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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

Dipartimento di Filosofia, Sociologia,


Pedagogia e Psicologia applicata

Corso di laurea magistrale in


Psicologia Clinico-Dinamica

Tesi di laurea magistrale

IDENTITÀ NARRATIVE
E PROCESSI DI DESISTENZA DAL CRIMINE
IN UN GRUPPO DI DETENUTI LAVORATORI IN CARCERE
Narrative identities
and processes of desistance from crime
in a group of inmate workers

Relatore
Prof. Massimo De Mari

Laureanda: Nicole Petino


Matricola: 1175282

Anno Accademico 2019/2020


INDICE
INTRODUZIONE
CAPITOLO I
Funzione riabilitativa della pena e del lavoro nel sistema carcerario italiano _______________________ 1
1. La finalità rieducativa della pena ___________________________________________________________ 1
1.1 Teoria generale della pena _____________________________________________________________________ 2
a) La funzione retributiva della pena ________________________________________________________________ 2
b) La funzione generalpreventiva della pena __________________________________________________________ 4
c) La funzione specialpreventiva della pena __________________________________________________________ 4
1.2 La funzione rieducativa della pena a confronto _____________________________________________________ 5
a) La complementarietà tra la funzione retributiva e rieducativa __________________________________________ 5
b) Funzione specialpreventiva negativa e positiva collidono _____________________________________________ 6
2. La psicologia come strumento di rieducazione dell’individuo ____________________________________ 8
2.1 L’individualizzazione del trattamento rieducativo ___________________________________________________ 8
2.2 Impatto psicologico del carcere_________________________________________________________________ 10
a) Fase iniziale della detenzione e permanenza in carcere ______________________________________________ 11
b) Fase conclusiva della detenzione _______________________________________________________________ 14
3. Lavoro in carcere e rieducazione: tra benefici e criticità _________________________________________ 15
3.1 Lavoro per conto dell’Amministrazione penitenziaria ___________________________________________________ 16
a) Disoccupazione _____________________________________________________________________________ 16
b) Lavoro saltuario e scarsa preparazione professionale ________________________________________________ 18
c) Il valore materiale e simbolico della remunerazione _________________________________________________ 19
3.2 Il lavoro per conto di terzi ________________________________________________________________________ 21
a) Una scommessa che libera ____________________________________________________________________ 21
b) Il lato oscuro della scommessa _________________________________________________________________ 22
3.3 La cooperativa Giotto nel carcere Due Palazzi di Padova ________________________________________________ 23
3.4 Il carcere di Bastøy in Norvegia: la prigione aperta sul sé. _______________________________________________ 26
CAPITOLO II
Basi teoriche e metodi di ricerca __________________________________________________________ 27
1. I processi di desistenza dal crimine ________________________________________________________ 27
1.1 La desistenza: definizione e premesse ___________________________________________________________ 27
1.2 Teorie della desistenza _______________________________________________________________________ 29
a) Teorie ontogeniche della desistenza _____________________________________________________________ 29
b) Teorie sociogeniche della desistenza ____________________________________________________________ 31
c) Teorie della trasformazione cognitiva ____________________________________________________________ 38
2. Identità Narrativa ______________________________________________________________________ 40
2.1 L’identità: definizione e premesse ______________________________________________________________ 40
2.2 Una premessa epistemologica al metodo narrativo __________________________________________________ 42
2.3 Identità narrativa della persistenza/desistenza _____________________________________________________ 44
a) Teoria della personalità di McAdams ____________________________________________________________ 45
b) Il metodo narrativo-relazionale e costruzione dell’identità secondo Ciappi _______________________________ 50
3. Modello unificato di indagine della desistenza e dell’identità narrativa___________________________ 55
3.1 Il senso del tempo perduto ____________________________________________________________________ 56
3.2 Il fil rouge tra condanna e redenzione ____________________________________________________________ 60

ii
CAPITOLO III
Metodo, analisi dei dati e risultati _________________________________________________________ 64
1. Ricerche precedenti sui detenuti lavoratori nel carcere Due Palazzi _____________________________ 64
2. Raccolta dati e metodologia dell’analisi dati _______________________________________________ 67
2.1 Domanda di ricerca ed obiettivi dello studio_______________________________________________________ 67
2.2. Campione e setting dell’intervista _______________________________________________________________ 68
2.3 Costruzione protocollo di intervista e coding delle interviste __________________________________________ 69
3. Applicazione dell’analisi e risultati_______________________________________________________ 70
3.1 Analisi e risultati per sequenze narrative _________________________________________________________ 70
3.2 Analisi e risultati per trame narrate ______________________________________________________________ 74
CONCLUSIONI _______________________________________________________________________ 94
BIBLIOGRAFIA ______________________________________________________________________ 96
APPENDICE
RINGRAZIAMENTI

ii
Dedico questa tesi alle mie figlie
Teresa e Miriam
INTRODUZIONE

Il carcere è un luogo da cui è difficile uscire, ma anche in cui è difficile entrare. La persona reclusa si trova a
vivere in una sorta di “città nella città”: fuori la vita scorre, dentro il tempo si ferma. La ricerca di un senso
profondo di questo tempo è un aspetto fondamentale per la realizzazione di un’identità stabile e, di conse-
guenza, ha un impatto significativo sulla possibilità del detenuto di desistere dal crimine una volta lasciati i
cancelli alle spalle. In questo elaborato si investigherà in primo luogo l’identità del detenuto per mezzo di un
metodo narrativo centrato sul racconto della propria storia di vita. In secondo luogo si indagherà come
l’identità narrativa così generata sia connessa ai processi di desistenza dal crimine.

Attualmente la letteratura sta ponendo crescente attenzione al fenomeno dell’identità narrativa e ai processi
di desistenza coinvolti negli individui delinquenti. La ricerca svolta in questi tesi si inserisce pienamente in
questo quadro teorico adottando, al contempo, un approccio sperimentale basato sulla somministrazione di
un’intervista a quattro detenuti lavoratori nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova. In secondo piano,
dunque, l’indagine è rivolta a comprendere l’impatto del lavoro svolto nell’istituto penitenziario sull’identità
narrativa e sui processi di desistenza sopracitati.

Il primo capitolo di questa trattazione è finalizzato alla contestualizzazione della ricerca svolta grazie ad una
comprensione dettagliata della funzione rieducativa della pena, dell’impatto psicologico del carcere sui de-
tenuti e della situazione attuale del lavoro penitenziario in Italia e nel carcere di Padova. Nel secondo capito-
lo si porranno le base teoriche per comprendere i processi di desistenza del crimine e il fenomeno
dell’identità narrativa. In aggiunta, si presenteranno anche alcuni modelli personali come sintesi originale di
alcune delle teorie esposte. Infine, nel terzo capitolo, si applicheranno i metodi esplicitati al campione in
questione e si mostreranno i risultati più rilevanti emersi dall’analisi. Qui sarà interessante lasciarsi sorpren-
dere dal “fil rouge” narrativo, ossia da quell’elemento unico ed unificante che sta alla base dell’identità nar-
rativa dei detenuti intervistati come, in fondo, anche di ciascuno di noi.
CAPITOLO I

Funzione riabilitativa della pena e del lavoro nel sistema


carcerario italiano

1. La finalità rieducativa della pena

Nel contesto storico in cui viviamo si guarda spesso alla realtà del carcere e alla figura del carcerato con il
filtro distorto di stereotipi semplicistici. Ci si immagina, ad esempio, il carcerato come colui che ha compiu-
to un crimine violento dando sfogo alle proprie tendenze psicopatiche. In quest’ottica il carcere diviene quel
luogo dove tali soggetti, in fondo, meritano di restare: segregati e dimenticati dalla società. Si tratta di euri-
stiche e meccanismi di difesa che permettono di sentirsi al sicuro e di preservare la mente da pensieri distur-
banti, confinando il mondo del carcere in un angolo remoto della psiche, fino a dissociarlo totalmente e farlo
cadere nell’oblio. Inoltre, i media non fanno certo “il tifo” per i delinquenti: la figura del criminale intrattie-
ne e fa notizia proprio per l’efferatezza e la disumanità dei suoi atti. Da un lato i programmi televisivi sono
popolati da serial killer psicopatici, dall’altro i telegiornali forniscono interpretazioni superficiali non la-
sciandosi sfuggire i dettagli degli scoop più cruenti: dalla scoperta del cadavere ad ogni step del processo
penale del sospettato mostro. Ben poco viene detto sulla sua sorte una volta varcate le soglie del carcere.

Tuttavia ci si chiede se questa visione rispecchi effettivamente la situazione attuale, le dinamiche umane e
psicologiche coinvolte. Certamente risulta comodo condannare il reo senza riflettere sulle implicazioni delle
accuse o su un suo possibile percorso di riabilitazione. Potrebbe risultare molto più utile, infatti, porsi do-
mande come: “È possibile per il reo essere rieducato e diventare una persona nuova e risorsa per la socie-
tà? E il carcere può essere luogo idoneo per questa riabilitazione invece che un semplice dimenticatoio?”

Un primo contributo per una risposta a questi interrogativi si può già trovare nella Costituzione del nostro
paese. Il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione Italiana afferma che:

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieduca-
zione del condannato”

Si tende a dare per assodata questa espressione dei nostri padri costituenti, che sembra introdurre una visione
più “umana” della pena, dimenticando che al contrario concetti come “senso di umanità” e “rieducazione”
sono frutto di un lungo e travagliato percorso storico-culturale sul piano dei diritti umani, itinerario che forse

1
non è ancora giunto al termine. La rieducazione resta un tema estremamente complesso e attuale, che non si
è ancora finito di comprendere e interiorizzare appieno; nondimeno rimane necessario completare e affinare
la sua attuazione pratica. Pertanto, considerando anche la sua grande rilevanza sociale e per l’individuo, nel-
la presente trattazione si ritiene interessante riflettere sulla funzione riabilitativa della pena. Perciò, si cer-
cherà di fare chiarezza sulla vera radice della pena, soprattutto al fine di cogliere il concetto di rieducazione
apparentemente così in contraddizione con la natura stessa di una logica punitiva. A tale scopo in questo
primo sottocapitolo si presenterà come è concettualizzata la pena nel nostro ordinamento.

Secondo la teoria generale della pena si riscontrano tre funzioni principali: la funzione retributiva, quella ge-
neralpreventiva e quella specialpreventiva. Esse, secondo un approccio “polifunzionale” (Carrara, 1890), si
sovrappongono tra loro e assumono più o meno rilievo a seconda della cultura e del contesto storico.

Innanzitutto nei seguenti paragrafi si descriveranno tali funzioni. In seguito, con alcuni esempi che mostrino
l’approccio polifunzionale della pena, si porrà in rilievo la funzione specialpreventiva (rieducativa) metten-
dola a confronto con le altre categorie di pensiero.

1.1 Teoria generale della pena

a) La funzione retributiva della pena

Nella storia dell’arte, la giustizia viene quasi sempre allegoricamente rappresentata da una donna con una bi-
lancia che simboleggia la natura retributiva della giustizia. Nella versione di Giotto, custodita nella cappella
degli Scrovegni a Padova, la Giustizia viene rappresentata nel ciclo di affreschi delle virtù, contrapposto a
quello dei vizi (Figura 1). In questo caso nella bilancia si trovano due angeli: quello alla destra della Virtù è
intento ad incoronare un giusto (dettaglio non visibile nell’affresco) mentre quello alla sua sinistra è in pro-
cinto di colpire un malfattore con la sua spada insanguinata. Sotto si trovano i versi in latino: “Equa lance
cuncta librat / perfecta iusticia / coronando bonos vibrat / ensem contra vicia” (Con equa bilancia pesa tutte
le cose / perfetta giustizia / mentre corona i giusti vibra / la spada contro i vizi). La retribuzione, quindi, è
un’operazione di bilanciamento o equivalenza: a ognuno spetta quello che si merita, nel bene o nel male. La
pena in un’ottica retributiva rappresenta quindi una reazione che fa corrispondere al male del delitto un altro
male, la pena appunto: alla violazione segue giustamente una punizione che trova giustificazione nel concet-
to stesso di giustizia (Pulitanò, 2011). Ai piedi della Giustizia (Figura 1) vi sono rappresentate scene di cac-
cia e danze, simbolo della prosperità della società che applica il principio retributivo.

2
Figura 1: Giotto di Bondone, Giustizia, 1306 circa, affresco,
120x60 cm, Cappella degli Scrovegni, Padova

La spada insanguinata rievoca però una punizione di tipo capitale e violenta e una concezione della retribu-
zione che sembra dar sfogo alla sete di vendetta del privato e della società. Tuttavia nel nostro ordinamento
tale concezione primordiale di punizione viene sublimata e intellettualizzata, perdendo cioè di ogni connota-
zione aggressiva originaria. Infatti la retribuzione resta circoscritta alla fase edittale della pena, ovvero ad
ogni reato commesso viene attribuita una pena prestabilita, rispettando i limiti di sanzione previsti
dall’ordinamento.

Nel corso della storia si sono alternate diverse sfumature nel modo di concepire la giustizia retributiva. Se-
condo Kant, introducendo una linea teorica “morale”, la pena trova significato in un’esigenza etica insop-
primibile della coscienza umana che va oltre alla logica: “Quando anche la società civile si sciogliesse con il
consenso di tutti i suoi membri (per esempio, il popolo che abita un’isola decidesse di separarsi e di sparger-
si per tutto il mondo), l’ultimo assassino, che si trovasse ancora in prigione, dovrebbe prima essere giustizia-
to, affinché ad ognuno tocchi ciò che i suoi atti meritano e la colpa del sangue non ricada sul popolo che non
ha reclamato questa punizione” (Kant, 1797).

3
Secondo una chiave di lettura più recente, definita come corrente neoretribuzionista, si sostiene che
l’attribuzione della pena al reo sia per separarlo dagli altri, nel tentativo di confinare il desiderio contagioso
di trasgredire. La pena assolverebbe dunque una funzione canalizzante dell’aggressività dei cittadini per raf-
forzare, invece, l’attaccamento ai valori tutelati dalla legge (Ferrante, 2015). In realtà questa concezione re-
tributiva è molto vicina alle teorie utilitaristiche di carattere generale, ovvero la linea di pensiero generalpre-
ventiva spiegata al prossimo punto.

b) La funzione generalpreventiva della pena


La funzione generalpreventiva della pena si definisce negativa riferendosi allo scopo di impedire che il citta-
dino commetta lo stesso crimine del reo. Essa funge, dunque, da deterrente (Nuvolone, 1982). Si definisce
invece positiva in quanto la pena ha una funzione di orientare il comportamento e la cultura della società. Lo
stato sembra quindi assumere una funzione educativa per la società, come un padre che rimproverando o
premiando un figlio intenda tracciare i limiti lasciare un messaggio ai suoi fratelli e trasmettere certi valori e
il limite. Un esempio della funzione generalpreventiva della pena verrà esposto nel prossimo capitolo.

Mentre la funzione retributiva si manifesta in una prima fase edittale quella generalpreventiva della pena si
riscontra in una seconda fase di valutazione del reato e commisurazione adeguata della pena da parte del
giudice a cui viene assegnato il caso concreto. Il giudice, dunque, nel valutare la pena entro i limiti previsti
dal testo normativo, può anche tenere presente il carattere esemplare della pena nei confronti della società e
per mezzo della sua scelta indirizzare una certa cultura riguardo al reato commesso (Wikiversità, 2020).

c) La funzione specialpreventiva della pena


Le teorie specialpreventive, invece, ritengono che la pena si rivolga principalmente al reo con lo scopo di
evitare che egli torni a delinquere, abbattendo così la recidiva. Anche le teorie specialpreventive possono
avere un’accezione negativa o positiva. Nel primo caso si parla di neutralizzazione del reo, dove la pena è
orientata a intimidirlo per minimizzare la probabilità che ritorni a delinquere. La funzione generalpreventiva
positiva invece concepisce la pena come occasione per riabilitare e risocializzare il reo, auspicando ad un ve-
ro e proprio reinserimento.

Le teorie specialpreventive della pena vengono applicate nella fase di commisurazione e di esecuzione della
stessa piuttosto che nella fase edittale; secondo tale ottica la pena, come anche il trattamento durante il pe-
riodo di detenzione, devono essere definiti da parte del giudice “su misura” del reo creando così condizione
favorevoli all’effettiva riabilitazione della persona (Wikiversità, 2020).

La funzione specialpreventiva positiva della pena è quella di maggior interesse ai fini del presente elaborato,
pertanto in seguito si analizzerà in particolare tale funzione mettendola in relazione con le altre.

4
1.2 La funzione rieducativa della pena a confronto
La complessa discussione su quale delle teorie presentate sia la più adeguata sul piano logico o morale esula
dallo scopo di questa tesi. Tuttavia, come accennato precedentemente, si metteranno a confronto le varie
funzioni della pena evidenziando i vantaggi e le criticità della scelta di applicare un approccio polifunziona-
le. Quindi si cercherà di rintracciare la matrice rieducativa della pena e la sua applicazione nel nostro siste-
ma legislativo.

a) La complementarietà tra la funzione retributiva e rieducativa


Da un punto di vista puramente astratto la funzione retributiva della pena sembra essere in contrasto con la
funzione specialpreventiva positiva. Nel primo caso, infatti, si intende punire il reo proporzionalmente al
male commesso; nel secondo caso, invece, riabilitarlo guardando al suo futuro (Franceschetti, 2017). Tutta-
via, alcuni ritengono che solo se la pena viene avvertita dal condannato come giusta e proporzionata, grazie
all’ottica retributiva, essa può divenire una valida base psicologica per un qualsivoglia processo rieducativo
previsto dalla funzione specialpreventiva positiva (Sassetti, 2017).

A tal proposito è interessante riportare che la Corte Costituzionale riconosce al tempo previsto dalla pena, un
ruolo fondamentale nel processo riabilitativo, implicitamente intendendo che una pena, in senso retributivo,
sia necessaria affinché qualcosa cambi. Possiamo leggere, infatti, nella sentenza della Corte Costituzionale
n. 253 del 2019: “Assume ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevan-
ti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere”. Il tempo, come si mostrerà nel se-
condo capitolo, è un tema di grande rilievo per questa tesi, poiché grazie a tale dimensione è possibile scri-
vere la propria storia di vita, narrarla, sviluppare un’identità e trasformarla. Tuttavia questo tempo non può
essere visto puramente in ottica retributiva, come numero di anni in isolamento dalla società, poiché esso
deve essere strutturato secondo un’ottica specialpreventiva positiva per poter essere efficace rispetto alla ria-
bilitazione del reo. In questo senso la funzione retributiva e quella rieducativa sembrano essere complemen-
tari più che in opposizione.

Se questa accordo tra le due funzioni non viene rispettato si rischia di incombere nella cosiddetta “devianza
secondaria” (concetto che verrà meglio spiegato più avanti [p.47]), la quale si sviluppa come reazione alla
società. Da questo punto di vista l’atto criminale non è sempre ed unicamente frutto del libero arbitrio del
reo, ma può anche essere facilitato da un’insufficiente “rimozione” degli ostacoli di ordine economico e so-
ciale da parte della Repubblica così come descritto dall’articolo 3 della nostra Costituzione1.

1
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di reli-
gione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine econo-
5
La storia fittizia di Arthur Fleck, così come interpretata da Joaquin Phoenix nel recente film “Joker” (Phil-
lips, 2019), rappresenta, seppur in modo enfatico, come il contesto sociale, laddove si presentino precarietà
economiche o condizioni sociali sfavorevoli, possa indurre l’individuo vulnerabile a intraprendere una via
criminale. Il protagonista, personaggio isolato e dal carattere fragile, vive nella metropoli di Gotham City,
dove regnano la criminalità, la disoccupazione e la povertà da un lato e l’opulenza e l’indifferenza dei poten-
ti dall’altro. In questo contesto Arthur subisce una vera e propria trasformazione e crisi d’identità, che lo
porterà presto a compiere vari omicidi in nome dell’ingiustizia subita.

Ammettendo, dunque, che la società sia in parte responsabile della mancata prevenzione dell’attività crimi-
nale, pare ragionevole affermare che essa dovrebbe distanziarsi da una logica puramente retributiva-afflittiva
a discapito del condannato. Piuttosto essa dovrebbe cercare di controbilanciare la logica della devianza se-
condaria riparando le sue mancanze e risarcendo il reo, adoperandosi in un’ottica puramente specialpreven-
tiva positiva per la sua rieducazione. Si ragiona quindi in chiave di reciprocità, dove le parti debbano venirsi
incontro affinché si attui il risultato sperato; da un lato la società concede al detenuto un’altra possibilità e
un’occasione di riabilitazione e dall’altro il detenuto concede alla società un attivo impegno di riscatto.

Sulla base delle considerazioni riportate in questo paragrafo, si è ritenuto rilevante nella fase di analisi dei
risultati delle interviste della presente ricerca, indagare la percezione del detenuto della pena allo scopo di
osservare se l’applicazione della funzione retributiva e la presunta applicazione della specialpreventiva stia
effettivamente portando i suoi frutti al processo riabilitativo e di desistenza dal crimine.

b) Funzione specialpreventiva negativa e positiva collidono


Un altro aspetto di grande dibattito nell’applicazione di un approccio polifunzionale, è l’evidente contrasto
tra funzione specialpreventiva negativa e positiva della pena. In un certo senso, infatti, si potrebbe affermare
che secondo la visione specialpreventiva negativa la pena di morte potrebbe non essere solo ammissibile, ma
addirittura la sanzione più efficace per la neutralizzazione del reo che abbia commesso un crimine di grave
entità (Franceschetti, 2017). Nonostante questa visione si ponga chiaramente in netta divergenza con qual-
siasi scopo rieducativo della pena, per ragioni storiche, politiche e culturali essa viene regolarmente applica-
ta in molti paesi nel mondo come l’Arabia Saudita, l’Iran, gli Stati Uniti o la maggior parte dei paesi dell’Est
asiatico, inclusa la Cina (Amnesty International, 2020).

Sebbene la pena di morte non sia ammessa in Italia ed in Europa, come sancito dalla Carta dei Diritti Fon-

mico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

6
damentali dell’Unione Europea2, rimane da chiedersi se soluzioni legislative come l’ergastolo non siano una
compressione del sopracitato dettato costituzionale dell’art. 27 comma 3. L’ergastolo, come recita l’art. 22
del Codice Penale, è una “pena detentiva perpetua”, il che significa che, almeno dal punto di vista teorico, il
reo in questione dovrebbe stare in carcere fino alla morte (Concas, 2019). Si potrebbe affermare, come anche
suggerisce uno dei detenuti intervistati in questa ricerca, che anche il “fine pena mai” dell’ergastolo sia un
esercizio di neutralizzazione simile, o addirittura superiore, a quello della pena di morte (Musemeci, 2013).
Questo tipo di provvedimento chiaramente stride con il principio di risocializzazione del carcerato al quale
viene negata in assoluto la possibilità di un reinserimento sociale. Alcune rimostranze sull’incostituzionalità
dell’ergastolo sono state ripetutamente poste all’attenzione della Corte Costituzionale da parte dei Giudici di
merito. Queste tuttavia sono state sempre respinte basandosi sull’assunto che “funzione e fine della pena non
siano solo il riadattamento dei delinquenti” e soprattutto che teoricamente la pena dell’ergastolo, grazie an-
che ai benefici concessi da una riforma dell’Ordinamento penitenziario del 19753 e dalla legge Gozzini del
1986, “non riveste più i caratteri della perpetuità”4.

Infatti secondo queste riforme all’ergastolano dopo aver scontato almeno 10 anni di pena viene concessa la
possibilità, se ritenuto non pericoloso, di ottenere permessi premio che gli consentano di uscire dal carcere
45 giorni per ogni anno di espiazione della condanna (art. 30-ter dell’Ordinamento penitenziario). Dopo 20
anni di pena detentiva al carcerato ergastolano può venire concessa la possibilità di usufruire di un regime di
semilibertà in cui il carcerato possa venire inserito in attività lavorative o istruttive esterne al penitenziario o
comunque utili al reinserimento nella società (art. 48, 50 e 51 dell’Ordinamento penitenziario). Tuttavia que-
sti benefici non sono ancora vincolati all’effettiva scarcerazione del condannato ma, come descritto
dall’articolo 176 del Codice Penale, è necessario l’adempimento di requisiti oggettivi come ad esempio la
possibilità di accedere alla libertà condizionata dopo aver scontato almeno 26 anni di carcere e requisiti che
riguardano il soggetto, ad esempio che il condannato “durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenu-
to un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento”. Dunque dal momento in cui, dopo 26
anni di carcere, venisse concessa la libertà condizionata, dovrebbero passare altri 5 anni prima che la pena
venga estinta, a condizione che il condannato non commetta altri reati. Sarà il magistrato di sorveglianza in-
caricato di verificare la conformità del trattamento del condannato con la Costituzione e l’Ordinamento peni-
tenziario al fine di decidere se e come concedere i permessi premio, consentire le misure alternative alla de-
tenzione, approvare programmi di trattamento rieducativo e concedere la liberazione condizionale.

2
Articolo 2 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza), sul “Diritto alla Vita”:
Ogni persona ha diritto alla vita.
Nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato.
3
Si fa riferimento in particolare alla legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’Ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della libertà)
4
Sentenza della Corte costituzionale n. 264 del 1974
7
Inoltre alla fine del 2019 viene eliminato dal nostro ordinamento l’ergastolo ostativo, che di fatto prevedeva
effettivamente il “fine pena mai” (Sicilianos et al., 2019). Ciononostante, l’interrogativo su quale sia
l’assetto alla pena più adeguato tra il prediligere una visione specialpreventiva negativa o positiva resta tema
di grande dibattito e attuale, sempre influenzato dalle fluttuazioni delle teorie e della cultura del momento.
Per questo motivo assume un ruolo centrale indagare l’opinione e l’impatto psicologico della pena sul dete-
nuto interrogandolo in prima persona come verrà fatto nel presente elaborato.

A tal proposito sono interessanti le parole di Herman Hesse che il giudice Elvio Fassone cita nella lettera in-
dirizzata all’ergastolano che lui stesso aveva condannato al regime ostativo: “Nessun uomo è tutto nel gesto
che compie, nessun uomo è uguale nell’attraversare del tempo” (Pasolini, 2019). Parole che danno una vi-
sione profonda e non deterministica sull’umano e riportano alla centralità del tema del tempo come terreno
in cui far crescere il cambiamento della persona.

L’ergastolo, così come descritto nel paragrafo precedente, pare lasciare spazio, seppur in tempi decisamente
lunghi, ad un percorso di riabilitazione e di scarcerazione. Tuttavia resta da chiedersi se una trentina di anni
di detenzione, nella migliore delle ipotesi, non rischino di ostacolare la riabilitazione della persona. Alda
Merini afferma, infatti, che “nella prigione gli alberi crescono a rovescio”, rischio riscontrato anche da nu-
merosi studiosi, come si metterà in luce più dettagliatamente nel secondo capitolo.

Ad ogni modo tale rischio non preclude definitivamente uno slancio positivo verso il futuro, indice di una
ristrutturazione della persona a favore della desistenza dal crimine. Per tali motivi nel presente trattato si
guarderà alla pena da scontare non come unico fattore incidente nella percezione del futuro del condannato.
Ciò vale a dire che la presenza di speranza non è rilevante solo nei confronti del fine di una pena come ad
esempio l’ergastolo, ma anche nei confronti dei propri affetti, piani, desideri e sogni (Fiandaca & Musco,
2010, p. 716).

2. La psicologia come strumento di rieducazione dell’individuo

In questo sottocapitolo si mostrerà la rilevanza e l’utilità della psicologia nel contesto del carcere. Nel primo
paragrafo si presenterà il processo di individualizzazione del trattamento rieducativo, così come regolamen-
tato dall’Ordinamento penitenziario. Lo scopo di un tale trattamento è quello di far fronte alle diverse forme
di disagio sperimentate dai detenuti, queste verranno presentate nel secondo paragrafo del sottocapitolo.

2.1 L’individualizzazione del trattamento rieducativo


Come chiarito fino a questo punto, la pena dovrebbe, per come è oggi concepita, assolvere una funzione rie-
ducativa. È rilevante, in questo senso, riportare il contenuto dell’articolo 15 dell’Ordinamento penitenziario
che specifica i contenuti di questa rieducazione:
8
“Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, della
formazione professionale, del lavoro, della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, del-
le attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti
con la famiglia.
Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il
lavoro.
Gli imputati sono ammessi, a loro richiesta, a partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e, sal-
vo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell’autorità giudiziaria, a svolgere attività lavorativa di for-
mazione professionale, possibilmente di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione
giuridica”.

Dunque, in condizioni ordinarie, l’ordinamento prevede diverse disposizioni per compiere, almeno in linea
teorica, il processo di riabilitazione. Per far fronte alla effettiva attuazione di questo ventaglio di possibili
strumenti rieducativi l’Amministrazione penitenziaria si avvale di personale dedicato, poiché il corpo di Po-
lizia Penitenziaria di per sé svolge principalmente il compito di mantenere l’ordine e garantire la sicurezza.
La legge del 26 luglio 1975 n. 354, da cui deriva anche l’articolo 15 sopra citato, riformò letteralmente il si-
stema penitenziario in questa direzione istituendo con l’articolo 72 i cosiddetti “centri di servizio sociale” i
quali:

“(…) provvedono ad eseguire, su richiesta del magistrato di sorveglianza o della sezione di sorveglianza, le
inchieste sociali utili a fornire i dati occorrenti per l’applicazione, la modificazione, la proroga e la revoca
delle misure di sicurezza e per il trattamento dei condannati e degli internati, nonché a prestare la loro ope-
ra per assicurare il reinserimento nella vita libera dei sottoposti a misure di sicurezza non detentive.
I centri prestano inoltre, su richiesta delle direzioni degli istituti, opera di consulenza per favorire il buon
esito del trattamento penitenziario. Svolgono, infine, ogni altra attività prevista dalla presente legge che
comporti interventi di servizio sociale”.

Ecco che nascono all’interno del carcere le figure degli educatori e, all’esterno, degli assistenti sociali di-
pendenti dei centri di servizio sociale. La partecipazione all’azione rieducativa di queste figure rende possi-
bile l’individualizzazione del trattamento in modo, cioè, che esso venga strutturato su misura dell’imputato.
Nell’articolo 13 infatti la legge citata afferma che:

“Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto.
Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per
rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale. L’osservazione è compiuta
all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel corso di essa.
9
Per ciascun condannato e internato, in base ai risultati della osservazione, sono formulate indicazioni in
merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma, che è integrato o mo-
dificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione”.

In questo processo di individualizzazione è interessante notare la centralità dell’osservazione scientifica che


deve essere compiuta dall’inizio alla fine della condanna al fine di formulare indicazioni in merito al tratta-
mento rieducativo. Altrettanto interessante è il fatto che l’amministrazione non possieda di per sé le compe-
tenze per compiere questa osservazione scientifica. Tali trattamenti vengono quindi delegati a personale
competente. Infatti l’articolo 80 specifica che:

“per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l’Amministrazione penitenziaria può av-
valersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica,
corrispondendo ad essi onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate”.

Nascono così figure come quella dello psicologo penitenziario (Sigmund Freud University, 2019) che, nello
specifico, si occupa di:
• assessment delle caratteristiche di personalità del detenuto
• diagnosi e consulenza psicologica per reclusi ad alto rischio di sindromi di disadattamento carcerario
e sintesi psicodiagnostica
• progettazione di programmi di sostegno psicosociale e realizzazione di interventi riabilitativi
• progettazione e realizzazione di programmi di trattamento terapeutico
• formazione psicosociale del personale penitenziario

2.2 Impatto psicologico del carcere


Nonostante la riforma del sistema penitenziario del ’75 abbia portato elementi innovativi, la sua attuazione è
tuttora in evoluzione e presenta ancora alcuni limiti.

Per la sua formazione specifica la figura dello psicologo penitenziario si dimostra particolarmente appropria-
ta per “l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del
disadattamento sociale” progettare e monitorare il trattamento rieducativo “secondo i particolari bisogni
della personalità di ciascun soggetto” come predisposto dall’articolo 13 precedentemente citato; per non
parlare dell’evidente competenza ad hoc dello psicologo nel far fronte ad eventuali criticità a livello psicolo-
gico preesistenti l’incarcerazione o reattive alla stessa. Tuttavia, tenendo conto del numero di professionisti e
della domanda, uno studio recente ha mostrato che un detenuto in Italia avrebbe la possibilità di avere a di-
sposizione uno psicologo penitenziario per una media di 7 minuti alla settimana (nel 2019); solo 4,5 minuti
per quanto riguarda gli psichiatri. Nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova, ad esempio, non esiste una
10
vera e propria sezione di trattamento psichiatrico e le numerose sindromi psicopatologiche spesso non ven-
gono adeguatamente gestite; lo stesso studio osserva una media di trattamento psichiatrico di soli 2,5 minuti
alla settimana per detenuto, a fronte dei circa 100 detenuti in terapia psichiatrica (Associazione Antigone,
2020; di Lilio, 2019). Inoltre da un’indagine sempre sullo stesso istituto è emerso che la maggior parte dei
detenuti lamenta ritardi di diversi mesi dell’intervento da parte di psicologi (de Paolis, 2016, p. 90).
D’altronde numerosi psicologi penitenziari hanno denunciato un’insufficienza di tempo per adempiere le
numerose mansioni a loro richieste, oltre ad uno scarso riconoscimento remunerativo (Lex, 2017; Ruocco &
Montinaro, 2015). Tuttavia, sembrerebbe che un gran numero di persone potrebbero trarre notevoli benefici
da un tale servizio. Basti pensare che nel sistema penitenziario la percentuale di soggetti affetti da patologie
psichiatriche è più elevata che all’esterno (Allegri & Torrente, 2018).

Per comprendere le sfide sul piano psicologico in cui il detenuto è costretto ad imbattersi, vorrei porre
l’accento su due momenti critici della detenzione: la fase iniziale e la fase conclusiva. È bene anche tenere in
considerazione che entrambi questi momenti hanno poi un impatto che si protrae in seguito, ovvero durante
tutta la durata della pena e una volta usciti dal penitenziario.

a) Fase iniziale della detenzione e permanenza in carcere


Fu il sociologo Erving Goffman, nella sua teoria delle istituzioni totali, ad individuare un fenomeno nella fa-
se iniziale della detenzione definito come “spoliazione” (Goffman, 1961). Nella spoliazione il recluso si tro-
va improvvisamente privato del proprio ruolo sociale, degli effetti personali, del suo spazio privato, della
capacità di prendere decisioni autonomamente e, forse cosa più importante, del contatto quotidiano con la
famiglia e con gli amici. Inoltre è risaputo che i carcerati spesso debbano condividere spazi ristretti e privi
dei comfort a cui magari non si era abituati prima dell’incarcerazione. Si consideri ad esempio che l’attuale
stato di sovraffollamento delle carceri italiane ammonta al 112% rispetto ai posti disponibili5; oppure che nel
50% dei penitenziari vi sono celle senza acqua calda e altrettante senza doccia 6; o che per il 30% l’aerazione
e illuminazione degli ambienti è ritenuta scarsa o insufficiente (Miravalle & Scandurra, 2020).

Credo che il dipinto “Ronda dei carcerati” di Vincent Van Gogh del 1890 (Figura 2), possa aiutare a cogliere
in modo più profondo il fenomeno della spoliazione in tutta la sua drammaticità. In quel periodo il pittore
olandese si trovava in isolamento presso l’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence, in seguito ad
una petizione dei cittadini di Arles per rinchiudere il “rosso pazzo” (così veniva chiamato da chi lo vedeva
come una minaccia per la società). Non potendo dipingere all’aperto come di consueto, copiò il soggetto da
una stampa dell’epoca secondo il proprio stile trasfigurato dalla propria esperienza di quel periodo. Il dipinto

5
Anche se in calo rispetto al 130% di inizio febbraio per via di alcuni provvedimenti di confinamento presi per via della pandemia
da Covid-19
6
Tra cui anche la casa di reclusione Due Palazzi di Padova (Associazione Antigone, 2020)
11
mostra quanto egli sentisse vicino il vissuto di un detenuto alla propria condizione di paziente, al punto da
rappresentare l’uomo al centro con i suoi stessi capelli rossi, con le braccia a penzoloni e lo sguardo perso e
allucinato. Sullo sfondo si staglia un muro altissimo che delimita uno spazio chiuso, claustrofobico, da cui
non si può fuggire. Le finestre sono strette e poste troppo in alto per poter scorgere l’esterno. Il grigiore delle
pareti e delle uniformi diviene un tutt’uno con il passeggiare ossessivo di quei corpi curvi di chi si è ormai
abbandonato alla rassegnazione e non sa più quale sia la propria identità.

Se da un lato Van Gogh nell’ospedale psichiatrico si sentiva come rinchiuso in una prigione, dall’altro non è
raro che un detenuto in carcere spesso abbia la percezione di impazzire. Come la sensibilità del pittore olan-
dese ha ben saputo cogliere, la condizione di malato mentale e di detenuto spesso manifestano delle dram-
maticità simili: ad esempio il fatto di essere fisicamente esclusi dalla società e confinati in luoghi dove pro-
blematiche strutturali e di gestione non fanno che sommarsi alle già numerose difficoltà a carattere psicolo-
giche da affrontare, come ad esempio il vissuto di estraniamento/alienazione psicologica e perdita di un sen-
so integrato del sé, caratteristici soprattutto della fase di spogliazione.

Non sorprende, dunque, il fatto che un recente studio dell’associazione Antigone in collaborazione con il
Segretariato italiano studenti di medicina abbia riscontrato che durante la detenzione i carcerati frequente-
mente sperimentano disagio psicofisico e sviluppano in molti casi vere e proprie psicopatologie: in particola-

Figura 2: Vincent van Gogh, Ronda dei carcerati, 1890,


olio su tela, 80x64 cm, Mosca, Museo Puškin

12
re disturbi d’ansia generalizzata, ansia da separazione, ansia reattiva da perdita e da crisi di identità, o altri
disturbi legati alle emozioni scaturite dal reato commesso (di Lilio, 2019). A testimonianza della potenziale
natura patogena del carcere, spesso poi questi disturbi possono cristallizzarsi in “sindromi di disadattamento
carcerario” (Sigmund Freud University, 2019), anche dette “sindromi penitenziarie”, ovvero vere e proprie
patologie psicosomatiche classificate e descritte dalla medicina penitenziaria.

Propriamente nel primo periodo di detenzione la “sindrome da ingresso in carcere” (di Lilio, 2019), prima
nota come “trauma da ingresso in carcere” (Mastantuomo et al., 1960), presenta un ampio spettro sia di di-
sturbi somatici (disturbi dispeptici, esofagei, respiratori, sensazioni di soffocamento, tachicardia, vertigini,
svenimenti) che sintomi psichici (stupore isterico, agitazione, crisi confusionali, perdita di piacere, rannic-
chiamento fetale, disorientamento spazio-temporale) e si verifica prevalentemente in individui caratterizzati
da un grado di cultura maggiore che avvertono un divario decisivo tra il tenore di vita condotto in libertà e
quello carcerario. È opportuno sottolineare che non si parla di fenomeni isolati, ma molto comuni. Da una
ricerca del Ministero della Giustizia francese è risultato che in Francia, ad esempio, circa un quarto della po-
polazione detenuta già dai primi giorni di detenzione soffre di vertigini e ben il 60% lamenta “perdita
d’energia” (Baccaro, 2003).

Per Van Gogh la delusione più grande è stata certamente quella di veder rifiutato duramente il proprio slan-
cio ad aiutare il prossimo, di sentirsi incompreso, respinto e abbandonato a se stesso dalla società, senza al-
cuna prospettiva di reinserimento nella stessa (Bernard, 1890). Un simile vissuto appartiene anche a molti
detenuti, come attestano anche i resoconti di alcuni di loro che hanno preso parte al presente studio, i quali
affermano, ad esempio, che lo strappo più grande è stato quello dagli affetti e dalle proprie ambizioni e
l’angoscia più grande quella di non vedere per se stessi alcun futuro possibile al di fuori dal carcere.

Tuttavia quando si viene spogliati di ciò che si riteneva essenziale per vivere e si è immersi in un ambiente
ostile, come può essere quello del carcere, talvolta si verifica un fenomeno particolare: la persona manifesta
più spiccatamente quella che viene chiamata in psicoanalisi “pulsione di vita”. L’individuo cerca, cioè, appi-
gli alla vita: nel proprio passato, nel proprio presente e nel proprio futuro. Egli cerca un senso, una motiva-
zione, qualcosa a cui aggrapparsi e qualcosa in cui credere, in cui sperare. Nel dipinto due piccole farfalle
bianche volano verso l’alto inosservate, per Van Gogh è quasi certamente simbolo di quella speranza reli-
giosa che contraddistinse tutta la sua vita; scriveva infatti al fratello Theo (van Gogh, 1877): “Dio, che vede
le nostre sofferenze, può aiutarci anche se tutto è contro di noi. […] Siamo tanto attaccati a questa vecchia
vita perché accanto ai momenti di tristezza, abbiamo anche momenti di gioia in cui anima e cuore esultano –
come l’allodola che non può fare a meno di cantare al mattino, anche se l’anima talvolta trema in noi, piena
di timori”.

Come testimoniano alcuni intervistati nel presente elaborato, le manifestazioni di questo attaccamento alla
13
vita sotto forma di speranza possono essere i cari a cui tornare, l’immergersi nello studio, l’aver trovato gra-
tificazione professionale e relazionale in ambito lavorativo in carcere, aver avuto la possibilità di imparare
un mestiere, o fare un lavoro di comprensione e (ri)costruzione su se stessi, sentire aumentata a qualche li-
vello la propria capacità di agentività o semplicemente avere un obiettivo o un desiderio.

