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ERMENEUTICA FILOSOFICA I

Appunti del corso.


4/02/2020
PRIMA PARTE DEL CORSO:
Ha come obiettivo quello di fornire un quadro di quella che è l’ermeneutica filosofica oggi.

SECONDA PARTE DEL CORSO:


Consiste in una sorta di zoomata sulle parole della poesia e in particolare sulla relazione tra l’ermeneutica
filosofica e le parole della poesia.
Alla relazione tra filosofia e poesia hanno fatto riferimento diversi filosofi, tra i più importanti:
- Nietzsche: che si rivolge all’età tragica dei greci ritenendola poeticamente rilevante; di fatti Dioniso è
anima poetica;
- Heidegger: che pone l’attenzione nei confronti della parola poetica in generale;
- E. Severino: che pone l’attenzione sulla poesia di Leopardi, per quanto riguarda i moderni, e sull’età
tragica dei greci, in particolare di Eschilo.
I modi in cui questo si rivolgono alla parola dei poeti è largamente differente tanto che l’uno rispetto all’altro
sono talvolta incompatibili.
Altri due autori di cui bisogna tenere conto sono due premi Nobel per la letteratura:
- Eugenio Montale (1980)
- Luigi Pirandello (1936)
- Bob Dylan
EMANUELE SEVERINO
Emanuele Severino considera Leopardi uno dei vertici della filosofia contemporanea, cioè del nichilismo.
Cosa vuol dire che la filosofia contemporanea è nichilismo?
Cosa vuol dire che l’intera storia della filosofia, dal punto di vista di Severino è nichilismo?

Il primo scritto che Severino ha pubblicato era dedicato proprio alla filosofia di Leopardi, dopodiché a
Leopardi sono stati dedicati due ampi volumi, il primo dei quali è “Il nulla e la poesia”, il cui sottotitolo è
“Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi”.

Che cosa ha a che fare la poesia con l’età della tecnica e con il nulla, cioè con il nichilismo?

Severino, come Nietzsche, si rivolge anche alla poesia dei tragici e assolutamente speculare rispetto al libro
“Il nulla e la poesia” dedicato a Leopardi è il libro che Severino ha dedicato a Eschilo: “Il giogo”, il cui
sottotitolo è “Alle origini della ragione: Eschilo”.

Alle origini della ragione occidentale e alla fine dell’età della tecnica, cioè del nichilismo, per Severino ci
sono due poeti.

In modo preliminare, la filosofia ha molto di più che un contatto sporadico con la poesia: per Severino, il
primo filosofo è Eschilo e l’ultimo filosofo è Leopardi.

Antonio Preti ha intitolato Il suo principale libro su Leopardi "Il pensiero poetante", sottolineando nel titolo
che non c'è modo, nel caso di Leopardi, di scindere poesia e pensiero filosofico, nichilistico.
Severino ha poi dedicato un secondo volume a Leopardi ancora più ampio e articolato del precedente
intitolato "Lenta Ginestra" che è un'opera sull'ontologia di Leopardi.

Una delle qualità di Severino era quella di essere tutt'uno con il discorso filosofico che andava proponendo
nei suoi scritti.
"Ho pensato a tutto il mio libro e devo solo scriverlo", in questa affermazione non c'è ombra di ironia. Ciò
che contava era il poterlo pensare e il poter pensare al contenuto del libro faceva un tutt'uno con la sua
esistenza e la sua vicenda biografica.

Si può fare un ulteriore considerazione rispetto alla filosofia di Severino e all'ermeneutica filosofica: nel
volume che Severino ha dedicato alla storia della filosofia contemporanea, non ha dedicato alcun capitolo
all'ermeneutica.
E' curioso che nel volume più ampio dei tre che Severino ha scritto sulla storia della filosofia non ci sia un
capitolo specificamente dedicato alla ermeneutica, a quella che comunemente è considerata l'asse portante e
l'ambito generale dell'intera filosofia contemporanea. L'ermeneutica non è un incidente, l'ermeneutica è
considerata come la filosofia contemporanea stessa.

Se ci sono le cose in sé, allora non c'è nulla da interpretare: guardo il mondo e il mondo si rispecchia nella
mia mente esattamente così com'è e semmai ho da comprendere com'è fatto il mondo, come sono fatte le
cose, che relazioni intercorrono tra una cosa e l'altra, quali sono le leggi naturali che le regolano, ma non c'è
nulla da interpretare.

Qui dunque, bisogna porre una prima domanda: ci sono davvero i fatti?
Bisogna citare l'espressione di Nietzsche 'i fatti non ci sono e ci sono solo le interpretazioni'. Contro la
posizione positivistica del mondo, Nietzsche mette in guardia affermando che i fatti, appunto, non ci sono, ci
sono solo le interpretazioni, ma esattamente interpretazioni di che cosa? Da parte di chi? Io stesso sono
un'interpretazione? Sono un interpretante che interpreta che cosa?

Va citato Maurizio Ferraris che in risposta a Nietzsche dice che se tu inciampi contro un sasso e ti fai male
c'è poco da interpretare, tutto ciò è reale.

Maurizio Ferraris è autore di una storia dell'ermeneutica, un grosso manuale che ripercorre la storia della
filosofia occidentale a partire dalle origini fino al periodo contemporaneo attraverso la chiave di lettura
dell’ermeneutica. Il suo è un tentativo di rintracciare gli episodi rappresentativi dell'ermeneutica filosofica
nello sviluppo della storia della filosofia.

Interpretiamo il mondo o lo rispecchiamo?


Nietzsche sembra non avere dubbi affermando che non ci sono i fatti e ci sono solo le interpretazioni. Questo
aforismo è contenuto all'interno della cosiddetta opera di Nietzsche "La volontà di potenza" che però non è
propriamente una opera del filosofo: è il risultato di un lavoro di riassemblamento dei quaderni di Nietzsche
ad opera della sorella e di un caro amico che hanno presentato "La volontà di potenza" come la somma
definitiva dell'opera nietzschiana.

