera comprenderne il significato.
La cognizione ha come criterio la verità, che cerca nell’ambito delle apparenze, in cui gli
uomini si orientano sulla base della percezione sensibile, autoevidente. La facoltà di
pensiero ricerca il significato: che cosa – per una certa cosa data per scontata – significhi
essere. [141] La scienza e la ricerca di conoscenza perseguono una verità irrefutabile,
che gli esseri umani non siano liberi di rifiutare: verità di ragione, necessarie, il cui
opposto è impossibile, e verità di fatto, contingenti e il cui opposto è possibile. Le verità
di fatto sono per il testimone altrettanto coercitive, sebbene un fatto non possa avere
come testimoni tutti (e quindi le verità di fatto sono testimoniate e accettate sulla base
del credito dei testimoni), mentre le verità di ragione si presentano come evidenti e
quindi cogenti per tutti gli esseri razionali. [143] Non ci sono verità al di là e al di sopra
delle verità fattuali: tutte le verità scientifiche sono verità di fatto, non escluse quelle
generate (matematica) dalla capacità cerebrale, espresse in un linguaggio di segni
escogitato ad hoc. Il conoscere mira alla verità, anche se, come nelle scienze, non si
tratta che di verità provvisoria.
Aspettarsi verità dalla attività di pensiero significa confondere l’impulso di pensare con
l’impulso di conoscere. Se il pensiero è impiegato nello sforzo di conoscenza non è mai
veramente se stesso. [145]
Al di là di tutti i problemi cognitivi a cui gli uomini trovano risposte si celano interrogativi
senza risposta: se cessasse l’appetito per domande che rimangono senza risposta, cioè
l’appetito di significato, perderebbero l’attitudine a produrre quegli enti di pensiero che
sono le opere d’arte e la capacità di porre tutte le interrogazioni suscettibili di risposta
su cui si fonda ogni civiltà. In questo senso la ragione è condizione a priori di intelletto e
sapere. [146] Mentre la attività di conoscere lascia dietro di sé un tesoro crescente, che
ogni civiltà accumula e custodisce come parte integrante del suo mondo (per cui la sua
perdita comporterebbe la fine di quel mondo particolare), la attività di pensare non
lascia nulla di tangibile dietro di sé. [146-7]
Nonostante Kant non fosse riuscito a liberarsi del tutto dalla convinzione che il fine
ultimo del pensiero consistesse nella verità e nel sapere, egli riconosce che la ragione
non può essere origine di inganno e illusione. Ciò è vero perché la ragione, in quanto
facoltà di pensiero speculativo, non si muove nell’ambito delle apparenze: essa può
generare insensatezza ma non illusione. Kant riconosce valore euristico alle idee,
sebbene non insista troppo su questo punto, per timore che le sue idee possano
rivelarsi «vuote cose di pensiero». [149] Kant: «La ragione pura, di fatto, non si occupa
d’altro che di se stessa e non può avere nessun’altra vocazione». [150]


Capitolo II: Le attività della mente in un mondo di apparenze

L’invisibilità e il ritrarsi
Sebbene gli uomini siano esistenzialmente del tutto condizionati, possono trascendere
spiritualmente tutte queste condizioni: spiritualmente, non nella realtà. Possono
giudicare positivamente o negativamente la realtà, volere l’impossibile, pensare in
modo da attribuire significati all’ignoto o all’inconoscibile: sebbene tutto ciò non possa
cambiare immediatamente la realtà, i principi in base ai quali si agisce e i criteri con cui
si giudica e si conduce la propria vita dipendono in ultima analisi dalla vita della mente,
dalla esecuzione delle sue operazioni spirituali. [153] Nella prospettiva del mondo delle
apparenze e delle attività da esse condizionate, la caratteristica principale delle attività
della mente è la loro invisibilità: esse non appaiono mai. All’invisibile che si manifesta al
pensiero corrisponde una facoltà umana che, diversamente da altre, non solo è
invisibile finché è latente, allo stato di mera potenzialità, ma tale invisibilità permane
non manifesta anche quando pienamente in atto. A differenza di lavoro e fabbricazione,
che non esigono che la attività sia esibita in quanto tale, azione e parola necessitano di
uno spazio in cui apparire e di persone che vedano e ascoltino. Nessuna di tali attività,
tuttavia, è invisibile. I Greci indicavano gli eroi come andres epiphaneis: i pensatori,
allora, sono per eccellenza uomini non in vista. [154] A differenza della invisibilità
dell’anima, che è analoga a quella degli organi interni di cui avvertiamo il
funzionamento, la vita della mente è pura attività invisibile: mentre le passioni
dell’anima si esprimono, la sola manifestazione esteriore della mente è la distrazione,
evidente noncuranza del mondo circostante, che non accenna però a ciò che sta
accadendo dentro di noi. [155] La pluralità costituisce una delle condizioni esistenziali di
base della vita umana sulla terra; essere presso di sé e intrattenere rapporti solo con sé
stessi costituiscono la caratteristica principale della vita della mente. Che la mente abbia
una vita può dirsi solo nella misura in cui essa attualizza questo rapporto in cui, sul piano
esistenziale, la pluralità si riduce alla dualità implicita nel fatto e nella parola
«coscienza» (consciousness, syneidenai), conoscere con me stesso. [156-7]
Q u e s t o s t at o i n c u i t e n g o c o m p a g n i a a m e s t e s s o è i n d i c at o c o m e
«solitudine» (solitude) per distinguerlo dalla «desolazione» (loneliness) dove si è
altrettanto soli, ma abbandonati non solo dalla compagnia degli uomini, ma anche dalla
virtuale compagnia di sé stessi: solo nella desolazione ci si sente privati della
compagnia degli uomini; solo così essi possono esistere al singolare. Le attività spirituali
stesse recano tutte testimonianza, con la loro natura riflessa, della dualità connaturata
alla coscienza: l’agente spirituale non può essere attivo che retroagendo,
implicitamente o esplicitamente, su se stesso. Le attività mentali – in primo luogo il
pensare, il dialogo senza voce dell’io con se stesso – possono essere intese come la
attuazione di quella dualità o scissione originaria tra me e me stesso che è inerente alla
coscienza. [157] La vita della mente nella quale tengo compagnia a me stesso può
essere silenziosa ma mai muta, né può essere completamente dimentica di se stessa, a
causa della natura riflessa di tutte le sue attività. Io posso essere consapevole delle
attività della mente e della loro riflessività solo nella misura in cui dura la loro attività: l’io
pensante di cui sono,, perfettamente consapevole finché dura la attività di pensiero,
scomparirà come fosse un puro miraggio non appena il mondo reale ritorni a imporre
se stesso.
Poiché le attività spirituali, non apparenti, hanno luogo in un mondo di apparenze, esse
non possono scaturire che da un ritrarsi dalle apparenze: un ritiro non tanto dal mondo
– solo il pensiero con la sua tendenza a generalizzare spinge a ritrarsi completamente
dal mondo – quanto dal suo essere presente ai sensi. Ogni atto spirituale si fonda sulla
facoltà della mente di aver presente a se stessa ciò che è assente ai sensi. Nella nostra
terminologia metaforica tratta dalla visione, tale capacità è indicata come
immaginazione. [158] Pur ritenendo erroneo ricercare un ordine gerarchico tra le attività
della mente, ciò che chiamiamo pensiero, pur incapace di muovere la volontà o di
fornire al giudizio regole generali, deve preparare i particolari dati ai sensi così che la
mente sia in grado di manipolarli in loro assenza, de-sensibilizzandoli. [159] La
immaginazione che trasforma un oggetto visibile in una immagine invisibile, idonea a
essere immagazzinata dalla mente, costituisce la 'conditio sine qua non' per fornire alla
mente oggetti di pensiero convenienti, ma tali oggetti di pensiero vengono alla luce
solo quando la mente ricorda, deliberatamente e attivamente, e raccoglie dal deposito
della memoria ciò che desti il suo interesse. Così facendo la mente apprende come
affrontare e trattare le cose che sono assenti e si prepara ad «andare oltre», verso la
comprensione di cose che sono per sempre assenti, verso cose mai state presenti alla
esperienza sensibile. [160] Per il pensiero, sebbene non per la filosofia in senso tecnico,
il ritrarsi dal mondo delle apparenze costituisce la sola precondizione essenziale. Ciò
spiega perché il pensare, la ricerca di significato – in opposizione alla sete di
conoscenza, anche fine a se stessa – sia stato spesso sentito come attività innaturale,
contraria alla condizione umana. [161] Ogni pensare esige un fermati e pensa. Per
quanto contenessero errori e assurdità, le teorie dei «due mondi» ebbero origine da
esperienze autentiche dell’io che pensa. Tutto ciò che ostacola il pensiero appartiene al
mondo della apparenze, che condividiamo, alle esperienze che garantiscono la realtà: il
pensiero è come se paralizzasse. Valéry: «a volte penso, a volte sono». Platone: solo il
corpo del filosofo continua ad abitare la città degli uomini- Lungo tutta la storia della
filosofia persiste l’idea platonica di una affinità tra filosofia e morte. [162] Ancora
Heidegger in Essere e tempo fa della anticipazione della morte la esperienza decisiva
per raggiungere il proprio sé autentico, affrancandosi dalla inautenticità del si.

La guerra intestina tra pensiero e senso comune
La distrazione del filosofo, del professionista del pensiero, privilegiando unilateralmente
quella che è solo una delle molteplici facoltà dell’uomo, deve apparire in questo modo
agli occhi del senso comune. Nel mondo di apparenze in cui si muovono gli uomini,
infatti, la esperienza più radicale di sparizione è la morte: il senso di tale affinità tra
attività di pensiero e morte arriva proprio dal senso comune del filosofo, che gli fa
percepire di trovarsi fuori dall’ordinario. Il filosofo, infatti, non è immune alla communis
opinio, dal momento che partecipa alla comunanza di tutti gli uomini: il suo senso di
realtà gli rende sospetta l’attività di pensiero. [163] Agli attacchi che provengono dal
senso comune, il filosofo è tentato di rispondere in termini di senso comune,
rovesciandone gli argomenti: la morte, così, per la communis opinio massimo dei mali,
diventa per il filosofo Platone «una divinità, una benefattrice, precisamente in quanto
scioglie i legami tra anima e corpo». [163-4] Tutta la storia della filosofia sarebbe
trascorsa dal conflitto intestino tra il senso comune dell’uomo, che accorda i cinque
sensi al mondo comune, e la facoltà di pensiero. I filosofi hanno interpretato tale
conflitto come ostilità naturale della moltitudine e delle sue opinioni verso i pochi e la
loro verità: la interpretazione platonica del processo a Socrate riecheggia fino a Hegel.
In realtà più che di ostilità dei molti, si dovrebbe parlare di scelta del filosofo di
abbandonare la Città degli uomini, denunciando l’inganno di coloro che si è lasciato
dietro. [164] Il conflitto comunque non è originariamente tra i pochi e i molti, ma tra
pensiero e senso comune all’interno del filosofo stesso, che si rende perfettamente
conto delle obiezioni del senso comune alla filosofia. La reazione naturale della
moltitudine di fronte alle inquietudini del filosofo e alla inutilità manifesta delle sue
occupazioni è non la ostilità ma il riso, un riso del tutto innocente. [165] Platone racconta
nel Teeteto la storia della servetta di Tracia e di Talete; Kant accosta la dote del pensiero
speculativo a quella conferita da Giunone a Tiresia: accecamento in cambio del dono
della profezia. Non può esserci dimestichezza con un altro mondo se non perdendo il
senso di cui si ha bisogno per il mondo presente (Träume eines Geistersehers). [166] Se
traiamo la nostra prospettiva dal mondo delle apparenze, il desiderio di conoscere il
nostro habitat comune e di accumulare le conoscenze relative è naturale. Per il bisogno
di trascendere tale mondo sensibile, ce ne allontaniamo, metaforicamente
scompariamo da esso: dall’angolo visuale naturale del nostro senso comune è come se
anticipassimo la nostra dipartita finale.
Platone (nel Fedone) individua due desideri in chi destina la sua vita al pensiero:
(i) essere affrancato da ogni sorta di occupazione terrena
(ii) giungere a vivere in un al di là in cui percepire direttamente quelle cose cui è rivolto
il pensiero (verità, valori).
Aristotele (Protrettico) parla delle «isole dei beati», in cui gli uomini sono tali (beati)
perché restano solo pensiero e contemplazione. [167]
La metafora della morte ovvero la inversione metaforica di morte e vita non hanno nulla
di arbitrario: meno drammaticamente si può rilevare che, se il pensiero instaura le
proprie condizioni facendosi cieco alle condizioni sensibili con il rimuovere ciò che è
vicino, ciò avviene per liberare spazio al lontano perché divenga manifesto. Ogni cosa
presente è assente poiché qualcosa di assente è in realtà presente alla sua mente. Tra le
cose assenti è anche il corpo del filosofo. [168]
La Memoria, Mnēmosynē, è la madre delle Muse e il ricordo, la esperienza di pensiero
più comune e fondamentale, ha a che fare con cose assenti, scomparse ai sensi, evocate
e rese presenti alla mente, ma non nel modo in cui apparivano ai sensi. La
immaginazione le ha de-sensibilizzate. [168-9]
Il pensiero è «fuori dell’ordine» non solo perché arresta le altre attività indispensabili alla
vita, ma perché capovolge i rapporti ordinari: ciò che è vicino appare lontano, ciò che è
lontano è effettivamente presente. Nella esperienza ordinaria tempo e spazio non si
lasciano pensare senza riferimento a un continuum che si stende dal prossimo al
distante, dal passato al futuro: nel processo di pensiero non solo le distanze ma anche
spazio e tempo sono aboliti. Non a caso il nunc stans è stato assunto dalla filosofia
medievale a simbolo della eternità in quanto descrizione plausibile di ciò che si verifica
nella meditazione e nella contemplazione. [169]
Il mito di Orfeo e Euridice esprime ciò che avviene nell’istante in cui il processo di
pensiero si interrompe nell’ordinario mondo della vita: ogni invisibile svanisce di
nuovo.
Non la percezione dei sensi in cui esperiamo le cose direttamente e da vicino, ma la
immaginazione che le succede prepara gli oggetti per il pensiero. Prima di formulare
interrogazioni - del tipo che cosa sia la felicità o la giustizia - occorre aver visto persone
(felici, infelici) e azioni (giuste, ingiuste), aver ripetuto la esperienza nella mente dopo
aver lasciato il luogo. Ogni pensare è un ripensare: mediante la ripetizione della
immaginazione gli oggetti sono de-sensibilizzati e solo in tale forma il pensiero può
iniziare a considerarli. [170] Persino il semplice racconto di una cosa accaduta è
preceduto dalla operazione di desensibilizzazione: la lingua greca riconosce questo
elemento temporale nel suo lessico: idein = vedere, eidenai = aver visto = sapere (Vedi
vernànt). Ogni pensiero proviene dalla esperienza, ma nessuna esperienza produce da
sola un significato o anche coerenza senza passare per le operazioni della
immaginazione e del pensare. Nella prospettiva del pensiero, la vita nel puro e semplice
esserci, è priva di significato; dal punto di vista della immediatezza della vita e del
mondo dato ai sensi, il pensare equivale a una morte vivente. Il filosofo considera le
cose dal punto di vista dell’io che pensa, per cui una vita senza significato è una sorte di
morte. Poiché non coincide con l’io reale, l’io che pensa non ha nozione del proprio
ritrarsi dal mondo comune delle apparenze: dal suo punto di vista ogni cosa avviene
come se fosse stato l’invisibile a farsi avanti, come se il molteplice delle apparenze
sviasse la mente, impedendo le sue attività, celando positivamente un Essere per
sempre invisibile che rivela sé solo alla mente. [171] La occupazione di pensare è come
la tela di Penelope: il bisogno di pensare può acquietarsi solo attraverso il pensare
stesso.
Caratteristiche salienti della attività di pensiero:
(i) il suo ritrarsi dal mondo;
(ii) la tendenza autodistruttiva rispetto ai suoi stessi risultati, lottando con il senso
comune;
(iii) la sua riflessività e consapevolezza di una attività pura che la accompagna, con la
conseguenza che si possono conoscere le proprie facoltà spirituali solo nella misura
in cui tale attività si protragga.
Il pensiero non può dunque instaurarsi come la suprema proprietà della specie umana:
l’uomo è logon echōn (supportato dalla ragione) ma non animal rationale. [172]
[Filosofia hegeliana come conferma palese e compiuta della guerra intestina di
pensiero e senso comune] [173-6]

