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Saggi Tascabili Laterza

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Pier Luigi Bersani

Per una buona ragione


Intervista a cura di
Miguel Gotor e Claudio Sardo

Editori Laterza
© 2011, Gius. Laterza & Figli

Prima edizione 2011

www.laterza.it

Questo libro è stampato


su carta amica delle foreste, certificata
dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa,
Roma-Bari
Finito di stampare
nel marzo 2011
SEDIT - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-420-9689-4
Per una buona ragione
Prologo
UN SOGNO CON LE GAMBE PER CAMMINARE

D.  Onorevole Pier Luigi Bersani, forse è opportuno co-


minciare la nostra conversazione dalle ragioni che l’hanno
convinta ad accettare l’impegno di questo libro-intervista.
In un primo momento lei ci è sembrato perplesso. Per quale
motivo?

R.  Avevo una remora verso l’idea di scrivere un libro


perché ho sempre pensato che per un politico l’umiltà di
leggere dovesse prevalere sulla presunzione di scrivere.
La formula dell’intervista lunga mi è sembrata una buona
mediazione, e per me anche un’occasione di confronto dal
momento che la conversazione è affidata al filtro delle vo-
stre sensibilità. Ma la spinta decisiva ad accettare è venuta
dalla convinzione che stiamo attraversando un passaggio
cruciale della vita italiana, in cui la crisi di sistema, politica
ma anche culturale e civile, si somma a una delle più gravi
crisi finanziarie globali, destinata ad accelerare ulterior-
mente i mutamenti delle gerarchie mondiali. Una stagione
italiana si sta concludendo. Aveva offerto sogni e promesso
libertà: alla fine è stata drammaticamente inconcludente e
ha lasciato il Paese più debole e smarrito di prima. I suoi
ritardi strutturali si sono aggravati, molte energie sono sta-
te consumate, tante, troppe tensioni si sono scaricate sulle
istituzioni. C’è il rischio che un vuoto di politica contagi le
stesse prospettive sociali e civili e che la sfiducia prevalga
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sulla ricerca necessaria, vitale di una strada nuova. L’Italia
dispone di grandi risorse: sociali, imprenditoriali, intellet-
tuali, civili, etiche. E ognuno deve dare il meglio di sé per
contribuire a costruire la nuova stagione. Vorrei provare a
mettere a disposizione le buone idee del Pd e a trasmettere
una tensione ideale senza la quale sfugge la visione di insie-
me, il senso di marcia. La politica ha un nesso inscindibile
con il pensiero. Forse si è dimenticato che non è soltanto
comunicazione.

D.  Eppure molti sostengono che il principale problema del


Pd stia nella sua narrazione debole, incapace di mobilitare
speranze e passioni. E spesso proprio su questa base si fonda-
no le accuse più severe, che provengono dall’interno del par-
tito oppure da ceti tradizionalmente legati al centrosinistra.
Si tratta di un problema di identità politica o di trasmissione
del messaggio?

R.  Si parla tanto di narrazione. Ma è una parola che non


mi soddisfa. Mi riporta alle favole. Mi sembra che abbia a
che fare con qualcosa di non autentico e comunque lon-
tano dalla realtà. Preferisco restare all’antico detto rem
tene, verba sequentur: se possiedi i contenuti, le parole
verranno di conseguenza. Solo se le parole hanno una
solidità e una base concreta, non diventeranno foglie al
vento. Con ciò naturalmente non intendo sostenere che
sia poco importante comunicare al meglio i propri con-
tenuti e che il Pd o l’intero centrosinistra non abbiano
qualche problema in tal senso. Questi problemi vanno
affrontati con umiltà e serietà, anche se ritengo che siamo
più avanti nei lavori di quanto non venga percepito. Ma
la questione centrale resta quella di mobilitare le speranze
e le passioni attorno a un progetto concreto per il Paese,
sorretto dalla forza e dalla credibilità di quanti possono
realisticamente realizzarlo. Viviamo nella società della co-
municazione, ma la comunicazione non si riduce a mera
tecnica persuasiva. Prima ancora è mediazione culturale,

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è la capacità di restituire una visione in grado di incarnarsi
in un progetto.

D.  Nella campagna elettorale delle primarie, lei disse che


bisognava «dare un senso a questa storia». Stava parlando,
appunto, di offrire una visione e un progetto al Partito de-
mocratico. Pensa che l’impresa stia riuscendo?

R.  La nostra buona ragione è l’Italia. Non il partito, che


certamente dobbiamo rendere più robusto e funzionale
al progetto di cambiamento, ma che al fondo – lo dico da
affezionato della ditta – resta uno strumento. La nostra
buona ragione è il futuro del Paese e delle nuove genera-
zioni, è l’innovazione legata ai valori di solidarietà, è una
visione umanistica, capace di tenere insieme il concetto di
democrazia con quello di uguaglianza. Penso che la nostra
ragione si stia facendo strada. E che si percepisca il senso
dei nostri sforzi: cercare una sintesi tra antiche culture ri-
formiste che si erano a lungo contrapposte, metterle in co-
municazione con nuove istanze e nuove culture, costruire
un partito originale, portare in Europa la nostra esperien-
za, dare finalmente prospettiva e stabilità a una politica
riformista che in Italia è sempre stata minoritaria. Vorrei
che fosse il filo rosso della nostra conversazione, perché è
tempo di pensare e costruire l’Italia oltre Berlusconi.

D.  Andare «oltre Berlusconi» può diventare un orizzonte


progettuale, ma anche essere solo uno slogan, destinato a
rimanere un semplice auspicio. Resta il fatto che, in questi
anni, gli oppositori di Berlusconi hanno assunto non pochi
dei caratteri e della filosofia dominanti. Cosa pensa di questo
processo?

R.  Questi sono stati anni in cui abbiamo sofferto la pre-


valenza culturale della destra liberista e del berlusconismo.
In particolare si è affermata l’idea di una politica affida-
ta al leader, semplificata perché delegata, concepita come
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un’arena di tifosi, giocata al più in una ristretta oligarchia di
capi. L’«uomo solo al comando» è stato lo schema e il me-
todo presentato come soluzione della complessa equazione
italiana. Ma intanto la crescente esposizione mediatica della
politica si è combinata a una gigantesca concentrazione di
poteri in un solo uomo e ha finito per produrre un perico-
loso esito populista e plebiscitario. Sarebbe ora un’illusio-
ne immaginare che le forze progressiste possano concepire
un progetto alternativo, assumendo questi canoni come
immutabili. Sarebbe un’illusione e anche una rinuncia. Il
risveglio, la riscossa devono invece avere la cifra di un coin-
volgimento ampio e senza deleghe in bianco, necessario per
rianimare i valori civici e per rimettere in rete gli interessi
sociali. Per questo bisogna anzitutto ricostruire un pensiero
politico progressista e ciascuno di noi è chiamato a fare la
sua parte. Un pensiero che abbia a che fare con un’idea
di società legata da un destino comune: perché solo così si
può accettare la parzialità dei risultati senza farsi travolgere
dalla sfiducia. La politica ha bisogno di una società civile
attiva, che domanda, che critica, che opera sulla base del
principio di sussidiarietà, che non si contrappone ai partiti.
Il progetto progressista passa oggi da una riforma repubbli-
cana, che attualizzi i valori della nostra Costituzione e che
sappia rimettere nel circuito democratico la linfa vitale del
migliore spirito civico. Del resto, la riforma repubblicana è
assolutamente necessaria anche per produrre quelle riforme
economico-sociali che tutti invocano ma che il populismo
inconcludente non può realizzare perché ne è struttural-
mente incapace. I fatti lo hanno dimostrato.

D.  In che misura questa visione anti-populista è condizio-


nata da uno stato di necessità, e cioè dall’assenza di leader
carismatici nel centrosinistra? Anche lei talvolta viene accu-
sato di avere un carisma debole.

R.  Se dieci naufraghi stanno in mezzo al mare, il capo


non è colui che avoca a sé tutti i compiti, ma quello che

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offre maggiore sicurezza nel coordinare le attività di tut-
ti. C’è sempre un’azione collettiva che dà senso e ragione
a una leadership, che altrimenti rimane un guscio vuoto.
Certo, c’è anche la fascinazione. Ma da sola è ingannevole
e lascia poco a chi viene dopo. La concezione della lea-
dership e del ruolo del leader è però un problema politico
serio: al tempo stesso una questione istituzionale e cultu-
rale. Secondo Max Weber, che si occupò del tema, quella
fascinazione, propria di alcuni capi politici dotati di buone
capacità retoriche e di una forza di trascinamento, si lega
spesso a una condizione di fragilità, di transitorietà e di in-
stabilità. Non si può negare che oggi chi riveste un ruolo di
vertice abbia responsabilità maggiori che nel passato, vi-
sti i ritmi sempre più veloci della comunicazione politica,
ma al tempo stesso non bisogna rinunciare a collegare la
leadership alla solidità di un’impresa collettiva. È questa,
credo, la sfida che abbiamo di fronte: non limitare o nega-
re la modernità della leadership, ma ricondurre il leader
pro tempore alla maturazione politica di una comunità. Del
resto, carisma è una parola che indica originariamente un
dono di Dio a una persona. Chi se lo attribuisce come cosa
propria, non è carismatico ma presuntuoso.

D.  Il suo linguaggio, ricco di metafore e proverbi popolari,


è giudicato in modo critico da alcuni commentatori che lo
considerano troppo colloquiale o fuori moda ed è stato og-
getto di una divertente satira televisiva. Ammetterà che non
è consueto per un leader di partito. Come spiega lei il cosid-
detto «bersanese»: è un meccanismo di difesa per resistere
all’omologazione del gergo politico, o il tentativo di sempli-
ficare in modo originale il suo discorso comunque provando
a collocarsi entro i canoni della comunicazione televisiva?

R.  Ognuno di noi si serve di registri di linguaggio diversi


a seconda del contesto in cui opera e perciò non vorrei
essere inchiodato a una variante sola («il bersanese») per-
ché mi sembrerebbe una caricatura. Facendo politica mi
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pongo l’obiettivo di essere capito dal maggior numero di
persone possibile e cerco di esprimermi come gli italiani
in carne e ossa. Aggiungo che si è trattato di un proces-
so di crescita: all’inizio della mia attività parlavo in modo
astratto e con venature filosofiche che derivavano dagli
studi e dalle mie letture. Ma avvertivo un difetto, persino
un’incoerenza, che mi lasciava inquieto. Del resto, mi ave-
va colpito la riflessione di Antonio Gramsci che individua-
va nel linguaggio aulico un sottile strumento di dominio,
ravvisando la vera differenza tra padroni e subordinati nel
numero di parole che conoscevano. Da un certo momento
in poi lasciai andare il mio linguaggio verso modi più col-
loquiali, metafore comprese. Se vogliamo parlarne, io tro-
vo che la metafora sia una figura retorica «democratica»,
che sostituisce ai termini propri o specialistici delle parole
figurate più accessibili e comprensibili. Il bello e l’utile
della metafora è che traspone l’intero concetto senza sem-
plificarlo e si basa su un’intuizione immediata alla portata
di tutti. Chi ha meno strumenti non deve essere costretto
a ricevere un messaggio parziale e impoverito. Credo che
questo sia il dovere di ogni buon politico, che altrimenti
veste i panni del demagogo o del retore.

D.  Quanto in questa sua ricerca di un sermo humilis c’è il


tentativo di sottrarre il Partito democratico al rischio corren-
te di essere percepito come troppo elitario, eccessivamente
legato ai valori, agli interessi e ai linguaggi della media bor-
ghesia dei centri urbani?

R.  In effetti, le analisi dei nostri flussi elettorali ci dicono


che incontriamo le maggiori difficoltà a comunicare il no-
stro progetto al cosiddetto elettorato profondo, che coin-
cide largamente con gli strati popolari. Mi rendo conto che
il mio modo di parlare possa non soddisfare una parte dei
cittadini che si aspetta dal politico un linguaggio superiore
al suo e con effetti speciali, ma le tantissime persone che
incontro almeno un merito me lo riconoscono: quello di

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parlare chiaro e di farmi capire. Certo, «pettinare le bam-
bole» potrei dirlo anche in latino ma desidero che la vo-
ce del mio partito sia pienamente compresa anche in una
nuova dimensione popolare, che non è affatto di per sé
una dimensione di incultura. Il modernissimo problema di
ogni partito progressista è quello di non essere percepito
in modo elitario, giacobino e iper-razionale, senza per que-
sto diventare populista o vacuamente retorico. Nell’uno e
nell’altro caso c’è una punta di disprezzo che la gente per-
cepisce. Se vuoi essere un partito popolare, la gente deve
piacerti davvero. Stanno in questo fondamentalmente il
messaggio e l’emozione che devi trasmettere.

D.  Lei è definito come un pragmatico, anzi come un «emi-


liano pragmatico». Una formula che probabilmente preten-
de di tenere insieme molti concetti, dalle sue esperienze di
amministratore e di ministro nei governi dell’Ulivo fino alla
considerazione che, nella storia della sinistra italiana, l’Emi-
lia Romagna ha dato sempre le più alte percentuali di voti,
ma mai un leader nazionale. Lei comunque in più occasioni
ha dichiarato di rifiutare l’attributo di pragmatico: perché?

R.  Questa storia dell’Emilia Romagna incapace di espri-


mere leader nazionali è un pregiudizio tanto diffuso quan-
to inconsistente. Per limitarsi al solo Pci, due storici sin-
daci di Bologna come Giuseppe Dozza e Renato Zangheri
avevano la statura politica e culturale per essere autorevoli
leader di governo e comunque hanno svolto un ruolo rile-
vantissimo nel partito. Ma se allarghiamo il nostro sguar-
do, in tempi più recenti, Romano Prodi è stato il primo
presidente del Consiglio di un governo che ha visto par-
tecipe tutta la sinistra italiana e dall’Ulivo che lui ha gui-
dato è poi nato il Partito democratico. Tornando indietro
alla storia del pensiero del centrosinistra come si possono
trascurare figure emiliano-romagnole quali Andrea Costa,
Camillo Prampolini, Giuseppe Dossetti? Vogliamo poi di-
menticare Benigno Zaccagnini? Ma non intendo eccedere
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in campanilismo. Confesso che proprio non mi va giù que-
sto modo superficiale di attribuire patenti di pragmatismo.
Penso, al contrario, che proprio la storia di auto-organiz-
zazione dell’Emilia Romagna abbia definito nel tempo una
particolare forma di espressività politica e di leadership
ideal-valoriale, magari talvolta persino ideologica o visio-
naria, comunque vincolata alla prova dei fatti, secondo un
principio elementare della civiltà contadina. Il pragmati-
smo dà supremazia ai fatti, collocandoli prima dei valori.
Invece la storia migliore dei progressisti muove da un altro
paradigma: i valori devono diventare fatti, anche parziali,
e lì farsi riconoscere. Non c’è esperienza di solidarietà o
di crescita in comune se alle spalle manca un orizzonte
ideale. Non credo sia un caso che oggi, in mezzo alla te-
naglia tra l’antipolitica, da un lato, e la giusta critica per i
costi eccessivi della politica dall’altro, la prima regione in
Italia ad aver ridotto in misura significativa le indennità
dei suoi consiglieri e ad aver soppresso il vitalizio sia stata
proprio l’Emilia Romagna. Eppure è una regione ricca.
Questo non è banale pragmatismo, ma la necessità di dare
forme concrete ai valori che si enunciano. Vorrei provare
a farlo anch’io in questa intervista, in cui parleremo dei
fondamenti del pensiero politico e dell’universo di valori
che ispirano il Pd, ma dove proveremo ad approfondire
in special modo tre temi-chiave del nostro tempo che mi
stanno particolarmente a cuore: la conoscenza, il lavoro
e l’ambiente. Altro che pragmatismo! Spero di riuscire a
mostrare che il nostro progetto democratico è un sogno
con le gambe per camminare... Cominciamo.
I
LA DEMOCRAZIA È LIBERTÀ
E UGUAGLIANZA

D.  Lei è dall’ottobre 2009 il segretario del Partito demo-


cratico, nato dall’esperienza dell’Ulivo. L’aggettivo «de-
mocratico», nella cultura occidentale, rimanda a una storia
millenaria, ma questi ultimi decenni non hanno sciolto il
dubbio se esso sia davvero capace di definire un’identità
forte oppure se il suo carattere ecumenico finisca per in-
debolire il senso stesso del nuovo partito. Qual è la sua
opinione?

R.  Quell’aggettivo, «democratico», è il vessillo della bat-


taglia più importante del nostro tempo. L’accelerazione del
mondo globale ci pone davanti a un bivio: o la democrazia
è uno squillo di tromba o diventa una resa, un’ipocrisia.
Il politologo John Dunn sostiene che siamo diventati tut-
ti democratici, proprio quando è diventato impossibile
organizzare la nostra vita in modo democratico. Penso
che abbia più di qualche ragione. Ma lo stesso Dunn dice
anche, con un’espressione che a me piace molto, che la
democrazia «è il nome di ciò che non posso avere e non
posso smettere di volere». Il Partito democratico è nato
anche per sfidare. Le nostre società sono segnate dal limi-
te, spesso persino dall’impotenza delle forme tradizionali
della rappresentanza e la stessa torsione populista del ber-
lusconismo, pur con i suoi tratti di originalità, va iscritta
dentro questa crisi.
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D.  La crisi democratica è un’evidenza globale, se non altro
perché il potere finanziario prevale decisamente sulla poli-
tica e tende a svuotare la sovranità popolare. Ma evocare
questa crisi non rischia di diventare un esercizio rituale e un
po’ consolatorio?

R.  La crisi democratica è il terreno della battaglia politica,


né più né meno. Gli ultimi tre secoli sono stati dominati
dalla fiducia in un avanzamento progressivo, ineludibile del-
la democrazia. Ci sono state cadute, anche drammatiche e
sanguinose. Ma le abbiamo considerate un prezzo da pagare
a una storia di emancipazione. Oggi invece il dubbio sull’ef-
ficacia della democrazia si fa più radicale. Proprio mentre
da più parti del mondo, a cominciare dai Paesi della sponda
meridionale del Mediterraneo, l’esigenza di attivare proces-
si democratici mobilita oggi milioni di persone. Il primo
punto critico, il più evidente, riguarda la sovranità popolare,
intesa nella dimensione nazionale. Una lunga tradizione di
pensiero occidentale ha convenuto sul fatto che, al di là della
dimensione nazionale, c’era solo una terra incognita. C’era
la guerra o la pace, o poco altro. Ora il globale è entrato
nella quotidianità dell’economia, della finanza, della ricerca,
delle migrazioni. E la democrazia, nelle forme fin qui costru-
ite, si mostra incapace di controllare e regolare la forza di
questa globalizzazione. Peraltro, la democrazia fu inventata
dai greci non per partecipare, ma anzitutto per decidere:
decidere attraverso la partecipazione. Una democrazia che
non è in grado di assumere decisioni rilevanti è destinata
a deperire perché perde credibilità agli occhi dei cittadini.

D.  Eppure la globalizzazione ha diffuso straordinarie op-


portunità. Di informazione, di mobilità, di conoscenza. Non
crede che Internet possa diventare uno strumento per am-
pliare la partecipazione democratica?

R.  Tutti i sistemi di comunicazione, dalla Tv a Internet,


sono uno straordinario arricchimento per l’uomo, la socie-

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tà e la cultura. Ma è sbagliato pensare che possano rappre-
sentare da soli la soluzione agli affanni della democrazia
nel nostro tempo. Bisogna evitare di confondere l’infor-
mazione con la conoscenza fino a sovrapporre i due ambi-
ti. Internet, ad esempio, è senz’altro un’immensa risorsa,
che offre opportunità straordinarie e con un potenziale
ancora in parte inesplorato. Ritengo, però, che sia ingenua
l’idea di affidare la soluzione della crisi della democrazia
rappresentativa agli strumenti della comunicazione e della
globalizzazione informatica. Il grave rischio è di costruire
una democrazia senza partecipazione. Il cittadino, nella
sua solitudine di utente, non riesce sempre a decodificare
le informazioni e a trasformarle in vera conoscenza. Se le
informazioni restano nelle mani di pochi, rischia di affer-
marsi una democrazia «che si affida a dei custodi», come
dice Giovanni Sartori. Ma affidarsi non è partecipare. Se
è vero che anche la democrazia ateniese non era al riparo
dalla demagogia dei capi-popolo, oggi però non può sfug-
gire che è la stessa tecnologia a concedere, da un lato, una
libertà e a esercitare, dall’altro, un controllo. Questo non
significa che non si possa sperimentare una democrazia
della rete, ma è nevralgico ridurre l’asimmetria di cono-
scenze. Forse i partiti, in quanto associazioni volontarie,
potrebbero diventare un laboratorio per mettere alla pro-
va forme di democrazia informatica, tenendo così al riparo
le istituzioni dal rischio di deformazioni non meno gravi
di quelle attuali.

D.  Se questo è il quadro, non le sembra troppo ardua la


missione del Pd?

R.  La realtà ci sta mostrando come, per via democratica e


rappresentativa, si prendono sempre più curvature autori-
tarie o populiste. Si risponde all’inefficacia con scorciatoie
illusorie. Il populismo, non solo da noi, sta diventando
una tendenza, quasi una fase di sviluppo delle democrazie
avanzate in Occidente. Il Pd è nato in questo contesto per
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alzare una bandiera, promuovere una speranza, rappre-
sentare un impegno civico volto al cambiamento. Noi pen-
siamo che anche in tempi moderni si possa determinare
una governance con un significativo grado di partecipa-
zione e che si possa arginare lo svuotamento della demo-
crazia rappresentativa riformandola. Ma per raggiungere
questi obiettivi è necessario, assolutamente necessario, che
la battaglia per la democrazia si connetta con quella per
l’uguaglianza, anzi ne riscopra i legami profondi. C’è una
reciprocità tra il grado di partecipazione democratica e
l’impegno politico a ridurre la forbice sociale. La storia dei
secoli scorsi ce lo insegna. È vero che la finanza ha preso
il comando delle operazioni su scala mondiale progressi-
vamente, senza guerre dichiarate, quasi senza che ce ne
accorgessimo. Ma non è onnipotente. La democrazia può
pretendere la regolazione dei fatti economici, può dare
voce a chi è svantaggiato, può costruire i beni comuni e i
servizi sociali e può contribuire alla formazione di un Pil
buono. Perché il Pil, ossia la ricchezza nazionale, si può
produrre attraverso un incidente stradale o costruendo un
acquedotto. Dipende da noi e dalle scelte che facciamo.

D.  La politica. Qualcuno l’ha data per morta, insieme con


la storia. Ma al di là delle filosofie conservatrici più radicali,
resta avvolta dalla sfiducia e dal sospetto. Peraltro, oltre che
dalle idee e dai programmi, la politica è sempre stata so-
spinta dagli interessi concreti di gruppi e classi sociali. Non
ritiene che anche questo radicamento stia sfumando?

R.  Anzitutto sono convinto che sia destinato a crescere


lo spazio per l’impegno civico, per le speranze collettive
di cambiamento, per una rilevanza anche economica della
solidarietà. La recente crisi finanziaria globale ha dimo-
strato in quale baratro ci hanno portato quelle filosofie
conservatrici che pronosticavano la fine della storia e in-
vestivano sull’inessenzialità della politica. Ma non voglio
sfuggire alla questione che mi è stata posta: politica e in-

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teressi possono anche entrare in contraddizione. Io voglio
un Pd radicato nel lavoro, perché nel lavoro c’è tanto della
vita dell’uomo e perché il lavoro diventa il valore numero
uno quando ti manca. Tuttavia so bene che una persona
non si riduce al lavoro. Gli interessi pesano, però non sono
la sola molla dell’agire umano. Ci sono valori profondi,
che motivano i nostri comportamenti nella società e che si
ispirano a scelte di valore antropologico. Un partito mo-
derno deve riuscire a stare dentro questa complessità. Se
il Pd non tornasse a radicarsi negli interessi perderebbe
gravità e forse non sarebbe più capace di dare una spina
dorsale al suo programma. Ma il suo progetto deve tenere
in equilibrio la composizione degli interessi con un’idea di
società. Perché non ci può essere una politica senza un’an-
tropologia, senza un’idea, una discussione sull’uomo, e
senza una visione del mondo e della società.

D.  Della necessità di una «nuova visione antropologica»


a fronte della crisi del modello ultraliberista, egemone da
almeno vent’anni, ha parlato anche Giovanni Bazoli. Men-
tre Alfredo Reichlin sostiene che la sinistra deve tornare
a porsi l’obiettivo di un «nuovo umanesimo» dopo che il
riformismo dall’alto si è dimostrato inefficace ad affrontare
questa crisi democratica. Il filo che lega le vostre riflessioni
è lo stesso?

R.  Non abbiamo intenzione di costruire nuovi schemi


ideologici. Sarebbe un’impresa sbagliata, oltre che inu-
tile. Le radici di un partito come il Pd sono in un’idea
solidaristica e personalistica dell’uomo, che non può non
contrastare il paradigma egoistico dominante. Il modello
egoistico si fonda sul primato dell’individuo isolato, por-
tatore esclusivo di interessi e libertà private. Il modello
solidale si basa invece sul primato delle persone, intese
nella complessità delle loro relazioni e perciò capaci di ar-
ricchire la dimensione comunitaria. La vulnerabilità della
vita indifesa, il bisogno di giustizia e libertà, la protezione
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degli stessi diritti individuali possono trovare una risposta
efficace solo recuperando il valore del bene comune. È
proprio questa visione umanistica che ci fa dire quanto si-
ano legati tra loro i concetti di democrazia e di uguaglianza
insieme con quelli di libertà dell’individuo e di dignità del-
la persona umana. E che ci spinge continuamente a ren-
dere inclusivi i diritti politici e civili. Credo che questa sia
una delle pietre angolari del Pd. Leggendo le riflessioni di
Bazoli e di Reichlin, un giurista e banchiere di formazione
cattolica e un autorevole dirigente del Pci, si può toccare
con mano quale rimescolamento culturale, quale osmosi
costituisca oggi il retroterra valoriale del Pd.

D.  Democratico è il partito di Roosevelt, Kennedy, Clinton,


Obama. Non pensa che anche il modello o il mito americano
abbia influito sulla nascita del Pd italiano, avvenuta nel con-
testo di una indubbia crisi delle socialdemocrazie europee?

R.  Certamente l’esperienza del Partito democratico


americano è di grande interesse per il Partito democra-
tico italiano. Così come lo è la speranza di costruire una
rete sempre più robusta di dialogo e di cooperazione tra
le forze democratiche e progressiste del mondo. Non si
può negare che la socialdemocrazia europea, pur con i
suoi meriti, abbia subito delle smentite. Il Pd nasce non
per sfuggire, ma per sfidare anche in questo campo e
resta un partito europeo. Per noi «democrazia» è una
parola meno leggera di quanto non lo sia per la cultura
liberal americana. Il suo maggior peso è dato proprio dal
rilievo sociale, dal legame con il tema dell’uguaglianza.
Democrazia è libertà, ma non solo libertà. È una libertà
che fa lo sforzo di qualificarsi anche come emancipazione
e riduzione delle disparità sociali. Stiamo parlando della
forbice dei redditi, dell’universalità dei servizi primari,
dell’economia sociale di mercato. Ecco, penso che il mo-
tore dell’innovazione non possa stare solo nella sponta-
neità del mercato.

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D.  Non le pare che la questione democratica così posta
non sia più risolvibile in un solo Paese, e forse neppure in
un solo continente?

R.  Ne sono consapevole. Per questo credo che i partiti


democratici e progressisti debbono trovare al più presto
le modalità e gli strumenti per condurre insieme una bat-
taglia per alzare il livello di sovranità della democrazia.
Tra G2 e G20, Fondo monetario e Nazioni Unite, bisogna
porre con più forza e più concretezza il tema del governo
democratico del mondo. Non può più esserci il riformi-
smo in un Paese solo. Il riformismo presuppone, pretende
la democrazia mentre oggi quasi tutte le dinamiche domi-
nanti hanno scala globale e sfuggono spesso alle regole
democratiche. Il conservatorismo invece può ripiegare
sulla dimensione nazionale, usando la globalizzazione per
offrire speranze di ulteriore arricchimento a pochi e per
dilatare le paure per tutti gli altri, a cominciare dal ceto
medio. Le paure, si badi bene, sono proprio quelle degli
effetti della globalizzazione: l’immigrato, il territorio come
rifugio, il futuro incerto nella competizione, la chiusura
che fortifica le corporazioni. È il vantaggio competitivo
dei conservatori sui riformisti, tanto più in un’Europa che,
a differenza di altri continenti, avverte di avere molto da
perdere o comunque da rischiare.

D.  Qualcuno, anche nel suo partito, sostiene che Bersani


abbia un’inclinazione «laburista» e voglia fare del Pd un
«partito del lavoro» riveduto e corretto, dando a queste affer-
mazioni un contenuto critico e passatista. Cosa risponde?

R.  Che ho sempre pensato al Pd come a un partito di


lavoratori e di cittadini, accomunati da valori di solida-
rietà, impegnati in un programma di riforme. Il tema del
lavoro comunque merita un approfondimento, perché
resta cruciale nella concreta presenza sociale del Pd. La
considerazione e il valore del lavoro si sono profonda-
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mente trasformati nei secoli: per i greci era soprattutto
fatica servile, per la Bibbia uno strumento di riscatto per
l’uomo, per Pico della Mirandola e la cultura rinascimen-
tale un modo per trasformare la natura, per la riforma
protestante il portato di un’etica della predestinazione,
per la società industriale un’immanenza denunciata da
Marx come fattore alienante: se si libera il lavoro si li-
bera anche l’uomo, se il lavoro è ridotto a merce allora
anche l’uomo è merce. C’è stato poi il filone riformista
e socialista che si è impegnato per dare dignità al lavoro
e per affermare il rispetto dei diritti del lavoratore. C’è
stato anche il personalismo cristiano che ha posto il tema
della ricomposizione tra persona e lavoro. Nelle culture
postmoderne c’è stato anche un ridimensionamento della
produzione in uno spazio più limitato della vita, regalan-
do tempo al loisir e all’otium grazie alla tecnologia, ma in
questa posizione sembra riaffiorare a volte un disprezzo
per il lavoro in quanto tale e comunque una sua svaluta-
zione. Per una forza di centrosinistra sarebbe un gravissi-
mo errore sottovalutare il lavoro, sia perché è esso stesso
fattore di una compiuta cittadinanza, sia per il rilievo che
il capitale umano ha nello sviluppo economico e sociale.
Il lavoro deve essere messo al centro della riscossa del
nostro Paese contro la rendita, le resistenze corporative
e i privilegi. Quando si pronuncia la parola «lavoro», ci
si accorge subito della sua densità: chi lo ha, sa bene che
la vita non si riduce a questo, ma per chi non ha lavoro,
è senza dubbio questa la priorità assoluta. Senza di es-
so una persona è dimidiata. Senza lavoro non c’è piena
cittadinanza, né piena dignità della persona in quanto il
lavoro non è solo produzione, ma anche rete di relazioni,
dimensione psicologica, progetto e speranza: è la parte di
possibilità che ciascuno di noi ha di trasformare il mondo
in cui vive.

D.  Democrazia del lavoro, diceva tempo fa la sinistra.


Repubblica fondata sul lavoro, recita l’art. 1 della nostra

­18
Costituzione. Ma il concetto di cittadinanza non ha ormai
superato per universalismo quello di lavoratore?

R.  Non c’è dubbio che la cittadinanza riguardi un insie-


me più grande del mondo del lavoro. Ma quel che conta
in un corpo sociale moderno è l’interdipendenza tra la
dimensione del lavoro e quella della cittadinanza. Un’in-
terdipendenza crescente. Una democrazia deve essere og-
gi capace di garantire diritti di cittadinanza sia nella fase
della produzione, che in quella della riproduzione della
ricchezza e del consumo. Questa interrelazione fra dirit-
ti del lavoro e diritti di cittadinanza è l’orizzonte nuovo
della politica e spiega, almeno in parte, anche la progres-
siva estensione e il rilievo sociale di quello che chiamiamo
il ceto medio. Di certo nel suo legame con il mondo del
lavoro, legame che spero si rafforzi, il Pd non può farsi
tentare da una visione vetero-classista. Il suo impegno per
ridurre le disuguaglianze di reddito e di opportunità, per
migliorare le condizioni dei ceti più poveri e disagiati, non
deve essere disgiunto da un’attenzione e da una presenza
rinnovata nelle classi intermedie. È questa una rappresen-
tanza decisiva non solo sul piano elettorale, ma anche su
quello dei valori di cui abbiamo parlato.

D.  Il lavoro dipendente non è più maggioritario. La gran


parte dei giovani entrano a fatica nel mondo del lavoro
con contratti atipici o a tempo. Le professioni coprono un
ventaglio ampio nella scala dei redditi. Il lavoro autonomo
comprende segmenti nuovi, dall’artigiano al commerciante,
all’ex dipendente che si mette in proprio, al piccolo impren-
ditore. È capace il Pd di promuovere, se non proprio una
nuova alleanza sociale, almeno una presenza in settori fin
qui ostili alle culture del centrosinistra?

R.  Questa è una sfida che la società rivolge a noi. E che


il Pd deve affrontare con determinazione. Oggi la barriera
che ha fatto dei lavoratori dipendenti una classe a sé stan-
­19
te si è molto ridotta. In fondo anche l’idea democratica,
nel senso dell’estensione della cittadinanza, ha posto di-
pendenti, lavoratori autonomi e liberi professionisti in un
medesimo universo di diritti e di doveri, in una comunità
dove le regole interagiscono con lo sviluppo per tutti. In
questo universo condiviso, però, ci sono esigenze di re-
golamentazione e debolezze sociali da tutelare: questa è
la radice ancora viva del diritto del lavoro. L’obiettivo è
quello di un nuovo patto sociale che non può essere de-
rubricato a un mero compromesso tra interessi difensivi e
corporativi. Del resto, i conflitti non sono certo finiti. La
coppia collaborazione/conflitto si è spostata piuttosto in
una dimensione parziale e relativa, a fronte di un mercato
globale e di regole sempre più inafferrabili che provoca-
no un comune sentimento di incertezza. Da questa nuova
realtà scaturisce la necessità per il Pd di radicare la sua
rappresentanza in quella parte dei ceti medi che tradizio-
nalmente sono stati lontani dalla sinistra. Riuscire a farlo è
condizione per nutrire la sua ambizione riformista di go-
verno. Ma l’aggettivo «democratico» resta esigente: il la-
voro senza cittadinanza e senza regole è quello di Rosarno,
è quello dell’imprenditore che non paga le tasse, è quello
del dipendente che si sottrae ai suoi compiti.

D.  Abbiamo accennato a Rosarno, città calabrese simbolo


dell’immigrazione illegale e del suo sfruttamento da parte
della malavita organizzata. L’immigrazione è appunto per
l’idea democratica uno dei crocevia più scomodi, riserva di
lavoro senza cittadinanza. È possibile parlare dei diritti degli
immigrati senza subire contraccolpi in termini di consenso
elettorale?

R.  L’opportunismo sarebbe in questo caso un cinismo


insopportabile. Se la nostra idea democratica ha una cor-
posità maggiore perché legata al tema dell’uguaglianza, al-
lora la cittadinanza non può non avere l’inclusività come
valore. Ad esempio è assurdo, inaccettabile che i bambi-

­20
ni, figli di immigrati nati in Italia, non possano essere per
questo cittadini italiani al pari dei loro coetanei con cui
giocano e vanno a scuola. Certo, le contraddizioni della
realtà pulsano anche sotto i bei discorsi. L’equilibrio va
trovato nelle regole, perché senza il rispetto di regole certe
si dà alimento e benzina a reazioni incontrollate e irrifles-
se. Diritti e doveri, dunque. E una distribuzione equa, sul
piano sociale, dei disagi che inevitabilmente vengono dai
fenomeni di immigrazione.

D.  Torniamo così ai compiti della politica, la cui crisi strut­


turale è dimostrata anche dall’ossessiva frequenza con la
quale i leader oggi consultano i mutevoli sondaggi demosco-
pici. Anche se lei è indicato spesso come un uomo realista,
più volte ha evocato un’idea della politica come atto di vo-
lontà capace di andare oltre l’equilibrio delle forze in campo.
Non teme così di allargare il divario tra le ambizioni di un
centrosinistra oggi minoritario e la rappresentanza concreta
degli interessi prevalenti?

R.  Nella politica si sono sempre scontrate due opposte


filosofie. Da un lato un filone utopico secondo il quale l’uo-
mo era originariamente buono e libero, ma la società gli ha
cucito addosso abiti e corazze che lo hanno imprigionato,
per cui una rivoluzione è necessaria a ricondurlo allo stato
primordiale di libertà. Dall’altro un filone realistico, che
ha cercato di sottrarre la politica a una prospettiva mes-
sianica affidandole piuttosto il compito di leggere meglio
la condizione umana e la convivenza fra le persone e di
migliorarle. La concezione cristiana del peccato originale,
sia nella visione che ne ha un credente, sia nel suo significa-
to metaforico, mi sembra utile per risolvere questa eterna
contraddizione tra utopismo e realismo. È vero, l’idea del
peccato originale spesso ha dato luogo a una concezione
pessimistica della politica, rinunciataria o addirittura cini-
ca, ma quella idea può anche essere messa a fondamento di
una politica che conoscendo il suo limite inevitabile veda il
­21
suo possibile riscatto. L’umanità è imperfetta, un impasto
di bene e male, interessi particolari e slanci universalistici.
Ma proprio per questo non è statica, può sempre superare
i momenti più bui, a patto di avere buone idee senza pre-
sumere di essere onnipotenti, di possedere il monopolio
della verità. In fondo è anche la percezione del limite e
dell’insufficienza a metterti in guardia da esiti totalitari
e a indicarti la direzione di marcia. Nessun politico può
promettere il paradiso; che la condizione umana si diri-
ga verso il meglio non è una legge storica; tuttavia è una
possibilità reale sulla quale vale la pena di impegnarsi. C’è
quindi un atto di volontà alla base della politica: è un atto
di volontà e di libertà cercare maggiore uguaglianza, per-
ché implica la decisione di ingaggiare una battaglia cultu-
rale e lotte concrete contro le disuguaglianze. Del resto le
affermazioni che siamo tutti figli dello stesso Dio oppure
che ci troviamo insieme su una palla smarrita nello spazio
sono state entrambe storicamente compatibili con enormi
disuguaglianze. L’uguaglianza insomma è un desiderio,
l’obiettivo complesso di un grande progetto ideale la cui
realizzazione non è affatto scontata né conseguita una vol-
ta per tutte. Se vuoi raggiungerlo, devi farlo con gli altri,
metterti in compagnia.

D.  Dunque, possiamo definire il Partito democratico come


un’associazione di «volontari»?

R.  Certo, un’associazione di volontari unita da un sen-


timento forte dell’uguale libertà e dignità degli uomini.
Un’associazione che non si considera una avanguardia o
una società separata, ma che vuole promuovere una demo-
crazia più partecipata ed efficace, perfezionando quei mec-
canismi della rappresentanza oggi piegati dal populismo e
imponendo anche a partiti e sindacati regole più rigorose e
trasparenti. Un’associazione che coltiva, senza pretendere
di essere autosufficiente, un progetto riformista fondato
sulla convinzione che il modello solidale sia superiore, e

­22
anche più conveniente, del modello egoista. Un’associazio-
ne, infine, che ha radici negli interessi reali, che rappresen-
ta parti significative del lavoro e della produzione, e che
spinge per allargare gli orizzonti della cittadinanza e dello
sviluppo, consapevole che più si amplia la base dell’econo-
mia reale minori diventano i rischi delle bolle speculative e
delle crisi, cioè delle mannaie che si abbattono periodica-
mente sulle classi più povere e sui ceti medi.

D.  Quanto è grande il rischio che il populismo vinca la sua


battaglia anche all’interno della sinistra?

R.  Il populismo è anche a sinistra, nella forma di una


cultura o di una tentazione. Non si può minimizzare. La
vena utopica della sinistra rousseauiana si è innestata nel
tempo in vari ceppi producendo, talvolta, persino ibridi
congeniali al potere dominante. Il populismo ha bisogno
di nemici. Spesso il nemico del populismo di sinistra sono
diventati i riformisti, le loro politiche o le loro forme orga-
nizzative. Ma stiamo parlando di fenomeni minoritari nel
popolo del centrosinistra, benché il vento dell’antipolitica
abbia soffiato a loro favore in questi tempi. Il tema è ora
l’energia, la combattività, la capacità del riformismo di of-
frire una realistica alternativa di governo. Fermo restando,
però, che non si può ridurre tutto al programma. L’atto di
volontà deve combinarsi con la razionalità, il valore de-
ve stare accanto all’interesse. Democrazia e uguaglianza.
Questo è il riformismo: valori che pretendono in qualche
modo di diventare fatti.

D.  Rispetto alle convinzioni che hanno prevalso negli ul-


timi anni sembra difficile riproporre la parola uguaglianza
anche soltanto nel significato di una riduzione della forbice
dei redditi.

R.  Tanto più dopo la crisi, ridurre la disparità di reddito


è una necessità per un Paese come il nostro. Almeno se
­23
vuole ricominciare a crescere. Se si concentra la ricchez-
za nel 10% della popolazione, non succederà che queste
persone si metteranno a mangiare dieci volte al giorno. La
ruota deve girare in modo da far stare meglio tutti. D’altra
parte, lo stesso vale anche su scala globale: non è immagi-
nabile che ci sia una parte di mondo che produce ed espor-
ta e un’altra che consuma e si indebita. Serve equilibrio.
Il pensiero riformista offre oggi contenuti di realismo che
altrove non ci sono.
II
QUEL TANTO DI ANARCHICO CHE È IN ME

D.  Lei, onorevole Bersani, ha sempre protetto la sfera per-


sonale con un filtro di riservatezza e poco si conosce degli
anni della sua formazione e delle ragioni che l’hanno portata
all’impegno politico. Era studente nel ’68 ed entrò nel Pci
nei tormentati anni Settanta. Ma, se permette, potremmo
cominciare la storia dalla sua famiglia e dal suo paese.

R.  Si sarà capito che l’eccesso di personalizzazione nel-


la politica mi infastidisce. Dirò ciò che potrà essere uti-
le a dare ragione delle mie convinzioni di oggi e a farle
comprendere meglio. Nasco nel ’51 in un piccolo paese
dell’Appennino piacentino, Bettola. Se hai voglia di pen-
sare, in una realtà così periferica, l’universalismo ti arriva
in testa per forza. Un paese politicamente molto bianco
e di tradizione antifascista. Famiglia di artigiani: officina
meccanica e pompa di benzina. Ci si lavorava un po’ tutti,
anche io e mio fratello nel tempo libero dalla scuola. Am-
biente cattolico, con la mamma che teneva il senso e le re-
gole. Mio padre e suo fratello erano soci, gestivano entrate
e spese su un blocchetto che conservavano in tasca. A fine
settimana le mogli facevano i conti e dividevano a metà,
nella totale fiducia e senza mai una lite, per quarant’anni:
questa onestà era l’aria che respiravo.

D.  Ha avuto un’educazione cattolica?


­25
R.  Certo. È in parrocchia che ho cominciato a capire
com’ero. Mi interessava, confusamente, comprendere se
la fede fosse un dovere o un dono. Organizzai persino
uno sciopero di chierichetti, che mi procurò grossi guai
in casa. Un giorno chiesi al parroco, don Vincenzo, se
fosse vero che per andare a lavorare all’Agip ci volesse la
sua garanzia: mi accorgevo che al paese i comunisti face-
vano i muratori e gli operai, e gli altri andavano all’Agip
o all’Enel. Con queste premesse, come avrei potuto nel
futuro diventare statalista? Quanto a quel carissimo par-
roco, il giorno che diventai ministro suonò le campane
della chiesa.

D.  Ci tolga almeno la curiosità riguardo a questo sciopero


dei chierichetti. Cosa avvenne?

R.  In occasione delle cerimonie più importanti, battesi-


mi e matrimoni, le famiglie lasciavano la mancia ai chieri-
chetti ma, siccome noi ragazzi non maneggiavamo soldi,
il parroco li sequestrava e poi ci regalava dolci e torroni a
Pasqua e Natale. Non mi sembrava giusto. Così una sera
di maggio, durante la funzione mariana, insieme agli altri
chierichetti lasciammo il nostro posto, ci svestimmo di
tonaca e cotta in sacrestia e, tra lo stupore dei presenti,
andammo a sederci in fondo alla chiesa. Il giorno dopo
don Vincenzo parlò con mia madre: non era arrabbiato,
si chiedeva piuttosto se avesse sbagliato qualcosa. Mia
madre invece non la prese bene e mi fece passare un brut-
to quarto d’ora. Da quel giorno, a ogni buon conto, si
cambiò sistema: il Natale successivo il parroco distribuì
ai ragazzi in parti uguali le mance dell’anno. Imponendo
una condizione: le mamme dovevano conoscere la cifra
esatta.

D.  Lei frequentò il liceo classico a Piacenza. Il vento del


’68 soffiò proprio in quegli anni: quanto ha inciso quella
stagione nella sua formazione?

­26
R.  Il liceo Melchiorre Gioia è stato per me, insieme con
la famiglia e con la parrocchia, l’altra grande agenzia for-
mativa. Per andare a Piacenza con la corriera mi alzavo alle
6 e 20. Avevo professori molto preparati, per lo più con-
servatori. Con i miei compagni crescevo, sentivo la radio,
ascoltavo la musica. Al primo impatto scoprii di conoscere
meglio di loro la metrica ma di non sapere bene come fun-
zionavano i semafori, che a Bettola non c’erano. Eppure
non fu scontato l’approdo in quella scuola. Al paese i licea‑
li erano uno o due e fu la preside delle medie a convincere
i miei. A casa i soldi per studiare c’erano, ma mio padre
aveva l’ansia del lavoro e pensava che l’istituto tecnico gli
avrebbe restituito in poco tempo due figli capaci di rileva-
re l’officina. Mia madre però si impose e mio fratello aprì
la strada del liceo classico. Poi è diventato medico chirur-
go, vincendo il concorso in Lombardia. Avrebbe potuto
trasferirsi in seguito in Emilia Romagna, ma non ha mai
fatto domanda per non creare problemi a me che intanto
ero diventato amministratore regionale.

D.  Il suo ’68 fu di contestazione? Ripensando a quegli


anni è d’accordo con chi sostiene che quel movimento eb-
be, nonostante una cultura politica di sinistra e una grande
partecipazione collettiva, una preponderante radice indivi-
dualista?

R.  Al contrario, per me fu il passaggio dall’individuale al


collettivo, dal particolare al desiderio di un cambiamen-
to per tanti. Il vento allora soffiava in quella direzione.
La circolare Sullo del gennaio ’69, che per la prima volta
concesse l’assemblea a scuola, mi trovò che ero già rap-
presentante di classe. Facevo il secondo liceo e toccò a
me preparare la bozza del regolamento e mettere ai voti la
norma che impediva ai professori di intervenire in assem-
blea. La vera contestazione comunque iniziò poco dopo.
Una volta feci lo sciopero da solo: dal portone della scuola
la professoressa di latino e greco richiamò tutti, uno a uno,
­27
ma io non entrai. La mattina dopo mi chiese la giustifica-
zione e risposi che non l’avevo perché avevo fatto scio-
pero. Apriti cielo! Ricordo che la sfuriata cominciò con
lo sfottò: «Sciopero? Ma lo sapevate, ragazzini, che ieri
c’era sciopero?». Qualcuno, però, scrisse di nascosto sulla
lavagna: viva Bersani! La passione per la politica cominciò
così, animando le discussioni a scuola, organizzando l’au-
togestione, i cortei, i contatti con gli altri istituti della città.
Ancora non c’erano partiti nella mia vita, ma su «la Liber-
tà», giornale piacentino, talvolta comparve il mio nome e
giunse anche a Bettola la voce che ero una «testa calda».
La professoressa di latino e greco diceva a mia madre: «È
bravo ma così si rovinerà». E questo alzava la tensione a
casa. Gli otto e i nove in pagella per fortuna tennero in
piedi un compromesso con la famiglia.

D.  Perché scelse la facoltà di filosofia?E perché, partendo


da Piacenza, preferì l’università di Bologna a quella di Mi-
lano? Cercava gli studi o la «rivoluzione»?

