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08/07/2022 Psicologia di

Comunità

Roberta Armentano
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI GUGLIELMO MARCONI
Sommario
MODULO 1: identità e storia .......................................................................................................................................................... 2
Lezione 1 .......................................................................................................................................................................................................................... 2
La comunità: identità e obiettivi ........................................................................................................................................ 2
Lezione 2 .......................................................................................................................................................................................................................... 7
Nascita e storia della psicologia di comunità .................................................................................................................. 7
Lezione 3 ........................................................................................................................................................................................................................ 14
I modelli teorici della psicologia di comunità ............................................................................................................... 14
Lezione 4........................................................................................................................................................................................................................20
Le istituzioni totali e la deistituzionalizzazione .............................................................................................................. 20
Modulo 2: gli strumenti e i metodi ........................................................................................................................................ 26
Lezione 5 ........................................................................................................................................................................................................................ 26
Il gruppo in psicologia di comunità ............................................................................................................................... 26
Lezione 6........................................................................................................................................................................................................................ 33
La rete-sostegno sociale e il lavoro di rete come pratica dello psicologo di comunità ............................................... 33
Lezione 7 ........................................................................................................................................................................................................................40
Lo sviluppo di comunità e l’empowerment ................................................................................................................... 40
Lezione 8 ....................................................................................................................................................................................................................... 47
Ricerca e valutazione in psicologia dicomunità .......................................................................................................... 47
Lezione 9........................................................................................................................................................................................................................ 53
L’analisi organizzativa multidimensionale.................................................................................................................... 53
Lezione 10 ...................................................................................................................................................................................................................... 61
Lavorare per la comunità: i livelli di azione dello psicologo di comunità ................................................................... 61
Modulo 3: ambiti di applicazione .......................................................................................................................................... 67
Lezione 11 ...................................................................................................................................................................................................................... 67
I settori tradizionali dell’intervento dello psicologo di comunità ................................................................................ 67
Lezione 12 ...................................................................................................................................................................................................................... 74
I nuovi settori di applicazione della psicologia di comunità ........................................................................................ 74
Lezione 13 ...................................................................................................................................................................................................................... 81
L’intervento sulla crisi e la relazione con lo stress ........................................................................................................ 81
Lezione 14 ......................................................................................................................................................................................................................88
La tossicodipendenza e le new addiction ......................................................................................................................... 88

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MODULO 1: identità e storia
Lezione 1
La comunità: identità e obiettivi
Nella parola comunità possiamo riscontrare tre significati:
• Communis: il bene comune;
• Cummoenia: avere mura comuni che proteggono dall'esterno e che consentono diidentificare chi sta
dentro (in-group) e chi sta fuori (out-group).
• Communia: avere diritti e doveri comuni (questo concetto rimanda a quello di reciprocità e fiducia
nell’altro).
Il prefisso fondamentale che unisce tutte queste definizioni è quello di cum che sottolinea il carattere di relazione
del sistema interattivo, di contesto condiviso in cui noi nasciamo (prefisso nominale e verbale dal significato
“con”).
Per Piero Amerio, psicologo e docente universitario, fondatore della psicologia di comunità:
“La comunità può consistere in un particolare luogo geografico oppure in una rete di relazioni che
forniscono amicizia, stima e sostegno tangibile”.
Quando parliamo di comunità distinguiamo due ordini di problemi: la condivisione/non condivisione
del dato geografico e la presenza o meno di dinamiche conflittuali all’interno della stessa
(inclusione/esclusione). Il dato più importante però quando parliamo di comunità al giorno d’oggi è il fattore
relazionale piuttosto che quello spaziale, ovvero un senso di vicinanza, di compresenza, di reciprocità con
l’altro, di comunione, di uno spazio mentale piuttosto che uno geografico.
Prendiamo per esempio:

• Comunità virtuali (Social networks): le persone interagiscono in spazi virtuali con il bisogno di
entrare in contatto tra loro, per acquisire e scambiare informazioni. Gli studi rispetto a queste comunità
sono contrastanti, alcune evidenziano lo scambio tra i membri, sia di conoscenze che di informazioni, e
altre l’isolamento di essi.
• Community Networks: sono particolari tipi di comunità virtuali a cui partecipano solamente
persone che condividono uno stesso spazio, per questo facilitano la relazione con l’altro e lo scambio
reciproco delle informazioni (pensiamo, per esempio, al gruppo Facebook del comune di residenza,
quindi parliamo di persone che sono anche all’interno di uno stesso spazio geografico, dove ci si scambia
informazioni rispetto a quelle che sono le attività di quartiere, le problematiche maggiori e quindi
favoriscono anche una maggiore partecipazione del cittadino alla propria comunità).
Per comunità, nel pensiero classico, si identifica un'entità sovra-individuale chetrascende l'individuo
sia da un punto di vista politico che da un punto di vista etico. Facciamo riferimento, ad esempio, alla Polis di
Aristotele, all'interno del quale il soggetto era un soggetto politico, era un soggetto che si relazionava all'altro,
veniva garantita al suo interno sia la libertà individuale, che l'appartenenza ad un comune ethos, ad una comune
etica.
La concezione classica entra però in crisi nella fase del Rinascimento, dove l'attenzione si sposta dalla comunità,
come fatto sovra-individuale e trascendentale, all'individuo stesso che è capace di decidere per il suo destino ed
è fondamentalmente un soggetto attivo, il motto di questa fase lo ritroviamo all'interno della celebre
affermazione di Cartesio del "cogito ergosum". Nel pensiero giusnaturalistico, anche qui l'attenzione si sposta
da “un sociale che non è più qualcosa di sovrumano, ma è assolutamente umano” ed è regolato dalle
contrattazioni, dai patti che gli uomini di una stessa comunità stipulano tra di loro e che in qualche modo, non

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solo regolanoi rapporti, ma vanno ad identificare la possibilità di avere degli stessi diritti senza ledere la libertà
dell'altro. Infine abbiamo il pensiero romantico, che invece esalta un collettivo sociale che è tenuto insieme da
un sentimento di appartenenza, più che da un patto o da una negoziazione tra gli stessi, e quindi è un legame
che tiene “l’uomo legato all’uomo”.

Principali definizioni
→ Per Tönnies, la comunità si fonda sulla comprensione, cioè “un modo di sentirecomune e reciproco
associativo”, un sentimento, all'interno del quale si sviluppa una “volontà” collettiva, che è proprio
espressione della sua unità. Inoltre egli distingue la comunità dalla società, che invece è un prodotto
degli interessi, degli egoismi umani. Questastessa concezione di Tönnies viene poi ripresa da Weber.
→ Anche per Weber (1864-1920), l'orientamento all'azione all'interno di una comunità si basa proprio
“su un sentimento di una comune appartenenza che è soggettivamente sentita dalla persona”, quindi
che è diversa da persona a persona all'interno della stessa. Anche qui troviamo una differenza tra la
comunità e l'associazione incui invece la disposizione all'agire sociale poggia su un'identità di interessi
oppure su interessi che sono motivati razionalmente rispetto al valore e allo scopo.
Gli elementi essenziali della comunità, nella visione di Tönnies e Weber, sono:
• L'interdipendenza delle relazioni tra le persone appartenenti;
• Il forte grado di omogeneità rispetto ai valori e alle norme (quindi sono valori e norme condivise);
• Il prospettarsi come degli elementi soggettivamente percepiti, interiorizzati, nella persona;
• Un forte senso dell'in-group rispetto all'out-group, quindi un’identificazione molto forte chedistingue
ciò che sta dentro la comunità da ciò che sta fuori, nell'ambiente circostante.
Questa concezione della comunità come un sentire, un sentimento legato alla possibilità di vivere
l'interdipendenza con gli altri, all'interno della collettività, ha molto a che fare con un concetto molto caro alla
psicologia di comunità, che è il senso di comunità.

→ Sarason, nel 1974, definisce il senso di comunità come “quella percezione di similarità con gli altri,
appunto di interdipendenza con gli altri, una disponibilità da parte di tutti a mantenere questo legame
e a fare per gli altri ciò che si aspetta gli altri facciano per sé, c'è la sensazione che la comunità, la
collettività, sia qualcosa di stabile e permanente che protegge in qualche modo l'individuo”.
→ Molto simile è anche la definizione data da McMillan, che definisce il senso di comunità come “un
sentimento che tutti i membri hanno di appartenervi e di essere importanti gli uni per gli altri e una
condivisione di bisogni che saranno soddisfatti soltanto dall'agire comune, dallo stare insieme”.

Gli elementi fondanti del senso di comunità


• Il senso di appartenenza: il sentirsi parte di qualcosa di più grande, di un'unità più generale.
Fondamentalmente si identifica con l'essere riconosciuti, l'essere accettati all'interno della società,
avere un ruolo riconosciuto.
• L'influenza: collegata al concetto dell'empowerment, è la percezione diessere importanti da parte della
persona e la possibilità di andare ad intaccare, modificare, quella che è la struttura della società.
L'influenza è direttamente proporzionale all'ampiezza della comunità.
• Un altro elemento fondamentale del senso di comunità è l'integrazione dei bisogni, cioè l'aspettativa
che i propri bisogni, i propri desideri e i propri scopi possano essere soddisfatti, all'interno della
comunità, da parte di un'azione collettiva, unita.
• Invece, la “connessione emotiva condivisa” è l'insieme di tutti quei valori e quelle credenzee quelle
aspettative comuni che si sviluppano.
Il senso di comunità è un concetto fondamentale perché è attraverso questo “sentirsi appartenenti e
riconosciuti dall'altro” che il soggetto prova benessere. Uno degli scopi della psicologia di comunità è quello di
garantire il benessere dell'individuo e della collettività, o comunque migliorare la qualità della
vita. In più il senso di comunità, "quanto io mi sento appartenente, interdipendente con l'altro", è un fattore di
protezione per la salute, sia in termini psicologici che fisici.

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Il concetto di senso di comunità è associato, quasi sovrapponibile, a quello di capitale sociale: il capitale
sociale è il grado di coesione sociale che esiste all'interno della comunità, ha un costrutto multidimensionale,
che prende in considerazione quattro dimensioni fondamentali: una più comportamentalee cognitiva, da
una parte, formale e informale dall'altra, e si creano all'interno delle relazioni che si instaurano tra i soggetti
nella comunità. Quando parliamo delle relazioni parliamo sia di organizzazioni di tipo informale (come la
famiglia o il sistema del lavoro, ecc.) sia organizzazioni più formali (come le istituzioni presenti all'interno).
Nel 1950 e nel 1960 in America si sviluppa un'attenzione nuova all'origine dei problemi sociali, e la
legittimazione avviene nel 1965 all'interno di un convegno per la “formazione degli psicologi per l'igiene mentale
di comunità”, fondamentalmente quindi l'attenzione si sposta (è centrata) sul disagio mentale. Il fallimento
di una concezione del disagio mentale di tipo individualistico, biologico, e intrapsichico, è un focus che si sposta
sull'origine sociale dei problemi anche mentali. Questo comporta anche una concezione nuova della cura:
l’istituzionalizzazione e lacura all'interno degli istituti manicomiali, e quindi degli ospedali psichiatrici, non è
più ritenuta idonea, questo perché alla concezione nuova di disagio si affianca anche una nuova concezione
dell'individuo, che non può essere considerato, se non all'interno del proprio ambiente di vita, del proprio
sistema di vita. È necessario quindi, oltre che una nuova concezione della malattia, anche una nuova modalità
di cura che parta da un approccio multidisciplinare, perché il disagio non appartiene più solo all'individuo, ma
appartiene alla relazione che questo instaura all'interno della società, della comunità, e quindi ha un carattere
bio-psicosociale.
Un altro punto che viene focalizzato, in qualche modo esaltato, dagli psicologi di comunità è l'importanza
della ricerca: la ricerca che è collegata al cambiamento sociale (e questo è un concetto che noi ritroveremo
molto nell'opera di un importantissimo psicologo di comunità che è Kurt Lewin).La ricerca non nasce soltanto
dalla necessità di attuare un'attività diagnostica, quindi di conoscere la comunità all'interno della quale andiamo
ad agire, ma fondamentalmente serve anche ad un'attivazione dei membri della comunità, a un cambiamento
all'interno della stessa comunità e la relazione tra ricerca (quindi teoria) e il cambiamento (azione pratica) è
circolare.
Quindi, la psicologia di comunità si sviluppa negli anni ‘60 negli Stati Uniti, viene legittimata, peresempio,
attraverso l'edizione del volume di Rappaport del 1977 “Community Psychology Velius Research and a
Action”, dove la psicologia di comunità viene definita come “un'ideologia, un insieme di valori e un
atteggiamento preciso”.
L'ideologia si muove all'interno di un nuovo approccio ecologico-sistemico. I valori fanno
riferimento soprattutto alla promozione delle competenze del soggetto, quindi c'è un'attenzione nuova
alla persona, non più un'attenzione al deficit, alla difficoltà, alla problematicità che la persona porta, ma
soprattutto, invece, alle competenze residue, alle risorse che il soggetto ha e con le quali influisce, si muove
all'interno della comunità stessa.
L’atteggiamento preciso che la psicologia di comunità assume è di tipo preventivo. All'interno di
questa nuova visione anche lo psicologo cambia il suo ruolo, cambia forse anche proprio l’identità, lo psicologo
è un operatore sociale, non è più un professionista chiuso all'interno del suo studio clinico, come siamo abituati
a pensare, o all'interno del laboratorio svolgendo un'attività da scienziato, e quindi da ricercatore, ma è un
professionista che si cala nel sociale assolutamente con la volontà di cambiarlo, e quindi attraverso la
promozione del cambiamento sociale.
Se prendiamo in considerazione la definizione data da Heller, vediamo quindi che la psicologia dicomunità è
un orientamento:
• Rivolto più alla prevenzione che al trattamento (prevenzione primaria);
• Non si incentra sul deficit, ma sulle competenze e sui modi per rafforzarle;
• Si focalizza soprattutto sull'interazione tra persona e ambiente.
Quello che avviene è un cambiamento dell'oggetto di studio, il quale non è più l'individuo o la società, e il
problema (il disagio) non è più visto insito all'individuo o all'interno diproblematiche sociali, ma è all'interno
della relazione che tra di questi vi si sviluppa. Infatti, in questo sta l'approccio sistemico della disciplina, non

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un approccio circolare, che vede inscindibile e indissolubile il legame tra l'individuo e il suo contesto
di riferimento.
Orford (1995) vede la psicologia di comunità come “un'area di intervento, una disciplina accademica e un
patrimonio conoscitivo e tecnico che forma una professione di aiuto”. Piero Amerio (2000) ne parla ancora
come di “un'area di ricerca e di intervento sui problemi umani e sociali, che si rivolge appunto (e qui viene
sottolineato) all'interfaccia tra la sfera individuale e la sfera collettiva, tra la sfera psicologica e la sfera
sociale”.
L'assunzione di un approccio ecologico e sistemico, per cui il disagio non si trova più né nell'individuo né
all'interno della struttura sociale, ma è all'interno della relazione. Per spiegare il disagio psicologico e sociale,
nel corso del tempo, si è fatto sempre riferimento a due teoriefondamentali:

• La teoria eccezionalista, o della selezione sociale: il disagio è causato da alcuni fattori


individuali, casuali, una predisposizione da parte del soggetto, per questo la modalità di curanon può
non essere centrata e focalizzata sull'individuo e si formalizza, per esempio, in un intervento di tipo
farmacologico, psicoterapeutico o riabilitativo, come siamo abituati a pensare.
• La teoria universalistica: il disagio è una conseguenza di un'iniqua distribuzione delle risorse
dell'ambiente.
Questo significa che il disagio si trova all'interno della società, nelle condizioni della società, e quindi è
necessario un intervento che vada a modificare queste situazioni, un intervento a livello sociale, come gli
interventi preventivi.
Per la psicologia di comunità sia variabili individuali che variabili collettive sono necessarie per la
strutturazione del disagio. Facendo un esempio, prendiamo in considerazione il problema della
tossicodipendenza: la teoria eccezionalista ci direbbe che il tossicodipendente inizia a toccare la sostanza perché
è molto fragile, ha una fragilità biologica, o perché ha affrontato degli eventi fortemente traumatici, per cui il
trattamento sarà fondamentalmente erogato per lui dai servizi delle Asl, dai servizi sociali, dalle strutture del
territorio, per esempio, i colloqui psicologici con lo psicoterapeuta, icolloqui di gruppo o la residenza all'interno
di comunità terapeutiche e l'utilizzo, per esempio, farmacologico di metadone. Se invece prendiamo in
considerazione la teoria universalistica allora vediamo che il disagio del tossicodipendente, che poi lo porta ad
assumere la sostanza, può essere dovuto a una condizione di anomia, di mancanza di risorse e di lavoro, quindi
una condizione molto svantaggiante, sarà necessario intervenire su queste.

Gli obiettivi principali della psicologia di comunità


• La prevenzione;
• La promozione della salute e del benessere e il miglioramento della qualità della vita dell’individuo e
della comunità nel suo complesso.
La prevenzione è anche legittimata dalla legge 833 del 1978, la Legge sulla Riforma Sanitaria, che
nell'articolo 1 parla proprio della “promozione, del mantenimento e del recupero, della salute fisica e psichica di
tutta la popolazione senza distinzioni di condizioni individuali e sociali” e nell'articolo 2 anche di “prevenzione
delle malattie e degli infortuni in ogni contesto di vita e di lavoro”.
Quando parliamo di prevenzione, parliamo fondamentalmente di tre tipi di prevenzione:
1. La prevenzione primaria riduce la possibilità che una malattia si evidenzi all'interno di un contesto,
di una popolazione, quindi agisce prima che la malattia possa manifestarsi (vaccini).
2. La prevenzione secondaria invece interviene nel momento in cui la malattia già si è diffusa
all’interno della popolazione, ma limita il suo diffondersi e il suo cronicizzarsi e si identifica con la
diagnosi e la cura precoce (le campagne che invitano la popolazione ad effettuare visite di controllo e
screening in campo oncologico per favorire una diagnosi precoce).
3. La prevenzione terziaria invece attenua le conseguenze della malattia in chi l’ha già avuta, il senso
di deficit, la possibilità del soggetto di sentirsi con un handicap in qualche modo. Si identifica con la
cura e la riabilitazione.

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Altre definizioni prendono per esempio in considerazione il gruppo target, e quindi identificano degli
interventi che possono essere universali, rivolti a tutti, selettivi, rivolti soltanto alle persone a rischio, o
individuali, rivolte alla persona nello specifico. Definizioni ancora più complesse prendono in considerazione
sia il gruppo target che il livello di intervento e sono stati identificati cinque livelli di intervento:
• Individuale;
• Sul microsistema;
• Sull'organizzazione;
• La comunità;
• Il macrosistema generale, per esempio, attraverso la formulazione delle leggi.
Gli interventi preventivi agiscono prima che il disagio si manifesti e agiscono su quei fattori che lo facilitano o
inibiscono, rallentando la possibilità delle emergenze di disagio.
Collegato al concetto di comunità è il concetto di resilienza. La resilienza deriva da una concezione di ambito
fisico, ed è fondamentalmente la capacità della materia di resistere agli urti, assorbendone un'energia positiva.
Nel campo della psicologia identifica la capacità del soggetto di resistere ai fattori di rischio e agli
eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita in seguito ad essi.
Il modello preventivo consta di due orientamenti complementari:
• Un orientamento preventivo, nel senso stretto della parola, in cui si previene il verificarsidella
patologia e il suo cronicizzarsi, e quindi realizzare interventi di riduzione del danno;
• Un intervento di promozione della salute e del benessere psicologico.
Se parliamo di promozione quello su cui facciamo riferimento è il positivo, quindi c'è una volontà,attraverso
questi interventi, di aumentare il benessere della persona partendo da quelle che sono le sue capacità, le sue
risorse, e su questo si lavora, si focalizzano e si interviene attraverso delle azioni che vanno a promuovere proprio
il positivo. Abbiamo però delle difficoltà rispetto all'insediamento dell'ottica preventiva, soprattutto dell'ottica
della prevenzione primaria.
C'è ancora un predominio della concezione eccezionalista, quindi che vede il disagio come nascere da difficoltà
individuali. Vi è un minor consolidamento dell’ottica preventiva rispetto a quella riparativa. Inoltre è presente
una maggiore sostenibilità di un orientamento temporale verso il presente. C'è soprattutto un'emergenza
continua rispetto agli interventi che porta l'attenzione dei professionisti, del territorio, della sanità soprattutto
sul qui ed ora, quindi spesso anche con una “psicoterapizzazione” dei servizi, in qualche modo. Soprattutto c'è
una scarsa domanda sociale di interventi di prevenzione, da parte della comunità, ma anche perché
appunto c'è un'emergenza continua che porta ad attuare degli interventi subito, che sono sempre interventi di
cura, quindi quando la malattia è già sorta. Poi ci sono anche da prendere in considerazione le caratteristiche
importanti proprie degli oggetti delle scienze sociali, è più difficile intervenire con un orientamento preventivo,
quindi che vada a inibire le cause dell'emergenza della malattia quando parliamo di un oggetto, per cui non si
può identificare una causa sola ma naturalmente nasce da più fattori che noi abbiamo visto essere, almeno nel
nostro orientamento, sia di tipo biologico-individuale sia di tipo sociale.
Quando parliamo di prevenzione quindi parliamo di due direzioni fondamentali:
• Una prevenzione di tipo “proattiva”, che va ad agire prima che il disagio si manifesti per eliminare
i fattori di stress ambientali, e quindi promuovere in questo modo il benessere del cittadino;
• Interventi di natura “reattiva”, che si identificano con la cura, in qualche modo, con la possibilità
di aumentare quelle che sono le competenze dell'individuo di fronte agli eventi stressanti (come
consulenza, strategie educative e formative) o più terapeutici (come gruppi di auto-aiuto).
L'altro importante obiettivo della psicologia di comunità è il benessere. Vi sono differenti definizioni a seconda
del criterio utilizzato:
• Criteri esterni: per esempio, in questo senso il benessere è visto come una condizione di vita ottimale,
si è in possesso di tutte le caratteristiche migliori da un punto di vista dei valori condivisi, e parliamo in
questo senso del benessere oggettivo o sociale;

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• Criteri interni: un benessere soggettivo,cioè il benessere in base al vissuto soggettivo e la valutazione
personale che la persona fa rispetto all'appagamento della propria vita;
• Il benessere soggettivo non viene definito come un criterio instabile perché varia da momento a
momento, per questo si fa maggiormente riferimento oggi a un nuovo costrutto che è quello del
benessere psicologico.
Il benessere psicologico viene sottolineato da La Riff attraverso sei caratteristiche fondamentali, che
sono:
• Le relazioni positive con le altre persone: quindi avere quello che prima abbiamo definito un buon
senso di comunità;
• L’accettazione di sé;
• L’autonomia: sentirsi autonomi e indipendenti;
• La padronanza dell’ambiente: avere un potere, una possibilità di agire;
• Avere uno scopo nella vita;
• La crescita personale: avere la possibilità di vedersi come un individuo in crescita in un processo
dinamico, che dura per tutto il corso della vita.

Lezione 2
Nascita e storia della psicologia di comunità
Per comprendere la psicologia di comunità oggi dobbiamo soffermarci sulla nascita di tre grandi rivoluzioni nel
campo della salute mentale:
1. La prima la possiamo inserire all'interno del contesto della Rivoluzione Francese da parte di un medico,
Philippe Pinel (1745-1826), che scarcerò proprio in quegli anni i soggetti psichiatrici detenuti. La
concezione era che il soggetto malato con una sofferenza psichica non fosse semplicemente un
antisociale, un delinquente o posseduto dal demonio, ma fosse portatore di una sofferenza che quindi
necessitava di un trattamento e di una modalità di trattamento diversa. Le sue concezioni vennero
riprese cinquant'anni dopo da Eli Todd (1769-1833), uno psichiatra americano molto famoso, che
vedeva nella comunità, nella società, l'origine dei problemi della malattia mentale perché proprio la
società, nel frustrare le aspettative di un benessere e di una qualità di vita molto alta da parte
dell'individuo, che concorre alla formazione della malattia stessa, per questo è la società stessa a dover
in qualche modo prendersene cura, e quindi occuparsi della cura e del trattamento di queste persone.
Entrambi affermavano la necessità di un trattamento umanitario. Alla fine del ‘800 però la
concezione del trattamento umanitario per i soggetti con una sofferenza psichica in qualche modo
fallisce, questo è dovuto anche al momento storico culturale che l'America affronta: un'eccessiva
industrializzazione e il pervadere di un'ottica di tipo individualistica sicuramente non aiuta questa
nuova concezione. In quel periodo gli psicologi erano assolutamente staccati dal contesto sociale e
fermi, chiusi all'interno dei loro laboratori, dei loro studi; la maggior parte degli psicologi americani poi
si formava all'interno delle strutture delle università tedesche, le quali si muovevano all'interno di
un'ottica autoreferenziale e conservatrice. In quel momento lo psicologo veniva utilizzato soprattutto
per la selezione delle reclute per la prima guerra mondiale o all'interno delle scuole per la selezione di
bambini particolarmente dotati o con problematiche che quindi necessitavano di un sostegno. L'unica
eccezione intorno agli inizi del XX secolo è il Movimento delle "Settlement Houses", che sono delle case
che nascono e sorgono per dare una risposta al fenomeno del "melting pot", cioè della mescolanza delle
razze dovute ai movimenti migratori. Il fine di queste strutture era sicuramente quello di assicurare a
queste persone disagiate la cura e un inserimento, un'inclusione nella società davvero realistico.
2. Il pervadere di quest'ottica, quindi dello psicologo centrato sull'individuo e sulle sue problematiche, si
associa poi a quella che potremmo definire essere la seconda rivoluzione nel campo della salute mentale,
che è dovuta all'opera di Sigmund Freud. Noi sappiamo che per Freud il problema dell'individuo è
da ricercare all'interno dello stesso, siamo all'interno di una logica intrapsichica. Diciamo che le sue

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osservazioni sono soggette a modifiche continue nel corso dei suoi studi, per cui possiamo distinguere
nella sua organizzazione teorica due tipi di concezioni diverse, la prima topica e la seconda topica.
Nella prima topica il disagio viene visto come conseguenza di un evento traumatico avvenuto
nell’infanzia e di tipo sessuale che la persona agisce o subisce e la malattia nasce, parte della rimozione
dell'affetto, cioè della rappresentazione mentale del sentimento che ad esso vi è collegato. Nella
seconda topica invece l'attenzione di Freud si sposta dall'esterno, quindi non è più un evento
traumatico, anche perché era difficilmente rintracciabile nelle storie delle sue pazienti isteriche, e parla
di una nevrosi e di un'isteria come conseguenza di un conflitto estremamente e specificatamente
intrapsichico tra le forze provenienti dalla parte più pulsionale e istintiva, l'Es, e le forze provenienti
dall'organo di coscienza, cioè l'Io, che tra l'altro poi media anche tutte le influenze del Super Io, quindi
dell'istanza necessaria per capire il dover essere, insomma raccoglie tutto il dovere. La cura per Freud
avviene attraverso un processo di psicoanalisi, e quindi l'analisi dei sogni e del transfert, che è quella
particolare relazione che si instaura all'interno della stanza di terapia tra il paziente e l'analista. Tutto
questo per dire che in quella fase, attraverso il pensiero di Freud, l'attenzione è assolutamente centrata
sull'individuo.
3. Le cose cambiano intorno agli anni ‘50 quando l'APA, l'Associazione Americana di Psicologia,dichiara,
come scopo principale della psicologia, proprio la “necessità di manifestarsi come una teoria, una
disciplina, una scienza, una professione finalizzata alla promozione del benessere della persona e del
suo contesto”. Si iniziano anche i lavori della "Joint Commission", della Commissione Interdisciplinare
per la Salute e la Malattia Mentale, che realizza uno studio all'interno del quale viene sottolineata la
necessità di una nuova pratica,sia teorica che più operativa, rispetto alla cura della malattia mentale. Le
persone quindi affette da una sofferenza psichica non possono più essere curate all'interno degli istituti
manicomiali, ma è necessario restituirle alla comunità che deve farsene carico. Tutto questo movimento,
che poi si situa all'interno anche di un momento storico-culturale dell'America di quel tempo, quindi
con la grande attenzione e gli sforzi appunto degli investimenti sulle classi più svantaggiate, una grande
attenzione agli emarginati (pensiamo soltanto al movimento dei neri o comunque della rivendicazione
delle donne, i movimenti contro la guerra in Vietnam), quindi un orientamento assolutamente
progressista, tutto questo dà l'avvio ad un Movimento di Igiene Mentale e di Comunità che viene
formalizzato nel 1963 attraverso una legge, la "Community Menthal Health Centers Act" (CMHCs).
Con questa legge vengono di molto ridotti i ricoveri all'interno delle comunità e vengono istituiti dei
nuovi servizi.
L'ottica di base, che è quella all'interno della quale ci muoviamo, è quella della prevenzione, e quindi
promuovere interventi preventivi. Si interviene sull'interazione tra il disagio del singolo e il contesto
sociale e territoriale all'interno del quale l’individuo è inserito. Inoltre si sviluppa un approccio interdisciplinare
al disagio mentale e sociale, perché ogni problema ha una dimensione personale e più soggettiva, ma anche
sociale e oggettiva.
I servizi che vengono offerti dai nuovi Centri di Igiene Mentale di Comunità, che nascono appunto con la legge
del ‘63, sono:

• Servizi conservatori, in qualche modo tradizionali, che sono i servizi predisposti alla cura della
persona e a tutte le attività diagnostiche;
• Servizi innovatori, e sono:
o L'ospedalizzazione parziale e di emergenza;
o Servizi di consulenza, di supporto psicologico;
o Riabilitazione;
o Un'attività di formazione continuativa agli operatori;
o Necessità di un’attività di ricerca e di valutazione dei servizi offerti.
Tra l'altro questi servizi non sono soltanto offerti alle persone ricoverate, ma a tutte quelle persone che
portavano un disagio, una sofferenza, come per esempio il tossicodipendente o i soggetti a rischio.
La legittimazione della disciplina avviene in un convegno a Swampscott nel 1965, dove per la prima
volta si parla di psicologia di comunità e c'è l'adozione di un modello multidisciplinare, che collega la psicologia
a tutte le altre scienze sociali, e la sottolineatura di un nuovo ruolo dello psicologo, che non è più il professionista

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chiuso nel suo studio ma è un operatore che agisce attivamente attraverso il suo intervento all'interno della
comunità.
Secondo una definizione data da Hobbs, uno degli psicologi che parteciparono al convegno del ’65:
“la malattia mentale non è una sofferenza personale di un individuo, ma è un problema sociale, etico e
morale, e quindi in questo senso la responsabilità ricade su tutta la società”,
quello che si prevede è che tutti i membri della comunità avessero la possibilità di seguire, di controllare e di
gestire l'operato dei centri di igiene mentale che erano stati istituiti in qualche modo. Nel 1966 poi viene anche
istituita, all'interno dell'Associazione di Psicologia Americana (APA), la Divisione di Psicologia di
Comunità, quindi quello che inizia in questo senso è un processo di legittimazione della disciplina, quindi
attraverso la formazione di un gruppo di persone unite insieme sotto una comune denominazione, ma anche la
formalizzazione attraverso una rivista, un giornale proprio della divisione.
Quello che si ribadisce, e che sono i punti fondamentali, è:
• Una differenza tra una strategia preventiva e una riparativa, quindi tra interventi di prevenzione
primaria e interventi di prevenzione secondaria e terziaria;
• Si sottolinea che i centri devono operare attraverso una diagnosi e un trattamento precoce, quindi
un'attività che si focalizzi anche su una prevenzione di tipo secondario;
• Si evidenzia, anche qui, il nuovo ruolo degli psicologi che è anche un ruolo di coordinamento di tutti i
servizi previsti, un coordinamento dei servizi che devono avere come fine quello dell'azione all'interno
della società attraverso un'attenzione anche a quelle che sono le problematiche sociali.
Negli anni ‘70 inizia un momento diverso per la psicologia di comunità, un momento di crisi, di revisione
profonda, con lotte interne tra un'area più moderata e l'area invece più radicale che criticava alla prima una
scarsa incisività sul contesto sociale. L'area radicale si fa più forte e iniziano per questo diverse lotte
all'istituzionalizzazione, con la creazione anche di setting alternativi, per esempio facendo delle esperienze di
auto-aiuto, del self-help e di socializzazione delle conoscenze. Vengono anche promulgate altre due leggi,
soprattutto che agiscono rispetto alla deistituzionalizzazione e in una conferenza ad Austin, nel 1975,
vengono ribaditi i punti fondamentali della disciplina:

• Il trattamento orientato alla prevenzione;


• Promozione delle competenze;
• La formazione di un'ottica sistemica;
• L'attivazione di ricerche multidisciplinari, che quindi non partissero e non finissero solo nel campo
psicologico, ma anche di tutte le altre scienze limitrofe, quindi con un approccio di tipo
multidisciplinare;
• Un approccio empirico, quindi pragmatico, dell'intervento sociale.
Invece negli anni ‘80 avvengono ancora più forti scontri tra l'ala radicale e l'ala moderata, e questi scontri, questa
rivisitazione però ha delle finalità positive, anche all'interno di diversi dibattiti e convegni che vengono attivati,
la disciplina ne fuoriesce però:
• Attraverso una maggiore identità della disciplina;
• C'è un ampliamento dei campi di intervento: per esempio lo psicologo di comunità entra all'interno
delle aziende, andando a valutare quelle che sono le ripercussioni delle azioni, come quella del
licenziamento, della disoccupazione, e quindi agendo anche attraverso degli interventi di prevenzione
sui soggetti a rischio;
• Ci sono programmi più generali di sviluppo comunitario, attivati dalle ricerche sul territorio e
l'attivazione di servizi di rete, o la rete tra i servizi.
Negli anni ‘90 assistiamo allo sviluppo e al consolidamento della disciplina. I concetti principali su cui
si incentra l'attività degli psicologi di comunità, a partire da questi anni in poi, sono quelli di:
• Empowerment;
• Auto e mutuo aiuto;

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• Sostegno sociale.
L'empowerment, nella definizione data da Zimmerman (1999) è:
“la capacità, reale o percepita, di poter intervenire sulle decisioni, di avere consapevolezza critica di come
funzionano le strutture di potere e i processi decisionali, e di vedere la partecipazione come uno strumento
per ottenere i risultati previsti”.
Quindi l'empowerment è la capacità di sentire, di avere potere, da parte dell'individuo, di conoscere quelle che
sono e come funzionano le strutture della comunità, e quindi poter all'interno di esse agire per modificarle, e di
una concezione della necessità della partecipazione di tutta la cittadinanza per migliorare la qualità di vita.
Attuare quindi programmi centrati sull'empowerment significa proprio rafforzare le competenze dei singoli
membri e della comunità, e significa anche rafforzare il proprio senso di potere e la capacità di leggere quello
che avviene all'interno della società.
Uno degli obiettivi su cui si focalizzano gli psicologi di comunità è il concetto di aiuto e mutuo aiuto. La
definizione data da Alfred Katz ed Eugene Bender (1976) dei gruppi di auto-aiuto è che essi sono delle:
“strutture di piccolo gruppo, a base volontaria, finalizzate al mutuo aiuto e al raggiungimento di scopi
particolari. Essi sono di solito formati da pari che si uniscono in una reciproca assistenza nella soddisfazione
dei propri bisogni, per superare un handicap comune o un problema di vita oppure per impegnarsi a produrre
cambiamenti personali o sociali desiderati. All'interno di questi gruppi vengono enfatizzate le relazioni sociali
faccia a faccia e soprattutto anche il sostegno materiale ed emotivo. Spesso sono orientati verso una qualche
“causa” e si propone una nuova “ideologia” o dei valori, dove i membri acquisiscono e potenziano il proprio
senso di identità personale”.
Hanno una base volontaria, quindi non c'è nessuna costrizione nella formazione degli stessi e sono finalizzati al
reciproco aiuto, infatti vedremo che l'elemento caratterizzante, l'elemento più terapeutico dei gruppi di auto-
aiuto è proprio la possibilità di ogni singolo partecipante di essere “helper”, di essere quello che dà l'aiuto
all'altro, attraverso la condivisione delle esperienze e dei vissuti rispetto alla problematica portata.
Il sostegno sociale è un costrutto complesso, racchiude in sé diversi tipi di sostegno che noi viviamo
quotidianamente:
• Il supporto emotivo, quindi la vicinanza emotiva all'altro, l'empatia, cioè la capacità di capire e di
entrare nello stato emotivo dell'altro, di viverlo come proprio, di compartecipare, in qualche modo;
• Il supporto informativo, che è lo scambio di informazioni che aiutano l’elaborazione cognitiva degli
eventi;
• Il supporto interpersonale, quindi la vicinanza, il rapporto con i gruppi, che noi sappiamo essere
gruppi della comunità, più o meno formalizzati (gruppi informali, quindi quelli familiari, gruppi di
lavoro ecc.), i gruppi più formalizzati come le istituzioni;
• Il supporto materiale, infine, è la risorsa, è il materiale che l'altro ci offre all'interno della comunità,
dal gruppo.
Tutti questi tipi di supporto, di sostegno sociale, concorrono a formare quello che noi abbiamo definito capitale
sociale, che è un aspetto fondamentale del sentirsi vicini agli altri, dall'avere fiducia nell'altro, nella sensazione
di reciprocità che con l'altro esiste.
Negli anni ’90, in America, l'attenzione si focalizza:
• Sui gruppi più emarginati dalla società, quindi abbiamo le minoranze etniche, gli immigrati, ecc.;
• Sugli adolescenti;
• Sulla violenza sulle donne;
• Sull'omosessualità;
• Sui gruppi a rischio di contagio AIDS e altre malattie infettive.
L’obiettivo fondamentale è quello di influenzare le politiche sociali e statali attraverso la diffusione dei
risultati degli studi e delle ricerche sui diversi problemi sociali, con la promulgazione finale, per esempio, delle
leggi. Dall'America, la psicologia di comunità si diffonde negli altri paesi, dopo gli Stati Uniti d’America

