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Pier Luigi Bersani
Editori Laterza
© 2011, Gius. Laterza & Figli
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è la capacità di restituire una visione in grado di incarnarsi
in un progetto.
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offre maggiore sicurezza nel coordinare le attività di tut-
ti. C’è sempre un’azione collettiva che dà senso e ragione
a una leadership, che altrimenti rimane un guscio vuoto.
Certo, c’è anche la fascinazione. Ma da sola è ingannevole
e lascia poco a chi viene dopo. La concezione della lea-
dership e del ruolo del leader è però un problema politico
serio: al tempo stesso una questione istituzionale e cultu-
rale. Secondo Max Weber, che si occupò del tema, quella
fascinazione, propria di alcuni capi politici dotati di buone
capacità retoriche e di una forza di trascinamento, si lega
spesso a una condizione di fragilità, di transitorietà e di in-
stabilità. Non si può negare che oggi chi riveste un ruolo di
vertice abbia responsabilità maggiori che nel passato, vi-
sti i ritmi sempre più veloci della comunicazione politica,
ma al tempo stesso non bisogna rinunciare a collegare la
leadership alla solidità di un’impresa collettiva. È questa,
credo, la sfida che abbiamo di fronte: non limitare o nega-
re la modernità della leadership, ma ricondurre il leader
pro tempore alla maturazione politica di una comunità. Del
resto, carisma è una parola che indica originariamente un
dono di Dio a una persona. Chi se lo attribuisce come cosa
propria, non è carismatico ma presuntuoso.
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parlare chiaro e di farmi capire. Certo, «pettinare le bam-
bole» potrei dirlo anche in latino ma desidero che la vo-
ce del mio partito sia pienamente compresa anche in una
nuova dimensione popolare, che non è affatto di per sé
una dimensione di incultura. Il modernissimo problema di
ogni partito progressista è quello di non essere percepito
in modo elitario, giacobino e iper-razionale, senza per que-
sto diventare populista o vacuamente retorico. Nell’uno e
nell’altro caso c’è una punta di disprezzo che la gente per-
cepisce. Se vuoi essere un partito popolare, la gente deve
piacerti davvero. Stanno in questo fondamentalmente il
messaggio e l’emozione che devi trasmettere.
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tà e la cultura. Ma è sbagliato pensare che possano rappre-
sentare da soli la soluzione agli affanni della democrazia
nel nostro tempo. Bisogna evitare di confondere l’infor-
mazione con la conoscenza fino a sovrapporre i due ambi-
ti. Internet, ad esempio, è senz’altro un’immensa risorsa,
che offre opportunità straordinarie e con un potenziale
ancora in parte inesplorato. Ritengo, però, che sia ingenua
l’idea di affidare la soluzione della crisi della democrazia
rappresentativa agli strumenti della comunicazione e della
globalizzazione informatica. Il grave rischio è di costruire
una democrazia senza partecipazione. Il cittadino, nella
sua solitudine di utente, non riesce sempre a decodificare
le informazioni e a trasformarle in vera conoscenza. Se le
informazioni restano nelle mani di pochi, rischia di affer-
marsi una democrazia «che si affida a dei custodi», come
dice Giovanni Sartori. Ma affidarsi non è partecipare. Se
è vero che anche la democrazia ateniese non era al riparo
dalla demagogia dei capi-popolo, oggi però non può sfug-
gire che è la stessa tecnologia a concedere, da un lato, una
libertà e a esercitare, dall’altro, un controllo. Questo non
significa che non si possa sperimentare una democrazia
della rete, ma è nevralgico ridurre l’asimmetria di cono-
scenze. Forse i partiti, in quanto associazioni volontarie,
potrebbero diventare un laboratorio per mettere alla pro-
va forme di democrazia informatica, tenendo così al riparo
le istituzioni dal rischio di deformazioni non meno gravi
di quelle attuali.
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teressi possono anche entrare in contraddizione. Io voglio
un Pd radicato nel lavoro, perché nel lavoro c’è tanto della
vita dell’uomo e perché il lavoro diventa il valore numero
uno quando ti manca. Tuttavia so bene che una persona
non si riduce al lavoro. Gli interessi pesano, però non sono
la sola molla dell’agire umano. Ci sono valori profondi,
che motivano i nostri comportamenti nella società e che si
ispirano a scelte di valore antropologico. Un partito mo-
derno deve riuscire a stare dentro questa complessità. Se
il Pd non tornasse a radicarsi negli interessi perderebbe
gravità e forse non sarebbe più capace di dare una spina
dorsale al suo programma. Ma il suo progetto deve tenere
in equilibrio la composizione degli interessi con un’idea di
società. Perché non ci può essere una politica senza un’an-
tropologia, senza un’idea, una discussione sull’uomo, e
senza una visione del mondo e della società.
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D. Non le pare che la questione democratica così posta
non sia più risolvibile in un solo Paese, e forse neppure in
un solo continente?
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Costituzione. Ma il concetto di cittadinanza non ha ormai
superato per universalismo quello di lavoratore?
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ni, figli di immigrati nati in Italia, non possano essere per
questo cittadini italiani al pari dei loro coetanei con cui
giocano e vanno a scuola. Certo, le contraddizioni della
realtà pulsano anche sotto i bei discorsi. L’equilibrio va
trovato nelle regole, perché senza il rispetto di regole certe
si dà alimento e benzina a reazioni incontrollate e irrifles-
se. Diritti e doveri, dunque. E una distribuzione equa, sul
piano sociale, dei disagi che inevitabilmente vengono dai
fenomeni di immigrazione.
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anche più conveniente, del modello egoista. Un’associazio-
ne, infine, che ha radici negli interessi reali, che rappresen-
ta parti significative del lavoro e della produzione, e che
spinge per allargare gli orizzonti della cittadinanza e dello
sviluppo, consapevole che più si amplia la base dell’econo-
mia reale minori diventano i rischi delle bolle speculative e
delle crisi, cioè delle mannaie che si abbattono periodica-
mente sulle classi più povere e sui ceti medi.
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R. Il liceo Melchiorre Gioia è stato per me, insieme con
la famiglia e con la parrocchia, l’altra grande agenzia for-
mativa. Per andare a Piacenza con la corriera mi alzavo alle
6 e 20. Avevo professori molto preparati, per lo più con-
servatori. Con i miei compagni crescevo, sentivo la radio,
ascoltavo la musica. Al primo impatto scoprii di conoscere
meglio di loro la metrica ma di non sapere bene come fun-
zionavano i semafori, che a Bettola non c’erano. Eppure
non fu scontato l’approdo in quella scuola. Al paese i licea‑
li erano uno o due e fu la preside delle medie a convincere
i miei. A casa i soldi per studiare c’erano, ma mio padre
aveva l’ansia del lavoro e pensava che l’istituto tecnico gli
avrebbe restituito in poco tempo due figli capaci di rileva-
re l’officina. Mia madre però si impose e mio fratello aprì
la strada del liceo classico. Poi è diventato medico chirur-
go, vincendo il concorso in Lombardia. Avrebbe potuto
trasferirsi in seguito in Emilia Romagna, ma non ha mai
fatto domanda per non creare problemi a me che intanto
ero diventato amministratore regionale.
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diventato ministro, Fabrizio De Andrè venne a Piacenza
per un concerto e lo incontrai. Mi disse: «Ti ho visto in Tv,
mi piaci perché non sembri uno che gliene importa molto».
Gli risposi: «Quel tanto di anarchico che è in me, lo devo
alle tue canzoni». Ancora adesso, quando qualcuno mi dà
del burocrate, lo lascio dire e mi faccio due risate tra me
e me. A Bologna fui uno dei fondatori di «Avanguardia
operaia»: promuovevo incontri, facevo il portavoce, distri-
buivo volantini. Contestavo il Pci da sinistra ma quell’im-
pianto strutturalmente minoritario mi lasciava un senso di
impotenza. Nel ’72 maturai un cambiamento. Era arrivato
il tempo di decidere: se la politica era una cosa seria, allora
bisognava farla seriamente, insieme agli altri, mettendo in
conto le diversità di opinione, ma partecipando a una for-
za capace di incidere davvero. Fare sul serio, voleva dire
anche fare il Pci a Bettola. Quando andai dal segretario
di sezione, un muratore appunto, a chiedergli la tessera,
mi rispose che l’aveva già fatta da un anno a mia insaputa.
L’iscrizione al Pci mi costò rapporti più tesi in casa. Nel
’74 mi presi la prima, vera soddisfazione a Bettola: anche
lì il risultato del referendum sul divorzio registrò una lar-
ga propensione dell’elettorato cattolico verso il No. Per il
servizio militare, però, fui spedito a Macomer, provincia di
Nuoro: destinazione punitiva, credo, su segnalazione del
maresciallo dei carabinieri del paese.
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di Albert Camus: «Non credo, ma considero l’irreligiosità
la più grande forma di volgarità».
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motivato con ragioni strettamente personali. Poi, due anni
più tardi, fu lui stesso a propormi per il consiglio regiona-
le. Non facevo parte di cordate, ma bisognava pure dare
una mano a una piccola federazione come Piacenza.
D. Ci sono libri o film che, nella sua formazione, hanno se-
gnato momenti di svolta o comunque passaggi importanti?
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te insegnato che non basta il pragmatismo per governare.
Anzi, che il carburante per governare sono le intenzioni,
i valori, le idee che si vogliono tradurre nei fatti. Senza
questa benzina, non c’è autonomia e coraggio per fare le
cose e si resta in balia di altre forze.
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mi disse. «Questo è un giudizio che lascio a te» risposi.
Non so se Prodi abbia spinto sul mio nome, oppure si sia
limitato ad attendere che il Pds lo proponesse. Sono sicuro
però che, tra i possibili candidati emiliano-romagnoli, ero
il preferito di Prodi. Con lui avevo un rapporto di stima e
simpatia. Anche di lavoro: mi diede ad esempio delle idee
quando si trattò di cancellare decine di enti regionali. Ma
con Romano, fino al ’96, mi ero trovato a ragionare più di
società che di politica.
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a cambiare le cose rassicurando, a promuovere passaggi
cruciali, anche destabilizzando, senza indurre ansie. Oltre
questi personaggi, una figura ideale che mi ha sempre affa-
scinato è quella del capo-lega operaio o contadino di fine
Ottocento. Erano uomini forti che andavano nelle stalle a
parlare con gli analfabeti: costruttori del sociale con una
visione della politica nobile e una speranza per il futuro.
Fossimo capaci noi, nei nostri tempi, di far camminare la
storia come fecero loro!
III
LIBERARE L’ITALIA
DALLA GABBIA POPULISTA
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tentativo di uscire dall’involuzione e dal blocco di sistema
degli anni Ottanta e che certo produssero cambiamenti
nella configurazione e nelle regole della rappresentanza.
Se vogliamo davvero chiudere questa lunga stagione, è ne-
cessario comprendere le ragioni più profonde della crisi
della politica, perché cercare la soluzione solo in un mec-
canismo istituzionale o in un modello elettorale rischia di
essere illusorio.
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lontari: Berlinguer aveva appena finito di parlare davanti
a una folla sterminata, aveva detto che pochi «untorelli»
a Bologna non sarebbero bastati per far deragliare il Pci
dalla sua linea di responsabilità nazionale, ma un paio d’o-
re dopo un’altra folla gigantesca, in parte composta dalle
stesse persone che avevano applaudito Berlinguer, invase
l’arena per ascoltare il concerto di Edoardo Bennato con il
suo «sono solo canzonette» contro gli impresari di partito,
e in fondo contro gli stessi partiti. Ecco, quel sentimento,
che negli anni si è nutrito, da un lato, di autoreferenzialità
della politica, dall’altro di crescente sfiducia e distacco, ha
prodotto il nodo di una rappresentanza irrisolta che ha
progressivamente coinvolto sia i partiti che le istituzioni.
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R. Fu giusto scandagliare, provarci. Del resto la Bicame-
rale per le riforme era il primo punto del programma elet-
torale con cui l’Ulivo vinse le elezioni del ’96. E la ricerca
di riforme condivise sta nella nostra cultura costituzionale.
Probabilmente se il compromesso della Bicamerale fosse
stato confermato dal Parlamento, oggi vivremmo un diver-
so rapporto tra istituzioni e società, tra politica e partiti:
la riforma da sola non basta a ripristinare una relazione di
fiducia tra i cittadini e la politica, ma se i partiti non sono
neppure capaci di mettere ordine e ritrovare un equilibrio
tra i poteri, allora l’impresa si fa quasi impossibile. Invece
Berlusconi decise di far saltare tutto. E lo fece, non a caso,
sul tema della giustizia. Dopo aver cavalcato Mani Pulite
con piglio giustizialista, quando finì lui stesso al centro di
inchieste con accuse piuttosto pesanti, cominciò a colti-
vare l’idea che all’indubbio squilibrio esistente bisognas-
se rispondere con un drastico recupero del primato della
politica sulla giustizia. Si badi bene: la sua risposta non
era un nuovo equilibrio tra governo, Parlamento e potere
giudiziario, ma un diverso sbilanciamento, peraltro accen-
tuato dalle forzature leaderistiche e dalla distorsione del
concetto di sovranità attribuita in modo populistico diret-
tamente alla funzione di governo. Sono tendenze che, negli
anni 2000, hanno poi assunto curvature pericolose e che
ora producono continui e intollerabili conflitti istituzionali.