A nessun uomo è mai negato di trovare almeno un briciolo di speranza, nemmeno a quelle anime che, come
nel caso di Van Gogh, sono passate “sotto la frusta del destino” (Bernard, 1890). Chi scrive ritiene che la
psicologia in carcere possa essere uno strumento a sostegno della pulsione di vita dei carcerati; si mostrerà
più chiaramente nel secondo capitolo che la speranza, di qualsiasi natura essa sia, emerge in particolare
quando la narrazione della persona è riferita al futuro e diviene un parametro rilevante per valutare lo stato
di desistenza dal crimine e di benessere generale del carcerato.

b) Fase conclusiva della detenzione


Secondo Goffman (1961), successivamente alla spoliazione può seguire un processo di “disculturazione” o,
con le parole del sociologo Donald Clemmer, di “prisonizzazione” (Clemmer, 1940), che consiste in un pro-
cesso di spersonalizzazione che avviene durante la detenzione. Esso si verifica nel momento in cui il detenu-
to perde i propri punti di riferimento e si trova inghiottito e si identifica con la cultura, le norme e le abitudi-
ni e le routine apprese in carcere. Si mostrerà nel secondo capitolo come questo fenomeno sia strettamente
connesso a quello della “stigmatizzazione” del reo da parte della società. Nel momento prossimo alla scarce-
razione, la prisonizzazione può predisporre il detenuto all’insorgere di una patologia chiamata “vertigine da
uscita”. In queste condizioni i pensieri del detenuto si focalizzano sulle difficoltà a cui si dovrà affacciare
una volta tornato nel mondo esterno, sull’ossessione di ricadere nel crimine e sul profondo timore di non es-
sere in grado di ritrovare una sufficiente autonomia. Una volta scarcerata, la persona colpita da una tale pato-
logia è facilmente esposta all’estraniamento, ossia all’incapacità di adattamento alla vita sociale e familiare;
a complicare il tutto resta il fatto che certamente l’ex-detenuto non troverà tutto come lo ha lasciato al mo-
mento dell’arresto. Quando il sentimento d’inadeguatezza rispetto alla riconquista del proprio ruolo sociale e
familiare prende il sopravvento, l’ex-detenuto può ricorrere a gesti autolesivi e anche in tentativi di suicidio.
Nel 2019 nei penitenziari italiani sono avvenuti 13,5 volte più suicidi che all’esterno del carcere (Miravalle &
Scandurra, 2020) e, secondo uno studio condotto in Inghilterra, una volta usciti dal carcere, il tasso di suicidi
rimane più alto rispetto alla media della popolazione (Pratt et al., 2006).

Un lucido esempio del carcere come realtà totalmente istituzionalizzante ed estraniante, tratto dal mondo ci-
nematografico, è rappresentato nel film “Sulle ali della libertà” (Darabont, 1994). Brooks Hatlen, interpreta-
to da James Whitmore, è un personaggio secondario del film, detenuto bibliotecario “modello” nell’istituto
di pena da cui il protagonista cerca di evadere. Dopo 50 anni di detenzione Brooks riceve la libertà condi-
zionata ma, essendo ormai rimasto nell’istituto troppo a lungo, non riesce a concepirsi fuori dalle mura in

14
cui è stato rinchiuso tutta la vita. Nel disperato tentativo di restare, minaccia il detenuto Heywood con un
coltello alla gola senza, però, trovare la forza di andare fino in fondo. Ecco quindi i cancelli che si chiudono
alle sue spalle, le automobili che sfrecciano ovunque, la camera in cui vive solo, il suo nuovo lavoro come
commesso in cui si sente inadeguato, gli incubi in cui precipita risvegliandosi poi in un luogo, la sua camera,
che non riconosce. Stanco e spaventato, Brooks decide di “non restare più” dubitando che a qualcuno possa
importare di un vecchio truffatore come lui; così Brooks si impicca.

L’opinione di chi scrive è che la psicologia debba essere messa in campo per contrastare questi rischi ed evi-
tare il peggio prima che accada. Inoltre il metodo narrativo presentato nei prossimi capitoli può apportare il
suo contributo alla riabilitazione del detenuto: infatti la narrazione di sé, se opportunamente guidata, non
presenta solo fini valutativi, ma anche terapeutici a favore dell’individuo. In fondo narrazione e psicoterapia
sono contraddistinte da un legame forte e indissolubile.

Più che mai per chi si trova “dentro” le mura del carcere occorre compiere un viaggio “fuori” attraverso la
narrazione, intraprendendo una vera e propria odissea verso luoghi inesplorati che, dopo mille peripezie, ri-
porti a casa l’individuo, più maturo e consapevole della propria identità. Ripercorrendo le tappe della storia
di vita e rintracciando il fil rouge della stessa, la persona può sperimentare un ritrovamento del sé, che si era
perduto tra i meandri della propria storia criminale e di una condizione estraniante come quella del carcere,
aprendo così la possibilità ad una ricostruzione dell’identità, ad una riscrittura e riappacificazione con la
propria storia.

3. Lavoro in carcere e rieducazione: tra benefici e criticità


Dato il ruolo centrale del lavoro per la rieducazione del carcerato, per l’intervista del presente studio è stato
scelto un campione di detenuti lavoratori; in questo sottocapitolo verrà affrontato in dettaglio e sotto diversi
aspetti il tema del lavoro in carcere, evidenziandone gli aspetti positivi e le criticità. Si lascerà al secondo
capitolo una discussione più dettagliata sull’incidenza del lavoro sul processo di riabilitazione e in particola-
re sulla desistenza dal crimine e la costruzione dell’identità.

Si introdurrà la tematica esponendo le due principali categorie di lavoro in carcere ovvero il lavoro per conto
dell’Amministrazione penitenziaria e quello per conto di terzi. Infine si presenteranno due realtà innovative
del panorama nazionale ed internazionale che attribuiscono al lavoro un ruolo centrale per la rieducazione e
la risocializzazione del detenuto: da un lato la cooperativa Giotto del carcere Due Palazzi di Padova, in cui
lavorano due dei detenuti intervistati, dall’altro il carcere di “minima sicurezza” di Bastøy in Norvegia, uno
degli istituti più evoluti sul piano della riabilitazione in carcere, nel contesto di uno dei sistemi penitenziari
più avanzati al mondo.

15
A tal proposito si ritiene opportuno accennare al fatto che il presente elaborato avrebbe voluto essere un la-
voro cross-culturale sperimentale tra Italia e Norvegia, nel quale si proponeva di applicare il metodo narrati-
vo proposto in una prigione italiana e in una nordica e sulla base dei risultati fare riflessioni sulla tematica
della riabilitazione, della desistenza dal crimine e dell’identità narrativa trasversalmente alla cultura.
L’intento era di raccogliere i racconti dei detenuti stessi che pur appartenendo ad una diversa cultura e inse-
riti in sistemi penitenziari differenti avevano qualcosa in comune: una storia di vita ricca di eventi centrali e
decisivi, tra cui l’esperienza del carcere e di lavoro. Tuttavia, per causa di forza maggiore dovuta alla pan-
demia da Coronavirus che ha fermato il mondo intero, non è stato possibile svolgere le interviste con i dete-
nuti norvegesi. Ciononostante, l’ex direttore del carcere Arne Kvernvik Nielsen e la sua collaboratrice Eka-
terina Bagreeva si sono resi disponibili per un’intervista, presentata più dettagliatamente e rielaborata in ap-
pendice (A6), per presentarci secondo la loro esperienza la realtà di Bastøy e del sistema penitenziario nord
europeo.

3.1 Lavoro per conto dell’Amministrazione penitenziaria


Il lavoro penitenziario si può suddividere in lavoro intramurario, cioè all’interno di un istituto penitenziario,
ed extramurario, ossia svolto all’esterno. Inoltre può essere classificato come lavoro per conto
dell’Amministrazione penitenziaria, lavoro per conto di terzi e lavoro in proprio. In questo elaborato si di-
scuterà solo del lavoro intramurario per conto dell’Amministrazione penitenziaria e per conto di terzi, dal
momento che nessuno degli intervistati era in regime di semilibertà o lavorava in proprio.7

Il lavoro dei detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, a differenza di quello per conto di
terzi, è regolamentato dal decreto del Presidente della Repubblica del 2000, n. 230 (cosiddetto regolamento
penitenziario). In seguito si presenteranno alcuni aspetti critici di questa categoria di lavoro, con riferimento
soprattutto al panorama generale del lavoro penitenziario in Italia. Tra questi si individuano la disoccupazio-
ne, alcune problematicità dei cosiddetti lavori d’istituto, l’importanza dell’aspetto remunerativo.

a) Disoccupazione

7
Per un’accurata descrizione si rimanda al volume “Il lavoro dei detenuti” a cura di Maria Giovanna Mattarolo e Andrea Sitzia
(2017).
16
In Figura 3 si mostrano alcuni grafici a torta che aiutano a comprendere la situazione attuale nel mondo del
lavoro in carcere in Italia. Innanzitutto spicca un dato tra tutti: a fine 2019 ben 43.160 detenuti, ossia il 70%
della popolazione carceraria italiana (grigio) erano disoccupati (Figura 3 (a)), contro il 50% della Francia o
un 35% della Germania (Gabanelli, 2019). Del rimanente 30% la netta maggioranza lavora per conto
dell’Amministrazione penitenziaria (arancione) e una minoranza lavora per conto di enti esterni al carcere
(blu). Questo dato è interessante poiché a mancare non è certo la richiesta da parte dei detenuti di ottenere
un’occupazione, quanto piuttosto una carenza di offerta di lavoro da parte del sistema penitenziario. Questo
fatto stupisce poiché leggendo l’articolo 15 dell’Ordinamento penitenziario (p. 9), a primo impatto sembre-
rebbe che sia attribuita al lavoro in carcere una certa importanza, anche solo per il fatto che viene nominato
tre volte nello stesso articolo. Tuttavia leggendo con attenzione non è difficile notare che il legislatore acco-
sta termini che possono risultare confusivi, ovvero che ci si possa “avvalere” del lavoro, che il lavoro sia
“assicurato” e che sia “ammesso svolgerlo”; espressioni che giustapposte possono creare non pochi frainten-
dimenti. L’articolo 15 sembra dire e non dire tra le righe, in sostanza, che la scelta del lavoro per strutturare

Figura 3: Grafici a torta sul livello e tipologia di occupazione lavorativa della popolazione carceraria italiana
per datore di lavoro al 31 Dicembre 2019. (a) Occupazione lavorativa di tutta la popolazione carceraria. (b)
Occupazione lavorativa detenuti lavoratori per conto di terzi o in proprio (* lavoratori all’esterno del carcere).
(c) Occupazione lavorativa dei detenuti lavoratori per conto dell’amministrazione penitenziaria. (I dati stati-
stici utilizzati per il disegno dei grafici sono reperibili sul sito del ministero della giustizia (2019))

17
un intervento rieducativo sia più una strada possibile che un automatismo, e certamente lascia ampio spazio
ad interpretazioni in base alla convenienza. Che si tratti dell’ambiguità della legge o di altre ragioni, di fatto
gli istituti penitenziari ed enti terzi alla realtà carceraria non garantiscono un’occupazione lavorativa a tutti i
detenuti che ne facciano richiesta.

b) Lavoro saltuario e scarsa preparazione professionale


Per quanto riguarda il grafico a torta relativo all’Amministrazione penitenziaria (Figura 3(c)) si nota imme-
diatamente che la fetta più grande del personale svolge i cosiddetti “servizi d’istituto”. Tra questi i più co-
muni sono: lo “scopino” addetto alle pulizie, il “portavitto” che consegna il vitto cella per cella, lo “spesino”
che raccoglie le ordinazioni del “sopravvitto” e consegna la spesa dai magazzini alle celle (ruolo ricoperto
da uno dei carcerati intervistati), gli addetti alla cucina (cuoco, aiuto cuoco, inserviente, ecc.), lo “scrivano”
che svolge la funzione di aiutare i detenuti nel compilare le istanze o nello scrivere le lettere, il “lavandaio”
addetto alle lavanderie, il “piantone” che è assegnato ad un compagno detenuto con problemi di deambula-
zione e il “barbiere” (lavoro svolto da un altro detenuto intervistato).

Tendenzialmente queste mansioni vengono imposte attraverso criteri di assunzione non sempre uniformi,
sono accompagnate da corsi di formazione scarsi o totalmente inesistenti e non sono ritenute sufficientemen-
te qualificate per garantire competenza professionale in un futuro fuori dal carcere. Per di più, spesso, ven-
gono eseguite con modalità che non raggiungono gli standard di quelle analoghe svolte nel mercato libero.
Ancora più problematico risulta il fatto che il numero dei detenuti che lavorano nei servizi d’istituto sorpassi
di gran lunga il numero di posti di lavoro disponibili a tempo pieno. Di prassi il medesimo posto di lavoro
viene occupato a rotazione nel corso dell’anno da un numero indefinito di detenuti ai quali vengono assegna-
ti contratti part-time e a tempo determinato, le cosiddette “turnazioni”, che li impiega in media per 2-3 mesi
l’anno (Caputo, 2017).

Probabilmente la conseguenza più grave di questi fattori è che il lavoro rischia di venire concepito come un
obbligo più che un diritto (Maeran et al., 2017), problema incentivato, come si mostrerà più avanti, dal pote-
re disciplinare esercitato dall’amministrazione nel luogo del lavoro. Questa mancanza di “work involve-
ment” (coinvolgimento nel lavoro) invece che sostenere il detenuto potrebbe catalizzare quel processo di
prisonizzazione descritto in precedenza favorendone lo straniamento e accelerando un processo di corruzio-
ne dei suoi processi di sviluppo.

In aggiunta, l’Amministrazione penitenziaria si ritrova ad essere contemporaneamente datore di lavoro e re-


sponsabile del trattamento penitenziario. Questo potrebbe, in alcuni casi, generare un conflitto di interesse
per quanto riguarda il potere disciplinare esercitato nei confronti del detenuto lavoratore. In questo scenario
esso può divenire strumento per sanzionare sia inadempimenti contrattuali che irregolarità verificatesi duran-
te lo svolgimento del trattamento rieducativo (Marinelli, 2017). Questa discrasia prende le distanze da quel
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parallelismo tra lavoro penitenziario e lavoro libero ideato dal legislatore dato che nel mondo del lavoro
idealmente vengono sanzionati solo inadempimenti contrattuali e non vengono penalizzate carenze compor-
tamentali nella misura in cui queste non intacchino l’ambito lavorativo. Nella prossima sezione si espliciterà
come, nel lavoro per conto di terzi, più facilmente si possano trovare aspetti in comune con l’ideale del lavo-
ro nella società libera, e che quindi i detenuti siano più adeguatamente preparati al reinserimento nel mondo
del lavoro esterno. Si mostrerà come tale scarto dal lavoro alle dipendenze dell’amministrazione, apparen-
temente di poco rilievo, possa in realtà tradursi in un grosso incentivo al processo di desistenza dal crimine.

Come indicato (Figura 3(c)), il restante 18% dei dipendenti dell’amministrazione lavora presso altri servizi
che tendenzialmente assicurano esperienze più formative e qualificate rispetto ai servizi d’istituto. Si tratta di
lavori come la manutenzione ordinaria dei fabbricati (imbianchino, elettricista, manovale o carpentiere), la-
vori all’esterno dell’istituto o lavorazioni industriali (forniture di corredo, arredi e vestiario, e quant’altro de-
stinato al fabbisogno di tutti gli istituti del territorio nazionale) o agricole. In questo panorama è certamente
di rilievo la realtà della colonia agricola nell’isola di Gorgona, in provincia di Livorno, in cui sono i detenuti
a doversi prendere cura degli animali presenti nella casa di reclusione. Quello di Gorgona è un progetto, ri-
tenuto da molti, terapeutico per quanto riguarda il profilo psicologico del detenuto allevatore di bestiame
(Buzzelli & Verdone, 2018; Lanzillo, 2019). L’affiancamento dell’animale all’uomo se opportunamente ac-
compagnato da una terapia svolge una funzione co-terapeutica definita come “zooterapia” o “pet therapy”
che ristabilisce un’armonia tra uomo e natura (Scheggi, 2006).

Tuttavia l’esempio di Gorgona è, forse, troppo isolato, e non solo geograficamente. Viene dunque da chie-
dersi se le mansioni di carattere saltuario e non professionalizzante, come quelle previste dai servizi
d’istituto, possano effettivamente assumere una tale valenza, senza nulla togliere alla dignità che questi lavo-
ri rappresentano di per sé.

c) Il valore materiale e simbolico della remunerazione


La remunerazione non deve essere concepita come una mera questione economica di scarso rilievo, assume
invece un valore simbolico decisivo alla luce della stessa logica retributiva della pena di cui si parlava e so-
prattutto può svolgere un ruolo importante nella riabilitazione del carcerato. Come già ci insegnano le regole
del setting della clinica psicodinamica, se ben pesata la questione della remunerazione del terapeuta può in-
fluenzare l’andamento e il buon esito della terapia stessa.

È importante ricordare infatti che i soldi, oltre che a un bene materiale, sono un simbolo molto significativo,
così come è un simbolo la pena. Questi due simboli (il denaro e la pena) appartengono ai due piatti della
stessa bilancia, come rappresentato da Giotto in Figura 1. In un’ottica retributiva si dovrebbe dare a ciascuno
quello che è giusto che gli spetti, per cui come al carcerato viene inflitta una pena per il suo male così deve

19
essere “retribuito” per il suo lavoro.

Tuttavia questa logica non sembra essere rispettata appieno. Della paga del carcerato si parla nel secondo
comma dell’articolo 22 dell’Ordinamento penitenziario:

“[…] non deve essere inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di la-
voro”.

Quindi, piuttosto che un vero e proprio salario, è più corretto parlare di “mercede” o “gratificazione”. È im-
portante sottolineare questa differenza perché mostra un’ulteriore incongruenza con l’ideale, espresso dal
quinto comma dell’articolo 20 O.P. secondo cui il lavoro in carcere dovrebbe rispecchiare il più possibile
quello nella società libera. Almeno in teoria si dovrebbe tendere a garantire lo stesso ammontare degli sti-
pendi dentro al carcere come all’esterno, cosa che, invece, non avviene. Infatti la forza lavoro dei detenuti
viene sottovalutata, suggerendo che la normativa abbia una radice retributiva punitiva nei confronti del dete-
nuto, ovvero che ci sia l’ottica che il detenuto debba pagare il debito che ha con lo Stato a causa del crimine
commesso senza avanzare pretese di essere trattato come gli altri lavoratori (Kostoris, 1983).

La Corte Costituzionale sembra essere in linea con questa assunzione. Difendendosi dalle critiche sulla legge
di cui si parlava, sopra la Corte si espresse affermando che il detenuto che lavora per educarsi “non [può]
pretendere di essere pagato come chi presta la sua attività in esecuzione di un contratto e svolge un lavoro
che non è […] terapeutico”8. Sembra emergere, di fatto, un’opinione pubblica secondo cui vi sia una diffe-
renza tra chi lavora per vivere e chi lo fa in vista di una riabilitazione. D’altro canto va detto che, similmente
al lavoratore libero, l’articolo 20 O.P. garantisce ai detenuti le tutele assicurative e previdenziali mentre
l’articolo 23 O.P. concede il diritto agli assegni familiari previsti dalla legge.

Tuttavia non di frequente viene tenuto in considerazione che il detenuto lavoratore, oltre allo stipendio, ha
numerose spese per sostenere la propria permanenza in prigione che riducono ulteriormente quel già “simbo-
lico” salario. L’articolo 23 O.P. specifica:

“Sulla remunerazione, salvo che l’adempimento delle obbligazioni sia altrimenti eseguito, sono prelevate
nel seguente ordine:
1) le somme dovute a titolo di risarcimento del danno [art. 185 Codice Penale];
2) le spese che lo Stato sostiene per il mantenimento del condannato [art. 188; 692 Codice Penale];
3) le somme dovute a titolo di rimborso delle spese del procedimento [art. 535, 691, 693 Codice Penale].
In ogni caso, deve essere riservata a favore del condannato una quota pari a un terzo della remunerazione,
a titolo di peculio. Tale quota non è soggetta a pignoramento o a sequestro”.

8
Corte Cost., Sentenza n. 1087/1988
20
Resta da chiedersi quale sia il pensiero ragionevole sottostante al fatto che i detenuti siano sottopagati. A tal
proposito è importante sottolineare, a parere della scrivente, che remunerare il carcerato proporzionalmente
alla propria prestazione può essere di grande rilievo non solo su un piano pratico, per il proprio mantenimen-
to e quello della famiglia ma anche sul piano psicologico e avere un’influenza sui processi di desistenza dal
crimine, come verrà spiegato più approfonditamente nel prossimo capitolo.

3.2 Il lavoro per conto di terzi


Le imprese pubbliche e private, in particolare le cooperative sociali, possono organizzare le lavorazioni in-
tramurarie in locali concessi in comodato dalle direzioni (articolo 47 Regolamento di Esecuzione). Il rappor-
to di lavoro si attua tra il detenuto e le imprese, mentre la relazione di queste ultime con le direzioni è defini-
to da convenzioni. Grazie alla legge del 2000 n. 193, la cosiddetta Legge Smuraglia, si autorizzano le coope-
rative sociali a gestire lavorazioni intramurarie e vengono concessi sgravi contributivi e fiscali, già previsti
per le cooperative sociali, anche alle aziende pubbliche o private che organizzino attività produttive o di ser-
vizi intramurari per persone detenute o internate. Dal grafico in blu in (Figura 3 (b)) si evince che tra i lavo-
ratori coinvolti per conto di terzi in attività intramurarie, la maggior parte è assunta delle cooperative sociali
(683 detenuti a fine 2019 (Giustizia, 2019)). Si tratta comunque di numeri molto esigui se comparati con il
totale della popolazione carceraria italiana (1%), quindi non certamente rappresentativi della condizione la-
vorativa dei detenuti del panorama nazionale.

In seguito si svolgeranno delle considerazioni del lavoro per conto di terzi improntate ad evidenziarne i punti
di forza pur non nascondendo i rischi.

a) Una scommessa che libera


In principio, nel lavoro per conto di terzi la logica correzionale o penitenziaria viene rimpiazzata da una lo-
gica della libera opportunità in cui il datore di lavoro scorge nel detenuto una risorsa dal punto di vista uma-
no ed economico. Si tratta di un principio cardine per quanto riguarda le cooperative sociali di tipo B, tra cui
quelle che adoperano in carcere. Infatti, secondo la legge dell’8 novembre 1991, n. 381, queste hanno come
principio fondante:

“(…) l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini at-
traverso (…) lo svolgimento di attività diverse - agricole, industriali, commerciali o di servizi - finalizzate
all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate”

Le cooperative sociali, pur mantenendo un assetto imprenditoriale, si pongono come sostenitrici dei lavora-

21
tori detenuti, vengono elevati allo stato di soci attraverso forme mutualistiche9. Con ciò si intende che il ca-
pitale viene reinvestito per assicurare il lavoro o altri servizi a favore dei soci detenuti e i detenuti sono
chiamati, seppur in modo formale, a partecipare alla gestione attraverso le deliberazioni dell’assemblea
(Mattarolo, 2017).

Ci si potrebbe chiedere come questa forma di occupazione lavorativa possa riabilitare il detenuto senza un
intervento diretto a tale scopo; come, ad esempio, quello di educatori e psicologi in carcere. L’ipotesi della
sottoscritta è che la condizione in sé di trovarsi in ambito lavorativo di fronte a qualcuno che scommette su
di lui, che gli dia fiducia senza tenere conto esclusivamente dell’atto criminale che ha commesso, sia un
elemento chiave per rimettere in moto e rilanciare la persona. Sta poi al detenuto accettare questa scommes-
sa e mettersi in gioco. Nel tempo può verificarsi un vero processo di responsabilizzazione (concetto che ver-
rà ripreso nel prossimo capitolo) che, di fatto, collabora al percorso riabilitativo.

Talvolta può capitare che la scommessa sia fatta senza troppi ragionamenti, quasi come si giocasse
d’azzardo. Altre volte, come nel processo di selezione del personale della cooperativa di cui parleremo in
seguito, essa viene fatta dopo un’attenta valutazione sul profilo psicologico, dove il passato criminale non ha
l’ultima parola ma l’individuo viene considerato per il suo potenziale, il suo essere risorsa per la società (Pe-
tersen et al., 2010) e, quindi, risorsa per il bene dell’azienda. In quest’ottica la cooperativa diviene, almeno
idealmente, una società protetta, si potrebbe dire una specie di palestra dove esercitare un comportamento
corretto e imparare a vivere il lavoro con coinvolgimento e rispetto per gli altri. È curioso notare che da uno
studio sui detenuti lavoratori per conto della cooperativa Giotto, risulta che i rapporti con gli agenti peniten-
ziari si svolgono secondo modalità d’interazione più tranquille rispetto a lavoratori nel servizio d’istituto o
detenuti disoccupati registrando un numero dei richiami disciplinari sei volte inferiore dei primi rispetto ai
secondi (de Paolis, 2016).

La società d’oggi ha più che mai bisogno di un contributo creativo, interessato al prossimo, che tende a quel
principio di sussidiarietà enunciato nell’ultimo comma dell’articolo 118 della nostra Costituzione10.

b) Il lato oscuro della scommessa


Si vuole specificare che, come è vero il detto “non sempre le ciambelle escono col buco”, può accadere che
in questa scommessa si commettano degli errori: o perché si è concessa una eccessiva libertà ad individui
compromessi oppure perché il soggetto della rieducazione, pur manifestando un sentito ravvedimento, si
trova a tradire questa fiducia concessa ricadendo in uno stato di devianza. D’altronde non potrebbe venire

9
Articolo 1, comma 1, legge del 2001 n.142
10
Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
22
mai meno il fatto che l’uomo, in ultima istanza, resti libero. Un caso da manuale è certamente quello di An-
gelo Izzo, criminale italiano noto per il massacro del Circeo in cui, assieme a Gianni Guido e Andrea Ghira,
rapì e torturò due donne nel settembre 1975, uccidendo una delle due (Furcas, 2018). In seguito al processo
di primo grado, Angelo Izzo fu condannato all’ergastolo senza attenuante nel luglio 1976. Durante il periodo
di detenzione egli collaborò con la giustizia e accusò i colpevoli di numerosi reati non da lui perpetrati, in
gran parte commessi da appartenenti all’ambiente neofascista di cui faceva parte. In una intervista di quel
periodo egli riferirà “io ho vergogna davvero di quello che sono stato” (Bovenga, 2015). Con un tale atteg-
giamento riuscì a convincere gli psicologi che seguivano il suo caso che ci fossero segni di cambiamento.
Nella relazione per il magistrato di sorveglianza riportata su Repubblica (2005) uno psicologo scrisse: “Ri-
tengo che il superiore organo giudicante possa a questo punto prendere in esame senza timore l’ipotesi della
concessione di un permesso premio di riapertura a questo detenuto (…) Del resto, nel caso in cui avessi du-
bitato della sua autenticità, le sue lacrime, alcune volte proprio non contenute nonostante lo sforzo di auto-
controllo, sarebbero valse a smentirmi”. La magistratura incominciò a concedere benefici giuridici ad Izzo
che ottenne la semilibertà nel 2004 per lavorare presso la cooperativa “Città Futura” dove si occupava delle
pratiche riguardanti gli utenti che si rivolgevano allo sportello. Secondo il direttore della cooperativa, Dario
Saccomani, Izzo era “una persona che lavorava benissimo, impegnatissima nel suo lavoro, estremamente
scrupolosa su tutto, che seguiva esattamente gli orari, insomma una persona che chiunque definirebbe tran-
quilla” (Carmela, 2005). Ciononostante pochi mesi dopo Izzo rapì e assassinò altre due donne, e venne con-
dannato ad un secondo ergastolo. Interrogato sulla possibilità di prevedere quel che era successo Saccomani,
citando Pirandello, rispose: “Se a Messina avessero saputo che di lì a poco ci sarebbe stato il terremoto, non
sarebbero andate via anche le travi e i mattoni?” (Carmela, 2005).

A prescindere dal dibattito sul fatto che il caso specifico di Izzo fosse o non fosse prevedibile, ci scontriamo
con la questione spinosa per cui una persona, pur mostrandosi cambiata, non rifletta questo cambiamento nel
suo agire. In conclusione, per quanto l’indagine e la terapia psicologica possano essere strumento utile, non
potrà mai essere eliminata completamente una componente di imprevedibilità di reazione e quando si
scommette deve essere chiaro che il rischio rimarrà sempre.

3.3 La cooperativa Giotto nel carcere Due Palazzi di Padova


La casa di reclusione Due Palazzi di Padova, con una capienza regolamentare di 436 posti e 581 detenuti
presenti a fine 2019, è l’unico istituto nel Veneto dove scontano la pena i detenuti con condanna definitiva a
una pena superiore ai cinque anni. La percezione della scrivente è che ogni cancello rosso che si chiuda alle
spalle di chi decida di inoltrarsi tra i corridoi del Due Palazzi aggiunga un senso di definitività a quella sen-
sazione di isolamento che solo una prigione può dare. Ciononostante la casa di reclusione di Padova è cono-
sciuta per essere “un buon carcere (…) a vocazione trattamentale” (Vianello & Kalica, 2013). Infatti, in linea
con l’articolo 15 sopracitato, si tratta di un luogo di detenzione in cui viene predisposta un’ampia gamma di
attività che riguardano il trattamento del carcerato. Sono offerte numerose attività didattiche, come i corsi di
23
laurea del polo universitario in carcere dell’Università di Padova (2020) di cui ha usufruito anche uno dei
detenuti intervistati. Tra le attività a carattere lavorativo si annoverano la Cooperativa Giotto e Work Cros-
sing, di cui si discuterà a breve; la cooperativa Altra Città che si occupa di legatoria, cartotecnica e grafica e
l’associazione di volontariato Granello di Senape Padova, che impiega su base volontaria e gratuita detenuti
impegnati, tra le varie mansioni, nella redazione della rivista “Ristretti Orizzonti”11 (Madeddu, 2020). Vi so-
no anche attività a carattere ricreativo, come ad esempio la squadra di calcio Pallalpiede, l’unica al livello
nazionale ad essere regolarmente iscritta ad un campionato di calcio FIGC (vincitrice di 4 Coppe Disciplina
come squadra più corretta (2020)).

In Figura 4 si illustra in un grafico a torta l’occupazione lavorativa dei detenuti del carcere due Palazzi di
Padova. La grande fetta corrispondente al 55% della popolazione carceraria del carcere Due Palazzi di Pa-
dova mostra quanto la disoccupazione sia inferiore rispetto alla media nazionale. La percentuale restante
evidenzia un ulteriore dato interessante: contrariamente alla maggior parte delle realtà carceraria in Italia, in
quella di Padova il 26% dei detenuti lavora per conto di terzi (Figura 4). È un dato alquanto sorprendente
considerando che si tratta di più di 6 volte rispetto alla media nazionale, come rappresentata in Figura 3.
Inoltre considerando che quasi la totalità di questo 26% lavora per conto di cooperative si può affermare

Figura 4: Statistiche sulla tipologia di occupazione lavorativa della popolazione carceraria nella casa di re-
clusione Due Palazzi di Padova. (a) Grafico a torta sul livello e tipologia di occupazione lavorativa
dell’intera popolazione detenuta al 31 Dicembre 2019. (b) Istogramma sul livello e tipologia di occupazione
lavorativa all’interno del consorzio GIOTTO nel 2015. (I dati statistici utilizzati per il disegno dei grafici
sono reperibili sul sito dell’associazione Antigone (2020) e dal paper di Perrone et al. (2015).

tranquillamente che l’istituto di pena Due Palazzi è il carcere in Italia che conta il maggior numero di dete-

11
Periodico bimestrale che racconta con spirito critico testimonianze da dietro le sbarre, proponendo anche articoli sulla situazio-
ne penitenziaria a livello nazionale
24
nuti lavoratori per conto di cooperative (Giustizia, 2019).

Le cooperative sociali di tipo B Giotto e Work Crossing fanno parte del consorzio di cooperative sociali
GIOTTO che conta in complesso più di cento detenuti impiegati nelle diverse lavorazioni intramurarie, tra
cui (dall’alto al basso in Figura 4) il call center, la pasticceria, la cucina del carcere, l’officina di biciclette, la
fabbrica di valigie Roncato e il settore business key e digitalizzazione (Figura 4). Tra tutte, forse la più co-
nosciuta è quella della pluripremiata pasticceria Giotto, famosa per i panettoni esportati in tutto il mondo. Da
degli studi risulta che meno del 5% dei detenuti assunti dalla cooperativa torni a delinquere, un dato sor-
prendente se confrontato con la media nazionale del 70% circa (Perrone et al., 2015).

Il modello imprenditoriale della cooperativa Giotto, per quanto innovativo, non verrà analizzato in questo
elaborato12 ma si parlerà brevemente delle procedure di assunzione e formazione del personale detenuto
Giotto. Da queste si è preso spunto per strutturare uno dei modelli principali di analisi dei dati di questa tesi,
come mostrato al capitolo 2 (p.60).

Le richieste di lavoro in cooperativa possono essere ricevute direttamente da parte dei detenuti oppure su
dagli educatori e dall’Ufficio Comando degli agenti di Polizia penitenziaria che ritengono opportuno un tale
intervento ai fini rieducativi del detenuto. Le richieste vengono esaminate dall’“Ufficio Sociale Giotto”,
composto da tre psicologhe del lavoro e altri operatori, in coordinazione con la componente tecnica ed am-
ministrativa della cooperativa. Inoltre, tutto il processo di selezione, vede spesso coinvolto l’apparato peni-
tenziario in contatto con la cooperativa stessa: dalla direzione del carcere con gli educatori e psicologi peni-
tenziari ai magistrati di sorveglianza. Una volta introdotto nell’area più adatta, il lavoratore inizia un tiroci-
nio di inserimento di nove mesi sotto la guida di un cosiddetto “maestro di bottega” che di norma è un di-
pendente esterno (in media uno presente per 9 detenuti nel 2015), oppure anche un detenuto con maggiore
esperienza. Ebbene sia nel colloquio di assunzione, che durante lo svolgimento dell’attività di formazione,
che dopo l’assunzione il personale dell’Ufficio Sociale continua un rapporto di valutazione del profilo lavo-
rativo del detenuto centrato basandosi soprattutto su aspetti psicologici (Perrone et al., 2015).

Come specificato, alla fine del prossimo capitolo verrà presentata una sintesi del modello Giotto dal momen-
to che alcuni dei criteri determinanti per l’assunzione e la continuazione del periodo di formazione presso la
cooperativa presentano numerose affinità con le varie teorie sul processo di desistenza presentate nel secon-
do capitolo. Il modello principale adoperato in questo studio è stato costruito implementando alcuni elementi
di originalità e rielaborando tutti questi approcci di valutazione del processo di desistenza. Inoltre, nel terzo
capitolo, si mostrerà come il metodo narrativo possa portare un contributo interessante e innovativo, per cer-

12
Tuttavia si rimanda all’analisi esaustiva svolta da Andrea Perrone nella prima parte (Perrone et al., 2015). Inoltre, a titolo
esemplificativo, si rimanda al seguente link video per un approfondimento sull’attività svolta nei laboratori di pasticcieria Giotto
https://www.youtube.com/watch?v=GLGG-HUvwYU.
25
ti versi complementare, a quello utilizzato negli esistenti studi condotti sui detenuti lavoratori del Due Palaz-
zi in merito all’impatto del lavoro sullo stato del condannato.

3.4 Il carcere di Bastøy in Norvegia: la prigione aperta sul sé.


Situata nei fiordi di Oslo, l’isola norvegese di Bastøy detiene 115 criminali le cui condanne includono per la
maggior parte crimini violenti. Tuttavia, quando si cerca con lo sguardo un muro, una recinzione o un filo
spinato si rimane sorpresi nel vedere invece tanto verde, casette, animali e il mare. Sorprende, altresì, scopri-
re che siano i detenuti stessi dell’isola a guidare il traghetto sulla terra ferma. Insomma, il carcere di Bastøy
sembra aver poco a che vedere con un luogo di detenzione. Eppure, similmente al caso Giotto, la recidiva
scende a dei numeri molto bassi: solo il 16%, rispetto a una media nazionale norvegese del 70%. La prigione
di Bastøy è ritenuta dai media e da molti ricercatori una delle prigioni più umane e rieducative del pianeta e
detiene il titolo della prima prigione a “minima sicurezza” e, dal 2007, la prima prigione ad “ecologia uma-
na” al mondo (Berger, 2017).

Per comprendere meglio cosa vogliano dire questi appellativi e per capire la filosofia di un sistema peniten-
ziario così insolito, la sottoscritta ha intervistato l’ex direttore del carcere e psicoterapeuta Arne Kvernvik
Nielsen assieme alla sua assistente psicologa ed esperta nell’ambito penitenziario Ekaterina Bagreeva.
L’intervista viene riportata in appendice (A6). Data la loro disponibilità a rilasciare l’intervista e la loro
esperienza sia in ambito penitenziario che in ambito psicologico, si è discusso anche di molti argomenti trat-
tati in questa tesi. Lo scopo dell’intervista è stato avere un parere autorevole a sostegno dell’argomentazione
del presente elaborato da parte di chi nel mondo della rieducazione ha lavorato per molti anni, e con risultati
sotto gli occhi di tutti. Per informazioni più dettagliate in italiano sulla realtà del carcere di Bastøy si riman-
da ad un articolo del Corriere della Sera (Borella & Bacci, 2015).

L’intervista, dalla durata di circa 4 ore, verte su diversi argomenti che spaziano dall’esperienza personale di
Arne ed Ekaterina nel campo dell’esecuzione della pena nel sistema penitenziario norvegese al loro pensiero
su tematiche importanti trattate in questa tesi. Ci si è soffermati, ad esempio, su temi come l’importanza del-
la pena ed il significato della punizione, la rilevanza della psicologia in carcere, l’impatto e gli effetti psico-
logici benefici del lavoro per i detenuti. Tra tutte le tematiche trattate spicca il loro innovativo “modello di
riforma della prigione in un organismo dinamico”, da loro definito anche “ruota del cambiamento”, che rias-
sume mirabilmente il pensiero di Arne ed Ekaterina e sintetizza i loro anni di esperienza nel campo. In que-
sto modello si parla di rispetto che il carcerato deve ritrovare per sé stesso, del “principio di normalità” se-
condo cui il carcere deve essere concepito come società funzionante piuttosto che luogo di isolamento, e tan-
to altro. Infine, e soprattutto, si è colta l’occasione per ascoltare la preziosa testimonianza di Arne sulla sua
esperienza come direttore di una delle carceri più uniche al mondo, il carcere di minima sicurezza di Bastøy.

26
CAPITOLO II

Basi teoriche e metodi di ricerca

1. I processi di desistenza dal crimine

1.1 La desistenza: definizione e premesse


Sebbene il concetto di desistenza dal crimine (“desistance” in letteratura) sia stato definito in diversi modi,
generalmente fa riferimento al processo dinamico attraverso il quale gli individui, una volta abbandonata
l’attività criminale, continuano ad astenersi da essa (Kazemian, 2007; Maruna, 2001). Il concetto di desi-
stenza piuttosto che focalizzarsi sui singoli atti criminali in momenti puntuali, guarda all’insieme dell’agire
della persona e si riferisce alla coerenza e continuità della sua condotta in senso non deviante per un lungo
arco di tempo. Teoricamente la desistenza dal crimine, in quanto processo sempre in divenire, non potrebbe
essere certa fino alla morte dell’individuo (Maruna, 2001) e l’osservazione di questo fenomeno presenta non
pochi aspetti critici. Tuttavia negli ultimi anni è nato un vero proprio settore della ricerca in ambio crimino-
logico per via del suo potenziale contributo sul piano teorico e sociale.

Il contrario di desistenza è persistenza, ovvero il processo dinamico per cui l’individuo continua a svolgere
l’attività criminale, concetto che ricorda quello di recidiva e di recidivismo. Il primo termine, di carattere
giuridico, si riferisce alla successione di più condanne mentre il secondo, di carattere sociologico, si riferisce
alla ripetizione di un comportamento antisociale o illegittimo a prescindere dalla condanna (Reckless, 1955,
p. 88). Tuttavia la desistenza e persistenza dal crimine si focalizzano maggiormente sul processo individuale
e psicosociale di costruzione dell’identità e di cambiamento del sé, piuttosto che su un aspetto puramente
comportamentale o giuridico.

Secondo Maruna (2016) lo studio sulla desistenza propone un vero e proprio “cambio di occhiali” per la so-
cietà attraverso cui guardare non solo la ricerca accademica, ma anche la giustizia applicata seguendo
un’ottica rieducativa, come trattato nel capitolo precedente (p.1). L’emergere di questo campo di ricerca ha
invertito il tradizionale focus criminologico dal “perché le persone commettono crimini?” al “perché le per-
sone smettono di commettere crimini?”. Un tale cambiamento, anche se apparentemente modesto, comporta
profonde implicazioni. Maruna, infatti, sostiene che con la sua impenitente attenzione al “lato oscuro” della
vita umana, la criminologia può divenire un campo di studio negativo, persino deprimente. Al contrario, lo
studio della desistenza ha apportato un elemento di speranza e ottimismo, tanto che alcuni l’hanno definito

27
come “criminologia positiva” (Ronel & Segev, 2014). Si tratta di uno scarto di paradigma13 in cui si passa da
un focus sulle cause che hanno corrotto l’individuo fino a condurlo all’atto deviante, processi spesso euristi-
camente considerati senza ritorno, all’interesse per le condizioni predisponenti affinché si attui nella persona
un cambiamento, ritenuto non solo auspicabile ma anche possibile. Secondo questa corrente la criminalità,
per quanto dannosa possa essere, è un fenomeno che occupa per la maggior parte degli individui solo un pe-
riodo temporaneo nel corso della vita umana lasciando spazio ad altro.

Questo modo di guardare alla criminalità introduce quella che può essere considerata la premessa fondamen-
tale a tutte le teorie della desistenza, ovvero la nozione di redimibilità morale (Maruna & King, 2009) o,
comunque, l’idea che il carattere morale dell’individuo sia dinamico piuttosto che stabile. In una società
senza possibilità di redenzione la dialettica centrale che viene sottointesa dalla giustizia penale punitiva è
quella della guerra: “noi contro loro” (Maruna, 2016), in cui il “passato domina il presente e il futuro” e
“ogni fallimento si traduce in una colpa da cui non c’è scampo” (Smith, 1971, p. 206). Hannah Arendt
(1958, p. 175) descrive questo come il “peso dell’irreversibilità” in La condizione umana: “Senza essere
perdonati, liberati dalle conseguenze di ciò che abbiamo fatto, la nostra capacità di agire sarebbe per così di-
re confinata a un singolo gesto da cui non potremmo mai riprenderci; rimarremmo per sempre vittime delle
sue conseguenze, come l’apprendista stregone che non aveva la formula magica per rompere l’incantesimo”.

Secondo Smidth il tema del perdono non è centrale solo per il cambiamento di chi ha sbagliato nella vita, ma
riguarda in qualche modo tutti noi. Smidth in “Redenzione e politica” (1971, p. 219) scrive: “Il perdono su-
scita in noi e dipende da un senso di debolezza condivisa. Siamo spinti a perdonare per il nostro bisogno di
essere perdonati per ciò che abbiamo fatto in passato e ciò che potremmo fare in futuro. Inoltre il perdono, a
differenza della punizione, dipende da una vita di valori e preoccupazioni comuni. La redenzione ci unisce
come società in un modo che la punizione e l’esclusione sociale non possono”.