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si diffonde anche in Nuova Zelanda, in Australia, Canada, Sud-America, fino ad arrivare anche in Europa. Ciò
che accomuna tutti gli approcci della disciplina nei diversi paesi è:
• Il desiderio di andare oltre la psicologia individuale, quindi una visione appunto individuale e
intrapsichica dei problemi e dei disagi che la persona porta, e di mettere insieme all'interno di un
approccio ecologico sistemico, la persona, l'ambiente e il contesto, di guardare quindi alle loro
interazioni per poterne capire il comportamento, il funzionamento globale e le eventuali difficoltà;
• C'è sempre un'enfasi, in tutte diciamo le teorie che poi si diffondono rispetto alla psicologia di comunità,
quindi c'è sempre un'enfasi sulla prevenzione nelle tre declinazioni di cui abbiamo parlato, primaria
secondaria e terziaria;
• C'è una grande enfasi sulla ricerca.
Naturalmente l'insediamento, la diffusione negli altri paesi della psicologia di comunità è influenzata dallo
status che la psicologia ha in quel determinato paese: se c'è uno status riconosciuto sia dal punto di vista
accademico che dal punto di vista culturale naturalmente il suo insediamento è più facile e agevolato.
Gli obiettivi degli psicologi europei sono:
• Rafforzare le basi teoriche, perché gli americani venivano criticati per avere uno scarso apparato
epistemologico;
• Sviluppare delle tecniche per dei mutamenti organizzativi e di rete, che si basassero più sul gruppo,
sull'osservazione, l'analisi e la diagnosi del gruppo e del contesto comunitario in generale;
• Dare importanza al ruolo del sociale nella produzione poi delle patologie, e quindi a livello eziologico.
Molto significativo è un progetto del 1992, e cioè il Primo Convegno Internazionale, che si sviluppò in
Portogallo, a Lisbona, rispetto al reinserimento sociale di giovani soggetti con una patologia psichiatrica, che
vennero inseriti all'interno di gruppi di auto-aiuto per poi favorire loro l'insediamento all'interno del contesto
lavorativo. Lo psicologo che lavorava in questi progetti non era deputato al colloquio psicologico con la persona
sofferente, ma fungeva da mediatore, da intermediario tra la persona e l'azienda che l'avrebbe assunto, e quindi
favoriva in questo senso proprio l'inclusione sociale. Lo psicologo aiutava la persona attraverso tre azioni
fondamentali, una di orientamento e una di formazione, e poi l'inserimento lavorativo stesso, a capire
qual era realmente la propria scelta, le proprie capacità, le proprie risorse, e quindi indirizzarsi verso una scelta
professionale congrua, e aiutava poi a trovare effettivamente il lavoro.
Quindi i principi della psicologia di comunità in questo senso sono:
• La partecipazione attiva del territorio;
• L'instaurarsi di una rete tra i servizi;
• La sottolineatura delle capacità del soggetto, quindi della promozione del soggetto;
• La riduzione del danno e quindi di prevenzione terziaria.
In Italia la psicologia di comunità arriva negli anni ‘70, anche qui, come succede in America, si fonda
all’interno di un orientamento molto progressista, pensiamo ai movimenti studenteschi, femministi dell'epoca.
L'ottica all'interno della quale ci muoviamo anche in Italia rimane identica, quindi:
• Necessità di attuare interventi preventivi;
• Migliorare la qualità di vita dei soggetti;
• Aumentare soprattutto l'empowerment comunitario, e quindi la competenza della comunità insieme.
Si focalizza molto lo studio degli psicologi di comunità in Italia sul lavoro di rete, il senso di sicurezza dei cittadini
e poi l'azione del terzo settore, delle cooperative sociali. Ci sono delle date importanti in Italia, per esempio nel
1977 esce il primo manuale della Francescato e nel 1986 addirittura il corso di psicologia diventa una
laurea, la laurea in psicologia clinica e di comunità, quindi c'è una legittimazione accademica della materia.
Ciò che influenza in Italia l’insediamento della disciplina a livello teorico è la diffusione delle idee della Scuola
di Palo Alto, quindi sulla pragmatica della comunicazione, all’interno della quale si sviluppa l’idea del soggetto
agente e relazionale (quindi l’inscindibilità della relazione tra il soggetto e il contesto; non possiamo capire ciò

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che accade in un individuo o ciò che l’individuo fa se lo togliamo dal suo contesto di riferimento). A livello pratico
la psicologia di comunità nasce e si sviluppa in relazione:
• All'azione di deistituzionalizzazione di Franco Basaglia e dagli esponenti della Psichiatria
Democratica;
• La promulgazione e l'erogazione di alcune leggi innovative, che sono:
o La legge n. 118 del 1971 sull’Istituzione delle Unità territoriali di riabilitazione;
o La legge n. 416 del 1974 sull’Istituzione dei decreti delegati nella scuola;
o La legge n. 382 del 1975 sul Trasferimento delle competenze dello Stato alle Regioni e agli Enti
Locali;
o La legge n. 374 del 1975 ovvero la riforma dell’Ordinamento Penitenziario;
o La legge n. 405 del 1975 sull’Istituzione dei Consultori;
o La legge n. 194 del 1978 per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della
gravidanza;
La legge n. 685 del 1975 circa le norme sulle sostanze stupefacenti e la tossicodipendenza;
o La legge n. 517 del 1977 sull’inserimento dei portatori handicap nelle classi normali per garantire
una reale integrazione;
o La legge n. 180 del 1978 sull’assistenza psichiatrica;
o La legge n. 833 del 1978 sulla Riforma Sanitaria.
Prendiamo per esempio la legge 405 del 1975, che prevede l'istituzione dei consultori familiari, che noi sappiamo
essere una realtà importantissima oggi del Sistema Sanitario, essi offrono:

• L'assistenza psicologica e sociale per aumentare e facilitare il consolidarsi della funzione genitoriale e
preparare al parto, alla maternità e alla paternità, appunto i giovani genitori, finalizzati anche al
sostegno sulle problematiche della coppia;
• Danno anche tutti i mezzi necessari per arrivare ad una scelta libera e responsabile rispetto al
concepimento;
• Tutelano in primis la salute della donna e del minore, e quindi del figlio;
• Favoriscono la divulgazione delle informazioni, quel supporto informativo, che sono necessarie per
prevenire la gravidanza quando non è desiderata o per concepire invece un figlio.
Oppure prendiamo come esempio la legge 685 del 1975 sulle tossicodipendenze, in cui si dava una priorità alla:
• Prevenzione;
• Riabilitazione;
• Inclusione sociale, e quindi al reinserimento sociale dei giovani.
Il consumatore tossicodipendente non è più visto come un delinquente soltanto, ma è “un soggetto disadattato
socialmente”, e quindi è importante prendersene cura, prendersene carico. Vicino alla legge sulla
tossicodipendenza c'è la riforma del sistema penitenziario, la legge 354 del 1975, in cui si sottolinea il carattere
rieducativo della pena, così come anche evidenziato dall'articolo 27 della nostra Costituzione. Inoltre, si
sottolinea la necessità di una pena finalizzata all'inclusione sociale del soggetto detenuto attraverso sia un
trattamento che avesse delle caratteristiche intra-murarie che extra-murarie, per questo c'è l'introduzione delle
misure alternative alla detenzione, l'affidamento in prova ai servizi sociali o tutte le misure di semi-libertà
necessarie che facilitano l'inclusione e il contatto con il reinserimento con la comunità. È una legge che poi viene
seguita dalla promulgazione della legge Gozzini, soprattutto extra-carceraria, in cui vengono ampliati gli istituti
di misura alternativa e questa accentua il ricorso al territorio e all’immediato reinserimento.
Arriviamo alla legge fondamentale per chi si avvicina allo studio della psicologia, la legge 180 del1978,
fortemente voluta dall'opera di Basaglia, la legge sulla deistituzionalizzazione dei malati di mente
(vengono sottolineati i punti fondamentali dei nuovi sistemi di cura):
• La regolamentazione del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), da effettuare solo in casi estremi,
quando la persona non è in grado di intendere di volere, e quindi non è possibile avere un consenso
informato da lui o per tutelare o tutelare l'altro nel momento di crisi;

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• Il divieto di costruzione di nuovi ospedali psichiatrici, quindi la necessità di chiusura degli ospedali
psichiatrici e il divieto di ricostruirne altri, e l’utilizzo di quelli esistenti come divisioni specialistiche
psichiatriche di ospedali generali;
• L'istituzione dei servizi ambulatoriali, oggi conosciamo i Dipartimenti di Salute Mentale (DSM), i
centri diurni ecc., proprio per finalizzarli alla cura della malattia mentale.
Infine un'altra legge fondamentale è la legge 833 del 1978 sull’Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale
(SSN) che, all'articolo 1, si esprime in questo modo:
“è costituito da quel complesso di funzioni, di strutture, di servizi e delle attività destinati alla promozione, al
mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di
condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del
servizio. L’attuazione del Servizio Sanitario Nazionale compete allo Stato, alle Regioni e agli Enti Locali
territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini”.
Quindi quel complesso di funzioni, di strutture, di servizi e delle attività destinati alla promozione, al
mantenimento e al recupero della salute fisica.
I principi fondamentali della Riforma sono:

• L'unitarietà, la globalità e il decentramento dei servizi sociali e sanitari;


• La partecipazione dei cittadini alla gestione sociale dei servizi;
• Un orientamento sulla prevenzione del disagio e della malattia, oltre che alla diagnosi e allacura.
Così come ci sono dei fattori che aiutano, influenzano positivamente lo sviluppo della disciplina in Italia, ci sono
anche fattori che ostacolano lo sviluppo e il consolidamento di questa disciplina, e sono:
• Fattori politici: per esempio, l'avversione e l’ostracismo alle scienze psicologiche, che abbiamo avuto
in Italia durante l'epoca del fascismo;
• Fattori culturali: c'è ancora una grande diffidenza da parte della comunità nei confronti della
professione dello psicologo;
• Fattori professionali: come l'introduzione tardiva della disciplina nel campo accademico o la nascita
tardiva per la formazione degli psicologi riguardo all'Albo dell'Ordine degli Psicologi.
Altri ostacoli sono:
• Le leggi che abbiamo citato sono state attuate solo parzialmente, e pensiamo che gli ospedali psichiatrici
giudiziari, per esempio, sono stati ancora attivi fino a marzo scorso,quindi non sono stati propriamente
chiusi, come legge del ’78 ci diceva;
• C'è una predominanza della rappresentazione mentale dello psicologo come “psicologo clinico”
fondamentalmente.
Fermiamoci proprio sulle differenze tra la psicologia di comunità e la psicologia clinica. Entrambi, lo
psicologo di comunità e lo psicologo clinico, hanno un interesse verso il benessere della persona, dell'altro, del
cliente o del paziente, però si muovono all'interno di ottiche, di tempi e spazi diversi. L'ottica assunta dalla
psicologia di comunità è un'ottica proattiva, che interviene prima che il problema emerga, previene il disagio
e promuove il benessere. Invece quella dello psicologo clinico è un'ottica reattiva, interviene dopo che il
malessere si è già introdotto, si è già sviluppato. Il disagio, secondo la psicologia di comunità, è un disagio che
è collocato negli ambienti sociali, o forse meglio nella relazione che l'individuo instaura con l'ambiente sociale,
e comunitari che vanno modificati per migliorare l’adattamento della persona. Invece nell'ottica della psicologia
clinica, il disagio è collocato all'interno dell'individuo o al massimo, se prendiamo per esempio in considerazione
l'ottica sistemico-relazionale, nella relazione che l’individuo ha con il suo contesto familiare. Per cui in questo
senso anche l'intervento deve avere un carattere preventivo, è rivolto anche alle strutture del sociale, oltre che
all'individuo, e in questo invece è proprio l'intervento classico che noi pensiamo quando immaginiamo l'opera
dello psicologo, che è quello rispetto alla cura dello stesso. Lo scopo della psicologia di comunità è la promozione
del benessere e della qualità della vita.

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L’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità), nel 1987, sostiene che la salute non è un’assenza di malattia,
ma una crescita del controllo e della gestione diretta delle proprie condizioni di benessere e/o disagio.

Lezione 3
I modelli teorici della psicologia di comunità
Kurt Lewin e la teoria del campo
Per parlare dei paradigmi teorici di riferimento non possiamo non iniziare da uno dei capostipiti della disciplina
che è Kurt Lewin (1890-1947), e il contributo fondamentale che dà alla psicologia di comunità è la Teoria del
campo. L’autore ne parla non come di una vera propria teoria, ma come di un:
“metodo di analisi delle relazioni causali, di causa-effetto, che ci sono tra gli eventi, per produrre poi una
conoscenza scientifica, che vada a spiegare i fatti sociali”.
Infatti, per Kurt Lewin, sono quegli insiemi dei fattori, individuali e ambientali, che avvengono in un dato
momento: questi fatti si trovano all'interno del campo psicologico. Quando diciamo che i fatti avvengono in un
dato momento, di un preciso istante, non togliamo però anche la visuale al passato, al presente e al futuro
dell'individuo, dei suoi comportamenti e della società, quindi c'è sempre la valutazione di un contesto dinamico
che è in movimento, quindi c’è sempre uno sguardo anche a ciò che è successo prima e ciò che succederà
successivamente.
Quindi “il campo psicologico che esiste a un dato momento, contiene anche punti di vista da cui l’individuo
guarda al futuro e al suo passato” e all'interno del campo i fatti sono collegati tra loro da un legame di
interdipendenza, l'uno senza l'altro non esiste.
Nel campo psicologico troviamo:

• Lo spazio di vita: all'interno dello spazio di vita noi parliamo, identifichiamo il comportamento umano
come una relazione, come frutto di una relazione tra la persona (P) e l’ambiente psicologico percepito
(A), quindi l'ambiente così come viene percepito dalla persona. Tant'è vero che Lewin è molto famoso
per la nota formula di comportamento in funzione della relazione tra la persona e l'ambiente: C = f (P,
A).
• Insieme allo spazio di vita, poi nel campo troviamo anche quei fatti che appartengono all'ambiente
completamente sociale, che non interagiscono direttamente con l'individuo e quei fatti invece che si
situano su una linea di confine tra la persona e l'ambiente all'interno di un interscambio continuo. In
ogni caso l'individuo è sempre un soggetto attivo, mai passivo rispetto all’ambiente. La
relazione che c'è tra la sfera individuale-soggettiva e quella sociale-oggettiva è una relazione dinamica,
continuamente attiva, e si concretizza all'interno dell'agire umano. L'azione, a sua volta, ha una forte
valenza trasformatrice, può modificare le condizioni ambientali attraverso una consapevolezza rispetto
al proprio potere, quello quindi che possiamo dire è che l'azione è un vero e proprio “processo
psicosociale”.
L'azione poi è collegata anche al concetto della ricerca per Lewin. Il contributopiù importante che Lewin dà,
all'interno di questo tema, è il concetto della ricerca partecipata.
Identifica una modalità di ricerca sul campo che è strettamente collegata all'azione, la ricerca
senzaazione non può esistere e l'azione necessita della collaborazione di tutti gli individui; quindi le ricerche
partecipate che noi andremo a conoscere sono tecniche a cui partecipano diversi membri della comunità, che
diventano soggetti attivi e trasformano in questo modo, aumentando la propria consapevolezza e quindi facendo
ricerca, anche la loro possibilità di azione nel sociale.
Per fare una ricerca, secondo Lewin:

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• È importante lo studio delle dinamiche del campo psicologico, non c’è una descrizione statica, ma di
come i fatti avvengono nel loro sviluppo temporale;
• La teoria deve precedere la raccolta dei dati, un altro elemento fondamentale;
• Lewin pone l'attenzione alla necessità d’uso di una metodologia multidisciplinare, proprio perché
sappiamo che l'oggetto di studio che noi portiamo avanti e su cui ci soffermiamo è un oggetto di studio
complesso che necessita quindi di professionalità diverse.
Un altro contributo fondamentale della teoria di Lewin è quello relativo all'analisi del piccolo gruppo. Il
piccolo gruppo, in generale, è un insieme dinamico caratterizzato dall'interdipendenza e dalla reciproca
influenza dei suoi membri, quindi regolato da norme specifiche che regolano quest’interdipendenza. All'interno
del gruppo la persona cresce, si sviluppa (tutti quanti noi cresciamo e aumentiamo la nostra socialità all'interno
di un gruppo), quindi nel gruppo la persona si confronta con le altre persone, si esprime. All'interno del gruppo,
l'individuo impara anche a conoscere le limitazioni rispetto al proprio comportamento, quindi dà un senso del
limite che è fondamentale per il vivere sociale. Quello su cui viene posta l'attenzione è proprio la potenzialità
trasformativa del gruppo, infatti il gruppo ha una potenzialità trasformativa, sia a livello individuale
che sociale, all'interno del gruppo noi abbiamo potere e possiamo modificare gli eventi che succedono. Tutti
questi concetti: l'interdipendenza, l'importanza del gruppo e della sua capacità trasformativa, l'importanza della
relazione tra la dimensione più psicologica e la dimensione sociale e ambientale, sono concetti che poi andranno
a confluire e andranno a influenzare le pratiche dello psicologo di comunità. Se noi pensiamo soltanto all'uso
dell'auto-aiuto,dei gruppi di auto-aiuto, del self-help, o alle ricerche partecipate che appunto abbiamo prima
nominato, come l'analisi organizzativa multidimensionale o semplicemente le azioni di consulenza che lo
psicologo di comunità fa all'interno del suo contesto lavorativo, vediamo appunto, all'interno di questi, tutti i
principi fondamentali.

Barker e la psicologia ambientale


Oltre a Lewin, dobbiamo anche porre l'attenzione sull'approccio ambientale della psicologia ambientale.
Anche in questo caso e sempre, la psicologia ambientale è una disciplina che studia il benessere e il
comportamento degli individui, in relazione alle transazioni che avvengono tra l’individuo e il
suo ambiente socio-fisico. Il massimo esponente della psicologia ambientale è Barker, allievo di Lewin,
che si distanzia dal suo pensiero, perché pone maggiormente l'attenzione sui fattori ambientali oggettivi,
che sono esterni all'individuo; sono i fattori ambientali oggettivi che determinano il comportamento umano e
non viceversa.
Egli porterà avanti anche un nuovo metodo di ricerca, proprio perché è critico verso la metodologia di ricerca
sperimentale, chiusa all'interno del proprio laboratorio, e utilizzerà una nuova metodologia che è quella
dell'osservazione naturalistica.
Barker era interessato molto al comportamento dei bambini, soprattutto a capire le cause delle problematiche
infantili. Così iniziò ad osservare, in una piccola cittadina del Kansas, i bambini nel loro contesto di vita naturale
(l'osservazione è appunto naturalistica). All'interno di quest'osservazione l'operatore, lo psicologo, non modifica
nulla, non manipola nulla rispetto a quello che vede, ma è un semplice trasduttore di ciò che viene visto,
decodifica quello che accade. Questo metodo di osservazione ben presto Barker si rese conto che fosse troppo
lungo e costoso, sia da un punto di vista economico che da un punto di vista temporale, e quindi iniziò invece
ad analizzare i comportamenti umani all'interno dei behavior settings o i setting comportamentali: i
setting comportamentali sono un'unità ambientale più piccola, molare, all'interno del quale avvengono dei
comportamenti significativi (possiamo identificare come setting comportamentali, per esempio, la chiesa, la
scuola, la biblioteca, ecc.).
L'individuo compie sempre le stesse azioni, qualsiasi siano le differenze individuali, cioè il setting
comportamentale è gestito da un programma, da un insieme di regole e di norme che sono sempre uguali,
qualsiasi siano i loro partecipanti. Per esempio, se prendiamo la scuola sappiamo che vige un determinato
codice, gli studenti sono seduti al loro banco, ascoltano la lezione, rimangono attenti, ecc. In chiesa la stessa
cosa, i credenti che partecipano alla messa sono seduti nei loro banchi, non parlano o parlano a bassa voce e
seguono con attenzione.

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Questo significa, secondo Barker, che il comportamento dell'individuo è strettamente influenzato
dal programma del setting vero e proprio, e quindi da quelle regole che sono fisse, rigide e sempre presenti.
All'interno di questi studi, e quindi dello studio dei setting comportamentali, Barker individua due
caratteristiche fondamentali, che sono:
1. Il grado di penetrazione, cioè quanto l'individuo partecipa e per quanto tempo a quel setting
comportamentale, e divide sei livelli di penetrazione: più è centrale la zona di penetrazione all'interno
della quale l'individuo si trova, maggiore è la possibilità che l'individuo ha di assumere dei ruoli di
responsabilità, quindi di aumentare il proprio potere e la propria capacità di azione all'interno del
setting stesso, e quindi di diventare il leader di quel setting; minore, quindi più è lontano e più è
periferica la zona in cui si posiziona l'individuo, maggiore sarà invece la sua passività, e quindi la
possibilità che venga emarginato, e quindi il suo ruolo sarà quello di osservatore passivo;
2. Un'altra caratteristica fondamentale del setting è la ricchezza: la ricchezza è un costrutto complesso,
perché è dato dalla combinazione del numero di persone che partecipano, divisi per caratteristiche,
quindi sesso, genere, età, status, etnia, ecc., in grado di penetrare il setting, insieme con le modalità
comportamentali e di azione che l’individuo attua e il tempo di apertura del setting stesso.
Nello studiare il numero dei setting e il numero dei partecipanti adesso, Barker arriva anche ad una nuova
teoria, che è la teoria del dimensionamento relativo e propone la superiorità del funzionamento del setting
di piccole dimensioni rispetto a quello di grandi dimensioni, secondo la quale è più funzionale:

• Un setting sottodimensionato (o sottopopolato), dove è minore è la popolazione. Nei setting


sottopopolati funzionano meglio, perché le persone hanno maggiori opportunità ed esercitano una
maggiore pressione, e quindi possono ricoprire dei ruoli o delle posizioni di maggiore responsabilità;
• Il contrario avviene nei setting sovradimensionati, che infatti offrono poche possibilità all’individuo, e
quindi è maggiore la passività e il non coinvolgimento.

Moos e la psicologia ambientale


Un seguace di Barker è Moos. Moss pone molta attenzione sulle variabili ambientali nella formulazione del
comportamento umano ma, diversamente da Barker, prende in considerazione anche la percezione
che l'individuo ha, quindi il vissuto soggettivo dell'individuo all'interno del proprio contesto di vita.
Quindi andrà a fornire degli strumenti, costruire delle scale e dei questionari, proprio per valutare la pressione
ambientale, cioè quelle caratteristiche che coinvolgono e connotano certi ambienti e che esercitano
un'influenza dell'individuo, così come l'individuo li percepisce. Moss si propone di cogliere proprio il rapporto
tra strutture organizzative evissuti soggettivi. Diversamente da Barker, c'è una maggiore attenzione alla
dinamica psicologica.

Kelly e la prospettiva ecologica


Kelly mette in evidenza, ancora una volta, l'importanza dei setting naturali e di come il comportamento umano
sia una risultante del processo di adattamento che l'individuo fa, all’interno del suo contesto, rispetto a quelle
che sono le risorse e le circostanze presenti nel contesto stesso. Quindi l'attenzione è rivolta a questo
accomodamento esistente tra l'individuo e il suo ambiente, e quindi modificando le risorse
presenti e la distribuzione delle risorse presenti, all'interno del proprio contesto di vita, si possono
modificare anche le condizioni all'interno della quale il contesto vive, e quindi migliorare il suo benessere. Non
c'è una ricerca della psicopatologia come una connotazione prettamente individuale e psicologica, ma una
valutazione del disagio dell'individuo come emergente all'interno di questa relazione e in relazione alle risorse
presenti nel territorio.
Questo significa appunto incoraggiare, secondo Kelly, in modo importante la ricerca e l'uso delle risorse. Anche
in questo approccio, così come abbiamo visto rispetto a Lewin, l'uomo è un soggett0, una persona dotata
di competenze che può utilizzare per il proprio sviluppo, e quindi per il proprio benessere. Kelly
propone poi quattro principi fondamentali studiando i contesti di vita, che poi andranno in qualche modo
anche a influenzare gli interventi che gli psicologi di comunità, attuiamo sull'ambiente, quindi nella comunità
stessa.

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1. Il primo principio di cui Kelly parla è il principio dell'interdipendenza, che significa che il
cambiamento di qualsiasi parte del sistema produce un cambiamento negli altri. Pensiamo, per
esempio, ad un padre che perde il lavoro, è normale che questo produrrà dei cambiamenti nella
modalità di vita della propria famiglia, quindi nel proprio sistema familiare, così come anche la
possibilità, per esempio, che i figli non possano più studiare, quindi nel sistema scolastico, è una catena
che è appunto legata, una catena di eventi interconnessi tra di loro.
2. La ciclicità delle risorse si collega a quello che abbiamo detto prima, per cui è fondamentale porre
l'attenzione sulla distribuzione delle risorse, presenti nell’ambiente, e quindi sono le risorse umane,
organizzative, tecnologiche, economiche, ecc., e quindi modificarle a seconda del bisogno;
3. Un altro principio fondamentale è quello dell'adattamento, di stampo darwiniano, per cui
l'organismo varia le proprie abitudini, le proprie caratteristiche, in funzione delle condizioni e delle
trasformazioni ambientali. In questo senso, gli studi confermano che, all'interno delle istituzioni
totali, il soggetto internato dimostra una scarsa capacità di agire, dei pattern comportamentali molto
rigidi, molto scarni. Se l'individuo viene spostato all'interno del suo contesto di vita, e quindi
stimolato ulteriormente da condizioni ambientali diverse, il soggetto riprende a vivere in modo
diverso e aumenta quelle che sono le sue capacità di azione, e quindi anche il numero dei propri
comportamenti.
4. La successione permette la programmazione degli interventi nel campo della psicologia dicomunità
e identifica e sottolinea il fatto che l'ambiente ha delle proprietà dinamiche che permettono di rilevare
come i diversi contesti evolvono nel tempo (e questo permette la programmazione degli interventi),
per cui quando pensiamo ad un intervento da inserire all'interno di un determinato contesto o
all’interno di un determinato sistema, dobbiamo anche immaginare l'evoluzione che quel sistema ha
nel suo divenire.

Levine e la prospettiva ecologica


Tutti questi principi vengono poi utilizzati da Levine proprio per impostare la metodologia degliinterventi da
attuare. Egli propone, attingendo alla prospettiva ecologica, cinque principi per la pratica della psicologia di
comunità:
1. Un problema nasce in un setting o in una situazione: i fattori situazionali causano, innescano
e/o mantengono il problema. Innanzitutto la valutazione che un problema nasce all'interno di un
setting, e quindi non può essere contestualizzato, devono essere analizzate quelle forze, quegli eventi
che portano al problema o che facilitano la risoluzione o in qualche modo l'arrestano.
2. Un problema nasce perché la capacità adattiva, di problem solving, del setting sociale,
del contesto è bloccata, e questo noi lo vediamo anche nella pratica più prettamente clinica, anche
una persona che richiede un aiuto psicoterapico è una persona che in quel momento non riesce a gestire
la propria capacità di problem solving, rispetto al problema, è appunto limitata;
3. Un aiuto deve essere collocato in modo strategico rispetto all'insorgenza del problema:
quindi va valutato quando e come attuare l'aiuto in relazione il problema;
4. Gli scopi e i valori dell'operatore o del servizio di aiuto, e quindi dell'intervento che
andremo ad attuare, devono essere congrui, coerenti agli scopi e ai valori del setting del
contesto su cui andremo ad agire. Questo è importante perché altrimenti l'intervento che noi mettiamo
in atto potrebbe avere delle resistenze, da parte della comunità, anche qui un’analogia con il contesto
clinico: nel momento in cui incontriamo un individuo, una coppia, una famiglia è fondamentale
conoscere quelli che sono i valori, i miti di quelle persone e agire su quelli, entrando in connessione,
se noi ponessimo dei valori diversi da quelli condivisi dall'individuo e dalla famiglia troveremo delle
resistenze al trattamento, e invece questa è la condizione fondamentale per creare l'alleanza
terapeutica, e quindi di continuare nel nostro percorso di cambiamento.
Tornando a Levine, la forma dell'aiuto fornito deve essere stabilita in modo sistematico, quindi dev'essere
sistematica, e devono essere usate le risorse presenti nel setting o introdotte delle nuove risorse, sempre in modo
congruo, che devono diventare istituzionalizzate come parte del setting, e quindi riconosciute anche dalla
collettività.

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Bateson e l’approccio sistemico
Un altro approccio fondamentale per la psicologia di comunità, è l'approccio sistemico. La teoria dei sistemi
era già utilizzata dalla teoria della Gestalt e poi applicata agli studi sulla comunicazione, pensiamo soltanto alla
scuola di Palo alto, Watzlawick e tutti i colleghi.
Il sistema è un'unità complessa e organizzata secondo regole stabilite, all’interno vi è il carattere
dell'interdipendenza presente tra le parti che sono al suo interno e dalla relazione con l’ambiente. Il sistema è
un'unità intera di parti in relazione tra loro. È un tutto e l’intero è più della somma delle sue
parti. Il sistema è regolato da alcune regole fisse, infatti leproprietà del sistema sono:
• La totalità, come abbiamo già detto, un cambiamento in una parte del sistema produce un
cambiamento anche nell'altra;
• La retroazione, il fenomeno che abbiamo appena sviluppato, che appunto mette e sottolinea il
carattere circolare dei sistemi interattivi, quindi ogni comportamento influenza ed è influenzato dal
comportamento dell’altro;
• L’equi-finalità e la multi-finalità, per cui i risultati non dipendono solo dalla condizione inizialema
dalla natura del processo e dai parametri del sistema, e quindi da tutto il processo.
Il concetto di sistema viene utilizzato all'interno della psicologia di comunità. Si parla dei “sistemi sociali” come
un insieme di rapporti tra elementi di complessità crescente, dai sistemi più piccoli fino ai sistemi più grandi,
infatti dall'individuo fino alla comunità intera (individui, piccoli gruppi, organizzazioni e comunità, cioè come
rete che consiste di rapporti e di relazioni tra persone).
Un contributo importante alla teoria dei sistemi è quello di Gregory Bateson, e poi anche Murrell. Gregory
Bateson (1904-1980), un antropologo, studia fondamentalmente i sistemi e si interessa di due tipi di forze
fondamentali all'interno del sistema.
1. Le forze che vanno in antagonismo: quindi portano alla possibile rottura da parte del gruppo,
quindi processi di schismogenesi;
2. Le forze di adattamento: invece che tendono ad un compromesso e a una coesione sociale.
Queste forze si trovano in equilibrio grazie a un sistema di feedback, di retroazione: abbiamo una
retroazione positiva quando le informazioni, e ciò che avviene all'interno di un contesto, devia dalla condizione
iniziale, aumenta quindi la condizione di differenziazione, una retroazione negativa quando invece il sistema
ritorna allo stato iniziale, quindi si stabilisce l'omeostasi. Quindi questo significa che ciascuna parte, all'interno
di un sistema, reagisce all'altra in un equilibrio che è sempre dinamico. C'è quindi un cambiamento del
paradigma, con Bateson, per cui l'individuo e ogni grupposociale si trovano in una relazione reciproca e sono
sottosistemi di sistemi più complessi.
Poi Bateson si interesserà molto ad un sistema particolare che è il sistema familiare, quindi da lì nasceranno
tutti gli studi sulla comunicazione, soprattutto attraverso lo studio delle famiglie con un membro schizofrenico
e studi sulla comunicazione paradossale e contro-paradossale con tutti poianche gli sviluppi rispetto alla pratica
clinica.

Murrell e l’approccio sistemico


Chi dà un vero proprio contributo alla psicologia di comunità, seguendo un approccio sistemico, è Murrell.
Anche con questo autore abbiamo una fondamentale evidenza dell'importanza delle relazioni tra l'individuo e il
suo contesto. Secondo Murrell, i sistemi sociali sono importanti perché influenzano il comportamento degli
individui, che non può essere separato dal contesto sociale in cui si manifesta. Fondamentalmente quello che
viene studiato è il grado di accordo psicosociale, cioè secondo Murrell il benessere dell'individuo è
determinato dal grado di congruenza presente tra i bisogni, le aspettative e le motivazioni dell'individuo, le
risorse presenti e le richieste che l'ambientepone. Quindi il benessere psicologico dipende dal grado di
congruenza o di armonia tra le aspettative e le capacità del soggetto e le richieste e le risorse dei
sistemi cui appartiene, e questo è il cosiddetto accordo psicosociale. In questo senso, parla anche di un
accomodamento inter-sistemico, valutando l'accordo presente nelle richieste che i vari sistemi, a cui

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l'individuo partecipa, fanno l'individuo che permettono appunto all'individuo di sviluppare un proprio
benessere. Se infatti il sistema familiare e il sistema scolastico mi richiedono delle cose diverse o comportamenti
diversi, naturalmente questo genererà confusione e una sorta di disagio interno.
Seguendo l'approccio sistemico, Murrell parla di sei livelli di intervento possibili all'interno dellacomunità.
I primi due sono focalizzati sull'individuo, cioè:
1. Il ricollocamento individuale: il sistema nel quale l’individuo è inserito è altamente disfunzionale,
e quindi si opta per lo spostamento dell'individuo in un altro sistema, da un sistema all'altro. Pensiamo,
per esempio, ai bambini all'interno di una famiglia maltrattanteo in caso di abbandoni o altri problemi
con la famiglia d’origine che quindi sono, con la caduta della potestà genitoriale, vengono affidati ad
altre famiglie o dichiarati adottabili.
2. L'intervento sull'individuo più specifico, quello del campo clinico anche e soprattutto
psicoterapico: che è quello dell'aiuto all'individuo per migliorare le proprie strategie o potenziare le
proprie risorse rispetto alla valutazione e all’affrontare proprio un problema specifico affinché un
individuo si inserisca meglio all’interno di un sistema, come ad esempio un trattamento
psicoterapeutico.
Poi abbiamo invece altri interventi che si collocano su livelli più ampi, più complessi e che riguardano la
comunità nel suo insieme, quindi abbiamo:
3. Interventi sulla popolazione: intendendo soprattutto degli interventi di tipo preventivo, di
prevenzione primaria sui soggetti e sui gruppi a rischio, per esempio di evoluzione di malattia o di
disagio;
4. Interventi sul sistema sociale generale: quindi interventi che sono finalizzati ad operare dei
mutamenti strutturali e funzionali del sistema per facilitare la gestione dei problemi degli individui.
Pensiamo a tutti gli interventi che gli psicologi di comunità fanno all'interno dei sistemi lavorativi,
delle aziende o altro, con le varie forme di ricerca partecipata di cui parleremo;
5. Interventi intersistemici: invece in cui l'azione è diretta su più sistemi per aumentare il
coordinamento e la connessione degli stessi in funzione di un unico obiettivo. In questo senso questo
livello dà proprio l'idea dell'importanza dello psicologo di comunità come di un esperto del
collegamento, piuttosto che un soggetto isolato, è impossibile che un soggetto isolato possa attuare
interventi di questo tipo, necessita della collaborazione degli altri servizi e delle reti presenti sul
territorio, proprio per evitare anche il delirio di onnipotenza oun sentimento invece di frustrazione
rispetto all'impotenza di poterlo portare avanti da solo, e quindi alle conseguenze sullo stress e la
condizione di burn-out;
6. Interventi sull'intera rete sociale: invece sono rivolti alla comunità nel suo insieme, peresempio
attraverso l'opera dei mass-media.

Dohrenwend e la teoria della crisi e dello stress psicosociale


Un'altra teoria fondamentale è quella dello stress psicosociale della Dohrenwend. La persona risponde alla
situazione di crisi in funzione dei sistemi di sostegno sociale e dei mediatori psicologici disponibili. Il modello
dello stress psicosociale è caratterizzato da un evento stressante, ambientale o psicologico, che termina con un
cambiamento psicologico, positivo o negativo, o con il ripristino della situazione psicologica iniziale.
Fondamentalmente parla della situazione di crisi come un evento legato ad eventi stressogeni per l'individuo e
che può avere un'evoluzione all'interno di poche settimane e che porta poi a tre condizioni diverse, quindi tre
possibili risultati:
1. La persona può crescere e cambiare in senso positivo, come risultato della sua capacità di
padroneggiare l’esperienza, proprio perché riesce a gestire la situazione problematica;
2. Il soggetto può tornare ad uno stato psicologico per lui normale, una condizione precedente di stabilità;
3. Oppure può sviluppare una forma psicopatologica, e quindi una reazione disfunzionalepersistente, che
necessita poi dell'intervento.
Tutti e tre questi possibili risultati sono in relazione alla presenza, durante l'evento stressante nel periodo di
crisi, dei mediatori situazionali (sistemi di sostegno sociale, formale e informale) e dei mediatori psicologici

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(valori e abilità di coping). Il modo in cui affrontiamo la situazione di stress e di crisi è collegato sia a delle
dimensioni prettamente psicologiche, le capacità di coping o pensiamo al concetto del locus of control, esterno
o interno, sia alla sensazione di auto efficacia che il soggetto ha, insieme con i mediatori situazionali.