Pensare e fare: lo spettatore
Ciò che accomuna le attività spirituali è una peculiare quiete, assenza di faccende e di
frastuono, il ritiro dal coinvolgimento e dalla parzialità degli interessi immediati che ci
rendono parte del mondo reale: ritrarsi che è requisito di ogni giudizio. [176-7]
Storicamente questo ritiro dalla attività pratica costituisce la più antica condizione che si
pose alla possibilità di una vita della mente. In origine c’è la scoperta che soltanto lo
spettatore e mai l’attore è in grado di conoscere e di comprendere ciò che si offra allo
sguardo come spettacolo. Tale scoperta contribuì ampiamente alla convinzione dei
filosofi greci sulla superiorità del modo di vita contemplativo, la cui condizione
elementare era la scholē, l’atto deliberato di astenersi, tenersi indietro (schein) dalle
attività ordinarie, al fine di praticare l’ozio (scholēn agein), obiettivo di tutte le altre
attività (come la pace della guerra). Pitagora in Diogene Laerzio: «La vita […] è come una
pubblica festa: come nelle feste alcuni vengono per competere nella lotta, altri per
esercitare il loro commercio, ma i migliori vengono come spettatori [theatai], così nella
vita gli uomini schiavi vanno a caccia di fama [doxa] o di guadagno, i filosofi della
verità». [177] Ciò che qui è illustrato come eccellente non è una verità invisibile e
inaccessibile all’uomo comune; né il luogo del ritiro degli spettatori appartiene a una
regione superiore (come poi per Parmenide e Platone): il luogo degli spettatori è nel
mondo, la loro nobiltà consiste nel non essere coinvolti in quanto vi si svolge e nel
contemplarlo come uno spettacolo. Da theatai deriva poi «teoria»: come spettatori è
possibile comprendere la «verità» di ciò che si svolge sulla scena; il prezzo da pagare è
ritrarsi da ogni partecipazione allo spettacolo. Solo lo spettatore ha il privilegio di una
posizione che gli consente di cogliere l’insieme della recita (a differenza dell’attore
coinvolto in un ruolo parziale, che ha il suo senso nel complesso). Analogamente il
filosofo può percepire il kosmos come un tutto armoniosamente ordinato. Ritrarsi dal
coinvolgimento diretto in un punto di osservazione esterno garantisce non solo il
giudizio arbitrale ma anche la comprensione del significato complessivo dello
spettacolo. L'attore si preoccupa della doxa, a un tempo fama e opinione, in quanto è
solo attraverso la opinione del pubblico e del giudice che si produce fama.
Determinante per l’attore è dunque il modo in cui appare agli altri: egli dipende dal mi-
pare (dokei moi) dello spettatore, che gli conferisce la sua doxa. Egli non è
kantianamente autonomo: deve condursi in conformità a quanto gli spettatori si
aspettano da lui. [178] Il ritrarsi del giudizio è palesemente diverso dal ritrarsi del
filosofo. Il primo non abbandona il mondo delle apparenze, ma si limita a ritrarsi dal
coinvolgimento attivo in una posizione privilegiata da cui contemplare l’insieme. Inoltre
gli spettatori di Pitagora sono membri di un pubblico e quindi diversi dal filosofo che dà
avvio al proprio bios theōretikos abbandonando la compagnia dei suoi simili e le loro
incerte opinioni. Il giudizio dello spettatore, ancorché imparziale, affrancato da interessi,
non è indipendente dalla percezione degli altri: secondo Kant una «mentalità aperta»
deve tenere conto di tutti quanti i punti di vista. Insomma, pur svincolati dalla
particolarità degli attori, gli spettatori non sono solitari, né autosufficienti come il dio
supremo che il filosofo pretende di emulare con il pensiero. La distinzione tra pensare e
giudicare emerge con la filosofia politica di Kant. Il punto di vista dello spettatore non
viene determinato dagli imperativi categorici della ragion pratica, che attengono alla
dimensione individuale e alla indipendenza pienamente autonoma della ragione.
[Nella critica della ragion pratica, ovvero l'agire umano, egli introduce un qualcosa di
profondamente libero e indipendente: la volontà. Già comparsa con la tradizione
ebraico-cristiana, in particolare con la voluttuosa creazione del mondo effettuata da dio;
già S.Agostino individua la volontà, e quindi la libertà dell'uomo di agire, come un
connubio tra creazione ed il tempo. Kant ne diede una sola definizione possibile della
volontà, ovvero "l'inizio di una nuova serie nel tempo": ogni uomo è capace di iniziare
un processo nuovo, un'azione pratica. Per far sì che tale azione sia morale, si deve partire
da un'etica pura: non conta che l'azione sia giusta se nell'intenzione non è pura; è
l'intenzione che dev'essere pura, volontà senza condizionamenti ne interni, ne esterni,
affinché l'azione sia moralmente giusta.
Un'azione morale, per essere tale ed universalmente valida, deve inoltre seguire tre
imperativi categorici (Kant distingue due imperativi, quelli categorici e quelli ipotetici;
sui secondi non è possibile effettuare alcuna speculazione etica a priori, quindi si
considerano che i categorici): "Agisci in modo tale che la tua massima sia
universalmente valida, agisci da trattare l'altro sempre come fine e mai solo come mezzo,
agisci in modo tale che la volontà che ispira la massima della tua azione possa essere
eletta a legge universale". Kant arriva ad una dualità, il mondo della necessità e
contingente, e il mondo della libertà e della volontà; ciò lo costringe a trovare un nesso
tra i due. Scrive la critica del Giudizio, nella quale affronta il tema del bello e del brutto:
il gusto.]
È come spettatore, parte di un pubblico di spettatori, che può condividere e esprimere
un verdetto. [179] Non è attraverso l’agire ma attraverso il contemplare che si scopre il
significato d’insieme: è lo spettatore e non l’attore che detiene le chiavi del significato
degli affari umani. Gli spettatori kantiani esistono nella dimensione della pluralità, in
Hegel lo spettatore esiste strettamente al singolare: il filosofo diventa organo dello
Spirito Assoluto.
Il ritrarsi della mente è condizione necessaria di tutte le attività spirituali: ma qual è il
luogo verso cui è diretto il movimento dell’assentarsi? Nel caso del giudizio dello
spettatore tale regione di ritiro è situata all’interno del nostro mondo ordinario,
nonostante il carattere riflessivo di tale facoltà. [181] Non possiamo tuttavia indicare un
luogo altrettanto inoppugnabile quando rispondiamo all’interrogativo: dove siamo
quando pensiamo o vogliamo, circondati da cose che non sono più o non sono ancora,
da enti di pensiero come giustizia, libertà ecc. che cadono al di fuori della esperienza
dei sensi? Per la volontà si trovò, nei primi secoli dell’era cristiana, una localizzazione
interiore, pur presentando la cosa difficoltà. Ma per il pensiero, la questione, posta da
Platone nel Sofista, non ricevette soluzione: il luogo del filosofo, a differenza di quello
del sofista, non fu indicato. Il sofista si trova a casa propria nella oscurità del non-essere,
dove è difficile distinguerlo; il filosofo è a sua volta difficilmente osservabile a causa
della luminosità della regione. [182]

Linguaggio e metafora
Le attività spirituali, invisibili in sé e rivolte all’invisibile, divengono manifeste solo
attraverso la parola. Come gli esseri che appaiono vivendo in un mondo di apparenze
hanno l’impulso a mostrare sé stessi, così gli esseri che pensano hanno l’impulso a
parlare. Mentre il fatto stesso dell’apparire presuppone la presenza di spettatori, nel suo
bisogno di parola il pensiero non vuole né presuppone necessariamente degli
ascoltatori. De interpretatione aristotelico: il criterio del logos non consiste nella verità
ma nel significato. [183] Il logos è il discorso in cui le parole (di per sé né vere né false)
sono combinate così da formare una frase munita di significato nel suo complesso in
virtù della sintesi. Le parole, significanti in sé stesse, e i pensieri (noēmata) si
rassomigliano. Il discorso, benché «suono significante», non è necessariamente
apophantikos, enunciato in cui siano in gioco vero o falso. Implicita nell’impulso a
parlare è la ricerca di significato, non di verità.
Rimane sospeso il problema della priorità: il linguaggio è strumento per comunicare
pensiero (quindi l’uomo parla perché pensa) oppure l’uomo pensa perché parla?
Tuttavia, dal momento che parole e pensieri si rassomigliano, agli esseri che pensano è
proprio un impulso a parlare e agli esseri che parlano è proprio un impulso a pensare.
Al «bisogno di ragione» non si saprebbe far fronte adeguatamente senza il pensiero
discorsivo, né questo è concepibile senza parole già munite di significato. I pensieri non
hanno bisogno di essere comunicati per prodursi, ma non possono prodursi se non li si
enuncia. [184] In quanto il pensiero ha bisogno di parole ma non di ascoltatori, Hegel
poteva sostenere che «la filosofia è qualcosa di solitario». Non perché l’uomo è essere
pensante, ma perché esiste al plurale, la sua ragione è bisognosa di comunicazione: di
per sé – come insegna Kant – essa « [la filosofia] non è fatta per isolarsi ma per
comunicare». [184-5] La funzione del «ragionare silenziosamente con sé stessi» è di
venire a capo di ciò che è dato ai sensi nelle apparenze quotidiane: il bisogno di
ragione consiste nel rendere conto (logon didonai) di ciò che sia o sia avvenuto. A ciò
spinge non la sete di conoscenza, ma la ricerca di significato. Dare un nome alle cose è
un modo dell’uomo di far proprio e disalienare un mondo in cui ognuno nasce come
nuovo venuto e straniero. [185] Assunto comune con la cultura cinese: indiscussa
priorità della visione nelle attività spirituali. Ciò che ci differenzia dai cinesi non è il nous
ma il logos, la necessità di rendere conto e di giustificare mediante parole: ogni
processo rigorosamente logico rappresenta tali giustificazioni e si realizza solo
attraverso parole. [187] Il linguaggio, tuttavia, non è adeguato alla attività del pensare
come la visione alla attività del vedere. Nessun linguaggio presenta un vocabolario
pronto per i bisogni della attività della mente: il lessico è tratto da parole che in origine
corrispondono sia a esperienze sensibili sia ad altre esperienze della vita ordinaria. Tale
adozione non è mai casuale o arbitrariamente simbolica: il linguaggio filosofico e gran
parte di quello poetico sono metaforici. Ogni metafora porta allo scoperto «una
percezione intuitiva della somiglianza in cose dissimili». Per Kant, al pensiero senza
immagini, astratto, la metafora fornisce una intuizione tratta dal mondo della apparenze,
la cui funzione è di «provare la realtà dei nostri concetti», annullando quel ritrarsi dal
mondo delle apparenze che è la precondizione delle attività spirituali. [188-9] 

Questo testare i nostri concetti a prova di realtà, è agevole quando il pensiero rimane
nei confini del ragionamento di senso comune: in tal caso ciò di cui si ha bisogno sono
esempi, per illustrare i nostri concetti, astrazioni ricavate dalle apparenze. Diversa la
situazione quando la ragione si spinge speculando oltre i limiti del mondo dato, quindi
non ci sono adeguate intuizioni corrispondenti. A questo punto interviene la metafora, il
metapherein («trans-portare»), il passaggio da uno stato esistenziale, quello del pensare,
a un altro, quello di apparenza tra le apparenze. Ciò può avvenire solo attraverso
analogie. Aristotele segnala che tale somiglianza è somiglianza di relazioni quale ha
luogo in una analogia. [188] Le conoscenze della metafisica sono ottenute per analogia,
non nel senso di rassomiglianza imperfetta di due cose, ma in quello di somiglianza
perfetta di due rapporti tra cose del tutto dissimili. [189] Tutti i termini filosofici sono
metafore, analogie “congelate”, il cui significato autentico si dischiude quando la parola
sia ricondotta al contesto originario (all’uso e al significato pre-filosofici): Platone
introduce il termine «idea» avendo presente il modello che l’artigiano contempla nella
sua produzione, a partire dal quale si producono svariate copie, successivamente. [190]
La metafora getta un ponte sull’abisso tra le attività interiori e invisibili della mente e il
mondo delle apparenze: prima che di uso filosofico la metafora è originariamente
poetica. [192]
L'analogia è diversa dal simbolo; quest'ultimo è reversibile, l'analogia no. La
irreversibilità differenzia nettamente la analogia dal simbolo matematico impiegato da
Aristotele per illustrare il meccanismo della metafora (B:A =D:C): ciò che si smarrisce nel
calcolo matematico è la funzione reale della matematica, il fatto che con essa la mente si
volge al mondo sensibile al fine di illuminare le esperienze non sensibili della mente,
quelle esperienze per cui nessuna lingua possiede parole. [193] Accogliendo lo schema
aristotelico (linguaggio = «risuonare munito di senso» delle parole, già in sé stesse
«suoni significanti» che «assomigliano» ai pensieri), il pensiero è la attività spirituale che
attualizza quei prodotti della mente che sono inerenti alla parola e per i quali il
linguaggio ha già trovato una dimora adeguata. Se parlare e pensare scaturiscono da
una origine comune, il dono del linguaggio potrebbe essere assunto come prova del
fatto che l’uomo è per natura fornito di uno strumento per trasformare l’invisibile in una
apparenza. [195] Analogie, metafore e emblemi sono i fili con cui la mente si tiene
stretta al mondo anche quando, per distrazione, abbia perduto il contatto diretto con
esso, e assicurano la unità della esperienza umana. [196] Se il linguaggio del pensiero è
essenzialmente metaforico, ne deriva che il mondo delle apparenze si insinua nel
pensiero in modo del tutto indipendente dai bisogni del nostro corpo. Il linguaggio ci
permette di pensare, di avere commercio con il non sensibile, proprio perché consente
di «portare oltre» - metapherein – le nostre esperienze sensibili. [il linguaggio è la casa
dell'essere umano (poiché il linguaggio lo contraddistingue dagli animali) e, i filosofi ed
i poeti ne sono i custodi (attraverso le metafore). L'uomo è il pastore dell'essere (umano)
che accompagnato dal linguaggio, si direzione verso l'essere stesso, che è ancora
linguaggio (il linguaggio, proprio a causa delle metafore, non è insito dell'uomo ma è
acquisito - il ritorno all'essere significa eliminare l'uso delle metafore, essere capaci di
pensare e di comunicare allo stesso modo, di farci accettare dall'essere e di
riconcordare ad esso il pensiero umano).
Non vi sono «due mondi» proprio perché la metafora li unisce. [196-7]

