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Il

cambiamento radicale della società è stato il sogno di molti intellettuali e


filosofi. In questo libro, i grandi maître à penser Foucault, Marcuse, Deleuze...
vengono interrogati, in una serie di interviste immaginarie, sul tema della
rivoluzione. Tutti conoscono e utilizzano l'opera di Marx, ma non più come
corpo dottrinale da illustrare, arricchire o abbattere, semplicemente come
materiale essenziale per la riflessione da cui bisogna essere pronti a prendere le
distanze. Il rispetto religioso non fa più presa.
Il risultato è un pensiero nuovo - ognuno a suo modo - e finalmente
contemporaneo. Un percorso nell'immaginario dell'eresia marxista che può
insegnarci ad allenare il nostro spirito critico e ad acuire lo sguardo sulla
società contemporanea.
Scansione, Ocr e conversione a cura di Natjus
ASPETTANDO LA RIVOLUZIONE
CONVERSAZIONI CON MICHEL FOUCAULT, HERBERT
MARCUSE, GILLES DELEUZE, FELIX GUATTARI, ALAIN
TOURAINE, HENRY LEFEBVRE, HANS MAGNUS ENZENSBERGER



Titolo originale dell’opera: C’est demain la veille.



© 2015 - Edizioni Rbs Gestae via Pichi 3, 20143, Milano
Per informazioni: info@iedizioniresgestae.it
www.edizioniresgestae.it

ISBN: 9788866971252

L’editore ha effettuato, senza successo, tutte le ricerche necessarie al fine di
identificare gli aventi titolo rispetto ai diritti dell’opera. Pertanto resta
disponibile ad assolvere le proprie obbligazioni.
Indice






Premessa

Michel Foucault

Herbert Marcuse

Roel Van Duyn

Henri Lefebvre

CFDT, Jeannette Laot e Fredo Krumnow

Gilles Deleuze, Félix Guattari

Alain Touraine

Charles Fourier
Premessa






Le rivolte nate a Berkeley, Amsterdam, Berlino, Nanterre... ancora si
ammantano, talvolta, con la baldanza di un marxismo poco rinnovato e, si
rifacciano al trotskjsmo oppure al maoismo, esaltano ancora più volentieri
l’organizzazione e il risorgente attivismo di quanto non contribuiscano a
rinnovare i concetti e i comportamenti. Questo da un lato. Ma dall'altro lato
accade anche che esse riscoprano — e con forza — i temi di un socialismo
utopistico, di quell’anarchismo che la critica di Marx aveva oscurato, il gusto
della spontaneità o della vita comunitaria. Altrove vanno a ricercare
il messaggio dell’Altro — i mistici dell'Oriente — per trovare una garanzia al
proprio esilio dalla civiltà occidentale. E infine, ovunque e in tutte le gioventù,
una rock music diffusa dai media plasma il nuovo linguaggio di una
generazione internazionale. Scoperte brusche o lente: e tuttavia, sparse e
contraddittorie, forse più profonde, fanno la loro comparsa delle idee, o meglio
riemergono, attraverso i sedimenti successivi degli antichi sistemi.
Esse rivelano innanzitutto, e per contraccolpo, la sbalorditiva sterilità del
pensiero rivoluzionario e della riflessione sociale da più di mezzo secolo a
questa parte. Un marxismo ufficiale logorato fino allo schematismo, si
impantanava a mezza strada fra un affarismo elettorale e la ripetizione
dei settarismi, suggellati dai compromessi, da terrori e rinnegamenti, da ragioni
di partito e di stato. Insensibile a qualunque avvenimento, sensibile soltanto agli
avvenimenti costituiti dalle proprie « svolte », ignorando quegli innovatori
che avevano la pretesa di coinvolgerlo in qualche modo per smuoverlo, esso
occupò a sinistra la maggior parte dello spazio intellettuale per alcuni decenni e
giunse, ancora alla metà degli anni sessanta, ad intimidire quegli stessi che
l’avevano abbandonato o che ancora esitavano a dargli la propria adesione.
È una lunga storia. In Francia, fin dall’inizio del secolo, la povertà del
pensiero era stupefacente. Un positivismo ed un razionalismo indolenti tenevano
banco già con cento anni di ritardo. La Sorbona non aveva imparato nulla
dopo Kant. Peggio ancora: essa credeva di saper tutto con una soddisfazione
beota. Hegel era assolutamente ignorato: nell’Università non se ne faceva
parola; Marx, raramente, veniva letto attraverso il filtro del settarismo primitivo
di Guesde; e poi Nietzsche, Freud, la fenomenologia... Dopo la fine della prima
guerra mondiale alcuni giovani arrabbiati ne presero coscienza. Si
sbarazzarono finalmente di Brunschvicg e si misero a sghignazzare davanti a
quella platea che si abbandonava alle buffonate dolciastre di Bergson. La
collera era sacrosanta e ci ha portato, fra le altre, le migliori pagine di Nizan.
Ma non ci ha portato una nuova riflessione: soltanto una critica di
quell’ideologia ignorante e pomposa che si nascondeva dall’uomo e si
nascondeva dalla società. Ma a partire da questo punto, tutto avrebbe ancor
dovuto essere scoperto.
Un piccolo gruppo ci provò per un istante: erano i « filosofi » del 1925-
1926, Henri Lefebvre, Georges Politzer, Georges Friedmann, Pierre Morhange e
la loro Revue marxiste. Nizan li frequentò con un certo riserbo. Il gruppo
inseguì le piste di Hegel e di Marx, si infarinò con la psicanalisi, restò gomito a
gomito col surreliasmo: la Storia, il sogno ed il linguaggio, una miscela
sovversiva. Ma se ne allontanò presto : l'abbagliamento tardivo provocato dai
principi dell'hegelo-marxismo, le pesanti certezze del partito
comunista adolescente, l’appello all'azione ebbero la meglio. Dopo l’ignoranza
reazionaria della Sorbona, tenendosi lontano dalle grossolane furberie di Alain
o di Valéry, quel che allora si spacciava per marxismo apparve loro come una
filosofia interamente compiuta, tanto più vera in confronto con gli idealismi che
essi professavano. Lefebvre dice: « Questi marxisti si trovarono ben presto di
fronte ad un marxismo già interpretato, rielaborato, “ ripresentato ”, e non solo
da Lenin, ma ancor più da Stalin. Il marxismo-leninismo del periodo di Stalin
non veniva presentato storicamente nella sua formazione, ma già imposto e arci-
imposto. Ancora incompiuto corrispondeva effettivamente a certe
aspirazioni intellettuali, ma non le chiariva, non le penetrava, non le fecondava.
Coloro che giunsero al marxismo in quegli anni, vi si aggrapparono come
naufragi ad un’asse dopo un naufragio (...). Giunsero al marxismo sulle rovine
della loro giovinezza » 1.
Come tanti intellettuali che li seguirono, i « filosofi » ebbero brutalmente
l’impressione di passare dal non-sapere al sapere : quel che resterebbe da fare è
soltanto illustrare i principi e battersi per essi. Per altri, come Sartre, sarà
necessario un lungo e faticoso cammino attraverso la fenomenologia e
l’hegelismo per arrivare, trenta anni più tardi, a ritrovare il problema al punto
in cui Marx ed Engels l’avevano lasciato. In Francia, fra il 1920 e il 1930, si
evita l’ostacolo oppure lo si salta a piè pari; non c’è nessuno che giunga ad
abbracciare la Storia e la società in un’analisi innovatrice: quasi che
la debolezza e il ritardo dell’ideologia borghese rimbalzassero sulla filosofia
rivoluzionaria.
In questo periodo, il pensiero sociale progrediva. In Germania e in Europa
occidentale, nutrite della dialettica e di un marxismo più familiare già scavato
dalla tradizione tedesca, Kautsky o Rosa Luxemburg, gli anni venti e trenta
furono permeati da una creatività straordinaria: Reich, Korsch, Lukacs,
Pannekoek... un nuovo rilancio della filosofia della storia e della teoria politica,
una seconda tappa della psicanalisi, la giovinezza di Marcuse e di Adorno 2. È
più stimolante dibattere con Lenin o scontrarsi con Freud che battagliare col
signor Bergson. Ma questa reinterpretazione del marxismo scomparirà a sua
volta sotto i colpi congiunti del nazismo e dello stalinismo. L’opera di Gramsci
non conosce una sorte migliore. Prigione, esili negli Stati Uniti o sottomissioni
al comunismo, e la scintilla si spegne. Bisognerà aspettare la destalinizzazione,
e più spesso il 1968, perché un interesse nasca nuovamente e per ripartire
tenendo conto di questo varco decisivo. Nel frattempo, rimasto solo di
fronte all’ideologia borghese, l'hegelo-marxismo incastonato nello stalinismo
s’era insediato solidamente. Attraverso semplificazioni successive, esso nella
prova politica ben presto tendeva soltanto a ridar vita ad un positivismo
radicato ed inconscio, mettendogli il cappello di un sommario
messìanesimo proletario. Nizan e Lefebvre abbandonano la riflessione per la
politica; e Politzer, per ordine del Partito, abbandona la psicologia per
consacrarsi ad un’economia politica utilitaria.
Seconda e terza ondata di manicheismo, la guerra mondiale e la guerra
fredda: esse sommergono il mondo di antinomie ancora più fruste. Le scienze
umane che si sviluppano empiricamente — soprattutto negli Stati Uniti — per i
marxisti sanno lontano un miglio di sociologia poliziesca, e può così accadere
addirittura che semplicemente le si ignori. È per dieci anni il regno, postumo,
dello zdanovismo. Ed è già molto tardi quando la morsa si allenta, nel 1956, con
il permesso del rapporto Chruscev. L’innesto Lenin-Stalin era stato fatto ad un
livello troppo basso: impossibile ripartire dai piedi rianimando il giovane Marx
oppure, al contrario, il socialismo scientifico delle maturità. Di volta in volta
condannato dall’ufficio politico nonostante le loro rispettose prudenze,
gli scrittori di Althusser e di Garaudy, fra loro contrapposti, rappresentano la
duplice impasse. E Jean-Paul Sartre, la cui opera si è in parte sfiancata in
dispute col comunismo, fornisce, con la Critica della ragione dialettica, l’ultimo
rampollo — geniale, incompiuto e non conducibile a compiutezza
— dell’hegelo-marxismo.
Che si occupassero di cosmogonie oppure di analisi parziali, tutti avevano
lasciato che l’evidenza diventasse esclusivo patrimonio del pensiero
conservatore, per il solo fatto di aver scansato le domande originarie,
semplicissime e per ciò stesso totem e tabù: perché la teoria del proletariato
di Marx, fondamento dell’azione rivoluzionaria, non ha per nulla funzionato fino
in fondo negli stati industriali dell’Occidente, che hanno finora impedito
l’avvento al potere di quella classe che la dottrina designava come soggetto
della Storia? Perché la schiacciante maggioranza delle ricerche e delle scoperte
nelle scienze umane si sono verificate al di fuori del marxismo, e persino di esso,
ed il marxismo è stato contro di loro? E che nome dare a quella prodigiosa
alienazione che instaura l’oppressione negli stati che si richiamano al
socialismo? Porre queste domande, anche senza ancora rispondervi, significava
uscire dalla « Volgata », smettere di giudicare il marxismo in base alle sue
promesse ed al suo discorso — esorbitante privilegio che arroga a se stesso e
rifiuta alle teorie ad esso vicine —, confrontare finalmente il comunismo con la
realtà della sua analisi e con l’analisi della sua realtà, come direbbero
graziosamente i nostri hegeliani. Ben pochi vi si sono arrischiati, all’infuori di
Merleau-Ponty e di Marcuse 3.
Anche se corrosa, oggi, dalle sue disavventure politiche, la « Volgata » è
sempre presente nel sottofondo: consiste nell’ambizione filosofica e politica di
dar coronamento ad un sistema ordinato delle scienze dell'uomo e delle scienze
della natura — e, secondo i vari progetti, con l'annessione forzata di Freud o
dello strutturalismo —: sistema che abbraccerebbe tutto lo scibile umano e che
offrirebbe la chiave, nello stesso momento, dell’azione e della Storia. Vecchia
libido che ispirò dapprima le religioni, e poi, sul loro esempio, lo
stesso razionalismo; formula universale e quanto mai rassicurante che mette
ogni cosa al suo posto, integra il Male e garantisce una felice finalità alla
Storia; che esaudisce i voti del suo testimone divenuto suo agente. Nata sulle
fondamenta dell’idea borghese di progresso, la Storia cosiddetta dialettica viene
concepita sulla falsa misura degli ultimi sviluppi della civiltà occidentale.
Dall’età primitiva ai nostri giorni, dalla rivoluzione borghese alla rivoluzione
proletaria, attraverso un’evoluzione ineluttabile alla quale i più avvertiti
concedono qualche sfasatura di funzionamento, l’uomo si realizzerebbe per
tappe successive in insiemi sempre più complessi, il cui significato diverrebbe
agevolmente decifrabile non appena si venga a prender parte al movimento in
considerazione, e non appena si venga a conoscenza del suo tautologico
principio di trasformazione. Tutto qui è meraviglia: la schiavitù economico-
sociale concede pure alla libertà la parte che le spetta; la negatività è al servizio
di ciò che è positivo; lo sfruttamento del proletariato è l’annuncio del suo
trionfo così come un tempo la morte del Cristo annunciava la Redenzione; il
passato che è stato abolito si conserva in una sintesi superiore e la rivoluzione
riconcilierà l’uomo con se stesso e con la natura distruggendo l'alienazione per
sempre; essa è, come la grazia, allo stesso tempo necessaria — il capitalismo si
condanna alla rivoluzione —, contingente — anche la libertà dell’uomo deve
concorrere ad essa —, e perfino sufficiente... Rivoluzione sempre sognata e mai
fatta, proiettata in un avvenire immaginario ed esotico senz’altra
preoccupazione se non quella di ridare al mondo e all’uomo quel senso
della trascendenza che essi avevano perduto con la morte dì Dio. Si tratta, molto
precisamente, di una filosofia occidentale della Storia, ultimo sbocco del
pensiero europeo che si guarda bene dal rappresentare, pur magnificandoli,
l’evoluzione, i risultati e i desideri di un continente preciso e privilegiato: in una
parola, e malgrado tutte le smentite, l’apoteosi dell'idea hegeliana.
A partire dagli anni cinquanta tuttavia, al di là delle ideologie liberali e
tecnocratiche, era nata un’obiezione, primordiale e discreta, a proposito di
quello che è convenzione chiamare strutturalismo. Per un’antropologia nascente
e soprattutto per l’etnologia, a meno che non si voglia assumere l'atteggiamento
del missionario o del colono, non esiste una storia universale: la magia non è
meno complessa della scienza ed ognuna di esse si articola nella ricchezza del
sistema cui essa corrisponde. Non ci sono popoli primitivi e popoli evoluti, bensì
delle strutture diverse, in sé perfettamente connesse, disseminate in diversi punti
dello spazio e del tempo: si tratta di descriverle in se stesse, nel sistema di
significati e di riferimenti che è loro proprio, di scoprire il loro senso nascosto e
di concepire semplicemente il fatto che è storicamente possibile, in determinate
circostanze, passare da un sistema ad un altro in seguito ad un mutamento del
codice genetico delle società. Credere alla storia universale, interpretare i «
primitivi » in funzione di un futuro che non sarebbe poi altro che il nostro
presente, significa per Lévi-Strauss proiettare sulle altre società il sistema di
pensiero che caratterizza noi stessi ed interpretare ogni cosa secondo quelli che
sono i nostri miti. La prima, l’etnologia, si rifiuta di considerare i nostri valori
come la perorazione dello spirito umano e la misura di tutte le cose. L’analisi
era chiara e solida. E dal momento che per definizione essa non aveva né
supporto né mire politiche, per molto tempo è restata argomento di discussione a
livello specialistico.
Ma le rivolte della gioventù occidentale, contrapponendosi frontalmente alle
istituzioni ed all’ideologia borghesi, si dovevano necessariamente imbattere in
un marxismo che dava di esse l’immagine riflessa e rovesciata. L’atteggiamento
dei partiti comunisti di fronte ai movimenti studenteschi, così come i carri
armati di Praga, ebbero un grande peso: è vero del resto che le migliori
dimostrazioni a contrario sono spesso basate sui fatti, e talvolta su fatti militari.
Dopo di allora, i movimenti sono divampati e gli sconvolgimenti non hanno più
avuto limiti: negli Stati Uniti e in Europa, le nozioni stesse di politica, di
organizzazione, di insegnamento, di cultura, di famiglia, di lavoro, di tecnologia,
di civiltà vengono messe in discussione da una formidabile ondata di utopia. Dai
creatori dei gruppi di rock o di comunità alle fondatrici dei movimenti di
liberazione della donna, dall’ecologia all’uso degli allucinogeni, passando
attraverso la vita della strada, viene elaborata una contro-cultura che non è più
gran che debitrice all’hegelo-marxismo. I rifiuti sono massicci, assoluti e
sommari, in proporzione alle frustrazioni da cui sono scaturiti. Non è un caso
se, ben al di là della politica, la rock music si è imposta come l’unico
denominatore comune di tutte le manifestazioni, dalle più individuali alle più
concertate: essa esprime un nuovo comportamento ed una nuova sensibilità
piuttosto che una nuova ideologia, tanto più violenti quanto meno sono
discorsivi. Come avrebbe potuto la « Volgata » sfuggire a questo scrollone che
colpiva direttamente quella che è la sua molla centrale: il principio di autorità?
L’utopia non è sempre data. Al contrario essa fa la sua comparsa in momenti
precisi dell’evoluzione delle società, per sottolinearne le rotture più profonde:
rousseauismo nel xviii secolo, socialismi pre-marxisti all’inizio del xix, ondata
anti-autoritaria alla fine del xx secolo. Denunciando la società dominante in
contrapposizione al progetto di una società futura, l’utopia preannuncia e rende
possibili i nuovi modi di pensiero e di azione. Oggi, conosciamo le grida,
il ritmo e i miti; siamo ancora in attesa del linguaggio articolato che, in un
secondo tempo, dovrebbe conferire al movimento tutta la sua dimensione
storica.
Alcuni elementi tuttavia già esistono, anche se stanno un po’ indietro rispetto
al fronte della rivolta che è, occupato a fronteggiare i compiti più urgenti senza
molto curarsi delle proprie retrovie. Alcuni vengono da lontano, scampati allo
stalinismo nascente; altri da correnti autonome che sono comparse non senza
fatica in disparte tanto dal marxismo che dall’ideologia tecnocratica e che
rifioriscono ormai a contatto con la rivolta; altri ancora sono stati generati più
direttamente dai movimenti di contestazione attuali. Ne presentiamo qui un
primo panorama, anche se un po’ arbitrario-, fra tanti altri, Foucault, Marcuse,
Roel Van Duyn, Lefebvre, la CFDT, Deleuze, Guattari, Touraine espongono
un pensiero nuovo — ognuno a modo suo — e, finalmente, contemporaneo. Tutti
conoscono e utilizzano l’opera di Marx e dei suoi epigoni, ma non più come un
corpo dottrinale da illustrare, da arricchire o da abbattere: semplicemente
come materiale essenziale per la riflessione, da cui bisogna esser pronti a
prendere le distanze. Il rispetto religioso non fa più presa. Si tratta, in gradi
diversi, dell’inizio di un’analisi sociale: per la nostra società, così come per
l’individuo psicanalizzato, la cosa può andar bene o può andar male. È
troppo tardi per rimpiangere i miti o le rimozioni del passato.
Ciascuno di questi uomini, più moderato o più radicale — e in sensi diversi
— contesta naturalmente l’analisi del vicino, e ancor più probabilmente, questa
vicinanza stessa e le opinioni qui sopra espresse. Se di una corrente di idee
si tratta, essa è evidentemente altrettanto condivisa da altri quanto lo furono la
filosofia dei Lumi, da Voltaire a Rosseau, oppure le teorie socialiste dell’inizio
del xix secolo. Ma queste analisi sono costrette alla coesistenza, anche
se ognuna si vuol presentare come la sola vera (cosa che del resto non accade
sempre, ed anche questa è una novità). Fortunatamente incapaci di suscitare
corti di discepoli abbastanza incondizionati da semplificarle subito in precetti
settari, esse incominciano ad influenzare simultaneamente e
contradditoriamente un movimento che è esso stesso diversificato e confuso-. il
che è la condizione stessa della creatività. Per un anno, Actuel ha regolarmente
pubblicato le conversazioni qui sotto riportate. Le uniamo adesso in questa
raccolta.

MICHEL-ANTOINE BURNIER



1 Henri Lefebre, La Somme et le Reste, tome II, p. 404, La Nef de Paris.
2 Cfr. a questo proposito il libro di Richard Gombin, Les origines du

gauchisme, Le Seuil, Parigi.


3 Maurice Merleau-Ponty, Les Aventures de la dialectique, Gallimard;

Herbert Marcuse, Le marxisme soviétique, Gallimard, coll. ‘ Idées '.


Aspettando la RIVOLUZIONE
Michel Foucault






Michel Foucault, professore che si poneva problemi ma apolitico, autore di
una notevole Histoire de la folie à l’âge classique, era poco conosciuto allorché
comparve Les Mots et les choses nella primavera del 1966. Fu un fragore, il
primo successo filosofico in Francia dopo L’Essere e il Nulla di Jean-Paul Sartre.
Foucault respinge con forza il discorso generale che cerca di racchiudere tutta
l’attività umana in una sintesi metafisica, dialettica, storica. Vuole scoprire
il retroterra del sapere, i codici fondamentali di una cultura. Egli spiega: «
Quello a cui pensiamo è l’intimità di un pensiero anonimo e costrittivo che è il
pensiero di un’epoca e di un linguaggio. Pensiero e linguaggio hanno le loro
leggi di trasformazione. Il compito della filosofia attuale (...) è quello di riportare
alla luce questo pensiero che è precedente al pensiero, questo sistema che viene
prima di ogni sistema... È questo il fondo dal quale il nostro pensiero “ libero ”
emerge e brilla per un istante » 1. E aggiunge — e qui sta tutto lo scandalo: «
L’eredità più pesante che ci giunge dal xix secolo - e di cui è davvero ora di
sbarazzarsi — è l’umanesimo. (...) Salvare l’uomo, riscoprire l’uomo dentro
l’uomo, ecc., questo è lo scopo ultimo di tutte le imprese fatte di chiacchiere,
teoriche e pratiche, per riconciliare, ad esempio, Marx e Teilhard de Chardin:
imprese intrise di umanesimo che hanno condannato alla sterilità da molti anni a
questa parte, tutto il lavoro intellettuale. (...) Tutti i regimi dell’Est e dell’Ovest
espongono la loro merce scadente nello stand dell’umanesimo » 2. « Conforto e
profondo sollievo, dicono tuttavia Les mots et les choses, nel pensare che l’uomo
è soltanto un’invenzione recente, una figura che non ha ancora due secoli, un
semplice punto nel nostro sapere, e che esso scomparirà non appena tale sapere
avrà trovato una forma nuova ».
A sinistra, ad eccezione di qualche professore influenzato da Lévi-Strauss, da
Lacan o Althusser, si va in collera credendo di scoprire dietro queste
affermazioni una riformulazione sistematica della filosofia di Giscard
d’Estaing. Allora Sartre è categorico: « Si vuole dar vita ad una nuova ideologia
ultimo sbarramento che la borghesia possa ancora inalzare contro Marx » 3.
Passa il movimento di Maggio. Nell’autunno 1968, Foucault insegna a
Vincennes in mezzo all’agitazione di questa nuova base rossa dell’Università.
Un giorno del febbraio 1969, egli spuntò alla tribuna della Mutualité a fianco
di Jean-Paul Sartre. Sorpresa per i militanti: l’intellettuale distaccato si è buttato
nella politica rivoluzionaria. Ci si domanda volentieri come egli possa conciliare
il gauchismo con la sua filosofia gelida del sistema dell’Archeologia del
sapere4, che pubblica lo stesso anno sulla stessa linea retta dei Mots et des
choses. La spiegazione tuttavia è semplice a forza di grattare le radici del sapere
e dell’umanesimo, gli è venuta la voglia di strapparle. A questo livello, nessuno è
più estremo di lui: è il nostro « pensiero che viene prima del pensiero » che
Foucault vuole distruggere, e insieme al capitalismo il « sistema che viene prima
del sistema »: rovesciare tutte le istituzioni per cancellare le grandi ripartizioni
costitutive della civiltà occidentale, il bene e il male, il normale e il patologico,
l’innocenza e la colpevolezza, il soggetto e l’oggetto... Se converge così con
l’ultrasinistra più arrabbiata, politica e no, Foucault diventa tuttavia il compagno
di strada critico dei maoisti: non tanto per accordo sui principi — è probabile che
egli non apprezzi molto il vocabolario militare né le virtù dell’organizzazione
marxista-leninista — quanto per sostenere una violenza militante che svela ed
affronta le fondamenta dei poteri sociali. L’offensiva deve secondo lui andare
ben al di là dei puri e semplici scontri politici, a suo parere sempre invischiati
nell’umanesimo e in una preoccupazione di ricostruzione di cui egli non
vuol curarsi. Preciso e ostinato, Foucault lavora con il Gruppo d’informazione
sulle prigioni (GIP) ed appresta un assalto contro la psichiatria. Qui dei redattori
e dei lettori di Actuel conversano con lui.