Bronfenbrenner e la teoria dello sviluppo del contesto


Un’ulteriore teoria è quella di Bronfenbrenner il cui modello viene definito processo-persona- contesto-
ambiente. Bronfenbrenner si scontra contro la psicologia ambientale, che valutava l'importanza solo
dell'ambiente sull'individuo, e amplia anche la visione del campo di Lewin perché, secondo Bronfenbrenner,
le azioni dell'individuo sono in relazione non solo con l'ambiente di vita che si trova intorno
all'individuo,nello specifico del setting del contesto di vita, ma anche in ai contesti e ai sistemi più remoti
e più lontani. Infatti questo modello si basa su tre assunti fondamentali, che sono:
1. Il rapporto tra l'individuo e l’ambiente è caratterizzato dalla reciprocità;
2. Anche i contesti non direttamente sperimentati dall'individuo possono produrre delle modificazioni
nel suo comportamento
3. Ogni persona è un'entità dinamica, all'interno dei vari contesti con cui entra in contatto, e quindi un
soggetto attivo che reagisce alle pressioni ambientali e ristruttura il proprio spaziodi vita.
Le strutture interdipendenti che Bronfenbrenner individua sono quattro:

• Il microsistema: il contesto di vita vicino all'individuo con cui entra direttamente inrelazione, per
esempio, la famiglia, il gruppo dei pari, ecc.;
• Il mesosistema: che invece è il “sistema di microsistemi” a cui l'individuo partecipa, per esempio, i
rapporti tra famiglia e scuola;
• L'esosistema: invece che all'interno del quale possiamo identificare quei sistemi con cui la persona
non entra direttamente in contatto, quindi sono quei sistemi coi quali l’individuo non interagisce
direttamente, ma che invece influenzano la vita delle persone che interagiscono con lui, per esempio, la
vita del partner, il lavoro del partner, le problematichefamiliari di un insegnante, ecc.;
• Il macrosistema: che comprende tutto il contesto sociale allargato che ha il potere di influenzare tutti
i livelli sottostanti, ad esempio il tasso di disoccupazione, le differenze legate ai ruoli sessuali, ecc.
Quindi all'interno anche di questa prospettiva c'è una concezione dell'ambiente sociale che comprende anche la
dimensione soggettiva, come la persona vive e ciò che prova la persona all'interno dei propri contesti, quindi
come l’individuo vive il proprio ambiente e contribuisce acostruirlo intorno a sé.
Importante è anche il concetto di nicchie ecologiche, cioè quelle regioni dell'ambiente che sono
particolarmente favorevoli o sfavorevoli allo sviluppo dell'individuo. Conoscere le nicchie ecologiche è
fondamentale, per esempio, per attuare programmi di intervento preventivi. Gli interventi ecologici devono
essere finalizzati alla scoperta delle opportunità presenti nell’ambiente e capaci quindi di rispondere alle
esigenze e ai bisogni degli individui.

Lezione 4
Le istituzioni totali e la deistituzionalizzazione
Quando parliamo di istituzione parliamo di tutti quegli “apparati, di quegli organismi che svolgono delle
funzioni e dei compiti che hanno un interesse pubblico”.
Fondamentalmente “istituzione” deriva dal termine “istituire”, che significa “dare un ordine, regolamentare”.
Se la vediamo anche dal punto di vista antropologico o sociologico, possiamo identificare con il termine
istituzione “tutti quei comportamenti, quelle azioni e quelle relazioni sociali che sono governate da leggi e norme
riconosciute dalla collettività intera”. Ci sono delle istituzioni più accessibili o meno accessibili a tutti i membri
della collettività, delle istituzioni che riconosciamo, come l'ufficio postale, all'interno del quale vengono forniti
dei servizi alla collettività intera. Se al termine istituzione noi aggiungiamo l'aggettivo "totale", la visione cambia

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completamente. Per “istituzione totale” noi identifichiamo “un luogo di residenza e di lavoro (quindi tutta la
vita dell'individuo si svolge al suo interno), di gruppi di persone che condividono una situazione comune e
trascorrono parte della loro vita in un regime chiuso, la cui caratteristica totalizzante si esprimerebbe con
l’impedimento allo scambio sociale e ai rapporti con l’ambiente esterno”.
Le istituzioni totali sono rigide, ferme e sempre uguali in qualsiasi circostanza. Prima di tutto c'è la
presenza di fini stabiliti, confini rigidi, questo significa che anche strutturalmente le barriere innalzate
impediscono a ciò che sta fuori di vedere e di valutare quello che accade dentro. C’è una grossa distinzione e
separazione tra l'out-group e l'in-group, ciò che sta fuori è assolutamente scisso e sconnesso da ciò che
sta dentro. All'interno di queste strutture c'è il rispetto di norme rigide, stabili, definite nel tempo che non solo
regolano le aspettative, i comportamenti dell'individuo, ma che prevedono anche delle sanzioni nel momento in
cui queste regole non vengono portate avanti nella maniera consona.
• Da un punto di vista strutturale, all'interno abbiamo un insieme di status e di ruoli netti e
riconosciuti da tutti.
• Dal punto di vista culturale, c'è un sistema valoriale condiviso da tutti i partecipanti all’istituzione
totale.
• Gli elementi peculiari dell'istituzione totale sono la pressionee il controllo: questo è un punto di vista
drammaturgico.
Quello che viene messo in evidenza dall'opera di Goffmann, illustre sociologo, ma anche dalle opere di vari
autori soprattutto nel corso del ‘900, è il carattere coercitivo dell'istituzione, che si manifesta attraverso
dei punti precisi:

• Tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e con una stessa autorità;
• Ogni fase della vita quotidiana, qualsiasi attività giornaliera, viene svolta dalla persona insieme ad un
altro gruppo di persone e tutti sono trattati allo stesso modo;
• Le attività giornaliere sono schedate secondo un ritmo delle norme stabilite;
• Tutte le attività a cui il soggetto è sottoposto sono finalizzate a degli scopi e degli obiettivi sempre fissi
e determinati dalla struttura.
Quello che avviene all'interno dell'istituzione totale è che l'individuo è privato di ogni capacità di
autonomia, di ogni capacità di potere decisionale sulla propria vita, di ogni identità. L'individuo
diventa in relazione al gruppo, non esiste più come individuo, non è neanche possibile pensare all'individuo
di gestire il proprio tempo, di gestire il proprio tempo libero, tutto è scandito dalle regole e dalle norme previste
dall'organizzazione.
Questa è una classificazione che Goffman fa rispetto alle istituzioni totali, distingue cinque categorie:

• Quelle istituzioni totali che nascono per la tutela di persone che sono incapaci di gestire la propria vita,
come, per esempio, accade negli orfanotrofi;
• Poi ci sono quelle istituzioni totali che nascono per tutelare i soggetti che sono incapaci di gestire e di
badare a sé stessi e alla propria vita e che, se anche non intenzionalmente, possono essere pericolosi per
la comunità, come, ad esempio, gli ospedali psichiatrici;
• Altre istituzioni che invece nascono per i soggetti che intenzionalmente sono un pericolo per la società
anche se capaci di badare a sé stessi, quindi quelle istituzioni che proteggono la società dai pericoli
intenzionali nei suoi confronti, come, ad esempio, le carceri;
• Quelle istituzioni che nascono solo per svolgere una certa attività lavorativa, quindi le piantagioni
coloniali e i campi di lavoro (queste non sono presenti, però le citiamo perché presenti invece nell'opera
di Goffman);
• Infine quelle istituzioni che possiamo definire come “staccate dal mondo”, soprattutto di stampo
religioso, sono i monasteri, le abbazie o i conventi delle suore.
Oltre agli internati, all'interno delle istituzioni totali, troviamo anche altri attori, cioè lo staff. Lo staff sono tutte
quelle persone che lavorano all'interno dell'istituzione e che hanno il compito di monitorare, valutare e, nel caso,
giudicare l'operato degli internati. Le grandi differenze tra internati e staff sono appunto nel fatto che l'internato
vive quotidianamente, 24 ore su 24, all'interno dell'istituzione, lo staff invece vi svolge un'attività lavorativa di

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solito di un turno di 8 ore, o meno. C'è una posizione up and down tra i due, che poi viene ratificata e in qualche
modo consolidata dai pregiudizi e dagli stereotipi reciproci, che portano poi ad una posizione di potere da parte
dello staff; c'è una grande distanza tra staff e membri partecipanti, soprattutto nelle comunicazioni: spesso negli
ospedali psichiatrici (prima della loro chiusura naturalmente) non veniva comunicato, per esempio, il motivo
della chiusura all'interno dell'ospedale o il periodo di degenza. Gli internati si sentono deboli e inferiori, invece
lo staff si sente superiore e pensa di avere sempre potere sull’internato. Un altro aspetto fondamentale che
distingue lo staff dagli internati è l'elemento famiglia: lo staff vive naturalmente la sua famiglia all'esterno
dell’istituzione e questo permette a chi opera all'interno dell'istituzione totale anche di mantenere una certa
distanza dall'istituzione stessa, e quindi sfuggire a quella che è invece la tendenza inglobante dell'istituzione;
per gli internati invece i rapporti con la famiglia sono molto scarni, sono poco presenti e addirittura il gruppo
che condivide quella condizione diventa un sistema familiare secondario, quindi il gruppo all’interno
dell’istituzione sostituisce la loro famiglia.
Parlando del sé, Goffman distingue due parti: l'attore e il personaggio. L'attore è la parte autonoma,
spontanea e istintiva dell’individuo, proprio quella che connota la propria identità e la propria individualità.
Invece il personaggio è quell'insieme di caratteristiche che il soggetto assume per entrare, quasi di
compromesso, in relazione con l'esterno. Quello che avviene nel carcere o nell’ospedale psichiatrico o nelle
altre istituzioni totali è che il sé, la parte autentica, l'attore, perde completamente potere, la persona viene
quasi spogliata di tutti quelli che sono le suppellettili scenici, quindi il proprio copione, i propri abiti, ed è ridotta
a mera cosa, ad assumere un ruolo che è l'unico possibile, che è quello previsto dall'istituzione stessa. Il sé
dell'individuo si esaurisce completamente all'interno del ruolo che l'istituzione vuole per lui.
Quindi l’individuo è costretto ad assumere un nuovo ruolo scenico. Viene ancora una volta, e questo è il
carattere peculiare dell'istituzione totale, ad essere annullata qualsiasi capacità e caratteristica individuale,
autonoma, spontanea dell'individuo. Le istituzioni totali annullano il sé di una persona, e quindi la sua identità.
L’individuo viene lasciato senza quelle peculiarità che gli permettono di svolgere un determinato ruolo e di
occupare una determinata posizione all’interno della società.

L’ospedale psichiatrico
L'ospedale psichiatrico è una struttura specializzata nella cura dei disturbi mentali, di ogni ordine
e grado. Una legge del 1838 francese, seguita poi da una specifica italiana, definiva la necessità di rinchiudere
all'interno di queste istituzioni gli alienati mentali che avevano commesso reato per ordinanza diretta da parte
del prefetto. Questa legge influenzerà tutta la legislazione successiva, anche la legge italiana del 14 febbraio del
1904, che appunto recita:
“devono essere custodite e curate nei manicomi quelle persone che, affette da alienazione mentale, sono in
qualche modo un pericolo per sé o per gli altri, oppure possono essere un pericolo per l'ordine pubblico, e
quindi essere fonte di scandalo”.
La connotazione di pericolosità sociale è una connotazione che poi continua anche nelle successive
legislazioni, anche rispetto agli autori di reato alienati. Quello che succede con questa legge è che la cura e la
custodia delle persone affette da una patologia psichiatrica vengono completamente affidati ad una nuova
disciplina, che è la psichiatria. Quindi questa materia trova, all'interno della legislazione, non solo un
riconoscimento del proprio status, del proprio ruolo, ma addirittura trova anche il proprio oggetto di studio.
Quello che avviene all'interno di ospedali psichiatrici è che gli internati sono esclusi dalla comunità e la
comunità in nessun modo può valutare, monitorare e controllare la modalità di cura che viene poi esercitata
all'interno dell'istituzione. Questo portò a delle conseguenze importanti, perché l'approccio di tipo più
“custodialistico”, viaggia verso una direzione, che è quella del ricovero ad libitum; quindi c'è una grande
pressione rispetto alla non remissione del malato mentale e soprattutto è anche in relazione alla metodologia di
cura che viene portata avanti.
I metodi di cura, che vengono portati avanti, spesso, e forse sempre, violano il corpo e la mente
dell'individuo. Pensiamo solo a tutte le tipologie di shock: elettrico o termico o alle operazioni chirurgiche,
che a quel soggetto viene sottoposto, come quella della lobotomizzazione come modalità di cura, soprattutto
per quei soggetti particolarmente violenti. Tutto questo portò però, dall'altra parte, anche ad una grossa
attenzione all'ospedale psichiatrico (al cosiddetto manicomio): per tutto il corso del 1900 vennero fatte delle

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indagini, c'è un'attenzione sociale su di esso, tanto che nei primi anni, 1930-1940, iniziano delle modalità di cura
diverse, come per esempio l'utilizzo della porta aperta per dare una maggiore autonomia e una maggiore libertà
di movimento dell'individuo. Ma soltanto dopo la seconda metà del XX secolo, c'è un intervento più diretto da
parte della società, all'interno delle istituzioni sociali. L'opera poi di Goffman in quel periodo viene
completamente ripresa dall'opera di Basaglia, quindi con tutto il processo della deistituzionalizzazione, e
quindi della chiusura degli ospedali psichiatrici e dell'inizio della cura all'interno del contesto di vita, e quindi
dell'inserimento sociale e dell'inclusione sociale di queste persone.
Un discorso a parte va fatto per l'ospedale psichiatrico giudiziario, che è una via di mezzo, un ibrido, o
almeno lo è stato fino a qualche anno fa, perché è un po' carcere e un po' ospedale psichiatrico. Se volessimo fare
un excursus storico dell'ospedale psichiatrico giudiziario, la prima sezione di OPG (ospedale psichiatrico
giudiziario) viene valutata intorno al 1876 e viene istituita nel carcere di Aversa. Aversa poi diventerà proprio il
luogo in cui nascerà uno dei sette, ormai adesso cinque, ospedali psichiatrici giudiziari presenti sul territorio
nazionale. Con un decreto-legge del 1891 venne stabilito che l'alienato che aveva commesso reato dovesse essere
custodito all'interno dei manicomi giudiziari e la legge che è poi ratificata dal codice Rocco del 1931, in cui viene
sottolineato che l'alienato mentale, autore di reato, ma non imputabile a causa della malattia per esso, deve
essere custodito all'interno di queste strutture, all'interno della quale doveva essere valutata la sua pericolosità
sociale.
Per pericolosità sociale, già nel 1930, si intendeva il fatto che l'autore di reato con una malattia psichiatrica
potesse commetterlo di nuovo una volta uscito dall'istituzione vera e propria. Quindi già con il codice Rocco la
persona con una sofferenza psichica e autore di reato veniva rinchiuso all'interno di un ospedale
psichiatrico giudiziario che diventa quindi un istituto penitenziario, che aveva l'obbligo di seguire le
misure di sicurezza detentiva, al fine anche di rieducare e riabilitare in qualche modo la persona.
La legislazione sull'ospedale psichiatrico giudiziario trova poi una legittimazione all'interno della Riforma
Penitenziaria del 1975 dove viene dichiarato che la persona non imputabile di reato per vizio di mente può
essere però arrestata e sottoposta ad un periodo di osservazione psichiatrica. Se l'osservazione psichiatrica pone
per la pericolosità sociale, allora l'autore viene rinchiuso e rimane nell’ospedale psichiatrico giudiziario per 2, 5
o 10 anni, a seconda del grado di pericolosità e del reato commesso. Al termine di questo periodo, il soggetto
viene riesaminato, se lo stato di pericolosità non è più presente la persona viene rimessa in libertà, invece se
l'autore viene ancora giudicato pericoloso socialmente continua la sua detenzione. Tutto questo avviene fino al
31 maggio del 2015, poiché dopo una serie di leggi emanate in questo arco temporale e tante altre precedenti,
avviene la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, o almeno ancora parziale, e la presa in carico di queste
persone da parte delle REMS. Le REMS sono le residenze di esecuzione per le misure di sicurezza, sono 16
attualmente sul panorama nazionale, e sono direttamente gestite dal Dipartimento di Salute Mentale.
La deistituzionalizzazione ha una filosofia di base che è quella di dare all'individuo, con una sofferenza
mentale, una maggiore possibilità di scelta, rispetto alle azioni della propria vita, e quindi una maggiore
possibilità di autonomia e di potere rispetto alle azioni quotidiane.
La deistituzionalizzazione si differenzia da altri fenomeni che sono avvenuti nel corso del tempo, come la
deospedalizzazione, che prevede invece che la cura non possa essere connessa con il posto letto, cosa che è
affermata anche all'interno dell'ospedale psichiatrico ma anche dal processo di deistituzionalizzazione, a
differenza è però che la deospedalizzazione non prevede l'istituzione o il rafforzamento di servizi territoriali che
possano prendere in carico tali soggetti, mentre questo è un punto fondamentale su cui si batte la
deistituzionalizzazione. Quindi la deospedalizzazione è un processo che comporta dimissioni non programmate
e mancanza di potenziamento dei servizi territoriali. La transistituzionalizzazione è un altro processo per
cui quello che accade è che il soggetto con una malattia psichiatrica viene spostato dall’ospedale psichiatrico ad
altri centri, ad altre strutture, come le comunità psichiatriche o i centri di residenza o altri, dove però rimane
l'elemento peculiare dell'aspetto manicomiale, che è quello della gestione e del controllo di tutte le azioni e di
tutta la vita quotidiana dell'individuo. La deistituzionalizzazione in qualche modo si scontra contro questa
caratteristica della transistituzionalizzazione. Quindi la transistituzionalizzazione è un processo per il quale i
ricoverati dell’ospedale psichiatrico vengono trasferiti in luoghi istituzionalizzati, ma collocati nel territorio.

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Poi abbiamo una corrente molto radicale, che è quella dell'antipsichiatria che nega la visione, l’esistenza
della malattia mentale come qualcosa che vada curato, e propone invece un'idea positiva della malattia mentale,
come se, per esempio, la schizofrenia potesse essere vista come un viaggio di andata e ritorno alla scoperta di sé
da parte della persona. Naturalmente il processo di deistituzionalizzazione non nega assolutamente la presenza
della malattia mentale, semmai porta avanti un modello di cura molto diverso da quello portato avanti
all'interno degli ospedali psichiatrici. Gli assunti di base sono fondamentali nel processo di
deistituzionalizzazione, sono la convinzione che:
• L'istituzione totale portasse, non a una cura della malattia, ma ad una cronicizzazione della stessa;
• L'interesse non è più per la malattia mentale ma per una sofferenza mentale, questa sofferenza mentale
è portata avanti da un individuo, e quindi è storicizzata, rispetto alla sua storia di vita, ed è
contestualizzata perché si situa anche all'interno del proprio contesto di vita da parte del soggetto.
Questo porterà anche ad una modalità di trattamento diverso, il trattamento non può essere un
trattamento uguale per tutti ma deve essere un trattamento individualizzato, personalizzato alla
persona, e deve essere un trattamento che comprende molte possibilità, dall'intervento prettamente
farmacologico agli interventi psicoterapici individuali o familiari a interventi di gruppo, per poi
proseguire su interventi con il territorio e di rete rispetto al territorio;
• Quello che avviene con il processo di deistituzionalizzazione è che si “smonta l'istituzione psichiatrica”
con la chiusura degli ospedali psichiatrici stessi.
Ci sono anche due fasi che dobbiamo in qualche modo distinguere, che sono:
1. La fase della deistituzionalizzazione manicomiale, che si attua già all'interno degli ospedali
psichiatrici, per cui alla persona, all'interno dell'ospedale psichiatrico, viene ridata una certa dignità,
autorità alla persona, vengono ridati dei vestiti, dei soldi, viene lasciata una maggiore libertà di
spostamento e di autonomia all'interno della struttura. Inoltre si conclude poi con il reinserimento
sociale, questa è la finalità fondamentale del processo di deistituzionalizzazione, l'inclusione sociale di
questi soggetti in famiglia o in altro luogo opportuno per i pazienti già ricoverati o cronici, e quindi per
la cura di soggetti soprattuttomolto gravi o con difficoltà;
2. La fase della deistituzionalizzazione territoriale (di comunità), proprio con la costruzione di
organismi di servizi alternativi all'istituzione totale stessa, direttamente gestiti dai dipartimenti di salute
mentale. Quindi consiste nell’organizzare i servizi psichiatrici all’interno dei dipartimenti di salute
mentale. Quello che avviene sempre e comunque all'interno di questo processo è il potenziamento della
soggettività della persona è l’aumento della sua capacità di potere, della sua sensazione di potere, e
dell'empowerment della persona stessa. Tutto questo ha delle implicazioni sia clinico- operative, e
quindi anche epistemologiche, e sia implicazioni sull'organizzazione.
Quindi non parliamo più di un malato mentale ma di un soggetto portatore di una sofferenza
mentale, per cui è necessario abbandonare un'ottica nosografica, tipica della psichiatria dell'epoca e adottare
invece un approccio ideografico che valuti l'individuo e le sue caratteristiche, le sue peculiarità, e su questo possa
produrre l'intervento più importante. Prendersi cura dell'individuo significa anche prendersi cura della sua
famiglia, quindi attivare le risorse familiari e le risorse del territorio. Non c'è più un danno da riparare, e in
qualche modo questo è il grande cambiamento del paradigma epistemologico che porta alla
deistituzionalizzazione, ma c'è una sofferenza di una persona di cui prendersi cura.
Quindi le implicazioni epistemologiche e clinico-operative ci dicono che il paziente è una persona che sta in
relazione ad un contesto familiare e sociale e che ha una propria storia personale. Si utilizza un approccio
ideografico che prende di mira la singolarità del soggetto e l’unicità della sua sofferenza.
L’obiettivo dell’intervento è un’esistenza sofferente di cui prendersi cura.
La legge 180 portata avanti da Franco Basaglia (1924-1980) e viene poi inglobata all'interno della
legge 833 della Riforma del Sistema Sanitario, nello stesso anno. La legge 180 è costituita da 11 articoli
che pongono l'attenzione su tre punti fondamentali:

• La chiusura degli ospedali psichiatrici, e l'obbligo di non costruirne di nuovi;

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• La regolamentazione del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), da limitare ai casi di assoluta
necessità, e quindi portato avanti soltanto in un momento di necessità, in cui la persona non è lucida o
può essere realmente pericolosa per sé o per gli altri;
• L'inserimento dei pazienti psichiatrici all'interno dei nuovi servizi, delle strutture alternative (DSM,
SPDC, centri diurni, ecc.), collegati con i servizi del territorio, e queste strutture non sono più escluse
dalla comunità, ma si situano all'interno della comunità e che con la comunità continuamente
dialogano.
La centralità che è ribadita da questa legge e che è ribadita da tutto il processo della deistituzionalizzazione è la
centralità della persona umana.
Naturalmente ci sono ancora delle aree critiche che dobbiamo prendere in considerazione:

• C'è una distribuzione disomogenea in tutto il territorio nazionale dei servizi psichiatrici e delle strutture
residenziali;
• C'è ancora la mancanza di coordinamento tra i servizi sociali e i servizi sanitari;
• Ancora nella comunità vige un pregiudizio nei confronti della malattia mentale e nei confronti di
qualcosa che è diverso da noi;
• Nella comunità c’è un’insufficiente attenzione per i processi di prevenzione primaria e secondaria, che
noi sappiamo essere fondamentali soprattutto se si facessero degli interventi di prevenzione primaria
per soggetti a rischio, pensiamo ai bambini che vivono una situazione di maltrattamento fisico o
psicologico o altre situazioni, molto probabilmente avremo una maggiore incidenza di sviluppo di
psicopatologia, e soprattutto di sviluppi di disturbi della personalità, che oggi i clinici tanto studiano;
• C'è una difficoltà, anche questo è un grosso problema ancora presente, nella diagnosi differenziale e
nella presa in carico di questi soggetti, parliamo di soggetti presentano sia un disagio, una malattia, una
sofferenza mentale, quindi una patologia psichiatrica, e in concomitanza anche un comportamento di
dipendenza da sostanze, sono soggetti che vengono continuamente sballottati da un servizio all'altro,
dal DSM, dal dipartimento di salute mentale, al SERT, che è il servizio per i tossicodipendenti
nell'ambitosanitario;
• C'è ancora una scarsa attenzione alla presenza dei disturbi mentali negli istituti di pena
Le criticità ci portano direttamente sulle cose da fare, significa che il processo di deistituzionalizzazione è un
processo che è iniziato ma che non è assolutamente finito e che è in continua evoluzione. Cosa si può fare:
• Favorire una conoscenza epidemiologica del disturbo;
• Incrementare quelle che sono degli interventi volti a combattere contro l'emarginazione e la
stigmatizzazione della persona che porta una sofferenza di questo tipo;
• Diffondere, questo è uno dei principi della psicologia di comunità, l'ottica del volontariato,
dell'associazionismo e dell'auto-aiuto;
• Rendere omogenea la distribuzione dei servizi sul territorio nazionale
• Integrare quelle che sono le attività svolte e convergere insieme, per dare una maggiore risposta alle
esigenze della persona malata e della sua famiglia, convergere insieme quelle che sono le strutture, e
quindi i servizi offerti dalle strutture, dai servizi sanitari e sociali presenti sul territorio con quelle, per
esempio, del privato sociale e del volontariato;
• Porre attenzione alla famiglia della persona malata. Sarebbe importante, per esempio, aumentare gli
interventi di tipo domiciliare o rafforzare la presenza di centri di residenza e di centri diurni per la
famiglia;
• Favorire ancora l'ottica della prevenzione e della diagnosi precoce,
• Attuare dei programmi di formazione e di aggiornamento continuo del personale, perchélavorare in
questo campo non è assolutamente semplice e ha comunque delle implicazioni anche sulla sfera
personologica e relazionale dell'operatore.
I Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) sono quelle strutture che sono nate per offrire servizi alternativi
al momento della chiusura degli ospedali psichiatrici. I Dipartimenti di Salute Mentale hanno la funzione di
programmare, organizzare, anche erogare e monitorare tutti gli interventi previsti per la persona.

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Gli interventi non sono solo di cura, così come era previsto per l'istituzione totale, ma soprattutto interventi di
prevenzione, di riabilitazione e quindi di reinserimento sociale di queste persone. Le strutture in cui si
divide il Dipartimento di Salute Mentale sono:
• Le Unità Operative Complesse (UOC): e quindi i Distretti e i Servizi Psichiatrici di e Cura
ospedalieri (SPDC);
• Le Unità Operative Semplici: che sono i Centri di Salute Mentale, i Centri Diurni, le Comunità
terapeutiche e riabilitative, che conosciamo e vediamo sul nostro territorio.
Le attività del DSM sono:
• La presa in carico, la diagnosi e il trattamento della persona che deve essere assolutamente
personalizzato, individualizzato;
• I programmi di prevenzione e interventi finalizzati all’individuazione e al trattamento precoce delle
situazioni a rischio, e quindi anche per persone a rischio, soggetti o gruppi a rischio;
• Interventi domiciliari per rafforzare e per dare sostegno anche alle famiglie;
• La gestione dell'urgenza attraverso il 118, quindi con il TSO, e il ricovero ospedaliero nei servizi
psichiatrici di diagnosi e cura;
• Il lavoro di rete, è fondamentale, con i servizi sociali presenti nel territorio;
• Attuare poi dei programmi terapeutico-riabilitativi che abbiano come unico scopo quello del
miglioramento della qualità di vita del paziente stesso.
All'interno del DSM, o comunque in generale, le persone che lavorano nel campo della salute mentale devono
tenere presenti questi assiomi:

• Il guardare alla malattia, e soprattutto alla globalità bio-psico-sociale del paziente, come una
conseguenza inserita all'interno di questo contesto macro;
• La capacità di gestire i gruppi, specialmente coordinare i gruppi di auto-aiuto;
• La capacità anche di educare e fare programmi di prevenzione e di educazione alla salute mentale sul
territorio;
• La formazione e il lavoro di equipe.
Questi due punti poi sono fondamentali perché il lavoro, all'interno di questi contesti operativi o comunque il
lavoro a contatto con la malattia mentale, è un lavoro logorante e stressante e che può portare la persona ad
incorrere nella sindrome del burnout.

Modulo 2: gli strumenti e i metodi


Lezione 5
Il gruppo in psicologia di comunità
Partiamo dal definire il gruppo come una totalità dinamica che include sia affetti e bisogni che
processi e pensieri di relazione. Quindi prendiamo in considerazione il gruppo come un insieme all'interno
del quale vi è un'emergenza psicologica, gli affetti e i bisogni, è un'emergenza cognitivo-comportamentale.
Questo significa che faremo riferimento ad un'unità dinamica e sistemica all’interno della quale esistono dei
processi di relazione e di appartenenza reciproca, e studieremo queste relazioni, soffermandoci anche sul fatto
che il gruppo ha al suo interno delle regole e delle norme che garantiscono il processo e che sono in continuo
movimento, appunto una totalità dinamica.
Etimologicamente il gruppo deriva dal germanico, "kruppa", che significa “matassa”, e nella determinazione
della lingua italiana lo riferiamo al “groppo”, al nodo. Quindi la prima valutazione che facciamo è che il gruppo
è un insieme, un intreccio di relazioni, e quest'intreccio di relazioni accompagna tutta la nostra vita, è una

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dimensione all'interno della quale noi nasciamo e cresciamo durante tutto il corso della nostra esistenza. Quindi
se guardiamo all'individuo e alla sua dimensione bio-psico-sociale, e quindi alla sua capacità di entrare in
relazione con l'altro, dobbiamo fare riferimento a due gruppi fondamentali:
• I gruppi primari sono quei gruppi che permettono la prima esperienza di identità all'individuo,
un'esperienza più primitiva, più arcaica, e completa di unità sociale all'interno della quale i bisogni
primitivi, arcaici dell'individuo, vengono soddisfatti e i legami all’interno di questo gruppo si
caratterizzano per una relazione di tipo affettivo, i legami sono stabili nel tempo e si permeano della
condivisione di valori e di norme. Naturalmente prendiamo in considerazione la famiglia.
• I gruppi secondari invece sono orientati ad uno scopo specifico, all’interno i ruoli sono predefiniti e
rigidi e i legami sono funzionali al raggiungimento di uno scopo, quindi le relazioni all'interno sono tutte
relazioni che sono definite in relazione al raggiungimento di questo scopo, sono i gruppi appunto che
accompagneranno dopo l'individuo nel corso della vita, pensiamo, per esempio, ai colleghi di lavoro.
Una caratteristica dei gruppi a cui facciamo riferimento è quella del piccolo gruppo. Il piccolo gruppo
fondamentalmente è un gruppo all'interno del quale si possono sperimentare i legami deboli. In un
convegno alcuni anni fa, Volpe, uno psicologo, si interrogò sulla necessità di creare all'interno del nostro
contesto storico e socio-culturale delle relazioni fondate sull'interdipendenza. I legami deboli, il piccolo gruppo
come sintesi di questo, permettono proprio di sviluppare una relazione di interdipendenza. Per legame debole
intendiamo quel legame all'interno del quale il soggetto è capace sia di appartenere all'altro, quindi
prova senso di appartenenza e si sente con l'altro, ma all'interno del quale vengono anche soddisfatti quelli
che sono i bisogni invece di individuazione e di indipendenza dell'individuo.
I piccoli gruppi permettono proprio, come abbiamo detto, la costituzione di questi legami perché sono delle
strutture intermedie, si situano tra l'individuo e la comunità, sono formati da un gruppo ristretto di persone e
sono dei contesti in cui si sviluppa una mentalità plurale, si inizia a visualizzare anche quello che è il punto di
vista dell'altro e se ne fa proprio. Questo è l'obiettivo fondamentale dei gruppi e del piccolo gruppo, quello di
sperimentare l'interdipendenza con l'altro, il sentimento di stare insieme e di raggiungere insieme degli scopi.
Quando parliamo di gruppi però parliamo di diverse realtà, ad esempio, pensiamo ai gruppi terapeutici, che
sono delle realtà che appartengono più ad un ambito terapeutico-clinico proprio, e nascono per una richiesta
esplicita da parte del paziente sofferente di risolvere un proprio disagio, un proprio conflitto interiore. Infatti lo
scopo dei gruppi terapeutici è proprio quello di alleviare la sofferenza del paziente attraverso una
ristrutturazione della personalità profonda, del nucleo profondo della personalità del soggetto.
Quindi l'obiettivo che si pone è quello della cura e del cambiamento dell'individuo. Molte ricerche
sono state svolte proprio per mettere in evidenza quelli che sono i fattori terapeutici di un gruppo terapeutico e
tante sono le ricerche volte all'analisi dell'esito dei processi in psicoterapia che verificano proprio l'utilità di
questi gruppi.
Differentemente, in una logica che più si avvicina a quella della psicologia di comunità, troviamo il T-group (o
training group, o gruppo di addestramento). Come lo definiscono Badolato e Di Iullo (1979), il training group
è:
“un'esperienza di apprendimento (quindi all'interno di questo gruppo il focus è centrato sulla possibilità del
soggetto di apprendere) per implicazione indiretta, (cioè attraverso il contatto e l'esperienza dell’altro, il
vedere l'esperienza dell'altro), dove i partecipanti acquisiscono una maggiore sensibilità ai fenomeni di
gruppo (si è piùpercettivi nei confronti dell'altro e delle dinamiche del gruppo) e c'è anche una maggiore
percezione di sé e dell'altro insieme”.
Gli obiettivi del training group sono quello di:
• Imparare ad apprendere dalla propria esperienza;
• Acquisire una maggiore consapevolezza di sé;
• Arrivare ad una maggiore comprensione di ciò che accade in un gruppo per funzionare meglio nei gruppi
in generale;
• Si acquisisce una maggiore sensibilità ai problemi degli altri e una tolleranza per i sentimenti diversi dai
propri, e quindi anche una maggiore tolleranza alla frustrazione rispetto alle proprie difficoltà;

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• Facilitare le iniziative personali, e quindi c'è la possibilità di essere attivi all'interno del gruppo;
• Stabilire il proprio comportamento in funzione della realtà osservata nel gruppo di lavoro, e quindi di
rendere congruo in qualche modo, adeguare il proprio comportamento alla realtà che si osserva
all'interno del gruppo stesso.
Un concetto fondamentale che ritroviamo è quello del feedback. Il feedback sono tutte quelle comunicazioni
che mandano messaggi rispetto a come il messaggio dell'altro è stato recepito. Ha un'importanza fondamentale
perché sono comunicazioni continue che modificano il nostro comportamento e di conseguenza
anche l'assetto del gruppo. Il feedback può introdurre dei cambiamenti nel sistema o anche tendere ad
un'azione negativa, e quindi all'omeostasi del sistemastesso. All'interno dei training group, è proprio grazie ai
feedback, che noi possiamo individuare tre livelli di apprendimento (perché il training group è un'esperienza di
apprendimento, che di solito si risolve in un breve arco di tempo e anche all'interno di un gruppo ristretto, dalle
8 alle 12 persone):
1. Il primo livello di apprendimento che noi incontriamo è quello intrapsichico: ciascun membro
all'interno del gruppo impara a conoscersi meglio, a conoscere meglio il proprio modo di reagire
all'altro, vedendosi riflesso nell'altro, e quindi si prende coscienza dei ruoli interpretati, di quello che
sono anche i ruoli che spesso si interpretano nella collettività;
2. Un secondo livello è quello interpersonale, quindi si acquisisce una maggiore sensibilità nei
confronti dei problemi altrui e una più corretta percezione delle caratteristiche delle persone, e quindi
anche l'altro, che in qualche modo viene svelato oltre le maschere quotidiane, diventa più reale e più
autentico, e quindi viene visto nella sua intimità.
3. Il terzo livello è quello sociale, quello che viene appreso all'interno del training group può essere
assolutamente esteso anche in altri tipi di contesti, quindi è un apprendimento che poi trova
esplicitazione proprio anche al di fuori del gruppo di addestramento.
Un capitolo a parte è quello che dobbiamo invece fare sui gruppi di lavoro. Si parla di gruppo di lavoro quando
c'è un insieme organizzato di persone che si riuniscono per la condivisione di un compito e hanno un obiettivo
da raggiungere. La caratteristica fondamentale dei gruppi di lavoro è che tra i membri si sviluppa, si deve
sviluppare, quell'interdipendenza che è necessaria per il raggiungimento dell’obiettivo. L'interdipendenza è la
conditio sine qua non proprio per raggiungere l'obiettivo prefissato. Interdipendere quindi all'interno di un
gruppo di lavoro significa non solo conoscere il compito da svolgere, ma significa utilizzare
metodologie condivise, significa distribuire ruoli e competenze, significa appartenere ad una
stessa storia del gruppo, e quindi riconoscersi all'interno del gruppo come fondamentali l'uno
per l'altro, e significa anche la capacità di tollerare l'altro e sentire la diversità dell'altro come un
arricchimento e quindi con una continua possibilità di messa in discussione di sé e dell'altro, proprio per
raggiungere il compito di cui abbiamo parlato, l'obiettivo ultimo. La psicologia di comunità, all’interno dei
gruppi di lavoro, opera in due direzioni:

• Aumentare le caratteristiche positive del setting ambientale, il che significa che bisogna
creare delle possibilità di crescita reali per i soggetti, in modo tale da svolgere ruoli congrui alle proprie
aspettative, competenze e bisogni. Questo è un concetto fondamentale anche perché evita di
raggiungere sia delle percezioni di fallimento, rispetto al proprio lavoro, sia limita quelle condizioni di
onnipotenza, di sentimento di onnipotenza, che l'operatore spesso ha all'interno del suo contesto.
Creare e aiutare a svolgere ruoli congrui alle proprie aspettative, e quindi anche le competenze e i
bisogni è anche un modo fondamentale per fare prevenzione rispetto al burn-out che sappiamo essere
una sindrome che colpisce moltogli operatori del sociale e non solo.
• Rinforzare l'empowerment dei singoli partecipanti, quindi lavorare in un'ottica emancipatoria,
che preveda un’orizzontalità, e quindi anche una possibilità di essere, di essere attivo, così come lo è
l'altro.
Gli interventi nei gruppi di lavoro vengono svolti attraverso molteplici strategie:
• L'analisi organizzativa, soprattutto quella multidimensionale;
• La consulenza sistemica;
• L'intervento sulla crisi;