R.  La filosofia è stata una scelta di libertà. La libertà di in-


traprendere studi e letture senza subordinarli a obiettivi di
lavoro. La scelta di Bologna fu invece una sfida con me stes-
so: cambiare e ricominciare, senza calcoli. Altre volte nella
vita mi è poi capitato di ripartire da zero, di rimettere tutto
in discussione. I miei compagni del liceo si trasferirono in
maggioranza a Milano. Per me, che venivo dalla periferia,
Bologna e l’Emilia Romagna sono sempre stati un’intenzio-
ne più che un’appartenenza. E il voler bene all’Emilia Ro-
magna non mi ha impedito di mantenere uno sguardo dal
di fuori. Certo, all’università crebbe la mia partecipazione
al movimento degli studenti. Il comunismo mi attraeva per
la sua idea egualitaria, ma approfondivo i filoni critici e le
testimonianze delle persone tradite dal comunismo, come
ad esempio Trotskij. Nella mia testa l’Unione Sovietica è
stata sempre sinonimo di oppressione. Può darsi che un po’
abbia influito l’anticomunismo familiare. Nel ’96, appena

­28
diventato ministro, Fabrizio De Andrè venne a Piacenza
per un concerto e lo incontrai. Mi disse: «Ti ho visto in Tv,
mi piaci perché non sembri uno che gliene importa molto».
Gli risposi: «Quel tanto di anarchico che è in me, lo devo
alle tue canzoni». Ancora adesso, quando qualcuno mi dà
del burocrate, lo lascio dire e mi faccio due risate tra me
e me. A Bologna fui uno dei fondatori di «Avanguardia
operaia»: promuovevo incontri, facevo il portavoce, distri-
buivo volantini. Contestavo il Pci da sinistra ma quell’im-
pianto strutturalmente minoritario mi lasciava un senso di
impotenza. Nel ’72 maturai un cambiamento. Era arrivato
il tempo di decidere: se la politica era una cosa seria, allora
bisognava farla seriamente, insieme agli altri, mettendo in
conto le diversità di opinione, ma partecipando a una for-
za capace di incidere davvero. Fare sul serio, voleva dire
anche fare il Pci a Bettola. Quando andai dal segretario
di sezione, un muratore appunto, a chiedergli la tessera,
mi rispose che l’aveva già fatta da un anno a mia insaputa.
L’iscrizione al Pci mi costò rapporti più tesi in casa. Nel
’74 mi presi la prima, vera soddisfazione a Bettola: anche
lì il risultato del referendum sul divorzio registrò una lar-
ga propensione dell’elettorato cattolico verso il No. Per il
servizio militare, però, fui spedito a Macomer, provincia di
Nuoro: destinazione punitiva, credo, su segnalazione del
maresciallo dei carabinieri del paese.

D.  Quando ha conosciuto sua moglie?

R.  Daniela viveva anche lei a Bettola. Ma dall’altra parte


del fiume che attraversa il paese. Cercare la morosa di là
del ponte fu, a suo modo, una piccola prova di ardimen-
to. Abbiamo cominciato a 18 anni e non ho mai avuto
occasione di pentirmi. Quando il lavoro mi ha portato a
Roma, lei ha preferito restare con il suo lavoro di farmaci-
sta dipendente a Piacenza. Abbiamo due figlie, Elisa che
è fresca di laurea in storia medievale e Margherita che sta
ultimando il liceo scientifico.
­29
D.  Anche in famiglia quindi qualcuno ha seguito le orme
paterne degli studi medievisti. Ma cosa le è rimasto delle
letture filosofiche? Le sono tornate utili nella successiva
esperienza politica?
R.  Ho studiato filosofia medievale e storia del cristiane-
simo mentre cresceva in me la passione politica. Possono
sembrare interessi contrastanti. Ma la vita non è monote-
matica o unidirezionale: ho sempre evitato di chiudermi in
una sola dimensione. Gli studi danno una riserva critica e
allungano il respiro. La storia e la filosofia sono lo scaffale
più grande che abbiamo nella nostra testa, dove sistemare
quel che è successo e quel che è successo che l’umanità
pensasse. Peraltro, la politica è una grande parafrasi della
teologia. Per fare una schematico esempio: la teologia che
afferma che il bene è bene perché lo vuole Dio, in fondo,
è una chiave del modello autoritario, mentre invece quella
che descrive Dio come buono perché vuole il bene ha a che
fare con i modelli contrattualistici, quindi con la democra-
zia. Feci la tesi di laurea su «Grazia e autonomia umana
nella prospettiva ecclesiologica di san Gregorio Magno».
Gregorio fu un papa straordinario, che ristrutturò la Chie-
sa dando a Roma quel primato che prima non aveva, che
fu capace di una grande predicazione popolare e che, non
ultimo, salvò l’Italia dall’invasione dei Longobardi. Era
agostiniano e non sconfessò mai l’idea della predestina-
zione. Anche se la sua vita fu segnata da cruciali decisioni,
che hanno plasmato la storia. Restando nella parafrasi: ho
sempre pensato che la grazia presupponga la libertà e non
la predestinazione. E questo rovello mi è rimasto dentro
perché, credo, riguardi l’insaziabile desiderio di senso, o
forse la riserva a cui attingere per riaffermare l’umanità
dell’uomo oltre ogni forma di condizionamento.
D.  Lei crede in Dio?
R.  Potrei rispondere che questa è la più classica delle do-
mande premature. Preferisco, però, fare mia una citazione

­30
di Albert Camus: «Non credo, ma considero l’irreligiosità
la più grande forma di volgarità».

D.  Riprendendo il filo della sua storia, intanto, negli anni


Settanta il militante Bersani diventa presto un dirigente del
Pci piacentino ed emiliano-romagnolo.

R.  Il ’75 è l’anno della laurea e della mia prima elezione


al consiglio comunale di Bettola. Dal comune, ovviamen-
te, non prendevo una lira e così per un paio d’anni ho
girato come insegnante supplente in varie scuole, medie e
superiori, lavorando anche in un istituto privato. Ho co-
minciato a frequentare la federazione del Pci di Piacenza,
che aveva meno iscritti di un quartiere di Bologna ma stava
arrivando pure lì la nuova ondata proveniente dai movi-
menti studenteschi. Ho avuto la fortuna di incrociare la
linea di Enrico Berlinguer, che disse ai giovani: «Venite
dentro e cambiateci». Un giorno il segretario della federa-
zione mi propose di fare il funzionario. L’offerta mi colse
di sorpresa, ebbi timore, ma dissi di sì: la politica per me
non è mai stata tutto, ma l’avrei fatta comunque. Comin-
ciando a lavorare a tempo pieno nel Pci, le responsabilità
aumentarono. Gli stipendi invece arrivavano con inter-
mittenza e talvolta erano decurtati. L’amministratore mi
spiegò che, nonostante tutto, mi avrebbe sempre versato
i giusti contributi.

D.  Che scuola fu il Pci di quegli anni per lei?

R.  Anzitutto una scuola di umiltà. Il rigore morale era


assoluto: non si scherzava su questo. Lo imponevano nor-
me non scritte e lo esigeva la base. Mi piaceva questo rigo-
re, che diventava misura di un impegno altruistico. E poi
c’era gente vera nelle sezioni. Che dava molto e per questo
chiedeva ai dirigenti altrettanto. Ti venivano ad ascolta-
re in sezione: ma se poi non li aiutavi a montare la festa
dell’Unità, se non ti rimboccavi le maniche, ti guardavano
­31
male, con disonore. La formazione della classe dirigente
comprendeva pure la scuola vera e propria. Appena accet-
tai di fare il funzionario, mi mandarono ad Albinea, pro-
vincia di Reggio Emilia, per un corso di quindici giorni.
In quell’occasione conobbi Maurizio Migliavacca, anche
lui della provincia di Piacenza, di Fiorenzuola d’Arda. Ci
incontrammo sul treno. Poi entrammo insieme nella se-
greteria della federazione: la nuova generazione fu subito
sperimentata in posti di comando, anche perché tra il ’75
e il ’76, per la prima volta, il Pci vinse sia il comune di Pia-
cenza che la provincia e diversi dirigenti vennero chiamati
a cariche pubbliche di governo.

D.  Le responsabilità di governo arrivarono presto. Ci vuo-


le ricordare le sue prime prove?

R.  Il mio primo impegno è del ’78: vicepresidente del-


la comunità montana di Bobbio. Il primo impatto con la
soluzione concreta dei problemi. Intanto da componente
della segreteria provinciale cominciavo anche a frequenta-
re Bologna per le riunioni regionali. Qualcuno notò que-
sto giovane di Piacenza, che veniva dall’università e che
ora si dava da fare nel partito. Non nascondevo allora il
mio spirito critico verso il compromesso storico. Tuttavia
il Pci cercava sempre di andare oltre i suoi confini: questa è
stata una delle ragioni della sua supremazia culturale nella
sinistra italiana. In Emilia il comitato regionale del partito
era in mano ai modenesi, visto che Bologna esprimeva il
presidente della regione. I modenesi nel Pci sono stati sto-
ricamente gli interpreti del contado, cioè delle federazioni
minori. Erano loro, forti di una federazione con tantissimi
iscritti, a comporre gli equilibri tra Bologna e gli altri. Nel
’78 il segretario regionale Luciano Guerzoni, modenese,
mi propose di fare il presidente dell’Arci. Aveva già avvia-
to una piccola consultazione: dunque, era quasi impossibi-
le dire di no al segretario. Invece rifiutai. Non era nelle mie
corde. E con Guerzoni concordammo che sarebbe stato

­32
motivato con ragioni strettamente personali. Poi, due anni
più tardi, fu lui stesso a propormi per il consiglio regiona-
le. Non facevo parte di cordate, ma bisognava pure dare
una mano a una piccola federazione come Piacenza.

D.  A proposito di questioni personali: a quel punto il suo


impegno politico era stato accettato in famiglia?

R.  I miei si rassegnarono, ma non erano contenti. Certo,


rispetto allo shock della mia candidatura con il Pci a Bet-
tola, le tensioni si sono via via sopite con il crescere delle
responsabilità in regione, da assessore fino a presidente.
Con mia madre comunque le discussioni non sono mai
finite. Lei aveva la quinta elementare ma è sempre stata
un osso duro. Ricordo il tema più ricorrente: alcune per-
sone le chiedevano di intercedere presso di me per ottene-
re qualche aiuto in regione e mia madre prendeva le loro
parti. Se ognuno facesse qualcosa nel senso della solidarie-
tà, diceva, il mondo sarebbe migliore. Rispondevo che se
avessi privilegiato alcuni, solo perché si erano rivolti alla
nostra famiglia, avrei commesso un’ingiustizia. Trovammo
un compromesso: di fronte a casi di indigenza estrema o di
grave menomazione fisica, allora bisognava fare il possibi-
le e presto. Tutto il resto no. E mi sono sempre regolato co-
sì. Ma la vera, piena riconciliazione familiare avvenne più
tardi, nel ’96 con l’Ulivo. È stato Romano Prodi a chiudere
per sempre il ciclo dei contrasti politici in casa.

D.  Ci sono libri o film che, nella sua formazione, hanno se-
gnato momenti di svolta o comunque passaggi importanti?

R.  Fatico a scegliere un solo libro o un solo film. Invece,


se dovessi indicare un autore che più di altri ha scava-
to dentro l’uomo e che mi ha restituito nella lettura una
voglia di continuare a cercare nella complessità dei senti-
menti, questo è Fëdor Dostoevskij. Anche i registi che mi
piacciono di più sono quelli che provano a raccontare gli
­33
uomini, senza classificarli in buoni o cattivi. Tra questi Sam
Peckinpah, Akira Kurosawa e Clint Eastwood. Ricordo il
film di Peckinpah nel quale uno scostumato predicatore
pronuncia una memorabile orazione funebre: «Non si può
dire che fosse un uomo buono, non si può dire che fosse
cattivo, ma era un uomo».

D.  Il suo cursus honorum è stato molto accelerato. Nel


1980, a soli 29 anni, appena eletto nel consiglio regiona-
le dell’Emilia Romagna, divenne assessore. Qual è stata la
chiave della sua ascesa in una regione, dove certo il Pci non
improvvisava la scelta dei propri dirigenti?

R.  Un fattore casuale giocò a mio favore. Nel 1980, cau-


sa il contrasto con i socialisti, la legislatura regionale co-
minciò con un monocolore comunista. I posti di assessore
divennero per il Pci più del previsto e fu deciso di darne
uno anche a Piacenza. Ricordo che fu una segretaria del
gruppo a dirmi per prima che sarei entrato al governo, io
neppure lo immaginavo. Venni messo alla prova: il Pci era
un partito che sperimentava. La mia prima delega fu ai ser-
vizi sociali: settore dove gli assessori provinciali e comuna-
li erano quasi tutti donne. Quando scoppiò la bomba alla
stazione di Bologna fui tra i primi ad arrivare sul luogo
della tragedia: era il 2 agosto, il sindaco Renato Zangheri
si trovava in Russia e anche la regione era sguarnita. Nelle
primissime ore tenni i contatti con la macchina dei soc-
corsi e con i vertici della Stato. Un grande apprezzamen-
to pubblico ebbe poi l’efficienza degli aiuti regionali alle
popolazioni colpite dal terremoto in Irpinia e Basilicata,
sempre nel 1980. L’Emilia Romagna si prese in carico la
provincia di Potenza e nei comuni colpiti le carovane del
mio assessorato arrivarono prima degli uomini e dei mezzi
della prefettura di Potenza. Nel Pci venivano tenute in
gran conto le capacità organizzative. Ma le esperienze di
governo – nei diversi assessorati, alla vicepresidenza e alla
presidenza regionale, nel ruolo di ministro – mi hanno tut-

­34
te insegnato che non basta il pragmatismo per governare.
Anzi, che il carburante per governare sono le intenzioni,
i valori, le idee che si vogliono tradurre nei fatti. Senza
questa benzina, non c’è autonomia e coraggio per fare le
cose e si resta in balia di altre forze.

D.  Onorevole Bersani, in cosa consiste il «modello emilia-


no»? Lei se ne sente interprete? Se per tanti anni il governo
dell’Emilia Romagna è stato il vessillo del Pci, la sua creden-
ziale riformista, l’anticipazione di un nuovo blocco sociale,
non crede che anche nell’eredità ulivista di Prodi, quella che
lei vuole raccogliere, ci sia qualcosa di quell’impronta e di
quella cultura?

R.  Amo l’Emilia Romagna, ma la mitologia del «model-


lo» non mi ha mai convinto. Anzi, mi sono affermato in
Emilia Romagna mettendo a critica l’impostazione mo-
dellistica ed evitando sempre di pronunciare la formula
«modello emiliano». Il Pci aveva bisogno di dimostrare
agli italiani la sua distanza dall’Est europeo e voleva pro-
porre un patto alla borghesia, appunto «come in Emilia».
Tuttavia rievocare quella formula rischiava di incoraggia-
re un riflesso di conservazione, teso più a sottolineare le
acquisizioni del passato che i problemi e le sfide nuove.
Piuttosto le buone cose fatte dovevano indurci a ripro-
durre quei valori nella modernità, aprendoci criticamente
alle cose nuove. Quando nel ’99 perdemmo il comune di
Bologna, la causa fu precisamente un riflesso di conser-
vazione e di chiusura. Governare vuol dire cambiare. Chi
governa deve chiedersi ogni mattina: cosa cambiamo oggi?
Il contrario esatto del berlusconismo che nega i problemi.
Chi governa ha la postazione migliore per dire le cose che
non vanno e deve cercare la sintonia con i cittadini dimo-
strando anzitutto che comprende i loro problemi. Ciò che
più ho ammirato in Romano Prodi è stato il suo coraggio
di uomo di governo. Faceva le sue mediazioni, ma quando
selezionava l’obiettivo aveva un coraggio dell’innovazione
­35
che non è frequente in politica. Gli portavo cosucce tipo
l’abolizione dalla sera alla mattina delle licenze del piccolo
commercio o lo spezzatino dell’Enel e lui non si spaven-
tava. L’ultima prova l’ho avuta nel 2006 con le lenzuolate
delle liberalizzazioni: se il cambiamento è giusto, bisogna
affrontare a testa alta rischi e resistenze.

D.  Nel ’96 fu Prodi a chiamarla nel suo primo governo


come ministro dell’Industria. Come maturò la scelta di
Bersani? Fece premio la competenza tecnica del presidente
regionale o l’impresa politica di aver costruito in Emilia Ro-
magna uno dei primi laboratori dell’Ulivo?

R.  Quelli furono anni di grande cambiamento, in cui la


sinistra ritrovò la sua funzione nazionale. La costruzione
del centrosinistra è stata la premessa dell’Ulivo prima e del
Pd poi. Fui eletto presidente della regione nel ’94, pren-
dendo il posto del socialista Enrico Boselli. Silvio Berlu-
sconi vinse le elezioni di lì a poco e mi presentai subito in
consiglio regionale, indicando senza diplomazie un per-
corso di convergenza a tutte le forze disposte a costruire
un’alternativa al nuovo centrodestra. A Roma il centrosi-
nistra stava ancora maturando dopo la sconfitta dei Pro-
gressisti: io, guardando alle imminenti regionali del ’95, mi
rivolsi anzitutto al Partito popolare italiano (Ppi) e battez-
zai la nostra alleanza «Progetto democratico». Credo di
essere stato il primo a usare l’aggettivo «democratico» in
una grande competizione elettorale: ci presentammo insie-
me, il Partito democratico della sinistra (Pds), i popolari,
i repubblicani, i socialisti e i verdi. Un «Ulivone» che pre-
cedette l’Ulivo, che portò ad un grande successo in Emilia
Romagna e contribuì a comporre quel quadro nel quale
poi l’Ulivo nacque per davvero. Non so poi l’anno dopo
chi fece il mio nome come possibile ministro. Penso che
sia stato Mauro Zani, bolognese, allora coordinatore della
segreteria del Pds. Massimo D’Alema fu il primo a chia-
marmi al telefono: «Ma tu sei capace di fare il ministro?»

­36
mi disse. «Questo è un giudizio che lascio a te» risposi.
Non so se Prodi abbia spinto sul mio nome, oppure si sia
limitato ad attendere che il Pds lo proponesse. Sono sicuro
però che, tra i possibili candidati emiliano-romagnoli, ero
il preferito di Prodi. Con lui avevo un rapporto di stima e
simpatia. Anche di lavoro: mi diede ad esempio delle idee
quando si trattò di cancellare decine di enti regionali. Ma
con Romano, fino al ’96, mi ero trovato a ragionare più di
società che di politica.

D.  I primi anni Novanta furono un periodo assai trava-


gliato per la sinistra italiana di matrice comunista. In poco
tempo il Pci venne sciolto e il neonato Pds passò per la bufe-
ra di Tangentopoli, per i referendum elettorali, per il trionfo
di Berlusconi, e approdò addirittura al governo: era la prima
volta dopo la stagione del Cnl e della Costituente. Come si
schierò Bersani in questi passaggi cruciali?

R.  Confesso che la Bolognina fu un trauma per me come


per tutto il nostro popolo, e tuttavia un trauma atteso e
sperato. Dobbiamo inchinarci al gesto visionario di Achil-
le Occhetto. Da anni pensavo che stavamo andando con-
tro un muro e che cambiare strada era quasi impossibile.
Ci voleva qualcuno che rovesciasse il tavolo. Occhetto lo
fece. È vero, poi siamo entrati in uno stato di confusio-
ne e in una dimensione di indeterminatezza. Abbiamo
commesso errori politici e dopo il ’94 il cambio alla guida
del partito era necessario. Nella famosa sfida D’Alema-
Veltroni per la segreteria votai D’Alema ma, fosse stato
per me, avrei preferito una terza persona da cercare tutti
insieme. Poi comunque la barra si è addrizzata. Ci siamo
messi decisamente in marcia in direzione del centrosini-
stra e dell’Ulivo. E la vittoria del ’96 contro Berlusconi e
la Lega ha aperto una pagina della storia nazionale di cui
dobbiamo essere fieri: l’ingresso nell’euro ancora oggi è
un’ancora di salvezza per il nostro Paese.
­37
D.  A quali ricordi di quegli anni di governo è particolar-
mente affezionato?

R.  Il rapporto di amicizia e di stima di cui Carlo Azeglio


Ciampi mi ha onorato. Per me era un’autorità, a cui mi
avvicinavo con deferenza. Ciampi invece teneva ai miei
giudizi, faceva spesso appello alla mia concreta esperienza
di amministratore. Ricordo i mesi difficili, a tratti dram-
matici, del nostro avvicinamento all’euro, quando Ciampi
giocò tutto il suo prestigio per convincere i nostri partner,
la Germania anzitutto, della serietà e dell’affidabilità dei
nostri programmi. Ricordo che mi mandò in Germania per
spiegare la liberalizzazione del commercio: una riforma di
struttura che da quelle parti non sarebbe stata così sem-
plice da realizzare. «Dobbiamo darci credibilità» ripeteva
Ciampi. Ho applicato negli anni del governo l’essenziale
di quello che avevo imparato amministrando. Governare
ti costringe a dire dei sì e dei no. E dire di no è difficile. Lo
devi motivare, inserire in un messaggio trasmissibile. È un
grande, quotidiano allenamento che emancipa da una po-
litica fatta soltanto di applausi e costringe ad avere sempre
una visione in testa. Del resto, cos’è il consenso se non un
capitale da reinvestire? Se lo investi c’è un rischio, ma se
non lo investi il capitale deperisce. È come nella parabola
evangelica dei talenti. Il ritmo del governare è sincopato:
devi determinare un po’ di squilibrio, se vuoi che il con-
senso torni domani, magari accresciuto.

D.  C’è qualcuno che considera come un suo maestro?

R.  Ho avuto tanti maestri nella vita e negli studi, ma non


mi sento di eleggerne uno solo con la maiuscola. Nella sto-
ria mi piacciono i costruttori, non i fuochi di paglia. Mi
appassionano i protagonisti delle riscosse nazionali, gli
uomini-simbolo delle riunificazioni: Garibaldi, Mandela,
Helmut Kohl. Uno straordinario esempio di riformatore
è stato per me Giovanni XXIII: un papa che è riuscito

­38
a cambiare le cose rassicurando, a promuovere passaggi
cruciali, anche destabilizzando, senza indurre ansie. Oltre
questi personaggi, una figura ideale che mi ha sempre affa-
scinato è quella del capo-lega operaio o contadino di fine
Ottocento. Erano uomini forti che andavano nelle stalle a
parlare con gli analfabeti: costruttori del sociale con una
visione della politica nobile e una speranza per il futuro.
Fossimo capaci noi, nei nostri tempi, di far camminare la
storia come fecero loro!
III
LIBERARE L’ITALIA
DALLA GABBIA POPULISTA

D.  Gli affanni della democrazia hanno una dimensione


globale, ma in Italia hanno assunto caratteri specifici. La
transizione istituzionale, avviata nel nome della democrazia
diretta dopo l’esplosione di Tangentopoli, e il successo dei
referendum elettorali hanno prodotto un «presidenzialismo
di fatto» che mortifica il Parlamento e un bipolarismo di
coalizione che non garantisce governi efficaci. Qual è la sua
lettura di questa ormai lunga stagione?

R.  Con la torsione plebiscitaria che Silvio Berlusconi ha


imposto al sistema istituzionale e con la legge elettorale,
giustamente battezzata Porcellum, abbiamo raggiunto un
punto molto critico: è a rischio la tenuta stessa dell’equi-
librio costituzionale, e non sappiamo cosa sarebbe già ac-
caduto se nel ruolo di garante al Quirinale non ci fosse un
uomo della statura di Giorgio Napolitano. Per rispondere
alla domanda sulla transizione, ovvero sul perché e sul co-
me siamo giunti fin qui, ritengo però necessario ripercorre-
re un tratto più lungo della storia repubblicana. A me non
convince questa periodizzazione fondata sulla separazione
tra Prima e Seconda Repubblica e non mi persuade l’idea
che la transizione sia cominciata negli anni tra il ’92 e il ’94.
Per cogliere l’inizio della crisi democratica si deve tornare
almeno agli anni Settanta. La nostra transizione comincia
lì, non con i referendum elettorali che semmai furono un

­40
tentativo di uscire dall’involuzione e dal blocco di sistema
degli anni Ottanta e che certo produssero cambiamenti
nella configurazione e nelle regole della rappresentanza.
Se vogliamo davvero chiudere questa lunga stagione, è ne-
cessario comprendere le ragioni più profonde della crisi
della politica, perché cercare la soluzione solo in un mec-
canismo istituzionale o in un modello elettorale rischia di
essere illusorio.

D.  Onorevole Bersani, spieghi meglio come intende divi-


dere i tempi della storia della Repubblica.

R.  La prima fase della Repubblica, che affonda le radici


nella Resistenza e nel Cnl, va dall’Assemblea costituente al-
la fine degli anni Sessanta. Sono gli anni della ricostruzione
e dello sviluppo dopo il dramma della guerra. È il tempo
in cui i partiti che hanno fatto la Costituzione si caricano
di importanti e riconosciute funzioni nazionali: fare usci-
re il Paese dalla miseria, imparentarlo con la democrazia,
accompagnare l’emancipazione civile e culturale di un po-
polo. Erano appunto grandi partiti popolari che, pur nei
rigidi confini imposti dalla logica dei blocchi, innervavano
la società e animavano le istituzioni rappresentative. Un
libro, uscito di recente, ha raccolto le relazioni di un con-
vegno sul decennale della morte di Benigno Zaccagnini.
Ecco, la vita di Zaccagnini è uno degli esempi più limpidi
di ciò che sto dicendo: Zaccagnini ha fatto la Resistenza,
ha partecipato alla Costituente, nei comizi parlava dei suoi
valori e del suo progetto di società futura, ma in Parlamen-
to dal primo giorno in cui è entrato si è messo a lavorare
su leggi che riguardavano la vita materiale dei cittadini:
la mezzadria, la colonìa, i cantieri-scuola, l’artigianato.
La legittimità di quella politica si fondava proprio sulla
saldatura tra crescita economica, ruolo delle istituzioni e
riduzione della forbice sociale. Allora non c’era bisogno di
dire: «l’onesto Zac». Quando è diventato necessario dirlo,
la crisi era già esplosa.
­41
D.  Ma quando e perché, secondo lei, è entrato in crisi quel
modello?

R.  Alla fine degli anni Sessanta la società ha cominciato


a conoscere un certo benessere e a pretendere di più. La
nuova generazione, quella dei baby boomers cresciuti sen­
za il trauma della guerra, ha cercato nuovi orizzonti, si è
ribellata alle regole patriarcali, ha moltiplicato le istanze
libertarie. Il ’68 è il punto di svelamento più clamoroso
della crisi del vecchio equilibrio politico, anche se le tracce
della crisi si possono trovare prima. Nelle sue memorie
Giorgio Amendola racconta di una direzione del Pci in cui
con preoccupazione si cominciò a parlare di un crescente
disimpegno dei giovani dalla militanza politica: eravamo
a pochi giorni dalla rivolta delle «magliette a strisce» del
1960 a Genova contro il governo Tambroni! A contribui­
re alla crisi è anche la scoperta che la crescita economica
non ha una progressione infinita. Gli italiani conoscono
la «congiuntura» e classificano presto la parola come ne­
gativa. Già negli anni Sessanta emergevano pulsioni ed
esperienze che oggi chiameremmo di «società civile» che
pretendevano politicità e che non trovavano espressione
convincente nell’assetto politico. Sono le emergenze (il pe­
trolio, la guerra del Kippur, poi il terrorismo) a ridare ruo­
lo e funzione ai partiti popolari e a tacitare quei fermenti.
Sono Aldo Moro ed Enrico Berlinguer i leader autorevoli
che fanno appello alle radici costituenti, al capitale di cre­
dibilità ancora disponibile, per difendere i capisaldi della
Repubblica, e con essi i partiti che sono stati i principali
artefici dell’allargamento della sua base democratica. Fu
quella l’ultima possibilità di uscire dalla logica dei bloc­
chi restando nel solco di una politica che continuasse a
essere legittimata dalla fase costituente e potesse aprire
prospettive di rinnovamento per la democrazia italiana.
Ma il deterioramento della politica, intanto, scorreva co­
me un fiume carsico. Ho un ricordo vivissimo della festa
nazionale dell’Unità del ’77, a Modena, perché ero tra i vo­

­42
lontari: Berlinguer aveva appena finito di parlare davanti
a una folla sterminata, aveva detto che pochi «untorelli»
a Bologna non sarebbero bastati per far deragliare il Pci
dalla sua linea di responsabilità nazionale, ma un paio d’o-
re dopo un’altra folla gigantesca, in parte composta dalle
stesse persone che avevano applaudito Berlinguer, invase
l’arena per ascoltare il concerto di Edoardo Bennato con il
suo «sono solo canzonette» contro gli impresari di partito,
e in fondo contro gli stessi partiti. Ecco, quel sentimento,
che negli anni si è nutrito, da un lato, di autoreferenzialità
della politica, dall’altro di crescente sfiducia e distacco, ha
prodotto il nodo di una rappresentanza irrisolta che ha
progressivamente coinvolto sia i partiti che le istituzioni.

D.  Secondo un’interpretazione diffusa questa sarebbe la


storia dell’antipolitica che alla fine ha prevalso sulla politica.
Lei cosa ne pensa?

R.  La realtà è più complessa e sarebbe assurdo classi-


ficare come antipolitica tutto l’intreccio di fenomeni, di
domande sociali, di umori libertari, di modernità e di seco-
larizzazione che si è dipanato negli ultimi quattro decenni.
Noi abbiamo conosciuto un blocco politico, dovuto a ra-
gioni di carattere internazionale, che ha impedito l’alter-
nanza fisiologica e che poi negli anni Ottanta, ai tempi del
cosiddetto «Caf» è diventato una cappa insopportabile.
Una vera strozzatura democratica in cui le staffette a Pa-
lazzo Chigi tra leader del pentapartito non poteva valere
come surrogato di una vera democrazia dell’alternanza. Il
sentimento antipolitico e antipartitico, che pure ha origini
antiche nella cultura del nostro Paese, è un fiume che ha
corso lungo questo alveo e si è gonfiato progressivamen-
te, talvolta alimentato anche da sinistra. Va detto che una
grande spinta è venuta dall’incapacità dei partiti e delle
istituzioni di riformarsi e di ricostruire circuiti traspa-
renti di partecipazione. Così, quando è caduto il Muro,
mentre la Germania ha avviato la straordinaria macchina
­43
dell’unificazione e in tutti i paesi che uscivano dal blocco
sovietico si aprivano delle speranze nuove, da noi invece
c’è stato solo il vuoto d’aria. La crisi dei partiti nascosta,
occultata, devastata dal dilagare della corruzione, è esplo-
sa fragorosamente e non ha risparmiato nessuno. La crisi è
diventata discredito diffuso, i referendum hanno espresso
una grande voglia di cambiare, ma è stato Berlusconi a oc-
cupare meglio quel vuoto. Anche perché con i partiti non
funzionanti, si sono diffusi il culto del «leader» e la cultu-
ra della «supplenza». La personalizzazione della politica
ha animato suggestioni presidenzialiste, ovviamente senza
delineare i necessari contrappesi istituzionali. Da un lato
la magistratura e dall’altro i maggiorenti dell’economia na-
zionale si sono assunti invece compiti di moralizzazione:
non che mancassero le buone ragioni per intervenire, ma
non si può negare che da parte dei magistrati ci siano state
invasioni di campo e che i poteri economici abbiano agito
in difesa di interessi molto concreti. Ecco, nel motore di
Berlusconi questa antipolitica accumulata è diventata la
benzina che lo ha spinto, il propellente che aveva bisogno
di una strutturale sfiducia della politica per dare energia
al progetto. E si comprende bene come l’antipolitica in
questo caso sia stata l’altra faccia del populismo: non so-
stengo certo che questa sia la sola ragione del successo
berlusconiano, tuttavia è il fattore di maggiore squilibrio
istituzionale. La cosiddetta transizione, in realtà, non si è
mai chiusa proprio perché Berlusconi non vuole chiuder-
la: pensa di utilizzare a proprio vantaggio le deformazioni
che l’hanno determinata e il discredito della politica e dei
partiti che ne consegue.

D.  Nel popolo del centrosinistra è ancora aperta la ferita


del ’97, quando Massimo D’Alema tentò nella Bicamerale la
strada delle riforme condivise con Berlusconi. Fu un errore
quel tentativo oppure l’attuale squilibrio tra i poteri di oggi
è proprio il frutto avvelenato del mancato compromesso di
allora?

­44
R.  Fu giusto scandagliare, provarci. Del resto la Bicame-
rale per le riforme era il primo punto del programma elet-
torale con cui l’Ulivo vinse le elezioni del ’96. E la ricerca
di riforme condivise sta nella nostra cultura costituzionale.
Probabilmente se il compromesso della Bicamerale fosse
stato confermato dal Parlamento, oggi vivremmo un diver-
so rapporto tra istituzioni e società, tra politica e partiti:
la riforma da sola non basta a ripristinare una relazione di
fiducia tra i cittadini e la politica, ma se i partiti non sono
neppure capaci di mettere ordine e ritrovare un equilibrio
tra i poteri, allora l’impresa si fa quasi impossibile. Invece
Berlusconi decise di far saltare tutto. E lo fece, non a caso,
sul tema della giustizia. Dopo aver cavalcato Mani Pulite
con piglio giustizialista, quando finì lui stesso al centro di
inchieste con accuse piuttosto pesanti, cominciò a colti-
vare l’idea che all’indubbio squilibrio esistente bisognas-
se rispondere con un drastico recupero del primato della
politica sulla giustizia. Si badi bene: la sua risposta non
era un nuovo equilibrio tra governo, Parlamento e potere
giudiziario, ma un diverso sbilanciamento, peraltro accen-
tuato dalle forzature leaderistiche e dalla distorsione del
concetto di sovranità attribuita in modo populistico diret-
tamente alla funzione di governo. Sono tendenze che, negli
anni 2000, hanno poi assunto curvature pericolose e che
ora producono continui e intollerabili conflitti istituzionali.
Ma già da allora, dal ’98 in poi, fu chiaro che Berlusconi
avrebbe puntato le sue carte non sulla riforma, bensì sull’a-
cuirsi della crisi. E da quel momento il precario equilibrio
post-referendario tra istanze di democrazia diretta e regole
della democrazia rappresentativa cominciò a saltare, a pie-
garsi verso esiti plebiscitari, a travolgere la divisione dei po-
teri. Se dunque fu giusto tentare nel ’97 con la Bicamerale
un accordo di sistema con il leader del maggiore partito
d’opposizione, ora non possiamo dimenticare quell’esito.

D.  Nei primi anni Novanta la sinistra si immedesimò nel


movimento referendario. La bandiera della democrazia di-
­45
retta e la «religione del maggioritario» furono gli arieti che
contribuirono a sfondare le porte del Palazzo, portando a
un ricambio della classe dirigente e a uno stravolgimento
della mappa politico-partitica. Ora invece nel centrosini-
stra si sentono molte voci autocritiche, si parla di equilibri
costituzionali da ritrovare, si chiede un recupero del ruolo
del Parlamento. È il riflesso della vittoria di Berlusconi nel
braccio di ferro istituzionale di questi ultimi anni?

R.  Il movimento per le riforme aiutò l’Italia a superare


un momento drammatico. Non c’erano solo un sistema
che non aveva in sé le condizioni per riformarsi e una cor-
ruzione dei meccanismi di riproduzione del consenso che
alimentava sfiducia e disillusione: non va dimenticato che
allora, nell’Italia che aveva appena sottoscritto il trattato
di Maastricht, scattò anche l’allarme rosso sulla tenuta dei
conti pubblici e arrivammo a un passo dal baratro. Il ricam-
bio della classe dirigente ebbe modalità traumatiche, e non
tutto ciò che accadde in quella fase fu limpido ed esemplare,
tuttavia quei referendum contribuirono a introdurre nel no-
stro Paese la democrazia dell’alternanza. Anch’essi dunque
rappresentarono un passo importante verso l’Europa. Tra i
meriti di quel movimento voglio ricordare la battaglia per i
collegi uninominali-maggioritari che – nella forma del dop-
pio turno – ritengo ancora la migliore modalità di selezione
dei parlamentari e che spero la riforma elettorale recepisca
in misura significativa. Ma il tempo è maturo per riconosce-
re anche errori e contraddizioni: la domanda di semplifica-
zione politica fu rilanciata spesso senza neppure distinguere
tra sistema presidenziale e sistema parlamentare; la richiesta
di democrazia diretta venne spinta fino a indebolire il telaio
della nostra Costituzione e a proporre come forma di go-
verno un «sindaco d’Italia» che non avrebbe avuto uguali in
Occidente. Anche su queste contraddizioni Berlusconi ha
fatto leva per imporre la sua accelerazione e per giungere
all’attuale «presidenzialismo di fatto» che ci sta allontanan-
do dal costituzionalismo europeo.

­46
D.  Lei ritiene che sia stata la legge elettorale del 2006 la
principale leva che ha consentito a Berlusconi di piegare il
sistema verso un «presidenzialismo di fatto»?

R.  La torsione plebiscitaria del nostro sistema non è im-


putabile solo alla pessima legge elettorale, così come non
sarà soltanto una riforma elettorale a farci uscire dalla crisi
democratica. Il mito del premier scelto direttamente dai
cittadini circolava prima ancora che i nomi dei candidati
cominciassero a essere inclusi nei simboli elettorali; i poteri
del governo in Parlamento si erano già dilatati attraverso
prassi e strumenti non coordinati, talvolta attraverso veri
e propri strappi come l’abuso delle ordinanze in deroga,
comunque al di fuori di un quadro organico e di un bilan-
ciamento dei poteri; il maggioritario di coalizione, già pri-
ma di un inaccettabile premio di maggioranza, aveva mo-
strato l’anomalia del bipolarismo italiano, con governi in
continuo affanno e una frammentazione politica pressoché
inarrestabile. A questo il Porcellum ha aggiunto il carico
delle liste bloccate: uno scandalo, una violenza istituziona-
le, che sottrae ai cittadini il diritto di scegliersi il proprio
parlamentare per consegnare questo potere a ristrettissime
oligarchie di partito. È chiaro perché un Parlamento così
sfregiato stenti persino a rivendicare la rappresentanza del-
la sovranità popolare, mentre invece la pretende per sé un
governo a cui la Costituzione non l’assegna.

D.  Quali sono oggi le linee di una riforma elettorale se-


condo Bersani?

R.  Mi preme fare una premessa prima di rispondere


alla domanda. Ho sempre detto che non mi impiccherò
a una formula. C’è una gamma di soluzioni che possono
restituire ai cittadini la scelta dei parlamentari, ridurre la
frammentazione politica, assicurare una trasparenza delle
alleanze tra i partiti, e dunque consentire che la sera dei
risultati elettorali sia di norma già chiaro quale governo si
­47
formerà in Parlamento. Dico questo perché, da segretario
del Pd, voglio lavorare per costruire un’intesa con altre
forze, convinto che nella temperie di oggi questo accordo
possa valere più di una mera convergenza sulle regole. Ma
sottolineo questo aspetto anche perché giudico sbagliati
nel Pd alcuni eccessi, persino fanatismi, su questo o quel
modello. Non è vero che il dna del Pd è compatibile solo
con una particolare forma di bipolarismo, come non è ve-
ro che il Pd possa vivere soltanto con determinati sistemi
elettorali. Il Pd non è nato da alchimie politologiche o da
ingegnerie istituzionali, ma dall’esperienza dell’Ulivo ed è
di per sé un tentativo di rispondere alla crisi democratica
di cui abbiamo parlato. Anzi, direi che da parte nostra
è il tentativo più importante che abbiamo compiuto per
affrontare questa fase storica e politica italiana. È il nostro
più grande contributo alla riforma della politica, all’attiva-
zione di un nuovo circuito di partecipazione democratica,
alla costruzione di un partito moderno capace di collegare
la società viva con le istituzioni. Il Pd è in sé una proposta
per uscire dalla transizione con una nuova qualità della po-
litica e della partecipazione, dopo che la personalizzazione
estrema e la cultura della supplenza hanno dimostrato di
non essere soluzioni ma aggravio dei problemi.

D.  Fatta la premessa, però, deve dirci qualcosa di più sui pro-
getti di riforma, dopo aver manifestato la sua preferenza per
una consistente quota di collegi uninominali-maggioritari.

R.  Un’efficace clausola di sbarramento può ridurre la


frammentazione e dare maggiore autorevolezza ai pochi
partiti che poi animeranno la vita parlamentare. Strumenti
assai meno distorsivi e molto più efficaci del premio di
maggioranza (che peraltro nel Porcellum scatta senza soglia
alcuna, peggio addirittura della legge Acerbo promulgata
sotto il fascismo) possono garantire stabilità agli esecutivi:
ad esempio, la sfiducia costruttiva. Un sistema uninomina-
le a doppio turno, che per me resta il preferito, può essere

­48
ad esempio bilanciato con una quota proporzionale che
assicuri la rappresentanza alle forze intermedie e renda co-
sì più mite e meno ingessato il nostro bipolarismo. In ogni
caso penso che una riforma elettorale oggi in Italia debba
prevedere anche un meccanismo di trasparenza, tale da
rendere esplicite le alleanze agli elettori prima del voto.

D.  A questa sua ultima affermazione si può obiettare che


in nessun Paese europeo c’è un vincolo preventivo di al‑
leanza. E, se fosse codificato, si rischierebbe di riprodurre
quel «presidenzialismo di fatto» da lei contestato, irrigiden-
do le coalizioni e dunque legandole a un leader.

R.  Intendo battermi per un sistema che riporti l’Italia


in Europa. Per un sistema parlamentare rafforzato, in cui
davvero il governo possa disporre di poteri efficaci, pren-
dere le necessarie decisioni in modo rapido, guidare in
maniera migliore la macchina amministrativa, pur nel con-
fronto con un Parlamento forte e pienamente legittimato
nell’esprimere il proprio giudizio sul governo in carica e i
suoi atti. Tuttavia, penso che dobbiamo avere delle accor-
tezze per recuperare quella fiducia nella politica che tanti
cittadini non hanno più. La linearità, la trasparenza delle
alleanze altrove è garantita dalla sanzione elettorale, in Ita-
lia serve un impegno preventivo in più. Da noi, perché la
riforma sia da subito accettata, è necessario che i partiti
si assumano in anticipo la responsabilità delle alleanze.
Non saremo capaci di chiudere la transizione se le forze
politiche non si faranno garanti di un nuovo patto con i
cittadini. Il sospetto del trasformismo, dell’oligarchia che
decide con logiche autoreferenziali, va allontanato per-
ché anch’esso può separarci dall’Europa non meno del
plebiscitarismo berlusconiano. Penso che anche quando
metteremo mano alle riforme istituzionali dovremo pre-
vedere qualche procedura aggravata per assicurare che il
sistema parlamentare funzioni da noi con la stessa linearità
e coerenza di altri Paesi: ad esempio, se si cambia gover-
­49
no durante la legislatura, si può stabilire un ritorno alle
elezioni in un tempo ravvicinato. Sarebbe un’assunzione
di responsabilità che nulla toglierebbe alla sovranità e alla
libertà del Parlamento.

D.  Perché allora non imboccare direttamente la strada


presidenziale, o semi-presidenziale, ovviamente eleggendo
il Parlamento in un tempo diverso dal vertice dell’esecuti-
vo? Questa ipotesi non è del tutto minoritaria nello stesso
campo del centrosinistra.

R.  Non sono presidenzialista per due motivi. Il primo:


la nostra tradizione costituzionale ha un peso e sono an-
che convinto che interpreti il sentimento della stragrande
maggioranza dei cittadini. È vero che la vulgata dominante
di questi anni ha spinto verso una sorta di bi-leaderismo,
ma ora sono evidenti le storture e i prezzi da pagare. Il
secondo motivo è il rischio plebiscitario. Siamo un Paese
diviso, tra Nord e Sud, tra localismi e reti corte: rinun-
ciare ad un presidente-garante per aprire la competizione
sul vertice dell’esecutivo, che a quel punto sarebbe anche
Capo di Stato, può portarci direttamente in Sudamerica
senza neppure transitare da Washington o Parigi. È un
rischio che non voglio correre.

D.  La sua critica al presidenzialismo si spinge fino a rimet-


tere in discussione anche l’elezione diretta dei sindaci, dei
presidenti di provincia e dei presidenti di regione?

R.  I comuni e le province esercitano poteri ammini-


strativi. L’elezione diretta è stata in questi quindici anni
un’esperienza largamente positiva, che ha consentito di
valorizzare le responsabilità di chi è chiamato a funzioni
di governo, emancipandolo dalle dinamiche, e spesso dalle
convulsioni, della politica locale, e favorendo anche l’azio-
ne concreta laddove il confronto con i cittadini è spesso
basato sul tu per tu. Non c’è alcun motivo per rivedere

­50
l’elezione diretta dei sindaci, fermo restando il limite dei
due mandati, che può arrivare fino a tre per le realtà più
piccole. Le regioni esercitano invece un potere legislativo,
come quello del Parlamento nazionale. E il potere legisla-
tivo è enormemente cresciuto per quantità e qualità dopo
la riforma del titolo V della Costituzione. L’elezione diretta
del governatore ha anch’essa conquistato una certa popo-
larità, ma va detto onestamente che una forma di governo
presidenziale così rigida non si concilia con un’assemblea
chiamata a compiti di legislazione complessa. Siamo a un
bivio per il federalismo. Un fattore di equilibrio potrebbe
essere fornito da un vero Senato delle regioni. Tuttavia
penso che per il governo regionale sia meglio tornare alla
regola del ’95, quella dell’indicazione del presidente: se il
presidente si dimette, la sua maggioranza deve essere in
grado di eleggere un successore senza l’obbligo di tornare
alle urne. La continuità di una assemblea legislativa non
può essere affidata a una persona sola.

D.  Il Pd si proclama «partito della Costituzione», mentre


il centrodestra distingue volentieri tra Costituzione formale
e Costituzione materiale. Non temete di passare per conser-
vatori? Soprattutto non avete paura che la vostra preferenza
per il sistema parlamentare venga letta come nostalgia dei
governi deboli?

R.  Questa Costituzione è amata dagli italiani. È tra i po-


chi simboli che accomunano davvero il Paese. Per questo
difenderla, richiamarsi a essa è quasi sempre un vantaggio,
non un pericolo. E poi la Costituzione corre ancora da-
vanti a noi che dobbiamo inseguirla: altro che conservato-
rismi! Le cose migliori dell’Italia sono state fatte proprio
rincorrendo alcuni articoli della Carta. Nei miei discorsi
cito spesso e volentieri l’art. 3: «Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge... È compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine econo-
mico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’egua-
­51
glianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana...». A cos’altro meglio che a questo il Pd
potrebbe ispirarsi per legare democrazia e uguaglianza?
Mentre invece quei discorsi sulla Costituzione materiale
muovono da presupposti ambigui: è forse una presunta
investitura popolare diretta del premier o del governo ad
autorizzare un cambiamento costituzionale di fatto senza
passare dalle forme rigide che la Carta impone per le sue
modifiche? Ma ciò non è la conferma che nel centrodestra
qualcuno immagina che il consenso venga prima delle re-
gole? Noi non vogliamo governi deboli, come invece sono
deboli i governi di questi anni. E non abbiamo nostalgie.
Vogliamo riforme, vogliamo uscire dalla gabbia di questo
sistema che non funziona. Le nostre proposte sono note:
un Parlamento più snello e autorevole, con meno depu-
tati e senatori ma con più efficaci funzioni di controllo;
un superamento del bicameralismo perfetto con un vero
Senato delle regioni; un governo forte, dotato di strumenti
moderni e rapidi, ma capace di confrontarsi alla Camera
con la sua maggioranza e con le opposizioni. Governi forti
ne abbiamo avuti solo per piccoli tratti nella cosiddetta Se-
conda Repubblica. Se saremo capaci di fare un salto verso
un governo parlamentare rafforzato penso che finalmente
si potrebbero definire nuovi equilibri tra legislativo ed ese-
cutivo. Perché è chiaro che non siamo più a Montesquieu,
che la separazione dei poteri non è più segnata dai confini
di un tempo, che c’è una crisi della legislazione ordina-
ria con cui fare i conti. C’è bisogno di un nuovo patto
tra governo forte e Parlamento forte: più leggi-delega e
procedure snelle sulle materie dove la competizione inter-
nazionale impone al sistema-Paese adeguamenti rapidi ed
efficaci; completo affidamento all’iniziativa parlamentare
invece per i grandi quadri di riforme, come la scuola, la
sanità, l’università, la ricerca, dove le scelte devono neces-
sariamente guardare a un futuro lontano e non sopportano
rivolgimenti a ogni cambio di maggioranza politica come è
avvenuto in questi anni.

­52
D.  La giustizia ha bisogno di riforme strutturali. Il mal
funzionamento della macchina giudiziaria, in campo penale
e ancora più in campo civile, è ormai un’emergenza del Pae-
se. Non pensa che anche il centrosinistra abbia le sue colpe,
non essendo riuscito spesso a distinguersi dal «partito dei
giudici»?

R.  I magistrati hanno assunto ruoli di supplenza nella


crisi della politica, la maggior parte di loro spinti da fattori
oggettivi e animati da buona fede. Recuperare un equili-
brio e un’ordinata divisione dei poteri è un problema che
riguarda l’ordinamento, ma anche i comportamenti e la re-
sponsabilità di tutti. Certo, Berlusconi lavora in direzione
opposta per impedire un percorso che porti alla normaliz-
zazione. La sequenza delle leggi ad personam, la centralità
che queste assumono nello stesso programma di governo,
gli incessanti, volgari, sconclusionati attacchi ai magistrati
costituiscono gravissimi problemi istituzionali. Riformare
la giustizia è una necessità per il Paese che richiede una
serenità che al momento viene negata. Nessuna riforma
sarà possibile finché Berlusconi cercherà di introdurre
norme ad personam, per via ordinaria o costituzionale, al
fine di garantirsi una impunità a spese dei cittadini e del
regolare funzionamento del sistema giudiziario. Invece la
riforma della giustizia è un nodo ineludibile in quanto il
suo malfunzionamento attuale reca anche danni all’eco-
nomia e al mercato. Non solo perché la corruzione costa,
bensì perché una giustizia lenta non garantisce imprendi-
tori e piccoli artigiani che, ad esempio, non hanno difese
davanti alla prassi, sempre più frequente in tempi di crisi,
dei mancati pagamenti. Inoltre va considerato che il ruolo
del magistrato è cresciuto in questi decenni non solo per-
ché la sua azione talvolta travalica i confini della politica,
ma anche perché la crisi della legge e la moltiplicazione
delle fonti ha reso più ampio e incerto il campo dell’inter-
pretazione. Noi vogliamo riformare la giustizia e vorrem-
mo farlo sul serio. Partendo ovviamente dai problemi più
­53
acuti per i cittadini, anzitutto il processo civile: il tempo
dei processi si deve accorciare e questo richiede risorse e
interventi organizzativi e normativi. Anche la giustizia pe-
nale ha bisogno di riforme. E includere disposizioni serie
sulla responsabilità dei magistrati non può essere inteso
come una limitazione dell’autonomia degli stessi. Il Csm
stesso va riformato, senza separare l’ordine dei giudici da
quello dei pm, semmai includendo in un unico Consiglio
tutte le magistrature, e magari collocando all’esterno la
commissione disciplinare chiamata a giudicare sull’opera-
to dei magistrati.