MICHEL FOUCAULT Qual è la forma di repressione più insopportabile per
un liceale del giorno d’oggi: l’autorità familiare, il controllo quotidiano che la
polizia esercita sulla vita di ogni uomo, l’organizzazione e la disciplina dei licei,
oppure quella passività che vi è imposta dalla stampa, ivi compreso forse un
giornale come Actuel?
SERGE La repressione nei licei: essa è evidente dal momento che viene
usata contro un gruppo che si sforza di agire. È più violenta e la si sente più
acutamente.
ALAIN Non bisogna dimenticare la strada, le ispezioni al Quartiere Latino, i
flic che bloccano il vostro solex con la loro macchina per vedere se non avete
della droga. È una presenza continua: io non posso sedermi per terra senza
che un uomo in divisa mi costringa a rialzarmi. Detto ciò, la repressione
nell’insegnamento, l’informazione orientata, è forse peggio...
SERGE Bisogna distinguere: innanzitutto l’azione dei genitori, che vi
impongono il liceo come una tappa verso una determinata situazione
professionale e che si sforzano di allontanare da subito ciò che potrebbe nuocere
a questa situazione; poi l’amministrazione, che vieta ogni azione libera e
collettiva, per quanto anodina possa essere; infine, l’insegnamento stesso, ma qui
la questione è più confusa...
JEAN-PIERRE In numerosi casi, l’insegnamento del professore non è
vissuto immediatamente come repressivo, ma lo è profondamente.
MICHEL FOUCAULT Certamente, il sapere trasmesso assume sempre
un’apparenza positiva. In realtà, esso funziona secondo tutto un gioco di
repressione e di esclusione; il movimento di Maggio in Francia ha fatto prender
coscienza, con forza, di certi suoi aspetti: esclusione di coloro che non hanno
diritto al sapere, o che non hanno diritto se non a un certo tipo di sapere;
imposizione di una certa norma, di un certo filtro del sapere che si nasconde
sotto l’apparenza disinteressata, universale, obbiettiva della conoscenza;
esistenza di quelli che si potrebbero chiamare « circuiti riservati del sapere », che
si formano all’interno di un apparato amministrativo o governativo, di un
apparato produttivo, ed ai quali non è possibile avere accesso dall’esterno.
PHILIPPE Secondo lei, il nostro sistema d’insegnamento, piuttosto che
trasmettere un vero sapere, tenderebbe prima di tutto a fare una distinzione fra i
buoni e i cattivi elementi secondo i criteri del conformismo sociale.
MICHEL FOUCAULT La cultura accademica, quale viene distribuita dal
sistema scolastico, implica evidentemente una conformità politica: in storia, vi
viene chiesto di sapere un certo numero di cose, e di non sapere le altre; o,
meglio, un certo numero di cose costituiscono il sapere nel suo contenuto e nelle
sue norme. Due esempi. La cultura ufficiale ha sempre rappresentato il potere
politico come la posta di una lotta all’interno di una classe sociale (dispute
dinastiche nell’aristocrazia, conflitti parlamentari nella borghesia); o ancora
come la posta di una lotta fra l’aristocrazia e la borghesia. Quanto ai movimenti
popolari, essi sono stati presentati come causati dalle carestie, dalle imposte,
dalla disoccupazione; mai come una lotta per il potere, come se le masse
potessero sognare di mangiar bene, ma certamente non di esercitare il potere. La
storia delle lotte per il potere, e quindi delle condizioni reali del suo esercizio e
del suo mantenimento, resta pressoché interamente immersa. La cultura non vi fa
neppure cenno: si tratta di cose che non devono essere sapute. Altro esempio:
quello di una cultura operaia. Esiste da un lato tutto un sapere tecnico degli
operai che è stato oggetto di un’incessante estrazione, traslazione,
trasformazione da parte del padronato e con la mediazione di coloro che
costituiscono « i quadri tecnici » del sistema industriale: dietro la divisione del
lavoro, attraverso essa e grazie ad essa, tutto un meccanismo di appropriazione
del sapere, che maschera, confisca e scredita il sapere operaio
(occorrerebbe analizzare in questa ottica le « grandi scuole scientifiche »).
Esiste poi tutto il sapere politico degli operai (conoscenza della loro
condizione, memoria delle loro lotte, esperienze di strategie). È il sapere che è
stato uno strumento della lotta della classe operaia e che si è venuto elaborando
attraverso questa lotta. Nel primo esempio che citavo, si trattava di processi reali
che venivano tenuti lontani dal sapere accademico. Nel secondo, si tratta di un
sapere che è sia disappropriato, sia escluso da parte del sapere accademico.
JEAN-FRANÇOIS Nel tuo liceo, ad esempio, c’è una forte percentuale di
allievi di origine operaia?
ALAIN Un po’ meno del 50%.
JEAN-FRANÇOIS Nelle lezioni di storia vi hanno parlato dei sindacati?
ALAIN Nella mia classe no.
SERGE Nella mia neppure. Guardate come sono organizzati gli studi: nei
primi anni di scuola, ci si occupa soltanto del passato. Bisogna avere 16 o 17
anni per arrivare finalmente ai movimenti ed alle dottrine moderne, i soli che
possano essere un po’ sovversivi. Anche in terza, i professori di francese si
rifiutano assolutamente di affrontare gli autori contemporanei: mai una parola
sui problemi della vita reale. Quando finalmente li si sfiora, in prima o
nell’ultimo anno, la gente è già condizionata da tutto l’insegnamento precedente.
MICHEL FOUCAULT Si tratta di un principio di lettura - e quindi di scelta e
di esclusione — per tutto quanto oggi accede, o viene detto o fatto. « Di tutto
quel che accade, tu non capirei né percepirai se non ciò che viene reso
intellegibile da quanto è stato accuratamente prelevato nel passato; e che, a dire
il vero, è stato prelevato soltanto per rendere inintellegibile il resto ». Sotto le
specie di quello che di volta in volta è stato chiamato verità, uomo, cultura,
scrittura, ecc., si tratta sempre di scongiurare ciò che accade: l’avvenimento. Le
famose continuità storiche hanno la funzione apparente di spiegare; gli eterni «
ritorni » a Freud, a Marx, ecc, hanno la funzione apparente di fondare; nell’uno
come nell’altro caso, viene escluso il momento di rottura dato dall’avvenimento.
Per dirla grossolanamente, l’avvenimento ed il potere sono le cose che vengono
escluse dal sapere e che sono organizzate nella nostra società. Il che non fa
meraviglia: il potere di classe (che determina questo sapere) deve apparire
inaccessibile all’avvenimento; e l’avvenimento in ciò che esso ha di pericoloso
deve venire sottomesso e dissolto nella continuità di un potere di classe che non
viene nominato. Il proletariato, al contrario sviluppa un sapere centrato sulla
questione della lotta per il potere, sul modo in cui bisogna suscitare
l’avvenimento, rispondere ad esso evitarlo, ecc.; un sapere assolutamente
inammissibile per l’altro perché imperniato attorno alle questioni del potere e
dell’avvenimento.
È questa la ragione per cui non bisogna farsi illusioni sulla modernizzazione
dell’insegnamento, sulla sua possibilità di aprirsi sul mondo attuale: il significato
di una simile operazione sarebbe quello di mantenere il vecchio
substrato tradizionale dell’« umanesimo », e di favorire, poi, l’apprendimento
rapido ed efficace di un certo numero di tecniche moderne finora trascurate.
L’umanesimo garantisce il mantenimento dell’organizzazione sociale, la tecnica
permette a questa società di svilupparsi, ma sulla linea che le è propria.
JEAN-FRANÇOIS Qual è la vostra critica dell’umanesimo? E con quali
valori può essere sostituito in un altro sistema di trasmissione del sapere?
MICHEL FOUCAULT Per umanesimo io intendo l’insieme di quei discorsi
con i quali è stato detto all’uomo occidentale: « Per quanto tu non eserciti il
potere, puoi ugualmente essere sovrano. Meglio ancora: più tu rinuncerai ad
esercitare il potere e meglio ti sarai sottomesso a ciò che ti viene imposto, più tu
sarai sovrano ». L’umanesimo consiste nell’invenzione successiva di quelle
sovranità assoggettate che sono l’anima (sovrana sul corpo, sottoposta a Dio), la
coscienza (sovrana nell’ordine del giudizio, sottomessa all’ordine della verità),
l’individuo (sovrano titolare dei suoi diritti, sottomesso alle leggi della natura o
alle regole della società), la libertà fondamentale (interiormente sovrana,
esteriormente consenziente e « concordante col suo destino »). In breve,
l’umanesimo è tutto ciò grazie al quale in Occidente è stato bloccato il desiderio
del potere, proibito volere il potere, esclusa la possibilità di prenderlo. Il cuore
dell’umanesimo è la teoria del soggetto (nel duplice senso della parola 5 ). Ecco
perché l’Occidente respinge con tanto accanimento tutto quanto può far saltare
questo chiavistello. Chiavistello che può essere attaccato in due modi. O
attraverso un « disassoggettamento » della volontà di potere (cioè con la lotta
politica intesa come lotta di classe), o con un lavoro di distruzione del soggetto
come pseudo-sovrano (cioè con l’attacco « culturale »: soppressione dei tabù,
delle limitazioni e delle divisioni sessuali; pratica dell’esistenza comunitaria;
disinibizione nei confronti della droga; rottura di tutti i divieti e di tutte le
chiusure mediante le quali si ricostituisce e si riproduce l’individualità
normativa). Penso qui a tutte le esperienze che la nostra civiltà ha respinto o
che ha ammesso soltanto per quanto concerne l’elemento della letteratura.
JEAN-FRANÇOIS A partire dal Rinascimento?
MICHEL FOUCAULT A partire dal diritto romano, questa armatura della
nostra civiltà che è già una definizione dell'individualità come sovranità
assoggettata. Il sistema della proprietà privata implica una simile concezione: il
proprietario è solo lui padrone del suo bene, ne usa e ne abusa, e tuttavia si
sottomette all’insieme delle leggi che stanno a fondamento della sua proprietà. Il
sistema romano strutturava lo Stato e dava i fondamenti della proprietà.
Sottometteva la volontà di potere col fissare un « diritto sovrano di proprietà »
che non poteva venire esercitato se non da coloro che detenevano il potere. In
questo gioco a incastro l’umanesimo si è istituzionalizzato.
JEAN-PIERRE La società costituisce un tutto ben congegnato. Essa è per
natura repressiva, dal momento che cerca di riprodursi e di perseverare nel suo
essere. Come lottare: abbiamo a che fare con un organismo globale,
indissociabile, retto da una legge generale di conservazione e di
evoluzione, oppure con un insieme più differenziato nel quale una classe avrebbe
a mantenere l’ordine delle cose ed un’altra a rovesciarlo? Per me la risposta non
è affatto evidente: non mi sento di sottoscrivere la prima ipotesi, ma la seconda
mi sembra troppo semplicistica. Esiste effettivamente un’interdipendenza del
corpo sociale che si perpetua da sé.
MICHEL FOUCAULT Il Maggio offre una prima risposta: gli individui
sottomessi all’insegnamento, sui quali pesavano le forme più costrittive del
conservatorismo e dello spirito ripetitivo, hanno condotto una battaglia
rivoluzionaria. In questo senso, la crisi di pensiero aperta in maggio è
straordinariamente profonda. Essa lascia la società in una perplessità e in una
difficoltà da cui è ben lontana dall’uscire.
JEAN-PIERRE L’insegnamento non è l’unico veicolo dell’umanesimo e
della repressione sociale; vi sono anzi ben altri meccanismi, più essenziali, prima
ancora della scuola o al di fuori di essa.
MICHEL FOUCAULT Sono molto d’accordo. Agire all’interno o all’esterno
dell’Università: questo è un dilemma per un uomo come me che per lungo tempo
ha insegnato. Dobbiamo ritenere che l’Università è sprofondata in maggio, che i
conti sono stati regolati, e passare ad altro come fanno attualmente dei gruppi
insieme ai quali io lavoro: lotta contro la repressione nel sistema carcerario,
negli ospedali psichiatrici, nel sistema giudiziario, nella polizia? Oppure non
si tratta che di un espediente per sfuggire all’evidenza — che ancora mi turba —
che la struttura universitaria si mantiene in piedi e che occorre continuare a
militare su questo terreno?
JEAN-FRANÇOIS Personalmente, non penso che l’Università sia stata
veramente demolita. Credo che i maoisti abbiano commesso un errore con
l’uscita dal campo universitario, che avrebbe potuto costituire una base solida,
per cercare nelle fabbriche un radicamento difficile e relativamente artificiale.
L’Università scricchiolava: si sarebbe potuto approfondire la falla e provocare
una rottura irrimediabile nel sistema di trasmissione del sapere. La scuola,
l’Università rimangono settori determinanti. Non tutto è deciso all’età di cinque
anni, anche se si ha un padre alcolizzato ed una madre che stira nella camera da
letto.
JEAN-PIERRE La rivolta universitaria si è prestissimo scontrata con un
problema, sempre Io stesso: noi - cioè i rivoluzionari o coloro ai quali non gliene
fregava un gran che del l’insegnamento - eravamo bloccati dalla gente che
voleva lavorare e imparare un mestiere. Che cosa bisognava fare? Cercare le
strade di un nuovo insegnamento, di nuovi metodi e contenuti?
JEAN-FRANÇOIS Cosa che avrebbe, in ultima analisi, migliorato il
rendimento delle strutture esistenti e formato delle persone per il sistema.
PHILIPPE Assolutamente no. Si può imparare una cultura diversa in un
modo diverso senza ricascare nel sistema. Se si abbandona l’Università dopo
averle dato un po’ di scossoni, si lascia in piedi un’organizzazione che
continuerà a funzionare ed a riprodursi per forza d’inerzia fintantoché non si
proporrà nulla di abbastanza concreto che permetta di conquistare l’adesione di
coloro che ne sono le vittime.
MICHEL FOUCAULT L’Università rappresentava l’apparato istituzionale
che permetteva alla società di assicurarsi il ricambio, tranquillamente e con costi
minimi. Il disordine nell’istituzione universitaria, la sua condanna a morte —
reale o apparente, poco importa — non hanno affatto leso la volontà di
conservazione della società la volontà di rimanere sempre uguale, di ripetersi.
Chiedevate che cosa occorrerebbe fare per spezzare questo ciclo di riproduzione
sociale del sistema. Non sarebbe sufficiente sopprimere l’Università o gettarla
nel caos: occorrerebbe quindi rivolgersi anche alle altre forme di repressione.
JEAN-PIERRE Al contrario di Philippe, io non credo molto ad un tipo di
insegnamento « diverso ». Mi interesserebbe, al contrario, che l’Università
invertisse la propria funzione sotto la pressione dei rivoluzionari, che
contribuisse così a decondizionare, a distruggere i valori e le conoscenze
acquisite. C’è d’altra parte un numero crescente di professori da poter inserire in
questo tipo di attività.
FRÉDÉRIC Se anche vanno in porto, le esperienze di questo tipo rimangono
però isolate. Non conosco altri se non Sénik, quando insegnava filosofia a
Bergson nel 1969, che sia riuscito a far saltare il ruolo stesso dell’insegnante e
del sapere. Ma è stato rapidamente isolato, tagliato fuori. L’istituzione
universitaria possiede ancora dei meccanismi di difesa potenti. Rimane in grado
di assimilare molte cose e di eliminare i corpi estranei non integrabili.
Voi parlate come se l’Università francese prima del maggio 1968 fosse stata
adatta ad una società industriale come la nostra. A mio avviso, non era affatto
così redditizia, così funzionale, era ancora troppo arcaica. Il maggio ha
effettivamente spazzato via i vecchi quadri istituzionali dell’insegnamento
superiore: ma il bilancio è poi così negativo per la classe dirigente? Le ha
permesso di ricostruire un sistema molto più adeguato. Di tener fuori le
«Grandes Ecoles », pezzo forte della selezione tecnocratica. Di creare un
centro come Dauphine, la prima business school all’americana aperta in Francia.
Infine, da tre anni a questa parte, la contestazione viene confinata a Vincennes e
in alcuni dipartimenti di Nanterre, sacche universitarie senza alcuna influenza
sul sistema e senza sbocchi: una massa entro cui sono stati intrappolati i
pesciolini gauchistes. L’Università elimina le proprie strutture arcaiche e si
adegua concretamente alle esigenze del neocapitalismo; sarebbe questo il
momento di scendere di nuovo in campo.
MICHEL FOUCAULT Morte dell’Università: io prendevo l’espressione nel
suo significato più superficiale. Il maggio 1968 ha ucciso l’insegnamento
superiore nato nell’800, questo strano insieme di istituzioni che trasformava una
piccola parte di giovani in élite sociale. Rimangono i grandi meccanismi segreti,
mediante i quali una società trasmette il proprio sapere e si tramanda essa stessa
sotto le sembianze del sapere: sono sempre là, giornali, televisione, scuole
tecniche ed i licei ancor più dell’Università.
SERGE Nei licei l’organizzazione repressiva non è stata intaccata. La scuola
è malata. Ma c’è solo una minoranza che se ne rende conto e lo rifiuta.
ALAIN E nel nostro liceo la minoranza politicizzata di due o tre anni fa oggi
è scomparsa.
JEAN-FRANÇOIS E i capelli lunghi hanno ancora un qualche significato?
ALAIN Assolutamente no; anche i damerini si sono lasciati crescere i
capelli.
JEAN-FRANÇOIS E la droga?
SERGE Non rappresenta un fenomeno di per se stessa. Per i liceali che la
prendono rappresenta un abbandono totale dell’idea della carriera. I liceali
politicizzati proseguono gli studi, quelli che si drogano ne escono
completamente.
MICHEL FOUCAULT La lotta antidroga è un pretesto per aumentare la
repressione sociale: operazione di polizia, ma anche esaltazione dell’uomo
normale, razionale, cosciente e inserito. Si ritrova questa immagine tipo a tutti i
livelli. Date un’occhiata a France-Soir di oggi che riporta questo titolo: il 53%
dei Francesi favorevole alla pena di morte, contro il 38% del mese scorso.
JEAN-FRANÇOIS Può darsi che dipenda anche dalla rivolta nel carcere di
Clairvaux?
MICHEL FOUCAULT Evidentemente. Si coltiva il terrore del criminale, si
usa la minaccia del mostro per rafforzare questa ideologia del bene e del male,
del lecito e dell’illecito che la scuola di oggi non osa trasmettere con la stessa
sicurezza di una volta. Le stesse cose che il professore di filosofia non osa più
affermare nel suo linguaggio contorto, vengono proclamate senza complessi dal
giornalista. Voi mi direte: è sempre stato così, i giornalisti e i professori di
filosofia sono sempre stati fatti per dire le stesse cose. Ma oggi i giornalisti sono
spinti, sono invitati, sono obbligati a dirle, con sempre maggior forza e con
sempre maggior insistenza, di pari passo col fatto che i professori possono dirle
sempre meno.
Voglio raccontarvi una storia. La rivolta di Clairvaux ha provocato una
settimana di rappresaglie in tutte le carceri. Qua e là i secondini hanno rotto il
muso ai detenuti, in particolare a Fleury-Mérogis, il carcere giovanile. La madre
di un detenuto è venuta a cercarci; sono stato con lei all’RTL per cercare di far
pubblicare la sua testimonianza. Ci ha ricevuti un giornalista, che ci ha detto: «
Non mi stupisco, perché i secondini sono giunti press’a poco allo stesso livello
di degenerazione dei detenuti ». Se un professore parlasse così in un liceo
provocherebbe una piccola sommossa o si prenderebbe un ceffone.
PHILIPPE Effettivamente un professore non parlerebbe così: ma è perché
non può più farlo, oppure perché lo direbbe in altro modo, che è poi il suo ruolo?
Secondo lei, come bisogna lottare contro questa ideologia, e contro i meccanismi
della repressione, al di là delle petizioni e delle azioni riformiste?
MICHEL FOUCAULT Penso che azioni specifiche e locali possano andare
molto lontano. Considerate l’azione del GIP (Gruppo d’informazione sulle
prigioni) durante l’ultimo anno. I suoi interventi non si proponevano come scopo
soltanto che le visite ai carcerati potessero durare trenta minuti, o che le celle
venissero dotate di sciacquone. Ma si proponevano di mettere in discussione la
distinzione stessa, sociale e morale, fra innocenti e colpevoli. Per far sì
che questa proposta non rimanga sul piano filosofico o puramente umanitario,
occorre concretizzarla nell’azione, in situazioni ben determinate. A proposito del
sistema carcerario, l’umanista direbbe: « i colpevoli sono colpevoli e gli
innocenti innocenti. Resta tuttavia che il condannato è un uomo come tutti gli
altri e che la società deve quindi rispettare quanto di umano vi è in lui: di
conseguenza, sciacquoni! » La nostra azione invece non cerca l’anima o
l’uomo dietro il condannato, ma cerca di cancellare questo solco profondo fra
l’innocenza e la colpevolezza. È la domanda che poneva Genet a proposito della
morte del giudice di Soledad o di quell’aereo dirottato dai Palestinesi in
Giordania. I giornali versavano lacrime sul giudice e su quegli sfortunati turisti
sequestrati in pieno deserto senza una ragione apparente; Genet diceva: « Un
giudice sarebbe innocente? e una signora americana che ha denaro sufficiente
per fare la turista in quel modo? »
PHILIPPE Ciò significa che voi cercate prima di tutto di cambiare la
coscienza delle persone e trascurate, per adesso, la lotta contro le istituzioni
politiche ed economiche?
MICHEL FOUCAULT Mi avete capito male. Se si trattasse semplicemente
di toccare la coscienza della gente, basterebbe pubblicare dei giornali e dei libri,
o lusingare un regista della radio o della televisione. Noi vogliamo attaccare
l’istituzione fino al punto in cui essa culmina e s’incarna in un’ideologia
semplice e fondamentale come le nozioni di bene, di male, di innocenza, di
colpevolezza. Vogliamo cambiare questa ideologia vissuta attraverso lo spessore
del filtro istituzionale di cui è rivestita, e grazie al quale si è cristallizzata e
riprodotta. Per semplificare, l’umanesimo consiste nel voler cambiare il sistema
ideologico senza toccare l’istituzione; il riformismo nel cambiare l’istituzione
senza toccare il sistema ideologico. L’azione rivoluzionaria si definisce al
contrario come uno scuotimento simultaneo della coscienza e dell’istituzione; il
che presuppone che si colpiscano i rapporti di potere di cui esse sono lo
strumento, l’armatura, l’intelaiatura. Credete forse che si potrà insegnare
la filosofia nello stesso modo, e così pure il suo codice morale, se sprofonda il
sistema penale?
JEAN-PIERRE E inversamente, si potrebbero mettere le persone in galera
allo stesso modo di adesso, se l’insegnamento fosse interamente sconvolto? È
importante non restare limitati ad un solo settore, se no l’azione rischia alla
fine di impantanarsi nel riformismo; bensì passare dalla scuola alle carceri, dalle
carceri agli ospedali psichiatrici... D’altronde è anche questa la vostra
intenzione?
MICHEL FOUCAULT Abbiamo effettivamente iniziato a intervenire negli
ospedali psichiatrici. Con metodi simili a quelli utilizzati per le carceri: una sorta
di inchiesta-lotta realizzata, perlomeno in parte, da quelli stessi cui l’inchiesta è
rivolta. Il ruolo repressivo dell’ospedale psichiatrico è conosciuto: vi si rinchiude
la gente e la si sottopone a una terapia — chimica o psicologica — sulla quale
essa non ha alcun controllo, oppure a una non-terapia, che si chiama camicia di
forza. Ma la psichiatria spinge le sue ramificazioni ben più lontano,
ramificazioni che ritroviamo negli assistenti sociali, negli specialisti
dell’orientamento professionale, negli psicologi scolastici, nei medici che si
occupano di psichiatria settoriale: tutta questa psichiatria della vita quotidiana
che costituisce una specie di strumento di rincalzo della repressione e delia
polizia. Questa infiltrazione si estende nelle nostre società, senza contare
l’influenza degli psichiatri delle rubriche dei giornali, che diffondono i loro
consigli. La psico-patologia della vita quotidiana rivela forse l’inconscio del
desiderio; la psichiatrizzazione della vita quotidiana, se la si analizzasse da
vicino, rivelerebbe forse l’invisibilità del potere.
JEAN-FRANÇOIS A quale livello contate di agire? Ve la prenderete con gli
assistenti sociali?
MCHEL FOUCAULT No... Vorremmo lavorare con dei liceali, degli
studenti, della gente della scuola vigilata, tutti individui che sono stati sottoposti
alla repressione psicologica o psichiatrica nella scelta dei loro studi, nei loro
rapporti con la famiglia, nella sessualità o a proposito della droga. Costoro come
sono stati ripartiti, inquadrati, selezionati, esclusi in nome della psichiatria e
dell’uomo normale, vale a dire in nome dell’umanesimo?
JEAN-FRANÇOIS E l’antipsichiatria, il lavoro all’interno dell’ospedale
psichiatrico assieme agli psichiatri, è cosa che non vi interessa?
MICHEL FOUCAULT È questo un compito che gli psichiatri sono i soli a
poter svolgere nella misura in cui l’ingresso nell’ospedale non è libero. Bisogna
tuttavia fare attenzione: il movimento dell’antipsichiatria, che si contrappone alla
nozione di « asylum », non deve portare ad esportare la psichiatria all’esterno
con la moltiplicazione degli interventi nella vita quotidiana.
FRÉDÉRIC La situazione nelle prigioni è apparentemente peggiore, dal
momento che non vi esistono altri rapporti se non quello del conflitto fra le
vittime e gli agenti della repressione: « progressisti » da attrarre verso il
movimento non sono reperibili. Nell’ospedale psichiatrico al contrario della lotta
non si sobbarcano le vittime bensì gli psichiatri: gli agenti della repressione
lottano contro la repressione. Ma questo è realmente un vantaggio?
MICHEL FOUCAULT Non ne sono sicuro. A differenza delle rivolte di
prigionieri, il rifiuto dell’ospedale psichiatrico da parte del malato troverà senza
dubbio molta difficoltà ad affermarsi come un rifiuto collettivo e politico. Il
problema è quello di sapere se dei malati sottoposti alla segregazione del
manicomio possono rivoltarsi contro l’istituzione e finalmente denunciare la
discriminazione stessa che li ha designati ed esclusi come malati mentali. Lo
psichiatra Basaglia ha tentato in Italia esperimenti di questo genere: egli riuniva
ammalati, medici e personale ospedaliero. Non si trattava di rifare un
sociodramma durante il quale ognuno avrebbe fatto uscire i suoi fantasmi e
reinterpretato la scena primitiva, bensì di porre la domanda: le vittime del
manicomio intraprenderanno una lotta politica contro la struttura sociale che li
denuncia come pazzi? Gli esperimenti di Basaglia sono stati brutalmente vietati.
FRÉDÉRIC La distinzione fra normale e patologico è ancora più forte di
quella fra colpevole e innocente.
MICHEL FOUCAULT Ognuna rafforza l’altra. Quando non è più possibile
enunciare un giudizio in termini di bene e di male, lo si esprime in termini di
normale e di anormale. E quando si deve dare una giustificazione a quest’ultima
distinzione, si ritorna a delle considerazioni su ciò che è buono o nocivo per
l’individuo. Si tratta di manifestazioni di un dualismo che è costituzionale nella
coscienza occidentale.
Più in generale, ciò significa che il sistema non lo si combatte un pezzetto
alla volta: noi dobbiamo essere presenti su tutti i fronti, Università, prigioni,
psichiatria, non certo nello stesso istante (le nostre forze non sono ancora
sufficienti), ma di volta in volta. Si batte, si pesta contro gli ostacoli più solidi: il
sistema si screpola in un altro punto, si insiste, si crede di aver vinto e
l’istituzione si ricostituisce più lontano, allora ci si riprova. È una lotta lunga,
ripetitiva, incoerente in apparenza: la sua unità le viene data proprio dal sistema
e dal potere che attraverso di esso si esprime.
ALAIN Domanda banale, che però non si potrà eternamente scansare: che
cosa mettere al posto di questo sistema?
MICHEL FOUCAULT Io penso che immaginare un altro sistema è cosa che
attualmente fa ancora parte del sistema Forse è proprio quanto è accaduto nella
storia dell’Unione sovietica: le istituzioni apparentemente nuove sono state di
fatto concepite a partire da elementi presi in prestito dal sistema precedente.
Ricostituzione di un esercito rosso ricalcato sul modello zarista, ritorno al
realismo artistico, ad una morale familiare tradizionale: l’Unione sovietica è
ricascata in norme ispirate alla società borghese del xix secolo, più per utopismo,
forse, che non per aderenza alle realtà.
FRÉDÉRIC Lei non ha ragione interamente. Il marxismo si era definito,
come socialismo scientifico in contrapposizione al socialismo utopistico. Esso si
era rifiutato di parlare della società futura. Il potere sovietico è stato trascinato
dai problemi concreti, dalla guerra civile. Bisognava vincere la guerra, far
funzionare le fabbriche: si fece ricorso ai soli modelli disponibili e
immediatamente efficaci, la gerarchia militare, il sistema Taylor. Se l’Unione
sovietica ha così progressivamente assimilato le norme del mondo borghese,
è probabilmente perché non ne aveva di altre a disposizione. Qui non è in gioco
l’utopia, ma proprio la sua assenza. L’utopia ha forse un ruolo di forza motrice
che dev’essere messa in campo.
JEAN-FRANÇOIS L’attuale movimento avrebbe bisogno di un’utopia, e di
una riflessione teorica, che oltrepassino l’ambito delle esperienze vissute,
individuali e represse.
MICHEL FOUCAULT E se si dicesse il contrario: che occorre rinunciare
alla teoria e al discorso generale. Questo bisogno di teoria fa ancora parte di
questo sistema con cui si vuole chiudere la partita.
JEAN-FRANÇOIS Lei crede che il semplice fatto di far ricorso alla teoria ha
ancora a che vedere con la dinamica della cultura borghese?
MICHEL FOUCAULT Sì, forse. In cambio, io contrapporrei l’esperienza
all’utopia. La società futura si può forse tratteggiare attraverso esperienze come
la droga, il sesso, la vita comunitaria, un’altra coscienza, un altro tipo di
individualità... Se il socialismo scientifico è scaturito dal superamento delle
utopie del xix secolo, la socializzazione reale scaturirà forse, nel xx secolo, dalle
esperienze.
JEAN-FRANÇOIS E l’esperienza del maggio ’68, indubbiamente,
l’esperienza di un potere. Ma essa già presupponeva un discorso utopistico: il
maggio significava occupare uno spazio con un certo discorso...
PHILIPPE ...Discorso che restava insufficiente. La riflessione gauchiste
antecedente non corrispondeva se non in maniera superficiale alle aspirazioni
che venivano liberandosi. Il movimento sarebbe forse andato molto più lontano
se fosse stato sostenuto da una riflessione che gli avesse fornito le sue
prospettive.
MICHEL FOUCAULT Non ne sono persuaso. Ma Jean-François ha ragione
di parlare dell’esperienza di un potere. È di importanza capitale il fatto che
decine di migliaia di persone abbiano esercitato un potere che non aveva assunto
la forma dell’organizzazione gerarchica. Essendo il potere soltanto, e per
definizione, ciò che la classe al potere abbandona meno facilmente e tiene a
recuperare prima di ogni altra cosa, l’esperienza ha potuto reggere, per questa
volta, non più di qualche settimana.
PHILIPPE Se ho ben capito, lei pensa anche che è inutile o prematuro
ricreare dei circuiti paralleli, come le università libere negli Stati Uniti, specie di
doppioni che affiancano le istituzioni contro cui si combatte.
MICHEL FOUCAULT Se voi volete che al posto della stessa istituzione
ufficiale un’altra istituzione possa adempire alle stesse funzioni, meglio e in
modo diverso, voi siete già riassorbiti nella struttura dominante.
JEAN-FRANÇOIS Io non arrivo a credere che il movimento debba arrestarsi
alla tappa attuale, a questa ideologia dell'underground così vaga, così slegata,
che si rifiuta di addossarsi il più piccolo lavoro sociale ed il più piccolo
servizio comune a partire dal momento in cui essi vanno al di là dell’immediato
ambiente circostante. A questo livello, i gruppi restano incapaci di assumere
l’insieme della società, o perfino di concepire la società come un insieme.
MICHEL FOUCAULT Voi vi chiedete se una società globale potrebbe
funzionare partendo da esperienze così divergenti e disperse, prive di un discorso
generale dietro. Io credo al contrario che sia l’idea stessa di un « insieme della
società » a trarre la propria origine dall’utopia. Questa idea è nata nel mondo
occidentale dentro quella linea storica ben specifica che ha avuto come sbocco il
capitalismo. Parlare di un « insieme della società » al di fuori dell’unica forma in
cui noi lo conosciamo, significa sognare partendo dagli elementi della veglia. Si
crede facilmente che chiedere a delle esperienze, azioni, strategie, progetti di
tener conto dell’« insieme della società », sia il minimo che possa essere
loro chiesto. Il minimo richiesto per esistere. Io penso invece che significhi
chieder loro il massimo; che significhi perfino imporre loro una condizione
impossibile: « l’insieme della società » funziona infatti precisamente e proprio in
maniera tale ed allo scopo che essi non possano né aver luogo, né riuscire, né
perpetuarsi. « L’insieme della società » è ciò di cui appunto non bisogna tenere
conto, se non come dell’obbiettivo che si deve distruggere. Poi, speriamo bene
che non esisterà più nulla che assomigli all’insieme della società.
FRÉDÉRIC II modello sociale dell’Occidente si è universalizzato come un «
insieme della società » incarnato dallo stato: non perché fosse il migliore, ma
semplicemente perché era dotato di una potenza materiale e di
un’efficacia superiori. Il problema è che fino ad oggi tutte le rivolte vittoriose
contro questo sistema non sono potute riuscire se non facendo ricorso a dei tipi
di organizzazione ad esso paragonabili, organizzazioni partigiane o statali, che si
contrapponevano punto per punto alle strutture dominanti e permettevano così di
porre la questione centrale del potere. Viene messo in causa non solo il
leninismo, ma anche il maoismo: organizzazione ed esercito popolari contro
organizzazione ed esercito borghesi, dittatura e stato proletario... Questi
strumenti concepiti per la presa del potere si ritiene scompariranno dopo una
tappa di transizione. Ma non è vero nulla, come ha dimostrato l’esperienza
bolscevica; e la rivoluzione culturale cinese non li ha dissolti totalmente.
Condizioni della vittoria, essi conservano una dinamica loro propria che
si rivolta ben presto contro quelle spontaneità che essi contribuiscono a liberare.
È questa una contraddizione che è forse la contraddizione fondamentale
dell’azione rivoluzionaria.
MICHEL FOUCAULT Ciò che mi colpisce nel vostro ragionamento è che
esso viene tenuto nella forma del « fino ad oggi ». Ma un’impresa rivoluzionaria
è tale precisamente in quanto diretta non soltanto contro il presente, l’oggi,
bensì contro la legge del « fino ad oggi ».



1 Quinzaine littéraire, n. 5, 5 maggio 1966.
2 Ibid.
3 L'Arc, n. 30, 1966.
4 Michel Foucault, L'archeologia del sapere, ed. Rizzoli, Milano 1971.
5 I due sensi sono più espliciti in francese, dove sujet significa anche "

suddito ” (NdT).
Herbert Marcuse






Herbert Marcuse ha vissuto le barricate spartakiste del 1919 e l’assassinio
della Comune di Berlino da parte di un governo socialista, si è scontrato col
nazismo, ha girato attorno allo stalinismo senza però mai cedere ad un
affascinamento che ha trascinato, per poi travolgerle, tre generazioni di
intellettuali marxisti. Nonostante l’esilio negli Stati Uniti e la guerra fredda, egli
salvaguarda l’idea di un pensiero rivoluzionario indipendente alla confluenza tra
Marx e Freud, che va affermandosi a partire dagli anni cinquanta: Eros e civiltà1
(Boston 1955), Il marxismo sovietico2 (New York 1958), L’uomo a una
dimensione3 (Boston 1964). Marcuse fu uno dei primi a rivalutare in una
prospettiva radicale l’analisi dei meccanismi e delle contraddizioni delle società
industriali avanzate. Dall’altro lato, molto prima delle disillusioni del conflitto
cino-sovietico, del maggio 1968 e della Cecoslovacchia, egli analizza la misura
della degenerazione del comunismo post-staliniano: Il marxismo sovietico svela
il senso ed il funzionamento di un sistema che riconduce il discorso
rivoluzionario al rango dell’ideologia: rappresentazioni e menzogne sullo sfondo
dell’oppressione.
Nel maggio 1968 si bisbiglia nelle redazioni parigine che Rudi Dutschke e
Daniel Cohn-Bendit hanno letto un certo Herbert Marcuse. « Oscuro professore
di filosofia americano di origine tedesca », aggiunge con aria di sufficienza
François Poncet, membro dell’Accademia di Francia. Ma ce n’è abbastanza
tuttavia perché la Francia scopra a sua volta un uomo già celebre ovunque, e gli
attribuisca — quasi per riparare alla precedente disattenzione — un ruolo
nella genesi delle rivolte studentesche che egli stesso respinge.
Marcus ha condotto numerosi dibattiti con i rappresentanti del gauchismo
tedesco. In quello che riportiamo qui sotto, Hans Magnus Enzensberger, giovane
scrittore e militante, gli contrappone tutto il vigore della sua ortodossia.