28
• La ricerca-intervento;
• E poi parliamo anche di gruppo di lavoro rispetto ai programmi di formazione on the job: dove vengono
trasmesse conoscenze relative al funzionamento del gruppo stesso. In questi programmi l'obiettivo è
proprio quello di sviluppare l'appartenenza, l'interdipendenza e la condivisione dei vissuti emotivi.
La formazione sul modello del lavoro di gruppo prevede vari nuclei a sé stanti di formazione con obiettivi
specifici e diversi: partiamo da un nucleo prettamente teorico che dà informazioni proprio sulla struttura, quindi
sulla variabile strutturale del gruppo, le variabili come l'ampiezza, la dimensione, il numero dei partecipanti, il
contesto in cui si attua, ecc., delle variabili di processo, quindi le dinamiche che si svolgono all'interno del gruppo
e anche altre informazioni sulle variabili individuali, cioè su come le caratteristiche individuali del soggetto in
qualche modo entrano in relazione e influenzano tutto l'assetto del sistema. Altri nuclei di formazione
prevedono, per esempio, un'attenzione particolare sulla formazione del trainer, che è un facilitatore delle
comunicazioni o altre ancora prevedono invece delle situazioni di problem solving per aumentare la capacità
appunto di problem solving e di coping del gruppo stesso. Qualsiasi sia il nucleo di formazione che affrontiamo,
sempre l'unità lavorativa si articola in tre momenti fondamentali:
• Una breve introduzione teorica;
• Un'esercitazione pratica per garantire anche l'esperienza e l'apprendimento attraversol'esperienza;
• Una discussione finale rispetto a quanto esperito, e quindi sull’esperienza di gruppo fatta durante
l’esercitazione.
Diciamo che la letteratura a riguardo è un po' scarna: chi ci parla un po’ di questa realtà e ne parla in un modo
molto specifico è Spaltro (1999), che identifica proprio il gruppo come un nucleo fondamentale che permette
il passaggio attraverso diverse fasi:
“prima si parte dalla relazione di coppia, poi di piccolo gruppo (micro), poi di grande gruppo collettivo e poi
proprio all'organizzazione o all’istituzione (macro), e poi ancora di comunità, e cioè di collettivo non
delimitato (mega)”.
Il passaggio da un livello all’altro, da queste relazioni di coppia, triadiche fino a quelle mega, avviene attraverso
un cambiamento di mentalità: questo significa che nella relazione di coppia noi sperimentiamo soprattutto
sentimenti di affiliazione, controllo, dipendenza. Andando avanti con il piccolo gruppo, per arrivare poi ai
grandi gruppi della collettività, sperimentiamo invece punti di vista diversi, una sensazione di orizzontalità, e
quindi di essere e di potere distribuito equamente, e quindi avviene proprio un passaggio, un cambiamento di
mentalità nel soggetto, che serve all'uomo per vivere più democraticamente, così come viene esplicitato anche
nei lavori di gruppo di Johnson e Johnson.
Tutt'altro campo è il campo del self-help. Da sempre gli uomini si sono uniti proprio per garantirsi la
possibilità di sopravvivere e la difesa, questo è un fenomeno che è sempre esistito e a cui l'uomo ha sempre fatto
affidamento. Nel corso del secolo scorso però acquisisce una valenza ulteriore: il self-help viene visto come una
possibilità concreta e reale di cambiamento evolutivo per l’uomo e di risoluzione dei propri disagi e delle proprie
difficoltà.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) inserisce tutti gruppi di auto-aiuto (self-help) all'interno di:
“tutte quelle che sono le misure adottate dai non professionisti per promuovere, mantenere o recuperare la
salute. Naturalmente la salute è vista non come assenza di malattia, ma come completo benessere fisico,
psicologico e sociale di una determinata comunità”.
Già da questa definizione noi possiamo valutare anche il carattere, non solo di cura, insito all'interno del self-
help, ma anche il carattere di prevenzione. Noi sappiamo che la prevenzione è un concetto molto caro alla
psicologia di comunità: nel caso specifico dei gruppi di auto-aiuto, li identifichiamo all'interno della categoria
di “prevenzione secondaria”. La definizione più conosciuta dei gruppi di auto-aiuto è quella data da Katz e
Bender nel 1976:
“strutture di piccolo gruppo, a base volontaria, finalizzate al mutuo aiuto e al raggiungimento di scopi
particolari. Essi sono di solito formati da pari che si uniscono per assicurarsi reciproca assistenza nel
soddisfare bisogni comuni, per superare un handicap comune o un problema di vita oppure per impegnarsi

29
a produrre cambiamenti personali o sociali desiderati. I gruppi di auto-aiuto enfatizzano le relazioni sociali
faccia a faccia e il senso materiale e il sostegno emotivo; altrettanto spesso sono orientati verso una qualche
“causa”, proponendo un’ideologia o dei valori sulla base dei quali i membri possono acquisire o potenziare il
proprio senso di identità personale”.
Quindi sono piccoli gruppi, di poche persone, a base volontaria, dove non c'è nessuna costrizione nel
partecipare, e lo scopo fondamentale è quello di darsi aiuto reciproco, reciproca assistenza, per superare
una situazione di difficoltà o per produrre dei cambiamenti auspicati per il proprio benessere.
Sono delle relazioni vis a vis, faccia a faccia, in cui c'è uno scambio continuativo di sostegno sociale. All'interno
dei gruppi di auto-aiuto si propone un'ideologia dei valori che vengono condivisi dal gruppo e che potenziano
anche il senso dell'identità personale, il gruppo, e lapersona soprattutto, aumenta la consapevolezza di sé.
Queste sono le caratteristiche del gruppo di auto-aiuto (self-help):
• L'origine spontanea del gruppo, senza nessuna costrizione;
• Lo scopo è il sostegno (o aiuto) reciproco;
• La composizione del gruppo è caratterizzata dall’orizzontalità (sostanziale eguaglianza tra i membri);
• L'enfasi è posta sul senso di responsabilità delle persone che vi partecipano;
• Sono tutti responsabili perché tutti hanno un duplice ruolo, e questa è una delle caratteristiche
fondamentali ed è anche uno dei fattori terapeutici del gruppo: vi è il fornitore di supporto e sostegno e
il destinatario delle cure.
• Le attività sono tutte autogestite dai membri all'interno del gruppo, e la filosofia di base è quella del
learning by doing e del changing by doing, quindi si impara e si fa e si cambia, si permette il
cambiamento facendo attraverso l'esperienza.
Il primo gruppo di auto-aiuto maggiormente conosciuto è il gruppo degli Alcolisti Anonimi che nasce in America
nel 1935. Da lì in poi, soprattutto nel corso degli anni ‘70 e ‘80, ma anche qui in Italia, questi gruppi troveranno
una grande evoluzione. In Italia sono in continua espansione, ma sembrano essere più diffusi nel Nord Italia
piuttosto che nel Sud Italia, molto probabilmente perché al sud i vincoli familiari, e quindi il ricorso ai gruppi
primari e ai gruppi informali, è molto sentito e molto importante, dà un grosso sostegno, quindi c'è una minore
richiesta di un'esperienza di self- help o di mutuo aiuto all'esterno dei gruppi primari.
I fattori che favoriscono la nascita e la diffusione del self-help sono:

• Una sfiducia nelle istituzioni e nell’operato dei professionisti;


• Una crisi nei modelli di cura tradizionali, noi l'abbiamo visto, per esempio, rispetto ai processi di
deistituzionalizzazione;
• Il cambiamento del modo di vedere la patologia rispetto al passato, dove si è passati a valutare
soprattutto il carattere sociale e relazionale delle patologie dei disagi, e quindi anche di conseguenza la
cura prende in considerazione l'altro e la relazione con l'altro;
• Di fondamentale importanza, rispetto allo sviluppo del self-help, è anche lo sviluppo di un’ottica di tipo
preventivo.
Le funzioni del gruppo di auto-aiuto sono molte, innanzitutto:

• Sono dei gruppi che forniscono sostegno emotivo e sostegno informativo, il membro si sente partecipe
e c'è uno scambio di informazioni;
• Vengono offerti dei modelli di ruolo, e quindi c'è anche la possibilità di identificarsi nell’altro, nel ruolo
dell'altro;
• Si sperimentano modalità di self-empowerment, e quindi accrescere anche quelle che sono le proprie
competenze;
• Danno la possibilità di nuove relazioni sociali, e questo è molto importante soprattutto per le persone
con una malattia cronica o fortemente provate da un handicap, il sentimento d'isolamento spesso è
assolutamente quello più vissuto, quello che più caratterizza la persona, e quindi entrare all'interno di
queste realtà aumenta quelle che sono le potenzialità relazionali proprio con l'altro;

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• Nella relazione con l'altro aumenta anche la propria capacità di coping, e quindi di gestire edi affrontare
le difficoltà o le situazioni quotidiane.
Rispetto alle classificazioni, una prima a cui facciamo riferimento è quella di Levy che distingue i gruppi di
auto-aiuto in:
• Gruppi del controllo del comportamento o riorganizzazione della condotta, come ad
esempio gli Alcolisti Anonimi, all'interno del quale c'è la necessità di riorganizzare la propria condotta
e il proprio comportamento perché il comportamento è problematico, come nel caso delle dipendenze;
• Gruppi di difesa e sostegno dallo stress, per aumentare la capacità di far fronte allo stress, cioè
per quelle persone che sono sottoposte a fonti di stress continuo, e quindi proprio per aumentare le
famose capacità di coping;
• Gruppi di azione sociale e civile, all'interno di questa classificazione vengono anche inseriti i gruppi
di azione sociale, come quelli per la rivendicazione dei diritti delle minoranze, come avviene, per
esempio, rispetto ai gruppi omosessuali;
• Gruppi di crescita personale e di autorealizzazione, come ad esempio i gruppi di persone single.
È una classificazione che viene in qualche modo criticata perché in alcuni casi sembra quasi sfociare nei gruppi
terapeutici, e in altri casi proprio si distinguono con i gruppi di movimenti sociali stessi. Quella che più ci sembra
adeguata invece è una successiva classificazione data dalla Francescato e da Putton, che distinguono quattro
gruppi di auto-aiuto:
1. Il primo, identico, è il gruppo di controllo del comportamento;
2. I gruppi di portatori di handicap o nel caso delle malattie croniche: sono gruppi in cui una condizione
oggettiva porta a una difficoltà del paziente rispetto la possibilità di cambiare la propria condizione, la
propria vita, e quindi sono gruppi che mirano molto all'accettazione della malattia o al migliorare la
qualità della vita del paziente, sono per esempio i gruppi di malati psichiatrici o con una sofferenza
psichiatrica, i gruppi di pazienti schizofrenici, i gruppi di persone malati di cancro o di una neoplasia;
3. Poi abbiamo i gruppi di parenti di persone con problemi gravi: cioè la problematica, la difficoltà che
investe il familiare, il vicino della persona malata che è assolutamente una condizione reale che
dobbiamo tenere in considerazione all'interno del nostro intervento;
4. Poi ci sono i gruppi di persone che attraversano un periodo di crisi: infatti la crisi e la disorganizzazione
psichica sono dovute ad un evento sia improvviso, che può essere sia positivo che negativo, ma anche
prevedibile, infatti distinguiamo tra situazioni prevedibili e imprevedibili, eventi normativi o para-
normativi.
Rispetto ai fattori terapeutici (ai fattori di efficacia) del gruppo di auto-aiuto ci sono state moltericerche e sono
state evidenziate soprattutto tre caratteristiche:

• Le funzioni socio-emotive nel gruppo tra pari;


• Il ruolo dell'helper, cioè l'essere helper all’interno del gruppo, e quindi il fornire assistenza;
• La carica ideologica del gruppo nella modifica di atteggiamenti e comportamenti.
Rispetto alle funzioni socio-emotive, queste sono caratterizzate da diversi punti:

• C'è un abbassamento delle difese e delle resistenze perché ci si sente accettati, cioè quella situazione di
isolamento viene meno e, attraverso l'identificazione con l'altro che porta le mie stesse difficoltà e in
qualche modo anche caratteristiche, io mi posso permettere di abbassare le corazze che ho dovuto
ergere rispetto alla malattia;
• C’è una comunicazione diretta tra i membri;
• Vi è un processo di identificazione con le persone vissute come simili a sé;
• Vi è anche un sostegno informativo ed emotivo e una capacità in maniera circolare, e quindi lo scambio
di sostegno nelle sue declinazioni;
• L'opportunità di socializzare;
• Di acquisire uno status all'interno del gruppo.

31
I fattori di helper-therapy, secondo Riessman (1965), invece fanno riferimento al fatto che nelmomento in cui
la persona presta cure e aiuto:

• Aumenta il proprio empowerment, e quindi la sensazione di competenza personale;


• C'è un riconoscimento sociale per il ruolo che si svolge;
• Si sente meno dipendente, e quindi si passa da una posizione di dipendenza e impotenza a una
posizione attiva;
• Ha l’opportunità di osservarsi dall’esterno e di apprendere strategie di cambiamento, e quindi che
porta anche all'attuazione di strategie di coping nuove e necessarie proprio per ilcambiamento.
Rispetto all’ideologia condivisa, all'interno del gruppo, tutti fanno riferimento ad un sistema di principi, di
regole e di valori condivisi, che in qualche modo permettono poi la relazione trasformativa del gruppo stesso, e
quindi la funzione attiva e trasformativa del gruppo è permessa dall’adesione a quest’ideologia condivisa. Se
analizziamo i fattori di efficacia della classificazione del gruppo di auto-aiuto, utilizzata dalla Francescato,
vediamo che:

• Nei gruppi di controllo del comportamento: i principali meccanismi che davvero sono
terapeutici sono quelli dell'identificazione e del modellamento;
• Nei gruppi portatori di handicap o malattie croniche: oltre allo scambio del sostegno emotivo
e informativo e l’identificazione con il gruppo dei pari, è terapeutico essere helper, la persona passa da
una situazione di deficit, di incapacità, perché appunto ha un handicap ovive una malattia cronica
spesso degenerativa, ad una situazione attiva, e quindi si mobilitano quelle che sono le funzioni
adattive, le risorse e le capacità del soggetto;
• Nei gruppi di parenti di persone con problemi gravi: vi è il sostegno emotivo, informativo e
strumentale, e quindi è sempre il sostegno che fa da base, e lo vediamo in tutte e quattro le
classificazioni, ma è molto efficace, rispetto al sostegno, soprattutto il sostegno informativo. Le persone
familiari di un malato hanno bisogno, in modo particolare dal momento della diagnosi e nelle fasi
successive alla diagnosi, hanno bisogno di informazioni, quindi lo scambio di informazioni è
fondamentale per preparare anche il soggetto a quello che sarà il suo futuro, rispetto all'accudirlo o
stare vicino a una persona con una malattia grave;
• Nei gruppi di persone che attraversano un periodo di crisi: vi è il sostegno sociale, che è
fornito dal gruppo, attraverso l’identificazione e l’aiuto reciproco, e quindi nei gruppi di crisi sempre
ritorna la capacità del gruppo di dare sostegno, cioè un sostegno sociale che è fondamentale soprattutto
nelle fasi seguenti alla crisi, quindi nelle fasi di shock.
In generale le ricerche che sono state fatte nel campo del self-help riguardano proprio una terapeuticità, per
esempio, ricerche con soggetti schizofrenici hanno messo in evidenza, qualora appartenenti a un gruppo di auto-
aiuto, un maggior ricorso poi nel tempo ai ricoveri e a una maggiore capacità lavorativa. Con donne operate al
seno è stato visto una diminuzione dei disturbi dell’umore e, anche nel rispetto alla problematica di dipendenza,
minori recidive.
Il gruppo di auto-aiuto che conosciamo di più è il gruppo degli Alcolisti Anonimi: vengono chiamati alcolisti
anonimi perché una caratteristica fondamentale è quella che viene richiesto al membro di mantenere
l'anonimato, soprattutto rispetto al proprio nome (il soggetto può decidere anche uno pseudonimo o altro) ma
anche rispetto ai contenuti che vengono condivisi all'interno del gruppo che non possono essere portati fuori in
qualche modo. Per iniziare a far parte di un gruppo di Alcolisti Anonimi è necessario anche desiderare di
smettere di bere, e quindi dichiarare la propria impotenza. Sono 12 passi da superare e il primo passo è quello
di dichiararsi impotenti rispetto alla malattia:
“Noi abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcool o al cibo, e di non poter più controllare la
nostra vita”.
Non è possibile, all'interno del gruppo, fare un dibattito ed esprimere giudizi o critiche, quindi il soggetto viene
sempre accettato e viene sempre condiviso quello che porta, il suo contributo all'interno del gruppo.

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In Italia sono molto sviluppati e sono in evoluzione anche i gruppi che si occupano di soggetti operati per un
tumore, in modo particolare quelli che riguardano le donne operate al seno, ma non solo, anche stomizzati o
altri tipi di patologie. I gruppi di persone che hanno un tumore hanno alcuni obiettivi fondamentali, che sono:

• In questo caso, il gruppo serve soprattutto per dare un luogo di ascolto, dove si possa parlare della
malattia, perché spesso è difficile parlarne all'esterno;
• C'è una difficoltà rispetto all'accettazione della malattia all'esterno, una paura rispetto a questo, e
quindi il fatto di poterne parlare e di sentirsi ascoltati permette la possibilità dell'accettazione e
dell’elaborazione del lutto rispetto ad una sanità dell'individuo;
• Si aiuta all'interno ad affrontare i problemi correnti;
• Si incoraggia la speranza;
• Diminuisce la sensazione di isolamento;
• Attraverso anche la condivisione di strategie di problem solving per affrontare il problema;
• Si forniscono anche delle informazioni;
• Il fine ultimo, anche con soggetti in fase terminale (per esempio negli Hospice), si aumenta la qualità
della vita del soggetto malato.
Rispetto al self-help e alla sua relazione con i sistemi formali di cura, l'opera dello psicologo di comunità è
facilitare l'interconnessione e l’integrazione tra i sistemi formali di cura e i sistemi del self-help attraverso una
stima e un’accettazione reciproca delle diversità, quindi in un'ottica di complementarietà dell'intervento. Quindi
lo psicologo di comunità dovrebbe aiutare sia l'implementazione sul territorio, e quindi sostenere e facilitare la
costruzione sul territorio delle realtà del self-help, e quindi dei gruppi di auto-aiuto, sia proprio questa
connessione con i sistemi invece organizzati, la sanità pubblica, e quindi i sistemi preposti alla cura istituzionale,
preposti allacura della persona.

Lezione 6
La rete-sostegno sociale e il lavoro di rete come pratica dello
psicologo di comunità
Quella a cui facciamo più riferimento è la definizione data da Mitchell nel 1969: la rete sociale è
“un insieme specifico di legami tra un insieme specifico di persone”.
Conoscere questi legami, all'interno dei sistemi, significa aumentare la consapevolezza e la conoscenza dei
comportamenti dell'individuo, e quindi in alcuni casi anche modificarli, se necessario. Lo studio della rete è lo
studio dei legami che uniscono le persone tra di loro.
Il primo a parlare di rete sociale, a cui possiamo fare riferimento, è Moreno (1889-1974). Moreno parte da
un’ottica che è “gestaltica”, è molto interessato a vedere le relazioni esistenti tra le singole parti e il
sistema totale. All'interno della sua sociometria studia le relazioni spontanee esistenti tra gli individui. Questo
studio porta poi a definire il “sociogramma”, uno strumento atto appunto a valutare la presenza dei rapporti,
all'interno di una collettività, di un sistema o di un gruppo, e soprattutto dei rapporti che si connotano per
l'accettazione o per il rifiuto all’interno del gruppo. Analizzare questi rapporti porta poi alla formazione della
“mappa sociometrica” all'interno della quale vengono definite le relazioni esistenti.
Facciamo un esempio: se volessimo creare una mappa sociometrica di una classe di studenti, chiederemo a
ciascuno di esprimersi rispetto al desiderio e alla volontà di scelta su un altro compagno, rispetto alla possibilità
di andare al cinema insieme o fare una ricerca: quindi con chi vorresti fare una passeggiata e passare il tuo
tempo libero (criterio socio-affettivo) o con chi invece ti piacerebbe svolgere un compito o una ricerca (criterio
socio- funzionale). Dall'insieme di queste scelte possiamo delineare appunto una mappa all'interno della quale
noi vediamo evidenti i rapporti di reciprocità e di unilateralità tra gli individui e anche quando l'individuo viene

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scelto dall'altro, e quindi la posizione che occupa all'interno del sistema: una posizione di emarginazione o molto
centrale all'interno del gruppo.
Fondamentalmente i criteri che vengono presi in considerazione sono due:
• Il criterio socio-affettivo;
• Il criterio socio-funzionale.
Da Moreno in poi iniziano degli studi sulle reti sociali e sull'insieme dei rapporti e dei legami che ci sono
all'interno di una collettività, di un gruppo. L’antropologo inglese Barnes, per esempio, studia un villaggio di
pescatori norvegesi e inizia a delineare caratteristiche di rapporti diversi che ogni individuo aveva con
gli altri, e quindi rapporti basati sulla familiarità, lavorativi, o amicalità, e inizia anche a valutare quelle che sono
le influenze di questi rapporti nello svolgimento della propria vita. Studiando queste persone e questo villaggio
arriva a distinguere la rete personale dalla rete sociale. La rete personale è un insieme di relazioni che
circondano l'individuo, invece la rete sociale è l'insieme delle relazioni all'interno di tutta la collettività. La rete
sociale viene poi definita graficamente, con un insieme di punti, alcuni dei quali collegati da linee: i punti sono
le persone o i gruppi, invece le linee rappresentano i legami esistenti tra loro, e quindi quali persone
interagiscono tra loro.
Un'altra teoria a cui facciamo riferimento è quella di Granovetter, dove viene studiata la forza dei legami
data dalla combinazione tra tempo, frequenza, intensità, emozioni e scambio di servizi, e si
distinguono i legami deboli dai legami forti. I legami forti concentrano tutte le interazioni al proprio interno,
all’interno dei gruppi di appartenenza. Invece i legami deboli favoriscono l'integrazione dei membri di gruppi
diversi. Il legame debole permette all’individuo di passare da un gruppo all'altro, perché quello che si sviluppa
al suo interno è sia il bisogno, e quindi la soddisfazione del bisogno di appartenere, ma viene anche promossa
la possibilità di individuarsi e di continuare per le proprie scelte, quindi anche all'interno di altri gruppi.
Molte ricerche hanno messo in evidenza che soprattutto in momenti di fasi di ciclo di vita particolari, pensiamo
ai momenti dello svincolo o a momenti situazionali specifici, come la perdita del lavoro, è fondamentale
appartenere ad un gruppo. I gruppi all’interno dei quali si sviluppano i legami deboli, permettono proprio
un’integrazione all'interno degli altri gruppi, e quindi favoriscono quella che è una sensazione di maggiore
benessere, c'è la possibilità di sperimentare, e quindi aumentare le proprie esperienze e, nel caso del lavoro,
semplicemente aumentare la possibilità di trovarlo all'interno degli altri gruppi. L’organizzazione di comunità è
più agevole in quartieri in cui i legami tra i familiari e gli amici sono meno stretti, e quindi c’è una minore
diffidenza nei confronti degli estranei.
Se parliamo delle reti, dobbiamo pensare anche a quelle che sono le caratteristiche della rete sociale (Marsella
e Snyder).
1. Prima di tutto prendiamo in considerazione la struttura: è data dalle variabili morfologiche, e quindi
abbiamo l'ampiezza, la frequenza, la densità della rete, per esempio, che è un elemento fondamentale,
la posizione all’interno delle interazioni, o la presenza di omogeneità o eterogeneità all'interno della
struttura stessa;
2. L'interazione tra persone: più superficiale o di reciprocità, di simmetria, di direzionalità e di
molteplicità, il che significa, per esempio, che in una relazione madre-figlio, possono variare nel tempo,
perché in una relazione madre-figlio la situazione di asimmetria e di dipendenza del figlio dalla madre
evolve nel corso del tempo con quasi un interscambio nel ruolo e una simmetria, al contrario, in cui poi
è il figlio ad avere delle funzioni rispetto al proprio genitore nella fase della vecchiaia. Quindi
l’interazione tra persone sono delle variabili che sono dinamiche ed evolvono nel corso del tempo;
3. Abbiamo poi la qualità delle relazioni: sono quelle variabili che descrivono la qualità affettiva dei
legami, e quindi ci riferiamo soprattutto ai legami di amicizia, di intimità o di superficialità delle
relazioni rispetto a due macro-tipologie: le relazioni legate al ruolo, l'amico, il fratello, il parente, o
quelle legate allo scambio, all'azione, che si sviluppa all'interno del gruppo;
4. La funzione: fa riferimento alla funzione svolta dai membri della rete, l’aiuto fornito, fa riferimento
allo scambio all'interno della rete stessa, ovvero al concetto di sostegno sociale.

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Le definizioni di “sostegno sociale” sono molte però lo possiamo pensare come a quell'insieme di
comunicazioni presenti all'interno del gruppo che portano il soggetto a esperire una situazione
di vicinanza, di appartenenza, all'esistenza di persone fisiche sucui fare affidamento per ricevere
l'aiuto desiderato. Quando parliamo di sostegno sociale, che naturalmente è connesso poi alla presenza di
quelli che Caplan, già nel 1974, chiama i “sistemi di sostegno”. Le funzioni svolte dal sostegno sociale sono:
• Il sostegno emotivo altro non è che la sensazione di essere amati, la manifestazione d'affetto,
l’interesse che l'altro mi dà, la manifestazione d'affetto che noi troviamo, per esempio, in modo
prioritario, all'interno della nostra famiglia, che è quell'agenzia che è portata e che ha come obiettivo il
soddisfacimento dei nostri bisogni fondamentali, e quindi soddisfa i bisogni socio-emotivi di base;
• Il sostegno strumentale invece si riferisce proprio all'aiuto pratico o all’assistenza fornita nel
momento del bisogno per l'individuo, e quindi è un intervento che si cala nella realtà, consiste in un
intervento pratico;
• Il sostegno informativo è invece volto ad arricchire le informazioni e le conoscenze della persona,
quindi aumenta la capacità del soggetto di avere competenza su quanto sta vivendo;
• Il sostegno affiliativo deriva dall'appartenenza ai gruppi, che distinguiamo in gruppi formali e in
gruppi informali.
Se facciamo riferimento al sostegno sociale vediamo, per esempio, come questo sia fondamentale e sia una
variabile che determina, per esempio, l'efficacia nei gruppi particolari, come i gruppi del self-help. Rispetto ai
gruppi formali e gruppi informali, Sgarro dà questa definizione, sono tutti e due dei sistemi supportivi, di
sostegno:
• Il sistema informale: abbiamo un gruppo che è legato dall'affetto, dalla condivisione dei valori
fondamentali, dalla soddisfazione, dal soddisfacimento dei propri bisogni ed è un gruppo che è costante
nel tempo e la costituzione si basa sulla possibilità dell'esperire il sentimento verso l'altro, e sono, ad
esempio, i gruppi primari, come la famiglia e le aggregazioni spontanee;
• Il sistema formale: invece sono tutte quelle strutture organizzate e istituzionali proprie della
comunità e i professionisti che operano all'interno dei contesti di cura, di riabilitazione o di prevenzione
delle difficoltà dei disagi in ambito psico-sociale.
Per garantire un sano sviluppo individuale della persona e rafforzare le capacità di reazione allo stress è
necessario che l’azione tra questi due tipi di sistemi divenga univoca, e quindi interconnessa.
Gli studi che parlano del sostegno sociale poi si focalizzano in modo particolare sulla funzione del sostegno
sociale rispetto al benessere. Ci sono degli studi che vengono chiamati studi del modello diretto (o effetto
primario), per cui la possibilità del soggetto di ricevere sostegno sociale, in qualsiasi livello e in qualsiasi
momento storico culturale stia vivendo la persona stessa, è predittiva della possibilità del benessere. Quindi se
c'è sostegno sociale c'è benessere, questo influisce sulla condizione di benessere dell'individuo, al di là degli stati
di stress cui l'individuo è sottoposto. Molti studi, per esempio, mettono in evidenza una minore vulnerabilità
alle malattie o una maggiorecapacità di problem solving nelle situazioni difficili, quindi comunque c'è un effetto
diretto e immediato, non mutevole nel tempo, ma costante nel tempo. Quindi ipotizza una connessione lineare
e diretta, e cioè un “effetto primario” sul benessere indipendentemente dai livelli di stress.
Un secondo approccio che definiamo quello del modello indiretto (o effetto cuscinetto), dice che il
sostegno sociale influisce sulla condizione di benessere dell'individuo perché agisce da tampone o da cuscinetto
protettivo nei confronti dell'evento stressante e ne modera le conseguenze. Secondo Cohen e Willis, quello che
avviene è che il sostegno sociale esercita un ruolo di "health protective" rispetto a tutta la sequenza che avviene
in seguito ad un evento stressante.
Diciamo che il sostegno sociale interviene in più momenti di questa sequenza:

• Può intervenire tra l'evento stressante e la reazione allo stress: diminuendo in qualche modo
e abbassando il processo di valutazione dello stress che viene fatta, e soprattutto le caratteristiche
negative;
• Può intervenire anche, in un momento successivo, tra l'esperienza dello stress e la comparsa
dei sintomi: riduce o elimina la reazione allo stress o influenza direttamente i processi fisiologici.

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In questo senso, molte ricerche hanno messo in evidenza, per esempio, il rapporto esistente tra la presenza di
sostegno sociale e la possibilità, per esempio, di agire sul sistema neuro-endocrino, che è responsabile della
produzione degli ormoni legati allo stress, e quindi agire direttamente sull'azione fisiologica allo stress
abbassando quest’attivazione, l'arousal del soggetto. Quindi andrebbe a intaccare direttamente quelli che sono
i processi fisiologici. L'ambiente, il sostegno sociale, influisce addirittura sulla possibilità del soggetto, interna,
fisiologica, di reagire allo stress, influisce direttamente sulla produzione degli ormoni dello stress. Questi sono
gli effetti del sostegno sociale:
• Riducono la quantità e la qualità negativa degli stimoli stressanti;
• Attenua o ridefinisce la percezione degli stimoli come stressanti, lo stimolo stressante quindi lo
percepisco come meno negativo, proprio perché c'è un innalzamento della soglia percettiva, i nostri
recettori funzionano meno rispetto allo stress, reagiscono meno allo stress in presenza di sostegno
sociale;
• Allevia l'impatto emotivo e psicologico dell'evento stressante;
• Favorisce delle risposte più attive, da parte del soggetto, e quindi adattive, rispetto alla situazione, con
modalità di coping, e per esempio anche di meccanismi di difesa più funzionali.
Però questa concezione di sostegno sociale ha trovato anche delle critiche, perché molto spesso viene confuso
con il concetto di rete sociale, e allora oggi si parla molto più spesso di sostegno sociale percepito, cioè,
quello che viene in qualche modo preso in considerazione è il rapporto nella variabile individuale e soggettiva
all'elaborazione degli stimoli stressanti, e quindi anche alla valutazione della possibilità di ricevere il sostegno
dall'altro. In questo senso sono state anche create delle misure per valutare il sostegno sociale percepito, come
il "Social Support Questionnaire e il "Social Support Resource". Il questionario misura il numero delle persone
che forniscono aiuto e la soddisfazione che proviamo rispetto all'aiuto percepito. Invece il “Social Support
Resource” è un’intervista strutturata che permette di rilevare la capacità supportiva della rete sociale, chiedendo
quali sono le persone chesvolgono le funzioni di aiuto e secondo quali obiettivi.
Rispetto invece agli interventi (rispetto alla questione del sostegno sociale) abbiamo due tipi di interventi
fondamentali:
• Il collegamento intersistemico è volto all'integrazione dei sistemi sociali di sostegno formale con e
informale. Questo significa che l'intervento di collegamento intersistemico necessita
dell'interconnessione tra questi due sistemi. Questa integrazione tra i due sistemi porta a dei vantaggi
oggettivi: da una parte, abbiamo dei sistemi informali, e quindi gruppi informali che partecipano più
attivamente alla gestione della propria cura, della salute e, dall'altra parte, abbiamo dei sistemi di cura
tradizionali, o i sistemi formali, che sono sottoposti ad un controllo continuo e quindi sono spinti ad
aumentare l'efficacia del proprio intervento;
• Gli interventi terapeutici, invece il loro scopo è quello di promuovere la competenza e anche
ottimizzare le potenzialità supportive delle reti sociali, e che quindi sono legate alle reti di sostegno, che
sono legate alle reti sociali. Ci sono due tipi di interventi terapeutici:
o Gli interventi centrati sull'individuo: facciamo riferimento alla psicoterapia, quindi un
approccio più di tipo psicoterapeutico, in cui l'intervento è finalizzato proprio ad aumentare la
capacità di insight del soggetto, quindi risolvere i propri conflitti interni, e affrontare in una
maniera più adeguata quelle che sono le proprie difficoltà, quindi si aumenta anche in questo
caso la capacità, la possibilità di inclusione sociale all'interno del territorio di appartenenza;
o Gli interventi sistemici: sono finalizzati ad aumentare le capacità terapeutiche, e quindi le
health protective delle reti di sostegno presenti, si attuano su più livelli. Per esempio, un
intervento sistemico potrebbe essere quello di allargare o ricreare ex novo la rete del soggetto.
È fondamentale ricostruire una rete e ricostruire attraverso un intervento su più livelli. Quindi
differentemente dall'approccio terapeutico, gli interventi sistemici, come la parola stessa indica,
si muovono su più livelli di complessità;
o Un'altra terapia è la network therapy (o terapia di rete): che mira a potenziare le risorse
supportive della rete dei legami più prossimi al soggetto. L'obiettivo fondamentale è proprio
quello, inserendo il paziente all'interno della rete, di evitare un etichettamento come “malato”.
Il lavoro di rete è un vero proprio paradigma operativo dell'intervento

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psicosociale. È un modo di lavorare che interviene su tutti i livelli della rete sociale esistenti
ed è un modo fondamentale per aumentare l'accordo intersistemico, e quindi la possibilità di
richieste congrue da parte dei vari sistemi nei confronti del singolo. Per parlare di lavoro di
rete dobbiamo innanzitutto identificare quelle che sono le dimensioni della rete.

Un intervento di rete non può prescindere da queste dimensioni:


• La dimensione relazionale: un intervento di rete in questo senso ha come scopo quello di aumentare
il sentimento di appartenenza di comunità solidale, quindi di coesione con l'altro, aumentando proprio
i sistemi, per esempio, di self-help o la quantità dei servizi preposti al sostegno sociale o semplicemente
aumentando e diversificando le risposte che i vari sistemi di sostegno possono dare rispetto alle diverse
richieste e bisogni del soggetto. Quindi il focus è soprattutto sul sostegno sociale, e quindi sul garantire
la possibilità al soggetto di sentirsi appartenente a, vicino a, amato da;
• La dimensione strumentale: si occupa principalmente della capacità di problem solving
dell'ambiente/rete su cui andiamo a lavorare. Lo scopo è quello di rendere la rete competente, e quindi
riguarda tutti degli interventi volti ad aumentare le capacità proprio di problem solving e l'efficacia
dell'organizzazione, e quindi si svolgono soprattutto sulla leadership dell'organizzazione stessa;
• La dimensione culturale: noi sappiamo che all'interno della cultura esistono due tendenze diverse,
una tendenza è volta alla conservazione e una tendenza è volta all'innovazione e al cambiamento. Spesso
l'innovazione al cambiamento viene proprio da spinte ideologiche di posizioni minoritarie o comunque
non prese in considerazione fino a quel momento, inoltre sappiamo che c'è una tensione continua tra
queste due tendenze che devono entrare in relazione. In questo senso, un intervento di rete sulla
dimensione culturale significa spingere per un'ottica di innovazione e di sperimentazione, cioè significa
promuovere la possibilità di cambiamento e di novità all'interno della comunità stessa, e quindi
promuovere proprio un'apertura mentale maggiore;
• La dimensione strutturale: invece il sostegno, e in qualche modo l'intervento di rete, permette di
andare a valutare quella che è la distribuzione del potere e delle risorse all'interno della rete della
comunità e volge all'inclusione sociale anche delle classi minoritarie, quindi è una distribuzione più
equa del potere proprio per permettere a tutti pari opportunità, e quindi un'ottica emancipatoria reale
in cui la comunità possa essere e provare realmente empowerment.
Rispetto agli interventi metodologici del lavoro di rete, distinguiamo un intervento più centrato sull’individuo e
un intervento a livello macro:
• L'intervento sull'individuo, che definiamo anche terapia di rete o terapia di sostegno: va a
valutare e a riconoscere le potenzialità preventive e riabilitative (cioè curative) della rete di
appartenenza dell'individuo e attraverso la conoscenza anche delle aree disfunzionale e dei deficit della
rete è volta al cambiamento, e quindi all'aumentare delle potenzialità curative stesso, cioè come se fosse
una grande psicoterapia della rete di appartenenza, e quindi la matrice da cui ci muoviamo è proprio
una matrice clinico-terapica in qualche modo;
• Il livello macro (cioè community care e lavoro sociale di rete): quello su cui l'intervento pone
l'attenzione è proprio l'attivazione di reti stabili che facciano fronte ai problemi complessi della
comunità, ma soprattutto centrato sulla connessione tra i sistemi esistenti, e quindi centrato su una
strategia delle connessioni. Quindi si parte anche qui e si riconosce la capacità curativa, ma non solo

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della rete di appartenenza, ma di tutta la comunità, e una capacità curativa riabilitativa che aumenta
nel momento in cui i sistemi di sostegno, o comunque la rete, entra maggiormente in connessione.
I processi che hanno favorito lo sviluppo dell'ottica del lavoro di rete sono soprattutto:
• I processi di democratizzazione della società: quindi lo sviluppo della “società moderna” con la
progressiva modificazione del modo di concepire l’esistenza, e quindi con una nuova visione
dell'esistenza dell'individuo e un maggior valore rispetto all'interdipendenza e alla relazione con l'altro;
• Lo sviluppo di politiche sociali: soprattutto a partire dagli anni ‘60-‘70, con i processi di
desegregazione e di deistituzionalizzazione e quindi con una necessità di frammentare l'intervento, non
un intervento più unico, medico o con un'unica valenza, ma un insieme di saperi da mettere insieme
l'uno con l'altro, che hanno come fine ultimo quello dell'umanizzazione dell'intervento e della
personalizzazione dell'intervento, rispetto alla situazione in oggetto;
• I cambiamenti a livello sociale: eventi che necessitano di maggiore integrazione tra il settore
pubblico e privato, per offrire risposte diversificate ai bisogni della comunità.
Quando parliamo di rete naturalmente noi parliamo di un insieme di individui e di situazioni con caratteristiche
precise. Le caratteristiche fondamentali di una rete sono (Cafferata, 1995):
• La presenza di soggetti interagenti;
• La relativa stabilità delle transizioni esistenti;
• Una strutturazione dello scambio, che in qualche modo è definito da una progettazione comune, una
suddivisione condivisa dei ruoli e una definizione sempre accettata da tutti rispetto alle procedure di
gestione dei conflitti.
Questo perché l'intervento di rete ha la necessità di mettere in congiunzione i saperi di diverse strutture e di
diverse organizzazioni preposte alla cura della persona, quindi devono essere condivise le ottiche e le
metodologie e devono essere conosciuti anche quelli che sono i conflitti, cioè bisogna lavorare sulle emozioni
anche all'interno di un lavoro di rete: le emozioni positive aumentano la condivisione e la volontà dello scambio,
le emozioni negative vanno altrettanto studiate e affrontate perché possono portare invece a processi disgreganti
o all'emergere di sintomatologie o di sindromi, come quella del burnout. Lavorare in rete, utilizzando la
metodologia del lavoro di rete, quindi della complessità dell'integrazione tra saperi e metodologie tra
organizzazioni diverse, significa proprio cambiare ottica e cambiare su più livelli. I cambiamenti del lavoro di
rete coinvolgono tutti i livelli di un’organizzazione, e quindi:
• Su un livello individuale: in cui c'è proprio un cambiamento dell'identità personale, del modo di
vedere l'altro, io non basto più per risolvere la questione, ho bisogno dell'altro, non basto mai da solo;
• Su un livello sistemico: e quindi un cambiamento nella rappresentazione del servizio e della sua
collocazione nel territorio. Quindi le organizzazioni stesse si interrogano sulla possibilità limitata che
hanno nella risoluzione degli interventi e dei problemi, e quindi nell’attuazione degli interventi;
• Su un livello più funzionale: cambiano le funzioni dei ruoli dei singoli servizi, cambiano i rapporti
tra gli operatori a livello psicosociale, una distribuzione del potere delle comunità con delle modalità
comunicative che vanno più in un'ottica di orizzontalità e di trasversalità tra i vari sistemi operanti
all'interno della rete;
• Su un livello più strutturale, promuovere delle leggi innovative, in questo senso;
• Su un livello psicosociale: e quindi un cambiamento dei rapporti tra operatori, degli stili di
leadership, della distribuzione del potere e delle modalità comunicative.
Per effettuare un lavoro di rete bisogna naturalmente osservare dei passaggi fondamentali:
• La prima cosa da fare è identificare la rete;
• Una volta identificata, si analizza la rete in tutte le sue strutture, dimensioni e caratteristiche
fondamentali: l'ampiezza, la qualità, la quantità, la frequenza, la reciprocità, la durata e la forza dei
legami, ma anche la coesione, vedremo adesso distinguendo le reti vediamo che la coesione è un
elemento fondamentale all'interno di questo;

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• Solo una volta che la rete è studiata e analizzata nel suo insieme attraverso la valutazione di quelle che
sono le aree disfunzionali, e quindi i deficit e le aree problematiche, ma soprattutto le aree funzionali e
le risorse della rete stessa, soltanto una volta analizzato questo possiamo implementare un intervento
congruo e adeguato, e quindi con quanto emerso dalle fasi precedenti.