Bizzarro che il filosofo che diceva che ci sono solo interpretazioni abbia una sorella a un amico che
avanzano la pretesa di proporre la sua opera definitiva: il sistema di Nietzsche. Difatti un altro aforisma di
Nietzsche è stato "diffido dai sistemi e dai sistematici e mi tengo lontano da loro". I sistematici sono degli
avvelenatori. L'opera è dunque qualcosa di anomalo.

Ritorniamo al perché Emanuele Severino non dedica un capitolo alla ermeneutica filosofica contemporanea.
Quando parliamo di ermeneutica filosofica non parliamo solo di Nietzsche, ma parliamo anche di Heidegger,
di Pareyson, parliamo di alcuni dei filosofi più significativi del Novecento.
In un certo senso non può che mancare, questo capitolo perché la verità alla quale il discorso di Severino si
rivolge è qualcosa di incontrovertibilmente dato: la chiamiamo verità, la chiamiamo episteme, è comunque
qualcosa di certo cui si può alludere, ma non è il risultato di un'interpretazione. Per ora possiamo dare questa
risposta, anche se è una affermazione molto imprecisa.

Nei volumi di storia della filosofia di Severino si può cogliere una sorta di monotonia nel modo in cui i
diversi autori vengono affrontati. Monotonia tale da puntare il dito in ciò che c'è di nichilistico nei loro
discorsi.
L'ermeneutica essendo un tutt'uno con il nichilismo per ragioni che poi si affronteranno non può che essere
lontana dal discorso proposto da Severino in quei volumi.

Da un altro punto di vista invece, dovrebbe essere presente proprio perché si tratta di evidenziare i tratti che
rendono nichilista una certa filosofia. Nei volumi non manca la trattazione di Heidegger o di Nietzsche, ma
manca una trattazione complessiva dell'ermeneutica.

Che cosa significa nichilismo?


Forse non c'è un unico modo di intendere il nichilismo.
Per Nietzsche nichilismo significa che che i valori supremi perdono di valore: non c'è più verità, non c'è più
nessun punto d'appoggio.
C'è un aforisma nella "Gaia scienza" in cui l'uomo folle che va al mercato con la lanterna, tra le altre cose
dice che stiamo precipitando in un infinito nulla, in cui non c'è più un alto o un basso, non c'è una destra o
una sinistra.
Per Nietzsche nichilismo però, significa almeno due cose:
- che i valori supremi perdano di valore può condurci a uno spaesamento completo e dunque condurci a
qualcosa di negativo. Questo è quello che Nietzsche chiama il nichilismo passivo;
- ma può anche essere un opportunità positiva, ovvero che non ci sono più i valori a cui la civiltà occidentale
si è aggrappata con tutte le proprie forze e dunque se ne possono inventare di nuovi. Questo è il nichilismo
attivo: usiamo una capacità sovraumana per reinterpretare il mondo e questa occasione è possibile solo grazie
al nichilismo.

Ci sono alcuni autorevoli studiosi di filosofia che all'ermeneutica filosofica hanno dedicato un'attenzione
particolare e originale.
Salvatore Natoli ha raccolto i suoi scritti più direttamente indicati all'ermeneutica filosofica in un volume
intitolato "Ermeneutica e genealogia".
Genealogia è una delle parole chiave del discorso nietzschiano e dà il titolo a una delle sue opere principali:
"La genealogia della morale" in cui vediamo come la genealogia come la intende Nietzsche abbia a che fare
con l’ermeneutica.
Dal titolo si intende che Natoli mette in relazione un certo modo di intendere l'ermeneutica filosofica con le
sue origini moderne nietzschiane. Qui il sottotitolo è "Filosofia e metodo in Nietzsche, Heidegger e
Foucault”.

Un altro autore veneziano da prendere in considerazione è Mario Ruggenini che pubblica un libro intitolato
"Volontà e interpretazione".
Questo titolo ci potrebbe portare a supporre che interpretare sia sempre il volere che le cose siano in un certo
modo anziché in un altro. Forse la volontà non è qualcosa di accessorio, ma è co-essenziale all'ermeneutica.
Se non c'è volontà, non c'è interpretazione. Schopenhauer, filosofo per eccellenza della volontà,
apparentemente non ha nulla a che fare con l'ermeneutica, se non a partire dall'ipotesi che la volontà è
essenziale all'interpretazione e all'ermeneutica.

Luigi Pareyson pubblica un libro intitolato "Verità e interpretazione".


Si può interpretare la verità? Oppure la verità come tale respinge i tentativi più velleitari e volontaristici di
plasmarla a nostro uso e consumo? Se c'è verità, la verità è quella lì.
Quando Nietzsche afferma che i valori supremi perdono di valore, in un certo senso il primo valore che perde
valore è la verità.
Io sono il depositario della verità e forse l'ermeneutica allude alla possibilità di un oltrepassamento dell'io
inteso come soggettività pensante.
C'è un libro di Gianni Vattimo intitolato "Al di là del soggetto", il cui sottotitolo è "Nietzsche, Heidegger e
l'ermeneutica". L'ermeneutica, secondo Vattimo, come la intendono Nietzsche e Heidegger è un tentativo di
indicare un oltre rispetto alla soggettività.

Dal punto di vista di Severino il nichilismo significa, ridotto all'osso, pensare che che ciò che è sia nulla,
essere persuasi che ciò che è sia nulla, volere che ciò che è sia nulla.
Quando si tratta del nichilismo non si tratta di un periodo delimitato, ma si tratta dell'intera storia
dell'occidente perché l'occidente è per Severino costantemente qualificato dalla persuasione che il mondo sia
mutevole, variabile, manipolabile. Dove la mutevolezza, la variabilità e la manipolabilità indicano
l'annientarsi di ciò che era prima di essere manipolato. cosa c'è di più intanto della morte?