D.  A proposito di mancato equilibrio del sistema, un’accu-


sa rincorre il centrosinistra da più di un decennio: non essere
riuscito a far approvare una legge sul conflitto di interessi.
Per molti l’accusa si è dilatata fino a delineare quasi una
complicità con Berlusconi. Qual è la sua opinione?

R.  Dovevamo fare di più. I conflitti di interessi in Italia


si allargano, incrinano l’etica pubblica, contribuiscono a
indebolire lo stesso principio di legalità. Tuttavia le pole-
miche nel centrosinistra sono state talvolta fuori misura. Si
tratta di una materia molto complessa: basti pensare che in
un Paese come la Gran Bretagna non esiste una legge om-
nicomprensiva sui conflitti di interesse. Dobbiamo muo-
verci su due binari. Il primo: l’Italia ha bisogno di una leg-
ge più rigorosa ed equa sulle incompatibilità. Non è giusto
che il signor Bricchi di Bettola non possa fare l’assessore
del suo paese perché ha la minuscola concessione delle
affissioni comunali e invece il signor Berlusconi, proprie-
tario di un impero multimediale e titolare di concessioni
dello Stato di enorme portata, possa guidare il governo na-
zionale, scaricando sul suo amministratore delegato, Fede-
le Confalonieri, il divieto di ricoprire incarichi pubblici. Il
secondo binario è quello della legislazione anti-trust, che
da noi ha lacune gravi in diversi settori, compreso quel-
lo delle comunicazioni e dell’informazione. In ogni caso,

­54
però, sarebbe un errore affidare tutto alle norme e pen-
sare che queste, da sole, possano risolvere i problemi. La
necessaria legislazione anti-trust, per essere efficace, deve
poggiare su un pluralismo effettivo degli operatori, su una
libertà del mercato e una concorrenza maggiori di quelle
attuali. A questo devono essere orientate le politiche pub-
bliche. Ciò che concretamente ha consentito a Berlusconi
di resistere nel conflitto di interessi è stato assai più il duo-
polio televisivo che non la carenza di norme. Berlusconi ha
fatto di tutto per mantenere i caratteri monopolistici e da
quella posizione anche le leggi più severe sarebbero state
aggirabili, ad esempio trasferendo la proprietà ai figli o a
un fiduciario. La mia idea invece è quella di aggiungere
nuovi soggetti e dunque maggiori libertà e un principio di
autentica concorrenza nel settore delle telecomunicazioni.
Penso che il destino del centrosinistra italiano sia quello
di fare le liberalizzazioni che il centrodestra da noi si è
dimostrato strutturalmente incapace di fare.

D.  Il discorso si sposta così sulla televisione e sulla Rai.


Come sarà possibile colmare i ritardi e correggere gli errori
che si sono accumulati nel corso degli anni?

R.  Occorre anzitutto distinguere il tema della responsa-


bilità pubblica nel settore della comunicazione dalla que-
stione della Rai. Il primo, essenziale compito è garantire
che non si creino posizioni dominanti in un’epoca di grandi
trasformazioni tecnologiche e di inedite convergenze mul-
timediali. A mio giudizio è necessario riformare la stessa
Autorità delle comunicazioni, evitando le attuali lottizza-
zioni e assumendo come modello l’Autorità per l’energia,
dove tutti i componenti del consiglio di amministrazione
devono avere il gradimento dei due terzi del Parlamen-
to. L’Autorità, in un quadro normativo rinnovato, dovrà
vigilare sul comune accesso alle reti e sull’equilibrio tra i
vari operatori nell’approvvigionamento delle risorse. Un
secondo importante compito riformatore riguarda le po-
­55
litiche industriali del settore: la banda larga, il sostegno
ai processi di innovazione delle imprese, il dividendo che
può derivare dal trasferimento dall’analogico al digitale. È
a questo punto che si colloca la domanda sul futuro della
Rai. Avrà ancora senso un’impresa pubblica se riusciremo
a costruire un contesto finalmente più pluralista? La mia
risposta è sì. E non perché immagino un ruolo pedagogico
della Rai, ma perché penso che la nostra società sarà più
ricca se avrà delle riserve a cui attingere per riparare agli
inevitabili fallimenti del mercato. La Rai che immagino
nel futuro è un soggetto capace di mettere un di più di
libertà e di sperimentazione, una sorta di nave-scuola della
creatività italiana. Si potrebbe discutere di una riorganiz-
zazione della Rai, magari con una sua funzione totalmente
a canone, con una società separata che sviluppi i contenuti
in chiave commerciale, con una società per le infrastrut-
ture alla quale potrebbero partecipare anche privati. Ma
soprattutto è necessario modificare la governance per li-
berarla di questo insopportabile eccesso di presenza e di
controllo politico: occorre fare in modo che la Rai diventi
una vera azienda, con un Parlamento che ne indichi la
missione e un amministratore delegato che, sulla base del
codice civile, possa guidarla con piena e verificabile re-
sponsabilità come avviene per le altre società a controllo
pubblico.
IV
L’EUROPA CHE VOGLIAMO

D.  Il mondo vive rivolgimenti profondi. La globalizzazio-


ne sta cambiando le gerarchie del pianeta a sfavore dell’Eu-
ropa, e dunque anche dell’Italia. La razionalità dovrebbe
spingere a rafforzare l’Unione europea, se non altro perché è
la sola dimensione che può consentire al vecchio continente
di competere e di far sentire la voce della propria civiltà, ma
la crisi economica, la più pesante dal crollo di Wall Street
del ’29 e dalla Grande depressione, genera paure, chiusure
localistiche, pulsioni populiste. È possibile spezzare questa
tenaglia e come?

R.  Anzitutto bisogna comprendere, definire la globaliz-


zazione. Solo così risulterà evidente quanto grande sia il
bisogno di Europa, da parte dei suoi cittadini come del
mondo intero. Questa non è la prima impetuosa globaliz-
zazione che la storia conosce. Anche tra la fine dell’Otto-
cento e i primi del Novecento ci fu uno straordinario salto
tecnologico: in pochi anni vennero inventati la bicicletta,
la ferrovia, l’aereo, l’automobile, il transatlantico, l’energia
elettrica, la radio, si fece l’ora di Greenwich e tutto il mon-
do registrò l’orologio. Pure allora la tecnica moltiplicò e
accelerò produzioni e scambi commerciali. Fu una globa-
lizzazione sostenuta da idee positiviste, dove l’aspirazione
a una nuova umanità si incrociava con l’ottimismo scien-
tista, dove l’euforia della Belle époque si combinava con
­57
la diffusione delle idee socialiste e le prime battaglie per
l’emancipazione del mondo del lavoro, ma ciò non impedì
meccanismi difensivi e chiusure nazionaliste che precipita-
rono nella Prima guerra mondiale. Le piazze delle capitali
europee divennero spettatrici di manifestazioni di popolo
a favore della guerra: il desiderio bellico penetrò nel cuore
dell’Europa e con lo sguardo di oggi possiamo dire che ci
restò fino al termine della Seconda guerra mondiale. La
storia non si ripete mai ma ama le rime e le assonanze.
Dobbiamo avere per certo che la faccia oscura dei pro-
cessi di globalizzazione è sempre e comunque, in qualche
forma, un istinto al ripiegamento.

D.  Eppure sembra arduo accostare quanto sta avvenendo


all’esordio del nuovo millennio con ciò che è accaduto più di
un secolo fa. Il salto tecnologico di questi anni ha rimpiccio-
lito il mondo, non solo negli scambi ma anche nella comu-
nicazione, nelle conoscenze, nella cultura, tanto da produrre
quasi uno sconvolgimento antropologico.

R.  È vero, il mondo si è così rimpicciolito che ora te lo


trovi alla porta di casa. Internet sembra aver travolto ogni
barriera. E tutti siamo finiti in un frullatore: straordinarie
opportunità si mescolano a indebite intrusioni e ingiusti-
zie. Eppure ci sono duri fattori strutturali che delineano la
nostra globalizzazione e che spiegano anche le cause della
crisi economica e finanziaria. Comprendere similitudini e
differenze rispetto al passato è necessario per elaborare una
strategia riformista e contrastare ciò che sembrava impor-
si come «pensiero unico». Il salto tecnologico del nostro
tempo ha prodotto e incrociato un enorme incremento del-
la dinamica produzione-scambi, ma, a differenza di ogni
altra epoca precedente, l’aumento degli scambi ha supe-
rato di molto quello della produzione. Sono state distribu-
ite inedite chances di crescita, sono cambiate le gerarchie
mondiali, ma gli squilibri strutturali sui quali poggiava la
globalizzazione hanno avuto come conseguenza la terribile

­58
crisi economico-finanziaria dai cui effetti non ci liberere-
mo presto. Oggi molti concordano sull’analisi della crisi:
si è creato denaro senza un adeguato sviluppo dei mercati
interni; l’economia più forte, quella americana, è cresciuta
sul debito, finanziata in larga parte dalla Cina che accumu-
lava risorse con l’export, ma anche dai Paesi produttori di
petrolio che investivano in titoli i loro ricavi concentrati in
pochissime mani; si è pensato che invece di remunerare il
lavoro si potessero garantire con il debito privato i consumi
della classe media; l’autonomia della finanza ha inventato
moltiplicatori che hanno prodotto una gigantesca bolla
speculativa, convincendo i cittadini che persino il debito
privato potesse produrre ricchezza; la grande illusione è
stata infine completata dalla bassa inflazione, dovuta prin-
cipalmente a merci confezionate in Asia a costi ridottissimi.
Insomma, non c’erano più termometri per misurare la feb-
bre. Ma poi la febbre è esplosa lo stesso.

D.  La globalizzazione comunque non è solo la crisi econo-


mico-finanziaria. Altrimenti bisognerebbe concludere che la
globalizzazione è cattiva e che occorre tentare un’improba-
bile retromarcia.

R.  Non sono certo i progressisti a dire che la globalizza-


zione è cattiva. Come potremmo farlo? Se rinunciassimo
alla speranza che «il mondo diventi una cosa sola», come
cantava John Lennon, rinunceremmo anche al seme di un
nostro pensiero alternativo. Piuttosto sono le destre po-
puliste a prosperare con le demagogie nazionaliste e loca-
liste. Da noi è l’ampolla di Umberto Bossi il rito anti-glo-
balizzazione per antonomasia. Ma provi Bossi a riempire
l’ampolla nel Pacifico e vediamo se riesce a fermare la glo-
balizzazione! In realtà mentre le destre populiste agivano
all’interno sulle paure dei ceti popolari, le forze conserva-
trici al governo dell’Europa hanno dato campo libero al
pensiero unico e alla «politica unica». Nel 2001 uscì una
bozza Tremonti, ispirata al modello americano dei mutui,
­59
la quale muoveva dal presupposto che gli italiani fossero
in larga maggioranza proprietari di case cresciute di valore
nel tempo: obiettivo del suo progetto era monetizzare quel
plusvalore per trasformarlo in consumi individuali. Per for-
tuna non se ne fece nulla, grazie alle denunce dell’opposi-
zione. Ma la filosofia era la stessa quasi ovunque: nessun
investimento sui salari e sull’ammodernamento del welfa-
re, disattenzione rispetto all’economia reale. Il limite dei
progressisti, soprattutto negli anni Novanta in cui hanno
avuto responsabilità di governo in gran parte dell’Euro-
pa, è stato quello di confidare un po’ ingenuamente nelle
magnifiche sorti della globalizzazione che allora avanzava.
Erano gli anni di Bill Clinton, e l’influenza sulle sinistre eu-
ropee si è sentita. La comunicazione globale offriva inedite
potenzialità di emancipazione, apriva i mercati dell’Asia
a beneficio sicuramente della crescita di Cina e India (ma
oggi cosa ne sarebbe della nostra industria senza l’aumen-
to della domanda asiatica?), lasciava intravedere un ciclo
di espansione anche della democrazia. L’errore è stato far
correre la finanza senza regole, non comprendendo la sua
propensione egemonica: la finanza ha affinato i propri
strumenti esattamente nel punto in cui il ciclo tecnologico
dell’informatica ha raggiunto la massima velocità. Con la
net economy in quegli anni si è scomposto e ricomposto il
capitalismo. La manifattura sembrava non valere più e a
dare i più alti rendimenti erano i titoli immateriali. Non si
stava formando solo una bolla: era una cultura, una nuova
scala di valori, un’evoluzione del mercato che veniva impo-
sta non solo come auspicabile ma come l’unica possibile.

D.  Nel libro La paura e la speranza, che diventò nel 2008


una sorta di manifesto elettorale della coalizione Pdl-Lega,
Tremonti assegnò alle forze di centrosinistra la responsa-
bilità maggiore di essersi arrese alla cultura «mercatista»,
mentre invece riservò al centrodestra le principali riser-
ve valoriali per rimettere la persona e la società al centro
dell’economia.

­60
R.  Non ho negato le responsabilità delle forze progressi-
ste negli anni Novanta. Ma quelli di Tremonti mi sembra-
no giochi di parole per evitare il confronto con la realtà e
tentare semmai di rovesciarla. Il tempo del «mercatismo»
è stato soprattutto lo scorso decennio, dominato da un
lato dall’amministrazione del repubblicano George W.
Bush, dall’altro dai governi conservatori nella maggioran-
za dei Paesi europei. Queste forze sono riuscite, è vero,
a interpretare meglio le paure delle classi medie ma in-
tanto l’Europa ha perso drammaticamente terreno nella
competizione globale e la politica si è mostrata incapace
di regolare, persino soltanto di contenere lo strapotere di
una finanza che si concepiva ormai come la padrona del
mercato. Sia chiaro, non mi sfugge la differenza tra i partiti
conservatori classici, ancorati ai valori costituzionali e ai
fondamenti della cultura europea, e i fenomeni populisti
e regressivi che compaiono in varie lande del continente e
che mostrano di condizionare in qualche misura le destre
costituzionali. Comunque, le politiche conservatrici non
hanno graffiato. Il loro vantaggio competitivo è stato fin
qui nella risposta alla crisi, tutta interna alla dimensione
nazionale, mentre invece risulta sempre più evidente che
un progetto riformista non può limitarsi a un Paese solo.
I riformisti hanno bisogno di una scala più grande: questo
è il nostro problema. La crisi sta dimostrando a tutti che
la chiusura nazionale è un’illusione. Purtroppo, tornando
a Tremonti, la realtà dei fatti è che la «paura» riguarda i
poveri e le classi medie mentre la «speranza» è riservata ai
ricchi. E per cambiare queste cose bisogna incidere nelle
strutture, immettere dosi di uguale libertà e uguale dignità
negli ordinamenti e nello stesso mercato. Solo una crescita
equilibrata e regolata, questa è la sfida, può garantire an-
che una crescita più duratura.

D.  La scala più grande, a cui lei fa riferimento, si chiama


Europa. Eppure a Bruxelles continua a prevalere la dimen-
sione intergovernativa e l’Unione viene rappresentata dagli
­61
stessi governi nazionali più come un vincolo che come una
opportunità per tornare a giocare un ruolo da protagonista
nel mondo.

R.  Il troppo debole investimento sull’Europa rispetto


alle esigenze delle nostre società è sicuramente un punto
critico. Ma l’Europa comunque esiste. Anzi l’Unione euro-
pea è un miracolo vivente, se pensiamo soltanto a cos’era
il continente mezzo secolo fa, dopo la fine della Seconda
guerra mondiale, o all’indomani della caduta del Muro. Il
calabrone vola, anche se noi vogliamo che voli meglio. E
proprio perché vola i nostri progetti hanno un fondamento
tangibile. Il bisogno di più Europa nasce dalle contraddi-
zioni della globalizzazione di cui abbiamo parlato e dalla
profondità strutturale della crisi economica. Le gerarchie
del mondo sono cambiate e, guardando indietro, non si
può nemmeno dire che la Cina sia emersa all’improvviso
dalle retrovie dei Paesi in via di sviluppo: la Cina ha alle
spalle una storia millenaria di protagonismo economico,
culturale e politico che la relativa marginalità degli ultimi
150 anni non può occultare. In questa nuova realtà geopo-
litica, seguita alla fine dell’era di Yalta, dove i Paesi emer-
genti hanno il calibro di Cina e India, è evidente che solo
l’Europa dispone della massa critica e della forza politica
sufficiente per svolgere una funzione equilibratrice.

D.  Cina e India però non sono solo competitori esterni


dell’Europa. L’effetto dumping sui prezzi di produzione e
sul costo del lavoro li trasforma in concorrenti e in costanti
minacce alla nostra stabilità sociale. Come rispondere?

R.  La Cina e l’India stanno diventando la «fabbrica del


mondo». Ma ciò che è una minaccia per il singolo siste-
ma-Paese può esserlo meno per l’Europa presa nel suo
insieme, che ha in sé una grande forza di compensazione,
data anzitutto dal suo mercato interno di 550 milioni di
cittadini. Il problema è che neppure il mercato interno

­62
oggi è liberato da persistenti barriere. Finché le risposte
restano nazionali il rischio è che, nella competizione con
l’Asia, i Paesi europei continuino a essere schiaffeggiati
dalla parte del welfare e dei diritti del lavoro, aprendo altri
territori alla precarietà dei giovani e dunque all’instabili-
tà delle nostre società. Invece un’Europa più unita può
trasmettere una maggiore fiducia ai suoi cittadini, dando
vigore al suo mercato interno e sfruttando meglio le op-
portunità che l’apertura dei mercati e la crescita del Pil in
Asia offrono alle sue aziende, alle sue tecnologie, al suo
export. Fino a pochi anni fa gli Stati Uniti guardavano con
freddezza, anzi persino con qualche sospetto al processo
di integrazione dell’Europa: ora mi pare significativo che
pure la Casa Bianca abbia cambiato idea e manifesti un
tangibile bisogno di Europa. Come del resto la stessa Cina:
è il mondo che chiede al vecchio continente di tornare a
essere una locomotiva di sviluppo.

D.  Alle porte dell’Europa, nella riva Sud del Mediterra-


neo, si sta propagando una protesta popolare dalle forme
e dalle dimensioni inattese. In Tunisia, in Egitto, in Libia
sono stati abbattuti o scossi regimi che sembravano indi-
struttibili. È un vento di democrazia che l’Europa deve so-
stenere con fiducia oppure c’è il rischio di aprire la strada al
fondamentalismo islamico?

R.  L’Europa deve stare con il cambiamento. La stabi-


lità non può venire da autocrazie senescenti: dovremmo
essercene finalmente convinti! Bisogna che l’Europa met-
ta a disposizione in modo convergente e unitario risorse
politiche, diplomatiche ed economiche per accompagnare
un’evoluzione pacifica che consegni a quei popoli nuovi
diritti politici, sociali e civili: libertà di espressione e di
associazione, pluralismo politico, elezioni vere, ruolo e di-
gnità della donna. Quei popoli devono udire una nostra
parola chiara e ferma e percepire una disponibilità e una
amicizia vera. L’estremismo islamico prospera solo dove
­63
può coltivare sentimenti di risentimento e di rivincita ver-
so l’Occidente. Quel che facciamo oggi accompagnando
davvero i desideri delle popolazioni potrà pesare domani.
C’è anche da augurarsi che l’Europa finalmente compren-
da l’esigenza di spostare il suo baricentro verso i grandi
problemi e le straordinarie opportunità del Mediterraneo.
Questo fin qui non è avvenuto. L’Italia a sua volta avrebbe
dovuto e dovrebbe svolgere in questo senso un ruolo pri-
mario e di guida. Purtroppo questo rapido e drammatico
passaggio storico ci ha sorpresi nel momento di massima
debolezza della nostra immagine internazionale, dopo an-
ni nei quali la diplomazia berlusconiana delle «relazioni
speciali» ha rotto delicati ed antichi equilibri della nostra
politica estera fino a farci perdere ruolo e perfino dignità.

D.  Comunque evolva la situazione in Nord Africa, siamo


di nuovo davanti a un problema: è possibile o no l’esporta-
zione del modello occidentale di democrazia?

R. L’Occidente identifica storicamente la democrazia con


il pluralismo politico espresso attraverso libere elezioni e
questa è la richiesta che viene rivolta alle altre civilizza-
zioni. Tale evoluzione è stata più volte avviata, ma spesso
ha subìto rapide smentite e arretramenti. Anche alla luce
della nostra storia di europei dovremmo aver compreso
che la costruzione della democrazia presuppone un pro-
cesso più complesso e profondo che, secondo me, ha il suo
autentico punto di partenza nel riconoscimento culturale
del concetto di libertà religiosa. La democrazia non può
germogliare se la libertà religiosa è limitata o coartata. For-
se dovremmo assumere questo criterio su scala internazio-
nale come standard ineludibile per un vero radicamento
dei principi democratici.

D.  Non si può dire che il processo europeo sia fermo. Il


rafforzamento del Patto di stabilità, con norme più rigorose
per il controllo del debito pubblico, avrà certamente conse-

­64
guenze rilevanti nelle politiche di bilancio dei singoli Paesi.
Da questo punto di vista, dopo l’introduzione dell’euro, non
si può negare una progressiva cessione di sovranità da parte
dei singoli Stati. Non le pare che il problema resti l’Europa
politica che non va di pari passo con quella economica?

R.  La moneta è sempre stata conseguenza di uno Stato


sovrano. Nell’Unione invece l’euro è arrivato prima dello
Stato europeo. Ovviamente c’è una robusta ragione stori-
ca: l’euro nasce dopo la caduta del Muro di Berlino per
sancire un nuovo patto tra Germania ed Europa. Il via
libera all’allargamento a Est fu scambiato con la rinuncia
al marco. Il risultato è stato la stabilizzazione monetaria
secondo l’impostazione «tedesca»: un beneficio di cui
gli europei oggi godono (e, a ben guardare, i tedeschi in
modo particolare dal momento che esportano prevalen-
temente nell’area euro) e che privilegia rigore dei conti e
bassa inflazione su ogni altra scelta di politica economica
potenzialmente in grado di intaccare le regole di stabilità.
Si è detto che i parametri di Maastricht fossero «stupidi»:
in effetti, l’eccesso di rigidità ha prodotto fenomeni sin-
golari. La Spagna, ad esempio, veniva considerata fino a
ieri la pupilla dell’Europa, con i numeri sempre a posto e
una politica economica dinamica trainata dall’edilizia. Poi,
con la crisi della finanza, si è scoperto che quel traino era
una bolla e la Spagna nel breve volgere di un paio d’anni
è diventata l’ultima della classe. L’integrazione non si può
fermare alla moneta e alle banche. Può sembrare un pa-
radosso, ma tanto più dopo la crisi finanziaria globale c’è
bisogno di andare oltre. Ci vogliono politiche economi-
che, sociali, infrastrutturali comuni. E dunque istituzioni
più forti che colmino il deficit di politica. Senza una mag-
giore integrazione non sarà possibile conseguire obiettivi
di lavoro, sviluppo, crescita e giustizia sociale. Non basta
un’Europa intergovernativa o mercantilista, tutta orienta-
ta alle esportazioni, che cerca il suo equilibrio finanziario
nella riduzione del modello sociale. È il tempo di rilanciare
­65
l’idea di un’Europa federale, con istituzioni democratiche
orientate alla crescita, al lavoro e ai diritti, con un adeguato
sviluppo anche del mercato interno.

D.  Ma le sembra realistico parlare di Europa federale se


anche nei Paesi più forti dell’Unione crescono elettoralmen-
te i partiti nazionalisti e populisti, se i Paesi dell’Est e la
Gran Bretagna continuano a manifestare il loro euroscetti-
cismo, se persino i Paesi fondatori sembrano rassegnati alla
dimensione intergovernativa?

R.  Questa è la grande sfida dei progressisti: guidare il ri-


lancio di un processo di integrazione europea. Un’impresa
difficile, ma non si parte dal nulla. L’Europa è già un corpo
di istituzioni che va oltre i singoli Stati nazionali. Ciò che le
manca è la giusta vitalità democratica. Sconta un deficit di
politica che fa apparire ai cittadini gli apparati di Bruxelles
come una burocrazia occhiuta e pesante. Tocca a noi rimet-
tere in moto l’Europa politica, non solo perché è giusto e
può tutelare le generazioni future nel modo più efficace,
ma perché è la dimensione che corrisponde meglio ai nostri
interessi. In fondo, anche nel dopoguerra l’Europa nacque
da un accordo, da un patto di volenterosi e non da un mo-
to di popolo. E solo pochi utopisti come Altiero Spinelli
intravedevano fin da allora, oltre le prime istituzioni sovra-
nazionali, il disegno di un’Europa comunitaria e federale.
Oggi, dopo aver compiuto tanti passi in avanti e dopo aver
commesso anche errori, siamo giunti a un bivio. Con l’inte-
grazione monetaria della maggior parte dei Paesi dell’Unio-
ne si può dire che i governi nazionali, pur mantenendo de-
cisioni cruciali nella sfera intergovernativa, abbiano ceduto
significative quote del potere di indirizzo e di controllo sulla
finanza pubblica, e dunque sulla stessa politica economica.
All’indebolimento della dimensione nazionale tuttavia non
ha corrisposto nessun nuovo potere democratico a livello
europeo. Il deficit di politica nasce qui: e rischia di minare
l’intera costruzione, a partire dalla sua credibilità presso i

­66
cittadini. Senza nuovi poteri democratici, la sottrazione di
autorità ai governi nazionali favorisce la regressione a di-
mensioni subnazionali, a regionalismi, a localismi. Come è
noto, sono un grande sostenitore del ruolo delle regioni in
Europa. Ma qui non parliamo di sussidiarietà e della neces-
sità di un loro ruolo attivo nei processi decisionali. Parliamo
del rischio di ripiegamenti particolaristici, che, a loro vol-
ta, alimentano pulsioni populiste: e questo è esattamente il
rovescio della medaglia dell’Europa burocratica. C’è una
sorta di entropia della democrazia: la perdita di ruolo della
dimensione nazionale non si traduce in partecipazione col-
lettiva alla dimensione sovranazionale.

D.  Come immagina in queste condizioni politiche un ri-


lancio dell’Europa comunitaria? I leader nazionali devono
vincere le elezioni nei rispettivi Paesi e spesso spiegano le
loro politiche di rigore con l’argomento che l’Europa sia un
vigile o un poliziotto cattivo.

R.  Penso che il rilancio dell’Europa comunitaria passi da


un nuovo patto di volenterosi, come fu all’atto costitutivo
della Ceca. Una nuova locomotiva dell’Europa può, deve
partire dall’interno dell’attuale Unione: un gruppo di Pae‑
si, dentro l’area Euro, disposti a realizzare una maggiore
integrazione e a dare gambe a un comune processo demo-
cratico, dovrebbero firmare un accordo e stabilizzare una
nuova sovranità. Non sto parlando di atti traumatici per
l’Unione esistente: il Trattato di Lisbona prevede le coope-
razioni rafforzate e questa Europa «rafforzata» potrebbe na-
scere all’interno dell’attuale quadro comunitario, lasciando
i Paesi che rifiutano la maggiore integrazione nella cerchia
dei 27, anzi favorendo persino un ulteriore allargamento di
quest’area, ad esempio verso i Balcani. Già funzionano in
Europa cooperazioni rafforzate molto impegnative, come
la moneta unica e il trattato di Schengen: si tratta di cerchi
più ristretti dell’insieme dei Paesi dell’Unione. Credo sia
giunto il tempo di delineare un nuovo cerchio, composto
­67
magari dai membri fondatori, dai Paesi iberici e da qualche
altro volenteroso dell’area Euro, per far nascere una più in-
tensa Europa politica e trainare così l’intero continente ver-
so le opportunità e le responsabilità che ha nel mondo. Se
l’istinto e la diplomazia britannica non riescono a eliminare
lo scetticismo verso l’Europa comunitaria, non possiamo
noi adeguarci ai tempi e agli interessi di Londra, ma neppu-
re possiamo fare a meno della Gran Bretagna nell’Unione
a 27. Così per alcuni Paesi dell’Europa dell’Est: per loro
l’Unione è stata sin dall’inizio il luogo del libero mercato,
dove esprimere quella dimensione nazionale prima com-
pressa, quasi negata. Restino pure nel cerchio europeo più
largo. Tuttavia non possono fermare anche noi perché di-
venteremmo complici di un declino europeo complessivo.
Sarebbe un errore imperdonabile.

D.  Fin qui la ragion politica. Non ritiene tuttavia che


l’Europa abbia bisogno di rilanciarsi anche agli occhi dei
suoi cittadini, diventando protagonista di concrete politiche
sociali e non solo di astratti principi di convergenza, che poi
si traducono in norme, divieti e limitazioni?

R.  Abbiamo visto che nel ripiegamento nazionale vince


la destra e crescono pericolosamente i populismi. Le forze
progressiste devono darsi da subito un’agenda europea,
con forti priorità. Ne indico cinque, la cui evidenza è a
mio giudizio netta. Primo: un piano europeo per il lavoro
finanziato con eurobond per ricerca e innovazione, poli-
tiche industriali, infrastrutture strategiche; secondo: una
regolazione stringente e una vigilanza federale dei mer-
cati finanziari (hedge funds, fondi sovrani e attività spe-
culative); terzo: l’apertura del mercato interno secondo
le linee guida predisposte nel rapporto di Mario Monti
del maggio 2010; quarto: il coordinamento delle politiche
fiscali, la lotta ai paradisi fiscali, la tassa sulle transazioni
finanziarie speculative; e infine: l’apertura in sede Wto di
un’iniziativa per introdurre standard sociali e ambientali

­68
minimi negli scambi di merci e servizi. Sono convinto che
il piano europeo per il lavoro finanziato con eurobond
possa diventare la bandiera di questa agenda: se l’Europa
riuscisse a intestarsi qualche azione importante contro la
crisi diventerebbe improvvisamente popolare presso i suoi
cittadini. La stessa tassazione delle speculazioni finanzia-
rie è proponibile su scala mondiale solo se a sostenerla è
un’istituzione del peso e della massa critica dell’Europa, in
grado peraltro di far rispettare la regola in un continente
che è anche un mercato di grandi qualità e quantità. Io
resto convinto che la tassa sulle transazioni speculative sia
non soltanto giusta, ma realizzabile. Nei miei incontri in-
ternazionali, anche negli Stati Uniti, non ho ancora sentito
nessuno che, in linea di principio, abbia contestato la vali-
dità tecnica della proposta di Vincenzo Visco: trasferire in
una bad company il surplus del debito pubblico mondiale
accumulato in questi mesi per salvare banche e/o pagare
ammortizzatori sociali; garantire i pagamenti attraverso la
tassa sulle attività speculative. Sarebbe questo il modo per
far pagare alla finanza il debito che ha provocato. Altri-
menti quel debito pubblico aggiuntivo che grava ora su
tutti i Paesi, sarà caricato ancora una volta sulle spalle dei
cittadini. E sarà pesantissimo: basti pensare che per assor-
birlo senza traumi le nostre economie dovrebbero crescere
del 4% per dieci anni consecutivi.

D.  Lei propone alle forze progressiste di guidare un nuovo


processo di integrazione e di battersi per un piano europeo
per il lavoro. Perché nella seconda metà degli anni Novanta,
quando i partiti socialisti erano al governo in quasi tutti gli
Stati europei non sono stati realizzati questi programmi e
l’Europa politica non è andata avanti?

R.  È stata davvero, bisogna riconoscerlo, un’occasione


perduta. Le forze di centrosinistra sono storicamente lega-
te al welfare. E la dimensione nazionale è stata da sempre
l’ambito delle politiche redistributive e di welfare. Credo
­69
che abbia inciso in quegli anni questo riflesso difensivo.
Era una fase di impetuosa globalizzazione e di relativo ot-
timismo. Forse a sinistra si è anche pensato che l’ambi-
to statuale potesse offrire una cornice securitaria, tale da
non deprimere la fiducia dei cittadini. È stata comunque
l’ultima stagione positiva, prima del rallentamento e della
crisi. Ma la sua punta di diamante – l’accordo di Lisbona
– ha segnato l’avvio della parabola discendente. L’accordo
doveva essere il corrispettivo sociale e culturale della Maa-
stricht economico-finanziaria, invece l’impresa ha mancato
i suoi obiettivi. I parametri della «Maastricht sociale» non
prevedevano il ripiegamento della crescita e il sopraggiun-
gere delle crisi. Soprattutto, quei parametri erano irrealiz-
zabili in una dimensione nazionale. Senza un investimento
nell’Europa politica, senza un nuovo processo democrati-
co non è possibile riprogettare il welfare europeo.

D.  Per il Pd l’Europa è stata anche una ragione di scontro


interno. Il travaglio sull’adesione all’eurogruppo dei Socialisti
e dei Democratici è diventato una complicata questione iden-
titaria. Ritiene che quello attuale sia un approdo definitivo?

R.  Il Pd nasce nella storia italiana, dalla peculiarità di


culture affini sul terreno sociale e popolare. Ma penso
che il ricongiungimento operato dal Pd possa essere utile
anche in altri luoghi dell’Europa. La tradizione socialde-
mocratica ha bisogno di un ripensamento programmatico
e politico, ma ancor più di ampliare i suoi orizzonti e di
essere maggiormente inclusiva. I dibattiti interni ai partiti
della sinistra in Europa, ma anche il consenso che fuo-
ri di essi raccolgono formazioni nuove, come i Verdi in
Germania e in Francia, dimostrano che nel centrosinistra
europeo c’è oggi un’articolazione, una pluralità che non è
più possibile comprendere solo nell’identità e nella sim-
bologia socialista. Il Pd, che non è un partito socialista,
può aiutare ad ampliare e ridefinire il campo del centro-
sinistra europeo. L’esperienza del gruppo dei Socialisti e

­70
dei Democratici a Strasburgo è certamente positiva. E noi
vogliamo continuarla con questo spirito perché va nella
giusta direzione.

D.  Dopo l’esperienza del gruppo si potrà arrivare a un Par-


tito dei Socialisti e dei Democratici in Europa? Oppure alla
fine avranno ragione quanti sostengono che il declino delle
famiglie politiche tradizionali sia inarrestabile e che presto
la dialettica in Europa sarà tra i federalisti europei, da un
lato, e gli euroscettici dall’altro?

R.  Forse non basterà da solo il Pd per raggiungere quel


traguardo. Ma la direzione di marcia è quella che porta
a un nuovo Partito dei democratici, dei socialisti e dei
progressisti europei, capace anche di mettere in relazione
l’esperienza riformista dell’Europa con le altre esperienze
democratiche e progressiste oggi vincenti negli Stati Uni-
ti, in Brasile e in India. Il nostro partito ha con il Pse un
rapporto di stima e di dialogo. Non entreremo nel partito
che c’è, ma possiamo lavorare insieme per un nuovo par-
tito. E di sicuro la forza progressista di domani non potrà
che avere, per le ragioni che abbiamo descritto, un chiaro
indirizzo europeista. È la politica stessa del centrosinistra
a fondarsi su una scala europea.

D.  Ha ancora senso parlare di governo democratico del


mondo di fronte al dominio del mercato e della finanza? L’Eu-
ropa ha delle carte da giocare nelle istituzioni mondiali?

R.  Non rinuncio alla speranza e all’obiettivo di un go-


verno democratico del mondo. Nessun democratico può
rinunciarci. Ovviamente si tratta di collocare queste aspi-
razioni nei processi reali. È chiaro che il G7 o il G8, intesi
come comitato direttivo delle grandi scelte di politica eco-
nomica, finanziaria e commerciale mondiale, sono ormai
insufficienti a rappresentare i nuovi equilibri. È chiaro che
quel formato non potrà avere, d’ora in avanti, dimensioni
­71
inferiori al G20. E che, a sua volta, il G20 contiene un G2
(Usa-Cina). Ma il problema del governo mondiale è che il
G20 non può limitarsi a mettere qualche pezza alla crisi.
Deve anche porsi il tema di un maggiore equilibrio tra le
economie, cominciare a discutere di standard ambientali e
sociali, imprimere qualche impulso anche alla ricerca, so-
prattutto laddove il mercato non basta e anzi distorce lo
sviluppo armonioso delle risorse intellettuali. Per parlare
di governo democratico del mondo sono necessarie anche
istituzioni che diano voce e rappresentanza a chi vive sul-
la propria pelle il maggiore squilibrio. La prima di queste
istituzioni sono le Nazioni Unite, che restano il grande luo-
go di prospettiva per la regolazione democratica dei fatti
mondiali. Anche il segretario generale dell’Onu dovrebbe
partecipare al G20 e avere il diritto di inserire i suoi temi
all’ordine del giorno. Solo utopie? Non credo. Se l’Europa
fosse politicamente più unita e avesse piena coscienza del
suo ruolo nel mondo, sarebbero obiettivi più ravvicinati.

D.  Il tema della governance mondiale è legato anche


all’uso legittimo della forza. A quali condizioni e con quale
mandato è possibile inviare missioni militari internaziona-
li? La domanda ha una particolare rilevanza in Italia, la
cui Costituzione proclama il «ripudio della guerra» e dove i
governi di centrosinistra hanno rischiato più volte la crisi su
questo tema tanto delicato.

R.  L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione


delle controversie internazionali e consente quelle limi-
tazioni della sovranità necessarie a un ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia. È al crocevia di queste due
proposizioni dell’art. 11 che deve collocarsi la nostra po-
litica estera e il nostro impegno nelle missioni militari di
pace. La vocazione italiana è quella di essere costruttore
di pace. Ciò vuol dire che non dobbiamo tirarci indietro
quando la presenza militare è legittimata, anzi richiesta,
nelle sedi internazionali che riconosciamo e di cui con-

­72
dividiamo le finalità. Ma ciò non significa che dobbiamo
rinunciare al discernimento e a una nostra visione delle
relazioni internazionali. La missione Unifil 2 in Libano è
stata un vanto dell’Italia: la sua ragione e la sua azione han-
no corrisposto pienamente ai principi costituzionali. La
missione in Afghanistan è stata necessaria, ma proprio il
nostro impegno all’interno della Nato deve consentirci ora
di dire francamente le cose che non vanno e di spingere
verso soluzioni politiche. La missione in Iraq invece è stata
un errore storico dell’amministrazione Bush che il gover-
no Berlusconi ha colpevolmente assecondato: se fossimo
stati noi al governo avremmo detto no come la Germania
e la Francia. Una politica di pace concreta: questo è il no-
stro orizzonte. E credo che l’Italia possa dare al mondo
anche un contributo specialistico sia nella cooperazione
allo sviluppo, sia nel ripristino della legalità e dell’ordine
pubblico in alcuni territori usciti dall’incubo della guerra.
Sono i settori dove i nostri volontari e i nostri carabinieri
costituiscono una riconosciuta eccellenza mondiale.
V
UN PARTITO NUOVO
RADICATO IN UNA LUNGA STORIA

D.  Il Pd è nato nel 2007 ma ha alle spalle una lunga storia


che rischia di essere persino un po’ ingombrante se non riela-
borata. Quali sono, secondo lei, le principali radici storiche
di questo partito? Lei si richiama spesso a una tradizione di
valori e di simboli ottocentesca, legata al mondo del lavoro,
della solidarietà e delle cooperative. Fin dove si può risalire
indietro nel tempo?

R.  Un partito che si propone come partito dei progressi-


sti del secolo nuovo deve avere una sua visione della storia
e coscienza delle proprie radici. Quelle più profonde e
lontane del Pd si collocano, a mio giudizio, nella fase in cui
il processo di costruzione dell’unità nazionale del Paese si
collegò con le istanze popolari delle prime cooperative so-
cialiste e dei movimenti solidaristici di estrazione cattolica
e laico-popolare, sostenendo per la prima volta in Italia
principi di emancipazione, fratellanza e autorganizzazio-
ne dei lavoratori. Tali valori costituiscono le fondamenta
della cultura democratica del Pd. La loro affermazione è
stato un processo lungo e conflittuale che, da un lato, ha
contribuito a completare il movimento unitario italiano e,
dall’altro, conteneva al suo interno una critica alle modali-
tà con cui quel cammino nazionale stava avvenendo. Pro-
pongo di liberarci dai troppi condizionamenti della storia
degli ultimi trent’anni e di provare a recuperare le nostre

­74
radici più profonde. Queste radici insegnano che, se parti
dagli ultimi, dai più deboli e sfortunati, sarai capace di
costruire una società migliore per tutti. Non classista, non
ribellista, ma in grado di essere solidale e aperta. Il Pd è
abbastanza antico per non essere solo nuovo, e troppo re-
cente per non avere nel futuro la sua vera sfida. La nostra
scommessa sta anche nel rinverdire una storia passata sen-
za imbarazzi o schemi mentali, una storia italiana, legata
alle origini della nostra identità nazionale e alle idee guida
di lavoro, giustizia e solidarietà.

D.  L’impressione è che nelle fondamenta del Pd prevalga


soprattutto l’incontro tra cattolici democratici e comunisti
italiani. Ma non rischia ciò di dare adito alla solita polemica
contro il «cattocomunismo»?

R.  Vuole fare un grave torto al Pd chi cerca di ridurlo a


una riedizione della cosiddetta politica del compromesso
storico. Per quanto mi riguarda, è inaccettabile restare an-
cora avvitati nella polemica in un orizzonte temporalmen-
te chiuso e limitato agli anni Settanta. Non solo perché
le culture riformatrici che animano il Pd vengono da più
lontano, ma anche perché Aldo Moro o Enrico Berlinguer
appartengono per i giovani di oggi a un passato distante e
sempre più sfumato. Peraltro, rileggere la storia con ani-
mo aperto serve anche a far ragione di altri pregiudizi. La
sinistra italiana non nasce dal bolscevismo ma da processi
di autorganizzazione popolare di fine Ottocento. Il Par-
tito socialista è venuto dopo le cooperative e i sindacati,
il Partito popolare e quello comunista dopo ancora. E la
profondità di uno sguardo retrospettivo può aiutarci a re-
cuperare nella nostra cultura politica il contributo attivo
dei socialisti, quello laico radicale e della cultura azionista.
Quando parlo dell’apporto di diversi filoni riformatori li
immagino come tanti affluenti che ingrossano tutti il fiu-
me nazionale della cultura democratica: la realtà cattolica
popolare, l’impegno socialista, ma anche la presenza di
­75
una vena radicale, laica e repubblicana come, ad esempio,
il mazzinianesimo in Romagna. È vero, c’erano contrad-
dizioni profonde come la disputa intorno al concetto di
proprietà privata tra socialisti e cattolici. Il primo, vero
momento di ricongiungimento di queste diverse culture
è rappresentato dalla Costituzione, che ha edificato una
casa comune per tutti ed è l’impasto che ci tiene insieme.
Ecco, se dovessimo individuare nel percorso storico na-
zionale il crocevia dove è collocata la pietra angolare del
Pd, non avrei dubbi nell’indicare il lavoro e la temperie
dell’Assemblea costituente. Il Pd è soprattutto il partito
della Costituzione e della Repubblica.

D.  Per lunghi anni ha prevalso il cosiddetto «nuovismo».


Il presente e il futuro sono stati descritti come la negazione
della storia anche recente. Non manca chi cerca di far dimen-
ticare di essere stato democristiano o comunista. Non crede,
onorevole Bersani, che la retorica del «nuovismo» nasconda
in realtà un vuoto di prospettive, se non addirittura un’atti-
tudine gattopardesca?

R.  Sono sempre stato assai critico con i cultori del «nuo-
vismo», anche perché quel che è nuovo veramente lo giu-
dicherà la storia. John Keynes diceva: «Non so cosa rende
l’uomo più conservatore: se conoscere solo il presente o
conoscere solo il passato», anche se poi giudicava i primi
più conservatori degli altri. Il nuovo è davanti a noi, ma
per affrontarlo bisogna essere nelle condizioni adatte. Co-
nosco la fatica del cambiamento, ma per cambiare devi
sapere chi sei e da dove vieni. Questi temi non riguardano
solo il centrosinistra, ma la politica nel suo insieme, che
per essere degna di essere vissuta deve muoversi dentro un
solco che segna una direzione. Se non percepisci di avere
qualcosa alle spalle – e non si tratta di una questione in-
tellettualistica, ma di un sentimento, di un’urgenza intima
– allora non stai facendo politica, ma carriera. La politica,
almeno io così l’ho sempre concepita, ha un elemento di

­76
gratuità e di generosità fondamentali e va fatta nella con-
sapevolezza di portare avanti ciò che ti è stato consegnato.
Io ho sempre rivendicato di essere stato un comunista ita-
liano e questa mia propensione a vedere nel Pd un tratto
popolare e un’aspirazione di carattere umanista potrebbe
dare di me l’idea di una personalità troppo continuista;
ma non è così, questa è un’interpretazione troppo super-
ficiale. Chi taglia i ponti con il proprio passato e si fa nuo-
vista, pensando di non avere niente dietro di sé, produce
una politica debole e incapace di affrontare i temi veri, ri-
schiando anche di mettersi al margine di culture e fermenti
rinnovatori che si muovono nella società. C’è una bella
differenza tra rinnovamento e nuovismo. Il Pd mi piace
proprio perché è uscito da una curvatura storicista che ha
caratterizzato la storia del Pci e perché, nello stesso tempo,
non si è arreso alle esperienze della socialdemocrazia e
ha cercato nuovi orizzonti: l’impronta costituzionale, una
prospettiva di solidarietà e di emancipazione di carattere
umanistico. In questo senso il Pd incarna l’idea che io ho
della politica.

D.  Ci sorprende questo accenno critico allo storicismo


della cultura politica del Pci come limite, anche perché lo
storicismo è un tratto comune a gran parte della cultura na-
zionale. Possiamo approfondire tale aspetto?

R.  Il Pci era culturalmente un partito intriso di una forma


di storicismo, debitrice della tradizione dell’idealismo ita-
liano e tedesco, che spiegava ogni fenomeno secondo lun-
ghe continuità senza strappi. Si tracciavano ampie campate
affascinanti sul piano delle proiezioni teoriche, ma che non
sempre aiutavano a capire la realtà e a comprendere i suoi
mutamenti. È per questo motivo che ho sempre mantenuto
una riserva critica nei confronti del compromesso storico:
mi sembrava una proposta politica intrisa di una dimensio-
ne organicistica che voleva per forza inserirsi dentro uno
sviluppo a tappe obbligate, e in armoniosa successione evo-
­77
lutiva, del rapporto tra Pci e storia nazionale. L’ambiguità
di fondo, che percepivo già quando ero un giovane dirigen-
te emiliano-romagnolo, riguardava il fatto di considerare la
democrazia la via per arrivare al socialismo mentre restava
inespresso il modello di società alla quale aspiravamo. Con
lo storicismo ammetto di avere sempre avuto un rappor-
to difficile: che esista una direzione della storia è solo una
delle possibilità, ma non è vero che andiamo dritti verso
un obiettivo perché la vicenda umana è sempre il frutto di
atti volontari, mai predeterminati, in cui l’uomo, al fondo,
è libero e quindi inevitabilmente soggetto a scarti impreve-
dibili e ad arretramenti.

D.  Gli ultimi vent’anni della cultura politica sembrano


dominati dal ruolo determinante della comunicazione e dei
suoi linguaggi. Come brucia il tempo la società della comu-
nicazione? Non teme che siano proprio i suoi canoni a inde-
bolire la prospettiva storica?

R.  Sono consapevole che alcuni argomenti affrontati in


questa intervista possano dire poco alle nuove generazio-
ni. È normale che sia così perché ciascuno è figlio del pro-
prio tempo. Vorrei tuttavia che i più giovani riuscissero a
mettere le loro aspirazioni nel solco di una riflessione che
abbia radici e un orizzonte. Dunque propongo loro un
metodo che non si fermi alla presa d’atto del paesaggio
che ci circonda. Mi rendo perfettamente conto che questa
visione dell’impegno politico immerso nella storia rischia
di entrare in conflitto con l’accorciamento dei tempi impo-
sto dalla società della comunicazione. È la comunicazione
stessa con i suoi meccanismi a mangiarsi il giorno dopo
quello che è stato detto e fatto il giorno prima. Ma ciò
non può diventare l’alibi per avere una politica debole:
sono in tanti oggi a dire che la politica non serve a nulla o
a screditarla sempre di più per meglio difendere i propri
interessi. La pretesa leggerezza della politica finisce per
allearsi con la conservazione e l’indifferenza. La politica

­78
per me, invece, è lo strumento che serve a cambiare e a
migliorare le cose, le condizioni del lavoro, i diritti degli
uomini e delle donne. Per questo mi appassiona parlare sia
di radici che di orizzonti.