HANS MAGNUS ENZENSBERGER Dall’Europa, noi abbiamo avuto
l’impressione che la situazione politica americana si sia profondamente
avvelenata nel corso degli ultimi anni. Ci riferiamo alla detenzione preventiva ed
ai poliziotti maniaci del grilletto; la sinistra americana ha pubblicato delle liste di
campi di concentramento che non aspetterebbero altro se non i loro « visitatori »;
qua e là si sostiene che il Dipartimento di Stato avrebbe pensato di sopprimere
l’elezione presidenziale del 1972, e perfino il principio stesso dell’elezione, e
che vi sarebbero stati dei sondaggi in questo senso per saggiare le reazioni
dell’opinione pubblica. Il sistema di Law and Order si identifica
progressivamente nel suo contrario apparente: la legalità si confonde con il
gangsterismo e l’ordine con l’arbitrio. È possibile al giorno d’oggi distinguere
al politica dal crimine, la mafia dal governo? Come caratterizzare una simile
evoluzione?
HERBERT MARCUSE Gli esempi che lei cita sono infatti molto
significativi. Per quanto riguarda i campi di concentramento, non mi sento in
grado di dare un giusidzio: io non li ho visti. E neppure so se l’amministrazione
accarezza l’idea di sopprimere le elezioni. La cosa è a mio avviso poco
probabile: questo governo non ha nulla da temere dalle urne. Di fatto, quel che si
tratta di sapere è se il fascismo regna negli Stati Uniti. Se con esso si intende la
scomparsa, rapida o progressiva, dell’eredità costituzionale, la formazione
di gruppi para-militari quali i « Minutemen », l’attribuzione di poteri eccezionali
alla polizia, in particolare con la « no knock law », questa legge scellerata che
abolisce l’antica inviolabilità del domicilio; se si esaminano le sentenze emanate
dai tribunali nel corso degli ultimi anni, quando si viene a sapere che truppe
speciali, i « counter-insurgery corps », vengono appositamente addestrate in vista
di un’eventuale guerra civile; se si prende in considerazione la censura quasi
diretta che già pesa sulla stampa, la radio e la televisione, allora si può a giusto
titolo parlare di un fascismo montante. Certo, io conosco l’obiezione: le critiche
radicali del sistema sono molto meglio tollerate negli Stati Uniti che in
altri paesi, in Francia in particolare. Il fatto è che provvisoriamente la società
americana può ancora sopportare questo tipo di critiche nel momento in cui esse
restano prive di effetti immediati.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Certi elementi costitutivi del fascismo
- perlomeno nella sua forma classica - mancano ancora: ad esempio, un « Führer
» carismatico. Pensa che gente come Nixon, Agnew o Reagan abbiano la stoffa
del personaggio? Fino ad ora, l’appello diretto alle masse non ha assunto gli
aspetti che abbiamo conosciuto nella Germania hitleriana o nell’Italia
mussoliniana.
HERBERT MARCUSE Non penso che un « Führer » sia indispensabile al
fascismo contemporaneo. Così come ogni movimento ed ogni oppressione, il
fenomeno fascista dipende dallo stato della società globale. Il fascismo
americano si distinguerà dal fascismo tedesco nella stessa misura in cui
la società americana di oggi differisce dalla società tedesca del 1933. Il sorgere
di un « Führer » carismatico non è più necessario. Ricordiamoci quella frase di
William Shirer il quale per carità, è ben lontano dall’essere un autore socialista:
Shirer dice che il fascismo americano sarà probabilmente il primo ad arrivare al
potere attraverso le strade della democrazia, ed appoggiandosi su di essa.
HANS MAGNUS ENZENSBEUGER Come sviluppa la sua analisi del
fascismo americano? Generalmente si spiega il nazismo in riferimento alla crisi
economica del 1929. Gli Stati Uniti attraverserebbero dunque attualmente una
crisi paragonabile a quella, anche se le contraddizioni economiche e sociali sono
adesso violente?
HERBERT MARCUSE Credo che esista un fascismo preventivo. Nel corso
degli ultimi decenni, noi abbiamo conosciuto una contro-rivoluzione preventiva:
una reazione che mirava ad allontanare il pericolo di una rivoluzione che
si temeva, che non vi è stata e che non è neppure sul punto di scoppiare oggi.
Nello stesso modo si arriva al fascismo preventivo. Il deperimento dello stato
costituzionale è direttamente in funzione del crescere delle contraddizioni
dell’imperialismo americano. Nell’immediato, il sistema controlla ancora le sue
contraddizioni — ma per quanto tempo? ma queste minacciano di apparire in
piena luce, anche per le menti più indottrinate. Queste contraddizioni, le
conosciamo bene: la contraddizione fra l’enorme ricchezza sociale e
l’uso penoso e distruttivo che se ne fa; fra la possibilità di ridurre gli aspetti più
alienanti del lavoro ed il loro sistematico mantenimento; fra il persistere della
povertà e della miseria ed uno spreco fantastico. Alla fine, l’espressione
di queste contraddizioni verrà repressa nella violenza. I valori necessari alla
sopravvivenza del capitalismo tendono a disgregarsi: ed anche la disciplina nel
lavoro. Ovunque si svela l’assurdità — guerra nel Vietnam, dittatura in Grecia e
in America Latina sostenute dagli Stati Uniti — a tal punto che i camuffamenti e
le menzogne perdono qualsiasi efficacia. Il sistema si irrigidisce ed ognuno dei
suoi atti diventa un messaggio rivolto agli oppositori: se voi diventate
pericolosi per noi, noi vi rinchiuderemo per eliminarvi.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER È possibile, secondo lei, tradurre le
contraddizioni della società americana in termini di lotta di classe?
HERBERT MERCUSE Esse vanno ben al di là. Marx non ha mai preteso
che le contraddizioni del sistema capitalista colpissero la sola classe degli operai
dell’industria. Esse dominano al contrario la società nel suo insieme, la sua
infrastruttura altrettanto quanto la sua sovrastruttura. Il loro impatto è diverso a
seconda delle classi ma si tratta pur sempre di contraddizioni della società
globale.
HANS MAGNUS ENZENS BERGER Non pensa che queste contraddizioni
si esprimano innanzitutto nello scontro fra capitale e lavoro?
HERBERT MARCUSE Questo è un aspetto. Ma il marxismo non deve
condurre ad un feticismo del concetto di classe. Il capitalismo ha compiuto
un’evoluzione e con esso anche le classi sociali. È inammissibile e pericoloso
fissarsi su di un’idea reificata della classe operaia.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Vorrei citare un passo dell’Uomo a
una dimensione che è stato violentemente criticato dalla sinistra europea. Lei
scriveva: « Se si considera la situazione attuale delle classi lavoratrici nella
società industriale avanzata, si può dire che il concetto marxiano di “ proletariato
” è un concetto mitologico ».
Che cosa intende dire con ciò? Quale analisi concreta del proletariato
contrapporrebbe al concetto feticcio?
HERBERT MARCUSE II proletario di Marx ha le caratteristiche
dell’operaio inglese della metà del xix secolo. Con l’innalzamento del livello dei
salari e la costituzione di sindacati potenti, il proletariato si è trasformato per
diventare la classe operaia delle nostre società capitalistiche avanzate. Una classe
sempre oppressa, ma non più in modo così manifesto e brutale come al tempo di
Marx. Parlare oggi del proletariato senza analizzare la situazione concreta degli
operai, significa reificare il concetto marxista.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Questa evoluzione non mi sembra una
cosa fondamentale. Certo, non si può più parlare di impoverimento assoluto
nelle società che si pongono « all’avanguardia del progresso tecnico »; ma
l’impoverimento relativo rimane e si aggrava. Lo sfruttamento della classe
operaia non si può giudicare solo in termini di livello di vita — i frigoriferi e le
automobili non cambiano affatto i termini della questione —, ma esso è ai giorni
nostri ancora più vivo, anche attenendoci ai criteri definiti da Marx.
La contraddizione fondamentale ha assunto altre forme; ma continua ad esistere
e rimane, come sempre, il motore della lotta di classe.
HERBERT MARCUSE Lei ha ragione su un punto: il concetto di
impoverimento relativo riveste un’importanza decisiva nel processo
rivoluzionario delle società industriali avanzate. Nelle metropoli capitaliste,
questa rivoluzione non può nascere dalla sola miseria fisica; anche nelle sue
aspirazioni più elementari, essa va già molto al di là di una pura e semplice
abolizione della povertà. Il che significa che non si può limitare l’analisi e la
strategia alla classe degli operai dell’industria. Occorre contemporaneamente
ripensare la situazione di questa classe e tener conto dell’esistenza di altri
gruppi sociali.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Lei parlava poco fa di analisi di
classe. A questa lavora l’estrema sinistra europea. Noi abbiamo d’altronde
concluso che un simile compito non poteva portarsi a buon fine nel seno
dell’Università, ma che era necessario invece dibattere con la classe operaia le
sue condizioni di esistenza, materiali e intellettuali. L’analisi deve allora
integrarsi con un’azione politica. Numerosi compagni sono andati a lavorare in
fabbrica o in altri luoghi di lavoro: per loro, un lavoro teorico non porta da
nessuna parte se si distacca dalle lotte che si sviluppano nella produzione.
HERBERT MARCUSE Non è certo andando a lavorare che ci si mette in
grado di vedere e di comprendere le contraddizioni che nascono dai rapporti di
produzione. Certo, l’analisi della classe operaia deve essere il più concreta
possibile. Ma io temo che il lavoro in fabbrica conduca nello stesso tempo i
militanti gauchistes a disprezzare o a respingere la teoria, dal momento che si
sentono da essa sorpassati. Si ricade allora in piena sociologia borghese. È
necessario conservare un’ambizione teorica, sforzasi di delineare i concetti,
rifiutare un’idea feticcio del proletariato, ed andare anche nelle fabbriche. Ma se
questo farsi assumere viene compiuto a spese di un progresso teorico, si ricade
nell’empirismo e in un senso falsificato dell’immediato.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER I gruppi che vanno nelle fabbriche si
riferiscono su tutti i punti ad una teoria, la teoria di Lenin.
HERBERT MARCUSE Che mi facciano dunque vedere dove Lenin ha mai
potuto scrivere cose simili: io non ne ho mai visto la minima traccia nelle sue
opere.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER La dittatura del proletariato resta
l’obiettivo di tutti i veri marxisti. Lei ne è ancora persuaso?
HERBERT MARCUSE Se il termine di proletariato designa gli « operai
dell’industria » quali Marx li ha descritti — il lavoro vivo nel processo di
produzione — io ritengo che nella nostra epoca questa formulazione è del tutto
insufficiente. Per Marx, la dittatura del proletariato era — lo si dimentica troppo
facilmente — la dittatura di una schiacciante maggioranza su una minoranza. Il «
proletariato » definito da Marx rappresenta forse una maggioranza nei paesi
industriali avanzati? È forse la sola classe che sia vittima dello sfruttamento nella
nostra società moderna?
HANS MAGNUS ENZENSBERGER E chi altro allora?
HERBERT MARCUSE Gli operai dell’industria non rappresentano più la
maggioranza della popolazione, non sono i soli ad essere sfruttati. Un esempio:
si è spesso discusso per sapere se i milioni di impiegati dell’industria
pubblicitaria americana creano oppure no un plusvalore, cioè se essi siano
oppure no degli sfruttati nel senso marxista del termine. Da parte mia, io ritengo
di sì. Quelle persone vendono direttamente la loro forza-lavoro, il che
corrisponde alla nozione marxista di sfruttamento. I loro salari non
rappresentano semplicemente un capitolo delle spese generali. Essi sono
assolutamente necessari al processo di produzione capitalistico.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Necessari all’estrazione del
plusvalore...
HERBERT MARCUSE Non unicamente. Sono già necessari al livello della
produzione: l’impiegato dell’industria pubblicitaria determina in anticipo la
forma della merce (pensate soltanto all’automobile), la sua qualità, ed anche la
sua quantità. Ciò vale ugualmente per i tecnici, gli ingegneri, gli scienziati, gli
psicologi ed i sociologi integrati nel processo di produzione, tutte categorie in
piena espansione. Questi fenomeni comportano come contraccolpo delle
modificazioni nelle strutture stesse della classe operaia. Sappiamo adesso che il
numero dei « colletti bianchi » aumenterà progressivamente a scapito dei «
colletti blu », che l’equilibrio numerico fra lavoratori manuali e lavoratori
intellettuali si modificherà a vantaggio di questi ultimi, i quali vedranno
aumentare la propria parte all’interno del processo produttivo. E tutto ciò
dovrebbe incitare ad una grande prudenza quando noi maneggiamo i concetti di
proletariato e di dittatura del proletariato.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Secondo il mio punto di vista, ciò
significa semplicemente che ceti sociali provenienti dalla borghesia vengono ad
essere rapidamente proletarizzati in seguito allo sviluppo del capitalismo.
HERBERT MARCUSE La parola proletarizzazione mi sembra qui inesatta.
Non è possibile separare il concetto di proletariato dalle nozioni che lo
accompagnano, e in primo luogo il depauperamento materiale.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Prenda il caso dei grandi studi di
architetti come ormai ne esistono in Germania. Vi si troveranno delle persone
che, quando erano studenti, sognavano ancora un esercizio liberale ed autonomo
dell’architettura, cioè la prospettiva di una professione borghese. Si sono
ritrovati dentro un’impresa industriale, seduti ai loro tavoli da disegno accanto a
dozzine di altri giovani architetti. Il lavoro si è specializzato ed essi possono
constatarlo tutti i giorni: ognuno si applica ad un solo particolare architettonico
— le finestre ad esempio — senza avere alcun diritto di decisione. Si tratta di un
buon esempio di proletarizzazione.
HERBERT MARCUSE Mi parli un po’ di questo giovane architetto quando
la sera rientra in casa. Dove abita: in un appartamentino di una o due stanze
sporche e mal messe? Non possiede l’automobile? Non ha forse accesso ai
diversi prodotti di lusso caratteristici della produzione del capitalismo post-
industriale?
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Sì, certo...
HERBERT MARCUSE Allora significa farsi beffe del vero proletario
designare questi lavoratori come facenti parte del proletariato.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Bene, d’accordo. Se lei definisce il
proletariato in base ad un rapporto di consumo piuttosto che in base ad un
rapporto di produzione, se, in fondo, valuta oscuramente il suo livello di vita
paragonandolo a quello del 1850, lei deve effettivamente ammettere che il
proletariato europeo e americano è in via di estinzione. Ma si può dire che quella
sia una buona definizione? Non esiste forse, piuttosto, una differenza che sempre
più si cancella fra le condizioni di vita di quell’architetto e, ad esempio, quelle di
un meccanico addetto alle riparazioni in una fabbrica automatizzata?
HERBERT MARCUSE Questa distanza diminuisce infatti. Ma in senso
inverso: è il vecchio proletariato che si trova « deproletarizzato ». Con
l’automazione, il lavoro diventa estenuante e faticoso sul piano nervoso: ciò non
è sufficiente per fare dell’operaio che lo esegue un proletario. L’automazione
sostituisce l’energia fisica con una tensione mentale, ed esige altresì una
qualificazione. L’operaio qualificato tradizionale — che in certo qual modo
restava vicino all’artigiano — scompariva a poco a poco. Ma lo sviluppo della
produttività esige un altro tipo di qualificazione, dei tecnici, degli ingegeneri, dei
« colletti bianchi » in numero crescente, e non il contrario.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Le statistiche per professione
riguardanti gli ultimi quindici anni ci dimostrano che il numero dei lavoratori
manuali diminuisce in modo estremamente lento, ammesso che diminuisca.
HERBERT MARCUSE E perché? Nella maggior parte dei casi i sindacati
frenano il movimento, per lo meno negli Stati Uniti. È altrettanto vero che la
generalizzazione dell’automazione pone dei problemi tecnici, sebbene essi
vengano progressivamente risolti. La tendenza è tuttavia nettissima: gli
investimenti effettuati nei rami più moderni e più automatizzati diventano
sempre più redditizi, i termini del rapporto capitale costante — capitale variabile
si spostano.
HANS MAGNUS ENZENS BERGER Prosegua nel suo ragionamento. Qual
è, nella sua ottica, la classe d’avanguardia, il gruppo sociale capace di avviare e
di guidare una lotta rivoluzionaria? Su quali interessi si fonda una strategia
rivoluzionaria, se gli interessi diretti della classe operaia — intesa nel senso
ampio — divergono fra di loro almeno parzialmente? Non spetta forse, come
sempre, al proletariato industriale di dirigere il movimento?
HERBERT MARCUSE Dove ha visto una cosa simile? In un libro e, quel
che conta, in un libro scritto anni fa.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Se preferisce, io rinuncio per adesso
alla risposta classica del marxismo. Resta il problema: qual è la forza che deve
prendere la direzione del movimento?
HERBERT MARCUSE Molto francamente — e parlo come marxista — non
mi piace molto questo modo di porre la questione. Alla fin fine non c’è né un
Dio né una fatalità né un libro che possa a colpo sicuro designare l’avanguardia
di un movimento. Altrimenti si cade in un marxismo reificato. Dove nascerà la
coscienza storica e l’azione più radicale? È impossibile deciderlo manipolando
senza più riflettere delle sedicenti categorie, gli « studenti », la « nuova classe
operaia », la « classe operaia ». Tutto dipende dal livello di sviluppo di un paese
e dagli aspetti del suo capitalismo.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Insisto sul contrario: questa questione
è fondamentale, ed i gruppi rivoluzionari della Germania Federale, che
attraversano una fase di autocritica, la pongono nel modo più accentuato. Noi
vogliamo trarre la lezione dagli errori commessi dal movimento studentesco, dal
suo fallimento. Le forme di organizzazione che si erano spontaneamente messe
in piedi hanno palesemente condotto all’impasse. Oggi i gruppi condannano
astrattamente il loro passato, sconfessano gli aspetti anti-autoritari della loro
azione, spesso per pura e semplice reazione di rigetto. La nuova pratica
rivoluzionaria si definisce innanzitutto con un lavoro nelle fabbriche, con i
tentativi di costituzione di un partito comunista strutturato secondo i principi del
centralismo democratico quali sono enunciati nel Che fare? Lei crede ancora
all’efficacia di tali principi? E se no, che cosa metterebbe al loro posto?
HERBERT MARCUSE II suo ragionamento parte dalle insufficienze e dagli
errori del movimento studentesco. Quali sono?
HANS MAGNUS ENZENBERGER II movimento studentesco è stato
determinato dalla situazione di classe di coloro che lo componevano, dai loro
interessi e dalla coscienza che essi avevano della loro situazione. In Germania
Federale, gli studenti sono per la maggior parte di origine borghese.
HERBERT MARCUSE Scusi, ma si tratta di un marxismo parecchio
volgare. Che un movimento sia determinato da uno stato di coscienza...
HANS MAGNUS ENZENSBERGER ...Ma anche da una situazione
materiale. La classe operaia è sotto-rappresentata nelle università tedesche...
HERBERT MARCUSE ... Il che non vuol dire che non si possa trascendere
uno stato di coscienza soggettivo, analizzare l’insieme dei rapporti sociali e
definire la loro articolazione. Cosa c’entra questo col fatto che si provenga
oppure no dalla borghesia? Anche Marx ed Engels erano dei borghesi.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Non si tratta di un’analisi personale e
molti l’hanno constatato come me: si tratta del carattere di classe di un
movimento, di una realtà oggettiva. Gli studenti di origine operaia rappresentano
dal 6 all’8 per cento della popolazione universitaria tedesca. Questo è un fatto.
HERBERT MARCUSE Ma chi le ha detto che un Buon Dio o un buon
Destino abbiano scelto la classe operaia perché essa accolga in sé la Verità!
Questo è feticismo!
HANS MAGNUS ENZENSBERGER È UN ELEMENTO
FONDAMENTALE DELLA TEORIA MARXISTA.
HERBERT MARCUSE Non è la teoria marxista. Il marxismo — perlomeno
fino a quando esso è rimasto la teoria di Marx — ha sempre distinto la classe
operaia concreta dal proletariato organizzato, i fattori oggettivi dai fattori
soggettivi. Il marxismo non ha mai considerato la classe operaia come un’entità
che incarnerebbe per sua natura e in tutte le circostanze la Verità e la
Liberazione.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Ma la classe operaia concreta è allo
stesso tempo una classe che è costretta a trasformarsi in proletariato organizzato:
adempie così al suo ruolo storico tendendo alla propria liberazione.
HERBERT MARCUSE Può altrettanto essere costretta a reprimere le sue
pulsioni liberatrici. Ci stiamo allontanando dalla sua affermazione: gli errori del
movimento studentesco...
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Questi errori sono evidenti. Appaiono
innanzitutto nel fatto che il movimento non è potuto uscire da se stesso per
mobilitare le classi lavoratrici.
HERBERT MARCUSE Ma si tratta dell’errore degli studenti, oppure della
situazione oggettiva della classe operaia? Le citerò un esempio americano, dal
momento che conosco meglio gli Stati Uniti. Lei mi dirà dopo se ciò
può applicarsi ad altri paesi, in particolare alla Germania Federale. Negli Stati
Uniti è il movimento studentesco che ha mobilitato una parte dell’opinione
pubblica contro la guerra del Vietnam, ed è ancora tale movimento che ha svolto
un ruolo propulsore nella lotta per i diritti civili. Queste azioni andavano oltre -
di gran lunga — agli interessi personali degli studenti, e persino andavano contro
ad essi in un certo numero di casi. Tali azioni hanno portato l’attacco al cuore
stesso del sistema imperialista. Se la classe operaia non è andata dietro, non è
proprio, Dio mio, colpa degli studenti, ma si spiega con la situazione materiale e
soggettiva degli operai americani.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Perché non sarebbe colpa del
movimento studentesco? Perché la classe operaia sarebbe strutturalmente
incapace di capire la rivoluzione vietnamita?
HERBERT MARCUSE Non è che sia incapace. Essa sa dove stanno i suoi
interessi immediati e qual è qui la posta in gioco. Sa che la fine della guerra del
Vietnam significherà la disoccupazione per un grande numero di operai. Ha
visto benissimo da quale parte la fetta di pane era imburrata. Mi sembra molto
presuntuoso non fare attenzione a ciò e dire agli operai: abbandonate tutto e
seguitemi per fare la rivoluzione.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Ma non è forse ancor più presuntuoso
aspettare che la classe operaia raggiunga il punto di vista degli studenti? Fino a
quando si rimane nell’ambiente universitario, e non si conosce e non si vuol
vedere altri se non la propria classe, fintantoché ci si astrae dai rapporti di
produzione contro i quali vanno a scontrarsi gli operai, non si può sperare di
mobilitare i lavoratori.
HERBERT MARCUSE Io non posso credere che sia necessario andare in
fabbrica e lavorarvi per delle settimane e dei mesi per capire quanto siano penosi
il lavoro e la condizione operaia. Gli studenti non ignorano che la loro
esistenza è infinitamente più piacevole di quella di un operaio. Ma conosco
anche centinaia di studenti la cui esistenza non sarebbe invidiabile per nessun
operaio. È falso pretendere che gli studenti rappresentino un’élite privilegiata
che farebbe la bella vita mentre l’operaio conoscerebbe soltanto una vita orribile.
Ciò nasce da un atteggiamento intellettuale, e nulla più.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER È possibile che lo studente
politicizzato rinunci a certi vantaggi che gli provengono dalla sua classe, ma si
tratta ancora una volta di una manifestazione della sua libertà, cioè di un
privilegio. Egli può scegliere, e lo fa coscientemente.
HERBERT MARCUSE È forse una ragione per abolire questo privilegio e
con ciò stesso una capacità di comprensione e di denuncia che non è data agli
altri? Lei dimentica la contropartita: il dovere e la responsabilità di fare tutto
per trasformare questa società, cosa non priva di pericoli al giorno d’oggi.
Rinunciare a questo tipo di privilegio sarebbe già tradire.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Non si tratta di questo. Il movimento
studentesco si è preoccupato in primo luogo degli interessi degli studenti, il che è
naturale. Ha portato avanti una critica dell’istituzione universitaria e si è
sforzato di cambiarla.
HERBERT MARCUSE Non è vero: negli Stati Uniti, il movimento
studentesco si è preoccupato degli interessi dei Neri nei ghetti, e non dei propri.
HANS MAGNUS ENZESBERGER Nello stesso tempo il movimento ha
preteso, e con ragione, la destituzione dei mandarini universitari e la
trasformazione radicale dell’Università.
HERBERT MARCUSE Le sue affermazioni non si applicano se non
esclusivamente alla situazione tedesca. I titolari di cattedre non svolgono lo
stesso ruolo negli Stati Uniti. Quanto agli studenti, lo ripeto, hanno lottato per il
« Civil-rights Movement » e contro la guerra del Vietnam. Il resto è secondario.
Se hanno ingaggiato una battaglia contro l’amministrazione universitaria, ciò
avveniva nella misura in cui tale organizzazione si faceva complice della guerra
del Vietnam, specialmente attraverso programmi di ricerca militare. Lei crede
che si tratti in questo caso delle reazioni corporative di un’élite? Se non pensa
che fosse in gioco un interesse di ordine generale, gradirei che lei precisasse il
senso delle parole.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Anche quando si rivoltano, gli
studenti contano sulla mediazione del pubblico borghese. La loro disputa con il
potere statale è appena intellegibile per il resto della popolazione. L’aspetto anti-
autoritario del movimento nasce in parte dai processi di socializzazione della
borghesia, e in questa misura non ha alcun senso per un operaio.
HERBERT MARCUSE Nulla è meno borghese del movimento studentesco
americano, nulla è più borghese di un operaio americano. Io esagero solo un po’.
Lei utilizza dei cliché privi di valore. Crede sinceramente che sia « borghese »
fondare delle comuni, manifestare per strada, occupare degli edifici?
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Non obbligatoriamente. In compenso
la sedicente « protest scene » oppure la « hippie-scene », tutte queste « scene »
mi appaiono come fenomeni borghesi.
HERBERT MARCUSE Io penso personalmente che gli hippies ed i drop-out
non adempiono più ad alcuna funzione politica.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER In tutti i casi questi movimenti sono
stati ben presto recuperati dalla cultura dominante.
HERBERT MARCUSE Per certi aspetti, essi sono anche diventati reazionari.
All’ origine esisteva questa confusione fra una liberazione individuale e la
liberazione sociale...
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Si tratta precisamente di un limite
caratteristico del movimento studentesco.
HERBERT MARCUSE No. Gli elementi più politicizzati rifiutano questa
confusione. Essi non sono più soltanto degli hippies, o non lo sono più
assolutamente.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER La gente politicizzata studia Lenin.
HERBERT MARCUSE Lenin, ma anche Hermann Hesse. Oggi negli Stati
Uniti, Steppenwolf, II lupo della steppa 4, di Hesse, è un libro che ha una grande
influenza.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Appunto: il problema posto dal Lupo
della steppa è un problema interno alla borghesia. Questo libro non ha nulla da
dire ad un operaio.
HERBERT MARCUSE A causa del libro o a causa dell’operaio? Vuole
insinuare che Faust o Don Carlos non rappresentano altro che delle merde
borghesi? Oppure si tratta ancora di opere che dovrebbero avere un senso per
un operaio?
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Nelle condizioni presenti, non ne
hanno alcuno per lui.
HERBERT MARCUSE Questa è un’altra cosa. E io sono d’accordo con lei.
Ma sono queste condizioni che bisogna cambiare.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Ritorniamo ai problemi organizzativi.
Anche su questo piano abbiamo potuto constatare le insufficienze del
movimento studentesco. Le strutture prodotte dalla sola spontaneità si sono
rivelate instabili e poco sicure. Per molti di noi, non si trattava nient’altro che di
una terapia personale. Certi testi avevano previsto la disintegrazione del
movimento; l’SDS, la sola organizzazione studentesca, è scomparsa. In seguito a
ciò si è imposta l’idea che noi avevamo bisogno di un partito. La costruzione di
una simile organizzazione è un’impresa di lungo respiro e, come abbiamo
constatato, con dei progressi e dei regressi che comportano frazionamenti e
scissioni. Tutti i tentativi attuali si riferiscono ai principi leninisti di
organizzazione. Si parla di « bolscevizzare » il partito, si proclama la necessità
del « centralismo democratico ». All’ambiguità del movimento studentesco,
numerosi militanti contrappongono un nuovo dogmatismo. In certi gruppi ciò
può andare fino al culto di Stalin, il che è assurdo. Qual è la sua opinione su
questa evoluzione?
HERBERT MARCUSE II partito composto da rivoluzionari di professione,
quale è stato concepito da Lenin, ha portato allo stalinismo fin dagli anni venti e
l’inizio degli anni trenta, poi ai processi di Mosca, e in seguito da Stalin a
Krusciov, da Krusciov a Breznev e Kossygin, i quali non hanno più
assolutamente nulla a che fare con la rivoluzione. Questo sviluppo era dovuto al
caso, o era già contenuto - perlomeno virtualmente — nella struttura stessa del
partito leninista? Io pongo la domanda senza essere in grado di rispondere. Ma
ad ogni modo il partito di tipo leninista ha trovato la sua ragion d’essere e la sua
forza utilizzando la disfatta militare dello zarismo per sollevare l’immenso
potenziale rivoluzionario delle masse in armi. Là dove tali masse mancano, un
partito di tipo leninista perde molto del suo interesse. Non può allora far altro
che portare eventualmente alla dittatura di un piccolo gruppo che battezza se
stesso rivoluzionario — dei rivoluzionari di Prisunic — e si impone alle masse.
Il che non significa, anzi, che l’estrema sinistra debba respingere la questione
dell’organizzazione: di lì bisognerà pur passare e risolvere il problema. I tempi
della felice spontaneità sono finiti: la contro-rivoluzione organizzata ha posto
loro fine. Una contro-organizzazione si impone a sua volta. Ma sotto quale
forma?
Un partito di massa con un’organizzazione nazionale ed una direzione
centrale mi appare impossibile negli Stati Uniti : l’apparato governativo potrebbe
liquidarlo in ventiquattr’ore. Dobbiamo trovare nuove forme molto decentrate,
locali e regionali. Come coordinare i diversi gruppi ? Non ne so nulla. Ma non si
potrà per l’eternità fare a meno dell’organizzazione e della disciplina. Come ha
detto Engels, una rivoluzione è la cosa più autoritaria che esista. Disciplina
rivoluzionaria non vuol dire dittatura, bensì autodisciplina razionale, il che
esclude le tendenze hippies o yippies che non ne vogliono neanche sentir parlare.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Ci ritroviamo al nostro dibattito di
poco fa: questa organizzazione deve radicarsi nella produzione? Oppure si tratta
di un’associazione di persone che si battono per le loro idee all’uscita del lavoro
senza avere legami comuni nel seno del processo di produzione?
Un’organizzazione comunista non deve forse collocare le proprie cellule in tutte
le istituzioni della società, di cui la più importante è ancora e sempre la fabbrica?
HERBERT MARCUSE La fabbrica rimane, beninteso, un luogo per il lavoro
politico, in particolare nei confronti della gioventù operaia. Ma non per questo
bisogna recarvisi portando i propri chiché, quelle idee reificate che sono
capitalismo, imperialismo, revisionismo... Si tratta al contrario di far vedere che
cosa diventano gli uomini sottoposti all’influenza del capitalismo, e che cosa si
può veramente cambiare. Detto ciò, bisogna discutere altrettanto con le
casalinghe, gli intellettuali o i tecnici.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER La storia del movimento operaio
dimostra che si deve organizzare la gente secondo il criterio dei rapporti di
produzione, e non come individui che metterebbero insieme delle idee o degli
interessi comuni. Non si riuniscono i rivoluzionari con i metodi delle società di
lettura biblica. E io non vedo come sia possibile organizzare la casalinghe in
quanto casalinghe.
HERBERT MARCUSE Non vede? Le sembra inconcepibile organizzare un
movimento delle casalinghe americane che lotti contro la guerra del Vietnam,
sostenga gli scioperi, faccia trionfare i boicottaggi dei grandi magazzini?
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Va bene, ma solo per campagne
simili. Non di certo su di un vero progetto comunista.
HERBERT MARCUSE La lotta per una società comunista è una questione
dell’avvenire. Essa presuppone innanzitutto un lungo lavoro di educazione, un
cammino paziente e difficile. Ruddi Dutschke ha trovato a questo proposito una
formula eccellente: la necessità di una lunga marcia attraverso le istituzioni.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER La piega che prendono gli
avvenimenti negli Stati Uniti vi lascerà il tempo di organizzare questa lunga
marcia?
HERBERT MARCUSE È perché non si ha il diritto di arrischiare alla
leggera forze ancora ristrette. Sacrifici e martiri servirebbero soltanto
all'establishment. Bisogna riconoscere che l’avversario è straordinariamente
organizzato.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Le sue proposte traggono origine
quasi esclusivamente dalla pedagogia, rimangono molto difensive.
HERBERT MARCUSE Sfortunatamente io non vedo altre prospettive.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Quando si parla di avvenire negli Stati
Uniti, non si possono scartare certe ipotesi: noi abbiamo già pronunciato
l’espressione guerra civile. Supponga che un simile conflitto scoppi: come
sarebbe possibile attenersi a quella strategia prudente e difensiva che mira prima
di tutto a far evolvere le coscienze? Le contraddizioni della società americana
rischiano di esplodere un giorno, no?
HERBERT MARCUSE In questo caso, conosceremo probabilmente la
vittoria di un nuovo fascismo.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Non una guerra civile?
HERBERT MARCUSE Non lo credo proprio. Una guerra razziale, forse, ma
non una lotta di classe apertamente politica. La lotta di classe rimane al livello
economico, e non vedo come potrebbe attualmente uscirne. Quanto alla lotta dei
Neri, le Black Panthers si sono disperatamente sforzate di dare ad essa un
contenuto politico. Ma il potere ha fatto tacere i loro dirigenti quando non li ha
semplicemente soppressi. D’altronde, i militanti neri restano minoritari, anche
nei ghetti.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Lei non pensa che la lotta razziale sia
una forma, ancora mistificata, della lotta di classe?
HERBERT MARCUSE La lotta razziale non può trasformarsi così,
senz’altra forma di processo, in lotta di classe Pensi all’odio che provano ancora
tanti operai bianchi per gli operai neri.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Questo stesso odio si spiega con
un’analisi di classe, ha i suoi fondamenti economici...
HERBERT MARCUSE Bella lotta di classe, in cui si contrappongono operai
bianchi e operai neri!
HANS MAGNUS ENZENSBERGER In questa ipotesi, gli operai bianchi
rappresenterebbero una forza di sostegno che accorre in aiuto del capitale...
HERBERT MARCUSE È lei che l’ha detto, non io.
HANS MAGNUS ENZENSBERGER Signor Marcuse, come vede
l’evoluzione della vita politica americana nel corso dei prossimi dieci anni? Qual
è il suo canovaccio, per usare la parola di moda presso i futurologi?
HERBERT MARCUSE Si possono descrivere alcune grandi tendenze. La
repressione si va aggravando, questo è certo. L’opposizione si sconterà con dei
problemi difficili da risolvere: il ruolo ed i limiti precisi dell’azione politica,
della contro-violenza, ecc. Le contraddizioni, interne e internazionali, del
capitalismo americano si esacerberanno e andranno così ad alimentare l’azione
repressiva e le tendenze fasciste. L’opposizione dovrà mobilitare tutte le proprie
forze per evitare, attraverso la spiegazione, l’educazione e l’esempio, che la
maggioranza della classe operaia non cada nelle mani del fascismo.
L’evoluzione dell’imperialismo verso il neo-fascismo non è ineluttabile: le
forze di opposizione ci sono. Noi non abbiamo parlato di un fattore decisivo,
l’economia politica. È difficile discuterne qui rapidamente. In due parole: nella
società cosiddetta « dei consumi », il modo di produzione capitalista si scontra
con quelle che sono le proprie frontiere, saturazione degli investimenti e del
mercato dei beni di consumo. La massa del lavoro « non produttivo » cresce
proporzionalmente più in fretta di quella del lavoro produttivo. L’inflazione cioè
l’abbassamento del salario reale, è un dato permanente del sistema.
L’imperialismo americano persegue la propria espansione in alcuni paesi
capitalisti meno sviluppati — Canada, Francia, Gran Bretagna —, e incontra una
resistenza sempre più grande in America Latina, in Cile, Perù, Bolivia. La Cina
si impone come una grande potenza comunista. Le guerre di liberazione del
Vietnam e della Cambogia dimostrano che è umanamente e militarmente
possibile arrestare la macchina di guerra più distruttiva di tutti i tempi. La
disintegrazione delle morali del lavoro minaccia il funzionamento stesso del
capitalismo. Ma negli Stati Uniti, la sola opposizione suscettibile di sbarrare il
passo alla contro-rivoluzione resta quella della gioventù di estrema sinistra e dei
ghetti. È urgente sospendere le dispute sulla strategia e sulla tattica, rifiutare le
azioni condannate in partenza, superare tutte le impazienze e tutti i disfattismi, in
nome della lotta comune: non è l’ora di andare all’assalto, ma di fare di tutto per
mantenere il movimento come forza di contestazione radicale.



1 Editore Einaudi, 1967.
2 Guanda, 1968.
3 Editore Einaudi, « Nuovo Politecnico », 1968.
4 Hermann Hesse, II lupo della steppa, Milano, Club degli Editori, 1973.
Roel Van Duyn






Con lo sguardo curioso dietro i piccoli occhiali, quasi angosciato e con la
testa troppo piena, Roel Van Duyn è il fondatore di Provo. Sei anni fa, insieme a
Roel Stolk, Jasper Grootweld e qualche altro, ha strappato Amsterdam al suo
torpore, inondandola di bombe fumogene, ridicolizzando le abitudini da svizzeri
dei suoi abitanti. Meglio ancora\ ha dato l’avvio al movimento underground. I
Digger a San Francisco, It e Oz in Inghilterra, lo stesso maggio ’68 hanno
tratto degli insegnamenti e tradotto il messaggio di questo movimento : colpire
l’opinione pubblica con idee immediate e brillanti che sintetizzino gli odi più
profondi. Per la prima volta dopo la guerra, metteva in ridicolo l’autorità,
poneva degli interrogativi alla democrazia in quanto tale, per scuoterne i limiti,
e poneva sul tappeto i problemi fin qui taciuti: urbanistica, comunismo, potere,
contro-cultura...
Già un tempo rifugio di Cartesio, oggi di beatniks disorientati, Amsterdam
ha capito in parte la morale di Provo. Tre anni dopo, i Rabouters, Provo passati
al riformismo e all’azione sociale, ottengono il 15% dei voti nelle elezioni per il
rinnovo del consiglio comunale. Cinque di loro vi entrano, con una serie di
azioni simboliche: impediscono al sindaco di usare il proprio automezzo,
occupando il suo parcheggio; dichiarano gli alberi monumenti storici; riescono
a strappare il permesso di costruire edifici in uno stile nuovo, o il divieto di
circolazione alle auto nel centro cittadino.
I Kabouters hanno fortuna: vengono un po’ ascoltati. Il pregio di una vera
democrazia è quello di prestare orecchio al grido delle minoranze, senza
soffocarle sotto una brutale valanga di sfollagenti. La democrazia,
un’impressione bizzarra, quando si arriva da Parigi. La televisione, per
esempio: c’è un monopolio, ma si vota per i programmi. Se li spartiscono sette
gruppi d’opinioni diverse. Uno di loro, il VPRO d’origine protestante, oscilla
fra pop e nuova sinistra. I centomila abbonati, in maggior parte studenti e
professori, sono la garanzia per un 10% delle trasmissioni. Hanno aperto la
porta agli emarginati, ai contestatari. Si gira il bottone: ecco un sorprendente
dibattito fra Michel Foucault e il linguista americano Noam Chomsky. Altra
nostalgìa oscura, che una lunga passeggiata basta a chiarire : la città manca di
uniformi. Un agente ogni mille abitanti, contro quelli cinque volte più numerosi
di Parigi. E quando appare la polizia a cavallo è il più delle volte per aprire la
strada ad una manifestazione di studenti che reclamano dei nuovi locali.
Nel cuore della città c’è un dibattito permanente. Un piano urbanistico
minaccia dei vecchi quartieri? Ecco i Kabouters occupare centinaia di vecchie
case abbandonate e restaurarle. Non vengono sfrattati; il primo ministro in
persona li assolve. Cinque comitati di quartiere stampano giornali; negozi
alimentari servono come luogo di riunione. Non tutti i giorni la macchina
burocratica arretra in questo modo, ma il compromesso è possibile, e, talvolta,
anche un’apertura.
Oggi il movimento passa un momento di crisi. Lo stato simbolico che i
Kabouters avevano creato, Orange free state, s'è sfasciato con le elezioni
parlamentari del luglio 1971. Funzionano ancora alcuni servizi isolati, aiuti ai
vecchi o comitati di quartiere. La città sovvenziona il Paradiso, una vecchia
chiesa che serve da luogo di raccolta ai beatniks infreddoliti. I marxisti puri e
duri ne traggono degli insegnamenti amari: « I Kabouters, dicono, non hanno in
fin dei conti cambiato nulla. Partiti in venti, hanno fatto parlare di sé come
fossero centomila, per poi estinguersi, come la fiamma di una candela senz’aria.
Tutto ciò non meriterebbe un discorso più lungo di quello per la chiusura di una
fabbrica o per licenziamenti abusivi. Non è un caso se la stampa borghese ha
aperto loro le sue colonne... »
Significa, ci sembra, andare un po’ troppo in fretta al dunque. Occorre
sempre scambiare il surrealismo per uno sciopero? È molto bello vivere ad
Amsterdam e ciò non è, oggi, una vittoria così meschina. Ecco perché Actuel si è
recata da Roel Van Duyn, uno dei primi provos, il primo dei Kabouters. Egli
rifiuta di assumere la leadership, ma ne parla bene. Anarchico sul punto di
intraprendere altre scelte, conosce bene i suoi classici, Marx, Kropotkine, Paul
Goodman, Dada. Ma, in modo curioso, ha poco praticato i suoi emuli
dell’underground americano o del gauchismo francese. Amsterdam lo assorbe
completamente. Indirizza i senza tetto verso gli appartamenti ospitali, organizza
la lotta giorno per giorno, si mobilita, come molti altri sui problemi
dell’ecologia. Non è mai sicuro di niente e per questo soprattutto merita di
essere ascoltato.