In questa chiave di lettura la redimibilità morale si presenta come un fattore che permette una riconciliazione
su più livelli. Il primo è un livello verticale che riguarda il rappacificamento dell’immagine del sé passato
con quella del sé presente e futuro. Il secondo è il livello orizzontale che influenza positivamente la qualità
della relazione tra chi sta dietro e chi dall’altro lato delle sbarre, unendoci come società. In un certo senso si
potrebbe addirittura dire che le teorie della desistenza rientrano in una logica a supporto della funzione gene-
ralpreventiva positiva della pena (p.4) secondo cui alla pena segue un certo orientamento culturale della so-
cietà. Infatti Maruna afferma che la funzione rieducativa della pena non è solo per “loro”, ma anche per
“noi” (Maruna, 2016) e svolge, quindi, un’azione rieducativa nei confronti della società. Una società che
perdona bene - e con questo non si intende facilmente, ma piuttosto attentamente, intenzionalmente, che de-
finisce obiettivi raggiungibili per favorire il riscatto degli individui - è una società “sicura” secondo le teorie

13
Dello scarto di paradigma si discuterà più avanti in funzione all’identità narrativa (p.56)
28
di desistenza dal crimine (Maruna, 2001).

1.2 Teorie della desistenza


Gran parte delle recenti teorie sulla desistenza appartengono al settore della criminologia dello sviluppo e
del corso della vita (Kazemian, 2007). Tali teorie possono essere suddivise in tre categorie principali (Healy,
2010): teorie ontogeniche della desistenza (o della desistenza naturale), teorie sociogeniche della desistenza
e teorie della trasformazione cognitiva (o dell’agentività personale) (Farrall et al., 2010; Maruna, 2001;
Sampson & Laub, 1993). Tali teorie non si escludono l’un l’altra, anzi spesso si completano e in parte si so-
vrappongono. La loro funzione non è certo quella di esaurire la spiegazione del processo della desistenza
che, in quanto dinamico, si presenta come estremamente complesso; tuttavia si rivelano un ottimo strumento
per la comprensione dei dati ottenuti dalle interviste di questa tesi come si mostrerà nel terzo capitolo (p.64).

a) Teorie ontogeniche della desistenza


La desistenza naturale è generalmente concepita come il declino o l’astinenza dall’offendere che si manife-
sta indipendentemente dalle azioni personali o dall’influenza del controllo sociale formale o informale
(Göbbels et al., 2012; Laws & Ward, 2011). Essa si fonda sostanzialmente sulla constatazione che il crimine
è un comportamento giovanile ad esordio precoce (Wilson & Herrnstein, 1985). Hirschi e Gottfredson
(1983) hanno rappresentato questa prospettiva nella loro “age-criminal curve” (curva età-criminalità) con un
picco attorno ai 18 anni seguito da un rapido declino all’inizio dei 20 anni. Questo andamento è stato osser-
vato in un vastissimo numero di campioni, raccolti in diversi paesi del mondo e in vari periodi storici (Laws
& Ward, 2011). Ad esempio Farrington et al. (1990) hanno effettuato uno studio longitudinale prospettico
sul tasso di criminalità violenta e non-violenta per 411 maschi londinesi seguiti dall’età di otto anni in poi. I
risultati ottenuti (nonostante siano stati estrapolati per l’età più avanzata) sono mostrati in Figura 5. In effetti
osservando questi risultati, l’età pare essere una variabile che a livello statistico possa rappresentare il feno-
meno addirittura più efficacemente di altri fattori come l’impatto del lavoro o delle relazioni sentimentali
(Wilson & Herrnstein, 1985).

29
Figura 5: tasso degli atti criminali violenti (rosso) e non-violenti (arancione) in funzione all’età per
una popolazione di 411 maschi Londinesi (Farrington et al., 1986).

Figura 6: modello dei 5 elementi della maturazione adulta (tradotto da Rocque 2015).

30
Tuttavia, se presa singolarmente, quella dell’età rimane chiaramente una spiegazione parziale e incompleta.
Nello specifico alcuni studi hanno obbiettato che non fosse tanto l’età, ma il processo di maturazione che so-
litamente si verifica con l’età a ridurre il tasso di criminalità (Glueck & Glueck, 1937). Rocque (2015), ad
esempio, ha provato a unificare gli altri fattori preponderanti nel processo di maturazione delineando cinque
principali domini di crescita (Figura 6): maturazione psicosociale, civica/comunitaria, del ruolo sociale
dell’adulto, cognitiva/identitaria e neurocognitiva. Per ciascun dominio di maturazione adulta vengono pre-
sentati alcuni esempi in Figura 6. In sostanza, come notano Farrall e Bowling (1999), prendendo in conside-
razione i vari fattori sociali e personali coinvolti nel processo di desistenza si ottiene una comprensione, da
un punto di vista teorico, molto più completa di come e perché gli individui rimangano distanti dalla crimi-
nalità. Questi fattori, per ora solo accennati con il modello Rocque (2015), verranno meglio sviluppati nei
due paragrafi seguenti (b) e (c).

b) Teorie sociogeniche della desistenza


Le teorie sociogeniche della desistenza si concentrano maggiormente sulle dinamiche contestuali del proces-
so di desistenza (Kay, 2016). Infatti, secondo Shapland e Bottoms (2011, p. 276), è irragionevole pensare
che il percorso verso la desistenza venga intrapreso in un “vuoto sociale”. La società tutta, a partire dagli
elementi più vicini all’individuo desistente, prende parte a questo continuo processo di evoluzione, eserci-
tando un controllo sul fenomeno della devianza e della desistenza dal crimine definito controllo sociale for-
male o informale, come verrà esplicitato nei prossimi due punti.

➢ Il controllo sociale informale

Come accennato nel paragrafo precedente, il processo di maturazione dell’individuo desistente è spesso ac-
compagnato da quelli che si definiscono fattori di “controllo sociale informale”. Si tratta delle relazioni più
prossime all’individuo come un rapporto matrimoniale stabile, legami duraturi con figli, una carriera lavora-
tiva rilevante, amicizie significative, ecc. Sampson e Laub (1993), in uno studio longitudinale su 500 ragazzi
delinquenti e 500 ragazzi non delinquenti, hanno scoperto che il controllo sociale informale, nelle forme di
matrimonio, famiglia, lavoro, riformatorio e servizio militare, influenza i fattori di rischio sociali e strutturali
nella vita dei delinquenti portando molti di loro a desistere. Altri studi hanno riscontrato fattori che possono
favorire i processi di persistenza come genitori autoritari, negligenti o addirittura criminali e influenze nega-
tive tra fratelli o coetanei (Farrington & West, 1977; Lipsey & Derzon, 1998; Miller & Coie, 2000; Nelson
& Dishion, 2004).

Tra i fattori di sostegno all’individuo, l’istituzione del matrimonio si dimostra essere una solida risposta al
desiderio di intimità del desistente. L’esigenza di appartenere o di avere una famiglia o, più in generale, il
desiderio di intimità è così comune che si presume che si tratti di un istinto base tipico di tutti gli esseri
umani (Farrall & Calverley, 2006, p. 180). In qualità di strumento di controllo sociale informale, il matrimo-

31
nio (o altra relazione stabile con connotati coniugali) non solo promuove la creazione di legami più profondi
e significativi con i pari ma, grazie al tempo dedicato alla relazione, interrompe le connessioni e le amicizie
del giro criminoso (Healy, 2010) e spesso finisce per “rompere la routine di associazione e attività criminali
ordinarie” (Laws & Ward, 2011, p. 54). Anche Maruna (2001) individua la categoria di “caring for others”
(cura per gli altri) un importante indicatore di desistenza dal crimine.

La letteratura esistente pone un’attenzione particolare al lavoro, soprattutto una volta scontata la pena. Ad
esempio, Farrall (2002) nei suoi studi individua nel lavoro alcuni elementi catalizzatori del processo di desi-
stenza. Essendo il campione nel presente elaborato composto interamente da detenuti lavoratori, verranno
commentati tali elementi catalizzatori individuati da Farrall.

• Sicurezza finanziaria e reddito come elemento simbolico

Il primo fattore catalizzatore della desistenza per mezzo del lavoro, individuato da Farrall (2002) è la sicu-
rezza finanziaria; similmente a quanto osservano Sampson e Laub (1993), lo studioso trova che il lavoro di-
gnitosamente retribuito ha un impatto positivo sulla vita di un ex-detenuto. Si era già introdotto questo tema
nel capitolo 1 (p. 19); in questo contesto si aggiungeranno ai ragionamenti già fatti precedentemente, consi-
derazioni specificatamente sulla desistenza dal crimine.

Pur essendo lo stipendio non sempre equiparabile alla remunerazione che si riceve nel mondo esterno, esso
rappresenta un punto di partenza verso la sicurezza economica. La remunerazione possiede una componente
materiale a cui si aggiunge una carica simbolica potente, come già si accennava nel capitolo precedente. In-
fatti la percezione più o meno reale di potersi avvicinare all’autonomia economica è un fattore connesso ad
un aumento del senso di padronanza, della presa di responsabilità e a un complessivo miglioramento
dell’autostima e dell’immagine di sé. D'altronde non è un caso che nella sua esperienza Arne Kvernik Niel-
sen, ex direttore del carcere di Bastøy, abbia rimarcato quanto la responsabilità e l’autostima siano fattori
strettamente connessi tra di loro.

Anche McAdams (1993) riscontra che poter sostenere le spese del proprio mantenimento in carcere con i
soldi guadagnati onestamente, ripagare almeno simbolicamente il debito con lo stato ed eventualmente met-
tere da parte qualcosa per la famiglia o per esigenze personali fa sperimentare un senso di padronanza.
L’aspetto remunerativo, dunque, incentiva ancora di più la presa di responsabilità verso la propria vita, dei
famigliari e del bene comune.

A testimonianza del grande valore dell’aspetto remunerativo riportiamo un episodio tra quelli dei detenuti
dipendenti della cooperativa Giotto, in cui si racconta di un figlio che appende in camera sua, accanto al po-
ster del suo calciatore preferito, la prima busta paga di suo padre (Barovier et al., 2020). A sostegno di que-

32
ste considerazioni sembrano essere anche le testimonianze raccolte nell’intervista di questa tesi: tutti i dete-
nuti intervistati, infatti, parlando del loro lavoro presentano la questione economica come un aspetto di
grande rilievo.

• Riorganizzazione delle attività di routine e crescita dell’agentività.

Il secondo fattore catalizzatore della desistenza si articola su due livelli. Il primo osserva che il lavoro per-
mette di riorganizzare le attività di routine in un senso più positivo per la persona. Il lavoro in carcere ha un
impatto positivo sui detenuti perché permette di incanalare le energie in qualcosa di utile piuttosto che rima-
nere improduttivi e trascorre i giorni chiusi in cella. Una delle implicazioni del mantenersi occupati, curio-
samente, è quella di dimenticarsi di essere in galera, soprattutto quando l’ambiente lavorativo in cui i carce-
rati vengono inseriti si presenta come simile a quello dell’impiego “fuori le mura”. Nel paper di Perrone et
al. (2015) si riporta che un dipendente della cooperativa Giotto sosteneva che “Quando lavori, la tua mente è
libera, libera persino in carcere. Non pensi alle pareti e, se ci pensi bene, ci sono molte persone fuori che so-
no più in carcere di noi, le loro menti sono più imprigionate delle nostre”. Questa frase pone in luce un ribal-
tamento di prospettiva e di vissuto riguardo al lavoro tra carcerati e chi si trova fuori. Di frequente si sente
parlare del lavoro da chi è fuori, come qualcosa che tiene prigionieri, un sistema che schiaccia. Il desistente,
invece, vede nel lavoro onesto una possibilità di evasione dalla prigione con la mente, e di avere una secon-
da occasione.

Chiaramente la voglia di “fare qualcosa” e soprattutto “qualcosa di costruttivo” trascende le società e le cul-
ture (Farrall & Calverley, 2006, p. 180). Come Scoones et al. (2012) affermano, il desiderio di produttività,
assieme al bisogno di un reddito e di relazioni positive con i pari, sono altrettanto essenziali per i criminali
quanto per chiunque altro come si accennava poc’anzi. Si evidenzia ancora una volta quanto il divario tra
“noi” e “loro” sia sottile, quasi nullo su certi aspetti, come attestato dal fatto dalla necessità di soddisfare gli
stessi bisogni. Semmai una categoria svantaggiata e ferita dal male che ha fatto agli altri e a se stesso che ha
come apice il crimine commesso, manifesta un bisogno ancora più acuto. Risulta dunque che le abilità ac-
quisite attraverso le competenze lavorative restituiscano un valore alla persona, non solo in termine di capa-
cità tecnica, ma anche di soddisfazione personale.

Il secondo livello catalizzatore di desistenza elencato in questo punto è la crescita di agentitvità. Il lavoro in-
fatti tra i molti effetti positivi agevola anche il processo di responsabilizzazione, la percezione di agentività
(agency) o di autoefficacia (self-efficacy). Per auto-efficacia s’intende un certo livello di autonomia ottenuto
nello svolgere le attività quotidiane; l’agentività consiste, invece, nella capacità e percezione degli individui
di agire in modo indipendente, sentendosi liberi di scegliere e di trasformare attivamente la realtà. Johnston
et al. (2019), ad esempio, hanno registrato un aumento dell’“auto-efficacia” (self-efficacy) e dell’agentività,
grazie all’attività lavorativa, proporzionalmente alle ore spese sul posto di lavoro. Il concetto di agentività
33
umana verrà approfondito più avanti (p. 38).

Introducendo l’argomento del seguente paragrafo potremmo dire che solo se l’individuo comincia a sentirsi
libero di agire, possono rifiorire le “rel-azioni”.

• Interazione quotidiana con civili

Come già accennato, a partire da un vuoto sociale non è possibile aspettarsi alcun cambiamento della perso-
na, tanto meno la costruzione di un’identità rinnovata o l’attuarsi di processi di desistenza (p.31). Al contra-
rio l’aspetto relazionale è centrale per la vita di tutti, e sembra essere ancora più decisivo per chi è rimasto
isolato dalla società tanto tempo come i detenuti; addirittura si tratta di un elemento chiave perché possa av-
viarsi un processo di desistenza dal crimine.

Come esempio della centralità delle relazioni, vorrei citare il modello rappresentato dall’associazione per la
protezione e l’assistenza dei condannati (APAC) in Brasile. Le 50 prigioni APAC sul territorio brasiliano
che ospitano un totale di 3500 detenuti, e dove la recidiva scende al 10% da una media nazionale del 80%,
viene attuato un innovativo concetto di rieducazione che punta ad eliminare la presenza di guardie e l’uso di
armi; ad esempio a tenere le chiavi sono i detenuti stessi, in media uno ogni 25. Oltre agli aspetti rivoluzio-
nari appena citati, nelle prigioni APAC è proprio la relazione l’arma per eccellenza: innanzitutto, i famiglia-
ri, secondo il regolamento dell’associazione, devono vivere vicino al carcere, inoltre l’incontro tra persone
viene sostenuto attraverso il lavoro, garantito a tutti, e attraverso svariate attività. Ad esempio si offre soste-
gno nel percorso scolastico da parte di volontari, vengono organizzati incontri per la valorizzazione della
persona, momenti di spiritualità o di riposo (Zaccari & Guerrato, 2019).

Per gli uomini in particolare, avere relazioni eterogenee invece che solo con gruppi dello stesso sesso e di
pari età, sembra essere un fattore che contribuisce sulla qualità delle relazioni in generale, comportando un
incremento del fenomeno di desistenza (Farrall, 2002). Secondo Sampson e Laub (1993), inoltre, relazioni
positive e gratificante per il sé rappresentano ben di più che “controllo”, supervisione e monitoraggio sul
comportamento ma costituiscono un’opportunità di sostegno e crescita per la persona in generale e quindi
per la società.

José de Jesus, un prigioniero plurievasore dalle strutture carcerarie dove stava scontando la sua pena, venne
un giorno trasferito in un APAC dove adempì il resto del suo debito con la giustizia senza nemmeno un ten-
tativo di evasione. Alla domanda del giudice sul perché non fosse scappato dall’APAC, il criminale rispose:
“porque do amor ninguém foge, doutor!” (perché dall’amore nessuno fugge, dottore!) (Novo Portal TJMG,
2018).

34
➢ Il controllo sociale formale

Sembra ragionevole pensare che chi esercita il potere legislativo e giudiziario, le agenzie di controllo o di
esecuzione della pena (E M Lemert, 1981, p. 106) o, più generalmente, la società tutta abbia un’influenza
sui processi di desistenza dal crimine in qualità di controllo sociale formale. Nonostante le teorie sociogeni-
che della desistenza formale trattino poco questo tema concentrandosi piuttosto, come già detto, sullo studio
delle relazioni più strette. Un’analisi degli studi svolti sull’argomento conferma che fattori ambientali, come
alta delinquenza in una scuola o basso livello scolastico e vita in un quartiere ad alto tasso di criminalità e
bassa efficacia collettiva, promuovono processi di persistenza nel crimine (McCord et al., 2001; Sampson et
al., 1997; Thornberry et al., 1995).

Le ricerche del sociologo dell’Università di Aarhus (Danimarca), Michael Petersen (2010, 2012), seppur non
afferendo direttamente al concetto di desistenza o persistenza, aiutano a comprendere il controllo sociale
formale che la società può avere su soggetti devianti. Inoltre tale modello, oltre a rinnovare l’occasione di
una riflessione sulla funzione della pena, è stato di ispirazione per l’analisi. Infatti esso illustra le componen-
ti che entrano in gioco nella valutazione del reo come soggetto risocializzabile; da un lato valutando se ci si
aspetta che deista, più o meno autenticamente, e dall’altro identificando le sue capacità spendibili nella so-
cietà. Si propone così un possibile arricchimento e per certi versi ribaltamento del concetto di profiling: in-
vece che la semplice identificazione di caratteristiche secondo le quali il reo avrà la tendenza a ricommettere
crimini, si propone l’individuazione di quegli aspetti che varrebbe la pena valorizzare e sulle quali persona-
lizzare il trattamento del detenuto al fine della sua riabilitazione.

In seguito si presenterà il modello di Petersen parlando, nel primo punto del controllo sociale formale sul
detenuto, e nel secondo della sua teoria della ri-calibrazione e del contro-sfruttamento.

• Controllo sociale formale sul detenuto


Un principio fondamentale dello studio di Petersen è il parametro, già noto in letteratura, del “welfare tra-
deoff ratio” (WTR) (Tooby et al., 2006; Tooby & Cosmides, 2008). Nello studio del sociologo questo para-
metro indica il valore che il reo attribuisce alle altre persone relativamente al proprio. Un valore WTR basso
corrisponderà ad una propensione dell’individuo deviante a valutare il benessere proprio come più importan-
te rispetto a quello della vittima e degli altri in generale, un valore WRT alto al contrario contraddistingue il
reo quando attribuisce molta importanza al bene dell’altro. Nel caso di un WTR alto, il rischio che il reo
commetta un altro reato è minore e tale valore incide positivamente sulla desistenza, aspetto di grande inte-
resse per questa tesi.

Petersen afferma che applicando solo una logica retributiva-punitiva al reo, verrà indotto in esso un WTR
estrinseco, cioè un comportamento desistente in risposta all’ambiente più che un reale cambiamento

35
dell’individuo (WTR intrinseco). L’efficacia della punizione, in questo caso, si attua solo se vi è
un’istituzione presente e capace di contenere l’individuo. Nella condizione in cui il detenuto si senta costan-
temente controllato esso tenderà ad attivare dei meccanismi che lo inducono a mostrare, più o meno con-
sciamente, un comportamento corretto proporzionalmente al controllo formale esercitato dall’istituzione.
Questo apparente cambiamento viene dunque associato ad una crescita del valore WRT estrinseco.

A questo punto, oltre a sperimentare la reclusione, egli sperimenta uno stato di inibizione che non gli per-
mette di sviluppare un’agentività appropriata. Guardando al proprio futuro egli sviluppa, inoltre, una “proie-
zione di sé passivo” (Maeran et al., 2017) che finirà per diventare una profezia che si auto avvera. Con i can-
celli alle spalle, trovandosi finalmente in assenza di controllo, si riattiverebbe il WTR intrinseco che era ri-
masto fino a quel momento immutato ed inibito. Tutto ciò porterebbe inesorabilmente ad un aumento delle
probabilità che l’ex detenuto ripresenti comportamenti devianti. Per capire meglio questo principio risulta
utile citare un esempio di Ekaterina riportato in intervista in appendice (A6). Se consideriamo il criminale
come un pollo andato a male e la prigione come un freezer in cui mantenerlo, qualora il pollo venisse scon-
gelato potrebbe mai riacquistare un buon sapore?

• Valutazione del reo da parte della società


Nella sua “teoria di ri-calibrazione del contro-sfruttamento” di matrice evoluzionista, Petersen (2012) ritiene
che applicare la sola punizione non sia un provvedimento sufficiente a favorire il progredire della società.
Ciò accade per due ragioni: la prima, come già si accennava, perché la punizione ha effetto finché c’è con-
trollo, la seconda è che punendo il deviante, in passato principalmente con la pena capitale, si rischia di eli-
minare una possibile risorsa per la società. Infatti la teoria elaborata spiega che, per far fronte ad un tale limi-
te, l’evoluzione umana abbia portato anche a sviluppare delle strategie rieducative e di approccio alla pena
alternative; infatti per decidere in che misura punire o rieducare viene valutata la serietà del crimine ma an-
che il potenziale valore dell’individuo come associato, cioè come risorsa per la società attraverso una vera e
propria ri-calibrazione di tutti i fattori in gioco. Infatti attraverso questa azione di “ri-calibrazione” della so-
cietà nei confronti del reo si incentiva l’agentività personale e la crescita del suo valore WTR intrinseco in
modo diverso e più efficiente della sola punizione, comportando trasformazioni profonde e durature ed effet-
ti positivi nel suo processo di desistenza.

Uno dei modi con cui Petersen aveva spiegato questa tendenza di valutazione del crimine a più livelli è stata
esplicitata con un semplice esperimento: viene chiesto a due gruppi di assegnare una pena in termini di anni
di reclusione e di valutare il WRT, cioè se secondo la loro opinione il reo avrebbe commesso di nuovo reati
in futuro e gli eventuali contributi alla società. Da un lato si chiede di valutare un immigrato, dall’altro un
militare che ha ricevuto una medaglia al valore; interessante notare che a entrambi i criminali vien assegnato
lo stesso numero di anni da scontare, ma ci si aspetta che sia il militare a commettere meno probabilmente
reati in futuro e portare più benefici alla società.
36
Sebbene la rieducazione non sia lo scopo primario di questa tesi, di fatto questo modello è orientato, oltre a
valutare le sue risorse a favore della società, anche e soprattutto a valutare la desistenza dell’individuo
(aspetti assimilabili al concetto di WTR intrinseco) ed è di sostegno per visualizzare dei possibili fattori che
la determinano.

Nello schema in Figura 7, Y rappresenta l’individuo colpevole e deviante, mentre X potrebbe essere un
qualsiasi individuo giudicante o rieducante. Lo schema si articola in tre parti. L’area a sinistra dello schema
mostra gli indicatori di desistenza dell’individuo Y dal punto di vista X (viola), il carattere di affinità tra i
due (blu) e, più in generale, le caratteristiche positive o le capacità di Y. Si può notare che per ognuna di
queste categorie sono in gioco diversi fattori elencati in figura.

L’area al centro indica il processo di valutazione della persona giudicante degli indicatori di desistenza che
porta ad un’attribuzione di un valore di associazione al deviante.

Nell’area a destra X predice come si comporterà Y in futuro, cercando di prevedere se imporrà dei danni in-
feriori ad X, o in genere alla società (verde chiaro) e se contribuirà maggiormente al suo benessere (verde
scuro).

Figura 7: schema rappresentante il processo di valutazione di un individuo giudicante X nei con-


fronti di un individuo colpevole e giudicato Y. Tradotto da Petersen et al. (2012). 37
Nella analisi verrà preso come spunto il modello di Petersen per analizzare i dati delle interviste. Come mo-
strato in figura si porrà attenzione a tre tipologie di fattori individuati da Petersen. La prima riguarda quei
fattori che segnalano l’avvio di desistenza dal crimine (viola), ovvero i segnali di rimorso, il coinvolgimento
e disponibilità verso l’altro a partire dalla relazione del qui e d’ora con l’intervistatore. Nella seconda tipo-
loggia verrà analizzata l’affinità di X per Y (azzurro scuro), ovvero detto con termini della psicologia dina-
mica, il controtransfert dell’intervistatore, che sempre ha un ruolo preponderante nel processo di osserva-
zione e valutazione (l’osservatore non è mai neutrale). Infine, nell’ultima tipologia, verranno valutate le ca-
pacità, o i punti di forza della persona e i contributi passati (azzurro chiaro), rintracciati attraverso l’analisi
della life story e dell’identità narrativa. Il paragrafo di analisi ispirato al modello di Petersen di fatto mostre-
rà un profilo del detenuto che mette in evidenza gli aspetti che favoriscono un processo di desistenza sul
piano comportamentale (Y impone meno rischi a X) e le risorse che caratterizzano l’individuo che sulle qua-
li varrebbe la pena scommettere a favore della società (Y contribuisce maggiormente a favore del benessere
di X). Questo modello potrebbe avere delle possibili applicazioni ad esempio per orientare il trattamento ria-
bilitativo del detenuto o per valutare un’assunzione in ambito lavorativo. I principi esposti da Arne ed Ekate-
rina nell’intervista in appendice (A6) nella loro “ruota del cambiamento” mostrano un chiaro passo in questa
direzione.

c) Teorie della trasformazione cognitiva


L’ultimo filone di ricerca sulla desistenza si concentra sulla trasformazione dei processi cognitivi della per-
sona. L’innesco di un cambiamento sul piano cognitivo può accadere molto velocemente, magari in forma di
un’epifania o realizzazione sulle conseguenze negative della vita criminale (Healy, 2010), da un’improvvisa
consapevolezza del danno o del trauma causato alla vittima o dal repentino desiderio di non tornare mai più
in prigione. Un tale ripensamento può verificarsi, altresì, come un processo incrementale e lento, in cui ini-
zialmente l’alternativa all’offesa assomiglia più ad un’opzione che ad una svolta radicale, ed il cambiamento
diventa una possibilità più che la via maestra (Göbbels et al., 2012).

Quando la trasformazione cognitiva avviene gradualmente nel tempo si verifica tipicamente un pattern stabi-
le di successione di diversi stati emotivi, come riscontrato da uno studio qualitativo longitudinale condotto
da Farrall e Calverley (2006) su 199 persone in Inghilterra. In questo studio sono state delineate le cosiddette
traiettorie emotive del processo di desistenza. Sulla base del tempo trascorso da quando i partecipanti ave-
vano cessato di offendere, i ricercatori hanno distinto quattro fasi di desistenza, ciascuna caratterizzata da
varie emozioni (di seguito riportate in corsivo).

➢ Fase I

Nella fase iniziale, cosiddetta delle “prime speranze”, coloro che avevano recentemente deciso di lasciare il

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crimine alle spalle hanno riferito di sentirsi più felici e in pace con se stessi. Farrall e Calverley (2006) nota-
no che questi sentimenti erano generalmente conseguenti alla diminuzione delle emozioni negative spesso
associate alla devianza, come “la paura di essere arrestati, il disagio e lo stress del dover presenziare spesso
in tribunale e il doversi continuamente guardare alle spalle”. Inoltre, in questa prima fase i partecipanti han-
no espresso il desiderio di sperimentare uno stato di normalità nelle loro vite (ad esempio, ricongiungersi
con la famiglia, assicurarsi un lavoro e una casa) e, cosa importante, hanno espresso la speranza che tale
condizione potesse essere ottenuta.

➢ Fase II

Allo stadio intermedio della desistenza, molti hanno sperimentato un “crescente senso di inquietudine inte-
riore” (Farrall & Calverley, 2006, p. 117) riguardo al loro comportamento criminale del passato. Fortunata-
mente queste emozioni si sviluppano in parallelo ad un ampliamento del divario temporale tra l’offesa e il
momento dell’intervista, il che favorisce un maggiore senso di autostima connesso alla libertà dal crimine e
dallo stigma ad esso associato percependosi più in grado di controllare le loro emozioni.

➢ Fase III

Nella penultima fase, in cui la maggior parte dei partecipanti aveva trascorso tre o quattro anni dall’ultimo
reato, le emozioni di vergogna e colpa “sembravano motivare gli intervistati ad assumersi la responsabilità
delle loro azioni passate e future” (Farrall & Calverley, 2006, p. 119). In questa fase i partecipanti hanno an-
che riferito sentimenti positivi di fiducia nei confronti e da parte degli altri, nonché l’orgoglio per i risultati
ottenuti dal rinunciare al crimine.

➢ Fase IV

Infine, nell’ultima fase, i partecipanti allo studio avevano raggiunto quel senso di normalità tanto agognato.
In questa fase le loro vite passate come autori di reato sembravano ormai lontane e quegli obiettivi come il
ricongiungimento famigliare o il fondamento di una nuova famiglia e il ritrovato impegno sociale erano stati
raggiunti.

Che sia graduale o istantaneo, questo processo di trasformazione cognitiva può essere anche descritto come
un processo di trasformazione dell’identità in cui avviene un “taglio” col passato criminale, ovvero una deci-
sione razionale di cambiamento a favore di un’identità sociale fondata sul rispetto della legge (Giordano et
al., 2002; Maruna & Roy, 2007). Come si vedrà più avanti (p. 49) il processo del desistente spesso include la
ricostruzione del passato in una narrativa positiva e redentrice (Healy, 2010). Tale ricostruzione viene attua-
ta al meglio attraverso storie in cui le emozioni e l’agentività svolgono un ruolo determinante nel supera-
mento degli ostacoli della propria mente e della reintegrazione nella comunità (Giordano et al., 2002).
39
2. Identità Narrativa

2.1 L’identità: definizione e premesse


L’indagine della dimensione soggettiva è stata da sempre l’elemento di interesse di tutte le scienze umane e
ha subito diverse interpretazioni nel corso della storia e nelle diverse culture, senza realmente convergere ad
un’unica definizione. Infatti concetti come “identità”, “sé” o “io” non trovano un’interpretazione univoca ed
inequivocabile nella letteratura in psicologia (Gatti, 2006). La ragione di ciò risiede nel fatto che tale aspetto
è estremamente complesso e non è accessibile interamente, nemmeno a noi stessi. Inoltre, il problema della
definizione dell’identità è dovuto anche al fatto che il nostro corpo, compreso il cervello, e le condizioni in
cui viviamo, sono in continuo mutamento.

Secondo il filosofo Francese Paul Ricœur (1991), ad esempio, l’identità può essere definita attraverso due
concetti, in latino conosciuti come “idem” ed “ipse”. Il primo significa il medesimo e indica una forma di
“immutabilità nel tempo”, o meglio quel “nucleo immutabile, sottratto al cambiamento temporale” per cui,
normalmente, ci chiamiamo sempre con lo stesso nome. Il secondo, invece, è legato al concetto di ipseità,
ovvero l’identità dell’individuo con se stesso, che deriva dalla suo essere distinto dagli altri.

Erik Erikson (1968), ancora prima di Ricoeur, sembrava riprendere nel suo saggio “Youth and Crisis” (Gio-
ventù e crisi di identità) una simile valenza doppia del significato d’identità, sempre ad un livello filosofico-
esistenziale, in quella che lui chiama “identità personale”, pur individuando anche un livello psicosociale:

➢ Livello esistenziale: Secondo Erikson noi siamo in grado di sentire coscientemente di avere
un’identità personale grazie a due osservazioni simultanee: “self-sameness”, ovvero la perce-
zione dell’uniformità di sé e della continuità della propria esistenza nel tempo e nello spazio,
e la percezione del fatto che gli altri riconoscano la propria uniformità e continuità.

➢ Livello psicosociale: Erikson, in aggiunta, afferma che l’identità non consiste soltanto nella
consapevolezza di esistere, ma anche nelle qualità di questa esistenza. Per definire questo li-
vello d’identità egli conia il termine “ego identity” (identità dell’io) intendendo l’insieme del-
le caratteristiche del pensiero distintive della persona, ovvero il metodo di sintesi dell’ego con
cui si percepisce e ci si muove nel reale. In altre parole si tratta di una concezione
dell’identità di stampo più psicologico che, a parere di chi scrive, si sovrappone in parte al
costrutto di personalità. Infatti, Pervin (1996) con “personalità” intende una complessa orga-
nizzazione di cognizioni, affetti e comportamenti che danno direzione e coerenza alla vita
della persona e determinano il “metodo di sintesi dell’ego” di cui parla Erikson. Pervin
40
(1996) sostiene che la personalità sia determinata dalla natura (geni) e dalla cultura e che si
costruisca a partire dal passato e dai ricordi, così come dalle costruzioni del presente e del fu-
turo (Pervin, 1996, p. 414). Nonostante Erikson ritiene che questo “metodo di sintesi” abbia
un nucleo stabile nel tempo egli basa la sua “teoria degli stadi dello sviluppo psicosociale”14
sulla constatazione che questo metodo, nel complesso, sia anche in continuo divenire in ri-
sposta ad altri significativi. L’identità dell’io si pone dunque ad un “livello psicosociale” e
come fenomeno dinamico, che si ridefinisce lungo tutto il corso della vita.

A prescindere da queste premesse, la maggior parte degli studi teorici sull’identità concordano sull’idea che
essa sia il tentativo di ciascun individuo di rispondere alla domanda: “chi sono io?”. Ricœur (1991) ritiene
che tale risposta non possa essere data una volta per tutte, e che essa funga da mediatore dell’inevitabile con-
trasto tra permanenza e divenire dell’identità. Secondo l’autore la risposta alla domanda “chi sono io?” può
essere tantomeno data in modo automatico o attraverso una rivelazione immediata; piuttosto essa può essere
ricavata attraverso una rifigurazione, cioè un’ermeneutica15 di recupero del significato. Dal suo punto di vi-
sta la modalità più adatta e forse l’unico modo possibile affinché l’identità si manifesti è infatti attraverso la
narrazione della “life-story” (storia di vita), cioè attraverso il racconto, rendendo esplicita attraverso il lin-
guaggio la propria storia, oppure rileggendone il significato attraverso la storia degli altri. Nota infatti
Ricœur: “ciò che nella vita sarebbe un puro caso, senza rapporto evidente con alcuna necessità o verosimi-
glianza, nel racconto contribuisce all’avanzamento dell’azione” (Ricœur, 1991). In particolare questa esi-
genza di recupero del significato si manifesta appieno in quel punto del racconto in cui avviene quello che
lui definisce il rovesciamento, ossia la mutazione del destino, il colpo di scena, il sorprendente, che defini-
remo come il “turning point” della trama narrativa. Esso diviene quindi fulcro dell’identità, simile al concet-
to che Aristotele definiva come katharsis nella tragedia greca, cioè la purificazione dei sentimenti scaturita
dalla rappresentazione teatrale.

In fondo raccontare la propria storia è un po’ come metterla in scena. Non solo Ricœur, ma molti altri hanno
intuito che è attraverso questo processo che si risponde nel modo più sentito alla domanda “chi sono io?”,
dando la possibilità al ricercatore che ascolta di capire chi è la persona realmente, se ci sono elementi di uni-
tà nella storia, come viene costruita l’identità e se un tale processo combaci con modelli esistenti di forma-
zione dell’identità (Atkinson, 2002; Erik H Erikson, 1993; Kroger, 1993; Marcia, 1966; Widdershoven,
1993). Per questo ci si limiterà da qui in avanti a parlare dell’identità narrativa, sia come fenomeno indivi-
duale che sociale. Tuttavia, prima di addentrarsi nella relazione tra l’identità narrativa e i processi di desi-
stenza, nella prossima sezione verranno poste alcune premesse epistemologiche in cui ci si imbatte adottan-
do un metodo narrativo.

14
alcuni degli stadi dello sviluppo psicosociale verranno approfonditi più avanti (ad esempio p.72)
15
Con ermeneutica qui si intende la metodologia personale di comprensione della narrazione e, con essa, della propria esistenza
41
2.2 Una premessa epistemologica al metodo narrativo
Risulta importante inquadrare a livello epistemologico il paradigma di cui ci si è serviti nel presente studio,
sia nel processo di selezione dei contenuti che nel metodo adottato e nello svolgimento dell’analisi svolta
nella parte sperimentale.

La riflessione epistemologica si articola in distinti “livelli di realismo” (Fiora et al., 1988; Gaudio, 2015):
essi presentano tre modalità differenti del soggetto di definire e conoscere la realtà oggettiva. Si tratta del
“realismo monista”, “realismo ipotetico” e “realismo concettuale”. Si sottolinea da subito che tali livelli, pur
essendo idealmente distinti, possono essere ugualmente applicati allo stesso oggetto di analisi. In questa trat-
tazione si è optato principalmente per un metodo narrativo che si colloca al terzo livello di realismo, quello
concettuale, tuttavia verranno esposti brevemente anche gli altri due livelli per illustrare meglio le peculiarità
e le criticità del paradigma prevalente.

• Nel “realismo monista” la realtà esiste ed è indipendente dal soggetto e dalle sue categorie conosciti-
ve utilizzate da esso per studiarla. Tale realtà è determinata dal paradigma meccanicistico, il che si-
gnifica che la modalità di conoscenza segue le leggi di causa-effetto. In virtù di ciò, l’osservazione
ed il linguaggio degli intervistati vengono intese come la fotografia di una realtà esistente di per sé.
Tale livello potrebbe essere adottato in questa intervista in una frase come: “Mi trovo nel carcere di
Padova” oppure “lavoro dalle 7 alle 12”, ovvero per quelle affermazioni in cui si parli di qualcosa di
verificabile oggettivamente, come il nome di una città o un orario di lavoro, e si dimostra pertanto
non esaustivo per il resto del materiale analizzato.

• Al secondo livello, nel “realismo ipotetico”, la realtà esiste indipendentemente dal soggetto tuttavia
può essere conosciuta dal soggetto solo ad un livello ipotetico ed indiretto. Tale realtà, perciò, non è
completamente indipendente dal soggetto, ma dipende dagli assunti e dai modelli da lui adottati. Ne
consegue che il linguaggio di chi descrive la realtà in chiave ipotetica sia dettato dal contesto storico
e culturale socialmente costruito dall’individuo da cui tali assunti e modelli dipendono. Un esempio:
“Sarei già fuori, ma mi sono mangiato dei giorni per la droga”. Evidentemente una tale ipotesi non
può essere direttamente verificata ma è piuttosto legata ad una presunta conoscenza dell’intervistato
del Codice Penale in vigore in Italia nel contesto storico dell’intervista; fuori da un tale contesto
l’affermazione potrebbe non avere senso. Questo livello, dunque, permette di accedere anche ad al-
cune informazioni che riguardano il soggetto in relazione ai valori dettati dalla cultura del suo tempo.

• Infine al terzo livello, quello del “realismo concettuale”, la realtà è dipendente dal soggetto. Essa di-
viene discorso o narrazione costruita nell’atto stesso di conoscenza dell’oggetto, per cui il conoscente
42
ed il conosciuto non possono essere distinti tra di loro. Infatti sono le modalità di conoscenza stesse a
stabilire il limite del “come” e del “cosa” si conosce. Si tratta della caratteristica epistemologica più
rilevante per comprendere il lavoro di questa tesi: l’analisi del discorso che emerge dallo stile narra-
tivo non permette un accesso alla realtà oggettiva dei fatti in quanto essi sono rivestiti delle modalità
conoscitive messe in atto dall’individuo. Sono, invece, tali modalità conoscitive soggettive ad essere
considerate nel presente studio essendo protagoniste della narrazione. Questo significa che per poter
accedere alla realtà concettuale delle trame narrative emerse dalle interviste è necessario abbandona-
re la logica del paradigma meccanicistico e rimpiazzarla con quella del paradigma narrativistico che
consiste proprio nell’analisi dei processi di costruzione di ciò che viene considerato come reale dal
soggetto narrante. Si tratta di un vero e proprio “scarto di paradigma”. In altri termini non sussistono
più legami empirico-fattuali, ma solo retorico-argomentativi: maggiore la forza retorica e argomenta-
tiva, maggiore l’efficacia nel rappresentare la realtà concettuale (Fogliata, 2006). Con questo non si
intende che il metodo utilizzato mancherà di scientificità, ma il criterio di scientificità consisterà
nell’utilizzo di un diverso tipo di paradigma che descriva i processi di narrazione di realtà piuttosto
che, ad esempio, la veridicità delle affermazioni fatte. Nel lavoro esposto in questa trattazione si pre-
diligerà dunque il paradigma narrativistico permettendo di completare l’analisi laddove i primi due
paradigmi non risultino sufficienti. Non ci si concentrerà sulla ricerca delle cause ma si pone atten-
zione alle caratteristiche della narrazione; un esempio può essere il focalizzare l’analisi sul passaggio
dall’io al tu impersonale che è stato individuato da Maruna (2001) come segnale della presenza di
una sequenza narrativa di condanna tipica di script di soggetti persistenti (p.49). Si consideri a titolo
di esempio questa sequenza narrativa tratta dalle interviste:

“Non avrei mai pensato di andare in carcere. Ho cercato di farmi forza di affrontare quello che
c’era da affrontare. Quando tu fai un peccato grande ne paghi le conseguenze. Non puoi tradire i fi-
gli, li devi lasciare in pace, sei tu che devi pagare”.

Di seguito si propone un parallelismo tra tali considerazioni epistemologiche sulla modalità di conoscere la
realtà da parte del soggetto, incluso chi fa ricerca, e uno dei principi portanti della fisica quantistica. Si tratta
del Principio di indeterminazione di Heisenberg secondo cui in un dato sistema fisico l’atto della misurazio-
ne in sé introduce un’incertezza nella misura, anche se lo strumento di misurazione fosse perfetto (Fogliata,
2006). In particolare questo principio si applica nell’osservazione di quelle quantità definite, appunto, “in-
compatibili” tra di loro. Nel momento in cui si riuscisse a misurare una di queste quantità con precisione,
l’altra non potrebbe mai essere misurata altrettanto precisamente, ma rimarrebbe indeterminata. Una simile
argomentazione vale per quanto riguarda le riflessioni epistemologiche sull’analisi del discorso spiegate
poc’anzi. Tanto più il soggetto descrive fatti o dati empirici in modo oggettivo tanto meno si potrà accedere
a informazioni sul soggetto coinvolto nella descrizione. Viceversa, tanto più la narrazione si allontana dal
paradigma meccanicistico, puramente analitico, della realtà, tanto più il discorso farà trapelare delle infor-

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mazioni riguardanti i processi soggettivi di conoscenza della realtà impliciti nel paradigma narrativistico. Si
tratta quindi di una sorta di scala di nitidezza, come illustrato in Figura 8, in cui la dimensione soggettiva ed
individuale viene messa a fuoco man mano che ci si sposta verso il realismo concettuale, a discapito del fuo-
co sulla realtà oggettiva. Potrebbe essere considerato da alcuni un fattore di limite del paradigma narrativi-
stico, d’altra parte non è lo scopo di questo elaborato descrivere la realtà oggettiva, poiché al contrario si è
proprio interessanti a conoscere il soggetto in profondità. In particolare si vuole indagare come esso vede la
realtà, il significato che attribuisce ad essa, la modalità in cui costruisce se stesso e in una certa misura la
realtà stessa attraverso la narrazione.