Ma già da allora, dal ’98 in poi, fu chiaro che Berlusconi
avrebbe puntato le sue carte non sulla riforma, bensì sull’a-
cuirsi della crisi. E da quel momento il precario equilibrio
post-referendario tra istanze di democrazia diretta e regole
della democrazia rappresentativa cominciò a saltare, a pie-
garsi verso esiti plebiscitari, a travolgere la divisione dei po-
teri. Se dunque fu giusto tentare nel ’97 con la Bicamerale
un accordo di sistema con il leader del maggiore partito
d’opposizione, ora non possiamo dimenticare quell’esito.
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D. Lei ritiene che sia stata la legge elettorale del 2006 la
principale leva che ha consentito a Berlusconi di piegare il
sistema verso un «presidenzialismo di fatto»?
D. Fatta la premessa, però, deve dirci qualcosa di più sui pro-
getti di riforma, dopo aver manifestato la sua preferenza per
una consistente quota di collegi uninominali-maggioritari.
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ad esempio bilanciato con una quota proporzionale che
assicuri la rappresentanza alle forze intermedie e renda co-
sì più mite e meno ingessato il nostro bipolarismo. In ogni
caso penso che una riforma elettorale oggi in Italia debba
prevedere anche un meccanismo di trasparenza, tale da
rendere esplicite le alleanze agli elettori prima del voto.
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l’elezione diretta dei sindaci, fermo restando il limite dei
due mandati, che può arrivare fino a tre per le realtà più
piccole. Le regioni esercitano invece un potere legislativo,
come quello del Parlamento nazionale. E il potere legisla-
tivo è enormemente cresciuto per quantità e qualità dopo
la riforma del titolo V della Costituzione. L’elezione diretta
del governatore ha anch’essa conquistato una certa popo-
larità, ma va detto onestamente che una forma di governo
presidenziale così rigida non si concilia con un’assemblea
chiamata a compiti di legislazione complessa. Siamo a un
bivio per il federalismo. Un fattore di equilibrio potrebbe
essere fornito da un vero Senato delle regioni. Tuttavia
penso che per il governo regionale sia meglio tornare alla
regola del ’95, quella dell’indicazione del presidente: se il
presidente si dimette, la sua maggioranza deve essere in
grado di eleggere un successore senza l’obbligo di tornare
alle urne. La continuità di una assemblea legislativa non
può essere affidata a una persona sola.
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D. La giustizia ha bisogno di riforme strutturali. Il mal
funzionamento della macchina giudiziaria, in campo penale
e ancora più in campo civile, è ormai un’emergenza del Pae-
se. Non pensa che anche il centrosinistra abbia le sue colpe,
non essendo riuscito spesso a distinguersi dal «partito dei
giudici»?
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però, sarebbe un errore affidare tutto alle norme e pen-
sare che queste, da sole, possano risolvere i problemi. La
necessaria legislazione anti-trust, per essere efficace, deve
poggiare su un pluralismo effettivo degli operatori, su una
libertà del mercato e una concorrenza maggiori di quelle
attuali. A questo devono essere orientate le politiche pub-
bliche. Ciò che concretamente ha consentito a Berlusconi
di resistere nel conflitto di interessi è stato assai più il duo-
polio televisivo che non la carenza di norme. Berlusconi ha
fatto di tutto per mantenere i caratteri monopolistici e da
quella posizione anche le leggi più severe sarebbero state
aggirabili, ad esempio trasferendo la proprietà ai figli o a
un fiduciario. La mia idea invece è quella di aggiungere
nuovi soggetti e dunque maggiori libertà e un principio di
autentica concorrenza nel settore delle telecomunicazioni.
Penso che il destino del centrosinistra italiano sia quello
di fare le liberalizzazioni che il centrodestra da noi si è
dimostrato strutturalmente incapace di fare.
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crisi economico-finanziaria dai cui effetti non ci liberere-
mo presto. Oggi molti concordano sull’analisi della crisi:
si è creato denaro senza un adeguato sviluppo dei mercati
interni; l’economia più forte, quella americana, è cresciuta
sul debito, finanziata in larga parte dalla Cina che accumu-
lava risorse con l’export, ma anche dai Paesi produttori di
petrolio che investivano in titoli i loro ricavi concentrati in
pochissime mani; si è pensato che invece di remunerare il
lavoro si potessero garantire con il debito privato i consumi
della classe media; l’autonomia della finanza ha inventato
moltiplicatori che hanno prodotto una gigantesca bolla
speculativa, convincendo i cittadini che persino il debito
privato potesse produrre ricchezza; la grande illusione è
stata infine completata dalla bassa inflazione, dovuta prin-
cipalmente a merci confezionate in Asia a costi ridottissimi.
Insomma, non c’erano più termometri per misurare la feb-
bre. Ma poi la febbre è esplosa lo stesso.
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R. Non ho negato le responsabilità delle forze progressi-
ste negli anni Novanta. Ma quelli di Tremonti mi sembra-
no giochi di parole per evitare il confronto con la realtà e
tentare semmai di rovesciarla. Il tempo del «mercatismo»
è stato soprattutto lo scorso decennio, dominato da un
lato dall’amministrazione del repubblicano George W.
Bush, dall’altro dai governi conservatori nella maggioran-
za dei Paesi europei. Queste forze sono riuscite, è vero,
a interpretare meglio le paure delle classi medie ma in-
tanto l’Europa ha perso drammaticamente terreno nella
competizione globale e la politica si è mostrata incapace
di regolare, persino soltanto di contenere lo strapotere di
una finanza che si concepiva ormai come la padrona del
mercato. Sia chiaro, non mi sfugge la differenza tra i partiti
conservatori classici, ancorati ai valori costituzionali e ai
fondamenti della cultura europea, e i fenomeni populisti
e regressivi che compaiono in varie lande del continente e
che mostrano di condizionare in qualche misura le destre
costituzionali. Comunque, le politiche conservatrici non
hanno graffiato. Il loro vantaggio competitivo è stato fin
qui nella risposta alla crisi, tutta interna alla dimensione
nazionale, mentre invece risulta sempre più evidente che
un progetto riformista non può limitarsi a un Paese solo.
I riformisti hanno bisogno di una scala più grande: questo
è il nostro problema. La crisi sta dimostrando a tutti che
la chiusura nazionale è un’illusione. Purtroppo, tornando
a Tremonti, la realtà dei fatti è che la «paura» riguarda i
poveri e le classi medie mentre la «speranza» è riservata ai
ricchi. E per cambiare queste cose bisogna incidere nelle
strutture, immettere dosi di uguale libertà e uguale dignità
negli ordinamenti e nello stesso mercato. Solo una crescita
equilibrata e regolata, questa è la sfida, può garantire an-
che una crescita più duratura.
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oggi è liberato da persistenti barriere. Finché le risposte
restano nazionali il rischio è che, nella competizione con
l’Asia, i Paesi europei continuino a essere schiaffeggiati
dalla parte del welfare e dei diritti del lavoro, aprendo altri
territori alla precarietà dei giovani e dunque all’instabili-
tà delle nostre società. Invece un’Europa più unita può
trasmettere una maggiore fiducia ai suoi cittadini, dando
vigore al suo mercato interno e sfruttando meglio le op-
portunità che l’apertura dei mercati e la crescita del Pil in
Asia offrono alle sue aziende, alle sue tecnologie, al suo
export. Fino a pochi anni fa gli Stati Uniti guardavano con
freddezza, anzi persino con qualche sospetto al processo
di integrazione dell’Europa: ora mi pare significativo che
pure la Casa Bianca abbia cambiato idea e manifesti un
tangibile bisogno di Europa. Come del resto la stessa Cina:
è il mondo che chiede al vecchio continente di tornare a
essere una locomotiva di sviluppo.
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guenze rilevanti nelle politiche di bilancio dei singoli Paesi.
Da questo punto di vista, dopo l’introduzione dell’euro, non
si può negare una progressiva cessione di sovranità da parte
dei singoli Stati. Non le pare che il problema resti l’Europa
politica che non va di pari passo con quella economica?
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cittadini. Senza nuovi poteri democratici, la sottrazione di
autorità ai governi nazionali favorisce la regressione a di-
mensioni subnazionali, a regionalismi, a localismi. Come è
noto, sono un grande sostenitore del ruolo delle regioni in
Europa. Ma qui non parliamo di sussidiarietà e della neces-
sità di un loro ruolo attivo nei processi decisionali. Parliamo
del rischio di ripiegamenti particolaristici, che, a loro vol-
ta, alimentano pulsioni populiste: e questo è esattamente il
rovescio della medaglia dell’Europa burocratica. C’è una
sorta di entropia della democrazia: la perdita di ruolo della
dimensione nazionale non si traduce in partecipazione col-
lettiva alla dimensione sovranazionale.
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minimi negli scambi di merci e servizi. Sono convinto che
il piano europeo per il lavoro finanziato con eurobond
possa diventare la bandiera di questa agenda: se l’Europa
riuscisse a intestarsi qualche azione importante contro la
crisi diventerebbe improvvisamente popolare presso i suoi
cittadini. La stessa tassazione delle speculazioni finanzia-
rie è proponibile su scala mondiale solo se a sostenerla è
un’istituzione del peso e della massa critica dell’Europa, in
grado peraltro di far rispettare la regola in un continente
che è anche un mercato di grandi qualità e quantità. Io
resto convinto che la tassa sulle transazioni speculative sia
non soltanto giusta, ma realizzabile. Nei miei incontri in-
ternazionali, anche negli Stati Uniti, non ho ancora sentito
nessuno che, in linea di principio, abbia contestato la vali-
dità tecnica della proposta di Vincenzo Visco: trasferire in
una bad company il surplus del debito pubblico mondiale
accumulato in questi mesi per salvare banche e/o pagare
ammortizzatori sociali; garantire i pagamenti attraverso la
tassa sulle attività speculative. Sarebbe questo il modo per
far pagare alla finanza il debito che ha provocato. Altri-
menti quel debito pubblico aggiuntivo che grava ora su
tutti i Paesi, sarà caricato ancora una volta sulle spalle dei
cittadini. E sarà pesantissimo: basti pensare che per assor-
birlo senza traumi le nostre economie dovrebbero crescere
del 4% per dieci anni consecutivi.
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dei Democratici a Strasburgo è certamente positiva. E noi
vogliamo continuarla con questo spirito perché va nella
giusta direzione.
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dividiamo le finalità. Ma ciò non significa che dobbiamo
rinunciare al discernimento e a una nostra visione delle
relazioni internazionali. La missione Unifil 2 in Libano è
stata un vanto dell’Italia: la sua ragione e la sua azione han-
no corrisposto pienamente ai principi costituzionali. La
missione in Afghanistan è stata necessaria, ma proprio il
nostro impegno all’interno della Nato deve consentirci ora
di dire francamente le cose che non vanno e di spingere
verso soluzioni politiche. La missione in Iraq invece è stata
un errore storico dell’amministrazione Bush che il gover-
no Berlusconi ha colpevolmente assecondato: se fossimo
stati noi al governo avremmo detto no come la Germania
e la Francia. Una politica di pace concreta: questo è il no-
stro orizzonte. E credo che l’Italia possa dare al mondo
anche un contributo specialistico sia nella cooperazione
allo sviluppo, sia nel ripristino della legalità e dell’ordine
pubblico in alcuni territori usciti dall’incubo della guerra.
Sono i settori dove i nostri volontari e i nostri carabinieri
costituiscono una riconosciuta eccellenza mondiale.
V
UN PARTITO NUOVO
RADICATO IN UNA LUNGA STORIA
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radici più profonde. Queste radici insegnano che, se parti
dagli ultimi, dai più deboli e sfortunati, sarai capace di
costruire una società migliore per tutti. Non classista, non
ribellista, ma in grado di essere solidale e aperta. Il Pd è
abbastanza antico per non essere solo nuovo, e troppo re-
cente per non avere nel futuro la sua vera sfida. La nostra
scommessa sta anche nel rinverdire una storia passata sen-
za imbarazzi o schemi mentali, una storia italiana, legata
alle origini della nostra identità nazionale e alle idee guida
di lavoro, giustizia e solidarietà.
R. Sono sempre stato assai critico con i cultori del «nuo-
vismo», anche perché quel che è nuovo veramente lo giu-
dicherà la storia. John Keynes diceva: «Non so cosa rende
l’uomo più conservatore: se conoscere solo il presente o
conoscere solo il passato», anche se poi giudicava i primi
più conservatori degli altri. Il nuovo è davanti a noi, ma
per affrontarlo bisogna essere nelle condizioni adatte. Co-
nosco la fatica del cambiamento, ma per cambiare devi
sapere chi sei e da dove vieni. Questi temi non riguardano
solo il centrosinistra, ma la politica nel suo insieme, che
per essere degna di essere vissuta deve muoversi dentro un
solco che segna una direzione. Se non percepisci di avere
qualcosa alle spalle – e non si tratta di una questione in-
tellettualistica, ma di un sentimento, di un’urgenza intima
– allora non stai facendo politica, ma carriera. La politica,
almeno io così l’ho sempre concepita, ha un elemento di
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gratuità e di generosità fondamentali e va fatta nella con-
sapevolezza di portare avanti ciò che ti è stato consegnato.