ACTUEL Dove sono i Kabouters?
ROEL VAN DUYN Calma. La nostra organizzazione principale, l’Orange
free state, è scoppiata l’anno scorso. Molti militanti si nutrivano di illusioni:
credevano che andasse cambiato tutto nella vita dell’Olanda.
ACTUEL Anche tu?
ROEL VAN DUYN NO io non avevo le stesse motivazioni degli altri. Per
me, la lotta conduce alla piena compiutezza di sé, vi si verificano le proprie
possibilità e i propri limiti. Ma, in generale, un movimento politico ha bisogno di
successi concreti; altrimenti deperisce e i suoi militanti si bruciano.
ACTUEL Voi apparivate come uno dei rari movimenti efficaci.
ROEL VAN DUYN Tu conosci le nostre conquiste più durevoli:
occupazione di palazzi vuoti, creazione di comitati di quartiere, di fattorie
modello in campagna e sei o sette negozi di prodotti genuini che servono anche i
centri di agitazione. Questi negozi vendono prodotti sani e funzionano come
cooperative autogestite: primi pilastri di una controcultura, costituiscono una
spina nel fianco della società dominante. C’è un punto sul quale vorrei insistere:
è fondamentale trovare un punto di contatto fra controcultura e
società dominante, ed è bene distinguere fra controcultura e sottocultura. Per me,
la sottocultura è, troppo spesso, soltanto una scappatoia disperata. Si spara a zero
ed è tutto.
ACTUEL Come ha fatto a scomparire l’Orange free state?
ROEL VAN DUYN Le sue istituzioni ci sono sempre, negozi, servizi di
assistenza agli anziani, fattorie e i cinque consiglieri comunali, polemisti e
scrittori come me, ma il movimento non ha più una testa. Occorre riorganizzarlo.
Ci siamo spaccati sull’elettoralismo, nelle elezioni del 1971. Alcuni Kabouters,
fra cui anch’io, volevano partecipare alla competizione, altri no. Personalmente,
penso che si possa ottenere qualche riforma attraverso il sistema
democratico tradizionale. Ne ho avuto l’esperienza sedendo nel
consiglio comunale di Amsterdam in due riprese, quest’anno e due anni fa.
ACTUEL E allora?
ROEL VAN DUYN HO anche potuto rivolgermi ad un pubblico vasto, avere
accesso alla stampa, esporre i problemi che più ci stanno a cuore. È bene
sfruttare i media, soprattutto se si ha il dono del teatro. Mi spiego: il sistema
democratico non è altro che una cortina di fumo, si registrano in pubblico le
decisioni che altri prendono, altrove. Nessuna spiegazione sulle motivazioni
segrete dell’esecutivo: ci lasciano soltanto un bla-bla-bla inutile. Si tratta dunque
solo di una rappresentazione: io mi sono deliberatamente posto su questo terreno
dello spettacolo. Ho giocato all’ambasciatore mitico di Orange free state: il
simbolo di un’autorità è già un inizio di autorità. Detto questo, non avremmo
però dovuto, a conti fatti, partecipare alle elezioni al prezzo di una divisione del
movimento. Di colpo, i candidati hanno messo su pancia: trentamila voti per i
Kabouters in tutta l’Olanda, contro quarantamila nella sola Amsterdam nel 1970.
ACTUEL Come si può distinguere il movimento dei provo da quello dei
Kabouters?
ROEL VAN DUYN Provo è la morte della non costruzione. Apparve in una
società bloccata, come uno scoppio disperato. Desideravamo la rivoluzione, ma
la credevamo impossibile. Allora abbiamo scelto di scuotere l’opinione pubblica,
facendo vedere come l’autorità può e deve essere attaccata, che non è infallibile.
Urlare è una cosa fondamentale in una società autoritaria. Ma la rivoluzione non
si costruisce sul nulla. È necessario preparare l’opinione pubblica, farla riflettere:
è questo il senso delle nostre scuole e delle nostre piccole unità produttive.
Provocazione e realizzazione: io la chiamo la teoria delle due mani; con la
sinistra inseriamo l’utopia nel vecchio mondo, come un fungo sano su un ceppo
putrido. Con la destra, attizziamo il fuoco, attacchiamo il nemico e ci infiltriamo
nelle sue istituzioni. Tutto ciò si avvicina un po’ alla strategia dei
repubblicani spagnoli all’inizio della guerra civile: autogestire le fabbriche e le
fattorie, e contemporaneamente combattere militarmente il fascismo. Gli
stalinisti hanno posto fine a quest’esperienza, eliminando gli anarchici.
ACTUEL I vostri organismi paralleli possono sopravvivere e conservare la
loro autonomia? Le comunità, per esempio, reggono sovente per sei mesi o per
un anno, poi, su un problema economico, scoppiano. E i loro membri rientrano
nel sistema per procurarsi denaro.
ROEL VAN DUYN In Olanda, il movimento è ancora in una fase
ascendente. I negozi e le fattorie si sviluppano; avvocati danno consigli alle
persone minacciate di espulsione. Ma la contro-cultura non ha senso di esistere
se non per il fatto che riesce a convincere dei membri della società dominante,
che riesce a trovare alleati fra i tecnocrati e certi borghesi, che possono
sviluppare nei nostri confronti una politica di tolleranza che ci è utile. Tutto è
relativo, in fondo.
ACTUEL Voi beneficiate della tolleranza democratica che prevale in Olanda.
Non rischiate di chiudervi in un ghetto: l’underground si sviluppa ai margini
della società e, come in Inghilterra, finisce per bruciarvisi.
ROEL VAN DUYN Mi sono recato a Londra l’estate scorsa, durante il
processo di Oz; in effetti sono rimasto colpito nel vedere l’isolamento del
movimento undergroun inglese: lo si direbbe un gruppo di hippies eccentrici,
smarriti in una società vittoriana, quasi immobile. Il contrasto era
enorme, l’abisso incolmabile. Ma non è il nostro caso.
ACTUEL Voi Kabouters avete solo un piede nell’underground e l’altro nel
gouchisme. Quali sono i vostri rapporti con gli hippies e gli emarginati in
genere?
ROEL VAN DUYN Li vediamo soprattutto in estate, quando affluiscono
dall’estero e non abbiamo dei veri e propri rapporti con loro. Si divertono,
vivono nella merda, dormono all’aperto, ma non fanno quasi mai nulla. È
proprio questa la differenza fra la contro-cultura e la sotto-cultura. Gli hippies
sono molto simpatici, ma rimangono completamente alla mercè della società
capitalista: si nutrono dei suoi avanzi. Perché no? Ma ciò non rappresenta la
lusinga di un contro-potere. La contro-cultura può costruirsi soltanto con un
minimo di lavoro e di disciplina e, in fondo, non è sufficiente essere un homo
ludens...
ACTUEL Al tempo di Provo, tuttavia, avevate avanzato l’ipotesi di una
nuova classe, il « provotariato », composto da una gioventù studentesca e di
emarginati, che collocavate all’avanguardia del movimento...
ROEL VAN DUYN II provotariato è sfruttato economicamente, perché non
ha salario regolare, psicologicamente, perché non crede ai valori tradizionali: è
l’avanguardia della rivoluzione. Può creare situazioni esplosive e provocare
l’azione operaia, come nel maggio del ’68 in Francia. I Kabouters si
intestardiscono ad organizzare il provotariato. Compito difficile: sono persone
indifferenti, lunatiche e indisciplinate — tutte caratterisiche queste che spingono
il provotariato contro la società dominante, ma lo rendono inadatto al lavoro
politico. Opponendosi alla disciplina imposta dalle istituzioni, rifiutano ogni
disciplina, ivi compresa la disciplina che la lotta di ogni giorno rende
necessaria. È per questo che numerosi progetti si arenano o falliscono.
Da un certo punto di vista non siamo che uno specchio delle istituzioni,
anche se uno specchio che le deforma. Ma ciò non è sufficiente a creare una
forma sociale distinta da quella ufficiale. Il provotariato è esso stesso diviso
in apolitici e politicizzati, e i politicizzati sono a loro volta frazionati in tendenze
diverse, molte delle quali, di fatto servono il regime. Solo una piccola
minoranza, forse qualche miglio di persone, costituisce realmente una contro-
cultura.
ACTUEL A che cosa porterà tutto questo fra 25 anni?
ROEL VAN DUYN Se la contro cultura è effettivamente una realtà, il
provotariato potrà mantenersi perché avrà posto le basi di un’economia di cui
vivrà.
ACTUEL E sì, è il problema dell’underground, che ha attirato migliaia di
giovani, si è costituito in movimento sociale, ma non ha quasi mai raggiunto
altro che un piccolo numero di realizzazioni marginali, senza potere, o volere,
passare alla fase dell’organizzazione. L’underground mobilita, ma non utilizza
molto le sue forze. Un milione di individui battono la campagna, dove diecimila
si inseriscono, mentre gli altri servono come attrazione...
ROEL VAN DUYN Tu esageri, ci sono delle strutture, delle « free-clinics »,
dei negozi-cooperative.
ACTUEL Si tratta sovente del lavoro dei militant politici. Il problema di
fondo è altrove: fino a che punto si può lasciar andare tutto, e fino a quando? Ci
si può anche chiedere fino a che punto le strutture di cui tu parlavi prima, le free-
clinics e i negozi gratuiti non servano come comodo sostituto alle istituzioni del
sistema...
ROEL VAN DUYN ... Salvo quando quando si inseriscono in un progetto
politico come il nostro servizio di aiuto ai vecchi.
ACTUEL D’accordo, non si può più calunniarvi e tacciare di nichilismo.
ROEL VAN DUYN Più ancora; abbiamo mobilitato un certo numero di
vecchi, ciò che ha contribuito al nostro successo elettorale. L’Orange free state
ha beneficiato di una serie di circostanze favorevoli: molta militanza, la
simpatia d’una parte della stampa e dell’opinione pubblica. Quando
si ripresenterà una nuova situazione del genere e come provocarla: questo è il
mio problema attuale.
ACTUEL Dunque, come prendere il potere, o distinguerlo? In Francia
rimangono al centro del dibattito le concezioni rivoluzionarie marxiste della
dittatura del proletariato; le vostre intenzioni non sono più le stesse?
ROEL VAN DUYN Io non intendo affatto la rivoluzione come un colpo di
stato. Spero che in Olanda si produrrà un’evoluzione molto rapida, uno sviluppo
della centro-cultura accompagnato da un cambiamento nell’atteggiamento
dei socialisti, dei comunisti e di certi centristi. Sarà necessario contare anche su
una rivolta dei consumatori: l’uomo della strada potrà ben presto rifiutarsi di
avallare una cosa qualsiasi. Non sarà probabilmente un domani molto vicino,
e tuttavia, qualunque sia l’opinione dei tecnocrati che vivono nelle loro isole
verdeggianti, la situazione è già terrificante. Noi abbiamo lanciato il giornale
Panique: fra dieci anni non ci sarà più acqua potabile e la gente prenderà
paura; si renderà conto del legame intimo che assoggetta l’ambiente naturale alle
realtà di potere. Nel sistema gerarchico e autoritario, l’irresponsabilità è un
valore importante e generalizzato. I comportamenti sociali divengono
strordinariamente distruttivi. Preso per il naso, l’uomo non accetta più nulla,
soprattutto riguardo alla natura. Si, ben presto vi saranno delle sommosse per
difendere l’ambiente naturale e io vedo in questo una delle ultime molle della
rivoluzione... Occorre suscitare il panico...
ACTUEL Questo panico dunque alimenterebbe il cambiamento sociale.
Fin’ora le rivoluzioni nascevano da crisi economiche o da errori della classe al
potere...
ROEL VAN DUYN Questo tipo di rivoluzione non ha più un avvenire ai
giorni nostri. Lo stato è ormai molto meglio organizzato, la sua polizia
perfettamente equipaggiata. Le ultime rivoluzioni contemporanee sono scoppiate
in occasione di guerre che avevano indebolito il potere costituito: Iugoslavia,
Cina, Vietnam...
ACTUEL Allora la violenza è necessaria...
ROEL VAN DUYN Per me la violenza non è un’arma: ci condurrebbe dritti
alla disfatta.
ACTUEL Negli Stati Uniti, i Weathermen non sono stati fermati, ma è vero
che hanno perso il loro credito.
ROEL VAN DUYN Un rivoluzionario ha bisogno dell’appoggio e della
simpatia del popolo minuto. Personalmente, non amo la violenza e non credo
alle sue virtù tattiche.
ACTUEL I governi tuttavia non fanno complimenti nel loro ricorso alla
violenza: violenza subdola o violenza poliziesca.
ROEL VAN DUYN Si può anche smorzare la repressione. Senz’altro il
governo usa la violenza per assicurarsi la continuità del potere. Ma se va troppo
oltre su questa strada si ridicolizza e provoca un’indignazione nell’opinione
pubblica che gli si rivolta. Il movimento Provo l’ha ben dimostrato: usavamo il
giornale come esca e vi parlavamo di bombe. La polizia è venuta ad interrogarci
e a sequestrare il giornale. Ci hanno riso tutti.
ACTUEL Non c’è potere senza violenza, né rivolte
ROEL VAN DUYN Sì, c’è tutto un sistema subdolo, al di là del poliziotto. E,
nello stesso modo, un giornale d’opposizione è anch’esso una forma di violenza.
Credo pertanto che si possa limitare la violenza brutale, confinarla per gli ultimi
momenti. Ma siamo ancora ben lontani...
ACTUEL Non è l’impressione che dà l’Olanda: non si verifica qui nessun
tipo di violenza fisica.
ROEL VAN DUYN L’Olanda coltiva la grande virtù della tolleranza, ma è
una tolleranza repressiva. Ieri, per esempio, i dirigenti della Shell ci hanno
invitato: erano tutto miele. Mi hanno detto: « È bene tutto ciò che fate,
continuate ». E intanto continuano anche loro. Ai loro occhi, la cortesia cancella
la realtà dello sfruttamento.
ACTUEL Come funziona questa tolleranza repressiva?
ROEL VAN DUYN Con il sorriso sulle labbra. Ai tempi di Provo, questo ci
bloccava. Oggi non più. Ma il sistema continua imperturbabile ad esercitare la
sua repressione. Prima di tutto contro la natura: il 93% delle specie vegetali
sono ormai scomparse. La stessa cosa si verifica per gli animali: solo gli uccelli,
in particolare i piccioni, non ci lasciono le penne. L’acqua è così inquinata, che
quella del Reno diventa imbevibile a Rotterdam, e che si potrebbero sviluppare
delle pellicole fotografiche immergendole nei fiumi. Importiamo l’acqua
potabile dalla Norvegia: a settantacinque centesimi il litro. Secondo tipo di
repressione fondamentale, il sistema pompa senza vergogna alcuna le materie
prime di tutto il mondo. Infine, distrugge l’individuo e lo trasforma in un
perfetto irresponsabile: dominato, comandato, inquadrato, l’individuo si beffa
del proprio simile e della natura.
ACTUEL Ritieni che la vostra mancanza di organizzazione abbia avuto un
suo ruolo nel recente indebolimento del movimento Kabouter?
ROEL VAN DUYN È probabile. Eravamo organizzati, avevamo le nostre
riunioni, le nostre commissioni di lavoro, ma rimanevamo fondamentalmente
antiautoritari. Di fronte all’ampiezza della crisi, penso che dobbiamo aderire ora
a delle soluzioni autoritarie. Solo una rigidissima pianificazione dell’economia,
può limitare i danni. Occorre proibire d’urgenza gli inquinamenti più gravi. È un
tragico dilemma per il potere: deve infierire contro i suoi alleati, attaccare
se stesso. Contraddizione interessante. Il quadro della democrazia borghese
rischia di saltare. Una volta di più lo Stato dovrà rinforzare il suo controllo
sull’economia e gli individui e compiere un altro passo verso il sistema
dittatoriale.
ACTUEL Per poter lottare, è necessario per un momento dimenticare
l’anarchia...
ROEL VAN DUYN Prevenire la catastrofe è in questo momento la cosa più
importante e questo passa avanti anche alla realizzazione dell’utopia. Consigli
operai e federazione di consigli dovranno attendere.
ACTUEL È difficile per un portabandiera dell’ideologia antiautoritaria
ammettere un simile centralismo...
ROEL VAN DUYN Esatto, ed è proprio su questo problema che si inserisce
la mia personale contraddizione: mi ritrovo ad essere un leader perché ho scritto
che ora mi metto in disparte... I giornali mi intervistano — e sono i giornali che
creano i leader.
ACTUEL Rimane da risolvere il problema del potere e dell’organizzazione...
Il rafforzamento dello Stato contemporaneo esige un contro-potere d’acciaio.
ROEL VAN DUYN Non ne sono affatto convinto. Soltanto la base può
opporsi al centralismo, deviarlo, affossarlo. In questa prospettiva, un
funzionamento aperto, una semplicità calcolata e il decentralismo dell’azione
sono armi eccellenti. Il potere costituito non c’è abituato, si lascia sorprendere,
non sa troppo bene chi battere, e la brava gente si diverte. Detto ciò, un contro
potere deve però avere una sua facciata, offrire una continuità tangibile. Questa
continuità si esprime nelle istituzioni economiche autonome, le fattorie e i
negozi.
ACTUEL Torniamo al problema del potere: si tratta di prenderlo.
ROEL VAN DUYN Sì, ma non soltanto con lo scopo di mantenerlo. Gli
anarco-sindacalisti furono i primi a capire lo sbocco del marxismo autoritario: un
sistema in cui i mezzi e l’autorità hanno il sopravvento sui loro stessi fini. Non
occorre oltrepassare questo punto critico che vede i mezzi impiegati per prendere
e soprattutto per mantenere il potere essere in contraddizione con l’obbiettivo
rivoluzionario. È meglio perdere una battaglia che lasciarsi corrompere
utilizzando le armi del nemico. Se no, perché si lotta?
ACTUEL Una organizzazione può evitare la burocratizzazione?
ROEL VAN DUYN Deve osare sacrificare una parte della sua efficacia alla
democrazia interna, deve aprirsi all’esterno e decentralizzarsi fin dagli inizi; se
poi non sarà in grado di prendere il potere, tanto peggio.
ACTUEL Gli anarchici sono anticomunisti per definizione?
ROEL VAN DUYN Nei paesi capitalisti in cui i comunisti non hanno alcun
potere reale, si può parlare di unità con loro nella lotta, se sono d’accordo. Ma,
in generale, lo rifiutano perché ci detestano. In ogni modo è necessaria
una severa critica alla struttura del loro partito, in Olanda, come altrove. Non
vedo differenze sostanziali fra l’organizzazione del partito comunista e quella del
potere costituito. Il comunismo ha anche lui un assoluto rispetto per la
crescita dell’economia, pratica una specie di manipolazione autoritaria degli
individui e sogna di dominare la natura. Tutto ciò ci riporta molto lontano e io
preferisco Kropotkin a Marx: la sua filosofia era una filosofia della natura,
quella di Marx poggiava sulla cultura dell’uomo contro una natura nemica che
occorreva domare. Kropotkin aveva idee profetiche sulla pianificazione;
proponeva una decentralizzazione « dei giardini alle porte delle fabbriche »;
Marx preferiva il centralismo, grandi masse operaie concentrate nelle
grandi città: ciò favoriva, secondo lui, la coscienza di classe, ed era quindi la
prima tappa verso la presa del potere. Oggi abbiamo grandi città, e siamo ancor
sempre senza potere.
ACTUEL Che ruolo svolge, secondo te, la classe operaia?
ROEL VAN DUYN Siamo per l’autogestione e per i consigli operai. Ma per
interessare i lavoratori all’autogestione, occorre che essi ne abbiano
un’esperienza. Noi organizziamo comitati di quartiere ad Amsterdam: il loro
successo dimostra che noi siamo sulla buona strada. Gli abitanti costruiscono
giardinetti e nidi d’infanzia, occupano e restaurano locali sfitti. La nostra segreta
speranza è che essi portino questo stesso stato d’animo nella fabbrica. Ma qui
abbiamo l’impressione di ripartire da zero: la società olandese vive, come le altre
una contraddizione fra operai e padronato, ma da qui non deriva però nessuna
divergenza di fondo sui fini dell’economia. Ovunque c’è lo stesso materialismo e
la stessa filosofia del progresso industriale.
Secondo me, a lunga scadenza, il solo progresso possibile si definisce come
il miglioramento delle relazioni fra gli uomini. Il che significa: come trovare un
regime politico più onesto? e come aprire il ventaglio della comunicabilità?
ACTUEL Se ti ritrovassi al potere — o utopia — che ne faresti?
ROEL VAN DUYN In Olanda, come in tutto l’Occidente, bisognerebbe
avere il coraggio di proclamare: « Fermiamo lo sviluppo ». Per ragioni politiche
evidenti: l’automazione, è chiaro, non sarà affatto sufficiente a liberare la classe
operaia. Per produrre più in fretta è stato necessario frazionare ancor più il
lavoro. Occorre quindi sviluppare l’economia nell’altro significato del termine,
decentralizzarla, disindustrializzarla, mantenere soltanto i settori vitali; eliminare
le produzioni nocive o inutili...
ACTUEL Che ne faresti della città? Occorre rinnovarla? Distruggerla in
parte o del tutto?
ROEL VAN DUYN Con i suoi milioni di individui, Amsterdam conta già
troppi abitanti e troppi pochi alloggi. Il milione è un limite. Al rinnovamento,
preferisco la restaurazione. Perciò incoraggeremo i pionieri. Una volta risolto
il problema degli alloggi, mediante una ridistribuzione degli edifici, occorrerà
reintrodurre una separazione fra i quartieri, impiantare dei parchi. Lo so, non è
natura vera questa, ma la vera natura impiega troppo tempo a riapparire. Credo
sarebbe bene coltivare ortaggi in città. Il cittadino vi ritroverebbe il contatto con
altre specie e un aria più pura. Sei mesi fa, sorridendo, avevo proposto in
consiglio comunale di interrare la carreggiata delle strade e di mettere
degli ortaggi sui tetti delle macchine: la strada sarebbe stata un giardino. Uno dei
miei amici ha seguito il mio consiglio: l’ossido di carbonio ha ucciso gli ortaggi.
Un giorno sarà pur necessario organizzare un ambiente città-campagna.
Credo che occorra modificare le priorità dell’educazione. Le scuole
sperimentali, come quelle Montessori, in cui io ho studiato, tendono a
privilegiare la creatività: molto bene, anche troppo bene. La creatività
individuale in sé e per sé diventa una tara del capitalismo, che ne fa un tragico
spreco. Mi piacerebbe che l’educazione incoraggiasse almeno altrettanto lo
spirito di solidarietà. Si impone anche una critica dello scientismo. Non credo
affatto al positivismo: si comincia col conoscere ciò che è fuori di noi, per
manipolarlo, ma si trascura la coscienza di sé. È così che l’uomo si abbandona al
potere costituito e partecipa alla grande corsa ad ostacoli del capitalismo
competitivo, allo sprint verso il progresso.
ACTUEL Quali sono i pensatori che hanno lasciato un segno su di te?
ROEL VAN DUYN Marx, Kropotkin, Marcuse, ma anche l’anarchico
americano Paul Goodman, Dada, i situazionisti, per mezzo di Constant.
ACTUEL Constant?
ROEL VAN DUYN Un pittore olandese del gruppo Cobra, che viveva a
Parigi dopo la guerra e ha partecipato alla fondazione dell’IS. Non ha fatto molta
strada: è stato escluso. I situazionisti sono molto arroganti. Me li ricordo:
sono venuti a trovarmi nel periodo di Provo, era una delegazione ultra-borghese,
che ci ha a lungo spiegato le nostre deviazioni, per poi escluderci
preventivamente.
Non accettavano che noi prendessimo in considerazione di agire nel seno
delle istituzioni. In breve, Constant, divenuto architetto, aveva concepito un
grande piano di utopia urbanistica, quello della nuova Babilonia. Descrivere
l'homo ludens che avrebbe abitato la città del futuro. Ci ho creduto per un
momento. Ho pensato di vedere, come lui, l’avvento di una società post-
automazione, e che l’uomo la vivrebbe giocando II lavoro dovrebbe sparire.
Bella illusione: era dieci anni fa.
ACTUEL È anche la fine di una bella utopia: l’uomo dominatore
dell’Universo, scienza e vita...
ROEL VAN DUYN Occorre innanzi tutto riprendere il dialogo con la natura,
le altre specie, le piante, gli animali. I Kabouters lo fanno. Ho deciso — ride —
di parlare agli alberi del parco. Non erano molto loquaci. Sono tornato tutti i
giorni davanti ad uno di loro. Alla fine abbiamo molto discusso. Il mio ultimo
libro, Journal de panique, racconta questo dialogo.
ACTUEL Che diceva l’albero?
ROEL VAN DUYN Molte cose... la storia del suo parco, le abitudini della
gente d’altri tempi (era un albero molto vecchio). Non parlava come te.
Rifletteva i miei pensieri, le mie intuizioni. L’albero è un bell’esempio: un tronco
solido e stabile, una chioma che si adatta alla luce e agli elementi.
Henry Lefebvre






In una Francia rimbecillita, che sognava ancora Voltaire, l’indomani di
Verdun, Henri Lefebvre rivolge lo sguardo, dagli anni venti, all’avvenire del
nostro secolo. Con Georges Friedmann, Georges Politzer, Paul Nizan e alcuni
altri, fonda il gruppo Philosophie, poi la Revue marxiste, la prima con quel
nome, ed è un successo per l’epoca. Ma se in un primo tempo rasentava la
psicanalisi e il surrealismo, gli preferisce poi l’adesione al partito comunista
francese: come la maggior parte dei suoi amici, Lefebvre dimentica allora
la ribellione per le istituzioni rivoluzionarie. Settarismo, politica, Marx come
Stalin: è un militante intellettuale, per la difesa e l’illustrazione d’una filosofia
imposta dal Komintern e dall’ufficio politico. Ma Lefebvre riflette sempre su
Nietzsche e parla della vita di tutti i giorni. Gli « ortodossi » in un giorno del
1958 si irritano di questa situazione: Lefebvre perde la tessera del Partito e
ritrova, con il gusto della ricerca, il senso della provocazione.
Per primo ricerca una sociologia della vita quotidiana e riflette sulla Comune
di Parigi. Dopo la sua esperienza di militante, che gli dà il senso della politica,
vaccinandolo contemporaneamente contro i miti, riscopre l’importanza
della festa rivoluzionaria e si sforza di avvicinare Marx a Nietzsche. Nel 1966,
incontra un gruppetto, che si chiama situazionista e che lancia qui e là pungenti
critiche premonitrici. Ne nasce dapprima un’amicizia, poi forti contrasti.
Oggi non sappiamo più molto bene che cosa dobbiamo esattamente all’uno e agli
altri.
Profondo, rigoroso, cartesiano, dialettico, poetico, Lefebvre porta avanti un
insegnamento insolente, porta il suo pensiero e i suoi studenti su strade traverse,
che per lui vanno più lontano di quelle ben tracciate. Dal 1967 lascia a Nanterre
delle idee che ben presto assumeranno tutto il loro peso; scrive nei Prénées una
serie di opere e di articoli, interroga persone e fatti, da Varsavia a New York.
Lefebvre è un inesuaribile “ revisionista ” del pensiero: supera sempre i concetti
degli altri e trasgradisce le ideologie, dopo averle esaminate. Oggi dice di aver
trovato una lotta d’avanguardia e il nodo delle contraddizioni presenti e future:
lo spazio e la città come il tessuto stesso della nostra vita sociale, delle sue
contraddizioni e di una rivoluzione fin qui rifiutata, nella quale egli spera.
Questo è divenuto l’argomento di ben quattro libri. Il quinto, la Production
de l’espace ', è in preparazione e vuole esserne una sintesi. Lefebvre ci dà qui le
sue prime conclusioni.

HENRI LEFEBVRE Al di là delle mode e dei movimenti, in Europa come
negli Stati Uniti, credo nell’avvenire dell’underground. Occorre prendere questo
termine nel suo significato letterario e simbolico: la vita clandestina. Le attuali
esperienze non sono forse il segno premonitore di un fuuro temibile? Guardiamo
i conflitti asiatici, fino agli ultimi film cinesi sulla guerra sotterranea: la
superficie è in mano al potere, affidata alla sua polizia, alle sue bombe, ai suoi
apparecchi da guerra; la resistenza e la rivoluzione passano per la clandestinità.
Ritroveremo, attraverso queste vie impreviste e tragiche, ciò che Nietzsche
chiamava « il senso della terra », forme straordinarie e fin qui sconosciute di vita
sociale? Il problema dello spazio si pone fin da ora in tutta la sua ampiezza.
La domanda oltrepassa di gran lunga le preoccupazioni sul destino della
natura e dell’ambiente, e si esprime dapprima come un verbale di fallimento. Ho
ben visto negli Stati Uniti: i fallimenti si succedono, sia che si tratti di
rinnovamenti, che di esperienze di città nuove o di progetti. Il fallimento è
contemporaneamente intellettuale e pratico. Lo sfruttamento dello spazio ha fatto
invano il giro dei vari rami delle scienze, demografia, economia politica,
semiologia, linguistica...
ACTUEL E la cibernetica?
HENRI LEFEBVRE Anche la cibernetica. Gli sforzi di matematizzazione
integrale della realtà urbana negli Stati Uniti si sono impantanati: nessun
risultato da un punto di vista operativo, nessuna previsione seria, anche se in
Francia queste cose ancora ci si sognano.
ACTUEL Pensa che non si possa programmare né lo spazio, né la vita?
HENRI LEFEBVRE Esatto. Noi viviamo in società bloccate; blocco
dell’immaginazione, blocco del pensiero. I progetti degli architetti e degli
urbanisti manifestano questo fenomeno: si assomigliano tutti all’Est come
all’Ovest e in tutto il mondo. Ovunque figurine graziose e futili si animano sullo
sfondo di uno spazio monotono. Poi viene il discorso, caricatura scientifica, che
pretende di animare questo spazio. Questa pseudo-disciplina si chiama
urbanistica.
Società bloccate, su scala mondiale: la sociologia, che lanciò il termine
rasenta ancora l’essenziale — la caduta degli impulsi rivoluzionarsi, come un
paraurti davanti agli attuali sistemi. Non è la società, ma, al momento, è la
rivoluzione ad essere bloccata e, con lei, l’immaginazione sociale. Per abbattere
questo muro invisibile, teorico e pratico contemporaneamente, occorrerà mettere
tutto in movimento, rimettere tutto in discussione, concetti e concezioni, la
filosofia, la storia, l’analisi e le propsettive di questa società, fino alle categorie
del pensiero. Ancora dobbiamo sottrarci al dilemma a cui la situazione ci
costringe: per cambiare una qualunque cosa, occorre cambiare tutto, ma bisogna
pur cominciare da qualche cosa. C’è sempre un senso di blocco, questo cerchio
d’impotenza, che ci rimanda continuamente dalla parte al tutto, e dal tutto alla
parte.
Non si varcherà la soglia di questo circolo vizioso, se non con un’esperienza
pratica. Per me, si tratta dell’architettura e dell’urbanistica, con le quali mi sono
confrontato in anni di insegnamento, di dibattiti, di contatti in tutto il mondo. Ho
ritrovato la stessa ossessione in tutte le scuole, in tutti i progetti: il disegno.
Studenti, architetti e urbanisti si definiscono esclusivamente come «
visualizzatori », si soffermano in una pignola perfezione del tratto, in uno spazio
unicamente disegnato che animano con le figurine e la retorica. Strano tipo di
specializzazione pedagogica e sociale. Circa un secolo fa, Ruskin spiegava la
decadenza dell’arte con la mania del piano, l’abitudine della carta, una
percezione unidimensionale.
Oggi occorre, in modo più approfondito, tirare in ballo la visualizzazione
sistematica che riguarda l’insieme della vita sociale e urbana. Se il piano è un
modo di « scrivere » lo spazio, ciò richiede l’analisi e la critica, esattamente
come le altre forme di linguaggio che hanno fin qui monopolizzato la riflessione
letteraria e filosofica. Guardate un architetto, mentre immagina un rialzo o
progetta una facciata: per lui si tratta soltanto di un piano drizzato che
subisce una rotazione di 90°, un intero volume visualizzato, un’iscrizione
mortuaria, che nega l’azione concreta e vissuta nello spazio. Lo spazio che si
costituisce è visuale e fallico. Ogni elemento si erge al di sopra del suolo, la sua
funzione è di farsi vedere e di essere visto, è partecipe di uno spazio del potere
realizzato mediante delle strutture verticali, la loro virilità, la loro durezza — un
controllo visuale permanente, la dittatura dell’occhio e del fallo.
ACTUEL Direi anche che l’architetto si trasforma in un fabbricante, che noi
siamo sommersi da una tecnica ripetitiva, da un disegno in serie...
HENRI LEFEBVRE C’è sempre, nella monotonia e nella ripetitività, la
dittatura dell’occhio. Le tecniche prendono il loro posto naturale in questo spazio
dominatore e dominato, il disegno contribuisce a depauperare questo
universo, riducendone la forma alla funzione. Prima conseguenza —
e fondamentale: la scomparsa del corpo. Tutto si riduce ad una visualizzazione
intensa, cioè ad un rifiuto dell’esperienza e delle cose vissute. Se ha gli occhi, il
corpo non si esaurisce però nel visibile, nel leggibile o nello scrittibile; rimane
opaco e carnale. Svanisce sotto questa lettura, che non è innocente o estetica, ma
politica e ideologica, è restituito alla terra, agli spazi sotterranei, alle funzioni
oscure e simboliche della sessualità e della deiezione, che una certa psicanalisi
gli riserva. È anche lui profondamente attaccato e negato.
Si trovano già i preludi di questa analisi nella grande meditazione politica di
Nietzsche. Michel Foucault ci ha ricordato di recente che Nietzsche aveva una
teoria del linguaggio, anteriore di un mezzo secolo a quella di Saussure, e, per
me, molto più profonda. Nietzsche denuncia l’ipertrofia della visualizzazione,
che traspare da tutte le metafore della filosofia. L’idea è la visione: prospettiva,
punto di vista, orizzonte, queste metafore visuali assorbono l’elemento
fondamentale del pensiero che fino ai presocratici era una realtà inseparabile
dell’esistenza fisica del corpo. Ed è così, probabilmente, che il linguaggio è
divenuto linguaggio di potere: il potere è stato stabilito attraverso il visibile e sul
visibile. La tragedia e la musica hanno espresso il corpo, la filosofia, come
rivincita, si è legata ad una gigantesca operazione di sostituzione e di trasferta,
ha abbandonato la verità del corpo a vantagggio di una visualizzazione esclusiva,
fantasma astratto di uno spazio astratto,, ottico e geometrico. Questo è il
pensiero di Nietzsche nelle sue meravigliose opere sul linguaggio,
paradossalmente riunite sotto il titolo di Libro del filosofo, mentre istruiscono il
processo alla filosofia nel suo complesso. Se è necessario tornare sul pensiero di
Nietzsche — come molti hanno la pretesa di fare, fermandosi però a metà strada
— è però necessario andare fino in fondo a capire con lui che quelli che
disprezzano il corpo sono gli uomini di potere.
E il corpo è trascurato, il corpo è negato, o, più esattamente, è rifiutato da
questa specie di escrescenza visuale, si riduce a una rete di segni astratti,
scompare... Non solo merce, ma merce venduta nello spazio visuale,
l’ambiente dei mercanti che lo controlla, lo sorveglia, lo domina.
Marx descriveva un mondo opposto a questo, in cui gli intermediari prevalevano
sui produttori e sui creatori. Bisogna andare ancor più lontano: rivoltare questo
mondo, e l’altro che oggi lo comprende e lo dirige, l’universo della dittatura
dell’occhio.
Con un senso ben diverso, MacLuhan nella Galaxie Gutemberg, Debord
nella Société du spectacle hanno messo in evidenza questa importuna
preminenza del visuale. Mac Luhan tuttavia si è messo a sognare una nuova
società derisoria che si costruirebbe attorno alla televisione. Più perspicaci,
Debord e i situazionisti si sono fermati ai fenomeni spettacolari, senza cogliere
realmente la scomparsa del corpo nel visuale. Questi tentativi mancano, a mio
avviso, di un substrato filosofico, ignorano Nietzsche al di là di Marx.
ACTUEL Dalla Generazione Beat, Ginsberg, Kerouac, nel complesso dei
movimenti paralleli e underground, il vissuto prevale sull’intelletto, l’esperienza
sull’organizzazione. Ed è il momento di una rock music che trascina tutta una
generazione, cui serve da linguaggio comune, con una forza mai più raggiunta
nelle società occidentali.
HENRI LEFEBVRE Sì: la musica è una restituzione del corpo, vi ci
riconduce costantemente attraverso il ritmo. È una riabilitazione: l’estasi, la
voluttà, il piacere, la danza, un altro tipo di comunicazione. Nietzsche era anche
riguardo a questo argomento un precursore. Marx non pensava niente a proposito
della musica. Mi ricordo di un testo di Engels su La Flûte enchantée: Engels
identifica la musica con l’ideologia francomaçonne di Mozart, e condanna la
prima, perché l’altra non gli piace. È lo stesso straordinario!
ACTUEL Come si traduce la dittatura dell’occhio nell’organizzazione
urbana?
HENRI LEFEBVRE II rapporto spazio-società non è un rapporto semplice,
ma variabile e conflittuale. L’assalto contro la società, per esempio, conquista o
rivoluzione che sia, parte da una ridefinizione dello spazio. Prendiamo il caso del
Marais, spazio dell’aristocrazia nel xviii secolo, con i suoi parchi, i suoi giardini
i suoi alberghi. La borghesia ascendente insudicia e mette sottosopra questo
spazio, vi traccia delle strade, apre i suoi negozi, i suoi laboratori, piccole
manifatture. Ci si lamenta oggi del deterioramento del Marais, si dimentica che è
il risultato di un’intensa lotta di classe. Come lo fu l’azione di Haussmann, che
sventò il doppio complotto — strade con circolazione e transito senza macchine
— che si costituiva spontaneamente in Parigi. Nello stesso modo i conquistatori
trasformano la morfologia di uno spazio, per prendere possesso di una società:
vedi i romani o la penetrazione spagnola nell’impero inca.
ACTUEL Lei parlava dei conquistatori e dei rivoluzionari...
HENRI LEFEBVRE Ciò vale per la rivoluzione borghese. Fino ad oggi la
rivoluzione proletaria non ha potuto creare un suo spazio, per ragioni che
rimangono da analizzare.
ACTUEL Non pensa che a diverse forme sociali corrispondano diverse
forme di città? C’è un’urbanistica nazista, un’urbanistica staliniana, che, ahimè,
non sono del tutto estranee l’una all’altra. Si può sviluppare questo tipo di
analisi?
HENRI LEFEBVRE Perché no. La città islamica è, probabilmente, come
dice Berque, una città della giustizia e della testimonianza, molto più che il
labirinto uterino che vuole vedervi la psicanalisi. Organizza i suoi spazi attorno
ad un centro, in cui siede il giudice. E poi le città italiane, il Rinascimento, le
città-monumento...
ACTUEL È la bellezza. Bisogna rinunciare per sempre a creare nuove città
come Siena, cinquantamila abitanti suddivisi in una decina di spazi collettivi
superbamente equilibrati nell’ambito di un tessuto urbano densissimo.
HENRI LEFEBVRE L’equilibrio di Siena derivava dalla concorrenza fra i
quartieri, una separazione armoniosa dei gruppi e delle professioni che gli attuali
sistemi di comunicazione e i continui cambiamenti della società industriale non
ci permettono più. Ci sono altre esperienze. Mi hanno citato il caso di una
piccola città californiana, creata di recente e destinata ai Negri. Questa città ha
conosciuto una vita intensa. Alcuni Bianchi l’hanno saputo e vi si sono fermati,
per sfuggire alla noia, o per divertirsi addirittura. Si è trattato, si dice, di un
sorprendente superamento dell’odio razziale: Bianchi che si integrano con i
Negri attraverso un processo orgiastico, mentre in generale si cerca di integrare i
Negri con i Bianchi e si fallisce. L’esperienza è interessante, se non proprio
convincente.
ACTUEL Ma in Francia? Per me, Avignon o Aix sono città equilibrate. Lo
so: queste città hanno impiegato secoli a organizzarsi ed è un regalo che la storia
non ci farà più.
HENRI LEFEBVRE L’equilibrio di Aix o di Avignon si è mantenuto a tal
punto che queste città hanno potuto resistere all’industrializzazione. Ma sta
cominciando a venir meno e non penso si possa ricomporlo. È necessario
chiedersi: in che modo è stato prodotto questo spazio? Da chi e per chi? È la
prima domanda che pongo agli Americani che cercano di creare una città
sperimentale. Ogni città corrisponde ad un’epoca e ad una storia.
Le società possono stabilire un doppio rapporto con lo spazio: talvolta ne
perdono il controllo e si perdono esse stesse, tal altra — ed è il caso della società
borghese — impongono il loro spazio e tentano di regolare per suo tramite i
processi economici e i movimenti sociali. Come Haussmann respinse fuori dalle
mura le popolazioni pericolose, ai giorni nostri la pianificazione territoriale si
sforza di dominare il fenomeno industriale. Lo « spazio strumentale » non
dipende affatto dalla tecnica pura, contrariamente alle affermazioni di un
urbanistica compiacente: strumento, certo, ma al servizio del capitalismo e della
borghesia. La società nel suo insieme, dominata da una classe, manipola il suo
spazio per orientare a suo vantaggio le realtà demografiche, economiche e
politiche.
ACTUEL Lei non crede ai benefici della pianificazione urbana?
HENRI LEFEBVRE Ne critico con forza lo stesso principio. La
pianificazione urbana mira a regolare strategicamente lo spazio della borghesia,
come si delinea fin da Haussmann. Essa rimane impotente di fronte al compito di
creare, di equilibrare o di armonizzare la città moderna. Il problema è altrove: si
tratta di superare la contraddizione fra lo spazio e la società, di trovare tra i due
termini un’articolazione tale che i loro rapporti non si concepiscano più, in un
senso o nell’altro, in termini di asservimento, di dominazione o di lotta. Ciò
implica una serie di superamenti a tutti livelli. Per esempio, quello
dell’opposizione fra monumento ed edificio — il monumento aristocratico,
opera di potere, l’edificio destinato al popolo, serie di telai e scomparti spaziali e
morfologici. E quello del pubblico e del privato, dell’individuale e del sociale,
che incarna a suo modo l’antagonismo fra lo spazio della casetta e quello dei
grandi complessi. La Fondazione Ford di New York rappresenta, riguardo
a questo, una prima esperienza. La si potrebbe considerare una realtà
monumentale se la semplicità delle masse e l’assenza della facciata non si
opponessero a questa definizione. Giardini esterni, giardino tropicale e centrale
dalle pareti di vetro montate su cemento, che assicurano l’unità dello
spazio esterno ed interno, e che strutturano il mondo urbano degli uffici, aprendo
contemporaneamente alla città un passaggio fra la 42° e la 43° strada: né
monumento, né edificio, la Fondazione Ford abolisce il pubblico e il privato
nella sintesi di continuità di uno spazio che non ha diritto e rovescio. Si tratta di
un sintomo, ancora di un caso isolato, appena un esempio. La società futura
dovrà pur capovolgere la prospettiva spaziale: una sostituzione rivoluzionaria, un
nuovo incontro, sovvertito, con il corpo.
ACTUEL Come definire un nuovo tessuto urbano in questa prospettiva?
HENRI LEFEBVRE È necessario qui fare appello ad una nozione
fondamentale: quella di creazione o produzione di spazio. Soprattutto in Francia
le esperienze rimangono assolutamente insufficienti, a cominciare dalla più
interessante, quella delle Halles. Si trattava semplicemente di uno spazio vuoto,
in cui si riversò per un certo tempo un’attività ludica sotto l’effimera copertura
degli ombrelli di Baltard. Vi ebbe luogo l’utilizzazione e la trasformazione di
uno spazio preesistente, non la creazione di uno spazio. Altrove, i tecnocrati ci
propongono uno spazio-oggetto, senza confessare chi lo manipola e a vantaggio
di chi. La società burocratica produce ineluttabilmente uno « spazio ad albero »,
secondo l’espressione di Christopher Alexander, cioè una struttura in cui il
tronco domina e dirige ogni ramo.
Nella Germania degli anni trenta, gli architetti del Bauhaus hanno capito
intuitivamente che, invece di continuare a creare oggetti isolati, separati gli uni
dagli altri nello spazio, la società moderna permetteva di creare lo stesso spazio.
Si ritrova questa stessa idea, ma su un piano meno teorico, in Le Corbusier,
come negli urbanisti russi del periodo prestaliniano. Bisogna razionalizzare
l’intuizione e introdurre la nozione di produzione dello spazio come concetto
fondamentale.
Questo concetto ricade su tutta la storia delle nostre società e le rischiara.
Ogni sistema sociale ha avuto il suo modo di produrre lo spazio. Nel XVII
secolo la Francia e l’Europa si coprirono di una rete di fiumi e di canali
navigabili, si aprirono porti sul mare. Lo spazio acquatico così prodotto crea e dà
forma a città lungo i fiumi, Orléans, Tours, Parigi naturalmente, tutto commercio
e architettura. Allo stesso modo lo spazio determinato dalle ferrovie struttura la
società del xix secolo, l’industrializzazione, fino ai cambiamenti e alle
migrazioni sociali. Nel xx secolo, grazie allo straordinario sviluppo delle forze
produttive, l’uomo potrebbe assumere e controllare coscientemente nuove
forme di produzione dello spazio, invece di arrestarsi nella ripetizione di moduli
stereotipati tipici delle abitazioni a basso canone e delle autostrade.
ACTUEL Riducendone la singolarità e controllandone relativamente
l’aspetto economico, la borghesia del xx secolo giunge a riprodurre nel campo
spaziale la contraddizione che affliggeva nel xix secolo il mercato dei beni e dei
servizi. Si traspone qui la distorsione e la padronanza completa dell’economia
ingenera un’anarchia dello spazio che non hanno conosciuto né l’Ancien Regime
né il capitalismo liberale. È questa, forse, la temibile contropartita
dell’industrializzazione.
HENRI LEFEBVRE Come Marx ai suoi tempi con la produzione industriale,
la riflessione sociale contemporanea è oggi confrontata con la nozione di
produzione dello spazio; essa deve compiere una seconda rivoluzione su se
stessa. Prima di Marx, economisti e ideologi contavano e studiavano le merci,
cercavano un legame psicologico fra le cose prodotte e i bisogni, elaboravano
una teoria commerciale della vita economica. Restavano prigionieri del discorso
sulle cose, un pensiero quotidiano e banale. Marx capisce che la merce contiene
e dissimula i rapporti di produzione, e che a un certo livello questi rapporti sono
generati dalle forze produttive. È questa, secondo me, la profonda originalità
del marxismo. Oggi, urbanisti e sociologi descrivono ancora trivialmente lo
spazio e le cose nello spazio. Anche qui il pensiero deve giungere ad una
completa inversione di punti di vista: dal discorso sullo spazio al concetto stesso
di spazio e della sua produzione. I rapporti di produzione capitalistici hanno
ostacolato lo sviluppo delle forze produttive; allo stesso modo, inducono,
ostacolano, utilizzano e sviluppano nella loro logica la capacità di produzione
dello spazio. Nel momento in cui questa diviene un fatto universale, la borghesia
in quanto soggetto storico sminuzza lo spazio e lo rivende all’ingrosso e al
dettaglio.
ACTUEL Lei non crede che il rinnovamento di Parigi, per prendere una città
fra le tante, possa rappresentare una produzione complessiva dello spazio, quali
che siano le intenzioni e gli intoppi?
HENRI LEFEBVRE È solo una tendenza, sono tentativi, sempre frenati e
scalzati dagli interessi particolaristici, dalla speculazione, dai promotori, dal peso
del passato — in una parola, dalla pratica sociale del capitalismo. Teoricamente
e praticamente la strutturazione del territorio è un fallimento. Le classi sociali
impegnano la loro lotta nello spazio, ma al di là delle contraddizioni della
produzione e della socializzazione, lo spazio è esso stesso luogo di
contraddizioni specifiche e di fondo, al primo posto fra questa percezione
globale e questa frammentazione che gli impone il sistema dominante. Le
tecniche moderne allargano indefinitamente lo spazio — possibile sfruttamento
dei mari, dei deserti, dei cieli o dei pianeti — mentre lo spazio commerciale si fà
sempre più raro, in una penuria organizzata e provocata.
ACTUEL Come concepisce lo spazio futuro? Più concretamente, che cosa ne
farebbe delle Halles?
HENRI LEFEBVRE La sua domanda è inaccettabile. Lei pretende di far
penetrare il ragionamento nel futuro. Potrei a rigore rispondere, se mi si dessero
cento milioni, e ancora: forse li regalerei ai Black Panthers. Non studio lo
spazio-cosa, o lo spazio-oggetto, non più comunque di quanto Marx si sia
soffermato a dissertare sull’industria tessile o metallurgica, prima di aver
stabilito i concetti e le leggi che regolano la produzione industriale nel suo
complesso. Io analizzo la nozione di produzione dello spazio, ma non uno spazio
particolare: invertire il problema, significa annullarlo.
Lei può sempre chiedermi a che cosa serve il mio concetto, o, per usare un
gergo moderno, qual è il suo valore operativo immediato. Mutatis mutandis, a
Marx e al suo Capitale si chiederebbe la stessa cosa. No, tutto ciò non porta
a niente, ora come ora, questa riflessione è un’arma critica che mira ai tempi
lunghi. Io non lavoro per gli architetti delle Halles.
ACTUEL D’accordo, capisco che lei rifiuti di descrivere in modo autoritario
uno spazio, prima di aver messo in luce i meccanismi generali della sua
produzione. Ma il vissuto, le aspirazioni degli utenti: non bisogna partire da qui?
HENRI LEFEBVRE Non bisogna fare un feticcio dello spazio vissuto, più di
quanto non lo si faccia con lo spazio-oggetto. La produzione di uno spazio
globale non si riduce alle aspirazioni dei suoi utenti. Le ultime dispute in corso a
Varsavia sono molto significative al riguardo. Alcuni urbanisti intelligenti
avevano presentato un progetto realmente nuovo e innovatore, una struttura della
città che rispettava i giardini e orientava il corso dei venti. Il Parlamento, le
organizzazioni cosiddette di massa e la popolazione stessa hanno fatto di tutto
per bloccare l’iniziativa. Esigevano case popolari al posto dei parchi e dei
giardini. Come se si volessero costruire degli edifici al centro del Luxembourg, o
riempire il vuoto delle Halles con scatole di cemento — ciò che, d’altra parte era
nei piani del partito comunista. Si deve tener conto delle aspirazioni e delle
rivendicazioni degli abitanti, e ritrovarle alla fine del percorso; non si può
prenderle come punto di partenza, senza andare a finire nelle peggiori catastrofi.
ACTUEL C’è ancora una contraddizione dello spazio?
HENRI LEFEBVRE Sì. Bisogna oggi ricollegare l’analisi a quella della
ristrutturazione dei rapporti di produzione capitalistici. Messi in crisi ben tre
volte in un mezzo secolo - dopo la prima guerra mondiale, alla Liberazione, nel
maggio 1968 — i rapporti di produzione capitalista si sono ricostituiti. Sapere
come? Io credo attraverso lo spazio. La storia del tempo sociale è inscindibile
dalla storia dello spazio sociale, con tutte le implicazioni biologiche,
antropologiche, la vita vissuta animale e psicanalitica. Lo spazio sociale
si inserisce nel tempo. È sempre stato prodotto; nella nostra società, bloccata, si
riproduce. Non c’è più immaginazione né creatività: è il riscatto del blocco
rivoluzionario. Prendiamo in considerazione questa enorme commedia,
l’incredibile ripetitività borghese. Da decenni è stato rigurgitato il passato — il
regno del neo-arcaico: ripresa, rinnovamento dei secoli passati con la copertura
di un discorso modernista, quasi in un ordine cronologico.
Tutto è passato su questa scena: il primo, il secondo Impero, la Belle
Epoque, gli Anni folli... Ciò che si chiama cultura è un rimandare indietro su
vasta scala, un gusto del vomito, per qualcosa che è già stato mangiato e
deglutito. Quale cumulo di segni, e i segni della novità rivestono di lustrini tutto
il vecchio che consumiamo. Tutto accade come se il tempo si invischiasse, si
impantanasse nel ripetitivo, ivi compreso quello politico — lo Stato, la
burocrazia, l’assoggettamento. Nell’architettura e nell’urbanistica non c’è altro
che la sistemazione del ripetitivo. Gigantesca parodia storica, che già Nietzsche
imputava. Ci sono cose finite, esaurite: del composito, un tempo conosciuto e
riconosciuto in quanto tale, rimangono solo varianti che finiscono per diventare
insignificanti. Allora tra la soddisfazione e il disagio, imputridisce una grande
palude stagnante, infarcita di violenza, che serve come distrazione.
Questa società assomiglia sempre di più ad un enorme cono di deiezione alla
base della montagna. I torrenti hanno consumato gli spigoli: è la storia. I rigurgiti
del passato si stendono in strati leggeri e successivi. La morte del Dio, la morte
della Storia, la morte dell’uomo, la morte del tempo, la morte del corpo, la
cultura... tutto è consumato. Salvo non so bene quali piccoli aggeggi che si
presentano come sogni e rivoluzioni. Rivoluzione nella purezza sintetica o nel
rasoio a pile. E in fondo, nascosto e turgido, un nichilismo latente, straordinario.
Oltre il nichilismo, dov’è l’alternativa? Si intravedono delle possibilità
attraverso il processo dominante: superamento del pubblico e del privato, del
monumento e dell’edificio, della contraddizione fra spazio e società, questa
visione di uno spazio concepito, percepito e realizzato globalmente, sistemato
sul vissuto e sull’universale. Io mi ripeto: riproduzione, da un secolo, dei
rapporti di produzione capitalistica, estensione di questi rapporti a tutto lo
spazio, ripetizione immanente alla loro produzione, e pertanto non c’è
riproduzione assoluta. Appaiono differenze — non è facile distinguerle — nel
quotidiano, nell’urbano, nello spazio. La differenza punta sull’omogeneità e
comincia la sua lotta. Arriviamo ad un limite: sotto la spinta delle forze
produttive, la società tende alla rottura — il crollo, la guerra mondiale o la
rivoluzione.
E sono tutti all’ultimo respiro, compresi gli Americani. La riproduzione dei
rapporti sociali è sempre più fragile, come mostra la contestazione generalizzata,
il malcontento ipocrita, le scintille che scoccano qua e là. Le nuove società dei
nostri governanti sono solo burle, a rigore una coscienza ancora confusa della
ripetizione.
ACTUEL Ma come credere nel socialismo?
HENRI LEFEBVRE II socialismo di Stato si arena, perché uno Stato è in
grado di produrre soltanto uno spazio statico, cioè controllato e gerarchizzato,
all’immagine dello spazio vecchio. L’etichetta e l’ideologia non cambiano niente
in questo stato di cose. Varcherà la soglia chi passerà ad un altro modo di
produrre, produzione dello spazio e non produzione delle cose nello spazio. Così
potrebbe sbloccarsi anche l’immaginazione. È l’ipotesi favorevole, l’alternativa
o nichilismo. Non ne vedo altre. Tutte le categorie riflettono in funzione di
questa apertura. Si parla oggi di autogestione delle aziende. Secondo me, la
società rivoluzionaria sarà l’autogestione dello spazio.