D.  A partire dalla metà degli anni Sessanta, in Italia come


nel mondo si è diffusa la cultura della cosiddetta «nuova
sinistra» e del «marxismo critico». Lei, peraltro, è di Pia-
cenza dove fu fondata la rivista «Quaderni piacentini» che
nel 1968-69 divenne strumento di elaborazione e diffusione
delle idee del movimento studentesco e dell’area extra-par-
lamentare. In questi fermenti innovativi c’è ancora qualcosa
di utile da conservare sul piano culturale e politico?

R.  La «nuova sinistra» ha rappresentato fermenti critici


che hanno avuto la capacità di leggere le novità dello svi-
luppo capitalistico, quelle prodotte in particolare nell’am-
bito dell’organizzazione del lavoro. Tuttavia, ho una critica
radicale da muovere verso i caratteri di volontarismo e di
elitarismo di quella galassia, caratteri che l’hanno portata
in molte sue frange a sottovalutare o addirittura a ripu-
diare pericolosamente la democrazia come condizione
ineludibile dell’uguaglianza. In quella galassia comunque
vivevano anche istanze che oggi chiameremmo di società
civile e che esprimevano un bisogno di politicità intesa
come partecipazione, riconoscimento dei diritti, autogo-
verno, senza trovare risposte adeguate nell’assetto degli
anni Settanta e Ottanta. Il Pd ha oggi anche questo obiet-
tivo: provare a dare risposte che la società civile attende
da tempo e per farlo ha la necessità di essere il più possi-
bile capiente e amichevole nei confronti delle domande di
modernizzazione rimaste inevase nel corpo sociale e civile
italiano. Questo ci deve aiutare ad affrontare meglio temi
radicalmente nuovi come l’ambiente e lo sviluppo sosteni-
bile, il rapporto fra democrazia e nuove tecnologie, le sfide
poste dalla globalizzazione, le relazioni fra culture e reli-
gioni diverse. E ancor di più ci deve aiutare a valorizzare
­79
e a dare nuova prospettiva al grande lascito novecentesco
del processo di emancipazione femminile, la vera e auten-
tica rivoluzione del secolo scorso.

D.  Nel 2011 ricorrono i 150 anni dell’Unità d’Italia. In


cosa consiste per lei il valore dell’unità nazionale? È possibi-
le trarre un bilancio positivo di questo secolo e mezzo oppure
deve necessariamente prevalere lo stereotipo interpretativo
delle occasioni mancate?

R.  L’Italia è sempre stata riconoscibile dal mondo per i


tratti comuni del suo particolarismo: il campanile, la fon-
tana, la piazza, il palazzo comunale, il mercato. La storia
della penisola è stata profondamente condizionata dall’as-
senza di uno Stato unitario, ma l’Italia come Paese si è
progressivamente costruita, a partire dall’XI secolo, attra-
verso un intreccio sempre più fitto e stratificato di elemen-
ti umani, sociali e culturali (dalla moneta alla mercatura,
dalla lingua alla religione, dai giardini alla moda, dalla cu-
cina alla musica) che nel tempo hanno forgiato il carattere
originale degli italiani rendendolo specifico nel mondo. Il
nostro farci nazione è stato tardivo, ma non abbiamo solo
mancato delle occasioni, le abbiamo anche sapute coglie-
re. La nostra storia ci consegna alcuni caratteri strutturali
quali la presenza di reti corte sul piano delle relazioni in-
terpersonali e una pronunciata individualità di carattere
sociale, territoriale e famigliare. Per queste ragioni, non
la nazionalità, ma la statualità italiana è più difficile che
altrove: perché non abbiamo avuto una vera e propria ri-
voluzione e l’unità è stata raggiunta largamente per via di-
plomatica, e anche perché questo sentirsi nazione è molto
legato alla somiglianza e alla prossimità dei caratteri locali,
a una sorta di teoria degli insiemi. Elementi dissociativi
possono sempre avere aggio sull’esigenza di sentirsi Paese
e di manifestare quotidianamente la volontà di continuare
a esserlo. Quando il Pd si propone di essere un grande
partito della nazione non vuole avere un riflesso difensivo

­80
o retorico, ma rappresentare un impegno a riprogettare
nelle condizioni nuove l’unità italiana, il vincolo e l’inten-
zione del nostro stare insieme.

D.  Il Risorgimento è stato un processo lungo e conflittuale


che solo dopo vari decenni ha elaborato la triade patriotti-
ca Cavour, Mazzini, Garibaldi. Un discorso simile potrebbe
essere fatto per la Resistenza. Sono esistite tante Resistenze
(civili, militari, comuniste, anticomuniste, socialiste, catto-
liche, azioniste). È giusto ricordarle tutte? C’è un rapporto
storico tra Risorgimento e Resistenza?

R.  Il Risorgimento e la Resistenza sono due grandi pro-


cessi storici che io vedo in continuità ideale: ci sono forze
e culture che si innestarono criticamente nella vicenda uni-
taria del Paese ma che hanno poi trovato una direzione di
marcia comune con la Resistenza e la Carta costituzionale.
Queste buone radici sono state la bussola dello sviluppo
italiano. Anche per questo è giusto ricordare tutte le Resi-
stenze al nazifascismo che hanno percorso la vita politica
e civile italiana: da diversi lati e prospettive si sono creati
grumi di visione ideale comune che hanno consentito di
scrivere la Costituzione e poi di difenderla. La democrazia
politica in Italia, quella che implica il suffragio universale,
nasce dopo il fascismo come frutto della Resistenza: quan-
ti hanno costruito la democrazia politica in Italia erano
giovani, per lo più cresciuti sotto la dittatura, e proveni-
vano da storie politiche molto diverse, eppure riuscirono
a edificare una piattaforma condivisa nel fuoco di quella
drammatica vicenda. All’inizio del Novecento, in partico-
lare con Giovanni Giolitti, si gettò per la prima volta uno
sguardo verso le grandi forze popolari e si provò a legit-
timarle. Il fascismo scaturì proprio dal fallimento di quel
disegno politico, dal tentativo sconfitto di arrivare a una
evoluzione senza traumi della democrazia liberale italiana,
sulla quale si abbatté la scure della Prima guerra mondiale
che mutò la composizione sociale e politica del Paese. Per
­81
questa ragione chi ha scritto la Costituzione, dopo oltre
vent’anni di dittatura fascista, ha dovuto inventarsi tutto
o quasi, e forse proprio grazie a questa libertà e possibilità
di sperimentare ha dato vita a una delle carte più ricche del
costituzionalismo moderno: dico sempre che abbiamo la
Costituzione più bella del mondo! Se leggiamo i principi
fondamentali della Carta possiamo continuare ancora oggi
a vederci riflesso il nostro presente e il nostro futuro di
cittadini italiani ed europei.

D.  Le vicende politiche e istituzionali del dopoguerra sono


state sintetizzate nella formula coniata da Pietro Scoppola del-
la «Repubblica dei partiti». La condivide? Quali considera i
principali successi, limiti ed errori dei grandi partiti popola-
ri?

R.  Sì, la condivido. Ho un giudizio complessivamente


positivo sulla cosiddetta Prima Repubblica sino alla fine
degli anni Sessanta in cui i partiti sono riusciti a garan-
tire uno sviluppo di carattere progressivo della società
italiana. In quella fase ci sono stati grandi leader demo-
cratico-cristiani a cominciare da Alcide De Gasperi, ma
gli stessi comunisti italiani hanno avuto un ruolo impor-
tante nell’avvicinare il popolo alla democrazia politica e
nel condividere la chiave della crescita economica dando
vita a una reciprocità conflittuale. I grandi partiti di massa
navigavano nelle stesse acque in modo concorrenziale: è
stata questa reciprocità competitiva a fare il Paese, tenuto
diviso dalla logica dei blocchi contrapposti, ma unito dal-
la saggezza di fondo della classe dirigente cresciuta con
la Costituzione. A partire dalla crisi degli anni Settanta è
come se il meccanismo si fosse inceppato dando origine
a una torsione degenerativa della politica che non è riu-
scita più a formulare risposte all’altezza dei problemi che
via via si presentavano in agenda. Ritengo che il tramonto
del berlusconismo potrebbe essere un punto di svolta di
questo lungo ciclo. Berlusconi ha costruito le sue fortune

­82
sul discredito della politica: ora siamo a un bivio, davanti
a noi c’è la deriva o la riscossa e ne avverto tutto il peso e
la conseguente responsabilità.

D.  Da un paio di decenni è cresciuta la domanda di federa-


lismo, non solo al Nord ma anche nelle regioni tradizional-
mente amministrate dalla sinistra. Qual è il modello federa-
lista auspicato dal Pd e in cosa si differenzia dalla proposta
della Lega? Considera la secessione un pericolo effettivo per
l’Italia?

R.  Il tema dell’unità italiana non va sviluppato in modo


retorico: dentro l’idea di unità devono essere sempre pre-
senti i concetti di sistema e di reciprocità, altrimenti ci si
limita a sventolare una bandiera. Considero il Pd un partito
patriottico, riformatore e autonomista. E intendo usare la
parola patriota in quanto si tratta di un valore sempre le-
gato al coraggio e all’innovazione, mai alla conservazione.
Nel 1796 Melchiorre Gioia vinse un concorso indetto dalla
Società di Pubblica Istruzione di Milano sul tema «Quale
dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia»:
parteciparono tanti intellettuali, ciascuno con la propria
ricetta, ma una parte di questi aveva un comune denomi-
natore, ossia l’idea che l’unità si sarebbe potuta realizzare
solo mobilitando le risorse locali, diffondendo la cultura
democratico-radicale e favorendo meccanismi di parteci-
pazione dal basso. Già allora si contrapponeva a questo
modello unitario uno schema di carattere confederale, il
quale partiva dal presupposto che eravamo troppo vicini
per essere separati, ma troppo diversi per stare insieme e
dunque sarebbe servita un’autorità di coordinamento: per
alcuni era il papa, per altri la Francia o i Savoia. Ricordo
questi aspetti per sottolineare il fatto che una visione legata
a impulsi di carattere locale è un tratto distintivo di lun-
ga durata dell’identità italiana, non solo sul piano teorico,
ma anche su quello pratico. Il Pd si nutre di questi valo-
ri: la fiducia che un forte meccanismo autonomista possa
­83
portare in modo più efficiente al riconoscimento di diritti
comuni è parte integrante della nostra cultura di governo.
Il federalismo, dunque, è un obiettivo positivo se aiuta a
far crescere i livelli di cittadinanza, altrimenti diventa un
impoverimento per il Paese. La definizione degli standard
di servizio deve avvenire in via preliminare per consentire
poi di governare il processo federalista in termini di incen-
tivi e di disincentivi. Solo facendo così è possibile evitare
conseguenze di carattere separatista che sono presenti nel
patto politico tra il ministro del Tesoro Giulio Tremonti
e la Lega, i quali, in ultima analisi, identificano nel Sud
l’albero storto da tagliare. Insomma, nella mia idea di fede-
ralismo vi è la centralità delle forze locali, ma non la perdita
di una visione e di una intenzione nazionale, che anzi ne
­deve uscire rafforzata. Voglio fare un esempio concreto: in
Emilia Romagna oggi trenta bambini su cento frequentano
gli asili-nido, in Calabria solo due. A quale risultato deve
condurre il federalismo? Avvicinare l’Emilia Romagna alla
Calabria o la Calabria all’Emilia Romagna? Il federalismo
che abbiamo in mente noi deve portare progressivamente
tutto il Paese sugli standard migliori, stimolando e incen-
tivando le responsabilità locali. Per questa ragione il fede-
ralismo della Lega è ideologico: quel partito, quando è al
governo, strumentalizza questo concetto per far passare l’i-
dea difensiva che organizzarsi secondo territori omogenei
metta al riparo dai problemi del mondo. Appunto perché è
un’ideologia, essa si sposa con un dato di fatto clamoroso,
che la propaganda, nonostante i suoi sforzi, non riesce a
coprire: i comuni italiani, sia del Nord sia del Sud, non so-
no stati mai trattati peggio come oggi dall’autorità centrale.
Per essere federalisti non basta mettere un fazzoletto verde
nel taschino. Per me il colore di un comune è quello del suo
gonfalone. Peraltro tutto quello che è stato in termini di
politiche locali lo hanno inventato le nostre culture, dagli
asili-nido alle aree artigianali, dall’urbanistica ai consorzi
sociosanitari, e quindi alla sanità pubblica. La Lega fin qui
ha inventato solo le ronde, che si sono perse nel bosco.

­84
D.  Non pensa che ci sia stata nei confronti della cultura e
del linguaggio leghista una grave sottovalutazione, la quale
ha indotto a derubricare come caratteriali e folkloristiche
alcune prese di posizioni pubbliche, che invece hanno pesan-
temente inciso sul sentire comune?

R.  Il populismo è la rottura del politicamente corretto


nel linguaggio. Che, certo, ha conseguenze. Io non penso
affatto che gli elettori della Lega siano razzisti, né che lo
siano i loro dirigenti. Ma la cultura del «ciascuno a casa
sua», cioè di un localismo ispirato al mito della comunità
omogenea, può aprire spazi a tentazioni e derive razziste.
Quando Umberto Bossi era autonomista, nei primi anni
Ottanta, io andavo a sentirlo e da subito capii che il fe-
nomeno leghista non poteva essere sottovalutato perché
esposto, soprattutto davanti a crisi economiche, a un ripie-
gamento di carattere regressivo. Come spiegavo in prece-
denza, esiste un localismo positivo quando ci si attrezza a
organizzare e mettere in rete le diverse vocazioni territo-
riali. Bisogna però evitare di fare tante repubbliche sepa-
rate dove tutto ciò che sta da te è per definizione buono!
La sfida è quella di mettere in rete specificità e competenze
locali creando un sistema interdipendente e virtuoso. Dal-
la mia esperienza di presidente dell’Emilia Romagna ho
capito che la regione non è un popolo, ma una istituzione
che fa sistema al suo interno, che è proiettata verso l’ester-
no, che deve aiutare le singole realtà locali a connettersi
con il livello nazionale e con quello globale per aumentare
la qualità della vita dei suoi cittadini. La vera sfida federa-
lista non è nel ripiegamento identitario, ma nel portare il
livello locale e regionale dentro una dimensione nazionale
e globale, tenendo però ferme le vocazioni simboliche e le
tradizioni comunitarie di un territorio.

D.  Nel primo capitolo abbiamo parlato dell’immigrazio-


ne come problema che genera paura. L’immigrazione non-
dimeno è anche una risorsa e la realtà occupazionale dei
­85
nuovi immigrati è sotto gli occhi di tutti. Svolgono lavori
spesso mal pagati, privi di garanzie, che gli italiani si ri-
fiutano di fare, pagano le tasse e finanziano il nostro Stato
sociale. Urge la definizione di una nuova cittadinanza, di
un patto che coniughi insieme diritti e doveri. Non è forse
anche questa l’occasione per ridefinire cosa significhi essere
italiani?

R.  Il locale è anche il luogo che potrebbe dare una mano


a uscire dalla spirale clandestinità-illegalità nei processi di
immigrazione. Non si capisce, ad esempio, perché sia neces-
sario passare di sanatorie in sanatorie gestite a livello nazio-
nale e non si possa usare il livello territoriale per stabilire se
una badante ucraina è una persona per bene. Le migrazioni
hanno una portata epocale e ciascuna persona razionale sa
che si tratta di un dato ineluttabile che richiede capacità di
governo. Tra le cause che le determinano c’è anche l’anda-
mento socio-economico e quello demografico di un Paese
come il nostro. La realtà è semplice: noi non saremmo in
grado di mantenere lo Stato sociale che abbiamo e la stessa
base produttiva senza il contributo degli immigrati. Allora
compito della politica è quello di far maturare un approccio
ragionevole al problema, senza piegarlo ai propri fini elet-
toralistici. Come tutti i grandi fenomeni scorre simile a un
fiume fangoso che trascina accanto a comportamenti virtuo-
si anche problemi, instabilità e gravi disturbi dell’equilibro
sociale. Il più grave è che il disagio provocato dall’immigra-
zione si scarica totalmente sui ceti più deboli perché gli im-
migrati vanno a vivere accanto ai nostri poveri. Per questa
ragione, in queste zone di disagio bisognerebbe moltiplica-
re gli sforzi e le risorse offrendo servizi, lavoro, condizioni
abitative sostenibili. Come finanziare questi interventi che
dovrebbero per l’appunto partire dalle zone più disagevoli
ove si concentra l’emigrazione? A proposito di federalismo
sarebbe utile applicare una fiscalità locale che consentisse
a un comune di dire: ho la disponibilità di dieci posti in
case popolari o asili-nido, ma per ogni soluzione che offro a

­86
un immigrato devo essere in grado di creare un posto nuo-
vo per un povero italiano. E a fornire le risorse necessarie
dovrebbe essere anzitutto chi non è toccato direttamente
da questi disagi, e magari trae dall’immigrazione il maggior
beneficio.

D.  Non trova che sia profondamente ingiusto che gli stra-
nieri che pagano le tasse in Italia non possano votare, nep-
pure a livello amministrativo?

R.  È ingiusto. Nelle elezioni locali dovrebbero poter


votare. Va detto che l’accoglienza non significa di per sé
cittadinanza, ma tuttavia il percorso di cittadinanza resta
la più formidabile modalità di integrazione. Che questo
processo avvenga nel modo migliore è un assoluto interes-
se anche per noi. Abbiamo 50.000 bambini che nascono
nel nostro Paese ogni anno da immigrati e che oggi non
sono italiani, né stranieri. È grave, gravissimo che noi non
siamo capaci di dire loro chi sono. Dal mio punto di vista
sono italiani e riconoscere la cittadinanza a chi nasce nel
nostro Paese è una priorità. Se facciamo un computo del
dare e dell’avere, la verità è che gli immigrati sono in credi-
to con noi perché quello che arriva in termini di contributi
da loro è enormemente superiore a quanto ci costano in
servizi. Naturalmente, è necessario stabilire un sistema di
quote ben regolato ed efficiente. Ma si dovrebbero anche
individuare strumenti selettivi per favorire una immigra-
zione di qualità. Invece non usciamo dal circuito vizioso
sanatoria generalizzata/demonizzazione dello straniero
che non produce sviluppo e non consente di governare il
fenomeno, ma crea bacini di rancore e di diffidenza che
sarà sempre più difficile prosciugare.
VI
AMBIENTE E CRESCITA MAI PIÙ DIVISI

D.  Il pianeta vive una grave emergenza ambientale. La


domanda di energia continua a crescere ma, aumentando i
ritmi di consumo delle materie prime, di emissione di CO2 ,
di desertificazione, vengono minacciate le condizioni stesse
di vita delle generazioni future. Non le sembra che questi te-
mi fatichino a entrare nella cultura, nei programmi e nell’i-
dentità delle forze progressiste?

R.  Energia e ambiente sono due gemelli che litigano.


Ma le forze progressiste possono, devono battersi per
comporre o almeno ridurre il conflitto e costruire, nel vi-
vo di questo impegno, nuovi modelli di crescita. Quattro
sono le piste da percorrere: efficienza energetica; svilup-
po delle fonti rinnovabili; nuove tecnologie di utilizzo
con minore impatto ambientale delle fonti tradizionali,
come il petrolio, il gas, il carbone; ricerca e promozione
industriale per smantellare il vecchio nucleare e parteci-
pare allo sviluppo del nuovo nucleare pulito, avvicinando
la quarta generazione. Si tratta di linee tracciate su scala
planetaria. E alla politica non può sfuggire che ognuno di
questi settori ha già, e avrà ancor più nel futuro, enormi
ricadute non solo sull’equilibrio ecologico e sull’ambiente
domestico, ma anche sulle politiche industriali, sul poten-
ziale di ricerca e di tecnologia, insomma sullo sviluppo dei
sistemi-Paese.

­88
D.  Quando la sinistra ha incrociato le battaglie ambienta-
liste spesso è prevalsa la politica dei «no»: no a produzioni
inquinanti e pericolose, no a infrastrutture importanti, no a
interventi sul territorio. Non teme che questi atteggiamenti,
peraltro causa non marginale della fine dell’ultimo governo
Prodi e dell’Unione, possano ripetersi?

R.  Non nego che le culture politiche tradizionali abbiano


fatto fatica a prendere le misure delle tematiche ambien-
tali. E i movimenti verdi, nel portare alla luce problemi
vitali per le nostre società, hanno dimostrato come questi
problemi fossero spesso più grandi di loro. Tuttavia rifiu-
to l’identificazione della sinistra con la politica del «no».
Questa immagine sbagliata è anche il frutto avvelenato di
una propaganda di destra che vorrebbe proporsi come il
«partito del fare»: la verità è che nell’energia le uniche
grandi riforme sono state fatte dalla sinistra, mentre la de-
stra non ha fatto nulla, anzi ha in parte disfatto quello che
avevamo avviato. Se oggi abbiamo un nuovo parco di cen-
trali elettriche più efficienti, più pulite e più economiche è
perché, con il primo governo Prodi, riuscimmo a liberaliz-
zare il settore elettrico. Grazie a quella riforma sono stati
realizzati investimenti privati per oltre 20 miliardi di euro,
si sono ridotte le emissioni di oltre 20 milioni di tonnellate
di CO2 all’anno e, secondo l’Autorità dell’energia, si sono
ridotti i costi di 4 miliardi di euro l’anno. Da allora non
si è fatto un passo avanti nelle liberalizzazioni del settore
energetico, ed invece ce ne sarebbe un gran bisogno sia nel
settore del gas che in quello dei carburanti.

D.  Non negherà che, al di là delle scelte operate dai gover-


ni di centrosinistra, esiste una diffusa resistenza a interventi
che possono modificare gli equilibri di un territorio.

R.  La questione centrale, a mio giudizio, è che, prima di


occuparsi dell’ideologia del «no», occorre rimuovere quel-
la rete di interessi che nasce dai grandi e piccoli monopoli
­89
e che trae vantaggio dalla conservazione e dall’amplifica-
zione dei conflitti. Poi occorre occuparsi concretamente
dei fattori sociali e territoriali che producono i «no»: basta
guardarsi attorno per scoprire che contro una discarica,
o un impianto, o un sito potenzialmente inquinante si
muove la politica più trasversale e le barriere ideologiche
vengono travolte dall’interesse locale. Ma, se occorre fare
una nuova discarica, vogliamo occuparci ad esempio del
fatto che il valore delle abitazioni intorno diminuisce? O
pensiamo che la gente non lo sappia? Solo se si affrontano
e si risolvono i problemi reali si può avere la credibilità
per superare la presunta contrapposizione tra ambiente e
crescita, o meglio la diffusa percezione dell’ambiente co-
me limite e freno pur necessario alla crescita. Ecco questo
è il paradigma che le forze progressiste devono riuscire
a ribaltare: un paradigma che sta a monte dei «sì» e dei
«no» da comporre diversamente in un progetto-Paese. Per
vent’anni i sondaggi demoscopici hanno rivelato come la
sensibilità ambientale crescesse nell’opinione pubblica in
tempi di fiducia e ottimismo sullo sviluppo, diminuendo
invece nei periodi di crisi. Da qualche anno però non è
più così. Sta aumentando la consapevolezza che l’ambien-
te non sia solo una doverosa ricerca di compatibilità, ma
un motore nuovo per una crescita con maggiore qualità.
Mettere l’ambiente nel cuore delle politiche produttive,
industriali, di crescita è una grande chance per le forze
progressiste, perché la cultura conservatrice è più attarda-
ta sulla contrapposizione ambiente-sviluppo.

D.  Non sarà comunque facile per nessuno comporre in un


governo gli inevitabili contrasti tra il ministro dello Svilup-
po e quello dell’Ambiente.

R.  Penso che sia arrivato il tempo di concepire un mi-


nistero dell’Economia e del Territorio, capace di incor-
porare i temi ambientali e di fare della green economy
un vettore di politiche industriali, di piani territoriali di

­90
riconversione, di progetti-Paese. La separazione tra Svi-
luppo e Ambiente produce riflessi difensivi, che rallen-
tano l’azione: ne abbiamo avuto esperienza nel governo
dell’Unione. Dobbiamo andare oltre e compiere una scel-
ta di innovazione coraggiosa, portando l’ambiente da fat-
tore complementare dello sviluppo all’interno del motore
della crescita nazionale. Non sarà un incontro pacifico.
L’architettura di questo progetto ha elementi problemati-
ci, a partire dall’equilibrio dei costi. Ma questa è la sfida.
Quando, da ministro, presentai il programma «Industria
2015» la questione del risparmio e dell’efficienza energe-
tica era in cima alla gerarchia delle priorità. E l’aumento
dei prototipi e dei brevetti in questo campo era il primo
obiettivo da raggiungere. Ho lavorato al ministero dello
Sviluppo con ambientalisti veri e sono convinto che questa
sia la strada del futuro, collaborare avendo in mente un
progetto nazionale per il Paese.

D.  Vuol dire che, se il Pd andrà al governo, non ci sarà un


ministro dell’Ambiente? Non teme che ciò possa essere letto
come un passo indietro nella sensibilità ecologista anziché
come un passo in avanti?

R.  Sarebbe decisamente un passo avanti un ministro


dell’Economia e del Territorio, che tenga insieme le attuali
competenze dei ministeri dello Sviluppo e dell’Ambiente,
che sia pilastro delle politiche economiche al pari del mini-
stero del Tesoro e delle Finanze, che sappia portare avan-
ti e dare il giusto rilievo ai programmi nei diversi settori
della green economy. Penso che sia arrivato il momento di
fare un salto nell’organizzazione delle politiche pubbliche.
Togliere all’ambiente la simbologia del limite e togliere
allo sviluppo la simbologia prometeica dell’illimitato, è
un’operazione di grande valore culturale, oltre che politi-
co, di cui proprio il centrosinistra può farsi protagonista.
Ma la nuova organizzazione non avrebbe solo un valore
simbolico. Deve essere funzionale a introdurre nell’ammi-
­91
nistrazione i tre valori-guida per conseguire un’efficienza
vera: la trasparenza e la partecipazione delle decisioni, il
coordinamento operativo con gli enti locali e, soprattutto,
la cultura del controllo. La diffidenza della gente non si
supera con cento autorizzazioni diverse, ma assicurando
un controllo indipendente, affidabile ed efficace, attrezza-
to tecnicamente e insensibile alle lusinghe del mercato e
della politica. È questa semmai la nuova funzione che va
strutturata e organizzata.

D.  È convinto davvero che la green economy possa diven-


tare un vettore rilevante del sistema produttivo? Non c’è il
rischio, invece, che, quando si parla di risparmio e di efficien-
za energetica come di fonti rinnovabili, si mettano in moto
operazioni ad alti costi e scarsa remunerazione economica?

R.  Il vero rischio è l’opposto: che l’Italia perda altro tem-


po, che non decida su cosa puntare. Perché non si può
dire: facciamo quel che viene o facciamo un po’ di tutto.
Senza fissare delle priorità, senza progetti-Paese, senza
una politica industriale, ci condanniamo a una progres-
siva marginalità nei mercati. Noi siamo indietro. L’Italia
è un Paese importatore di energia e da noi l’energia costa
di più che altrove. Ma la ricetta per abbassare le bollette
non è certamente il costoso nucleare che vuole il gover-
no. Su questo tema la propaganda ha raggiunto il para-
dosso di promettere la riduzione del 30% delle bollette
producendo il 25% di energia nucleare: sono promesse
che offendono l’intelligenza degli italiani visto che i conti
non tornerebbero neanche se il nucleare fosse gratis. La
ricetta è invece quella di abbassare il più possibile, con le
liberalizzazioni e la concorrenza, il costo delle fonti, come
il metano, che ancora a lungo saranno le principali risor-
se energetiche dell’Italia. E nel frattempo investire in un
progetto-Paese fondato sull’efficienza energetica e le fonti
rinnovabili. Per crescere bisogna investire e i progetti di
efficienza energetica sono in primo luogo un’opportunità

­92
di investimento profittevole, sia per i privati, che possono
beneficiare della riduzione indotta dei costi della bolletta,
sia per lo Stato, che può ben compensare i minori introiti
dalle imposte sull’energia con le maggiori entrate della fi-
scalità diretta e indiretta attivata dagli investimenti. Ma il
progetto-Paese dell’efficienza energetica non consiste solo
nel realizzare buoni investimenti: è creare un nuovo siste-
ma industriale. Ovviamente non parlo soltanto di progetti
di singole aziende, di ricambio dei motori elettrici delle
fabbriche: è l’intero campo del risparmio e dell’efficienza
energetica che può diventare una specialità italiana, incre-
mentando brevetti e prototipi, dunque favorendo l’export
di tecnologie italiane. Abbiamo già punte di eccellenza: si
tratta di medie imprese con importanti commesse in India,
in Asia e in ogni parte del mondo. Bisogna crederci, de-
finire incentivi mirati, sostenere le innovazioni. Peraltro,
l’efficienza energetica offre buoni margini pure nel settore
delle abitazioni e delle costruzioni, dove è possibile mo-
bilitare il capitale privato: la green economy può dare una
mano persino al più tradizionale e consolidato vettore di
crescita economica del nostro Paese. Ma nel Pil buono che
si produce devono trovare sempre spazio ricerca, brevetti,
nuove tecnologie, perché questa è la competizione globale
a cui l’Italia non può sottrarsi.

D.  Anche le fonti rinnovabili hanno questo potenziale


espansivo? L’obiettivo del «20-20» (20% di energia prodot-
ta da fonti rinnovabili entro l’anno 2020) fissato dall’Unio-
ne europea non rischia di costare troppo alle imprese e al
Paese?

R.  Le fonti rinnovabili non producono gas serra, né sco-


rie: quindi costituiscono un valore e certamente non deb-
bono essere messi in discussione né il «se», né il «quan-
to» degli obiettivi europei. Però dobbiamo discutere del
«come» perché oggi le rinnovabili presentano un proble-
ma di costi e un problema di opacità nella gestione delle
­93
autorizzazioni, entrambi generati anche (ma non solo) da
un livello eccessivo delle incentivazioni pubbliche. Il pro-
getto-Paese delle rinnovabili non può risolversi solo nel
fissare obiettivi e incentivi più o meno decrescenti: occor-
rono scelte che mettano a sistema la ricerca, l’industria e
le infrastrutture. Se vogliamo cogliere tutte le opportunità
che le rinnovabili offrono dobbiamo evolvere da Paese im-
portatore a Paese esportatore di impianti e di tecnologia.

D.  Non le pare un proposito troppo ambizioso per essere


realistico?

R.  Non possiamo diventare un Paese esportatore per tut-


te le fonti rinnovabili e per tutte le possibili applicazioni,
ma possiamo giocarci le nostre carte se avremo la capacità
di fare scelte sulla base dei punti forza, attuali e potenziali,
delle nostre imprese: penso ad esempio alla geotermia, al
solare termico e fotovoltaico integrato nei tetti, al solare
termodinamico, al mini-eolico, al mini-idroelettrico, alle
biomasse nell’agricoltura e nella silvicoltura. Ma non ba-
sta: il progetto-Paese deve anche fare in modo che le fonti
rinnovabili realizzate non abbiano limitazioni nella produ-
zione per problemi di rete, come oggi accade sempre più
frequentemente. Se non faremo questo e altro ancora non
basterà il fascino del grande obiettivo europeo del «20-20».
Quando l’Unione europea fissa l’asticella molto in alto c’è
il rischio che tanta gente passi sotto senza neppure provare
a saltare. Insomma, da noi c’è il rischio che l’incentivo si ri-
balti in disincentivo. Invece dobbiamo mirare all’obiettivo
selezionando i settori su cui puntare. È una partita decisiva
che non riguarda solo noi, ma anche i nostri figli.

D.  Il drammatico incidente nell’impianto di Fukushima


peserà a lungo sugli orientamenti dell’opinione pubblica in-
terna e internazionale. Non ritiene comunque che la rinun-
cia al nucleare abbia comportato per l’Italia, oltre che uno
svantaggio competitivo, anche un grave ritardo tecnologico?

­94
R.  La vicenda del Giappone mostra che i timori dell’o-
pinione pubblica a proposito del nucleare non possono
essere liquidati come irrazionali. Per quanto se ne ridu-
cano le probabilità, le drammatiche conseguenze di un
incidente «improbabile» allarmano, e non a torto, come
si è visto. Peraltro ancora non si trova soluzione al pro-
blema delle scorie e anche questa non mi pare una pre-
occupazione irrazionale. Nel caso italiano si pongono poi
ulteriori domande: dopo più di vent’anni di interruzione
è davvero conveniente ricominciare? I progressi tecnolo-
gici sono tali da ridurre significativamente i problemi? I
vantaggi in termini di produzione di energia riusciranno
a compensare i costi di realizzazione delle nuove centrali?
Le risposte a questi quesiti sono decisamente negative.
Anche prima del dramma del Giappone, il «fantapiano»
nucleare del governo mi era apparso sbagliato e irrealisti-
co, perché si rivolgeva a un Paese impreparato. In Italia
le università e gli enti di ricerca hanno perso gran parte
delle risorse umane e delle competenze, le poche indu-
strie sopravvissute hanno bisogno di riqualificazione e di
certificazioni, i soggetti istituzionali deputati al control-
lo devono ancora nascere e quindi acquisire affidabilità,
competenze e credibilità. In queste condizioni, che non
si cambiano in pochi anni, non solo il costo di installazio-
ne dei nuovi impianti è straordinariamente alto, ma non
ci saranno né sconti nella bolletta energetica, né benefici
per il sistema industriale che riusciranno a compensarlo.
Inoltre la tecnologia non sarebbe italiana, ma nel caso del­
l’Epr scelto dall’Enel, francese: dunque l’affare sarebbe
anzitutto francese. Non va poi nascosto che siamo ancora
lontani da quel salto generazionale in grado di risolvere i
problemi di economicità e di smaltimento delle scorie, e
soprattutto i problemi di una sicurezza intrinseca in mo-
do completamente convincente. In Italia non è stato nep-
pure individuato il deposito temporaneo di superficie che
dovrebbe ospitare le scorie delle vecchie centrali, mentre
il governo ha tentato addirittura di definire un sito geo-
­95
logico a Scanzano Ionico! Neppure gli Stati Uniti hanno
ancora stabilito un loro sito geologico: da noi invece il
governo ha sparato la balla di Scanzano e poi, dopo la
rivolta popolare, è fuggito in ritirata. Sono dati di fatto,
senza coloriture ideologiche. Insomma, innalzare oggi la
bandiera del nucleare è sbagliato e irrealistico e devia l’at-
tenzione dalle politiche di liberalizzazione e di promozio-
ne dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, che
dovrebbero avere per noi un carattere prioritario e che
invece negli ultimi due anni sono state completamente
disarticolate. Solo specializzandoci, il che vuol dire mo-
bilitare industria e ricerca, possiamo trasformare il nostro
ritardo sull’energia in opportunità.

D.  Eppure alcuni ambientalisti di antica data sono di-


ventati col tempo nuclearisti. Dalle cose che ha detto sulla
sicurezza e sulla difficile gestione delle scorie, non sembra
condividere questo percorso.

R.  La piena sicurezza intrinseca e il destino delle scorie so-


no tuttora un grande problema irrisolto: inutile nasconderci
dietro un dito. Ritengo anch’io probabile che si trovi una
soluzione nei prossimi decenni, ma non c’è certezza. Arrive-
rà una tecnologia che dovrebbe superare, o almeno ridurre
fortemente il problema della sicurezza e delle scorie: per
questo non dobbiamo rimanere indietro rispetto al contesto
mondiale nella ricerca verso un nucleare sicuro, più gestibile
e pulito. Non ritengo irraggiungibile, nonostante quel che è
avvenuto, una prospettiva tecnologica che garantisca la pie-
na sicurezza del nucleare e il controllo dei suoi esiti. Non ci
siamo ancora. Nel frattempo dovremmo occuparci d’altro.
Ho organizzato da ministro il trasferimento in un deposito
francese delle scorie della centrale di Caorso: e credo che il
decommissioning (cioè l’attività di dismissione delle centrali
chiuse e di sistemazione delle scorie nucleari) sia un settore
in cui la nostra tecnologia potrebbe competere con qualche
possibilità di successo con quella internazionale. Registro

­96
infine che non è vero che la produzione elettrica da im-
pianti nucleari stia percentualmente crescendo nel mondo
in misura significativa: larga parte delle nuove realizzazioni,
almeno nei Paesi occidentali, sono destinate a sostituire i
molti impianti realizzati negli anni Settanta e Ottanta ormai
prossimi alla fine della loro vita tecnica. Il «fantapiano» del
governo per reimpiantare il nucleare in Italia, lo ripeto, è in
questo contesto una scelta gravemente sbagliata e che deve
essere radicalmente rivista.

D.  La parola ambiente richiama quelle di territorio, vivibi-


lità, aria pulita. Nel «bel Paese» sono risorse particolarmen-
te preziose, perché incidono sui tesori del paesaggio e della
cultura, dunque anche su economie vitali come, ad esempio,
il turismo. Il deterioramento invece avanza su diversi fronti.
Non riterrà mica possibile affrontare tutte le emergenze eco-
logiche con la sola chiave della politica industriale?

R.  Penso di aver chiarito che il Pd che ho in mente non è


un partito del divieto, ma il partito di una crescita consape-
vole dei propri limiti. La crescita però dovrebbe contenere
anche una forte idea comunitaria. E il territorio è il clou di
questa idea comunitaria. È ovvio che in questo contesto
non tutte le scelte possono essere dettate da ragioni econo-
miche. Ma quando la politica pone una regola, deve anche
saper indicare una direzione di marcia. Deve insomma far
capire come sia possibile uno sviluppo migliore, sostenibi-
le. Facciamo l’esempio delle città: abbiamo bisogno di una
nuova generazione di piani urbanistici, capaci di stabilire
nuove priorità. La prima convenienza è, a mio giudizio, la
ristrutturazione, il riuso. Ristrutturazione di abitazioni per
ottenere risparmio energetico, ristrutturazione di quartieri
per migliorare vivibilità e servizi, ristrutturazione e bonifi-
ca di aree industriali dismesse. Non basta dire: qui non si
può costruire. Occorre predisporre incentivi affinché in-
terventi pubblici e risparmio privato possano convergere
su altri obiettivi altrettanto appetibili.
­97
D.  Ma la manutenzione del territorio, l’enorme problema
del traffico e del dissesto idrogeologico non richiedono risor-
se superiori alle nostre attuali disponibilità?

R.  Torniamo così al punto di partenza: la politica per


il territorio, per avere risorse, deve muoversi su progetti-
Paese, ossia produrre valore aggiunto e incrociare nuove
politiche industriali. Viviamo in un territorio stretto e scar-
so. Se togliamo gli Appennini, la concentrazione antropica
dell’Italia è superiore persino a quella dell’Olanda. Ma per
superare lo stress da territorio non basta questo o quell’in-
tervento straordinario: dobbiamo diventare campioni della
ristrutturazione e del riuso, intendo dire anche campioni
di ricerca e di tecnologia che possono consentire quest’at-
tività. Non è un sogno, è una possibilità. Da ministro dello
Sviluppo economico lanciai il progetto per le bonifiche
delle aree industriali dismesse. Il governo Berlusconi lo
ha abbandonato. Ma lo ritengo ancora valido. In un Paese
dal territorio scarso non si possono lasciare all’incuria aree
industriali ormai inattive ma ugualmente inquinate e inqui-
nanti. La mia proposta consisteva in un patto con l’impresa
disposta a subentrare: lo Stato paga la bonifica, poi si rivar-
rà su chi ha inquinato. Intanto quell’area torna a vivere e il
Paese non si de-industrializza. Anche la bonifica produce
investimenti e lavoro, mentre aiuta l’ambiente e affina le
tecniche che le aziende italiane possono esportare.

D.  Lei pensa che lo schema dei progetti-Paese possa ser-


vire anche per contrastare l’inquinamento dovuto al traffico
automobilistico?

R.  Certamente. L’inquinamento da traffico dipende dal­


l’età, dal numero e dal tempo di utilizzo in strada dei veicoli.
Il rinnovo del parco auto può essere favorito da una fiscalità
più attenta all’ambiente: ad esempio, perché non collegare
il bollo auto alle emissioni di CO2 per chilometro invece
che alla cilindrata? E la riduzione di emissioni di CO2 nelle

­98
nuove automobili è funzione di sviluppo tecnologico e in-
dustriale. L’impresa italiana non è tagliata fuori, bisogna pe-
rò lavorare sul limite degli standard come fanno i tedeschi:
la Germania adotta gli standard ecologici più rigorosi, così
le loro imprese sono costrette a correre e poi il loro gover-
no spinge in sede europea, a Bruxelles, perché gli standard
europei si adeguino a quelli tedeschi. Ma si può lavorare
anche sulla riduzione dei tempi di percorrenza delle strade,
migliorando e affinando le tecniche di utilizzo dei sistemi sa-
tellitari. C’è poi una necessaria innovazione nel campo della
logistica: per aumentare l’efficienza di un settore allo stato
così debole ci vogliono imprese di maggiori dimensioni.
Oggi la polverizzazione delle piccole imprese nella logistica
aumenta i costi, il traffico su strada, l’inquinamento e non ci
consente di utilizzare al meglio il trasporto ferroviario, le au-
tostrade del mare, gli interporti. Infine, e soprattutto, occor-
re affrontare con tempestività e determinazione gli scenari,
ormai assai probabili, di diffusione dell’auto elettrica. Un
settore nel quale avremmo delle possibilità che, però, per
la latitanza congiunta di grande impresa e politiche pubbli-
che, stiamo tranquillamente abbandonando.

D.  Non teme che la vostra opposizione alla costruzione del


Ponte sullo Stretto appaia oggi come la prosecuzione di an-
tiche resistenze a sinistra nei confronti di grandi interventi
infrastrutturali? Non teme che parlare di green economy
anziché di nucleare, di ristrutturazioni e bonifiche di aree
industriali anziché di nuove costruzioni, di tecnologia per
ridurre il traffico anziché di nuove strade, sembri una fuga
dalle vere responsabilità? Potrebbe sembrarlo ancor più nel
Mezzogiorno dove il deficit infrastrutturale è molto pesante.

R.  Se ci sono state resistenze in passato, non ci sono più


da un pezzo. È stato il governo dell’Ulivo a realizzare la va-
riante di Valico, a consentire il raddoppio della principale
linea ferroviaria del Paese con l’avvio dell’Alta capacità.
Ma il Ponte sullo Stretto è esattamente la fuga demagogica
­99
della destra per evitare di misurarsi con i problemi di quel
territorio e del Mezzogiorno più in generale. Il Ponte ha un
costo economico che lo rende decisamente sconveniente.
E la verità tecnica sul Ponte è che ancora i progettisti non
sono in grado di garantire in sicurezza il passaggio delle au-
to nelle giornate di vento forte! Ma andiamo... cerchiamo
di essere seri. È più saggio, più utile al Sud, maggiormente
vantaggioso in termini economici e sociali investire in altre
infrastrutture, visto che le carenze di strade e ferrovie sono
in Sicilia e Calabria molto gravi. Noi vogliamo la cresci-
ta. E sappiamo che è più difficile misurarsi con politiche
complesse, anziché creare cattedrali nel deserto, o peggio
inventare simboli da spendere nel mercato elettorale.

D.  L’emergenza rifiuti a Napoli diventò per Berlusconi


l’ariete della campagna elettorale del 2008. Ma l’emergenza
non è finita, anzi le emergenze si diffondono nel Mezzo-
giorno e nel Paese. Se il processo di smaltimento dei rifiuti
si intoppa in molte regioni italiane è colpa di un ritardo
culturale o politico?

R.  Berlusconi ha sfruttato un dramma senza risolverlo.


Le immagini di Napoli con i rifiuti in strada sono state
una grave ferita per l’Italia. Ma l’intervento d’emergenza
è sempre un tampone, mai la soluzione. La soluzione passa
dal governo di un ciclo complesso. È proprio questo che
ci manca. Il caso dei rifiuti è il paradigma di un problema
più generale. Quando si governa un ciclo, non si saltano
i passaggi. Chi per primo apre le discariche, in genere è
anche il primo che le chiude; chi ha il termovalorizzatore
è anche quello che fa più raccolta differenziata. Quanti
escludono totalmente i termovalorizzatori mettendoli in
contrapposizione con la raccolta differenziata, non danno
una mano ma contribuiscono a rendere il ciclo ingover-
nabile. È vero, la responsabilità è della politica, ma la sua
efficacia è legata anche al tessuto comunitario dei progetti.
Per ridurre i rifiuti, ad esempio, bisogna intervenire pure

­100
sugli imballaggi per ridimensionarli, evitare gli sprechi di
plastica, incrementare l’utilizzo di materiali biodegradabi-
li o riciclabili e così via. Ma queste politiche presuppongo-
no l’idea del «ciclo» e di un suo razionale governo.

D.  Quello dei rifiuti è un settore dove anche la legalità sta


diventando un’emergenza. Non c’è bisogno di citare Go-
morra per indicare gli intrecci tra gestione dei rifiuti, uso
spregiudicato del territorio e gli interessi delle organizzazio-
ni criminali.

R.  Abbiamo bisogno dell’ordinario, non dello straordi-


nario. Il dramma dell’Italia è che i problemi si affrontano
per lo più con l’intervento straordinario. Perché solo così
si trovano i soldi, che altrimenti vengono negati. Con lo
straordinario si guadagna e lo sanno anche le organizza-
zioni criminali, che si insinuano nella zona grigia tra di-
screzione e corruzione. Nel decennio berlusconiano gli
interventi straordinari si sono moltiplicati, sono diventati
modalità di governo attraverso le dichiarazioni di stato di
emergenza e le ordinanze in deroga. È esattamente ciò che
non dovremmo fare. È una resa, i cui costi si pagano in
termini di legalità e nella mancanza di un progetto a medio
e lungo termine.

D.  La campagna sull’acqua pubblica ha riscosso grande


successo nell’associazionismo cattolico e nel popolo di sini-
stra. Lei cosa pensa dei referendum proposti? È questa la
battaglia-simbolo della difesa dei beni comuni in un sistema
che tende a trasferire tutto al mercato?

R.  Condivido il senso del primo dei quesiti referenda-


ri, teso a contrastare la privatizzazione forzosa dei servizi
pubblici locali. Come spesso nei referendum rimane ine-
vasa una proposta positiva, della quale noi ci siamo cari-
cati. La destra cerca di confondere le privatizzazioni con
le liberalizzazioni e lo fa peraltro dopo aver cancellato le
­101
liberalizzazioni del centrosinistra. Non ha senso obbliga-
re un comune o un ente territoriale a privatizzare ogni
società a prevalente capitale pubblico. Come si può fissa-
re un obbligo generale che non tenga conto di diversità,
di convenienze temporali, di interessi locali? La battaglia
referendaria sull’acqua muove da qui. Anche se contiene
una carica politica e simbolica più grande. L’acqua come
bene comune? Di più. Per me l’acqua è di Dio! E se l’ac-
qua è di Dio dobbiamo restituirla come ce l’ha data. Il
pubblico deve avere il comando programmatico dell’inte-
ro processo di distribuzione e le infrastrutture essenziali
come le dighe, i depuratori, gli acquedotti devono essere
sotto il pieno controllo pubblico. Ma ciò non vuol dire che
il pubblico non possa affidare a privati parti di gestione del
ciclo, ovviamente dopo regolare gara e con un’autorità in-
dipendente che vigili costantemente sul rapporto tra capi-
tale investito, tariffe per il consumatore e remunerazioni.

D.  Anche se lei ha chiaramente posto l’accento sul coman-


do programmatico del pubblico, la presenza dei privati nel
ciclo di distribuzione dell’acqua rischia di diventare un tema
serio di scontro con la sinistra radicale.

R.  La battaglia dell’acqua viene dal raduno di Porto Ale-


gre e ha un po’ l’impronta da teologia della liberazione. Ne
apprezzo il valore culturale. Noi però non siamo in Sud
America o in Africa. Da noi l’acqua è già pubblica, ma non
basta la parola «pubblica» per risolvere i problemi, perché
in questo settore non è che oggi vada tutto bene: in certe
zone del Mezzogiorno ancora adesso d’estate i rubinetti
sono asciutti e non per motivi di siccità. Il problema mag-
giore per noi è che sprechiamo tantissima acqua – oltre il
50% in alcuni acquedotti – perché non ci sono soldi da
investire nelle manutenzioni e in nuove infrastrutture. La
risposta che ha dato il centrodestra è sbrigativa e penaliz-
zerà gli utenti. La risposta che vuol dare il Pd è un sistema
dell’acqua in cui il pubblico deve restare il responsabile, in

­102
termini di programmazione, tutela dei consumatori, con-
trollo e vigilanza, non solo della distribuzione ma dell’in-
tero ciclo dell’acqua. In questa idea di servizio pubblico
possono trovare spazio anche i privati, e i loro investimenti
a vantaggio della comunità devono trovare una remunera-
zione giusta, che eviti speculazioni. Dettare gli obiettivi,
fissare le regole, possedere le reti, controllare la gestione
e la qualità dei servizi: questa è un’idea di pubblico che
ritengo più moderna ed efficiente.
VII
LA SCOMMESSA INDUSTRIALE
MADE IN ITALY

D.  L’industria italiana produce circa il 20% del Pil na-


zionale, poco meno della Germania, il doppio della Gran
Bretagna. Eppure quando lei, da ministro, lanciò il progetto
«Industria 2015» (marzo 2008), fu accusato di avere un’im-
postazione old style, come se la modernità fosse ormai soltan-
to finanza e terziario. In seguito, con la crisi, l’economia reale
si è presa la sua rivincita. Ma perché nel nostro dibattito pub-
blico la parola industria viene pronunciata con tanta ritrosia?