2.3 Identità narrativa della persistenza/desistenza


Dopo aver definito l’identità narrativa e dopo aver esplicitato alcune premesse al metodo narrativo, in questo
paragrafo si tratterà della relazione tra l’identità narrativa e i processi di desistenza.

Riprendendo la nozione di redimibilità morale si può affermare che l’identità criminale dura fintanto che la
persona trae benefici da essa. Nel corso del tempo i diversi tipi di shock subiti dal persistente, a cui fanno ri-
ferimento Cusson e Pinsonneault (1986), si possono tradurre in uno stato di crescente insoddisfazione ed in-
certezza. In questa condizione la persona potrebbe giungere alla constatazione razionale che il passato cri-
minale e l’identità strutturata su un polo di devianza abbia portato più costi che benefici, e quindi avvertire la
necessità di ristrutturare la propria identità per evitare che “il sé temuto”, ovvero quello deviante che porta a
conseguenze poco piacevoli per l’individuo, domini anche il futuro (Paternoster & Bushway, 2009).

Come introdotto precedentemente, uno dei modi attraverso cui la persona può avviare e definire questo
cambiamento atteso e reale del sé è nella ricostruzione dell’identità narrativa, ovvero come la definisce
Ricœur, di “quella forma d’identità cui l’essere umano può accedere attraverso la funzione narrativa”.

L’identità narrativa, come notava Erikson (1968), dipende dalla manifestazione dell’identità dell’io, ovvero
dai processi della nostra mente e quindi, come già accennato (p.40), è un fenomeno influenzato dalla nostra
personalità. Per questa ragione McAdams (1994) colloca l’identità narrativa al terzo ed ultimo livello della
sua teoria della personalità, che verrà presentata brevemente di seguito (p.45); l’autore propone un modello

Figura 8: Rappresentazione del parallelismo tra il principio di indeterminazione di Heisenberg


e le premesse epistemologiche del metodo utilizzato in questo studio.

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unitario attingendo da diversi ambiti, per descrivere come la persona definisce e percepisce se stessa e il
mondo attorno a sé.

Successivamente (p.50) si presenterà, inoltre, un modello narrativo di matrice psicodinamica, denominato


modello narrativo-relazionale che completerà quello proposto da McAdams, poiché pone attenzione agli
aspetti emotivi e spesso inconsci della nostra mente che si manifestano nella relazione del qui ed ora con
l’intervistatore/terapeuta; tali elementi organizzano l’attribuzione di significato, guidano la narrazione stessa,
influenzano la costruzione dell’identità narrativa e possono essere veicolo per riorientarla.

Infine, nel sottocapitolo successivo (p.55), si mostrerà un modello personale che propone un possibile meto-
do di indagine dei fattori di desistenza e dell’identità narrativa; esso si ispira alle teorie e agli studi esistenti
esposti fino ad ora, tuttavia li integra tra di loro, ne amplia e arricchisce i contenuti, introducendo aspetti di
originalità.

a) Teoria della personalità di McAdams


Come accennato, la teoria della personalità di McAdams si articola in tre punti:

1) Tratti di personalità

Al primo livello della teoria della personalità, McAdams (1994) colloca la tipologia dei tratti disposizionali
spiegati dalla teoria del “Big Five” e teorie affini (Costa Jr, 1991; McCrae, 1991). Sebbene utilizzare i tratti
per spiegare le differenze basilari di personalità tra gli individui risulti efficace sotto certi aspetti, McAdams
(1994) sostiene che risulta incompleto fermarsi a questo livello di analisi per descrivere la personalità.

2) Propositi personali

Al livello due della struttura della personalità di McAdams ci sono i propositi personali: quell’insieme di
obiettivi, motivazioni, aspirazioni, piani e strategie che danno una direzione alle nostre vite (McAdams &
Pals, 2006). Mentre i tratti disposizionali riguardano l’“avere”, i propositi personali riguardano il “fare” della
personalità (Cantor, 1990). Quando le persone parlano di chi sono, raramente parlano in termini di tratti di-
sposizionali, ma spesso le persone si servono di episodi (McAdams, 1994) e piuttosto parlano dei propri
propositi in termini di cose che vorrebbero ottenere, cosa che apprezzano, come cercano ciò che vogliono ed
evitano ciò che temono, e così via (McAdams & Pals, 2006). Per andare verso una visione più completa del-
la personalità Mc Adams propone un terzo livello, ovvero quello dell’identità narrativa.

3) Identità narrativa

45
Bruner (1986), in linea con quanto spiegato precedentemente (p.42), suggeriva che noi percepiamo il mondo
e noi stessi principalmente in due modi. Da un lato strutturiamo i nostri ragionamenti attraverso il pensiero
logico-scientifico, o paradigma meccanicistico, che identifica relazioni di causa-effetto e ricerca di verità
empiriche. Dall’altro creiamo storie su noi stessi, per mezzo di un pensare narrativo, conferendo coerenza
alla nostra esperienza. In linea con Ricœur (1991), McAdams (1999) spiega che, come un buon romanzo,
queste storie “invocano trame, scene e personaggi per spiegare come e perché le persone fanno quello che
fanno” (McAdams, 1999, p. 480). L’identità narrativa, ricostruendo il passato autobiografico e immaginando
il futuro, fornisce alla vita di una persona un certo grado di unità e coerenza del tempo, ma anche attribuisce
uno scopo e un significato. Attraverso l’identità narrativa, pertanto, le persone comunicano a se stesse e agli
altri chi sono adesso, come sono diventate e dove pensano che le loro vite possano condurle in futuro (McA-
dams & McLean, 2013, p. 233).

Interessante notare che l’identità narrativa sembra avere un carattere contingente piuttosto che immutabile;
infatti ad uno stesso avvenimento può essere affidato un significato diverso nel corso della vita: nel sorpren-
dente intreccio della narrazione l’attribuzione di senso agli eventi può variare. Dunque il grande potenziale
di tale scoperta risiede nella possibilità di rielaborare e addirittura di riscrivere la propria storia, di donarle
un significato diverso; quindi, in un certo senso, diventa possibile anche cambiare. Il criminale, infatti, la cui
storia di vita è spesso segnata e definita dal proprio passato, potrebbe sicuramente trarre beneficio da un tale
processo narrativo. Maruna (2001) con il saggio “Making Good” fu il primo ad applicare il metodo narrativo
di McAdams per studiare il fenomeno di persistenza/desistenza dal crimine. Egli, infatti, constatò che le sto-
rie di vita non solo guidano e modellano il nostro comportamento, come già notarono diversi autori della
corrente della criminologia narrativa, ma osservò che anche l’identità narrativa è soggetta a cambiamento e,
quindi, ad interventi su misura (2015).

Inoltre, dalle storie degli ex autori di reato, Maruna (2001) intuì che le sequenze narrative di “condamnation
script” (ovvero script di condanna) e di “redemption scripts” (ovvero script di redenzione), già individuate
da McAdams (1994) in contesto non criminologico, possono essere associate rispettivamente ad individui
persistenti e desistenti. Il termine “script” viene utilizzato in psicologia per riferirsi ad una sequenza di com-
portamenti attesi socialmente ogni qual volta si presenti una certa situazione, per far sì che si crei una norma
socialmente condivisa che renda prevedibili e gli eventi. Anche nello “storytelling” e nella costruzione
dell’identità vengono utilizzati elementi ricorrenti come un copione, una trama, uno script, appunto, che
permetta di rendere prevedibile l’esito degli eventi, in questo caso in senso redentivo o di condanna, e infon-
dere un senso di controllo e sicurezza. Nei prossimi paragrafi si esporranno più nel dettaglio le caratteristi-
che narrative dei racconti dalle due categorie menzionate.

• Script di condanna

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Con gli script di condanna non si vuole evidenziare uno stato di colpevolezza nei confronti di chi ha
svolto e persiste nello svolgere l’attività criminale. Si tratta piuttosto di una constatazione di un certo
grado di staticità del copione che trapela dalla narrazione della storia di vita di chi rientra in questa
categoria. Questa distinzione è importante in quanto anche nell’analisi dei dati l’attribuzione di se-
quenze di condanna non vuole attribuire alcun grado di colpevolezza all’individuo. Per comprendere
le ragioni di questo “stallo” narrativo occorre fare un passo indietro e considerare l’impatto che ha la
devianza sull’identità narrativa.

Sampson e Laub (1997) descrivevano la devianza come il risultato di uno “svantaggio cumulativo”.
Analogamente Becker (1963) parlava di “carriera deviante” come un fenomeno di tipo sequenziale.
Con queste definizioni si intende un processo di persistenza che si sviluppa per gradi e prosegue per
tappe che si cercherà di illustrare di seguito. Secondo questa visione, tutto ha solitamente inizio da
una condizione di vita svantaggiata; basti pensare ai fattori di rischio elencati in precedenza nel con-
testo delle teorie della desistenza (p.31). Tali condizioni potrebbero portare l’individuo svantaggiato
ad una violazione occasionale, quella che Lemert (1951) definisce come “primary deviance” (devian-
za primaria). Essa consiste nella violazione delle norme in modo accidentale ed influenzato, appun-
to, dalle pressioni circostanti e dal processo di adattamento attuato per far fronte a nuove situazioni.
Alla devianza primaria può eventualmente seguire la “secondary deviance” (devianza secondaria)
dove il comportamento deviante o i ruoli sociali ad esso associati sono un mezzo di difesa, di attacco
o di adattamento alla reazione della società alla devianza primaria.

Così facendo le “cause” originarie del comportamento antisociale perdono d’importanza, mentre la
disapprovazione, segregazione e stigmatizzazione (Salvini, 1981) diventano fattori preponderanti nel-
la formazione di un’identità criminale. Secondo Mosconi (1998) il “movente” del fenomeno della
stigmatizzazione è l’attribuzione della violazione a fattori soggettivi patologici o a difettosi processi
di apprendimento da parte delle agenzie del controllo formale, o alla società in generale. Quello adot-
tato dalla società con la stigmatizzazione è un approccio riduttivistico, appartenente al paradigma
meccanicistico di cui si parlava sopra (p.42), fondato su un “modello medico”16, dove l’unico obbiet-
tivo è la cura di un corpo considerato come malato, delegata a personale addetto e specializzato da
svolgere in luogo protetto e isolato. Tale condizione di stigmatizzazione porta il criminale ad adattare
la propria identità pubblica ad un ambiente che, attraverso l’emarginazione e l’etichettamento di chi
ha commesso un reato, sembra istigare una condotta criminale. Oltretutto l’identità criminale di un
delinquente isolato e stigmatizzato viene spesso corroborata dalla lenta assimilazione delle motiva-
zioni del gruppo deviante, dall’apprendimento delle tecniche proprie di quel determinato ambiente e

16
come modello si intende uno strumento operativo che, a partire da precisi assunti teorici, consente di individuare prassi operati-
ve coerenti con tali assunti (Fogliata, 2006).
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anche dall’acquisizione delle ragioni per cui è possibile ritenere giustificabile il comportamento adot-
tato (Becker, 1963). A questo punto, l’identità deviante e “tipizzata” emerge come risultato
dell’accettazione da parte del criminale del suo stereotipo.

Anche nelle testimonianze dei detenuti intervistati emerge il forte impatto che la stigmatizzazione e
la segregazione messa in atto dalla società nei loro confronti ha sulla percezione di avere
un’alternativa possibile. Il persistente si percepisce come malato, paralizzato da un passato tutto de-
terminato da una serie di cause ed effetti, da una storia predestinata al crimine da cui egli non ha via
di scampo.

Insomma, tornando al punto di partenza, non c’è da sorprendersi se lo script di condanna presenta dei
caratteri di staticità e inamovibilità della trama narrativa. Maruna (2001) a tal proposito scrive sugli
individui persistenti:

“Non ne possono più di offendere, della prigione e della loro posizione nella vita. Eppure, dicono di
sentirsi impotenti ed incapaci di cambiare il loro comportamento a causa della tossicodipendenza,
della povertà, della mancanza di istruzione o competenze o del pregiudizio sociale. Non vogliono of-
fendere, dicono, ma sentono di non avere scelta”. (Maruna, 2001, p. 74).

Al fine di aiutarci a descrivere e a spiegare la staticità della trama narrativa del criminale, cristallizza-
ta spesso in uno script di condanna, si parlerà della concezione di “identità dialogica” (o narrativa)
elaborata da Turchi (2002). In tale modello l’identità narrativa è generata dalle dinamiche discorsive
del pensiero come conseguenza dell’intersezione di tre poli che si influenzano reciprocamente: il po-
lo dell’io (discorsi contenenti auto-attribuzioni o resoconti), l’alter (discorsi contenenti etero-
attribuzioni o narrazioni) e la matrice collettiva (insieme di tutti i possibili discorsi generabili). (Fo-
gliata, 2006; Turchi, 2002). Secondo tale modello nell’identità tipizzata le polarità dialogiche saran-
no molto vicine o addirittura coincidenti, al punto da inibire la diversificazione dei discorsi; il pensie-
ro e la narrazione presenterà, dunque, un evidente carattere di staticità dando luogo così anche ad una
storia tipizzata.

In fondo il processo di vittimizzazione rispetto alle circostanze può consolidare la percezione del
criminale di essere un effetto piuttosto che una causa del male e liberarlo dalla responsabilità perso-
nale delle proprie azioni (Maruna, 2001; Matza, 1967). In una situazione del genere, offendere può
potenzialmente diventare un modo per cercare di afferrare un minimo di controllo sulla propria vita,
di sperimentare un senso di padronanza invece che di impotenza. Come scrive Maruna (2001): “falli-
re intenzionalmente può essere meno stressante per l’ego di una persona che cercare di avere succes-
so e fallire comunque” (Maruna, 2001, p. 78).
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Con tutto ciò non si intende considerare irreversibilmente la persona persistente come un malato irre-
cuperabile: occorre esercitare lo scarto di paradigma. Infatti all’interno del paradigma narrativistico,
lo psicologo si porrà non tanto come ‘guaritore’ del corpo, ma piuttosto come operatore del cambia-
mento delle auto ed etero-attribuzioni, per rompere la coerenza narrativa delle tipizzazioni (Fogliata,
2006) e costruirne una nuova aprendosi agli script di redenzione.

• Script di redenzione
Mentre il campione persistente nello studio di Maruna (2001) si sentiva condannato ad una vita di
crimine e presentava trame statiche, gli ex autori di reato che desistevano erano riusciti ad acquisire
un senso di controllo sulle loro vite, mostrando un certo grado di flessibilità nello svolgimento della
trama. Le storie di vita di questi individui si sviluppando secondo una narrativa della redenzione
(Grossbaum & Bates, 2002; Maruna, 2001; McAdams & McLean, 2013; Stevens, 2012). Come
McAdams (2006) osserva, nelle storie di vita le sequenze di redenzione iniziano con l’esperienza del
protagonista di uno stato emotivo negativo come paura, colpa, vergogna o disperazione. La scena
negativa, tuttavia, lascia il posto a stati emotivi positivi come, felicità, gioia, eccitazione, crescita o
simili mediante un “turning point” (punto di cambiamento). In poche parole lo script di redenzione è
quello di tutte le storie in cui un bene trionfa su un male.

In questo script Maruna (2001) individua elementi narrativi di auto-attribuzioni dove i desisters si
descrivevano tutt’altro che impotenti, ma piuttosto come uomini che si prendono cura delle loro fa-
miglie finanziariamente, genitori amorevoli, eroi locali, uomini che hanno acquisito abilità e “insi-
ght” grazie alle esperienze pregresse. Al contrario di quanto mostrato in precedenza per le sequenze
di condanna (p.43), questo scarto del senso di agentività personale viene quasi sempre accompagnato
da un cambio dalla descrizione impersonale a quella personale. Da un lato, come accennato, si tratta
di un meccanismo di difesa per prendere le distanze da elementi disturbanti che mortificano
l’immagine positiva del sé, come un passato segnato dalla violenza e dalla degradazione. Dall’altro il
cambio di stile mette in risalto l’eroicità della narrazione leggendo tutto il passato alla luce della re-
denzione.

Inoltre Maruna riscontra un desiderio di generatività negli individui desistenti. Si tratta del settimo
stadio della teoria dello sviluppo psicosociale di Erikson (1998), che si svolge tra i 40 ed i 65 anni.
Molti dei partecipanti dello studio di Maruna hanno espresso un forte desiderio di utilizzare la loro
storia di “alti e bassi” come ispirazione per gli altri. Riconfermando l’importanza delle relazioni a cui
abbiamo fatto riferimento precedentemente (p.34), altre ricerche precedenti hanno mostrato che effet-
tivamente il sostegno tra gli individui porti ad una trasformazione positiva dell’identità, all’aumento

49
dell’autostima e del benessere soggettivo in generale (Carlson et al., 2001; Copeland, 1997; Petrich
& Morrison, 2015).

b) Il metodo narrativo-relazionale e costruzione dell’identità secondo Ciappi


Nel seguente paragrafo si intende esporre in sintesi il metodo narrativo-relazionale di Silvio Ciappi a partire
dal recente volume dell’autore “La mente nomade” (2019) che trae ispirazione dalle teorizzazioni post-
razionaliste di V. Guidano (2007; 2010). Si parlerà di identità narrativa, definita dall’autore come “trama”,
dei capisaldi del metodo e dell’assetto del terapeuta narrativo-relazionale a cui ci si è ispirati per condurre
l’intervista e per l’analisi dei dati.

 Costruzione dell’identità e narrazione della trama

“Chi siamo allora noi? Siamo un corpo che dipende dall’esterno, dalla terra, dai bisogni materiali, siamo
una mente che oscilla tra il dentro e il fuori, il prima e il poi, tra noi e gli altri”. (Ciappi, 2019, p. 136)

S. Ciappi in “La mente nomade”, in linea con il pensiero di Ricœur (1991) e McAdams (1999), presenta
l’identità come un concetto statico e mutevole al tempo stesso, che garantisce un senso di stabilità alla per-
sona pur essendo in continua trasformazione. Trova le sue fondamenta a partire da quattro dimensioni di ba-
se, che l’autore definisce “soglie esistenziali mobili e oscillanti” sulle quali essa resta in bilico cercando di
bilanciare l’esigenza di equilibrio interno e di adattamento al mondo.

La prima soglia è definita dalla dimensione Corpo-Mondo (C/M), che fornisce una prima coordinata su dove
sia fisicamente situata l’identità. Essa risiede in un corpo, che a sua volta si trova in un certo angolo di mon-
do. L’identità non si costruisce dal nulla, ma dalle sensazioni del corpo che di volta in volta si adatta alle ri-
chieste dell’ambiente.

La seconda soglia, data dalla dimensione Dentro-Fuori (D/F), riguarda la provenienza degli elementi che
costituiscono l’identità. Molti di essi provengono dal proprio vissuto interiore, dal di dentro appunto, tuttavia
questo vissuto personalissimo non esaurisce, non contiene tutta la realtà, il fuori da noi. Al tempo stesso
nell’oggetto riflettiamo parti di noi. Il confine tra il dentro e il fuori si fa labile e l’identità risulta
dall’insieme dei significati interiori che attribuiamo alla realtà esterna, il significante.

La terza soglia, rappresentata dalla dimensione Io-Altro (I/A), riguarda il “chi” costruisce l’identità. Il bino-
mio Io-altro esprime il fatto che “siamo come siamo anche per le persone che ci hanno circondato. Scopria-
mo che dentro di noi vivono molti altri”. Amici, genitori, maestri, passanti, chi è stato molto tempo con noi o

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anche solo chi abbiamo incontrato per un attimo. L’identità deriva anche dalla relazione con l’altro del pas-
sato e dell’oggi.

L’ultima soglia è quella del Prima-Dopo(P/D), e si parla della dimensione temporale dell’identità. Essa si
costruisce dagli eventi passati, da quelli presenti e si proietta nel futuro, si espande va oltre al tempo comu-
nemente inteso, creando una nuova dimensione fluida che le accoglie tutte le altre.

A partire da queste dimensioni o “soglie esistenziali” noi costruiamo una trama individuale. La trama rias-
sume il concetto di “funzionamento” (Ciappi, 2013) e di quello che Guidano (1988) denominava “organiz-
zazione di significato personale”, cioè il significato attorno cui ciascuno di noi orienta le proprie scelte, vede
il mondo e intende le relazioni.

Ciappi, in linea con il concetto di identità dell’io di Erikson (1968) commentato in precedenza (p.40), defini-
sce la trama come un modo di funzionare, un irripetibile e “personalissimo modo di intendere e di dare si-
gnificato al mondo”, il filo rosso che lega tra loro gli avvenimenti, dando un senso. Le trame costruiscono
incessantemente la nostra identità e come “invisibili fili del destino che agiscono ‘in automatico’ senza che
ce ne accorgiamo, modalità inconsapevoli del vivere” (Ciappi, 2019, p. 155).

Le trame vengono distinte in accessibili e inaccessibili. Affinché si sviluppi una trama, ovvero il soggetto
abbia la capacità di narrarsi, non deve mancare, riprendendo le teorie di Bion, un apparato per pensare i pen-
sieri. Esso si forma grazie alla relazione materna, che fungendo da contenitore ha trasformato gli elementi β
non digeriti in materiale pensabile e quindi narrabile.

Questa è la premessa per la formazione delle trame accessibili dove la persona riesce a raccontarsi, a rintrac-
ciare un senso e un significato al proprio esistere. Al contrario nelle trame non accessibili è venuta meno la
funzione α, e quindi non è possibile costruire alcuna trama e resta l’incapacità di narrarsi, come accade spes-
so per chi ha subito gravi traumi, come le vittime di abusi.

Si parlerà di seguito e nell’analisi principalmente delle trame accessibili di stampo nevrotico, dove resta la
componente di funzionamento, escludendo elementi che riportano a condizioni psicopatologiche e post-
traumatiche. Esse si distinguono in quattro tipologie: la trama depressiva, fobica, ossessiva e somatica. Cia-
scuna trama è caratterizzata da dimensioni psicologiche che attivano sensazioni generalmente inconsce ri-
spettivamente di perdita, di minaccia, controllo e giudizio che si modulano secondo un’oscillazione caratte-
ristica.

Nella trama fobica o depressiva ad esempio ciò avviene lungo un continuum quantitativo per cui ci possiamo
sentire più o meno tristi, più o meno minacciati.
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Nella trama somatica ed ossessiva, invece, tale oscillazione avviene secondo una logica categoriale dove si
alternano polarità opposte perfezione/imperfezione, adeguatezza/inadeguatezza emotiva.

Nel corso della nostra vita, per temperamento o per esperienze vissute, soprattutto durante l’infanzia, abbia-
mo imparato modalità di interpretazione della realtà e di gestione delle emozioni che si traducono nella tra-
ma; tali caratteristiche possono essere descritte parlando di dimensione di coping e di dimensione emotiva
della trama.

La dimensione di coping ha a che fare con il modo con cui si reagisce alla trama e si suddivide ulteriormente
in modalità overt e modalità covert. Nella modalità overt ci si arrende alla propria trama, la si accetta, non si
fanno tentativi di combatterla o di evitarla, ragion per cui vengono scelte situazioni, persone e modalità rela-
zionali che sono simili a quelle ricevute in passato e sono quindi evidenti tratti caratteristici della trama indi-
viduale. La modalità covert è costituita da una strategia di coping simile, come ci ricorda l’autore, al concet-
to di ipercompensazione (Young et al., 2007); essa costituisce un contrattacco alla propria trama, è un mec-
canismo per difendersi da essa che consente di comportarsi e sentirsi differentemente da come ci si è sentiti
durante l’infanzia. I tratti distintivi sono più sfumati e nascosti in comportamenti e modalità di pensiero che
sembrano opposti rispetto alle caratteristiche tipiche della trama.

Ad esempio chi ha sperimentato sensazioni di inadeguatezza potrà utilizzare una modalità covert, cioè di di-
fesa, manifestando tratti narcisistici per sentirsi speciale, superiore. Oppure chi ha seguito standard elevati
applicherà una modalità overt ricercando la perfezione e, viceversa, una modalità covert non curandosi delle
proprie prestazioni.

Un altro aspetto che definisce l’identità, secondo Guidano (2010), è la dimensione emotiva “inward” o
“outward”, che descrive il modo con cui le emozioni irrompono in noi e in cui rispondiamo ad esse, deter-
minando come conosciamo le cose. La modalità inward, ovvero “verso l’interno”, è tipica della trama fobica
e depressiva. Secondo questa modalità ciò che sentiamo ha priorità assoluta sul conoscere, le sensazioni so-
no piuttosto unitarie ed elicitano tonalità emotive di base come paura, rabbia, tristezza e gioia, le quali si svi-
luppano precocemente per il loro grande valore adattivo per preservare la sopravvivenza. La difficoltà, os-
serva l’autore, più che nell’identificare i propri stati interni risiede nel contenerli. La seconda modalità è
quella outward, cioè “verso l’esterno” e viene utilizzata dalla trama fobica e somatica. Le sensazioni restano
poco decifrabili ed elicitano emozioni secondarie come sentimenti di colpa, vergogna, imbarazzo, orgoglio e
richiedono un intervento della coscienza, per elaborazione sensoriale, rendendo necessario un lavoro di in-
terpretazione.

Contribuisce alla costruzione e alla messa in scena della trama anche l’“internal family system” (sistema fa-
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migliare interno) proposto da Schwartz (2019); a partire dalle relazioni con i genitori e durante le diverse fa-
si della vita si sono formate delle varie parti dentro di noi, che agendo in modo simile ai modelli operativi
interni riattualizzano schemi e copioni antichi nel tempo presente. In particolare emergerà la voce di una par-
te bambina che porta l’esperienza dell’infanzia, le ferite e i bisogni rimasti insoddisfatti, e una parte adulta
tesa a difendere quella parte bambina e a vivere.

“Dietro una trama depressiva vi è spesso una parte infantile che non ha ricevuto abbastanza cure emotive;
dietro una ossessiva c’è stato un bambino impeccabile costretto ad essere adulto prima del tempo; dietro ad
una trama somatica, un bambino costretto a compiacere i genitori”. (Ciappi, 2019, p. 186)

Chiaramente la “trama” intesa come identità, insieme ai suoi molteplici aspetti che la definiscono, indirizza e
devia la traiettoria della “trama” intesa come narrazione. Risulta utile fare un parallelismo con la fisica mec-
canica: un corpo in moto è soggetto ad un complesso campo di forze, che ne devia la traiettoria. Se la traiet-
toria e le proprietà del corpo sono note si può risalire alla descrizione del campo di forze che ha agito su di
esso. La narrazione, e in una certa misura il comportamento, sono come la traiettoria, invece gli aspetti come
ad esempio la dimensione di coping, la dimensione emotiva, le tematiche centrali di perdita, controllo, liber-
tà, giudizio, il teatro di parti dentro di noi (fattori che determinano l’identità narrativa e agiscono sul nostro
modo di percepire il mondo e di narrarci) sono come un campo di forze che indirizza la narrazione. Inoltre il
corpo-soggetto ha anche delle proprietà che possono contrastare il campo di forze indirizzando la traiettoria
in tutt’altra direzione. Come nella fisica, conoscendo la narrazione (traiettoria) e osservando la proprietà del
soggetto (proprietà del corpo) è possibile risalire ed accedere a delle informazioni su quei fattori che agisco-
no sul nostro modo di pensare, ovvero sull’identità narrativa (campo di forze).

Approfondendo il parallelismo con la fisica, si ponga che il campo di forze sia un campo elettrico: la pro-
prietà “carica” della particella avrà un’influenza sulla traiettoria così come le proprietà della persona, ad
esempio la capacità agentiva, hanno la capacità di contrastare il campo di forze definito dalla trama. Se-
guendo un tale ragionamento, pur riconoscendo l’influenza esercitata dal campo di forza degli aspetti che
contraddistinguono la trama, non è mai esclusa possibilità per il soggetto di avere un ruolo attivo nella nar-
razione. In questo caso non ci si riferisce ad un contrastare la propria trama come inteso per la dimensione
overt sopra descritta, ovvero una reazione passiva alla trama, in un certo senso quindi sempre trama-
dipendente; ma si intende l’esercizio dell’agentività grazie alla quale la persona ha l’ultima parola nella pro-
pria narrazione.

Non possiamo cambiare il nostro passato, o trasfigurare completamente le nostre caratteristiche personali,
ma grazie alla natura fluida e malleabile dell’identità sarà sempre possibile, almeno per quanto riguarda le
trame accessibili, un lavoro di riscrittura della trama, o semplicemente di riappropriarsi del filo rosso, del
senso perduto, e quindi riacquistare un senso di integrità e rafforzare o ricostruire la propria identità. Da un
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tale approccio la persona può trarre grandi benefici, sia in contesti terapeutici dove è nato il metodo ma an-
che attraverso una semplice intervista come quella che è stata svolta. Ripercorrendo le tappe significative
della vita, rievocando pensieri, ricordi, emozioni antiche, dando un titolo alla propria storia sarà possibile
rintracciare la propria trama. In questo modo si avrà la possibilità di comprendere il proprio modo di leggere
il mondo, il proprio funzionamento emotivo, di entrare in contatto con le molte parti del proprio sé, anche le
più vulnerabili, aprendosi a processi di introspezione. In ultimo ci si avvicinerà a rintracciare un senso nella
propria storia rafforzando o ricostruendo il proprio senso di identità.

 Espedienti e assetto del terapeuta-intervistatore nel qui ed ora della relazione


Lo psicoterapeuta narrativo-relazionale si ispira alla dimensione teatrale, adotta le tecniche della letteratura
per divenire coautore della narrazione del paziente. “Ricostruire la trama significa andare alla caccia del te-
sto nascosto, del non detto”, servendosi ad esempio di espedienti linguistici come la metafora per “far emer-
gere nuovi aspetti della realtà grazie all’innovazione semantica” grazie alla sua grande forza comunicativa.
Riassumere la trama con delle parole chiave segna, secondo Ciappi, “un passaggio dall’illeggibilità alla leg-
gibilità”. Per fare ciò “occorre quindi scegliere le parole il cui significato sia capace di far risuonare
l’inconscio preverbale, fatto di immagini, di sensazione della persona. La parola innesca associazioni, me-
morie, significati”.

Individuare la trama consente all’intervistatore di entrare nel punto di vista e nel sentire particolare
dell’individuo che si trova davanti, attraverso un lavoro di decostruzione e successiva risemantizzazione del-
la trama. Così avrà l’occasione di avvicinarsi verso una comprensione più profonda della storia della perso-
na; chi è stato, chi è oggi, chi potrebbe essere in futuro. Si è scelto questo metodo di indagine narrativo con
il campione intervistato in questo elaborato, proprio per aggiungere, rispetto ad altri studi precedenti, un li-
vello di analisi capace di rendere meglio la complessità della persona, della sua esperienza del vivere il car-
cere, il lavoro, le relazioni, il futuro, la vita in sé, integrando nella trattazione quegli elementi emotivi, pre-
verbali, che spesso restano inconsci.

L’autore sottolinea che è importante sfruttare al meglio le informazioni che provengono dalla relazione del
qui ed ora con il paziente e saper distinguere tra le emozioni che derivano da quest’ultimo da quelle invece
elicitate dall’esperienza relazionale del qui ed ora stessa, attraverso cioè il transfert e il controtransfert.

Il paziente attraverso il transfert e talvolta attraverso gli agiti, mette in scena la sua trama individuale facen-
do vivere al terapeuta le proprie emozioni e le proprie modalità disfunzionali, le proprie ferite. Porre atten-
zione a questi aspetti può aiutare a capire il modo attraverso il quale la persona intervistata sente, percepisce
il mondo e la sua storia passata, a individuare le dinamiche che continuano anche nel presente, a comprende-
re come la sofferenza passata nascosta nella trama si manifesti nell’oggi.

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Anche il terapeuta con i propri movimenti interiori influisce sul qui ed ora della relazione, a causa di emo-
zioni elicitate dal transfert del paziente o dal controtransfert. Il rapporto col terapeuta risentirà della trama
tipica del paziente; egli infatti, si troverà a ricalcare atteggiamenti di qualche persona significativa del pa-
ziente. Ciappi ricorda che in tale approccio è importante attivare una funzione di “rêverie”, come direbbe
Bion, un assetto empatico e il sistema cooperativo al fine di rintracciare quella “parte nascosta ed esiliata,
vivendo insieme momenti emotivi attraverso un atteggiamento non giudicante, far si che la persona sia più
libera nello sperimentare vie alternative alla sua sofferenza”.

Inoltre l’autore nel suo libro fa riferimento a diversi aspetti che non dovrebbero mancare al corredo tecnico e
all’assetto del terapeuta-intervistatore narrativo-relazionale: ad esempio sottolinea l’importanza di adottare
un “etica del viaggio che consiste nel saper osservare il territorio e nel rispettare le genti, gli usi e i costumi”
avvicinando l’altro con rispetto, tatto e delicatezza; e fare propria un’epistemologia nomade cioè “avere una
certa flessibilità d’animo” che ci consenta di stare davanti alla persona, imporci un silenzio interiore lascian-
dosi andare ad una “blanda depersonalizzazione”, e alle emozioni, in modo da riuscire ad ascoltare noi stessi
e l’altro.

Risulta utile, infine, richiamare l’interpretazione ad opera di Ciappi del mito di Edipo e condividere un suo
pensiero come spunto di riflessione per chi si affaccia al mondo della criminologia e non solo: “Mi sono ac-
corto col tempo che un po’ come per Edipo, più indaghi e più scopri di essere tu il ‘vero colpevole’,
l’oggetto dell’inchiesta” (Ciappi, 2013, p. 9).

Freud (1919) chiamava perturbante, il “Das Unheimliche”, quell’esperienza intrapsichica dove un senso di
familiarità e quiete interiore viene violato, perturbato appunto. L’incontro con il criminale può suscitare cer-
tamente questa perturbazione per il fatto ad esempio di affacciarsi a temi scomodi, violenti e inspiegabili op-
pure può scuotere a un livello più profondo portando a renderci conto che anche in noi ci sono delle parti
criminali e violente. In fondo, ognuno di noi nasconde dentro di sé delle zone d’ombra più o meno irrisolte
che, inesorabilmente, tornano a galla quando sottoposte all’incontro con l’altro.

L’autore ci ricorda che anche l’intervistatore, in quanto essere umano, al pari di chi stiamo interrogando, è
alla ricerca di un senso nella sua vita, che talvolta resta indecifrabile insieme alle zone d’ombra, e che
nell’incontro con l’altro si rende conto come per Edipo “di procedere circolarmente, e non con un’andatura
che procede per linea retta”, scontrandosi con il paradosso che “più cerchi di entrare nella sua storia, più nei
suoi occhi scopri te stesso, il tuo modo di essere-nel-mondo” (Ciappi, 2013, p. 225).

3. Modello unificato di indagine della desistenza e dell’identità narrativa


In questo sottocapitolo si presentano due modelli che integrano molte delle numerose teorie e delle conside-

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razioni esposte fino ad ora: il primo vuole essere un tentativo, senza la pretesa di essere esaustivo, di fornire
una rappresentazione grafica dell’identità narrativa, con il suo fil rouge, la sua oscillazione tra passato pre-
sente e futuro e il suo “making sense”. Il secondo rielabora e amplifica i criteri di assunzione della coopera-
tiva Giotto e attinge da alcuni concetti presi dalla letteratura sull’identità e sulla desistenza ottenendo delle
dimensioni dell’identità narrativa che specificano più nel dettaglio le sequenze narrative di redenzione e
condanna individuate da McAdams (1993). Quest’ultimo modello verrà impiegato per l’analisi delle se-
quenze narrative dell’intervista. Chiaramente tali modelli non hanno nessuna pretesa di descrivere
l’immensa complessità del fenomeno della desistenza dal crimine e dell’identità narrativa, ma si rivelano
piuttosto uno strumento di sostegno all’analisi dei contenuti.

3.1 Il senso del tempo perduto


C’è un film che, a parere di chi scrive, ripercorre e lega insieme, proprio come un fil rouge, i temi centrali di
questo elaborato, ovvero l’identità del criminale, la desistenza dal crimine e la narrazione. Si tratta di C’era
una volta in America, con la regia di Sergio Leone (1984). La trama racconta delle vicende di Noodles, in-
terpretato da Robert De Niro, che insieme al suo amico Max, è leader di un gruppo di giovani del ghetto
ebraico, alla conquista di una carriera da gangster nel mondo della criminalità organizzata di New York.
Nella prima parte dell’opera cinematografica sono illustrate nel dettaglio numerose dinamiche di gruppo che
spesso troviamo nell’ambiente criminale giovanile. Legati da un’amicizia sincera e mossi dalla ricerca
dell’indipendenza tipica dell’adolescenza i protagonisti seguono la via della devianza costruendo quella che
potrebbe essere definita un’identità criminale. Accanto al tema dell’amicizia virile tra Noodles e Max, si po-
ne l’innamoramento per Deborah, una ragazza bella, intelligente e per bene. Lei si presenta sempre come
l’antitesi di Max offrendo a Noodles, attraverso un sincero innamoramento adolescenziale, la possibilità di
affermazione di un’identità non criminale. Non a caso Erikson (1968) identifica proprio nell’adolescenza la
fase in cui si attua il delicato conflitto tra affermazione dell’identità personale e diffusione dell’identità.
Noodles sceglie di seguire Max lasciando Deborah in disparte, scegliendo l’affermazione dell’identità a ca-
rattere deviante.

Tuttavia quello per Deborah è un innamoramento di cui Noodles non si scorderà mai; ella infatti è una donna
angelo, come Beatrice per Dante, ovvero è il simbolo dell’amore che eleva lo spirito e che, come le farfalle
di Van Gogh, può tener viva la speranza nei lunghi anni in carcere. Ciononostante scontata la pena, dieci an-
ni più tardi la cena che avrebbe dovuto essere il trionfo del loro amore ritrovato, si conclude in disgrazia;
Deborah nonostante l’interesse sincero sceglie la carriera di artista e annuncia l’impossibilità di realizzare il
loro amore e Noodles, in preda alla disperazione, cerca di possedere l’oggetto amato che non può ottenere
violentando la donna. Nel frattempo cresce in Max l’ambizione e la brama di successo, come anche il con-
trasto tra lui e il socio Noodles che invece si dimostra sempre più disinteressato agli affari del gruppo, come
se qualcosa lo stesse bloccando. Si dimostra, infatti, incapace di identificarsi con il suo amico tanto da dargli
più volte del pazzo. A parere di chi scrive a questo punto si introduce il tema della desistenza dal crimine
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come fenomeno sociale, ovvero si impone una mancanza di senso, una presa di coscienza che qualcosa non
torna, e diventa impossibile identificarsi con la “pazzia” che Max rappresenta. Questo porterà Noodles a de-
nunciare Max e i suoi amici alla polizia e causare la disgregazione della compagnia. Leggendo nuovamente
gli eventi relativi a Debora e Max in chiave eriksoniana si nota che quello vissuto dal protagonista rappre-
senta il contrasto tra intimità ed isolamento. Noodles si trova drammaticamente incapace di entrare in intimi-
tà né con una né con l’altro, seppur per ragioni diverse, subentrando, così, in una dimensione di solitudine.
Senza la propria donna, la sua gang, l’amico del cuore, senza uno scopo nella vita e solo rimorsi e disorien-
tamento la narrazione sembra introdurre a questo punto quello che si potrebbe definire il “low point” nel me-
todo narrativo adottato in questo elaborato.

Oltre ai temi citati, colpisce soprattutto il tema del tempo, che magistralmente rappresentato nel montaggio,
fornisce la chiave di lettura del film e ne diviene vero protagonista assoluto dando un senso alla narrazione e
agli intrecci delle trame di vita narrate. Infatti tutta l’opera cinematografica si gioca su diversi piani tempora-
li. Il piano corrispondente al presente, del 1968, il protagonista indaga sul suo passato cercando di ricostruire
il senso della sua trama di vita e della sua intera esistenza. Quello che va alla ricerca del tempo perduto in
questo contesto è un Noodles di 30 anni più vecchio rispetto agli episodi precedenti, 30 anni di cui sappiamo
soltanto che egli è “andato a letto presto”. D’altronde “Alla ricerca del tempo perduto” è proprio il titolo di
un romanzo di Marcel Proust (1913) che esordisce proprio con le parole “Je me suis couché de bonne heure”
(a lungo, sono andato a letto di buon’ora). Un’interpretazione proustiana della pellicola di Leone ce l’ha la-
sciata il critico cinematografico Morandini (1994). Secondo il critico lo spettatore è proiettato in questa in-
dagine a tal punto che il presente nella trama narrata svanisce: c’è solo passato visto dal futuro e futuro visto
dal passato. Ecco che il tempo nella pellicola assume un ritmo ciclico e sfumato, piuttosto che lineare e niti-
do, e in un intreccio di flashback e flashforward, riporta il protagonista, e con lui anche lo spettatore, a ritor-
nare ostinatamente sulle proprie tracce, come l’Edipo. Si tratta di un ritmo tutto scandito dalla presenza di
luoghi, musiche, eventi e simboli ricorrenti. Questi rimandano ad una dimensione interiore e mistica che ri-
chiama alla natura fluida e simbolica del pensiero e alle catene di libere associazioni durante la veglia, ma
anche del sogno. È l’esempio della fumeria d’oppio con cui il film inizia e finisce, oppure del simbolo ripe-
tuto della bara: forse un richiamo al Thanatos, ovvero quella pulsione di morte che per alleviare il dolore
porta il protagonista ad una aggressività auto ed etero diretta. Questa, seppur a volte contradditoria, viene
sempre bilanciata dall’Eros, desiderio di un io appagato e integro.