Io ho sempre rivendicato di essere stato un comunista ita-
liano e questa mia propensione a vedere nel Pd un tratto
popolare e un’aspirazione di carattere umanista potrebbe
dare di me l’idea di una personalità troppo continuista;
ma non è così, questa è un’interpretazione troppo super-
ficiale. Chi taglia i ponti con il proprio passato e si fa nuo-
vista, pensando di non avere niente dietro di sé, produce
una politica debole e incapace di affrontare i temi veri, ri-
schiando anche di mettersi al margine di culture e fermenti
rinnovatori che si muovono nella società. C’è una bella
differenza tra rinnovamento e nuovismo. Il Pd mi piace
proprio perché è uscito da una curvatura storicista che ha
caratterizzato la storia del Pci e perché, nello stesso tempo,
non si è arreso alle esperienze della socialdemocrazia e
ha cercato nuovi orizzonti: l’impronta costituzionale, una
prospettiva di solidarietà e di emancipazione di carattere
umanistico. In questo senso il Pd incarna l’idea che io ho
della politica.
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per me, invece, è lo strumento che serve a cambiare e a
migliorare le cose, le condizioni del lavoro, i diritti degli
uomini e delle donne. Per questo mi appassiona parlare sia
di radici che di orizzonti.
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o retorico, ma rappresentare un impegno a riprogettare
nelle condizioni nuove l’unità italiana, il vincolo e l’inten-
zione del nostro stare insieme.
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sul discredito della politica: ora siamo a un bivio, davanti
a noi c’è la deriva o la riscossa e ne avverto tutto il peso e
la conseguente responsabilità.
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D. Non pensa che ci sia stata nei confronti della cultura e
del linguaggio leghista una grave sottovalutazione, la quale
ha indotto a derubricare come caratteriali e folkloristiche
alcune prese di posizioni pubbliche, che invece hanno pesan-
temente inciso sul sentire comune?
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un immigrato devo essere in grado di creare un posto nuo-
vo per un povero italiano. E a fornire le risorse necessarie
dovrebbe essere anzitutto chi non è toccato direttamente
da questi disagi, e magari trae dall’immigrazione il maggior
beneficio.
D. Non trova che sia profondamente ingiusto che gli stra-
nieri che pagano le tasse in Italia non possano votare, nep-
pure a livello amministrativo?
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D. Quando la sinistra ha incrociato le battaglie ambienta-
liste spesso è prevalsa la politica dei «no»: no a produzioni
inquinanti e pericolose, no a infrastrutture importanti, no a
interventi sul territorio. Non teme che questi atteggiamenti,
peraltro causa non marginale della fine dell’ultimo governo
Prodi e dell’Unione, possano ripetersi?
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riconversione, di progetti-Paese. La separazione tra Svi-
luppo e Ambiente produce riflessi difensivi, che rallen-
tano l’azione: ne abbiamo avuto esperienza nel governo
dell’Unione. Dobbiamo andare oltre e compiere una scel-
ta di innovazione coraggiosa, portando l’ambiente da fat-
tore complementare dello sviluppo all’interno del motore
della crescita nazionale. Non sarà un incontro pacifico.
L’architettura di questo progetto ha elementi problemati-
ci, a partire dall’equilibrio dei costi. Ma questa è la sfida.
Quando, da ministro, presentai il programma «Industria
2015» la questione del risparmio e dell’efficienza energe-
tica era in cima alla gerarchia delle priorità. E l’aumento
dei prototipi e dei brevetti in questo campo era il primo
obiettivo da raggiungere. Ho lavorato al ministero dello
Sviluppo con ambientalisti veri e sono convinto che questa
sia la strada del futuro, collaborare avendo in mente un
progetto nazionale per il Paese.
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di investimento profittevole, sia per i privati, che possono
beneficiare della riduzione indotta dei costi della bolletta,
sia per lo Stato, che può ben compensare i minori introiti
dalle imposte sull’energia con le maggiori entrate della fi-
scalità diretta e indiretta attivata dagli investimenti. Ma il
progetto-Paese dell’efficienza energetica non consiste solo
nel realizzare buoni investimenti: è creare un nuovo siste-
ma industriale. Ovviamente non parlo soltanto di progetti
di singole aziende, di ricambio dei motori elettrici delle
fabbriche: è l’intero campo del risparmio e dell’efficienza
energetica che può diventare una specialità italiana, incre-
mentando brevetti e prototipi, dunque favorendo l’export
di tecnologie italiane. Abbiamo già punte di eccellenza: si
tratta di medie imprese con importanti commesse in India,
in Asia e in ogni parte del mondo. Bisogna crederci, de-
finire incentivi mirati, sostenere le innovazioni. Peraltro,
l’efficienza energetica offre buoni margini pure nel settore
delle abitazioni e delle costruzioni, dove è possibile mo-
bilitare il capitale privato: la green economy può dare una
mano persino al più tradizionale e consolidato vettore di
crescita economica del nostro Paese. Ma nel Pil buono che
si produce devono trovare sempre spazio ricerca, brevetti,
nuove tecnologie, perché questa è la competizione globale
a cui l’Italia non può sottrarsi.
94
R. La vicenda del Giappone mostra che i timori dell’o-
pinione pubblica a proposito del nucleare non possono
essere liquidati come irrazionali. Per quanto se ne ridu-
cano le probabilità, le drammatiche conseguenze di un
incidente «improbabile» allarmano, e non a torto, come
si è visto. Peraltro ancora non si trova soluzione al pro-
blema delle scorie e anche questa non mi pare una pre-
occupazione irrazionale. Nel caso italiano si pongono poi
ulteriori domande: dopo più di vent’anni di interruzione
è davvero conveniente ricominciare? I progressi tecnolo-
gici sono tali da ridurre significativamente i problemi? I
vantaggi in termini di produzione di energia riusciranno
a compensare i costi di realizzazione delle nuove centrali?
Le risposte a questi quesiti sono decisamente negative.
Anche prima del dramma del Giappone, il «fantapiano»
nucleare del governo mi era apparso sbagliato e irrealisti-
co, perché si rivolgeva a un Paese impreparato. In Italia
le università e gli enti di ricerca hanno perso gran parte
delle risorse umane e delle competenze, le poche indu-
strie sopravvissute hanno bisogno di riqualificazione e di
certificazioni, i soggetti istituzionali deputati al control-
lo devono ancora nascere e quindi acquisire affidabilità,
competenze e credibilità. In queste condizioni, che non
si cambiano in pochi anni, non solo il costo di installazio-
ne dei nuovi impianti è straordinariamente alto, ma non
ci saranno né sconti nella bolletta energetica, né benefici
per il sistema industriale che riusciranno a compensarlo.
Inoltre la tecnologia non sarebbe italiana, ma nel caso del
l’Epr scelto dall’Enel, francese: dunque l’affare sarebbe
anzitutto francese. Non va poi nascosto che siamo ancora
lontani da quel salto generazionale in grado di risolvere i
problemi di economicità e di smaltimento delle scorie, e
soprattutto i problemi di una sicurezza intrinseca in mo-
do completamente convincente. In Italia non è stato nep-
pure individuato il deposito temporaneo di superficie che
dovrebbe ospitare le scorie delle vecchie centrali, mentre
il governo ha tentato addirittura di definire un sito geo-
95
logico a Scanzano Ionico! Neppure gli Stati Uniti hanno
ancora stabilito un loro sito geologico: da noi invece il
governo ha sparato la balla di Scanzano e poi, dopo la
rivolta popolare, è fuggito in ritirata. Sono dati di fatto,
senza coloriture ideologiche. Insomma, innalzare oggi la
bandiera del nucleare è sbagliato e irrealistico e devia l’at-
tenzione dalle politiche di liberalizzazione e di promozio-
ne dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, che
dovrebbero avere per noi un carattere prioritario e che
invece negli ultimi due anni sono state completamente
disarticolate. Solo specializzandoci, il che vuol dire mo-
bilitare industria e ricerca, possiamo trasformare il nostro
ritardo sull’energia in opportunità.
96
infine che non è vero che la produzione elettrica da im-
pianti nucleari stia percentualmente crescendo nel mondo
in misura significativa: larga parte delle nuove realizzazioni,
almeno nei Paesi occidentali, sono destinate a sostituire i
molti impianti realizzati negli anni Settanta e Ottanta ormai
prossimi alla fine della loro vita tecnica. Il «fantapiano» del
governo per reimpiantare il nucleare in Italia, lo ripeto, è in
questo contesto una scelta gravemente sbagliata e che deve
essere radicalmente rivista.
98
nuove automobili è funzione di sviluppo tecnologico e in-
dustriale. L’impresa italiana non è tagliata fuori, bisogna pe-
rò lavorare sul limite degli standard come fanno i tedeschi:
la Germania adotta gli standard ecologici più rigorosi, così
le loro imprese sono costrette a correre e poi il loro gover-
no spinge in sede europea, a Bruxelles, perché gli standard
europei si adeguino a quelli tedeschi. Ma si può lavorare
anche sulla riduzione dei tempi di percorrenza delle strade,
migliorando e affinando le tecniche di utilizzo dei sistemi sa-
tellitari. C’è poi una necessaria innovazione nel campo della
logistica: per aumentare l’efficienza di un settore allo stato
così debole ci vogliono imprese di maggiori dimensioni.
Oggi la polverizzazione delle piccole imprese nella logistica
aumenta i costi, il traffico su strada, l’inquinamento e non ci
consente di utilizzare al meglio il trasporto ferroviario, le au-
tostrade del mare, gli interporti. Infine, e soprattutto, occor-
re affrontare con tempestività e determinazione gli scenari,
ormai assai probabili, di diffusione dell’auto elettrica. Un
settore nel quale avremmo delle possibilità che, però, per
la latitanza congiunta di grande impresa e politiche pubbli-
che, stiamo tranquillamente abbandonando.
100
sugli imballaggi per ridimensionarli, evitare gli sprechi di
plastica, incrementare l’utilizzo di materiali biodegradabi-
li o riciclabili e così via. Ma queste politiche presuppongo-
no l’idea del «ciclo» e di un suo razionale governo.
102
termini di programmazione, tutela dei consumatori, con-
trollo e vigilanza, non solo della distribuzione ma dell’in-
tero ciclo dell’acqua. In questa idea di servizio pubblico
possono trovare spazio anche i privati, e i loro investimenti
a vantaggio della comunità devono trovare una remunera-
zione giusta, che eviti speculazioni. Dettare gli obiettivi,
fissare le regole, possedere le reti, controllare la gestione
e la qualità dei servizi: questa è un’idea di pubblico che
ritengo più moderna ed efficiente.
VII
LA SCOMMESSA INDUSTRIALE
MADE IN ITALY
104
Nel resto d’Europa non è così. E non è semplice spiegare
tanta leggerezza. Per un verso, penso che abbia avuto un
peso anche la forza simbolica della parabola di Berlusconi,
il quale non è un industriale vero, avendo sempre avuto nel
commerciale e nella comunicazione il baricentro del pro-
prio business e quindi una prevalente attenzione in quei
settori. Ma di sicuro ha inciso anche l’interdipendenza tra
l’industria e la rete sempre più ampia dei servizi a monte e
a valle: ricerca, tecnologia, finanza, supporti professionali,
distribuzione. Sono stati anni di cambiamenti impetuosi
nei mestieri complementari alla manifattura. Ma non vedo
perché non dovremmo chiamare tutto questo «industria»,
ampliando così gli orizzonti oltre i cancelli della fabbrica.
Se non diamo il giusto nome alle cose rischiamo di smar-
rire oggetto e coordinate di una politica. Ed è esattamente
ciò che sta accadendo in questi anni: per il centrodestra
italiano la politica industriale è un grande buco nero.
106
una capacità di flessibilità e di adattamento che sono tratti
specifici dell’imprenditorialità italiana. Facciamo cose che
fanno anche altri, ma le facciamo con qualità singolari e
siamo capaci di costruirle su misura per il cliente. Siamo
campioni mondiali di co-progettazione. Chi ha bisogno
di un partner speciale si rivolge a un italiano. Mi hanno
raccontato la storiella di un’impresa americana che cer-
cava una ditta capace di realizzare una particolare mac-
china industriale di colore rosso: in Germania si è senti-
ta rispondere che la potevano produrre ma non di quel
colore e in Giappone che purtroppo non l’avevano nel
campionario. Quando quell’impresa americana è venuta
in Italia, le hanno domandato: «Ma che tipo di rosso vuole
precisamente?». Siamo i migliori adattatori di tecnologie
nuove e nell’adattarle le implementiamo. Ma per sostenere
questa risorsa imprenditoriale, che spesso ha le gambe di
una media azienda con clienti sparsi in mezzo mondo, ci
vuole, appunto, una politica industriale.