R.  Sapevo di fare una provocazione titolando quel pro-


getto «Industria 2015». Eravamo, allora, alla vigilia della
grande crisi e non pochi autorevoli commentatori giudica-
vano come un fattore di arretratezza la presenza industria-
le nel nostro Paese, di peso proporzionalmente analogo
alla Germania e al Giappone. Sostenevano che avremmo
dovuto fare come gli Stati Uniti e l’Inghilterra: rinunciare
alla produzione per dedicarci alla finanza. A me sembra-
vano matti. Da mille anni facciamo questo mestiere: com-
prare materie prime all’estero, trasformarle con il gusto, la
tecnica e la creatività italiani e venderle in tutto il mondo.
Un mestiere per il quale siamo apprezzati, che sul mercato
globale è competitivo e tale può restare finché noi abbiamo
voglia di competere. Eppure la questione industriale è sta-
ta espulsa anche dal senso comune: ci dà da mangiare ma
non si vede in Tv un laboratorio, una fabbrica, un cantiere.

­104
Nel resto d’Europa non è così. E non è semplice spiegare
tanta leggerezza. Per un verso, penso che abbia avuto un
peso anche la forza simbolica della parabola di Berlusconi,
il quale non è un industriale vero, avendo sempre avuto nel
commerciale e nella comunicazione il baricentro del pro-
prio business e quindi una prevalente attenzione in quei
settori. Ma di sicuro ha inciso anche l’interdipendenza tra
l’industria e la rete sempre più ampia dei servizi a monte e
a valle: ricerca, tecnologia, finanza, supporti professionali,
distribuzione. Sono stati anni di cambiamenti impetuosi
nei mestieri complementari alla manifattura. Ma non vedo
perché non dovremmo chiamare tutto questo «industria»,
ampliando così gli orizzonti oltre i cancelli della fabbrica.
Se non diamo il giusto nome alle cose rischiamo di smar-
rire oggetto e coordinate di una politica. Ed è esattamente
ciò che sta accadendo in questi anni: per il centrodestra
italiano la politica industriale è un grande buco nero.

D.  Politica industriale è da noi un’espressione che riman-


da all’Iri e alla stagione delle Partecipazioni statali. Su di
essa grava l’accusa di dirigismo. Peraltro, negli altri Paesi,
la politica industriale è spesso il sostegno alle alleanze o agli
accordi internazionali dei grandi gruppi nazionali, mentre
noi difettiamo di imprese di grossa taglia. Non avverte il
rischio che la sua posizione non sia compresa dall’opinione
pubblica?

R.  È una sfida. Ma non mi arrendo: l’Italia ha bisogno di


politiche industriali se vuole crescere e giocare un ruolo
nel mondo. Insieme con Romano Prodi e a differenza di
tanti, non ho paura di parlare di politica industriale. Ov-
viamente non c’è alcun proposito dirigista. La filosofia di
«Industria 2015» era quella dei progetti-Paese, cioè l’indi-
viduazione di grande aree tecnologiche verso le quali sol-
lecitare e sospingere il sistema delle imprese: il risparmio e
l’efficienza energetica, la mobilità sostenibile, le tecnologie
del made in Italy, le scienze della vita, le tecnologie legate
­105
all’arte, alla cultura e ai beni di valore storico. Non settori
esclusivi, ma campi dove l’innovazione e la competizio-
ne possono incrementare i nostri talenti. I progetti-Paese
peraltro non avevano caratteri pianificatori, pedagogici
o intrusivi. Erano concepiti come servizi alle dinamiche
d’impresa verso il varo di nuovi prodotti, verso la colla-
borazione a rete fra le imprese, verso l’accesso alla ricerca
sostenuto da robusti crediti di imposta. Un tratto caratte-
ristico dell’iniziativa era l’istituzione del project manager,
un manager italiano già affermato nel settore, disposto a
svolgere, gratuitamente a titolo di servizio civile, il ruolo di
coordinatore del singolo progetto-Paese. Ricordo quando
Alberto Piantoni, patron della Bialetti, ha tenuto al mini-
stero la prima riunione sul progetto delle nuove tecnologie
del made in Italy: sono venuti in tanti, imprenditori medi
e piccoli. Non c’erano dirigenti del ministero in cattedra
a spiegare cosa fare: questo sì avrebbe suscitato diffiden-
za in quel mondo. Era invece un imprenditore come loro
che, con spirito di servizio, aiutava a prendere una rotta
che avrebbe potuto portare benefici ai singoli e al sistema.
Lo stesso avvenne con Pasquale Pistorio, coordinatore del
progetto sull’efficienza energetica, e con altri manager.
Tutto questo impianto è stato poi distrutto dal governo
Berlusconi. Secondo me era invece il cantiere più avanza-
to in Europa. E, con opportuni aggiustamenti, potrebbe
esserlo ancora.

D.  Ma il made in Italy può espandersi ancora oppure la


distribuzione mondiale del lavoro e la competizione sui costi
ci condanna a gestire una progressiva marginalità?

R. Il made in Italy è tradizionalmente legato a specifici


prodotti: la moda, gli alimenti tipici, una certa meccanica,
il design e così via. Lo sviluppo del made in Italy nella
competizione globale sta, a mio giudizio, nel passaggio dai
singoli prodotti all’idea di un modo di produrre. Il made
in Italy può diventare un gusto, una cultura del prodotto,

­106
una capacità di flessibilità e di adattamento che sono tratti
specifici dell’imprenditorialità italiana. Facciamo cose che
fanno anche altri, ma le facciamo con qualità singolari e
siamo capaci di costruirle su misura per il cliente. Siamo
campioni mondiali di co-progettazione. Chi ha bisogno
di un partner speciale si rivolge a un italiano. Mi hanno
raccontato la storiella di un’impresa americana che cer-
cava una ditta capace di realizzare una particolare mac-
china industriale di colore rosso: in Germania si è senti-
ta rispondere che la potevano produrre ma non di quel
colore e in Giappone che purtroppo non l’avevano nel
campionario. Quando quell’impresa americana è venuta
in Italia, le hanno domandato: «Ma che tipo di rosso vuole
precisamente?». Siamo i migliori adattatori di tecnologie
nuove e nell’adattarle le implementiamo. Ma per sostenere
questa risorsa imprenditoriale, che spesso ha le gambe di
una media azienda con clienti sparsi in mezzo mondo, ci
vuole, appunto, una politica industriale.

D.  Quanto pesa sul futuro della nostra industria l’assetto


strutturale del capitalismo italiano, con pochi grandi gruppi
e capitali scarsi, concentrati prevalentemente nelle aziende
di maggiori dimensioni?

R.  Da sempre il primo dei nostri problemi è stato la diffi-


coltà nel reperire i capitali necessari ai progetti industriali.
L’Iri nacque dopo la crisi delle banche, cominciata da noi
con il fallimento della Commerciale. E, nonostante le criti-
che ideologiche, quando all’Assemblea costituente si pose
il problema se mantenere o meno in vita l’Iri, il presidente
di Confindustria Angelo Costa non esitò a schierarsi contro
la soppressione: nessun altro può reggere industrie come
l’Ansaldo, disse. L’industria pubblica, pur con i suoi difetti,
ha mantenuto a lungo un equilibrio con l’industria priva-
ta, costruendo persino qualche sinergia. Da parte loro, le
«grandi famiglie» del capitalismo nazionale ebbero grandi
meriti nella stagione dello sviluppo industriale del Paese.
­107
Tuttavia l’istantanea di oggi è impietosa: le «grandi fami-
glie» non sono riuscite a reggere la sfida globale, e intan-
to l’Italia non ha conosciuto public company sul modello
anglosassone e il nostro sistema banco-centrico continua
a frammentare i finanziamenti, inseguendo così più le oc-
casioni che le strategie. Sostenere oggi una sfida industriale
globale, anche una sfida di nicchia, richiede capitali stabili
e strategici. Noi fatichiamo ad averli: questo è un problema
strutturale. Del resto, le privatizzazioni sono state una gran-
de occasione per mettere alla prova il capitalismo italiano
e il risultato è stato che, salvo Eni, Enel, Finmeccanica,
cioè le aziende dove c’è ancora il capitale pubblico, nessun
campione nazionale solo privato ha saputo affermarsi sul
mercato globale. Il caso Telecom è emblematico. Si sono
cimentati tutti (il grande, il medio, il nuovo, il vecchio,
l’emergente, la cordata), sia pur con diversa capacità e di-
versi risultati, ma alla fine la nostra più grande impresa nel
cruciale settore delle telecomunicazioni ha trovato altrove,
in Spagna, la sponda fondamentale del proprio assetto pro-
prietario. Nei passaggi tra i vari attori nazionali non si sono
mai trovati capitali e risorse stabili.

D.  Le privatizzazioni sono figlie degli anni Novanta, e in


prevalenza sono state gestite da governi di centrosinistra o
comunque sostenuti dal centrosinistra. Col senno del poi di-
rebbe oggi che sono state fatte bene? Avete ricevuto critiche
da destra e da sinistra.

R.  Bisogna distinguere bene tra liberalizzazioni e priva-


tizzazioni. Le prime sono state e sono indispensabili anche
per risvegliare l’impresa pubblica e mettere in movimento
gli investimenti. Le seconde sono state in buona parte le-
gate alle esigenze finanziarie di riduzione del debito. Le
privatizzazioni hanno funzionato meglio laddove è rimasta
una presenza significativa di capitale pubblico e laddove
il processo di liberalizzazione era compiuto. Prendiamo il
caso dell’Enel: era la seconda azienda elettrica del mondo,

­108
distribuiva energia solo in Italia ma aveva i bilanci in rosso
e investimenti a zero. Dopo le liberalizzazioni, il sistema ha
prodotto nell’insieme 20 miliardi di investimenti e all’Enel
parzialmente privatizzata sono tornati gli utili. Non solo:
l’Enel è oggi la società di energia più internazionalizzata.
Prendiamo la telefonia: qualcuno può seriamente pensa-
re che se avessimo mantenuto il monopolio statale oggi
staremmo meglio? È vero che il capitalismo italiano non
è stato in grado di assumere la guida della Telecom, ma le
liberalizzazioni almeno hanno messo i nostri utenti nelle
condizioni di usufruire delle novità tecnologiche e delle
condizioni di mercato degli altri cittadini europei. Penso
che il pubblico debba mantenere il primato e il controllo
sulle reti: la rete energetica, quella delle telecomunicazioni
e delle ferrovie. Poi, se il capitalismo italiano non ce la farà
a sviluppare i servizi, verrà inevitabilmente quello tedesco,
spagnolo o americano. Fui io a liberalizzare il sistema fer-
roviario in modo che, oltre ai binari e alla nuova rete di
Alta capacità, potessimo avere anche i treni e i servizi di
trasporto. Adesso arriverà la concorrenza e il guaio vero
è che, con il centrodestra, l’operazione di liberalizzazione
non è stata completata e, per esempio, non abbiamo an-
cora definito il servizio universale (comprendente le linee
«fuori mercato») da mettere a carico di tutti gli operatori,
né un’autorità indipendente che garantisca i viaggiatori.

D.  A proposito di Telecom, lei fu criticato durante il gover-


no D’Alema per aver sostenuto l’opa di Roberto Colaninno
(1999). Si parlò allora di una merchant bank a Palazzo Chi-
gi, intendendo con ciò un ruolo attivo dell’esecutivo nella
formazione della cordata che rilevò il comando di Telecom
dopo il fallimento della prima public company. Si rimpro-
vera qualcosa nelle scelte di allora?

R.  Con la privatizzazione della Telecom, un round dopo


l’altro, si sono misurati in tanti: lo abbiamo già detto. E
l’esito non è stato soddisfacente. Quell’opa ebbe requisiti
­109
di trasparenza e di tutela dei piccoli azionisti, come poi
non si è più verificato. Ovviamente ogni critica di merito
è sempre legittima, ma va ricordato che allora furono ri-
gorosamente rispettate le condizioni di offerta pubblica
d’acquisto introdotte dalla legge Draghi. L’asino cascò più
tardi, quando si trattò di dare una base strutturale più so-
lida a quell’avventura industriale. Era possibile farlo, ma
tra i partner di quella cordata c’era qualcuno interessato
soprattutto a operazioni di carattere speculativo.

D.  Il grande conflitto tra la sinistra e il capitalismo ita-


liano avvenne qualche anno più tardi (2005), quando Uni-
pol, legata al mondo delle cooperative, tentò la scalata della
Banca Nazionale del Lavoro. La cooperazione, grazie anche
alla crescita finanziaria prodotta dai supermercati e dalla
distribuzione, oltre che dalle assicurazioni, avrebbe potuto
aumentare la capienza e il dinamismo del sistema, rompen-
do il cerchio esclusivo delle «grandi famiglie» protetto dalle
banche. Ma non fu incauto lanciare quell’opa viste le dimen-
sioni di Unipol e le sue fragili alleanze?

R.  Il mio più grande rammarico è la scarsa laicità con


cui  viene tuttora trattato il tema della cooperazione.
Ognuno naturalmente è libero di criticare la scelta dell’o-
pa sulla Bnl. Lo stesso vertice di Unipol adotta oggi stra-
tegie diverse dal passato. Tuttavia, ciò che continuo a
considerare inaccettabile è il veto pregiudiziale contro il
movimento cooperativo. Come se nel resto d’Europa le
cooperative non fossero già forti nelle banche. La coo-
perazione è da noi la tipologia d’impresa che più cresce
per dimensione grazie all’obbligo di reinvestire gli utili.
La cooperazione ha consentito al nostro Paese di tene-
re una presenza significativa nella grande distribuzione,
così come nell’agricoltura, nelle costruzioni, nei servizi:
e ciò è avvenuto grazie a migliaia di micro-imprese che
si sono messe insieme facendo sistema. Si potrebbe forse
dire che la cooperazione è una singolare public company

­110
italiana, che si è sviluppata laddove per ragioni storiche
le public company non sono riuscite a insediarsi. Quan-
do si affronta con serietà questo tema, sono il primo a
dire che la governance delle cooperative presenta anche
problemi: ad esempio, il potere dei soci è limitato e il ri-
schio di autoreferenzialità richiede nuove riflessioni. Ma
bisogna riconoscere che il capitalismo italiano ha una sua
varietà biologica: c’è l’impresa privata, c’è l’impresa pub-
blica, c’è l’impresa cooperativa e tutte possono volgere
al meglio le rispettive peculiarità. È scritto anche nella
nostra Costituzione.

D.  Lei direbbe agli imprenditori: arricchitevi, perché con


la vostra ricchezza potete aiutare lo sviluppo del Paese?

R.  Agli imprenditori dico: arricchite le vostre aziende,


rafforzate i loro capitali. Questo è il grande contributo, non
solo economico ma anche civile, che potete dare all’Italia,
alla crescita del lavoro, della qualità, della competitività. È
un cambio di orizzonte, a cui dovrebbero contribuire pure
le politiche fiscali: se i guadagni li tieni per te le tasse sono
alte, se li investi in azienda si abbattono. È quello che pro-
poniamo nella nostra riforma fiscale. Un’impresa più forte
economicamente compete meglio, dà lavoro e rende tutti
più ricchi. Quando invece un’impresa si impoverisce, tra-
smette sfiducia e il conto in banca dell’imprenditore resta
solo una questione privata. C’è bisogno di un’inversione
logica e civica. Bisogna rimettere in circolo fiducia perché
nel mondo c’è spazio, eccome, per una nuova industria
italiana.

D.  Ma quali dimensioni dovrebbe avere la nuova industria


italiana? Ha ancora senso puntare su settori come la chimica
o la siderurgia, traino per decenni, ma oggi in evidente decli-
no? È possibile dar vita a una politica industriale che aiuti
la grande azienda e, al tempo stesso, la media impresa che si
specializza in segmenti di nicchia?
­111
R.  La politica industriale di un Paese come l’Italia deve
muovere dalle diversità. E deve essere capace di suonare
tutti i tasti del pianoforte. Non c’è futuro industriale per
noi se si rinuncia completamente alla chimica, alla siderur-
gia, all’auto, settori niente affatto in declino ma in evoluzio-
ne. Ovviamente nei settori a larga economia di scala, o hai
il fisico per correre da solo, o devi metterti in compagnia.
E i governi possono favorire i grandi accordi industriali
extranazionali, come anche possono aiutare a sbagliare.
Spendere tre miliardi di euro per fare una nuova compa-
gnia aerea italiana è stato un grave errore da parte del go-
verno Berlusconi perché sarebbe bastato ben meno di un
miliardo di euro per integrare l’Alitalia con Air France e
Klm e mettere la nostra voce in un soggetto più grande. E
avremmo così difeso meglio l’italianità: sono certo che nel
futuro sarà facile capirlo. Per aziende come Finmeccanica,
la cui committenza fa spesso riferimento agli Stati naziona-
li, si può addirittura parlare di diplomazia economica. Ma
non è vero che questo interesse per le grandi dimensioni
debba andare a scapito delle realtà più piccole. Il made in
Italy oggi viaggia attraverso medie imprese che operano
in settori anche di nicchia, con una rete commerciale in-
ternazionale. La strategia deve essere duplice: da un lato,
bisogna comunque favorire il rafforzamento dimensionale
dell’impresa e dare quantomeno un carattere stabile ai fi-
nanziamenti necessari, dall’altro è necessario intensificare
la rete di collegamenti interni fra i singoli produttori. Il
pubblico può aiutare la media impresa a internazionaliz-
zarsi e la piccola a rafforzarsi in un sistema a rete. Anche
attraverso il supporto dei servizi e la liberalizzazione delle
professioni: negli anni Settanta i commercialisti aiutarono
l’espansione della piccola impresa, oggi abbiamo bisogno
di una nuova generazione di professionisti che aiutino l’im-
presa nell’export e nella competizione sui mercati emer-
genti. Il rifiuto della destra corporativa a consentire l’avvio
di un modello italiano di società professionali è stato ed è,
secondo me, un danno gravissimo.

­112
D.  Nella storia italiana le politiche industriali sono state
spesso condizionate dagli interessi della Fiat. Quali cambia-
menti produce oggi l’internazionalizzazione della Fiat? Non
avverte il rischio che la testa dell’azienda passi negli Usa e
le fabbriche italiane diventino solo piattaforme manifattu-
riere sempre a rischio per la concorrenza di altre fabbriche
europee?

R.  L’internazionalizzazione della Fiat è stata certamente


un fatto importante. La competizione nel settore auto è
spietata perché nel mondo c’è una capacità produttiva or-
mai largamente superiore alla possibilità di assorbimento
del mercato. Senza alleanze, senza strategie valide, non si
può sopravvivere. Ma ora si tratta di capire dove si collo-
cherà il baricentro della nuova Fiat e quali progetti pren-
deranno forma in Italia. Sono molto interessato al piano
Fabbrica Italia annunciato da Sergio Marchionne. I conte-
nuti, però, sono ancora da chiarire. Del piano annunciato
si conosce solo una piccola parte e, in particolare, non si
sa abbastanza delle fondamentali attività di ricerca, che
restano un punto cruciale per comprendere quale sarà il
ruolo del nostro Paese anche nella produzione.

D.  Intanto a Pomigliano e a Mirafiori gli accordi aziendali


prima e il referendum poi hanno provocato una frattura tra
Cgil, Cisl e Uil e tra gli stessi lavoratori che rischia di pesare
come un macigno sul futuro delle relazioni sindacali e sulle
stesse politiche del centrosinistra.

R.  Compito della politica, e in primo luogo del Pd, da-


vanti alle drammatiche divisioni tra i lavoratori non è solle-
vare questa o quella bandiera sindacale, ma lavorare sulle
linee di una possibile ricomposizione del patto sociale. Il
governo non ha fatto nulla di tutto questo: per mesi ha
osservato Marchionne senza riuscire a mettere in chiaro
né gli impegni della Fiat, né le possibili sponde di politica
industriale. Berlusconi non ha una politica industriale e
­113
ha scommesso sulla divisione sindacale per incassare un
dividendo politico. Per noi il lavoro di ricomposizione so-
ciale ha molti fronti. Uno di questi è costituito dalle regole
di partecipazione e di rappresentanza dei lavoratori. La
contrattazione nazionale deve diventare più essenziale ma
non scomparire. Abbiamo bisogno di un modello nuovo
di decentramento delle relazioni, non di soluzioni caso per
caso che porterebbero alla disarticolazione e non all’in-
novazione delle relazioni sociali. Il nuovo modello deve
indicare le forme per rendere esigibili i contenuti degli ac-
cordi sottoscritti, attraverso meccanismi meglio definiti di
partecipazione, di rappresentanza e di rappresentatività,
in modo da prevedere comunque la voce delle minoranze
negli organismi di base, che qualcuno vorrebbe invece far
scomparire in Fiat e altrove. In questo ambito, compito
della politica è anche quello di affermare il valore della
legge. Credo che nessuno abbia in testa di inseguire i ci-
nesi. Per questo ci vuole un argine di civiltà nel diritto del
lavoro. È vero che nella globalizzazione imprenditori e la-
voratori sono tutti sempre più sulla stessa barca, ma quella
barca non può essere lasciata in mezzo al mare. Politiche
industriali e nuove regole di rappresentanza devono essere
affiancate, ad esempio, da interventi di contrasto alla pre-
carizzazione. Lo ha riconosciuto pure il governatore della
Banca d’Italia Mario Draghi. Un’ora di lavoro precaria
non può costare meno di un’ora di lavoro stabile a parità
di costi per l’azienda. È arrivato il momento di definire un
salario minimo per i lavoratori non coperti dalla contrat-
tazione nazionale. C’è infine un’ultima questione che un
governo serio dovrebbe affrontare con una visione d’in-
sieme: è la produttività del sistema. La politica industriale
può essere uno dei vettori, ma servono anche misure che
contrastino l’egoismo sociale e aumentino la produttività
dell’intero sistema, che non può essere scaricata solo sul
lavoratore della catena. Quanti turni deve fare un operaio
perché un banchiere rinunci a un bonus milionario o un
petroliere accetti un po’ più di liberalizzazione?

­114
D.  Non è un alibi scaricare le divisioni sindacali sulle re-
sponsabilità del governo di centrodestra? Non ritiene che, a
partire dall’accordo separato sui modelli contrattuali, si sia
allargata una frattura tra Cisl e Cgil che rinvia a concezioni
sindacali poco conciliabili tra loro?
R.  Nei diversi ruoli di governo che ho ricoperto mi è sem-
pre risultata chiara la diversa ispirazione sindacale di Cisl,
Cgil e Uil. Ma ho sempre cercato da ciascuno il contributo
migliore. Quando ero in regione la Cisl mi aiutò molto nella
formazione e nei rapporti con le autonomie sociali, anche
extra-sindacali. La Cgil fece altrettanto su certe traiettorie
industriali. Composizione unitaria non vuol dire rinuncia
alla propria identità e alle legittimamente diverse culture
sindacali. Il vero problema è se un governo ritiene l’unità
del lavoro un bene comune, un asse fondamentale per te-
nere insieme un Paese lacerato, oppure se pensa che sia me-
glio dividere, magari calcando su pregiudiziali ideologiche.
Conosco le obiezioni all’idea di patto sociale: c’è troppo
corporativismo, troppa burocratizzazione e conservazione
nelle rappresentanze tradizionali. Sarebbe sbagliato negare
questi limiti. Oggi per tutti, non solo per la politica, la veri-
fica si fa più impegnativa. Anche le rappresentanze sindacali
e imprenditoriali devono mettersi alla prova dell’efficienza
e sottoporsi a forme di democrazia diretta. È una sfida per
tutti. L’innovazione è condizione di recupero di una vitalità
sociale. Tuttavia il confronto e la convergenza tra le parti
sociali restano un valore, non un problema da evitare.
D.  In Germania, nelle grandi aziende, i rappresentanti dei
lavoratori partecipano anche alla gestione. E qualcosa del
genere accade anche a Detroit, nella Crysler-Fiat. Secondo
lei, è possibile immaginare una simile evoluzione delle rela-
zioni sindacali e superare le storiche ostilità all’applicazione
dell’art. 46 della Costituzione?
R.  Nessuna obiezione di principio all’applicazione
dell’art. 46 della Costituzione, quello che prevede il diritto
­115
dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti previsti
dalla legge, alla gestione delle aziende. Sul piano pratico,
tuttavia, trasferire il modello tedesco in Italia mi pare piut-
tosto complicato e di sicuro non è consigliabile provare a
imporlo seguendo la via legislativa. L’universo è un altro:
da noi il 99% delle imprese è sotto i 50 dipendenti. Piut-
tosto si può pensare a un’azione graduale e progressiva,
con patti e norme di sostegno a forme più incisive di par-
tecipazione, fino a sperimentazioni che tocchino il livello
gestionale. Abbiamo proposte di legge in questo senso.

D.  Il risparmio italiano è tradizionalmente forte. Lo stock


del risparmio ha un valore comparabile con quello del debi­to
pubblico ed è certo un bene che anche l’Europa abbia d­ eciso di
considerare questo parametro. Abbiamo detto, però, che que-
sto risparmio non incontra e non favorisce nuovi programmi
industriali perché privilegia la finanza rispetto all’economia
reale: è possibile correggere la rotta? E in che modo?

R.  Sono contento che sia stato riconosciuto anche il valore


macroeconomico del risparmio privato italiano. Ma è una
soddisfazione da poco. Al posto del ministro Tremonti farei
meno ideologia sul punto: il risparmio privato, che peral-
tro la crisi sta ridimensionando, non può automaticamente
essere trasferito in investimento pubblico, né può ridurre
lo stock del debito. Peraltro la questione più importante è
un’altra: non riusciamo a convogliare il risparmio privato
in risorse utili alla crescita. Il caso Parmalat è forse il sim-
bolo più negativo in questo campo. Bisogna continuare a
lavorare: si possono, ad esempio, studiare forme di obbli-
gazioni interessanti come quelle che si propongono di svi-
luppare bond per il sostegno di piccole imprese e di distretti
industriali: il rischio è basso quando si finanzia una rete di
aziende. Purtroppo il sistema italiano è banco-centrico per-
ché le imprese sono sottocapitalizzate. Meccanismi come i
consorzi di garanzia e i consorzi fidi restano importanti. È
vero che fin qui l’equilibrio dei conti delle banche italiane

­116
ci ha tenuto lontani da pericolose avventure e dai contrac-
colpi più duri della crisi economica. Ma l’altra faccia della
medaglia è che i costi delle banche da noi sono più alti che
altrove, sia per i singoli utenti sia per le imprese, e andran-
no armonizzati a quelli europei. E comunque, purtroppo, i
problemi non mancano, nemmeno per le nostre banche.

D.  La nostra industria alimentare è robusta, ma sconta


una debolezza della filiera agricola della produzione. È anco-
ra possibile rilanciare l’agricoltura in Italia nel quadro di ge-
rarchie che sembrano ormai stabilizzate a livello europeo?

R.  Anche sull’agricoltura italiana c’è un silenzio inaccet­


tabile benché si tratti di un settore di assoluto rilievo per
l’economia nazionale. E la distrazione del governo di cen­
trodestra è doppiamente colpevole, dal momento che vi­
viamo una fase di cambiamenti globali, segnata da una
crisi di approvvigionamento dei prodotti alimentari che
fa lievitare i prezzi, da un deficit di risorse fondamentali a
cominciare dall’acqua, dalla concorrenza tra coltivazioni
per alimentazione e agro-energia, dai problemi derivanti
dai mutamenti climatici. In questo contesto di movimento
bisognerebbe adeguare sia le politiche europee che quelle
nazionali. Invece c’è inerzia e silenzio. La caduta dei red-
diti dei nostri agricoltori sta producendo effetti negativi
anche sull’occupazione. E persino la solida industria agro-
alimentare – settore anti-ciclico per eccellenza – vive con-
tingenze non brillanti. Bisognerebbe sostenere la figura
dell’agricoltore, che ormai evolve verso funzioni di tutela
della qualità e della tipicità dei cibi, di presidio contro il
degrado ambientale, di salvaguardia del territorio. Biso-
gnerebbe battersi in sede europea per correggere le politi-
che comunitarie, fin qui basate sulle quantità di prodotto
e sulle dimensioni dei terreni coltivati, e orientarle verso
riqualificazioni strutturali, verso gli aumenti dimensionali
e i passaggi generazionali delle aziende, verso l’estensione
delle filiere dalla produzione alla commercializzazione.
117
D.  Ma c’è spazio nel mondo per il made in Italy agricolo
e agro-alimentare?

R.  Il punto cruciale è proprio questo: quale mestiere do-


vrà fare l’agricoltore italiano nel mondo? La competizione
è aperta e abbiamo potenzialità e cultura per affrontarla.
Ma bisogna pensare il futuro, anziché proteggere i pochi
trasgressori delle quote latte a scapito dei tanti produttori
onesti. Ovviamente alcune misure difensive sul mercato
interno e su quello europeo vanno preservate: le assicura-
zioni contro le avversità, gli stoccaggi a fronte della vola-
tilità dei prezzi, la salvaguardia della sicurezza alimentare
in modo tale che, pur senza protezionismi, gli standard dei
prodotti d’importazione siano progressivamente adeguati
ai nostri. Il nodo principale da sciogliere però riguarda
proprio il made in Italy. È un tratto distintivo che deve
restare legato alla cultura, alla tipicità, alla territorialità del
cibo oppure le politiche dei marchi doc possono essere
affiancate da un’altra tipicità italiana, da un altro made in
Italy, legato alle trasformazioni dei prodotti? Tra queste
due politiche, e quindi fra agricoltura e industria, c’è un
margine di contraddizione che va governato, ma, secondo
me, è possibile trovare un punto di equilibrio nella com-
plessità del made in Italy. Un governo serio dovrebbe tene-
re aperto un tavolo dell’agricoltura e dell’agro-alimentare,
anche per maneggiare con cura la questione degli ogm.
Non seguo mai i fondamentalismi, ma da noi, nei terri-
tori del made in Italy, le limitazioni agli ogm potrebbero
diventare una non banale posizione commerciale. Magari
affidando a spazi ridotti e controllati la sperimentazione
di biotecnologie.
VIII
GLI INSEGNANTI EROI MODERNI

D.  Sono vent’anni che il sistema formativo italiano di ogni


livello è sottoposto a una costante instabilità: ogni governo
ritiene che sia necessaria una riforma diversa da quella pre-
cedente. Per quale ragione su un asse tanto cruciale dello
sviluppo nazionale non si riesce a fare sistema e a compiere
alcune scelte condivise?

R.  La scuola è una specie di Carta costituzionale, costi-


tuisce il grado di civiltà di un Paese. Purtroppo tra i frut-
ti avvelenati del berlusconismo c’è quello di avere rotto
un’attitudine al dialogo sui temi scolastici sempre pre-
sente nella storia repubblicana. Noi dell’Ulivo, alla fine
degli anni Novanta, abbiamo prolungato questo metodo
coinvolgendo i diversi orientamenti culturali nella scrit-
tura delle indicazioni per la scuola elementare e media.
Poi è arrivata la Moratti con uno slogan inequivocabile:
«Punto e a capo». Ciò nonostante, quando siamo tornati
al governo non abbiamo sconvolto la riforma precedente,
anche se non l’avevamo votata. Cosa che non ha fatto la
Gelmini la quale ha di nuovo rimesso tutto in discus-
sione con l’obiettivo sostanziale di sottrarre alla scuola
otto ­miliardi di euro, mentre si lasciavano galoppare altre
spese correnti. Dopo dieci anni a grande prevalenza di
governi di destra è tempo però di trarre un bilancio: i
vecchi problemi si sono aggravati e le cose che funzio-
­119
navano bene come la scuola elementare sono state messe
in sofferenza.

D.  Quali sono, secondo lei, i principali problemi di cui


soffre il sistema scolastico italiano? È solo un problema di
scarse risorse la mancata definizione di un criterio di selezio-
ne degli insegnanti di scuola primaria e secondaria?

R.  Con una riduzione di organici di 130 mila persone


– quasi due Fiat – si chiude la porta ai giovani insegnanti
per i prossimi anni. A mio giudizio, una scuola di qua-
lità avrebbe bisogno di valutazione a tutti i livelli come
esercizio della responsabilità, consapevolezza dei risultati
raggiunti e stimolo al miglioramento. Tutto ciò è possibile
solo se si accompagna a un impegno volto a riconquista-
re la fiducia degli insegnanti verso una vera riforma della
scuola. Mi è capitato di parlare degli insegnanti come di
eroi civili, pensando a quei maestri di scuola che nelle si-
tuazioni più difficili di certe periferie restituiscono ai ra-
gazzi il sorriso e la fiducia nel futuro. Da troppo tempo
ci occupiamo solo di tagli, di norme e di ingegneria dei
cicli scolastici. È giunto il momento di mettere al centro la
qualità dell’insegnamento e aiutare gli insegnanti a espri-
mersi nelle migliori condizioni di lavoro. Conta però pri-
ma di tutto il valore che attribuiamo a questa professione.
Ciascuno di noi ricorda con affetto almeno un insegnante
che gli ha trasmesso una motivazione culturale o civile. E
ciascuno di noi sa che nessuna altra figura incide così in
profondità nel patrimonio morale di una nazione. Deve
tenerlo presente chi coltiva ambizioni per il futuro italia-
no. Non si riforma la scuola se non si hanno grandi ambi-
zioni per il Paese: ecco il punto di fondo che mi interessa
sottolineare. Nei primi quaranta anni della Repubblica la
scuola ha aiutato il progresso civile ed economico. Ha qua-
si debellato l’analfabetismo dopo un ritardo secolare. Ha
accompagnato la transizione dal mondo agricolo alla so-
cietà industriale. Ha seminato la coscienza democratica in

­120
un terreno inaridito dal fascismo. Queste trasformazioni
hanno ispirato le migliori riforme scolastiche, dalla media
unificata agli istituti tecnici, alla nuova scuola elementare,
fino all’integrazione dei disabili. Un primato di livello in-
ternazionale che oggi viene messo in discussione. Sapremo
in futuro ritrovare questo nesso tra riforma della scuola e
ambizioni nazionali? Questa è una sfida decisiva. E si gio-
ca su obiettivi diversi dal passato. Oggi si tratta di formare
i ragazzi con la pelle di diverso colore, quei nuovi italiani
che le leggi non riconoscono neppure quando sono nati in
Italia. Per riuscire ad accoglierli come cittadini la scuola
dovrà fare un grande salto di qualità che può renderla mi-
gliore anche per i figli delle famiglie italiane.

D.  L’impressione è che rispetto al passato si sia verificata


la rottura dell’alleanza educativa tra insegnanti e genitori.
E che, a questo riguardo, pesi la perdita di prestigio profes-
sionale e sociale dei professori. Come recuperare una visione
strategica?

R.  Certo, un tempo il titolo di professore era «diritto»


di qualsiasi insegnante, dal professore del liceo cittadino
a quello delle scuole medie del piccolo paese. Oggi sem-
bra quasi uno sfottò. La scuola ha perduto il monopolio
della formazione e non è più un’autorità indiscutibile.
Nell’esperienza quotidiana tanti insegnanti si sentono
parte di un’istituzione sempre più indebolita e tuttavia
chiamata a supplire tante carenze della società. Non può
reggere. Bisogna conferire di nuovo alla scuola la centralità
che le spetta. Sarebbe prezioso estendere a tutto il Paese le
migliori esperienze scolastiche per i bambini da zero a sei
anni, un’età decisiva per preparare la formazione successi-
va. È necessario dotarci di un’alta istruzione professionale
dopo la scuola secondaria superiore, anche per sottrarre
all’università alcuni compiti professionalizzanti che non
può assolvere. Per raggiungere questo scopo bisogna esse-
re al passo coi tempi: non basta limitarsi a trasmettere con-
­121
tenuti che rischiano di diventare rapidamente obsoleti, bi-
sogna insegnare ad apprendere nell’arco della vita, fornire
le chiavi di accesso alla crescita della conoscenza, preparare
alle trasformazioni del lavoro, offrire gli strumenti critici
per una cittadinanza consapevole. Una visione strategica
della scuola passa infine per il recupero della sua centra-
lità, come luogo comunitario del quartiere o del Paese. E
anche l’apprendimento dei ragazzi sarà più ricco se dopo
la lezione potranno vivere lo spazio scolastico per lo studio
individuale, lo sport, la musica, il teatro, la socializzazione
e lo scambio generazionale. Solo in questa nuova scuola si
può ritrovare l’alleanza con le famiglie e potrà maturare un
nuovo prestigio professionale e sociale dei professori.

D.  L’università è forse il principale «grande ammalato»


del Paese. È d’accordo con questa immagine? Da dove biso-
gnerebbe incominciare a intervenire? Qualche commentato-
re arriva persino a dire che sarebbe meglio lasciarla morire e
ricominciare daccapo. Cosa ne pensa?

R.  Questo «riformismo dannunziano» che cerca sempre


il gesto eclatante, distruttivo e catartico ha ormai stanca-
to. Riformare è una cosa ben diversa. Richiede un’analisi
accurata dei problemi, un intervento che aiuta senza di-
struggere, un’offerta di diverse opportunità. Preferisco,
insomma, un «riformismo calviniano» ispirato ad alcuni
titoli delle Lezioni americane: Esattezza, Leggerezza e
Molteplicità. Credo serva un ottimismo civile per vedere
le cose buone della nostra università. Ci sono scienziati
che tengono alto il prestigio italiano nel mondo pur non
ricevendo alcun aiuto dallo Stato e punte di eccellenza in
ambito umanistico che sarebbe sbagliato trascurare se si
pensa alla storia culturale del nostro Paese. Ci sono atenei
che hanno saputo creare relazioni positive con il territorio,
le società e le imprese. Si tratta allora di riconoscere i pun-
ti di forza per incoraggiarli, estenderli e assumerli come
riferimento di un cambiamento di rotta. Concretamente

­122
questo significa valutare i risultati degli atenei – per dav-
vero, non a chiacchiere – e aumentare i finanziamenti ai
più meritevoli. Significa mobilitare i migliori dipartimenti
per la realizzazione di grandi progetti nazionali di ricerca,
prendere a esempio le esperienze di qualità della didattica
maggiormente riuscite e adeguare i servizi per gli studenti
agli standard europei in termini di laboratori, di residenze
e di borse di studio. Se partiamo dai meriti dell’università,
la riforma viene meglio perché aiuta i riformatori che già
stanno facendo qualcosa di buono ad andare avanti. Se
invece si guarda solo ai difetti rimane il «riformismo dan-
nunziano» e basta. In realtà, nell’università convivono sia
i meriti sia i difetti come accade in tutta la società italiana
di oggi, nella politica, nell’economia, nelle professioni e
nel giornalismo. Quello che conta è allora l’intenzione che
ci mette il riformatore: se è positiva produce nuove op-
portunità di cambiamento, se è negativa distrugge senza
distinguere tra meriti e difetti.

D.  Una parolina magica domina il dibattito sull’istruzio-


ne in Italia da svariati decenni: meritocrazia. È disposto a
inserirla nel vocabolario progressista? Come renderla effet-
tiva? Come evitare che si identifichi con il privilegio dei già
garantiti?

R.  Dobbiamo curare la qualità della scuola. È l’unico


modo per evitare di confondere il merito con il privilegio
dei già garantiti, per dare al figlio dell’operaio le stesse
opportunità del figlio del notaio. Mi chiedete il posto che
la parola occupa nel nostro vocabolario? Per noi il merito
è scritto nella Costituzione e va sempre accompagnato alla
rimozione degli ostacoli sociali che ne impediscono la pie-
na espressione personale. È il capolavoro dell’art. 3 e poi
la condizione dell’art. 34 dei «capaci e meritevoli anche se
privi di mezzi». La politica del Pd ha sempre seguito questa
ispirazione. Dall’altra parte vengono invece segnali preoc-
cupanti: si sente dire che con la Divina Commedia non si
­123
mangia oppure si consiglia alle giovani donne di costruirsi
il futuro applicandosi a cercare un marito facoltoso. Se a
dire queste cose sono i massimi responsabili del governo
si rischia di inviare alle giovani generazioni messaggi deva-
stanti. E purtroppo quando passano dalle parole ai fatti è
anche peggio. Voglio ricordare che durante la discussione
parlamentare sulla legge universitaria la Gelmini ha ten-
tato di trasformare il Cepu in pubblica università con lo
stesso rango della Bocconi. Questa è la meritocrazia delle
chiacchiere. Infine, mi colpisce la confusione lessicale che
si è creata intorno alla parola. Se il merito è un kratos,
ossia un «potere», allora si ha il governo dei sapienti, che
Aristotele riconduceva a una forma oligarchica, o più mo-
dernamente si trasforma nel primato delle tecnocrazie, che
tanti guasti ha prodotto nell’economia globalizzata. Per
noi il merito deve essere accessibile a tutti i cittadini come
pari opportunità e in ogni caso anche la persona semplice
ha diritto di partecipare alla vita pubblica.

D.  La fuga dei «cervelli» è il paradigma della nostra de-


bolezza, anche se, a rigor di logica, l’affermazione di talenti
italiani all’estero sarebbe da ascrivere al merito del sistema
educativo in cui quei giovani sono cresciuti. Forse il proble-
ma italiano non riguarda tanto la qualità della formazione,
quanto la selezione, le politiche di investimento pubblico e
privato e l’ingresso nel mondo del lavoro. Cosa si può fare
per evitare che un ricercatore si realizzi professionalmente
all’estero dopo che l’Italia ha investito migliaia di euro per
formarlo?

R.  Avete ragione, anzi questo dimostra i torti del «rifor-


mismo dannunziano». Sarà pure merito della nostra uni-
versità se nei laboratori europei e americani ci sono vere
e proprie colonie di giovani ricercatori italiani. In molti
casi sono partiti non per scelta ma per sfiducia verso il
proprio Paese. Li hanno presi perché da noi hanno fatto
buoni studi. Ma il punto dolente è un altro: non che siano

­124
andati all’estero, ma che non desiderino tornare. Guardate
all’esempio cinese che ha scelto la ricerca come vettore del
proprio sviluppo aumentando ogni anno più del 10% l’in-
vestimento in conoscenza. Da qualche anno è cominciato
un controesodo di cervelli dagli Usa. E di questo si preoc-
cupano molto gli americani perché sanno bene che la loro
ricchezza nel Novecento è dipesa anche dall’attrazione dei
cervelli europei. La ricchezza cresce dove vanno i cervelli.
Se è così, il ritorno dei ricercatori non si ottiene certo con
piccoli provvedimenti, come ad esempio la detrazione fi-
scale, ma solo con una grande politica. Quando torneremo
al governo noi dovremo rivolgere un appello ai giovani
ricercatori che si trovano all’estero: «Il Paese ha bisogno di
voi, questo è il vostro Paese, aiutateci a cambiarlo». E dai
discorsi si dovrà passare subito ai fatti: più politiche non
solo per attrarre cervelli, ma per usarli davvero.

D.  Nei principali Paesi industrializzati i professori univer-


sitari vanno di norma in pensione a 65 anni. I migliori pos-
sono restare con contratti ad hoc. Un simile provvedimento
in Italia svecchierebbe il sistema universitario rendendolo
più dinamico. Su questa proposta c’era una larga convergen-
za in Parlamento: perché non se ne è fatto nulla?

R.  È una proposta del Pd. Un bravo ricercatore trenten-


ne è nel pieno della sua produttività scientifica e non deve
essere tenuto ai margini dell’università. A trentasei anni
il Nobel della fisica Konstantin Novoselov ha realizzato
studi fondamentali sulla nuova tecnologia del graphene,
ma da noi a quell’età non sarebbe diventato neppure pro-
fessore. La crescita della conoscenza ha bisogno del ricam-
bio generazionale. E ha bisogno anche dell’esperienza dei
migliori professori che devono poter continuare a offrire
un contributo al proprio dipartimento. Al contrario, quel-
li che a 65 anni hanno perduto la vocazione scientifica o
didattica possono essere sostituiti da giovani più motiva-
ti con un effetto molto positivo sul sistema. La proposta
­125
era contenuta in un nostro emendamento alla legge per
l’università, ma la Gelmini lo ha bocciato proprio mentre
dichiarava in pubblico di essere d’accordo. Per loro la pro-
paganda viene sempre prima del buon governo.

D.  Tutti, maggioranze e opposizioni, affermano che la ri-


cerca è un punto strategico dello sviluppo del Paese. Quali
provvedimenti prenderebbe in questo campo se si trovasse a
governare l’Italia?

R.  Non sono d’accordo con questo quadretto unanime.


Berlusconi è andato all’estero a dire: «Perché dovremmo
pagare gli scienziati se fabbrichiamo le più belle scarpe
del mondo». Anzitutto, non sa che anche le scarpe hanno
bisogno di ricerca. Non credo siano solo parole buttate lì
a caso: la pensa proprio così colui che ha governato quasi
per l’intero decennio in cui l’Italia non è cresciuta. Negli
ultimi dieci anni gli impulsi alla ricerca italiana sono ve-
nuti solo dal centrosinistra: nel 2001 con i proventi della
vendita delle licenze Umts e nel 2007 con lo stanziamen-
to di circa un miliardo di euro per il credito d’imposta e
per il progetto Industria 2015, di cui abbiamo già parlato.
Industria 2015, ad esempio, comprendeva anche i beni
culturali, che è un settore dove gli investimenti mondia-
li sono in forte crescita per iniziativa di nuovi Paesi che
vanno scoprendo i compiti della tutela. L’Italia, se solo
lo volesse, avrebbe la possibilità di diventare un centro
mondiale di alta formazione nei beni culturali e costruire
un brand nazionale per le imprese internazionali che ven-
dono tecnologie e competenze per il restauro. Al di là di
questo esempio, se un giorno ci incammineremo su questa
strada scopriremo tante pietre preziose che oggi ancora
non vediamo, ma che ci sono all’interno delle università,
degli enti di ricerca e delle imprese più innovative. Solo a
guardare bene in questi mesi un piccolo gruppo di ricerca
composto dal Politecnico di Milano e da La Sapienza di
Roma ha guadagnato la copertina di una prestigiosa rivista

­126
internazionale con la realizzazione di un dispositivo che
apre la strada alla realizzazione di un nuovo tipo di com-
puter basato sulla fisica dei quanti. Ci vorranno decenni
forse per realizzarlo e l’Italia si trova all’avanguardia senza
neppure saperlo. Se però non ci sarà una politica mirata,
quel vantaggio sarà effimero e altri faranno fortuna con i
nostri risultati. Negli anni Cinquanta con l’Olivetti realiz-
zammo un prototipo di computer prima degli americani
perché il Paese allora sapeva mettere a frutto il proprio
ingegno. Anche oggi non mancano le risorse scientifiche in
Italia, quello che ci vuole è una strategia per riconoscerle,
accrescerle e utilizzarle.

D.  In questi anni sono finite sotto attacco tutte le vertebre


dello scheletro educativo e culturale del Paese: gli insegnanti
sono stati raccontati come dei fannulloni, i professori uni-
versitari come dei corrotti, gli archeologi come dei reperti
inutili, gli attori di cinema e di teatro come dei parassiti, i
giornalisti come dei camerieri al servizio del padrone. L’im-
pressione è che questa lettura del mondo sociale, culturale e
delle professioni sia funzionale alla formazione di cittadini
arrabbiati ma impotenti, non di cittadini critici e liberi. È
possibile invertire la rotta e ripartire?

R.  In questi anni le cose sono andate piuttosto bene a


quelli che vivono di rendita finanziaria e immobiliare, a
quelli che presidiano i propri vantaggi corporativi, a quelli
che evadono le tasse e poi ottengono un condono, a quelli
che hanno un santo in paradiso, a quelli che hanno go-
duto dell’aumento vertiginoso di una spesa pubblica im-
produttiva a discapito degli investimenti. Questo è stato
ed è ancora il Paese dell’incantesimo populista. Mentre
l’insegnante era sul banco degli accusati, lo speculatore se
la godeva. Ma il risultato alla fine è stato dannoso per tutti.
Se la cultura viene messa in sofferenza soffre la democrazia
e lo stesso clima civile del Paese diventa più uggioso. Da
questa situazione scaturiscono quel diffuso senso di sfidu-
­127
cia, quella mancanza di mete collettive, quella difficoltà a
guardare verso il futuro che tanti provano. Tutta la storia
italiana può essere riassunta in un continuo tiro alla fune
tra la rendita e l’ingegno. La prima vince nei periodi di
decadenza. Il secondo si afferma nei grandi balzi in avanti.
È evidente nei grandi cicli storici nell’età moderna, si pen-
si alla crisi del Seicento, e più limitatamente anche nella
nostra storia repubblicana, dal miracolo economico alla
stagnazione berlusconiana. È arrivato il momento di dare
una strattonata dalla parte dell’ingegno.

D.  La televisione e in generale i sistemi di comunicazione


di massa hanno delle responsabilità nell’avere imposto alcu-
ni modelli di comportamento antagonisti all’idea di lavoro
come responsabilità verso la società e al valore dello studio
e della cultura in generale. Lei è d’accordo con chi indica
in Berlusconi il protagonista di questa «rivoluzione cultu-
rale»?