La metafora e l’ineffabile
Spinta al linguaggio come al solo medium della sua manifestazione, ogni attività della
mente trae le proprie metafore da un differente senso corporeo: la loro plausibilità
dipende da una affinità innata tra certi dati spirituali e certi dati sensibili. Sin dagli albori
della filosofia si è pensato al pensiero in termini di visione, e poiché il pensare è la
attività spirituale fondamentale e più radicale, è perfettamente vero che
tendenzialmente la visione è servita da paradigma della percezione e quindi da unità di
misura degli altri sensi. [197] Il linguaggio – unico medium in cui l’invisibile possa
diventare manifesto in un mondo di apparenze, quindi linguaggio della metafora è
tratto d'unione tra la visone del pensiero, e la vista dei sensi – non è adeguato a tale
funzione come i sensi rispetto al compito di fronteggiare il mondo percettibile: la
metafora, a suo modo, può correggere tale difetto. [199-200] Il pericolo celato dal
ricorso alla metafora consiste nella evidenza procurata dalla metafora con il suo appello
alla evidenza indiscussa della esperienza sensibile irriflessa: la ragione speculativa non
può evitarla, ma quando la metafora si insinua nel ragionamento scientifico è abusata,
nella misura in cui è in grado di procurare evidenza plausibile a teorie che sono in realtà
mere ipotesi. Esempio – sulla scia dei Paradigmen zu einer Metaphorologie di
Blumenberg – nelle pseudoscienze (metafora della punta dell’iceberg per la coscienza
in psicanalisi): la evidenza schiacciante della metafora sostituisce argomentazione e
dimostrazione, avallando costruzioni mentali in sé coerenti, sistematiche, in cui ogni
elemento trova collocazione nell’insieme più che nelle teorie scientifiche accreditate; la
metafora viene usata erroneamente come simbolo, ma essa non è dotata di
reversibilità. [200] Il pensiero metaforico in questo senso sembrerebbe costituire un
pericolo solo nel caso del servizio a teorie pseudoscientifiche: come i sistemi filosofici
del passato mostrano una somiglianza con le pseudoscienze, sebbene rimanga spazio
per qualcosa di «ineffabile» al di là della parola scritta. Riconoscono, insomma, che c’è
qualcosa che resiste a quella trasformazione che consente di apparire: i problemi di cui
si occupano i filosofi eludono la conoscenza dell’uomo, tuttavia, dal momento che
comunque nel corso della speculazione sono state conosciute delle cose (leggi del
pensiero, teorie della conoscenza), si è finito per sfumare la distinzione tra conoscere e
pensare. [201] Platone riconosce che l’inizio (archē) del filosofare è nello stupore;
Aristotele lo interpretò come semplice sorpresa o perplessità (aporein), che induce
consapevolezza della propria ignoranza, quindi spinge a fuggirla. Lo stupore platonico
in questa prospettiva non è principio ma solo cominciamento, punto di partenza:
Aristotele conosce una verità stupefacente aneu logou, che sfugge alla espressione, ma
non avrebbe sottoscritto le affermazioni platoniche della VII Lettera sulla impossibilità di
tradurre in parole le verità di cui il filosofo si occupa. [201-2] [Conferme in Nietzsche,
Heidegger e Wittgenstein] [202-3] Platone Fedro: se è vero che nel pensare
conduciamo un dialogo interiore con noi stessi, è come se scrivessimo «parole nelle
nostre anime». Quando pensiamo, allo scrittore (nel dialogo scriviamo nell’anima di chi
ascolta) succede un secondo artista, un pittore, che dipinge nelle anime quelle
immagini che corrispondono alle parole scritte. Ciò avviene quando ci ritraiamo dalla
esperienza e ci concentriamo in noi stessi. [204] La Settima lettera illumina la esperienza
altrimenti inattingibile di una virtuale incompatibilità tra intuizione – metafora guida
della verità filosofica – e parola, medium in cui si manifesta il pensiero: la prima ci pone
di fronte a un molteplice simultaneo, la seconda si dischiude in una sequenza di parole
e frasi. [206] Il senso comune collega sensi che non possono tradursi l’uno nell’altro: in
conformità con il senso comune, il linguaggio denomina un oggetto con il suo nome
comune. Tale comunanza costituisce il fatto determinante della comunicazione
intersoggettiva – lo stesso oggetto è percepito da persone diverse ed è loro comune –
ma serve a identificare un dato che appare a ognuno dei cinque sensi in modo
completamente diverso. Nessuna di tali sensazioni può essere descritta adeguatamente
con le parole: la verità intesa dalla tradizione metafisica in termini di metafora visiva, è
per definizione ineffabile. [207] La invisibilità della verità nella religione ebraica è
assiomatica quanto la sua ineffabilità nella filosofia greca: mentre, concepita in termini
di ascolto, la verità richiede obbedienza, la verità concepita in termini visuali si fonda
sulla stessa autoevidenza possente che ci costringe ad ammettere la identità di un
oggetto allorché lo si ha davanti agli occhi. Nessun discorso può contrastare la
semplice, indiscussa e indiscutibile certezza della evidenza sensibile. La Verità come
autoevidenza sensibile non sa che farsi di un criterio: è un criterio, l’arbitro supremo di
tutto ciò che possa seguire. [208] Le difficoltà cui la metafisica ha dato origine sin dagli
esordi si riassumono nella tensione naturale tra theōria e logos, visione e ragionamento
verbale. Anche nel caso del sillogismo la verità dipende da una premessa percepita per
intuizione, non soggetta ad errore perché non è meta logou, conseguente alle parole.
Ogni conoscenza muove dalla investigazione delle apparenze quali si danno ai sensi e
se lo scienziato intende procedere oltre e scoprire le cause degli effetti visibili, il suo
scopo ultimo è di far apparire qualunque cosa possa essere celata dietro le mere
superfici, anche ricorrendo a strumenti sofisticati. In ultima analisi la convalida di ogni
teoria scientifica si produce attraverso la evidenza sensibile. [209] Contrariamente alle
attività cognitive che usano il pensiero come loro strumento, ha bisogno del discorso
non solo per essere espresso e divenire manifesto: il pensiero ha bisogno del discorso
per essere attivato. E dal momento che il discorso ha luogo in sequenze di enunciati, il
fine e la fine del pensare non possono consistere in una intuizione, né il pensare può
essere convalidato da elementi di autoevidenza offerti da una contemplazione muta.
[210] Dopo Bergson l’uso della metafora visiva in filosofia è andato scemando:
l’interesse è passato dalla contemplazione al discorso, dal nous al logos. Il criterio della
verità è cambiato, passando dall’accordo della conoscenza con il suo oggetto alla pura
forma del pensiero, la cui regola fondamentale è il principio di non contraddizione,
della coerenza interna. [210-1] Le metafore della contemplazione muta permangono in
quegli autori – come Heidegger e Benjamin – che conservano un legame esile con gli
assunti della vecchia metafisica. [211] La difficoltà principale sembra consistere nel fatto
che per il pensiero – il cui linguaggio è interamente metaforico e la cui armatura
concettuale dipende interamente dal dono della metafora, che colma l’abisso tra visibile
e invisibile – non esiste metafora che possa illuminare in modo plausibile questa
particolare attività della mente, in cui qualcosa di invisibile dentro di noi si rapporta con
l’invisibile del mondo.

Le metafore ricavate dalla sfera dei sensi non possono che creare difficoltà perché la
attività dei sensi ha il proprio fine fuori di sé ed essi sono essenzialmente strumenti
cognitivi, mentre l’attività del pensiero è una attività fine a se stessa, da cui non risulterà
un esito finale che sopravviva alla attività stessa impegnata nella ricerca di significato.
L’unica metafora che si possa concepire per la vita della mente è quella della sensazione
di vitalità: privo del soffio vitale, il corpo umano è un cadavere; priva del pensiero la
mente dell’uomo è morta. [212]

Capitolo terzo: Che cosa ci fa pensare?

Gli assunti prefilosofici della filosofia greca.
All’interrogativo proposto dal capitolo tutti i pensatori ellenici avrebbero in parte
risposto con la convinzione che la filosofia consenta agli uomini mortali di soggiornare
in prossimità delle cose immortali: il filosofare trasforma in creature simili agli dei («dei
mortali», Cicerone: theōrein in tal senso era fatto derivare da theos). [217] La parabola
pitagorica dello spettatore – interpretata sopra nel senso del giudizio – comportava in
realtà un significato diverso e più ampio per il sorgere della filosofia occidentale:
strettamente legata al primato del theōrein, del contemplare sul fare, si trova la
concezione greca del divino. Secondo la religione omerica, gli dei non erano entità
trascendenti, erano simili agli uomini (dello stesso genos), ne condividevano la natura
(anthropophysis) ma con il privilegio della immortalità e di una «vita facile»: liberi da
necessità, potevano dedicarsi alla vita dello spettatore, contemplando dall’Olimpo le
vicende umane, mero spettacolo per il loro divertimento. [218] L’atteggiamento
fondamentale dei Greci nei confronti del mondo si esprime nella passione del vedere:
qualsiasi cosa apparisse si dava in primo luogo per essere guardata e ammirata. Ciò che
attirava gli uomini alla contemplazione era la bellezza, il kalon, delle apparenze: la idea
suprema del bene risiedeva in ciò che più risplendeva allo sguardo. La stessa virtù
umana – il kalon k’agathon – non era qualità innata ovvero conseguenza di azioni, ma
coincideva con il virtuosismo, con il modo in cui l’uomo appare nel compiere il bene è la
bellezza delle azioni. Ogni cosa esistente era reputata in primo luogo spettacolo
conveniente agli dei. [219] Quanto più gli uomini potevano dedicarsi alla
contemplazione, tanto più si avvicinavano al modo di vita immortale degli dei. Persino la
immortalità divina sembrava in un certo senso alla portata: il grande nome, ricompensa
preziosa per «le grandi imprese e le grandi parole» (Omero), conferiva all’uomo una
immortalità virtuale attraverso la fama. Era nel potere dello spettatore accordare tale
ricompensa all’attore. Dalla Teogonia esiodea sappiamo che, prima che i filosofi
cominciassero a frequentare ciò che è per sempre invisibile e veramente eterno
(agēneton), gli dei erano liberi dalla morte ma non senza nascita: erano poeti e storici a
essere colpiti da ciò che appare e scompare nel corso del tempo. In un poema perduto
di Pindaro si raccontava di un banchetto nuziale di Zeus, nel corso del quale Zeus
chiede agli dei riuniti che cosa manchi alla loro beatitudine: la loro risposta è un invito a
Zeus a creare esseri divini in grado di adornare tutte le sue grandi opere «di parole e
musica». I poeti sono questi nuovi esseri divini, che scortano gli uomini alla immortalità.
[220] Poeti e aedi non si limitano a riferire le gesta e le parole, ma i poeti insieme le
rettificano: viene tracciata una distinzione tra cosa fatta e cosa pensata: quest’ultima,
l’ente di pensiero, è accessibile solo allo spettatore (non all’attore).
Episodio omerico di Ulisse presso i Feaci: Ulisse solo sentendo cantare le proprie
vicende, coglie, nel racconto, il loro significato. Mondo e uomini hanno bisogno di
spettatori perché ne sia apprezzata la bellezza: poiché appaiono nel mondo delle
apparenze, gli uomini hanno bisogno di spettatori. Senza spettatori, il mondo sarebbe
imperfetto (o perfetti). Senza spettatori che contemplano e rettificano i racconti,
volgendoli in parole, non potrebbero essere colti dallo sguardo parziale degli attori
l’accordo e la armonia tra gli enti, l’invisibile nel visibile. [221] 

È significativo che colui che opera il disvelamento sia cieco, al riparo dal visibile, proprio
per «vedere» l’invisibile. Ciò che gli occhi ciechi vedono e il poeta traduce in parole è la
storia da narrare: non l’azione, né l’agente, che pur diventa nel canto immortale. In
realtà, chi diventa immortale? L’agente o il narratore? Pericle in Tucidide risponde che gli
Ateniesi, con le loro gesta avevano lasciato dietro di sé «monumenti imperituri», così da
non aver più bisogno del canto di un Omero. Segno distintivo della filosofia greca è
stata proprio la rottura con la valutazione di Pericle circa il modo di vita più alto e divino
possibile ai mortali: Anassagora e Aristotele, rispondendo all’interrogativo su che cosa
dia valore alla vita, indicarono rispettivamente la contemplazione del cosmo e il
filosofare. Comune ai Greci è tuttavia la convinzione che i mortali debbano rendersi
immortali. [222] Nella Grecia prefilosofica era assiomatico che l’unico incentivo degno
dell’uomo consistesse nel tendere alla immortalità: la grande impresa è bella e degna di
lode non perché sia di giovamento alla patria, ma per «acquistarsi imperitura e eterna
gloria». Ancora Platone nel Simposio segnala come ogni genere di amore sia
caratterizzato dalla tensione di ogni cosa mortale verso la immortalità. Sono i filosofi a
introdurre una archē o principio assoluto, permanente, ingenerata fonte di generazione:
l’iniziatore è probabilmente Anassimandro, ma gli effetti si colgono chiaramente nel
poema di Parmenide. [223] L’Essere che non conosce nascita e morte si sostituì per i
filosofi alla semplice non mortalità degli dei olimpici. L’Essere diventò la vera divinità
della filosofia: «Gli dei olimpici furono sgominati dalla filosofia» (Snell). In Eraclito alla
nuova sempiterna divinità si dà ancora il nome di kosmos (ordine e armonia
dell’universo), con Parmenide si introduce quello di Essere, forse perché il termine
aveva sin dalla origine connotazioni durative. L’Essere sostituì gli dei olimpici, la filosofia
sostituì la religione: filosofare divenne la unica via praticabile di religiosità. La
caratteristica più nuova di questo nuovo dio era di essere Uno. La «filosofia prima»
aristotelica è indicata come teologia, con cui non si intende una teoria degli dei, ma una
ontologia. [224] Il grande vantaggio della nuova disciplina consisteva nel rendere
obsolete, per l’uomo a caccia di immortalità, le vie della fama, garantendogli invece di
attingere la immortalità dimorando presso cose che sono per sempre, grazie alla
intelligenza, al nous. Sin da Parmenide e fino a Platone e Aristotele si sosterrà che c’è
qualcosa nell’uomo che corrisponde esattamente al divino, perché gli consente di
vivere nella sua prossimità: servendosi del proprio nous e ritraendosi spiritualmente da
tutte le cose periture, l’uomo si assimila al divino. Dedicarsi alla theōrētikē energeia
(Aristotele), identica alla attività del dio (hē tou theou energeia), significa «immortalarsi»
(athanatizein). [225] La parte immortale e divina dell’uomo non esiste se non viene
attualizzata e focalizzata su ciò che è divino fuori di lui: l’oggetto dei nostri pensieri
conferisce immortalità al pensiero stesso. L’oggetto si identifica immancabilmente con
ciò che è eterno, che non può non essere: in primo luogo esso si trova nelle «rivoluzioni
dell’universo», che possiamo seguire con la mente, dimostrando che non siamo «piante
terrene ma celesti», creature la cui parentela è in cielo (Platone, Timeo). Dietro questa
convinzione possiamo cogliere lo stupore primordiale, in se stesso filosofico. 