Severino usa spesso questa metafora: gli esseri umani sono dei re che pensano di essere dei mendicanti, sono
degli eterni che credono di essere destinati alla morte, cioè al niente. Non hanno consapevolezza di essere
altro rispetto a ciò che credono di essere.

Un aforisma di Eraclito dice che gli uomini sono attesi dopo la morte da cose che non solo non sperano, ma
che nemmeno sospettano.
L'evento 'morte' come ogni altro evento può essere inteso nichilisticamente o non nichilisticamente.

Il discorso di Severino non nega affatto che siamo destinati alla morte, ma nega che la morte sia per lo più e
sempre quello che pensiamo che essa sia. Nega che la morte sia annientamento, mentre quello è il modo
nichilistico di intendere il morire.
6/02/2020
L’ermeneutica filosofica con cosa ha a che fare? Con l’interpretazione, ma quale tipo di interpretazione? Chi
interpreta cosa? Si tratta di prendere atto che il mondo non è dato in sé, non ha una costituzione autonoma
dalla volontà interpretante? In tal modo la filosofia, in quanto ermeneutica avrebbe lo scopo di interpretare e
non di riconoscere il mondo per ciò che è: il mondo di suo non è nulla, se non come risultato dell’attività
interpretante. Ma allora, se il mondo non è costituito in sé, non è possibile rintracciarne una verità definitiva.
Che senso ha dunque un titolo come quello del testo di Pareyson “Verità e interpretazione”?

Con Nietzsche si affronterà questo concetto. Molti vedono in lui l’iniziatore dell’ermeneutica moderna e
contemporanea. Non tanto e non solo perché Nietzsche è quella bizzarra figura che ha sentenziato che “I fatti
non ci sono, ma ci sono solo le interpretazioni”.
Ammesso e non concesso che l’ermeneutica filosofica abbia essenzialmente a che fare con l’interpretare,
ecco che allora Nietzsche ci dà una prima indicazione decisiva di cosa si l’ermeneutica: essendo che ci sono
solo le interpretazioni, l’ermeneutica filosofica ha a che fare con tutto. L’ermeneutica filosofica diventa una
specie di scenario complessivo all’interno del quale si muove la filosofia contemporanea che in un certo qual
modo sembra coincidere con essa. Non c’è filosofia contemporanea che non sia di per sé ermeneutica.

Si è parlato di Emanuele Severino, non tanto per la rilevanza filosofica, ma anche storica che egli ha avuto
per Ca’ Foscari: storicamente la filosofia arriva a Venezia quando arriva Severino.
Severino ha insegnato a ca' Foscari per un numero notevolissimo di anni: hai insegnato principalmente
filosofia teoretica, ma ha insegnato anche storia della filosofia contemporanea, sociologia e logica.

Severino che insegnava all'Università Cattolica, di fronte all'affermazione di incompatibilità tra il contenuto
dei suoi scritti e il contenuto della liberazione cristiana, andò via dall'università Cattolica e arrivò a Venezia.

Si potrebbe interpretare in qualche modo il luogo stesso in cui ci troviamo, ovvero l'università, con
l'intenzione di accostarsi alla filosofia.
Ma davvero la filosofia accetta di essere accostata in alcuni luoghi piuttosto che in altri? Davvero la filosofia,
in qualsiasi modo la vogliamo intendere, è di casa all'università dove assistiamo a qualche lezione in orari
prefissati, oppure la filosofia è qualcosa di radicalmente diverso che non può essere assunta o accostata a
nessun orario prefissato?
La filosofia ci accompagna sempre, oppure è davvero possibile distinguere i momenti della nostra giornata
nei quali abbiamo a che fare con la filosofia da altri in cui siamo fuori dall'aula?
La filosofia ha a che fare con l'interezza della nostra persona oppure è uno studio come tanti altri? Forse tutte
e due le cose.

Si può parlare di vita filosofica e vita universitaria.


Per Schopenhauer l’università è ‘abitata’ da cialtroni che siedono in cattedra e che ad orari prefissati
dispensano il sapere e la verità. Schopenhauer affermando ciò aveva in mente l’idealismo a lui
contemporaneo: Hegel, Fichte, in parte Shelling.
Schopenhauer aveva in mente quelli che lui considerava degli pseudo-filosofi che contrabbandavano la loro
idiozia per sapere assoluto. Questo sapere assoluto lo contrabbandavano autorevolmente dalla cattedra con
l'autorevolezza che a loro veniva anzitutto dall'essere funzionari dello Stato.
"Chi parla qui non solo vi dice la verità ma questa verità, ma questa verità è avvallata dallo Stato, è un
tutt'uno con lo Stato" così dice Schopenhauer.
Il professore universitario è un funzionario dello Stato per il quale conta più lo stipendio piuttosto che
rendere degna del proprio nome la filosofia. Schopenhauer detestava questo modo di portare in aula la
filosofia. La filosofia non si fa a porte chiuse in orari prefissati. La filosofia si fa quando capita, al modo, per
esempio, di Socrate nell'agorà, dialogando e discutendo con chiunque.
27:00
7/02/2020
Prima Severino, poi Rugellini, infine Perissinotto sono tre professori della facoltà di filosofia di Ca’ Foscari
le cui diverse prospettive sull’ermeneutica s’incontrano, si scontrano, si mettono reciprocamente alla prova,
le diverse modalità e le diverse interpretazioni dell’interpretare non solo si esibiscono ma dialogando, si
mettono alla prova per amor di confronto.
Praticare la filosofia, esercitare in modo ermeneutico la filosofia è questo confronto in cui nessuno vince e
nessuno perde, ma ciascuno all’interno di un dialogo cresce in tanto in quanto riconosce la limitatezza delle
proprie ragioni.
Forse praticare la filosofia è esattamente questo.
17:45
11/02/2020
ERMENEUTICA FILOSOFICA
Come si può definire l’ermeneutica filosofica? Ammesso che sia concesso definirla.
Quando ci avviciniamo alla filosofia, ci troviamo in una situazione di imbarazzo: di fatti, per definire
qualcosa verso cui ci inoltriamo dobbiamo esserci già dentro.