Quando abbiamo parlato della coesione (questo è un elemento che differenzia le reti) abbiamo tre tipologie di
reti fondamentali:
• Una rete coesa ed omogenea: all'interno della quale vi è un'unica rete, è caratterizzata da una grande
capacità di fornire sostegno all'altro, reciproco, ma è molto forte anche la richiesta di adesione ai valori
preponderanti della rete stessa, e quindi c'è una grande richiesta di conformismo;
• Una rete frammentata: invece è formata da piccoli gruppi che si differenziano e sono indipendenti
tra di loro, all'interno del quale però è possibile comunque ricevere sostegno, anche se in misura minore
rispetto alla rete coesa, però sicuramente c'è una minore, quasi nulla richiesta di conformismo, ma vi è
una maggiore flessibilità di questa rete;
• Una rete dispersa: invece è caratterizzata da relazioni sporadiche e di breve durata, sono quasi nulle
le possibilità di ricevere sostegno all'interno di questa rete.
A seconda delle caratteristiche di queste reti, e quindi a seconda delle possibilità di trovarsi di fronte una
rete coesa, frammentata o dispersa, noi decidiamo quale tipo di intervento fare.
Nessuna delle tre possiamo giudicarla migliore delle altre, per esempio, se un bambino molto piccolo perde i
genitori è sicuramente più funzionale, e quindi segue la situazione del contesto all'interno del quale ci troviamo
l'importanza della tipologia di rete. Rispetto alla morte dei genitori di un bambino molto piccolo sarà necessaria
una rete molto intima, molto affettiva, molto densa. Rispetto invece a un uomo che perde il lavoro, sarà
fondamentale e sarà più funzionale invece una rete estesa e meno densa, e quindi in cui sia possibile muoversi
con più facilità proprio per la ricerca del lavoro stesso. Quindi non esiste una tipologia di rete migliore dell'altra,
ma le reti vanno analizzate all'interno delle situazioni proprio contestuali che si vivono, e quindi su questo poi
va in caso implementato, ragionato e organizzato l'intervento.
Quindi abbiamo diversi obiettivi del lavoro di rete:
• In un caso sarà importante aumentare la consapevolezza delle reti presenti o valorizzare gli elementi
positivi delle relazioni;
• Nell'altro caso bisognerà invece allentare, diminuire i legami esistenti o è necessario rafforzare e
sostenere le reti oppure crearne di nuove;
• Riorganizzare addirittura i sistemi di sostegno o ricostruire da capo una rete già esistente.
Quindi questi sono tutti gli obiettivi dell'intervento che vengono fuori dalle fasi precedenti e queste sono
imprescindibili in qualche modo.
L'intervento dello psicologo di comunità è volto alla costruzione delle reti, e delle reti sociali. Il compito
che spetta proprio all'operatore della comunità è quello di integrare, attraverso strategie di lavoro di rete, le reti
esistenti e soprattutto i sistemi di sostegno formale con quelli informali, con l’obiettivo di creare legami multipli
e networks sociali. L’intervento dello psicologo può essere quindi volto, non solo all’individuazione delle risorse
presenti sul territorio, ma anche alla costruzione di reti di rapporti tra di esse. Per fare questo lo psicologo
partecipa ai vari momenti importanti del lavoro di rete:

• Partendo dall'elaborazione del progetto di rete stesso;


• Eliminando poi quelle che sono le resistenze e pregiudizi tra gli operatori appartenenti a delle diverse
organizzazioni e dei diversi sistemi;
• Lo psicologo deve favorire e utilizzare un'ottica pluralistica, quindi dare la possibilità di far emergere
punti di vista diversi, e quindi dare a tutti i punti di vista emergenti uno stesso valore e uno stesso potere;
• Costruire quindi una cultura comune relativa al lavorare per progetti;
• Attraverso anche la produzione delle regole condivise sulle metodologie di intervento e sui criteri di
valutazione.

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Lezione 7
Lo sviluppo di comunità e l’empowerment
Parliamo dello sviluppo di comunità come di un processo, quindi qualcosa che è dinamico, che ha come
fine quello di favorire una condizione di progresso sociale ed economico della comunità stessa
attraverso la partecipazione attiva di tutti i cittadini (Rothman, 1974).
Ancora, lo possiamo definire, secondo Martini e Sequi (1996), in una definizione che è successiva alla prima,
come un processo di cambiamento che è volto al miglioramento della qualità di vita e alla possibilità da parte
della comunità di acquisire le capacità di risolvere i propri problemi e di soddisfare i propri bisogni (Martini,
1996).
Quindi vediamo che già all'interno di queste definizioni troviamo le caratteristiche principali del costrutto: la
partecipazione attiva, un processo dinamico e soprattutto volto al cambiamento della comunità, al
miglioramento della qualità della vita, e quindi alla possibilità di aumentare il benessere della comunità stessa.
Quello che noi riteniamo fondamentale, rispetto al costrutto dello sviluppo di comunità, è che si tratta di un
processo dinamico, quindi di un processo in cambiamento, che ha come caratteristiche fondamentali quello
della partecipazione attiva della popolazione, della condivisione, della compartecipazione, quindi insieme.
Tutte le principali strategie che hanno a che fare con lo sviluppo di comunità partono e racchiudono questi due
concetti fondamentali, che come sappiamo sono dei concetti importanti soprattutto nell'area radicale della
psicologia della comunità, che raggiunge uno sviluppo molto importante intorno agli anni ‘80 e che è volta a
guardare alla distribuzione diseguale all'interno della comunità, e quindi alla necessità di agire attraverso un
impegno attivo politico proprio per dare una maggiore capacità di potere alle minoranze e alle classi meno
svantaggiate.
Le principali strategie dello sviluppo di comunità sono:
• La possibilità di creare un senso di coesione sociale, un'appartenenza sociale, quello che noi abbiamo
anche chiamato “capitale sociale” della comunità;
• Questo avviene attraverso la possibilità di amplificare e aumentare quelle che sono le caratteristiche del
self-help della comunità stessa, quindi rinforzare i gruppi di auto-aiuto;
• Sensibilizzare tutti cittadini sui problemi della comunità significa responsabilizzare i cittadini che, in
prima persona, credono e sentono i problemi della comunità come problemi di tutti, al quale tutti
appartengono;
• Significa ancora identificare e incoraggiare le leadership locali e l'operato dei professionisti, proprio per
mobilitare quelle che sono le possibilità dei gruppi all'interno della comunità stessa;
• Sviluppare una coscienza civica e uno scambio, nel rispetto reciproco delle diversità, che ha come
finalità quello di costruire e allargare le reti, creare un'intesa tra le reti della comunità stessa;
• Utilizzare le competenze dei professionisti per sostenere la mobilitazione di gruppi di pressione e
cambiamento sociale;
• Offrire una formazione, la possibilità di essere formati, e di avere una maggiore gestione del conflitto,
finalizzato naturalmente alla soluzione dei problemi della comunità stessa;
• Coordinare l’azione di rete tra i vari servizi ai diversi livelli.
Se dovessimo quindi racchiudere tutti questi concetti in un'unica definizione potremmo definire lo sviluppo
di comunità come l'insieme di interventi che hanno come scopo quello di aumentare la possibilità
di cambiamento della comunità, e quindi di migliorare le condizioni di vita, sia quelle sociali che
quelle economiche, attraverso la cooperazione volontaria di tutti e lo sviluppo dell’auto-aiuto tra i cittadini
stessi, e quindi attraverso l'aumento della possibilità di self-help.
Si differenzia leggermente dallo sviluppo di comunità l'azione sociale, che invece si riferisce a quegli
interventi che sono volti a ridistribuire in modo equo le risorse presenti sul territorio e a
modificare le relazioni di potere attraverso l'impegno. Si sviluppa attraverso interventi che accrescono

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la consapevolezza dei gruppi minoritari svantaggiati. Oggi però diciamo che queste due strategie (quella dello
sviluppo di comunità e quella dell’azione sociale) non sono considerate come antitetiche o distanti, anzi l'azione
sociale stessa viene inserita all'interno delle strategie più ampie dello sviluppo di comunità, quindi viene
considerata come una delle possibilità per garantire lo sviluppo di comunità stessa.
Il concetto dello sviluppo di comunità nasce all'interno delle pratiche anglosassoni di "community
development", soprattutto all'interno delle colonie asiatiche o africane, proprio per aumentare la possibilità dei
cittadini di questi luoghi di accrescere in empowerment, quindi di potere, e di risolvere maggiormente i propri
problemi, e quindi a crescere il proprio sviluppo politico, sociale ed economico.
A seconda poi dei fattori e dei valori sottostanti, che noi ritroviamo all'interno delle varie strategie di sviluppo
di comunità, possiamo distinguere due modalità diverse.
I fattori sottostanti sono:

• Il primo fra tutti è il fattore educativo, cioè quello di aiutare a rendere consapevoli le persone sul
proprio ruolo all'interno della società, e quindi quello di sviluppare il self-help, quindi la possibilità di
essere una risorsa per l'altro;
• Il fattore operativo, che invece parte proprio dalla necessità di individuare quelli che sono i bisogni,
gli strumenti, ma anche le risorse necessarie per soddisfarli, per avviare il cambiamento, e quindi
garantire il cambiamento che abbiamo detto essere un'altra caratteristica dello sviluppo di comunità;
• Il fattore valutativo, e cioè valutare e monitorare continuamente questo processo di cambiamento
per valutare l'andamento, e anche la possibilità di soddisfare realmente questi bisogni;
• Un fattore democratico, che abbiamo detto essere un'altra caratteristica principale di promozione e
la collaborazione da parte di tutti;
• Un fattore politico sociale: la cooperazione tra le forze locali e le forze governative.
Abbiamo detto che a seconda dei fattori che emergono maggiormente possiamo definire due modelli:

• Nel modello directing troviamo una predominanza del fattore educativo rispetto alla possibilità di
costruire un self-help efficace all'interno della comunità stessa, e troviamo in questo caso dei progetti
di sviluppo di comunità che però derivano da aiuti governativi o attraverso finanziamenti esterni che di
solito seguono delle azioni già programmate e vanno ad inserire e ad attuarsi soltanto su una parte della
comunità;
• Nell'altro modello invece, nel modello assisting, troviamo una responsabilizzazione diretta da parte
dei cittadini stessi: sono infatti dei progetti elaborati che partono dalla rilevazione dei bisogni della
comunità, utilizzano risorse interne e leadership locali. Vi è un intervento sulla comunità nel complesso
e una programmazione, intesa come work in progress. Quindi in questo caso gli aiuti non sono solo
governativi ma sono anche extra, molto si sviluppa all'interno del contesto proprio.
Se continuiamo a seguire poi il lavoro fatto in Italia, invece da Martini e Sequi, troviamo che i fattori che più
contribuiscono allo sviluppo di comunità sono:

• Il coinvolgimento dei cittadini: la responsabilizzazione dei cittadini, i soggetti sono spinti ad agire
direttamente;
• La partecipazione: la possibilità di esercitare un potere sano rispetto alla possibilità di scegliere e di
agire in modo autonomo;
• La creazione di connessione: lo sviluppo della comunicazione tra le diverse strutture sociali e
l’identificazione di obiettivi comuni, e quindi la possibilità di creare delle connessioni, uno sviluppo di
rete tra le varie strutture del territorio;
• Il senso di responsabilità sociale: la consapevolezza che tutto ciò che riguarda la comunità
appartiene a tutti, nel senso che tutto ciò che appartiene alla comunità appartiene al cittadino stesso.
Una delle strategie per aumentare lo sviluppo di comunità è quello dell'analisi della comunità: ci riferiamo
soprattutto alla comunità locale infatti, negli ultimi anni, l'attenzione si è spostata sulle comunità locali, anche
in Italia. La comunità locale viene vista non solo come il piano su cui andare ad analizzare i bisogni e le
necessità dei cittadini stessi, ma viene utilizzata anche come risorsa per promuovere un cambiamento.

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Quindi quello che è necessario per sviluppare le potenzialità e le capacità e le risorse di un territorio e di una
comunità locale è assolutamente la conoscenza della comunità stessa, quindi la prima cosa che dobbiamo fare
per garantire uno sviluppo comunitario è conoscere e analizzare la comunità.
Una strategia per l'analisi di comunità è la tecnica dei sette profili di comunità, identificata da Martini e
Sequi, in cui si va a enucleare, a sottolineare un profilo della comunità partendo e andando ad analizzare diverse
caratteristiche:
• Profilo territoriale: le caratteristiche stesse del territorio, il clima, l'estensione, ecc.;
• Profilo demografico: le caratteristiche della popolazione, e quindi il numero degli abitanti divisi per
genere, sesso, età, ecc.;
• Profilo delle attività produttive: le attività primarie, secondarie e terziarie;
• Profilo dei servizi: tutti servizi socio-assistenziali, socio-sanitari, i servizi educativi, ricreativi, che ci
sono all'interno della comunità;
• Profilo istituzionale: l'organizzazione, la distribuzione del potere, delle gerarchie, la parte politico-
amministrativa;
• Profilo antropologico: riguarda la storia, le norme, gli atteggiamenti sociali, i valori che sono
tramandati e che fanno parte di quella cultura;
• Profilo psicologico: riguarda le dinamiche affettive, il senso di coesione che esiste, il sentimento di
appartenenza, di identificarsi col gruppo e di trovare soprattutto un sostegno da parte del gruppo stesso,
che è fondamentale per garantire quello che noi chiamiamo il senso di sicurezza dei cittadini.
La definizione che noi seguiamo quando parliamo di analisi di comunità è quella data da Martini e Sequi
(1995), che più l'hanno studiato:
“l’analisi di comunità non è intesa come un’analisi dei bisogni, ma un momento fondamentale di un processo
di cambiamento […] coincide con il processo di presa di coscienza da parte dei soggetti, protagonisti della
comunità, delle loro condizioni, necessità, potenzialità, risorse, dei loro limiti, valori e desideri […] non sono i
dati ad essere importanti, ma il significato che i diversi attori sociali, attraverso un processo di negoziazione
collettiva, attribuiscono ai dati, che è determinante ai fine del cambiamento”.
Quindi identifichiamo l’analisi di comunità come un processo di cambiamento, propedeutico per lo sviluppo di
comunità, anche questo è un processo dinamico, il cambiamento, e che coincide con la presa di coscienza, e
quindi la valutazione da parte dei cittadini, di quelle che sono, non solo le condizioni reali, ma anche le necessità,
le potenzialità, le risorse, i limiti, i valori e i desideri. Quindi, all’interno della valutazione dell'analisi di comunità
noi prendiamo in considerazione sia gli aspetti positivi, appunto le risorse, le capacità e le potenzialità che noi
riconosciamo all'interno della comunità, ma anche i vincoli, i limiti e le aree problema. È una valutazione
necessaria per arrivare ad un quadro generale che ci permette di capire come agire all'interno di quella
comunità, come attuare degli interventi assolutamente personalizzati. Quello che interessa però non è la risorsa,
il vincolo, la potenzialità in sé, ma il significato, l'attribuzione di significato che il cittadino stesso fa su
di essi.
Rispetto al metodo identificato da Martini e Sequi, la Francescato poi fa delle modifiche considerando
proprio il metodo degli otto profili, quindi abbiamo:
• L'aggiunta di un profilo in più, che è il profilo del futuro, e cioè come i cittadini immaginano che cosa
accada all'interno della propria città, del proprio quartiere, a seconda di ciò che stiamo valutando nella
comunità;
• Un potenziamento nella ricerca della valutazione dei profili;
• Viene istituito un gruppo di ricerca interdisciplinare che è formato sia da esperti esterni (appunto lo
psicologo), sia da esperti rappresentanti interni alla comunità stessa.
• Il gruppo di ricerca interdisciplinare fa, prima di un'analisi obiettiva dei profili, un’analisi preliminare,
in cui c'è una valutazione dei punti di forza e dei punti di debolezza della comunità stessa, che poi viene
confrontata con i dati raccolti durante l’analisi dei profili.
Vediamo più nello specifico lo sviluppo del metodo degli otto profili:

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1. Inizialmente c'è la richiesta di un committente sulla necessità di studiare e di capire che cosa sta
succedendo, come è costituita la propria comunità, la propria organizzazione, ecc.;
2. Si forma il gruppo di ricerca, che è un gruppo multidisciplinare o interdisciplinare;
3. Questo gruppo di ricerca, attraverso un'azione di brainstorming o di focus group, attua un'analisi
preliminare dei punti di forza e dei punti di debolezza della comunità stessa che si va ad analizzare, e
che quindi vanno a dare già una prima forma di quella che è la valutazione degli otto profili;
4. L'analisi di ogni profilo avviene anche attraverso gli indicatori obiettivi, i dati statistici;
5. Questi dati tra analisi preliminare e l'analisi obiettiva vengono comparati;
6. Vi è la presentazione dei risultati al committente e si fa una discussione in gruppo, e quindi si attuano
delle valutazioni che vengono presentati al committente e insieme si decide per le strategie di intervento
migliori;
7. La realizzazione dei progetti;
8. Infine, per valutare l'andamento e l'efficacia del progetto stesso, segue un momento di follow-up.
Le tecniche per l’analisi dei profili comprendono:
• Il profilo territoriale: come la passeggiata e le fotografie del quartiere;
• Il profilo demografico: come la consultazione anagrafe e l’intervista ad esperti su dati ambigui;
• Il profilo delle attività produttive: e quindi l’intervista ad esperti e i dati statistici;
• Il profilo dei servizi: come l’intervista ad esperti e il focus group;
• Il profilo istituzionale: come l’intervista ad esperti delle varie istituzioni;
• Il profilo antropologico: come l’intervista ad esperti e ai cittadini e il focus group;
• Il profilo psicologico: e quindi le scale di sostegno sociale e le tecniche proiettive (come il disegno di
quartiere e i film di quartiere);
• Il profilo del futuro: come le interviste ai cittadini e il focus group su domande-stimolo.
Le principali attività che riguardano l'analisi di comunità partono da una richiesta specifica, che può partire da
diversi committenti:
• Innanzitutto abbiamo i sindaci e gli assessori all'ambiente e alle politiche sociali della comunità stessa;
• Gli ambientalisti per avere uno sviluppo ecologico sostenibile;
• I servizi socio-sanitari o le cooperative sociali per attuare poi dei programmi di intervento realmente
efficaci, rispetto a quelli che sono i bisogni della comunità;
• Infine tutte le aziende educative, come la scuola, per migliorare la propria prestazione.
Rispetto agli strumenti della ricerca partecipata che noi utilizziamo per portare avanti un'analisi di comunità,
abbiamo degli strumenti più diretti e degli strumenti più indiretti.
Tra gli strumenti più tradizionali sicuramente c'è:

• L'intervista face to face, dove si intervista personalmente il cittadino chiedendogli opinioni in merito
ad alcune questioni che riguardano il territorio in cui vive, e quindi in cui si chiede direttamente al
cittadino che cosa pensa della comunità, e a seconda poi del profilo che andiamo ad analizzare, ed è una
tecnica che sicuramente raccoglie una quantità di dati e di informazioni molto ampi perché il soggetto
è di fronte a noi, e quindi possiamo chiedergli molte cose, ma è una tecnica dispendiosa, sia in termini
economici che in termini di tempo e in più può essere soggetta a delle distorsioni, da parte della persona
stessa che si trova in difficoltà, rispetto ad un'intervista diretta.
• Nel sondaggio telefonico, si intervistano telefonicamente le persone attraverso domande
predefinite;
• Invece il questionario self-report, viene spedito a casa e presenta domande e risposte predefinite.
In questi ultimi due strumenti queste difficoltà vengono meno perché è garantita alla persona l'anonimato, e
quindi sarà più facilitato a rispondere alle domande telefoniche o a scrivere le proprie risposte sul questionario,
anche se si perde una quantità di dati naturalmente maggiori, ma si raggiunge una quantità di popolazione
maggiore, e quindi, siccome ci sono dei vantaggi e degli svantaggi in tutti gli strumenti, si cerca di utilizzare sia
l'uno che l'altro.

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Rispetto invece agli strumenti innovativi abbiamo i focus group, che sono piccoli gruppi all'interno dei
quali si attiva una discussione sul tema, sull’argomento oggetto di indagine e si invitano tutti i partecipanti ad
esprimersi, e quindi permettendo a tutti i partecipanti di esprimersi liberamente e di confrontarsi con gli altri:
il clima è assolutamente orizzontale e trasversale, non esiste un leader, e anche lo psicologo stesso viene più
considerato come un facilitatore della comunicazione.
Questa è sempre una costante nel lavoro dello psicologo che lavora all'interno della comunità, e quindi si pone
come un consulente della comunità e non come il clinico che risolve direttamente la situazione.

Tutte le tecniche di sviluppo di comunità seguono i principi della psicologia di comunità:

• Facilitano l'unione e la cooperazione tra gli individui che vivono uno stesso problema, facilitano la
cooperazione e quindi anche la condivisione e anche il senso di comunità e il capitale sociale della
comunità stessa, che sappiamo essere fondamentale per il benessere;
• Permette di emergere in modo particolare la capacità di empowerment sia individuale che sociale;
• Permettono la realizzazione di progetti che sono finalizzati al cambiamento sociale;
• Identificano le risorse e i vincoli della comunità stessa, e quindi prendono in considerazione la realtà
esistente.
L'empowerment è davvero un concetto fondamentale che permette anche di mediare tra una dimensione più
individuale e una più socio-politica, e di integrare i contributi di diverse dottrine: la psicologia sociale, la
psicologia ambientale, la psicologia clinica e la teoria dei sistemi. Ma fondamentalmente all'interno della
psicologia della comunità noi ne parliamo come di una possibilità che si dà all'individuo e alla comunità
di “favorire l'acquisizione di potere, di diventare in grado di", e questa è la definizione che deriva da
“to empower”. Questo è un costrutto multidimensionale, che implica sia il processo che porta la
persona ad essere potente, e cioè ad acquisire potere, sia l'esito, l'essere potente insieme. La prima
definizione che prendiamo in considerazione è quella di Rappaport (1981), che sostiene che l’empowerment
è:
“un processo che permette l’acquisizione di potere e di accrescere la capacità delle persone (a livello dei
singoli, dei gruppi, delle organizzazioni e delle comunità) di controllare attivamente la proprio vita”.
Quindi egli ne parla proprio come di un’acquisizione di potere che serve per accrescere la
capacità delle persone a più livelli, rispetto alla possibilità di controllare attivamente la propria
vita. In questa prima definizione viene alla luce la valutazione del costrutto come multidimensionale e di
multilivello perché agisce su più livelli, agisce a livello dei singoli, dei gruppi, dell'organizzazione e delle
comunità, e quindi in organizzazioni di complessità crescente.
Queste sono le tre caratteristiche che sono alla base del concetto di empowerment:

• La capacità di esercitare un controllo: il controllo è la capacità, percepita o reale, di influenzare le


decisioni, quindi di esercitare un potere sulla propria vita, avere la possibilità di influenzare quello che
accade all'interno della propria vita,
• La consapevolezza critica: la conoscenza del funzionamento delle strutture di potere, dei processi
decisionali e della gestione delle risorse, e quindi l'empowerment porta alla conoscenza del
funzionamento di quelle che sono le strutture di potere all'interno della comunità, i processi decisionali
e anche come sono presenti e gestite le risorse all'interno del territorio;
• L’azione collettiva: le azioni messe in atto per raggiungere gli obiettivi condivisi e desiderati, e quindi
un’azione a cui tutti partecipano. Quindi si ha una maggiore conoscenza di quello che accade intorno a
noi e questo porta al mettere in atto delle azioni per raggiungere gli obiettivi che sono condivisi e che
partono dal bisogno dalla valutazione del bisogno della comunità stessa. Naturalmente è un'azione a cui
partecipano tutti, proprio perché tutti si sentono responsabili all'interno della comunità e "capaci di",
all'interno della comunità.

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Quello che accade, secondo la definizione di Zimmerman, è che si passa da una condizione di impotenza
appresa (learned helplessness) ad una condizione di speranza appresa (learned hopefullness). L’impotenza
appresa porta l'individuo a una situazione di fallimento e di sensazione di incontrollabilità degli eventi, quindi
di non possibilità di intervenire attivamente sugli eventi, a una speranza appresa, e quindi una posizione invece
più attiva e affermativa da parte del soggetto, che inizia e si sente capace di controllare gli eventi della propria
vita. All'interno del costrutto dell’empowerment troviamo anche altri concetti fondamentali per la psicologia:
• Il concetto di auto-efficacia di Bandura, quindi la fiducia nelle mie possibilità di raggiungere quei
determinati obiettivi e quei determinati scopi che mi sono prefissato,
• Il locus of control interno di Lotter, cioè io sono convinto che ciò che faccio determina in qualche
modo quello che succede nella mia vita, e quindi gli eventi dipendono anche dal mio comportamento o
potere. Rispetto al potere, questo significa, secondo la definizione di Bruscaglioni, aumentare le
possibilità di azione, le scelte che l'individuo ha.

Infatti Bruscaglioni sostiene che l’empowerment psicologico è:


“un processo di ampliamento, attraverso il miglior uso delle proprie risorse attuali e potenziali acquisibili,
delle possibilità che il soggetto può praticare e rendere operative”.
È un costrutto che integra diverse dimensioni, e quindi di personalità, cognitive e motivazionali. Anche Torre,
in questa scia, parla di:
“un processo importante perché porta le persone a partecipare, a condividere il controllo, e quindi di
conseguenza a influenzare gli eventi e le situazioni anche che incidono sulla propria vita”.
I requisiti fondamentali dell'empowerment sono quindi:
• Lo sviluppo di un sé potente, della sensazione di essere potenti, che promuove il coinvolgimento
sociale affettivo, e che quindi aumenta il desiderio di sentirmi parte di qualcosa, e quindi di essere
coinvolto da un punto di vista non solo di azione, comportamentale, ma anche emotivo e cognitivo;
• La capacità rispetto alla coscienza critica, quindi di fare un'analisi critica dei sistemi sociali e
politici che definiscono il proprio ambiente, e quindi della realtà all'interno della quale vivo;
• L’abilità di sviluppare delle strategie di azione e coltivare risorse per raggiungere i propri
scopi, e quindi che promuovano le risorse del territorio;
• La capacità di agire in modo efficace in collaborazione con altri per definire e raggiungere degli scopi
collettivi, e quindi che agiscano in modo da risolvere i propri problemi e quindi raggiungere gli scopi
prefissati.
In questo senso quindi le componenti fondamentali dell'empowerment sono proprio:
• Un determinato tipo di atteggiamenti, valori e credenze che vanno nel senso di un'autoefficacia
percepita, del locus of control interno e un senso di sé che promuove e desidera gestire l’azione, e quindi
la possibilità di gestire l'azione e di essere capaci di gestire l'azione;
• La validazione delle esperienze collettive: le esperienze non sono più considerate personali, e
quindi il sentimento e il sapere e tutto ciò che accade all'interno della comunità riguarda tutti;
• Le conoscenze e le capacità per pensare in modo critico: una ricollocazione del problema nel
contesto di appartenenza, quindi il fallimento o anche la difficoltà all'interno della comunità non è più
relativa ad un deficit o ad un problema della persona stessa, ma è qualcosa che riguarda l'intera
comunità stessa, per questo il problema non è più intrapsichico o riguardante la persona o il suo insieme
soltanto di relazioni, ma viene ricollocato all'interno del contesto e questo permette anche di evitare
quei meccanismi di biasimo, di vittimizzazione, che poi sappiamo essere alla base del malessere della
persona e dellacomunità stessa;
• L’azione: le persone diventano capaci di sviluppare dei piani di azione, aumenta il senso di
responsabilità e la volontà di agire per raggiungere obiettivi comuni e condivisi, rispetto all'azione, la
capacità di agire, e in senso responsabile, nei confronti della comunità stessa.

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Le strategie di intervento che sono orientate all'empowerment sono (in base dagli studi di Cox e Parsons):

• A livello personale, lavorare sul gruppo, instaurando un rapporto di lavoro e identificando i bisogni e
le risorse, e quindi per esempio individuare le risorse presenti nel contesto;
• A livello interpersonale, attivare seminari, incontri e piccoli gruppi di auto-aiuto, e quindi
aumentare le strategie di self-help, e quindi la possibilità dell’auto-aiuto presente;
• A livello organizzativo, interventi focalizzati sul cambiamento nell’ambito del contesto della
persona, imparando quali risorse esistono e come accedervi, come comunicare efficacemente coi
professionisti e come partecipare a gruppi di auto-aiuto, e quindi andare a modificare proprio la
struttura dell'organizzazione e aumentare anche le capacità di comunicare efficacemente all'interno
dell'organizzazione stessa;
• A livello sociopolitico, gli interventi mirano al coinvolgimento delle persone nella politica, la
necessità di aiutare le persone a cogliere quei legami esistenti tra i problemi personale e le dinamiche
sociali, invece più ampie e sociali.
Sono delle strategie studiate all'interno di una realtà costituita e definita, che però possiamo anche ampliare a
contesti più ampi.
Quindi se dovessimo riassumere quello che noi pensiamo sull'empowerment, potremmo definirlo
(Zimmerman, 1999):

• Come una variabile continua, cioè non dicotomica, che c'è o non c'è;
• Un concetto multidimensionale, perché si articola su più livelli di complessità crescente
(individuale, di gruppo, organizzativo e di comunità);
• Con un'evoluzione che non è lineare perché dipende dal momento storico, (per esempio,
l'empowerment di un bambino sarà diverso dall’empowerment di un adulto) dal momento storico che
la persona vive;
• Si specifica in relazione al contesto e alla popolazione, e quindi dal contesto, dal tipo di
popolazione presente all'interno del contesto.
Accanto al concetto di empowerment psicologico troviamo quello di empowerment sociale, che è:
“quel processo intenzionale, voluto e sempre presente, che è focalizzato sulla comunità locale e che comporta
rispetto reciproco, quindi condivisione e vicinanza, riflessione critica sulle cose che avvengono, ma soprattutto
la cura e la partecipazione del gruppo”.
Quindi è un processo che è finalizzato alla cura e al benessere della comunità stessa, è quel processo mediante
il quale le persone, che sono prive di risorse, finalmente se ne impadroniscono e ad accrescere il controllo su di
esse, e quindi riescono a modificare la propria vita in relazione ad esse, grazie ad esse.
Se dovessimo definire una comunità competente, così come un cittadino competente, definiremmo:
• Una comunità che ha potere: e quindi ha un repertorio di possibilità e di alternative, la possibilità
di cambiare il reale;
• Una comunità che ha una conoscenza: cioè sa dove e come ottenere le risorse per risolvere i
problemi, e quindi che ha una conoscenza delle risorse e dei modi per metterle in campo per risolvere i
propri problemi;
• Una comunità che ha una motivazione e un’autostima: cioè la comunità chiede di essere
autonoma, e quindi che ha soprattutto una motivazione ad agire in modo autonomo.
All'interno di questo concetto diciamo che tutte le strategie utilizzate dallo psicologo di comunità per lo sviluppo
dell'empowerment sociale sono:
• L'azione sociale;
• Lo sviluppo di comunità;
• Tutti quegli interventi che sono finalizzati all'aumento del “senso di comunità” stesso.

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Lezione 8
Ricerca e valutazione in psicologia dicomunità
La psicologia di comunità ci ha insegnato che l'oggetto di studio privilegiato è l'uomo all'interno del suo contesto,
del suo ambiente. Non possiamo infatti studiare i comportamenti, gli atteggiamenti, i valori e le emozioni
dell'individuo se non lo inseriamo all'interno del suo contesto di vita. Quindi la psicologia di comunità ha
evidenziato il fatto che le persone devono essere esaminate nei contesti naturali di appartenenza. L’oggetto di
studio quindi diventa un oggetto complesso, multi-determinato e multi-sfaccettato, e fondamentalmente si va a
valutare, non solo l'individuo e il contesto, ma soprattutto le interazioni che all'interno di esso l'individuo pone
in atto. Quindi, l’oggetto di studio diventa contemporaneamente l’individuo, il gruppo, il sistema
comunitario e le relazioni intercorrenti tra questi tre livelli. Per questo la ricerca in psicologia di
comunità ha due obiettivi fondamentali:
• Quello di aiutare le persone a comprendere meglio il proprio contesto in cui vivono, per individuare
quindi ancora meglio quelle che sono le possibili soluzioni ai problemi che vengono presentati;
• Favorire nuovi modi di valutare questi problemi e di conseguenza nuove teorie, che rendano le
descrizioni indipendenti dalle distorsioni soggettive del ricercatore, e quindi favorire anche nuovi
metodi, nuovi modi di valutare ciò che avviene.
Per conoscere un contesto, una comunità, un quartiere, qualsiasi sia il nostro oggetto di studio, la prima cosa da
fare è definirlo. Per definire un contesto bisogna conoscerlo ma nel processo di conoscenza è possibile che
avvengano delle distorsioni da parte dell'osservatore. Proprio per questo il metodo che più si è utilizzato
all'interno della psicologia di comunità per la ricerca è quello dell’osservazione partecipante. L'osservazione
partecipante prevede che il ricercatore viene immerso all'interno della realtà che andrà ad indagare, e quindi
è coinvolto a 360° sia in termini, non solo di comportamenti, ma anche di emozione e di vissuti. L'osservazione
partecipante è collegata a quella che è la metodologia più utilizzata all'interno della psicologia di comunità, cioè
quella della ricerca intervento, in cui non solo a partecipare e ad essere immerso, quindi attivo,
all'interno della comunità è l’osservatore stesso, ma anche la comunità stessa. La ricerca intervento è qualcosa
di diverso dalla diagnosi osservazione, in cui i due momenti dell'osservazione e della diagnosi sono distinti
all'interno della ricerca intervento, è quindi una nuova metodologia di ricerca. Qualsiasi sia comunque il metodo
che lo psicologo di comunità utilizza per conoscere e per implementare le metodologie delle ricerche, quello che
bisogna conoscer soprattutto sono:
• Gli aspetti strutturali, quindi come è composta la comunità;
• Gli aspetti relazionali, e cioè quali relazioni esistono tra i membri della comunità, e quindi l’intreccio di
relazioni che al suo interno vengono attuate;
• Gli aspetti di gestione, e quindi le regole, le norme, i processi di potere e la distribuzione delle risorse
che esistono all’interno della comunità.
Qualsiasi sia la ricerca che noi andremo ad attuare utilizzeremo degli strumenti. Gli strumenti possiamo
suddividerli a seconda del contatto che esiste con l'oggetto di studio, quindi avremo:

• Strumenti che non prevedono nessun tipo di contatto: ci riferiamo agli strumenti ricavabili dai
database o dagli indicatori già esistenti all'interno delle comunità, per esempio, dati Istat o altro;
• Strumenti a minimo contatto: sono soprattutto i metodi di osservazione del contesto, sia da un
punto di vista fisico-strutturale (traffico, spazi verdi, ecc.), che da un punto di vista sociale (presenza di
extra-comunitari);
• Strumenti a moderato contatto: in cui esiste un contatto intenzionale e sporadico, ma circoscritto,
come la somministrazione di scale self-report o i questionari:
• Strumenti ad elevato contatto, in cui il contatto è diretto e continuativo con l’utente o con la
persona, in cui troviamo soprattutto le interviste individuali o il focus group, dove il coinvolgimento è
considerevole.