Sempre secondo un’interpretazione proustiana, in questa dimensione ciclica si inserisce la contrapposizione


tempo perduto / tempo ritrovato attuata dalla memoria involontaria, ovvero il ricordo improvviso e sponta-
neo di una sensazione provata nel passato e suscitata dalla sensazione stessa vissuta nel presente.
L’intelligenza e lo spirito dell’individuo hanno il compito di far combaciare attraverso un processo cogniti-
vo, per lo più automatico, queste due sensazioni. Questa esperienza diviene, perciò, extratemporale non ap-
partenendo né al passato né al presente, come mostra il capolavoro di Leone; ad esempio quando da vecchio
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il protagonista, guardando in una fessura nel muro, viene proiettato al momento in cui da ragazzo vedeva
dalla stessa fessura la figura aggraziata della sua amata ballare. Proust ritiene che tale esperienza risolutiva
sia motivo di felicità perché elimina la sensazione di perdita del tempo e, contemporaneamente, permette al
soggetto stesso di uscire dalla schiavitù della dimensione del tempo che corre e ritrovare la verità di un mo-
mento della sua esistenza (Proust, 1913). Effettivamente il Noodles anziano non vuole mai cedere alla dispe-
razione del tempo senza senso e rimane sempre, seppur in modo affannoso ed inquieto, in ricerca di
un’integrità dell’io. Anche secondo una visione eriksoniana l’età della vecchiaia è proprio segnata da una ri-
cerca dell’integrità dell’io a cui si oppone un’imminente disperazione (E H Erikson & Erikson, 1998).

D’altronde quella della ricerca di integrità, di senso, o si potrebbe dire il “making sense” delle “self-
narrative” (auto-narrativa) descritte da Mc Adams (1988) e Maruna (2001), è una strada ben nota alla lettera-
tura della criminologia narrativa. Infatti, secondo Maruna, il dare senso al tempo perduto è premessa e, allo
stesso tempo, denominatore comune di un qualsiasi fenomeno di desistenza dal crimine. Questa creazione di
senso viene espressa per eccellenza nella forma di una storia di vita o, appunto, di auto-narrazione. Secondo
le teorie di McAdams sull’identità, l’adulto moderno nel narrarsi interiorizza la propria storia sotto forma di
un “mito personale” per conferire alla vita unità e coerenza, uno scopo e significato, come accennato al pa-
ragrafo precedente (p.44). Solo una costruzione di una narrativa personale coerente può dare senso a vite a
volte disordinate e segnate dalle ambiguità, cambiamenti e contraddizioni. Noodles allora diventa simbolo di
quelle persone profondamente ferite dalla vita, inclusi i carcerati qui intervistati, che vivendo intraprendono
questo viaggio di costruzione e ricostruzione dell’identità. Attraverso la narrazione è possibile vedere la vita
di una persona attraverso i suoi occhi. Anche noi, attraverso gli occhi di Noodles vediamo Deborah danzare,
e chi narra attraversando con la mente il proprio passato, il presente e il futuro può fare esperienza
dell’integrazione del proprio io; un viaggio che forse nel tempo, sempre attraverso la narrazione e vivendo
nuove esperienze trasformatrici, può cambiare la persona per davvero.

A questo punto si mostra una rappresentazione grafica sull’identità narrativa, che ci consente di collegare
l’opera cinematografica sopracitata, le interviste svolte e il metodo stesso. Infatti, come spiegato, il regista
mette in luce una verità celata, cioè che spesso la narrazione non è un fenomeno lineare. Piuttosto si pensi
alla dimensione della narrazione come ad una traiettoria ciclica, diciamo come una linea a spirale proiettata
verso l’interno (Figura 9). La narrazione, un po’ come nel film, in questo moto di avvolgimento su se stessa,
attraversa in modo casuale le aree del tempo presente, passato e futuro indicate in figura così pur convergen-
do sempre più verso il centro. Sia la componente “circolare” che quella “convergente” assumono un signifi-
cato ben preciso nell’allegoria che il disegno rappresenta.

• La componente circolare

La componente circolare rappresenta la ciclicità della narrazione come conseguenza della necessità del nar-

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ratore di ritornare, durante il corso della vita o della narrazione, periodicamente agli stessi elementi chiave:
lutti, debolezze, gioie, fatiche, utilizzando le stesse espressioni linguistiche, gli stessi script. Questi ultimi
vengono rappresentati in figura da veri e propri simboli (es. cerchi neri, quadrati azzurri, crocette verdi). Tra
questi elementi ricorsivi che creano il moto circolare, troviamo anche la tendenza inconscia del narratore a
confermare ripetutamente una visione che egli ha di se stesso per mantenere un senso di identità costante.
Questa si avvera non solo attraverso l’utilizzo di script, ma anche grazie a “self-schemas”, ovvero quelle
credenze o idee che si ha di se stessi che inconsciamente condizionano il comportamento in modo da attuare,
auto-confermare ed auto-alimentare se stesse. Anche la coazione a ripetere, che ripropone le esperienze
traumatiche per padroneggiarle meglio, talvolta con pratiche più vicine al principio di morte (Thanatos), po-
trebbe essere un elemento che influenza la trama di narrazione in modo ciclico e ripetitivo.

Strutture ripetitive come lo self-schema, inoltre, tendono a rimanere abbastanza stabili tra diverse narrazioni,
proprio perché gli individui narranti filtrano e selezionano attentamente tali elementi simbolici dalle loro
esperienze nel tentativo di mantenere l’equilibrio strutturale del sé (Caspi & Moffitt, 1995, p. 485). Infatti,
sebbene le auto-narrazioni non siano mai identiche nel corso della vita, le differenze vengono aggiunte in
modo incrementale e coerente alle versioni precedenti, così da non rovesciare totalmente la storia di sé co-

Figura 9: Rappresentazione del fenomeno della narrazione (linea rossa) in relazione al tempo
della narrazione (presente, passato e futuro) e dei fattori che la influenzano (scripts, self-
schemas e MS - Making Sense). Le varie componenti in figura vengono spiegate nel testo.

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struita fino a quel momento (Maruna, 2001). In analogia con la fisica meccanica si parla dunque di una “tra-
sformazione adiabatica” del sé, per cui le forze che derivano dai suoi processi cognitivi agiscono su di esso e
lo influenzano molto lentamente nel tempo. Se in un secondo momento l’individuo dovesse ripetere la nar-
razione, gli elementi potrebbero certo cambiare ordine, o mutare leggermente di forma e sostanza, ma lo
self-schema si ripresenterebbe sempre nel tentativo di coesione e autoconservazione. In questo senso la nar-
razione può essere concepita come un processo di “mantenimento del proprio senso di sé o della propria
identità personale” (Waldorf et al., 1992, p. 222) piuttosto che come un processo “schizofrenico” di rifiuto
del proprio vecchio sé per diventare una “persona nuova” (Rotenberg, 1978). Questo tentativo di dare stabi-
lità all’identità si dimostra essere anche un meccanismo di difesa per non sovvenire alla vergogna riguardo
al proprio sé passato, pieno di cicatrici non del tutto rimarginate (Maruna, 2001).

• La componente convergente

In secondo luogo il moto a spirale presenta una componente convergente. Essa è semplicemente il risultato
del principio che governa la narrazione, ovvero il principio del “Making sense” (MS in Figura 9). Come nel
film il protagonista doveva convergere verso il senso del tempo perduto così anche il narratore deve trovare
un significato profondo che dia pace alla sua esistenza. Esso diventa, dunque, il principio portante del moto
vorticoso che è la narrazione, il bandolo della matassa, punto di partenza e, allo stesso tempo, di arrivo. In-
fatti, nel loro tentativo di cercare un’unità del sé, anche gli script, sia di redenzione che di condanna, conver-
gono nel principio di sense-making. E non è un caso che si sia scelto di collocare “MS” proprio al centro del
tempo presente. Infatti, come già messo in evidenza (p.41), l’identità consiste nel tentativo degli esseri uma-
ni di rispondere alla domanda esistenziale “Chi sono io?” che, in quanto tale, dona alla vita senso e significa-
to. Tale domanda non può che essere originata nel momento presente, seppur coinvolgendo nella sua totalità
anche il passato ed il futuro. Ecco che la narrazione, nella sua caratteristica più fondamentale, non è più una
casuale combinazione di contenuti ed associazioni, ma diviene fil rouge: termine utilizzato da Freud per de-
scrivere quell’elemento dell’inconscio che definisce l’intero percorso psicologico dell’individuo (Mascian-
gelo, 1990).

3.2 Il fil rouge tra condanna e redenzione


Come spiegato nel paper di Andrea Perrone et al. (2015) discusso nel primo capitolo (p.25), le psicologhe
del centro sociale della cooperativa Giotto utilizzano dei questionari e delle interviste semistrutturate per se-
guire il processo di assunzione e formazione dei detenuti. Molte delle caratteristiche da loro “ricercate” nella
narrazione del detenuto si sovrappongono e completano alcuni aspetti descritti dalle più recenti teorie sulla
desistenza e identità narrativa riportate in questo capitolo. Di seguito presenteremo il contributo organizzan-
do in modo ordinato tali caratteristiche in un’esposizione e un modello unico, arricchendo e ampliando il
contributo Giotto con un’elaborazione personale. In Figura 10 vengono riassunte e riordinate per punti alcu-
ne delle categorie narrative salienti, classificandole in base alla tipologia di script (condanna o redenzione),
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alla descrizione introspettiva (azzurro) o rivolta alla realtà contestuale e agli altri (verde) e al tempo della
narrazione (passato, presente e futuro).

• PASSATO
→ Predestinazione/Vittimizzazione – Rifigurazione/Responsabilizzazione.
Alcuni detenuti, durante il processo di assunzione, raccontano del loro passato e concepiscono la loro
esistenza come se non avessero avuto altra possibilità che scegliere un percorso di vita deviante. Si
tratta di trame passate predestinate, caratteristiche dello script di condanna. Tali individui concentra-
no la loro narrazione su un sistema negativo che gli ha puniti, presi di mira, travolti e vittimizzati, ri-
flettendo una visione di un sé statico. Le psicologhe notano che, se interrogati sulle ragioni della loro
condanna, spesso ritengono sufficiente citare gli articoli del Codice Penale ad essa connessi. Altri, al
contrario, riscontrando di aver potuto esercitare un ruolo attivo e una libertà di azione nella propria
vita, si mostrano più aperti a riflettere su che cosa li abbia portati in carcere e a discutere in modo
flessibile sulle ragioni della propria condanna. Essi presentano una lettura degli eventi passati, orien-
tata ad un’interiorizzazione cosciente dei questi contenuti che trattiene il significato. Si tratta, infatti,
di un processo di rifigurazione come espressione dell’ermeneutica del significato descritta da Ricœur
precedentemente in questo capitolo (p. 27). Essa porta ad una “purificazione” dei sentimenti e re-
sponsabilizzazione nei confronti delle proprie azioni passate in cui la persona incomincia a vedere
l’altro non come ostacolo.

• PRESENTE
→ Stagnazione/Insoddisfazione – Generatività/Gratificazione.
Si indica con stagnazione l’essere privi di moto. Se qualcuno nella narrazione presente si identifica
fortemente con ciò che ha commesso in passato senza dar cenno di cambiamento è probabilmente
ancora legato ad un’identità criminale. Tipicamente tali persone sono restie a costruire nuovi legami
e potrebbero non aver perso i legami con l’ambiente malavitoso. Ad esempio, le psicologhe notano
che durante il periodo di formazione in cooperativa capiti che il detenuto non si sieda vicino ad un
collega in mensa o mostri ostilità nei suoi confronti senza apparente motivo. Si tratta di quelle “leggi
non scritte” che regolano la scala di gravità del reato commesso: “se tu hai fatto un crimine peggio
del mio, il tuo valore è inferiore al mio”. Una tale identità fondata su norme appartenenti al mondo
criminale si sviluppa e permane nel detenuto come rifugio da “un’immagine di sé completamente in-
franta”, ovvero la mancanza di un continuum personale e professionale sul quale fondare
un’immagine di sé solida come cittadino rispettoso della legge e come lavoratore. Alla lunga questo
atteggiamento porta ad uno stato di insoddisfazione ed intolleranza nei confronti del contesto. Si trat-
ta quindi di una fragilità che, all’opposto, può anche essere accolta e affrontata. È il caso di chi basa
la sua trama presente su una consapevolezza, su un desiderio di generatività rinnovata dall’esigenza
di riscatto o sui nuovi legami costruttivi formati in carcere. Durante il periodo di formazione tale per-
61
sona è spesso animata da un senso di gratificazione per l’occasione ed i riconoscimenti ricevuti, e sa-
rà più propensa a concepire il vicino come collega con cui interagire e motivata a compiere un per-
corso di crescita personale e professionale. Come indicato precedentemente anche Maruna (2001),
ispirandosi ad Erikson (1998), contrappone il concetto di generatività a quello di stagnazione.

• FUTURO
→ Rassegnazione/Segregazione – Speranza/Reinserimento
Da un lato dello spettro si trovano coloro che presentano una pianificazione rigida del futuro o non
scorgono alcuna possibilità di riscatto. È la trama futura del rassegnato, di colui che ha assopito
l’immaginazione e la creatività rendendo più difficile la sua mobilitazione per abbandonare antichi
rituali e conoscenze devianti. Egli tenderà a concepire un futuro sé segregato dalla società che lo ha
stigmatizzato. Dall’altro lato i detenuti parlano moltissimo del loro futuro, della loro famiglia, dei lo-
ro legami con tono fiducioso e guardano al futuro con speranza, come ad un progetto in costruzione
in vista di un reinserimento nella società in cui la parola “fine” su quanto accaduto non sia stata an-
cora scritta. In linea con quanto descritto in precedenza nel capitolo, essi trovano dentro di sé
l’energia necessaria per confrontarsi con elementi di novità, come il lavoro. Si vuole rimarcare il fat-
to che per speranza non si intende qui un elemento transitorio, illusorio o non fondato. Non è tanto
un generico “speriamo che vada bene!”, ma si deve trattare di una speranza che sbocci dalla rifigura-
zione e dal desiderio di generatività di cui si accennava poc’anzi. La speranza deve tener conto di
una dimensione di fragilità interiore e di dolore subito per radicarsi, tuttavia risulta fondamentale la
presenza di questa componente positiva, fosse anche piccola e delicata come una delle farfalle rap-
presentate da Van Gogh (Figura 2).

Figura 10: interpretazione e rielaborazione del modello di assunzione e accompagnamento alla


formazione della cooperativa Giotto. Gli elementi della narrazione degli intervistati vengono qui di-
visi nelle tre categorie di passato, presente e futuro. Inoltre tali elementi si presentano come uno
spettro di toni di grigio che varia tra estremi e vengono ulteriormente categorizzati per grado di in-
trospezione (verde) o contestualizzazione (azzurro) (approfondimento nel testo).
62
In merito ai punti sopraelencati è significativo apportare le seguenti considerazioni che giustificano il model-
lo descritto:
Tali dimensioni sono strettamente interconnesse, si potrebbe dire che la narrazione traccia un fil rouge tra
esse come mostrato in figura 10, ovvero lasciando una sorta di chiave di lettura unica con cui interpretare la
propria storia, svelando così la propria identità narrativa. Dunque questo modello, oltre a tenere conto del
contributo già apportato dal metodo dell’Ufficio Sociale Giotto, si preoccupa di sistematizzare tale metodo
suddividendo la trama nelle categorie descritte e di verificare la interconnessione tra di esse. In aggiunta, una
volta conclusa la narrazione della propria vita dopo averne ripercorso le tappe salienti, si chiederà al detenu-
to di dare un titolo alla sua storia. Sarà importante esaminare la compatibilità del titolo con la storia narrata
per capire se il detenuto sia in grado, più o meno consciamente, di individuare questo fil rouge, ovvero il
leitmotiv, la chiave di lettura della propria storia di vita. Il fil rouge allora, come rappresentato in Figura 10,
diventa ponte tra passato, presente e futuro e può divenire strumento per il detenuto per comprendere più a
fondo se stesso.

• Come specificato, e come visualizzato in Figura 10, più che un netto contrasto di nero e bianco, que-
sto processo di descrizione narrativa spesso assume dei toni di grigio nello spettro. Per questo le psi-
cologhe dell’Ufficio Sociale Giotto prendono in considerazione per l’assunzione anche persone il cui
viaggio verso il polo desistente sia ancora in corso o addirittura solo all’inizio. Tuttavia una condi-
zione sembra essere necessaria: che la persona mostri almeno dei cenni di volontà di riscatto, dispo-
nibilità al cambiamento, o come dicono le psicologhe Giotto, di apertura al recupero (corrispondente
ad una sfumatura di grigio in Figura 10). Un approccio basato sul metodo narrativo, così come pre-
sentato approfonditamente in questa tesi, aiuta ad agevolare l’osservazione di queste sfumature e co-
gliere le sequenze narrative interessate nei processi di desistenza dal crimine. Come accennato nel
punto precedente, è interessante notare che, ad esempio, il trinomio predestinazione-stagnazione-
rassegnazione trova molte sovrapposizioni. Si intuisce dalla spiegazione delle psicologhe che se un
individuo tende a leggere gli avvenimenti passati in modo predestinato, sarà più facile che si percepi-
sca in una situazione stagnante nel presente e che abbia una visione del futuro rassegnata. Per questo
motivo le tre parole sono scritte sullo stesso lato del grafico con lo stesso tono di nero nello spettro.
Per la stessa ragione il fil rouge difficilmente verrà teso tra dimensioni sul lato bianco e nero al tem-
po stesso, ma tenderà a posizionarsi verticalmente. Questo fenomeno si verifica, appunto, come con-
seguenza del “making sense” di cui si accennava al paragrafo precedente. La trama, dovendo presen-
tare un certo grado di coerenza, non subirà variazioni repentine, ad eccezione di un “turning point”
(rappresentato da un nodo in Figura 10) tendenzialmente collocato nell’ambito del presente che indi-
chi una presa di coscienza verso una visione speranzosa del futuro.

63
CAPITOLO III

Metodo, analisi dei dati e risultati

1. Ricerche precedenti sui detenuti lavoratori nel carcere Due Palazzi

In questo primo sottocapitolo si porrà l’attenzione agli aspetti metodologici e ai risultati ripresi o affini
all’analisi. In particolare si accennerà brevemente ad alcuni precedenti studi sperimentali condotti su un
campione di detenuti del carcere Due Palazzi che lavorava presso la cooperativa Giotto. Si tratta del già
menzionato paper di Perrone et al. (2015) e di una tesi di laurea in psicologia clinico-dinamica di De Paolis
(2016). In entrambi i casi il metodo è basato su un’intervista somministrata a diversi detenuti lavoratori del
carcere, suddividendo le domande in alcune categorie tematiche orientate a verificare gli effetti del lavoro
sulla qualità di vita del detenuto. Nel primo caso si è svolta una semplice analisi testuale delle interviste
somministrate a 15 detenuti lavoratori per la cooperativa, invece nel secondo caso l’analisi testuale viene so-
stenuta dal software Atlas.ti17 su un campione di 21 detenuti, di cui 10 lavoravano per la Giotto, gli altri per
l’Amministrazione penitenziaria o erano disoccupati. Dunque, per mantenere continuità con tali studi, lo
stesso strumento informatico verrà utilizzato per l’analisi dei dati, come verrà mostrato più avanti.

Riportando anche stralci delle risposte dei detenuti stessi, di seguito si riassumeranno brevemente alcuni dei
risultati di tali studi. In particolare si è scelto di soffermarsi su aree tematiche pertinenti a questa tesi: come il
comportamento individuale, le relazioni famigliari e sociali; dignità personale e immagine di sé; vissuto
emotivo e sviluppi futuri.

17
Muhr T. (1997). Atlas.ti 5: The Knowledge Workbench. Berlin, Scientific Software Development
64
Per quanto riguarda il comportamento personale il lavoro sembra avere un primo immediato impatto sulla
routine e, come già menzionato, sulla salute fisica e sul vissuto emotivo. I detenuti dipendenti spesso affer-
mano di non pensare al carcere quanto alla vita che va avanti. Dalle interviste inoltre emerge che l’atmosfera
lavorativa svolge un ruolo fondamentale per quanto riguarda sia la loro salute mentale, alleviando tristezza e
generando benessere psicofisico, che per i rapporti sociali. Negli ambienti Giotto si cerca di accostare i de-
tenuti a civili e si crea un ambiente che assomigli ad un ufficio-laboratorio piuttosto che ad un carcere. In al-
cuni casi si cerca di arredare le pareti con opere d’arte, lasciando che anche la bellezza prenda parte al com-
plesso processo di cambiamento.

Figura 11: Detenuto lavoratore della cooperativa Giotto con immagine di un’opera d’arte alle spalle.

Un detenuto lavoratore afferma:

“L’atmosfera è diversa. Qui siamo dipendenti di una Cooperativa, ognuno ha il suo compito e cerchiamo di
aiutarci a vicenda. L’atmosfera può cambiare tutto”.

Sembra far eco alle parole di Ekaterina in appendice (A6) dove afferma che l’ambiente è un “concetto aper-
to” che include “persone, colore dei muri, disposizione delle camere, illuminazione, tutto dovrebbe essere
preso in considerazione in vista del cambiamento”. Sempre in merito alle relazioni sociali con gli altri dete-
nuti, un detenuto della cooperativa Giotto ha dichiarato:

“C’ho un buon rapporto con loro, io sono un tipo che prende quelle cose da prendere, non le stupidaggini,
65
che se vedo un tizio che parla solo di cavolate o cose inutili cerco di frequentarlo poco. Se uno mi parla di
galera, di prigione, di furti, sono stupidaggini per me, se uno mi parla di futuro, di quello che vuole fare do-
po, per me è uno che ne sa più di me, ci parlo volentieri (…) Saluto tutti, buongiorno, buonasera, ma scelgo
con chi stare, è come fuori, cerco di aiutare chi ha bisogno”.

Dunque si intuisce che ipoteticamente il lavoro comporta effetti positivi sulla visione del futuro, tanto da
impattare anche la rete di rapporti sociali prediligendo contatti costruttivi, che combacino con una ricerca di
elementi nuovi piuttosto che rivolti al passato. Un altro dipendente Giotto ha affermato:

“Il passato è passato e io non posso dimenticarlo, ma, allo stesso tempo, non posso soffermarmi su di esso
perché la mia vita ha fatto un’inversione di rotta”.

Queste sequenze sono tipiche di un’identità di sé ritrovata, fondata su una lettura intelligente dei fatti passati
e tracciano una consapevolezza di riscatto che, come si spiegherà più avanti, rilancia ad una visione speran-
zosa del futuro. Al contrario, a volte si possono identificare sequenze che indicano un attaccamento al passa-
to, oppure dei risentimenti nei confronti del sistema, per quanto limitato, o di altri carcerati, indice di una
condizione stagnante ed irrisolta. È il caso di un detenuto non lavoratore che afferma:

“Quando ti vedi uno che va a lavorare ai capannoni che sta qua da due mesi, fresco fresco lo vedi che va là
a lavorare e rosichi, è l’unica cosa che mi dà fastidio sai. Io sto qua da tre anni e vedi questi che stanno da
meno tempo e vanno a lavorare prima di te”

Nonostante il risultato di questi studi dimostra chiaramente che il lavoro comporti vantaggi alla persona ri-
spetto a chi non lavora, non sempre il dipendente dimostra un sentito cambiamento, mostrando che resta al
soggetto un ruolo fondamentale nel processo. È il caso di un dipendente Giotto che in disaccordo con gli al-
tri ha onestamente affermato:

“Sono diventato un delinquente, diciamo che il carcere mi ha fatto diventare più cattivo di prima”

Sulle relazioni famigliari, come già accennato in merito alla questione della remunerazione, i dati mostrano
che i detenuti lavoratori per la cooperativa, se ne hanno la possibilità, inviano dei soldi ai familiari. Questo
fattore è chiaramente correlato con la dignità personale. Ad esempio un detenuto racconta:

“Ho riavuto la mia dignità perché anche in senso economico ero solito avere altre persone che mi sostene-
vano, perché vivere in carcere ha un costo. Anche se non ne dovrebbero avere bisogno, è bello poter inviare
a casa 500 o 600 o 1000 euro al mese. Anche se non li vogliono. Ho riavuto la mia dignità. E ora ho assunto
un legale per un periodo prestabilito, non devo chiedere a casa per questo, lo pago da solo”.
66
Curiosamente i risultati mostrano, inoltre, che i dipendenti della Giotto hanno effettuano in media anche più
colloqui e più telefonate nei tre anni precedenti all’intervista rispetto ai propri compagni detenuti non lavora-
tori.

Il presente studio struttura l’analisi su molteplici livelli, uno di questi sarà organizzare per tematiche, ripro-
ponendo il metodo utilizzato negli studi presentati, poiché classificare in categorie specifiche i contenuti aiu-
ta a svolgere un lavoro più sistematico per ordinare e paragonare i contenuti del discorso degli intervistati.

Tuttavia si cercherà di andrà oltre al semplice investigare la tematica del lavoro in relazione alla riabilitazio-
ne del detenuto e di apportare un contributo complementare e al contempo originale rispetto agli studi già
svolti.

Un elemento centrale della nostra analisi sarà l’identità narrativa, servendosi dell’intervista semistrutturata,
rielaborata dall’originale “story life interview” redatta da di McAdams (2008), pioniere nello studio
dell’identità narrativa, e avvalendosi di un approccio dinamico. Si aggiunge, con questa, la dimensione del
tempo attraverso domande sul passato, sul presente e sul futuro con le quali si cercherà di ricostruire la “sto-
ria di vita” della persona. Ripercorrendo le tappe più significative della sua vita, il detenuto verrà aiutato a
costruire un significato coerente e a percepire la propria esperienza di lavoro, riabilitazione e del proprio sé
in modo integrato.

Si cercherà di lasciare spazio, nei limiti di tempo concesso, ad una libera narrazione lasciando che sia il sog-
getto a scegliere come orientare il racconto. La speranza è che, dando più spazio alle libere associazioni del
narratore, l’inconscio possa far risalire a galla elementi che domande puntuali e solo riferite al tempo presen-
te non evidenzierebbero, dando spazio così ad una dimensione non esplorata negli studi precedenti.

2. Raccolta dati e metodologia dell’analisi dati

2.1 Domanda di ricerca ed obiettivi dello studio


Nel presente studio ci si avvale di un metodo qualitativo che dà spazio alla narrazione della storia di vita del-
le persone; tale metodo per sua natura indaga in profondità l’oggetto di studio, fornendo quindi la possibilità
di ricavare informazioni estremamente significative su molteplici aspetti. Conseguentemente per dar rilievo
a tale materiale prezioso si è optato per una domanda di ricerca organizzata su diversi livelli di analisi che si
pone diversi obiettivi:

67
➢ Da un lato, attraverso un’analisi di tipo tematico, si è interessati a individuare i possibili elementi ca-
talizzatori a sostegno della riabilitazione del detenuto e dell’avvio di processi di desistenza dal crimi-
ne ed evidenziare eventuali aspetti di criticità. Queste tematiche saranno identificate e commentate
dai detenuti stessi guardando alla propria esperienza. Verrà verificato in particolare, attraverso la te-
stimonianza degli intervistati, se il lavoro può rappresentare uno di questi elementi a favore della ria-
bilitazione e della desistenza.

➢ Dall’altro si porrà maggiore attenzione alle caratteristiche peculiari della persona, al fine di mettere a
fuoco la modalità di attribuzione di significato e di percezione del mondo da un punto di vista emoti-
vo, relazionale e cognitivo, la capacità di agentività e “decision-making”. Lo scopo di tale analisi è
da un lato quello di proporre un’indagine più completa dell’identità narrativa, dall’altro creare una
mappatura delle caratteristiche individuali al fine di strutturare una possibile individualizzazione di
un percorso riabilitativo, in linea con i principi presentati nel capitolo 2 (p.28).

Per ottenere tali informazioni ci si avvarrà di svariati metodi presi dalla letteratura esistente combinati e am-
pliati in modo personale, ad esempio partendo da quello di Mc Adams, applicato poi in ambito criminologi-
co da Maruna (2001), per poi passare al metodo narrativo-relazionale di Ciappi (2019) a stampo psicodina-
mico, come menzionato più avanti.

2.2. Campione e setting dell’intervista


Il campione oggetto di questo studio è composto da quattro detenuti lavoratori presso il carcere due Palazzi
di Padova: due di essi al momento dell’intervista lavoravano presso la Cooperativa Giotto e due lavoravano
per conto dell’Amministrazione penitenziaria. Purtroppo, per ragioni di sicurezza e di tutela dei diritti dei
detenuti intervistati, non è stato possibile accedere ad informazioni anagrafiche. D’altronde, come mostrato
al capitolo precedente, nello studio dell’identità narrativa e dei parametri di desistenza le generalità del dete-
nuto vengono spesso messe in secondo piano per dare più rilievo alla storia di vita che emerge
dall’intervista18.

L’intervista si è svolta all’interno del carcere di Padova, vistando un carcerato alla volta. La durata
dell’intervista prevista ed anche effettiva è stata di 45 minuti ciascuna. Non essendo concesso l’utilizzo del
registratore per ragioni di riservatezza, al fine di riportare fedelmente il testo delle interviste i contenuti di-
chiarati dagli intervistati sono stati trascritti a mano durante lo svolgimento delle stesse con la massima ac-
curatezza possibile; tuttavia, non si esclude a priori che alcuni elementi potrebbero non essere stati riportati
in completa fedeltà alla versione narrata dai detenuti. Inoltre si è cercato di riportare, dove rilevante, le emo-
zioni mostrate, espressioni o altri fattori importanti per l’analisi dei dati. L’intervista si è svolta in copresen-
18
Ad ogni intervistato verrà semplicemente assegnato un numero nel corso dell’analisi (#1, #2, #3 e #4)
68
za di un collaboratore della Fondazione Zancan che ha garantito gli standard etici previsti. Il collaboratore
non ha preso parte alle domande, ma il suo compito era di controllare la regolarità dello svolgimento delle
interviste, di sostegno nella stesura a mano e di collaborazione in caso di necessità.

2.3 Costruzione protocollo di intervista e coding delle interviste


L’intervista è stata costruita integrando il protocollo originale “Story life interview” (Intervista della storia di
vita) di McAdams (2008), a partire dalla versione modificata da Harris (2014), per valutare la desistenza del
molestatore sessuale. Inoltre sono state inserite domande per indagare gli effetti del lavoro sul carcerato ispi-
randomi alle interviste condotte dal Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi (Perrone et al., 2015).

Lo stile delle domande e dell’intera intervista è stato adattato al modello relazionale-narrativo di S. Ciappi
(2019) che, sulle orme di V. Guidano, propone un’indagine delle narrazioni della persona a partire dalle
emozioni e dalle sensazioni del corpo per una ricostruzione della trama del soggetto e del suo funzionamento
psicologico, come spiegato nel capitolo precedente (p.50). Il protocollo definitivo utilizzato per l’intervista,
presentato in appendice (A1) è composto da 12 domande organizzate, come quello originale, per “key
events”, ovvero eventi chiave che l’autore ha riscontrato essere solitamente centrali nella storia di vita della
persona e in grado quindi di indagare diversi aspetti dell’identità narrativa.

La codifica dell’analisi si è svolta con il supporto del programma Atlas.ti, applicando i cosiddetti “codici”, a
ciascuna sequenza narrativa evidenziando parte di una frase, una frase intera o più frasi. L’unico criterio di
codificazione è l’identificazione di una sequenza di senso compiuto che si riferisca ad una delle categorie
descritte nei metodi esposti al capitolo 219, riassunti in uno schema in appendice (A2).

Dato il grande numero di molteplici categorie appartenenti a diversi metodi, si sono raggruppati i codici ap-
partenenti allo stesso metodo nel medesimo “gruppo di codici”. Data la molteplicità di codici e gruppi di co-
dici capita spesso che ad una particolare sequenza corrispondano più codici appartenenti a gruppi diversi. Al
fine di esemplificare lo schema, alcune tipologie di sequenze narrative, laddove identiche, sono state rag-
gruppate in un unico codice, oppure categorie appartenenti sia alle teorie della desistenza che in quelle
dell’identità sono state scritte solo in un ambito. Come sopra indicato, in appendice (A2) si mostra uno
schema che presenta tutti i codici (tipologia di sequenza narrativa) e gruppi di codici (metodo) presentati se-
guendo lo stesso ordine del capitolo 2. Per una descrizione dettagliata dei termini presentati nei codici, dun-
que, si fa riferimento direttamente al capitolo 2. Uno screenshot esemplificativo dell’applicazione dei codici
con Atlas.ti viene riportato in appendice (A3) come commentato di seguito.

19
Fanno eccezione alcuni codici non rientranti tra le categorie esposte al capitolo 2, ma piuttosto al capitolo 1 (“Tempo in carce-
re”, “Visione del carcere” e Visione della pena”) o ispirate al metodo analitico di Maruna (2001) esposto in appendice (A5) (“scu-
se”, “giustificazioni” e “concessioni”).
69
Una volta applicati i codici si svolgeranno delle considerazioni specifiche orientate a rispondere alla doman-
da di ricerca citata in precedenza. Quindi si cercheranno di valutare gli elementi narrativi che indicano una
graduale costruzione di un’identità non criminale, di una visione più positiva del futuro, di una percezione di
avere capacità di scelta e decision-making, di un desiderio di cambiamento ecc. allo scopo di individuare in
modo il più possibile sistematico i processi di desistenza dal crimine. Al fine di avvicinarsi ad un approccio
sistematico, grazie agli strumenti forniti da Atlas.ti, i codici verranno contati nelle varie interviste e, allo
stesso tempo, si considererà la co-occorrenza di diversi codici nella stessa tipologia di sequenze (come illu-
strato in appendice (A3)). Questo processo facilita il conteggio e fornisce allo stesso tempo degli elementi a
supporto dell’analisi dei dati esposta qui sotto.

In seconda battuta si utilizzeranno alcuni dei modelli presentati per caratterizzare singolarmente le storia di
vita degli intervistati. In particolare si farà riferimento alle teorie di Maruna (2001), Ciappi (2019), al model-
lo presentato in Figura 9 e Figura 10 e ad altri per osservare gli stati emotivi, il funzionamento psichico, re-
lazionale ed identitario al fine di investigare, come già detto e come spiegato a breve, l’identità narrativa dei
singoli intervistati.

3. Applicazione dell’analisi e risultati

3.1 Analisi e risultati per sequenze narrative


Come esposto qua sopra e nel paragrafo della domanda di ricerca (p.67) si illustrano di seguito alcuni risul-
tati sul primo livello di analisi, con lo scopo di estrapolare i fattori individuati dai detenuti come essenziali o
critici nel processo di riabilitazione e desistenza dal crimine. Nel fare ciò si individuano le tematiche centrali
emerse, a livello globale e mettendo a confronto, a titolo di esempio, solo quattro tra le varie sequenze narra-
tive indagate (key points). Molte delle altre sequenze verranno comunque approfondite nella seconda parte
dell’analisi in un contesto di indagine della storia di vita complessiva di ciascun intervistato.

• High point

Per quanto riguarda il “punto culmine” della storia di vita si riportano codice di “cura per gli altri” per tutti e
quattro gli intervistati. Questo dato conferma pienamente l’ipotesi discussa più volte nel corso della tesi, se-
condo cui la relazione ricopre un ruolo fondamentale per il processo di desistenza dal crimine.
L’intervistato#1 afferma: “Per me la famiglia è tutto lo scopo della vita”. Oppure l’intervistato#2 dichiara:
“Il miglior periodo è stato quando andavo a scuola, quando sono arrivato in Italia. Avevo degli amici alle
medie, sono gli unici contatti che mi sono rimasti, ci sentiamo ogni tanto.

Dunque il tema della famiglia, degli amici o delle relazioni coniugali, così come presentato nel capitolo 2

70
(p.31) ricopre una funzione narrativa chiave nella storia dei detenuti. Ciò, tuttavia, non implica necessaria-
mente un processo di desistenza dal crimine. Infatti, l’intervistato#3 dopo aver messo in luce quanto la fami-
glia fosse per lui importante conclude poi con una sequenza di “vittimizzazione” nella categoria della persi-
stenza, codice che indica la persona come vittima appunto con atteggiamenti recriminatori: “Era un bellis-
simo matrimonio, molto felice, bambini bellissimi che ti cambiano la vita.Poi c’è stata un’interruzione,
l’arresto ha interrotto questo sogno, era un sogno condiviso con altre coppie di amici con cui avevamo mo-
menti di condivisione”.

Al contrario, ad esempio, l’intervistato#4 non denuncia alcuna causa esterna nella fase narrativa del “high
point”, mette invece in atto una sequenza di rielaborazione (o rifigurazione), elencando i momenti migliori
della sua vita: “Ho avuto diversi momenti migliori, un certo tasso. Sono stato via da casa molto tempo. I
momenti belli […] con la mia compagna, i momenti spesi in famiglia. Ad esempio l’ultimo Natale che ab-
biamo fatto, tutti uniti, eravamo tutti lì, bello!”

• Low point

Nel “low point” invece ogni carcerato ha trattato un tema diverso nella sequenza narrativa, al contrario del
“high point” dove tutti si sono focalizzati sull’importanza delle relazioni.

L’intervistato#1 ha parlato della vita in carcere, forse a conferma di quanto scritto nel capitolo primo in me-
rito al processo di spoliazione tipico dell’ingresso in carcere.

L’intervistato#2, ha affermato: “Il (momento) peggiore è quando ho abusato di droga pesante, mi ha porta-
to a combinare qualsiasi cosa per mantenermi. E poi quando perdi i figli. Ti fa riflettere, mi sta bene essere
venuto in galera, non l’avrei mai fatto senza la galera per la droga, rifletti tutto quello che è passato, pensi
a tutti gli sbagli”. Pur parlando di un tema difficile come quello dell’abuso di sostanze, è interessante notare
un certo livello di riflessione e rifigurazione, accompagnata da un senso di rimorso, indicatore positivo se-
condo il modello Petersen.

L’intervistato#3, invece, ha preferito parlare del momento dell’arresto evidenziando, sempre in un tono di
vittimizzazione, le condizioni degradanti della vita in carcere legata a problematiche di tipo strutturale tratta-
te nel capitolo 1, che provoca “il depauperamento della persona”.

Infine l’intervistato#4, curiosamente, ha parlato del momento della sua assoluzione e il “calvario giudizia-
rio” legato al processo: “Vede è assurdo, il peggior momento è stato quando sono stato assolto. Ho dovuto
poi rifare il processo, erano gli anni delle battaglie giudiziarie […] è stato un calvario giudiziario. Ci sono
voluti 20 anni per rifare il processo. Al momento dell’assoluzione ero felice, poi no quando mi sono reso
conto”.

• Turning point:

Per quanto riguarda il punto di svolta narrativo, la risposta dell’intervistato#1 sembra essere decisamente in
71
linea con le considerazioni sul “senso del tempo perduto” del capitolo 2 (p.56): “Il tempo. In carcere il tem-
po ti cambia, da quando sono in carcere poi ho sempre lavorato. Sono cambiato radicalmente. Il carcere ti
cambia, ti fa riflettere, pensi a cosa è giusto e cosa è sbagliato. Bisogna provarlo (il carcere) per capirle
queste cose, sono cose che segnano l’anima”. È interessante notare che lo stesso tema del carcere, che per
l’intervistato#1 entrava a far parte del punto narrativo più basso, viene trasfigurato dalla narrazione attraver-
so il ruolo del tempo. Questa sequenza di “rifigurazione” mostra che solo l’esperienza a cui viene dato un
significato può toccare gli aspetti più profondi di noi, addirittura “l’anima”.

Si può affermare che la sezione di “turning point” sia stata quella più ricca di temi e di contenuti indicatori
di processi di desistenza dal crimine in atto e riassuntiva dei fattori a favore di questa trasformazione. È
emerso dalle risposte dei detenuti che per sperimentare un senso di svolta è essenziale che la persona abbia
attuato in tale situazione un processo di riflessione personale, e per la maggior parte degli intervistati anche
una “decisione personale” attiva di mettersi in moto; a tali aspetti, grazie all’applicazione della teoria delle
traiettorie emotive, si è associata la presenza di “orgoglio”, “autostima”, “senso di colpa e vergogna”.

L’intervistato#3, ad esempio, ritiene sia stata una svolta il momento in cui ha deciso di impegnarsi nello stu-
dio per costruirsi nuove opportunità per il futuro; nella narrazione si riscontra orgoglio, un aumento
dell’autostima e senso di self-efficacy. Questa risposta sembra suggerire che il tempo riempito di contenuto
sia ancora più efficace per la desistenza dell’individuo, in questo caso, sicuramente da un punto di vista di
reinserimento sociale.

L’itervistato#2 identifica come elemento chiave di svolta la possibilità di confrontarsi con l’esperienza di al-
tri detenuti: “Ho sentito la loro storia (altri detenuti) e ho cominciato a respirare. Finché ero nella casa cir-
condariale ero con persone che avevano due tre anni e io ero l’unico con una pena lunga, poi ho iniziato a
prendere coraggio, perché ho una data di fine”.

L’intervistato#4 invece mette in evidenza l’importanza di assumersi le proprie responsabilità nella vita per
poter sperimentare un senso di svolta e di armonia con se stesso, mettendo in risalto l’importanza della pena
e della percezione della stessa per l’individuo, e introducendo l’interesse per il lavoro che esporremo in se-
guito: “La svolta è stata dopo molto travaglio con me stesso, dall’ultimo arresto. Sono evaso più volte, è
stato un combattimento con me stesso decidere di scontare la pena, ero combattuto tra stare con la mia
compagna e scontare la pena. Poi sono capitato a Padova, mi hanno offerto un lavoro che altre carceri non
offrono. A questo punto ho rotto le contraddizioni, ho deciso: “Basta, finisco la pena ed esco libero”. La
contraddizione era abbandonare gli affetti se scontavo la pena”.

La sequenza di “turning point”, non a caso collocata dopo i punti “high point” e “low point”, si è dimostrata
particolarmente efficace per evidenziare i processi implicati nella desistenza in atto, come processi agentivi e
di rielaborazione. Infatti nel “turning point” si è verificata un’operazione di sintesi degli aspetti legati al sé e
al proprio percorso a partire dai due punti precedenti, confermando la validità e la centralità di questo “no-
do” narrativo.

72
• Work

Anche le risposte in merito alla percezione del lavoro sembrano confermare la maggior parte delle ipotesi
esposte nel capitolo 1 e 2. Similmente alla sequenza narrativa del “turning point”, quella sul lavoro evoca
sentimenti positivi di “autostima” e “orgoglio”; contiene sequenze di redenzione, tra cui rifigurazione, re-
sponsabilizzazione, speranza e gratificazione e presenta, inoltre, elementi corrispondenti ai codici di “routi-
ne”, “reddito”, “abilità acquisite” e “relazione”.