Per dire cosa sia la filosofia, si deve prendere atto del fatto che non sempre vi sia accordo tra gli studiosi che
si occupano della stessa.
Nella comunità scientifica, c’è un accordo di fondo intorno allo statuto generale della disciplina di cui si
occupano. Per quanto riguarda la filosofia, ciascuno di noi la intende in modo diverso; di conseguenza, non
c’è un accordo e non c’è una filosofia, ma c’è un modo diverso in cui essa si incarna nelle persone che se ne
occupano: non c’è uno statuto della filosofia definitivo.
Serve dunque un’attività interpretativa della disciplina: un’ermeneutica preliminare che ci consenta di
interpretare il senso della disciplina.

Il fatto che l’ermeneutica filosofica sia ‘filosofica’, dovrà pur significare qualcosa.
L’ermeneutica filosofica è una teoria filosofica praticata mediante un’attività interpretativa che abbia essa
stessa a che fare con la filosofia.

Maurizio Ferraris cercando di indicare in via preliminare che cosa si possa intendere per ermeneutica, si
richiama al mito e alla figura di Hermes: nella parola “ermeneutica” si sente l’eco di Hermes.
Hermes esercitava attività di tipo pratico, portando annunci, ammonimenti, profezie: l’ermeneutica dunque,
in quanto esercizio pratico e comunicativo, si contrappone alla teoria della contemplazione di essenze eterne
non alterabili da parte dell’osservatore.

Ermeneutica è dunque un’attività di tipo pratico.


Al contrario invece, la filosofia viene intesa in senso platonico, come contemplazione di qualcosa di
immutabile: “theorein”.
Così intesa dunque, l’ermeneutica sarebbe una forma radicale di anti-platonismo.

È a questa dimensione pratica che l’ermeneutica deve la sua qualificazione tradizionale come arte
dell’interpretazione come trasformazione. L’ermeneutica non è disciplina teoretica: il “theorein" come
attività contemplativa, non avrebbe a che fare propriamente con l’ermeneutica. Eppure l’ermeneutica
filosofica, nell’università italiana, fa parte del gruppo delle discipline teoretiche: filosofia teoretica,
ermeneutica, gnoseologia, ontologia.

Si parla di teoria e prassi, contemplazione e attività: quell’attività non genericamente intesa, ma attività che
dipende dal modo in cui ciascuno di noi vuole intendere il mondo che ci circonda.
Questa attività da che cosa è guidata, se è guidata da qualcosa?
Vale tutto? Qualsiasi interpretazione è equivalente a ciascun’altra? Siamo di fronte ad una prospettiva
massimamente relativistica? No.
L’attività sembra essere guidata primariamente dalla ‘volontà’ che il mondo abbia un certo significato
rispetto ad un altro.

Ferraris dice che l’ermeneutica filosofica non è la filosofia come contemplazione dell’eterno.
La prassi, e quindi l’attività, ha a che fare con la filosofia: questo è ciò che emerge da ciò che dice Ferraris.
La filosofia grazie all’ermeneutica è obbligata a prendere atto che l’attività contemplativa da sola non è
sufficiente se non affiancata da attività trasformativo-interpretativa: come Hermes, che esercitava attività di
tipo pratico, l’ermeneutica può essere interpretazione trasformativa.

L’ermeneutica filosofica può essere intesa come attività trasformativa a condizione che la nostra visione del
mondo e la nostra visione di noi stessi nel mondo, ritenga che il mondo stesso sia trasformabile e
interpretabile: se non sono convinto che la trasformazione sia possibile, allora l’ermeneutica filosofia non ha
semplicemente senso. Il non senso è un elemento che sprona a riflettere maggiormente sulle cose.

Se il mondo non è trasformabile, qualsiasi disciplina che si ponga l’obiettivo di trasformarlo perde in
partenza.

Se fossi persuaso della inamovibilità della bottiglia, non la sposterei e non mi proporrei nemmeno di
spostarla. Un mondo che è pensato come materiale a disposizione della mia volontà trasformativa è detto
“mondo bellicoso”, mentre un mondo pensato come impermeabile rispetto a questa mia convinzione di
dominare il mondo è un “mondo pacifico”.
La mia pre-comprensione dell’assetto del mondo e delle cose è la condizione rispetto alla quale oriento il
mio agire. Ogni esperienza è già interpretata alla luce di questa pre-comprensione del mondo.

Sperimento empiricamente che il mondo è nei fatti modificabile.


Questo suo essere modificabile è davvero riscontrabile nei fatti? E anche ammesso che lo sia, quanti fatti
dovrei poter enumerare per dare corpo alla mia visione del mondo?
Una teoria scientifica che pretendesse di dire che tutti i cigni sono bianchi dall’esperienza, sarebbe
condannata ad una ricerca infinita, impossibile da concludersi.
Non c’è via induttiva che conduca ad una visione del mondo o di parte di esso: quanti cigni bianchi dovrei
osservare per potere dire che tutti i cigni sono bianchi? Sarebbe un inseguimento infinito nel tentativo di
dare corpo ad una teoria o visione talmente generale che non vi è osservazione empirica che possa validarla.

Dunque da dove ricaviamo la visione del mondo che preliminarmente orienta il nostro agire? Non
dall’esperienza, in quanto essa ha tutta l’insicurezza propria dell’induzione (processo mediante il quale si
passa dalla considerazione di casi particolari, ad una conclusione generale).
La visione preliminare dipende dal modo in cui noi vogliamo che il mondo sia: il mondo non è dato, ma è
voluto. Perché lo vogliamo così e non in un altro modo?