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Intorno agli anni ‘80, la questione della ricerca in psicologia diviene più presente all'interno dei dibattiti e dei
vari convegni, ci si chiese quale sia la metodologia di ricerca più congrua a quella che è l'oggetto di studio. In
psicologia l'oggetto di studio è un oggetto complesso perché si parla dell'uomo e della relazione che l'individuo
ha all'interno della sua comunità, con il contesto. Essendo un oggetto molto complesso è difficile che possano
essere utilizzati dei metodi di tipo sperimentale in ricerca. Questo perché i metodi quantitativi, di tipo
sperimentale, hanno dellecaratteristiche molto rigorose:
• Richiedono dei campioni molto ampi e rappresentativi della popolazione, che pongono distanze tra il
ricercatore e il fenomeno indagato;
• Per arrivare ad una generalizzazione dei risultati la spiegazione degli eventi, si mette in atto un progetto
di ricerca proprio per verificare delle ipotesi, quindi sulla base della prevalenza delle correlazioni
riscontrate, attestate per generalizzare i risultati, e quindi standardizzarli;
• Un'altra caratteristica fondamentale è quella della riduzione della complessità dell’oggetto che viene
indagato, e quindi degli eventi, eliminando o attenuando l’effetto di molte variabili.
Tutto questo ha portato i ricercatori a pensare a una nuova metodologia, più qualitativa. I metodi qualitativi
nascono dall’insoddisfazione verso i metodi quantitativi. I fattori che hanno influenzato positivamente lo
sviluppo anche di metodi più qualitativi nella ricerca in psicologia sono:
• Fattori socioculturali, quindi l'emergenza di un'attenzione, una valorizzazione sull’individualità e
sull'esperienza quotidiana;
• Fattori teorici, cioè l’esigenza di una nuova modalità di ricerca più attenta alla relazione tra individuo
e contesto, e quindi che hanno messo in evidenza la complessità del fenomeno di studi, e quindi la
necessità di utilizzare una metodologia che sia altrettanto complessa e che prenda in considerazione
tutti gli aspetti fondamentali dell'oggetto di studio;
• Fattori tecnologici, cioè lo sviluppo di nuove tecnologie che hanno in qualche modo facilitato l'analisi
dei dati qualitativi, ma soprattutto hanno anche avvallato e aumentato la validità scientifica anche dei
metodi qualitativi.
I vantaggi della metodologia qualitativa sono:

• Le descrizioni sono molto più accurate degli eventi;


• Vi è l’identificazione di comportamenti complessi, quindi si prende in considerazione l’evento unico,
complesso;
• L’oggetto è studiato nel suo contesto naturale, quindi si studia all'interno del suo contesto,
• Senza essere da questo estromesso e studiato all'interno di un laboratorio;
• Vi è l’evidenza della natura complessa del contesto situazionale, organizzativo o comunitario in cui il
fenomeno avviene, ed è un contesto che poi si dispiega su più livelli, un conteso situazionale,
organizzativo e comunitario.
Il limite dei metodi qualitativi sta proprio nel formulare una quantità di dati che è difficilmente compatibile con
un metodo rigorosamente scientifico. Se invece torniamo ai metodi di ricerca sperimentale, questi metodi
permettono al ricercatore di andare a valutare la relazione esistente tra due fenomeni, A e B, in un'ottica
assolutamente di linearità, deterministica. Questo avviene attraverso l'uso di due gruppi: un gruppo
sperimentale e un gruppo di controllo, che sono assolutamente uguali e l'appartenenza a un gruppo o all'altro è
assolutamente casuale. Sul gruppo sperimentale verrà somministrato l'intervento che noi vogliamo andare a
valutare o la variabile che vogliamo andare a valutare, sul gruppo di controllo assolutamente nulla. La ricerca
sperimentale, richiede però delle condizioni molto rigorose, e quindi:
• Dei campioni che siano sufficientemente rappresentativi, ampi;
• Un'assegnazione casuale dei soggetti tra un gruppo e l'altro, e quindi nel gruppo sperimentale e nel
gruppo di controllo;
• La somministrazione di un trattamento solo ad un gruppo, e cioè a quello sperimentale, della variabile
che noi vogliamo andare a verificare, per verificare eventuali cambiamenti;
• L’eliminazione dell’interferenza delle variabili di disturbo, e quindi l'azzeramento di tutte le altre
variabili.

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In psicologia tutto questo è molto difficile perché si pongono anche delle questioni etiche: come facciamo a
valutare a quale gruppo somministrare realmente l'intervento o meno? L’appartenenza di un soggetto ad un
gruppo, sperimentale o di controllo, non è casuale. Diciamo che ci sono delle difficoltà oggettive, per questo,
molto spesso, vengono utilizzati dei metodi di ricerca che noi chiamiamo "quasi sperimentali", come per
esempio:
• Il disegno quasi sperimentale con un gruppo di controllo non equivalente: il gruppo di controllo è
simile a quello sperimentale per alcune caratteristiche, come le variabili anagrafiche, il setting di
appartenenza o altre. In questo caso c'è sempre la suddivisione indue gruppi, il trattamento, l'intervento
(la variabile) viene somministrato a un gruppo e all'altro no, ma l'assegnazione all'uno all'altro non è
casuale ma a seconda delle reali appartenenze;
• Nell'analisi delle serie temporali invece si introduce una variabile che si ritiene possa portare dei
cambiamenti, in modo tale che le misurazioni precedenti al trattamento differiscano dalle serie
temporali successive se effettivamente l’intervento ha prodotto modificazioni. Quindi la valutazione
avviene su un unico gruppo, per cui prima e dopo l'intervento della variabile, che noi vogliamo andare
a conoscere, faremo comunque delle somministrazioni ditest o utilizzeremo dei dati che ci indicano il
livello del fenomeno, proprio per verificare se questo aumenta o diminuisce a seconda della variabile
oggetto di studio.
Altro capitolo è invece quello della ricerca diagnostica e i metodi della ricerca diagnostica, siamo sempre
all'interno di un campo sperimentale con metodi quantitativi, abbiamo l'indagine epidemiologica e gli indicatori
sociali. L'epidemiologia è uno strumento molto valido utilizzato per rilevare, all'interno di una popolazione,
di un contesto, o di una comunità, la prevalenza di problematiche di tipo psichiatrico o psicosociale. Quello che
viene messo in evidenza è che la malattia psichiatrica, o il problema psicosociale che porta
l'individuo, non è collegato soltanto a fattori biologici o intrapsichici, ma è collegato anche a
fattori socio-ambientali. I concetti fondamentali, rispetto a un'indagine epidemiologica, sono quelli della
stima della prevalenza e dell'incidenza, quindi è fondamentale per comprendere l’entità di un problema, mettere
a fuoco l’eziologia, e quindi evidenziare i fattori di rischio e quelli protettivi che possono incidere. Quindi
quanti nuovi casi, rispetto a questo problema, esistono all’interno della comunità e il numero totale esistente.
Fare questo tipo di indagine permette soprattutto, ed è utile al ricercatore in psicologia, perché permette di
valutare l'emergenza, e quindi anche i fattori di causa dell'evento problematico,e di conseguenza anche andare
ad analizzare quelli che sono i fattori di rischio o di protezione che favoriscono o meno l'insorgenza della
problematica, e di conseguenza aiutare anche ad attuare dei veri programmi di intervento, soprattutto ad un
livello di prevenzione primaria.
Quindi i principali meriti degli studi epidemiologici sono:

• Assolutamente quello di evidenziare un rapporto tra la patologia e l'ambiente, quindi la problematica


psichiatrica o psicosociale non è solo insita all'interno dell'individuo;
• Questo di conseguenza amplia il focus sia dell'osservazione ma anche dell'intervento al contesto da
attuare di provenienza della patologia e non solo alle caratteristiche individuali, perché è un intervento
che si focalizzerà sulla relazione esistente tra le caratteristiche individuali e le caratteristiche ambientali.
Gli indicatori sociali invece sono un metodo descrittivo che andrà a valutare i livelli di benessere/malessere
in funzione di diversi gruppi sociali all'interno della comunità. Intendiamo, per esempio, i tassi di criminalità, i
tassi di disoccupazione, o altro. Sebbene si valutino degli aspetti oggettivi della comunità, questo metodo di
indagine però è sottoposto a delle distorsioni soggettive, anche perché vengono utilizzati degli strumenti self-
report, quali delle scale di valutazione, delle interviste e dei questionari, soggetti quindi alla distorsione da parte
del soggetto intervistato. Nella formulazione degli indicatori bisogna tenere in considerazione:
• La validità: e quindi la capacità dell’indicatore di accertare proprio il fenomeno che si intende
misurare. Per essere valido, un indicatore, deve misurare effettivamente l’oggetto che intende misurare;
• L’attendibilità: cioè la capacità dell’indicatore di essere immune da errori tecnici e umani nella
rilevazione dell’informazione. Quindi deve essere quanto meno influenzato da errori tecnici e umani nel
processo di valutazione e di osservazione;

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• La sensibilità-economicità: cioè la capacità dell’indicatore di essere una misura il più possibile
facilmente rilevabile, senza un eccessivo spreco di risorse di denaro e di tempo. Quindi deve avere una
sensibilità economica, ovvero deve essere quanto più possibile economico, sia in termini di risorse di
denaro, che di tempo per il ricercatore stesso.
La metodologia di ricerca che più utilizziamo all'interno della psicologia di comunità è una metodologia è stata
in qualche modo portata avanti ed identificata da Kurt Lewin (1890-1947),intorno agli anni ‘40, e si chiama
ricerca-intervento (action-research) o ricerca-azione. Già nel 1948, Lewin parla della ricerca-
intervento come:
“un tipo di ricerca d’azione, una ricerca comparata sulle condizioni e gli effetti delle varie forme di azione
sociale che a sua volta tende a promuovere l’azione sociale stessa. Se producesse soltanto dei libri non
sarebbe infatti soddisfacente”.
Quindi Lewin parla della ricerca-azione come una ricerca sulle varie forme di azione sociale, ma che
tende a promuovere in qualche modo l'azione sociale stessa. Questo significa per Lewin che, qualsiasi
forma di ricerca che andiamo ad attuare in campo psicologico, non può avere come ultimo obiettivo quello di
produrre una conoscenza o andare a formulare, a verificare delle ipotesi, e quindi a formulare una teoria che ci
orienti all'interno del campo, ma, nello stesso momento, produce una conoscenza che è atta e finalizzata a
produrre dei cambiamenti reali all'interno della comunità stessa. Si esce quindi da un'ottica di tipo
lineare, di causalità lineare e deterministica e si entra invece in un'ottica di circolarità, per cui la nostra ipotesi
influenza le azioni del ricercatore e leazioni del ricercatore sono in qualche modo influenzate a sua volta dai
feedback che arrivano dall'esterno, e quindi è un ciclo continuo, perché proprio queste azioni possono poi
andare di nuovo a modificare le premesse teoriche o l'ipotesi dalle le quali siamo partiti.
I principi di fondo della ricerca-intervento sono:
• Un rapporto circolare tra teoria e prassi, finalizzate a continui processi di trasformazione;
• La partecipazione e la collaborazione di tutti i soggetti a cui l'intervento di cambiamento è diretto.
Abbiamo detto prima che l'osservatore è partecipante, quindi in qualche modo è immerso nella cultura che va
ad analizzare, ma allo stesso tempo è immerso ed è attivo nel processo di ricerca-azione anche l'utente al quale
l'intervento è rivolto. La ricerca-intervento si dispiega all'interno di quattro fasi fondamentali:
1. Una fase diagnostica, dove vi è l’individuazione del problema, delle ipotesi e degli obiettivi. Quindi
una prima fase in cui si individuano quelli che sono gli obiettivi della ricerca ma partendo da, non
soltanto dalla problematica della comunità, ma anche da quelle che sono le risorse all'interno della
stessa;
2. Una fase conoscitiva, dove vi è la raccolta dei dati prima dell’intervento. Quindi si raccolgono i dati
che vanno poi a organizzare il materiale, quindi poi per attuare degli interventi congrui;
3. Una fase d'intervento;
4. Una fase valutativa, con la raccolta dei dati dopo l’intervento. Serve a dare delle indicazioni per sapere
se l’intervento è stato efficace, altrimenti occorre continuare l’opera di raccolta dati al fine di specificare
meglio il problema, e questo può portare all’apertura di un nuovo ciclo.
Potremmo dire che la ricerca-intervento è una metodologia che va a ristrutturare la comunità,
passando però per una fase di destrutturazione, per questo è fondamentale anche, non solo la collaborazione
dei membri della comunità, ma anche l'accettazione del progetto di ricerca, e quindi anche un’autorizzazione da
parte dei membri stessi.
Le caratteristiche della ricerca-intervento sono molte:
• In prima istanza abbiamo la complessità: dove non c’è azione senza la presa in considerazione della
complessità del reale. Quindi la complessità fondamentalmente è la complessità dell'oggetto di studio,
il fenomeno che noi andiamo a valutare, la relazione che esiste tra la persona e il contesto;
• L'ascolto sensibile: che si rifà alla teoria rogersiana delle scienze umane, fondata sull'empatia.
Riguarda il ricercatore, che è immerso anche da un punto di vista emotivo, che mira a capire
effettivamente quelli che sono i vissuti delle persone all'interno della comunità;

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• La presenza di un ricercatore collettivo: che è un gruppo di cui fanno parte i professionisti e i
membri della popolazione di interesse. Quindi ad essere parte attiva e parte della ricerca non è soltanto
lo psicologo, l'esperto, ma anche i rappresentanti membri della popolazione stessa;
• Il cambiamento: infatti la ricerca-azione mira al cambiamento. Quindi l'obiettivo della ricerca-
intervento è quello di improntare dei cambiamenti all'interno della comunità;
• La negoziazione: che dura per tutto il corso della ricerca-azione. La negoziazione, cioè il confronto, la
collaborazione, la presa di visione di tutti quelli che sono i punti di vista all'interno della comunità, è
qualcosa che accompagna tutto il processo anche dalle prime frasi di progettazione proprio. Questo
significa che attraverso dei progetti di ricerca-azione fondamentalmente l'operatore prende in
considerazione tutte le voci esistenti, e quindi anche le voci minoritarie delle persone e dei gruppi
svantaggiati all'interno della comunità stessa;
• Il momento di valutazione: e quindi la discussione sui valori e i significati della comunità.
I vantaggi della ricerca-azione sono molti:
• Incoraggiano in qualche modo, formulano delle integrazioni tra i saperi differenti, e quindi danno una
visione pluralistica degli eventi;
• Mettono in conto, sottolineano il ruolo costruttivo dell’azione, la necessità dell'azione;
• Ma soprattutto all'interno della ricerca-azione, il vantaggio fondamentale è quello di favorire i processi
di empowerment, che sono processi, sia individuali, e quindi a un livello più individuale, sia ad un livello
invece più sociale e allargato.
Naturalmente, rispetto ai limiti della ricerca-intervento, della ricerca qualitativa in generale, i dati che
vengono raccolti di solito non raggiungono una vera e propria soddisfacente validità scientifica:
le caratteristiche sono molto diverse ma perché gli obiettivi sono situazionali, disolito anzi spesso l'oggetto di
studio è un evento unico, non ripetibile, il campione è ristretto, di solito sono campioni molto piccoli, gruppi
molto piccoli di lavoro e diciamo poco rappresentativo della popolazione in generale, e il controllo sulle variabili.
Quindi da un punto di vista scientifico andiamo a vedere quali sono le caratteristiche:
• Un approccio olistico al problema, cioè il fenomeno di studio viene visto nella sua complessità e
unicità, all'interno proprio del contesto di vita stesso;
• La significatività del tema della ricerca per tutti gli attori coinvolti significa che quello che si
propone di studiare un progetto di ricerca-intervento è qualcosa che interessa direttamente alla
comunità stessa, è la comunità che decide il tema su cui appunto andare ad indagare, e quindi poi a
modificare per migliorare quella che è la qualità di vita e il benessere all’interno della comunità stessa;
• La disponibilità a negoziare, con gli attori, le azioni da compiere;
• Un intervento del ricercatore nelle azioni: e quindi anche un intervento attivo sia della comunità
stessa che del ricercatore, che non è super partes, un esperto, ma un facilitatore delle comunicazioni e
dei processi che avvengono all'interno di questo tipo di ricerca;
• Vi è l’assenza di un metodo predefinito da applicare: e quindi non esiste un metodo predefinito;
• Vi è il perseguimento dello sviluppo personale e professionale degli operatori-attori del
processo: quindi è finalizzato ad aumentare quelle che sono le competenze e le professionalità degli
attori del progetto;
• Vi è l’emancipazione degli attori: e quindi soprattutto ad aumentare, attraverso un processo di
empowerment, quello che è la capacità di autonomia degli attori, soprattutto delle persone appartenenti
alla comunità stessa, che porta quindi a un processo di emancipazione;
• Vi è l’impiego di strumenti descrittivi per la valutazione dei risultati durante e alla fine della
ricerca;
• L'obiettivo ultimo è quello del cambiamento sociale, e per questo possiamo dire proprio chei progetti
di ricerca-intervento poi diventano azione sociale stessa.
Se nell'approccio sperimentale, gli scopi sono quelli di verificare delle ipotesi, verificare i nessi di causalità tra
due variabili e generalizzare e standardizzare i risultati, invece nella ricerca-intervento l’obiettivo ultimo
è quello di produrre all’interno della comunità un cambiamento che sia socialmente rilevante,

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e quindi dal punto di vista sociale. Nella ricerca-intervento è spesso difficile trovare il limite tra quello che
è l'oggetto e il soggetto di studio, e quindi il soggetto e l’oggetto sono spesso difficilmente distinguibili, sono
sempre prese in considerazione più variabili, all'interno del progetto, e l’intervento è attuato su un unico gruppo,
non esiste quindi un gruppo di controllo.
Una modalità di ricerca-intervento molto utilizzata è quella del “photo voice”: è uno strumento di partecipazione
che produce un processo attivo di riflessione, parte da un livello individuale e poi diventa più gruppale e sociale,
ed è collegato alla produzione di una conoscenza, e che quindi è finalizzata all'azione. Quelle che vengono
utilizzate in questo tipo di ricerca sono le fotografie, ai componenti della comunità viene richiesto proprio di
attuare, attraverso la disponibilità di materiali, di attuare delle foto che rappresentino in qualche modo il tema
specifico dell'oggetto di indagine all'interno della propria comunità. Ci sono più fasi, degli incontri preliminari
in cui viene spiegato qual è la metodologia dell'intervento, che cosa si andrà a valutare, si spiegano anche le
problematiche, da un punto di vista etico, perché quando si fanno delle foto, c'è tutta una questione sulla
privacy, ecc., e poi si passa a una vera e propria attività fotografica, cioè si chiede alle persone, di solito piccoli
gruppi, di fotografare la propria città, il proprio quartiere, prendendo in considerazione proprio il tema scelto
precedentemente. In questo senso si andranno a sviluppare 15 fotografie, dalle quali se ne sceglieranno soltanto
3 di solito, e già nel lato del fotografare la persona aumenta quello che è il pensiero critico, rispetto ai temi che
vive quotidianamente: il facilitatore in qualche modo, l'operatore, il ricercatore deve essere molto attento a
stimolare le persone a non dare soltanto un'immagine pessimistica e negativa della comunità in oggetto, ma a
sviluppare anche delle visioni possibili alternative. Le fotografie che vengono scattate poi vengono quindi
presentate al gruppo, si attiva una discussione di gruppo, anche tutti commentano le foto di tutti, e quindi si
attiva anche un pensiero creativo collettivo, rispetto a quelli che sono i temi presentati, e si aumenta anche la
partecipazione perché la persona magari, quello che la persona ritiene essere una problematica solo per sé,
capisce che è una problematica invece collettiva ecc.
Quindi si attiva una discussione che però non è finalizzata alla critica, ma ad andare a ipotizzare veri e propri
cambiamenti all'interno della comunità stessa, anche in questo caso l'azione, per esempio, del ricercatore è
molto importante perché potrebbe, nel momento in cui capisce che gli interventi pensati sono effettivamente
impossibili da attuare, irrealizzabili ecc., mette in contatto, per esempio, il gruppo di ricerca con i servizi e le
cooperative del territorio proprio per implementare invece e pensare a degli interventi più reali e fattibili. Nella
terza fase poi, oltre ad individuare quelle che possono essere appunto gli interventi da attuare,
fondamentalmente si prende contattoanche attraverso, per esempio, una mostra di fotografie, con le personalità
poi della politica o amministratori locali, proprio per mettere in pratica, quindi cercare una collaborazione attiva
permettere in pratica gli interventi pensati.
Una fase molto importante del progetto di ricerca è la fase valutativa. Soprattutto negli ultimi anni si
è sviluppata la consapevolezza dell’importanza di effettuare delle verifiche sulla qualità e l’efficacia dei
programmi d’intervento. Questo anche perché la valutazione serve proprio ad:

• Evitare gli sprechi, sia in termini di tempo, che di risorse economiche;


• A correggere, e quindi implementare, gli interventi inutili o male impostati;
• Scegliere tra più alternative;
• Controllare le proposte esistente;
• Migliorare gli interventi in atto.
I vantaggi della valutazione si pongono poi a più livelli:
• A livello proprio degli operatori: perché aumenta il feedback rispetto al proprio lavoro, aumenta anche
la possibilità di appartenere all'equipe e quindi aumentare i processi di gruppo.
• Per l’organizzazione: e quindi permette all'organizzazione di migliorare la qualità del servizio offerto,
di aumentare poi una cultura organizzativa condivisa;
• Per l'utente: che promuove un atteggiamento partecipativo e aumenta il potere di intervento e il
controllo. Quindi l’utente, attraverso un processo di valutazione, si sente più partecipe, è partecipe al
progetto stesso, e quindi aumenta anche il proprio senso di potere e di controllo;
• Poi naturalmente per l'amministratore o il politico: perché facilita la scelta tra più alternative
d’azione e permette di proporre la riforma di programmi in atto o di promuove interventi alternativi.

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Quindi permette di attuare degli interventi più congrui, in qualche modo, anche da un punto di vista
legislativo, ai servizi offerti.
Gli approcci di valutazione che noi utilizziamo sono due:
• Nell’orientamento realista: la realtà esterna è oggettiva, regolata da meccanismi stabili. La realtà è
indipendente da chi conduce l’indagine e il ricercatore cerca dei metodi di misurazione più adatti
proprio per svolgere i propri compiti.
• Invece nell'orientamento costruttivista: la realtà è molteplice (è un orientamento più vicino e
coerente ai principi della psicologia di comunità, perché la realtà è molteplice). Il valutatore non è
assolutamente distante e indipendente da quello che è l'oggetto di studio. C'è un coinvolgimento
generale da parte dei partecipanti alla comunità, e quindi di tutti gli attori che prendono parte al
processo.
L'aspetto fondamentale di ogni processo valutativo è la dinamicità e la flessibilità, cioè
l’adattabilità a seguire “su misura” i cambiamenti insiti nell’evoluzione del programma d’intervento,
all'interno del progetto. Distinguiamo tre momenti fondamentali della valutazione:
1. La valutazione ex-ante: proprio nella fase di ideazione, attivazione e progettazione. La valutazione
ex-ante serve proprio per descrivere il programma di intervento e ha comeobiettivo quello di:
a. Valutare la formulazione congrua degli obiettivi e delle strategie messi in atto, la loro chiarezza
e coerenza rispetto alle azioni proposte, la possibilità che da loro discendano degli indicatori
utili per le successive valutazioni;
b. Serve per esplicitare o formulare un paradigma teorico che sia alla base del processo, che si
ponga come base di tutto l'intervento;
c. Poi valuta proprio l'utilità e l'utilizzabilità dei risultati della valutazione, e quindi della ricerca.
2. La valutazione di processo e monitoraggio: nella fase di realizzazione o di implementazione
dell'intervento stesso. La valutazione di processo comprende le attività di valutazione che si realizzano
durante l’attuazione del programma-intervento e:
a. Dà proprio delle indicazioni reali sulla realizzazione delle attività, e quindi su come sta andando
l'intervento, valuta le attività che sono messe in campo e se queste attività sono congrue con gli
obiettivi prefissati;
b. Rende possibile le modifiche delle attività in corso d’opera, e quindi può influenzare anche
l'andamento stesso modificando l'attività in corso;
c. Fornisce informazioni per migliorare il programma-intervento e valuta il contesto in cui
l’intervento viene effettuato.
3. La valutazione di efficacia: alla fine del processo, e quindi nella fase di verifica e la valutazione dei
risultati. La valutazione di efficacia invece nella parte conclusiva di un programma-intervento va
integrata con quelle che sono le informazioni che provengono dagli altri due momenti valutativi, e cioè
la valutazione ex-ante e la valutazione di processo. Ma soprattutto va a valutare:
a. L'efficacia, cioè la capacità di raggiungere gli obiettivi, quanto sono stati raggiunti gli obiettivi;
b. L'impatto, cioè il cambiamento reale indotto dal programma avvenuto nella comunità;
c. L'efficienza, cioè il rapporto tra i costi e i benefici, la trasferibilità e la riproducibilità del
modello.

Lezione 9
L’analisi organizzativa multidimensionale
L’Analisi Organizzativa Multidimensionale (AOM) è una forma di ricerca partecipata molto utilizzata
nella nostra disciplina. Se già pensiamo a quelle che sono le difficoltà per conoscere la personalità di un
individuo, immaginiamo cosa possa essere il fenomeno conoscitivo, rispetto ad un campo di intervento, ad un
sistema così complesso, come quello di un'organizzazione. Parliamo di un’organizzazione come di un

53
sistema complesso e aperto in cui le parti sono assolutamente interagenti e interdipendenti tra di loro e in
continuo contatto con l'esterno.
Bruscaglioni nel 1982 infatti ci dice che:
“alcune teorie chiariscono in maniera efficace gli aspetti conflittuali delle organizzazioni trascurando quelli
cooperativi, mentre altre teorie spiegano efficacemente gli aspetti cooperativi delle organizzazioni
trascurando pressoché completamente quelli conflittuali. Analogamente alcune teorie descrivono
efficacemente gli aspetti relazionali direttamente osservabili nelle organizzazioni, trascurando gli aspetti
relazionali che affondano le loro radici nell’inconscio individuale e collettivo, mentre altre descrivono
efficacemente gli aspetti relazionali derivanti dai fenomeni intrapsichici inconsci trascurando quegli aspetti
che derivano dai fenomeni direttamente osservabili”.
Quindi egli ritiene che alcune teorie abbiano messo in evidenza quelle che sono le tendenze conflittuali,
all'interno dell'organizzazione, non andando, per esempio, a considerare gli aspetti cooperativistici. Altre teorie
hanno fatto il contrario, hanno preso in considerazione delle tendenze più cooperative, e non quelle conflittuali.
Altre ancora si sono soffermate soltanto sulle relazioni osservabili, e non sui processi inconsci e viceversa.
Per questo, sempre Bruscaglioni (1982), parla di quattro approcci teorici fondamentali per lo studio delle
organizzazioni:

• Un approccio che possiamo definire sociologico-strutturale, in cui il focus è centrato soprattutto


sulla distribuzione di potere, sulla divisione della qualità del lavoro e sulla conflittualità presente
all'interno dell'organizzazione, e quindi soprattutto sui processi decisionali, la distribuzione delle
risorse;
• Un secondo approccio che invece chiamiamo sistemico-funzionale, si focalizza soprattutto sulla
cooperazione e sulla funzionalità dell’organizzazione, che viene vista come un sistema complesso e
assolutamente integrato nelle sue parti;
• Il terzo approccio lo definiamo socio-analitico, in cui si studiano quelle che sono le componenti
latenti, inconsce individuali e collettive, cioè le emozioni, i pensieri, i valori e gli atteggiamenti inconsci
dell'individuo, spesso difensivi che legano l’individuo all'organizzazione di cui è membro e di cui non
sempre è consapevole, e quindi le componenti non consapevoli;
• Mentre nell'approccio psico-sociale si approfondisce soprattutto il fattore umano e lo sviluppo delle
risorse umane in rapporto all’efficienza organizzativa, e quindi proprio come fattore che motiva
l'efficienza e l'efficacia dell'organizzazione stessa, quindi quando parliamo di risorse umane e di fattore
umano ci riferiamo a una parte più evidente e osservabile delle relazioni all'interno dell’organizzazione
stessa.
Quello che accade, secondo Bruscaglioni, è che viviamo in un isolamento degli approcci, ogni teoria crede di
essere assolutamente esaustiva, della realtà organizzativa, e non prende in considerazione invece un'altra.
Quello che noi ci auspichiamo che avvenga è una complementarietà meccanica tra i vari approcci, cioè un
riconoscimento della relatività delle proprie teorie di riferimento, per raggiungere un'integrazione dei diversi
approcci, e quindi un sistema che appunto prende in considerazione le varie dimensioni dell'organizzazione, e
quindi che di per sé sia multidimensionale, che è quello che accade con la nostra analisi organizzativa.
Un tentativo di integrazione è stato portato avanti da Morgan, nel corso degli anni, che utilizza il metodo delle
“metafore organizzative”, e quindi la metafora per parlare delle organizzazioni, che permette una visione
più ampia e una lettura più complessa del sistema che si studia. È anche poi seguito da altri autori, come Flood
e Jackson, che elaborarono il metodo dell’“intervento dei sistemi totali”, che parlano invece della necessità
di utilizzare all'interno dell'intervento dei sistemi totali, più metafore per andare a studiare l'organizzazione
stessa, ed è un metodo che coniuga gli approcci più anglosassoni e più pratici, legati soprattutto alla selezione
del personale e alla formazione, con un approccio invece più teorico europeo.
Gli assunti di base dell'analisi organizzativa multidimensionale sono che:

• Tutte le realtà organizzative hanno dei processi, delle variabili comuni;


• I diversi approcci teorici di solito, nel corso degli anni, si sono focalizzati soltanto su alcuni aspetti diversi
dell'organizzazione;

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• Questi diversi approcci teorici permettono quindi solo una “lettura” diversa, non integrata, del sistema
organizzativo stesso;
• Per cui quello che dobbiamo sottolineare è che nessuna di queste “letture” è più vera dell'altra, ma sono
semplicemente visioni diverse della stessa realtà.
Usare un approccio multidimensionale ha dei vantaggi, perché permette di:

• Aumentare le capacità del ricercatore di valutare i problemi e i punti di forza della propria
organizzazione, e quindi ci si focalizza prendendo in considerazione più aspetti su quelle che sono le
aree problema dell'organizzazione, ma anche su quelle che sono i punti di forza su cui puntare proprio
per migliorare l'organizzazione stessa;
• Permette di formulare una diagnosi multipla, su più livelli, del funzionamento dell’organizzazione
stessa;
• Rende consapevole di tutte le variabili presenti all'interno dell'organizzazione, che è necessario
prendere in considerazione se si vogliono effettuare cambiamenti efficaci e che promuovano
l’empowerment organizzativo, proprio per migliorare i processi di appartenenza ma anche di potere
all'interno dell'organizzazione stessa, cioè conoscere l'organizzazione, agire all'interno di essa, partendo
dai punti di forza e dai punti di debolezza, permette quindi di modificare anche l'organizzazione stessa,
e quindi aumentare la propria sensazione di empowerment.
Quello che però è necessario fare, se valutiamo dal punto di vista multidimensionale un'organizzazione, è
utilizzare uno schema-guida. Noi sappiamo anche che un singolo problema in una dimensione può essere poi
collegato a più fattori o un problema in una parte del sistema può avere delle ripercussioni anche su un'altra
dimensione, quindi è difficile districarsi all'interno di questo fenomeno complesso, per questo è necessario avere
uno schema-guida. Avere uno schema-guida di questo tipo, e quindi multidimensionale, ha dei vantaggi su molti
livelli:

• Permette al consulente, all'operatore che porta un progetto di analisi organizzativa, di avere una visione
d'insieme del funzionamento dell’organizzazione stessa (ottica della complessità). Per valutare
un'organizzazione sarebbe necessaria un’equipe multidisciplinare, interdisciplinare, quindi un
sociologo, uno psicologo, ma anche un consulente legale e un esperto di economia. Quando quest'equipe
non è possibile, utilizzare appunto una metodologia multidimensionale permette una lettura da questi
diversi punti di vista;
• Permette anche di accrescere la capacità di analisi di chi dirige e di chi lavora nella stessa
organizzazione, e di avere anche una visione d'insieme da parte delle persone che vivono
l'organizzazione stessa, non solo le persone che, diciamo i dipendenti, per esempio, di
un'organizzazione, ma anche ad un livello dirigenziale: permette, per esempio, ai dirigenti di
un’organizzazione di conoscere quelli che sono gli stati d'animo, i vissuti, il modo di vivere
dell'organizzazione, da parte dei propri dipendenti, e questo significa anche agire per evitare o ridurre,
per esempio, sentimenti di alienazione, aumentare l'appartenenza al gruppo, e quindi di conseguenza
migliorare anche la qualità del servizio prodotto, quindi ha delle ripercussioni poi su più livelli.
• L'AOM permette anche di esaminare il grado di accordo psicosociale esistente nell’organizzazione.
L’accordo psicosociale è il grado di congruità tra quelle che sono le istanze, i bisogni e le
aspettative dell'organizzazione e quelle che sono le istanze e le aspettative e i bisogni del
dipendente. In qualche modo se l'accordo psicosociale è basso, naturalmente sarà basso anche il benessere e
la qualità di vita presente all'interno dell'organizzazione.

• L'AOM permette infine anche di valutare l'impatto psicologico rispetto alle variabili organizzative che
invece non sono di natura psicologica, sarà diverso, per esempio, lavorare all’interno di una cooperativa
sociale o di una onlus, che lavorare invece all'interno di una grande organizzazione o in una banca, dal
punto di vista proprio di un vissuto personale;
• Permette anche di esaminare quelli che sono sia gli aspetti soggettivi che oggettivi dell’organizzazione;
• Serve per individuare i fattori connessi al problema e i livelli su cui agire per effettuare un cambiamento
efficace, e quindi utilizzare l’AOM significa, non soltanto conoscere le varie dimensioni

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dell'organizzazione, ma andare anche ad agire, o comunque a conoscere, i livelli su cui poi agire, e quindi
possibilmente attuare dei cambiamenti per rendere l'organizzazione ancora più efficace.
L’Analisi Organizzativa Multidimensionale è un metodo che è stato elaborato dalla Francescato nel 1988 e
che viene utilizzato sia come uno strumento diagnostico, che come una tecnica di formazione, che
aumenta quindi la comprensione dei partecipanti sulla complessità della loro organizzazione, e quindi dei
fenomeni che avvengono all'interno dell'organizzazione. Si tratta di una modalità di un check-up
organizzativo che di solito viene richiesto soltanto quando l’organizzazione sta attraversando una fase di crisi
o quando la direzione vuole attuare dei programmi di cambiamento, quindi quando noi sappiamo essere già
presente una problematicità all'interno dell'organizzazione stessa. Difficilmente ancora oggi vengono richieste
delle analisi organizzative multidimensionali invece in termini preventivi, proprio per evitare l'emersione di
problematichesuccessive o semplicemente per aumentare i livelli di benessere all'interno dell'organizzazione
stessa.
Un ruolo fondamentale all'interno di questo processo conoscitivo è quello del consulente. Il consulente può
essere interno o esterno all'organizzazione e in entrambi i casi abbiamo dei vantaggi e degli svantaggi:
• Se è interno conoscerà la storia di quel gruppo, e quindi avrà più strumenti in suo possesso, ma sarà
allo stesso tempo più difficile trovare una giusta distanza rispetto al processo di conoscenza;
• Se è esterno invece sarà più “super partes”, in qualche modo, più obiettivo nella valutazione, ma
mancherà di tutta una serie di dati e di informazione sul contesto e sulla storia dell'organizzazione
stessa.
Il consulente svolge un ruolo di facilitatore e conoscitore di un modello di diagnosi e di intervento.
Inoltre noi lo possiamo definire come un esperto in generale delle organizzazioni ma come un esperto di un
modello di lettura che dell'organizzazione possiamo fare. Nel momento in cui entrerà in contatto con
quell'organizzazione, sarà premura del consulente andare ad esplicitare il tipo di approccio che intende
utilizzare, e quindi richiedere anche il consenso e la collaborazione. È importante in psicologia per qualsiasi
intervento di tipo clinico e anche un’analisi organizzativa multidimensionale trovare l'alleanza da parte del
nostro utente, anche un'organizzazione, quindi richiedere un'accettazione, un'autorizzazione da parte dei
membri, e quindi esplicitando quelli che saranno poi i principi e le tecniche che verranno utilizzati. Il fine
naturalmente è quello di aumentare il benessere dell'organizzazione stessa.
Quindi possiamo definire l’AOM proprio come una consulenza organizzativa, che parte dal confronto tra i
vari saperi, conoscenze, competenze e soggettività da tutte le componenti dell’organizzazione stessa, e quindi
dei vari punti di vista delle dimensioni all'interno dell'organizzazione, e che si attiva attraverso la partecipazione
attiva di tutti i membri presenti durante tutte le fasi dell'organizzazione.
Quello che viene studiato all'interno dell'analisi organizzativa multidimensionale sono quattro dimensioni
fondamentali:
• Un'analisi preliminare, come avviene per il metodo degli Otto Profili;
• Un'analisi delle quattro dimensioni, per cui i punti di forza e di debolezza vengono valutati
all’interno dei focus group, dell'analisi preliminare stessa tra gli esperti e i membri della comunità, di
solito è un gruppo che non supera le 30 persone;
• I risultati dell'analisi preliminare verranno poi comparati con l'analisi delle quattro dimensioni;
• Vi è il confronto dei dati rilevati: che permette di avere una visione complessiva dell’organizzazione
e di verificare la presenza di interconnessioni tra i punti di forza e i puntidi debolezza individuati, e
quindi dal confronto dei dati emersi emergerà una diagnosi dell'organizzazione che prenderà in
considerazione sia i punti di forza che punti didebolezza;
• Si farà una diagnosi globale;
• Gli interventi mirati, quindi sulle quali si penserà ad un intervento da attuare;
• Un processo di follow-up, e quindi sul quale poi successivamente verrà anche attuato un processo
di follow-up, proprio per vedere se l'intervento è attuato e soddisfacente rispetto alle premesse iniziali,
e quindi agli obiettivi che i ricercatori, in questo senso collettivo dell'analisi, si prefiggono.