108
distribuiva energia solo in Italia ma aveva i bilanci in rosso
e investimenti a zero. Dopo le liberalizzazioni, il sistema ha
prodotto nell’insieme 20 miliardi di investimenti e all’Enel
parzialmente privatizzata sono tornati gli utili. Non solo:
l’Enel è oggi la società di energia più internazionalizzata.
Prendiamo la telefonia: qualcuno può seriamente pensa-
re che se avessimo mantenuto il monopolio statale oggi
staremmo meglio? È vero che il capitalismo italiano non
è stato in grado di assumere la guida della Telecom, ma le
liberalizzazioni almeno hanno messo i nostri utenti nelle
condizioni di usufruire delle novità tecnologiche e delle
condizioni di mercato degli altri cittadini europei. Penso
che il pubblico debba mantenere il primato e il controllo
sulle reti: la rete energetica, quella delle telecomunicazioni
e delle ferrovie. Poi, se il capitalismo italiano non ce la farà
a sviluppare i servizi, verrà inevitabilmente quello tedesco,
spagnolo o americano. Fui io a liberalizzare il sistema fer-
roviario in modo che, oltre ai binari e alla nuova rete di
Alta capacità, potessimo avere anche i treni e i servizi di
trasporto. Adesso arriverà la concorrenza e il guaio vero
è che, con il centrodestra, l’operazione di liberalizzazione
non è stata completata e, per esempio, non abbiamo an-
cora definito il servizio universale (comprendente le linee
«fuori mercato») da mettere a carico di tutti gli operatori,
né un’autorità indipendente che garantisca i viaggiatori.
110
italiana, che si è sviluppata laddove per ragioni storiche
le public company non sono riuscite a insediarsi. Quan-
do si affronta con serietà questo tema, sono il primo a
dire che la governance delle cooperative presenta anche
problemi: ad esempio, il potere dei soci è limitato e il ri-
schio di autoreferenzialità richiede nuove riflessioni. Ma
bisogna riconoscere che il capitalismo italiano ha una sua
varietà biologica: c’è l’impresa privata, c’è l’impresa pub-
blica, c’è l’impresa cooperativa e tutte possono volgere
al meglio le rispettive peculiarità. È scritto anche nella
nostra Costituzione.
112
D. Nella storia italiana le politiche industriali sono state
spesso condizionate dagli interessi della Fiat. Quali cambia-
menti produce oggi l’internazionalizzazione della Fiat? Non
avverte il rischio che la testa dell’azienda passi negli Usa e
le fabbriche italiane diventino solo piattaforme manifattu-
riere sempre a rischio per la concorrenza di altre fabbriche
europee?
114
D. Non è un alibi scaricare le divisioni sindacali sulle re-
sponsabilità del governo di centrodestra? Non ritiene che, a
partire dall’accordo separato sui modelli contrattuali, si sia
allargata una frattura tra Cisl e Cgil che rinvia a concezioni
sindacali poco conciliabili tra loro?
R. Nei diversi ruoli di governo che ho ricoperto mi è sem-
pre risultata chiara la diversa ispirazione sindacale di Cisl,
Cgil e Uil. Ma ho sempre cercato da ciascuno il contributo
migliore. Quando ero in regione la Cisl mi aiutò molto nella
formazione e nei rapporti con le autonomie sociali, anche
extra-sindacali. La Cgil fece altrettanto su certe traiettorie
industriali. Composizione unitaria non vuol dire rinuncia
alla propria identità e alle legittimamente diverse culture
sindacali. Il vero problema è se un governo ritiene l’unità
del lavoro un bene comune, un asse fondamentale per te-
nere insieme un Paese lacerato, oppure se pensa che sia me-
glio dividere, magari calcando su pregiudiziali ideologiche.
Conosco le obiezioni all’idea di patto sociale: c’è troppo
corporativismo, troppa burocratizzazione e conservazione
nelle rappresentanze tradizionali. Sarebbe sbagliato negare
questi limiti. Oggi per tutti, non solo per la politica, la veri-
fica si fa più impegnativa. Anche le rappresentanze sindacali
e imprenditoriali devono mettersi alla prova dell’efficienza
e sottoporsi a forme di democrazia diretta. È una sfida per
tutti. L’innovazione è condizione di recupero di una vitalità
sociale. Tuttavia il confronto e la convergenza tra le parti
sociali restano un valore, non un problema da evitare.
D. In Germania, nelle grandi aziende, i rappresentanti dei
lavoratori partecipano anche alla gestione. E qualcosa del
genere accade anche a Detroit, nella Crysler-Fiat. Secondo
lei, è possibile immaginare una simile evoluzione delle rela-
zioni sindacali e superare le storiche ostilità all’applicazione
dell’art. 46 della Costituzione?
R. Nessuna obiezione di principio all’applicazione
dell’art. 46 della Costituzione, quello che prevede il diritto
115
dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti previsti
dalla legge, alla gestione delle aziende. Sul piano pratico,
tuttavia, trasferire il modello tedesco in Italia mi pare piut-
tosto complicato e di sicuro non è consigliabile provare a
imporlo seguendo la via legislativa. L’universo è un altro:
da noi il 99% delle imprese è sotto i 50 dipendenti. Piut-
tosto si può pensare a un’azione graduale e progressiva,
con patti e norme di sostegno a forme più incisive di par-
tecipazione, fino a sperimentazioni che tocchino il livello
gestionale. Abbiamo proposte di legge in questo senso.
116
ci ha tenuto lontani da pericolose avventure e dai contrac-
colpi più duri della crisi economica. Ma l’altra faccia della
medaglia è che i costi delle banche da noi sono più alti che
altrove, sia per i singoli utenti sia per le imprese, e andran-
no armonizzati a quelli europei. E comunque, purtroppo, i
problemi non mancano, nemmeno per le nostre banche.
120
un terreno inaridito dal fascismo. Queste trasformazioni
hanno ispirato le migliori riforme scolastiche, dalla media
unificata agli istituti tecnici, alla nuova scuola elementare,
fino all’integrazione dei disabili. Un primato di livello in-
ternazionale che oggi viene messo in discussione. Sapremo
in futuro ritrovare questo nesso tra riforma della scuola e
ambizioni nazionali? Questa è una sfida decisiva. E si gio-
ca su obiettivi diversi dal passato. Oggi si tratta di formare
i ragazzi con la pelle di diverso colore, quei nuovi italiani
che le leggi non riconoscono neppure quando sono nati in
Italia. Per riuscire ad accoglierli come cittadini la scuola
dovrà fare un grande salto di qualità che può renderla mi-
gliore anche per i figli delle famiglie italiane.
122
questo significa valutare i risultati degli atenei – per dav-
vero, non a chiacchiere – e aumentare i finanziamenti ai
più meritevoli. Significa mobilitare i migliori dipartimenti
per la realizzazione di grandi progetti nazionali di ricerca,
prendere a esempio le esperienze di qualità della didattica
maggiormente riuscite e adeguare i servizi per gli studenti
agli standard europei in termini di laboratori, di residenze
e di borse di studio. Se partiamo dai meriti dell’università,
la riforma viene meglio perché aiuta i riformatori che già
stanno facendo qualcosa di buono ad andare avanti. Se
invece si guarda solo ai difetti rimane il «riformismo dan-
nunziano» e basta. In realtà, nell’università convivono sia
i meriti sia i difetti come accade in tutta la società italiana
di oggi, nella politica, nell’economia, nelle professioni e
nel giornalismo. Quello che conta è allora l’intenzione che
ci mette il riformatore: se è positiva produce nuove op-
portunità di cambiamento, se è negativa distrugge senza
distinguere tra meriti e difetti.
124
andati all’estero, ma che non desiderino tornare. Guardate
all’esempio cinese che ha scelto la ricerca come vettore del
proprio sviluppo aumentando ogni anno più del 10% l’in-
vestimento in conoscenza. Da qualche anno è cominciato
un controesodo di cervelli dagli Usa. E di questo si preoc-
cupano molto gli americani perché sanno bene che la loro
ricchezza nel Novecento è dipesa anche dall’attrazione dei
cervelli europei. La ricchezza cresce dove vanno i cervelli.
Se è così, il ritorno dei ricercatori non si ottiene certo con
piccoli provvedimenti, come ad esempio la detrazione fi-
scale, ma solo con una grande politica. Quando torneremo
al governo noi dovremo rivolgere un appello ai giovani
ricercatori che si trovano all’estero: «Il Paese ha bisogno di
voi, questo è il vostro Paese, aiutateci a cambiarlo». E dai
discorsi si dovrà passare subito ai fatti: più politiche non
solo per attrarre cervelli, ma per usarli davvero.
126
internazionale con la realizzazione di un dispositivo che
apre la strada alla realizzazione di un nuovo tipo di com-
puter basato sulla fisica dei quanti. Ci vorranno decenni
forse per realizzarlo e l’Italia si trova all’avanguardia senza
neppure saperlo. Se però non ci sarà una politica mirata,
quel vantaggio sarà effimero e altri faranno fortuna con i
nostri risultati. Negli anni Cinquanta con l’Olivetti realiz-
zammo un prototipo di computer prima degli americani
perché il Paese allora sapeva mettere a frutto il proprio
ingegno. Anche oggi non mancano le risorse scientifiche in
Italia, quello che ci vuole è una strategia per riconoscerle,
accrescerle e utilizzarle.
128
da una contraddizione: il lavoro diventa più prezioso nel
ciclo produttivo e allo stesso tempo diminuisce il suo peso
politico e sociale. Si chiede molto al lavoratore, un coin-
volgimento sempre più totale della persona, sia nel lavoro
creativo della produzione immateriale sia nel lavoro ma-
nuale dei servizi o della fabbrica. Ma è giunto il momento
di domandarsi che cosa restituisce il lavoro alla persona
non solo in termini materiali e di reddito, ma come lega-
me sociale che rafforza la cittadinanza, come opportunità
nella vita delle persone, come possibilità di disegnare un
futuro individuale e collettivo. Il lavoro come questione di
senso per la persona e per la società, ecco il tema nuovo
che è di fronte a noi nei prossimi anni.
D. Togliere ai padri e dare ai figli è stato per anni uno slo-
gan corrente. Ritiene che sia ancora utilizzabile come motto
della riforma del welfare in Italia?
130
tele vitali va collegato ai diritti di cittadinanza e non più
soltanto a una pregressa attività di lavoro: è necessario un
salario minimo per chi è fuori dai contratti e va introdotto
il principio della «fiscalità negativa», in modo che le fasce
più povere, quelle che non arrivano neppure alla soglia
fiscale minima, possano ricevere un più equo sostegno. La
scelta, insomma, deve essere sempre più universalista per
sottrarre al mercato ciò che giudichiamo essere dei biso-
gni fondamentali delle persone. Del resto questo è anche
il principio che ispira il Servizio sanitario nazionale. E il
principio va garantito nella pratica, non solo a chiacchiere.
Ciò vuol dire che occorre garantire coperture certe ai costi
ed evitare gli sprechi. Non è facile nel settore della sanità
dove ogni giorno una nuova conquista, un nuovo medi-
cinale, una nuova macchina sono in grado di fornire una
cura migliore: saggezza vorrebbe che a ogni più moderna e
efficace prestazione assicurata dal Servizio sanitario venis-
se esclusa dalla gratuità una vecchia prestazione divenuta
meno essenziale, mettendola a pagamento, secondo criteri
di equità, oppure affidandola alla sussidiarietà.
134
compiti di ricostruzione della politica è proprio quello
di ripristinare l’equilibrio costituzionale dei poteri. Non
mi sento affatto un giustizialista. Anzi considero il giusti-
zialismo un atteggiamento contrario ai nostri valori. Ma
domando: che utilità ha polemizzare in astratto contro il
giustizialismo? A volte il nostro dibattito pubblico sembra
avere lo scopo di creare alibi per le mancate riforme, e così
facendo porta fieno in cascina ai populismi. La giustizia ha
bisogno di riforme vere e di investimenti. Bisogna ridurre
i tempi dei processi per i cittadini. La giustizia penale, e
ancor più quella civile, sono scandalosamente lente. La
politica faccia questo. È in quel contesto di riforme, rivolte
ad un servizio fondamentale per i cittadini e scevre di ogni
riguardo per la politica, che la politica stessa riconquisterà
anche l’autorevolezza per dire ai magistrati di rispettare
con rigore i confini del proprio campo. Ma se ci mostrere-
mo incapaci, non saranno le chiacchiere a ridurre, laddove
si manifesta, la supplenza dei magistrati.