Alla radice di ogni visione del mondo c’è la volontà, insegna Schopenhauer: essa viene prima di ogni teoria
scientifica, filosofica, di qualunque concettualizzazione e tassonomia del mondo. Prima la volontà, dopo il
pensiero e il concetto. La volontà per Schopenhauer non appartiene al soggetto, ma è l’anima del mondo
nella sua interezza.

Schopenhauer è al vertice della scrittura tedesca, insieme a Goethe. Egli scrive con chiarezza.
Popper diceva che uno dei doveri etici di chi pratica la filosofia è quello di parlare chiaro: se cominci a
confondere le acque, qualcosa non quadra e hai qualcosa da nascondere.
Foucault sottolinea l’importanza del concetto di “parresia”: parlare con chiarezza, che si accompagna
all’essere trasparente, limpido, chiaro.
Nietzsche riconosce l’onestà di Schopenhauer come suo educatore, che non vuole ingannare nessuno.
Questa caparbia volontà di parlare chiaro al proprio lettore è una delle sue qualità dominanti, che diventa
ancora più importante se pensiamo il fatto che Schopenhauer dica di non fidarsi dei resoconti, ma si deve
incontrare il filosofo personalmente.

“Il mondo come volontà e rappresentazione” è un’opera divisa in 4 sezioni:


- la prima dedicata a temi gnoseologici
- la seconda dedicata ai temi della filosofia della natura
- la terza sull’estetica
- la quarta all’etica
Nella quarta sezione, Schopenhauer dice che il lettore si sentirà più a suo agio, ma in realtà quella che per lo
più chiamiamo etica, la chiamiamo così solo per equivoco, perché la filosofia è sempre teoretica per
Schopenhauer, perché lo scopo della filosofia è sempre conoscitivo, quindi la filosofia è sempre teoretica.

Se è sempre teoretica, dovrebbe Schopenhauer spiegarci perché e che spazio abbia una tal filosofia nel
discorso che propone sulla volontà come anima del mondo.
Ammesso che le cose stiano così e che il mondo sia inteso come trasformabile, perché dovrebbe esserci un
sottofondo negativo?

Trasformare non vuol dire solo distruggere, ma anche creare.


La trasformabilità del mondo è solo segno di negatività?

Schopenhauer e Leopardi si sono copiati?


Nessuno dei due ha copiato dall’altro, ma ci sono pagine che sono davvero sovrapponibili.
Il “Discorso sull’indole del piacere del dolore” è uno scritto di Verri che tutti e due forse conoscevano: ci
sono immagini, come quella del pendolo, che compaiono in entrambi.

Nietzsche apprezza moltissimo, oltre Schopenhauer, anche Leopardi. La parola forse più usata per riferirsi al
discorso di Schopenhauer e Leopardi è ‘pessimismo’, poiché entrambi individuerebbero nel negativo
l’essenza umana e del mondo.
Schopenhauer sostiene che sia necessaria una redenzione dalla volontà. La sua filosofia è una fenomenologia
del dolore che sembra voler avere come esito la liberazione dalla volontà e quindi dal dolore.
Questa è la verità per Schopenhauer e per Leopardi.

Ci sono tante verità o ce n’è una sola? L’idea filosofica di verità è anche essa risultato di una attività
interpretativa?
Il mondo sembra dirci che più che alla verità dobbiamo far riferimento al gioco delle opinioni.
Se la verità c’è, essa è intollerante.

Di quale verità parliamo? La verità filosofica nel senso classico della verità incontrovertibile: “episteme
platonica”, oppure parliamo delle opinioni? Perché in tal caso, nel mondo delle opinioni vale tutto.

Cosa significa oltrepassare la volontà? È possibile? Come? Che mondo rimane?


Rimane questo mondo, rispetto al quale però l’oltrepassamento della volontà ci rende capaci di uno sguardo
non predatorio. Se a orientare lo sguardo non è più la volontà, rimane un mondo più tranquillo, viene colta la
sacralità di ogni cosa, ma non è un altro mondo.

Il mondo è uno: il titolo dell’opera “Il mondo come volontà e rappresentazione” potrebbe far pensare che
Schopenhauer veda il mondo in modo dualistico, ma in realtà avverte che il mondo è tutto volontà e tutto
rappresentazione. Un unico mondo animato dalla volontà e dalla rappresentazione: è una visione monistica.
13/02/2020
C’è un nesso tra emozione ed interpretazione, le due nozioni sono connesse? Questo tema è presente anche
anche in Schopenhauer?
C’è un nesso essenziale tra le emozioni e la filosofia, non solo quando si presenta sotto la forma di
ermeneutica. Cosa sarebbe una filosofia priva di emozione? L’aridità del deserto: di fatti, una struttura che
potrà, più o meno, facilmente persuaderci sul piano razionale, non ci toccherebbe.
Se qualcosa non ci emoziona, perché dovrebbe interessarci?

Da dove nasce la civiltà letterario-filosofica occidentale? Comincia tutto con l’ira narrata nell’”Iliade”. L’ira
è il movente della vicenda narrata da Omero: Achille vuole una rivalsa verso chi ha operato a suo modo un
sopruso.
La letteratura e cultura occidentali nascono da quella parola: ira. Veniamo da lungo un percorso concatenato
che inizia dall’ira.

Secondo Schopenhauer tutto ciò che noi elaboriamo a livello intellettuale, razionale, culturale proviene da
altro, che non ha nulla a che fare con la concettualità. In un certo senso l’ira ne è la negazione di questo
ordine concettuale.
È una pulsione che come tale è una spinta non sottoposta all’ordine della ragione, ma anzi, produce
quell’ordine.

Abbiamo una cultura filosofica che non vede nella razionalità e nel concetto i primi di cui la filosofia si
debba occupare: Schopenhauer ci dice che il primo concetto non è mai la razionalità, essa infatti è tentativo
di mettere ordine ad un fondo non dominabile e non razionale.