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Se andiamo ad analizzare le quattro dimensioni partiamo dalla dimensione strategico-strutturale, cioè
quelli che sono gli aspetti giuridici, economici, politici e architettonici dell'organizzazione. Andremo nello
specifico a valutare quella che è:
• L'origine, la prima mission, i primi servizi offerti dall’organizzazione, i valori e le norme che sono rimasti
costanti nel tempo;
• Gli eventi significativi e i maggiori cambiamenti che sono avvenuti con successi e fallimenti;
• Gli scopi e le ideologie rimasti invariati nel tempo;
• Ma anche il territorio e il contesto all'interno del quale l'organizzazione sorge, e quindi le sue risorse e i
suoi vincoli;
• La distribuzione del potere e della ricchezza all’interno dell’organizzazione, e quindi la distribuzione
invece interna dei processi decisionali del potere e delle risorse.
Le fonti da cui attingiamo i dati sono delle fonti più di tipo:
• Legislative: e cioè le leggi nazionali e regionali, le normative locali, gli atti notarili e associativi, come
lo statuto e le modifiche ad esso apportato nel corso del tempo, e quindi le norme nazionali, regionali,
ma anche gli atti notarili, lo statuto, l'atto costitutivo dell’organizzazione, ecc.;
• Da un punto di vista economico, statistico e sociale: vi è il conto del profitto e delle perdite, il
bilancio e il rapporto con il mercato, e quindi abbiamo il conto del profitto dei bilanci;
• Da un punto di vista della politica sociale: andremo ad analizzare i rapporti con la politica, e quindi,
con gli enti, gli amministratori e i politici e la presenza dei finanziamenti;
• Dal punto di vista architettonico: andremo ad analizzare proprio l'adeguatezza beni mobili o
immobili, gli impianti, gli strumenti tecnologici utilizzati, e quindi la congruenza degli strumenti
utilizzati proprio per raggiungere gli scopi all'interno dell'organizzazione stessa.
Abbiamo poi la dimensione funzionale, che invece include tutte quelle operazioni e attività che vengono
svolte per raggiungere gli obiettivi, i propri obiettivi, da parte dell'organizzazione. All'interno della dimensione
funzionale ogni organizzazione è vista come un organismo inserito nell’ambiente, ed è costituito da tre sistemi
fondamentali, che interagiscono tra loro e con l’ambiente.

Il sistema di controllo di gestione


Il sistema di controllo di gestione include tre azioni fondamentali:

• La pianificazione: comprende le attività di analisi ambientale, la progettazione degli scopi e delle


strategie aziendali e la definizione dei programmi. Quindi rispetto alla pianificazione intendiamo tutte
le attività relative alla progettazione degli scopi e delle strategie utilizzate.
• L’organizzazione: invece comprende la definizione dell’assetto strutturale dell’organizzazione.
Quindi rispetto all'organizzazione andremo a definire l'aspetto strutturale dell'organizzazione stessa.
• Il controllo: comprende le attività di verifica dell’efficienza del sistema operativo, valutando i
risultati delle attività. Quindi il controllo comprende proprio le attività di verifica dell'efficienza del
sistema.

Il sistema operativo
Il sistema operativo comprende le funzioni collegate al processo di produzione ed erogazione dei servizi.
Tancredi distingue questo sistema in altri tre sottosistemi:

• L’acquisizione delle risorse, quindi soprattutto delle materie prime ecc. la trasformazione delle
risorse;
• La collocazione delle risorse, e queste ultime due riguardano, per esempio, i processi di marketing.

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Il sistema informativo gestionale
Abbiamo infine il sistema informativo, che racchiude tutte quelle funzioni di raggruppamento delle
informazioni, e comprende alcune fasi, tra cui:

• La raccolta dei dati;


• La trasmissione dei dati;
• L’archiviazione;
• L'elaborazione dei dati stessi.
In questo modo si ha una valutazione proprio dell'andamento produttivodell'organizzazione.
Analizzarle così nello specifico porta anche il ricercatore ad avere una visione d’insieme maggiore, e quindi a
capire, per esempio, in quali dei sistemi si verifica un problema, e quindi agire direttamente. Quindi i dati sono
relativi ai risultati ottenuti e forniscono un quadro sull’andamento produttivo dell’organizzazione.
Una dimensione che è molto cara agli psicologi è proprio la dimensione psicodinamica, che considera come
l'organizzazione viene vissuta dal singolo individuo in modo inconscio e razionale. Ogni
organizzazione è vissuta in modo ambivalente da parte del membro, del lavoratore, del dipendente ecc., cioè, da
una parte, è buona e dall'altra è cattiva: è buona perché permette la realizzazione personale, il soddisfacimento
dei propri bisogni attraverso il recupero dello stipendio, ecc., ma è anche cattiva perché non sempre risponde
effettivamente ai propri bisogni o si è considerati all'interno dell'organizzazione soltanto in relazione al ruolo
che si svolge, e non rispetto alle altre caratteristiche di personalità. Quindi quello che avviene, per esempio,
secondo Muti (1986), è che tra l'uomo e l’organizzazione vi è un rapporto ambivalente, che richiama
un po' il rapporto con il materno. Infatti egli sostiene che:
“il rapporto che lega l’uomo all’organizzazione è di tipo contraddittorio, e nella sua profonda ambivalenza
esso richiama alla mente la relazione originaria dell’uomo con un unico oggetto, la madre”.
In questo senso quello che accade, soprattutto se andiamo ad analizzare il rapporto tra capo e dipendente, è che
nel momento in cui a un individuo viene assegnato un ruolo, il soggetto, da una parte, ha il desiderio di assumersi
tutte le responsabilità ad esso collegato, e quindi che quel ruolo comporta, ma dall'altra anche la volontà di
rinuncia, e quindi tende a respingere questa responsabilità. Anche in questo c'è un'ambivalenza cheporta
ad un conflitto intrapsichico e che di solito poi produce la messa in atto di meccanismi difensivi
di tipo primitivo, come possono essere la scissione e la proiezione. Quindi spesso vediamo dei
meccanismi di proiezione, di parte del sé, del capo sui dipendenti e viceversa. A un livello dirigenziale, nel
capo possiamo trovare tre conflitti intrapsichici fondamentali:

• Il conflitto tra fantasie di onnipotenza e impotenza


• Il conflitto tra la volontà di dominio e il senso di colpa ad esso associato;
• Il conflitto tra il desiderio di comando e la sensazione di dipendenza dai propri collaboratori, e quindi
che poi questo suscita nei propri dipendenti.
Le strategie difensive più utilizzate rispetto a questi tre conflitti possono essere:

• La rinuncia della propria posizione di potere;


• La delega sui collaboratori;
• Lo svolgimento di compiti che non necessitano l’esercizio di autorità, e quindi svolgere delle azioni
che non hanno una mansione autoritaria, e che non ammettono l’esercizio di autorità;
• Invece, al contrario, mettere in atto dei comportamenti di estrema autorità assolutamente in modo
estremo, autoritari.
Invece per quanto riguarda i conflitti intrapsichici nei dipendenti, di solito i conflitti che più sono
vissuti e che normalmente si riscontrano sono:

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• Delle coalizioni tra colleghi contro il capo, vissuto come negativamente, e quindi delle coalizioni e delle
alleanze tra pari contro il capo, che è visto come minaccioso, come fonte di pericolo;
• Delle lotte e la competizione tra colleghi, mentre il capo è vissuto come caregiver, quindi, al contrario,
delle invidie e gelosie tra i pari che cercano invece di accaparrarsi la benevolenza di un capo o di un
dirigente, che è visto invece come caregiver, e quindi come fonte di accudimento o emanatore di cure;
• Ancora c'è il desiderio di ricevere semplicemente protezione e cure da parte del capostesso.
Questa dimensione psicodinamica può essere poi analizzata essendo riferita a dinamiche spesso latenti e
inconsce dell'individuo, vengono utilizzate delle tecniche di tipo proiettivo o soggettivo, quelle più utilizzate
sono:

• La tecnica del disegno e delle libere associazioni individuali e di gruppo: nella tecnica del disegno
viene richiesto ai vari membri, che partecipano all'analisi organizzativa multidimensionale, di
produrre proprio dei disegni che possano rappresentare l'organizzazione di cui fanno parte, quindi c'è
una valutazione in gruppo dei disegni di tutti, equindi l'attivazione di un pensiero critico su questo;
• La tecnica dello “sceneggiato”: allo stesso modo nella tecnica dello sceneggiato si chiede proprio di
realizzare uno “sceneggiato”, quindi con trama, personaggi, titolo e di rappresentarlo;
• La tecnica del romanzo lavorativo: invece nel romanzo lavorativo viene scritta la storia
dell'organizzazione, partendo dalla macro-storia con gli eventi significativi, finendo poi al racconto
della storia individuale, pervedere anche il tipo di appartenenza rispetto alla storia collettiva.
L'ultima dimensione che l'AOM va ad analizzare è invece la dimensione psicosociale o psico-ambientale.
Rispetto a questa ci riferiamo all'insieme di relazioni, di fenomeni osservabili, realmente osservabili
e visibili all'interno dell'organizzazione tra le persone che la compongono. Le variabili studiate nella
dimensione psicosociale sono:
• I fenomeni di gruppo, e quindi intendendo per gruppo un sistema composto da parti, da individui, che
sono interdipendenti tra di loro e reciprocamente influenzabili.
• Gli stili della leadership, per individuare il comportamento più adatto di chi occupa mansioni di
dirigenza, e quindi da parte di chi si occupa dell'ambito dirigenziale
• La comunicazione, quindi la struttura degli scambi comunicativi, i ruoli e gli atteggiamenti nella
comunicazione, che al suo interno vengono messi in atto
• I bisogni, le motivazioni e gli atteggiamenti;
• Il grado di accordo psicosociale, che sappiamo essere la congruenza tra quelle che sono le risorse e le
aspettative dell'ambiente con invece le aspettative individuali.
Gli strumenti che sono utilizzati per indagare la dimensione psicosociale sono:
• I test o le scale di diverso tipo per lo studio dei ruoli e la distribuzione di potere, come la scala di Likert
o il Test sull’Auto-motivazione, e quindi che vanno soprattutto a studiare la distribuzione di potere;
• Il Questionario di Check-up Organizzativo di Spaltro per lo studio del clima organizzativo;
• Interviste individuali e discussioni di gruppo.
La scala Likert è un questionario che va a valutare proprio quattro tipi di modalità di direzione:

• Autoritaria, in cui il potere è distribuito a seconda della posizione gerarchia occupata, e quindi che il
membro dell'organizzazione occupa;
• Partecipativa, invece in cui il potere è distribuito in base alle mansioni che vengono effettuate e ai
risultati ottenuti;
• Paternalistica, invece in cui il potere purtroppo è distribuito a seconda delle alleanze e dei rapporti
personali che tra i membri intercorrono;
• Democratica, in cui il potere è distribuito ma senza controllo, quindi non c'è un effettivo controllo.
Invece il Check-up Organizzativo di Spaltro è composto da otto scale che vanno poi a valutare tutti i diversi
aspetti dell'organizzazione:

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• La scala di speranza di soluzione dei problemi;
• La scala degli stili di comando;
• La scala di credibilità dei protagonisti;
• La scala del sentimento di potere;
• La scala di stress organizzativo;
• La scala di motivazione verso l’organizzazione;
• La scala di concretezza.
Invece il Test di Auto-motivazione sono 28 domande che valutano proprio il livello di predisposizione che
la persona ha verso il compito o le relazioni, all'interno dell’organizzazione stessa.
L'analisi di queste quattro dimensioni è fondamentale anche perché soltanto dall'analisi di queste si possono
effettivamente mettere in campo degli interventi mirati. Per esempio, si possono pensare ad interventi che per
risolvere un problema in una dimensione utilizzano i punti di forza emersi in un'altra dimensione quindi,
dall'intreccio proprio e dallo studio di queste quattro dimensioni che l'operatore può raggiungere effettivamente
una diagnosi globale, l'abbiamo chiamata multipla proprio perché è multi-determinata, dell'organizzazione
stessa, e quindi permette di identificare quelle che sono:
• Le aree di miglioramento dell'organizzazione, partendo proprio da quelle su cui è necessario intervenire
in maniera prioritaria;
• Le priorità di cambiamento;
• Le azioni necessarie per raggiungere questi obiettivi.
In seguito agli interventi viene poi naturalmente prevista anche una fase di verifica o di follow-up che, attraverso
l’uso di indicatori specifici, dà la misura dell’obiettivo prefissato, e quindi per verificare l'efficienza e l’efficacia
dell'intervento attuato.
L’AOM è stato uno strumento ed è uno strumento molto utilizzato in diversi contesti, infatti è stato sperimentato:

• Sia nel sistema socio-sanitario;


• Che all'interno di cooperative sociali e associazioni o onlus (attività di volontariato) che erogano diversi
servizi per la comunità, e che quindi offrono servizi sociali e socio-sanitari, quali centri residenziali per
persone diversamente abili, anziani, pazienti psichiatrici, centri diurni per immigrati e senza fissa
dimora, ecc.;
• All'interno delle organizzazioni scolastiche, e quindi delle scuole;
• Ma anche all'interno di diverse imprese, a livello generale o in singole divisioni o reparti operanti in
settori diversi;
• In alcuni sindacati.
Sicuramente è una modalità che essendo partecipata e focalizzata sulla collaborazione e sul
confronto fra le parti, trova una rispondenza maggiore all'interno di strutture, come le cooperative e il terzo
settore in generale, in cui c'è una dimensione meno verticistica, più orizzontale e più democratica nella
distribuzione del potere, piuttosto che grandi aziende, in cui invece c'è una gerarchizzazione maggiore.
Fondamentalmente l'AOM può essere utilizzata in diversi momenti e per diversi scopi. Viene utilizzata nella
formazione-intervento: e quindi nell’ambiti di corsi di formazione e di aggiornamento sugli aspetti
organizzativi. Infatti partecipare a questi incontri permette un cambiamento nelle rappresentazioni mentali che
si hanno sull’organizzazione stessa, e quindi indirettamente un cambiamento nei comportamenti organizzativi.
Sicuramente l’AOM è utilizzata nell'ambito dei corsi di formazione e di aggiornamento, in cui quello che viene
fuori è anche una rappresentazione mentale diversa dell'organizzazione e quindi anche che poi si riflette su un
modo diverso di parteciparvi. Abbiamo anche una consulenza organizzativa con l’obiettivo non solo di
realizzare un check-up organizzativo, ma anche per aiutare a gestire i momenti di criticità. L'obiettivo principale
è quello della consulenza organizzativa, e quindi di un check-up organizzativo che abbia però lo scopo anche di
attuare degli interventi per migliorare il clima aziendale organizzativo. Infine vi è un’autodiagnosi organizzativa
in cui chi propone il metodo è un membro interno dell’organizzazione che ha conosciuto e imparato a gestire
l’AOM durante corsi di formazione specifici. Quindi viene anche utilizzata come autodiagnosi organizzativa

60
portata avanti, per esempio, da persone o gruppi di persone precedentemente formati, e quindi interni
all'organizzazione stessa e precedentemente formati sul tema.

Lezione 10
Lavorare per la comunità: i livelli di azione dello psicologo di
comunità
Molto spesso pensiamo, quando parliamo di psicologia di comunità, che questa sia in qualche modo una
disciplina teorica e pratica allo stesso tempo, che si interessa soltanto delle organizzazioni o dei contesti più
allargati, e crediamo invece che ad intervenire sull'individuo ci sia soltanto la psicologia clinica. Questo è in
parte sbagliato, le due discipline non sono antitetiche o antagoniste, ma sono complementari in qualche modo.
È vero che l'oggetto non è il medesimo, nel senso che la psicologia di comunità si interessa all'individuo, ma
all'interno del suo contesto, e quindi la relazione che ne scaturisce. È vero che cambia l'ottica, non è soltanto
un'ottica di cura, ma è soprattutto, all'interno della psicologia di comunità, un'ottica di prevenzione e di
prevenzione proattiva, cioè l'intento dello psicologo di comunità, differentemente da quello dello psicologo
clinico, è di intervenire ancora prima che il disagio si formi o che possa portare a conseguenze più negative. Però
un intervento sull'individuo esiste e fondamentalmente è un intervento che è volto in qualche modo a potenziare
i comportamenti e gli aspetti individuali che aumentano il livello di benessere dell'individuo stesso e a rafforzare
quelli che sono i legami che l'individuo stesso forma con gli altri, con la comunità e con i propri contesti di vita.
Rispetto agli interventi tratteremo di due in particolare:
• Del training;
• Del mentoring.
Il training è il pensiero che quotidianamente noi apprendiamo delle abilità e delle conoscenze
entrando in relazione con l'altro. L'apprendimento non è altro che una modifica del nostro pattern
comportamentale, rispetto agli stimoli che dall'esterno riceviamo e in relazione ad essi. Se apprendiamo
quotidianamente siamo all'interno di un processo di crescita continuo, è vero quindiche è possibile creare
dei percorsi strutturati che facilitano l'apprendimento di specifiche abilità e competenze.
Rispetto ai percorsi di training quelli che noi conosciamo modificano soprattutto i seguenti aspetti:
• Innanzitutto le conoscenze: cioè le nozioni che l’individuo ha su un certo tema. Quindi significa che
spesso l'individuo ha delle conoscenze errate su un determinato fenomeno che di conseguenza in
qualche modo influenza il proprio comportamento. I training vanno a modificare queste conoscenze
inadeguate o incongrue o semplicemente non reali, come per esempio all'interno di un gruppo di
adolescenti il pensare o il sovrastimare l'utilizzo delle sostanze, da parte dei pari, porta a rendere quel
comportamento diciamo più accattivante, in qualche modo. Quindi in questo senso i training devono
andare a modificare queste conoscenze di base, e quindi modificare in ultima analisi il comportamento
stesso dell'individuo. È vero anche però che quando parliamo delle conoscenze è possibile che il
trasmettere delle informazioni, rispetto ad uno specifico evento, possa in qualche modo agevolarlo: dare
delle informazioni sul bullismo, per esempio, a un ragazzo che è già predisposto a comportamenti
aggressivi, può facilitarne la messa in atto. Quindi è importante, rispetto alle conoscenze, capire come,
in quale modo, con quali obiettivi e con quale strategia appunto metterle in pratica e portare l'individuo
ad apprendere queste nuove conoscenze.
• Rispetto alle abilità quello che avviene, attraverso i training, è che si apprendono nuove modalità di
azione e in qualche modo anche nuove competenze, come per esempio la capacità di problem solving o
semplicemente la capacità di comunicare con l'altro in maniera efficace, in modo tale che il proprio
messaggio arrivi effettivamente al destinatario. Ma soprattutto quelle su cui intervengono i training
sono le abilità sociali, quindi c'è la capacità di mettersi in relazione con l'altro in maniera efficace, in
maniera positiva. Un tipo di training che viene utilizzato in questo senso sono proprio i "life skills
training", un percorso diciamo strutturato per minori adolescenti delle scuole primarie e secondarie

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per la prevenzione all'uso delle sostanze, in cui appunto oltre a dare informazioni sulle sostanze stesse
e sugli effetti negativi, relativi al loro uso, vengono stimolati i ragazzi, il gruppo target, a utilizzare
alternative comportamentali a quelle alternative al comportamento di uso o al comportamento
problematico. Come si fa questo? Attraverso soprattutto degli interventi di tipo esperienziale, che
portanol'individuo, il ragazzo, ad avere sicuramente una maggiore fiducia in sé stesso, una maggiore
autostima, autoefficacia, e quindi i processi che portano all'empowerment, ma anche offrendo delle
possibilità alternative, rispetto alla possibilità proprio di resistere alle pressioni del gruppo che spinge
verso l'uso delle sostanze, o semplicemente modificando il significato che il ragazzo stesso dà a questi
tipi di comportamenti problematici. Le abilità sociali in qualche modo mettono insieme, o comunque i
“life skills training” mettono insieme sia abilità personali che abilità sociali, quindi si lavora sia su quelle
che sono le emozioni, i vissuti della persona, sia sulla propria possibilità di entrare in contatto con l'altro
in maniera più efficace, in maniera più positiva per uno sviluppo positivo del sé e della propria
personalità.
• Rispetto il terzo elemento poi che viene modificato all'interno dei training sono gli atteggiamenti: di
solito gli atteggiamenti sono profondamente legati e ancorati alla personalità dell'individuo, anche
perché in qualche modo sono connessi e collegati a quelle che sono le credenze soggettive o
semplicemente alla storia di vita e ai vissuti dell’individuo stesso. Per modificarli bisogna agire su
qualcosa che è anche inconscio, quindi è necessario in qualche modo attivare degli interventi a più livelli,
che siano soprattutto interventi di tipo esperenziale e pratico per la persona. Gli atteggiamenti sono di
solito collegati a specifiche popolazioni, per esempio gli immigrati, specifici contesti, per esempio il
proprio quartiere divita, o specifici comportamenti, per esempio l'uso delle sostanze, e se troppo radicati
all'interno dell'individuo, gli atteggiamenti possono dar vita a movimenti pregiudizievoli verso quel
determinato comportamento o quella determinata popolazione. Quindi è assolutamente un campo in
cui bisogna lavorare attraverso delle strategie integrate che si muovano su più livelli, come appunto i
training stessi.
l target su cui possiamo agire sono diversi:
• Direttamente con il target interessato;
• In modo indiretto con persone, con non-professionisti di solito come gli insegnanti, che metteranno
poi in atto dei comportamenti e delle azioni per modificare il comportamento degli altri, e quindi
appunto del gruppo target, e quindi dei ragazzi;
• Con professionisti che gestiranno direttamente gli interventi nel sociale, appunto i “training for
trainers”. In questo caso è importante appunto che ci sia un consolidamento in questo caso, ma sempre
in realtà, dell'apprendimento, per cui il training deve poi trovare un contesto che faciliti proprio il
consolidamento di questo apprendimento.
I limiti rispetto ai training hanno a che fare in realtà più con:
• L'incompetenza dello psicologo;
• Con una valutazione sbagliata rispetto a quelli che sono i bisogni del gruppo target;
• Un’incapacità di stipulare un adeguato contratto formativo, una difficoltà nella stipula del contratto
iniziale.
Un'altra cosa da dire rispetto ai training è che il setting preferenziale, rispetto a questa metodologia, è un
setting gruppale in cui è più facile, essendo le esperienze più reali, generalizzare gli apprendimenti ricevuti,
in cui è più facile apprendere perché c'è un'assunzione di diversi punti di vista, in maniera più facilitata
naturalmente, e l’apprendimento stesso viene facilitato grazie ai feedback e ai rinforzi che continuamente dal
gruppo arrivano.
Un altro intervento su cui dobbiamo soffermarci è il mentoring. Il mentoring sono quelle attività che
coinvolgono dei minori che vengono affiancati nello sviluppo all’interno di una relazione uno a
uno da persone più mature in un arco di tempo definito, e quindi da un adulto che non è un
professionista, ma è un adulto esperto, normalmente si tratta di ragazzi adolescenti, o ancora
più preadolescenti, che vivono una situazione di disagio. L'intento è quello di favorire lo sviluppo

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positivo all’interno di una relazione di supporto e d’aiuto non professionale, quindi è una crescita positiva della
persona.
Il concetto rivoluzionario di questa tipologia di interventi è che non è il professionista che si occupadel ragazzo
problematico, prende in carico la situazione o la sua famiglia, a seconda delle storie di vita e dei vissuti delle
persone interessate, ma è una persona della comunità che si rende disponibile ad affiancare per un
periodo di tempo relativo, di solito un anno, un'altra persona che vive nella sua stessa comunità.
In questo senso la comunità assicura da sola, cioè si sfruttano delle risorse che sono all'interno della comunità
stessa e che in qualche modo non riguardano necessariamente una categoria professionale. Abbiamo detto che
la base per favorire una relazione di mentoring è il fatto che ci sia una relazione positiva tra i due individui. Lo
sviluppo di questa relazione promuove anche dei cambiamenti in tre aree importanti dell'individuo:

• Sicuramente c'è uno sviluppo sociale ed emotivo: la relazione con il mentore diventa una “relazione
correttiva” rispetto ad esperienze di relazioni deficitarie avute nella propria vita, con altri adulti di
riferimento. In questo caso il tutto avviene in un clima assolutamente spontaneo, senza l'utilizzo di
particolari tecniche psicologiche. Il mentore diventa un modellopositivo e quindi, all'interno di questa
relazione, si favorisce una comunicazione positiva, che poi di solito viene riportata anche all'esterno
della relazione stessa, perché l'apprendimento di questa comunicazione positiva, di conseguenza anche
del sé, viene naturalmente generalizzato, come sempre accade anche all'interno delle altre relazioni,
tanto che di solito il ragazzo parla proprio di un miglioramento della qualità delle proprie relazioni
anche all'esterno della relazione di mentoring. Il mentore aiuta il mentore a conoscere, gestire e regolare
meglio le proprie emozioni.
• C’è anche uno sviluppo cognitivo: e quindi vi è un impatto positivo anche sulle capacità cognitive;
aumentano le capacità di problem solving e le nuove forme di ragionamento. Questo avviene per più
motivi: sicuramente c'è un miglioramento dei voti scolastici, sia perché c'è una nuova capacità di
ragionare e un apprendimento, rispetto a nuove forme di ragionamento o semplicemente di problem
solving, con modalità di coping più efficaci, ma anche perché, c'è anche un miglioramento della
relazione con l'insegnante stesso, e questoinfluisce sul proprio andamento scolastico, o semplicemente
rispetto al fatto che alcune delle attività che possono essere svolte con il mentore riguardano
prettamente delle attività scolastiche.
• Infine un altro cambiamento fondamentale è relativo allo sviluppo dell'identità: il mentore infatti
sostiene la costruzione di un'immagine positiva di sé e valorizza anche quelle che sono le risorse presenti
all'interno dell'individuo e quelle che può apprendere, e quindi anche le abilità apprese. Nella relazione
col mentore spesso anche si fa riferimento a quelle che sono le aspirazioni sul futuro, e in qualche modo
si prefigurano quelle che sono le possibili scelte da fare rispetto alla propria carriera lavorativa o scelte
di vita in generale, e il prefigurare questo, immaginare quello che potrà essere, e quindi le scelte che io
ho a disposizione nella mia vita aumenta, anche in questo caso, la mia sensazione di potere e di poter
gestire le cose che mi accadano, e quindi di conseguenza la mia capacità di empowerment.
Il mentoring ha bisogno di alcune fasi:
1. Abbiamo una fase preliminare: in cui si individuano quelli che sono gli obiettivi, le pratiche e le
attività che verranno utilizzate. Si va a valutare quelli che sono i bisogni di un determinato contesto, per
esempio una scuola se è un'attività che avviene all'interno della scuola, quindi si prende contatto con
l'istituzione stessa e i bisogni presenti all'interno dell’istituzione stessa e si cercano anche i
finanziamenti per attivare tutto il processo.
2. Poi abbiamo una seconda fase che è quella della selezione e dello screening dei mentori e degli
alunni: si vanno ad identificare quei candidati che volontariamente scelgono di riservare parte del loro
tempo per una relazione di mentoring. Si valuta l'affidabilità, la credibilità e la responsabilità del
mentore, e questo viene fatto attraverso un'informazione suquelli che sono gli obiettivi e le pratiche che
poi verranno adottate. La stessa informazione viene data naturalmente anche ai ragazzi che poi
parteciperanno alle attività, è necessario valutare anche quelli che sono i bisogni specifici del gruppo
target, che verranno inclusi nel progetto, ma anche capire quelle che sono le motivazioni al progetto
stesso, è inutile attivare una relazione con il mentore se la persona interessata non lo è realmente o
comunque non ci sono delle alte motivazioni.

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3. Poi abbiamo un periodo di formazione dei mentori: sia per dare ai mentori tutte le informazioni
necessarie sul programma e su come gestire la relazione con l’alunno, e quindi su quelli che sono gli
scopi, gli obiettivi, le attività che si andranno a praticare, sia in realtà anche per capire il ruolo che
andranno a svolgere nello specifico, quindi renderli ancora più consapevoli del loro ruolo, di quello che
andranno a fare. Spesso è una formazione che avviene non soltanto attraverso delle lezioni teoriche o di
informazione, ma anche attraverso delle vere e proprie attività esperienziali, in cui il mentore può
sperimentareproprio quelli che sono i propri vissuti, aspirazioni o aspettative, rispetto a questo ruolo, e
quindi di conseguenza elaborarle e renderle più consapevoli a se stesso.
4. Subito dopo abbiamo un'attività di formazione delle coppie mentore-alunno: quello che è
necessario fare in questa fase è permettere, favorire e facilitare l'incontro dell’alunno con il mentore più
adeguato, e quindi l'instaurarsi di una relazione positiva Per fare questo è necessario, per esempio,
valutare quelle che sono le similitudini in qualche modo, gli elementi di uguaglianza tra il mentore e
l’alunno.
5. Gli incontri mentore-alunno e lo sviluppo della relazione: infatti le attività e la durata degli incontri
variano a seconda del programma attuato, come ad esempio le attività prettamente scolastiche, di tipo
sociale, di tipo ricreativo oppure volte alla conoscenza del proprio territorio. Gli incontri che permettono
uno sviluppo della relazione si svolgono all'interno di attività che possono essere diverse: da attività
prettamente scolastiche, quindi lo svolgimento dei compiti, ad attività di tipo sociale, fare un picnic con
altri amici, o di tipo ricreativo, come per esempio uno sport, oppure di tipo più culturale, come andare
a vedere una mostra, un film o altro. Subito naturalmente all'interno del processo deve essere attivato
anche un monitoraggio e una valutazione continua.
6. Il monitoraggio del programma: durante il programma si prevedono incontri di supervisione e di
monitoraggio per i mentori. Quindi il monitoraggio soprattutto prevede degli incontri di supervisione
per il mentore, quindi capire se gli incontri hanno una durata stabile e se sono appunto continuativi nel
tempo o se emergono delle difficoltà di gestione da parte del mentore stesso.
7. La valutazione del programma: dovrebbe in qualche modo riguardare tutte le fasi del programma
e coinvolgere tutte le persone coinvolte adottando differenti metodologie, ma la valutazione finale
rispetto al progetto è sia per capire se gli obiettivi sono stati naturalmente raggiunti, sia per avere dei
feedback per implementare poi successive attivitàdi mentoring in maniera più adeguata e più congrua.
Fondamentalmente gli ambiti di efficacia riguardano:
• Una sfera più motivazionale, quindi nella persona aumenta la capacità di empowerment, aumenta
anche la motivazione e il senso di efficacia personale;
• Rispetto a una sfera sociale più relazionale aumenta il sostegno sociale percepito e aumenta
effettivamente la qualità delle relazioni con l'altro;
• Rispetto a una sfera psicologica più emotiva c'è una maggiore regolazione delle emozioni e
soprattutto una maggiore consapevolezza insomma di quelli che sono i propri vissuti;
• Rispetto alla sfera scolastica vi è un miglioramento;
• Rispetto alla sfera comportamentale e fisica c'è un aumento di comportamenti positivi, e quindi
diminuisce il rischio dell'uso di comportamenti problematici, e si adottano appunto delle condotte
relative alla propria salute.
Quello che però diventa fondamentale ad un certo punto è proprio il momento in cui per entrambi, e quindi per
il mentore e per l’alunno, la relazione diventa fondamentale, perché diventano una risorsa stabile in una
relazione da cui naturalmente entrambi traggono benefici da queste relazioni.
Se allarghiamo il campo dell'intervento, vediamo il fatto che lo psicologo di comunità agisce su più livelli
all'interno di un'ottica della complessità sistemica ecologica, quindi arriviamo ad un micro-livello, cioè il
contesto intorno a lui. Sicuramente uno dei contesti fondamentali è quello del lavoro con la famiglia, poiche
uno dei sistemi fondamentali è quello familiare. Un intervento pratico e utile all'interno delle famiglie è quello
del parent training, che sono dei percorsi formativi, rivolti ai genitori che hanno l’obiettivo di modificare
sicuramente gli atteggiamenti, le conoscenze e i comportamenti dei genitori, e quindi che i genitori hanno,
modificando anche la gestione della relazione con i figli, e che quindi riguardano anche la gestione del figlio in

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qualche modo. Se torniamo alla griglia della prevenzione possiamo chiamarla come un'azione preventiva che
possiamo definirla:
• Universale, per tutti i genitori con l’obiettivo di rendere più positiva la relazione con il figlio;
• Indicata, ad esempio quando si rivolgono ad alcune specifiche categorie di genitori, come i genitori
che hanno un figlio portatore di handicap;
• Selettiva, per i genitori che stanno affrontando dei cambiamenti importanti, e quindi quando per
esempio i genitori attraversano una fase difficile, come un divorzio, un lutto ecc., e quindi diventa più
difficile la gestione del figlio stesso. Anche in questo caso parliamodi un intervento di community care
perché si utilizzano le risorse interne alla comunità per migliorare il benessere degli altri.
Un'esperienza di parent training significativa è quella del laboratorio link all'Università di Padova, che è
strutturata all'interno di 10 incontri: sono gruppi di 12 o 20 coppie di genitori di ragazzi adolescenti, della scuola
primaria e secondaria, e in questi 10 incontri, per esempio, c'è un incontro iniziale in cui si presenta il progetto
come un viaggio verso l'acquisizione di nuove competenze e capacità genitoriali, 7 incontri tematici su temi
prestabiliti, come l'adolescenza, la comunicazione efficace ecc., 1 incontro a tema libero scelto dai genitori stessi
e 1 incontro di chiusura. Sembra essere davvero molto utile soprattutto per i genitori.
Lavorare con le famiglie è molto difficile, lo vediamo nella clinica, ma anche all'interno dell'ambito della
psicologia di comunità, perché come dire significa entrare in relazione con il sistema. Il sistema genitoriale vede
l'operatore esterno come sì, da una parte, un operatore che può risolvere una situazione di difficoltà, ma
dall'altra parte c'è anche un atteggiamento di diffidenza e di quasi voler sottolineare di riconoscere solo ed
esclusivamente, nella figura del genitore, quello che è il bene per il proprio figlio. Per questo è necessario,
soprattutto nella fase iniziale, stipulare un contratto e favorire un'alleanza terapeutica, all'interno di qualsiasi
tipo di trattamento o di intervento che noi facciamo, e questo tipo di processo può partire soltanto, non in una
fase avanzata dell'intervento, ma dalle stesse premesse. È fondamentale, per esempio, informare subito i
genitori, rispetto alle attività che si andranno a svolgere, o permettere anche ai genitori di partecipare nella fase
di attivazione della progettazione dell'intervento stesso. Quello che è necessario, all'interno di questo tipo di
attività, è che il trainer non è un detentore di conoscenze assolute, è conoscitore degli aspetti teorici, ma non di
quelli pratici realmente vissuti dalla famiglia,ci dev'essere un clima di collaborazione e di confronto aperto.
Tutto avviene sempre all'interno di un setting gruppale.
Oltre che con la famiglia quello che lo psicologo di comunità può fare, è lavorare sul microsistema, come per
esempio quello del gruppo dei pari, che produce cambiamenti nei comportamenti e negli atteggiamenti. Come si
può fare? Attraverso due metodiche fondamentali:

• Una sono i gruppi di auto-aiuto;


• L'altra è la "Peer Education", che invece è una modalità che si svolge soprattutto tra i giovani e che
usa i pari come un modello positivo da seguire per la costruzione e il consolidamento di comportamenti
positivi, collegati alla salute e al benessere.
La Peer Education è una strategia educativa che attiva un processo spontaneo di educazione o un passaggio di
conoscenze, di condivisione di emozioni o esperienze da parte di membri di un gruppo ad altri membri di un
gruppo che hanno lo stesso status, appunto attraverso i pari. Oggi è molto utilizzata in Italia in ambito scolastico,
ma la Peer Education nasce soprattutto all'interno delle comunità gay americane e in seguito alla diffusione
delle malattie infettive e dell'AIDS. Quello che si capì all'epoca, ed è ancora veritiero oggi, è che bisognava fare
una critica a quelli che erano i modelli di prevenzione utilizzati e soprattutto a una critica al modello di
comunicazione verticale.
Infatti la prevenzione, che veniva attuata in quel momento storico e che ancora oggi spesso si attua, non
produceva i suoi frutti perché:

• Il target è considerato oggetto passivo di intervento, questo perché il gruppo target veniva
utilizzato soltanto come strumento passivo di conoscenze;
• L’accentuazione del termine “categoria a rischio” viene criticata, perché veniva utilizzato il termine
“categoria a rischio”, che invece di allertare gli individui che ne facevano parte, aumentavano un senso

65
di paura generalizzato, perché è da specificare che non è la categoria ad essere a rischio, ma il
comportamento è a rischio;
• Il linguaggio, le emozioni e le preoccupazioni del target di riferimento spesso non presi in
considerazione.
La Peer Education è la risposta rispetto al tema della prevenzione che parte “dal basso”, riconoscendo ai pari le
naturali competenze relazionali, interpretative e sociali. Quindi i pari, o comunque le persone che fan parte del
gruppo oggetto di studio o di interesse, è utilizzata comerisorsa e non soltanto come elemento passivo su cui
trasmettere delle informazioni.
Semplicemente quindi lo scambio di informazioni sul comportamento problematico, sull'uso delle
sostanze o semplicemente all'interno della comunità gay, rispetto al comportamento sessuale, non è di per sé
efficace per un'attività di prevenzione, ma è efficace invece ragionare insieme all'internodi un
gruppo di pari su quelli che sono i significati che i comportamenti problematici hanno, e quindi
di conseguenza sulla consapevolezza di questo significato e sulla possibilità di evitare un comportamento così
problematico e rischioso.
I tre livelli all'interno degli interventi dove la Peer Education si attua sono:
1. In prima analisi si può semplicemente informare, in merito ai rischi, ai rimedi e agli stili di vita corretti.
Quindi in questo senso i peers vengono utilizzati come fonti credibili, rispetto alle informazioni;
2. Si può aiutare le persone ad evitare le situazioni di rischio o pericolo: e quindi dare indicazioni e
riconoscere subito quelle situazioni che espongono al rischio stesso. Si può aiutare ad evitare quelli che
sono i comportamenti di rischio, quindi dare indicazioni per riconoscerli prima, che è l'atteggiamento
che più piace agli psicologi di comunità;
3. Oppure promuovere una partecipazione dell’individuo e dei gruppi e lo sviluppo del capitale sociale:
l’obiettivo è quello di lavorare sull’identità del gruppo, rafforzare le tutele collettive e favorire la
partecipazione di tutta la comunità ad una reale azione preventiva. Quindi quello di promuovere una
partecipazione attiva, da parte dell'individuo e dei gruppi, una partecipazione che è promotrice dello
sviluppo della sensazione di capitale sociale, all'interno del quale poi l'obiettivo è quello proprio di
lavorare sul gruppo e di rafforzare quelle che sono le tutele collettive per favorire la partecipazione di
tutti ad una reale azione preventiva.
Le fasi della Peer Education sono assolutamente:
1. Il reclutamento dei peers, in questo caso è anticipata da una fase di promozione del progetto, che è
facilitata nella misura in cui sono stati già attivi o attivati degli altri interventi di questo tipo, e quindi
sono già presenti dei peers sul territorio;
2. La formazione dei peers: attraverso simulazioni, riflessioni teoriche, conoscenze di varie tecniche e
modalità della gestione dei gruppi. Inoltre si affrontano anche i temi relativi all’immagine personale, ai
valori, alle credenze e alle preoccupazioni personali. Quindi attraverso sia una formazione di tipo
informativo, ma anche attraverso delle simulazioni,delle riflessioni e delle pratiche più esperienziali.
3. Le azioni dei peers: le azioni avvengono in setting diversi a seconda dell'obiettivo, del target e delle
varie fasi di evoluzione del progetto; possono avvenire sia all'interno di contesti spontanei, centri di
aggregazione ecc., ma anche all'interno di situazioni più istituzionali, come ad esempio la scuola;
4. Vi è il sostegno e il monitoraggio: infatti i peers esperti fanno un’opera di supervisione e di sostegno
tecnico e sociale, che si può estendere anche agli altri partecipanti del progetto. Inoltre sono
particolarmente importanti nelle fasi di avvio del progetto.
5. Infine vi è la valutazione, che può riguardare sia l’esito, e quindi l’efficacia sui ragazzi a cuil’intervento
era rivolto (per esempio, verificando il raggiungimento degli obiettivi in modo reale, cioè l’esistenza di
una riduzione dei comportamenti a rischio, ecc.), oppure può riguardare anche gli stessi peers.
Rispetto invece agli interventi di macro livello possiamo dire che sono interventi che prendono in considerazione
l'organizzazione intera o la comunità totale. Sono interventi che vanno a operare delle modifiche:
• Sia livello strutturale: c’è una modificazione degli spazi, c'è un miglioramento dei servizi offerti dal
territorio o semplicemente una differenziazione, quindi una modifica degli spazi urbani ecc.;

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• Relazionale, c'è un miglioramento dei rapporti e anche la valorizzazione degli individui, per esempio
all'interno delle situazioni gruppali;
• Legislativo: che può portare a nuove norme e leggi, e quindi un intervento e una modifica da un punto
di vista legislativo, quindi può portare alla formulazione di nuove leggi.
In realtà quello che sicuramente è un intervento di macro-livello è l'intervento di rete. Lavorare in rete infatti
significa permettere ad ogni istituzione di uscire da una situazione di isolamento e di autoreferenzialità dei
propri servizi offerti, e permette di lavorare in un'ottica di collaborazione e di interdipendenza in cui ogni
istituzione, organizzazione e servizio possa mettere il proprio contributo, le proprie risorse e competenze per
affrontare il problema della collettività, che viene prima della propria competenza, e quindi della valutazione
della propria soltanto competenza personale. Abbiamo diverse forme di collaborazione possibili:

• Uno scambio di informazioni utili al loro lavoro;


• La segnalazione di un problema per attivare subito la rete;
• La collaborazione su un caso: quindi coordinarsi per attivare iniziative per risolvere il problema
riscontrato;
• La collaborazione su un problema: e quindi coordinare gli sforzi e affiancare le attività presenti con altre
attività.
• La realizzazione congiunta dei progetti: quindi insieme si identificano modalità, obiettivi, tempi, risorse
e strategie da mettere in atto per la migliore soluzione del problema.