R.  Berlusconi è stato certamente l’uomo simbolo di


questa rivoluzione dei modelli sociali in Italia, anche se
il problema è più ampio e non solo riconducibile alla sua
persona. Il Rapporto Censis del 2010 ha acutamente mes-
so in evidenza la complessità dei fattori che hanno provo-
cato l’appiattimento e la passività delle soggettività sociali
e quella tendenza all’indistinto che indebolisce la stessa
capacità di reazione. Di conseguenza, l’impegno etico,
culturale e civile richiesto per contrastare il declino del
Paese e avviare una riscossa italiana dovrà essere molto
grande e ognuno dovrà fare la sua parte: la politica, la
società civile, l’imprenditoria, il mondo delle professioni.
Riguardo al tema del lavoro, del quale abbiamo già parla-
to, mi interessa capire perché questo ha perso centralità e
come si può invertire la tendenza. Senza dubbio ha pesato
la pressione della globalizzazione che ha travolto alcune
conquiste novecentesche. Eppure il mondo contempora-
neo offre altre opportunità che sono rimaste compresse

­128
da una contraddizione: il lavoro diventa più prezioso nel
ciclo produttivo e allo stesso tempo diminuisce il suo peso
politico e sociale. Si chiede molto al lavoratore, un coin-
volgimento sempre più totale della persona, sia nel lavoro
creativo della produzione immateriale sia nel lavoro ma-
nuale dei servizi o della fabbrica. Ma è giunto il momento
di domandarsi che cosa restituisce il lavoro alla persona
non solo in termini materiali e di reddito, ma come lega-
me sociale che rafforza la cittadinanza, come opportunità
nella vita delle persone, come possibilità di disegnare un
futuro individuale e collettivo. Il lavoro come questione di
senso per la persona e per la società, ecco il tema nuovo
che è di fronte a noi nei prossimi anni.

D.  Viviamo in una società con sempre più vecchi e meno


giovani. È forte il rischio che i giovani si sentano minoranza
inattiva e precarizzata. Peraltro, rispetto alle medie europee,
da noi faticano molto di più a rendersi autonomi dalle fa-
miglie d’origine. Come affrontare il grande tema del futuro
dei giovani, che è direttamente proporzionale al futuro della
nostra società?

R.  Non si può guardare al futuro del Paese se non con


gli occhi delle nuove generazioni. Invece colpevolmente
copriamo questa visuale. La principale ipoteca sul futuro
riguarda il debito e la mancanza di crescita: se la nostra
generazione non sarà capace di ridurre il debito e di inne-
scare una nuova dinamica di sviluppo, priveremo i giova-
ni di tante chances. Ma ci sono altri corposi ostacoli sulla
loro strada. Primo: il nostro ciclo di studi è fuori dagli
standard europei. Bisogna alzare l’obbligo scolastico e ac-
corciare il ciclo portandolo a livello dei principali Paesi
Ue. Secondo: la precarietà del lavoro è troppo accentuata.
Bisogna ridurla incoraggiando, a parità di costi per le im-
prese, la stabilizzazione con misure contributive e fiscali.
Nella precarietà c’è anche dispersione della cultura del
lavoro. Terzo: la mobilità sociale, a livello giovanile, è in-
­129
sufficiente per l’assenza di serie politiche per l’affitto. La
casa di proprietà, uno dei tratti specifici della società ita-
liana, è diventata paradossalmente la forza gravitazionale
che rende molto più difficile ai figli uscire di casa. Bisogna
smettere di puntare tutto sulla proprietà della casa e co-
minciare a incoraggiare gli affitti, in modo che si crei con-
venienza per il proprietario e per l’affittuario. Ma l’agen-
da delle politiche per i giovani non finisce qui. Abbiamo
un’organizzazione corporativa dei mestieri che blocca la
mobilità sociale: ci vogliono liberalizzazioni, ma da noi i
sedicenti liberali hanno cancellato diverse liberalizzazioni
fatte dal centrosinistra. Gli stessi ammortizzatori sociali
hanno un’impronta familistica e non familiare. Le tutele
sono orientate verso il pater familias occupato e non verso
il cittadino, che spesso è un giovane che non ha lavoro. La
riforma del welfare deve tendere progressivamente verso
l’universalità degli ammortizzatori sociali: noi avevamo
cominciato a marciare in questa direzione e se il cammino
negli ultimi due anni si è interrotto non è solo colpa della
crisi economica.

D.  Togliere ai padri e dare ai figli è stato per anni uno slo-
gan corrente. Ritiene che sia ancora utilizzabile come motto
della riforma del welfare in Italia?

R.  Ridurre il debito e riattivare una crescita: questo de-


vono i padri ai figli. Togliere i diritti ai padri, invece, non
serve affatto a darne di più ai figli. Lo dimostra il fatto che
la metà dei disoccupati provocati dalla crisi è costituita dai
«garantiti» e quindi anche i padri sono vulnerabili nella
globalizzazione. Non si può riformare il welfare con gli
slogan. Abbiamo collegato le pensioni alla contribuzione
e dunque alla vita lavorativa: è giusto allungare il tempo di
lavoro e l’età pensionabile, ma occorre aumentare gli in-
dici di trasformazione per i giovani, altrimenti la riforma è
un imbroglio, è solo un taglio di costi, mentre i giovani non
potranno avere una pensione decorosa. Il sistema delle tu-

­130
tele vitali va collegato ai diritti di cittadinanza e non più
soltanto a una pregressa attività di lavoro: è necessario un
salario minimo per chi è fuori dai contratti e va introdotto
il principio della «fiscalità negativa», in modo che le fasce
più povere, quelle che non arrivano neppure alla soglia
fiscale minima, possano ricevere un più equo sostegno. La
scelta, insomma, deve essere sempre più universalista per
sottrarre al mercato ciò che giudichiamo essere dei biso-
gni fondamentali delle persone. Del resto questo è anche
il principio che ispira il Servizio sanitario nazionale. E il
principio va garantito nella pratica, non solo a chiacchiere.
Ciò vuol dire che occorre garantire coperture certe ai costi
ed evitare gli sprechi. Non è facile nel settore della sanità
dove ogni giorno una nuova conquista, un nuovo medi-
cinale, una nuova macchina sono in grado di fornire una
cura migliore: saggezza vorrebbe che a ogni più moderna e
efficace prestazione assicurata dal Servizio sanitario venis-
se esclusa dalla gratuità una vecchia prestazione divenuta
meno essenziale, mettendola a pagamento, secondo criteri
di equità, oppure affidandola alla sussidiarietà.

D.  La sanità e in genere tutto il settore dei servizi sociali


rimandano alla necessità di aggiornare il rapporto tra pub-
blico e privato. L’idea di pubblico non può più coincidere
con quella di statale, ancor più in tempi di scarse risorse.
Per lei la sussidiarietà è un valore strategico o è solo una
necessità?

R.  Il pubblico deve garantire la rete dei servizi sociali, la


programmazione, gli standard, le verifiche. Poi, la gestione
dei vari punti della rete può essere affidata al pubblico,
al privato, al privato-sociale e, in limitati casi, alla società
mista. Non è l’idea di pubblico che si restringe per ragioni
di economicità. Semmai è l’idea di pubblico che si allar-
ga e coinvolge maggiormente la società nelle sue diverse
espressioni. La sussidiarietà può essere una chiave moder-
na per affrontare la complessità. A una condizione: che lo
­131
Stato non la invochi come supplenza perché è incapace
di assolvere ai suoi compiti fondamentali. La supplen-
za sarebbe nociva non meno della cultura statalista che
afferma l’esclusività dello Stato. Perfino Hobbes diceva
che nessuno può essere abbandonato alla carità privata.
La sussidiarietà invece è un principio di solidarietà e di
cooperazione sociale. Le formazioni politiche popolari in
Italia sono nate a fine Ottocento con la sussidiarietà e l’au-
torganizzazione: lo statalismo è arrivato dopo. Peraltro la
nostra è stata sempre una sussidiarietà che ha rivendicato
diritti comuni: non a caso i primi asili pubblici sono sorti
proprio laddove c’era la pratica del badantato delle corti
bracciantili. Ora questo principio va coniugato con la pro-
grammazione. Perché bisogna evitare che la sussidiarietà
sfoci nel privatismo e diventi un modo per consentire ai
ricchi di arrangiarsi da soli. E la programmazione richie-
de non una centralizzazione, ma al contrario un rilancio
delle politiche locali: solo a livello locale si può avere il
quadro dei bisogni effettivi e ottenere il mix migliore delle
risposte. Un privato non può fare una grande clinica di
neurochirurgia vicino a una struttura pubblica efficiente
in quel settore, ma la deve impiantare dove serve, se vuole
una convenzione pubblica, altrimenti si riduce lo spettro
dei servizi per il cittadino e a pagare alla fine è sempre
Pantalone.
IX
LA QUESTIONE MORALE
AL TEMPO DELLE CRICCHE

D.  La «questione morale» è un’espressione che insegue


la sinistra da quando Enrico Berlinguer la pronunciò per
la prima volta in una famosa intervista a Eugenio Scalfari.
Era l’inizio degli anni Ottanta, la vigilia di una stagione che
avrebbe messo ai margini il Pci. Marcare quel segno di «di-
versità» fu allora una ribellione etica o una scelta politica? È
giusto collocare in quel punto l’avvio del filone giustizialista
destinato poi ad avere un seguito crescente nell’opinione
pubblica progressista?

R.  Berlinguer parlava da capo dell’opposizione, elevan-


do alla dignità di cruciale questione politica un uso ab-
norme degli incarichi di governo ai fini della riproduzione
del consenso, una degenerazione dei comportamenti, uno
scadimento dello spirito pubblico. Dopo l’assassinio di Al-
do Moro e la fine traumatica della solidarietà nazionale, si
consolidava l’alleanza di pentapartito che sarebbe diventa-
ta egemone per un decennio. Berlinguer coglieva un nesso
tra quel blocco della politica, seguito al fallimento della
transizione morotea verso la «democrazia compiuta», e
il ripiegamento delle forze di governo verso pratiche di
conservazione del potere. E cercava anche di attualizzare
le sue stesse riflessioni di pochi anni prima sull’austerità e
la sobrietà della politica. Fu un impegno generoso quello
di Berlinguer perché voleva preservare tante buone ener-
­133
gie, nel suo campo e non solo. Il limite tuttavia stava nel
carattere difensivo: la strategia politica seguita per 25 anni
dal Pci non c’era più e non era formulato un programma
per contrastare davvero alla base la corruzione che sta-
va crescendo. La politica ha la sua cifra: il partito non è
un’autorità morale. Sa che le risorse etiche e civiche sono
risorse irrinunciabili, ma il suo compito è suscitarle e indi-
rizzarle in un programma di riforme. Il Pci appariva allora
impotente e quell’appello venne purtroppo percepito e
rielaborato da molti in chiave moralistica: così si allargò lo
scarto tra la drammatica validità dell’analisi e l’incapacità
di fornire una risposta al problema. Non condivido, però,
l’opinione di chi colloca nella questione morale di Berlin-
guer l’inizio del giustizialismo, tanto meno dell’antipoli-
tica. La crisi della politica ha la sua matrice nelle troppe
domande accumulate e inevase già negli anni Sessanta e
Settanta. E la sua drammatica esplicazione negli anni del
dopo Muro. Anche il giustizialismo ne è in qualche mo-
do una conseguenza, peraltro alimentato da un sistema
giudiziario percepito per lungo tempo come separato e
conservativo. Non dipese certo da Berlinguer se, quando
si arrivò alla sclerosi degli anni di Tangentopoli, qualche
magistrato assunse ruoli di supplenza e riuscì a catalizzare
in modo anomalo domande di rigenerazione politica.

D.  Il giustizialismo negli anni recenti è diventato un in-


grediente non secondario della cultura diffusa del centrosi-
nistra. Si spiegherà pure con le peculiarità di Berlusconi, ma
non ritiene che rappresenti un corpo estraneo rispetto alle
tradizioni politiche del centrosinistra?

R.  Vedo i problemi e mi preoccupano molto. Abbiamo


l’esperienza di un governo che non rispetta la divisione
dei poteri e, negli anni, non sono mancate invasioni di
campo anche da parte di alcuni magistrati. La torsione
plebiscitaria del nostro sistema provoca conflitti crescen-
ti tra esecutivo, legislativo e giudiziario e uno dei primi

­134
compiti di ricostruzione della politica è proprio quello
di ripristinare l’equilibrio costituzionale dei poteri. Non
mi sento affatto un giustizialista. Anzi considero il giusti-
zialismo un atteggiamento contrario ai nostri valori. Ma
domando: che utilità ha polemizzare in astratto contro il
giustizialismo? A volte il nostro dibattito pubblico sembra
avere lo scopo di creare alibi per le mancate riforme, e così
facendo porta fieno in cascina ai populismi. La giustizia ha
bisogno di riforme vere e di investimenti. Bisogna ridurre
i tempi dei processi per i cittadini. La giustizia penale, e
ancor più quella civile, sono scandalosamente lente. La
politica faccia questo. È in quel contesto di riforme, rivolte
ad un servizio fondamentale per i cittadini e scevre di ogni
riguardo per la politica, che la politica stessa riconquisterà
anche l’autorevolezza per dire ai magistrati di rispettare
con rigore i confini del proprio campo. Ma se ci mostrere-
mo incapaci, non saranno le chiacchiere a ridurre, laddove
si manifesta, la supplenza dei magistrati.

D.  La corruzione in Italia è un problema antico accresciuto


negli ultimi decenni. Non ha tuttavia l’impressione che ci sia
sempre una notevole difficoltà nell’impostare una strategia
efficace per combatterla e che lo scontro si trasferisca facil-
mente in un conflitto tra il bene e il male, tra il buono e il
cattivo, peraltro scarsamente produttivo sul piano dell’etica
pubblica?

R.  La corruzione è una questione seria e grave nel nostro


Paese. E non credo di fare dell’allarmismo sostenendo che
la piaga sta crescendo. Corruzione e illegalità sono mali che
possono pregiudicare pericolosamente lo sviluppo e la cre-
scita dell’Italia. Le loro radici sono profonde e sarà un giorno
felice quello in cui la moralità della politica sarà misurata
sull’efficacia delle proposte anziché sulla tonalità delle de-
nunce. Ho già ricordato che siamo un Paese dalle reti corte:
la famiglia, la solidarietà locale, la corporazione. E se l’etica
dei comportamenti ha un controllo sociale intenso su queste
­135
dimensioni, tende invece a indebolirsi di molto in ambito
statuale. Anche così si spiegano il nostro civismo «a bassa
statualità» e il sospetto di scarsa onestà con cui si guarda
spesso al funzionario pubblico. La complessità e la farragi-
nosità della struttura normativa costituiscono, poi, un altro
propellente alla corruzione. Da noi si cerca di coprire con
la legge tutte le fattispecie possibili, ma più si producono
norme più si creano spazi per aggirarle. L’azione riforma-
trice deve muovere da qui, diventando anche la leva di una
battaglia culturale a favore della semplificazione. C’è poca
attenzione su questo. Porto un’esperienza personale: tutti
sapevano che le licenze del piccolo commercio e le tabelle
merceologiche erano fonte di micro-corruzione, ma quando
dalla sera alla mattina, durante il primo governo Prodi, abolii
le licenze, pochi commentatori sottolinearono questo aspet-
to decisivo. Resto convinto che la politica debba restare nel
suo campo, ovvero il governo della cosa pubblica. Moralità
è anche coscienza del limite: stiamo parlando di un’impresa
a cui deve concorrere tutta la società, non solo i partiti. La
semplificazione normativa può avere forti contenuti anti-
corruzione, così come possono averne l’automatismo nelle
incentivazioni e meccanismi di incoraggiamento della fedeltà
fiscale. Un ruolo importante possono svolgere le liberalizza-
zioni, perché i monopoli aumentano la discrezionalità, i costi
di intermediazione, l’arbitrio dei prezzi. E un valore molto
importante ha anche la riforma del fisco. Il civismo, che le
buone riforme possono instillare, deve poi trasformarsi in
una spinta in grado di produrre scelte ancora più impegna-
tive sul piano della vita e dello spirito pubblico.

D.  In cosa è diversa la corruzione delle «cricche» di oggi


da quella degli anni di Tangentopoli?

R.  Tangentopoli era un sistema pervasivo, che si era or-


dinato nel tempo attraverso vere e proprie regole. I partiti
muovevano grandi interessi attraverso le loro decisioni e
chiedevano illegalmente una parte di quei cospicui van-

­136
taggi. Non dico che era così ovunque, ma la diffusione del
finanziamento illegale alla politica era ampia e, come han-
no dimostrato i processi, nessuna area politica ne è rimasta
immune, seppure con un coinvolgimento in proporzioni
ben diverse. Al finanziamento illegale si è poi mescola-
to progressivamente l’arricchimento privato. E questo ha
contribuito a scoperchiare la pentola, quando il ciclo eco-
nomico ha curvato verso il basso e il risanamento imposto
dai vincoli di Maastricht ha reso il dazio insopportabile al-
le aziende. La perversione del sistema stava anche nel fatto
che la mazzetta spesso veniva consegnata sopra il tavolo: in-
somma, era dichiarata, ordinaria. Oggi la corruzione delle
cricche sembra avere un carattere meno esplicito, ma non
per questo è meno grave e neppure, forse, meno diffuso.
Le cordate, cioè le cricche, si creano nell’area grigia della
discrezionalità politica e/o amministrativa, si riproduco-
no nel sostegno elettorale e poi si danno appuntamento
nella successiva azione di governo. La malattia può e deve
essere sconfitta, ma in questi anni non si è fatto nulla per
arginarne la diffusione. Al contrario, il ricorso crescente a
norme straordinarie, ordinanze in deroga, provvedimenti
emergenziali ha costituito un potente diffusore di pratiche
corruttive. È chiaro che se non si rende efficiente l’ordina-
rio, la regola straordinaria diventa lo strumento tipico del
potere discrezionale e dunque il collante delle cricche. Ad
esempio, l’incredibile frequenza degli stati d’emergenza
proclamati dal governo con la conseguente emanazione di
ordinanze della Protezione civile, ha trasmesso un segnale
esattamente contrario rispetto ai doveri che dovrebbero
essere propri del potere politico.

D.  Tornando a Tangentopoli molti hanno accusato il Pci


di aver goduto di un trattamento di riguardo. E hanno an-
che sostenuto che le tangenti «democratiche» non erano poi
moralmente così diverse dai rubli di Mosca arrivati nelle
casse dei comunisti italiani durante la Guerra fredda. Qual
è il suo giudizio?
­137
R.  La stagione della Guerra fredda e il finanziamento il-
lecito ai partiti, derivanti dalle loro alleanze internazionali,
non può essere accostata alla corruzione degli anni Ottan-
ta che ha prodotto Tangentopoli. Sono così evidentemente
diversi i contesti politici e sociali, le circostanze storiche, la
stessa etica dei comportamenti da sollevare semmai un’al-
tra domanda: perché taluni insistono con simili argomen-
ti? Forse la risposta va cercata nel tentativo di riabilitare il
sistema nel quale Tangentopoli è prosperata. Non si dice
solo che i rubli sovietici e i dollari americani erano equiva-
lenti alle mazzette della Milano da bere: si dice che anche
la corruzione delle cricche è la continuazione di vecchie
pratiche con altri mezzi. Insomma, è la solita notte do-
ve tutte le vacche sono nere. Noi, invece, non abbiamo
la minima nostalgia di quegli anni e di quel sistema. Nel
denunciare le cricche, favorite dalle legislazioni speciali
e d’emergenza, non diremo mai che erano migliori i vizi
precedenti. Così come nel denunciare il mito presidenzia-
lista, che ci ha allontanato dai modelli parlamentari di tipo
europeo, non diremo mai che occorre tornare alla demo-
crazia bloccata e ai vizi del parlamentarismo. Per quanto
mi riguarda, non ho affanni nel dire che, in una certa mi-
sura, anche il Pci è stato toccato da Tangentopoli. Alcuni
suoi uomini sono finiti sotto inchiesta e hanno pagato. Ma
accomunarlo semplicemente a quelle pratiche devastanti
non corrisponde alla verità storica.

D.  Negli anni di Tangentopoli, però, ci sono stati anche


errori giudiziari. Politici e imprenditori sono stati macchiati
da sospetti, poi smentiti in sede processuale. Non le pare che
la cultura delle garanzie e talvolta le stesse garanzie si siano
assottigliate in questi anni?

R.  Questo purtroppo è accaduto. E quando si indeboli-


sce la cultura delle garanzie si ferisce anzitutto la democra-
zia. Per rafforzarla tuttavia è necessario che le istituzioni e
la politica recuperino credibilità. Ciò richiede amministra-

­138
zioni più sobrie e trasparenti e un contrasto più visibile e
vigoroso della corruzione. Per quanto riguarda gli uomini
pubblici, comunque, penso che si potrebbe studiare una
modalità veloce per rendere loro l’onore dopo insinuazio-
ni o accuse infondate. L’onestà è per un politico un bene
essenziale, ma penso anche che sia un bene pubblico il suo
riconoscimento a fronte di una campagna di dossierag-
gio. Mi piacerebbe che un uomo pubblico, se investito da
un sospetto, potesse chiedere alla Guardia di Finanza un
check-up e che, a stretto giro riuscisse a ottenere una cer-
tificazione del suo stato patrimoniale e dell’assolvimento
di tutti i suoi doveri tributari. Tale pratica di trasparenza
potrebbe essere estesa anche ad altri comparti, attraverso
l’istituzione di giurì d’onore: ne guadagnerebbe la credi-
bilità della politica.

D.  Quanto hanno inciso le scelte politiche di questi anni


sulla diffusione della corruzione? Ci sono decisioni sbagliate
da imputare ai governi di centrosinistra?

R.  Come dicevo, la pratica degli stati d’emergenza e


delle ordinanze in deroga va nel senso contrario alla tra-
sparenza. Non solo è l’ombrello delle cricche, ma anche
il propulsore di una cultura nociva: anziché costruire le
riforme, l’obiettivo diventa bypassare le regole ordinarie,
cercare le scorciatoie, affidarsi al demiurgo. C’è in questo
uno spaccato della cultura di Berlusconi: scarso civismo,
sfiducia nelle riforme e nello Stato, privatizzazione delle
risposte pubbliche. A questo si aggiunge che la storica de-
bolezza del civismo degli italiani va ben oltre il berlusco-
nismo e sarebbe sbagliato nasconderselo. Ma il contrasto
alla corruzione passa anzitutto attraverso una convinta, te-
nace azione di riforma delle strutture e dei servizi pubblici
e di risanamento della spesa. Di questo abbiamo bisogno.
E di continuità. I governi Ciampi, Prodi, D’Alema, Ama-
to hanno fatto molte cose positive. Quando la politica ha
nelle riforme e nel risanamento il suo baricentro, produce
­139
e promuove anche elementi di civismo. Quando si contra-
sta l’evasione fiscale, si trasmettono messaggi di sobrietà
e serietà. Il centrosinistra non ha mai fatto condoni. E ha
realizzato le sole liberalizzazioni che l’Italia ha conosciuto
negli ultimi vent’anni. Per me è qui l’etica della politica.
Sarebbe troppo invasiva una politica che pretendesse di
insegnare alla società ciò che è giusto o sbagliato: piuttosto
l’azione di governo deve favorire nel concreto la traspa-
renza, la convivenza civica, la competizione leale, la soli-
darietà. Ciò non toglie che anche al centrosinistra sia man-
cato qualcosa. C’era bisogno di maggiore radicalità nelle
riforme almeno in due campi. Il primo: la semplificazione.
Al di là dei decreti Bassanini, nella pubblica amministra-
zione, nel fisco, in molte procedure pubbliche bisognava
e bisogna abolire il superfluo. A volte, infatti, non basta
semplificare perché, semplificando, le cose possono per-
sino complicarsi. Non è solo un fatto di moralità: laddove
si riducono le intermediazioni burocratiche e aumentano
gli automatismi, se ne avvantaggia tutta l’economia e i più
deboli hanno maggiori opportunità. Il secondo campo nel
quale sarebbe necessario intervenire con più decisione del
passato è quello delle società miste. Non ho contrarietà di
principio, ma va provato che siano assolutamente necessa-
rie. Altrimenti è meglio che una società sia tutta pubblica o
tutta privata. Ciò che sta avvenendo in tantissime ammini-
strazioni locali deve far riflettere: le società miste, parteci-
pate dai comuni, dalle province, dalle regioni sono spesso
lo strumento per aggirare norme di trasparenza e criteri di
controllo prescritti per la pubblica amministrazione (basti
pensare ai recenti scandali di parentopoli).

D.  Lei ha appena parlato del berlusconismo e dell’impat-


to, a suo giudizio, negativo sul senso civico degli italiani.
Forse è il momento di chiederle un giudizio sul fenomeno-
Berlusconi, anche perché attorno al tema dell’etica pubblica,
della legalità, dell’autonomia del potere giudiziario si sono
consumate battaglie decennali. Quali sono le particolarità

­140
della leadership di Berlusconi? È possibile giustificare il suo
successo solo grazie allo strapotere mediatico ed economico?
L’Italia è stata ancora una volta un’eccezione, un’anomalia
rispetto ad altre democrazie occidentali, oppure può consi-
derarsi un laboratorio?

R.  Penso che sia sbagliato dare al fenomeno Berlusconi


una lettura esclusivamente domestica. Si assiste in Occi­
dente a un generale indebolimento delle democrazie rap-
presentative. E la competizione globale, che accorcia i ci-
cli politici e ridisegna le gerarchie mondiali, produce uno
spae­samento, un sentimento di paura che favorisce l’insor-
genza di nuovi populismi. Berlusconi ha sfruttato queste
condizioni, sollecitando un’«aggressività» dei moderati
che ha cementato il suo blocco sociale e la stessa alleanza
con la Lega. È vero che senza la forza economico-mediati-
ca non sarebbe riuscito a inserirsi nel vuoto d’aria della po-
litica seguito a Tangentopoli. Tuttavia quelle tendenze di
fondo hanno trovato corrispondenze in altri Paesi europei,
benché altrove non abbiano preso il sopravvento grazie
anche al presidio delle culture costituzionali dei maggiori
partiti di centrodestra. In questa dinamica Berlusconi ha
aggiunto l’attitudine personale e il tratto originale. Nel ’96
– ero da poco ministro dell’Industria – Indro Montanelli
volle conoscermi e al termine di una gradevole conversa-
zione mi disse: «Non avete ancora risolto il problema di
Berlusconi perché lui, a differenza di voi, non conosce la
differenza tra verità e menzogna. E, non conoscendola, è
capace di trasmettere sempre sincerità». Nonostante tut-
to, credo che la battaglia tra politica riformista e populi-
smo sarà ancora molto dura, anche dopo Berlusconi. A
lui, a Berlusconi, riconosco grandi doti di combattente,
ma per il resto non saprei tirare fuori una nota positiva
per il Paese. Ha allontanato la prospettiva delle riforme, ha
evitato le scelte più impegnative perché non producevano
immediato consenso, ha sempre e solo cercato il nemico in
ogni campo, ha radicalizzato gli scontri, compresi quelli di
­141
natura istituzionale; e il bilancio economico, sociale, civile
del primo decennio del 2000, segnato dalla sua prevalenza,
è stato molto pesante per l’Italia. Certo, non ci ha aiutato
chi ha descritto in questi anni Berlusconi come una carica-
tura, come un istrione che ha catturato l’anima del Paese,
sottovalutando quanto egli abbia saputo effettivamente
interpretare l’impostazione della destra mondiale ed eu-
ropea: il fascino dell’antistato e della deregolazione, le pul-
sioni alla rivolta fiscale, la grande paura dell’immigrazione.
Questa immagine del pagliaccio, peraltro, si è ritorta tutta
contro il centrosinistra: se Berlusconi è solo così, chi gli si
oppone allora è incapace. Nasce da questo atteggiamen-
to la frustrazione del cosiddetto ceto medio riflessivo. In
realtà, oltre le peculiarità del personaggio Berlusconi, i
suoi conflitti di interesse, le torsioni che ha provocato nel
sistema istituzionale, c’è un legame tra il berlusconismo
e la ricomposizione di un blocco sociale che è diventato
egemone nell’ultimo decennio. I riformisti – se vogliono
vincere la sfida del governo – devono tenere in seria con-
siderazione tutto questo, saper ripartire dal concreto di
un progetto per l’Italia che coinvolga positivamente, senza
dar l’idea che essere contro Berlusconi sia sufficiente.

D.  Cosa risponde a chi dice che la corruzione è ovunque,


nel centrosinistra come nel centrodestra, che i politici sono
tutti uguali, che la politica è diventata per molti un mestiere
dove si usa il potere esclusivamente per vantaggi personali?

R.  Come non accetto la visione manichea della politica


divisa tra il bene e il male, così mi ribello alla visione qua-
lunquista che non vuole o non sa cogliere le differenze. Le
differenze stanno nei programmi, nelle culture delle classi
dirigenti, nei valori di riferimento, negli interessi sociali
da tutelare e comporre. Per quanto forti siano le spinte
all’omologazione, la politica è scelta, talvolta difficile e co-
raggiosa. Ne sono testimoni tanti nostri sindaci, molti dei
quali giovani, che nel Sud amministrano la cosa pubblica

­142
sfidando quotidianamente le mafie. Ne è stato testimone
Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, nel Cilento, barbara-
mente ucciso e che aveva un legame intenso di stima e di af-
fetto con i suoi concittadini. I principi ispiratori all’origine
del Pd sollecitano comportamenti civici esigenti, sobrietà e
rigore nell’azione di governo e sensibilità verso il problema
e i rischi della corruzione. La sfida quotidiana della buona
amministrazione sta nell’applicare canoni severi anzitutto
verso se stessi e i propri amici. Ciò non vuol dire che il Pd
sia immune da episodi di corruzione o che le virtù civiche
siano assenti nell’altro campo. Penso, però, di stare nel ve-
ro se dico che l’elettorato di centrodestra è più indulgente
con le sue classi dirigenti politiche: lo dimostrano, ad esem-
pio, nel campo del centrosinistra, le dimissioni di Flavio
Delbono da sindaco di Bologna, all’avvio di un’indagine a
suo carico, a fronte della difesa a spada tratta che Berlusco-
ni ha fatto in seguito alle condanne di Cesare Previti o di
Marcello Dell’Utri per reati incomparabilmente più gravi
o a fronte delle ripetute autoassoluzioni rispetto ai propri
comportamenti. Forse il problema nel nostro campo è in-
gigantito proprio dalla sensibilità dell’opinione pubblica
di centrosinistra verso il tema della corruzione: ma, sin-
ceramente, considero questa sensibilità e la conseguente
pressione sul Pd come un bene. La dignità, la sobrietà, il
rispetto delle regole, la moralità dei comportamenti devo-
no essere le fondamenta del nostro patto associativo. E la
disciplina e l’onore, che la Costituzione pretende in chi
svolge funzione pubblica, devono valere nel Pd come cri-
terio stringente di selezione della classe dirigente.

D.  Il secondo comma dell’art. 54 della Costituzione («I


cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il do-
vere di adempierle con disciplina e onore...») è stato molto
citato, non solo da lei ma anche dal presidente della Confe-
renza episcopale, in occasione dell’inchiesta sulle feste serali
ad Arcore, il cosiddetto «Rubygate», che ha coinvolto Silvio
Berlusconi. Non teme che trasformare in un’arma di batta-
­143
glia politica uno scandalo a sfondo sessuale possa rivelarsi,
alla fine, controproducente?

R.  Il centrosinistra e le opposizioni non hanno organiz-


zato alcuno scandalo e la loro battaglia politica continua
ad avere al centro le questioni sociali, economiche, istitu-
zionali. È stata un’inchiesta della magistratura a mostrare
al Paese, e all’opinione pubblica internazionale, uno spac-
cato agghiacciante di degrado attorno al presidente del
Consiglio, dove il potere pubblico viene usato per fini per-
sonalissimi, dove la logica del clan prevarica quel costume
di sobrietà richiesto ai governanti, dove la dismisura del
potere e della ricchezza riduce la donna a merce. In ogni
caso noi non ci occupiamo di peccati, che sono materia
della Chiesa, né di reati, che sono di competenza della ma-
gistratura. Ci occupiamo di Italia. Perché la Costituzione
pretende che le funzioni pubbliche siano svolte con disci-
plina e onore? Perché l’uomo pubblico deve avere la cre-
dibilità sufficiente per agire nella collettività, per affron-
tare i problemi del Paese e per preservarne il prestigio nel
mondo. Tutto ciò è venuto meno. Per questo dovevamo,
dobbiamo reagire. Sarebbe gravissimo minimizzare simili
comportamenti e la relativa svalutazione della politica che
ne consegue. Chi oggi tace e sottovaluta, come potrà do-
mani chiedere rigore, serietà, coerenza, moralità e risultare
credibile? E come può oggi lamentare la supplenza del-
la magistratura se non dà voce a questa esigenza civica?
Stiamo parlando di una questione pubblica di primaria
importanza, non di vicende personali. Guidare un camion
è un mestiere che ha una rilevanza sociale, ma ci vuole la
patente, che è un fatto personale. Così per fare politica e
concorrere alle cariche istituzionali sono necessari dei pre-
requisiti personali. Ci vuole onestà e sobrietà nei compor-
tamenti, bisogna essere e mostrare di essere una persona
per bene. È vero, non c’è un giudice che possa esaminare
questi titoli di ammissione: questo è un bene, un segno di
laicità. Ma i partiti costituzionali devono essere capaci di

­144
dotarsi di un codice etico collettivo, di una sorta di filtro,
altrimenti rischiano di compromettere qualunque princi-
pio di legalità. Non è moralista chi si ribella, è immorale
chi tace per opportunismo.

D.  Ammetterà che la politica non sembra più in grado di


darsi un codice di autoregolamentazione autonomo dalla
giustizia penale. Non trova che anche questo sia un ulteriore
sintomo della sua crisi?

R.  Credo che il lavoro di ricostruzione di una democra-


zia efficace e partecipata debba svolgersi contemporane-
amente su diversi fronti. Ma, al fondo, il punto cruciale
è la fiducia dei cittadini. La ricostruzione dei partiti pas-
sa da un rinsaldamento di questa fiducia. Ecco perché
la responsabilità delle classi dirigenti, nella coerenza dei
comportamenti, nella misura del loro tenore di vita, nella
moralità personale, è oggi persino maggiore di un tempo.
Non si può, ad esempio, fare spallucce quando l’immagine
dell’Italia nel mondo viene sfregiata dagli stili di vita che
emergono nelle abitazioni super-scortate del presidente
del Consiglio. Ognuno, a partire dal proprio campo, deve
oggi alzare la soglia dell’autodisciplina, proprio perché la
crisi della politica è un tarlo che corrode le fondamenta de-
mocratiche. E penso che presto bisognerà portare questi
temi anche al giudizio degli elettori: bisognerà dire, senza
troppi giri di parole, che la politica deve recuperare un
codice severo di moralità. Che questo è la premessa di
riforme istituzionali e di un rilancio del ruolo dei partiti.
Altro che remore moraliste. Questi temi devono diventare
punti centrali di una campagna elettorale: poi giudiche-
ranno gli elettori.

D.  Un altro fenomeno protagonista degli ultimi anni è


l’antipolitica, alimentata anche dalla controversia sui costi
inutili ed eccessivi dei partiti, sull’elevato numero dei par-
lamentari e sulla presenza, talvolta parassitaria, di un vasto
­145
ceto di rappresentanti e funzionari che vivono attorno ai po-
teri e sottopoteri nazionali, regionali e locali. Lei cosa pensa
della polemica contro «la casta» e del successo popolare del
libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella?

R.  Anche per sconfiggere l’antipolitica bisogna risanare


la politica. Quantomeno avviare un cambiamento. Non si
può affrontare efficacemente questo diffuso senso di disaf-
fezione per la politica senza cogliere le critiche che hanno
un reale fondamento: ritengo che questa sia la regola di
base per i riformisti. Sarebbe sciocco discutere di possibi-
li riflessi qualunquisti del libro sulla «casta» senza prima
guardare in faccia alle storture e ai difetti documentati. Il
tema dei costi della politica, dei suoi limiti e della neces-
saria sobrietà, va affrontato seriamente. La mia proposta
è fare una Maastricht delle risorse destinate ai partiti e agli
eletti. Prendiamo la media europea e fissiamo lì il numero
dei parlamentari nazionali. Prendiamo la media europea e
fissiamo a quel livello gli emolumenti e le prerogative di mi-
nistri e deputati: se scopriamo, ad esempio, che la differen-
za sta nel sistema dei vitalizi, noi dobbiamo superare quel
sistema. Riduciamo sempre secondo standard continentali,
la pletora degli eletti che dai consigli regionali ai consigli
circoscrizionali vivono la politica in modo professionale o
semi-professionale. E sfoltiamo i consigli di amministrazio-
ne degli enti pubblici locali e le società miste promosse da
regioni, province e comuni. Tagliare le ramificazioni di que-
sto sottopotere non ha solo ragioni economiche o morali:
questo sottopotere appesantisce e condiziona la stessa vita
democratica dei partiti, creando spesso una rete di fedeltà
e dipendenza improprie attorno agli amministratori e agli
eletti ai vari livelli. La riforma dei costi della politica non va
vista oggi come un cedimento dei partiti, ma al contrario co-
me una condizione di rilancio della loro autorevolezza. Con
la riforma si potrà dire a testa alta che, nella misura della
media europea, il finanziamento pubblico ai partiti è neces-
sario se non si vuole lasciare la politica in mano ai miliardari.

­146
E che è giusto anche retribuire chi, pro tempore, svolge un
mandato di rappresentanza politica. Così si combatte con
efficacia il qualunquismo.

D.  L’Italia è tragicamente anche il Paese delle mafie. Un


Paese dove la criminalità organizzata è insediata territorial-
mente, vive, si trasforma. Perché non si riesce a debellare
questo cancro? Quanto pesa questo insuccesso dello Stato
nella diffusione della cultura della illegalità?

R.  L’illegalità non è solo mafia. Ma le mafie prosperano


nell’illegalità. C’è una necessaria azione di contrasto, che
deve far capo alla responsabilità dello Stato, del governo,
degli apparati pubblici preposti alla sicurezza. La battaglia
contro le mafie passa anche dalla riduzione dell’abbando-
no scolastico, dalle politiche per l’occupazione nel Sud, dal
radicamento delle strutture associative e del volontariato,
dalla cultura e dai messaggi che le istituzioni, la società, la
Chiesa sanno trasmettere. La capacità e la qualità mostrata
da Roberto Saviano nel comunicare con tanti giovani, di-
svelando loro i meccanismi vecchi e nuovi della criminalità
organizzata, è l’indice delle risorse positive a cui possiamo
attingere. Ma non c’è dubbio che gli insuccessi dello Stato
pesano su di noi e sulle nostre chances. Mafia, ’ndrangheta
e camorra si sono modernizzate, sono entrate nelle regole
della finanza globalizzata e hanno pure approfittato della
crisi per far fruttare al meglio la loro liquidità. La presenza
e l’oppressione territoriale non hanno più l’esclusività di
un tempo. Oggi le mafie sono una questione Nord-Sud.
Il riciclaggio riguarda anche investimenti produttivi, oltre
che transazioni finanziarie. E le presenze mafiose nelle re-
gioni settentrionali non sono più sporadiche. Per questo
consiglierei alla Lega di evitare i soliti stereotipi razzisti
contro gli uomini del Sud perché il problema deve essere
affrontato e risolto con un impegno nazionale. Non mi
stancherò mai di ripetere che Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino sono eroi nazionali e non eroi siciliani.
­147
D.  La Lega rivendica anche i successi ottenuti dal gover-
no Berlusconi nella lotta alla mafia e nella cattura di molti
latitanti.

R.  I successi delle forze di polizia, dei corpi dello Stato,


della magistratura sono motivo di soddisfazione e di spe-
ranza per tutti. Se l’esecutivo se ne fa vanto, non ho nulla
da eccepire purché riconosca il ruolo di chi è sul campo.
Ma il governo dovrebbe alzare la guardia anche sul pia-
no normativo: invece sulla tracciabilità delle transazioni
finanziarie sono stati fatti passi indietro rispetto al governo
Prodi. E il maxi-condono per favorire il rientro dei capitali
portati all’estero è stato un gigantesco incentivo per il ri-
ciclaggio del denaro sporco. Purtroppo sono stati lanciati
tanti messaggi contraddittori. Mentre la lotta alle mafie ha
bisogno di coerenza e di costanza: la tracciabilità dei movi-
menti di capitale è il filo da tirare per arrivare alla testa del
fenomeno criminale. Non è impossibile. Siamo ancora un
Paese che non prevede il reato di autoriciclaggio. Ci vuole
una politica rigorosa – che alzi ovunque il livello di fedeltà,
di legalità fiscale e di trasparenza nelle transazioni – e una
forte specializzazione nel contrasto criminale. Abbiamo
grandi professionisti e uomini di valore tra i magistrati e
le forze dell’ordine. Un buon modo di spendere le risor-
se europee sarebbe quello di sostenere un miglioramento
organizzativo e tecnologico degli uffici giudiziari e delle
forze dell’ordine. Forse sarebbe anche il caso di sperimen-
tare progetti europei per potenziare i supporti informatici
per la sicurezza e la lotta alla criminalità.

D.  Il nostro è il Paese dei misteri e delle stragi impunite.


Non pensa che lo scarso senso dello Stato e la sfiducia verso
le istituzioni si sia alimentata anche così?

R.  I misteri che sono alle nostre spalle non hanno sicura-
mente aiutato la democrazia italiana. Credo che si dovreb-
be fare di tutto per svelare ciò che è ancora occulto e per

­148
rendere giustizia, non solo alle vittime e ai loro familiari,
ma all’intero Paese. Non mi unirò mai a chi dice al magi-
strato che indaga sulla strage senza colpevoli di trent’anni
fa, che farebbe bene ad occuparsi d’altro. Sarò sempre
dalla parte di chi chiede di rimuovere segreti e silenzi di
apparati, laddove questi effettivamente esistono. In ogni
caso, e a differenza di quel che ha fatto il governo Berlu-
sconi, il segreto di Stato va usato il minimo indispensabile
e, comunque, non è possibile prorogarlo oltre i limiti sta-
biliti. Accanto a questo, però, dico anche che dobbiamo
guardare avanti. Che, se è sempre giusto chiedere veri-
tà e giustizia, questa domanda non può distoglierci mai
dall’esigenza di pensare e di costruire il futuro.
X
CREDENTI E NON CREDENTI
PER UN UMANESIMO CONDIVISO

D.  Il Partito democratico è formato da credenti e non cre-


denti. Ma, rispetto alle altre forze europee di centrosinistra,
la presenza di cattolici è percentualmente più ampia, come
dimostrano le rappresentanze elettive e le indagini demo-
scopiche. Quanto vale sul piano politico e culturale questa
presenza? In che misura la scelta «democratica» e non socia-
lista è dipesa dall’apporto dei cattolici?

R.  Il Partito democratico è nato dalla confluenza di va-


lori, culture, tradizioni riformiste, che hanno attraversato
la storia nazionale o che sono emerse in tempi più recenti.
L’impresa non sarebbe riuscita senza gli apporti socialisti,
democratici, liberali, ecologisti, popolari, cattolico-demo-
cratici, che già diedero vita all’esperienza unitaria dell’U-
livo negli anni Novanta. È chiaro che in un contesto così
radicato nel tessuto italiano, il valore politico e culturale
del riformismo cattolico è rilevantissimo. In altri Paesi, la
partecipazione dei cristiani alla vita pubblica è orientata in
misura maggiore verso formazioni centriste o di centrode-
stra, tutte comunque con un saldo impianto costituzionale
e liberale. Da noi, invece, la destra è storicamente esposta
a tentazioni populiste e ha sempre mostrato scarso affetto
per la Costituzione. Non parlo solo di Berlusconi. Alcide
De Gasperi, prima ancora che Aldo Moro guidasse il Pae­se
lungo la rotta del centrosinistra e dell’«allargamento delle

­150
basi democratiche», fissò a destra un argine alle al­leanze
della Dc e ingaggiò nel ’52 un doloroso conflitto con lo
stesso papa Pio XII per scongiurare alle elezioni comu-
nali di Roma una coalizione di centrodestra che avrebbe
spostato l’asse, e forse persino modificato la natura della
Dc. Questo è nel dna del cattolicesimo politico italiano.
E ciò dà conto di una nostra diversità rispetto agli altri
Paesi europei. Lo stesso incontro con le culture riformiste
laiche non è avvenuto per caso o all’improvviso. La scelta
«democratica» dipende ovviamente da tutto questo ed è
per noi una straordinaria opportunità. La differenza del
Pd rispetto ai partiti socialisti e progressisti europei non
è un’anomalia, ma un tratto distintivo positivo che porta
il suo contributo a tutto il centrosinistra europeo perché
si apra anch’esso a forze riformiste di tradizioni diverse e
perché sposti in avanti i propri orizzonti culturali.

D.  Qualcuno le attribuisce l’intenzione di voler spostare a


sinistra l’asse del Pd per poi costruire un’alleanza con forze
moderate di centro. Secondo questo schema, lei favorirebbe il
trasferimento dal Pd al centro di una parte dei cattolici al fine
di stabilizzare una coalizione tra i riformisti e i moderati.

R.  Questo è il contrario di ciò che penso. Abbiamo co-


struito il Pd immaginandolo come il soggetto riformista di
questo secolo: la sua prospettiva è semmai quella di raf-
forzarsi e di ampliare il proprio cantiere, di determinare
un effetto gravitazionale attorno a un progetto autono-
mo. Altro che cessione di quote. Per quanto mi riguarda,
non solo ritengo assurda l’ipotesi di costruire delle case
all’esterno del Pd, pensando così di condizionarne l’azio-
ne politica, ma contrasterò in ogni modo anche la tenta-
zione di dividerci per stanze all’interno della casa comune.
Ciascuno ha portato i propri ingredienti, ma alle nuove
generazioni possiamo e dobbiamo consentire di elaborare
una nuova ricetta. E comunque bisogna liberarsi di questo
politicismo che ha il solo effetto di accorciare la visuale.
­151
Il Pd, certo, cercherà di costruire alleanze credibili e coe-
renti per dare al Paese un’alternativa di governo. Ma non
cambierebbe natura se si alleasse con forze moderate che
hanno al loro interno altre presenze cattoliche. I cattolici
del Pd hanno solide ragioni culturali e programmatiche
per continuare a essere protagonisti nel partito dei rifor-
misti e non mi pare che temano un confronto costruttivo
con i cattolici moderati.

D.  Ritiene possibile, dopo la Dc, la costituzione di una


forza politica ispirata prevalentemente alla dottrina sociale
della Chiesa?

R.  Non credo a un ritorno all’unità politica dei cattolici,


le cui condizioni storiche oggi sono superate. Dopo il Con-
cilio Vaticano II, l’unità politica dei cattolici già faticava
dentro la Chiesa ad avere una cornice teorica condivisa.
La dottrina sociale, inoltre, dalla Rerum novarum di Leo-
ne XIII alla Caritas in veritate di Benedetto XVI ha sem-
pre avuto ambizioni molto più grandi che non quelle di
ispirare un partito: è stato il terreno del confronto con la
modernità e il divenire storico, è stato il modo per entrare
nel vivo della dialettica sociale e offrire orientamenti non
solo ai credenti. Per un partito riformista il confronto con
la dottrina sociale della Chiesa è ineludibile, ma nessun
partito può pensare di imprigionare e tenere per sé quella
riflessione. Con ciò non voglio negare in assoluto, e sul
piano teorico, la possibilità di un partito di ispirazione cri-
stiana: chi lo facesse però dovrebbe farsi carico di questa
complessità, di un pluralismo irriducibile di opzioni po-
litiche dei credenti e di un magistero cattolico che vuole
giustamente interloquire nello spazio pubblico con tutti i
soggetti sociali.

D.  Come descriverebbe oggi lo stato delle relazioni tra il


Pd e la Chiesa italiana? Si ritiene soddisfatto del dialogo e
delle attenzioni riservatevi dalla Cei e dalla Santa Sede?

­152
R.  Non intendo giudicare ciò che la Chiesa italiana, nella
sua libertà, pensa di noi. Non mi interessa una diplomazia
strumentale. Ciò che mi preme è che il messaggio, i valori,
la ricerca del Pd siano percepiti per quello che sono, senza
il filtro di lenti deformanti. Il Pd non offrirà mai modelli da
Patto Gentiloni, né è interessato alla tipologia degli «atei
devoti», né accetta l’opportunismo di chi separa totalmen-
te l’etica pubblica da quella privata. Il Pd vuole essere un
partito fedele alla Costituzione repubblicana. Un partito
consapevole dei limiti della politica e, al tempo stesso, del-
le proprie responsabilità. Un partito che rivendica l’au-
tonomia delle proprie scelte e riconosce senza riserve la
presenza pubblica nell’agorà delle Chiese e delle religioni.
Un partito aperto al confronto sulle nuove frontiere della
scienza e della vita e che non vuole chiudersi nei confini
dei soli temi economico-sociali, che pure sente come più
congeniali. Un partito sensibile ai vincoli insuperabili che
una coscienza religiosa porta con sé e, semmai, intenziona-
to a offrire il suo contributo perché le scelte di coscienza
non siano svilite da possibili usi strumentali e opportuni-
stici. Questo ho sempre detto alle autorità ecclesiastiche e
alle comunità di credenti che ho incontrato. Nel dna del
Pd c’è una sensibilità più marcata sui temi etici e antropo-
logici di quanto non avvenga nelle altre forze progressiste
europee. Le nostre radici restano comunque in Europa e
in quel filone dei diritti civili, che va liberato da incrosta-
zioni ideologiche ma il cui contributo alle libertà non può
essere negato.