136
taggi. Non dico che era così ovunque, ma la diffusione del
finanziamento illegale alla politica era ampia e, come han-
no dimostrato i processi, nessuna area politica ne è rimasta
immune, seppure con un coinvolgimento in proporzioni
ben diverse. Al finanziamento illegale si è poi mescola-
to progressivamente l’arricchimento privato. E questo ha
contribuito a scoperchiare la pentola, quando il ciclo eco-
nomico ha curvato verso il basso e il risanamento imposto
dai vincoli di Maastricht ha reso il dazio insopportabile al-
le aziende. La perversione del sistema stava anche nel fatto
che la mazzetta spesso veniva consegnata sopra il tavolo: in-
somma, era dichiarata, ordinaria. Oggi la corruzione delle
cricche sembra avere un carattere meno esplicito, ma non
per questo è meno grave e neppure, forse, meno diffuso.
Le cordate, cioè le cricche, si creano nell’area grigia della
discrezionalità politica e/o amministrativa, si riproduco-
no nel sostegno elettorale e poi si danno appuntamento
nella successiva azione di governo. La malattia può e deve
essere sconfitta, ma in questi anni non si è fatto nulla per
arginarne la diffusione. Al contrario, il ricorso crescente a
norme straordinarie, ordinanze in deroga, provvedimenti
emergenziali ha costituito un potente diffusore di pratiche
corruttive. È chiaro che se non si rende efficiente l’ordina-
rio, la regola straordinaria diventa lo strumento tipico del
potere discrezionale e dunque il collante delle cricche. Ad
esempio, l’incredibile frequenza degli stati d’emergenza
proclamati dal governo con la conseguente emanazione di
ordinanze della Protezione civile, ha trasmesso un segnale
esattamente contrario rispetto ai doveri che dovrebbero
essere propri del potere politico.
138
zioni più sobrie e trasparenti e un contrasto più visibile e
vigoroso della corruzione. Per quanto riguarda gli uomini
pubblici, comunque, penso che si potrebbe studiare una
modalità veloce per rendere loro l’onore dopo insinuazio-
ni o accuse infondate. L’onestà è per un politico un bene
essenziale, ma penso anche che sia un bene pubblico il suo
riconoscimento a fronte di una campagna di dossierag-
gio. Mi piacerebbe che un uomo pubblico, se investito da
un sospetto, potesse chiedere alla Guardia di Finanza un
check-up e che, a stretto giro riuscisse a ottenere una cer-
tificazione del suo stato patrimoniale e dell’assolvimento
di tutti i suoi doveri tributari. Tale pratica di trasparenza
potrebbe essere estesa anche ad altri comparti, attraverso
l’istituzione di giurì d’onore: ne guadagnerebbe la credi-
bilità della politica.
140
della leadership di Berlusconi? È possibile giustificare il suo
successo solo grazie allo strapotere mediatico ed economico?
L’Italia è stata ancora una volta un’eccezione, un’anomalia
rispetto ad altre democrazie occidentali, oppure può consi-
derarsi un laboratorio?
142
sfidando quotidianamente le mafie. Ne è stato testimone
Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, nel Cilento, barbara-
mente ucciso e che aveva un legame intenso di stima e di af-
fetto con i suoi concittadini. I principi ispiratori all’origine
del Pd sollecitano comportamenti civici esigenti, sobrietà e
rigore nell’azione di governo e sensibilità verso il problema
e i rischi della corruzione. La sfida quotidiana della buona
amministrazione sta nell’applicare canoni severi anzitutto
verso se stessi e i propri amici. Ciò non vuol dire che il Pd
sia immune da episodi di corruzione o che le virtù civiche
siano assenti nell’altro campo. Penso, però, di stare nel ve-
ro se dico che l’elettorato di centrodestra è più indulgente
con le sue classi dirigenti politiche: lo dimostrano, ad esem-
pio, nel campo del centrosinistra, le dimissioni di Flavio
Delbono da sindaco di Bologna, all’avvio di un’indagine a
suo carico, a fronte della difesa a spada tratta che Berlusco-
ni ha fatto in seguito alle condanne di Cesare Previti o di
Marcello Dell’Utri per reati incomparabilmente più gravi
o a fronte delle ripetute autoassoluzioni rispetto ai propri
comportamenti. Forse il problema nel nostro campo è in-
gigantito proprio dalla sensibilità dell’opinione pubblica
di centrosinistra verso il tema della corruzione: ma, sin-
ceramente, considero questa sensibilità e la conseguente
pressione sul Pd come un bene. La dignità, la sobrietà, il
rispetto delle regole, la moralità dei comportamenti devo-
no essere le fondamenta del nostro patto associativo. E la
disciplina e l’onore, che la Costituzione pretende in chi
svolge funzione pubblica, devono valere nel Pd come cri-
terio stringente di selezione della classe dirigente.
144
dotarsi di un codice etico collettivo, di una sorta di filtro,
altrimenti rischiano di compromettere qualunque princi-
pio di legalità. Non è moralista chi si ribella, è immorale
chi tace per opportunismo.
146
E che è giusto anche retribuire chi, pro tempore, svolge un
mandato di rappresentanza politica. Così si combatte con
efficacia il qualunquismo.
R. I misteri che sono alle nostre spalle non hanno sicura-
mente aiutato la democrazia italiana. Credo che si dovreb-
be fare di tutto per svelare ciò che è ancora occulto e per
148
rendere giustizia, non solo alle vittime e ai loro familiari,
ma all’intero Paese. Non mi unirò mai a chi dice al magi-
strato che indaga sulla strage senza colpevoli di trent’anni
fa, che farebbe bene ad occuparsi d’altro. Sarò sempre
dalla parte di chi chiede di rimuovere segreti e silenzi di
apparati, laddove questi effettivamente esistono. In ogni
caso, e a differenza di quel che ha fatto il governo Berlu-
sconi, il segreto di Stato va usato il minimo indispensabile
e, comunque, non è possibile prorogarlo oltre i limiti sta-
biliti. Accanto a questo, però, dico anche che dobbiamo
guardare avanti. Che, se è sempre giusto chiedere veri-
tà e giustizia, questa domanda non può distoglierci mai
dall’esigenza di pensare e di costruire il futuro.
X
CREDENTI E NON CREDENTI
PER UN UMANESIMO CONDIVISO
150
basi democratiche», fissò a destra un argine alle alleanze
della Dc e ingaggiò nel ’52 un doloroso conflitto con lo
stesso papa Pio XII per scongiurare alle elezioni comu-
nali di Roma una coalizione di centrodestra che avrebbe
spostato l’asse, e forse persino modificato la natura della
Dc. Questo è nel dna del cattolicesimo politico italiano.
E ciò dà conto di una nostra diversità rispetto agli altri
Paesi europei. Lo stesso incontro con le culture riformiste
laiche non è avvenuto per caso o all’improvviso. La scelta
«democratica» dipende ovviamente da tutto questo ed è
per noi una straordinaria opportunità. La differenza del
Pd rispetto ai partiti socialisti e progressisti europei non
è un’anomalia, ma un tratto distintivo positivo che porta
il suo contributo a tutto il centrosinistra europeo perché
si apra anch’esso a forze riformiste di tradizioni diverse e
perché sposti in avanti i propri orizzonti culturali.
152
R. Non intendo giudicare ciò che la Chiesa italiana, nella
sua libertà, pensa di noi. Non mi interessa una diplomazia
strumentale. Ciò che mi preme è che il messaggio, i valori,
la ricerca del Pd siano percepiti per quello che sono, senza
il filtro di lenti deformanti. Il Pd non offrirà mai modelli da
Patto Gentiloni, né è interessato alla tipologia degli «atei
devoti», né accetta l’opportunismo di chi separa totalmen-
te l’etica pubblica da quella privata. Il Pd vuole essere un
partito fedele alla Costituzione repubblicana. Un partito
consapevole dei limiti della politica e, al tempo stesso, del-
le proprie responsabilità. Un partito che rivendica l’au-
tonomia delle proprie scelte e riconosce senza riserve la
presenza pubblica nell’agorà delle Chiese e delle religioni.
Un partito aperto al confronto sulle nuove frontiere della
scienza e della vita e che non vuole chiudersi nei confini
dei soli temi economico-sociali, che pure sente come più
congeniali. Un partito sensibile ai vincoli insuperabili che
una coscienza religiosa porta con sé e, semmai, intenziona-
to a offrire il suo contributo perché le scelte di coscienza
non siano svilite da possibili usi strumentali e opportuni-
stici. Questo ho sempre detto alle autorità ecclesiastiche e
alle comunità di credenti che ho incontrato. Nel dna del
Pd c’è una sensibilità più marcata sui temi etici e antropo-
logici di quanto non avvenga nelle altre forze progressiste
europee. Le nostre radici restano comunque in Europa e
in quel filone dei diritti civili, che va liberato da incrosta-
zioni ideologiche ma il cui contributo alle libertà non può
essere negato.
154
ni eticamente sensibili che, a mio giudizio, meriterebbero
procedure rafforzate anche nelle decisioni pubbliche.
156
garanzia della libertà della Chiesa è parte della Carta costi-
tuzionale ed è una ricchezza per noi. Ovviamente si tratta
di un patto che va sorvegliato con assoluto equilibrio, che
comporta responsabilità da parte dello Stato come da par-
te della Chiesa, la quale non può pensare di avere una sorta
di tutela verso i cittadini italiani.
158
nascita e la crescita delle idee di democrazia, di laicità, di
universalità dei diritti.
160
un’ovvietà, ma per me vale molto questa empatia, questo
interscambio perché dimostra sia le possibilità del Pd, sia
il grande apporto di cattolici alla sua cultura e al suo pro-
gramma politico. Comprensibilmente la Chiesa non può
riversare su questi aspetti politico-sociali le sue attenzioni
pastorali in modo esclusivo. Se queste diventassero le prio-
rità, qualcuno parlerebbe magari di collateralismo o di asse
con il centrosinistra. Ci vuole rispetto per la missione della
Chiesa che non può essere subordinata alle logiche della
politica. Questo vale per noi, ma vale anche per il centro-
destra, per i teocon e per gli atei devoti. Negli Stati Uniti i
teocon hanno usato i valori religiosi per sostenere un’idea
aggressiva dell’Occidente e la guerra contro l’Iraq è stata
un errore storico di cui pagheremo a lungo le conseguen-
ze. La Chiesa può anche essere attraversata da tendenze
o tentazioni favorevoli a questi filoni conservatori. A mio
giudizio, se queste tendenze prevalessero, la Chiesa rischie-
rebbe una pericolosa riduzione del suo messaggio religioso
a ideologia politica. Quale migliore sintesi del relativismo
è quella rappresentata dagli atei devoti? Issano il baluar-
do del cristianesimo piegandolo, però, a religione civile
dell’Occidente, giurano alle gerarchie una fedeltà senza
fede, seguono alcuni comandamenti ma si sentono esentati
da quelli che contrastano con i loro interessi. Non solo:
rilanciano pure lo spirito miliziano, che serve ad alimentare
le sacche di odio e non certo a risolvere problemi. Insom-
ma, i matrimoni tra la Chiesa e la destra non hanno mai
portato ad avanzamenti della società. Continuo a sperare
che l’Italia diventi la frontiera più avanzata di un dialogo
costruttivo tra credenti e non credenti, capace di rafforzare
la laicità positiva e irrobustire un’etica condivisa: dobbia-
mo sentirci tutti partecipi di questo lavoro comune, anche
il centrosinistra deve fare la sua parte con generosità.
164
R. Il solidarismo è un caposaldo della nostra cultura. Pa-
radossalmente oggi la solidarietà si deve misurare più con i
problemi di vicinato che con quelli della lontananza. Sono
le reti corte e i territori quelli che soffrono maggiormen-
te lo schiaffo della globalizzazione e possono reagire allo
spaesamento che ne consegue in modo regressivo. Anche
le nuove tecnologie possono portare a forme originali di
solitudine: comunichi con tutti, ma puoi sentirti più so-
lo. Una forza solidaristica come il Pd si deve impegnare a
produrre una nuova cultura della vicinanza e del vicinato
tra le persone che non vivono la stessa condizione lavo-
rativa o sociale. Questo orientamento può essere favorito
da pratiche di partecipazione e di cittadinanza attiva co-
me il volontariato e l’associazionismo, dove sta crescendo
la consapevolezza di dovere reagire in modo nuovo agli
squilibri delle nostre società e che costituiscono comun-
que una straordinaria ricchezza del vivere italiano che va
sempre incentivata. C’è bisogno di rinnovare la fisicità dei
rapporti e anche il partito può essere una delle strutture e
delle agenzie di volontariato al servizio di una rete di soli-
darietà umana. Penso che questo sia un compito nuovo e
inaspettato della politica del nuovo millennio. Dico nuovo,
ma non inedito perché già in passato essa ha svolto questa
funzione di collegamento e di messa in rete di esperienze
diverse. Per questo ripeto spesso che noi le feste del Pd
dobbiamo raddoppiarle! Dobbiamo inoltre sperimentare
modalità che aiutino a creare dei legami e a rispondere
al bisogno di partecipazione che sale dalla società civile.