L’ira ha questi caratteri: è una esplosione di forza.

Lo spartiacque tra filosofia come ricerca del sapere incontrovertibile, che va da Platone a Hegel, e la filosofia
contemporanea che tenta di distruggere questo ordine razionale è Schopenhauer.

A governarci è l’ingovernabile.

Se per emozioni, intendiamo l’ingovernabile, ciò che ci raggiunge, ci cattura, ci appassiona, è ciò che ci
governa.
Aristotele afferma che gli uomini hanno cominciato a dedicarsi alla filosofia in ragione della meraviglia.
La meraviglia indica un sobbalzo, uno stupore, qualcosa che non ha di per sé a che fare con la razionalità
ordinatrice. Fare filosofia è possibile a partire dalla meraviglia.
Quando si verifica qualcosa che ha capacità di meravigliarci, rispetto cui si ha una reazione immediata non ci
può fare niente, ne si è travolti. Sei travolto dall’emozione e dalla passione.
Il rischio è che travolti, diventiamo gli strumenti di un ulteriore travolgere: “gli infiniti lutti” di cui Omero
parla nei primi versi dell’Iliade.

Emozioni ci catturano e ci travolgono. Talvolta tentiamo di dar ragione di quello che ci sta capitando e di far
luce su quello che ci sta capitando, tuttavia siamo aggrediti in prima battuta da qualcosa che non
comprendiamo.

Come si manifestano le pulsioni? In azioni.


Ma cosa significa agire? Agire è la volontà di cambiare il mondo. Agisco perché voglio cambiare il mondo: il
mondo può essere trasformato.

Dobbiamo capire meglio che cosa si intende per emozione.


Nel “Mondo come volontà e rappresentazione” Schopenhauer precisa a più riprese che ‘volontà’ non è la
parola giusta, perché qualunque parola appartiene al livello della definizione e della rappresentazione, che è
ciò a cui la volontà sfugge propriamente. In realtà non c’è nessuna parola adeguata: dovrei razionalizzare
qualcosa che è un impulso emotivamente presente in me. In qualunque modo tentiamo di definire quel quid,
stiamo in realtà parlando d’altro.

Perché il professor Keating nel film “L’attimo fuggente” dice ai suoi studenti che ciò che hanno in comune
gli studenti delle vecchie foto è il fatto di essere morti? Perché comunque si morirà, quindi esorta a vivere
ora: “carpe diem”, carpisci l’attimo, afferralo e non mollarlo più, perché hai solo quello e non tornerà più.
Nietzsche però direbbe che quest’attimo tornerà infinite volte: l’eterno ritorno dell’uguale.

È il presente che sul piano emotivo dobbiamo catturare e afferrare. Ciò che conta è avere la capacità di
carpire il giorno presente: non hai altro se non questo, quindi vivilo fino in fondo.
La filosofia si è presentata come tentativo di escludere le passioni e le emozioni, di tenerle sotto controllo,
ma se invece facessimo riferimento innanzitutto ad esse: all’ira e alla meraviglia, anteponendo l’esperienza
di quelle passioni ad ogni tentativo di definirle concettualmente?
Se le definiamo, non le viviamo più: rischiamo di fraintenderle.
Un dialogo tra Linus e Charlie Brown dice proprio questo:
- Linus, credo di essermi innamorato – dice Charlie Brown
- Da cosa lo capisci
- Sudo freddo, mi tremano le mani…
- Ma no, hai l’influenza

Weber, a proposito del mestiere del professore universitario, dice che questi deve affidarsi alla più rigorosa
scientificità del discorso e lasciare fuori i carichi di emotività.
Dovrebbe entrare solo una parte di me e ciò presuppone che io sappia chi sia.
Quando entro in aula, non porto sempre la totalità della mia persona, andando anche al di là dell’illusione di
poter separare una parte.

Chi è il professore? Quella del professore, è una professione di fede: presentarsi con franchezza, senza
ombre, e testimoniare la propria fede. Fare il professore dovrebbe significare proprio questo: esporsi.

Nel “Il sonno della ragione genera mostri”, F. Goya afferma che finché la ragione è sveglia, i mostri vengono
tenuti a bada, ma questi mostri hanno già vinto in partenza, perché l’unico modo per tenerli a bada è quella
ragione che si addormenta.
Il sonno della ragione ci stupisce come il manifestarsi di qualcosa che alla ragione risulta incomprensibile.

Che tipo di stupore è quello che induce gli esseri umani a praticare la filosofia?
Potremmo essere in una condizione analoga ai mostri generati dal sonno della ragione: la meraviglia
potrebbe essere intesa come spavento.

Il ‘thauma’ di cui parla Aristotele potrebbe essere movente della filosofia non in senso generico, ma come
trauma. La meraviglia è traumatica: è arroccarsi nel tentativo di difendersi dai mostri, arroccarsi in quello
che per lo più è stato il castello della ragione.

La ragione filosofica tenta di difendersi contro qualcosa che si è inventata lei: la visione mostruosa è il
risultato di uno sguardo della ragione stessa e di un suo momentaneo assopimento.
Chi li ha evocati quei mostri? Tu che tenti di difenderti da loro.
Secondo Schopenhauer siamo agitati da un magma, una pulsione insondabile che fa parte di noi: la volontà.
14/02/2020
Nel romanzo “Uno, nessuno, centomila”, Pirandello mette in scena la grottesca, surreale e tragica vicenda di
Vitangelo Moscarda, il quale scopre di avere il naso che pende a destra, dopo che la moglie glielo fa notare.

L’altro vede in me qualcosa che io non ho mai visto, che non sospettavo: l’altro stravolge la mia identità. Lo
sguardo altrui mi dice che la mia identità non corrisponde all’idea che mi ero fatto.
Non conosco me stesso? Qual è l’identità autentica? È il risultato combinato di quell’identità che credevo di
conoscere insieme allo sguardo dell’altro?