D.  La Cei guidata dal cardinale Camillo Ruini ingaggiò


una dura polemica contro il governo Prodi sul riconoscimen-
to dei diritti dei conviventi (i «Dico») e più volte è andata
all’attacco del centrosinistra sui cosiddetti «principi non ne-
goziabili». Che giudizio dà di quella stagione?

R.  Non voglio essere ipocrita e nascondere un mio disa-


gio, penso condiviso da molti cattolici, per alcune asprezze
­153
della Chiesa nei confronti del governo di centrosinistra,
tanto più se paragonate con taluni atteggiamenti tenuti
con il successivo governo Berlusconi. Romano Prodi si
definì un cattolico adulto e ciò, forse, fu inteso come un
atto di superbia. Sinceramente le esperienze di chi ha pre-
so il suo posto mi sono sembrate assai più contraddittorie
con l’insegnamento morale della Chiesa. Dico questo non
per rivendicare alcunché, né per sminuire il contributo
culturale e pastorale della Cei negli ultimi vent’anni, ma
per testimoniare una sofferenza che ha riguardato anche
me. Ora però è tempo di guardare al futuro da costruire.
Io sono ottimista.

D.  Fino a che punto il Pd può resistere a opinioni diffe-


renti al suo interno sui temi eticamente sensibili, cioè sulle
leggi che riguardano l’inizio e la fine della vita? Stabilire la
libertà di coscienza è certo un principio regolatore, ma non
teme che nel concreto le tensioni interne possano determi-
nare conseguenze difficili da governare?

R.  Il Pd è sicuramente interessato a definire le modalità


di espressione e il perimetro della libertà di coscienza nello
svolgimento di una funzione pubblica. Non si tratta di una
regolazione facile perché incombe il rischio di banalizza-
zioni: la coscienza è personale ma i partiti sono soggetti
collettivi che hanno la responsabilità di costruire indirizzi
di governo e decisioni di cui la comunità ha bisogno. Si
tratta, insomma, di una frontiera delicatissima e mobile,
anche perché le leggi cominciano a occuparsi della vita e
della morte degli uomini e i progressi della scienza spo-
stano continuamente termini e confini. Penso che si do-
vrebbe affidare a un’autorità, ad esempio a un comitato di
autorevoli personalità del partito, il compito di fissare dei
criteri che riconoscano la libertà di voto individuale come
conseguenza coerente di un principio religioso o etico in-
comprimibile. Credo che in questo modo il Pd potrebbe
dare così un contributo anche a definire un’area di questio-

­154
ni eticamente sensibili che, a mio giudizio, meriterebbero
procedure rafforzate anche nelle decisioni pubbliche.

D.  Il grande timore di parte cattolica è oggi la deriva «lai-


cista» della sinistra europea. Ritiene il Pd immune da que-
sto esito? E non vede, allo stesso modo e come reazione, il
rischio di un integralismo da parte cattolica oppure di un
collateralismo con il centrodestra?

R.  Avverto questo timore di parte cattolica e vedo anche


il rischio di reazioni difensive. Il confronto è impegnati-
vo. Ma disponiamo delle energie culturali perché l’Italia
diventi un luogo avanzato di dialogo tra credenti e non
credenti e produca elementi di sintesi di un umanesimo
largamente condiviso. So bene che non è facile e che non
basta un po’ di irenismo. Ora che davanti a noi si pongono
problemi inediti, di grande valenza etica e antropologica,
dobbiamo essere capaci di tenere in relazione la crescita
della responsabilità individuale con il principio di precau-
zione. Noi possiamo, anzi dobbiamo evitare un bipolari-
smo etico. Il bipolarismo politico, peraltro, incasserebbe
un colpo micidiale, che andrebbe ad aggiungersi alla tor-
sione plebiscitaria già subita nell’ultimo decennio. L’Italia
può essere il Paese della ricerca in comune anziché della
contrapposizione. L’Italia è favorita dalla presenza della
massima guida spirituale cattolica, dall’impegno di creden-
ti in tutte le forze politiche e, non da ultimo, dalla grande
tradizione popolare della sinistra italiana che, anche nel
tempo dello scontro più aspro, ha sempre cercato di ar-
monizzare le spinte ideologiche dentro un senso comune
profondamente intriso di volontà di dialogo sui valori della
persona. Credo che l’attributo di laicista sia sempre stato
improprio per la sinistra italiana: l’idea di laicità nella quale
si è riconosciuta è quella iscritta nella Costituzione, alla cui
stesura hanno contribuito in modo decisivo anche politici
e giuristi di formazione cattolica. Tutto questo non deve
andare disperso. È una responsabilità di tutti.
­155
D.  In Francia l’esposizione pubblica dei simboli religiosi
è giudicata incompatibile con la neutralità dello Stato. Da
noi invece c’è il Concordato, c’è l’ora facoltativa di religione
nelle scuole e molti istituti religiosi sono parte del servizio
scolastico pubblico. Si può dire che si è prodotta una laicità
«italiana»?

R.  Non scambierei l’equilibrio della nostra Costituzione


con null’altro. Benché scritta oltre sessant’anni fa, il suo
impasto di norme e valori ci consente oggi di affrontare
le nuove migrazioni e le tematiche connesse al pluralismo
religioso con una flessibilità che evita tanto il multicul-
turalismo generico di matrice anglosassone quanto l’in-
tegrazionismo rigido alla francese. Restando all’interno
della cornice costituzionale, possiamo dire sì al velo per il
rispetto dovuto alle tradizioni culturali e ai convincimenti
religiosi, ma al tempo stesso no al burqa perché esso con-
fligge, non con opposti principi religiosi, bensì con alcuni
doveri prescritti a tutti dall’ordinamento. Possiamo dire sì
alla costruzione della moschea perché la pratica di fede è
un diritto universale e al tempo stesso dire sì al crocifisso
nelle scuole perché le logiche del diritto non possono an-
dare contro il buon senso, perché ci sono simboli religiosi
che incarnano una storia e una cultura più ampie e perché
la figura del Cristo in croce rappresenta sofferenza e ge-
nerosità, non l’immagine di un Dio trionfante che vuole
schiacciare il diverso. È tutto questo una specificità italia-
na? Sarebbe stato possibile se Roma non fosse diventata
il centro della cristianità? È persino banale riconoscere
che ogni cultura è figlia della propria storia. All’Assemblea
costituente però la decisione di inserire il vecchio Concor-
dato nel nuovo patto costituzionale non fu un mero atto di
diplomazia. La consapevolezza e la responsabilità di ospi-
tare la guida della Chiesa universale è un tratto nazionale,
che è stato portato a dignità di Costituzione e che non ha
impedito in seguito di ampliare i diritti con la stipula di
altre intese con le religioni diverse da quella cattolica. La

­156
garanzia della libertà della Chiesa è parte della Carta costi-
tuzionale ed è una ricchezza per noi. Ovviamente si tratta
di un patto che va sorvegliato con assoluto equilibrio, che
comporta responsabilità da parte dello Stato come da par-
te della Chiesa, la quale non può pensare di avere una sorta
di tutela verso i cittadini italiani.

D.  Del magistero di papa Benedetto XVI è parte fonda-


mentale la critica del relativismo e la riproposizione di una
verità teologica, non ostile alla ragione ma capace di ristabi-
lire un ordine naturale e una centralità dell’uomo. Spesso la
cultura progressista mostra una certa diffidenza verso queste
riflessioni, attribuendo loro un deficit di modernità e un ri-
schio di dogmatismo. Non pensa invece che il relativismo sia
un tarlo che corrode oggi tutte le culture solidariste, compre-
se quelle progressiste?

R.  È impossibile separare la figura di Benedetto XVI dal


suo profilo di intellettuale eminente e, mi sia consentito,
di «intellettuale organico»: si tratta infatti di un teologo
che ha sempre proclamato il limite della teologia e riven-
dicato l’insegnamento della Chiesa come elemento vitale
della Rivelazione. A dispetto di qualche luogo comune e
di qualche valutazione superficiale, mi sembra che que-
sto papa abbia validi strumenti per mettersi in contatto
con la modernità in modo amichevole e al tempo stesso
sfidante. Benedetto XVI invoca una ragione che non si
autoriduca a ciò che è sperimentabile e un diritto natu-
rale che non accetti il perimetro definito da scienziati e
biologi. È un’impostazione con la quale non si fatica a in-
terloquire. Proprio in nome delle loro culture solidariste,
i progressisti non possono bollare come irrazionale ciò che
non si tocca con mano oppure delegare alla sola scienza la
definizione di ciò che è giusto o sbagliato. Ma a un certo
punto c’è un nodo da sciogliere: ciò che abbiamo descritto
è, a mio giudizio, la base di un confronto che deve impe-
gnare tutti gli uomini di buona volontà, perché se invece il
­157
dogma di fede tendesse a trasformarsi automaticamente in
dogma della ragione, in nome di una ragione inaccessibile
a chi non ha la fede, allora il confronto diventerebbe più
difficile. Diventerebbe più difficile anche trasformare in
impegno comune quella critica al relativismo, che non si
può non condividere nel senso che gli essenziali elementi
regolativi di una società poggiano sempre – lo si riconosca
o meno – su una sorta di «verità comune». Non nego affat-
to inoltre che la fede sia per i credenti anche una via della
conoscenza. Ma penso che ai credenti sia richiesta anche
la coscienza di una loro propria dimensione del relativo,
cioè il tentativo storico di avvicinarsi alla perfezione di Dio
senza riuscire a possederlo pienamente sulla Terra. In base
a quello che la storia del pensiero ci ha consegnato il rela-
tivismo non si presenta necessariamente come nichilismo,
ma anche come incessante metodo di ricerca. Allo stesso
modo, la pretesa di verità ineludibile, nelle fedi religiose
non si presenta necessariamente come integralismo, se si
riconosce che la verità stessa può manifestarsi in modo
carsico e quindi se si ammette che chi ha già trovato debba
continuare a cercare. È l’impegno comune, in condizioni
di libertà e di pari dignità, che può consentire a credenti
e non credenti di compiere passi avanti nel progresso mo-
rale e civile. E non va dimenticato che questo percorso
comune ha costituito e costituisce la base essenziale della
democrazia politica.

D.  Se lei avesse partecipato alla Convenzione che ha ela-


borato il progetto di Costituzione europea (poi accantonato
dopo i no di Olanda e Francia al referendum), sarebbe stato
favorevole all’inserimento delle radici cristiane nella pre-
messa o nei principi fondamentali della nuova Carta?

R.  Sì, sarei stato favorevole a inserire le radici cristiane,


non da sole, fra i tratti fondamentali della vicenda euro-
pea. Pur riconoscendo le contraddizioni della storia, quel-
le radici hanno avuto indiscutibilmente a che fare con la

­158
nascita e la crescita delle idee di democrazia, di laicità, di
universalità dei diritti.

D.  In che misura, secondo lei, la dimensione religiosa può


contribuire oggi a motivare e a rilanciare l’impegno sociale
e lo spirito civico? Pensa che possa farlo allo stesso modo
un’antropologia senza trascendenza, priva di richiami a
Dio?

R.  La spinta religiosa è un’energia preziosa per la società


perché offre motivazioni all’impegno volontario e diffonde
il sentimento di fratellanza. Ma il rafforzamento della trama
di solidarietà e di comunità, tanto più nella modernità, ha
bisogno anche dell’impegno dei non credenti. Un impegno
che nasce da motivazioni a volte più complesse e altrettan-
to profonde: pur senza trascendenza, l’impegno altruistico
in nome dell’uomo ha avuto storicamente testimonianze
di alto valore etico e di grande significato sociale. Questo
è indiscutibile. Del resto, riconoscendo la possibilità che
un’antropologia senza trascendenza possa dare buoni frut-
ti, tanti credenti ci hanno visto l’impronta di Dio.

D.  Anche l’Italia, come il resto dell’Europa, sta diventan-


do una società sempre più multietnica e dunque multireli-
giosa. Come combinare le radici cristiane, la civiltà giuridi-
ca e la stessa cultura solidarista di matrice cattolica, con la
pluralità delle fedi, dei riti, degli impianti valoriali di altre
confessioni religiose?

R.  Ancora una volta è la Costituzione italiana a venirci


incontro. Essa incoraggia le Intese tra lo Stato italiano e le
diverse confessioni religiose, garantendo luoghi di culto e
spazi per una loro presenza sociale, ovviamente nel rispetto
dei principi dell’ordinamento. La libertà religiosa apre alla
libertà personale e viceversa. Mi auguro che si creino pre-
sto le condizioni anche per stipulare l’Intesa con la comu-
nità musulmana in Italia, essendo questa ormai la seconda
­159
confessione religiosa per numero di fedeli. Può essere un
passo importante sulla strada della condivisione di diritti
e di doveri. Naturalmente, il rapporto con l’Islam presen-
ta delle complicazioni che è impossibile nascondersi. C’è
una radicale asimmetria rispetto alla Chiesa cattolica nel
rapporto con la politica e le istituzioni, che può produrre
contraddizioni e conflitti. Ma noi non possiamo rinunciare
alla nostra civiltà del diritto, perché se lo facessimo rinun-
ceremmo a noi stessi. Ovviamente il pieno riconoscimento
dei diritti della persona e il processo di integrazione man-
tiene il proprio limite nella tenuta e nel rispetto dei principi
costituzionali, che nessuno è legittimato a violare, neppure
invocando il proprio credo religioso.

D.  In occasione della Settimana sociale dei cattolici del


settembre 2010 lei più volte è intervenuto per segnalare co-
me la concreta applicazione della dottrina sociale della Chie-
sa incontri più facilmente la sensibilità e i programmi del
centrosinistra che non quelli del centrodestra. Non ritiene,
però, che l’affinità sui temi della bioetica, da un lato, e il
timore per la diffusione dell’Islam, dall’altro, possano in-
durre la Chiesa a cercare l’alleanza con il fronte conservatore
dei cosiddetti «atei devoti», anziché con chi condivide idee
egualitarie, solidali e redistributive?

R.  La Settimana sociale dei cattolici è stata un’occasio-


ne importante di confronto per la società e per la politica
italiana. La Cei, sulla base di un documento molto inte-
ressante e impegnativo, ha favorito un approfondimento
sugli effetti sociali della crisi economica, sulle potenzialità
ancora inespresse del Paese, sulle necessarie riforme, sulle
nuove sfide della solidarietà. Il Pd ha preso molto sul serio
questo confronto. E tra l’altro, abbiamo dedicato una gior-
nata di studi al documento del comitato organizzatore della
Settimana sociale. Mi è stato detto che al convegno, a Reg-
gio Calabria, molti partecipanti esprimevano una sensibili-
tà sociale e politica molto vicina alla nostra. Può sembrare

­160
un’ovvietà, ma per me vale molto questa empatia, questo
interscambio perché dimostra sia le possibilità del Pd, sia
il grande apporto di cattolici alla sua cultura e al suo pro-
gramma politico. Comprensibilmente la Chiesa non può
riversare su questi aspetti politico-sociali le sue attenzioni
pastorali in modo esclusivo. Se queste diventassero le prio-
rità, qualcuno parlerebbe magari di collateralismo o di asse
con il centrosinistra. Ci vuole rispetto per la missione della
Chiesa che non può essere subordinata alle logiche della
politica. Questo vale per noi, ma vale anche per il centro-
destra, per i teocon e per gli atei devoti. Negli Stati Uniti i
teocon hanno usato i valori religiosi per sostenere un’idea
aggressiva dell’Occidente e la guerra contro l’Iraq è stata
un errore storico di cui pagheremo a lungo le conseguen-
ze. La Chiesa può anche essere attraversata da tendenze
o tentazioni favorevoli a questi filoni conservatori. A mio
giudizio, se queste tendenze prevalessero, la Chiesa rischie-
rebbe una pericolosa riduzione del suo messaggio religioso
a ideologia politica. Quale migliore sintesi del relativismo
è quella rappresentata dagli atei devoti? Issano il baluar-
do del cristianesimo piegandolo, però, a religione civile
dell’Occidente, giurano alle gerarchie una fedeltà senza
fede, seguono alcuni comandamenti ma si sentono esentati
da quelli che contrastano con i loro interessi. Non solo:
rilanciano pure lo spirito miliziano, che serve ad alimentare
le sacche di odio e non certo a risolvere problemi. Insom-
ma, i matrimoni tra la Chiesa e la destra non hanno mai
portato ad avanzamenti della società. Continuo a sperare
che l’Italia diventi la frontiera più avanzata di un dialogo
costruttivo tra credenti e non credenti, capace di rafforzare
la laicità positiva e irrobustire un’etica condivisa: dobbia-
mo sentirci tutti partecipi di questo lavoro comune, anche
il centrosinistra deve fare la sua parte con generosità.

D.  La presenza organizzata di cattolici più significativa


all’interno del Pd ha una matrice cattolico-democratica e un
bagaglio politico-culturale che ha avuto nella Costituzione,
­161
nell’antifascismo e nel Concilio Vaticano II i pilastri fonda-
mentali. Quale contributo lei pensa che questo filone possa
oggi offrire al Pd?

R.  Le donne e gli uomini, che hanno una formazione


cattolico-democratica e che oggi sono iscritti, militanti, di-
rigenti nel Pd, sono anzitutto artefici del destino comune
del nostro partito. Penso che l’elaborazione politica del Pd
porterà nel tempo a produrre sintesi nuove, oltre le appar-
tenenze originarie. Ovviamente i cattolici continueranno a
dire la loro e a confrontarsi anche all’interno della propria
comunità di fede. Questo sarà sempre un alimento, una
fonte originaria di valori e testimonianze che contribuirà a
formare il pensiero e l’azione del Pd. C’è, però, un «meto-
do» che i cattolici-democratici hanno elaborato nella loro
storia e che oggi non è solo un contributo al Pd, ma è il
nostro metodo fondativo. Sto parlando dell’idea della re-
sponsabilità autonoma della politica. Di una politica, cioè,
che non volendo rinunciare a profonde e impegnative con-
vinzioni etiche e religiose, affida alla responsabilità dei laici
la mediazione e la scelta concreta, capace di incarnare i
valori e di proiettarli verso il bene comune. È un principio
di laicità positiva, è un’idea non aristocratica di autonomia
della politica, anzi è l’impegno a tenere la politica aderente
alla società, senza tuttavia ridurla a una mera registrazione
degli interessi dominanti. I cattolici-democratici in Italia
hanno sperimentato questo metodo prima ancora che il
Vaticano II affermasse l’autonoma responsabilità dei laici
credenti nell’ordine temporale. Hanno permeato della loro
laicità prima la Costituzione, poi i documenti conciliari.
Ecco, questa è oggi una pietra angolare della cultura politi-
ca del Pd e rappresenta il miglior antidoto sia al relativismo
degli atei devoti, sia ai richiami di un laicismo ideologico.
XI
La scienza, la vita
e i limiti della politica

D.  Nell’orizzonte culturale del Partito democratico – ne


abbiamo già parlato nel corso dell’intervista – è presente
l’aspirazione a un nuovo umanesimo. Indubbiamente negli
ultimi decenni siamo di fronte a grandi cambiamenti an-
tropologici che riguardano la stessa concezione della natura
umana. Come si possono oggi concretamente coniugare le
ragioni della libertà individuale, l’autonomia e la dignità
della persona con l’attiva partecipazione alla comunità?
R.  L’orizzonte di un umanesimo forte è necessario alla
politica, proprio perché la politica ha bisogno di una sua
visione autonoma. Il Pd ha l’ambizione di comporre ri-
sorse culturali di origini diverse, laica e religiosa, e per
farlo non può avere un retroterra ideologico né agnostico.
Deve cercare un punto di incontro intorno a una visione
di dignità e di libertà dell’uomo che ne rispetti il tratto
singolare: non siamo solo natura o cultura, bensì una sin-
tesi originalissima che si realizza nella persona. Da questa
visione scaturisce la necessità di un modello di costruzione
sociale che sia solidale e inclusivo, a partire dalla percezio-
ne dell’uguale dignità di tutti gli uomini. Il compito della
politica è mostrare che questo approccio è funzionale a
una crescita sociale, civile ed economica e che lo è di più
di un modello egoistico, arroccato intorno un’idea di indi-
viduo circoscritto ai propri interessi particolari. Penso che
­163
la crisi economica di questi anni abbia dimostrato tutta
la caducità del paradigma neo-liberista, che ha dominato
negli ultimi decenni. La visione umanistica ha in sé un
carattere di generosità verso il destino comune che implica
l’impegno a rispettare la pluralità e a guardare l’insieme.
Per questo motivo non vedo contraddizioni tra la libertà
individuale e la partecipazione a un progetto politico soli-
dale: servono entrambi per camminare uniti.
D.  In quale misura la nuova età della globalizzazione può in-
fluenzare questa ricerca culturale, filosofica e antropologica?
R.  Come tutti i fenomeni nuovi e dirompenti la globa­liz­
zazione presenta oggi un aspetto contraddittorio e tumul-
tuoso, ma sono convinto che il disordine si ridurrà via via
anche per il ruolo che potrà svolgere la politica. Oggi l’idea
che la Cina o l’India ci incalzino produce un sentimento di
inquietudine, ma col tempo aumenterà la visione di inter-
dipendenza globale e impareremo a convivere in modo più
compreso e condiviso. La necessità principale sarà quella di
pensare e organizzare la crescita di questo universo politico
ed economico sempre più largo e di ampliare i confini della
democrazia, intesa anche come estensione dei diritti e ridu-
zione delle disuguaglianze, oltre le dimensioni nazionali e
continentali. Sono persuaso che, se queste sfide entreranno
nell’agenda della politica, provocheranno anche una ripresa
di idealità e di valori. Sia chiaro, non voglio peccare di ire-
nismo. Ci saranno dei contraccolpi perché il disordine del
mondo potrà indurre ad atteggiamenti di ripiegamento e di
chiusura: ma, se non ci fosse questo rischio, non avremmo
neppure la sfida culturale e politica che ne consegue. Una
sfida che interroga direttamente le ragioni dei democrati-
ci e dei progressisti del mondo, dagli Stati Uniti al Brasile,
dall’India al Giappone sino all’Europa e dunque all’Italia:
bisogna raccoglierla.

D.  In che modo il solidarismo può tornare a rappresentare


una carta vantaggiosa in campo politico e sociale?

­164
R.  Il solidarismo è un caposaldo della nostra cultura. Pa-
radossalmente oggi la solidarietà si deve misurare più con i
problemi di vicinato che con quelli della lontananza. Sono
le reti corte e i territori quelli che soffrono maggiormen-
te lo schiaffo della globalizzazione e possono reagire allo
spaesamento che ne consegue in modo regressivo. Anche
le nuove tecnologie possono portare a forme originali di
solitudine: comunichi con tutti, ma puoi sentirti più so-
lo. Una forza solidaristica come il Pd si deve impegnare a
produrre una nuova cultura della vicinanza e del vicinato
tra le persone che non vivono la stessa condizione lavo-
rativa o sociale. Questo orientamento può essere favorito
da pratiche di partecipazione e di cittadinanza attiva co-
me il volontariato e l’associazionismo, dove sta crescendo
la consapevolezza di dovere reagire in modo nuovo agli
squilibri delle nostre società e che costituiscono comun-
que una straordinaria ricchezza del vivere italiano che va
sempre incentivata. C’è bisogno di rinnovare la fisicità dei
rapporti e anche il partito può essere una delle strutture e
delle agenzie di volontariato al servizio di una rete di soli-
darietà umana. Penso che questo sia un compito nuovo e
inaspettato della politica del nuovo millennio. Dico nuovo,
ma non inedito perché già in passato essa ha svolto questa
funzione di collegamento e di messa in rete di esperienze
diverse. Per questo ripeto spesso che noi le feste del Pd
dobbiamo raddoppiarle! Dobbiamo inoltre sperimentare
modalità che aiutino a creare dei legami e a rispondere
al bisogno di partecipazione che sale dalla società civile.
La mia impressione è che stiamo assistendo al movimento
di ritorno di un pendolo: prima c’è stata la fase fordista,
con i partiti di massa in grado di rappresentare esperienze
comuni di lavoro e di vita; poi è venuto il periodo della
frantumazione dei percorsi lavorativi e la crisi di quella
forma partito organicamente intesa; oggi si è aperta, grazie
alla sfida della globalizzazione, una nuova fase culturale e
organizzativa che richiede di ricongiungere aspetti relazio-
nali e comunitari in un luogo reale, come possono essere il
­165
circolo, la festa, la vita di associazione, ma anche virtuale
come Internet.
D.  L’umanità dispone di saperi e di strumenti tecnici im-
pensabili fino a poco tempo fa che concernono direttamen-
te le relazioni tra l’uomo e la vita. Il dibattito odierno sui
rapporti tra scienza, morale e antropologia è imperniato sul
concetto di limite. È giusto secondo lei regolare i rapporti fra
scienza e morale seguendo tale principio e quale deve essere
il ruolo della politica in questo ambito?
R.  Il confine tra scienza, etica e vita è in continuo mo-
vimento. Occorre vigilarlo consapevoli che la scienza è
un’espressione positiva delle facoltà dell’uomo, ma può
anche produrre un suo condizionamento. Voglio chiarire
un punto preliminare: ritengo velleitario e anche sbaglia-
to porre dei limiti alla ricerca con l’idea che ne possano
derivare dei danni eventuali. Questo è un dilemma che
accompagna la storia umana da sempre e che non si risolve
proibendo, ma innalzando le energie razionali, etiche e de-
mocratiche per dominare la fase due della ricerca, quella
relativa alle applicazioni. L’umanità è sempre andata avan-
ti correggendo i propri errori, e le applicazioni sbagliate
sono state contrastate favorendo una visione informata
delle procedure e aumentando i processi democratici di
controllo. Sostenere che una ricerca di cui si possono im-
maginare sviluppi contraddittori o pericolosi vada limitata
o proibita preventivamente non è solo impossibile, ma non
porterebbe da nessuna parte. La politica deve conservare
una sua autonomia di giudizio e di indirizzo difendendo
sia il valore della libertà di ricerca sia il principio di pre-
cauzione nelle applicazioni, che vanno osservati insieme.
D.  La più importante rivoluzione del secolo scorso ha riguar-
dato il protagonismo della donna nella famiglia, nel mondo
del lavoro e nella società. Tuttavia uno dei principali problemi
irrisolti resta quello dell’organizzazione dei tempi del lavoro
femminile. Verso quale direzione è opportuno agire?

­166
R.  Stiamo parlando di uno dei più grandi mutamenti
antropologici dei nostri tempi: penso che il secolo che ab-
biamo alle spalle sarà ricordato in particolare per l’enorme
salto di qualità che ha avuto la condizione femminile e il
ruolo della donna nella società. Per la prima volta nel corso
della storia si sono affermati i diritti politici delle donne.
Per la prima volta le donne sono entrate massicciamente
nel mondo del lavoro, anche se non si è ancora risolto il te-
ma del loro ingresso con pari opportunità e pari condizioni
professionali; e ora abbiamo davanti il compito di consen-
tire la crescita della presenza femminile anche nei ruoli di
direzione in ambito imprenditoriale, amministrativo e po-
litico. L’Italia purtroppo è il fanalino di coda dell’Europa
e per risalire la china serve una grande spinta culturale che
sostenga la parità e riconosca la differenza. Il Novecento ci
consegna questo testimone, ma dobbiamo essere consape-
voli che rischi di regressione sono sempre in agguato, so-
prattutto quando si perde la memoria delle battaglie svolte
e dei diritti acquisiti, che devono essere ribaditi e rinnovati
ogni giorno. È importante farlo perché la condizione della
donna non è un tema a se stante, ma è il battistrada di tante
altre questioni civili e vale come indicatore di progresso
o di regresso. Mi ha colpito molto, nella recente rivolta a
Tunisi, la grande scritta che campeggiava su un muro della
via principale: «La femme tunisienne est libre et restera
libre». Anche da questi segnali ci rendiamo conto come
nel nuovo secolo il tema della dignità della donna sia il
parametro più generale di civilizzazione e di democrazia.
Per questo è necessario combattere sul piano culturale la
rinascita di stereotipi reazionari sul ruolo della donna che
il berlusconismo ha riportato in auge. Alla politica com-
pete realizzare quelle norme, magari di carattere tempo-
raneo, che garantiscano una maggiore presenza femminile
nei ruoli di direzione del lavoro e della società. Inoltre va
abolita la vergogna delle dimissioni in bianco – ristabilite
dal centrodestra –, va riconosciuta la tutela della maternità
come diritto universale, va introdotto il congedo parentale
­167
obbligatorio. Servono anche interventi per alleggerire i ca-
richi familiari che ricadono ancora quasi totalmente sulla
donna favorendo politiche di sostegno all’infanzia, agli an-
ziani non autosufficienti e al lavoro giovanile: questi pro-
blemi condizionano la piena affermazione e realizzazione
della donna nel mondo di oggi e pesano sulla stessa tenuta
psicologica ed economica delle famiglie.

D.  La famiglia è un nucleo vitale della società, la cui forma


storica, però, è mutata nel corso del tempo. In che modo, a
suo giudizio, le politiche pubbliche devono sostenerla? In
Italia si fa pochissimo per le giovani coppie e spesso questo
tema è trascurato anche nel dibattito sulle politiche familia-
ri. Da noi i giovani vanno via dalla casa dei genitori molto
tardi. Non crede che l’Italia abbia bisogno di una decisa svol-
ta in senso europeo?

R.  Il tema della famiglia è affrontato da tempo in Italia con


una carica ideologica che paralizza ogni soluzione pratica.
Così siamo il Paese con le politiche familiari meno efficaci
in Europa, come ha denunciato anche il documento della
Settimana sociale dei cattolici italiani. È ancora largamente
presente un modello sociale centrato intorno alla figura del
pater familias, il solo che lavora, che vive in una casa di sua
proprietà e mantiene i figli, senza però aiutarli a rendersi
autonomi. Questo schema deve essere cambiato perché ha
prodotto una curiosa eterogenesi dei fini: l’Italia è il posto
in Europa dove si parla di più della famiglia in astratto, ma
meno si fa per essa e dove è maggiormente difficile costruir­
sene una. Ne consegue che l’istinto di fondo è di rimanere
accucciati nella famiglia di origine. Fare politiche familiari
significa invece attivare una fiscalità specifica e, sul piano
culturale, non contrapporre l’emancipazione femminile alla
famiglia come valore. Anche perché la crescita demografica
è maggiore in Paesi dove la donna lavora di più ed è più
indipendente. Paesi in cui vi sono politiche familiari con
assegni ai nuclei più deboli o numerosi e con asili-nido che

­168
favoriscono una migliore organizzazione del tempo di la-
voro e ritmi di vita più tollerabili. Il ruolo della donna è
una guida per la determinazione di un equilibrio familiare e
demografico positivo anche perché trascina con sé una certa
politica dei servizi. Allo stesso modo occorre concepire e
praticare politiche volte a inserire i giovani più rapidamente
nel mondo del lavoro e ad assicurare loro una maggiore mo-
bilità, a partire da costi minori per le case in affitto: in questo
modo può svilupparsi un dinamismo utile a costruire nuove
famiglie e ad avviare una migliore demografia. Essere a fa-
vore della famiglia significa assumere come prospettiva tutti
i soggetti in carne e ossa che la compongono: è questo il
punto che fin qui è stato oscurato. Se cominciamo a mettere
al centro la donna e i figli e non il pater familias e basta, tutta
la società ne trarrà degli indubbi vantaggi.
D.  Lei riproporrebbe la legge sui «Dico», a suo tempo pre-
sentata, senza successo, dal governo Prodi?
R.  Tutelare i diritti e riconoscere i doveri nelle relazioni
tra persone stabilmente conviventi è compito ineludibile
di uno Stato civile. Al tempo della discussione sui «Dico»,
la polemica si accese anzitutto sui nomi e sulla qualificazio-
ne degli istituti giuridici, mettendo purtroppo in secondo
piano la tutela concreta delle persone. E non siamo an-
cora arrivati a una soluzione per colpa di questa nostra
ipocrisia. Le coppie eterosessuali stabilmente conviventi
possono ricorrere al matrimonio civile, che ha alle spalle
il diritto di famiglia e, dunque, un corpo consolidato di
norme, anche se penso sia opportuno, in questo ambito,
offrire migliori forme di tutela pure a chi ha scelto di non
sposarsi e soprattutto ai loro figli. Il problema resta aperto
per le coppie omosessuali e purtroppo continua a essere
difficile affrontarlo. Considero una questione di civiltà
riconoscere alle coppie omosessuali un quadro giuridico
che fissi reciprocità, diritti e doveri, e che non si blocchi
davanti a problemi di definizione, per i quali dobbiamo
rimetterci al quadro costituzionale.
­169
D.  Riconoscerebbe a una coppia omosessuale la possibilità
di adottare un bambino?

R.  Spesso mi viene fatta questa domanda alla quale non


sento di poter dare una risposta positiva. Del resto come
poterla dare mentre ancora stiamo lasciando nell’oscurità
la condizione di migliaia di bambini che già vivono con
coppie omosessuali? Siamo sicuri che quei bambini ab-
biano quelle tutele giuridiche e sociali che la Costituzione
assegna, ad esempio, ai figli nati fuori dal matrimonio?
Cerchiamo, prima di ogni altra cosa, di vedere e di accom-
pagnare questa condizione.
D.  L’adozione di un bambino in Italia è ancora oggi un
percorso lungo e irto di ostacoli. Se fosse al governo cosa
penserebbe di fare per renderlo più semplice e veloce?
R.  La questione delle adozioni mi sta particolarmente a
cuore. L’Italia è il primo Paese in Europa per accoglien-
za, secondo nel mondo solo agli Stati Uniti. Credo, pe-
rò, che la pratica dell’adozione debba essere ancora più
favorita poiché risponde a quei valori di generosità e di
solidarietà familiare, di coraggiosa apertura al mondo che
da sempre caratterizzano la storia e la cultura del popo-
lo italiano. Non a caso, l’ultima seria riforma in questo
campo la si deve al governo di centrosinistra che nel 2001
ha aumentato l’età utile degli aspiranti genitori adottivi e
favorito la deducibilità fiscale di parte delle spese. Ma c’è
ancora tanto da fare. Ad esempio, bisogna lavorare per
ridurre i tempi e gli adempimenti per gli accertamenti dei
requisiti dei genitori adottivi che oggi sono ancora esor-
bitanti. Per le adozioni internazionali occorre potenziare
molto il sostegno, anche diplomatico ed economico, dato
dall’Italia alle coppie nei Paesi di adozione e affiancare
ulteriori momenti di solidarietà internazionale nei luoghi
di origine. Credo che dobbiamo porci l’obiettivo di offrire
a ogni bambino la possibilità di crescere all’interno di una
famiglia. Una recente sentenza della Corte di Cassazione

­170
ha posto al Parlamento la questione dell’adozione anche
per i single. Penso che questo sia un caso limite che affi-
derei alla valutazione del giudice tutelare. Ma va ribadito
che lo scopo prioritario è togliere i bambini dagli istituti:
ci sono tante coppie eterosessuali che vorrebbero adotta-
re un bambino e ritengo che la funzione pubblica debba
garantire soprattutto queste, dando loro la precedenza e
snellendo il più possibile le procedure burocratiche.
D.  La mappatura del genoma e la fecondazione assistita
sono saperi scientifici e tecniche mediche che ci permettono
di intervenire sul codice della vita. In questo modo una serie
di questioni, un tempo affidate ad ambiti privatissimi hanno
assunto una dimensione pubblica e richiedono una regola-
mentazione politica e legislativa. Quale deve essere, secondo
lei, l’impostazione guida del Pd su questi temi?
R.  Il Pd deve affrontare le questioni eticamente sensibili
con lo spirito e la responsabilità di chi sta cercando soluzio-
ni largamente condivise: in questo senso la presenza attiva
di credenti e non credenti in uno stesso partito è un’enorme
ricchezza. Il confronto al nostro interno non deve limitarsi
a registrare una giustapposizione di diversi punti di vista,
ma è bene che si sviluppi ricercando una sintesi nella quale
possano riconoscersi il maggior numero di persone. Si tratta
spesso di problemi inediti per l’uomo, dove a scontrarsi tal-
volta non sono neppure culture antagoniste ma sentimenti
contrastanti, contemporaneamente presenti in ciascuno di
noi. Prendiamo ad esempio il dibattito in corso sulla bre-
vettabilità del genoma: per alcuni bisognerebbe brevettare
il prodotto, per altri la tecnica di manipolazione, a prescin-
dere dal risultato. È necessario che la discussione sia il più
possibile pubblica e consapevole, perché si tratta di argo-
menti complessi e il rischio da evitare è che decida il merca-
to anziché la politica. Per questo vorrei si istituisse una sorta
di autority della bioetica con il compito non di decidere, ma
di istruire la necessaria fase informativa, individuare i punti
critici in discussione e contribuire a una procedura rafforza-
­171
ta di decisione evitando che l’opinione pubblica sia lasciata
in balia dell’ignoranza, della propaganda o della disinfor-
mazione. La deliberazione legislativa dovrebbe arrivare al
termine di questo percorso democratico: comitato bioeti-
co, coinvolgimento dell’opinione pubblica e decisione del
Parlamento. Se non riusciremo ad allestire un meccanismo
simile, la prima vittima sarà il principio di precauzione per-
ché la soluzione rischia di essere imposta dalla logica del
maggiore profitto. Questa mia proposta nasce dall’insoddi-
sfazione dell’uso e dall’abuso dello strumento referendario
in ambito bioetico avvenuto negli ultimi anni: continuare a
procedere a colpi di referendum su temi di tale complessità
sarebbe una pazzia. Dobbiamo evitare che alle storture at-
tuali del nostro bipolarismo politico si sovrapponga, come
ho già detto, addirittura una sorta di bipolarismo etico. Non
solo rischieremmo di smarrire il significato alto della media-
zione politica, ma faremmo la fine dei polli che si azzuffano
mentre le decisioni vere le prendono altri.
D.  L’infertilità di coppia riguarda migliaia di giovani di
ogni provenienza sociale. Oggi il progresso scientifico con-
sente tecniche di fecondazione assistita un tempo impensabi-
li. Che giudizio ha della concreta applicazione della legge 40?
È favorevole alla proibizione della fecondazione eterologa,
consentita in Italia fino al 2004? Non teme che in questo
modo ai più ricchi sia consentito di poter affrontare le spese
della fecondazione assistita in Paesi dove la legislazione è
più permissiva, mentre le limitazioni finiscano per colpire
solo i ceti meno abbienti?
R.  Certe decisioni andrebbero prese a livello europeo,
perché è paradossale vietare in Italia delle pratiche permes-
se nei Paesi confinanti. La conseguenza che più salta agli
occhi è proprio il vantaggio che i ricchi hanno rispetto ai
poveri nell’accedere a questi interventi e l’ingiustizia sociale
che ne consegue: per quale ragione un avvocato dovrebbe
avere maggiori possibilità di avere un figlio che non una gio-
vane operaia? Come ha scritto Stefano Rodotà, possiamo

­172
trovarci di fronte al rischio di una sorta di human divide.
Naturalmente, so bene che la convergenza degli ordinamen-
ti europei è un processo arduo e lungo e non può essere in-
tesa come una mera omologazione. Per quanto mi riguarda,
votai a favore della fecondazione eterologa e penso tuttora
che dovrebbe essere consentita perché, rispetto ai rischi e
ai problemi pur presenti, mi pare prevalente un concetto di
paternità e di maternità più ampio e complesso, che ricono-
sciamo, ad esempio, nel campo dell’adozione. La stessa ap-
plicazione della legge 40 ha mostrato delle incongruenze di
ordine logico e morale che per fortuna la giurisprudenza sta
correggendo con sentenze equilibrate. Penso, ad esempio,
all’obbligo previsto dalla legge in vigore di impiantare un
embrione anche se malato e contro la volontà della donna
che poi ha la facoltà di abortire terapeuticamente. Stiamo
parlando di materie in continua evoluzione, in cui la stessa
definizione giuridica è destinata presto a subire cambia-
menti perché incalzata da nuove scoperte scientifiche. La
politica, a mio giudizio, deve essere capace di individuare
i confini da non varcare e certamente uno di questi è l’eu-
genetica. Il rafforzamento dei percorsi democratici e di al-
largamento delle consapevolezze culturali nella costruzione
delle decisioni è l’unica strada percorribile.
D.  La drammatica vicenda di Eluana Englaro, oggetto di
una spettacolarizzazione che ha ferito le coscienze di molti,
ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema
del testamento biologico, ossia della necessità di una rego-
lamentazione sul fine-vita. Come e in quale misura, a suo
giudizio, la legislazione dovrebbe intervenire?
R.  Nella discussione sul testamento biologico c’è stato
qualcosa di ambiguo e di faticoso, e si capisce perché. Fino a
un secolo fa il morire era un rito domestico e di vicinato, con
il moribondo protagonista, con una trasmissione di valori,
con la presenza di una rete familiare e amicale a sostegno e
a servizio della persona, secondo la sua volontà espressa o
interpretata. Adesso il morire è stato pressoché totalmen-
­173
te affidato ai moderni servizi sanitari e sociali che hanno
medicalizzato quest’estrema esperienza umana. Tali servizi
agiscono seguendo delle procedure contenute in norme, in
linee guida, in regole di organizzazione, in deontologie. Ma
tutto ciò può togliere umanità, pur in nome di una tutela
certamente migliore della salute. Credo che ora le nostre
decisioni debbano essere il più possibile umane e ispirarsi a
criteri di rispetto della centralità del malato, coinvolgendo
e non escludendo fin dove possibile il mondo vitale, fatto
di affetti e di relazioni. Una volta espresse le valutazioni di
un medico che in scienza e coscienza dichiara l’impossibilità
di riabilitare le funzioni vitali, il sapere scientifico e tecnico
deve mettersi a confronto e soprattutto a servizio di quel
protagonista reale e dei suoi cari. Le decisioni verranno
dalla volontà eventualmente espressa del paziente. Verran-
no dal giudizio del medico e dall’affetto delle persone più
vicine al malato. Sarebbe paradossale che le nostre giuste
cautele verso scienza e tecnica nella fase della vita nascente
diventassero, invece, affidamento acritico alla tecnica nella
fase finale della vita, quasi che, a quel punto, l’uomo valesse
meno e, a poco a poco, potesse trasformarsi in un oggetto da
subordinare alla tecnica. Io sostengo che l’uomo non possa
essere mai privato della sua dignità e libertà e che il legisla-
tore in questi ambiti debba procedere con assoluta cautela,
rispetto e, direi, leggerezza: deve fare il meno possibile per-
ché questo è uno dei territori in cui bisogna coltivare il limi-
te della politica. Personalmente non riesco ad accettare che
sia il Parlamento a decidere come devo morire, così come
mi sembrerebbe anche sbagliato essere obbligati ad andare
tutti da un notaio per formalizzare il proprio testamento
biologico. Occorre, quindi, trovare un punto di equilibrio
tra le crescenti possibilità della tecnica, la volontà del ma-
lato e il mondo dei suoi affetti: così potrà avere una rispo-
sta concreta e civile anche la battaglia del padre di Eluana,
Peppino Englaro, che in quel clima di strumentalizzazione
politica subì da Berlusconi persino l’oltraggio di sentirsi di-
re che Eluana avrebbe potuto avere dei figli.

­174
XII
IL PARTITO DEMOCRATICO
E LA SFIDA RIFORMISTA

D.  Il Pd è nato proponendosi non solo come un nuovo


partito, ma come un «partito nuovo», capace cioè di rispon-
dere, nel mondo della comunicazione, a una domanda di
partecipazione personale e diretta. Lei pensa che il Pd stia
mantenendo la promessa?

R.  Costruire un «partito nuovo» è un processo collettivo


che coinvolge intelligenze, culture, passioni, interessi so-
ciali e tanto impegno volontario. È un progetto dal quale
dipende, non solo il destino della nostra parte politica,
ma la stessa evoluzione del sistema democratico, segnato
negli ultimi anni dalla personalizzazione e dal populismo.
Stiamo lavorando su quella promessa. Continuiamo a
credere nel progetto e a perseguirlo benché appaia con-
trocorrente e, a volte, persino nel nostro campo, circoli
la tentazione di scorciatoie di tipo leaderistico. Non è un
percorso facile: se parlare di partito può suonare alle orec-
chie di tanti come un retaggio passatista, se il patto per
un comune impegno politico viene percepito come una
limitazione della libera espressione dell’individuo anziché
come un’opportunità per contare e incidere maggiormen-
te nelle decisioni pubbliche, oggi sempre più condizionate
da interessi forti e oligarchie ristrette, vuol dire che dob-
biamo metterci una forza e una determinazione maggiori.
Noi vogliamo affermare il dettato della Costituzione, l’art.
­175
49 che recita: «Tutti i cittadini hanno diritto di associar-
si liberamente per concorrere con metodo democratico a
determinare la politica nazionale». E siamo a un bivio: o
riusciamo a interpretare l’essere partito in chiave moderna
oppure i partiti si sfibreranno, trasformandosi nella corte
di un capo o, al più, in una sorta di comitato elettorale.
Ma è troppo poco ridurre la partecipazione democratica
al solo momento elettorale, è troppo al di sotto della so-
glia indicata dalla Carta costituzionale e non è sufficiente
a dare governabilità e direzione di marcia al Paese e a ga-
rantirne l’unità.

D.  Il Pd è al momento la sola forza politica a usare il so-


stantivo «partito» nel suo nome. Dopo la crisi della «Re-
pubblica dei partiti», dopo anni di cultura anti-partito, è
davvero ancora possibile ispirarsi a questo modello?

R.  La sempre maggiore articolazione delle società svilup-


pate e i mutati paradigmi culturali hanno messo in crisi i
partiti di massa in tutta Europa. Da nessuna parte, però,
è avvenuta, come da noi, una delegittimazione dei partiti
tale da contestare la loro stessa funzione democratica. Ciò è
legato alla particolare vicenda dell’ultimo ventennio, anche
se le radici della crisi, come abbiamo detto, affondano nei
nodi irrisolti di una stagione ancora precedente. I grandi
partiti popolari sono nati nel secolo scorso per contrasta-
re il notabilato, per ridurne lo spazio e combattere il tra-
sformismo diventato pratica di governo. Poi il fascismo ha
piegato quel modello di partito al servizio di una visione
totalitaria. Ma i partiti popolari sono rinati con la Libera-
zione nel contesto per la prima volta aperto del suffragio
universale: e sono stati i partiti gli strumenti principali per
imparentare il nostro popolo con la democrazia. Qualcuno
ha scritto acutamente: «da militanti a cittadini». Tuttavia la
democrazia bloccata e la storica debolezza delle istituzioni
hanno indotto i partiti a dilatare progressivamente le loro
funzioni e a svolgere sempre di più impropri ruoli di sup-

­176
plenza, fino alle degenerazioni e alle occupazioni del potere
che hanno causato la sclerosi del sistema. Così, dopo il tem-
po dei collateralismi, si è aperto un conflitto con la società
civile. È a questo punto che ha fatto irruzione l’idea che la
società possa farcela da sola e che al «regime» dei partiti
debba opporsi una democrazia dei cittadini, imperniata
sulla mobilitazione della sola società civile. Questo schema
oggi non solo è entrato in affanno, ma si è rivelato insuffi-
ciente per provare a risolvere la crisi italiana.

D.  Il conflitto sembra ancora in corso. E sui partiti grava un


discredito difficile da rimuovere. Peraltro non le sembra di
avere di fronte avversari troppo potenti, con in mano i mezzi
di comunicazione adatti a influenzare l’opinione pubblica?

R.  Non c’è dubbio che la semplificazione tutta italiana


di immaginare una società civile buona e capace di au-
togoverno su linee orizzontali, se non ci fossero i partiti
cattivi che pretendono un’impropria verticalizzazione del
potere, si è diffusa grazie al patrocinio di interessi forti e di
potentati economici e mediatici, i quali hanno pensato di
trarre vantaggio da una politica meno autonoma e da isti-
tuzioni più deboli. Niente di simile è accaduto in Europa
e in altre democrazie occidentali. Silvio Berlusconi è sta-
to un vettore di questo fenomeno, ma non il solo. Anche
il centrosinistra è stato attraversato da questi umori. Sia
chiaro, i partiti hanno le loro gravi colpe per l’impotenza
nelle riforme. Ma penso sia arrivato il tempo di un bilancio
anche per questa cultura anti-partito.

D.  Ricostruire i partiti è una nostalgia del passato, dice


qualcuno. Cosa risponde?

R.  Che semmai è nostalgia di futuro. È un progetto che


ha il sapore di una sfida. Anche in termini di efficienza
del sistema, visto che il populismo italiano ha prodotto
incapacità di governo. In sostanza le domande sono: chi
­177
ha il compito di ridurre le complessità? Chi porta le par-
zialità anche nobili dei territori, dei gruppi sociali, delle
espressioni della società civile alla dimensione nazionale
e statuale? Chi garantisce maggioranze che diano stabilità
all’indirizzo politico? Chi impedisce l’atomizzazione e la
dissociazione in particolare in una società già divisa come
quella italiana? O scegliamo l’illusione di un capo o par-
liamo ancora di partiti, seppure in una chiave nuova che
siamo impegnati a progettare.