La mia impressione è che stiamo assistendo al movimento
di ritorno di un pendolo: prima c’è stata la fase fordista,
con i partiti di massa in grado di rappresentare esperienze
comuni di lavoro e di vita; poi è venuto il periodo della
frantumazione dei percorsi lavorativi e la crisi di quella
forma partito organicamente intesa; oggi si è aperta, grazie
alla sfida della globalizzazione, una nuova fase culturale e
organizzativa che richiede di ricongiungere aspetti relazio-
nali e comunitari in un luogo reale, come possono essere il
165
circolo, la festa, la vita di associazione, ma anche virtuale
come Internet.
D. L’umanità dispone di saperi e di strumenti tecnici im-
pensabili fino a poco tempo fa che concernono direttamen-
te le relazioni tra l’uomo e la vita. Il dibattito odierno sui
rapporti tra scienza, morale e antropologia è imperniato sul
concetto di limite. È giusto secondo lei regolare i rapporti fra
scienza e morale seguendo tale principio e quale deve essere
il ruolo della politica in questo ambito?
R. Il confine tra scienza, etica e vita è in continuo mo-
vimento. Occorre vigilarlo consapevoli che la scienza è
un’espressione positiva delle facoltà dell’uomo, ma può
anche produrre un suo condizionamento. Voglio chiarire
un punto preliminare: ritengo velleitario e anche sbaglia-
to porre dei limiti alla ricerca con l’idea che ne possano
derivare dei danni eventuali. Questo è un dilemma che
accompagna la storia umana da sempre e che non si risolve
proibendo, ma innalzando le energie razionali, etiche e de-
mocratiche per dominare la fase due della ricerca, quella
relativa alle applicazioni. L’umanità è sempre andata avan-
ti correggendo i propri errori, e le applicazioni sbagliate
sono state contrastate favorendo una visione informata
delle procedure e aumentando i processi democratici di
controllo. Sostenere che una ricerca di cui si possono im-
maginare sviluppi contraddittori o pericolosi vada limitata
o proibita preventivamente non è solo impossibile, ma non
porterebbe da nessuna parte. La politica deve conservare
una sua autonomia di giudizio e di indirizzo difendendo
sia il valore della libertà di ricerca sia il principio di pre-
cauzione nelle applicazioni, che vanno osservati insieme.
D. La più importante rivoluzione del secolo scorso ha riguar-
dato il protagonismo della donna nella famiglia, nel mondo
del lavoro e nella società. Tuttavia uno dei principali problemi
irrisolti resta quello dell’organizzazione dei tempi del lavoro
femminile. Verso quale direzione è opportuno agire?
166
R. Stiamo parlando di uno dei più grandi mutamenti
antropologici dei nostri tempi: penso che il secolo che ab-
biamo alle spalle sarà ricordato in particolare per l’enorme
salto di qualità che ha avuto la condizione femminile e il
ruolo della donna nella società. Per la prima volta nel corso
della storia si sono affermati i diritti politici delle donne.
Per la prima volta le donne sono entrate massicciamente
nel mondo del lavoro, anche se non si è ancora risolto il te-
ma del loro ingresso con pari opportunità e pari condizioni
professionali; e ora abbiamo davanti il compito di consen-
tire la crescita della presenza femminile anche nei ruoli di
direzione in ambito imprenditoriale, amministrativo e po-
litico. L’Italia purtroppo è il fanalino di coda dell’Europa
e per risalire la china serve una grande spinta culturale che
sostenga la parità e riconosca la differenza. Il Novecento ci
consegna questo testimone, ma dobbiamo essere consape-
voli che rischi di regressione sono sempre in agguato, so-
prattutto quando si perde la memoria delle battaglie svolte
e dei diritti acquisiti, che devono essere ribaditi e rinnovati
ogni giorno. È importante farlo perché la condizione della
donna non è un tema a se stante, ma è il battistrada di tante
altre questioni civili e vale come indicatore di progresso
o di regresso. Mi ha colpito molto, nella recente rivolta a
Tunisi, la grande scritta che campeggiava su un muro della
via principale: «La femme tunisienne est libre et restera
libre». Anche da questi segnali ci rendiamo conto come
nel nuovo secolo il tema della dignità della donna sia il
parametro più generale di civilizzazione e di democrazia.
Per questo è necessario combattere sul piano culturale la
rinascita di stereotipi reazionari sul ruolo della donna che
il berlusconismo ha riportato in auge. Alla politica com-
pete realizzare quelle norme, magari di carattere tempo-
raneo, che garantiscano una maggiore presenza femminile
nei ruoli di direzione del lavoro e della società. Inoltre va
abolita la vergogna delle dimissioni in bianco – ristabilite
dal centrodestra –, va riconosciuta la tutela della maternità
come diritto universale, va introdotto il congedo parentale
167
obbligatorio. Servono anche interventi per alleggerire i ca-
richi familiari che ricadono ancora quasi totalmente sulla
donna favorendo politiche di sostegno all’infanzia, agli an-
ziani non autosufficienti e al lavoro giovanile: questi pro-
blemi condizionano la piena affermazione e realizzazione
della donna nel mondo di oggi e pesano sulla stessa tenuta
psicologica ed economica delle famiglie.
168
favoriscono una migliore organizzazione del tempo di la-
voro e ritmi di vita più tollerabili. Il ruolo della donna è
una guida per la determinazione di un equilibrio familiare e
demografico positivo anche perché trascina con sé una certa
politica dei servizi. Allo stesso modo occorre concepire e
praticare politiche volte a inserire i giovani più rapidamente
nel mondo del lavoro e ad assicurare loro una maggiore mo-
bilità, a partire da costi minori per le case in affitto: in questo
modo può svilupparsi un dinamismo utile a costruire nuove
famiglie e ad avviare una migliore demografia. Essere a fa-
vore della famiglia significa assumere come prospettiva tutti
i soggetti in carne e ossa che la compongono: è questo il
punto che fin qui è stato oscurato. Se cominciamo a mettere
al centro la donna e i figli e non il pater familias e basta, tutta
la società ne trarrà degli indubbi vantaggi.
D. Lei riproporrebbe la legge sui «Dico», a suo tempo pre-
sentata, senza successo, dal governo Prodi?
R. Tutelare i diritti e riconoscere i doveri nelle relazioni
tra persone stabilmente conviventi è compito ineludibile
di uno Stato civile. Al tempo della discussione sui «Dico»,
la polemica si accese anzitutto sui nomi e sulla qualificazio-
ne degli istituti giuridici, mettendo purtroppo in secondo
piano la tutela concreta delle persone. E non siamo an-
cora arrivati a una soluzione per colpa di questa nostra
ipocrisia. Le coppie eterosessuali stabilmente conviventi
possono ricorrere al matrimonio civile, che ha alle spalle
il diritto di famiglia e, dunque, un corpo consolidato di
norme, anche se penso sia opportuno, in questo ambito,
offrire migliori forme di tutela pure a chi ha scelto di non
sposarsi e soprattutto ai loro figli. Il problema resta aperto
per le coppie omosessuali e purtroppo continua a essere
difficile affrontarlo. Considero una questione di civiltà
riconoscere alle coppie omosessuali un quadro giuridico
che fissi reciprocità, diritti e doveri, e che non si blocchi
davanti a problemi di definizione, per i quali dobbiamo
rimetterci al quadro costituzionale.
169
D. Riconoscerebbe a una coppia omosessuale la possibilità
di adottare un bambino?
170
ha posto al Parlamento la questione dell’adozione anche
per i single. Penso che questo sia un caso limite che affi-
derei alla valutazione del giudice tutelare. Ma va ribadito
che lo scopo prioritario è togliere i bambini dagli istituti:
ci sono tante coppie eterosessuali che vorrebbero adotta-
re un bambino e ritengo che la funzione pubblica debba
garantire soprattutto queste, dando loro la precedenza e
snellendo il più possibile le procedure burocratiche.
D. La mappatura del genoma e la fecondazione assistita
sono saperi scientifici e tecniche mediche che ci permettono
di intervenire sul codice della vita. In questo modo una serie
di questioni, un tempo affidate ad ambiti privatissimi hanno
assunto una dimensione pubblica e richiedono una regola-
mentazione politica e legislativa. Quale deve essere, secondo
lei, l’impostazione guida del Pd su questi temi?
R. Il Pd deve affrontare le questioni eticamente sensibili
con lo spirito e la responsabilità di chi sta cercando soluzio-
ni largamente condivise: in questo senso la presenza attiva
di credenti e non credenti in uno stesso partito è un’enorme
ricchezza. Il confronto al nostro interno non deve limitarsi
a registrare una giustapposizione di diversi punti di vista,
ma è bene che si sviluppi ricercando una sintesi nella quale
possano riconoscersi il maggior numero di persone. Si tratta
spesso di problemi inediti per l’uomo, dove a scontrarsi tal-
volta non sono neppure culture antagoniste ma sentimenti
contrastanti, contemporaneamente presenti in ciascuno di
noi. Prendiamo ad esempio il dibattito in corso sulla bre-
vettabilità del genoma: per alcuni bisognerebbe brevettare
il prodotto, per altri la tecnica di manipolazione, a prescin-
dere dal risultato. È necessario che la discussione sia il più
possibile pubblica e consapevole, perché si tratta di argo-
menti complessi e il rischio da evitare è che decida il merca-
to anziché la politica. Per questo vorrei si istituisse una sorta
di autority della bioetica con il compito non di decidere, ma
di istruire la necessaria fase informativa, individuare i punti
critici in discussione e contribuire a una procedura rafforza-
171
ta di decisione evitando che l’opinione pubblica sia lasciata
in balia dell’ignoranza, della propaganda o della disinfor-
mazione. La deliberazione legislativa dovrebbe arrivare al
termine di questo percorso democratico: comitato bioeti-
co, coinvolgimento dell’opinione pubblica e decisione del
Parlamento. Se non riusciremo ad allestire un meccanismo
simile, la prima vittima sarà il principio di precauzione per-
ché la soluzione rischia di essere imposta dalla logica del
maggiore profitto. Questa mia proposta nasce dall’insoddi-
sfazione dell’uso e dall’abuso dello strumento referendario
in ambito bioetico avvenuto negli ultimi anni: continuare a
procedere a colpi di referendum su temi di tale complessità
sarebbe una pazzia. Dobbiamo evitare che alle storture at-
tuali del nostro bipolarismo politico si sovrapponga, come
ho già detto, addirittura una sorta di bipolarismo etico. Non
solo rischieremmo di smarrire il significato alto della media-
zione politica, ma faremmo la fine dei polli che si azzuffano
mentre le decisioni vere le prendono altri.
D. L’infertilità di coppia riguarda migliaia di giovani di
ogni provenienza sociale. Oggi il progresso scientifico con-
sente tecniche di fecondazione assistita un tempo impensabi-
li. Che giudizio ha della concreta applicazione della legge 40?
È favorevole alla proibizione della fecondazione eterologa,
consentita in Italia fino al 2004? Non teme che in questo
modo ai più ricchi sia consentito di poter affrontare le spese
della fecondazione assistita in Paesi dove la legislazione è
più permissiva, mentre le limitazioni finiscano per colpire
solo i ceti meno abbienti?
R. Certe decisioni andrebbero prese a livello europeo,
perché è paradossale vietare in Italia delle pratiche permes-
se nei Paesi confinanti. La conseguenza che più salta agli
occhi è proprio il vantaggio che i ricchi hanno rispetto ai
poveri nell’accedere a questi interventi e l’ingiustizia sociale
che ne consegue: per quale ragione un avvocato dovrebbe
avere maggiori possibilità di avere un figlio che non una gio-
vane operaia? Come ha scritto Stefano Rodotà, possiamo
172
trovarci di fronte al rischio di una sorta di human divide.
Naturalmente, so bene che la convergenza degli ordinamen-
ti europei è un processo arduo e lungo e non può essere in-
tesa come una mera omologazione. Per quanto mi riguarda,
votai a favore della fecondazione eterologa e penso tuttora
che dovrebbe essere consentita perché, rispetto ai rischi e
ai problemi pur presenti, mi pare prevalente un concetto di
paternità e di maternità più ampio e complesso, che ricono-
sciamo, ad esempio, nel campo dell’adozione. La stessa ap-
plicazione della legge 40 ha mostrato delle incongruenze di
ordine logico e morale che per fortuna la giurisprudenza sta
correggendo con sentenze equilibrate. Penso, ad esempio,
all’obbligo previsto dalla legge in vigore di impiantare un
embrione anche se malato e contro la volontà della donna
che poi ha la facoltà di abortire terapeuticamente. Stiamo
parlando di materie in continua evoluzione, in cui la stessa
definizione giuridica è destinata presto a subire cambia-
menti perché incalzata da nuove scoperte scientifiche. La
politica, a mio giudizio, deve essere capace di individuare
i confini da non varcare e certamente uno di questi è l’eu-
genetica. Il rafforzamento dei percorsi democratici e di al-
largamento delle consapevolezze culturali nella costruzione
delle decisioni è l’unica strada percorribile.
D. La drammatica vicenda di Eluana Englaro, oggetto di
una spettacolarizzazione che ha ferito le coscienze di molti,
ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema
del testamento biologico, ossia della necessità di una rego-
lamentazione sul fine-vita. Come e in quale misura, a suo
giudizio, la legislazione dovrebbe intervenire?