La filosofia per i Greci era «il conseguimento della immortalità» e come tale si svolgeva
in due fasi:
(i) attività del nous consistente nella contemplazione dell’eterno, in sé muta, aneu
logou, priva di linguaggio;
(ii) tentativo di tradurre la visione in parole, alētheuein, che non significa
semplicemente dire le cose come sono senza nascondere nulla, ma si applica solo a
proposizioni intorno a cose che sempre e necessariamente sono e non possono
essere altrimenti. [226]
Il nous consente all’uomo di attingere l’eterno e il divino, mentre il logos è deputato a
«dire ciò che è», (legein ta eonta, Erodoto). Diversamente dal nous, il logos non è divino,
e la traduzione nel discorso della visione del filosofo (alētheuein) creò notevoli difficoltà.
Criterio del discorso filosofico è homoiōsis, «produrre una somiglianza» o assimilare
nelle parole, il più fedelmente possibile, la visione procurata dal nous, in se stessa priva
di discorso in quanto «vede» direttamente, senza alcun processo discorsivo. Il criterio
della facoltà di visione non è la verità evocata da alētheuein, derivato da alēthēs,
impiegato in Omero nei verba dicendi nel senso di «dimmi senza nascondere dentro di
te», non ingannarmi: come se la funzione ordinaria del discorso si identificasse con
l’inganno. Il criterio della visione sta solo nella prerogativa di eternità dell’oggetto
contemplato: se l’uomo ha applicato se stesso alla contemplazione degli oggetti eterni,
non può mancare di possedere la immortalità nella misura più ampia ammessa dalla
natura umana (Platone, Timeo). [227] Si è concordi in genere nel riconoscere che la
filosofia, da Aristotele in poi campo di indagine sulle cose che vengono dopo e
trascendono quelle fisiche, sia di origine greca. Essa si pone l’obiettivo originario greco,
quella immortalità che perfino linguisticamente appariva meta naturale degli uomini che
si riconoscevano thnētoi o brotoi. [227-8] La filosofia non mutò tale obiettivo naturale,
propose solo un’altra via per raggiungerlo: esso dileguò con il declino della cultura
ellenica e sparì completamente dalla filosofia con l’avvento del Cristianesimo. L’ultima
traccia della ricerca greca dell’eterno si può forse ritrovare nel nunc stans (l'eterno ora,
del presente) della contemplazione dei mistici medievali: si tratta di una formula di
notevole rilievo, che corrisponde a una esperienza molto caratteristica dell’io che pensa.
[228] I temi metafisici in origine divini, l’eterno e il necessario, sopravvissero al bisogno
di «rendersi immortali» attraverso lo sforzo della mente di «dimorare» e restare in
presenza del divino, ormai soppiantato dalla fede come latrice di immortalità.
Sopravvisse anche la valutazione dell’essere spettatori come tipo di vita essenzialmente
filosofico, il migliore. Tale nozione era viva in epoca precristiana nelle scuole filosofiche
della tarda antichità, quando vivere nel mondo non era più considerato benedizione, né
il coinvolgimento nel mondo era inteso come sviamento da una attività più divina,
piuttosto come in se stesso pericoloso e privo di gioia. Tenersi fuori dal coinvolgimento
politico significava occupare una posizione esterna al tumulto e alla miseria degli affari
umani, con i loro inevitabili mutamenti. Muta il senso dell’essere spettatori: non più in
teatro, a mirare dall’alto, simili agli dei, i giochi del mondo, ma sul lido, nel porto, a
osservare, da un rifugio sicuro, i marosi imprevedibili e selvaggi del mare in tempesta.
La rilevanza filosofica dell’essere spettatori va completamente perduta: Lucrezio
sottolinea i vantaggi del puro essere spettatori: «guardare da terra il naufragio lontano».
[229] Perduto è dunque il privilegio dello spettatore di giudicare e il contrasto di fondo
tra fare e pensare, ma anche l’idea che tutto ciò che appare c’è per essere visto. Per
Voltaire il desiderio di vedere non è che curiosità spicciola. [229-30]

La risposta di Platone
Esiste una risposta che non ha nulla a che fare con gli assunti prefilosofici così importanti
per la tradizione metafisica: Platone affermò che origine della filosofia è stupore senza
connessione con la ricerca della immortalità. Nemmeno nella ripresa aristotelica
dell’aporein si parla di athanatizein. [231] Platone in un solo passo (Teeteto) parla di
stupore nel senso di «essere confuso», sottolineando che si tratta del «segno autentico
del filosofo»: thaumazein come pathos del filosofo. Iride, messaggera degli dei è figlia
di Taumante (colui che stupisce) [2312] Nel Cratilo Platone fa derivare Iride da eirein,
dire, e thaumazein da thesthai, guardare: in Omero il guardare stupefatto è riservato agli
uomini cui si mostra una divinità, nel familiare travestimento della figura umana. Lo
stupore è qualcosa che gli uomini non possono evocare da sé, ma un pathos, qualcosa
che si subisce. [232] Ciò che muove lo stupore umano è qualcosa di familiare tuttavia
normalmente invisibile. Lo stupore che muove il pensiero non è sorpresa o sconcerto,
ma stupore che ammira, cui fa seguito la ammirazione che irrompe nel discorso (Iride,
messaggera che viene dall’alto). [232-3] Il discorso assume allora la forma della lode,
rivolta non alle cose del mondo ma lode all’ordine armonioso della natura, in sé non
visibile ma di cui il mondo delle apparenze ci offre un bagliore: opsis gar tōn adēlōn ta
phainomena (Anassagora). La filosofia comincia con l’avvertimento di questo ordine
armonioso invisibile del kosmos, manifesto negli enti visibili come fossero divenuti
trasparenti. Il filosofo si meraviglia di fronte alla «armonia invisibile», che vale, secondo
Eraclito, più della visibile. Altro termine antico per designare l’invisibile in seno alle
apparenze è physis: physis kryptesthai philei. In Eraclito il significato del logos è
illustrato con il messaggio di Apollo, il logos «non dice, né nasconde ma indica (il
significato)», cioè accenna a qualcosa ambiguamente, per essere inteso solo da coloro
che sanno comprendere i semplici cenni. [233] Lo stupore conduce a pensare in parole:
della esperienza dello stupore di fronte all’invisibile manifesto nelle apparenze si
appropria la parola. Lo stupore in cui cade il filosofo non concerne qualcosa di
particolare, ma è suscitato da una totalità mai manifesta. Nei termini della parabola
pitagorica, si tratterà della bellezza del gioco del mondo, del significato e della pienezza
di senso di tutti i particolari che agiscono insieme: tutto ciò è manifesto a uno spettatore
nella cui mente i particolari siano invisibilmente collegati. Dopo Parmenide il termine
per indicare tale totalità invisibile, implicitamente manifesta in ciò che appare, è Essere.
[234] Heidegger, 1929, Che cosa è metafisica?: «perché c’è in generale qualcosa e non
piuttosto niente?». Lo stupore platonico rivive come «la questione fondamentale della
metafisica». [235] 

La risposta dei Romani
A formare la opinione corrente riguardo alla filosofia furono i Romani: essa reca
l’impronta non della esperienza romana originaria – politica (Virgilio) – ma dell’ultimo
secolo della loro repubblica. [242] Finché la cosa pubblica fu integra, la cultura non fu
mai considerata senza sospetto. Nella decadenza (della repubblica e dell’impero) la
filosofia si fece seria (non mero passatempo nobile), si convertì – a differenza di quanto
accaduto in Grecia – la cultura si convertì in scienza (animi medicina, Cicerone): ora essa
aveva una utilità, insegnare agli uomini come curare i loro animi disperati fuggendo il
mondo mediante il pensiero. La sua celebre parola d’ordine divenne nil admirari, non
sorprenderti di niente, non ammirare nulla. [243] Profonda influenza romana anche su
Hegel: «il bisogno di filosofia» scaturisce quando «la potenza della unificazione
scompare dalla vita degli uomini». Il pensiero non scaturisce da un bisogno della
ragione, ma ha radice esistenziale nella infelicità. [244] Impulso a pensare coincise con
l’impulso a fuggire un mondo divenuto insopportabile: improbabile che tale impulso sia
meno antico dello stupore ammirato, ma difficile trovarne espressione prima che
Lucrezio e Cicerone trasformassero la filosofia in qualcosa di essenzialmente romano,
cioè di essenzialmente pratico. Epitteto: ciò che si deve imparare per rendere la vita
sopportabile, non è propriamente il pensare, ma l’uso corretto della immaginazione, la
unica cosa interamente in nostro potere. Oggetto della filosofia è la vita individuale di
ogni uomo: ciò che conta non è la teoria astratta, ma il suo uso, la sua applicazione.
[245] Il pensare si trasforma in una technē, in una particolare abilità, il cui prodotto
finale è la condotta della vita individuale. Non si intendeva uno stile di vita nel senso di
un bios (theōrētikos o politikos), ma una «azione» - in cui non si agisce in concerto con
alcuno, con cui non si suppone cambiare altro che sé stessi – che poteva esprimersi
nella apatheia o ataraxia del «saggio», cioè nel suo rifiuto a reagire a tutto ciò che, nel
bene e nel male, potesse capitargli. Non si tratta solo di esercizi di pensiero, ma di
esercizi di forza di volontà, in cui non si usa il linguaggio della riflessione, in cui si usano
imperativi. [246] L’accento sulla capacità del pensiero di rendere presente ciò che è
assente si sposta dalla riflessione alla immaginazione: intensificare la distrazione fino a
che la realtà scompaia del tutto, così che ciò che è presente risulti assente. Centralità
delle impressioni, che concernono esistenzialmente l’individuo: che ciò che colpisce
esista o meno dipende dalla decisione di riconoscerlo o no come tale. Se Epitteto può
essere annoverato tra i filosofi è perché scoprì come la coscienza renda possibile alle
attività spirituali di ripiegarsi su sé stesse. [247] Il mettere tra parentesi la realtà,
sbarazzandosene con il trattarla come se non fosse altro che impressione, è rimasta una
tentazione forte tra i «pensatori di professione»: Hegel edificò la sua filosofia dello
Spirito sulla esperienza dell’io che pensa: reinterpretando questo io secondo il modello
della coscienza, Hegel trasportò tutto il mondo dentro la coscienza, come se esso non
fosse altro che un fenomeno della mente [248-9] Cicerone, che conosceva bene la
filosofia greca, aveva scoperto le direzioni di pensiero seguendo le quali diveniva
possibile intraprendere il proprio cammino al di fuori del mondo: Somnium Scipionis
(capitolo conclusivo della Repubblica di Cicerone). [249] 

Accolta nel primo secolo a.C. a Roma, la filosofia doveva dimostrare di servire a
qualcosa. Nelle Tusculanae Disputationes Cicerone dà una prima risposta: rendere
Roma più bella e civile. La filosofia rappresentava una occupazione che poteva
interessare gli uomini istruiti, una volta ritiratisi dalla vita pubblica e senza
preoccupazioni più importanti. Il filosofare non implicava nulla di essenziale, né aveva a
che fare con il divino: le attività che più assomigliavano a quelle degli dei erano la
fondazione e la conservazione di comunità politiche. Né aveva legami con la
immortalità: essa era sì di appannaggio umano, ma non individuale bensì collettivo,
spettava virtualmente alle comunità, che dovrebbero essere costituite così da essere
eterne. [250] Nel Somnium a Scipione l'Africano, prima dello scontro decisivo con i
Cartaginesi, in sogno, viene, da un antenato, predetto l’esito della battaglia e annunciato
il suo destino politico (se solo avesse scampato l’assassinio). A tale scopo egli avrebbe
dovuto tenere per vero che gli uomini che abbiano preservato la patria sono sicuri del
loro posto in cielo e della beatitudine della eternità: «Il dio supremo che governa il
mondo nulla ama sulla terra più delle società e delle relazioni tra gli uomini che si
chiamano Stati; e coloro che li governano e li conservano, dopo aver lasciato questo
mondo, tornano in cielo. Il loro compito in terra è stare a guardia della terra». Si avanza
uno spettro: senza la promessa di una ricompensa celeste gli uomini potrebbero
rifiutarsi di ottemperare ai loro obblighi pubblici. Le ricompense di questo mondo non
sono sufficienti a ricompensare le fatiche. Dall’alto del cielo Scipione è invitato a gettare
uno sguardo sulla terra, che vede così piccola che «fu addolorato di vedere il nostro
impero ridotto a un punto». Egli dovrà allora tenere sempre lo sguardo dalla terra
rivolto al cielo per essere in grado di disprezzare le cose degli uomini. [251] Pensare qui
significa seguire una sequenza di ragionamenti che fa ascendere a un punto di vista
esterno al mondo delle apparenze, alla vita, relativizzandoli.
La filosofia romana come compensazione delle frustrazioni della vita politica e della
vita in genere.
Inizio di una tradizione che arriva al De Consolatione Philosophiae di Boezio. [252] Due
fonti da cui scaturisce il pensiero come noi lo conosciamo: una greca, l’altra latina. Da un
lato lo stupore ammirato di fronte allo spettacolo in cui l’uomo è nato, per apprezzare il
quale egli è ben attrezzato spiritualmente e fisicamente; dall’altro lo sgomento,
l’angoscia estremi di essere stati gettati in un mondo ostile, in cui domina la paura e da
cui gli uomini cercano in ogni modo di fuggire. Tale angoscia non era ignota ai Greci
(«meglio non essere nati…» formula proverbiale), tuttavia non risulta che abbia mai
costituito fonte del pensiero greco (né ha mai prodotto grande filosofia). [254] Queste
due diverse mentalità hanno tuttavia qualcosa in comune: in entrambi i casi il pensiero
si separa dal mondo delle apparenze. Solo perché implica un ritrarsi il pensiero può
essere usato come strumento di evasione. Esso implica anche una sospensione della
nozione del corpo e dell’io per sostituire a essi la esperienza di una attività pura. Pensare
è la sola attività che per il suo esercizio non richieda altro che se stessa. La perdita della
nozione del proprio corpo nella esperienza del pensiero, combinata col puro piacere
della attività in quanto tale, spiega gli effetti consolatori di certe modalità di pensiero
sugli uomini della tarda antichità, ma anche le loro teorie estremistiche sul potere della
mente sul corpo. [255] La prima comparsa della parola «filosofare» avviene in un
contesto curioso. 