D.  Lei è stato eletto segretario contestando l’idea di parti-


to «leggero», fondato su un rapporto con l’opinione pubblica
anziché sulla presenza territoriale dell’organizzazione e de-
gli iscritti. Ma al giorno d’oggi può ancora vivere un partito
«pesante», con i circoli e le tessere?

R.  Vorrei un partito il più possibile leggero, ma capace di


svolgere quel ruolo di vettore democratico di cui parla la
Costituzione e di cui c’è bisogno nella modernità. La con-
sistenza minima è quella in grado di assicurare le due fun-
zioni vitali di un partito: la capacità di avere una propria
visione della società e quella di rappresentarla in modo
autonomo. Senza visione e autonomia non ci sono parti-
ti, ma surrogati. La sovranità degli iscritti non può essere
negata, anche se è necessario ampliare la partecipazione,
coinvolgere, dove possibile, fasce più ampie della società
in alcune importanti decisioni, fino a rimettere agli elettori
scelte determinanti. L’organizzazione del partito non può
rinunciare ai suoi elementi di base, pena l’interruzione del
circuito democratico, ma anch’essa deve avere una tensio-
ne costante all’apertura: oggi più del passato un partito
ha bisogno di scambi e di ascolto con la società, con le
espressioni civiche, con i movimenti portatori di singole
issues. Un partito deve avere anche codici di disciplina tra-
sparenti: dopo un libero confronto vanno rappresentate
nelle istituzioni le decisioni della maggioranza, salvo i casi
di scelte individuali di coscienza, perché un partito deve

­178
essere in grado di sostenere coerentemente l’azione di un
governo. Un partito, infine, deve garantire un equilibrio
tra decentramento e coesione nazionale, tanto più in un
momento in cui questa è una sfida cruciale per il destino
del Paese. È questo un partito «pesante»? Sinceramente
non credo che si possa definire così. È piuttosto un par-
tito di comunicazione e di collegamento, che riconosce le
autonomie e si confronta con le diverse istanze cercando
di proporre una propria sintesi. È un partito trasparente,
che non nasconde il confronto interno e sa produrre de-
cisioni.

D.  Sull’attuazione dell’art. 49 della Costituzione, quello


che riconosce ai cittadini il diritto di associarsi liberamente
in partiti, è aperta da sempre una discussione. Finora i par-
titi hanno sempre rifiutato una legge che entrasse nelle loro
vicende interne. Non pensa che sia giunto il momento di
intervenire per restituire una maggiore trasparenza e auto-
revolezza alla loro vita democratica?

R.  Penso che il Pd debba sfidare le altre forze politiche


ad approvare finalmente una legge di attuazione dell’art.
49 della Costituzione: per riqualificare il loro ruolo, i parti-
ti devono garantire l’aggiornamento dell’albo degli iscritti,
regole chiare di partecipazione per l’elezione delle cariche
interne, trasparenza nelle scelte delle candidature, pubbli-
cità dei finanziamenti e dei bilanci. Una simile legge è stata
sempre osteggiata nei 60 anni di Repubblica: ma ora non
ci sono più ragioni per rinviare. Bisognerebbe prevedere
sanzioni per i trasgressori, dal taglio dei contributi pub-
blici fino, nei casi estremi, all’esclusione dalla competizio-
ne elettorale. A mio giudizio, come indice di democrazia
interna, si potrebbe anche pretendere che gli statuti dei
partiti stabiliscano un limite alla durata o al numero dei
mandati di direzione. Sia chiaro, avverto anch’io il rischio
di una istituzionalizzazione dei partiti, ma oggi mi sem-
brano maggiori altri rischi: o si prosegue sulla strada della
­179
personalizzazione e del presidenzialismo, oppure la sola
alternativa sta nella democrazia parlamentare e nella for-
mazione di partiti più moderni e dinamici.

D.  Lei spesso, di fronte a contrasti interni, si appella al be-


ne comune della «ditta». Ma c’è chi la contesta, sostenendo
che il patriottismo di partito è congeniale a vecchie politiche
di alleanze mentre il Pd dovrebbe farne a meno, organizzan-
do la competizione pre-elettorale interna in modo aperto,
come avviene negli Stati Uniti con le primarie. Che cosa
replica a questa obiezione?

R.  Dobbiamo decidere se prendere le caravelle e andare


in America oppure se restare in Europa. Nel nostro con-
tinente ci sono governi con coalizioni difficili e governi
espressione di una sola forza maggioritaria. Ovunque, pe-
rò, ci sono dei partiti che svolgono un ruolo. Quando par-
lo di «ditta» mi riferisco a quell’elemento coesivo irrinun-
ciabile in una libera associazione, che peraltro è chiamata
a sostenere una rilevante funzione pubblica come quella
di assicurare la vita di un governo. Certo, in un partito
c’è anche competizione, battaglia di idee. Che va regolata
assicurando libertà e trasparenza. Il ricatto populista, in
base al quale il confronto tra opinioni diverse è classifi-
cato come scontro e litigio, è inaccettabile. Tuttavia in un
partito che funziona le discussioni devono alla fine con-
durre a decisioni che impegnano tutti. Vale per un voto di
fiducia a un governo nazionale o locale, vale per un voto
su una singola legge. La questione si fa indubbiamente
più complessa quando ci si avvicina alla frontiera critica
della biopolitica. La libertà di coscienza va garantita sui
temi che riguardano la vita e la morte e le convinzioni più
profonde delle persone. Al tempo stesso, però, un partito
non può essere agnostico sulle materie eticamente sensi-
bili. Non può limitarsi a dire: non me ne occupo, ognuno
dica la sua. Il punto di equilibrio sta nel cercare comunque
insieme, prima di fare appello alla coscienza individuale,

­180
le convergenze possibili e nel provare a definire soluzioni
giuridiche, capaci di interpretare un’etica condivisa, di ri-
spettare la scienza e al tempo stesso il principio di precau-
zione. Del resto, le esigenze di cautela e di paziente ricerca
di condivisione su questi temi non dovrebbe riguardare
solo un partito, ma l’insieme dell’universo politico. Ho già
detto che come possa o debba morire una persona non
dovrebbe essere affidato, in premessa, a una metà del Par-
lamento contro l’altra.
D.  È d’accordo con chi sostiene che le primarie sono nel
dna del Pd e che il Pd non può farne a meno, pena una ri-
nuncia a se stesso?
R.  Il Pd è un partito di iscritti e di elettori. Nel suo dna
c’è la tensione ad ampliare la partecipazione, ad aprirsi
alla società, a coinvolgere nel circuito della decisione de-
mocratica il maggior numero di cittadini interessati. Le
primarie sono uno strumento di questa partecipazione.
Uno strumento importante, che grazie al Pd è stato per
la prima volta sperimentato nel nostro Paese. Tuttavia, si
tratta pur sempre di uno strumento e non di un totem. La
sovranità in un partito appartiene ai suoi associati, i quali
in determinate circostanze la rimettono agli elettori per via
statutaria o per ulteriori scelte politiche.
D.  Ma come è possibile tenere insieme nel vostro statuto
primarie di partito e primarie di coalizione? Non le pare
contraddittorio far eleggere direttamente il segretario nei
gazebo, con l’impegno statutario che questo sarà il futuro
candidato del Pd alla presidenza del Consiglio, e poi stipu-
lare alleanze che possono comportare nuovi negoziati per la
leadership? Perché fare le primarie di coalizione anche nei
sistemi a doppio turno (ad esempio, per l’elezione dei sin-
daci) quando il primo turno è fatto apposta per selezionare
i candidati migliori? Non crede che il Pd debba rimettere
mano alle regole delle primarie se non vuole diventarne la
vittima, anziché il protagonista?
­181
R.  Sono temi statutari sui quali ovviamente non decide il
segretario. La mia opionione è questa. Dobbiamo riforma-
re le primarie per evitare che in taluni casi inducano alla
dissociazione anziché all’unità, che indeboliscano uno schie-
ramento di governo anziché rafforzarlo, che vengano usate
per regolare conti tra partiti o all’interno dei partiti anziché
per selezionare la migliore candidatura possibile e costrui­re
attorno a essa una sintesi politica. Abbiamo inventato le pri-
marie per aprire il partito alla società e non debbono volgere
a un ripiegamento verso dinamiche interne al ceto politico.
Nella riforma statutaria manterrei un principio cardine: l’e-
lezione attraverso le primarie – magari costruendo un vero
e proprio albo degli elettori delle primarie che consenta poi
di tenere vivo un dialogo e una consultazione – del segre-
tario nazionale del Pd. Gli iscritti del Pd sono una parte
rappresentativa dell’elettorato e, come è avvenuto al tempo
della mia elezione a segretario, penso che le opinioni degli
associati tendano a coincidere con quelle degli elettori del-
le primarie. Tuttavia, qualora ci fosse discordanza, sarebbe
quanto mai utile la verifica di un corpo elettorale più ampio,
vista l’esposizione del segretario nazionale e la sua responsa-
bilità in funzioni di direzione ed, eventualmente, di governo.
Per quanto riguarda le elezioni di tutte le altre cariche di
partito, le affiderei di norma agli iscritti, attraverso proce-
dure che prevedano il più ampio coinvolgimento possibile.
Lascerei agli organi dirigenti locali le decisioni, da prendere
a maggioranza, di attivare le primarie di partito o di coali-
zione per la scelta dei candidati alle cariche monocratiche,
dal presidente della regione al candidato sindaco. E qualora
si decida per primarie di coalizione, il Pd dovrebbe a mio
avviso selezionare, attraverso regole democratiche interne,
una sola candidatura. In ogni caso per le primarie dobbiamo
definire procedure di migliore certificazione della base elet-
torale. Finché resta questa mostruosa legge elettorale con le
liste bloccate, bisognerà anche adottare metodi nuovi per la
selezione delle candidature al Parlamento nazionale. Penso
che le scelte degli organi di partito debbano essere precedute

­182
da consultazioni ampie e il coinvolgimento dovrebbe riguar-
dare quanto meno tutti gli iscritti. Ricostrui­re un rapporto
tra eletti ed elettori è condizione vitale di una democrazia e
un partito democratico deve uscire anche unilateralmente
dallo schema imposto dal Porcellum.

D.  Lei riconosce al Pd quella «vocazione maggioritaria»


che per il suo predecessore Walter Veltroni è il tratto es-
senziale e distintivo del partito? Che significato dà a quella
espressione?

R.  La vocazione maggioritaria del Pd è per me anzitutto


la responsabilità di costruire un progetto vincente di alter-
nativa e di proporlo agli italiani. Il Pd è il fratello maggiore:
ha la responsabilità più grande, sia nel delineare le scelte
di fondo, sia nel comporre uno schieramento coerente.
Purtroppo, al nostro interno, la discussione sulla vocazione
maggioritaria ha subito qualche distorsione. Penso che non
ci sia contraddizione tra crescita del partito e costruzione di
un campo di alternativa. Anzi, penso che se il progetto e la
coalizione di governo saranno positivi per il Paese, il Pd, che
ne è il muro portante, verrà premiato. Il Pd è il soggetto ine-
ludibile per l’alternativa, ma proprio per questo impegnato
a caricarsi di esigenze nazionali e di sistema.

D.  Che ruolo ha, a suo giudizio, il leader in un partito


moderno? È possibile immaginare ancora una guida collet-
tiva, una corresponsabilità di un largo gruppo dirigente, in
un sistema di comunicazione che tende a personalizzare e a
semplificare i messaggi? Lei ha annunciato che non metterà
mai il suo nome sul simbolo elettorale del Pd: si tratta di
una sfida a Berlusconi, o piuttosto a Vendola, a Di Pietro, al
suo stesso partito?

R.  È chiaro che il ruolo del leader è cresciuto nella società


della comunicazione. La politica deve ora fare i conti con
un tasso elevato di personalizzazione e di semplificazione
­183
dei messaggi. Questo richiede alle personalità mediatica-
mente più esposte caratteristiche, propensioni, e anche
un’etica dei comportamenti diverse e più esigenti rispetto
al passato. Ma continuo a giudicare inaccettabile, perché
troppo povera, l’idea dell’uomo solo al comando. La lea-
dership può essere il frutto, l’esito di un progetto collettivo.
Se ritiene di soppiantare la fatica di un lavoro in comune,
avrà il più delle volte un carattere illusorio ed effimero,
oppure un tratto padronale. È vero che l’onda montante
del populismo sembra trasformare la politica in lotta tra
persone, separate dalla corposità degli interessi sociali, e di
proiettarla all’infinito. Ma questa è esattamente la cultura
che dobbiamo contrastare. Il leader ancorato a un proget-
to collettivo non è un leader dimezzato, ma deve essere
chiaramente un leader pro tempore. L’incarico di vertice
deve avere un inizio e una conclusione fissata al massimo in
due mandati. Così si coglie anche la dimensione di servizio
che deve essere parte integrante della vocazione politica e
del suo agire. Con una provocazione ho detto: toccasse a
me, non metterei il mio nome sul simbolo elettorale. Già
siamo il solo partito che non ha paura di chiamarsi partito:
speriamo di non essere i soli prossimamente a non avere
cognomi sul simbolo. È questo un messaggio che contiene
la sua semplificazione e la sua forza comunicativa. È ora di
dire quale strada si intende prendere. Noi vogliamo uscire
dal berlusconismo e costruire un sistema politico diverso
da quello attuale. Forse qualcuno pensa, anche dalle nostre
parti, che personalizzazione estrema e populismo non sia-
no poi tanto male. Bisognerà convincerli del contrario.

D.  I cosiddetti «rottamatori», guidati dal sindaco di Firen-


ze Matteo Renzi, chiedono un rinnovamento generazionale.
È indubbio che la guida del Pd sia ancora nelle mani di
quanti dalla metà degli anni Novanta hanno avuto le mag-
giori responsabilità nella nascita del centrosinistra e dell’U-
livo, nelle campagne vincenti di Prodi come nelle sconfitte
con Berlusconi. Perché il rinnovamento è così difficile?

­184
R.  Sono convinto che il ricambio sia più facile se un par-
tito funziona bene. Il mancato rinnovamento degli anni
recenti dipende molto, a mio avviso, dalla perdita di senso
e di ruolo del partito, oltre che da diverse ostruzioni nel
circuito democratico. Quando sono stato eletto segreta-
rio avevo preso l’impegno di far girare la ruota genera-
zionale e penso di aver già ottenuto risultati importanti.
Il 75% dei segretari provinciali del Pd sono attorno ai
quarant’anni. La segreteria nazionale è composta quasi
esclusivamente da giovani. Tanti sindaci sono espressione
di una nuova generazione nata alla politica con l’Ulivo.
La ruota continuerà a girare, è certo. Ma avverto anch’io
che non basta: il rinnovamento avvenuto nei territori, sia
nelle amministrazioni pubbliche che nei ruoli dirigenti
del partito, è meno visibile al centro. E questo non è do-
vuto all’egoismo di chi ha svolto in passato ruoli di primo
piano e oggi non ha più incarichi di direzione, ma soprat-
tutto al deperimento delle funzioni del centro del partito.
Quale sindaco di una città importante oggi rinuncerebbe
al suo secondo mandato per assumere un incarico nella
segreteria nazionale? Qui c’è un punto cruciale che non
abbiamo ancora ben chiarito: rafforzare il centro è una
condizione ineludibile di un vero assetto federale; il volto
di un partito è una proprietà indivisa e una scelta locale
può danneggiarlo nazionalmente e anche in tutte le altre
dimensioni locali. Quanto al tema della «rottamazione»,
comprendo i disagi che si manifestano davanti ai nostri
limiti. Ma credo che tutti debbano concorrere al miglio-
ramento senza ricorrere a immagini negative e ostili. Una
classe dirigente giovane mostra maggiore solidità se ri-
conosce le qualità di quella che l’ha preceduta, e invece
mostra minore sicurezza se si limita ad evidenziarne solo
i difetti. Anche perché ci sono tantissimi della nuova ge-
nerazione, non certo privi di spirito critico, che lavorano
nel partito e nelle amministrazioni per rottamare la destra
rinunciando alla facile visibilità che verrebbe dal rompere
la cristalleria in casa propria.
­185
D.  Lei ha detto più volte che il cantiere del Pd è ancora
aperto e ha parlato di un Nuovo Ulivo come orizzonte del
centrosinistra. A cosa pensa?
R.  Il Pd nasce dalla ricomposizione riformista maturata nel
decennio berlusconiano, in particolare dopo l’infelice espe-
rienza dell’Unione, la coalizione di centrosinistra del 2006.
L’Ulivo è una delle sue principali matrici ma credo che sia
ancora una direttrice del suo futuro. Il Pd è per natura un
partito aperto, di collegamento con le autonomie sociali e
con le esperienze civiche. Quindi, non può che essere acco-
gliente nei confronti di altre esperienze riformiste. Il discri-
mine è dato dalla coerenza con cui si persegue il progetto
di governo, dalla convergenza su punti programmatici non
eludibili, dagli impegni che si assumono davanti al Paese.
Una coalizione come l’Unione non potrà mai più ripetersi.
Per questo, le forze di centrosinistra che si presenteranno
insieme alle prossime elezioni non potranno limitarsi ad au-
spici generici: dovranno dimostrare agli elettori che il vinco-
lo di solidarietà è solido e non revocabile nella contingenza.
Un modo per dimostrare che l’Unione non c’è e non ci sarà
più, per dare certezze strutturali al patto politico potrebbe
essere, per esempio, la costituzione di gruppi parlamentari
unitari di quell’area riformista più ampia che ho chiamato
Nuovo Ulivo. Non per questo il Pd perderà la propria au-
tonomia, ma non vedo nulla di male, né di contraddittorio
con il nostro impianto, se un domani questo processo potrà
generare un partito ancora più grande. La sola cosa che con-
sidero inac­cettabile è che si parli di una «rifondazione» del
Pd. Il Pd esiste, il Pd è il motore di un’alternativa di governo
al centrodestra, il Pd può favorire un ulteriore processo di
aggregazione nella dignità di ciascuno: non ci sto, però, ad
azzerare il lavoro prezioso fatto fin qui in nome di una rifon-
dazione dagli incerti paradigmi culturali e politici.
D.  Secondo lei in futuro anche Sinistra e Libertà di Nichi
Vendola potrebbe convergere nel Pd? La porta è aperta pure
all’Idv di Antonio Di Pietro?

­186
R.  Il Pd è un partito di centrosinistra. Sul suo percorso ci
sono formazioni ecologiste, riformiste, socialiste, laiche, ci
sono movimenti civici, gruppi locali nati dal volontariato
cattolico. L’apertura, l’avvicinamento ad altre esperienze
non può che partire da questi interlocutori, ovviamente
tenendo fermi l’ambizione di dare un governo riformista
al Paese e i principi fondamentali del programma. In que-
sta prospettiva ritengo possibile aprire un confronto anche
con Sinistra e Libertà. Ovviamente bisognerà chiarire bene
le questioni che hanno portato nel biennio 2006-2008 alla
disarticolazione del governo Prodi. Non è pensabile che si
ripeta la scena di un governo di centrosinistra, impegnato
nelle sedi internazionali per coinvolgere i Paesi confinanti
in una conferenza di pace sull’Afghanistan, che viene boc-
ciato all’interno da una sinistra radicale, la quale rifiuta pre-
giudizialmente una politica di responsabilità, anche milita-
re, nel quadro delle organizzazioni internazionali, delegitti-
mando così la nostra politica di distensione. Non è neppure
immaginabile che le politiche sociali, fiscali e del lavoro che
dovrà fare un centrosinistra di governo siano condizionate
da ripiegamenti classisti e di carattere massimalista. Se ma-
turerà una convergenza seria, sui contenuti, penso che il Pd
possa essere un interlocutore e un riferimento solido. In un
futuro non calcolabile non metto nessun limite a possibili
ulteriori evoluzioni. Lo stesso discorso riguarda l’Italia dei
Valori. Con chiunque sarebbe sbagliato procedere sulla
base di pregiudiziali. Ci sono evidenti differenze di cultura
politica e di linguaggio tra noi e Di Pietro. Ma il futuro di-
penderà dall’evoluzione del profilo politico di queste forze
e dagli orientamenti dei loro elettori. Lo dico con rispetto:
Sel e Idv sono partiti con una forte impronta personale. Ma
le persone passano, a cominciare da me, mentre sono con-
vinto che il valore di una ricomposizione riformista resterà
un valore attuale per decenni nel nuovo secolo.

D.  C’era una volta il collateralismo e la cinghia di trasmis-


sione con i sindacati e le associazioni. Sono dinamiche che
­187
hanno riguardato i comunisti, i socialisti, i cattolici, anche
se la cultura cattolica delle autonomie sociali ha contribuito
a spezzare prima i legami di dipendenza dal partito. Oggi il
Pd non corre il rischio di un collateralismo «alla rovescia»,
di fronte al protagonismo intermittente dei sindacati e di
altri movimenti della società civile?

R.  Nessuno ha nostalgia del collateralismo, che in realtà


era un’affermazione dei preminenti interessi del partito sul-
le formazioni sociali. Si tratta di un’epoca che non c’è più e
che nessuno potrà far rivivere. Il Pd nasce con una cultura
delle autonomie sociali che è maturata nel tempo in tutto
il campo riformista, non solo in quello di matrice cattolica.
Solo la pigrizia intellettuale o il desiderio di polemica può
giustificare accuse di dipendenza del Pd dalle forze sociali:
sarebbe come dire che, se non c’è più la cinghia di trasmis-
sione, deve esserci per forza una subordinazione rovesciata.
È la pigrizia di chi pretende che il Pd aderisca ufficialmente
a uno sciopero. Oppure di chi, in occasione di certe mani-
festazioni di piazza, fa le classifiche tra i dirigenti del Pd che
partecipano e quelli che non partecipano e trae da queste
le prove di una irriducibile frattura interna. Invece proprio
la cultura delle autonomie sociali porta ad assegnare al par-
tito un compito diverso: il compito di esprimere un’idea
di società, un progetto di sintesi, un indirizzo di governo,
una sua propria e autonoma posizione. Se non è il governo
presente è quello che si prepara per domani. Le formazioni
sociali hanno una loro parzialità, che è garanzia di genuinità
e di libertà della loro azione. Anche la politica ha un limite,
non solo verso i singoli ma anche verso le autonomie dei
mondi vitali, delle associazioni, dei movimenti, dei sinda-
cati. Per i riformisti, però, il dialogo e il confronto con i
soggetti sociali restano irrinunciabili. Perché nell’esigenza
di esprimere un progetto e di dare un orizzonte al Paese
c’è un’idea di governo capace di muovere le forze e creare
condivisione e corresponsabilità.
Conclusione
UNIRE LE FORZE DELLA RICOSTRUZIONE

D.  Onorevole Pier Luigi Bersani, dopo aver parlato a lun-


go delle radici storiche, culturali, sociali del Pd, dopo aver
discusso dei grandi cambiamenti globali e dei mutamenti
antropologici del nostro tempo, dopo aver affrontato il tema
della ricostruzione della politica e dei partiti, è arrivato il
momento di definire in modo sintetico la proposta del Pd
per il Paese. Il primo decennio del nuovo secolo è stato se-
gnato dai governi di Berlusconi. Che traguardi si pone per il
secondo decennio?

R.  Da quanto abbiamo detto fin qui credo che emerga


un progetto forte, capace di ispirare un programma di go-
verno volto a una riscossa civica, a un risveglio italiano, a
una nuova crescita del sistema Paese, più equilibrata sul
piano sociale e maggiormente orientata verso la qualità,
perché oggi è la qualità la condizione necessaria per creare
più lavoro. Le due colonne portanti del nostro progetto
democratico sono la riforma repubblicana e un nuovo pat-
to sociale per la crescita e per il lavoro. Non due capitoli
separati, ma parti interconnesse del medesimo program-
ma. Questione democratica e questione sociale si tengono
per mano. L’ho detto parlando delle fondamenta del Pd. A
maggior ragione lo ripeto pensando all’impegno che dovrà
accompagnare l’intera comunità nazionale verso il 2020.
Un progetto per l’Italia di domani, però, presuppone la
­189
verità sull’Italia di oggi e sull’eredità del decennio passato.
Anzi, direi che la verità è la condizione della riscossa. Quel-
la verità occultata dal populismo berlusconiano e dall’op-
portunismo di tanti, motivato da ragioni più o meno incon-
fessabili. Il decennio che abbiamo alle spalle ha aggravato
i nostri problemi economici e sociali. Se non siamo capaci
di guardarli in faccia, rischiamo di costruire sulla sabbia.

D.  È vero, i problemi italiani in questi ultimi anni si so-


no aggravati. Ma non poco è dipeso dal mutare dei fattori
esterni. E comunque nella cosiddetta Seconda Repubblica
c’è stata alternanza tra centrosinistra e centrodestra: non le
pare semplicistico attribuire ogni responsabilità ai governi
presieduti da Berlusconi?

R.  Molti problemi certamente preesistevano a Berlusconi.


Avevamo un’economia con bassi ritmi di crescita e una crisi
democratica irrisolta già prima del suo ingresso in politica.
Berlusconi però nel 1994 si è presentato offrendo agli italia-
ni due soluzioni miracolistiche: la rivoluzione liberale come
chiave di una nuova ricchezza diffusa e il presidenzialismo
come risposta a una democrazia non decidente. Alla prova
dei fatti invece ha fallito su entrambi i fronti, in particolare
nel decennio segnato dai suoi governi. E queste illusioni
hanno appesantito i nostri ritardi strutturali. Il mercato glo-
bale ha frustato l’Europa, ma l’Italia si è allontanata dai Pae-
si più vicini e la torsione leaderistica impressa alle istituzioni
ha ridotto, anziché aumentare, la stessa capacità di gover-
no. Spero che verrà presto il tempo per analizzare in modo
più accurato gli ultimi vent’anni ma rifiuto assolutamente
di mettere sullo stesso piano l’azione dei governi di cen-
trosinistra con quella degli esecutivi guidati da Berlusconi.
Il centrosinistra ha commesso errori e ha avuto insuccessi,
ma ha dato all’Italia quel risanamento indispensabile ne-
gli anni Novanta che ha consentito l’aggancio all’euro. Si è
trattato di un traguardo storico, ritenuto possibile da pochi
osservatori: anche alla luce dell’attuale crisi economica co-

­190
sa sarebbe questo Paese fuori dall’Europa? E cosa sarebbe
senza tutte quelle riforme che accompagnarono la stagione
dell’euro, liberalizzazioni comprese?

D.  Negli anni Novanta Berlusconi è rimasto a Palazzo


Chigi meno di nove mesi. Nel primo decennio del Duemila
ha governato otto anni. Sta suggerendo una lettura in termi-
ni di contrapposizione tra questi due periodi, come in fondo
lo furono anche gli anni Settanta e Ottanta?

R.  Ho già detto che non tutto può essere attribuito all’ul-
timo decennio, ma ribadisco che nell’ultimo decennio c’è
stata una micidiale accelerazione del nostro scivolamento.
Si tratta di dati scioccanti che vengono totalmente ­rimossi e
che spingono l’Italia dalle aree più forti a quelle più debo­li
dell’Europa. Nel 2000 la quota della popolazione italiana
relativamente povera, cioè con un reddito inferiore del 75%
della media Ue, era pari al 22%. Mantenendo il confronto
con gli stessi Paesi oggi la quota è salita al 29%. Nello stesso
periodo gli italiani relativamente ricchi, con redditi superio-
ri al 125% della media Ue, sono calati dal 57% al 25%.
Vuol dire, nel concreto, che il nostro Sud si è allontanato dal
Nord, ma allo stesso tempo il nostro Nord si è allontanato
dall’Europa. Se si prende come parametro la produzione
industriale del 2005, oggi quella dell’Italia è scesa all’86%
della produzione di allora, a fronte di una Germania al
98,3% e di una media Ue del 95,4%. Il tasso di occupazione
giovanile è in Italia molto più basso che nel resto d’Europa
(20,5% a fine 2010 contro il 38,1%) ed è addirittura in di-
minuzione. Siamo in coda alle classifiche anche per l’occu-
pazione femminile, che da noi raggiunge il 45,8% rispetto a
una media europea del 59,6%. Le statistiche sui salari reali
mostrano una forbice crescente a nostro sfavore nei con-
fronti dell’Unione europea. Le ricchezze si concentrano su
fasce sempre più ridotte della popolazione, ma ciò non ha
riscontri in termini di prelievo fiscale: secondo un’analisi del-
la Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie dal 1993 al 2006,
­191
l’incidenza delle persone a basso reddito per classe sociale
aumenta dal 27 al 31% per gli operai, mentre diminuisce
di 11 punti per i lavoratori indipendenti, tuttavia la quota
di Irpef pagata dai lavoratori dipendenti è balzata dal 52 al
56%. Va detto ancora che negli ultimi tre anni siamo passati
dal 104 al 118% di debito pubblico sul Pil senza aver dovuto
salvare alcuna banca. In Europa abbiamo il triste primato
dell’abbandono scolastico. E anche lo scenario demografico
è assai preoccupante: il numero medio di figli per donna è
stimato intorno a 1,4. Se queste tendenze restassero invariate
avremmo problemi molto seri sul piano sociale, economico,
previdenziale: l’età media della popolazione nel 2051 passe-
rebbe dagli attuali 42,8 anni a 49,2; l’indice di vecchiaia au-
menterebbe da 142 anziani (oltre 65 anni) ogni 100 giovani
(sotto i 14 anni) a 256; la popolazione in età lavorativa (15
anni-64 anni) si ridurrebbe dagli attuali 39,7 a 33,4 milioni.
Sono forse problemi da poco? Non siamo forse a una vera
emergenza? E per uscirne non ci vorrà almeno un decennio
di politiche nuove?

D.  Taluni sostengono, in polemica con il centrosinistra,


che i cattivi numeri del primo decennio del nuovo secolo
sono anche la conseguenza delle mancate scelte dei governi
degli anni Novanta, i quali hanno goduto di un ciclo econo-
mico positivo e a questo devono le loro migliori performan-
ce. Lei cosa risponde?

R.  Che negli anni Novanta sono state fatte le ultime rifor-
me strutturali. Basti pensare a quella sulle pensioni, su cui
ancora poggia l’equilibrio di finanza pubblica. Ma com-
prendo l’imbarazzo di chi deve tentare improbabili difese
d’ufficio dei governi di Berlusconi. La realtà, purtroppo
drammatica, è che nell’ultimo decennio a indicare il grave
pericolo che corre l’Italia non sono solo i dati numerici,
ma anche le performance immateriali. Sono cresciuti ad
esempio i fattori di dissociazione del tessuto nazionale.
L’illusoria filosofia del laisser faire, che la politica di Berlu-

­192
sconi ha incoraggiato fin quasi a farne una bandiera, è di-
ventata nel corso della crisi una sorta di «si salvi chi può»,
che ripropone nei fatti la legge del più forte. Così, mentre
stiamo celebrando i 150 anni della nostra storia, l’Italia si
trova intimamente più divisa, e dunque più debole nella
capacità di reagire alle difficoltà: si sono attenuati i legami
tra i territori, si è ampliato il divario economico e sociale,
si assiste a crescenti ripiegamenti corporativi e a lacera-
zioni del tessuto sociale, mentre anche dal punto di vista
culturale rischia di aprirsi un fossato sempre più profondo
tra Nord e Sud e, intanto, si indebolisce lo spirito civico di
tutta la nazione. La stagione berlusconiana non ha arginato
questo corso, anzi ha pensato di avvantaggiarsi favorendo
la piena. L’accentuarsi dell’evasione fiscale è anch’esso un
indicatore civico, culturale, non solo rilevante ai fini della
finanza pubblica. L’Italia può farcela solo se riscopre la
sua dimensione di comunità e la capacità di fare sistema e
di produrre nuova cultura della coesione. Non possiamo
permettere, dopo il fallimento del «ghe pensi mì» di Ber-
lusconi, che il «si salvi chi può» corroda e consumi anche
le chances di riscossa. Non possiamo consentire che, assu-
mendo il quadro di dissociazione come definitivo, energie
civiche positive vengano dirottate verso una contrapposi-
zione tra politica e società civile. Compito dei ricostruttori
è favorire una nuova coesione nazionale e democratica.
Le energie morali e civiche della società sono senz’altro
il carburante indispensabile, ma solo con una rinnovata
vitalità democratica dei partiti e con un ammodernamento
delle istituzioni, capace di attualizzare lo spirito della Co-
stituzione, questo carburante può attivare il motore e far
muovere la macchina che necessita di entrambi. La politi-
ca deve liberarsi della camicia di forza del populismo, che
ha piegato le istituzioni, perché questa è la condizione per
collegarsi a un risveglio civico, morale, legalitario. Come si
vede, torniamo alle strutture portanti del nostro progetto:
riforma repubblicana e nuovo patto sociale per il lavoro e
per la crescita.
­193
D.  Non le pare che le condizioni prioritarie e ineludibili di
qualunque progetto per il Paese siano, da un lato, il recupero
di competitività, e, dall’altro, l’alleggerimento della zavorra
del debito pubblico?

R.  Competitività e abbattimento del debito sono parame-


tri fondamentali dell’Agenda per l’Italia del 2020. Nessun
progetto potrà farne a meno. Un programma di riforme ci
potrà dare competitività e crescita: ne deriverà una ridu-
zione del debito se sapremo accompagnare tutto questo
con un controllo rigoroso e duraturo della spesa corrente
e con una nuova fedeltà fiscale. Dovremo inoltre rafforzare
i fattori di coesione, e tra essi il più importante di tutti:
l’equità sociale. Per una lunga stagione, potremmo dire
dagli anni Ottanta in poi, si è progressivamente affermata
l’idea in base alla quale la disuguaglianza è in fin dei conti
un fattore positivo di competitività. Ora questo paradigma
culturale va capovolto. La condizione di crescita e di svi-
luppo è la riduzione della forbice della disuguaglianza. Lo
è in via diretta perché aumenta le potenzialità di consumo.
Ma ancora di più lo è in via indiretta perché può favorire la
percezione del bene comune. Si discute su quale sia l’indice
che meglio possa registrare nel prossimo futuro la crescita
sociale: il Pil o la produttività oppure il reddito pro-capite.
Suggerisco piuttosto di scegliere come indicatore-guida nel
prossimo decennio il tasso di occupazione. Si tratta di un
indicatore trainante anzitutto dell’occupazione femminile
e giovanile, i cui dati oggi sono tra i peggiori d’Europa.
Dobbiamo rimontare e fissare un grande traguardo per il
Paese: 70% di occupazione tra i 20 e i 65 anni entro il 2020.
Un traguardo raggiungibile solo creando nuovo lavoro per
le donne e nel Sud. E non ci possono essere dubbi sul fatto
che si tratti di un obiettivo generale perché, se aumenterà
l’occupazione, vuol dire che avremo risolto i problemi di
crescita, di produttività e anche di risanamento della finan-
za pubblica. È ciò che dobbiamo alle nuove generazioni,
ragione vera e speranza del progetto per l’Italia.

­194
D.  Oggi l’Italia, però, non è un Paese favorevole ai gio-
vani: ne abbiamo parlato nel corso dell’intervista. E la
demografia non aiuta neppure la politica. Se invecchiano i
cittadini-elettori, i partiti inevitabilmente sono portati ad
adeguare messaggi e proposte ai sentimenti medi di chi vota.
Come rompere questa spirale?
R.  La politica deve essere più giovane della demografia
degli italiani e deve riuscire a sfidarla. O siamo capaci di
pensare il futuro e di metterlo fin d’ora al centro delle nostre
scelte, oppure il futuro ci punirà. L’Italia dispone di grandi
risorse sociali, imprenditoriali, civiche. Ma la riscossa non
può che avere le nuove generazioni come driver. E anche
simbolicamente l’impegno per dimezzare la disoccupazio-
ne giovanile, oggi sempre più vicina al 30%, va integrato
all’obiettivo-guida della crescita del lavoro nel decennio. Se
questa è la riforma delle riforme, vuol dire nel concreto che
la politica fiscale deve aiutare in misura maggiore le famiglie
con figli; che la politica della casa deve preoccuparsi di am-
pliare e calmierare il mercato degli affitti; che gli incentivi
alle imprese devono premiare chi assume giovani ricercato-
ri; che le politiche del lavoro devono far costare i contratti
a tempo indeterminato meno di quelli a tempo determina-
to e che la flessibilità non può toccare solo ai giovani; che
il welfare pensionistico, mentre innalza l’età pensionabile,
deve preoccuparsi di aumentare i rendimenti per chi oggi
è giovane e vive condizioni di precarietà; che le politiche
scolastiche devono innalzare l’età dell’obbligo e accorciare
i cicli di studio; che la riforma universitaria deve fissare a
65 anni la pensione per i professori ordinari. Ecco, questo
è un telaio programmatico coerente con un progetto di alto
profilo per l’Italia del 2020. Un telaio all’interno del quale
andrebbero poi inseriti altri criteri qualificanti.
D.  Ci può indicare qualcuno di questi criteri?
R.  Penso a quattro criteri-guida in grado di definire le ri-
forme sociali e liberali di cui l’Italia ha assoluto bisogno. Il
­195
primo: la produttività e la competitività vanno incrementa-
ti a livello di sistema. Lo sforzo non può essere chiesto solo
all’operaio della catena di montaggio, al piccolo imprendi-
tore o al giovane che cerca di entrare nel mondo del lavoro.
Bisogna disturbarci un po’ tutti e deve disturbarsi un po’
di più chi fino a oggi è stato al riparo. Il secondo: stabilità e
crescita devono darsi la mano. Se non c’è un po’ di crescita
non potrà esserci nemmeno stabilità. Ciò non vuol dire ve-
nir meno al rigore ma accompagnarlo con meccanismi che
sollecitino investimenti e occupazione. Il terzo criterio: bi-
sogna continuamente promuovere politiche per ridurre le
disuguaglianze. Ci hanno accusato, senza motivo, di voler
introdurre la patrimoniale quando invece è stato il gover-
no Berlusconi a incrementare le tasse sugli immobili delle
imprese nel decreto sul federalismo municipale. Il cuore
della nostra proposta fiscale sta invece in una redistribuzio-
ne dei pesi tra rendita e lavoro: 20% per la prima aliquota
Irpef, 20% per i redditi da impresa e da lavoro autonomo e
professionale, 20% per le rendite finanziarie (esclusi i titoli
di Stato). E in una lotta seria all’evasione fiscale. Il quarto
criterio: la sussidiarietà tra Stato, privato sociale e mercato
è un principio fondamentale, ma lo Stato non può trasfor-
marlo in un alibi per scaricare i suoi compiti. Il motto non
può essere «più società meno Stato»: Stato e società invece
devono camminare insieme sulla strada dell’innovazione e
delle riforme.

D.  Sempreché queste politiche riescano davvero ad aumen-


tare le opportunità delle giovani generazioni, resta aperta la
questione di una loro maggiore partecipazione e incidenza
nella vita sociale e negli indirizzi della politica. Quale mes-
saggio si sente di trasmettere ai più giovani?

R.  Che bisogna guardare al futuro alzando la testa. Che


si può avere più fiducia di quanto ne esprimano oggi le
generazioni più adulte. Che la politica si può cambiare e
non è vero che è immutabile. Ma se non la fai tu, la politica

­196
te la fanno gli altri. Noi non vogliamo stare con chi tiene
le porte chiuse, ma con chi bussa per entrare. I riformi-
sti nei governi e nelle istituzioni devono fare la loro parte
chiedendo a tutti di scomodarsi un po’ per dare ai giovani
più libertà, più opportunità, più conoscenze. Ma anche i
giovani sono chiamati a un loro impegno e a pronunciare,
nei modi originali che sceglieranno, i loro sì e i loro no, e
a dire «noi» e non solo «io».

D.  Con quali alleanze politiche pensa di portare avanti


questo progetto? Alle prossime elezioni il Pd cercherà di
comporre una coalizione di centrosinistra con l’Italia dei Va-
lori e Sinistra e Libertà oppure lancerà un appello a tutte le
opposizioni, e dunque anche al cosiddetto Terzo Polo?

R.  Se questo è il compito che il Paese ha di fronte, se


questa è la riscossa necessaria per risalire la china e arriva-
re al 2020 offrendo un futuro ai giovani, il messaggio più
coerente che il Pd possa lanciare è l’unità delle forze della
ricostruzione. Non si tratta di evocare una consociazione
di carattere difensivo. Al contrario, si tratta di chiamare
alla responsabilità tutti coloro che vogliono ridare all’Italia
una piattaforma europea condivisa. Sono un sostenitore
del bipolarismo e della democrazia dell’alternanza ma ciò
non può significare, particolarmente in una situazione di
emergenza, una riduzione pregiudiziale dell’ampiezza del
nostro schieramento. Da noi il populismo berlusconiano
rende impossibile larghe coalizioni per riscrivere insieme le
regole del gioco e per definire obiettivi condivisi di stabilità
economica e di crescita sociale. Il berlusconismo ha biso-
gno del nemico: sia esso l’avversario politico, il magistrato
o lo straniero. Non è vero che Berlusconi è il presidio del
bipolarismo e dell’alternanza. È esattamente il contrario:
per lui l’alternanza può essere solo o un imbroglio eletto-
rale o un complotto dei magistrati. Il Pd ha proposto più
volte, con insistenza, una soluzione sul «modello Ciampi»
del ’93. Ma Berlusconi non la accetta. E allora per andare
­197
oltre Berlusconi bisognerà passare attraverso le griglie di
questa legge elettorale di dubbia costituzionalità, presen-
tando chiaramente ai cittadini italiani l’unità delle forze
della ricostruzione, un’alleanza costituzionale e repubbli-
cana. Un’impresa comune di forze anche strategicamente
diverse e di differente ispirazione politico-culturale, che
però intendono frenare il processo di frammentazione e
rilanciare insieme democrazia, istituzioni, società e valori
civici perché hanno a cuore l’Italia.

D.  Questa è la proposta del Pd. Ma non è detto che il Terzo


Polo la accetti. Perché Casini e Fini non dovrebbero presen-
tarsi alle elezioni da soli, viste anche le particolari propensioni
del loro elettorato che confina con quello di Berlusconi?

R.  Parliamo di un Terzo Polo che in realtà deve a­ ncora


definirsi. Noi ovviamente non siamo interessati al pur no-
bile obiettivo di una riorganizzazione del centrodestra. Sia-
mo interessati ad un incontro con forze di centro che guar-
dano oltre Berlusconi. Inoltre qui purtroppo non si tratta
di un’alternanza in un sistema che funziona. Non stiamo
discutendo di una competizione tra programmi economici
in un contesto consolidato di sicurezza nazio­nale. La posta
in gioco è il funzionamento delle istituzioni democratiche
e il patto fondamentale in campo economico e sociale su
terreni fondativi come la fiscalità e le relazioni sociali. Per
questo è necessario all’Italia un impegno comune dei mo-
derati e dei progressisti. Sarebbe una drammatica illusione
da parte di un Terzo Polo pensare di condizionare Berlu-
sconi, nel caso questi riuscisse a conquistare il premio di
maggioranza alla Camera. In ogni caso, c’è un punto sem-
plice che dovrebbe essere meglio compreso: il problema
non è pronosticare quel che faranno gli altri, ma è afferma-
re quel che proponiamo noi. Sono i cittadini elettori, alla
fine, che giudicano la proposta di un partito. Anche se un
Terzo Polo decidesse di andare da solo alle elezioni, e mi
auguro che non lo faccia, noi continueremo a dire, prima e

­198
dopo le elezioni, che al Paese serve l’unità delle forze della
ricostruzione. E il Pd sarà comunque pronto a favorirla il
giorno in cui vincerà le elezioni.

D.  Potrebbero porre un veto i vostri alleati del centrosi-


nistra. Peraltro Nichi Vendola ha già lanciato la sfida delle
primarie per contendere al Pd la leadership. E Antonio Di
Pietro non intende essere marginalizzato. Che messaggio
manda loro?

R.  Per tutti abbiamo la stessa parola. Ci muove un’acuta


percezione della crisi italiana. Da quando sono stato eletto
segretario parlo di un’alleanza democratica, che deve pro-
muovere una stagione costituente. Dopo resistenze e so-
spetti, mi pare che molti si stiano convincendo che questa
è la strada da intraprendere. Il Pd intende porsi al servizio
del Paese. E ovviamente la mia speranza è che l’intero cen-
trosinistra faccia altrettanto. La nostra proposta è inclusiva,
non nasce per chiudere le porte a qualcuno. Con una con-
dizione. L’Unione del 2006 non può riproporsi in alcuna
veste: l’ho già detto e lo ripeto. I fatti l’hanno bocciata per
sempre. Un governo può nascere solo su una solida base
di condivisione progettuale. E su un’assunzione di respon-
sabilità. Per questo, nel quadro di una auspicata unità del-
le forze della ricostruzione, ho proposto di lavorare a un
Nuovo Ulivo alle forze di centrosinistra disposte ad assu-
mersi la responsabilità di governo. Si tratta di intensificare
un confronto e di stabilire reciprocamente alcune regole
comuni per dare coesione e stabilità al patto politico, che
deve garantire un’intera legislatura. Quanto alle primarie, è
davvero singolare che si tiri per la giacca l’unico segretario
di partito eletto con le primarie in Italia e in Europa. Le
primarie restano uno strumento che nella normalità posso-
no favorire scelte largamente partecipate dagli elettori del
centrosinistra. Ma non si può mettere lo strumento prima
della politica necessaria al Paese. Dalle scelte che noi fare-
mo oggi dipenderà il prossimo decennio. Sarebbe una re-
­199
sponsabilità gravissima anteporre un vantaggio personale
o di partito al bene comune. Oggi ci è chiesto anzitutto il
coraggio e la determinazione nell’aprire una via nuova.
D.  Lo statuto del Pd indica nel segretario nazionale il can-
didato premier, o comunque il solo candidato del partito in
primarie di coalizione. Per le prossime elezioni lei si sen-
te in corsa come sfidante di Berlusconi alla presidenza del
Consiglio anche nel caso di un’alleanza più ampia del cen-
trosinistra oppure l’unità da lei auspicata delle «forze della
ricostruzione» conduce a un candidato diverso, magari un
esterno alle attuali leadership di partito?
R.  Non mi sono mai tirato indietro in tutta la mia vita
politica davanti alle responsabilità. Ma non ho mai messo
la mia persona davanti ai progetti che ritenevo importanti.
Verrà il momento per decidere insieme a quanti saranno
con noi – con le primarie o senza – chi sarà il candidato-
premier nella competizione elettorale. La mia più grande
aspirazione è che il Paese inverta la rotta, che i giovani
ritrovino lo spazio per costruire il loro futuro, che nel-
la nostra Italia ci sia un po’ più di giustizia, di civismo,
di solidarietà. E che in questo percorso il Pd si consolidi
come partito nuovo e come propulsore del cambiamen-
to. Questo è il mio impegno. Dobbiamo voltare pagina.
Dobbiamo coinvolgere, come nei momenti migliori della
nostra storia, le forze più responsabili e assieme a loro pro-
muovere un risveglio italiano.

­
Gli autori

Pier Luigi Bersani, tra i protagonisti della nascita del Par-


tito democratico, ne è stato eletto segretario nazionale nel
novembre 2009 dopo essere stato scelto dalla maggioranza
degli iscritti e avere vinto le primarie con oltre un milione
e mezzo di voti. Presidente della Regione Emilia-Romagna
negli anni 1993-1996, nel 1995 è stato rieletto alla testa di
una lista di centrosinistra denominata «Progetto Democra-
tico» che ha anticipato la stagione dell’Ulivo. Come mini-
stro dell’Industria nei governi Prodi e D’Alema (dal 1996
al 1999) ha varato la riforma del commercio e liberalizzato
il mercato elettrico. È stato poi ministro dei Trasporti nei
governi D’Alema e Amato (1999-2001), dove ha liberaliz-
zato le ferrovie, e successivamente ministro dello Sviluppo
economico nel secondo governo Prodi dal 2006 al 2008. In
questo ruolo ha promosso il decreto sulle liberalizzazioni
per rendere più dinamico il mercato, tutelare i consumatori,
facilitare la lotta all’evasione fiscale e aumentare la concor-
renza. Nel 2001 è stato eletto per la prima volta deputato e
dal 2004 al 2006 è stato parlamentare europeo.

Miguel Gotor insegna Storia moderna presso l’Università


di Torino.

Claudio Sardo è giornalista politico del quotidiano «Il


Messaggero».
­201
Indice

Prologo
Un sogno con le gambe per camminare 3

I. La democrazia è libertà
e uguaglianza 11

II. Quel tanto di anarchico che è in me 25

III. Liberare l’Italia dalla gabbia populista 40

IV. L’Europa che vogliamo 57

V. Un partito nuovo
radicato in una lunga storia 74

VI. Ambiente e crescita mai più divisi 88

VII. La scommessa industriale made in Italy 104

VIII. Gli insegnanti eroi moderni 119

IX. La questione morale


al tempo delle cricche 133

X. Credenti e non credenti


per un umanesimo condiviso 150

­203
XI. La scienza, la vita e i limiti
della politica 163

XII. Il partito democratico


e la sfida riformista 175

Conclusione
Unire le forze della ricostruzione 189

Gli autori 201

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