R. Nella discussione sul testamento biologico c’è stato
qualcosa di ambiguo e di faticoso, e si capisce perché. Fino a
un secolo fa il morire era un rito domestico e di vicinato, con
il moribondo protagonista, con una trasmissione di valori,
con la presenza di una rete familiare e amicale a sostegno e
a servizio della persona, secondo la sua volontà espressa o
interpretata. Adesso il morire è stato pressoché totalmen-
173
te affidato ai moderni servizi sanitari e sociali che hanno
medicalizzato quest’estrema esperienza umana. Tali servizi
agiscono seguendo delle procedure contenute in norme, in
linee guida, in regole di organizzazione, in deontologie. Ma
tutto ciò può togliere umanità, pur in nome di una tutela
certamente migliore della salute. Credo che ora le nostre
decisioni debbano essere il più possibile umane e ispirarsi a
criteri di rispetto della centralità del malato, coinvolgendo
e non escludendo fin dove possibile il mondo vitale, fatto
di affetti e di relazioni. Una volta espresse le valutazioni di
un medico che in scienza e coscienza dichiara l’impossibilità
di riabilitare le funzioni vitali, il sapere scientifico e tecnico
deve mettersi a confronto e soprattutto a servizio di quel
protagonista reale e dei suoi cari. Le decisioni verranno
dalla volontà eventualmente espressa del paziente. Verran-
no dal giudizio del medico e dall’affetto delle persone più
vicine al malato. Sarebbe paradossale che le nostre giuste
cautele verso scienza e tecnica nella fase della vita nascente
diventassero, invece, affidamento acritico alla tecnica nella
fase finale della vita, quasi che, a quel punto, l’uomo valesse
meno e, a poco a poco, potesse trasformarsi in un oggetto da
subordinare alla tecnica. Io sostengo che l’uomo non possa
essere mai privato della sua dignità e libertà e che il legisla-
tore in questi ambiti debba procedere con assoluta cautela,
rispetto e, direi, leggerezza: deve fare il meno possibile per-
ché questo è uno dei territori in cui bisogna coltivare il limi-
te della politica. Personalmente non riesco ad accettare che
sia il Parlamento a decidere come devo morire, così come
mi sembrerebbe anche sbagliato essere obbligati ad andare
tutti da un notaio per formalizzare il proprio testamento
biologico. Occorre, quindi, trovare un punto di equilibrio
tra le crescenti possibilità della tecnica, la volontà del ma-
lato e il mondo dei suoi affetti: così potrà avere una rispo-
sta concreta e civile anche la battaglia del padre di Eluana,
Peppino Englaro, che in quel clima di strumentalizzazione
politica subì da Berlusconi persino l’oltraggio di sentirsi di-
re che Eluana avrebbe potuto avere dei figli.
174
XII
IL PARTITO DEMOCRATICO
E LA SFIDA RIFORMISTA
176
plenza, fino alle degenerazioni e alle occupazioni del potere
che hanno causato la sclerosi del sistema. Così, dopo il tem-
po dei collateralismi, si è aperto un conflitto con la società
civile. È a questo punto che ha fatto irruzione l’idea che la
società possa farcela da sola e che al «regime» dei partiti
debba opporsi una democrazia dei cittadini, imperniata
sulla mobilitazione della sola società civile. Questo schema
oggi non solo è entrato in affanno, ma si è rivelato insuffi-
ciente per provare a risolvere la crisi italiana.
178
essere in grado di sostenere coerentemente l’azione di un
governo. Un partito, infine, deve garantire un equilibrio
tra decentramento e coesione nazionale, tanto più in un
momento in cui questa è una sfida cruciale per il destino
del Paese. È questo un partito «pesante»? Sinceramente
non credo che si possa definire così. È piuttosto un par-
tito di comunicazione e di collegamento, che riconosce le
autonomie e si confronta con le diverse istanze cercando
di proporre una propria sintesi. È un partito trasparente,
che non nasconde il confronto interno e sa produrre de-
cisioni.
180
le convergenze possibili e nel provare a definire soluzioni
giuridiche, capaci di interpretare un’etica condivisa, di ri-
spettare la scienza e al tempo stesso il principio di precau-
zione. Del resto, le esigenze di cautela e di paziente ricerca
di condivisione su questi temi non dovrebbe riguardare
solo un partito, ma l’insieme dell’universo politico. Ho già
detto che come possa o debba morire una persona non
dovrebbe essere affidato, in premessa, a una metà del Par-
lamento contro l’altra.
D. È d’accordo con chi sostiene che le primarie sono nel
dna del Pd e che il Pd non può farne a meno, pena una ri-
nuncia a se stesso?
R. Il Pd è un partito di iscritti e di elettori. Nel suo dna
c’è la tensione ad ampliare la partecipazione, ad aprirsi
alla società, a coinvolgere nel circuito della decisione de-
mocratica il maggior numero di cittadini interessati. Le
primarie sono uno strumento di questa partecipazione.
Uno strumento importante, che grazie al Pd è stato per
la prima volta sperimentato nel nostro Paese. Tuttavia, si
tratta pur sempre di uno strumento e non di un totem. La
sovranità in un partito appartiene ai suoi associati, i quali
in determinate circostanze la rimettono agli elettori per via
statutaria o per ulteriori scelte politiche.
D. Ma come è possibile tenere insieme nel vostro statuto
primarie di partito e primarie di coalizione? Non le pare
contraddittorio far eleggere direttamente il segretario nei
gazebo, con l’impegno statutario che questo sarà il futuro
candidato del Pd alla presidenza del Consiglio, e poi stipu-
lare alleanze che possono comportare nuovi negoziati per la
leadership? Perché fare le primarie di coalizione anche nei
sistemi a doppio turno (ad esempio, per l’elezione dei sin-
daci) quando il primo turno è fatto apposta per selezionare
i candidati migliori? Non crede che il Pd debba rimettere
mano alle regole delle primarie se non vuole diventarne la
vittima, anziché il protagonista?
181
R. Sono temi statutari sui quali ovviamente non decide il
segretario. La mia opionione è questa. Dobbiamo riforma-
re le primarie per evitare che in taluni casi inducano alla
dissociazione anziché all’unità, che indeboliscano uno schie-
ramento di governo anziché rafforzarlo, che vengano usate
per regolare conti tra partiti o all’interno dei partiti anziché
per selezionare la migliore candidatura possibile e costruire
attorno a essa una sintesi politica. Abbiamo inventato le pri-
marie per aprire il partito alla società e non debbono volgere
a un ripiegamento verso dinamiche interne al ceto politico.
Nella riforma statutaria manterrei un principio cardine: l’e-
lezione attraverso le primarie – magari costruendo un vero
e proprio albo degli elettori delle primarie che consenta poi
di tenere vivo un dialogo e una consultazione – del segre-
tario nazionale del Pd. Gli iscritti del Pd sono una parte
rappresentativa dell’elettorato e, come è avvenuto al tempo
della mia elezione a segretario, penso che le opinioni degli
associati tendano a coincidere con quelle degli elettori del-
le primarie. Tuttavia, qualora ci fosse discordanza, sarebbe
quanto mai utile la verifica di un corpo elettorale più ampio,
vista l’esposizione del segretario nazionale e la sua responsa-
bilità in funzioni di direzione ed, eventualmente, di governo.
Per quanto riguarda le elezioni di tutte le altre cariche di
partito, le affiderei di norma agli iscritti, attraverso proce-
dure che prevedano il più ampio coinvolgimento possibile.
Lascerei agli organi dirigenti locali le decisioni, da prendere
a maggioranza, di attivare le primarie di partito o di coali-
zione per la scelta dei candidati alle cariche monocratiche,
dal presidente della regione al candidato sindaco. E qualora
si decida per primarie di coalizione, il Pd dovrebbe a mio
avviso selezionare, attraverso regole democratiche interne,
una sola candidatura. In ogni caso per le primarie dobbiamo
definire procedure di migliore certificazione della base elet-
torale. Finché resta questa mostruosa legge elettorale con le
liste bloccate, bisognerà anche adottare metodi nuovi per la
selezione delle candidature al Parlamento nazionale. Penso
che le scelte degli organi di partito debbano essere precedute
182
da consultazioni ampie e il coinvolgimento dovrebbe riguar-
dare quanto meno tutti gli iscritti. Ricostruire un rapporto
tra eletti ed elettori è condizione vitale di una democrazia e
un partito democratico deve uscire anche unilateralmente
dallo schema imposto dal Porcellum.
184
R. Sono convinto che il ricambio sia più facile se un par-
tito funziona bene. Il mancato rinnovamento degli anni
recenti dipende molto, a mio avviso, dalla perdita di senso
e di ruolo del partito, oltre che da diverse ostruzioni nel
circuito democratico. Quando sono stato eletto segreta-
rio avevo preso l’impegno di far girare la ruota genera-
zionale e penso di aver già ottenuto risultati importanti.
Il 75% dei segretari provinciali del Pd sono attorno ai
quarant’anni. La segreteria nazionale è composta quasi
esclusivamente da giovani. Tanti sindaci sono espressione
di una nuova generazione nata alla politica con l’Ulivo.
La ruota continuerà a girare, è certo. Ma avverto anch’io
che non basta: il rinnovamento avvenuto nei territori, sia
nelle amministrazioni pubbliche che nei ruoli dirigenti
del partito, è meno visibile al centro. E questo non è do-
vuto all’egoismo di chi ha svolto in passato ruoli di primo
piano e oggi non ha più incarichi di direzione, ma soprat-
tutto al deperimento delle funzioni del centro del partito.
Quale sindaco di una città importante oggi rinuncerebbe
al suo secondo mandato per assumere un incarico nella
segreteria nazionale? Qui c’è un punto cruciale che non
abbiamo ancora ben chiarito: rafforzare il centro è una
condizione ineludibile di un vero assetto federale; il volto
di un partito è una proprietà indivisa e una scelta locale
può danneggiarlo nazionalmente e anche in tutte le altre
dimensioni locali. Quanto al tema della «rottamazione»,
comprendo i disagi che si manifestano davanti ai nostri
limiti. Ma credo che tutti debbano concorrere al miglio-
ramento senza ricorrere a immagini negative e ostili. Una
classe dirigente giovane mostra maggiore solidità se ri-
conosce le qualità di quella che l’ha preceduta, e invece
mostra minore sicurezza se si limita ad evidenziarne solo
i difetti. Anche perché ci sono tantissimi della nuova ge-
nerazione, non certo privi di spirito critico, che lavorano
nel partito e nelle amministrazioni per rottamare la destra
rinunciando alla facile visibilità che verrebbe dal rompere
la cristalleria in casa propria.
185
D. Lei ha detto più volte che il cantiere del Pd è ancora
aperto e ha parlato di un Nuovo Ulivo come orizzonte del
centrosinistra. A cosa pensa?
R. Il Pd nasce dalla ricomposizione riformista maturata nel
decennio berlusconiano, in particolare dopo l’infelice espe-
rienza dell’Unione, la coalizione di centrosinistra del 2006.
L’Ulivo è una delle sue principali matrici ma credo che sia
ancora una direttrice del suo futuro. Il Pd è per natura un
partito aperto, di collegamento con le autonomie sociali e
con le esperienze civiche. Quindi, non può che essere acco-
gliente nei confronti di altre esperienze riformiste. Il discri-
mine è dato dalla coerenza con cui si persegue il progetto
di governo, dalla convergenza su punti programmatici non
eludibili, dagli impegni che si assumono davanti al Paese.
Una coalizione come l’Unione non potrà mai più ripetersi.
Per questo, le forze di centrosinistra che si presenteranno
insieme alle prossime elezioni non potranno limitarsi ad au-
spici generici: dovranno dimostrare agli elettori che il vinco-
lo di solidarietà è solido e non revocabile nella contingenza.
Un modo per dimostrare che l’Unione non c’è e non ci sarà
più, per dare certezze strutturali al patto politico potrebbe
essere, per esempio, la costituzione di gruppi parlamentari
unitari di quell’area riformista più ampia che ho chiamato
Nuovo Ulivo. Non per questo il Pd perderà la propria au-
tonomia, ma non vedo nulla di male, né di contraddittorio
con il nostro impianto, se un domani questo processo potrà
generare un partito ancora più grande. La sola cosa che con-
sidero inaccettabile è che si parli di una «rifondazione» del
Pd. Il Pd esiste, il Pd è il motore di un’alternativa di governo
al centrodestra, il Pd può favorire un ulteriore processo di
aggregazione nella dignità di ciascuno: non ci sto, però, ad
azzerare il lavoro prezioso fatto fin qui in nome di una rifon-
dazione dagli incerti paradigmi culturali e politici.
D. Secondo lei in futuro anche Sinistra e Libertà di Nichi
Vendola potrebbe convergere nel Pd? La porta è aperta pure
all’Idv di Antonio Di Pietro?