Erodoto racconta della visita di Solone a Creso, e della richiesta di costui a Solone
(famoso per la saggezza e i viaggi: «hai con cura visitato molti paesi della terra per
filosofare riguardo agli spettacoli che hai visto») di indicare l’uomo più felice di tutti.
[256] (Nessun uomo può dirsi felice prima della morte). Creso si rivolge a Solone non
perché abbia visto molti paesi, ma perché è famoso per il suo filosofare, il suo riflettere
su ciò che vede. Benché fondata sulla esperienza, la risposta di Solone si pone
manifestamente di là dalla esperienza: egli volge la interrogazione «chi è il più felice di
tutti?» nell’altra «che cosa è la felicità per i mortali?». La sua risposta consiste in una
riflessione (philosophoumenon) sugli affari umani (anthrōpeiōn pragmatōn) e la durata
della vita umana, che conduce a concludere che «l’uomo non è che azzardo», per cui è
saggio «aspettare e considerare come andrà a finire». Se la vita dell’uomo è una storia,
solo la fine, quando ogni cosa è compiuta, rivelerà di che cosa si sia veramente trattato:
nemo ante mortem beatus dici potest. (Nota: il contenuto di pensiero di tale detto
proverbiale è stato portato pienamente in luce con l’analisi della morte in Essere e
tempo). [257] Il carattere aporetico del pensare socratico significa che è lo stupore
ammirato per le azioni giuste e coraggiose viste con gli occhi del corpo a far nascere
interrogazioni quali «che cosa è il coraggio, la giustizia?». La esistenza di coraggio e
giustizia è stata indicata ai miei sensi da ciò che ho visto, benché l’uno e l’altra non siano
presenti ai sensi, quindi non siano autoevidenti. Lo stupore originario non solo non si
risolve in simili interrogativi, ma ne è aumentato. [258]

La risposta di Socrate
La risposta alla domanda «che cosa ci fa pensare?», quando proviene da un pensatore
professionale è sospetta, in quanto non proviene dalle sue esperienze nell’atto di
pensare, ma dall’esterno: interessi professionali o senso comune, che lo spinge a
riflettere su una attività che nel mondo ordinario è fuori dell’ordine. Le risposte sono
allora troppo vaghe per avere senso nella vita comune, dove la esperienza del pensare
interrompe il vivere ordinario e questo il pensiero.
Tutte le risposte confessano lo stesso bisogno: il bisogno di concretizzare le implicazioni
dello stupore platonico, di trascendere i limiti del conoscibile (Kant), di giungere a
conciliarsi con ciò che è fattualmente e con il corso del mondo (Hegel), ovvero il
bisogno di ricercare il significato di tutto ciò che avviene. È questa incapacità dell’io
pensante di rendere conto di se stesso che ha reso i filosofi, pensatori di professione,
una specie difficile da frequentare. [259] Nella prospettiva del mondo delle apparenze,
l’io che pensa vive sempre nascosto: la presente interrogazione cerca di stanarlo,
perché si renda manifesto. Il modo migliore (in realtà l’unico) cui si possa ricorrere a tale
scopo è quello di cercare un paradigma di pensatore non professionale che abbia
riunite nella propria persona le due passioni apertamente contraddittorie del pensare e
dell’agire, nel senso di sentirsi egualmente a casa propria in entrambe le sfere. Un
pensatore che rimanga sempre uomo tra gli uomini, non schivando la vita pubblica.
[260] Tale figura è quella di Socrate, di cui sapremmo ben poco se non avesse prodotto
una profonda impressione su Platone. E sapremmo poco anche da Platone, se non
avesse deciso di sacrificare la propria vita non per una fede o una dottrina, ma per
andare in giro esaminando le opinioni altrui. 

La Arendt è convinta che esista una linea di demarcazione precisa tra ciò che è
autenticamente socratico e la filosofia insegnata da Platone. [261] Costruzione di «tipi
ideali» senza crearli di sana pianta (come nelle allegorie e nelle astrazioni personificate),
ma attingendo alla moltitudine di esseri viventi del passato e del presente che
sembrano detenere un significato rappresentativo, facendo astrazione dai tratti in cui si
esprime la loro debolezza umana. [262] Ciò che colpisce nei dialoghi socratici di
Platone è il fatto che sono dialoghi aporetici. Nessuno dei logoi sta fermo, tutti ruotano
in modo circolare: Socrate li mette in moto ponendo domande di cui non conosce la
risposta, pronto a ricominciare tutto da capo. Tutti i temi trattati in questi primi dialoghi
hanno a che fare con concetti quotidiani, che emergono appena la gente apre la bocca.
[263] I problemi sono sollevati partendo dalla esperienza ordinaria di azioni o situazioni
qualificate in un certo modo e concentrando la attenzione sul sostantivo ricavato
dall’aggettivo applicato ai casi particolari: es. percepiamo azioni coraggiose e ci
interroghiamo sul significato del termine «coraggio», puntiamo cioè sui concetti - «la
misura non apparente» (aphanes metron) di Solone, «per la mente la più difficile da
comprendere, che tuttavia regge i limiti di tutte le cose» -, cui Platone avrebbe
assegnato la denominazione di idee, percepibili solo dagli occhi della mente. [263-4]
Tali parole costituiscono parte integrante del nostro linguaggio quotidiano e tuttavia
non siamo in grado di rederne conto. Invece di ripetere quanto appreso da Aristotele –
che Socrate sarebbe lo scopritore del «concetto» - proviamo a chiederci quali fossero le
operazioni che portarono Socrate a scoprirlo. Es.: la casa in sé e per sé, quella in virtù
della quale usiamo la parola per tutti gli edifici particolari e molto diversi, resta invisibile
sia agli occhi del corpo sia a quelli della mente. Ogni casa della immaginazione, per
quanto fornita solo del minimo indispensabile per renderla riconoscibile, è già casa
particolare. [264] L’altra casa, quella invisibile, di cui abbiamo bisogno per riconoscere
edifici particolari come case, implica qualcosa di considerevolmente meno tangibile
della struttura percepita dai nostri occhi. [264-5] La parola «casa» è la «misura non vista»
che «regge i limiti di tutte le cose» attinenti all’abitare: una parola che non potrebbe
esistere senza pensieri sull’abitare. La parola costituisce una abbreviazione stenografica,
senza cui il pensiero con la sua velocità non sarebbe neppure possibile. La parola «casa»
è una sorta di pensiero congelato che il pensare deve disgelare ogni volta che voglia
portarne alla luce il significato originario (meditazione medievale). Si sostiene
comunemente che Socrate abbia creduto che la virtù potesse essere insegnata.
Ciò che egli intendeva si può ricavare dalle similitudini che applicava a se stesso: tafano,
levatrice, torpedine. [265] Da ciò ricaviamo appunto l’unico modo in cui il pensiero si
possa insegnare: Socrate non insegnava nulla, perché non aveva alcunché da insegnare,
era «sterile» come levatrici greche. Dal momento che non aveva nulla da insegnare fu
accusato di non rivelare mai il suo modo di vedere (gnōmē) (Senofonte). A differenza
dai pensatori professionali egli sembra avvertire la esigenza di verificare con i suoi simili
se condividessero le sue perplessità. Socrate è un tafano: sa come pungolare i suoi
concittadini a pensare ed esaminare, attività senza la quale la vita non sarebbe
pienamente tale. (Soluzioni contrastanti in Apologia e Fedone: nel primo la vita è molto
cara, ma, sebbene sia cara, Socrate non teme la morte; nel secondo egli spiega agli
amici come la vita sia gravosa, per cui è felice di morire). [266] 

Socrate è levatrice sterile: proprio perché sa come sgravare gli altri dei loro pensieri.
Egli - come sottolinea Platone, a proposito della «nobile sofistica», nel Sofista - purgava
gli altri delle loro «opinioni», di quei pregiudizi irriflessi che impedirebbero loro di
pensare. [266-7] Socrate è torpedine: egli si blocca insistendo sulle proprie perplessità
e, paralizzato lui stesso, paralizza chiunque venga a contatto con le sue perplessità.
Tuttavia, ciò che è avvertito all’esterno come paralisi si rivela la condizione suprema di
attività e vitalità. Egli dunque non è un filosofo (nulla sa e insegna), né sofista (non
pretende di rendere gli uomini sapienti). Rivendica la attività del pensare e
dell’esaminare, che costituisce dal suo punto di vista il bene più grande per la Città.
[267] Ben consapevole di avere a che fare con ciò che è invisibile, Socrate si valeva di
una metafora per esplicare la attività del pensare, la metafora del vento: «I venti in sé
sono invisibili, tuttavia ciò che essi fanno è manifesto e in un certo modo avvertiamo il
loro avvicinarsi (Senofonte, Memorabili IV, iii, 14). La metafora è ripresa da Sofocle
(Antigone) e Heidegger, che, a proposito di Socrate (nell’unico luogo in cui ne parla –
Was heisst Denken? -, indicandolo come «il più puro dei pensatori dell’Occidente»),
ricorre alla immagine della «tempesta del pensiero». [268] Anche Senofonte indica a
suo modo come il vento del pensiero si manifestasse nei concetti, virtù e valori, che
Socrate affrontava nelle sue disamine riflessive: il problema è che questo vento,
levandosi, ha la prerogativa di abolire le sue manifestazioni precedenti (così lo stesso
uomo poteva essere inteso e intendersi come tafano e torpedine). È nella natura di
questo 'vento invisibile' dis-gelare ciò che il linguaggio – medium del pensiero – ha con-
gelato in parole del pensiero, debolezza e rigidità delle quali Platone denuncia nella
Settima lettera. In questo senso il pensiero possiede un effetto distruttivo, tale da minare
in profondità tutti i criteri fissati.
La paralisi indotta dal pensare è duplice:
(i) è inerente al fermati-e-pensa la interruzione di tutte le altre attività, ma, a scoppio
ritardato, si può produrre un senso di insicurezza, dal momento che nessuna regola
o criterio si sottrae al vento del pensiero; [269]
(ii) i non-risultati della disamina critica del pensiero – come nel caso di Crizia e
Alcibiade – come un pungolo alla licenza e al cinismo, possono tradursi in risultati
nichilisti.
Il nichilismo rappresenta un rischio reale della attività del pensiero: non ci sono pensieri
pericolosi, il pensiero stesso è pericoloso, ma il nichilismo non è un suo prodotto: esso è
l’altra faccia della convenzionalità, nega i valori correnti a cui comunque rimane legato.
[270] Tale pericolo non deriva tuttavia dalla convinzione socratica che una vita senza
pensiero non sarebbe degna di essere vissuta, ma, al contrario, dal desiderio di trovare
risultati che rendano superfluo alla fine pensare oltre. Il pensare è pericoloso per tutti i
credi e di per sé non ne partorisce di nuovi.
Il non-pensare – in apparenza così raccomandabile per gli affari politici e morali –
presenta i suoi rischi: abitua ad attenersi a tutto ciò che prescrivono le regole. Gli
uomini, tuttavia, finiscono per abituarsi non al loro contenuto ma al possesso di regole
sotto cui sussumere i casi particolari. Chi voglia cambiare le regole non incontrerà
difficoltà, nella misura in cui le rimpiazzi con nuove, né avrà bisogno di ricorrere alla
forza di persuasione. I primi a ubbidire alle nuove regole saranno i pilastri della società
retta dalle vecchie, coloro meno abituati a metterle in discussione. [271] 

Gli Ateniesi contestavano a Socrate che pensare era sovversivo, che il vento del
pensiero era un uragano che spazzava via tutti i segni stabiliti per l’orientamento.
Socrate nega che il pensiero corrompa, ma neppure sostiene che renda migliori: esso
desta dal sonno, il che è un gran bene, secondo lui, per la Città. Il significato di ciò che
Socrate faceva risiede nella attività in sé: pensare ed essere veramente vivi sono lo
stesso, il pensiero deve sempre cominciare da capo (è una attività che è tutt’uno con il
vivere). [272] Ciò che è stato in precedenza indicato come ricerca di significato figura
nel linguaggio di Socrate come «amore» (Erōs): esso è in primo luogo bisogno;
desidera ciò che non ha. Gli uomini amano la sapienza e cominciano a filosofare perché
non sono sapienti. Desiderando ciò che non ha, l’amore stabilisce una relazione con ciò
che non è presente. La ricerca del pensiero come 'amore desiderante': i suoi oggetti
non possono essere che cose degne di amore (valori).
Se il pensare dissolve i concetti positivi nel loro significato originario, farà lo stesso con
quelli negativi, nella loro assenza di significato, rivelando il loro nulla. La negatività
(male, bruttezza, ecc.) è esclusa dal campo del pensiero, non ha una proprie radici. [273]

Il due-in-uno
Se nel pensare esiste realmente qualcosa che possa impedire agli uomini di fare del
male, deve trattarsi di una proprietà inerente alla attività stessa, indipendentemente dai
suoi oggetti. [274] Due importanti affermazioni socratiche su questo tema sono
contenute nel Gorgia, dialogo composto poco prima che Platone assumesse la guida
della Accademia. Esso presenta il primo dei grandi miti escatologici, la cui serietà è di
ordine puramente politico.
Le due dichiarazioni socratiche positive sono:
(i) «patire un torto è meglio che commetterlo»;
(ii) (ii) «meglio suonare una lira scordata […] piuttosto che, essendo uno, essere in
disarmonia e contraddizione con me stesso».
Callicle prende le dichiarazioni di Socrate per quelle di un pazzo: era proprio la filosofia,
meglio, la esperienza del pensiero a indurre Socrate a tali affermazioni. [275] Socrate
non sta parlando in veste di cittadino, ma da uomo votato al pensiero: si rivolge a
Callicle presupponendo che egli ami la sapienza e sappia che cosa comporta il pensare.
Se il mondo fosse diviso tra deboli e forti – come vuole Callicle – allora sarebbe meglio
subire il torto piuttosto che commetterlo. Democrito, interessato alla attività del
pensiero e molto meno agli affari umani, sostiene qualcosa di simile: «più sventurato di
chi subisce un torto è colui che lo commette». [277] Quando appaio agli altri sono uno,
altrimenti sarei irriconoscibile; finché sto con gli altri, appena cosciente di me stesso,
sono come appaio agli altri: («conoscere con me stesso») è il fatto curioso per cui in un
certo senso con la coscienza sono-per-me stesso, benché non possa dirsi che appaio a
me stesso. Io non sono solo per gli altri, ma anche per me, dunque non sono solo uno.
Nella mia Unità si è insinuata una differenza. [278] Nulla può essere se stesso e nello
stesso tempo per se stesso se non il due-in-uno che Socrate portò alla luce come
essenza del pensiero e che Platone tradusse concettualmente come dialogo senza voce
tra me e me stesso. Per transfert quella identità in sé e per sé è poi proiettata sulle cose. 