1 Edition Anthropos.
CFDT, Jeannette Laot e Fredo Krumnow






Ponendosi alla sinistra della sinistra tradizionale, o scartandola, si trova
soltanto un interlocutore, la CFDT. Il partito comunista, impegolato nel suo
revisionismo disciplinare, bolla preventivamente la concorrenza, e taccia tutti di
provocatori. Per mimetismo e per convinzione, la CGT calca le tinte. Il partito
socialista vorrebbe recuperare a distanza, ma il suo aspetto sparuto e rugoso, i
suoi vecchi burocrati non hanno niente a che vedere con il nostro discorso. Il psu
pone dei problemi: numerose linee, fra cui bisognerebbe saper scegliere.
Organizzazione operaia di massa che ha sulle altre il vantaggio di lottare
dall'interno delle fabbriche, la CFDT rimane in contatto con i gruppi minoritari e
cerca anche di esprimerli. Ha accolto, senza troppo reprimerle, le generazioni
nate dal maggio 1968, reduci dal maoismo e dal trotskysmo, giovani lavoratori o
gauchistes senza occupazione, che ricercano l’efficacia dell’azione quotidiana. I
dirigenti stessi della CFDT riprendono talvolta i temi dell’estrema sinistra e lo
fanno con sincerità. Il sindacato mormora: aperto, democratico, antistalinista, è
un sorprendente centro di ricerca in cui si mettono a punto concetti nuovi, in cui
si logora la burocrazia, e si tormenta il capitalismo.
Sviluppi: il piccolo sindacato cristiano, moderato e complessato da un
comunismo un tempo ben più energico di oggi, è divenuto una grande centrale
combattiva, temuta dal padronato ed esposta alla repressione. Il
vocabolario cattolico, generoso e vago, si è trasformato nel corso degli anni, in
una pratica precisa. Si parla ormai di lotta di classe, di abolizione della proprietà
privata dei beni di produzione, di autogestione e, da poco tempo, di rivoluzione.
Sotto la spinta del movimento di Maggio, la CFDT ha saputo estendere le
proprie preoccupazioni ai problemi della vita sociale complessivamente, come
alle nuove correnti di idee che traspaiono qua e là, a dispetto del normale
settarismo.
L’autogestione, idea chiave, rimane un concetto ancora vago della società
futura. Ma da oggi la CFDT rispetta l’autonomia operaia nelle lotte e rifiuta di
dare parole d’ordine verticistiche. Il suo anticapitalismo non ha nulla a che
vedere con le voglie buroratiche del comunismo europeo: si diffida tanto del
leninismo e delle sue deviazioni che del riformismo socialdemocratico e trade-
unionista.
Ovunque, alla direzione, si ricerca e si dibatte, si ricevono gauchistes o
uomini politici del tutto tradizionali, si lavora con équipes di sociologhi e di
esperti in scienze umane. Rimane un equivoco: fra polemiche violente, la CFDT
pratica un’unità d’azione con la CGT e mantiene una simpatia riservata per gli
sforzi unitari della sinistra parlamentare, PS e PCF. Ideologicamente più vicina
al gauchisme, rifiuta tuttavia di lascirsi trascinare nella dispersione delle
dispute fra gruppuscoli e nell’isolamento. Aperta a tutti, ma mai divisa, la CFDT
paga questa sua ambiguità: il suo eclettismo nasconde una solitudine più
profonda.
Actuel ha intervistato Fredo Krumnow e Jeannette Laot. Il primo fu operaio,
poi impiegato nel settore tessile, alla Mulhouse, per poi essere eletto nel 1970
membro del comitato esecutivo della Confederazione. È considerato uno dei
responsabili più “ gauchistes ” della direzione. La seconda, vecchia OS dei
tabacchi, è responsabile del settore Azione sociale, anche lei membro della CE.
Dal 1967, si occupa in modo particolare delle lotte del settore femminile.

ACTUEL Cinquantamila manifestanti a Charonne il 28 febbraio 1972, più di
centomila ai funerali di Overney il 4 marzo: siete stati sorpresi da questa
rinascita politica di un gauchisme che segnava il passo ormai da quattro anni?
FREDO KRUMNOW C’è sempre stata una forza contestatrice spontanea in
questo paese, e ne eravamo coscienti fino in fondo già prima del maggio ’68. Era
normale che l’assassinio di un operaio da parte di un poliziotto padronale
provocasse una simile mobilitazione.
Meno naturale è stata l’unità che i gruppi d’estrema sinistra sono riusciti a
trovare su questo fatto. Non bisogna neppure dimenticare l’indifferenza della
classe operaia della Renault, questa incomprensione dei lavoratori di
fronte all’azione politica dei gruppi. Le pressioni della CGT e del padronato non
sono le sole in causa: nella fabbrica, il maoismo è rimasto come un corpo
estraneo.
Le giovani generazioni, — soprattutto la parte di loro più impegnata —
capiscono male che la classe operaia ha le sue tradizioni di lotta, molto vecchie,
ma pur sempre presenti nella reazione collettiva. Così si spiega la reticenza dei
lavoratori di fronte ad un intervento esterno, qualunque sia — anche quello del
partito comunista là dove ha la maggioranza, al punto che il PC si trattiene,
sovente, dall’utilizzare i militanti della CGT all’interno di una fabbrica, anche
solo per distribuire un volantino. Questo riflesso dell’autonomia della classe
operaia si manifesta ovunque, ma in modo particolare alla Renault.
JEANNETTE LAOT La classe operaia accetta molto raramente le azioni
minoritarie. Più ancora: la coscienza di classe stessa non va sempre oltre la
cerchia dei militanti politici o sindacali. E se così non fosse, ci sarebbero le
condizioni per una rivoluzione. Noi sappiamo alla CFDT che i gruppi gauchistes
portano una ribellione e un’esigenza che sono anche nostre. Ma noi siamo
un’organizzazione di massa, non crediamo si possano cambiare i rapporti di
forza in questo paese, senza emancipare i lavoratori nel loro complesso: noi non
vogliamo fare la rivoluzione senza di loro; — e d’altronde, lo potremmo?
Capiamo molto bene l’impazienza dei giovani, che non sono forse ancora
alienati quanto noi nella condizione di operai, che sfuggono
contemporaneamente al peso del passato e alle responsabilità di una
organizzazione sindacale, ma non possiamo sempre seguirli fino in fondo. È un
problema di generazioni: i giovani lavoratori rifiutano con forza lo sfruttamento
le condizioni di lavoro e la vita che vien loro fatta subire, a differenza dei
lavoratori più anziani, più oppressi, più sottomessi, e in parte integrati nella
società dei consumi. La gioventù operaia ha manifestato in occasione dei
funerali di Overney, con la gioventù studentesca e liceale. Alla Renault, una
classe operaia più tradizionale non ha reagito.
ACTUEL In che modo avvertite le conseguenze, voi in quanto sindacato,
dell’intervento dei gruppi gauchistes sulle fabbriche?
FREDO KRUMNOW Ci vuole molto tempo per inserirsi in una collettività
operaia, anche se si appartiene all’ambiente operaio — e noi ne sappiamo
qualche cosa. Io capisco molto bene quei giovani che scalpitano e vogliono
precipitare le cose...
ACTUEL La rivoluzione è precipitare le cose.
FREDO KRUMNOW No, la rivoluzione non è precipitare le cose, ma
condurle fino in fondo; mettere il giogo abbastanza robusto ai cavalli, per
giungervi un giorno. Come integrarsi nella fabbrica prima di mesi e mesi di
lavoro e di amicizia? Bisogna prendervi piede, se no ogni intervento
può sembrare venga dall’esterno e sortisce l’effetto di un rigetto. Non c’è come
la Renault. Le donne dell’Ugeco hanno condotto uno sciopero di sei settimane,
molto organizzate, con un’assemblea dei lavoratori ogni giorno. Alla fine del
quindicesimo giorno, alcuni gruppi hanno cominciato a distribuire volantini
attorno alla fabbrica per presentare l’analisi della situazione. Le operaie li hanno
trovati molto simpatici, li hanno anche inviati al ballo con tutta la popolazione,
ma si sono chieste seriamente: « di che cosa si immischiano? »
Di contro, durante lo sciopero alla Pennaroya, i Cahjers de mai sono venuti a
girare un film. Si trattava qui di un apporto positivo, un modo di far conoscere lo
sciopero. Ma l’intervento diretto durante i momenti decisivi dell’azione della
classe e di massa è sovente molto mal sopportato.
JEANNETTE LAOT Certo, alcuni gauchistes che sono entrati in fabbrica per
lavorare sono stati accettati dai loro compagni di lavoro. Talvolta sono anche
riusciti a mobilitare la loro fabbrica che altrimenti non si sarebbe mossa. Il loro
atteggiamento non è allora molto diverso da quello dei militanti sindacali.
Devono essere i lavoratori a decidere il momento e la forma dell’azione: si può
credere che ci siano tutte le condizioni più favorevoli per uno sciopero —
la fabbrica è senza scorte o i registri delle commesse sono strapieni — e tuttavia
quel giorno gli operai rifiutano di battersi. In altre circostanze meno favorevoli,
decideranno invece di lottare perché la situazione appare loro intollerabile.
Nessuno ha diritto di ergersi a maestro.
FREDO KRUMNOW Io assisto a numerose assemblee di lavoratori, di
natura e di livelli molto diversi. Alla CFDT non abbiamo mai messo alla porta
un compagno che vuole esprimersi politicamente. Quando interviene un
trotskysta, più o meno fa un discorso di questo genere: « Bene compagni, la lotta
è cominciata, ecc. » E ne ha per un buon venti - quaranta minuti e, se non lo si
ferma, anche per un’ora. Il trotskysta spiega all’assemblea quel che bisogna fare,
come bisogna farlo, la realtà della lotta di classe e i metodi di una mobilitazione
rivoluzionaria. Il miglior modo di disorientarlo è ancora di aspettare il momento
in cui rivendica il diritto di parola per le masse, e di fargli notare che parla da
ventidue minuti, che nessun altro potrà dir più nulla e che farebbe bene a cedere
il posto. Cosa che in generale egli accetta, in attesa che qualche altro compagno
trotskysta si alzi e gli dia il cambio. Io metto la cosa in ridicolo, ma avviene
realmente così. Non c’è comunicazione e l’intervento rimane estraneo. Il
maoista, dal canto suo, non fa interventi fiume, ma il risultato è lo stesso. Dice: «
ascoltate, compagni, un lavoratore immigrato s’è rotto la testa la settimana
scorsa, nel cantiere x. Che cosa ha fatto la CFDT? » È molto più abile e molto
più incomodo. Ci si domanda: dov’è il cantiere x? Abbiamo una sezione
sindacale sul cantiere? C’è stata qualche carenza da parte nostra, o addirittura
assenza? « Allora, conclude il maoista, in ogni modo, ecco il volantino che
distribuiamo; siete d’accordo? » Quando si arriva alle proposte operative, se il
delegato sindacale suggerisce di fare un’ora di sciopero, il gauchista, trotskysta o
maoista che sia, si precipita a rincarare la dose: « Bisogna fare uno sciopero di
ventiquattro ore, e non di un’ora come ha detto il compagno ». Se la proposta era
di ventiquattro ore, egli chiede lo sciopero a oltranza. Se era lo sciopero a
oltranza, l’occupazione della fabbrica. E se anche questa era stata già proposta,
chiede il sequestro del padrone. Questo salire via via è facile, ma non sempre è
adatto all’atteggiamento collettivo dell’assemblea. Per praticare la lotta di classe
e di massa, bisognerebbe invece giungere a rompere lo schema tradizionale che
separa quelli “ che sanno ” da quelli che “ non sanno. ” Il militante politico ha
troppo spesso l’impressione di essere la coscienza della classe operaia, oltre la
classe operaia.
ACTUEL Uno schema opposto a quello leninista?
FREDO KRUMNOW Esatto. Noi riteniamo che ogni lavoratore abbia
qualche cosa da dire e che l’azione sindacale debba precisamente facilitare
questo esprimersi da parte di tutti. Nella loro stragrande maggioranza i lavoratori
subiscono la propria condizione, la loro ribellione è latente e individuale. Il ruolo
di un’organizzazione sindacale è contemporaneamente quello di far prendere
coscienza della realtà di fatto e di fornire l’informazione complementare che
permetterà loro di capire e di dominare la situazione, poi di entrare in lotta. Un
esempio molto semplice: nel maggio del 1968, in una città del nord, gli operai
hanno proseguito il loro sciopero, prolungandolo di otto giorni, soltanto perché
noi avevamo rilevato la crescita a dismisura dei salari dei direttori, che
guadagnavano settecento, ottocento o novecentomila franchi e pitoccavano su 10
centesimi. Ho sentito della rivolta dei lavoratori di un maglificio, quando hanno
saputo che la loro ditta sborsava ogni anno in media 300.000 vecchi franchi per
pagare una pubblicità di slip, mentre rifiutava un aumento orario di 20 centesimi.
C’è anche la storia di quella macchina, in una fabbrica di 15.000 operai, in cui
lavoravo: la macchina era costata qualche cosa come 18 milioni, non era mai
servita, marciva nel cortile. Un giorno un ragazzo ci scrive sopra: « avete pagato
diecimila franchi per uno per questo ferrovecchi ». Strappare questo tipo
di informazioni, diffonderle, è un tipo di contestazone diretta del potere
padronale sull’investimento.
ACTUEL Non credete che, da qualche anno, una parte della ribellione
operaia sfugga all’azione sindacale? Penso ai giovani operai o di origine operaia,
che si rifiutano di entrare in fabbrica, o vi passano solo qualche mese all’anno
per farsi un po’ di soldi e vagabondare.
FREDO KRUMNOW Solo fino al momento in cui molti di loro ritrovano i
canoni dominanti della società, quando si fanno una loro vita, si sposano dopo
una scappatella contestataria. Il fenomeno del rifiuto del lavoro è molto più
vasto, ed è sempre presente nella classe operaia. Il successo delle campagne
sull’abbassamento dell’età pensionabile ne è la prima manifestazione: lasciare
un lavoro che è un’imposizione, il più presto possibile e nelle migliori
condizioni possibili. La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro è della stessa
natura, e così l’opposizione al farsi inquadrare, alla gerarchia e alla repressione.
Questo rifiuto è direttamente legato allo sviluppo del processo industriale, che
esige il più gran numero di movimenti possibili in un minimo di tempo,
calpestando ogni possibilità di libertà intellettuale e di riflessione, in nome del
rendimento e della produttività. Parcellizzazione, disumanizzazione e si arriva ad
un limite. Il capitalismo lo avverte e cerca il recupero di questa contestazione del
lavoro, favorendo qua e là una ristrutturazione o accordando ad alcune ditte una
certa autonomia, che in pratica riporta l’autodisciplina.
ACTUEL La situazione del sindacalismo in fabbrica è migliorata dopo la
legge del dicembre 1968 sulla sezione sindacale aziendale?
FREDO KRUMNOW La legge ha riconosciuto come principio l’esistenza
della sezione sindacale aziendale, e i delegati sindacali possono ora disporre di
un numero d’ore più o meno uguale a quello del delegato operaio o del
comitato di fabbrica. Si accettano la raccolta delle quote e le riunioni sindacali a
condizione che abbiano luogo fuori della fabbrica e fuori dell’orario di lavoro.
Le concessioni legali si fermano qui. Vengono riconosciuti i sindacati
nell’interno delle fabbriche, ma si rifiuta di farli entrare come organizzazione. Di
recente, nei Vosgi, uno dei nostri funzionari ha saltato un muretto di cinquanta
centimetri, per andare a discutere con dei compagni in sciopero. È stato
condannato a 300 franchi di ammenda per violazione di domicilio, in virtù della
legge antiscasso. Ecco dov’è la libertà sindacale. Saltare un muretto senza
autorizzazione è altrettanto grave che netrare nella camera da letto della signora
padrona. Abbiamo vissuto nella clandestinità prima del 1968, e continuiamo
a vivere nella semiclandestinità.
ACTUEL Come si esercita la repressione?
FREDO KRUMNOW Salvo che in qualche grande industria, in cui la forza
del sindacato induce il padrone a venire a patti, l’insediamento o lo sviluppo di
una sezione sindacale non va ma da sé. Perché un’azione abbia uno
sbocco, bisogna preparatisi come ad una guerra segreta, sovente bisogna fingersi
morti per dei mesi per assicurarsi l’appoggio e la protezione a livello di massa. Il
numero delle sezioni sindacali distrutte prima ancora che si fossero
effettivamente costituite è immenso.
Nelle grandi fabbriche, — non parlo semplicemente della Simca, della
Citroen, della Renault - si esige un certificato di lavoro al momento
dell’assunzione. Il nuovo padrone può così telefonare a quello precedente, per
prendere informazioni e rifiutare così l’assunzione a tutti coloro che hanno
precedenti sindacali o politici. Oggi, la CNPF si sforza di istituire uno schedario
completo del sindacalismo. Ogni padrone potrà consultarlo e confrontare le
proprie informazioni con quelle dei Renseignements généraux,
collaboratori fraterni ed efficaci. Si ricordi la questione di Cambrai: un rapporto
delle RG diffuso pubblicamente all’interno della fabbrica, per screditare un
quadro sindacale, esibendo la sua vita privata.
E poi il continuo mettere i militanti con le spalle al muro, sotto i più diversi
pretesti, scarso rendimento, riduzione del personale o negligenza nel lavoro. Il
che sta diventando sempre più frequente dal maggio del ’68. Ogni volta che
possiamo, intraprendiamo un’azione legale, per ottenere una reintegrazione,
perché è teoricamente vietato licenziare una persona per ragioni politiche o
sindacali. Constatiamo anche in questa materia una piccola evoluzione: qualche
anno fa, un padrone che si rifiutava di reintegrare un operaio abusivamente
licenziato se la cavava con un’ammenda di 500 franchi; recentemente, abbiamo
invece ottenuto una condanna a 15 giorni di prigione - naturalmente con il
beneficio della condizionale — e questo potrebbe far riflettere.
JEANNETTE LAOT La scala di valori di alcuni magistrati comincia a
cambiare, non si confonde assolutamente più con quella dei padroni.
FREDO KRUMNOW Rimangono quei tipi di repressioni coperti dalle stesse
leggi. Tanto per cominciare, la serrata o il licenziamento collettivo per rifiuto del
lavoro: le 43 scioperanti della Zigazag hanno ricevuto tutte la lettera di
licenziamento. In effetti il diritto di sciopero non è un diritto positivo, ma una
concessione formale e di principio. Il diritto positivo è quello del padrone a
gestire la società come la intende lui, a rescindere il contratto di lavoro, secondo
il suo comodo: tutto il resto rappresenta soltanto alcune precauzioni teoriche e
limitate riguardo a questa affermazione fondamentale: i lavoratori che occupano
la propria fabbrica commettono un reato e la direzione può farli anche mandar
via dalla polizia, come accadde a Pennaroya. La proprietà privata è il domicilio
coniugale della fabbrica.
ACTUEL E i gruppi armati?
JEANNETTE LAOT La combattività operaia dal maggio in poi, comporta
un indurimento dell’atteggiamento padronale. Le direzioni aziendali hanno la
tendenza a reclutare vecchi militari e poliziotti: i criteri autoritari hanno il
sopravvento sulle competenze tecniche. Per ora, tolta qualche eccezione, si tratta
di poliziotti privati e di spie più che di veri e propri gruppi armati. Salvo in caso
di incidente o di delitto, rimane molto difficile ottenere informazioni precise su
un soggetto. Ben inteso i poliziotti privati non compaiono mai nell’organico di
una ditta. Arriviamo talvolta a saperne un po’ di più, grazie alle confidenze di un
quadro sindacale.
ACTUEL Quali sono le fabbriche in cui la repressione è più dura? Simca,
Peugeot, Michelin?
JEANNETTE LAOT L’industria dell’automobile, senz’altro. Alla Michelin è
diverso. L’attività sindacale è molto vivace. Si rende la vita dura ai militanti, ma
non si giunge al licenziamento. Come in molte altre fabbriche, anche
qui vengono dati agli attivisti i posti che li isolano dagli altri lavoratori; vengono
declassati; viene loro rifiutata ogni promozione.
FREDO KRUMNOW II presidente della Federazione dei lavoratori chimici
della CFDT lavora alla Michelin. È un operaio specializzato è d’altronde pagato
come tale — ma lavora come manovale da quindici anni. Io stesso, in tutta la
mia vita professionale, mi sono visto constantemente attribuire posti, in cui mi si
teneva in disparte dai miei compagni, mi si isolava o mi si potevano far
commettere errori.
JEANNETTE LAOT La repressione acquista il suo significato politico; vi
sono settori in cui la lotta si fa più dura, ma in cui non era mai stato fin qui
messo in discussione il diritto sindacale.
Si trattano ormai i militanti che lavorano alle PTT come quelli delle ditte
private. Un po’ dappertutto, compreso il ministero dell’Educazione nazionale,
l’amministrazione preferisce assumere lavoratori con contratto a termine, che
non beneficiano delle garanzie statutarie e della protezione cui hanno diritto i
titolari.
ACTUEL In Germania un lavoratore immigrato è preso in forza
dall’organizzazione sindacale. È protetto contro la polizia politica del proprio
paese e contro la pressione delle autorità tedesche.
I due milioni di lavoratori immigrati in Francia sono invece abbandonati
all’arbitrio padronale e amministrativo: supersfruttamento, insicurezza assoluta
del posto di lavoro, bidonvilles, razzismo, sorveglianza e manganellate da
parte della polizia. Non è questa la più grave carenza del sindacalismo nel nostro
paese?
JEANNETTE LAOT È effettivamente un problema. Il sindacalismo tedesco
è contemporaneamente più forte e più integrato nel sistema, con il quale scende a
compromessi continui, per ottenerne in cambio vantaggi reali. La legislazione
del lavoro nella Repubblica Federale è nettamente più avanzata che in Francia, i
licenziamenti sono resi più difficili, il potere poliziesco molto meno sviluppato.
Come potremmo noi garantire ai lavoratori immigrati una protezione di cui non
beneficiano neanche i lavoratori francesi? Se giungessimo ad ottenere la parità
fra immigrati e francesi, sarebbe già un bel successo e noi ci stiamo lavorando.
Quanto poi a far paura alla polizia portoghese (o a qualunque altra), come
facciamo a ottenere un simile risultato, quando non riusciamo a intimidire
neanche la nostra?
ACTUEL Parallelamente alla lotta nelle fabbriche, potrebbe esserci una
generalizzazione dell’azione sindacale anche fuori delle fabbriche?
JEANNETTE LAOT Certo: lo sfruttamento dei lavoratori si estende anche al
complesso della vita urbana. Il frutto delle lotte nella fabbrica, viene recuperato
nella città moderna. La diminuzione dell’orario di lavoro è annullata dai tempi
dei trasporti, l’aumento del potere d’acquisto, dall’aumento delle necessità della
vita, gli acquisti di acqua minerale, gli svaghi artificiali, l’automobile troppo
sovente indispensabile, gli affitti esorbitanti. Produttore, consumatore, utente dei
trasporti pubblici, abitante in città o villeggiante, il lavoratore è atomizzato
dall’organizzazione della società contemporanea.
FREDO KRUMNOW II capitalismo respinge fuori della fabbrica le
conseguenze delle condizioni di lavoro. Se la vede la società se le operaie
dell’elettronica o delle confezioni sono logorate a 40 anni, e se soffrono di
depressione nervosa. Un manovale o un os possono sperare di vivere dai 59 ai 61
anni, mentre un professionista può arrivare a 74. Ciò significa, in media, 12 anni
rubati ad un lavoratore manuale. Le statistiche sulla mortalità, sulle malattie
professionali e sugli incidenti sul lavoro — 3800 in un anno — non tengono
conto dell’invecchiamento precoce dei lavoratori, di una fatica fisica e nervosa
difficilmente calcolabile. Come fare per avere un’esatta visione del problema:
anche alle SNCF, i medici specializzati hanno dovuto rientrare clandestinamente
nell’azienda per condurre a fondo un’inchiesta sulle condizioni dei conducenti di
locomotive.
ACTUEL L’evidente discriminazione di cui sono oggetto le donne nella
società e nelle fabbriche ha provocato un’azione sindacale specifica?
JEANNETTE LAOT Condannate per la maggior parte del tempo a lavori
esecutivi, retribuiti meno bene degli uomini, costrette ad una doppia giornata
lavorativa — sul posto di lavoro e in casa — le operaie si esprimono poco
nell’organizzazione sindacale. Alienate nel loro ruolo di donne, non sognano
affatto di mobilitare sui propri problemi un’organizzazione che rimane
essenzialmente maschile e ignorante su questi problemi. Siamo rimaste in poche
militanti a lottare da una decina d’anni a questa parte. Per molto tempo non
abbiamo posto la questione pubblicamente, per paura di suscitare un fenomeno
di rigetto da parte del sindacato e di essere allontanate dai posti di responsabilità,
per il gioco inconscio e naturale della democrazia maschile.
ACTUEL Quante eravate?
JEANNETTE LAOT Tre o quattro nelle istanze dirigenti, appena il 10% nei
posti di responsabilità, esposte alla critica degli uomini e della maggioranza delle
altre donne. Verso gli anni 1964-65, le donne rappresentavano il 40%
degli aderenti della centrale, una percentuale più alta di quella della mano
d’opera femminile nel paese — per ché il vecchio CFTC era un’organizzazione
cattolica, più rassicurante in caso di necessità. Oggi, con la crescita degli iscritti,
la proporzione si è avvicinata alla media nazionale del lavoro, circa, cioè, il
33%.
Dagli anni sessanta, ci siamo servite di una commissione femminile
interfederale, che già esisteva. Era un residuo dei sindacati femminili
d’anteguerra, assorbiti dal sindacato misto — e, nei fatti, maschile — che si era
riorganizzato dopo la Liberazione.
Allora alcune donne avevano profetizzato che alla scomparsa di
un’organizzazione femminile autonoma sarebbe seguito il completo disinteresse
per i problemi femminili. Non avevano affatto torto. La commissione femminile,
messa in piedi allora, rappresentava una piccola concessione; in pratica un
gruppo di lavoro più sensibile ai problemi della famiglia operaia che a quelli
delle operaie. La CFTC prendeva come ideale femminile la donna davanti al
focolare; la donna lavoratrice era considerata un caso sociale, una
sventurata obbligata a guadagnarsi la vita, nella migliore delle ipotesi se non
addirittura come una cattiva madre, una cattiva moglie, o una scapolona. Dalla
Liberazione fino agli anni sessanta, la commissione ha lavorato senza porre
problemi, senza mai far sentire la sua voce, limitandosi a fornire un paragrafo
nel rapporto d’attività di ogni congresso.
Io non avevo allora assolutamente coscienza della situazione delle donne.
Ero giunta a compiti di responsabilità, difficili e mal remunerati, che nessun
uomo voleva. Non rendendomi conto della realtà dei fatti, attribuivo la mia
elezione al senso di democrazia e l’assenza di altre donne ad una loro colpevole
negligenza.
La minoranza di sinistra, cui appartenevo, mi spingeva ad entrare in quella
commissione per mettere in crisi una maggioranza conservatrice. Ho allora preso
coscienza delle condizioni specifiche del lavoro femminile, della sua
dequalificazione e dell’esclusione delle donne dal dibattito sindacale. Negli anni
1962-63 siamo intervenute su due temi: contro la generalizzazione del lavoro a
metà tempo per le donne e contro la concessione di un salario unico, tutte
proposte che tendevano a legare la donna al focolare domestico. Siamo riuscite a
vincere soltanto al congresso del 1970: il testo votato è probabilmente uno dei
più avanzati della sinistra francese, benché non si sia ancora affatto trasformato
in un profondo cambiamento dell’atteggiamento pratico.
Da due anni l’organizzazione ristagna sul problema e la commissione
femminile è stata sostituita da una commissione « mista ». Noi avevamo detto
che la liberazione della donna condiziona quella dell’uomo, che quest’ultimo si
chiudeva nel suo ruolo di dominatore, che l’autogestione non aveva alcun senso,
tanto che la discriminazione dei sessi rischiava di esistere anche in una società
senza classi. Era stato parlare troppo in fretta: gli uomini si sono rassicurati
approvando il principio di un’emancipazione comune, le donne hanno preso la
cosa sul serio, e gli uni aspettano le altre per incominciare una lotta concreta,
sempre rimandata a più tardi. Ma, a mio avviso, le lotte che si sviluppano nelle
fabbriche a mano d’opera femminile rilanceranno fra poco il movimento su
questo aspetto.
ACTUEL Quel è lo scarto fra il salario di una donna e quello di un uomo?
JEANNETTE LAOT La differenza è meno forte per le OS, pagate al minimo
contrattuale, del 7-8% a parità di lavoro. Ma lo scarto reale si approfondisce già
a questo livello. Le donne sono sovente meno qualificate, rifiutano di solito gli
straordinari, perché già hanno un doppio lavoro. La differenza aumenta via via
che si sale la scala gerarchica, fino ad essere di circa il 30% per i quadri
intermedi e superiori. E si tratta ancor sempre del salario minimo controllato
dal sindacato e non del salario reale che varia in funzione di aumenti e di premi
lasciati alla bontà del padrone.
ACTUEL Da prima del 1968, e soprattutto dopo, la CFDT ha reso più dure
le proprie posizioni, ponendosi all’avanguardia delle lotte sociali. Al di là delle
lotte rivendicative, avete approfondito il vostro rifiuto della società capitalista e
avete avanzato con forza l’idea dell’autogestione delle fabbriche: era già
assumere responsabilità politiche. Ma se si tratta di rovesciare il potere dello
Stato, come protrarre l’azione dei lavoratori che organizzate? Negoziando con un
cartello delle sinistre — comunisti e socialisti — di cui si conosce in anticipo
l’elettoralismo, la moderazione e la fragilità, per non dire il vecchiume? O
alleandosi con gruppi gauchistes, instabili e divisi, che rimangono in gran parte
estranei alla classe operaia? Ho l’impressione che né l’una né l’altra delle due
vie d’uscita possa soddisfarvi. Nella ricerca di una società nuova, vi viene a
mancare all’improvviso un ripetitore che riprenda ed esprima le vostre
aspirazioni attraverso una lotta politica e rivoluzionaria. All’infuori della
difesa dei lavoratori nelle fabbriche in cui siete forti, non credete di mobilitarvi
troppo poco? A meno che non intendiate tenervi fino alla fine un ruolo più
propriamente politico?
FREDO KRUMNOW Prima di tutto una certezza: il giorno in cui
un’organizzazione sindacale si allontana dai problemi concreti, perde la sua
stessa ragione d’essere e diventa una specie di scuola politica. Sono d’accordo
che un piccolo gruppo politicizzato progetti la società di domani e respinga il
compromesso. È un modo di affrontare i problemi che non è assolutamente
inutile. Un’organizzazione sindacale di massa non può prescindere così dai
problemi immediati. Ma la realizzazione completa dei nostri obbiettivi di fondo
— piena occupazione, libertà in fabbrica, disalienazione degli operai — esige il
rovesciamento di questa società, quindi, in fin dei conti, una coscienza politica e
una scelta strategica. Tutti i lavoratori dovrebbero quindi trovare un posto nella
lotta politica. E ci si trova di fronte qui al dilemma della sinistra francese: via
elettorale e maggioritaria o processo rivoluzionario — e né gli uni né gli altri
hanno fin qui dato una definizione rigorosa.
ACTUEL C’è un secondo divario, sull’essenza stessa del potere dopo
un’eventuale vittoria; dittatura del proletariato o distruzione immediata dei
rapporti gerarchici?
FREDO KRUMNOW Si potrebbe discutere a lungo sulla natura del processo
rivoluzionario. In un paese industrializzato non credo all’efficacia dei cliché
della rivoluzione russa o della rivoluzione cinese. La classe operaia possiede
le proprie armi, prima di tutto la capacità di produrre, condizione necessaria, ma
insufficiente se, come nel maggio ’68, i collegamenti politici non funzionano.
Non possiamo nemmeno rimanere indifferenti di fronte ad una possibile strategia
elettorale: dobbiamo definire le nostre esigenze verso i partiti che aspirano al
potere per evitare che se ne approprino a detrimento della maggioranza dei
lavoratori. Ciò presuppone già fin da ora la costituzione di una forte coscienza di
classe.
ACTUEL Capisco bene che vogliate mantenere una vostra autonomia
sindacale di fronte ad un eventuale governo di sinistra, sia come tutela che come
stimolo. Ma teoricamente, le vostre ambizioni non si fermano qui: tendere
al l’autogestione significa tentare di riorganizzare i rapporti sociali
complessivamente, una società diversa che dovrebbe abolire perfino la
distinzione tra il pubblico e il privato, tra il lavoratore e il cittadino, che
dovrebbe sconvolgere perfino il concetto stesso di Stato. Su questo piano siete
più avanzati, ma non avete interlocutori.
JEANNETTE LAOT Effettivamente questo è il nostro problema da diversi
anni. Non è affatto facile prefigurare le strutture di un’autogestione
generalizzata, né i mezzi per realizzarla. Se i rapporti di forza si evolveranno a
nostro favore, occorrerà fare affidamento sulla creatività di ogni lavoratore.
I piani dell’autogestione non vengono decisi al vertice, a meno che non ci sia
una contraddizione nel principio stesso. È su questo problema che bisogna
stimolare il dibattito in tutta la sinistra, facendo appello ad una immaginazione
fin qui bloccata. La partita si gioca già fin da adesso nelle lotte concrete. Noi non
abbiamo l’atteggiamento della CGT di credere di essere i depositari della verità e
di avere quindi a portata di mano soluzioni adatte in ogni circostanza. Da ciò
deriva l’importanza dell’informazione: il sindacato non deve assumersi i
problemi dei lavoratori, ma deve dare loro i mezzi per risolverli da soli.
L’evoluzione degli scioperi dal ’67 a oggi è su questo punto molto positiva.
Piuttosto di starsene a casa in modo passivo, gli scioperanti decidono molto più
di frequentare lo sciopero come momento attivo con occupazione della fabbrica
e discussione collettiva.
FREDO KRUMNOW In questo modo si prepara il controllo del potere.
Questa democrazia operaia messa in pratica già fin da ora, rappresenta la sola
molla e una garanzia definitiva ed essenziale. Ci sembra intollerabile che uno o
più partiti si accaparrino il potere, sia pur in nome della classe operaia e sia pure
provvisoriamente. Ripensiamo alla storia delle rivoluzioni: a partire dal
momento in cui è stato posto un coperchio sulla pentola che bolliva, s’è poi
dovuto mantenerlo con le pietre. Dopo le pietre, le auto blindate, e reticolati
tutt’attorno. Il coperchio non è mai più stato tolto, né a Praga, né a Varsavia, né
in altro posto. Non ci piacciono molto i coperchi: la pentola deve poter bollire;
una tensione continua come riscatto e motore del progresso.
ACTUEL Come collocate la lotta della classe operaia nel contesto dei
conflitti sociali? Ci si può fermare ad una concezione marxista del proletariato?
JEANNETTE LAOT Per noi la classe operaia comprende tutti coloro che
subiscono lo sfruttamento e l’oppressione nel lavoro industriale. Ma noi non
pensiamo che soltanto la classe operaia sia rivoluzionaria, che soltanto la
condizione proletaria conduca alla ribellione e, al di là della ribellione, ad una
coscienza ed a un’organizzazione capace di rovesciare le strutture sociali. Gli
altri ceti sociali emarginati dal potere non sono semplicemente degli alleati della
classe operaia, come si dice di solito. Giovani, emarginati, immigrati,
donne, tecnici, studenti, sono altrettante categorie sociali che possono
ugualmente nutrire proposito rivoluzionari perché subiscono, in altre condizioni,
lo sfruttamento, l’alienazione, l’oppressione di una società che essi rimettono in
discussione fino in fondo. La gerarchia dell’ordine costituito, l’intolleranza e
l’ordine morale si impongono ben oltre la classe operaia: lo si vede in generale
nei paesi sviluppati.
FREDO KRUMNOW I dirigenti della CGT rimangono ad una concezione
restrittiva della classe operaia, il lavoratore manuale sfruttato, affiancato dai suoi
alleati potenziali, tecnici, impiegati e quadri. La nostra analisi è diversa: noi
non viviamo soltanto un processo di sfruttamento, ma più in generale un
processo di oppressione che va oltre il campo del lavoro fino a raggiungere ogni
aspetto della vita collettiva e individuale: la famiglia, la scuola, la vita pubblica, i
fenomeni culturali. Sviluppando le proprie contraddizioni, la borghesia ha
provocato l’allargamento del fronte della ribellione e dei motivi per fare la
rivoluzione.
ACTUEL Apparentemente, e ascoltandovi, si ha perfino l’impressione che la
direzione della CFDT si colleghi alla sinistra della massa dei suoi iscritti...
JEANNETTE LAOT Non è esattamente vero. La base, sovente molto
giovane, si riconosce in genere nelle posizioni della direzione confederale. Altri
militanti manifestano talvolta meno entusiasmo. Fra loro, quelli che hanno
costruito questa organizzazione. A diverse riprese, hanno avuto la prova di
potersi mettere in mezzo: si deve ancora prendere tempo e trovare i mezzi, Come
è naturale, i diversi atteggiamenti dipendono nella stessa misura da differenze
regionali, industriali e culturali. Per poter essere accettabili per tutti, le scelte di
fondo della Confederazione sovente si trovano ad essere arretrate rispetto alle
ispirazioni di alcuni e avanzate per altri.
ACTUEL Si può ritenere che la cfdt sia ancora un’organizzazione gerarchica
e burocratica?
JEANNETTE LAOT Gerarchica, è probabile: nonostante un desiderio di
uguaglianza, alcuni dibattiti, per esempio quello sulla condizione della donna
circolano a fatica fra la base e il vertice. Burocratica, molto poco:
l’organizzazione è molto viva, molto mobile, ha così cambiato nel corso degli
ultimi dieci anni, che i dirigenti non hanno avuto affatto il tempo di spartirsi un
feudo. Attraverso una tensione e una democrazia permanenti, l’informazione e le
responsabilità circolano con molta larghezza nell’organizzazione.
ACTUEL La CFDT praticherà l’autogestione?
JEANNETTE LAOT Non ancora: si tenta. Non è sufficiente volere una cosa,
bisogna prima prepararne le condizioni.
Gilles Deleuze, Félix Guattari