Pirandello usa la parola ‘fissazione’, per dire che gli esseri umani si sono fissati ad una identità che non
corrisponde al vero, che non è essenziale e che non esaurisce la loro complessità.
Le fissazioni sono idee ricorrenti, che non corrispondono a ciò che ognuno di noi è in realtà.
L’identità è una fissazione che deriva da una o più interpretazioni di ciò che siamo.

L’identità è una fissazione o è una realtà indispensabile per capire chi siamo? È possibile davvero essere
identici a noi stessi?
Siamo in una dimensione esistenzialmente tragica: agli occhi dell’altro infatti, non siamo più o magari non
siamo mai stati quello che credevamo di essere.
Siamo davvero qualcosa?
Mi definiscono a partire da una molteplicità di punti di vista differenti e nessuno di questi corrisponde alla
mia complessità.
Uno sguardo che mi interpreta, rivolgendosi a me e interpretandomi, mette in crisi la mia immagine di me
stesso.
Io sono una molteplicità forse mai unificata il cui carattere molteplice dipende dalla molteplicità degli
sguardi che gli altri rivolgono verso di me.

Bisogna declinare il ‘conosci te stesso’ in una nuova ottica: gli altri che mi guardano da punti di vista diversi,
mi aiutano a riconoscere che l’identità era una fissazione e a conoscere me stesso partendo proprio dalla
molteplicità di sguardi attraverso cui gli altri mi interpretano.

Siamo davvero qualcosa? E se siamo qualcosa, chi siamo?


Siamo nella nostra natura profonda di ‘res cogitans’, una cosa che pensa e dubita?
Siamo mera apparenza di una forza oscura e sotterranea, come la volontà schopenhaueriana, continuamente
in mutazione di forma?

La pretesa di avere identità potrebbe essere solo una fissazione.

Cosa siamo, se siamo qualcosa a prescindere dagli sguardi interpretativi che gli altri ci rivolgono e con cui ci
definiscono? Cosa vedono gli altri di noi? Vedono quello che vogliono vedere? Rivolgono uno sguardo che
aiuta loro a capire chi noi possiamo essere?

“Maschere nude” è il titolo complessivo delle opere teatrali di Pirandello e quella di Moscarda non è
propriamente una maschera, ma è quello che l’altro vede in lui, che mette in crisi l’immagine che il
protagonista vedeva di sé.

Quando il professore universitario entra in aula all’università, mette una maschera?


Quanto del professore dice quella maschera?
Se fosse possibile liberarsi della maschera, ci sarebbe qualcosa dietro la maschera? O la maschera esaurisce
l’essere qui e ora nel parlare di filosofia, Pirandello e Schopenhauer?
Se il professore entrasse indossando la maschera, potrebbe toglierla? Se sì, cosa apparirebbe?
Il mondo delle relazioni intersoggettive, è un mondo di relazioni tra maschere?
La maschera che ognuno di noi indossa, la indossa per l’altro o per sé stesso?
Se lo fa per l’altro, lo fa per recitare un ruolo: per esempio, un funzionario dello stato che insegna.

La filosofia per sua natura non dovrebbe avere padroni a cui rispondere. Secondo Schopenhauer, insegnare
filosofia dovrebbe essere indipendente dal rendere conto del nostro operare a chi ci comanda.
Chi esercita la filosofia, o la insegna lo fa per una sorta di vocazione, ma lo stipendio di funzionario dello
stato limita nei fatti la vocazione.
Il governo Mussolini pretese da parte dei professori universitari il giuramento al fascismo: in tal caso non
sarei stato più libero di proporre in aula una riflessione che non fosse stata compatibile con il fascismo.
Piero Martinetti fu l’unico professore di filosofia a rifiutare di giurare.
Martinetti è un filosofo collegabile per molti versi al discorso di Schopenhauer.

Quanto sono davvero me stesso se indossando la maschera del professore universitario mi vincolo ad
obbedienze che non hanno a che fare con la disciplina che provo ad insegnare?
La filosofia è qualcosa che solo andando contro la propria natura può essere praticata nell’aula universitaria.
Secondo Schopenhauer quando rinchiudi la filosofia all’interno di orari prefissati e in aule universitarie, a
prescindere da maschere e non maschere, vai contro la natura della filosofia.

La filosofia è un abito, un ‘ethos’. Chi pratica e insegna filosofia dovrebbe essere libero da vincoli, non
assoggettato ad altro se non alla ricerca della verità.

Vi è un nesso tra verità ed interpretazione? Si da interpretazione della verità? Che cosa significa interpretare
la verità? C’è verità che prescinda da fissazione identitaria dell’uno e dalla visione interpretativa dell’altro?
La verità è il risultato delle varie interpretazioni?

In “Così è (se vi pare)” di Pirandello, la protagonista a chiusura d’opera, a seguito di una vicenda
apparentemente complicata, dice di non essere niente ma anzi di essere colei che la si crede.
Tutto ciò che ci definisce e costituisce la nostra identità presunta o vera dipende dal modo in cui gli altri
interpretano ciò che vedono in noi.
Non vi è verità oggettiva che prescinda dalla interpretazione degli sguardi.

“Così è (se vi pare)” è un’opera teatrale in 3 atti, ciascuno dei quali si conclude con la parola ‘verità’,
pronunciata la quale, la protagonista, scoppia in una risata fragorosa.
Non c’è un volto dietro le maschere che abbia sua consistenza oggettiva: sollevo la maschera e non c’è nulla.
La mia presunta o reale identità è quella che risulta dal gioco di maschere.

Pirandello studia in Germania e legge Nietzsche, dunque alle spalle del discorso pirandelliano vi è
l’influenza di Nietzsche, che parla di identità come fissazione e dice che non c’è alcuna identità, alcuna cosa
in sé, alcuna verità incontrovertibile.
Siamo in un fluire costante nel quale non vi è modo di aggrapparsi da nessuna parte, non c’è nessun luogo
determinatamente fisso al quale ancorarsi.
Persino Eraclito agli occhi di Nietzsche continua più o meno consapevolmente a ritenere che vi siano cose
che mutino in continuazione e Nietzsche rimprovera questa sua idea che vi siano le cose.
Le cose sono maschere.