L’intervistato#1 afferma: “Il lavoro mi ha distratto da cosa avevo realmente addosso, dal dolore per la
mancanza della famiglia, dei figli. Erano presenti […] Poi puoi aiutare la famiglia, è una cosa importante il
lavoro in carcere, ti relazioni con le persone…una volta erano molto rigidi invece, non c’era questa possibi-
lità […] Al lavoro sono come una famiglia, ci conosciamo tutti orami, non si è più come guardie e ladri, si è
amici”. Similmente l’intevistato#2 dice: “Tenermi occupato. Imparare un mestiere. Uscire dalla sezione per
non stare sempre là a dirci le stesse cose. Economicamente aiutare i figli per quello che posso. Per abi-
tuarmi al lavoro quando sarò fuori”. Si può notare che in queste sequenze narrative codici come “Routine”,
“Reddito” e “Relazione” descritti nel capitolo 2 vengano tutti applicati in senso positivo. Le risposte ottenute
sembrano, dunque, essere in linea con gli studi più approfonditi su questo tema già svolti e presentati
all’inizio di questo capitolo.

L’intervistato#3 afferma di avere avuto “una bellissima esperienza” con la cooperativa Giotto e con tono de-
ciso che il “lavoro ha avuto un impatto positivo che ha portato ad un “salto di qualità”.

Per l’intervistato#4 il lavoro è qualcosa che gratifica enormemente e sembra quasi essere diventato un aspet-
to centrale per il proprio senso di sé e, quindi, per la propria identità: “Il lavoro mi gratifica in tutto, per me
il lavoro è tutto. Abbiamo gente ammalata, ti dà un altro atteggiamento. Non cambierei lavoro, non lo la-
scio questo anche se mi fanno una proposta diversa, difendo il mio lavoro”.

In sintesi si potrebbe dire che sia i detenuti lavoratori per le dipendenze della cooperativa Giotto che quelli
assunti dall’Amministrazione penitenziaria sembrano essere beneficiari di un impatto positivo del lavoro
che, chiaramente, comporta effetti concreti nel processo di desistenza. Per quanto non sia possibile dimo-
strarlo, almeno quantitativamente, dalle interviste sembra emergere che il lavoro, grazie a tutti i fattori posi-
tivi che ne derivano e che i detenuti riferiscono di esperire nella vita di tutti i giorni, come il benessere, la
soddisfazione personale, l’autostima, il senso di padronanza e di agentitvità, l’apertura di prospettive per il
futuro ecc. abbia un influenza sul modo di guardare a se stessi e alla propria storia e quindi sulla narrazione
della propria identità presa in esame in questo elaborato.

73
3.2 Analisi e risultati per trame narrate
Nel secondo livello di analisi sono state applicate le varie teorie della desistenza dal crimine e della costru-
zione dell’identità narrativa insieme ai modelli rielaborati personalmente. Il risultato è un’esposizione che
spazia da teorie di stampo più sociologico, a teorie cognitive, come anche a teorie a stampo psicodinamico.
Ci si servirà soprattutto del sistema di codifica di Mc Adams (2008) e al modello elaborato personalmente
che amplia il concetto classico di sequenze di redenzione e di condanna esposto in Figura 10; si utilizzerà la
teoria della maturazione dell’adulto di Rocque (2015), delle traiettorie emotive individuate da Farral e Cal-
verley (2006), della ricalibrazione e del controsfruttamento di Petersen (2012), e si ricercheranno le attribu-
zioni identificate Schönbach (1990) presentate nel lavoro pioneristico di Maruna (2001) mostrato in parte in
Appendice (A5). in ultima analisi, e in parallelo agli altri strumenti, si applicherà il metodo narrativo-
relazionale di Ciappi (2019) per interpretare ed integrare i risultati ottenuti con le altre teorie aggiungendo
nuovi significati.

Nonostante il loro diverso background teorico proprio per la loro eterogeneità esse risultano complementari
ed il loro utilizzo parallelo permette di evidenziare i contributi e le criticità dei singoli approcci presi in esa-
me. Sarà possibile descrivere sotto più punti di vista il fenomeno complesso della desistenza dal crimine e
dell’identità narrativa per ciascun intervistato. Questo permetterà di valorizzare la persona nel suo insieme
invece che appiattirla. In questa direzione il metodo Ciappi (2019) farà emergere che proprio alla luce della
trama, i soggetti sono portati a esperire e quindi a riferire la propria esperienza e la propria vita differente-
mente ed in modo unico e personale.

In altre parole andando a rilevare le sequenze di condanna e redenzione, le traiettorie emotive riportate dai
detenuti, le tematiche ritenute rilevanti da loro stessi e a favore del benessere e del cambiamento, emerge che
tutti questi elementi sono influenzati grandemente dal tipo di trama personale. Si rimanda all’esempio del
campo di forze esposto nel capitolo precedente (p.53) che mostra come la trama concorra a determinare la
direzione di un corpo, ovvero le percezioni, l’attribuzione di significato, la narrazione e, come direbbe Pres-
ser, anche le nostre azioni stesse.

L’applicazione del metodo narrativo-relazionale di Ciappi non vuole, quindi, invalidare i risultati della lette-
ratura sopracitati, ma si evidenzia la necessità di essere coscienti dei limiti del proprio strumento di indagine.
Come noto, nella ricerca scientifica per ottenere risultati accurati non si può escludere dall’indagine le carat-
teristiche del soggetto indagante o dell’osservatore. In questo senso non risulta che Maruna (2001), ad
esempio, prenda particolarmente in considerazione tale limite. Nella presente esposizione e mediante
l’applicazione pratica si è confermata l’ipotesi che è necessario contemplare il fattore della trama individua-
le. inoltre non si può escludere a priori il contributo che l’osservatore apporta nell’atto dell’intervista in
quanto alterità che co-costruisce la narrazione mediante il suo controllo formale e il suo essere mezzo di
transfert e controtransfert, di cui si parlerà in seguito.

Per introdurre i paragrafi relativi all’analisi dei singoli intervistati esposta in questo paragrafo, si è scelto di

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utilizzare i titoli che i detenuti hanno fornito rispondendo all’ultima domanda dell’intervista. Per concludere,
infatti, si è richiesto di pensare alla propria storia come fosse un libro e di cercare di attribuire un titolo e di
individuare un tema centrale, un filo rosso che possa narrare le tappe della propria vita conferendogli un sen-
so.

Anche nel protocollo originale di Mc Adams viene posta una domanda simile, con la differenza che essa
viene chiesta all’inizio; si è deciso di spostare tale domanda alla fine poiché riattualizzando le dinamiche del
passato, mobilitando le funzioni cognitive, le emozioni e l’inconscio, risulta più semplice avere una visione
d’insieme della propria vita, individuare i temi ricorrenti, e quindi identificare il fil rouge. Dopo aver riper-
corso la propria storia tappa dopo tappa, rievocando episodi del passato, guardandosi nel presente e proiet-
tandosi nel futuro è chiaro che il narratore si troverà più consapevole rispetto all’inizio del suo viaggio-
narrazione. Una prova dell’efficacia di tale intervista nell’indagare l’identità narrativa e il “making-sense” (o
“non-sense”) illustrato in Figura 9 è nel fatto che già dopo 45 minuti di colloquio con un’estranea, tutti i de-
tenuti siano stati in grado di individuare il loro filo rosso in modo appropriato. All’altezza del più abile clini-
co psicodinamico, tutti gli intervistati, a prescindere dalle caratteristiche individuali e capacità cognitive più
o meno fini, con una singola frase efficacissima hanno riassunto il contenuto dell’intera intervista, descri-
vendo la modalità attuale di attribuire significato e quindi di definire la propria identità narrativa.

Inoltre si è scelto di associare ad ogni detenuto un’illustrazione tratta da un libro illustrato per bambini in
lingua norvegese (Hole & Lea, 2018), sapientemente ricco di riferimenti a concetti psicodinamici, con la
stessa funzione del titolo della storia di vita, ovvero di rappresentare in sintesi le numerose caratteristiche in-
dividuali e della trama emerse dall’analisi dell’intervista.

D’altra parte una delle illustrazioni può essere presa ad esempio per rappresentare il processo di ricostruzio-
ne della propria storia e dell’identità narrativa. Essa è rappresentata in Figura 12 dalla barca che, sulle soglie
esistenziali oscillanti identificate da Ciappi (p.50), prosegue nel qui ed ora il viaggio della narrazione, a mol-
lo nel mare delle emozioni e sempre sospinta dallo scorrere del pensiero. Immergendo una mano è possibile
rievocare ricordi, pensieri sensazioni che scorrono come acqua in un flusso di associazioni. Utilizzando la
stessa immagine scelta da Freud per la rappresentazione dell’inconscio, l’iceberg sullo sfondo ricorda che
gran parte del nostro accadere e del nostro essere si trova sotto il livello dell’oceano. Infatti talvolta

Figura 12: immagine tratta dal libro illustrato “Du og Jeg”, di Synne Lea e Stian Hole (2018)
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l’intreccio di tali associazioni si complica, compaiono elementi assurdi che appaiono fuori posto; cionono-
stante il pensiero mantiene una sua logica, un filo rosso, come anche un suo mistero e un suo fascino. Questa
dimensione inconscia viene rappresentata da un fondale marino costellato di coralli color vermiglio dove la
vegetazione si intreccia con animali marini, affetti del passato, ricordi piacevoli di un pomeriggio spensiera-
to a giocare a carte e a bere tè, come anche da corpi indistinti e inquietanti che appaiono sullo sfondo, fuochi
accesi, biciclette, lampadari e persino il bucato da fare l’indomani.

Nel suo libro “Fattori di malattia, fattori di guarigione”, Ferro (2002) riporta un disegno che fece un bambi-
no, suo paziente, nel corso della terapia illustrato in Figura 13. Ferro, riferendosi alle teorizzazioni di Bion,
attribuisce a questo disegno l’esemplificazione del processo di co-costruzione della trama e, quindi, del pro-
cesso di dare un senso alle cose.

“Vi è il cielo raffigurato da un insieme di fili contorti, aggrovigliati, che formano mulinelli policromi, il ma-
re risulta costruito da linee colorate, che sembrano tessute con ordine e formano una specie di trama. Il tutto
con una forte idea di movimento data da una barca posta al centro del disegno con tre persone sopra e che
sembra, nel far da spola da un margine all’altro del foglio, tessere le turbolenze della parte superiore nei fili
della parte inferiore … e più la barca fa da spola, più sembra espandersi il sotto, ma sempre di più c’è da tes-
sere il sopra … e in altre parole ciò che conta, sembra essere la capacità di tessitura degli occupanti il bar-
chino … senza punto di arrivo … se non l’espansione del tessibile, del tessuto e della capacità di tessere, o
fuor di metafora, un’espansione del pensabile, del pensato e delle capacità di pensare” (Ferro, 2002, p. 20).

Durante l’intervista il detenuto, sempre accompagnato dalla sua parte bambina, mi ha fatto salire sulla sua
barca e noi tre insieme abbiamo intrapreso una breve tragitto nel suo mare magnum interiore; attraverso la
narrazione abbiamo potuto tessere una trama, ovvero la sua identità narrativa, permettendoci di ritrovare il
senso o la chiave di lettura attuale della sua storia.

Figura 13: immagine tratta da “fattori di malattia, fattori di guarigione”, Ferro (2002, p. 20)

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• Intervistato#1: Vita confusa

L’intervistato presenta un protocollo dominato da sequenze di condanna (11), di cui la maggior parte sono di
predestinazione (6), che evidenziano la mancanza di agency e la percezione che gli eventi siano determinati
da forze esterne; poi si trovano sequenze di stagnazione (5), che fanno riferimento all’immobilità del sogget-
to nel presente; infine vi è una sequenza di rassegnazione che descrive un atteggiamento sfiduciato verso il
futuro.

Si rilevano invece minori sequenze di redenzione (4) appartenenti alla categoria responsabilizzazione (2), ri-
figurazione (1), speranza (1).

Le sequenze di redenzione codificabili con il metodo di analisi classico di McAdams (2008) dove un evento,
una situazione o uno stato emotivo negativo volge al positivo, sono due. Le sequenze di condanna, dove al
contrario le cose volgono al peggio dal momento che lo scenario a valenza positiva esposto viene corrotto e
assume una valenza negativa, sono quattro. Due di queste mostrano “disappointment” (delusione) ovvero la
delusione poiché le cose non sono andate come ci si aspettava o semplicemente sono andate male; le altre
due sono invece siglabili come “loss” (perdita) che si riferisce a quando l’esito negativo è riferito al concetto
di perdita. Nel caso dell’intervistato si riferisce a perdita di relazioni significative; il tema della perdita verrà
approfondito più avanti al livello di analisi psicodinamico. Il metodo elaborato dalla sottoscritta per l’analisi
permette di identificare modalità di funzionamento e di attribuzione del significato esposti da McAdams nel
concetto di condanna e redenzione, senza la necessità che sia presente un passaggio di valenza dal positivo
al negativo e viceversa; in questo modo è possibile trattenere molte più informazioni utili, senza tuttavia ab-
bandonare il metodo classico di analisi. McAdams avrebbe forse spiegato la carenza di sequenze osservando
che chi racconta storie molto difficili parla di situazioni che da appena accettabili semplicemente peggiora-
no, quindi lo scarto di valenza risulta meno evidente.

Tuttavia in questo protocollo è possibile individuare un vero proprio stile espositivo e di attribuzione del si-
gnificato caratterizzato da condanna: il soggetto nel corso della sua vita è stato, in quasi tutte le occasioni,
“predestinato” a percorrere certe vie, passivo nel proprio agire, senza una reale possibilità di scelta, o a cui
comunque le cose sono andate male e nel presente risulta “stagnante” senza nessuno slancio, senza nessuna
motivazione a mobilitare risorse in alcuna direzione, quindi fermo. Ad esempio: “Mi sono sposato a 18 anni
per scelta e ho avuto due figli che sono la cosa più bella. Poi sono finito qui, spesso mi chiedo come mai so-
no in carcere, è come se qualcosa ti fa deviare … mi sono visto cadere il mondo addosso … puoi cambiare
strada ma poi cadi sempre in rovina …”, oppure: “Guardo la tv…non ci sono molte cose, non c’è molto di
interessante…”

Servendosi della teoria delle attribuzioni di Schönbach (1990) si rileva l’utilizzo di “excuse” (scuse) in linea
con l’assetto predestinato che attribuisce la causa del crimine commesso a fattori esterni: ”Nel ‘90 non sarei
mai finito in carcere, negli anni ‘80 invece c’erano due categorie chi si drogava e chi andava a rubare non
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c’era altro, poi ne paghi le conseguenze”; tuttavia si trovano anche espressioni che manifestano “conces-
sion” (concessione), ovvero che attestano che la persona riconosce la propria responsabilità e sembra prova-
re rimorso, che tuttavia ha molto a che vedere con il dispiacere per la perdita degli affetti e del tempo: “non
ero dentro per delle biciclette, ma per delle cose gravi, le mie cose erano gravi, la pena grave. Ti cade il
mondo addosso, cerchi di lottare, avevo una famiglia con i figli piccoli”. Tuttavia si rileva un’eccessiva en-
fasi sul sentimento di colpa, da far pensare a richiami con i vissuti infantili di inadeguatezza e indegnità che
si approfondiranno di seguito parlando della trama: “Non avrei mai pensato di andare in carcere. Ho cerca-
to di farmi forza di affrontare quello che c’era da affrontare, quando tu fai un peccato grande ne paghi le
conseguenze. Non puoi tradire i figli, li devi lasciare in pace, sei tu che devi pagare”.

Nonostante il numero ridotto di interviste raccolte è stato già possibile notare che ognuno degli intervistati
presentava un determinato stile espositivo costellato da un certo tipo di sequenze; risulta perciò improbabile
ritenere che tale ragione sia dovuta ad un’altrettanto netta differenza dello stadio del processo di desistenza.
Sembra invece più ragionevole l’ipotesi che la massiccia diversità nelle sequenze narrative sia più attribuibi-
le a una differenza di caratteristiche personali e, come vedremo più avanti, al particolare tipo di trama perso-
nale individuata con il metodo-narrativo relazionale. Ciononostante, questo protocollo e il secondo, che ver-
rà esposto di seguito, pur presentando la stessa trama di tipo depressivo, come vedremo, manifestano pro-
fonde differenze di stile e nelle emozioni riportate. Questo dato mette in luce che nessun tentativo classifica-
torio potrà eliminare il fatto che ogni individuo resta unico e irripetibile, a patto che venga scelto un metodo
capace di mantenere le peculiarità e la ricchezza di ogni singolo contributo. L’eterogeneità e unicità dei ri-
sultati ottenuti sembra sostenere la validità del metodo narrativo impiegato e al tempo stesso dimostrare la
validità delle teorie sulla desistenza e sull’identità narrativa. È risultato difficile, d’altra parte, applicare al-
cune di esse in questo protocollo; ad esempio non è stato possibile svolgere l’analisi sulle traiettorie emotive
secondo lo studio di Farrall e Calverley (2006) (p.38) a causa di una caratteristica particolare
dell’esposizione dell’intervistato: essa è contraddistinta da una pervasiva piattezza, a livello di modulazione
della voce, di mimica e di espressioni nel linguaggio, in sostanza è quasi impossibile cogliere aspetti emoti-
vi. L’intervistato sembra aver disinvestito completamente a livello emotivo dalla vita, come se non si aspet-
tasse niente da essa, quasi non prova emozioni positive, minimizza quando emergono quelle negative: “Non
ricordo momenti brutti, la vita è un “sali-scendi”, quindi non ci fai caso. Non so”. L’unica emozione che
emerge, e in modo massiccio, è il rimpianto per ciò che è andato perso, soprattutto il tempo con la famiglia
ma anche l’opportunità di vivere una vita normale; troviamo inoltre un pervasivo senso di inadeguatezza che
tormenta quasi ogni argomentazione dell’intervistato: “se soffro, soffro per la famiglia, i miei figli sono cre-
sciuti senza loro padre ed è una cosa che non posso cancellare … Forse potevo essere una persona più fer-
ma, avere più coraggio su certe cose. Forse avrei avuto una vita diversa, sono stato troppo buono…”.

Molte delle caratteristiche sopraelencate portano ad inquadrare il detenuto in una trama depressiva nella
modalità overt. L’esistenza depressiva è sostanzialmente pessimistica, senza un apparente senso e priva di
una felicità esibita. Individui che sentono di dover contare solo su se stessi, poiché sono ben consapevoli che

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la sicurezza emotiva è solo ed esclusivamente a loro carico, come se la solitudine fosse la condizione norma-
le dell’esistenza.

L’individuo depresso da bambino spesso ha sperimentato un genitore poco affettivo e distante che ha incen-
tivato più un senso di responsabilità, inducendo quest’ultimo a convincersi di doversela cavare da solo. Così
facendo esso impara a convivere con la solitudine che finisce per non temere più, almeno ad un livello con-
scio, distanziandosi e minimizzando l’impatto degli eventi perdita. Tuttavia la parte bambina inconscia con-
tinuerà a riproporre l’essersi sentita abbandonata con profondi sentimenti di solitudine, tristezza e colpa che
si porterà dietro fino all’età adulta. Tale senso di colpa fa sentire inamabili e crea un’immagine negativa di
sé “che non sa farsi amare”, che deve meritarsi l’affetto con grande impegno.

L’intervistato è stato incentivato nell’infanzia al senso del dovere e nella preadolescenza ha dovuto abban-
donare gli studi per andare a lavorare a causa alle ristrettezze economiche in famiglia. La richiesta di compe-
tenze adulte in età precoce ha indotto il detenuto a sentire di dover dimostrare di essere all’altezza; non riu-
scendo a rispettare queste aspettative sceglie in giovane età la scappatoia nella vita criminale: “Io mi sentivo
già grande, a 13 anni lavoravo già, ho fatto solo le elementari e le medie e poi a lavorare perché di soldi
non ce n’erano, se fossi andato a scuola forse adesso non sarei qui. Giocavo al casinò […] e ho cominciato
ad avere soldi facili, che sono anche facili da spendere, invece come diceva mio nonno con i soldi sudati
stai attento a come li spendi”.

D’altra parte tali vissuti nell’infanzia portano a sviluppare una grande sensibilità a valorizzare le relazioni e
alla tendenza all’accudimento e all’abnegazione; caratteristiche che troviamo anche nell’intervistato soprat-
tutto quando parla della propria famiglia e dei figli.

Tuttavia di fronte alla delusione, i sentimenti di perdita vengono gestiti con strategie cognitive minimizzan-
do o razionalizzando l’evento attraverso atteggiamenti evitanti come distacco emotivo, riduzione delle aspet-
tative e disinvestimento dalle relazioni e dalla vita in generale: “Ho trovato la donna giusta, l’ho sposata
per scelta e siamo stati insieme oltre 40 anni. Adesso siamo separati perché non è giusto che mi stia ad
aspettare”. Nell’intervistato è molto evidente questo aspetto di stagnazione e vive un’esistenza rassegnata
senza grandi sconvolgimenti, prospettive o cose interessanti, ma sopportabile, a parte il dolore quando pensa
alla lontananza dalla sua famiglia e al non esserci stato. Tuttavia nella modalità overt i sentimenti di perdita,
anche se vengono evacuati su un piano cognitivo, restano visibili da quelli che Ciappi chiama “occhi velati
da una malinconica apatia”, espressione che sembra emblematica per descrivere l’intervistato.

Durante tutto il colloquio infatti il volto è inespressivo, lo sguardo spento, postura china con braccia lungo i
fianchi, il tono piatto senza modulazione emotiva, a volte non si capisce bene cosa intende dire perché bor-
botta, lasciando le frasi a metà.

L’immobilità del volto e della postura sembra riflettere il disinvestimento di questa persona nei confronti
della vita. Come accennato al paragrafo precedente sembra andare avanti riconoscendo gli aspetti positivi (il
lavoro, i colleghi che sono come una famiglia, i figli che sono meravigliosi e importanti per lui), ma anche
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senza entusiasmo e senza nessuna prospettiva, progetto o slancio.

Di seguito verranno esposti gli elementi di transfert e controtransfert con cui la sottoscritta ha contribuito al-
lo svolgersi dell’intervista e anche alla valutazione dei risultati. A tratti mi innervosisce questa immobilità
fisica. verrebbe da scrollarlo per le spalle, e mi infastidisce l’atteggiamento sacrificale, questo senso del do-
vere morale, l’autocommiserazione: “Io e mia moglie ci siamo separati, non è giusto che stia ad aspettarmi
… soffro per la famiglia, i figli cresciuti senza un padre, non posso cancellarlo … io li ho fatti ed è giusto
che li cresca, chi se ne frega non so come fa, non puoi abbandonare i figli … non puoi tradire i figli, li devi
lasciare in pace sei tu a dover pagare…”. Tuttavia sono in sintonia con i suoi saldi principi, l’importanza
dei valori, della famiglia.

Provo anche una certa agitazione in parte suscitata dall’intervistato e in parte autogenerata. Si tratta del pri-
mo colloquio, entro per la prima volta in un carcere, per la prima volta a faccia a faccia con un delinquente,
sento chiudersi dietro di me i cancelli, e mi rendo conto di essere sola a dover affrontare la situazione. Mi
sudano le mani mentre aspetto l’intervistato, con la percezione di non avere pienamente il controllo del col-
loquio; poi prendo confidenza ma di tanto in tanto torna un senso di ansietà, in risposta questa volta alla nar-
razione confusa del detenuto.

Inoltre provo noia, e un gran senso di sonnolenza e di torpore, sono poco reattiva, come assopita e rallentata
pure io. Sembra che la sua apatia mi abbia contagiata. L’intervistato racconta banalizzando ogni cosa, dando
l’impressione che lui stesso non trovi interessante la propria vita e che non riesca a trovare il bandolo della
matassa: “Non si capisce dove sei finito, come mai sei qui. Per questo non sai è tutto confuso”. Perde il filo
del discorso, dice una frase dietro l’altra senza pause in un flusso di associazioni di idee piuttosto che per
esprimere un concetto chiaro; il tutto senza preoccuparsi se l’altro sta prestando attenzione o meno. Al con-
tempo sembra essere contento che c’è qualcuno ad ascoltarlo, ma sembra imbarazzato, come chi non è abi-
tuato a ricevere questa attenzione e si sente di non meritarla. Ad esempio non faccio in tempo ad introdurre
dicendo: “Sono qui per ascoltare la sua storia” che lui parte con un monologo di diversi minuti senza accor-
gersi che non avevo nemmeno posto la prima domanda.

Probabilmente rappresento uno dei suoi genitori, probabilmente il padre, che ascoltava distrattamente, come
accade nella relazione del qui ed ora. Quel fiume di parole forse non è stato ascoltato empaticamente, tanto-
meno sono state restituite, “digerite”, come direbbe Bion, in una trama ordinata e di senso compiuta; pare
che la funzione alfa di contenitore del genitore sia fallita lasciando la persona senza strumenti per decifrare
le proprie esperienze.

A prescindere dalle reazioni di transfert e controtransfert trovo sbalorditivo, a conferma dell’ipotesi che sia-
mo “essere senzienti” durante tutto l’arco della vita, che una persona con le idee poco chiare su di sé possa
avere una sintonia emotiva limpida e cristallina con la propria interiorità come quella che dimostra
l’intervistato; infatti, in due parole è riuscito perfettamente a descrivere la propria condizione attuale ovvero
quella di una “vita confusa”.

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L’illustrazione in Figura 14 coglie diverse delle dimensioni emotive ed esistenziali appena descritte. Ad
esempio è rappresentato il senso di solitudine e di desolazione, la confusione e al tempo stesso la speranza
che l’intervistato sperimenta; ognuno è solo sulla propria barca, su un mare che sembra un deserto, nessuno
sa di preciso dove andare, si è persa la direzione dalla quale si è venuti e quella dove si vuole andare, ma in
questo stato di spaesamento e confusione tutti sperano che la luce delle lampade possa condurli a ritrovare
un senso e in fondo tutti ritengono, come dice l’intervistato rispondendo alla domanda quale sia il messaggio
centrale della sua storia, che “non è mai troppo tardi per cambiare”.

Figura 14: immagine tratta dal libro illustrato “Du og Jeg”, di Synne Lea e Stian Hole (2018)

• Intervistato #2: Finalmente ho capito il valore della vita

A prima vista il protocollo di questo detenuto sembrerebbe un buon esempio nel mostrare l’avvio di processi
di desistenza, poiché presenta numerose sequenze di redenzione (13) e poche di condanna (3); soprattutto ri-
tornano frequentemente sequenze di rifigurazione (5) e di responsabilizzazione (3), che parlano di una cre-
scita personale la prima e della messa in moto della persona la seconda, ma anche sequenze di speranza ver-
so il futuro (5).

Alla maggior parte delle sequenze di redenzione è possibile applicare il metodo classico di codifica di McA-
dams, poiché ad una situazione negativa viene associata una positiva; una di queste sequenze di redenzione è
quella di “recovery” (recupero), dove l’autore intende il senso di remissione che la persona sperimenta dopo
una condizione negativa. Inoltre è anche possibile assegnare numerose sequenze alla categoria “growth”
(crescita), ovvero dove a seguito di un evento o di un’emozione negativa si sperimenta una crescita persona-
le.

Tuttavia molti degli insight presentati come centrali e stravolgenti dal detenuto sono in realtà raggiunti dalla
maggior parte delle persone senza grandi peripezie, suggerendo che la persona intervistata sia stata durante il
corso della sua vita piuttosto immatura, comportandosi di conseguenza. Infatti il detenuto, parlando di cosa
guidi sia la sua identità attuale, afferma: “Miglioramento, mentalmente soprattutto (nella sua persona). Ho
iniziato da impegno, a mantenere la parola data (sul lavoro). Cerco di non avere discussioni, evito le perso-
ne, […], ora ci penso due volte prima di reagire, sto nella mia cella, leggo, pulisco. Meglio tardi che mai”.

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Applicando il modello di maturazione di Rocque (2015) si evidenziano infatti delle lacune nel dominio della
maturazione psicosociale (coscienziosità, indipendenza, controllo aggressività) e neurocognitiva (funzioni
esecutive, memoria-intelligenza). In linea con un assetto immaturo, il detenuto racconta di non aver mai dato
molto ascolto a suggerimenti di chi gli stava intorno e che solo l’esperienza shock del carcere abbia messo in
moto dei processi di presa di coscienza e di maturazione, che per altri avvengono spesso più armoniosamen-
te.

Con uno sguardo più attento, quindi, ci si rende conto che le numerose sequenze di redenzione mostrano il
completamento a scoppio ritardato del processo di maturazione dell’individuo, piuttosto che rappresentare il
processo di desistenza ideale. Si evidenzia che l’applicazione puramente categoriale dei codici, semplice-
mente contando le sequenze e osservandone la valenza di redenzione e condanna, rischia di condurre a con-
clusioni superficiali ed errate, soprattutto con un campione così limitato.

Nonostante la necessità ad avere il senso del limite dall’esterno in modo violento, non si vuole svalutare
l’impegno dell’intervistato per guadagnarsi la consapevolezza attuale e rimettersi in sesto, al contrario tra
tutti gli intervistati è forse quello che ha dovuto mobilitare più energie raggiungendo importanti conquiste:
“Ti fa riflettere, mi sta bene essere venuto in galera, non l’avrei mai fatto senza la galera per la droga, ri-
fletti tutto quello che è passato, pensi a tutti gli sbagli”; “Essere in carcere è come essere a scuola, come
una lezione, prima prendevo tutto alla leggerezza. Sto combattendo, a volte la voglia non c’è ma cerco di
andarci, cerco di abituarmi ad alzarmi presto, ad avere delle responsabilità, ad avere qualcuno che mi
aspetta, per me una volta non esisteva, lavoravo davanti a casa non dovevo pensare nemmeno a distanza
dal lavoro”.

Curiosamente è interessante notare che non sono presenti sequenze di condanna così come descritte da Mc
Adams, ovvero dove una scena o un evento positivo narrato volge al negativo, si deteriora. Il modello rileva
elementi di condanna anche in assenza di questo passaggio di valenza della narrazione, tuttavia viene da
chiedersi come Mc Adams e Maruna avrebbero codificato questo protocollo. Maruna d’altra parte nel suo
studio aveva a disposizione un campione numeroso e aveva l’intento di trovare caratteristiche comuni ai due
gruppi di desistenti e di persistenti piuttosto che focalizzarsi sui casi singoli. L’unica sequenza rilevante in
quest’ottica è di predestinazione, ma è interessante notare che rispetto al protocollo presentato in preceden-
za, la tendenza ad attribuire la causa del proprio agire e delle proprie sventure a fattori esterni, incontrollabili
o ignoti non costituisce la modalità prevalente di interpretazione della realtà. Al contrario c’è invece la ten-
denza a assumersi la responsabilità di tutto il male, anche in modo esagerato; infatti sono numerosissime af-
fermazioni che attestano la presenza di rimorso, vergogna e colpa: “Non sopportavo nemmeno me stesso,
per quello che ho fatto”.

Tali emozioni vengono prese in esame anche dalla teoria delle traiettorie emotive di Farrall e Calverley
(2006) (p.) come indicative di un avanzato processo di desistenza, al terzo livello di quattro, in persone che
avevano smesso di commettere crimini da tre o quattro anni. Anche l’intervistato effettivamente non com-

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mette più reati da un certo numero di anni e presenta emozioni associate al livello tre come appunto colpa e
vergogna, che sono connesse alla motivazione ad assumere la responsabilità delle azioni passate e future;
tuttavia si trovano anche emozioni appartenenti ai primi due livelli. Al primo il desiderio di normalità: “Spe-
ro un giorno quando esco di qua con i miei figli di fare il padre normale, stare dietro ai miei figli, andare a
lavorare”. Al secondo livello un crescente senso di inquietudine interiore riguardo al comportamento crimi-
nale del passato e un associato senso di autostima e percezione di controllo delle emozioni connesso ad aver
abbandonato tale condotta: “All’inizio non davo valore, adesso si, da quando sono entrato in galera, quindi
il cambiamento è saper dare valore alle cose minime. Quando ero fuori non davo valore”. Pur restando
maggiore la ricorrenza di emozioni, di colpa e di vergogna, risulta difficile far rientrare in un’unica fase del-
le traiettorie emotive corrispondenti ad un diverso livello del processo di desistenza. Motivo di tale incoe-
renza potrebbe essere spiegato dal fatto, come si approfondirà più avanti, che la dominanza delle emozioni
di colpa e di vergogna potrebbero essere più da associare alle caratteristiche di personalità e della trama del
detenuto piuttosto che al livello raggiunto nel processo di desistenza.

Utilizzando la teoria delle attribuzioni di Schönbach (1990) si osservano numerose “concession” (concessio-
ni) nel protocollo dell’intervistato, associate alle emozioni di colpa e vergona del modello delle traiettorie
emotive e del rimorso del modello di Petersen.

A parole, quindi ad un livello più cognitivo, c’è il desiderio di mettersi in moto, di conquistare un senso di
normalità, come attestano le numerose sequenze di redenzione, tuttavia a livello emotivo l’intervistato appa-
re instabile.

Insieme ai sentimenti di colpa, di vergogna, e di ripiegamento sul passato già menzionati, si evidenzia anche
un profondo senso di inadeguatezza e di angoscia. Nel colloquio si riscontra una carenza di strategie cogniti-
ve e difensive per la gestione di tali stati negativi, la persona sembra infatti sopraffatta da essi. Ciò richiama
alle lacune identificate con il modello di Rocque (2015), e fa pensare ad una difficoltà strutturale con cui il
soggetto si è scontrato tutta la vita. Tali aspetti insieme al passato di tossicodipendenza dell’intervistato
sembrano confermare l’associazione riscontrata nella letteratura tra uso di sostanze e l’insufficienza di fun-
zioni deputate alla regolazione degli affetti, al controllo degli impulsi e al mantenimento dell’autostima.
Inoltre secondo una lettura psicodinamica, l’automedicazione sarebbe un tentativo difensivo per compensare
le difese dell’Io carenti e supplire all’incapacità di prendersi cura di se stessi (Gabbard, 2007). In un’ottica di
pulsione di morte, tramite l’uso di sostanze il dispiacere viene scaricato e l’omeostasi ripristinata alla svelta,
da cui deriva la sensazione di piacere; tuttavia tale modalità di gestione è efficace per la sua efficienza mo-
mentanea, l’individuo non apprende migliori strategie di gestione e, anzi, nel tempo diventa più intollerante
allo stress.

Ciappi (2019) nomina l’uso di sostanze anestetizzanti come una delle modalità tipiche di gestione di senti-
menti negativi in persone che presentano una trama depressiva.

Chi presenta una trama depressiva possiede generalmente un carattere riservato, ha una visione pessimistica

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della vita priva di una felicità esibita e prova un senso pervasivo di perdita associato a sentimenti di inade-
guatezza, ripiegamento sul passato e colpa. Spesso questi vissuti possono essere una risposta a stili genito-
riali che il bambino percepisce come poco affettivi o distanti; l’intervistato descrive i genitori come molto
severi e praticanti, specialmente il padre, che ha sempre visto più con timore che come fonte di affetto e con-
tenimento. Sentimenti di inadeguatezza, inamabilità sono spesso legati al sentimento di impotenza e di colpa
per essere stati l’origine del non amore da parte dei genitori, creando un’immagine negativa del Sé “che non
sa farsi amare”. Tali sentimenti sono inoltre vissuti come una condanna e hanno spesso un’influenza sulla
percezione della propria libertà di scelta e di agentività nella propria vita.

Il sentirsi non amato lascia nell’individuo un vuoto e una tristezza di fondo che spesso affetta il corpo e la
modulazione degli affetti; infatti il volto, la postura e la narrazione sono caratterizzati da inespressività e
apatia, non mostrano grandi perturbazioni emotive. L’espressione è triste, la postura molle, come se chiedes-
se il permesso di star seduto lì e se potesse afflosciarsi da un momento all’altro, il tono di voce flebile. La
mimica e movimenti del corpo sono lenti, come quelli di una persona molto stanca che non ha energie. Le
risposte sono a volte così ritardate e i tempi di attesa tra un concetto e l’altro così lunghi che sembra di guar-
dare un video a rallentatore e più volte mi chiedo se ci sia qualche aspetto traumatico irrisolto a compromet-
tere l’esposizione. Non si esclude nemmeno l’ipotesi che l’uso di sostanze massiccio e protratto nel tempo
nell’età dello sviluppo, abbia portato a qualche conseguenza a livello neurocongnitivo, data la giovane età
del detenuto al momento dell’intervista.

Durante il colloquio a volte sono in difficoltà a prestare attenzione, per la lentezza dell’esposizione e le paro-
le sbiascicate, ma soprattutto perché a distrarmi dai contenuti del discorso c’è un clima emotivo che si impo-
ne e congela le mie funzioni, caratterizzato da una profonda tristezza e da angoscia. Inoltre sono impaziente,
le pause dell’intervistato per rispondere e prendere fiato mi sembrano interminabili e più volte ho avuto
l’impulso a sollecitarlo o di interromperlo; il paziente tramite il transfert mi fa sentire come forse si sentiva
sua madre, provo l’esasperazione di fronte ad un figlio immaturo che continua a mettersi nei pasticci nono-
stante sia ormai sia grande. Ho numerose rêverie con immagini che rimandando alla malattia, all’intervistato
come bisognoso di cure, fino ad un piano fisico; lo vedo come un bambino molto piccolo inerme che non ha
gli strumenti e i mezzi per difendersi da solo. D’altra parte il detenuto stesso ha introdotto se stesso come
malato bisognoso di cure e incapace di gestire emotivamente il proprio passato; non ho fatto nemmeno in
tempo a fare la prima domanda che mi interrompe con un sospiro, reclina la testa come per proteggersi, di-
cendo: “Sto cercando di dimenticare il passato. Preferisco dimenticare, se mi fa parlare del mio passato va-
do in infermeria, sto male”; come fosse un malato che supplica di non toccare la piaga dolente. Ciappi ricor-
da che chi possiede una trama fobica spesso percepisce i sentimenti negativi alla luce di un senso di malattia
o di indegnità.

Occorr,e dunque, rileggere le sequenze parole che rimandano alla redenzione, al cambiamento e alla messa
in moto dell’individuo verso la propria riabilitazione, alla luce della dimensione emotiva: un individuo può
essere motivato ma non avere le energie emotive sufficienti a realizzare i propri propositi. Il detenuto fortu-
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natamente riferisce di ricevere in carcere un sostegno psicologico, con l’aiuto del quale avrà modo di riac-
quistare un equilibrio sul piano emotivo, al momento labile, per raggiungere i propri obiettivi efficacemente.

L’illustrazione in Figura 15 illustra bene lo stato attuale dell’identità narrativa dell’intervistato rappresentan-
do magistralmente la dimensione emotiva dominante. La narrazione a bordo della barchetta si fa spazio tra
volti galleggianti, immersi fino al collo in un mare di angoscia e tristezza. Tali emozioni vengono controllate
tramite l’annullamento dei sensi, espressi nell’apatia dell’intervistato e nell’abuso di droga, e attraverso il
congelamento, che rimandano alle parti congelate da un qualche trauma. Alcuni volti sembrano senza vita,
catatonici; uno in particolare, appunto, è congelato. Da un lato si trasmette l’idea di immobilità e di stagna-
zione dall’altro che il peggio sembra imminente: vi è l’idea che da un momento all’altro si potrebbe andare a
fondo per il peso del rimorso, del rimpianto e della responsabilità, ed essere soverchiati dal mare emotivo e
quindi di annegare.

Figura 15: immagine tratta dal libro illustrato “Du og Jeg”, di Synne Lea e Stian Hole (2018)
(https://www.boktips.no/barneboker/du-og-jeg/)

()https://www.boktips.no/barneboker/du-og-jeg/
Nonostante lo stato emotivo negativo sia preponderante nella narrazione, il detenuto non perde la speranza e
non manca di proiettarsi nel futuro.

Alla domanda di dare titolo alla propria storia di vita ne dice due, uno dopo l’altro: il primo è un augurio che
fa a se stesso e a tutte le persone che esprime il desiderio di cambiamento (“mi auguro…auguro a ciascuno
un cambiamento migliore”), il secondo rivela che la persona raccontandosi ha avuto la percezione, senza mai
mancare di svalutarsi, di aver trovato un senso (“finalmente ho capito il senso della vita”).

• Intervistato #3: La grande ingiustizia

Questo protocollo presenta numerose sequenze sia di condanna (9) che di redenzione (11); per il primo tipo
la maggior parte sono sequenze di vittimizzazione (5) dove la persona si sente vittima di condizioni esterne e
manifesta un atteggiamento recriminatorio; le restanti sono di rassegnazione (3), che mostrano la posizione
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di chi non si aspetta più nulla dal futuro; l’ultima di stagnazione, a proposito dell’immobilità dell’individuo
nel presente. Il protocollo si presenta molto ricco di sequenze di redenzione per numero e per tipo. Troviamo
molte sequenze di rifigurazione (4), mostrando una buona capacità tramite strategie cognitive di volgere al
positivo situazioni percepite come altamente negative, di reinserimento (3) costruendo amicizie, opportunità
di lavoro e una relazione stabile, di generatività (2), manifestando un atteggiamento propositivo e intrapren-
dente; una di responsabilizzazione, mostrandosi capace di prendere in mano la propria vita e agire; una di
gratificazione per lo svolgimento della propria giornata, e una di speranza sul futuro.

La narrazione si manifesta come molto dinamica, con un andamento che oscilla da picchi molto positivi a
picchi molto negativi e viceversa, portando ad una spiccata differenza di valenza tra il prima e il dopo nella
narrazione di un episodio; questa caratteristica rende il protocollo ottimale per utilizzare il sistema di coding
di McAdams. Secondo questa ottica si considerano 5 delle sequenze di condanna di cui 4 sono di “disap-
pointment” (delusione), e una di “loss” (perdita). Le sequenze di redenzione codificabili secondo Mc Adams
sono 3 sono di “improvement” (miglioramento) della propria condizione e 2 di “growth” (crescita) 2, di cui
una di crescita personale e una di crescita della qualità del rapporto con la famiglia di origine.

Tuttavia il grande contrasto tra i toni del racconto che rendono la narrazione ad effetto sembrerebbero legati
alle caratteristiche personali e alla trama del soggetto di tipo somatico, dove l’apparire e l’autocelebrazione
sono elementi che la contraddistinguono. La narrazione sembra orientata ad ottenere il favore
dell’interlocutore: senza narrare tragedie non ci può essere nessun eroe, senza raccontare eventi estremamen-
te positivi deteriorati da ingiuste avversità non si può empatizzare con la vittima di tali sventure:

“Il momento dell’arresto è stato devastante, una leggerezza finita in tragedia. Sono passato da un buon te-
nore di vita a temere la fame, il freddo e la solitudine, c’è una gran differenza tra carcere e vita di prima,
due mondi. Possiamo dire che sono passato dalle stelle alle stalle”; “All’inizio avevo pochi soldi che mi da-
vano i genitori e li usavo tutti per acquistare i libri per studiare, per rilegare la tesi. Ho sofferto la fame per
completare gli studi. Poi sono passato ad avere degli stipendi altissimi fino a 2000 euro al mese. Prima
prendevo il pane dalla spazzatura. Con il lavoro c’è stato un salto di qualità”.