Si può ridurre il nazismo, la guerra del Vietnam, il capitalismo, lo
sfruttamento, l’alienazione, la rivoluzione alla spartizione di interessi e allo
scontro delle ideologie? E se la rivoluzione apparisse come la liberazione di un
impulso potente, senza un metro comune alle semplici rivendicazioni della
classe oppressa, come spiegare che gli uomini abbiano potuto combattere per il
proprio asservimento, con lo stesso accanimento che per la propria felicità? In
fondo ai meccanismi sociali e ai rapporti logici, Gilles Deleuze e Félix Guattari
individuano un enorme flusso inconscio e irrazionale, la spartizione e la
repressione del desiderio come uno straordinario delirio individuale e collettivo.
Singolare incontro, siglato dal movimento del Maggio, fra Gilles Deleuze —
filosofo che, fino ad allora, aveva dedicato la sua opera a Hume, Nietzsche,
Proust, Sacher-Masoch, Kant o Spinoza — e Félix Guattari — fondatore di una
clinica psichiatrica innovatrice e militante fin dagli anni cinquanta, presto giunto
alle prime manifestazioni del gauchisme, dove ha incontrato il trotskysmo per
poi avvicinarsi all’opposizione di sinistra al PCF, e, infine, al movimento 22
Marzo. Dalla loro collaborazione nasce un libro, l’Anti-œdipe, capitalisme et
schizophrénie (ed. de Minuit) cui si deve il primo grande dibattito teorico del
dopo-maggio in Francia.
Nella tradizione di Reich, l ’Anti-œdipe precipita la psicanalisi al fondo della
realtà politica e sociale. Attacca la psichiatria ufficiale nei suoi luoghi comuni
reazionari — padre, madre, Edipo, castrazione - come nella sua funzione più
o meno confessata di riadattare l’individuo al sistema repressivo. La pazzia è
legata alla storia, alla società e alle sue costrizioni: come si può dissertare sul
padre se si ignora il concetto di Stato e di potere, nella loro genealogia e il
loro peso sull’ individuo ? Alla maniera dell’ antipsichiatria inglese — Laing e
Cooper — Deleuze e Guattari ritornano sull’analisi della schizofrenia, che per
loro è la malattia peculiare del capitalismo, definito esso stesso come una
prima fuga. Ma più ancora di Laing e Cooper, essi collocano l’origine del delirio
nel campo sociale, più ancora che nella famiglia: il métro, l’urbanistica, il
lavoro, l’oppressione, l’imperialismo alimentano la schizofrenia, in ciò
rivelatrice del sistema; il suo caso limite è pertanto inassimilabile.
L’ Anti - OEdipe propone una reinterpretazione radicale dell’insieme dei
fenomeni sociali: compito « violento e brutale » che, parallelamente a quello di
Michel Foucault, deve scoprire e inaridire le fonti del sistema e degli uomini
che questo produce, ma anche quelle dei gruppi istituzionali politici e
rivoluzionari resi nei loro stereotipi, nelle loro immagini e nelle loro embrionali
strutture costrittive. Liberazione dal desiderio e desiderio di rivoluzione, il libro
raggiunge il tono più empirico d’un nuovo gauchisme che si avventura ormai
fuori dalla strada tracciata dal marxismo-leninismo. Non si tratta qui di
organizzare né di prevedere, ma di togliere dai luoghi dell’esplosione tutto il
materiale sociale che potrebbe, in un secondo tempo ricoprirli. « Il movimento
22 Marzo rimane esemplare a questo proposito, scrive Gilles Deleuze nella
prefazione di un libro di Guattari 1, perché se fu una macchina da guerra del tutto
insufficiente, quanto meno funzionò in modo mirabile come gruppo analitico e
di desiderio, che non solo discuteva in modo veramente libero, ma si è potuto
costituire analizzatore di una massa considerevole di studenti e di giovani
lavoratori, senza alcuna pretesa d’avanguardia o di egemonia, ma
semplice supporto che permette il transfert e la perdita delle inibizioni ». Ma e in
caso di rivoluzione, di durata nel tempo, o in caso di presa del potere?

ACTUEL Quando descrivete il capitalismo, voi dite: « Qualunque
operazione, anche la più piccola, qualunque meccanismo industriale o
finanziario, anche minimo, manifestano la pazzia della macchina capitalista e il
carattere patologico della sua razionalità (razionalità assolutamente non illusoria,
ma vera razionalità di questo patologico, di questa follia, perché la macchina
funziona, siatene pur certi). Non c’è il rischio che divenga folle da un momento
all’altro, perché lo è già fin dall’inizio, ed è proprio qui che nasce la
sua razionalità ».
Ciò significa che dopo questa società « anormale», o al di fuori di essa, possa
esservi una società « normale »?
GILLES DELEUZE Noi non usiamo i termini « normale » e « anormale ».
Ogni società è contemporaneamente razionale e irrazionale. Ogni società è
forzosamente razionale per i suoi meccanismi, i suoi ingranaggi, i suoi sistemi di
collegamento e anche per il posto che attribuisce all’irrazionale. Pertanto tutto
ciò presuppone delle codificazioni o degli assiomi che non sono frutto del caso,
ma che non hanno una razionalità intrinseca. È come in teologia: tutto è
assolutamente razionale se si danno il peccato, l’immacolata concezione,
l’incarnazione. La ragione, è sempre una zona ricavata dall’irrazionale. Per
niente al riparo dell’irrazionale, ma una zona attraversata dall’irrazionale, e
definita soltanto da un certo tipo di rapporti fra fattori irrazionali. In fondo
ad ogni ragione, il delirio, la rovina. Tutto è razionale nel capitalismo, salvo il
capitale o il capitalismo. Un meccanismo di borsa è veramente razionale, si può
capirlo, impararlo, i capitalisti se ne sanno servire, e nondimeno è
completamente delirante, è demente. È in questo senso che noi diciamo: il
razionale è sempre la razionalità di un irrazionale. C'è qualche cosa che non è
stata sufficientemente sottolineata nel Capi tale di Marx: fino a qual punto egli
sia affascinato dai meccanismi capitalistici, precisamente perché,
contemporaneamente, essi sono assurdi e pure funzionano molto bene. Allora,
qual è il razionale nella società? Dato che gli interessi sono definiti nel quadro di
questa società, il razionale è la maniera in cui le persone li perseguono, per
realizzarli. Ma al riguardo, ci sono desideri, investimenti dei desideri da
non confondersi con gli investimenti d’interesse, e da cui gli interessi dipendono
nella loro determinazione e nella loro distribuzione stessa: un enorme flusso,
ogni sorta di libidine-inconscia che costituisce il delirio di questa società. La
vera storia è la storia del desiderio. Un capitalista, un tecnocrate di oggi non
hanno gli stessi desideri di un mercante di schiavi, o di un funzionario
dell’antico impero cinese. Che le persone in una società desiderino la
repressione, per gli altri e per sé; che ci siano sempre persone che vogliono
smerdare gli altri, e che abbiano la possibilità di farlo, il « diritto » di farlo, è
questo che rende manifesto il problema di un legame profondo tra la libidine e il
campo sociale. Un amore « disinteressato » per la macchina oppressiva:
Nietzsche ha detto delle cose interessanti su questo trionfo continuo degli
schiavi, sul modo con cui gli inaspriti, i depressi, i deboli, ci impongono il loro
modo di vita.
ACTUEL Giusto, in tutto ciò che cosa è veramente proprio del capitalismo?
GILLES DELEUZE Forse che nel capitalismo il delirio e l’interesse, o il
desiderio e la ragione, si distribuiscono in modo del tutto nuovo, particolarmente
« anomalo »? Io credo di sì. Il denaro, il capitale-denaro, è un punto di follia
tale che ce n’è in psichiatria solo uno uguale: quello che viene definito lo stato
finale. È troppo complicato, ma è giusto una nota di dettaglio. Nelle altre società,
c’è sfruttamento, ci sono anche scandali e segreti, ma ciò fà parte di un « codice
», ci sono anche codici esplicitamente segreti. Nel capitalismo è molto diverso:
niente è segreto, almeno all’inizio e alla fine del codice (perché il capitalismo è «
democratico » e invoca « pubblicità » anche in senso giuridico). E pertanto
niente è confessabile. È la legalità stessa che non è confessarle. In opposizione
agli altri tipi di società, è il regime contemporaneamente del pubblico e
dell’incoffessabile. E questo è proprio del regime del denaro, un delirio del
tutto particolare. Vedete quelli che attualmente si chiamano scandali: i giornali
ne parlano molto, tutti fanno finta di difendersi o di attaccare, ma si cerca invano
ciò che è illegale là dentro, tenuto conto che siamo in regime capitalista. La
bolletta delle tasse di Chaban, le operazioni immobiliari, i gruppi di pressione, e
più in generale i meccanismi economici e finanziari del capitale, tutto è legale, a
grandi linee, salvo piccole sbavature; ancor meglio, tutto è pubblico, soltanto che
niente è confessabile. Se la sinistra fosse stata « ragionevole », non si sarebbe
contentata di fare una banale volgarizzazione dei meccanismi economici e
finanziari. Per necessità di rendere pubblico il privato, ci si accontenterebbe di
far confessare ciò che è già pubblico. Ci si troverebbe in una forma di pazzia che
non ha l’equivalente negli ospedali. Al posto, ci parlano di « ideologia ». Ma
l’ideologia non ha alcuna importanza: ciò che conta, non è l’ideologia, non è
neanche la distinzione o l’opposizione « economia-ideologia », è l'
organizzazione del potere. Perché Y organizzazione del potere è il modo in cui il
desiderio è già nell’economia, la cui libido investe l’economia, ossessiona
l’economia e alimenta le forme politiche della repressione.
ACTUEL L’ideologia è una falsa prospettiva?
GILLES DELEUZE Non del tutto. Dire « l’ideologia è una falsa prospettiva
», è ancora sostenere una tesi tradizionale. Si mette da una parte l’infrastruttura,
l’economico, il serio, e poi dall’altra parte si mette la sovrastruttura, di cui
fa parte l’ideologia, e si rifiutano i fenomeni di desiderio nell’ideologia. È un
buon sistema per non vedere come il desiderio travagli l’infrastruttura, come la
investa, come ne faccia parte, come a questo titolo organizzi il potere, come il
sistema repressivo si organizzi. Noi non diciamo: l’ideologia è una falsa
prospettiva (o un concetto che indica determinate illusioni). Noi diciamo: non
c’è ideologia, c’è un concetto illusorio. È perché fa così comodo al PC, al
marxismo ortodosso. Il marxismo ha dato tanta importanza al tema
dell’ideologia per meglio nascondere ciò che si verifica in URSS la nuova
organizzazione di potere repressivo.
Non c’è ideologia, ci sono soltanto organizzazioni di potere, una volta detto
che l’organizzazione di potere è l’unità del desiderio e dell’infrastruttura
economica. Prenda due esempi. L’insegnamento: i gauchistes nel maggio ’68
hanno perduto parecchio tempo a pretendere che i professori si facessero
l’autocritica come agenti dell’ideologia borghese. È stupido e lusinga gli impulsi
masochisti dei professori. La lotta contro i concorsi è stata abbandonata a
vantaggio delle dispute o della grande confessione pubblica anti-ideologica.
Allora, i professori più duri hanno riorganizzato il loro potere senza difficoltà. Il
problema dell’insegnamento non è un problema ideologico, ma un problema di
organizzazione di potere: è la specificità del potere insegnante che appare come
un’ideologia, ma è una pura illusione. Il potere nella scuola primaria ha un suo
significato, si esercita su tutti i bambini. Secondo esempio: il cristianesimo. La
Chiesa è assolutamente felice quando la si tratta come un’ideologia.
Può discutere e ciò alimenta l’ecumenismo. Ma il cristianesimo non è mai stato
un’ideologia, è un’organizzazione di potere molto originale, molto specifica, che
ha prodotto forme diversissime, dall’impero romano e dal Medio Evo, e che
ha saputo inventare l’idea di un potere internazionale. È ben altrimenti
importante dell’ideologia.
FÉLIX GUATTARI Accade la stessa cosa nelle strutture politiche
tradizionali. Ovunque si ritrova la stessa astuzia: grande dibattito ideologico in
assemblea generale, e i problemi organizzativi riservati a commissioni
particolari. Queste appaiono come dipendenti dalle scelte politiche e da esse
determinate. Mentre invece, i problemi principali sono quelli organizzativi, mai
resi espliciti né razionalizzati, ma poi proiettati in termini ideologici. Qui
sorgono le vere sfaldature: un trattamento del desiderio e del potere, degli
investimenti, degli Edipo di gruppo, dei « super-io » di gruppo, dei fenomeni di
perversione... ecc. Poi le opposizioni politiche si costruiscono; l’individuo
prende la tale opinione contro la tal altra, perché sul piano dell’organizzazione e
del potere, ha già scelto e odiato il suo avversario.
ACTUEL La vostra analisi è convincente nel caso dell’Unione sovietica o
del capitalismo. Ma nel particolare? Se tutte le opposizioni ideologiche
nascondono per definizione conflitti di desiderio, come analizzereste, per
esempio, le divergenze di tre gruppuscoli trotskysti? Di quale conflitto
di desiderio può trattarsi in questo caso? Malgrado le dispute politiche, ogni
gruppo sembra ricoprire la stessa funzione di fronte ai suoi militanti: una
gerarchia rassicurante, la ricostruzione di un piccolo ambito sociale, una
spiegazione definitiva dei problemi del mondo... Non vedo la differenza.
FÉLIX GUATTARI Dal momento che ogni somiglianza a gruppi esistenti è
fortuita, si può immaginare che uno dei gruppi si definisca per la sua fedeltà alle
posizioni della sinistra comunista nella terza Internazionale. È tutta
un’assiomatica, ivi compreso, su un piano puramente fonetico — il modo di
articolare certe parole, il gesto che le accompagna - e poi le strutture
organizzative, la concezione dei rapporti da tenere con i propri alleati, il centro, i
nemici...
Ciò può corrispondere ad una certa immagine di edipizzazione, un universo
intangibile e rassicurante, come quello del maniaco che perde ogni sua
possibilità se si cambia di posto anche uno solo degli oggetti a lui familiari.
Attraverso questa identificazione a delle figure e a delle immagini ricorrenti, si
tratta di giungere ad un tipo di efficacia che fu quella dello stalinismo — vicino
all’ideologia, giustamente. Altre volte, si guarda il quadro generale del metodo
ma si cerca di adattarlo: « Bisogna pur vedere, compagni, che se il nemico
rimane lo stesso, le condizioni sono cambiate ». Si ha in quel caso un
gruppuscolo più aperto. È un compromesso: s’è depennata la prima immagine,
pur mantenendola e si sono introdotte altre nozioni. Si moltiplicano le riunioni
e le scuole quadri, ma anche le invenzioni esteriori. C’è in questa volontà di
desiderio, come dice Zazie, un certo modo di far cacare gli allievi, o come
dicono altri, un certo modo di far cacare i militanti.
Quanto alla sostanza dei problemi, tutti questi gruppi dicono più o meno la
stessa cosa. Ma hanno posizioni radicalmente opposte su un loro stile: la
definizione del leader, della propaganda, una concezione della disciplina, della
fedeltà, della modestia, dell’ascetismo del militante. Come render conto di questi
aspetti, senza frugare nell’economia di desiderio della macchina sociale? Dagli
anarchici ai maoisti l’arco è molto ampio, sia politico che analitico. Senza
contare, oltre la frangia limitata dei gruppuscoli, la massa di gente che non sa
molto bene come comportarsi fra lo slancio gauchista, l’attrattiva dell’azione
sindacale, la ribellione, l’aspettativa, il disinteresse... Bisognerebbe descrivere il
ruolo di queste macchine scacci adesideri che sono i gruppuscoli, questo lavoro
di mola e di setaccio. È un dilemma: essere spezzato dal sistema sociale o
integrarsi nel quadro prestabilito di queste piccole chiese. In questo senso il
maggio ’68 fu una sorprendente rivelazione. La potenza del desiderio giunse ad
una tale accellerazione che fece esplodere i gruppuscoli. In seguito si sono
ripresi, hanno partecipato alla riorganizzazione insieme alle altre forze
repressive, CGT, PC, CRS o Edgar Faure. Non lo dico per fare il provocatore.
Naturalmente i militanti si sono battuti coraggiosamente contro la polizia. Ma se
si lascia il campo della lotta d’interesse, per considerare la funzione del
desiderio, bisogna riconoscere che l’impostazione di certi gruppi affrontava i
giovani in uno spirito repressivo: contenere il desiderio liberato, per indirizzarlo.
ACTUEL Che cos’è un desiderio liberato? Vedo chiaramente come questo
possa esprimersi a livello di un individuo o di un gruppetto: una creazione
artistica, o rompere le vetrine, bruciare tutto, o, più semplicemente, il
rilassamento in una pigrizia vegetale. Ma poi? Che cosa potrebbe essere un
desiderio liberato collettivamente a livello di gruppo sociale? Ci sono esempi
precisi? E che cosa significa in rapporto alla « società nel suo complesso », se
voi non rifiutate, come Michel Foucault, questo termine?
FÉLIX GUATTARI Abbiamo preso come punto di riferimento il desiderio in
una delle condizioni più critiche, più acute, quella della schizofrenia. E lo
schizofrenico che può produrre qualcosa, oltre lo schizofrenico ricoverato,
aggredito dalla chimica e dalla repressione sociale. Ci sembra che certi
schizofrenici esprimano direttamente un tipo di decifrazione libera dal desiderio.
Ma come concepire una forma collettiva di economia del desiderio? Certo non
limitatamente a singole situazioni locali. Ho molta difficoltà a immaginare una
piccola comunità che si mantenga sulle energie della società repressiva, come
somma di individui di volta in volta liberati. Se il desiderio costituisce in
compenso la struttura stessa della società nel suo insieme, anche nei meccanismi
di riproduzione, un movimento di liberazione può « cristallizzarsi » nel
complesso della società. Nel maggio ’68, da scintille in scontri locali, la scossa
s’è trasmessa in modo brutale a tutta la società. Compresi dei gruppi che non
avevano niente a che vedere né da vicino né da lontano con il movimento
rivoluzionario, medici, avvocati o bottegai. È stato tuttavia l’interesse ad avere il
sopravvento, ma dopo un mese di fuoco. Andiamo verso posizioni di questo tipo,
ma ancora più profonde.
ACTUEL Ci sarebbe già stata nella storia una liberazione potente e duratura
del desiderio, all’infuori di brevi periodi di feste, di carneficina, di guerre, o di
giornate rivoluzionarie? Oppure credete ad una fine della Storia: dopo millenni
di alienazione, l’evoluzione sociale s’invertirebbe di colpo in una rivoluzione
che sarebbe l’ultima e che liberebbe per sempre il desiderio?
FÉLIX GUATTARI Né l’uno né l’altro: né la fine definitiva della storia, né
un eccesso provvisorio. Ogni tipo di civiltà, ogni periodo ha conosciuto la fine
della sua storia; non è necessariamente probante, né necessariamente
liberatorio. Quanto agli eccessi, nei momenti di festa, non è
nemmeno rassicurante. Ci sono militanti rivoluzionari, preoccupati di sentirsi
responsabili, che dicono: sì, eccessi, « nel primo stadio della rivoluzione », ma
c’è una seconda fase, l’organizzazione, il funzionamento, le cose serie... Ora non
c’è affatto desiderio liberato in semplici momenti di festa. Guardi la discussione
di Victor con Foucault, nel numero di Temps modernes sui Maoisti2. Victor
ammette gli eccessi, ma nella « prima fase ». Quanto al resto, quanto alle cose
serie, Victor si appella ad un nuovo apparato statale, a nuove regole, ad una
giustizia popolare con tribunale, ad un’istanza esterna alle masse, ad una terza
persona in grado di risolvere le contraddizioni delle masse. Si ritrova sempre il
vecchio schema: distacco d’una pseudoavanguardia in grado di operare
le sintesi, di formare un partito che sia l’embrione dell’apparato statale; prelievo
di una classe operaia educata; e il resto, è un residuo, un lumpen-proletariat di
cui bisogna diffidare (sempre la vecchia condanna del desiderio). Ma
queste distinzioni stesse, sono un modo di intrappolare il desiderio a favore di
una casta burocratica. Foucault reagisce denunciando la terza persona, dicendo
che, se c’è giustizia popolare, non passa per un tribunale. Fa vedere chiaramente
che la distinzione « avanguardia proletariato-popolo non proletarizzato » è una
distinzione che la borghesia introduce essa stessa nelle masse, e di cui si serve
per schiacciare i fenomeni di desiderio, per emarginare il desiderio. Ogni
problema è quello dell’apparato statale. Sarebbe buffo contare su un partito o su
un apparato statale per liberare i desideri. Reclamare una migliore giustizia,
equivale a reclamare buoni giudici, buoni poliziotti, buoni padroni, una Francia
più pulita, ecc. A questo proposito ci dicono: come volete unificare le miriadi di
lotte senza un partito? Come far andare avanti la macchina statale senza un
apparato adatto? Che la rivoluzione abbia bisogno di una macchina di guerra, è
evidente; ma non si tratta di un apparato statale. Che abbia bisogno anche di
un’istanza d’analisi, analisi dei desideri di massa, è certo, ma non si tratta di un
apparato di sintesi esteriore. Desiderio liberato vuol dire desiderio nato
dall’impasse del fantasma individuale privato; non si tratta di adattarlo, di
socializzarlo, di disciplinarlo, ma di inserirlo in tal modo che il suo processo non
sia interrotto in un corpo sociale, e produca dichiarazioni collettive. Ciò che
conta non è l’unificazione autoritaria, ma piuttosto una specie di sciamatura
all’infinito: i desideri nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri, nelle case, nelle
prigioni, ecc. Non si tratta di coprire, di sommare, ma di porre sullo stesso piatto
della bilancia. Fin che si rimane ad una alternativa fra lo spontaneismo
impotente dell’anarchia e la codificazione burocratica e gerarchica di
un’organizzazione di partito, non ci sarà liberazione di desiderio.
ACTUEL Si può ritenere che ai suoi inizi il capitalismo sia giunto ad
assumere desideri sociali?
GILLES DELEUZE Senz’altro, il capitalismo è stato ed è sempre una
formidabile macchina di desiderio. I flussi di denaro, di mezzi di produzione, di
mano d’opera, di nuovi mercati, tutto ciò è desiderio che scorre. È sufficiente
considerare la serie di fatti contingenti che sono all’origine del capitalismo, per
vedere fino a qual punto sia stato un incroco di desideri, e come la sua
infrastruttura, la sua economia stessa siano inscindibili da fenomeni di desiderio.
E così il fascismo; bisogna dire che esso ha « assunto i desideri sociali »,
compresi quelli di repressione e di morte.
La gente teneva per Hitler, per la bella macchina fascista. Ma se la sua
domanda vuol dire: il capitalismo ai suoi inizi è stato rivoluzionario? la
rivoluzione industriale ha mai coinciso con una rivoluzione sociale? — no, non
mi sembra. Il capitalismo è stato legato, fin dalla sua nascita, ad una repressione
selvaggia, ha avuto poi la sua organizzazione di potere e il suo apparato statale.
Che il capitalismo abbia implicato una disgregazione dei codici e dei tipi di
potere precedenti, questo sì. Ma la rotazione di potere era già implicita nella
caduta dei regimi precedenti compreso il potere dello Stato. Ed è sempre così: le
cose non sono molto progressive; ancor prima che si stabilisca una struttura
sociale, i suoi strumenti di sfruttamento e di repressione sono già pronti, girano
ancora a vuoto, ma son già pronti a funzionare a pieno ritmo. I primi capitalisti
sono come uccelli da preda che aspettano. Aspettano il loro incontro con i
lavoratori; questo avviene a seguito della caduta del sistema precedente. È tutto
il significato che si attribuisce a quella che chiamiamo accumulazione primitiva.
ACTUEL Io penso invece che la borghesia nascente abbia immaginato e
preparato la sua rivoluzione durante tutto il secolo dei Lumi. Dal suo punto di
vista, è stata una classe « rivoluzionaria fino in fondo » perché ha rovesciato
l’Ancien Regime ed è andata al potere. Nonostante i contemporanei movimenti
dei contadini e degli operai, la rivoluzione borghese è una rivoluzione fatta dalla
borghesia — i due termini non sono affatto distinti — e giudicarla secondo le
utopie socialiste del xix o del xx secolo, porta ad introdurre, in modo
anacronistico, una categoria che non esisteva affatto.
GILLES DELEUZE II suo discorso, ancora una volta, risente dello schema
di un certo tipo di marxismo. Ad un determinato momento della Storia, la
borghesia sarebbe rivoluzionaria, e questo sarebbe stato anche necessario,
sarebbe necessario passare attraverso la fase del capitalismo, attraverso una fase
di rivoluzione borghese.
È stalinista, ma non serio. Quando una struttura sociale diviene sterile e vien
meno poco a poco, tutta una serie di cose si decifra, ogni flusso incontrollato si
mette a fluire, per esempio la fuga dei contadini nell’Europa feudale, i fenomeni
di « deterritorializzazione ». La borghesia impone un nuovo codice, economico e
politico; allora la si può credere rivoluzionaria. Niente affatto. A proposito della
rivoluzione del 1789, Daniel Guérin ha detto cose molto profonde. La borghesia
non ha mai avuto dubbi sul suo vero nemico. Il suo vero nemico non era il
sistema precedente, ma quello che sfuggiva al controllo del sistema precedente e
che essa si poneva il compito di dominare a sua volta. Essa stessa doveva il
proprio potere alla rovina del sistema precedente; ma questo potere lo poteva
esercitare solo nella misura in cui assumeva come nemici tutti i rivoluzionari del
sistema precedente. La borghesia non è mai stata rivoluzionaria. Essa
ha manipolato, incanalato, represso un’enorme pulsione del desiderio popolare.
La gente è andata a farsi ammazzare a Valmy.
ACTUEL Sono anche andati a farsi ammazzare a Verdun.
FÉLIX GUATTARI Esatto, ed è quello che ci interessa. Da dove vengono
queste spinte, queste sollevazioni, questi entusiasmi che non si spiegano con una
razionalità sociale e che sono deviati, catturati dal potere via via che
nascono? Non si può render conto di una situazione rivoluzionaria, con la
semplice analisi degli interessi presenti. Nel 1903, il partito socialdemocratico
russo discute sulle alleanze, sull’organizzazione del proletariato, sul ruolo
dell’avanguardia. Mentre ha la pretesa di preparare la rivoluzione, è
sorpreso dagli avvenimenti del 1905 e deve buttarsi su un treno già in
movimento. Il fatto è che s’è prodotta un cristallizzazione del desiderio sul piano
sociale, sulla base di situazioni ancora incomprensibili. Stessa cosa nel 1917. E i
politici anche questa volta hanno dovuto riprendere il treno in corsa, e
hanno finito per riacciuffarlo. Ma nessuna tendenza rivoluzionaria ha saputo, o
voluto, assumersi le necessità di una organizzazione sovietica che avrebbe potuto
permettere alle masse di assumersi realmente la responsabilità dei propri
interessi e dei propri desideri. Sono state istituite delle macchine, dette
organizzazioni politiche, che funzionano sul modello elaborato da Dimitrov al
vii congresso dell’Internazionale - avvicendamento di fronti popolari e di
ritrazioni settarie — e che giungono sempre allo stesso risultato repressivo.
L’abbiamo visto nel 1936, nel 1945, nel 1968. Per la loro stessa assiomatica,
queste macchine di massa si rifiutano di liberare l’energia rivoluzionaria. È, in
modo subdolo, una politica paragonabile a quella del presidente della
Repubblica o dei preti, ma con la bandiera rossa in mano. Noi pensiamo che ciò
corrisponda ad una precisa posizione di fronte al desiderio, un modo di
considerare l’io, la persona, la famiglia. Di qui sorge un problema
semplicissimo: o si giunge ad un nuovo tipo di strutture, che possano portare
alla fusione del desiderio collettivo con l’organizzazione rivoluzionaria, o si
continua sullo slancio di ora, e, di repressione in repressione, si andrà verso una
forma di fascismo, al cui confronto Hitler e Mussolini sembreranno uno scherzo.
ACTUEL Ma qual è la vera natura di questo desiderio profondo, essenziale,
che vediamo essere la componente di fondo dell’uomo e dell’uomo sociale, e
che si lascia continuamente tradire? Perché va sempre a intrappolarsi in
macchine antinomiche di quella dominante, e tuttavia a questa somiglianti? Ciò
vuol forse dire che questo desiderio è condannato all’esplosione pura e senza
domani, o all’eterno tradimento? Mi intestardisco: potrà esserci nella storia un
bel giorno in cui avrà luogo un’attuazione collettiva e durevole del desiderio
liberato, e come?
GILLES DELEUZE Se lo sapessimo, non staremmo a parlarne, lo
attueremmo. Tuttavia, Félix ne ha appena parlato: l’organizzazione
rivoluzionaria deve essere quella d’una macchina da guerra e non d’un apparato
statale, di un analizzatore di desideri e non di una sintesi esteriore. In ogni
sistema sociale ci sono sempre state delle linee di fuga; e poi anche degli
irrigidimenti per impedire queste fughe, o (ma non è la stessa cosa) degli
strumenti ancora embrionali per integrarle, per sviarle, fermarle, in un nuovo
sistema in preparazione. Bisognerebbe analizzare le crociate da questo punto
di vista. Ma a questo riguardo, il capitalismo ha delle caratteristiche molto
particolari: le sue linee di fuga, per lui, non sono soltanto difficoltà sopraggiunte,
ma sono condizioni del suo funzionamento. Si è costituito sull’individuazione
generalizzata di tutti i tipi di flusso, sul fluire della ricchezza, fluire del lavoro,
del linguaggio, dell’arte, ecc. Non ha rifatto un altro codice, ma ha costituito una
specie di contabilità, di assiomatica dei flussi già decifrati e l’ha posta alla base
della sua economia. Allaccia i vari punti di fuga e riparte in avanti. Allarga
sempre i propri confini e si trova sempre nella situazione di dover provvedere a
nuove fughe su nuovi confini. Non ha risolto nessuno dei suoi problemi
fondamentali; giunge a non saper neanche prevedere l’aumento monetario in un
paese in un anno. Non smette di superare i suoi limiti, che ricompaiono un po’
oltre. Si pone in situazioni incredibili, per quanto riguarda la produzione, la
sua vita sociale, i problemi demografici, il terzo mondo, i suoi problemi interni,
ecc. Fughe, ce n’è dappertutto, che rinascono dai confini, via via che questi
vengono spostati dal capitalismo. E senza dubbio la fuga rivoluzionaria (la
fuga attiva, quella di cui parla Jackson quando dice: io non smetto mai di fuggire
ma mentre fuggo cerco un’arma...) è una cosa del tutto diversa dagli altri tipi di
fuga, la fuga dello schizofrenico, la fuga del tossicomane. Ma c’è anche un
altro problema: fare in modo che tutte le linee di fuga si ricolleghino su un piano
rivoluzionario. Nel capitalismo c’è dunque un aspetto nuovo, preso dalle linee di
fuga e da una potenzialità rivoluzionaria di tipo nuovo. Come vede, c’è speranza.
ACTUEL Parlate continuamente delle crociate: secondo voi si tratta di una
delle prime manifestazioni di schizofrenia collettiva in occidente...
FÉLIX GUATTARI Si trattò certo di uno straordinario movimento
schizofrenico. All’improvviso, in un periodo già offuscato da scismi migliaia e
migliaia di persone ne ebbero abbastanza della vita che conducevano, si levarono
predicatori improvvisati, individui partirono, a villaggi interi. Fu solo in seguito
che il papato, sconvolto, ha cercato di dare uno scopo a tutto questo movimento,
sforzandosi di condurlo in Terra Santa. Due vantaggi: sbarazzarsi di bande
vaganti e rafforzare le basi cristiane del Medio Oriente, minacciate dai Turchi.
La cosa non sempre è riuscita: la crociata dei Veneziani s’è ritrovata a
Costantinopoli; la crociata dei fanciulli s’è rivoltata nel sud della Francia e ha
ben presto smesso di commuovere. Città intere sono state prese e bruciate da
questi fanciulli « crociati » che le truppe regolari hanno finito per sterminare;
uccisi o venduti come schiavi...
ACTUEL Si può fare un parallelo con i movimenti contemporanei: le
comunità e la strada per fuggire la fabbrica e l’ufficio? e ci sarà un papa per dare
la copertura? Gesù-rivoluzione?
FÉLIX GUATTARI Un recupero da parte del cristianesimo non è
impensabile. Fino ad un certo punto è già una realtà negli Stati Uniti, molto
meno in Europa o in Francia. Ma c’è già un tentativo latente di prendere in mano
la situazione, sotto forma di tendenza naturista; l’idea che ci si potrebbe ritirare
dalla produzione e ricostruire una piccola società isolata, come se il sistema
capitalista ci lasciasse facilmente andare via.
ACTUEL Attribuite ancora un qualche ruolo alla Chiesa in un paese come il
nostro? La Chiesa è stata al centro del potere nella società occidentale fino al
xviii secolo, il vincolo e la struttura portante della macchina sociale fino al
sorgere degli Stati nazionali.
Oggi, privata dalla tecnocrazia di questa funzione essenziale, appare essa
stessa trascinata alla deriva, senza punto d’appoggio e divisa. C’è da chiedersi se
la Chiesa, travagliata dalle correnti del cattolicesimo progressista, non divenga
meno confessionale di certe organizzazioni politiche.
FÉLIX GUATTARI E l'ecumenismo? Non è forse un modo per cavarsela
sempre? La Chiesa non è mai stata più forte. Non c’è ragione alcuna di opporre
Chiesa e tecnocrazia; c’è una tecnocrazia ecclesiastica. Storicamente, il
cristianesimo e il positivismo sono sempre andati d’accordo. Lo sviluppo delle
scienze positive ha una matrice cristiana. Non si può dire che lo psichiatra abbia
sostituito il prete; come non si può dire che il poliziotto abbia sostituito anche lui
il prete. C’è sempre bisogno del contributo di tutti nella repressione. Ciò che nel
cristianesimo si può dire invecchiato è la sua ideologia, non certo la sua
organizzazione di potere.
ACTUEL Veniamo all’altro aspetto del vostro libro: la critica alla psichiatria.
Si può dire che la Francia sia già programmata per la psichiatria di settore — e
fino a che punto si intende questo tipo di autorità?
FÉLIX GUATTARI La struttura degli ospedali psichiatrici è essenzialmente
statale e gli psichiatri sono dei funzionari. Lo stato si è a lungo accontentato di
una politica coercitiva e per un buon secolo non ha fatto niente. C’è voluta la
Liberazione perché cominciasse a trasparire una certa speranza: la prima
rivoluzione psichiatrica, l’apertura degli ospedali, i servizi liberi, la psicoterapia
istituzionale. Tutto ciò ha portato a quella grande utopia della politica di settore,
che consisteva nel limitare il numero dei ricoveri e nel mandare équipe di
psichiatri tra la popolazione, come i missionari nella savana. Errore di fiducia e
di volontà, la riforma si è impantanata: qualche servizio modello per le visite
ufficiali e, qui e là, qualche ospedale nelle regioni meno sviluppate. Stiamo
andando verso una crisi più profonda, del tipo della crisi dell’Università, un vero
e proprio disastro a tutti i livelli, attrezzature, formazione del personale, terapie,
ecc.
Le istituzioni per l’infanzia sono invece in condizioni molto migliori.
L’iniziativa è sfuggita di mano allo stato e al suo finanziamento, per tornare poi
in mano ad associazioni di tutti i tipi, per la protezione dell’infanzia, o
associazione di genitori... Le istituzioni hanno proliferato in questo
settore, sovvenzionate dalla Sécurité Sociale. Il bambino è preso in carico da
tutta una rete di psicologi, schedato fin dall’età di tre anni, seguito per tutta la
vita. Bisogna aspettarsi soluzioni di questo genere anche per la psichiatria degli
adulti.
Di fronte all’attuale impasse, lo Stato deciderà di denazionalizzare le sue
istituzioni a vantaggio esclusivo di istituzioni regolate dalla legge del 1901 e
abilmente manipolate da gruppi politici e da associazioni di famiglie reazionarie.
Noi stiamo andando effettivamente verso una ripartizione psichiatrica della
Francia, se la crisi attuale non libera le sue potenzialità rivoluzionarie. Ovunque
sorge l’ideologia più reazionaria, una piatta trasposizione dei concetti edipici.
Nelle istituzioni per bambini si chiama il direttore « tonton », l’infermiera «
maman »; ho sentito anche fare distinzioni di questo genere: i gruppi di gioco
derivano da un principio materno, quelli di lavoro da un principio paterno. La
psichiatria di settore ha l’aria progressista, perché apre gli aspedali. Ma se questo
consiste nello schedare i quartieri, si rimpiangerà ben presto il manicomio chiuso
di un tempo. È come la psicanalisi: funziona all’aperto, ma è ancora
peggio, come forza repressiva è ancora più dannosa.
GILLES DELEUZE Un caso: una donna arriva ad un consultorio. Spiega che
prende dei tranquillanti. Chiede un bicchier d’acqua. Poi dice: « Lei capisce, ho
una certa cultura, ho studiato, mi piace molto leggere ed ecco che ora mi succede
di passare il tempo a piangere. Non sopporto più il métro... E poi piango ogni
volta che leggo qualcosa... Vedo la televisione, vedo le immagini del Vietnam:
non posso sopportarlo... » Il medico non risponde un gran che. La
donna prosegue: « Ho fatto la Resistenza... un po’: ero una buca delle lettere ». Il
medico chiede una spiegazione. « Beh sì, non capisce dottore? Andavo in un bar
e domandavo, per esempio: c’è qualche cosa per René? E mi davano una lettera
da trasmettere... » Il dottore sente « René » e si scuote: « Perché dice René? » È
la prima volta che si impegna in una domanda. Fin qui lei aveva parlato del
métro, di Hiroshima, del Vietnam, dell’effetto che queste cose producevano sul
suo corpo, della voglia che aveva di piangere. Ma il medico domanda solo: «
Guarda guarda René... che cosa rievoca questo René? Renato, qualcuno che è ri-
nato? Il rinascimento? La resistenza non dice nulla al medico; ma il rinascimento
sì perché si rientra nello schema generale, nell’archetipo: « Lei vuole rinascere ».
Il medico vi si ritrova: questo è il suo circuito. E la spinge a parlare di suo padre
e di sua madre.
È un aspetto fondamentale del nostro libro, molto concreto. Gli psichiatri e
gli psicanalisti non hanno mai prestato attenzione ad un delirio; a loro basta
ascoltare qualcuno che delira: possono essere i Russi a tormentarlo, i Cinesi;
non ho più saliva, qualcuno nel métro mi ha inculato, ci sono microbi e
spermatozoi che brulicano dappertutto. La colpa è di Franco, degli Ebrei, dei
Maoisti: è tutto un delirio in campo sociale. Perché non potrebbe riguardare la
sessualità di un soggetto, i suoi rapporti con l’idea di Cinese, di Bianco, di
Negro? Con la civiltà, le crociate, il métro? Psichiatri e psicanalisti non ci
capiscono niente; deformano il contenuto dell’inconscio, per addomesticarlo a
degli enunciati-base prefissati: « Lei mi parla di Cinesi, ma suo padre? —
No, non è cinese. - Allora lei ha un amante cinese? » È al livello dell’istinto
repressivo del giudice di Angela Davis che garantiva: « Il suo comportamento
non si spiega in altro modo se non col fatto che era innamorata ». E se la libido
di Angela Davis fosse stata invece una libido sociale, rivoluzionaria? E se fosse
stata innamorata perché era rivoluzionaria?
Ecco quel che diciamo agli psichiatri e agli psicanalisti: non sapete che cos’è
un delirio, non avete capito niente. Se il nostro libro ha un senso, è che arriva
proprio nel momento in cui molti si rendono conto che la macchina
psicanalitica non funziona più, una intera generazione comincia ad
averne abbastanza degli schemi prefissati — Edipo e castrazione, immaginario e
simbolico — che mascherano sistematicamente il contenuto sociale, politico e
culturale di ogni turba psichica.
ACTUEL Voi associate la schizofrenia al capitalismo; questo è il fondo del
vostro libro Ci sono casi di schizofrenia in qualche altro tipo di società?
FÉLIX GUATTARI La schizofrenia è inscindibile dal sistema capitalistico,
concepito esso stesso come un primo tipo di fuga: una malattia precipua. Negli
altri tipi di società, la fuga e l’ermarginazione assumono altri aspetti.
L’individuo asociale delle società cosiddette primitive non si fà rinchiudere. La
prigione e il manicomio sono nozioni più recenti. Lo si scaccia, ed egli si ritira ai
margini del villaggio, dove muore, a meno che non gli succeda di integrarsi nel
villaggio vicino. Ogni sistema ha, d’altra parte, la sua malattia particolare:
l’isterismo nelle società primitive, le manie depressive-paranoiche nei grandi
imperi... L’economia capitalista parte dalla decodificazione e dalla
deterritorializzazione: ha i suoi mali estremi, cioè la schizofrenia che si
decodifica e si deterritorializza fino in fondo, ma ha anche le sue
estreme conseguenze, le rivoluzioni.