Non è tuttavia la attività di pensiero a costituire l’unità, a unificare il due-in-uno: il due-in-
uno diviene Uno non appena richiamato per nome nel mondo delle apparenze -
laddove è sempre Uno – interrompendo il processo di pensiero. Nel pensatore, scisso in
due dal processo di pensiero, quel richiamo chiude di colpo la differenza: , in termini
esistenziali, il pensiero è una occupazione solitaria (solitary), ma non è la occupazione di
un isolato (lonely business): la solitudine (solitude) è quella situazione umana in cui
tengo compagnia a me stesso; la desolazione dell’isolamento (loneliness) si produce
quando sono solo, e desolato è quando non sono in grado di scindermi nel due-in-uno,
di tenere compagnia a me stesso. Nulla indica esistenzialmente con più forza che
l’uomo esiste essenzialmente al plurale del fatto che nel corso della attività di pensiero
la solitudine attualizza la sua semplice coscienza di sé come due-in-uno. È appunto tale
dualità che rende il pensare una attività vera e propria, in cui sono a un tempo colui che
domanda e colui che risponde: in tal modo il pensiero diventa dialettico e critico. [280]
Il criterio del dialogo non è più la verità, che costringerebbe le risposte sia nel modo
della evidenza sensibile, sia nel modo della dimostrazione matematica. L’unico criterio
del pensare socratico è l’accordo, ovvero l’essere coerenti con sé stessi. Il suo opposto,
l’essere in contraddizione con sé stessi, significa trasformarsi nel proprio stesso
avversario: in questo senso il principio di non-contraddizione è un assioma. Esso deriva
dalla esperienza concreta dell’io che pensa, ma quando si traduce in «A non può essere
a un tempo e sotto il medesimo rispetto A e B» l’intuizione, generalizzata in una dottrina
filosofica, è perduta. L’Organon aristotelico non è inteso come «strumento del pensiero»
(cioè del discorso esteriore), ma come scienza del parlare e dell’argomentare corretti.
[281] La coscienza non è la stessa cosa del pensiero; gli atti della coscienza hanno in
comune con la esperienza sensibile il fatto di essere atti intenzionali e quindi cognitivi,
mentre l’io che pensa non pensa a qualcosa ma su qualcosa, e tale atto è dialettico,
procede nella forma di un dialogo silenzioso. [282] Per Socrate, la dualità del due-in-uno
significava solo che, se si vuole pensare, si deve badare che gli interlocutori siano in
buoni rapporti, che i partners siano amici: il partner che appare quando sei solo è
l’unico da cui non puoi separarti se non cessando di pensare (questa considerazione fa
da sfondo all’imperativo categorico kantiano). [283] Ciò che Socrate ha scoperto è che
possiamo avere rapporti con noi stessi non meno che con gli altri e che i due tipi di
rapporto sono in un certo senso connessi. Aristotele sottolinea che «l’amico è come un
altro se stesso»: puoi condurre, cioè, con lui il dialogo del pensiero proprio come con te
stesso. Socrate avrebbe aggiunto che anche l’io, questo «se stesso», è a sua volta una
sorta di amico. Meglio essere in disaccordo con il mondo intero piuttosto che con
l’unica persona con la quale si è costretti a convivere dopo aver abbandonato la
compagnia degli altri. [284] Il pensiero, nel suo senso non cognitivo, come bisogno
naturale della vita umana, come attualizzazione della differenza che si dà nella
coscienza, costituisce una facoltà costantemente presente in ognuno di noi. 

La incapacità di pensare è una possibilità permanente per chiunque. Il pensiero è
tutt’uno con la vita, è la quintessenza immateriale della vitalità; siccome la vita è
processo, la sua quintessenza può risiedere solo nell’effettivo processo del pensare, non
in un risultato. Una vita senza pensiero non è affatto impossibile: in tal caso essa non
sviluppa a pieno la propria essenza. [286]
Il pensiero come tale è di scarso profitto per la società, pensiero inferiore a quello
prodotto dalla sete di conoscenza; non crea valori, né scopre una volta per tutte che
cosa sia «il bene», né avvalora ma dissolve le regole di condotta. Non possiede alcuna
rilevanza politica, a meno che non insorgano particolari situazioni di emergenza. [287]
Quando tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che tutti gli altri credono e
fanno, coloro che pensano sono tratti fuori dal loro nascondiglio perché il loro rifiuto di
unirsi alla maggioranza è appariscente, e si converte per ciò stesso in una sorta di
azione.
In simili situazioni di emergenza la componente catartica del pensare si rivela
implicitamente politica: la maieutica di Socrate, si tratti di valori, di dottrine, di teorie,
persino di convinzioni, porta in luce le implicazioni delle opinioni irriflesse e lasciate
senza esame, e le distrugge.
Tale distruzione, infatti, ha un effetto liberatorio su un’altra facoltà, la facoltà di giudizio,
che non senza ragione si potrebbe definire la più politica fra le attitudini spirituali
dell’uomo. Si tratta della facoltà che giudica i particolari senza sussumerli sotto quelle
regole generali che si possono insegnare e apprendere finché non si convertano in
abitudini, sostituibili da altre abitudini e altre regole. [288] La facoltà di giudicare (giusto
e sbagliato, bello e brutto) è diversa da quella di pensare: il pensiero ha a che fare con
l’invisibile, con le rappresentazioni di cose che sono assenti; il giudicare concerne
sempre particolari nelle vicinanze. Ma le due attività sono in relazione reciproca: se il
pensare – il due-in-uno del dialogo senza voce – attualizza la differenza interna alla
nostra identità qual è data all’esser coscienti (consciousness) e con ciò sfocia nella
coscienza etica (conscience) come suo sottoprodotto, «il giudicare […] realizza il
pensiero, rende manifesto il pensiero nel mondo della apparenze, là dove non sono
mai solo e sono sempre troppo indaffarato; quando non esistono le circostanze in
grado di pensare. La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è
l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto. Il che, forse, nei rari momenti
in cui ogni posta è in gioco, è realmente in grado di impedire le catastrofi, almeno per il
proprio sé]. [288-9]

Capitolo quarto: Dove siamo quando pensiamo?

Tantôt je pense, tantôt je suis (Valery): il non-luogo
Pensare è sempre «fuori dell’ordine», interrompe tutte le attività ordinarie e ne è
interrotto (esempio di Socrate immerso nei suoi pensieri e isolato da ogni compagnia).
[291] Le manifestazioni delle esperienze autentiche dell’io che pensa sono molteplici:
tra queste le fallacie metafisiche come la teoria dei «due mondi», e le descrizioni
preteoriche del pensare come una sorta di morte, ovvero l’idea che nell’atto di pensare
siamo membri di un altro mondo (Aristotele: bios theorētikos come bios xenikos, vita di
uno straniero). L’io che pensa non sarà mai in grado di attingere la realtà in quanto
realtà, né di convincersi che qualcosa esista realmente. [292] La intensità della
esperienza di pensiero è così forte che possiamo rovesciare la opposizione tra pensiero
e realtà, in modo che solo il pensiero sembri reale e tutto ciò che è sembri solo
transitorio. La idea che tutto ciò che è possa essere solo sogno è tanto incubo che nasce
dalla esperienza del pensiero quanto pensiero consolatorio che si invoca quando il
mondo si sia ritratto da noi, divenendo irreale. Tutte le stranezze dell’attività di pensiero
hanno a che fare con il ritrarsi: il pensiero è sempre impegnato con cose assenti e si
allontana da ciò che è presente e vicino. Ciò significa che la realtà e la esperienza -
concepibili solo in termini spazio-temporali – possono essere temporaneamente
sospese. Durante l’attività di pensiero sono significanti solo i distillati, i prodotti della de-
sensibilizzazione, che non sono meri concetti astratti: un tempo li si chiamava
«essenze». Con esse, che non possono essere localizzate, il pensiero abbandona il
mondo del particolare e muove alla ricerca di qualcosa che sia munito di significato,
benché non necessariamente universalmente valido. Il pensiero generalizza sempre,
spreme dalla molteplicità dei particolari ogni significato che sia loro inerente. [293]
L’«essenziale» è ciò che è applicabile ovunque, e questo «ovunque», che fornisce al
pensiero il suo peso specifico, è, in termini spaziali, un «non-luogo». Muovendosi tra gli
universali, tra essenze invisibili, l’io che pensa è in nessun luogo, senza patria. Nel
Protreptikos il bios theōrētikos viene celebrato perché non ha bisogno per la sua pratica
«né di strumenti, né di luoghi speciali; in qualunque luogo sulla terra uno si dedichi al
pensare, ovunque sarà a contatto con la verità come se essa fosse presente». I filosofi
amano questo non-luogo come se fosse il loro paese natio. La causa di questa
indipendenza consiste nel fatto che la filosofia (il conoscere kata logou) non si occupa di
particolari, di cose date ai sensi, ma di universali (kath’holou), di cose che non possono
essere localizzate. [294]


La lacuna tra passato e futuro: il «nunc stans»
Parabola di Kafka: passato e futuro si scontrano violentamente nell’Adesso.
Nietzsche: La visione e l’enigma. [298] Interpretazione heideggeriana: la visione è solo
di colui che si sofferma sulla porta carraia; per lo spettatore il tempo continua a scorrere
come siamo soliti pensarlo. «Lo scontro si produce solo per colui che è egli stesso
l’attimo». Chiunque stia nell’Adesso è rivolto in entrambe le direzioni: per lui Passato e
Futuro corrono l’uno contro l’altro. Per Heidegger il contenuto autentico della dottrina
dell’eterno ritorno è proprio che l’eternità è nell’Adesso, che l’attimo non è quel futile
Adesso che è agli occhi dello spettatore, ma lo scontro di Passato e Futuro. [299] La
parabola del tempo di Kafka non si applica all’uomo immerso nelle sue occupazioni
quotidiane, ma esclusivamente all’io che pensa, in quanto si sia ritirato dagli affari della
vita di tutti i giorni. La lacuna tra passato e futuro si spalanca solo nella riflessione, il cui
oggetto è costituito da ciò che è assente, da ciò che è scomparso o non ancora
comparso. L’attività del pensiero può essere in questo senso compresa come lotta
contro il tempo: in quanto si pensa, non si è sorretti dalla continuità della vita quotidiana
in un mondo di apparenze, il passato e il futuro si manifestano come pure entità: ci si
può rendere consapevoli di un non-più che incalza in avanti, di un non-ancora che
respinge indietro. [300] Ciò che l’io che pensa avverte come suo duplice avversario è il
tempo stesso, con il mutamente ininterrotto che implica, e che trasforma ogni Essere in
Divenire invece di lasciarlo essere, così distruggendo incessantemente la presenza del
suo presente. Il tempo costituisce il maggior nemico dell’io pensante poiché interrompe
regolarmente e inesorabilmente quella quiete immobile della mente.
Il significato ultimo della parabola emerge allorché «Egli», situato nella lacuna temporale
di un presente senza mutamento, un nunc stans, è uscito dalla linea di combattimento e
promosso alla posizione di arbitro, spettatore e giudice fuori dal gioco della vita, al
quale può riferirsi il significato di questo arco di tempo tra la nascita e la morte poiché
«egli» non vi è coinvolto. [301] Il luogo del tempo dell’io che pensa sarebbe ciò che è
«tra» il passato e il futuro, il presente, questo adesso misterioso, un puro vuoto del
tempo verso cui sono diretti i tempi più consistenti del passato e del futuro. Se essi
sono, si deve all’uomo che si è inserito tra loro e ha stabilito qui la sua presenza. [302-3]
Immaginando un parallelogramma di forze, la diagonale risultante scaturirebbe dal
punto di incontro tra passato e futuro, le forze antagoniste, che non hanno inizio ma un
termine ultimo nel punto in cui si incontrano: la risultante ha invece una origine
determinata, una direzione determinata dal passato e dal futuro, ma è indeterminata
quanto al suo termine ultimo, rappresenta secondo la Arendt la metafora perfettamente
adeguata alla attività del pensiero. [303-4]Un particolare presente troviamo il nostro
luogo temporale quando pensiamo, cioè quando siamo sufficientemente discosti da
passato e futuro per confidare di penetrarne il significato, di assumere la posizione di
«arbitro» e giudice sopra le vicende della esistenza umana, senza mai giungere a una
soluzione definitiva dei loro enigmi, ma pronti a fornire risposte sempre nuove alla
domanda di senso di tutto ciò. 

Di tale lacuna abbiamo sentito parlare la prima volta come nunc stans nella filosofia
medievale, dove, nella forma di nunc aeternitatis, fungeva da modello e da metafora
della eternità divina. [304] Con una diversa metafora, la si può chiamare una regione
dello spirito ovvero una via tracciata dal pensiero – il piccolo sentiero non appariscente
del non-tempo percorso dalla attività di pensiero nello spazio-tempo dato agli uomini
che nascono e muoiono. Ogni nuovo essere umano, appena acquisti coscienza di
trovarsi inserito tra un passato e un futuro infiniti, deve riscoprire e tracciare
faticosamente ex novo la via del cammino del pensiero. La singolare sopravvivenza delle
grandi opere, del loro perdurare nei millenni si debba al fatto di aver avuto origine nel
piccolo, discreto sentiero del non tempo, che il pensiero dei loro autori aveva seguito
tra un passato e un futuro infiniti: avvertendo passato e futuro come puntati verso di
loro, come il loro passato e il loro futuro, gli uomini creano così a sé stessi un presente in
cui possono creare opere senza tempo, superando la loro finitudine. Questa assenza di
tempo non si identifica con la eternità (concetto limite e impensabile della
frantumazione di ogni dimensione temporale), ma si sprigiona dallo scontro di passato
e futuro: si tratta della «terra dell’intelletto puro» di cui parla Kant. [305]