G. Vattimo nel “Il soggetto e la maschera” si chiede: cosa siamo allora? Maschere? Risultati di
interpretazioni?
Ma è davvero così importante sapere ciò che siamo?
Chiedendoci cosa siamo, non ci siamo già indirizzati verso un cammino predeterminato, che ci può portare
da una sola parte?
Il modo in cui poniamo le nostre domande, non influenza anche la qualità della risposta che tentiamo di
dare?
Quando chiediamo ‘chi sei?’ poniamo la domanda platonico-socratica che chiede di dare definizione univoca
di ciò di cui si sta parlando. Nietzsche pensa che questa domanda ci porti nella dimensione concettuale della
definizione univoca di ciò di cui stiamo parlando.
“Chi siamo?” è una domanda adeguata per capire chi sono? L’identità cui porterebbe questa domanda è una
fissazione? In che altro modo possiamo chiederci chi siamo?
L’esortazione del ‘conosci te stesso’ va collegata a ‘come si diventa ciò che si è’: si diventa ciò che si è
acquisendo progressiva consapevolezza del proprio essere.

Bisogna analizzare il termine ‘diventare’: se sono qualcosa, non ho bisogno di diventarlo.


Il diventare ciò che si è potrebbe avere a che fare, dunque, con la consapevolezza: come si diventa
consapevolmente ciò che si è?
Non c’è ricerca di definizione ma progressiva consapevolezza di un modo di stare al mondo.

Che cosa fai? Come agisci nelle circostanze della tua esistenza? Qual è il tuo modo di stare al mondo?
Questo possono dirlo le persone che abitano il mondo insieme a me.
E’ quello che sei a definirti o quello che fai? Il mio modo di stare al mondo è inteso in modi diversi a
seconda dal punto di vista da cui lo si interpreta.

Sartre scrive “L’inferno sono gli altri” in cui si chiede cosa può produrre come risultato una fenomenologia
dello sguardo? Mi schiaccia in un inferno da cui non riesco più ad uscire, oppure mi libera? Vi è una
condivisione di punti di vista oppure una situazione infernale in cui gli altri sono una condanna?

Restiamo sempre in bilico: che ne è della nostra identità?


Schopenhauer scrive “Supplementi a ‘Il mondo come volontà e rappresentazione’”, che è una sorta di
secondo volume dell’opera in cui Schopenhauer raccoglie tutte le osservazioni che ha scritto intorno ai temi
dell’opera principale negli anni successivi alla pubblicazione dell’opera vera e propria.

Il primo capitolo dei “Supplementi” ci dice qualcosa intorno alla visione inquietante dell’esistenza proposta
da “Il mondo come volontà e rappresentazione”. La realtà, il mondo è ciò che si manifesta nello strato di
crosta ricoperta di muffe, e per un essere pensante non è piacevole trovarsi in una delle numerose sfere dello
spazio per essere uno degli innumerevoli esseri viventi simili che si accalcano, spingono, tormentano, si
generano e trapassano continuamente.
Questo è il mondo che ciascuno di noi abita, ma questo mondo ha una consistenza in sé, prescindendo dallo
sguardo che lo osserva e gli dà senso, oppure è una costruzione ideale?

Il mondo è una mia rappresentazione, è il principio primo, se capisci questo sei entrato davvero nello spirito
della filosofia. Il mondo non è reale in sé, ma una mia rappresentazione
Berkeley giunse, partendo da Cartesio, a una forma di vero idealismo: ‘esse est percepit’= l’essere come tale
è esaurito dall’essere percepito.
Ciò che si estende nello spazio, come tale esiste esclusivamente nella nostra rappresentazione. È assurdo
attribuirgli esistenza in quanto tale, esterna ad ogni rappresentazione e al soggetto.

Il mondo è il risultato dell’incontro tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto: la rappresentazione.


Dei due chi ha il primato? Per i materialisti l’oggetto, per gli idealisti il soggetto, ma Schopenhauer rovescia
il tavolo: il primato è la relazione tra i due.

Che vita fanno questi esseri che si accalcano, tormentano?


Schopenhauer ci dice che si tratta per tutti gli esseri viventi di una esistenza a rischio, in bilico tra essere e
non-essere. L’esistenza è come tale un tentativo di mantenersi in equilibrio tra essere e non-essere, però
abbiamo la certezza che prima o poi cadremo precipitando altrove.
E’ un’esistenza caratterizzata principalmente dal tentativo di appagare un impulso soggettivistico verso la
sopraffazione dell’altro. La relazione tra esseri viventi è guerra di tutti contro tutti. Per rafforzare la propria
volontà di vivere attraverso il dominio dell’altro, la volontà cerca appagamento anzitutto nel tentativo di
fagocitare l’altro.

Tutto lo scenario emotivo che costituisce il mio modo di stare al mondo sarà determinato dal modo in cui
intrattengo la relazione con l’altro.
Costruisco muri e aggredisco prima nell’ipotesi che l’altro prima o poi mi attaccherà? L’altro è un nemico
potenziale o è parte di una rete di relazioni che aiuta me stesso a comprendere chi sono? Lo sguardo è
benevolo o è lo sguardo di chi nell’altro vede ostilità, minaccia? Questa minaccia infernale dell’altro è
qualcosa di reale o me la sono inventata io?
Dove sto camminando? Cammino su qualcosa che deve essere considerato essere?
Perdere equilibrio significa possibilità di non esserci più?
Ma cosa vuol dire perdere equilibrio e cadere? Significa precipitare nel non-essere? O ci sono solo volontà e
rappresentazione, nessuna delle quali è propriamente nulla?

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