Osservando le traiettorie emotive (Farrall e Calverley (2006) (p.38) dell’intervistato si osservano numerosi
sentimenti di orgoglio in riferimento agli obiettivi raggiunti, emozione appartenente alla terza fase di desi-
stenza e di manifestazioni di un esperito senso di normalità conquistato sul fronte lavorativo e relazionale,
tipico della quarta ed ultima fase della desistenza, dimensione che risulta connessa alle sequenze di reinse-
rimento.

Il protocollo dell’intervistato sembrerebbe mostrare un processo di desistenza avanzato in una persona dotata
di grande intelligenza e intraprendenza che Petersen, nel suo modello della ricalibrazione del controsfrutta-
mento, conterebbe come aspetti di formidabilità, produttività e di unicità ritenuti di grande contributo se
reinvestiti nella società. Tuttavia il valore di WTR che si potrebbe assegnare nella valutazione di questa in-
tervista non sarebbe così alto come ci si aspetterebbe dai dati esposti fino ad ora. Infatti nonostante le capaci-

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tà e l’impegno dimostrato del detenuto si riscontrano alcune criticità nelle sue caratteristiche che è bene te-
nere in considerazione. Si sottolinea, come fatto in precedenza, che non si intende evidenziare tali criticità
allo scopo di classificare la persona o, tantomeno, definirne la pericolosità; si tratta piuttosto di elementi nar-
rativi o sequenze che emergono dall’analisi. Si consideri, ad esempio, che l’intervistato non presenta tenden-
zialmente segnali di rimorso per i propri crimini, al contrario fornisce quelle che Schönbach (1990) nella ca-
tegorizzazione del modo di parlare del reato commesso, definisce come “justification” (giustificazioni) ed
“excuse” (scuse); dove non viene riconosciuta la propria responsabilità, si cerca di minimizzare la gravità
del fatto dando la colpa a cause esterne. Si individuano, inoltre, alcune sequenze classificabili come “self-
absortion” (egocentrismo) che si riferiscono alla tendenza ad essere concentrato su se stesso manifestando
scarso interesse per le relazioni spesso in funzione di una propria gratificazione personale; inoltre il soggetto
riporta di aver raggiunto i propri ambiziosi obiettivi nei vari ambiti della vita in solitaria. Va sottolineato an-
che come l’intervistato esprima una grande rabbia nei confronti della pena, del sistema, per come sono anda-
te le cose, mostrando un atteggiamento polemico e recriminatorio. La seguente sequenza esemplifica molti
degli aspetti evidenziati:

“Ci sono stati tantissimi casi all’epoca, andava di moda, sono stato coinvolto in un sequestro di persona.
Non ho ucciso nessuno e ho un ergastolo come se fossi uno dei peggiori assassini. Se uno ha avvocati mi-
gliori o famiglie diverse con bugie e sotterfugi riesce ad avere solo 20 anni di carcere. Ho studiato giuri-
sprudenza, facevo l’avvocato dei poveri, ci sono delle cose orrende aggiustate con 20 anni di carcere. Alcu-
ni entravano con un furto di bici e uscivano con 2 ergastoli. Tanta ingiustizia, ho vissuto una forma di in-
giustizia, ho assunto la mia responsabilità, ma l’ergastolo è un’ingiustizia che mi ha cambiato”.

Sempre riferendosi al modello di Petersen, pur riconoscendo la formidabilità dell’individuo, si ritiene che gli
aspetti sopraesposti (mancanza di rimorso, ambizione, egocentrismo, disinteresse per gli altri) incidano in
senso negativo sul valore di WTR; tale valore rappresenta infatti quanto un carcerato abbia a cuore il benes-
sere del prossimo rispetto al proprio e quanto ci si aspetta una condotta corretta. Chiaramente il WRT è un
parametro molto complesso da determinare e, come ricorda l’autore, influenzato dal grado di affinità tra
l’osservatore e l’individuo osservato. Tale parametro verrà valutato in seguito con alcune considerazioni di
controtransfert.

Come si accennava l’intervistato presenta una trama somatica in modalità overt, dove una delle caratteristi-
che centrali è la paura del giudizio e la tensione alla perfezione. Secondo Ciappi entrambe queste caratteri-
stiche derivano solitamente da esperienze infantili in cui si è percepito di poter essere amati e celebrati solo
rispondendo alle aspettative dei genitori, ancora di più se tali aspettative mettevano in risalto la prestazione e
aspetti fisici. Sentendo di dover corrispondere all’immagine di bambino ideale dei genitori, più che sentire le
proprie esigenze emotive accolte, la persona spesso sviluppa un senso del sé fragile e un senso di inadegua-
tezza; essi portano l’individuo a mettere in moto una serie di strategie per impedire che venga scoperta tale
vulnerabilità e imperfezione.

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Nel caso specifico dell’intervistato, ad esempio, egli da un lato sembra fondare la sua vita su valori impor-
tanti al fine di evitare il crollo della sua persona, narrandosi così in grado di “reggere” il palcoscenico da so-
lo. D’altro canto mostra un grado elevato di profondità e introspezione: “È importante prestare attenzione
sia al mondo affettivo che quello lavorativo. Più la vita di un carcerato è basata su diversi pilastri meglio è,
se un pilastro viene meno ce n’è un altro a tenere su, se viene meno il lavoro ma ho una forte spiritualità al-
lora si regge tutto”. D'altronde, grazie proprio alla sua introspezione, è il detenuto stesso ad affermare: “Ho
un carattere molto forte, non so se è un pregio o un difetto, sicuramente è un meccanismo di difesa, ho una
voce imponente che spaventa la mia compagna, che l’ho conosciuta perché faceva la volontaria ed ora è sei
anni che ci frequentiamo. Questa forza la uso come meccanismo di difesa, in carcere o prevali o sei domina-
to.” Si dimostra molto ambizioso e propositivo, tuttavia come già accennato dal punto di vista relazionale è
distaccato e sembra essere incentrato su se stesso. Ad esempio parla della propria compagna senza trasporto
sempre in funzione di sé e gli altri sono visti come un intralcio da cui isolarsi: “Quando ho cominciato a stu-
diare mi sono isolato dal mondo del carcere e mi sono chiuso in un mondo tutto mio”. Anche quest’ultimo è
un aspetto tipico nella trama somatica.

Ciappi (2019) afferma che “le persone con trama somatica utilizzano gli altri come specchi per avere un
immagine di sé, sono gli altri a definire ciò che si sente, per cui si è particolarmente sensibili al giudizio de-
gli altri; il comportamento degli altri è sempre un’informazione su di loro”. Spesso manifestano difficoltà di
mentalizzazione e ad avere empatia. L’esibizione della loro immagine perfetta è l’unico modo di entrare in
relazione con l’altro, per poi ricercare come conferma riflessa un’immagine altrettanto perfetta.
“L’interazione non viene instaurata per l’interesse per il rapporto per l’altro, ma è strumentale a ricavare
un’immagine positiva di sé. Uno dei risvolti psicopatologici è il disturbo narcisistico di personalità, con feri-
te narcisistiche che lo portano a provare emozioni acute di vuoto e di smascheramento che vengono contro-
reagite con reazioni di rabbia”. La rabbia sembra essere l’emozione che emerge di più durante il colloquio, e
ritengo che emerga proprio come manifestazione dell’Io grandioso detronizzato e dal tentativo di gestire la
vergogna del fallimento.

Questo aspetto strutturale, l’ambizione, il non interesse per le relazioni intorno a lui, il non riconoscimento
della propria responsabilità, la recriminazione e la vittimizzazione sono elementi che minacciano il processo
di desistenza. Il detenuto sembra aver architettato un piano alternativo per la ricostruzione del proprio sé of-
feso piuttosto che aver rielaborato su un piano più morale i propri crimini.

Ciappi afferma che chi possiede una trama somatica anche durante il colloquio cercherà di mettere in mostra
le proprie capacità in modo teatrale: il detenuto si lancia in racconti epici dove mette in risalto le proprie abi-
lità, racconta i propri successi, sempre frutto del proprio impegno personale, si dimostra abile
nell’argomentazione, spesso lanciandosi in monologhi sull’ingiustizia del sistema e della propria pena. Ed è
proprio questo tema che il soggetto sceglierà come titolo per la propria storia: “la grande ingiustizia”. Al mio
commento che avrei dato come titolo “la grande rivalsa” considerando gli elevati obiettivi raggiunti e le
soddisfazioni, l’intervistato teatralmente commenta che con la pena all’ergastolo non sarà mai possibile par-
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lare di rivalsa. La testimonianza dell’intervistato apre comunque alla riflessione se non sia da considerare la
severità della pena come fattore che incida negativamente sulla percezione di se e del proprio futuro, in linea
con quanto riportato dal condannato.

A livello di controtransfert posso dire che durante gran parte del colloquio ho avuto la sensazione che il de-
tenuto fosse distante, mi sembrava di sentire i suoi discorsi in lontananza come se mi trovassi fuori dalla
stanza dietro un vetro; anche su un piano emotivo ho avvertito una certa piattezza, addirittura indifferenza.
Mi è difficile dire con certezza la fonte di questo distacco. Forse da un lato è subentrato un mio tentativo di
difendermi dalle emozioni negative d’ira dell’intervistato e forse anche di allontanare dalla coscienza una
mia simile tendenza alla misantropia e all’individualismo. Dall’altro forse è stato l’intervistato stesso a te-
nermi fuori, a distanza frapponendo un vetro tra di noi con il suo atteggiamento freddo e distaccato di chi
non è interessato ad entrare in relazione. Inoltre a pensarci bene la rabbia non era espressa con le pupille di-
latate, un volume elevato della voce e fremiti alle narici; piuttosto era calcolata, il volto imperturbato e cal-
mo come chi abbia preparato un’arringa dove ogni accusa atroce può essere esposta sapientemente e senza
eccessi emotivi. D’altra parte questa immagine ritorna quando il detenuto riporta di aver ottenuto una laurea
in giurisprudenza, tra le tante, e di aver sempre voluto essere “l’avvocato dei poveri”.

L’illustrazione in Figura 16 mostra diverse caratteristiche individuate dell’intervistato: l’isola rappresenta il


detenuto estremamente ricco di qualità e di talenti, che vengono esibite in un tripudio di colori come uno
spettacolo pirotecnico; l’esplosione vulcanica rimanda alla rabbia recriminatoria e alla frustrazione della
propria grandiosità dell’io a seguito dell’incarcerazione. Tuttavia il soggetto ha scelto di costruire il proprio
mondo fantastico su un’isola inaccessibile a tutti, mantenendo la possibilità di metterlo in mostra senza farsi

Figura 16: immagine tratta dal libro illustrato “Du og Jeg”, di Synne Lea e Stian Hole (2018)
(http://www.periskop.no/poesi-for-alle-aldre/)

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avvicinare troppo. La speranza è che l’intervistato nel corso della vita costruisca nuovi ponti così che il
mondo possa approdare su quest’isola e trarre beneficio dai suoi frutti.

• Intervistato #4: Il senso della libertà

L’ultimo intervistato presenta un numero altissimo di sequenze di redenzione (22): gratificazione (7), rifigu-
razione (4), speranza (5), generatività (4) e responsabilizzazione (2). Vi è una sola sequenza di condanna
della categoria della vittimizzazione.

È interessante notare che solamente 2 delle sequenze di redenzione presentano uno scarto da una situazione
negativa che diventa positiva; questo dato rende evidente una delle caratteristiche principali di questa inter-
vista: il tono “up” della narrazione e l’esposizione del detenuto sembrano eccessivamente positive, e le rare
volte che eventi negativi o emozioni emergono, essi vengono gestiti rivolgendo la narrazione al positivo.
Questa modalità di manifestare, gestire emozioni e attribuire significati ricorda l’ipercontrollo della trama
fobica, di cui parleremo meglio più avanti; emerge ancora una volta come la trama incida fortemente sulla
narrazione: “Non è stata una novità per me, sapevo che un giorno o l’altro avrebbero potuto arrestarmi, ero
pronto. Conosco le carceri di mezza Europa. Ho scelto la vita, per me non è stata una novità (il carcere), ho
affrontato qualsiasi pericolo (nei suoi viaggi) per questo vivo bene dentro di me. Sono uno che si adatta,
cerco sempre di vivere meglio che si può. Vorrei andare in un posto caldo se potessi”.

Come si nota da questa sequenza in cui parla della vita in prigione all’inizio, l’intervistato tende a enfatizza-
re gli aspetti positivi. Non si sofferma, ad esempio, su come era stato il carcere la prima volta, ma sceglie di
parlare della “vita” ritrovata quando i pericoli erano già alle spalle. Inoltre, nel corso dell’intervista,
l’intervistato curiosamente non fa alcun riferimento al reato commesso, parla solo della sua scelta di entrare
in carcere dopo anni di latitanza per guadagnarsi la “libertà” e smettere di scappare; non è stato quindi pos-
sibile applicare la codifica con Schönbach (1990).

A livello di traiettorie emotive troviamo emozioni di felicità, pace e orgoglio; tuttavia risulta difficile inter-
pretare tale protocollo con questa teoria in quanto l’esplosione di entusiasmo e la mancanza di emozioni ne-
gative in risposta a temi che rattristerebbero chiunque, spinge a chiedersi se l’intervistato sia autentico o na-
sconda qualcosa, lasciando all’intervistatore il beneficio del dubbio.

Applicando il metodo narrativo-relazionale è stato possibile individuare la trama del soggetto; come si ac-
cennava egli presenta una trama fobica con modalità overt. Il tema centrale è proprio la minaccia e, come si
accennava, l’individuo fobico adotta massicciamente meccanismi di difesa per controllare gli stati negativi.
Il soggetto ad avviso di chi scrive è dotato di intelligenza, di un carattere positivo, abilità interpersonali ma
soprattutto molto abile nel mobilitare le difese dell’Io (troviamo difese come l’intellettualizzazione, la su-
blimazione, l’isolamento dell’affetto); ogni stato negativo viene infatti evitato, minimizzato o ribaltato in
positivo e controbilanciato. Talvolta attraverso un’esasperazione degli elementi positivi adotta la tecnica del
diversivo, come un pavone che agiti la propria coda in un tripudio di colori per distrarre la belva dai piccoli.
90
D’altra parte la “scarsa memoria-fobica” e tale maestria difensiva risulta per la maggior parte del tempo
adattiva e contribuisce a mantenere l’atteggiamento entusiasta e propositivo e curioso dell’intervistato. Ad
esempio, alla mia domanda di rievocare un ricordo della sua infanzia negativo, “misteriosamente” ha conti-
nuato il discorso come se non avessi posto la domanda.

Nella modalità covert Ciappi richiama il concetto di compenso controfobico, in cui nell’individuo il deside-
rio di esplorazione si esaspera. Chi ha una trama fobica non si mostra ansioso, ma cerca di dimostrare la
propria indipendenza, esorcizzare le paure, sfidando se stesso e dando l’impressione di avere il controllo su
tutto. L’intervistato appare quindi “ipercontrollante”; sottolinea più volte infatti di avere sempre il controllo
della situazione, di avere consapevolezza di quello che sarebbe accaduto, di essere sempre stato agente del
proprio destino, che niente lo colga di sorpresa. Infatti utilizza spesso verbi come “scegliere”, “sapere”, “me
lo aspettavo”.

Tale decisione nel ribadire che si ha tutto sotto controllo forse è un segno del terrore di perderlo. Ricercare
un senso di controllo su se stessi, difendersi da ogni possibile squilibrio, per cercare costantemente di antici-
pare, prevedere ogni minaccia, ogni situazione indesiderata e non percepirsi deboli: sembra essere questo il
motore principale del viaggio che è la narrazione dell’intervistato.

Ma l’ansia evacuata forzatamente fa capolino in una narrazione ipereccitata, spesso ridondante e non lineare,
oscillante da un argomento all’altro, proprio come identifica Ciappi nelle trame fobiche. Un esempio potreb-
be essere individuato nel susseguirsi di molteplici temi citati nella richiesta di individuare un unico valore
portante della propria storia: “La vita, non c’è altro. Sono nato per vivere. Scoprire, vivere, parlare con la
gente, comunicare, praticare tutti i tipi di persone bambini, anziani. C’è sempre da imparare. Tutti i giorni
imparo qualcosa. Non bisogna mai fermarsi, mai darsi per perso. Adesso ho la pace, il tempo, il lavoro, so-
lo poco silenzio nelle sezioni”. Si intuisce la centralità di tali constatazioni nel contesto della presente ricerca
in quanto appare evidente che il funzionamento e la trama individuale possono modellare anche risposte di
agentività, padronanza e soddisfazione a prescindere del processo di cambiamento avvenuto nella persona.

Un’altra caratteristica della trama fobica specialmente in modalità overt, ben rappresentata nel vissuto
dell’intervistato, è il profondo e strutturale desiderio di libertà e come ricorda Picardi et al. (2004) da una
“marcata insofferenza ai vincoli e agli obblighi, sia sul piano concreto che su quello astratto”; infatti si nota
nell’intervistato la difficoltà a gestire le situazioni di costrizione, presenta atteggiamenti ambivalenti e ha la
tendenza alla ribellione e alla fuga. Esempio emblematico è l’esperienza di latitanza protratta per anni in tut-
ta Europa e dal travaglio interiore nel decidere se continuare a scappare o costituirsi per scontare la pena
guadagnando così la vera libertà: “La svolta è stata dopo molto travaglio con me stesso, dall’ultimo arresto.
Sono evaso più volte, è stato un combattimento con me stesso decidere di scontare la pena, ero combattuto
tra stare con la mia compagna e scontare la pena. Poi sono capitato a Padova, mi hanno offerto un lavoro
che altre carceri non offrono. A questo punto ho rotto le contraddizioni, ho deciso: “Basta, finisco la pena
ed esco libero”. La contraddizione era abbandonare gli affetti se scontavo la pena. Finisco la mia pena
tranquillo, ora posso combattere qualsiasi cosa”. Tuttavia si può parlare di oscillazione fobica in quanto la
91
persona alterna il bisogno di protezione a quello di esplorazione. Il bisogno di protezione emerge soprattutto
facendo riferimento a relazioni significative che spesso vengono idealizzate. Nel protocollo troviamo nume-
rosi esempi di eccessivo rilievo dato alle persone, un altro elemento tipico delle trame fobiche. Rientra nel
bisogno di vicinanza e di controllo anche cercare di instaurare confidenza con l’interlocutore.

Il detenuto mostra una grande considerazione per la sottoscritta, a tratti tuttavia risulta eccessivamente empa-
tico, quasi seduttivo; utilizza infatti molti intercalari per rafforzare l’esposizione e rendere partecipe
l’interlocutore. D’altra parte Ciappi nota che la seduttività è spesso messa in atto per controllare la situazione
e per evitare il giudizio degli altri allo scopo di nascondere un senso di sé fragile e vulnerabile e farsi corag-
gio. Infatti ho l’impressione che quando parla della sua capacità di padroneggiamento della situazione stia in
realtà cercando di rassicurare se stesso; affermando “posso combattere qualsiasi cosa” intende auto incorag-
giarsi: “Ce la puoi fare, hai tutto ciò che serve per affrontare ogni pericolo”. Con questo non si intende dire
che ciò sia un meccanismo negativo, anzi potrebbe essere un primo passo verso un ritrovato senso di pace e
normalità.

Il controtransfert molto positivo probabilmente è dettato anche da elementi personali; infatti anche chi scrive
presenta probabilmente una trama controfobica; sono contagiata dal suo entusiasmo, dall’energia, dalla posi-
tività, dalla voglia di vivere, dall’irrequietezza di chi ha difficoltà a stare agli schemi e alle regole. D’altra
parte provo disagio di fronte all’eccessiva confidenza, oscillando a mia volta secondo un’ottica controfobica.
È importante conoscere la propria trama se si va ad indagare quella degli altri ed essere consapevoli che
l’affinità giocherà un ruolo importante nel modo in cui valutiamo, come ricorda Petersen nella sua teoria del-
la ricalibrazione e del controsfruttamento.

Alla fine dell’intervista mi ringrazia e mi abbraccia perché si è sentito compreso, poco importa se sia desi-
stente per davvero o per trama, ciò che è certo è che questa persona dall’animo che obbedisce al cielo, al
senso di avventura, un gabbiano avventuriero, come gli dirò durante l’intervista, si sente libera pur essendo

Figura 17: immagine tratta dal libro illustrato “Du og Jeg”, di Synne Lea e Stian Hole (2018)
(https://www.boktips.no/barneboker/du-og-jeg/)

92
in carcere.

I temi che ricorrono maggiormente e centrali per l’intervistato e il suo andamento nel viaggio della narrazio-
ne e della vita, sono ben rappresentati nell’illustrazione in Figura 17; il volo libero dei gabbiani, la costrizio-
ne della rete, una vita che genera come una pianta in fiore, una barca sempre in movimento, che porta con sé
il cielo ovunque vada. Nella scia della barca si staglia un cielo azzurro con le nuvole bianche, ma esso si im-
pone nella sua versione notturna anche dietro a finestre chiuse; come dice l’intervistato stesso, “il cielo può
arrivare persino dietro le sbarre”. In fondo non si capisce se la rete venga gettata per sbarazzarsene, o per
sfruttare la sua superficie e trasformarla a proprio vantaggio in una vela. In altre parole si introduce l’idea
che essere liberi sia solo una questione di prospettiva, o in altre parole una questione di attribuzione del si-
gnificato. Emblematico il titolo scelta dal detenuto per descrivere la propria storia: ripercorre le tappe della
sua vita, sembra aver messo in luce che la sua intera esistenza altro non è che una ricerca del “senso della li-
bertà” tra esperienze di fuga come nella latitanza e di costrizione come il carcere. Ancora più interessante
notare che proprio la narrazione sembra poter fornire un tentativo di risposta, attribuire appunto un senso alla
libertà.

93
CONCLUSIONI

In conclusione, le ipotesi esposte nel corso della tesi e le domande di ricerca enunciate nel terzo capitolo
(p.67) sono state considerate sia da un punto di vista teorico che sperimentale.

Nel presente elaborato si svolta un’intervista a quattro detenuti lavoratori nella casa di reclusione Due Palaz-
zi di Padova. L’analisi dei dati così ottenuti da un lato ha confermato alcuni risultati risalenti a ricerche pre-
cedenti centrate sulla positività del lavoro nel benessere psicologico dell’individuo (p.64), pur apportando
dei risultati complementari ed innovativi.

Riassumendo la domanda di ricerca enunciata nel terzo capitolo (p.67):

➢ Da un lato, si era interessati a individuare i possibili elementi catalizzatori a sostegno della riabilita-
zione del detenuto e l’avvio di processi di desistenza dal crimine e a capire se il lavoro potesse rap-
presentare uno di questi elementi a favore della riabilitazione e della desistenza.

➢ Dall’altro si voleva investigare l’identità narrativa implementando un approccio psicodinamico ai


modelli esistenti, proponendo un’indagine più completa dei processi di desistenza; dall’altro creare
una mappatura delle caratteristiche individuali al fine di strutturare una possibile individualizzazione
di un percorso riabilitativo, in linea con i principi presentati nel capitolo 2 (p.28).

Per ottenere tali informazioni si sono utilizzati svariati metodi presi dalla letteratura esistente combinati e
ampliati in modo personale, ad esempio partendo da quello di Mc Adams, applicato poi in ambito crimino-
logico da Maruna (2001), per poi passare al metodo narrativo-relazionale di Ciappi (2019) a stampo psicodi-
namico.

Si è messo in luce che nessun tentativo classificatorio potrà eliminare il fatto che ogni individuo resta unico
e irripetibile, a patto che venga scelto un metodo capace di mantenere le peculiarità e la ricchezza di ogni
singolo contributo. L’eterogeneità e unicità dei risultati ottenuti sembra sostenere la validità del metodo nar-
rativo impiegato e al tempo stesso dimostrare la validità delle teorie sulla desistenza e sull’identità narrativa

Non possiamo cambiare il nostro passato, o trasfigurare completamente le nostre caratteristiche personali,
ma grazie alla natura fluida e malleabile dell’identità sarà sempre possibile, almeno per riappropriarsi del fi-
lo rosso, e quindi riacquistare un senso di integrità e rafforzare o ricostruire la propria identità. Da un tale
94
approccio la persona può trarre grandi benefici, sia in contesti terapeutici dove è nato il metodo ma anche at-
traverso una semplice intervista come quella che è stata svolta. Ripercorrendo le tappe significative della vi-
ta, rievocando pensieri, ricordi, emozioni antiche e dando un titolo alla propria storia sarà possibile rintrac-
ciare la propria trama di vita

Per il futuro sarebbe interessante verificare in primis verificare il metodo di analisi esposto nei confronti di
un campione statisticamente più significativo. Appurato che il metodo ha portato dei risultati positivi per
quattro detenuti lavoratori, quindi, sarebbe utile estendere il modello ad altri detenuti, anche non lavoratori
per verificare meglio se il lavoro in carcere abbia un impatto sui processi di desistenza dal crimine. Inoltre,
come d’altronde inizialmente pianificato, si potrebbe estendere il campione in vista di uno studio transna-
zionale che coinvolga anche i detenuti del carcere di minima sicurezza di Bastøy. Ciò permetterebbe di stu-
diare il fenomeno dell’identità narrativa anche in relazione a condizioni di detenzione e culture diverse.

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101
APPENDICE

Appendice A1
Il protocollo dell’intervista
A. Introduzione

Buongiorno, la ringrazio per essere qui ed aver accettato di partecipare a questa intervista. Per cominciare le
riassumo in poche parole in cosa consiste la mia ricerca per darle un’idea di cosa faremo insieme oggi.
Io raccolgo le testimonianze e le storie delle persone che intervisto per cercare di capire il loro punto di vista
e il significato che danno alle cose e agli avvenimenti della loro vita.
Quindi questa mattina sono qui per ascoltare quello che lei vorrà raccontarmi su di lei e sulla sua storia.
Ho preparato all’incirca una decina di domande e il tempo che abbiamo a disposizione sarà di circa tre quarti
d’ora.

Le chiederò di parlarmi di alcuni eventi della sua vita che di solito sono centrali nella vita di una persona, ad
esempio perché particolarmente positivi, negativi o importanti.

Non si preoccupi sarò io a guidarla durante tutta l’intervista e a chiederle di approfondire gli aspetti che mi
interessano: per il resto lei pensi soltanto a rilassarsi e raccontare la sua storia.
Se lei è d’accordo prenderò appunti durante tutta l’intervista per concentrarmi meglio e per ricordare quello
che ci siamo detti, ma sappia che la ascolterò molto attentamente.
Spero le piacerà fare questa intervista e ricordi che tutto quello che mi dirà rimarrà anonimo e confidenziale
e potrà dirmi in tutta libertà ogni sua esigenza o dubbio.
Ha qualche domanda prima di iniziare?

B. Key events in the story life


1.High point. Per cominciare vorrei che mi descrivesse quello che lei considera essere il ricordo migliore
che ha in assoluto, un momento particolarmente felice o significativo nella sua vita

2. Low point. Ora al contrario provi a raccontarmi l’esperienza che lei considera uno dei momenti peggiori
della sua vita in cui ha provato emozioni particolarmente negative come ad esempio disperazione, terrore,
paura, colpa.

3. Turning point. Le chiedo ora di pensare quale possa essere nella sua vita un momento di svolta in cui ab-
bia sperimentato un cambiamento estremamente importante nella sua vita, ma soprattutto in lei come perso-
na.

4. Childhood memory. Vorrei che mi raccontasse ora un ricordo particolarmente positivo, felice o importan-
te della sua infanzia (/vita adulta) o uno particolarmente negativo che le è rimasto impresso

D. Influences and significant relationships on the Life Story


In alternativa:
5. Relationship with the parents. Ora vorrei chiederle se lei è d’accordo se mi può descrivere il rapporto che
aveva con ciascuno dei suoi genitori, se vuole scegliendo alcuni aggettivi e citando episodi a conferma di
quanto racconta?
102
5. Significant relationship. Descriva una relazione molto significativa per lei, non per forza amorosa, che ha
avuto o ha attualmente. Può anche descrivermi una relazione complicata o che è finita per qualche ragione.

E. Present life and work.


Dopo aver parlato di alcuni eventi del suo passato vorrei farle ora qualche domanda riguardante al presente.

6. Everyday life.
6.1 Mi racconti come vive la sua giornata, cosa fa, come si sente specificando un episodio positivo della set-
timana e uno negativo.
6.2 cosa rappresenta per lei il lavoro?
6.3 Che effetti/impatto ha avuto sulla sua vita in carcere e sulla sua persona cominciare a lavorare?

7. Life in prison at the beginning.


7.1 Vorrei che mi descrivesse il momento in cui è arrivato in carcere; come si trovava, come si sentiva e co-
me si svolgevano le sue giornate nel primo periodo.
7.2 Nota qualche differenza tra la sua vita in carcere o nella sua persona di allora e quella attuale? Se sì qua-
le e perché?

8. Actual identity.
Come descriverebbe la sua persona oggi? Se preferisce con qualche aggettivo e un esempio a sostegno di
quanto racconta.

F. Alternative future.
Ora vorrei che visualizzasse cosa vede pensando al suo futuro, come immagina in modo realistico come po-
trebbe essere il prossimo capitolo della sua storia. Le chiederò di raccontarmi due alternative possibili.

9. Negative future.
9.1 Ora provi a pensare a un futuro altamente indesiderato, un futuro che lei pensa potrebbe accadere ma che
desidera fortemente non si verifichi.
9.2 Cosa farebbe/direbbe la persona che è oggi al suo sé del futuro per impedire che questo futuro indeside-
rato si realizzi?
9.3 Come la fa sentire pensare a questo futuro possibile?

10. Positive future; life project, plans, hope and dreams.


10.1 Ora invece provi a pensare a un futuro che lei desidera fortemente per sé.
10.2 Facendo riferimento a un singolo ambito o alla sua vita in generale mi parli di speranze, desideri che lei
ha per sé e se ne ha specifichi quali obiettivi, piani o progetti spera di realizzare.
10.3 Perché quello che mi descrive lo ritiene importante e desiderabile per lei?
10.4 Come la fa sentire pensare a questo futuro possibile?
10.2 Che consigli/raccomandazioni farebbe la persona che è oggi al suo sé del futuro per potersi avvicinare
a questo futuro che lei desidera?

G. Single value.
11. Saprebbe dirmi cosa per la vita di una persona e soprattutto per lei oggi ha più importanza, quel valore,
quell’elemento irrinunciabile, fondamentale ed estremamente positivo? Ad esempio quel qualcosa che la fa
andare avanti, che le da motivazione, soddisfazione, coraggio, conforto, fiducia, speranza, un senso alla sua
vita.
(Come è giunto a questo pensiero/idea?)

H. Life Theme.
Mi ha raccontato moltissime cose sulla sua vita. Vorrei che ora lei provasse a pensare alla sua storia come
fosse un libro per provare ad avere una visione d’insieme della sua vita.
103
12.1 Se dovesse dare un titolo al libro della tua storia quale sarebbe?
12.2 Ritiene che ci sia un filo rosso che percorre tutta la sua storia, un tema o un messaggio centrale che una
persona potrebbe trattenere leggendo il libro della sua storia?
(Come è stato per lei pensare alla sua vita in questi termini, come se fosse un libro così come me lo
ha appena descritto? Come si è sentito?)

I. Conclusion. Abbiamo finito ora, la ringrazio di cuore per il suo tempo e la sua disponibilità a rispondere a
tutte le mie domande, è stato un vero piacere conoscerla ed ascoltare la sua storia.

104
Appendice A2
Schema dei codici dal capitolo 2 per l’analisi dei dati

105
106
Appendice A3
Esempi di implementazione dei codici alle sequenze narrative con Atlas.ti

Esempi di tabelle di “co-occorrenza di codici” e tabelle “codice-documento”

107
Appendice A4
Schema delle trame narrative individuali e stili narrativi (Ciappi, 2019)

108
109
Appendice A5
Teoria delle Attribuzioni (Maruna, 2001)

110
Appendice A6
Intervista a Arne Kvernik Nielsen ed Ekaterina Bagreeva
Arne ed Ekaterina, vorrei ringraziarvi per il vostro tempo e per avermi permesso di realizzare questa intervista. L'in-
tervista verrà registrata e rimarrà sempre riservata, salvo diversa disposizione da parte vostra. I contenuti emersi sa-
ranno rielaborati, tradotti in lingua italiana e allegati alla mia tesi dal titolo “Identità narrative e processi di desi-
stenza dal crimine in un gruppo di detenuti lavoratori in carcere”.

Arne ed Ekaterina, prima di tutto, vorrei chiedervi di parlare di voi, dei vostri interessi, delle ricerche ed esperienze
nel campo della giustizia penale e della psicologia criminale. In particolare quale è stata la ragione o il percorso che
vi ha portato a lavorare in questo settore e a diventare collaboratori.

Arne: Negli ultimi anni ho scritto molto su questo argomento. Perché sono stato coinvolto in questo lavoro? Non ne
sono sicuro, ma è andata a finire che ho lavorato tutta la vita con i detenuti e delinquenti in custodia, in carcere e dopo
il rilascio. In realtà, ho più di 40 anni di esperienza lavorativa nel campo correzionale, ma solo 25 come parte dei ser-
vizi di esecuzione della pena. Durante il mio lavoro (ho anche un background come ministro in chiesa) sono stato cap-
pellano di una prigione, ho lavorato come psicoterapeuta, sono stato un direttore di una prigione e ho lavorato come
consulente per il ministro della giustizia norvegese.

Dalla mia esperienza, come molti altri, ho scoperto che la prigione, se sfruttata solamente come strumento per confina-
re le persone che rappresentano una minaccia per il resto della società, non sembra funzionare. Pian piano, durante
questi anni, pur ricoprendo diverse posizioni, credo di aver perso fiducia nella punizione come unico strumento di ria-
bilitazione. Piuttosto ho scoperto che si commettono molti errori quando si gestisce questa “minaccia per la società”.
Perciò ho iniziato a guardare ad una direzione più umanistica: alla psicologia e al modo in cui trattiamo e ci relazio-
niamo con i detenuti quando sono in prigione. Di questa direzione ne parlerò più avanti insieme ad Ekaterina.

Ekaterina: So esattamente perché sono finita qui: mia madre è professoressa di criminologia e anche mio nonno era
professore, quindi andavamo sempre da una prigione all'altra mentre lei scriveva la sua tesi. Pertanto, ci ero abituata e
mi chiedevo sempre in che modo queste persone dietro le sbarre fossero diverse da me, o se lo fossero affatto. Ero in-
teressata a trovare un modo per riabilitarle, così ho iniziato a studiare psicologia. Ho seguito, in particolare, il campo
della psicologia criminale e stavo studiando per diventare un terapeuta Gestalt. Io ora credo che molte delle cose che
stavo studiando non mi soddisfacessero abbastanza, quindi ho deciso intraprendere la strada dell’analisi comparativa,
in particolare tra sistemi penitenziari nei paesi scandinavi e in Russia. È così che sono entrata in contatto con Arne. In
questo campo gli argomenti di interesse per me sono: le ragioni e modalità coinvolte nel commettere un crimine e co-
me avviene il processo di riabilitazione, soprattutto come fenomeno sociale.

Arne ed Ekaterina, potete parlarci del sistema penale e degli istituti di detenzione in Norvegia?

Nello specifico, ci interessa conoscere la vostra opinione sul cosiddetto “eccezionalismo penale” che, secondo i me-
dia, caratterizza il sistema penale scandinavo. Spesso i giornali e anche le ricerche di tutto il mondo guardano al-
la “stella polare” del vostro sistema penale, come un esempio da cui tutti dovrebbero imparare. Molte volte citano
111
prigioni aperte senza recinzioni, coltelli nelle aree comuni della cucina, istituzioni penali danesi con donne e uomini
incarcerati nello stesso istituto. Dei paesi nordici colpisce molto anche il basso tasso di incarcerazione e l'attribuzio-
ne di condanne relativamente brevi, la Norvegia infatti, ad esempio, è uno dei pochi paesi in Europa dove l'ergastolo
non è in uso.

Vista la vostra esperienza sul campo, anche all'estero, ritenete che ci sia una reale differenza nel sistema scandinavo
in termini di diritti rispetto al resto d'Europa? Pensate che i detenuti in Norvegia percepiscano effettivamente questa
differenza? Avere e/o percepire più diritti implica maggiori vantaggi per i detenuti sul loro benessere e sui processi
coinvolti nella desistenza dal crimine?

Arne, Stai sollevando così tante questione e domande interessanti. Dopo aver conosciuto gli istituti di detenzione di
numerosi paesi europei posso dire di trovarmi in linea con ciò a cui ti riferisci. Credo sinceramente che le carceri in
Norvegia siano probabilmente ed attualmente le migliori al mondo, o almeno rispetto agli altri paesi che ho visita-
to. Ricordiamoci che la Norvegia è un paese molto ricco e i diritti civili sono gestiti molto meglio che nella maggior
parte degli altri paesi. Quando si tratta di diritti civili, tutti mantengono gli stessi diritti: diritto al lavoro, istruzione,
servizi sanitari, ecc. In questo senso sono d'accordo con te, abbiamo fatto un ottimo lavoro: l'istituzione, gli edifi-
ci in sé, la formazione delle guardie ed altri fattori sono più curati rispetto ad altri paesi. Per quanto mi risulta la media
di pena detentiva è di circa 3-4 mesi, difficilmente ci crederesti se venissi da un altro paese Europeo.

Detto questo, quando si guarda alla “ruota del cambiamento”, modello che Ekaterina ed io abbiamo sviluppato e di cui
parleremo in seguito, ci fa capire che tutto questo che ho menzionato non importa. Ci sono delle sfide più importan-
ti, in particolare mi riferisco alla sfida di trasformare una prigione, da un sistema in cui rinchiudere le persone, quindi
da un istituto statico ad un organismo dinamico. Ora fammi parlare un po' male della mia gente. Pensiamo di essere
molto bravi e siamo visti come molto bravi dagli altri, ma ho lavorato molto all'estero e introdotto questo modello di
cui ti parlavo in altri paesi e mi è risultato che gli altri fossero più interessati ed aperti. Le statistiche mostrano che ab-
biamo un'istruzione migliore, ecc., ma quando si tratta di certe cose mi spaventa, siamo molto indietro rispetto a dove
dovremmo essere. Questa è la mia esperienza, le persone qui non sono così aperte a questo cambiamento perché pen-
sano di essere già arrivate.

Ad esempio ti riferivi alle nostre “prigioni aperte”. Devi sapere che nel corso degli ultimi 5 anni l’attuale governo ha
chiuso alcune piccole prigioni aperte costruendo invece nuove carceri tradizionali a massima sicurezza. In questo pae-
se si va avanti e indietro continuamente, a seconda dei partiti al governo. So anche di altri paesi, ma preferisco parlare
solo del mio.

Ekaterina: In merito alla domanda sui diritti e le differenze devo dire che hai ragione. Nel mio caso posso fare
un confronto con la Russia. Gli standard tecnologici del carcere, la pulizia dell'ambiente, l’illuminazione, l'opportunità
di uscire, le strutture, tutto questo conta, ovvero ha un impatto sul piano psicologico rispetto ad essere seduti in una
scatola buia. Inoltre, nelle carceri di massima sicurezza norvegesi, ti viene servito un pasto alla sera, ma la colazione e
il pranzo devi prepararli tu stesso, non è come essere alla scuola materna. Devi prenderti cura della tua stanza, devi
partecipare in modo attivo e pacifico alle relazioni, altrimenti rimani escluso. Quindi, penso che l'ambiente abbia molti

112
effetti positivi. Inoltre in Norvegia c'è una grande varietà di corsi diretti a dare al personale una certa comprensione
della psicologia di base coinvolta nelle dinamiche con i carcerati.

Pensa poi che nelle carceri norvegesi c'è un numero molto elevato di donne che lavorano: il 40%, una quantità enor-
me! Recentemente ho parlato con uno dei principali psicologi della NASA su come scegliessero chi inviare nello spa-
zio. Mi ha detto che da quando hanno iniziato ad avere donne nel gruppo, la rabbia e il comportamento aggressivo e
alcune altre conseguenze psicologiche negative sono diminuite, generando un effetto stabilizzante nel gruppo. Con
questo voglio dire che quello che bisogna portare in carcere non è certamente una dimostrazione di potere, quan-
to piuttosto cura e comprensione. I detenuti sentono tutto ciò? Lo percepiscono come un diritto? Io penso di sì, lo per-
cepiscono sotto forma di speranza, fiducia e motivazione. Tutto ciò favorisce il loro processo di riabilitazione e desi-
stenza dal crimine.

Arne, in un'intervista ha affermato che "perdere la libertà è una punizione sufficiente - una volta in custodia dovrem-
mo concentrarci sulla riduzione del rischio che i delinquenti rappresentano per la società dopo aver lasciato la pri-
gione". Sono d'accordo con questo approccio che lei mette in evidenza e vorrei chiederle di più in merito.

• Può riferire quali fattori l’hanno portata e la stanno portando a questa filosofia sulla punizione a cui
si riferisce nella dichiarazione?
• Può spiegare più nel dettaglio l’affermazione che "perdere la libertà sia una punizione sufficiente"
? Può specificare cosa accade alla persona sul piano psicologico in questo contesto?
• Può specificare quali siano i fattori che lei ha riscontrato nella sua esperienza che hanno facilitato la
rieducazione degli individui?secondo la sua esperienza ritiene che ci siano dei passaggi psicologici neces-
sari all’individuo per essere risocializzato?

Arne: Prima in questa intervista si diceva che la Norvegia è uno dei pochi paesi in Europa in cui l'ergastolo non è in
uso. A mio avviso, non è possibile tenere un detenuto in prigione per il resto dei suoi giorni con le mani in mano, per-
ché un giorno, coloro che erano stati rinchiusi per mesi o anni, ritorneranno ad essere vicini di casa, membri della co-
munità. Questo pensiero pone un problema che mi sta molto a cuore.
L'unico motivo per cui la persona deve essere rinchiusa è che potrebbe rappresentare una minaccia per la società.
Quindi, in alcuni casi, l'unico modo per far fronte a questo problema è rimuovere la libertà. Anche le regole del Consi-
glio d'Europa affermano molto chiaramente che la punizione stessa è la perdita della libertà, punto. Tuttavia, allo stes-
so tempo, bisognerebbe assicurarsi che la punizione non li renda una minaccia maggiore nel giorno in cui torneranno a
vivere nella società. Durante la mia esperienza lavorativa ho incontrato molti detenuti in giro per il mondo e ho ascol-
tato la loro testimonianza di come fossero cambiati non in meglio, ma in peggio.