Postscriptum
Il resto dell’opera tratterà delle altre due attività spirituali, volontà e del giudizio: dal punto di
vista della speculazione sul tempo, esse concernono cose che sono assenti o perché non sono
ancora o perché non sono più. A differenza della attività di pensiero che in ogni esperienza
frequenta ciò che è invisibile, tende sempre a generalizzare, esse hanno sempre a che fare con
ciò che è particolare, e in questo senso sono molto più prossime al mondo delle apparenze. Per
riconciliarsi con il senso comune, offeso dal bisogno della ragione di perseguire la ricerca di
significato, si è tentati di giustificare tale bisogno come indispensabile preparativo per decidere
ciò che sarà o valutare ciò che non è più. Siccome poi il passato, essendo passato, si rende
soggetto al nostro giudizio, il giudizio costituirebbe, a sua volta, un semplice preparativo per il
volere. Questo tentativo estremo di difendere la utilità pratica della attività del pensiero non
funziona: la decisione cui perviene la volontà non si può far derivare dal meccanismo del
desiderio o da precedenti deliberazioni dell’intelletto. O la volontà è l’organo della libera
spontaneità che spezza tutte le concatenazioni causali di motivazione o non è altro che illusione.
[308] Analisi della volontà – facoltà sconosciuta ai Greci e dunque «scoperta», coincidendo con
la scoperta della «interiorità» - nella prospettiva della sua storia. Volontà facoltà paradossale e
contraddittoria: esperienza e scoperta originaria della impotenza della volontà (Paolo) e del
conflitto della mente, in quanto volontà, con se stessa, dell’«io profondo» dell’uomo con se
stesso. Nel mondo moderno affermazione della idea di progresso e sostituzione dell’antico
primato filosofico del presente sugli altri tempi con il primato del futuro. [309] Attenzione anche
alla Volontà come facoltà interiore grazie a cui gli uomini decidono «chi» saranno, con quali
fattezze mostrarsi nel mondo delle apparenze. La volontà non ha a che fare con oggetti ma con
progetti, crea in un certo senso la persona, ritenuta responsabile del suo Essere: marxismo e
esistenzialismo pretendono che l’uomo sia produttore e artefice di se stesso. Si tratta della
estrema fallacia metafisica corrispondente alla enfasi che la modernità ha posto sulal volontà
come sostituto del pensiero. [309-10] L’ultima parte dell’opera tratterà del giudizio, per il quale
c’è carenza di testimonianze autorevoli fino a Kant. Il presupposto per isolare il giudizio è che
questa facoltà della mente non opera attraverso le comuni operazioni logiche – deduzione o
induzione. Si tratta di un «senso silenzioso» che Kant pensava come «gusto», afferente cioè alla
sfera estetica. In termini etici lo si indica come «coscienza» (conscience). In Kant è un talento che
non si può insegnare ma solo esercitare. Il giudizio ha a che fare con ciò che è particolare: non
appena l’io che pensa, che si muove tra generalizzazioni, riemerge dal suo ritiro e fa ritorno al
mondo delle apparenze particolari, ecco che, per affrontarle, ha bisogno di un nuovo «dono».
[310] In Kant è la ragione con le sue idee regolatrici a venire in aiuto del giudizio: ma se si tratta
di facoltà distinta dalle altre, le si dovrà attribuire un autonomo modus operandi. Ciò non è
senza importanza per il problema moderno del nesso teoria-pratica. Dopo Hegel e Marx tale
questione è stata affrontata nella prospettiva della Storia e nella supposizione che l’idea del
Progresso del genere umano sia effettivamente una realtà. Ci si trova in ultimo con una
alternativa: o affermare con Hegel che «la storia del mondo è il giudizio sul mondo», lasciando
che sia il Successo ultimo a giudicare, ovvero sostenere con Kant la autonomia della mente
umana e la indipendenza virtuale dalle cose così come sono divenute. [311] A questo punto sarà
necessario occuparsi del concetto di storia. Il termine di origine greca deriva da historein,
indagare per dire «come fu» (Erodoto, legein ta onta): in Omero histor è il giudice. Se il giudizio
è la facoltà che in noi si occupa del passato, lo storico è l’indagatore curioso che, raccontandolo,
siede in giudizio sopra di esso. In questo caso sarà possibile riscattare la nostra dignità umana
strappandola alla pseudodivinità della epoca moderna chiamata Storia, negando il suo diritto a
costituirsi giudice ultimo: «Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni». [311-2] 

Peter Sloterdijk

Biografia

Peter Sloterdijk (Karlsruhe, 26 giugno 1947) è un filosofo
e saggista tedesco, professore di filosofia ed estetica alla
Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe, di cui è pure rettore
dal 2001. Insegna anche all'Accademia di Belle Arti di Vienna.
Dal 1968 al 1974 Sloterdijk studia filosofia, germanistica e storia all'Università di
Monaco. Nel 1975 consegue il dottorato all'Università di Amburgo con una tesi sulla
filosofia e la storia dell'autobiografia. In seguito intraprende con successo la carriera di
saggista, cui si aggiunge, dal 1992, l'insegnamento universitario a Karlsruhe e a Vienna.
Il suo primo saggio filosofico, "Critica della ragion cinica", pubblicato nel 1983, batte il
record di vendite per un libro di filosofia scritto in tedesco e verrà tradotto in trentadue
lingue. L'opera è salutata da Jürgen Habermas, che la considera come «l'avvenimento
più importante dal 1945». Sloterdijk riceve il premio letterario Ernst-Robert-Curtius nel
1993 e accresce la sua già grande importanza insegnando nelle città, tra le altre, di
Parigi, Zurigo e New York.
A partire dal 1998, Sloterdijk comincia la sua trilogia "Sfere", che fa di lui un
personaggio riconosciuto nel mondo delle lettere tedesco. Si aggiungono a questo
straordinarie capacità pedagogiche e una chiarezza tale dal permettergli di animare, dal
2002, in collaborazione con Rüdiger Safranski, il programma televisivo Im Glashaus. Das
Philosophische Quartett ("Nella casa di vetro. Il quartetto filosofico"), lo show filosofico-
letterario della rete tedesca ZDF dedicato alla discussione delle questioni chiave che
investono la società contemporanea. Nel 2001 è nominato rettore (Rektor)
dell'Accademia di Arte e Media (Hochschule für Gestaltung o HfG) di Karlsruhe. Nel
2005 si vede conferire la cattedra Emmanuel Lévinas a Strasburgo per due semestri. Lo
stesso anno, Sloterdijk denuncia il “no” della Francia alla costituzione europea. In Ira e
tempo intraprende una riflessione sulla politica a partire dalle sue espressioni di collera.
L'ira diventa il motore della politica. Dopo Nietzsche e Heidegger, Sloterdijk considera il
tempo politico come un vettore di collera e risentimento.
Nel settembre 1999 Sloterdijk pubblica una conferenza intitolata “Regole per il
parco umano. Una lettera di risposta alla Lettera sull'Umanismo di Heidegger” sul
settimanale Die Zeit. Questo intervento viene male interpretato e genera uno scandalo
molto mediatizzato. Il filosofo vi propone una riflessione sull'umanismo, la genetica e i
problemi posti da ciò che lui chiama l'“addomesticazione dell'essere umano”. L'uso
della parola «Selektion» (carico di connotazioni, in Germania, che rimandano al nazismo)
nel suo testo gli procura severe critiche (soprattutto da Jürgen Habermas) e la messa in
questione della sua stessa notorietà e autorevolezza. Il termine viene impiegato due
volte nell'intervento, nel contesto della “selezione natale” e poi messo in parallelo con la
parola «Lektion» (lezione), in analogia con «Auslesen» (la “scelta” dell'antologia). La
controversia è ugualmente proseguita in Francia, dove Sloterdijk riceve l'appoggio, in
particolare, del suo traduttore Olivier Mannoni, di Bruno Latour, Éric Alliez, Jean
Baudrillard e Régis Debray.
Influenzato da Friedrich Nietzsche e dai suoi interpreti francesi (Gilles Deleuze e
Michel Foucault), dopo la "filosofia della contestazione" della Critica della ragione cinica
(1983) si è occupato, con un approccio antiumanistico, di psicologia e filosofia politica.
Sloterdijk intende il postmoderno come la posizione di chi combatte il totalitarismo
della metafisica classica occidentale, la cui storia è da intendersi come un processo di
globalizzazione. Perciò, più che fenomeno contemporaneo, la globalizzazione si
identifica con la modernità, cioè con l'epoca in cui la follia di espansione globale
diventa ragione di profitto.
La filosofia di Sloterdijk rompe l'equilibrio tra il solido accademismo di un professore
scolastico e un certo senso di anti-accademismo (testimone del suo interesse sempre in
corso per le idee di Osho, del quale divenne discepolo negli anni settanta). Nonostante
le critiche che alcuni lati del suo pensiero hanno provocato, lui rifiuta di essere
classificato un "pensatore polemico", descrivendo se stesso invece come “iperbolico”.
Le sue idee rifiutano l'esistenza dei dualismi (come corpo e anima, soggetto e oggetto,
cultura e natura, etc.) a partire dalla loro interazione, cioè come “spazi di coesistenza”, e
progressi tecnici che creano una realtà ibrida. Così Sloterdijk, che sta provando a
sviluppare un nuovo umanismo spesso chiamato postumanesimo, cerca di unire diverse
componenti che sono state, secondo lui, erroneamente considerate separate l'una dalle
altre. Questa ricerca lo ha condotto a proporre la creazione di una “costituzione
ontologica” che vuole incorporare tutti gli esseri – umani, animali, vegetali, e macchine.


Cronologia delle opere

Critica della ragion cinica.
L'ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione.
Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger.
Terrore nell'aria.
Derrida egizio.
Ira e tempo. Saggio politico-psicologico.
Il furore di Dio. Sul conflitto dei tre monoteismi.
Sfere / Bolle vol. 1.
Devi cambiare la tua vita.
Caratteri filosofici. Da Platone a Foucault.
Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio.
La mano che prende e la mano che dà.
Stress e libertà.
"Crescita o extraprofitto. Appunti per una nuova concezione dell'idea europea di vita".

Sloterdijk e la critica dell'umanismo

Peter Sloterdijk, nel discorso Regole per il parco umano che tanto scalpore suscitò
nel mondo tedesco e francese, partiva dall’accusa mossa a Heidegger di non tenere in
nes- sun conto la venuta al mondo dell’uomo e di far cominciare la sua storia dallo stare
nella Lichtung. Per Heidegger lo stare dell’uomo nella Lichtung sarebbe un evento di
linguaggio, senza il quale non ci sarebbero né uomo né mondo, ma soltanto degli
animali chiusi nel loro cerchio ambientale e incapaci di staccarsi dalla struttura stimolo-
risposta, o ancora, ci sa- rebbe solo il modo d’essere, statico e passivo, dell’essere senza
mondo di pietre e cose. Per Sloterdijk bisognerebbe riscrivere una storia dell’umanità
dal punto di vista paleoantropo- logico, a partire dalla tecnica dei mezzi duri, dalla
tecnica della pietra, come prima tappa di un percorso che porta dall’animale all’uomo,
tappa questa che Heidegger avrebbe risoluta- mente ignorato, e che per Sloterdijk
invece è primaria e solo in un secondo tempo porta alla costruzione di spazi abitativi,
alla teoria, al linguaggio, al pensiero, alla costruzione di spazi di incubazione del sociale.

«Il soggiornare dell’uomo nella Lichtung, heideggerianamente detto lo stare-in o l’essere
contenuto dell’uomo nella Lichtung dell’essere, non è affatto un rapporto ontologico
originario, inaccessibile a un’ulteriore interrogazione. Vi è una storia, risolutamente
ignorata da Heidegger, dell’entrare dell’uomo nella Lichtung, vi è una storia sociale di
come la questione dell’essere implichi l’uomo, e vi è un movimento storico nello
spalancarsi della differenza ontologica» (Regole per il parco umano)

Il prima e il dopo però qui in realtà sono relativi solo al modo di concepire e di guardare
all’evoluzione umana a partire dalla situazione in cui siamo; in real- tà dire che l’uomo è
prima un lanciatore di pietre equivarrebbe a rivendicare la parte animale dell’uomo
misconosciuta da un Heidegger che parte dal fatto umano della Lichtung e dalla mano
come opposta alla zampa animale

«Perciò è legittimo prendere in considerazione anche una storia della Lichtung a partire
“dal basso”»

Così Sloterdijk quando afferma che «la Lichtungè un’opera di pietre che si adattano
ad altre pietre, a mani che stanno nascendo e a cose che si possono lavorare o colpire. Il
fare centro è la forma primitiva della frase. Il lancio riuscito è la prima sintesi di soggetto
(pietra), copula (azione) e oggetto (animale o nemico). Il taglio penetrante prefigura il
giudizio analitico», sta affermando che si tratterebbe di raccontare «una storia della
Lichtung a partire dal basso» e che «il compito del pensiero sembra essere dunque
quello di osservare l’essere vivente nel passaggio dall’ambiente all’estasi del mondo, e
quello di dare testimonianza di questo evento, retroattivamente, con l’aiuto del
ricostruzionismo fantastico» .

Il compito del pensiero che Sloterdijk si assume è dunque quello di rendere
testimonianza di un evento, un evento che ci costituisce in quanto uomini, senza
incorrere negli errori de- gli antropologi che presuppongono già quell’uomo che poi
vanno a cercare negli stadi evo- lutivi dall’animale all’uomo.

«La ricerca sull’uomo e sulle sue condizioni di possibilità storiche deve muoversi in
circolo in modo tale che il punto di partenza, la nostra estasi esistenziale nel nostro
tempo, o la nostra appartenenza all’evento, il fatto che questa apertura ci riguardi, venga
di nuovo raggiunta e mai abbandonata, senza cioè che “l’uomo” – come si usa tra gli
evoluzionisti – venga già presupposto e poi derivato apparentemente in senso
evolutivo»

Il problema cui ci mette di fronte Sloterdijk è dunque quello di come tenere conto di ciò
che già siamo e come, partendo da un’idea del fatto umano che «non è mai assunto a
un livello meno elevato di quello che gli attribuisce Heidegger, quando parla della
Lichtung dell’essere», rendere testimonianza di ciò che siamo, di ciò che l’uomo è. La
storia dell’ominazione allora non potrà che essere un racconto fantastico nella forma di
una nuova antropologia.
Sembra, abbiamo detto, che Sloterdijk prediliga la tecnica dura rispetto alla leggerezza
delle parole e del pensiero, e sembra anche che voglia dedicarsi al progetto ambizioso
di scri- vere una nuova antropologia non curandosi delle critiche dei filosofi che gli
rimproverano di pervertire così il significato dell’ontologia heideggeriana: sostiene
infatti che non bisogna «lasciarsi fuorviare dalle affermazioni sdegnose degli
heideggeriani giurati, secondo i quali in questo modo si abuserebbe del ‘mero ontico’
per determinare l’ontologico». L’accusa mossa a Sloterdijk sarebbe dunque quella di
pervertire l’ontologia in una antropologia (che attribuisce a Sloterdijk il tentativo di
sostituire l’ontologia di Heidegger con un’ontologia del concreto, mentre l’ontologia di
Heidegger serve a Sloterdijk, come dice lui stesso, da «guida per il procedere del
pensiero antropologico), cosa che Heidegger aveva già prontamente condannato in
molti suoi contemporanei, dimentichi a suo dire della differenza ontologica10. Sembra
però anche che per Sloterdijk non si tratti af- fatto di sostituire al discorso di Heidegger
quello di un’antropologia, seppure un’ontoantropologia, che renda giustizia dei
prodromi tecnici che portano alla costruzione di quei mondi
intermedi, le sfere sociali, che permettono all’uomo di isolarsi dall’ambiente esterno,
pro-teggendolo da intemperie ed eventi avversi, e quindi di lussureggiare, cioè,
potremmo dire, di avere tempo libero da dedicare al pensiero, alla poesia e alla
meditazione dell’essere. Non si tratterebbe dunque di costruire un’ontologia della
nascita, del luogo natale e delle sfere, un’ontoantropologia che ci spieghi come arrivare
«alla stazione centrale della Lichtung» . «È difficile supporre che ci sia un mondo aperto
e istituito per l’uomo, come se dovessimo soltanto aspettare che una protoscimmia
faccia lo sforzo di arrivarci, come se stesse arrivando alla stazione centrale della
Lichtung. La difficoltà, fin dall’inizio, risiede nella preumanità e nella premondanità
autentiche, anche se “autentiche” in un modo fantastico. Dobbiamo cominciare da
questa difficoltà, dichiarando già dall’inizio che il nostro scopo è quello di giungere al
risultato delle culture sapiens dispiegate, e delle soggettività sapiens di tipo storico, già
costituite, estatiche e formatrici di mondo: in questo modo il fatto umano non può
venire assunto per un solo momento a un livello meno elevato di quello che gli
attribuisce Heidegger, quando parla della Lichtung dell’essere» (P. Sloterdijk, La
domesticazione dell’essere, cit., pp. 123-124)


Queste sono tutte cose che “effettivamente” (e provocatoriamente) Sloterdijk
sembra affermare anche in un libro-intervista del 2003.
Per quanto mi riguarda ho il progetto ambizioso di riformulare l’antropologia filosofica
di Ples-sner, Gehlen, Freud, etc. nei termini di un’antropologia del lusso. Vorrei mostrare
che la naturapropria dell’uomo non è né la mancanza, come dicono Gehlen e Lacan, né
la posizione eccentri-ca, come ci insegna Plessner, ma l’abbondanza. L’ambiguità
dell’uomo deriva giustamente dal fatto che siamo delle creature del lusso, eternamente
viziate dalle nostre mamme!