1 Félix Guattari, Psychanalyse et transversilité, ed. Maspero.
2 Cf, Les temps modernes, « Nouveau Fascisme, Nouvelle Démocratie » n

310 bis.
Alain Touraine






Alain Touraine fu professore di sociologia a Nanterre. Ha dunque visto molto
da vicino, attorno a Cohn-Bendit suo allievo, nascere ed espandersi il
movimento che conosciamo. Dal momento che egli aveva dedicato i suoi
lavori all’analisi della coscienza operaia e del lavoro industriale, si è rifiutato di
considerare la rivolta studentesca e le lotte del Maggio come un sussulto
intellettuale e piccoloborghese oppure come la rigenerazione per procura di un
proletariato tradizionale che scuote il giogo riformista. Se noi abbiamo
abbandonato l’era della società mercantile e del capitalismo liberale per un
capitalismo « post-industriale », lo scrollone annunciava nuovi conflitti sociali, e
nuove contraddizioni: la comparsa di un movimento nuovo, irriducibile ai suoi
predecessori. Alain Touraine ne propone una prima descrizione nella Société
post-industrielle (Denoël-Gonthier, « Médiation »), nel Communisme utopique
(Le Seuil, coll. « Politique ») e nel suo ultimo libro, Université et Société
aux États-Unis (Le Seuil), in attesa di un’opera più teorica sulla produzione della
società.
Per quanto influenzato da Sartre — verso il quale non è più debitore di
molto, se non per il suo rifiuto del positivismo — e sebbene abbia frequentato
l’Union progressiste di Emmanuel d’Astier e Pierre Cot, e in seguito il PSU,
Alain Touraine non è un militante. Ma non concepisce sociologia che non
respinga l’ideologia dominante per costituirsi in scienza dell’azione e dei
conflitti. In lui è un atteggiamento di partenza: per consacrarsi alle scienze
umane, Touraine ha abbandonato l’École normale supérieure in piena età
scolastica. Fino alla metà del secolo, la scuola francese aveva considerato la
sociologia come del cattivo giornalismo, qualcosa che non esisteva al di fuori di
un magro attestato di « morale et socio ».
Rifiutando le arringhe della filosofia tradizionale della Sorbona — «la
sociologia è l’insieme di ciò che sfugge al sistema universitario » —, lo studente
Alain Touraine era partito per l’Europa centrale a studiare la riforma agraria
ungherese, e poi le miniere di carbone: di qui datano i suoi esordi nella
sociologia industriale. Lavorò poi negli Stati Uniti, prestando attenzione ai
metodi e ai risultati, senza tuttavia accettare i fondamenti delle scienze sociali
americane, ancora legate all’establishment.
Alla fine degli anni cinquanta, la prima generazione dei sociologi francesi si
riuniva attorno al CNRS e ad alcuni istituti di ricerca e di insegnamento
progressivamente strappati alla letteratura o alle scienze amministrative.
Autodidatti per necessità tutti con l’impronta del loro apprendistato fatto negli
Stati Uniti, solidali fra loro nei confronti dei pezzi grossi della Sorbona che
contendevano loro i posti e i crediti, questi uomini si ripartirono delle specialità
ancora vaghe e moltiplicarono le ricerche sul campo. Poiché erano sfuggiti alle
intelaiature dottrinali dell’intelligenza francese e parlavano uno strano
linguaggio con bei riferimenti sconosciuti, all’inizio non vennero per nulla
ascoltati e vennero per lungo tempo confusi fra di loro, trovando in essi, non
senza ragione, un’aria di famiglia. Con la notorietà, le sfaldature incominciarono
tuttavia a intravedersi: da un lato una sociologia dell’organizzazione — come
quella di Michel Crozier 1 —, sedotta da quegli stessi apparati sociali che essa
descrive e che, naturalmente, sognerà di migliorare; dall’altro lato una sociologia
dei conflitti — simbolizzata da Alain Touraine — che si vedrà ugualmente
trascinata a collocarsi nel campo sociale, ma dalla parte opposta dei
conformismi.
Oggi, l’esperienza di Nanterre ha storto verso sinistra il vocabolario del
sociologo Alain Touraine. Tecnici, giovani lavoratori, studenti, liceali si
ribellano contro l’influenza e le manipolazioni dei grandi apparati tecnocratici:
ne potrebbe nascere una nuova sociologia.

ACTUEL Al di là dell’espressione equivoca di società industriale, come si
potrebbe definire la fase attuale del capitalismo occidentale, tecnocratico e
programmato?
ALAIN TOURAINE Sotto l’aspetto più semplice, e in un grado
infinitamente maggiore che in ogni altra epoca, diciamo che noi siamo passati da
una società di trasmissione ad una società di acquisizione: ormai l’avvenire ha la
meglio sulle eredità del passato. Ed è questo cambiamento globale della società
ciò che deve determinare l’atteggiamento che noi assumiamo nel guardare ad
essa e nel comprenderla.
Nella fase « liberale » del capitalismo - quel xix secolo che si prolunga quasi
fino ai nostri giorni — noi ci trovavamo ancora nelle società tradizionali a
economia industriale. Le si potevano analizzare in due modi diversi. Gli uni
vedevano in esse un sistema, un insieme congegnato di funzioni e di bisogni che
rispondevano fra di loro, con i suoi valori ed i suoi riti: il corpo sociale concepito
come un focolare familiare. Gli altri — progressisti e socialisti -
ammettevano ugualmente l’esistenza di un ordine sociale, ma ne contendevano i
propositi: sistema diabolico piuttosto che angelico, esso esprimeva una
dominazione assai più che un’architettura dei valori e dei bisogni. In questa
ottica, la società si doveva leggere come un’ideologia, un gioco di maschere che
nascondevano la vera ripartizione del potere. Per quanto conservino una validità,
queste analisi insieme simili e contrapposte si riferiscono a delle società che
hanno la possibilità di apparire come un ordine, cioè società in cui le mort saisit
le vif 2 attraverso l’eredità e la trasmissione.
Ma non è più questo l’essenziale. La caratteristica principale delle nostre
società risiede nella loro infinita capacità di azione su se stesse. Tutto in esse è
oggetto di trasformazione, compresi i fatti sociali, i rapporti degli uomini fra di
loro e, in fondo, l’uomo stesso. Se l’uomo può arrivare fino al punto di
sopprimere l’uomo, o a renderlo irriconoscibile attraverso una manipolazione
generalizzata delle istituzioni, dei valori e dei gruppi, allora non esiste più
una natura umana o una natura sociale. La società sarà domani quel che essa fa
oggi, a nulla serve interrogarsi sulle leggi o sulla sua assenza: essa ha perso ogni
invariante insieme alla scomparsa della natura umana. L’avvenire determina
il presente più di quanto il presente non sia determinato dal passato. Il tronco
comune di ogni riflessione sociologica risiede ormai nella società riguardo a ciò
che essa fa di se stessa.
Da ciò scaturiscono sempre due analisi. Secondo la prima, dal momento che
non esistono più né valori né antivalori, né grandi complotti, noi siamo quel che
noi facevamo in un mondo governato dal tirocinio, da un passo dietro
l’altro, dalle strategie, dai conflitti certo, ma anche da un perpetuo negoziato e da
un adattamento permanente e provvisorio ad un ambiente mutevole. È questa,
più ancora che un’ideologia, la pratica dominante: una sociologia reale, quella
dei grandi centri decisionali e delle grandi imprese o organizzazioni. Questo
pragmatismo neo-liberale parla sempre in termini di mercato, ma di un mercato
tanto socio-politico quanto economico, e liquida in tal modo tutti i problemi
del contenuto e dell’orientamento sociale.
Di fronte a questo neo-liberalismo c’è quello che è il secondo atteggiamento,
che consiste nell’interrogarsi sugli argomenti, i dibattiti e gli scontri di una
società che è diretta verso il cambiamento, che è definita dal suo
cambiamento stesso e non dai suoi principi o dal suo ordine.
ACTUEL Si pone il problema del potere?
ALAIN TOURAINE Se si tratta di designare — per così dire per afferrarlo
— una sorta di nucleo centrale denominato potere, proprietà, le pretese leve
dell’indipendenza, tutto ciò non ha più senso alcuno; oppure ha un senso rituale
che ci proviene da conflitti antichi che sono oggi più verbali che reali. In questa
accezione, la rivendicazione del potere è un allettamento illusorio: sono gli stessi
centri dirigenti che definiscono in termini di decisioni e di processi politici una
società la cui realtà si colloca più lontano e ben altrove. Occorre vedere, al di là
dell’apparato dello stato, la dominazione dei grandi apparati che dirigono la
società e che escludono o disorganizzano quanto è loro estraneo o
contrario, gigantesca zona d’ombra che non trova espressione, che resta
ricacciata indietro e proibita. Il dibattito politico cade in un formidabile errore di
prospettiva quando dà più importanza alla presa del potere che non alla
liberazione sociale.
Questa questione assume in Francia un rilievo eccezionale. Dalla fine del
xviii secolo, noi abbiamo avuto la tendenza ad identificare la società e lo Stato. E
di fatto la vita politica francese costituita, ufficiale, si definisce oggi ancora
in rapporto al sistema statale, tanto nei gollisti che nel partito comunista: le
divergenze e gli scontri avvengono sul ruolo dello stato, non sulla concezione
della società, checché ne dicano le varie propagande. Questo privilegio concesso
allo stato può concepirsi nelle società molto eterogenee in cui strutture moderne
coesistono con le strutture antiche. Quando l’industrializzazione viene compiuta
non dalla borghesia mercantile, ma dalle antiche classi dominanti, come in
Germania o in Giappone, lo stato svolge un ruolo centrale. Ruolo che è ancora
più importante quando le antiche forme di dominazione resistono e non vengono
attaccate se non perifericamente da enclavi coloniali. Qui l’opposizione popolare
assume la forma di un assalto diretto contro l’apparato dello stato.
Ma oggi noi viviamo in una società industriale che, nonostante la
permanenza di settori arcaici talvolta ancora considerevoli, tende ad affermarsi
come una società omogenea moderna. Improntata a tutti i livelli dalla scienza,
dalla tecnica e dall’urbanizzazione generalizzata, essa si distingue radicalmente
dalle società di industrializzazione che l’hanno preceduta o che vediamo
lentamente emergere dal mondo sottosviluppato. Mutamento essenziale che
dissolve l’autonomia del fenomeno politico a profitto dei grandi centri
di organizzazione economica e sociale e di manipolazione culturale. Dopo alcuni
anni, al di là delle dispute politiche, si ricomincia a porsi il problema della
società.
Nonostante la confusione inerente ai periodi di transizione, nuove forze si
delineano: un padronato moderno che si afferma in quanto classe strutturata e, da
parte popolare, il sorgere di movimenti sociali che non possono venir ridotti alla
loro espressione politica attuale, ammesso anche che ne trovino una. È un grande
rivolgimento per il pensiero sociologico. La società mercantile poteva esser colta
attraverso le categorie dell’ analisi giuridica. L’industrializzazione ha creato una
coscienza storica: senso della storia, evoluzione, tendenza alla trasformazione
sociale. Oggi si apre l’era della sociologia.
ACTUEL Tappe giuridica, storica, sociologica: dove colloca il marxismo?
ALAIN TOURAINE Non credo, in un primo tempo, che si possa dissociare
il marxismo dal momento storicistico del pensiero. Da esso nasce e lo esprime a
modo suo anche se si distingue per la qualità e la logica della sua architettura
intellettuale. Ma — come ogni pensiero molto importante — il marxismo
apporta anche qualcos’altro: l’analisi del capitalismo in quanto sistema. A questo
livello, il marxismo ha giocato un ruolo primordiale e modernizzatore del
pensiero sociale facendo apparire — contro lo storicismo della borghesia liberale
e, per una parte, contro i suoi stessi miti — la società come un sistema che
risponde ad una contraddizione fondamentale. Si tratta, lo dicevo poco fa,
dell’analisi della società del passato. Ma il principio conserva
metodologicamente tutto il suo valore per il presente e per l’avvenire.
In compenso, la frattura epistemologica non passa, come aveva detto
Althusser, in mezzo all’opera di Marx, fra la filosofia della storia degli scritti
giovanili ed il socialismo scientifico della maturità, all'incirca verso il 1844. Essa
arriva ben più tardi, in mezzo al xx secolo, quando la società acquisisce una
padronanza di se stessa, e con ciò rende possibile la sociologia. Fintantoché la
società resta intoccabile, si rimane nell’ambito dell’interpretazione. Il
sociale viene allora spiegato con le leggi degli dei, dei principi o del mercato. A
partire dal momento in cui esso può agire sulle proprie strutture, ed al limite
distruggersi con l’arma nucleare, diventa oggetto di esperimenti. Ecco perché
io penso che le nostre società non possono analizzarsi se non in termini
sociologici. Ma, all’inverso, ciò vuol dire anche che la sociologia è coinvolta in
questa società, che essa si carica di ideologia nel momento stesso in cui
progredisce come conoscenza positiva. Non si può ridurre la conoscenza
all’ideologia — come fanno certi gauchistes -, ma non si può neppure concepire
una conoscenza sociologica senza una critica ed un ribaltamento dell’ideologia
dominante. Non riusciremo a capire questa società se non spezzando l’immagine
che ne viene imposta, quella della razionalità delle decisioni, del rispetto della
domanda sociale, della concertazione generalizzata. Bisogna ritrovare la natura
della dominazione.
ACTUEL Come si può definire la realtà della nuova classe dirigente?
ALAIN TOURAINE Essa non è soltanto dirigente, ma dominante, e non
soltanto mobilitante, ma repressiva ed esclusiva. Si tratta di vedere come questa
classe serve alla società, si serve di essa, la sviluppa, la deforma, la limita, la
costringe. Cercare altresì la reazione: quali sono le contraddizioni ed i conflitti
sociali centrali del giorno d’oggi, che non si confondono più soltanto con lo
scontro fra borghesi e proletari quale viene descritto dal socialismo?
Certo, non siamo ancora molto lontani da una classe dirigente puramente
commerciale e finanziaria. E lo slittamento verso nuove strutture non è sempre
facile da svelare, soprattutto in Francia dove esso si compie in maniera
relativamente efficace e progressiva attraverso il regime gollista. Ma se noi non
siamo ancora usciti dal capitalismo propriamente industriale, quel mondo
dell’antico capitalismo viene ricoperto da un’altra tappa del capitalismo, quella
delle grandi imprese e delle grandi organizzazioni. In questo quadro, la
massimizzazione degli interessi dell’impresa ha la meglio sulla massimizzazione
del profitto del capitale. Le due tendenze si mescolano, ma una tende a prendere
il sopravvento sull’altra.
Non è possibile confondere i conglomerati del capitalismo finanziario più
classico, oppure le holdings dell’America degli anni venti, con un’azienda come
la IBM oppure le industrie nucleari o spaziali, gestite dalle imprese
pubbliche. Chiamatele neo-capitaliste, tecnocratiche, monopoli di stato: in tutti i
modi, si tratta di un’altra realtà. E lì si manifesta una classe dirigente, incentrata
sui grandi apparati, la cui area di controllo sociale è infinitamente più vasta
che non una volta. L’area di comando della classe dirigente si
è straordinariamente estesa, la quadrettatura del suo scacchiere operativo è
evidentemente più fitta: ruolo dirigente nella produzione, ma anche controllo del
consumo, dell’urbanizzazione, dell’informazione, di tutti gli elementi del
processo sociale.
ACTUEL Che cosa significa tutto questo al livello della struttura interna
della classe dominante?
ALAIN TOURAINE Innanzitutto che la continuità e la trasmissione hanno
qui un posto secondario. Senza comunque trascurare gli uomini o le fortune, è
necessario concepire gli apparati come gli elementi centrali del sistema, vere
strutture di comando della vita sociale, di accumulazione e di controllo
dell’accumulazione, di orientamento dell’investimento in funzione della
massimizzazione dei loro stessi interessi. Occorre qui distinguere tipo storico e
tipo sociologico. Storicamente, nessuno può confondere gli ambienti
dirigenti degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. I primi sono
fondamentalmente legati al sistema capitalista, i secondi hanno avuto radice in
un movimento sociale ed in una rivoluzione operaia. Ma sociologicamente, io
non esito a dire che il partito comunista dell’Unione Sovietica è una classe
dirigente, dal momento che esso rappresenta quell’apparato che determina la
natura dell’accumulazione e l’uso delle risorse accumulate in funzione di uno
sviluppo di cui esso solo è giudice. Esiste classe dirigente a partire dal momento
in cui vi è controllo degli investimenti da parte di un gruppo sociale strutturato, e
nelle nostre società ciò non esiste separatamente da un controllo dell’insieme
della vita sociale concepito come un sistema.
Il mondo in sé dell’economia è scomparso. Nella società di
industrializzazione del xix secolo, vi era il mondo del capitale ed il suo
contrapposto, il mondo del lavoro, l’impresa, le istituzioni dell’insegnamento e
poi, al di fuori, ampie plaghe della vita sociale relativamente indeterminate,
salvo che per le forme culturali mantenute dalla famiglia, dalla Chiesa, dai
costumi. Guardando con la prospettiva, noi constatiamo che l’inquadramento
della gente nel passato restava molto leggero, ad eccezione che nel lavoro. Oggi
gli uomini rispondono a sistemi di comando, di incitamento, di gerarchia che
diventano onnipresenti. Prendete anche il campo della sessualità. Si può anche
dire che un movimento di liberazione distrugge le regole e i divieti, ma questo
ottimismo è pericoloso se non vede anche il crearsi di nuove norme, l’estendersi
del campo della scolarizzazione e quindi del controllo sociale.
ACTUEL E la scuola?
ALAIN TOURAINE Qui siamo passati da un sistema universitario che
trasmetteva la disuguaglianza ad un sistema che crea la disuguaglianza. In
società improntate dalla scienza e dalla tecnica, la conoscenza diventa un dato
essenziale. E l’ideologia subito esagera. Guardate lo slogan del SICOB: « Sapere
è potere ». Ammirevole definizione del pensiero e della mistificazione
tecnocratica, dal momento che non è proprio un sapere qualsiasi quello che porta
al potere. Dinanzi all'aspirazione generale al sapere, il potere rifluisce:
la funzione della scuola, oggi più ancora di una volta, è di far sì che vi siano dei
non diplomati. Oppure, di fronte alla « democratizzazione » dell’insegnamento,
di mantenere la gerarchia. Così le nobili facoltà di Lettere sono un trabocchetto
in cui scompare — senza un grande avvenire — una gran parte di coloro che
aspirano al sapere, mentre in disparte l’élite dirigente si costituisce nel suo
ambito riservato le grandes écoles. Gli allievi elle grandes écoles non ne sanno
né più né meno degli altri, ma essi sono stati selezionati: ecco quanto basta per
assicurar loro una posizione preponderante nel sistema.
Tutto ciò non significa affatto che noi viviamo una dittatura tecnocratica
assoluta. In Francia in ogni caso, conserviamo una società liberale, cioè una
società in cui il processo politico conserva una certa autonomia nei confronti dei
poteri socio-economici, con la parte di illusorietà e di libertà che ciò comporta.
Ma il potere si esercita ormai al livello della società intera, non si identifica
esclusivamente con il gioco politico; e ciò comporta, a tutti i livelli, dei
contraccolpi, delle resistenze e dei conflitti.
Se esiste, da ieri a oggi, una differenza profonda nella natura del dominio
sociale, nella sua radice, nel suo principio e nella sua estensione, allora immensi
settori della vita sociale un tempo al di fuori del conflitto diventano oggetto di
scelta, cioè di conflitto. La parte delle costrizioni naturali o meccaniche tende a
ridursi, i problemi di crescita e di modo di vita prendono il sopravvento su quelli
della sussistenza: quello che verrà messo in causa sarà, più che le leggi del
destino o dell’universo, il sistema stesso. La manipolazione, l’oppressione, la
sottomissione o la rivolta non riguardano più soltanto l’uomo considerato nel suo
lavoro ma l’insieme degli individui e dei gruppi nel loro rapporto globale con il
processo di mutamento. Dopo la lenta evoluzione, la debole differenziazione e la
forte riproduzione delle società tradizionali, l’uomo attuale cambia di mestiere,
di situazione, di consumi, di valori nell’intero corso della sua vita, è gettato in un
sistema che tollera e richiede persino il moltiplicarsi delle parole e dei segni, la
proliferazione delle norme e delle informazioni, un sistema di guida più elastico
e nello stesso tempo più serrato. All’« Arricchitevi! » della società liberale è
succeduto lo « Scegliete! » delle nostre società. Ma queste scelte non sono
libere. Non è il consumatore che sceglie gli investimenti, e quindi il tipo di
consumo. Le antiche disuguaglianze diminuiscono molto lentamente e vengono
sostituite da altre che sono in crescita. Gli apparati ributtano nel silenzio e nella
disciplina coloro che devono soltanto far girare la macchina e che sono
costretti a girare insieme ad essa sempre più in fretta.
ACTUEL In un periodo di transizione ancora segnato dalle lotte del passato,
possiamo già riconoscere ed analizzare i meccanismi e le contraddizioni della
società in gestazione prima che queste ultime si siano manifestate sotto forma
di conflitti centrali?
ALAIN TOURAINE Chi avrebbe potuto dire nel 1820, o anche nel 1830,
che il conflitto centrale del secolo sarebbe stato quello fra salariati e padronato?
Come convalidare le ipotesi in altro modo che non sia quello della pratica
sociale? Tuttavia noi possiamo far meglio che aspettare. Innanzitutto spiare
dentro i nuovi conflitti sociali ciò che non è riducibile a delle lotte di influenza o
di rivendicazioni quantitative, riconoscere nel contempo le aspirazioni profonde
dei gruppi dominati e quanto viene assolutamente rigettato dal sistema
dominante. Si può distinguere nelle nostre società l’apparato e le persone che si
identificano in esso, le persone che vengono consumate dall’apparato — la
classe operaia per esempio — e le persone che stanno al di fuori dell’apparato.
I vecchi stanno al di fuori dell’apparato: perché non dovrebbero esistere anche
dei movimenti di vecchi? Detto ciò, la contraddizione si proietta innanzitutto su
scala mondiale nell’enorme dislivello che separa i paesi accumulatori dai paesi
dominati. Quello che viene a torto chiamato Terzo Mondo rappresenta un
universo sottoposto alla logica della accumulazione dei centri decisionali
dominanti in Occidente. Là si incontra il vero impoverimento relativo, e talvolta
assoluto. I conflitti sociali fondamentali della nostra epoca oltrepassano di gran
lunga le frontiere di una società come la Francia.
ACTUEL II corpo sociale è tuttavia scosso da conflitti interni: come
discernere i loro protagonisti?
ALAIN TOURAINE Ogni rapporto sociale essenziale suscita nei suoi
protagonisti un comportamento corrispondente alla situazione: se mi parlate di
classe, è perché esiste coscienza di classe. Tuttavia questa coscienza non appare
mai allo stato puro nelle sue prime manifestazioni. Essa è frantumata
dall’alienazione oppure ossidata dai modelli del passato. Tutto il xix secolo ha
parlato il linguaggio della Rivoluzione francese ed una grande parte del
movimento operaio il linguaggio repubblicano. È inevitabile che un
movimento sociale in formazione usi l’ideologia delle forze che
l’hanno preceduto. Così accade per rivolte culturali che
conosciamo nell’Occidente contemporaneo e che si ammantano ancora per gran
parte del linguaggio delle rivoluzioni condotte nel e per il lavoro.
Su quale piano bisogna attualmente collocarsi? Nelle società cosiddette
primitive fondate sulla caccia, sembra proprio che il conflitto di classe sia quello
che contrappone gli uomini alle donne. Nel mondo mercantile, esso si esprime
in termini di stato e di categorie politico-giuridiche. Nella società
dell’industrializzazione, che si basa direttamente sul lavoro produttivo, la
fabbrica diventa la porta in gioco, e l’operaio qualificato, relativamente
privilegiato, si contrappone più direttamente al capitalismo. In una società
caratterizzata dal cambiamento, quella che si solleva più direttamente contro la
tecnocrazia è la categoria che è più aperta al cambiamento, quella che è da esso
più favorita e più sconvolta. Nel maggio del 1968, i gruppi più sensibili — gli
studenti, i giovani tecnici e quadri — erano quelli che più violentemente sono
stati aspirati e, nello stesso tempo, ricacciati indietro dal sistema, in particolare
nell’apparato universitario. Questa contestazione culturale della gioventù, o di
altre categorie sociali, si è poi estesa; essa non è altro che l’avanguardia di nuovi
conflitti sociali, passa nel cuore del sistema scolastico perché la conoscenza è
diventata una forza di produzione essenziale, passa attraverso quelle
strutture fondamentali della vita sociale che sono ormai diventate l’educazione
l’informazione, il consumo.
ACTUEL II che equivale ad affermare che il conflitto centrale delle nostre
società non è più quello fra proletariato e padronato.
ALAIN TOURAINE Io non penso che la classe operaia rimanga un attore
storico privilegiato nella società post-industriale verso la quale stiamo andando.
Diciamo subito che non si tratta di far ricorso a dei temi privi di senso
come quelli della fine dello sfruttamento, della scomparsa della classe operaia o
della morte del sindacalismo. Semplicemente, nei nostri tipi di società, il
conflitto specifico fondato sul ruolo che si ha nell’ambito della produzione
industriale tende a non poter più essere isolato. Cessa di essere un cardine, ed è
decentrato in rapporto a dei modi di produzione e di dominazione più vasti e più
recenti. La battaglia operaia non si cancella a beneficio di non so quale
concentrazione, ma i nuovi movimenti sociali non possono venir concepiti
come un prolungamento o un ringiovanimento del movimento operaio
tradizionale.
Il movimento del Maggio ha dimostrato che la contestazione più viva non è
scoppiata nei settori più organizzati della classe operaia. Gli obiettivi puramente
rivendicativi non sono per nulla stati oltrepassati dai ferrovieri o dagli
scaricatori. È al contrario nei settori economicamente più avanzati, negli uffici-
studi o fra i quadri che esercitavano funzioni di competenza, e non di autorità, e
naturalmente nell’Università e nei licei, che si sono manifestati gli scontri più
innovatori e più radicali. Non perché il movimento operaio si sarebbe indebolito,
o avrebbe dato le dimissioni nelle mani di cattivi partiti o di cattivi capi, ma
perché l’esercizio del potere capitalista all’interno dell’impresa non è più la
molla principale del sistema attuale, e dunque della lotta sociale.
Al limitare del mondo industriale, ci fu il sorgere pressoché puro di una
coscienza di classe, difficile da distinguersi da un’utopia di classe. Venne poi
l’azione di classe del proletariato, fenomeno centrale della società
dell’industrializzazione. Negli Stati Uniti e nei paesi di socialdemocrazia
occidentale, questo conflitto fra salariati e padronato si è istituzionalizzato, in
modo più o meno completo. In Italia o in Francia, società nelle quali gli ostacoli
all’industrializzazione e gli arcaismi furono maggiori che altrove, il movimento
operaio ha conservato in parte l’orientamento rivoluzionario che aveva
acquistato nel xix secolo. E nonostante ciò tanto il suo comportamento che le sue
espressioni politiche ci mostrano che esso è molto lontano dall’ingaggiare una
lotta frontale contro il potere. Oggi, alla fine della tappa dell’industrializzazione,
assistiamo nuovamente ad un fuoco d’artificio della soggettività di classe, ivi
compresi, e soprattutto, gli elementi finora meno coscienti e meno organizzati,
gli os, i giovani, le donne. Il mondo operaio si sente sempre intensamente
sfruttato, ma anche marginalizzato. Ha perduto il suo mestiere nella
specializzazione e nella divisione del lavoro, ed ogni padronanza sul processo di
produzione. La gente non vuole più vivere la domenica come degli
individui normali per ritrovarsi prigioniera il lunedì di un autoritarismo e di ritmi
incredibili. La coscienza di classe rivive qua e là, ma altresì i molteplici rifiuti
individuali della condizione operaia nell’ambito della gioventù. Questa
coscienza di classe è esplosa, ma non riguarda l’insieme e neppure il cuore della
classe, ma piuttosto la sua periferia. In rapporto a ciò che abbiamo conosciuto in
tutta l’Europa del xix secolo, il fenomeno è stato socialmente e politicamente
messo fuori centro, sebbene resti soggettivamente di primaria importanza.
Possiamo vedere una combattività operaia abbastanza grande: essa è fatta in
parte di quella coscienza di classe disperata, in parte anche da una pressione che
nasce basandosi su dei vantaggi materiali e su di una maggiore
istituzionalizzazione dei conflitti del lavoro. Ma questi fatti, per quanto
importanti siano, non devono mascherare l’essenziale: il conflitto di classe si
rinnova e non sarà più la classe operaia, in quanto tale, ad animarlo. Ciò è già
molto evidente negli Stati Uniti e in Germania, senza parlare dell’Unione
Sovietica.
Bisogna soprattutto fare attenzione al significato nuovo delle rivendicazioni
e della lotta operaia. Non si può infatti dire che il mondo dell’alienazione
culturale sia succeduto a quello dello sfruttamento economico. Quest’ultimo si
trasforma e diventa un aspetto particolare della dominazione sociale e culturale.
Una volta il tema centrale della lotta operaia era la coscienza del produttore che
si sentiva espropriato di una parte delle ricchezze che egli creava Oggi l’operaio
si sente manipolato da un sistema sempre più denso di costrizioni: i ritmi, gli
orari, il rumore. È per questo fatto che gli OS che non partecipavano attivamente
alla difesa dei « produttori » sono adesso in prima fila nelle nuove lotte.
ACTUEL Questo per quanto riguarda i protagonisti. Ma quale è la posta in
gioco, se non si tratta più soltanto del potere politico o del potere nell’impresa:
l’autogestione generalizzata?
ALAIN TOURAINE La parola resta carica di confusione. Esprime
cionondimeno abbastanza bene quella che è la sola rivendicazione da
contrapporsi al potere moderno. In una società che è ciò che essa fa, la massa dei
dominanti aspira a fare ciò che essa è, cioè trovare un’autonomia di
decisione attraverso una comunicazione fra gli stessi interessati, al riparo dalla
retorica degli apparati.
È la rivendicazione di una nuova collettività assunta direttamente. Un tempo,
il collettivo era un dato. Il villaggio contadino, il quartiere di Siena, il faubourg
Saint-Antoine, il gruppo operaio e la sua cultura forgiavano ed inquadravano i
gruppi sociali fin dalla loro origine. La società post-industriale ha disperso gli
individui mettendoli alla mercé delle manipolazioni e del cambiamento: questa è
la vera proletarizzazione di oggigiorno, così come il suo contrario, la volontà di
ritrovare una collettività e di controllarla, nella città, nel lavoro,
nell’informazione, nella vita quotidiana... In seno ad un sistema che spezza i
rapporti sociali elementari, non resta altro, al limite, che un Io isolato. Non è
forse un caso se i movimenti più vigorosi di questi ultimi anni hanno avuto una
base quasi biologica — la gioventù, la razza, le donne — come se questa identità
restasse l’unico bene e l’unico legame che non è stato ancora loro tolto
dall’apparato.
ACTUEL Come valuta all’interno di questa analisi quelli che si chiamano i
movimenti « underground » o la contro-cultura?
ALAIN TOURAINE Attenzione: qui tutto non dipende da un conflitto
sociale. Le nostre società sono contraddittoriamente delle società di investimento
e di consumo. Valorizzano la scienza, la tecnologia, la produttività, la
conoscenza, la gestione dei sistemi ed altresì il consumo, fino a quello che è il
suo aspetto più intenso: l’espressione. Questa situazione ingenera ad ogni istante
una sorta di esplosione: è l’utopia. L’utopia sorge allorquando una categoria
sociale si identifica con una parte dell’orientamento culturale, la generalizza e la
magnifica. L’utopia tecnocratica si racchiude nella nozione di progresso tecnico
e l’idealizza. L’utopia contraria consiste nell’identificarsi con l’espressione, con
una certa idea della natura rappresentata dal pensiero ecologico, nel
rinchiudersi in un mondo in cui — al contrario del mondo dominante —
la totalità delle risorse umane si mobiliterebbe per mantenere gli equilibri interni
della società o del pianeta. Nelle comunità che conosciamo da poco, tutta
l’energia viene dispensata nello sforzo di vivere insieme e la comunità, come un
tempo i conventi, si esaurisce semplicemente nel fatto di costituirsi e di
mantenersi tale, senza alcuna azione sull’esterno.
L’esperienza comunitaria è importante, ma è neutra nei confronti dei rapporti
di dominazione sociale. Non bisogna confondere crisi culturale e conflitto
sociale. Come il romanticismo del 1830, politicamente a destra, socialmente
contraddittorio, l’underground inteso nel senso ampio resta politicamente e
socialmente indeterminato. Può servire alle forme nascenti dei conflitti sociali
futuri o, al contrario, può mascherarli e distogliere i loro protagonisti più
radicali: funzionare cioè come un rivelatore o come un alibi.
ACTUEL Come può affermare che esiste una neutralità in politica o in
sociologia, e negare ogni forza di impatto ad un movimento e a degli individui?
ALAIN TOURAINE Non dico che questo movimento non conti nulla, così
come non contesto la forza o l’influenza del romanticismo. Ma bisogna
ammettere che il romanticismo non ha niente a che vedere con il conflitto sociale
del xix secolo — salariati contro padronato — senza che con ciò si voglia
tuttavia ridurre l’insieme delle manifestazioni della vita sociale del xix secolo al
fronteggiarsi dei capitalisti e degli operai. La questione che si pone in ogni
situazione è quella dei rapporti fra crisi culturale e conflitti sociale. Non
contrapporrò mai così nettamente come nel 1968 la Sorbona a Nanterre, la vanità
arcaica della crisi culturale all’interesse per il conflitto sociale. La crisi e la
rivolta culturale sono in se stesse diventate un fenomeno sociale di capitale
importanza. Ma io non posso fare astrazione dalla loro indeterminatezza
originaria.
Il conflitto sociale non può collocarsi totalmente al di fuori del sistema. Esso
presuppone, come si è visto poco fa, che esista aspirazione e ricacciamento: che
il consumo di massa sia una realtà, ma vissuta come una frustrazione,
la possibilità di consumare come l’impossibilità di concorrere alla creazione
culturale, la manipolazione e l’integrazione come una non-partecipazione ed una
solitudine. Esso presuppone soprattutto non il rifiuto dell’ordine tecnocratico,
bensì la sua contestazione, il farsi carico dei mezzi d’azione che la società ha su
se stessa, nell’interesse del popolo.
Questa risposta non può essere sufficiente. Non è una spiegazione. In che
cosa consistono esattamente oggi i rapporti di classe? Quali sono la o le classi in
formazione dominate dalla nuova classe dirigente? Incominciamo a percepire la
posta in gioco e l’agitarsi dei primi protagonisti, ma ancora non abbiamo la
risposta. Non esiste alcun motivo per pensare che le rivolte originarie ci diano
immediatamente l’immagine preformata di un movimento sociale che
non avrebbe più altro da fare che preservare se stesso nel suo essere. Siamo
ancora in un momento in cui la pratica deve predominare sull’analisi. Ecco
perché, per impazienza, vi sono tante ideologie e tante utopie.