Permettimi di fare un esempio. Alcuni anni fa, quando ero psicoterapeuta a Bastøy, prima di diventare direttore, incon-
travo molti detenuti provenienti sia da prigioni “semi-aperte”, che di massima sicurezza. Ricordo, in particola-
re, un certo uomo che aveva passato troppo tempo in custodia, in una cella di piccole dimensioni. L’isolamento pro-
lungato aveva generato in lui la paura di essere rinchiuso. Ho lavorato con lui nel mio ufficio, di solito chiudevo la
porta e lui, seduto lì, incominciava a tremare e sudare, non poteva sopportarlo. L'altro sintomo particolare è che quan-
113
do arrivò nell'isola, avendo un sacco di libertà, improvvisamente sviluppò quella che si definisce “ansia sociale”. Non
era in grado di gestire la libertà. Non è difficile immaginare che, se rilasciato immediatamente, questo indivi-
duo avrebbe potuto essere una minaccia per la società. Ecco perché ho sempre considerato Bastøy come un luogo di
guarigione per curare le ferite che i detenuti ricevevano dallo Stato nelle prigioni di massima sicurezza. Ed ora capisci
perché penso che l'ufficiale penitenziario come tutti noi dovremmo tenere sempre presente che la punizione non può
essere altro che la riduzione della libertà dell’individuo; tranne per questo, i carcerati dovrebbero essere trattati come
esseri umani, perché hanno il diritto di essere trattati come tali. Al contrario, la maggior parte dei sistemi carcerari, a
causa della mancanza di istruzione e della mancanza di attenzione per la psicologia e altre scienze umane, ha sviluppa-
to un ambiente che è diventato parte della punizione.

Ho avuto molti detenuti che dicevano che la perdita della libertà non è la pena peggiore quanto la perdita del rispet-
to, questo fa capire del modo con cui vengono trattati. Se non si tratta la persona come un essere umano essa diventa, a
poco a poco, qualcosa d'altro. Niente di nuovo, no?! Quello che stiamo cercando di fare con il modello della “ruota del
cambiamento” è apportare alcuni principi che non sono nuovi, ma sono comunque essenziali. Se si rimuove uno di
questi principi di cui la ruota è costituita, secondo la metafora, la ruota si spezza. Ecco che tutti questi principi e stru-
menti servono per assicurarsi che una prigione, che infligge un limite in sé, possa divenire un luogo di cambiamento.

Ekaterina: Vorrei aggiungere alcune parole sul processo psicologico che si manifesta in una persona
nel contesto carcerario e sui passaggi necessari agli individui per essere risocializzati. Il processo psicologi-
co coinvolto è connesso a ciò che il crimine fa a una persona, perché quando capisci cosa fa il crimine alla persona che
lo ha commesso, capisci qual è la direzione da ripercorrere per tornare indietro, che tipo di strada bisognerebbe segui-
re. Quando la persona decide di commettere il reato si verifica un’interruzione, un conflitto che si manifesta a vari li-
velli: il primo livello è interpersonale; il secondo tipo di conflitto è tra una persona e il suo ambiente più vicino (la fa-
miglia, i colleghi e così via); in seguito a rompersi è il legame tra la persona e un livello di culturale sociale per cui es-
sa non si associa più agli standard morali locali; infine c'è un quarto livello che è la rottura con lo stato e la leg-
ge. Quindi, riabilitare è ripristinare la connessione, o meglio, prima identificarla e poi ripristinarla a tutti questi quattro
livelli.

Si intuisce che, perché ciò avvenga, bisogna partire dal conflitto interno. Senza l’aiuto della psicologia questo viene
raramente risolto. Come diceva Arne, il conflitto con le altre persone solitamente peggiora, e questa è anche conse-
guenza del processo di stigmatizzazione subito. Troppo spesso, purtroppo, la gente crede che per cambiare sia suffi-
ciente pareggiare il conto con la legge, ma tutte quelle connessioni interrotte potrebbero essere la base per un nuovo
crimine se rimangono irrisolte.

Ekaterina, nella tesi di dottorato lei ha scritto sul sistema penale e gli istituti detentivi in Norvegia e Russia. Alcuni
ricercatori (Petersen et al.) hanno affermato che esiste un alto livello di accordo interculturale sulla percezione della
gravità dei diversi crimini. Inoltre hanno individuato un alto livello di accordo interculturale sulla percezione del
criminale come potenziale membro positivo per la società. La loro teoria è che mentre la gravità del crimine regola la
severità con cui vogliamo punire, il valore positivo percepito del criminale come membro della società determina
quanto vogliamo sostenere la sua riabilitazione.

114
• Qual è la sua opinione rispetto a questa affermazione? Crede che ci sia una sorta di insieme di valo-
ri culturali "fondamentali" tra gli esseri umani che li fa reagire in modo simile rispetto al crimine?
• Lei crede che alcune culture siano più portate ad adottare la rieducazione rispetto alla punizione? Se
così, perché?

Ekaterina: La tua è una domanda molto complessa. Per fare chiarezza provo a rilanciare con alcune domande: “Esiste
una differenza culturale nel modo di concepire la giustizia?” Ma, per rispondere a questa domanda, è necessario chie-
dersene un'altra simile: “Esistono fenomeni culturali in grado di influenzare la percezione della giustizia nella socie-
tà?”

Cominciamo da quest'ultima: sì, ci sono alcuni fenomeni culturali che hanno un impatto. Ad esempio, il fattore reli-
gioso ha un enorme impatto sulla percezione della giustizia, della punizione e del crimine. L’impatto della religione
sulla cultura influenza il modo di concepire, in particolare, il “controllo locale”. Quest'ultimo è un concet-
to che esprime il grado di responsabilizzazione della società o dell'individuo nella società nei confronti del controllo
sulle proprie azioni e sul proprio destino. Ad esempio, alcune società (o individui) hanno la tendenza ad adottare
un “locus of control esterno”. Secondo una tale visione della realtà si tende a mettere in secondo piano la responsabili-
tà delle proprie azioni in quanto “è Dio che decide” e determina, indipendentemente dalle azioni individuali, il destino
della società (individuo). Dal lato opposto, ci sono alcune culture che tendono ad un “locus of control interno”. In tali
culture si affermerebbe piuttosto: “La responsabilità per essere in ritardo a lezione è mia”, oppure: “è colpa mia se non
ho trovato i mezzi per sostenere la mia ambizione” ecc. Si intuisce che il locus of control può essere influenzato dalla
religione. Per esempio in Russia abbiamo il cristianesimo ortodosso in cui il pensiero in merito alla colpa è: “fintanto
che chiedi perdono sarai perdonato”. La gravità del gesto, dunque, non si basa su quanto sia terribile l'atto quanto piut-
tosto sul fatto che “non chiedi scusa”. Altre culture, come quella scandinava, hanno un atteggiamento diverso,
è principalmente quello che hai fatto a determinare la gravità dell’azione.

Dunque, tornando alla domanda iniziale da me posta “C’è una differenza culturale?” la risposta è affermativa. Questa
differenza si può osservare anche nel concetto di “fiducia”. In Russia, ad esempio, nessuno si fida di nessuno, men-
tre in Scandinavia la fiducia non è un grosso problema, o almeno l'opinione diffusa è che il governo rappresenti al me-
glio il popolo.

Dunque, tornando alla tua domanda iniziale, fattori culturali, come ad esempio il locus of control o la nozione di ciò
che è giusto e ciò che non lo è, o la fiducia nei confronti di chi governa la società, influenzano la tendenza a scegliere
se punire o riparare. Come diceva Arne, penso che il sistema della giustizia è come un qualsiasi altro sistema: passa
attraverso delle onde di paradigma. Da un lato troviamo chi si concentra sulla riabilitazione: “questa gente ha fatto un
passo sbagliato, ma può tornare sulla strada e proseguire dritto”. Più tardi arriva un paradigma diverso in cui si sostie-
ne che “i criminali sono nati criminali e non importa quanto si mostri loro la strada giusta, torneranno sempre tra i ce-
spugli con un coltello in mano in attesa che qualcuno di noi passi per di lì”. Ciò accade in ogni società, ogni tendenza
sociale, va su e giù, e io non penso che ci sia una soluzione definitiva. Inoltre, paesi diversi non attraversano gli stessi
paradigmi contemporaneamente, quindi in Norvegia può seguire un paradigma basato su un approccio più umanistico,
115
mentre in Russia si segue un paradigma diverso. Mi chiedo a volte se questi diversi paradigmi ci porteranno una com-
prensione comune nel mondo. Difficile a dirsi.

Arne ed Ekaterina, recentemente avete lavorato assieme su “come trasformare una prigione statica in un organismo
dinamico” per il quale avete scritto un contributo nel “manuale di filosofia e scienza della punizione” ed in cui parla-
te del modello della “ruota del cambiamento”. Potreste spendere qualche parola su questo progetto? Potreste antici-
pare un po' di ciò che verrà pubblicato nel manuale, concentrandoti su ciò che non è stato ancora detto in questa in-
tervista?

Arne: Credo che avremo sempre prigioni finché saremo su questa terra. Dunque per noi è stato fondamentale com-
prendere che le carceri dovrebbero essere concepite, sviluppate e disciplinate come un “organismo”, invece di un “ente
statico”. Il motivo principale è che il carcere è fatto di detenuti, ma anche di personale. Il nostro contributo è, quin-
di, di concentrarci di più sul personale. Un sacco di ricerca è stata effettuata sui detenuti, vale a dire su come possiamo
cambiarli, ma perché non si parla altrettanto del personale, visto che costituisce in pratica il 50 % di questo organi-
smo che è il carcere? Non parlo solo delle persone che ci lavorano, ma anche gli edifici, l'ambiente circostante, persino
gli animali, pensa a Gorgona in Italia. Tutto ciò influenza il modo di pensare al carcere.

Ekaterina: il motivo per cui abbiamo creato il nostro modello a forma di ruota è quello di conferire una sensazione di
dinamismo. Al contrario, se fermi una persona per strada e chiedi cosa ne pensa dei carcerati, l’interesse per l'argo-
mento si limita al pensarli rinchiusi da qualche parte. Se il criminale viene considerato come un pollo andato a male e
la prigione come un freezer in cui mantenerlo, qualora il pollo venisse scongelato potrebbe mai riacquistare un buon
sapore? Così come nessun congelatore contribuirà a migliorare il sapore del pollo andato a male, nessuna prigione in
sé potrà cambiare un uomo. Fintanto che c’è l’uomo al centro c’è vita, c’è movimento, c’è dinamicità; ecco perché ab-
biamo scelto la forma della ruota. Inoltre, la ruota è un oggetto rotante in cui ogni componente è legato al preceden-
te. La ruota ha 12 principi e abbiamo prestato attenzione al motivo per cui il numero 1 è 1 e il numero 12 è 12.

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Numero uno: la privazione della libertà è l'unica punizione che dovrebbe esserci in prigione, ma come ha detto Arne,
ci sono molti aspetti del carcere che hanno un effetto punitivo che in realtà non sono necessari.

Al secondo posto nella ruota troviamo “motivazione, attitudini e competenza”. Qui si parla delle qualità dello
staff, quali sono le radici della loro motivazione per il lavoro in carcere. Tieni presente che, sfortunatamente, lavorare
come guardia carceraria dà un enorme potere e da l'opportunità di esercitare tale potere senza essere puniti. In molte
carceri in America questo è quello che accade, quindi bisogna porre enorme attenzione nel processo di selezione del
personale penitenziario. In particolare le competenze in campo umanistico rientrano a far parte di un ampio percorso
di formazione. Ricorda, inoltre, che i detenuti vedono gli agenti penitenziari andare e venire per diversi anni. Gli agen-
ti, dunque, sono come “ambasciatori del mondo esterno”. Se queste agiscono in modo aggressivo, giorno dopo gior-
no i detenuti sentiranno che il mondo è un posto negativo. Di conseguenza, quando i cancelli della prigione si apriran-
no, i detenuti vorranno tornare di corsa in prigione o finalmente scatenare la propria rabbia repressa.

Il terzo principio è “coscienza e volontà, affiliazione e complicità”. Ancora una volta, qui stiamo parlando di tutto ciò
che riguarda il funzionamento della prigione come organismo. Quando abbiamo intervistato e parlato con alcuni agen-
ti di polizia penitenziaria in luoghi diversi, ci hanno detto: “Il motivo per cui sono qui è per chiudere la porta a chia-
ve”. Ma, a pensarci bene, questo compito potrebbe essere svolto anche da una macchina. Invece, Quando c’è la perso-
na in gioco la dinamica diventa più complessa. Se, ad esempio, tornando a casa trovassi tuo marito con un’espressione
furiosa, che ti lascia un’occhiataccia senza dire una parola, chiaramente questo influenzerebbe la tua giorna-

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ta! Probabilmente reagiresti sulla difensiva o sul lato aggressivo. Quando si è presenti in una relazione coniugale si
prende parte alla relazione attivamente, e lo stesso vale per il poliziotto, non può trovarsi lì solo per reggere un mazzo
di chiavi. Se si partecipa alla relazione bisogna farlo consapevolmente, con il maggior grado di affiliazione e complici-
tà possibile. Persino nel silenzio può avvenire un grado di comunicazione che sostiene il processo di guarigione del
detenuto.

Arne: il quarto principio è “prigione come società, principio di normalità”. Questo concetto è stato sviluppato dal mio
responsabile nel ministro della giustizia norvegese. L'idea consiste nel far si che il carcere sia un luogo che non diffe-
risca molto dalla società. Questo, come aveva sottolineato Ekaterina, implica che bisogna evitare di cercare di trasfor-
mare il carcere in una sorta di favola paradisiaca in quanto la società non è un mondo perfetto. Il principio è piuttosto
legato al concetto di responsabilità di cui si parlerà dopo, ovvero il carcere deve essere un luogo dove i detenuti rac-
colgono la sfida ed accettano la responsabilità di entrare a far parte di un progetto più grande di loro. Ecco che la pri-
gione si trasforma in arena di addestramento dove si possono praticare e sviluppare le attività per imparare ad ammini-
strare bene una parte di una piccola società composta da detenuti. Per quanto potrebbe apparire un’idea semplice, cre-
dimi, questa è una delle idee che ho visto funzionare meglio. Solo che richiede uno scarto notevole dalle tradizionali
istituzioni statiche, ci si deve spostare verso l'idea di un organismo, appunto.

Ekaterina: il quinto principio è “dialogo ed uguaglianza”. Se tu fermassi una persona per strada e gli dicessi le parole:
“prigione” e “dialogo”, questa probabilmente ti risponderebbe: “ma che centra il dialogo?”. Nella mentalità comune,
infatti, il carcere è concepito come un luogo di isolamento piuttosto che di dialogo. Io e Arne non la pensiamo allo
stesso modo, mi riferisco nello specifico a quest’idea secondo cui i detenuti sono considerati come l’ultima ruota del
carro. Questa situazione di disuguaglianza tra i componenti dell’organismo del carcere di certo non aiuta a creare un
clima di dialogo e nemmeno di partecipazione. Invece ogni momento della giornata deve diventare occasione di dialo-
gare e collaborare, in cucina come durante le ore di lavoro o durante le ore di studio. Per esempio, in alcu-
ne prigioni norvegesi i detenuti e il personale penitenziario prendono parte insieme ad attività sportive come il basket
e mangiano insieme nello stesso refettorio. Anche il dialogo fra i detenuti ed il personale è parte integrante di que-
sto processo di guarigione.

Il sesto principio si chiama "relazioni ed ambiente". La prigione è una piattaforma di formazione per la vita nella so-
cietà aperta, quindi se l'unica relazione che hai è una relazione in cui ti si dice quel che devi fare e ti viene chiusa la
porta a chiave in faccia, non si può creare un’idea di rapporto sano quando si è fuori e le sfide della vita sono più pres-
santi. Inoltre, considera queste sono persone che portano molti problemi con se da tempo. Anche l'ambiente fa parte di
questo processo, esso include persone, colore dei muri, disposizione delle camere, illuminazione, tutto dovrebbe essere
preso in considerazione in vista del cambiamento.

Il settimo principio è “sviluppo e responsabilizzazione”. Come si diceva, a parte l’asilo, è difficile trovare un altro po-
sto dove la responsabilità ti venga tolta come in prigione. In molte carceri nel mondo ti viene servito il cibo, sei sve-
gliato, ecc. L’unica cosa che ti rimane da fare è andare in bagno. Tuttavia le parti del corpo che non si usano si atrofiz-
zano. Come potranno i detenuti di oggi trovarsi in grado di prendere le decisioni del domani? In verità, senza un pro-
cesso di responsabilizzazione, non ritroveranno mai nemmeno la volontà di decidere.

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Arne: a proposito di responsabilizzazione, quando ero direttore del carcere ebbi degli americani in visita. Ricordo che
rimasero letteralmente scioccati, mi dissero che mi stavo prendendo cura di un “luogo di vacanza per criminali”. Ho
dovuto spiegare loro che un carcere fondato su sani principi, come la responsabilizzazione, è un carcere più duro di
quanto non lo siano la maggior parte delle prigioni a massima sicurezza, perché la responsabilità non è una cosa facile.
È per questo che abbiamo scelto di basare il nostro modello su la “filosofia esistenzialista”: il genere umano è respon-
sabile per la sua stessa vita. I detenuti non ci sono abituati, e questo spiega perché è dura. I visitatori americani, inve-
ce, non riuscivano a capire perché erano solo concentrati sulla punizione. Senza processo di responsabilizzazione non
si può parlare di riabilitazione.

L'ottava parte della ruota è il “rispetto”. Quando ero direttore a Bastøy ci tenevo a parlare con tutti i detenuti di rispet-
to. Tuttavia non si metteva a tema il mio status o le mie uniformi, piuttosto la domanda era: “Ma tu, ti rispetti come
essere umano?” Molto spesso la risposta era: “Mi sento uno schifo, sono un criminale e mi è sempre stato detto che
sono un criminale. Non sono mai riuscito a fare nulla di buono nella vita”. La verità è che per rispettare le altre perso-
ne il detenuto deve imparare a rispettare se stesso. Questo è l'unico modo per loro di scoprire che cosa vuol dire real-
mente il rispetto. Occorre, dunque, cambiare radicalmente il modo di trattare il criminale e smetterla di concepirlo
come una minaccia; chi riesce a fare ciò sta vincendo la partita della riabilitazione. Il giorno più bello fu quando un
detenuto, il giorno del rilascio, venne da me per ringraziarmi. Quando gli chiesi: “come mai?” mi disse: “perché mi
hai rispettato, qui sono stato trattato come un essere umano”.

Ekaterina: Discutendo con i detenuti mi sono fatta l’idea che spesso preferiscano parlare della loro vita prima e dopo
il carcere, proprio come se il tempo in quel luogo non avesse alcun valore, come se la vita si fosse interrotta per un po’
di anni. Invece ritengo opportuno, forse con l'aiuto della psicologia, riportare il detenuto alla dimensione presente ed
investire le energie e l’attenzione sul “qui ed ora” e sul “ciò che c’è” (principi 9 e 10). Dunque l’attenzione deve essere
rivolta al tipo di relazioni che stanno accadendo in carcere, ai desideri che hanno in quel momento, a quello che stanno
facendo, ecc. Allora, invece di concentrarsi su quello che non c’è ancora, è importante, ad esempio, ritornare alla sto-
ria della loro vita. Qui è possibile porre l’accento su ciò che i detenuti hanno tra le loro mani, accentuare la loro capa-
cità di apprendere e di lavorare, in modo da favorire un atteggiamento più produttivo e concentrato sulla loro vita
“adesso”.

Arne: L’undicesimo principio “carcere come un'arena per imparare la democrazia”, è molto legato al settimo. Durante
il mio servizio come governatore ho istituito il consiglio di amministrazione in modo che il 50% fosse composto da
detenuti ed il 50% da personale. Qualcuno ha creduto che fossi pazzo ma i vantaggi sono stati molti. Invece di ricevere
e doversi occupare di tutte le lamentele dei detenuti ho condiviso con loro una grande parte del lavoro decisionale,
comportando anche un notevole risparmio di denaro. Questo sistema si è dimostrato valido e può essere considerato
un esperimento riuscito benissimo, tanto che il consiglio è strutturato ancora così. In questo modo si favorisce, infatti,
la responsabilizzazione del carcerato e si incentiva il personale e i detenuti a relazionarsi tra di loro insegnando
ad entrambi a guardarsi come esseri umani. Ecco perché crediamo che sia possibile concepire il carcere co-
me “un'arena di apprendimento”, queste persone che torneranno a far parte della società hanno l’occasione di imparare
che sono parte di essa e al tempo stesso ad esserne responsabili, poiché sperimentano che quello che fanno per

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l’ambiente lo fanno per loro stessi.

Arne : L'ultimo principio è “sicurezza dinamica vs statica”. Fili spinati, recinzioni, cani, armi, ecc. sono tutti elementi
che aumentano la staticità della prigione. La verità è che quando si segue la via della sicurezza statica ci si addentra
sempre più in un circolo maligno fatto di continui investimenti e preoccupazioni da cui non si riesce più ad usci-
re. Questo è il motivo per cui Ekaterina ed io abbiamo deciso di mettere la sicurezza all'ultimo posto invece che al
primo, perché se si attuano tutti gli altri principi della ruota non è più necessario considerare la sicurezza; per questo
motivo si parla di “sicurezza dinamica”. È anche il motivo per cui nei fine settimana potevo lasciare i miei 120 detenu-
ti (e non parlo di gente che aveva rubato caramelle) da soli con solo 4 agenti disarmati. Nei miei cinque anni non è
successo nulla di male, anzi sono evasi solo 2 detenuti. Quando le autorità mi hanno interrogato a proposito di queste
evasioni gli ho risposto che se avessero voluto creare una prigione da cui i detenuti non sarebbero mai potuti scappare
avrebbero potuto anche trovarsi un nuovo direttore. Sembrerà assurdo, ma la mia condizione per lavorare a Bastøy è
sempre stata quella che ai detenuti non sia impossibile scappare.

Coloro che commettono crimini sviluppano spesso un'identità criminale. È d'accordo con questa affermazione? Crede
che i criminali possano voltare le spalle a questa identità?

Arne: Quando ero psicoterapeuta in carcere ho avuto la possibilità di ottenere molte più informazioni personali sui de-
tenuti che come direttore. In questo modo ti rendi conto che è importante credere nel cambiamento. D’altro canto è
frustrante vedere molti colleghi guardare a sè stessi come se fossero il Messia. A volte, infatti, mi viene da pensare
che alcuni individui non cambieranno mai, o almeno che noi non potremmo mai cambiarli. Alcune persone sono così
disturbate che non credo che dovrebbero mai essere liberate; sono una eccessiva minaccia per la società. È importante
per me ammettere che a volte sapevo che stavamo rilasciando un detenuto per il quale era solo questione di settimane
prima che potesse fare qualcosa di brutto ancora una volta. Tuttavia, stiamo parlando di un numero molto piccolo. Mi
è anche capitato un detenuto che non voleva essere rilasciato. Mi diceva: “Vi prego, non liberatemi, vorrei rimanere ed
essere sepolto qui!”. Era spaventato dall’idea di tornare indietro, alla vita che lo aspettava fuori dall’isola. Tenendo in
considerazione che si ha a che fare con la complessità dell'essere umano, non dovremmo essere così ingenui da pensa-
re che tutti possono cambiare, il messaggio è che la maggior parte delle persone hanno la possibilità di cambiare.

Ekaterina: Io non credo nell’identità criminale. Nella ricerca contemporanea si parla piuttosto di “Multi-identità”;
ovvero non stiamo parlando solo di criminali, ma anche di padri, mariti, qualcuno che ama gli spaghetti, ecc. Piuttosto
che nell’identità criminale, credo nel comportamento criminale. Quando si smette di stigmatizzare il criminale, infatti,
gli viene gli viene data la possibilità di esprimere un comportamento diverso e di soddisfare i suoi bisogni senza attra-
versare il confine della legge. Nelle prigione norvegese c’è un “open day” dove le persone possono entrare nelle carce-
ri per vedere come funziona effettivamente: credo che sia una grande idea per permettere alla società di cambiare at-
teggiamento nei confronti del crimine. È sbagliato, infatti, dire “loro” e “noi”; chiunque può finire in prigione. Io mi
ritengo fortunata a non aver compiuto gesti criminali, ma studiare questi argomenti mi ha reso più consapevole della
possibilità che potrei essere al posto loro.

Arne ed Ekaterina, tra i vari argomenti la mia ricerca indaga l'identità degli autori di reato attraverso le loro narra-

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zioni. Alcuni ricercatori affermano che “mentre cercano di dare un senso alle loro vite raccontando le loro storie, le
persone ricostruiscono selettivamente il passato e immaginano il futuro in modi che forniscono significato e scopo al-
le loro vite”. Credete che sia possibile dare un senso ad una storia di vita attraverso la narrazione? Riuscite a pensa-
re a un esempio di " dare un senso " attraverso la narrazione che indica la desistenza dal crimine o la persistenza nel
crimine?

Parlando di “dare un senso” mi sorprende pensare che attualmente il livello di attività criminale non sia poi così al-
to. Sai, la vita è una cosa dura, ognuno cerca di cogliere il significato del proprio vivere nelle varie circostanze. Allo-
ra mi chiedo come le persone riescano ad avere una vita normale nonostante tutto il background negativo e tutte
le sfide che devono affrontare ogni giorno, a fronte di un futuro che non è poi così facile da trova-
re. Questi sono pensieri che ho, forse non una risposta alla tua buona domanda. In realtà oggi ho più domande di quan-
te non ne avessi all’inizio della mia carriera. Come ministro della chiesa, ad esempio, ho potuto sempre rispondere con
“Dio e il male”, ma oggi non so più bene come funziona. Tuttavia, ho visto che le persone cambiano “nonostante”
piuttosto che “a causa di” qualcosa. La cosa più brutta che possiamo fare è cercare di “spiegare” o “trovare scuse” per
incastrare significati che forse non ci sono. Cosa ne pensi: guardando alla mia vita dovrei concentrarmi sul passato o
sul fatto che “sono qui” e che “sono un essere umano”? Non è il “qui e ora” la cosa più importante?

Arne, ci potrebbe raccontare un po’ della sua esperienza come direttore del carcere di Bastøy?

Arne: quando sono arrivato la prigione era già presente da 25 anni. Prima ancora l’isola era una sorta di riformatorio
per ragazzi, famoso per essere un luogo terribile. Mentre lavoravo per il ministero della giustizia venni a sapere che i
precedenti direttori avevano riorganizzato la fattoria dell’isola per rendere Bastøy un innovativo carcere “ecologi-
co”. Nel 2005, dunque, ebbi l'opportunità di lasciare il ministero della giustizia per un anno di lavoro come psicotera-
peuta nel servizio sanitario del carcere. In questo contesto ho conosciuto la realtà di Bastøy e ho avuto modo di avvi-
cinarmi al loro modo di pensare. In seguito, dopo aver speso un anno in Georgia per lavoro, tornato in Norvegia si era
liberata la posizione come direttore e mi venne chiesto di fare domanda. Vorrei sottolineare da subito che ho avuto
molte fantasie e sogni nella mia vita, ma mai quella di diventare il direttore di un carcere! Tuttavia c’era una grande
sfida in gioco, i miei predecessori avevano iniziato qualcosa che, per quanto fosse innovativo, non era ancora perfetto
e ancora oggi non lo è. Il direttore precedente aveva reso Bastøy la prima prigione ad “ecologia umana” al mondo. Ec-
co, posso dire di essere stato ispirato da questi principi, dunque ho lasciato nuovamente il ministero e ho accettato la
sfida.

Subito ho scoperto che il lavoro più difficile e affascinate sarebbe stato quello di mettere in pratica e mantenere questi
principi. Pertanto, ho iniziato a insegnare ai detenuti come trattare la natura e gli animali con rispetto. Ad esempio,
se si utilizzano prodotti chimici incautamente si può facilmente ottenere frutta e patate, ma gradualmente si rovina
il terreno e, a lungo termine, lo si danneggia irreversibilmente. Ho sempre cercato di insegnare ai detenuti che noi
stessi siamo parte di qualcosa di più grande, siamo parte della natura.

Considera, inoltre, che non ero stato un agente penitenziario sin dall'inizio a differenza della maggior parte dei diretto-
ri “in uniforme” delle carceri norvegesi. In realtà ho lavorato come agente di polizia penitenziaria solo per 7 mesi

121
quando ero giovane ma lasciavo quasi sempre la mia uniforme appesa alla gruccia. Preferivo adottare un approc-
cio diverso al modo di essere direttore. Ti faccio un esempio: mentre ero direttore, ci tenevo a passare la mia pausa
pranzo con i detenuti dell’isola e, quando un nuovo detenuto arrivava, chiedevo agli agenti di poterlo incontrare faccia
a faccia, molto spesso in mensa di fronte a una tazza di caffè. Ecco, un paio di detenuti, dopo essersi incontrati con
me, sono andati dall’agente dicendo: “Ehi, è venuto un uomo che si è seduto al mio tavolo. Insisteva nel dire di essere
il direttore, ma questo non è possibile visto che sembrava una persona normale e gentile!”. Un'altra storia: un giorno
ho visto un uomo che non conoscevo ancora seduto sui gradini, quindi gli ho chiesto “quando sei arrivato?” Così ab-
biamo incominciato a conversare per un po’. Passato del tempo, mi ha chiesto: “E tu invece? Da quanto tempo sei
qui?” Gli ho risposto: “3 anni.” “Allora, cosa hai fatto per essere qui?” “Beh… non sono sicuro di quello che ho fatto
per essere qui… diciamo che sono il direttore” E lui ridendo mi ha detto: “Tu... il direttore? Ma dai, non prendermi in
giro!” Vedi?! Stiamo parlando di qualcosa che si gioca al livello del rapporto: è importante per me guardare ai detenuti
allo stesso modo con cui guardo il personale e me stesso.

Visto che ne parlava prima vorrei chiederle:“uniforme o non uniforme”? Qual è il suo ideale?

Arne: Bella domanda, direi niente uniforme. In Norvegia la divisa aveva iniziato ad essere più semplice, poi è cambia-
ta di nuovo. Ora, quando un poliziotto indossa l'uniforme assomiglia più che altro ad un albero di Natale. Ne riconosco
certamente l'aspetto pratico, ma ha anche un impatto negativo sul “rispetto”. Un sacco di direttori ritengono che più ci
vestiamo più distanza creiamo, pretendendo una sorta di rispetto in cambio. Ma la verità è che vorrei essere rispettato
per la persona che sono, non per il modo con cui mi vesto. Infatti penso che l’uniforme sembra creare più disugua-
glianza che uguaglianza, il che va contro il quarto principio della ruota del cambiamento.

Se avesse avuto risorse infinite, cosa avrebbe fatto di diverso come direttore del carcere di Bastøy?

Arne: So bene cosa avrei fatto, anche se non sarebbe stato possibile a causa del regolamento. Avrei licenziato tutto il
personale e gli avrei chiesto di fare di nuovo domanda. Poi, sulla base di lunghe interviste e prove, avrei voluto così
capire chi veramente voleva restare “a bordo nella nave”. Infatti, secondo me, per una prigione così innovativa occorre
cambiare radicalmente il modo tradizionale di pensare alla pena e spesso per il personale non è facile fare ciò, in alcu-
ni casi non penso che fosse nemmeno possibile.

Ekaterina : Vorrei rispondere anch’io su cosa farei se avessi mezzi illimitati. Personalmente investirei molto per per-
mettere alla società di capire come sono le prigioni, i criminali, la punizione e la riabilitazione. Molte delle persone
che prendono hanno potere decisionale non sono mai state in prigione.

Parliamo del ruolo della psicologia e del lavoro in Bastøy.


• Che spazio trova la psicologia nel carcere di Bastøy?
• Chi lavora a Bastøy e che tipo di lavoro si pratica? Lei crede che il lavoro sia importante per i detenuti e in
che modo il lavoro influisce sul benessere psicologico e sui processi di desistenza dalla criminalità?
• Pensa che sia importante ricompensare i detenuti per il loro lavoro? Pensa che i reclusi dovrebbero essere
remunerati tanto quanto le persone normali?

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Arne: La risposta è sì a tutte queste domande. A Bastøy tutti i detenuti hanno un lavoro. Quando entrano in carcere
sono sottoposti ad un colloquio in cui si cerca di scoprire che tipo di background hanno, le loro capacità, i loro interes-
si e preferenze tra le attività offerte: dall'agricoltura al lavoro tecnico e meccanico; possono andare a scuola o svolgere
altre attività di studio, lavorare in cucina, ecc. Inoltre sì, credo sia importante per loro lavorare. In questo modo è più
facile attraversare la giornata, in aggiunta il lavoro comporta benefici per l’autostima. Tornando, dunque, ai temi del
rispetto, partecipazione e all’essere parte della comunità, il lavoro permette alle persone di scoprire che possano con-
tribuire, che sono importanti e sta pur certa che tutto ciò può farli cambiare. L’autostima è chiaramente connessa alla
responsabilità. Essere parte di qualcosa di cui sono responsabili li aiuta a sviluppare fiducia in se stessi. Certo si po-
trebbe riempire il tempo con terapia e psicologi, ma se non avessero la possibilità di partecipare alla vita quotidiana e
al lavoro la rieducazione non potrebbe funzionare. Almeno quando ero direttore se i detenuti si rifiutavano di lavorare
o partecipare ai programmi scolastici, non ricevevano alcuni benefici da parte dello stato. I detenuti ricevono un pecu-
lio in base alle attività lavorative svolte.

Arne, lei prima parlava dell’importanza degli animali nell’isola; può dirmi alcune parole in merito?

Arne: In generale, credo che gli abbiano una grande influenza sui detenuti. Durante un'intervista con la BBC dissi che
la parte migliore del personale addetto erano gli animali. Ovviamente questa dichiarazione potrebbe essere mal inter-
pretata, ma quando comprendi l'influenza che ha un cavallo per calmare un criminale, allora capisci. L'animale si di-
mostra essere un ottimo alleato alla terapia. È un principio così importante a Bastøy che invece di usare i trattori usia-
mo i cavalli. E puoi sentirti abbastanza sicuro quando i detenuti hanno a che fare con questi animali: non li farebbero
mai del male. Come è risaputo produciamo carne. Se avessi avuto l'autorità forse avrei cambiato il business concen-
trandosi più sulle verdure e la frutta.

Ekaterina: Considera inoltre che spesso è più facile ottenere l’affetto incondizionato da animali che dalla gen-
te. Molte persone in carcere hanno problemi proprio con una mancanza di affetto, forse è parte del motivo per cui sono
lì. Quindi non bisognerebbe sottovalutare l’apporto che ha questo affetto sul benessere psicologico dei detenuti.

Arne, ha accennato nel corso dell’intervista di avere una certa esperienza come uomo religioso. Può la religione ave-
re ancora qualcosa da dire in carcere nel contesto di una società così secolarizzata come la nostra?

Arne: Assolutamente! Ho un certo interesse per la religione e la spiritualità e credo che abbia un impatto. Allo stesso
tempo ho molte domande critiche al riguardo, come ho detto prima, ma la religione ha sicuramente un ruolo importan-
te da svolgere. Se torniamo all'idea di creare un villaggio fondato sul principio di normalità, la religione la spiritualità
sono certamente e naturalmente parte di esso indipendentemente dalla confessione religiosa. Anche l'Islam, per esem-
pio, deve trovare spazio in carcere al giorno d’oggi in quanto parte normale della vita di molte persone . A volte le
persone sono molto critiche su ciò, ma penso che si escluderebbe una parte importante per coloro che cercano nella
religione come un modo per trovare un significato per la loro vita.

Mi chiedo anche, come possono lavorare insieme psicologia e religione?

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Arne : Come ho detto prima, io ho lavorato sia come cappellano che come terapeuta. A volte come terapeuta parlo an-
che di spiritualità, ma se durante la terapia raggiungiamo un certo punto in cui vedo che la spiritualità è basata su forti
aspetti religiosi, allora dico al mio paziente: “Qua siamo in un campo per cui penso dovresti piuttosto parlarne col pre-
te, lo trovi dall’altra parte del corridoio”. Purtroppo, alcuni preti vogliono fare i terapeuti più che i padri spirituali, for-
se perché hanno una mancanza di fede. Non penso che ci sia una barriera insormontabile tra questi campi, ma sono
consapevole quando è meglio lasciare il compito a qualcun altro.

Ekaterina: In questo campo secondo me tutto parte dalla domanda: “che necessità ha il detenuto?” Spesso hanno ne-
cessità di perdono, o di fuggire da una realtà opprimente, o magari di nuove prospettive. Risposte a tutte queste esi-
genze possono essere offerte sia dalla religione che dalla psicoterapia. Fintanto che un prete o psicologo tiene la bocca
chiusa ed apre le orecchie per un po’ può, in entrambi i casi, essere un buon compagno nel rispondere a questa neces-
sità. Ma quando aprono la bocca troppo e troppo presto, allora iniziano i problemi. Poi, chiaramente, il prete ed il tera-
peuta avranno un approccio tutto diverso nell’affrontare il problema. Detto questo, bisogna anche tenere presente che
la psicologia è una scienza molto complicata e tutt'altro che lineare. Troppo spesso sento usare l'espressione: “noi cre-
diamo che il cervello funziona in ‘questo’ o ‘quel’ modo. Invece io penso che anche in psicologia ci sia una compo-
nente di “credenza” in certe teorie, quindi, da questo punto di vista, non è poi così diversa dalla religione.

Arne: Mentre il prete aiuta a realizzare l’importanza del perdono di Dio, il terapeuta si concentra sull’importanza di
perdonare se stessi. Per alcune persone il perdono di Dio non è così rilevante come il re-imparare a perdonare se stessi
attraverso un percorso terapeutico.

Grazie, sono molto grata del vostro contributo che mi avete lasciato con questa intervista. C'è qualcos'altro di cui
vorreste parlare in conclusione?

Arne: Potrebbe sorprenderti, ma l’avventura più affascinante che abbia mai vissuto nel contesto lavorativo non è stata
Bastøy, ma in realtà un progetto che ho svolto in Romania. Un giorno, mentre ero direttore a Bastøy, sono stato con-
tattato dal ministero della giustizia rumena. Mi chiesero se fossi disponibile ad aiutarli a creare una sezione di un car-
cere di massima sicurezza fondata sul nostro modello in un isola del Danubio, un luogo che un tempo fu un campo di
prigionia comunista. Era fuori città, un paesaggio bellissimo, non c’erano edifici, solo mucche e pecore. Con il dena-
ro ricevuto da una fondo norvegese hanno finanziato un corso di formazione per 50 direttori di carcere, quasi tut-
ti i direttori della Romania! Inoltre, mi è stata anche affidata la formazione di molti psicologi e personale, coinvolto
nel progetto della nuova unità del carcere. L'idea da portare avanti era quella di lasciare che fossero i detenuti stessi a
costruire un “edificio ecologico” basato sull’artigianato. All'inizio i detenuti hanno iniziato a ricevere formazione
e lezioni pratiche che gli hanno portati ad avere i messi per strutturare questa nuova sezione a “minima sicurezza”.

È stato girato anche cortometraggio intitolato “Free in prison” (liberi in prigione)20. Penso che sia stata la più toccante
esperienza cinematografica che abbia mai vissuto. La cosa più bella è stata proprio ricominciare da zero, soprattutto

20
Il cortometraggio è disponibile in lingua rumena con sottotitoli in inglese al link:
https://www.youtube.com/watch?v=be3rmt_rrNo

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con il team di psicologi e il personale: persone giovani e molto motivate che hanno colto immediatamente i contenuti
di cui ti ho parlato. In questo modo hanno raccolto gli strumenti necessari per capire come relazionarsi con questi de-
tenuti in una collaborazione che mi ha portato non poche soddisfazioni. Le autorità che mi avevano coinvolto mi dice-
vano all’inizio del progetto: “Non pensare di dover copiare Bastøy”. Personalmente credo che Bastøy sia un esperi-
mento tutt'altro che perfetto, così loro hanno dovuto trovare il modo per farlo. Questa è la sfida, si dovrebbe trovare la
propria strada sulla base dei principi.

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RINGRAZIAMENTI

In conclusione voglio ringraziare tutti quelli che hanno contribuito alla riuscita del complesso lavoro conte-
nuto in questo elaborato, perché scrivere questa tesi è stato per me come compiere un viaggio affascinante
segnato da molti incontri. Innanzitutto un ringraziamento va al mio relatore, il prof. Massimo De Mari, che,
sin dal primo momento, ha sempre creduto in questo progetto. Poi vorrei ringraziare il prof. Silvio Ciappi e
la sua collaboratrice dott.ssa Giulia Schioppetto per avermi entrambi ricevuto ed ispirato nella scelta del me-
todo presentato.

La realizzazione della parte sperimentale non sarebbe stata possibile senza l’incontro con il presidente della
cooperativa Giotto dott. Nicola Boscoletto, il vicepresidente dott. Andrea Basso e la dott.ssa Sandra Bosca-
rato, psicologa dell’Ufficio Sociale Giotto, che mi hanno fornito del materiale di ricerca e aiutato ad entrare
in contatto con la realtà carceraria di Padova: li ringrazio di cuore! Inoltre vorrei ringraziare dott. Tiziano
Vecchiato per avermi messo in contatto con la dott.ssa Cinzia Canali ed il dott. Devis Gerlon della Fonda-
zione Zancan, con la quale ho potuto condurre la parte sperimentale della tesi. In particolare il dott. Gerlon
mi ha accompagnato e ha supervisionato l’intervista condotta nel carcere Due Palazzi di Padova. Ringrazio
anche la dott.ssa Lorena Orazi, responsabile dell’area pedagogica del Due Palazzi, che ha organizzato
l’intervista con i carcerati che, chiaramente, ringrazio uno ad uno.

Un ringraziamento particolare va al dott. Arne Kvernik Nielsen e alla sua collaboratrice Ekaterina Bagreeva:
persone di straordinaria apertura mentale e di grande conoscenza della realtà carceraria norvegese che hanno
arricchito questa tesi con la loro preziosissima intervista. Ringrazio anche la mia amica Clara per avermi aiu-
tato con la trascrizione dell’intervista.

In conclusione vorrei ringraziare la dott. Roberta Catania per avermi aiutato a reperire parte del materiale ri-
portato nel primo capitolo, mio suocero Eugenio per aver riletto la tesi, gli amici danesi Zilas, Brian e Su-
sanne per la traduzione e le immagini dell’edizione danese del libro “Du og Jeg” e tutti gli amici e parenti
che hanno giocato con le mie bambine mentre ero impegnata a scrivere. Il ringraziamento più speciale va,
infine, a mio marito Federico con il quale ho condiviso tutte le idee e contenuti della tesi.

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