Ma fino a che punto dobbiamo prendere sul serio, alla lettera, quello che ci dice Sloter-
dijk? Non dobbiamo prima fare attenzione alla cornice, al tipo di attenzione che
Sloterdijk stesso ci dice di riservare all’«epopea» (termine suo), della venuta alla
Lichtung dell’uomo?All’inizio del pamphlet su La domesticazione ci aveva avvertito che
la cornice del discor-so entro cui sta parlando è quella di una fantasia filosofica: «Ci
tengo a presentare queste riflessioni come appartenenti al genere, un po’ irregolare,
della ‘fantasia filosofica’», e sottolinea che la sua è «una meditazione che vuole essere
filosofica» .

La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung5  

Nicht gerettet. Versuche über Heidegger, 2001.




La proposta di Sloterdijk, provocatoria ma chiarificante al tempo stesso, è quella di
una interpretazione antropologico-filosofica, come già evidenziato sopra, del pensiero
dell’essere di Heidegger. E tale proposta interpretativa trova nell’ampio saggio in
questione forse il suo punto di partenza o comunque uno dei luoghi in cui meglio e più
chiaramente è esposta. Pensando Heidegger contro Heidegger, come lui si esprime, si
tratta di capire che cosa abbia dato inizio al fenomeno umano e alla relazione tra
essere e uomo. Se Heidegger parla della Lichtung dell’essere, della apertura, della
radura dell’essere in cui l’uomo soggiorna, allora si tratta di pensare “come l’uomo sia
giunto alla Lichtung o come la Lichtung sia giunta all’uomo. Dovremmo sapere come
venne prodotto il lampo, nella cui luce il mondo ha potuto illuminarsi come mondo”
Sloterdijk parte dalla necessità di quel che chiama il “circolo antropotecnico”. Per
comprendere la “condizione umana”, egli afferma, non si deve presupporre l’uomo, ma
è al contempo necessario avere come prospettiva la comprensione dell’uomo nello
stato attuale di civilizzazione. A nulla vale elaborare una teoria antropologica se questa
poi non chiarifica la condizione attuale del fenomeno umano.
La sua tesi principale è che l’uomo sia un prodotto della Lichtung. Ma che cos’è la
Lichtung?
Per rispondere a tale domanda, secondo Sloterdijk bisogna comprendere il
processo di de-animalizzazione dell’animale che ha avuto come conseguenza la
comparsa dell’uomo. Mentre l’animale si muove e vive nel suo ambiente (Umwelt) –
come è noto a partire da von Uexküll – il proprium dell’uomo è quello di distanziarsi/
uscire dall’ambiente per “irrompere nella dimensione ontologica priva di gabbia” (p.
128) che tradizionalmente chiamiamo “mondo”. Solo l’uomo, continua Sloterdijk,
spezzando la gabbia dell’ambiente “viene al mondo”. Ed è proprio una teoria del “venire
al mondo”, una teoria spaziale-orizzontale dell’evento del mondo e dell’evento
dell’umano, quella che deve sostituire, o quanto meno integrare, la teoria della caduta
verticale nell’esistenza preferita dallo Heidegger di Essere e tempo.
Per Sloterdijk, l’uomo è un prodotto, naturalmente aperto ad ulteriori modificazioni, di
meccanismi antropogenici pre-umani e non-umani (p. 132).
Nella Lettera sull’umanismo, Heidegger, andando al di là della sua preferenza per la
relazione tra l’essere e il tempo, ci dà, malgrado lui, le parole-chiave del passaggio
dall’ambiente al mondo: la casa dell’essere, l’esistenza come abitare. A patto da
intendere tali espressioni in senso più concreto, c’è in esse, non esplicitata, una originale
teoria dello spazio umano e dell’entrata in esso. 


5 Esposta di V. Cuomo, qui rielaborata.


Proponendosi di esplicitare tale teoria Sloterdijk introduce il concetto di sfera. La
sfera, egli afferma, è qualcosa di molto vicino al concetto platonico di chora, se inteso,
come ha mostrato Derrida, come “matrice delle dimensioni in generale”. Le sfere sono
“descrivibili come i luoghi della risonanza interanimale e interpersonale, in cui i modi in
cui gli esseri-viventi stanno insieme acquisiscono un potere plastico. […] È all’interno
delle risonanze della sfera che dal muso animale si sviluppò il volto umano” (p. 137).
Esse sono innanzi tutto paragonabili a delle “serre” in cui l’umanità dell’uomo è maturata
e che hanno operato come “aperture mediane” tra “ambiente” e “mondo”, come veri e
propri “agenti di cambio” tra le forme di coesistenza corporeo-animali e quelle
simbolico-umane (vedi p. 138).
Resta da mostrare come queste serre-sfere si siano formate, e come in esse sia potuta
avvenire l’ominazione.Come entrò in gioco l’effetto serra? Riassumendo e interpretando
importanti ricerche paleo-antropologiche (Miller, Gehlen, Alsberg, Bolk, Portmann),
Sloterdijk parla di quattro meccanismi antropo-genici che, agendo sinergicamente,
hanno prodotto la Lichtung e, di conseguenza, l’uomo:

1. Il meccanismo di insulizzazione
2. Il meccanismo di liberazione dai limiti del corporeo
3. Il meccanismo della neotenia
4. il meccanismo della trasposizione.

Il primo meccanismo, quello dell’insulizzazione, trova origine nella storia degli
animali che vivono in comunità e risale fino al mondo delle piante. In base ad esso, tra
gli animali che vivono in branco, quelli che si trovano ai margini producono un effetto di
“parete vivente” che produce protezione (vantaggi climatici, protezione dai predatori…)
per gli animali posti al centro: le madri animali e i loro piccoli. In tal modo si aggirano le
leggi darwiniane del fitness selettivo. Il risultato più importante dell’insulizzazione, scrive
lapidariamente Sloterdijk, “consiste nella trasformazione del piccolo in bambino” (p.
140).

Il secondo meccanismo, quello della liberazione dai limiti corporei, “dipende da
una specifica attivazione della mano” (p. 142) ed è probabilmente sorto con l’uso delle
pietre per colpire e per lanciare. È l’età della pietra che dà forma all’uomo. Attraverso
colpi e lanci e tagli, scrive Sloterdijk, “il preominide produce i primi buchi e strappi
nell’anello dell’ambiente. [...] Come primitivo tecnologo della pietra, come lanciatore e
operatore con strumenti contundenti, il presapiens divenne un praticante del mezzo
duro. Il divenire uomo accadde sotto la protezione delle litotecnica, poiché è con
l’impiego delle pietre per lanciare, colpire e tagliare che entra per la prima volta in
azione il principio della tecnica, e cioè: ciò che ci libera dal contatto corporeo con ciò
che abbiamo intorno” (p. 143).

Ne derivano conseguenze importanti:
a) i confini del lancio diventano i confini di una dimensione che è al di là dell'ambiente;
b) lo sguardo che segue il lancio produce la prima forma di teoria;
c) l’anticipo dei risultati del lancio produce la prima forma di progetto;
d) centrare il colpo, la sensazione di aver colpito il bersaglio è la prima forma di
esperienza della verità.

“In questo senso si può dire – egli scrive – che il risultato dell’età della pietra è consistito
nella conquista di quella distanza dalla natura, che permette l’esplosione dell’anello
dell’ambiente, e va in direzione dell’essere aperto del mondo” (p. 146). Ma c’è dell’altro.
Nel contrasto tra il lancio andato a segno e l’orizzonte “che nessun lancio raggiunge, che
nessun colpo danneggia, che nessun taglio ferisce” (Ivi) - tra il lancio riuscito, e
l'orizzonte sempre mancato, accade per la prima volta la differenza che verrà poi
tematizzata come la differenza ontologica tra essere e ente.
Già l’interazione tra questi due meccanismi può cominciare a spiegare come lo sviluppo
evolutivo umano sia stato di tipo “lussureggiante”, in quanto non ha premiato le capacità
di adattamento ad un ambiente ostile ma ha premiato, al contrario, lo sviluppo delle
capacità di dis-adattamento all’ambiente. Nella serra antropogenica non sopravvive il
più robusto bensì il più avvantaggiato dall’effetto serra (quindi il meno adatto ad
affrontare l’ambiente extra-serra).

Per chiarire ulteriormente questo aspetto dell’antropogenesi, Sloterdijk introduce il
terzo meccanismo, quello della neotenia. La casa dell’essere, la Lichtung, egli scrive,
acquista sin dall’inizio la caratteristica di un “utero esterno predisposto tecnicamente, in
cui i nati, per tutto l’arco della vita, godono dei privilegi dei feti. Di conseguenza gli
esseri-viventi, che un giorno saranno uomini, si riproducono esclusivamente in un vivaio,
che possiamo meglio definire un parco autogeno” (p. 149). La serra antropogenica
avrebbe funzionato, quindi, da incubatrice in cui i piccoli vengono “viziati”,
ritardandone la maturazione. Sorge così il tempo esistenziale che Heidegger avrebbe
chiamato la Sorge, l’aver-cura: “il viziare obbliga ad aver cura e l’aver cura stabilizza la
condizione viziata”, conclude Sloterdijk (p. 152). Gli uomini, prendendo in custodia se
stessi divengono animali-da-cura. In tal modo, “l’uomo lussureggia ontologicamente,
poiché lussureggia fisiologicamente, e lussureggia fisiologicamente perché vive in una
serra che deve essere stabilizzata” (p. 153). Queste serre, che saranno un giorno
chiamate “culture”, sono dei “sistemi della cura di sé”. Nascendo come creature
dell’abitare gli uomini sono instabili e flessibili, ma non privi di essenza: “essi sono
essenzialmente viziati ed essenzialmente disposti a difendere il loro essere viziati con un
impegno estremo” (p. 156). I rischi di tale evoluzione lussuosa, secondo Sloterdijk, sono
essenzialmente quelli legati alla liberazione di impulsi eccessivi che possono giungere
fino alla liberazione di una violenza paranoica, orgiastica e autodistruttiva. Ma qual è
l’origine di tale rischio?

Per la verità su questo punto essenziale il suo discorso appare manchevole, nonostante
un generico rimando a Gehlen. Egli parla della violenza come di un “effetto collaterale”,
come di un rischio legato all’evoluzione lussuosa, e non tratta della questione in quanto
tale, così come non tratta delle relazioni tra la violenza e la morte.
Fatto è che, spiega Sloterdijk, per difendersi dalla violenza– della cui origine non dà
conto – gli uomini hanno prodotto delle procedure di auto-formazione, delle
antropotecniche che compensano ed elaborano la plasticità dell’uomo generata dalle
serre antropogeniche. Resta fermo che le antropotecniche (educazione, allevamento,
disciplinamento) presuppongono un essere umano educabile prodotto da “meccanismi
antropogenici” primitivi e inconsci.

L’ultimo di tali meccanismi, quello della trasposizione, è così spiegato da
Sloterdijk: dato l’elevato grado di insulizzazione, le differenze tra interno ed esterno (di
grado sempre più elevato, man mano che l’evoluzione lussureggiante va avanti) fanno sì
che le irruzioni del mondo circostante siano spesso catastrofiche. Allora lo spazio
interno implode. Per tale ragione scatta un meccanismo simbolico immunologico che
consiste all’inizio nella creazione di religioni riparatorie e di riti di ricomposizione e
rigenerazione.
Anche su questo punto colpisce il fatto che Sloterdijk veda nel rito religioso primitivo e
nel rito in generale solo degli strumenti di acclimatazione all’imprevista e possibile
catastrofe della Lichtung prodotta dal “fuori”, quasi come se fossero unicamente
strumenti di preparazione alla catastrofe, aventi in qualche modo la stessa funzione
dell’angoscia di preparazione di cui parlava Freud. È come se Sloterdijk concepisse il
rito solo come mezzo di riduzione del (possibile) disordine senza prendere in
considerazione il fatto che esso di solito svolga il ruolo di un’istituzionalizzazione del
disordine (si pensi ai riti dionisiaci o anche ai contemporanei rave), che, in quanto tale,
regola e permette il disordine e l’eccesso violento stesso. Da tale punto di vista, quindi,
il rito potrebbe essere pensato (e lo è stato, ad esempio da Bataille) come un’istituzione
paradossalmente “anti-immunologica”.
Ma torniamo al testo, comunque fondamentale, di Sloterdijk. Il meccanismo di
trasposizione, egli rileva, è anche alla base del “divenir adulti” che, in ultima istanza,
consiste nella capacità di assumere come “domestiche” le situazioni di estraniazione e
di pericolo. Il linguaggio come “casa dell’essere” di cui parla Heidegger è, da questo
punto di vista, l’organo generale della trasposizione. La sua funzione è quella di
assimilare l’estraneo al proprio, ma ampliando i limiti del proprio (è questa in fondo la
tesi di Wozu Dichter? di Heidegger, nonostante Sloterdijk non vi si soffermi).

Che cosa sta accadendo ora? Tutto ciò che Slotedijk ha descritto fino a questo
punto risulta all’improvviso un solo grande preambolo all’evento che stiamo vivendo,
cioè la scomparsa della “casa dell’essere”. Il progresso della tecnica non appare più
addomesticabile (né semplicemente “trasponibile”). Cresce l’estensione dell’estraneo e
dell’inabitabile. È ciò che Heidegger ha chiamato l’assenza di patria, la spaesatezza, ma
anche il compimento della metafisica. “Quando Dolly bela lo spirito non è in patria, a
casa, presso di sé” (p. 169). Inoltre le macchine intelligenti attestano che lo spirito è
confutato all’interno delle cose. Sta venendo meno la distinzione metafisica tra natura e
cultura. Per pensare quest’evento, secondo Sloterdijk, c’è bisogno di una nuova logica e
di una nuova ontologia (vedi p. 172 sgg.).
La previsione a cui egli giunge, che è anche una provvisoria conclusione delle sue
argomentazioni, è la seguente: fermo restando che la Lichtung stessa (sfera, cultura) non
è pensabile senza la sua origine tecnogena, “la plasticità umana rimane una realtà
fondamentale e un compito inevitabile” (p. 177). Allora, ciò che può “salvarci” è ancora
la tecnica, quella che è già apparsa, che ha già cominciato ad operare grazie alle
tecnologie intelligenti. È la tecnica che Sloterdijk chiama “omeotecnica”. Essa, in
contrapposizione alla vecchia [allo]tecnica, è descritta come una tecnica capace di
utilizzare le cose senza far violenza ad esse. Tale omeotecnica, che si è annunciata,
sottolinea Sloterdijk, sotto i nomi di ecologia e di teoria della complessità, non è un
dover-essere, ma già una realtà.
Forse potremmo chiosare questa conclusione (provvisoria) di Sloterdijk ricordando il
famoso verso hölderliniano, più volte citato da Heidegger, secondo cui “nel pericolo
cresce anche ciò che salva”. Nella tecnica cresce anche la tecnica che ci salverà?

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