186
R. Il Pd è un partito di centrosinistra. Sul suo percorso ci
sono formazioni ecologiste, riformiste, socialiste, laiche, ci
sono movimenti civici, gruppi locali nati dal volontariato
cattolico. L’apertura, l’avvicinamento ad altre esperienze
non può che partire da questi interlocutori, ovviamente
tenendo fermi l’ambizione di dare un governo riformista
al Paese e i principi fondamentali del programma. In que-
sta prospettiva ritengo possibile aprire un confronto anche
con Sinistra e Libertà. Ovviamente bisognerà chiarire bene
le questioni che hanno portato nel biennio 2006-2008 alla
disarticolazione del governo Prodi. Non è pensabile che si
ripeta la scena di un governo di centrosinistra, impegnato
nelle sedi internazionali per coinvolgere i Paesi confinanti
in una conferenza di pace sull’Afghanistan, che viene boc-
ciato all’interno da una sinistra radicale, la quale rifiuta pre-
giudizialmente una politica di responsabilità, anche milita-
re, nel quadro delle organizzazioni internazionali, delegitti-
mando così la nostra politica di distensione. Non è neppure
immaginabile che le politiche sociali, fiscali e del lavoro che
dovrà fare un centrosinistra di governo siano condizionate
da ripiegamenti classisti e di carattere massimalista. Se ma-
turerà una convergenza seria, sui contenuti, penso che il Pd
possa essere un interlocutore e un riferimento solido. In un
futuro non calcolabile non metto nessun limite a possibili
ulteriori evoluzioni. Lo stesso discorso riguarda l’Italia dei
Valori. Con chiunque sarebbe sbagliato procedere sulla
base di pregiudiziali. Ci sono evidenti differenze di cultura
politica e di linguaggio tra noi e Di Pietro. Ma il futuro di-
penderà dall’evoluzione del profilo politico di queste forze
e dagli orientamenti dei loro elettori. Lo dico con rispetto:
Sel e Idv sono partiti con una forte impronta personale. Ma
le persone passano, a cominciare da me, mentre sono con-
vinto che il valore di una ricomposizione riformista resterà
un valore attuale per decenni nel nuovo secolo.
190
sa sarebbe questo Paese fuori dall’Europa? E cosa sarebbe
senza tutte quelle riforme che accompagnarono la stagione
dell’euro, liberalizzazioni comprese?
R. Ho già detto che non tutto può essere attribuito all’ul-
timo decennio, ma ribadisco che nell’ultimo decennio c’è
stata una micidiale accelerazione del nostro scivolamento.
Si tratta di dati scioccanti che vengono totalmente rimossi e
che spingono l’Italia dalle aree più forti a quelle più deboli
dell’Europa. Nel 2000 la quota della popolazione italiana
relativamente povera, cioè con un reddito inferiore del 75%
della media Ue, era pari al 22%. Mantenendo il confronto
con gli stessi Paesi oggi la quota è salita al 29%. Nello stesso
periodo gli italiani relativamente ricchi, con redditi superio-
ri al 125% della media Ue, sono calati dal 57% al 25%.
Vuol dire, nel concreto, che il nostro Sud si è allontanato dal
Nord, ma allo stesso tempo il nostro Nord si è allontanato
dall’Europa. Se si prende come parametro la produzione
industriale del 2005, oggi quella dell’Italia è scesa all’86%
della produzione di allora, a fronte di una Germania al
98,3% e di una media Ue del 95,4%. Il tasso di occupazione
giovanile è in Italia molto più basso che nel resto d’Europa
(20,5% a fine 2010 contro il 38,1%) ed è addirittura in di-
minuzione. Siamo in coda alle classifiche anche per l’occu-
pazione femminile, che da noi raggiunge il 45,8% rispetto a
una media europea del 59,6%. Le statistiche sui salari reali
mostrano una forbice crescente a nostro sfavore nei con-
fronti dell’Unione europea. Le ricchezze si concentrano su
fasce sempre più ridotte della popolazione, ma ciò non ha
riscontri in termini di prelievo fiscale: secondo un’analisi del-
la Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie dal 1993 al 2006,
191
l’incidenza delle persone a basso reddito per classe sociale
aumenta dal 27 al 31% per gli operai, mentre diminuisce
di 11 punti per i lavoratori indipendenti, tuttavia la quota
di Irpef pagata dai lavoratori dipendenti è balzata dal 52 al
56%. Va detto ancora che negli ultimi tre anni siamo passati
dal 104 al 118% di debito pubblico sul Pil senza aver dovuto
salvare alcuna banca. In Europa abbiamo il triste primato
dell’abbandono scolastico. E anche lo scenario demografico
è assai preoccupante: il numero medio di figli per donna è
stimato intorno a 1,4. Se queste tendenze restassero invariate
avremmo problemi molto seri sul piano sociale, economico,
previdenziale: l’età media della popolazione nel 2051 passe-
rebbe dagli attuali 42,8 anni a 49,2; l’indice di vecchiaia au-
menterebbe da 142 anziani (oltre 65 anni) ogni 100 giovani
(sotto i 14 anni) a 256; la popolazione in età lavorativa (15
anni-64 anni) si ridurrebbe dagli attuali 39,7 a 33,4 milioni.
Sono forse problemi da poco? Non siamo forse a una vera
emergenza? E per uscirne non ci vorrà almeno un decennio
di politiche nuove?
R. Che negli anni Novanta sono state fatte le ultime rifor-
me strutturali. Basti pensare a quella sulle pensioni, su cui
ancora poggia l’equilibrio di finanza pubblica. Ma com-
prendo l’imbarazzo di chi deve tentare improbabili difese
d’ufficio dei governi di Berlusconi. La realtà, purtroppo
drammatica, è che nell’ultimo decennio a indicare il grave
pericolo che corre l’Italia non sono solo i dati numerici,
ma anche le performance immateriali. Sono cresciuti ad
esempio i fattori di dissociazione del tessuto nazionale.
L’illusoria filosofia del laisser faire, che la politica di Berlu-
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sconi ha incoraggiato fin quasi a farne una bandiera, è di-
ventata nel corso della crisi una sorta di «si salvi chi può»,
che ripropone nei fatti la legge del più forte. Così, mentre
stiamo celebrando i 150 anni della nostra storia, l’Italia si
trova intimamente più divisa, e dunque più debole nella
capacità di reagire alle difficoltà: si sono attenuati i legami
tra i territori, si è ampliato il divario economico e sociale,
si assiste a crescenti ripiegamenti corporativi e a lacera-
zioni del tessuto sociale, mentre anche dal punto di vista
culturale rischia di aprirsi un fossato sempre più profondo
tra Nord e Sud e, intanto, si indebolisce lo spirito civico di
tutta la nazione. La stagione berlusconiana non ha arginato
questo corso, anzi ha pensato di avvantaggiarsi favorendo
la piena. L’accentuarsi dell’evasione fiscale è anch’esso un
indicatore civico, culturale, non solo rilevante ai fini della
finanza pubblica. L’Italia può farcela solo se riscopre la
sua dimensione di comunità e la capacità di fare sistema e
di produrre nuova cultura della coesione. Non possiamo
permettere, dopo il fallimento del «ghe pensi mì» di Ber-
lusconi, che il «si salvi chi può» corroda e consumi anche
le chances di riscossa. Non possiamo consentire che, assu-
mendo il quadro di dissociazione come definitivo, energie
civiche positive vengano dirottate verso una contrapposi-
zione tra politica e società civile. Compito dei ricostruttori
è favorire una nuova coesione nazionale e democratica.
Le energie morali e civiche della società sono senz’altro
il carburante indispensabile, ma solo con una rinnovata
vitalità democratica dei partiti e con un ammodernamento
delle istituzioni, capace di attualizzare lo spirito della Co-
stituzione, questo carburante può attivare il motore e far
muovere la macchina che necessita di entrambi. La politi-
ca deve liberarsi della camicia di forza del populismo, che
ha piegato le istituzioni, perché questa è la condizione per
collegarsi a un risveglio civico, morale, legalitario. Come si
vede, torniamo alle strutture portanti del nostro progetto:
riforma repubblicana e nuovo patto sociale per il lavoro e
per la crescita.
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D. Non le pare che le condizioni prioritarie e ineludibili di
qualunque progetto per il Paese siano, da un lato, il recupero
di competitività, e, dall’altro, l’alleggerimento della zavorra
del debito pubblico?
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D. Oggi l’Italia, però, non è un Paese favorevole ai gio-
vani: ne abbiamo parlato nel corso dell’intervista. E la
demografia non aiuta neppure la politica. Se invecchiano i
cittadini-elettori, i partiti inevitabilmente sono portati ad
adeguare messaggi e proposte ai sentimenti medi di chi vota.
Come rompere questa spirale?
R. La politica deve essere più giovane della demografia
degli italiani e deve riuscire a sfidarla. O siamo capaci di
pensare il futuro e di metterlo fin d’ora al centro delle nostre
scelte, oppure il futuro ci punirà. L’Italia dispone di grandi
risorse sociali, imprenditoriali, civiche. Ma la riscossa non
può che avere le nuove generazioni come driver. E anche
simbolicamente l’impegno per dimezzare la disoccupazio-
ne giovanile, oggi sempre più vicina al 30%, va integrato
all’obiettivo-guida della crescita del lavoro nel decennio. Se
questa è la riforma delle riforme, vuol dire nel concreto che
la politica fiscale deve aiutare in misura maggiore le famiglie
con figli; che la politica della casa deve preoccuparsi di am-
pliare e calmierare il mercato degli affitti; che gli incentivi
alle imprese devono premiare chi assume giovani ricercato-
ri; che le politiche del lavoro devono far costare i contratti
a tempo indeterminato meno di quelli a tempo determina-
to e che la flessibilità non può toccare solo ai giovani; che
il welfare pensionistico, mentre innalza l’età pensionabile,
deve preoccuparsi di aumentare i rendimenti per chi oggi
è giovane e vive condizioni di precarietà; che le politiche
scolastiche devono innalzare l’età dell’obbligo e accorciare
i cicli di studio; che la riforma universitaria deve fissare a
65 anni la pensione per i professori ordinari. Ecco, questo
è un telaio programmatico coerente con un progetto di alto
profilo per l’Italia del 2020. Un telaio all’interno del quale
andrebbero poi inseriti altri criteri qualificanti.
D. Ci può indicare qualcuno di questi criteri?
R. Penso a quattro criteri-guida in grado di definire le ri-
forme sociali e liberali di cui l’Italia ha assoluto bisogno. Il
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primo: la produttività e la competitività vanno incrementa-
ti a livello di sistema. Lo sforzo non può essere chiesto solo
all’operaio della catena di montaggio, al piccolo imprendi-
tore o al giovane che cerca di entrare nel mondo del lavoro.
Bisogna disturbarci un po’ tutti e deve disturbarsi un po’
di più chi fino a oggi è stato al riparo. Il secondo: stabilità e
crescita devono darsi la mano. Se non c’è un po’ di crescita
non potrà esserci nemmeno stabilità. Ciò non vuol dire ve-
nir meno al rigore ma accompagnarlo con meccanismi che
sollecitino investimenti e occupazione. Il terzo criterio: bi-
sogna continuamente promuovere politiche per ridurre le
disuguaglianze. Ci hanno accusato, senza motivo, di voler
introdurre la patrimoniale quando invece è stato il gover-
no Berlusconi a incrementare le tasse sugli immobili delle
imprese nel decreto sul federalismo municipale. Il cuore
della nostra proposta fiscale sta invece in una redistribuzio-
ne dei pesi tra rendita e lavoro: 20% per la prima aliquota
Irpef, 20% per i redditi da impresa e da lavoro autonomo e
professionale, 20% per le rendite finanziarie (esclusi i titoli
di Stato). E in una lotta seria all’evasione fiscale. Il quarto
criterio: la sussidiarietà tra Stato, privato sociale e mercato
è un principio fondamentale, ma lo Stato non può trasfor-
marlo in un alibi per scaricare i suoi compiti. Il motto non
può essere «più società meno Stato»: Stato e società invece
devono camminare insieme sulla strada dell’innovazione e
delle riforme.
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te la fanno gli altri. Noi non vogliamo stare con chi tiene
le porte chiuse, ma con chi bussa per entrare. I riformi-
sti nei governi e nelle istituzioni devono fare la loro parte
chiedendo a tutti di scomodarsi un po’ per dare ai giovani
più libertà, più opportunità, più conoscenze. Ma anche i
giovani sono chiamati a un loro impegno e a pronunciare,
nei modi originali che sceglieranno, i loro sì e i loro no, e
a dire «noi» e non solo «io».
198
dopo le elezioni, che al Paese serve l’unità delle forze della
ricostruzione. E il Pd sarà comunque pronto a favorirla il
giorno in cui vincerà le elezioni.
Gli autori
Prologo
Un sogno con le gambe per camminare 3
I. La democrazia è libertà
e uguaglianza 11
V. Un partito nuovo
radicato in una lunga storia 74
203
XI. La scienza, la vita e i limiti
della politica 163
Conclusione
Unire le forze della ricostruzione 189