ACTUEL 1830?



1 Michel Crozier, autore di Il fenomeno burocratico, 1969, Milano, Etas

Kompass, « Scienze politiche e sociali », del Monde des employés de bureau e


della Société bloquée (ed. Le Seuil).
2 Manteniamo l'espressione letterale per l’evidente reminiscenza marxiana

(NdT),
Charles Fourier






Nato da un padre negoziante di tessuti e da una signorina Muguet, rigido e
manierato come un notaio di borgata in provincia, strangolato di dignità da una
lunga cravatta bianca, Cnarles Fourier non ha la faccia dei suoi pensieri. E
tuttavia indoviniamo sotto quella fronte larga come una penisola tutto un mondo
agitato di amarezza e di gioia, superba cosmogonia in cui l'anti-leone
dall’affettuosa zampa felpata convive con il cornuto o il portatore di corna, il
bancarottiere pasticcione, le giovincelle fragolaie e le piccole orde addette ai
lavori ripugnanti.
Un triste inizio della vita: una madre imbecille e bigotta che pratica più
volentieri la sculacciata che non le belle lettere, un padre che troneggia nella
boutique così come nel tribunale di commercio di Besançon, il giovane
Charles recalcitra fin dall’infanzia: « A sette anni feci il giuramento che
Annibaie fece a nove contro Roma: giurai odio eterno al commercio ». Un
ceffone. Ed alcuni anni di latino in collegio. Bisognerà rimettercelo tre volte per
poterlo buttare finalmente negli affari, commesso viaggiatore di un negoziante
lionese nella Francia rivoluzionaria del 1789. Se ben presto eredita da suo padre
devotamente e prematuramente scomparso, è per investire il peculio in qualche
speculazione di cotone e di riso, ahimè requisiti dagli insorti realisti di Lione che
lo arruolano a forza. Rovinato, prigioniero della Convenzione, sfugge alla
ghigliottina solo per ritrovarsi, questa volta soldato rivoluzionario, nell’8°
reggimento dei cacciatori a cavallo, e per tre anni. Finalmente riformato, corre a
Parigi a proporre al Direttore gli innumerevoli piani di modernizzazione che ha
concepito nelle lunghe serate di bivacco sugli argomenti più diversi. Messo
educatamente alla porta, ritrova il suo punto di partenza tanto disprezzato: un
posto di viaggiatore di commercio. Una grande collera lo prende contro queste
rivoluzioni borghesi che tagliano le teste per mantenere il matrimonio ed il
commercio. E come imporre con la violenza una società priva della costrizione?
Mediatore non autorizzato, impiegato di municipio, contabile, cassiere,
Fourier si mette in una doppia vita: lo stare a tu per tu con i campionari di
tessuto o gli orari di ufficio, e un sognare potente e preciso sulla società futura.
Nei momenti liberi dal commercio, scrive pamplets, articoli e trattati che
sviluppano il suo grande sistema: La Théorie des quatres mouvements, Le
nouveau Monde industriel et sociétaire, Le nouveau Monde amoreux, La théorie
de l’unité universelle 1... lotta contro la civiltà, liberazione del desiderio ed
esaltazione del falansterio: comunità esemplare, quest’ultimo, in cui il lavoro si
svolge in gioco nell’utilizzazione di tutte le competenze, nella fine delle
costrizioni e dei ruoli specializzati. Visionario ma non teorico, vuole che i
suoi scritti siano « pratici », e la profuzione di dettagli che dà sul falansterio sa
più del reportage immaginario che non del progetto politico. Al diavolo le
riforme dell’economia e del potere: si tratta al contrario di una piccola
rivoluzione culturale: « Dimenticare ciò che abbiamo imparato, riprendere le
nostre idee all’origine, e rifare l’intelletto umano ». Newton non era che un
gattino cieco: Fourier scopre il movimento universale delle attrazioni della
natura e dell’uomo verso l’unità e l’armonia. « Io solo avrei mescolato
venti secoli di imbecillità politica, ed è soltanto a me che le generazioni presenti
e future dovranno l’iniziativa della loro immensa felicità. Prima di me, l’umanità
ha perso diverse migliaia di anni per lottare follemente contro la natura. Io, per
primo, mi sono piegato dinanzi ad essa studiando l’attrazione, strumento dei suoi
decreti. Essa si è degnata di sorridere all’unico mortale che l’abbia incensata, mi
ha affidato tutti i suoi tesori. Possessore del libro dei destini, io vengo per
dissipare le tenebre politiche e morali, e, sulle rovine delle scienze incerte, io
innalzo la teoria dell’armonia universale ». C’è tutto: le comunità, l’ecologia e la
gastronomia gaudente, la liberazione della donna, l’eliminazione dei divieti
sessuali, il surrealismo ed un approvcio dell’inconscio in una generosità prolissa,
liberale e libertaria; c’è tutto, ed anche un po’ di più: anche una buona dose
di conformismo, perfino una nera reazione nel cuore stesso della sovversione:
l’antisemitismo innanzitutto, e quella credenza che la nuova società avrà come
l’antica i suoi ricchi, i suoi poveri e i suoi re.
Così va l’uomo Faurier: dalle mezze maniche alle liberazioni epiche, dal
profetismo ai pranzi raffinati, dalle bettole agli amori venali. Un piccolo gruppo
ormai lo circonda, che sguazza nell’eccitazione intellettuale di questa fine-
regno di Luigi Filippo, distribuisce dappertutto i suoi giornali e libelli e non
sfugge sempre alle dispute gruppuscolari dei socialismi nascenti. Ma la realtà è
ingrata e i discepoli infedeli. Quando questi creano un primo falansterio, nel
1832 a Condé-sur-Vesgre, Fourier li sconfessa: sfiducia negli uomini o reticenza
ultima dinanzi a quella sperimentazione fino ad allora tanto desiderata? Allora
comincia il vero tradimento dei discepoli che temono la lubricità del maestro,
ed amputano la teoria sociale del suo radicalismo e di ogni volontà di esplosione
sessuale. Fourier si ritiene irrimediabilmente incompreso quando muore nel 1837
e, settatori mistici contro laici, si litigherà anche davanti al suo catafalco.
Per più di un mezzo secolo, nasceranno tuttavia falansteri qua e là, che
Fourier avrebbe giudicati, quasi tutti, un po’ troppo saggi. In Romania, una
comune di quattrocento famiglie contadine verrà dispersa dopo resistenza
armata. Fra il 1845 ed il 1860, dal Massachussets al Wisconsin, una trentina di
esperimenti societari si sparpagliano negli Stati Uniti. La tradizione prosegue
fino alla Comune di Parigi, prima che i pesanti omaggi del « socialismo
scientifico » ne facciano una icona ingenua nel Pantheon pre-rivoluzionario. Era
parlare troppo presto e troppo affrettatamente. Charles Fourier ha ancora molte
cose da dirci.

ACTUEL Charles Fourier, sebbene lei sia nato nel 1772 e morto nel 1837, lei
resta il più contemporaneo degli utopisti. Ma la stampa borghese l’accusa
volentieri di uno stile ridondante e di un pensiero complesso. Potrebbe
confondere i calunniatori e definire in due frasi i fondamenti della sua teoria? Si
tratta appunto di sesso?
CHARLES FOURIER Io annuncio l’avvento di una società insaziabile e che,
provvista di mezzi inconcepibili nell’ordine attuale, saprà ricavare delle perle da
quel letamaio passionale che si chiama Civiltà, dal momento che essa agirà
su quelle stesse passioni che ingenerano in noi tante infamie. Non si tratta di
cambiare le passioni, ma di cambiare il loro corso, le loro vie di uscita trovando
un mezzo per utilizzare i gusti, anche immondi, che la natura ci dona.
ACTUEL Non si possono comunque lasciare in libertà dei pericolosi
maniaci?
CHARLES FOURIER Non esistono passioni viziose, esistono soltanto
viziosi svolgimenti.
ACTUEL Parliamone! Lei non rischia di favorire il libero corso delle
perversioni sessuali? La maggior parte dei gruppi gauchistes obiettano che lo
scatenamento delle passioni libidinose costituisce un’irragionevole perdita di
energia ed una smobilitazione di fronte alla classe dominante...
CHARLES FOURIER Ciò che fa piacere a diverse persone e che non porta
pregiudizio ad alcuna di esse è sempre un bene, sul quale è doveroso speculare
in Armonia, dove è necessario variare i piaceri all’infinito. Si speculerà
dunque sulle innumerevoli manie lubriche, ed invece di farsi beffe delle manie di
ciascuno, ci si applicherà ad incoraggiarle e ad associarle per gruppi. Si
dimentica che l’amore è la sfera dell’irragionevolezza, e che, più una cosa è
irragionevole, meglio esso si allea con l’amore. Sotto questo rapporto, le
manie gli convengono eminentemente e, in Armonia, dove esse saranno di alta
utilità, verranno provocate metodicamente fra la gioventù che oggi le sdegna
perché vengono ridicolizzate, per l’impossibilità di farne uso.
ACTUEL Non pretenderà anche che la vita di famiglia costituisca in modo
puro e semplice un germe di falsità e di cattivi costumi?
CHARLES FOURIER Sì. La vita della famiglia civilizzata snatura tutti i
caratteri, spinge al crimine i tre quarti della popolazione, immerge l’altro quarto
in un labirinto di visi obbligati o speculativi, o nascosti. Per parlar chiaro, il
volersi bene in famiglia, in regime di civiltà, spinge i padri a desiderare la morte
dei figli, ed i figli a desiderare la morte dei padri. È molto peggio che con i
parenti collaterali: si potrebbe immaginare un risultato più infame?
ACTUEL Ma le sue orge passionali non sembrano somigliare
maledettamente a quelle borghesi?
CHARLES FOURIER Alcune persone civilizzate, molto materiali,
vorrebbero limitare alle parti per bene le loro ricerche e pretendono che questo
intruglio sia per loro ampiamente sufficiente. È necessario dimostrare che la
concupiscenza, l’orgia amorosa, la comunità delle donne e degli uomini è il
sentiero della morale naturale? Senza eccezione alcuna, nel mondo attuale, si
cade nel dispotismo in politica e nella monotonia nel piacere. Ma nessuna
presupposta normalità deve venire ad imbrigliare le possibilità erotiche
del corpo. In Armonia, gli individui valgono più, gli uni per gli altri, per le loro
differenze che non per quanto essi possiedono in comune. Non esiste dunque
maggiore giustizia verso gli altri che andare, se stessi, fino alla fine del proprio
desiderio e realizzare le proprie peculiarità più segrete. L’orgia ci ricollega con la
felice fase orale dell’umanità, dà accesso all’integrità della natura ed alla
coesione delle forze sotterranee che tengono realmente unite tutte le cose.
La libera sessualità è una passione potente e preziosa, dal momento che essa
permette anche di fuggire i propri limiti.
ACTUEL La sua teoria contempla una liberazione della donna?
CHARLES FOURIER Come tesi generale, i progressi sociali ed i
cambiamenti di periodi si compiono nella misura del grado di progresso delle
donne verso la libertà, ed i decadimenti di ordine sociale si compiono nella
misura del decrescere delle libertà delle donne. È sulle donne che la civiltà pesa.
Era compito delle donne attaccarla. Si può forse vedere un’ombra di giustizia
nella sorte che è loro riservata? La ragazza non è forse una merce esposta in
vendita a chi vuol negoziare l’acquisto e la proprietà esclusiva? Il consenso che
essa dà al legame coniugale non è forse derisorio e forzato dalla tirannia dei
pregiudizi che l’ossessionano fin dall’infanzia? La si vuol persuadere di portare
delle catene intessute di fiori; ma può farsi illusioni sul suo avvilimento, anche
nelle regioni magniloquenti nella filosofia, come l’Inghilterra, in cui gli uomini
godono del diritto di portare la loro donna al mercato, con la corda al collo, e di
cederla come una bestia da soma a chi vuole pagarne il prezzo? Su questo punto
possiamo forse dire che il nostro spirito pubblico sia più avanzato che in quei
secoli barbari in cui un certo concilio di Mâcon, autentico concilio di vandali,
mise in deliberazione se le donne avessero un’anima? E l’affermativa passò
soltanto con una maggioranza di tre voti.
ACTUEL Lei è il cognato del gastronomo Brillat-Savarin, ed ha sviluppato
una teoria passionale del mangiar bene, la gastrosofia. Questa passione le sembra
conciliabile con la sua concezione della sessualità?
CHARLES FOURIER Un coito moderato prima dei pasti favorisce
l’appetito e la digestione.
ACTUEL Quali specie di giochi sessuali proporrebbe per raggiungere quelle
estasi che preconizza?
CHARLES FOURIER Le possibilità lussuriose sono illimitate. Fra le altre
raffinatezze, io raccomando il « coadjurariat » che consiste, per gli uomini,
nell’intromettersi ad aiutare i piaceri saffici e per le donne nell’intromettersi
per favorire i piaceri pederasti; i concili gastrosofici nel corso dei quali un
areopago delibera solennemente su delle complicate presentazioni dei piatti
secondo dei criteri di degustazione; il manierismo di Armonia il cui postulato è
favorire lo svolgimento estatico delle manie lubriche di ciascuno; i semi-
baccanali di preludio a lavori collettivi colossali di lungo respiro...
ACTUEL Che cosa intende dire con questo?
CHARLES FOURIER Questi semi-baccanali farebbero da pendant ai
comitati di fate, a cui è attribuito il diritto periodico di assegnare secondo la
simpatia dei soci che visibilmente si adattano reciprocamente per assortirli
galantemente. Al segnale dato dalla bacchetta della fata, ci si getta in un mezzo
baccanale. Le due schiere si precipitano l’una nelle braccia dell’altra, la mischia
è generale e ciascuno riceve e distribuisce confusamente le carezze, e ciascuno
percorre le forme che gli capitano sotto le mani e si abbandona agli spontanei
impulsi della semplice natura. Si svolazza dall’uno all’altro. Si baciano le
formosità di tutti i campioni, attori dall’uno all’altro. Si baciano le formosità di
tutti i campioni, attori o attrici, con altrettanta sollecitudine quanta celerità. Si
cerca di visitare, nella mischia, tutti i personaggi sui quali si è fissata l’attenzione
precedentemente.
ACTUEL Lei pretende che la cosa sia del tutto diversa per quanto riguarda
gli amori inciviliti, ai quali lei dà come orizzonte più sicuro le corna le quali, a
ben analizzarle, sono forse altrettanto ridicole nel borghese che nel militante.
CHARLES FOURIER Avete ragione. Io mi sono in special modo dedicato
allo studio di questo delicato problema. Si possono distinguere nel mondo
cornuto nove gradi di cornificazione, si fra gli uomini che fra le donne. Mi
limiterò a citare le tre classi più distinte, e cioè: la destra, dei becchi contenti; il
centro dei cornuti propriamente detti, la sinistra dei becchi e bastonati. Il quadro
completo ne contiene sessantaquattro specie progressivamente distribuite in
classi, ordini e generi, a partire dal cornuto in erba fino al cornuto postumo. Ne
descriverò qui soltanto tre specie, volendo su questo argomento, come su tanti
altri, sondare quali sviluppi mi converrà dare alla mia opera. Il cornuto è un
geloso onorevole che ignora la sua disgrazia e si crede il solo possessore di sua
moglie. Il becco contento è un marito sazio degli amori domestici e che, volendo
prendersi altrove i suoi trastulli, chiude gli occhi sulla condotta di sua moglie
e l’abbandona senza esitazione ai suoi amanti. Il becco e bastonato è un geloso
ridicolo, sconveniente per la sua sposa, e ben informato della sua infedeltà; è un
furioso che vuole ribellarsi contro la sentenza del destino, ma che, resistendo in
modo maldestro, diventa oggetto di scherno per le sue inutili precauzioni, per la
sua collera e il fragore delle sue grida. E poi, bisognerebbe parlarvi dei becchi
contenti di grado superiore, undici categorie, delle specie graziose e giovanili,
cornuti brilli che se ne infischiano e si prendono la rivincita, oppure delle specie
attive, come il cornuto della staffa, o ancora il girevole, ordine cinquantesimo,
nove specie in tre generi, un cornuto trascendente, come il super-tattico che
prende una moglie molto carina e di gran classe, poco fortunata, ma che sa farla
valere, o, sempre nello stesso ordine, il cornuto federale, o reciproco, il cornuto
per servizi...
ACTUEL Ci scusi se la interrompiamo, ma veniamo alla parte più
sociologica della sua opera. Lei è considerato come uno dei primi teorici
moderni della vita comunitaria: come si può definire il suo falansterio?
CHARLES FOURIER Supporremo che il tentativo venga compiuto da un
sovrano o da un privato opulento... o infine da una potente compagnia di
persone, che vorrebbe evitare i brancolamenti e organizzare di un sol colpo la
grande Armonia, l’ottavo periodo in pienezza. Indicherò il cammino da seguire
in un simile caso. Occorre, innanzitutto, un terreno contenente un’abbondante
lega quadrata, che il paese sia provvisto di un bel corso d’acqua, che sia spezzato
da colline e adatto a culture svariate, che si trovi addossato ad una foresta e poco
lontano da una grande città, ma lontano abbastanza per evitare gli importuni. Si
metteranno insieme dalle mille e cinquecento alle mille e seicento persone
caratterizzate da una disuguaglianza graduata nelle fortune, nelle età e nei
caratteri, nelle conoscenze teoriche e pratiche; in questa riunione si combinerà
insieme la più grande varietà possibile; infatti più esisteranno varietà nelle
passioni e nelle facoltà qualsiasi dei soci, più sarà facile armonizzarle in poco
tempo.
ACTUEL Contrariamente a quanto strombazzano certi suoi discepoli
gauchistes del giorno d’oggi, lei ci appare qui come molto poco egualitario...
CHARLES FOURIER L’uguaglianza? È un veleno politico
nell’associazione. Il regime societario è altrettanto incompatibile con
l’uguaglianza di fortune che con l’uniformità di carattere; esso vuole in tutti i
sensi la scala progressiva, la più grande varietà di funzioni, e soprattutto la
raccolta di contrasti esterni, come quello dell’uomo opulento insieme all’uomo
privo di fortuna, del carattere bollente con l’apatico, del giovane col vecchio,
ecc.
ACTUEL Qui la riconosciamo bene, Charles Fourier: muovendo da un
quadro tradizionale, quasi conservatore, lei elabora una profetica concezione
della vita collettiva. In particolare in materia di urbanistica e di architettura...
CHARLES FOURIER Infatti, le strade-gallerie dei miei falansteri sono un
metodo di comunicazione interna che basterebbe da sola a far disdegnare i
palazzi e le belle città della civiltà. Chiunque avrà visto le strade-gallerie di
una falange troverà il più bel palazzo civilizzato come un luogo di esilio, un
maniero di idioti che, in tremila anni di studi sull’architettura, non hanno ancora
imparato ad alloggiarsi in modo sano e comodo... Il centro del palazzo o
falansterio deve essere adibito alle funzioni tranquille, alle sale da pranzo, a
quelle per la borsa, del consiglio, per la biblioteca, per lo studio, ecc. In questo
centro, sono posti il tempio, la torre per l’ordine interno, il telegrafo, i piccioni
per la corrispondenza, il carillon da cerimonia, l’osservatorio, il cortile d’inverno
ornato di piante resinose e posta all’indietro al cortile d’onore. Una delle ali deve
riunire tutte le officine rumorose, come la carpenteria, la fucina, il lavoro al
martello; e deve anche contenere tutte le riunioni di bambini per i loro lavori,
che sono comunemente rumorosi sia nel lavoro ed anche nella musica...
ACTUEL I suoi falansteri non avranno dei parassiti irrimediabilmente
improduttivi, dato che essi comporteranno necessariamente l’esistenza dei pigri?
CHARLES FOURIER Non esistono bambini pigri, anche nell’epoca della
civiltà. Sono tutti dei lavoratori infaticabili quando vengono presi dalla fantasia.
Guardateli nelle loro nobili spedizioni che essi chiamano scherzi, quando vanno
a rompere i vetri, a suonare i campanelli, a demolire un muro, a sradicare delle
palizzate, ecc. Lavorano come maniaci. E chi è quello che si dà da fare con più
ardore? È il più piccolo, tutto fiero di essere ammesso a fare degli scherzi con
quelli più grandi di lui. In questi casi, quei diavoletti sfidano i rigori dell’inverno
e le fatiche, ed i pericoli del lavoro, dal momento che questo preteso scherzo è
un vero e proprio lavoro. Non produce alcun piacere sensitivo; anzi, essi
rischiano botte di tutti i generi, sia da parte di coloro che li prendono sul fatto,
sia da parte dei pedanti a cui vanno a dar noia. Ma l’attrattiva passionale li
spingeva, e quando essa ispira un gruppo di fanciulli, fa di loro dei
lavoratori molto più ardenti degli uomini fatti, ed il loro ardore è altrettanto
grande per edificare che per distruggere. Li si vedono spesso fare sforzi
prodigiosi per costruire una diga di ciottoli di traverso ad un ruscello, e costruire
un piccolo mulino di legno all’estremità della diga.
ACTUEL Come regolare allora il problema della scuola?
CHARLES FOURIER II bambino ha bisogno di andare nella bella stagione a
lavorare nei giardini, nei boschi, nei prati; deve studiare solo nei giorni piovosi e
di stagione morta, e deve inoltre variare i propri studi.
Una società che commette l’errore di imprigionare i padri dentro a degli
uffici, può anche aggiungere la stupidità di rinchiudere il bambino tutto l’anno in
un pensionato in cui egli viene annoiato in uguale misura dallo studio e dai
maestri. I nostri autori politici e morali parlano in continuazione della natura ma
non vogliono consultarla un solo momento: osservino i bambini in vacanza,
quando nel numero di una mezza dozzina, vestiti di bluse, vanno a rotolarsi nel
fieno, ad intromettersi giocosamente nelle vendemmie, nelle raccolte delle noci,
della frutta, nella caccia agli uccelli, ecc.; si cerchi in un simile momento di
offrire a questi bambini di studiare i rudimenti, e si potrà giudicare se la natura
del bambino è tale da essere rinchiusa tutto il giorno durante la bella stagione,
con un contorno di libri e di pedanti.
ACTUEL Per quanto lo sospettiamo in anticipo, che cosa pensa. Charles
Fourier, della dittatura del proletariato?
CHARLES FOURIER Se noi ci priviamo oggi per godere domani, la felicità
non è integrale e continua. Questa prudenza che si sacrifica per l’avvenire è una
saggezza divergente, una guerra dell’avvenire contro il presente. La saggezza
nell’ordine societario diventa convergente; essa non esige dall’uomo altro se non
che egli si diverta oggi senza pensare all’indomani, a meno che questa cura non
presenti per lui del fascino. Questa inquietudine gli sarà del resto inutile
nello stato societario, dal momento che, anche credendo di aver soltanto atteso ai
suoi piaceri presenti, egli avrà, come l’ape, lavorato per il futuro.
ACTUEL Sono altri, ahimè, quelli che lavorano per il presente: penso a
quegli scandali, a quella speculazione, a quella corruzione che rattristano la
nostra vita pubblica.
CHARLES FOURIER Sembra che un grande impero come la Francia, che
ogni anno produce quell’enorme massa di teorie morali, avrebbe potuto dare alla
luce un trattatello speciale sulla bancarotta e sulla corruzione che essa diffonde
nei costumi. Ma i bancarottieri sono ricchi, ed allora la setta morale è cieca sui
loro brigantaggi. Godranno tranquillamente dell’impunità senza che i moralisti
battano ciglio. E poi questi sapienti hanno l’impertinenza di declamare contro il
vizio; che cosa intendono dunque per vizio se la bancarotta è esclusa dalle loro
incriminazioni? Diteci, o moralisti, qual è la classe di ladroni più degna del
patibolo? Il ladro del pubblico denaro? oppure il brigante di strada? Ma un
Tartufo che inganna la probità per alcuni anni per usurpare la fiducia ed attirare
nelle sua mani i risparmi di molte famiglie, e che spia l’istante del fallimento, del
venir meno per spogliare legalmente le sue vittime, sottrarsi per qualche giorno
all’indignazione pubblica, per poi sfoggiare ben presto il suo lusso sotto la
protezione delle leggi, non è forse a un brigante di questo genere che bisogna
riservare i supplizi?
ACTUEL Tristi tempi!
CHARLES FOURIER Eh sì! Oggi che la ragione è perfezionata, i filosofi
incensano soltanto il denaro. La vera gloria, la vera grandezza per una nazione
consiste nel fatto di vendere ai suoi vicini più calzoni di quanti ne comperi da
essi. I begli spiriti del nostro secolo sono quelli che ci insegnano perché gli
zuccheri si sono indeboliti e perché i saponi hanno avuto una flessione, perché il
cambio si è abbassato e la Borsa è salita. Ë per una questione di zucchero e di
caffè che Luigi, la sua famiglia e l’élite dei Francesi sono saliti sulla ghigliottina.
ACTUEL Signor Fourier, come vede l’evoluzione del mondo nel corso dei
prossimi decenni? Qual è il suo canovaccio, per usare l’espressione di moda
presso i futurologi?
CHARLES FOURIER II cavallo sarà lasciato per il tiro e per le parate,
quando si possiederà la famiglia dei portatori elastici, antileoni, anti-tigri, anti-
leopardi, che saranno di dimensioni tripla della grandezza attuale. Così un anti-
leone supererà facilmente ad ogni passo quattro tese a balzi radenti, ed il
cavaliere, sul dorso delcorridore, starà con tanta mollezza quanto sopra una
berlina molleggiata. Sarà piacevole abitare questo mondo, quando si potrà
usufruire di simili servitori.
Le nuove creazioni che si potranno veder cominciare fra cinque anni daranno
a profusione tali e tante ricchezze in tutti i regni, nei mari così come sulle terre.
Invece di creare balene e pescicani, ippopotami e coccodrilli, sarebbe
forse costato di più creare dei preziosi servitori:
Anti-balene per trascinare i vascelli durante le bonacce;
Anti-pescicani per aiutare a braccare il pesce;
Anti-ippopotami per trascinare i battelli sui fiumi;
Anti-coccodrilli o cooperatori nei fiumi;
Anti-foche o cavalcature di mare?
Tutti questi brillanti prodotti saranno gli effetti necessari di una creazione in
aromi contro-fusi, che avrà inizio con un bagno aromale sferico che purgherà i
mari del loro bitume.
I grandi avvenimenti che hanno segnato la fine del xviii secolo non sono che
bagatelle in confronto a quelli che si preparano. L’Europa volge verso una
catastrofe che causerà una guerra spaventosa, e che si concluderà con la pace
perpetua 2.



1 Charles Fourier, Teoria dei quattro movimenti, il nuovo mondo amoroso e

altri scritti sul lavoro, l'educazione, l’architettura nella società di Armonia,


Torino, 1971, Einaudi, « Nuova universale Einaudi ».
2 Le affermazioni di Fourier qui raccolte sono rigorosamente autentiche e

tratte dalle Oeuvres complètes pubblicate da Anthropos, oltre che dal Nouveau
Monde amoureux (edizione messa a punto da Simone Debout) pubblicata
anch’essa da Anthropos - che noi ringraziamo qui per la sua gentilezza.

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