Modulo 3: ambiti di applicazione


Lezione 11
I settori tradizionali dell’intervento dello psicologo di
comunità
Iniziamo parlando del fatto che in Italia lo sviluppo della psicologia avviene a partire dalla fine dell'800, trova
poi un arresto nei primi anni del ‘900, negli anni ‘30, anche in relazione al periodo fascista, e poi
successivamente c'è una fase di sviluppo maggiore che inizia a partire dagli anni ’40. Rispetto alla legittimazione
però della figura dello psicologo noi distinguiamo tre fasi specifiche:
1. La prima è proprio una fase pre-professionale che va dagli anni ‘45 al ’68. Negli anni ‘40 la psicologia
trova spazio soprattutto all'interno di strutture e di aziende per la selezione del personale e in alcuni
centri pedagogici. La finalità è sempre quella diagnostica, anche se tutto quello che è l'intervento
successivo alla diagnosi è ancora molto confuso e indeciso.
2. Dopo il 1960 invece nascono i primi centri che sono specializzati per la riabilitazione dei minori devianti,
oppure centri di orientamento scolastico e professionale. Qui aumenta il bisogno di specialisti in
psicologia e l’attività dello psicologo rimane legata a finalità prettamente diagnostiche. Anche qui, anche
all'interno di questi centri, l'attività principale rimane quella della diagnosi o della prevenzione
secondaria, cioè cercare di individuare subito persone e bambini a rischio.
3. Successivamente invece abbiamo un periodo che va dal ‘68 al ‘79 ed è un periodo che abbiamo
identificato come una fase di professionalizzazione pre-istituzionale. È caratterizzato dai movimenti
sociali e politici che caratterizzano appunto la fase del 68 anche in Italia, e quindi questa fase è
caratterizzata dal movimento anti-istituzionale.
Allo stesso tempo però la psicologia inizia ad avere dei confini più definiti, infatti negli stessi anni aumenta
l’interesse per alcuni aspetti della psicologia:
• Infatti nel 1971 nasce il primo corso di Laurea;

67
• Si aprono molti dibattiti che focalizzano l’attenzione soprattutto sul divario esistente tra la ricerca
psicologica e i bisogni presenti nella realtà sociale, quindi c’è una forte critica rispetto alla psicologia,
soprattutto per l'evidenza di uno scollamento tra quella che era la ricerca sociale e psicologica, e quelli
che erano i reali bisogni presenti nella comunità.
• Successivamente invece dal 1980 in poi vi è una fase di legittimazione, in cui aumenta in maniera
esponenziale il numero degli psicologi e anche le richieste di aiuto.
Rispetto alle figure professionali, quindi rispetto all'identità proprio della disciplina, iniziano a delinearsi due
prospettive diverse, due figure diverse:
• Una figura più universitaria, e quindi gli psicologi universitari, che preferiscono come ambiti del proprio
intervento quello della ricerca scientifica e della riflessione teorica;
• Invece, dall'altro campo, abbiamo degli psicologi dei servizi socio-sanitari, che si ritengono specialisti
dell'intervento terapeutico, che è un intervento che può svilupparsi su più livelli, specificatamente
individuali, e quindi un intervento sul singolo, oppure sulla collettività. Inoltre questi psicologi operano
in collaborazione con altri professionisti. Sulla collettività quando questo avviene, va ad agire all'interno
di un'ottica proattiva, e quindi prima che il disagio si esprima.
Cosa succede e cos'è che favorisce l'insediamento dello psicologo all'interno delle strutture sociosanitarie, e in
generale come professionista? Sicuramente l'emanazione di alcune leggi:

→ La legge 431 del 1968 che prevede appunto lo psicologo come professionista anche accanto allo
psichiatra.
→ Una legge del 1979 che prevede anche all'interno delle Asl, lo psicologo come un professionista che
attua, mette in atto appunto, delle attività inerenti alla salute.
Naturalmente non possiamo non citare la legge sulla Riforma Sanitaria con tutto l’assetto rivoluzionario dei
servizi che ne consegue.

→ Poi la legge 821 del 1984 sull'autonomia professionale degli psicologi, che assegna ad essi ruoli e
competenze specifiche.
→ Infine la legge 502 del 1992, che garantisce agli psicologi anche gli stessi pari diritti, da un punto di
vista del trattamento normo-giuridico, tra gli psicologi e gli altri dirigenti sanitari specialisti.
I primi interventi in ambito scolastico nascono negli anni ‘70 in relazione a due eventi fondamentali:

• Sicuramente la diffusione delle droghe tra i giovani;


• L'inserimento con l'obbligo naturalmente pedagogico dell'integrazione di alunni portatori di handicap
nelle classi normali.
Successivamente, negli anni ‘90 c'è una maggior attenzione ai grandi cambiamenti che avvengono in ambito
economico e produttivo. Quindi vi sono due grandi innovazioni nel sistema scolastico, e al collegamento tra
psicologia e scuola:

• Sicuramente in relazione alle prime proposte di sperimentazione rispetto all'autonomia scolastica


(1992-1994);
• All’introduzione della “Carta dei Servizi”, nel 1995.
Quindi si tratta di iniziative che impongono la necessità di una collaborazione tra scuola epsicologia.
Quello che accade successivamente è la costruzione e il consolidamento dei centri di consulenza psicologica
all'interno della scuola, come i CIC, che sono dei centri che hanno l’obiettivo di, con la presenza dello psicologo,
individuare e ad intervenire in maniera precoce quelli che sono i disagi giovanili, ma anche offrire consulenza
agli insegnanti e agli alunni, e quindi volti ad attivare subito un intervento adeguato. In questo caso il limite
naturalmente è che è soltanto un intervento focalizzato esclusivamente sull'individuo, sul singolo. In seguito, la
psicologia scolastica tentò diintegrare l’approccio centrato sul singolo con quello centrato sul contesto.
Oggi lo psicologo è presente all'interno dei servizi atti alla salute e nei dipartimenti di salute
mentale, nel dipartimento materno infantile, nei centri, nei consultori familiari o nei servizi per

68
letossicodipendenze e tutti gli altri, e svolge diverse mansioni, così come previsto dalla legge 56 del
1989. Quindi sicuramente gli psicologi svolgono attività di:
• Prevenzione;
• Diagnosi;
• Abilitazione;
• Riabilitazione;
• Sostegno alla persona, alla famiglia, al gruppo e alla comunità.
Ma l'attività principale dello psicologo è quella della prevenzione. Infatti gli psicologi lavorano per
promuovere il benessere e migliorare la qualità della vita di tutti i cittadini proprio in un’ottica di prevenzione.
Noi sappiamo che prevenire significa agire su più livelli e che ci sono tre tipi di prevenzione (primaria,
secondaria e terziaria, con i loro sottoinsiemi): possiamo parlare di una prevenzione proattiva e di una
prevenzione reattiva, e sappiamo che lo psicologo di comunità predilige un'ottica proattiva, e quindi che
antecede in qualche modo l'emersione della problematica stessa. Principalmente l'azione di prevenzione però
non si situa soltanto sull'individuo, ma anche sul gruppo, pensiamo all'interno di un ospedale o di un servizio
qualsiasi, non soltanto tra il gruppo dei pazienti, ma anche con il gruppo professionale e d'equipe, e si svolge
un'azione anche sull'interaorganizzazione. Infatti quelli che sono i compiti o le attività che lo psicologo svolge
sono anche:

• Partecipare alla programmazione generale degli interventi per favorire una funzionalità
maggiore dei servizi offerti e favorire, progettare e realizzare anche l'attività di interventi e strutture
alternative a quelle assistenziali, strutture presenti sul territorio che non solo si occupino della cura in
qualche modo della persona, ma permettano anche e facilitino un processo di autonomizzazione della
stessa;
• Quindi gli psicologi anche all'interno dei servizi socio-sanitari permettono e si occupano di dare un
contributo specifico alla formazione degli altri operatori;
• Inoltre forniscono un sostegno ai gruppi spontanei o informali, quindi tutta quell'area del
sostegno sociale all'interno del territorio stesso, quindi favoriscono anche l'emersione anche di realtà,
come quelle del gruppo di auto-aiuto;
• Svolgono anche attività di ricerca, e quindi svolgono anche una funzione di ricerca, nel caso della
psicologia di comunità naturalmente l'obiettivo è quello della ricerca-azione.
• Si impegnano nel funzionamento del lavoro di equipe, analizzando la dinamica dei processi
decisionali, e si impegnano nel lavoro per favorire, per migliorare il lavoro di equipe, il lavoro di gruppo
in generale;
• Creare programmi di educazione alla salute, soprattutto all'interno delle scuole;
• Infine ottenere la riduzione o la trasformazione delle grandi istituzioni totali;
• Altro obiettivo fondamentale, e altra legge sicuramente fondamentale rispetto alla categoria degli
psicologi, è la legge sulla deistituzionalizzazione di Franco Basaglia, e quindi proprio per permettere
un passaggio dalla cura custodialistica, come la precedente manicomiale, a una presa in carico, dal
punto di vista del territorio, e lo psicologo ancora lavora soprattutto all'interno di interventi
preventivi in ambito scolastico, proprio per migliorare il dialogo, la collaborazione tra la scuola e gli altri
servizi presenti sul territorio(DSM e Sert), e quindi per favorire e sviluppare una vera e propria “cultura
della salute mentale”;
• Inoltre favorire l’uso del gruppo come strumento per l'intervento stesso. Il gruppo permette
ai servizi di mettere in pratica i principi della interdisciplinarietà, della compartecipazione dei cittadini
alla promozione e il mantenimento dello stato di salute e della prevenzione, come i gruppi terapeutici,
il lavoro di equipe e il gruppo nella formazione e negli interventi di rete. Inoltre vi è la promozione e
l’uso dei gruppi di auto-aiuto, nell’ottica di prevenzione secondaria e terziaria;
• Inoltre vi è l’utilizzazione di risorse diverse da quelle psichiatriche, e quindi rafforzare la
reteinformale e semi-formale (come i sacerdoti, i volontari nelle associazioni e nelle cooperative
sociali). Vi è la conoscenza e l’uso del territorio, dove i servizi territoriali devono imparare a valorizzare
e a confrontarsi con il territorio. Infine la promozione del lavoro di rete tra i diversi servizi preposti alla
prevenzione e alla cura della popolazione. Quindi per garantire il passaggio da una vera e

69
propria presa in carico territoriale è importante promuovere il lavoro di rete, fare in modo
che i servizi territoriali anche valorizzino, imparino a conoscere quelli che sono gli altri servizi offerti
dal territorio, e quindi sicuramente anche rafforzare la rete informale, di sostegno, presente sul
territorio stesso.
All'interno invece dell'ospedale lo psicologo assolve a diverse funzioni, sia rispetto alla cura o comunque
alla presa in carico del paziente, sia rispetto alla presa in carico dell'equipe e dell'organizzazione in generale:
• Sicuramente apporta sostegno a quelle persone che hanno una problematica psicologica, ma che non si
rivolgono direttamente ai servizi di salute mentale, quindi riducendo anche la sovrautilizzazione dei
servizi medici;
• Anche all'interno dell'ospedale permette un passaggio dal “curare” al “prendersi cura”;
• Sostiene gli operatori del servizio e trasmette le competenze e le conoscenze psicologiche che
permettono una presa in carico più efficace, e quindi soprattutto si occupa della formazione del
personale all'interno della struttura ospedaliera stessa.
Quindi non è un intervento solo di stampo prettamente clinico e psicoterapeutico, ma abbraccia altre attività
psicologiche, e quindi è assolutamente un intervento ad ampio raggio, proprio perché si occupa:
• Della formazione;
• Dell'attivazione dei processi di empowerment;
• Della valutazione della qualità del servizio stesso;
• Della diffusione delle conoscenze psicologiche;
• Del sostegno al lavoro di gruppo dell’equipe;
• Favorire e facilitare anche la comunicazione tra le varie figure professionali, e quindi tra tutte le persone
interessate;
• Promuovendo di conseguenza anche la salute e il benessere degli operatori.
Quindi lo psicologo opera contemporaneamente su tre livelli, che sono:
1. Il livello della formazione degli operatori;
2. Il livello dell’assistenza al paziente e ai suoi familiari;
3. Il livello più generale dell’organizzazione del lavoro per rendere il servizio più adeguato alle richieste
dell’utenza.
Quello che fa è favorire un approccio degli interventi che muovono all'interno di un modello integrato, per cui
all'assistenza del paziente e dei propri familiari, segue anche invece la formazione, il supporto degli operatori, e
anche un supporto all'organizzazione stessa per migliorare i servizi che vengono offerti, e quindi essere in
qualche modo anche più congrui a quelli che sono i bisogni della popolazione target.
La stessa cosa accade all'interno della scuola. La scuola è un'agenzia di formazione fondamentale per la
personalità dell'individuo, sappiamo che la scuola segue, ci segue o ci ha seguito in qualche modo da bambini
piccoli, con il nido o con la materna, fino ad una crescita e ad una maturazione dopo i 19 anni. Quindi è l'agenzia
di formazione, di socializzazione, che è predisposta al nostro apprendimento, e secondaria soltanto alla famiglia.
Per questo gli psicologi si sono così tanto occupati e si occupano ancora oggi di scuola. Per questo la maggior
parte degli interventi, soprattutto di prevenzione primaria, o in un’ottica proattiva, avvengono all'interno della
scuola e per questo, ancora oggi, soprattutto in una fase di cambiamenti proprio che la scuola sta vivendo, è
ancora più importante che ci sia un intervento da parte dello psicologo, anche se non sempre poi è così semplice,
anzi tutt'altro. Se parliamo di scuola, parliamo anche però di difetti e pregi.
Sicuramente un obiettivo per lo psicologo è quello di lavorare sulla dispersione scolastica, che può avere
sicuramente varie motivazioni e comprende vari fattori:
• L'organizzazione scolastica inadeguata;
• Un background familiare che non stimola, non attiva, non motiva il ragazzo rispetto allo studio;
• Caratteristiche personali e relazionali degli studenti, cioè per esempio una bassa autostima, una scarsa
motivazione, ecc., o per la presenza di relazioni conflittuali o scarse relazioni;
• Dunque, scarse relazioni con i pari o relazioni conflittuali con gli insegnanti.

70
Se guardiamo ai punti critici quello che dobbiamo dire è che:

• Le istituzioni scolastiche in qualche modo non riescono a reggere il passo con i grandi cambiamenti
sociali che stanno avvenendo;
• Non formano neanche la persona adeguatamente rispetto al mondo del lavoro, e quindi non sono
diciamo in connessione con un sistema lavorativo successivo, e né tantomeno con le altre agenzie del
territorio;
• Tant'è vero che uno dei punti critici che più possiamo evidenziare è sicuramente l'isolamento
dell'istituzione scolastica, rispetto ad altre agenzie del territorio, e quindi della comunità, in cui si
colloca normalmente.
Ci sono naturalmente anche dei punti di forza, non possiamo non prenderli in considerazione:
• C’è una maggioranza di docenti motivati e preparati;
• Anche delle buone sperimentazioni rispetto alle diverse realtà scolastiche;
• C'è sicuramente da dire che l'età dei ragazzi, all'interno delle scuole, è così giovane e così in crescita che
sicuramente ci sono delle potenzialità sempre su cui lavorare, e quindi la giovane età degli studenti che
li rende persone potenzialmente recuperabili.
Rispetto a tutti i cambiamenti che la scuola sta vivendo, anche diciamo che lo stesso modello di formazione
è cambiato: da una formazione di tipo più frontale, in cui il rapporto era unidirezionale tra docente e discente,
in cui erano esclusi qualsiasi diciamo interessamenti della sfera rispetto alla sfera emotiva, o più relazionali,
invece si è passati ad un modello formativo, che è assolutamente più circolare e che comunque prende più in
considerazione la circolarità della relazione docente e alunno, e in cui in qualche modo assumono una grande
rilevanza anche i vissuti emotivi, cioè la parte più emotiva e relazionale del legame stesso, anche se all'interno
di un contesto didattico.
All'interno di tutti questi cambiamenti, lo psicologo di comunità agisce all'interno del sistema scolastico e
sicuramente mette in atto interventi preventivi, e quindi parliamo di:

• Prevenzione primaria: sia per favorire il collegamento, la connessione, l’interazione e il legame


stesso tra la scuola e la famiglia, ma anche per migliorare le tecniche d’insegnamento;
• Prevenzione secondaria: che mira all’individuazione precoce di bambini con disturbo, al fine di
programmare un trattamento idoneo;
• Intervento di promozione del benessere in generale: che naturalmente mira acurare la qualità
dei sistemi scolastici, l’offerta formativa da loro erogata, e quindi a migliorare anche la qualità della vita
di tutte le persone interessate al loro interno.
I probabili interventi che può svolgere lo psicologo di comunità sono:

• Interventi educativi, e quindi di orientamento scolastico oppure anche lavorativo;


• Facilitazione dell'apprendimento e gestione dei disturbi dell’apprendimento, e quindi della diagnosi e
facilitazione dell'apprendimento di soggetti, per esempio, con DSA, con disturbi specifici
dell'apprendimento, o bisogni educativi specifici (BES);
• L’integrazione di alunni portatori di handicap;
• L’educazione alla salute;
• L’educazione sessuale;
• Attività di prevenzione delle devianze (come il bullismo, comportamenti violenti, pedofilia, ecc.);
• La prevenzione dell’insuccesso e della dispersione scolastica;
• La prevenzione del disagio stesso (come i disturbi alimentari, il fumo, l’abuso di alcool e di droghe);
• La consulenza individuale ad allievi e insegnanti, e quindi attività che sono di tipo più di consulenza,
non solo per gli allievi, ma anche per gli insegnanti in qualche modo e la famiglia;
• La formazione del personale direttivo, docente e amministrativo;
• L’esecuzione di attività di ricerca
• La collaborazione all’individuazione dei bisogni formativi (come il POF, e cioè il piano dell’offerta
formativa)

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• L’attivazione di un lavoro di rete, e cioè la valutazione, e l'attivazione di un vero e proprio lavoro di rete
con il territorio;
• L’attivazione di interventi di diagnosi-cambiamento-miglioramento dell’organizzazione scolastica, e
quindi tutti quegli interventi, come per esempio, l'analisi organizzativa multidimensionale, che è volta
alla valutazione della diagnosi, ma anche del cambiamento e del miglioramento dell'organizzazione
stessa.
Per riassumere, quindi, per la psicologia di comunità, i problemi delle istituzioni scolastiche sono:
• Complessi e multi-determinati;
• Richiedono strategie integrate, che siano in grado di cogliere sia gli aspetti soggettivi che quelli oggettivi
e anche le variabili contestuali.
Le strategie d’intervento elaborate e sperimentate che noi mettiamo in campo all'interno delle istituzioni
scolastiche hanno obiettivi diversi:

• Sicuramente migliorano il benessere degli studenti;


• Riducono anche quelli che possono essere i problemi emozionali o di apprendimento o
comportamentali;
• Aumentando e promuovendo anche i comportamenti prosociali negli studenti stessi;
• Favoriscono anche il coinvolgimento dei genitori nella scuola, e quindi il collegamento tra le due
istituzioni famiglia-scuola.
Le strategie d’intervento nei contesti scolastici sono quattro:
• L'educazione socio-affettiva;
• I profili di comunità e il lavoro di rete;
• I gruppi di auto-aiuto;
• L'AOM, e cioè l'analisi organizzativa multidimensionale.
L'educazione socio-affettiva ha degli obiettivi molto importanti:
• Aumenta l’autostima e l’autoefficacia sociale, aumenta e facilita i processi di autonomizzazione del
ragazzo, e quindi la fiducia in se stessi e l'autoefficacia percepita;
• Permette di riconoscere i propri sentimenti e le proprie emozioni, e permette di ragionare ed essere più
consapevoli di quelle che sono le proprie emozioni, e quindi anche più consapevoli delle emozioni degli
altri, producendo comportamenti poi che rispettano i vissuti e le emozioni degli altri stessi;
• Poter insegnare ai bambini, ai genitori e agli insegnanti ad aumentare i comportamenti prosociali, come
saper accettare l’aiuto e saperlo dare.
Definiamo educazione socio-affettiva come un modello integrato, che ha tre modalità all'interno, che possono
essere usate insieme o separatamente centrandosi su un particolare aspetto. Queste tre modalità sono:

• Il metodo Gordon, che si occupa di migliorare il rapporto insegnante-classe (allievo);


• Il “Circle Time”, che tende a migliorare il rapporto tra i compagni in classe;
• Gli esercizi psicomotori.
Il metodo Gordon parte proprio da questo psicologo americano, Thomas Gordon, allievo di Rogers, che è il
pioniere della psicologia umanistica e il padre del concetto di empatia. Gordon propone una relazione efficace
con gli studenti, e cercò di impostare delle strategie per aumentarel'efficacia della relazione tra gli
studenti e gli insegnanti. Due suoi scritti importanti appunto sono "genitori efficaci" e "insegnanti efficaci".
Gli obiettivi del metodo improntato da Gordon sono:
• Insegnare ai docenti ad incoraggiare e stimolare maggiori responsabilità nei giovani a loro affidati, e
quindi sono finalizzati a stimolare, incoraggiare e responsabilizzare, e quindi far crescere in maniera
positiva il ragazzo;
• Procedimenti che portano l’insegnante a “trasformare se stesso” nel modo di trattare con gli allievi, e
quindi:

72
Le fasi all'interno delle quali si svolge il metodo di Gordon sono:

• L'ascolto attivo;
• Il messaggio dell’io;
• Il metodo del problem solving.
L’ascolto attivo permette all’insegnante di entrare in comunicazione empatica con lo studente che ha un
determinato problema ed accetta di parlarne. Infatti l’insegnante comunica due cose all’allievo:
• Io sono interessato a te;
• Io ho fiducia in te.
L’ascolto attivo si basa sull’accettazione dell’altro evitando tutti i comportamenti che potrebbero costituire una
barriera comunicativa. Oltre all’ascolto attivo c’è il messaggio dell’io, che permette confronti positivi poiché:

• Sollecita la volontà di cambiamento;


• Riduce al minimo la valutazione negativa dello studente;
• Non pregiudica il rapporto.
Quindi il messaggio dell'io antepone a un messaggio del tu “tu hai fatto questo, tu sei così”, e quindi permette di
non pregiudicare il rapporto, riduce anche la valutazione negativa che si dà dello studente, e facilita il
cambiamento della relazione, quindi non c'è più un puntare il dito sull'altro, ma una comunicazione rispetto ad
uno stato d'animo personale, che produce poi cambiamento.
Rispetto poi all'educazione socio-affettiva abbiamo anche l'attività e gli interventi dei “Circle Time”(cerchio
del tempo). Di solito sono degli incontri di 30 minuti in cui i ragazzi si siedono, sono riuniti in cerchio per
discutere un argomento scelto da loro e dall’insegnante, parlano di un tema, si confrontano su un tema
prestabilito, come avviene all'interno di una dinamica gruppale, dove noi sappiamo che promuovono situazioni
di questo tipo sicuramente lo scambio di opinioni sui temi, ma anche una maggiore conoscenza reciproca, e
quindi un aumento dei rapporti interpersonali, di conseguenza un maggiore senso di appartenenza al gruppo
stesso. Il “Circle Time” promuove infatti:

• Il senso di appartenenza e coesione di gruppo;


• Una conoscenza reciproca più approfondita;
• Dei rapporti interpersonali più gratificanti;
• Lo scambio di opinioni su argomenti diversi.
Infine abbiamo gli esercizi psicomotori che aiutano l'individuo ad entrare in contatto con le emozioni, e
soprattutto le emozioni negative, come la rabbia, l'ira, ecc. Attraverso l'esercizio c'è una consapevolizzazione, e
quindi una catarsi dello stesso che, invece di defluire in un comportamento, per esempio antisociale, viene in
questo modo elaborato, in un modo più funzionale.
In più oltre all'educazione socio-affettiva possiamo agire attraverso la valutazione dei profili della comunità con
la possibilità di instaurare un vero e proprio lavoro di rete, che rompe l'isolamento e rende più efficace il
raggiungimento degli obiettivi. Conoscere i profili delle comunità, in cui la scuola è inserita, può aiutare a:
• Rompere l’isolamento strategico e territoriale;
• Rendere più semplice ed efficace il raggiungimento degli obiettivi prefissati grazie all’attivazione di reti
con le diverse agenzie del territorio.
Poi c’è la formazione dei gruppi di auto-aiuto, insieme al Circle time, che è un metodo dell’educazione socio-
affettiva, ed è uno strumento che:

• Favorisce la formazione di un clima di sostegno reciproco tra gruppi di insegnanti, gruppi di genitori e
tra gruppi misti di insegnanti e genitori;
• Agevola la partecipazione dei genitori alla vita scolastica, alla condivisione dei compiti e alle
responsabilità educative.
Poi c’è l'analisi organizzativa multidimensionale, e quindi la valutazione delle quattro dimensioni, che permette
un’emersione, non solo di punti critici dell'organizzazione stessa, ma anche dei punti di forza e le risorse su cui

73
puntare per migliorare l'offerta formativa o comunque l'efficacia del proprio intervento. L’analisi organizzativa
multidimensionale (AOM) è una strategia che permette di:
• Diagnosticare in modo più efficace i problemi di una realtà scolastica;
• Riconoscere il peso delle dimensioni strutturali, relazionali e funzionali nella determinazione del
successo scolastico e della qualità formativa;
• Riconoscere e programmare obiettivi didattici ed educativi mirati.
Quindi l’AOM permette di individuare quelle che sono le aree di criticità condivise e di dedurne le possibilità di
cambiamento.

Lezione 12
I nuovi settori di applicazione della psicologia di comunità
I nuovi settori della psicologia di comunità si sono sviluppati e sono in relazione ai fattori socio-culturali
esistenti, che permettono ad un determinato problema sociale di diventare più visibile in un determinato
periodo storico. Gli psicologi di comunità si occupano di diverse problematiche sociali, a seconda dei bisogni e
dei problemi che la società presenta in un determinato periodo storico.
Iniziamo subito partendo dal terzo settore. Il terzo settore è un insieme di istituzioni che si collocano tra lo
Stato e l'ambito privato, ma non sono riconducibili né all'uno né all’altro. Sono soggetti organizzativi di natura
privata, ma volti alla produzione di beni e servizi a destinazione pubblica o collettiva. Quindi sono delle
organizzazioni che hanno una natura e un'organizzazione proprio interna, burocratica, di tipo
privato, ma che erogano servizi e beni proprio per la collettività. Il terzo settore ha delle
caratteristiche fondamentali, che si trovano sia all'interno delle cooperative sociali che del volontariato:

• Vi è l’assenza di distribuzione dei profitti, e quindi si tratta di organizzazioni, di attività senza


scopo di lucro, per esempio le ONLUS, non tendenti al profitto;
• Hanno una natura giuridica privata, che poi al suo interno presenta anche un atto costitutivo, uno
statuto specifico;
• Erogano servizi a favore della collettività;
• Dispone di un atto di costituzione formale, oggetto di un contratto formalizzato o di un accordo
esplicito tra gli aderenti;
• È basato sull’autogoverno e su un'autogestione, quindi tutto viene gestito all'interno
dell'organizzazione stessa, grazie anche alla presenza di una parte di lavoro svolto dal volontariato, e
quindi dispone di una certa quota di lavoro volontario;
• È un’organizzazione con una base democratica, e quindi l'organizzazione interna è di tipo
democratico e orizzontale.
Le cooperative sociali sono proprio delle imprese a carattere privato, però con un'impronta sociale. Si sono
sviluppate, soprattutto in Italia, a partire dagli anni ‘70-‘80. Hanno risposto a due bisogni fondamentali della
comunità:
• Quello di superare il blocco delle assunzioni nell'ambito pubblico;
• Rispondere in maniera più organizzata, e anche in maniera più collaudata con il sistema formale di cura,
quelli che sono proprio i bisogni della popolazione.
Le caratteristiche, così come quelle per tutto il terzo settore, sono:
• Il perseguire obiettivi aderenti agli interessi delle comunità in cui sono inseriti;
• Sono senza fini di lucro, e cioè vi è l'assenza di profitto;
• Hanno un’esplicita finalità sociale, che garantisce l’aderenza ai bisogni del territorio in cui sono
presenti, e quindi l'esplicita finalità sociale, che parte da un'attenta valutazione dei bisogni della
comunità per una sua risoluzione;

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• La gestione è democratica e partecipativa che rende tutta l'organizzazione molto flessibile;
• Sperimentano nuove tipologie di servizi, anche rispetto alle nuove emergenze.
Distinguiamo poi tre tipi di cooperative fondamentalmente:
1. Le cooperative integrate: che sono state sviluppate in seguito alla legislazione sul collocamento
obbligatorio e sulla deistituzionalizzazione dei pazienti psichiatrici. Inoltre prevedono tra soci anche i
portatori di handicap o comunque persone cosiddette svantaggiate;
2. Le cooperative di solidarietà sociale: che nascono da gruppi di volontariato, al fine di coinvolgere
e facilitare l’attività di gruppi di persone svantaggiate. Il loro scopo è quello di erogare servizi socio-
assistenziali;
3. Le cooperative di servizi sociali: che sono state sviluppate dopo la crisi del Welfare State. Sono
cooperative di produzione e di lavoro, formate da persone qualificate professionalmente.
(Il Welfare State è il cosiddetto Stato assistenziale, cioè tutto quell'insieme di interventi a livello legislativo,
ma non solo, che lo Stato mette in atto proprio per limitare in qualche modo in equa distribuzione delle risorse,
e quindi le difficoltà e le disuguaglianze, che ci sono all'interno della comunità, sia dal punto di vista sociale che
economico. Si sviluppa alla fine dell'800 nella maniera moderna e trova una legittimazione all'interno del
rapporto Beveridge, in cui si parla proprio del minimo di sussistenza da garantire a tutti quanti, e proprio anche
in seguito alle spinte ideologiche, politiche, i processi di democratizzazione del ‘900, trova ancora una massima
espressione però anche perché la povertà o l'emarginazione non vengono più considerate come relative a una
problematica individuale, ma assolutamente collettiva. Oggi i modelli occupazionale (Bismark) e universalistico
(Beveridge), entrano in crisi e trova più spazio una forma di Welfare Mix, che coniuga, per rispondere ai bisogni
della collettività, sia un piano pubblico assistenziale, che un piano assistenziale privato, e all'interno di questa
situazione, che le cooperative sociali e il volontariato del terzo settore in generale, trova un grande sviluppo).
I servizi sono molto flessibili e innovativi, in alcuni casi, rispetto a quelli delle cooperative sociali. Infatti i servizi
gestiti sono:

• I servizi di pronto intervento sociale: come le attività di intervento sulla crisi in atto, intervenendo,
dietro segnalazione, su delle situazioni problematiche o multi-problematiche, come ad esempio
l’emarginazione, il maltrattamento, ecc., possono essere crisi prevedibili o imprevedibili, rispetto alla
relazione con eventi normativi e para-normativi;
• Interventi di inserimento sociale: quindi i servizi e le attività per la formazione professionale per
minori, anziani, persone con handicap, stranieri, tossicodipendenti, ecc. Pensiamo all'attività dei centri
diurni o dei centri ricreativi-educativi, fino a pensare a tutti gli interventi e ai progetti di inclusione
sociale, rispetto a un’inclusione socio-lavorativa, quindi progetti con attività di formazione, di
formazione on the job e di inserimento lavorativo formalizzato;
• Interventi di assistenza domiciliare: che sono servizi domiciliari rivolti ad anziani, persone con
handicap, minori e adulti in condizioni di emarginazione, indigenza o rischio di salute. Quindi
direttamente nella situazione delle proprie case.
• Il telesoccorso: che è un’attività di pronto soccorso telefonico, che riguarda diverse categorie di
bisognosi, come ad esempio gli anziani soli, persone disabili, ecc. e risponde a diversi tipi di bisogni.
Le cooperative sociali sono tra l'altro una realtà particolare perché al loro interno attraversano in qualche
modo processi di cambiamento, che sono sia interni che esterni: esterni, per esempio, dovuti all'emergenza di
nuovi bisogni da parte della popolazione o nuove offerte o richieste da parte del mercato del lavoro, invece
interni proprio relativi a un processo di maturazione che la cooperativa affronta.
In questo senso, lo psicologo, o comunque l'intervento dello psicologo di comunità, all'interno delle cooperative
sociali:

• Aiuta il percorso di crescita;


• Permette la risoluzione di momenti di “crisi”;
• Agevola il passaggio attraverso le fasi di cambiamento.

75
Quindi l’intervento dello psicologo aiuta, facilita il passaggio, soprattutto nei momenti di crescita e nei momenti
di cambiamento, un po’ quello che avviene fondamentalmente all'interno delle famiglie, quando viene richiesto
l'intervento di tipo clinico: lo psicologo, il clinico entra nella famiglia, di solito l'emergenza e la richiesta d'aiuto
avviene proprio nella fase di crisi evolutiva, nel passaggio da una fase di ciclo vitale all'altra e lì risponde alla
richiesta d'aiuto. Allo stesso modo lo psicologo di comunità, all'interno di queste realtà, aiuta e facilita il processo
di crescita e di maturazione, anche perché le cooperative sociali, che tra l'altro hanno una doppia sfida, cioè
quellodi promuovere sia la cultura d'impresa, e quindi l'efficienza e la managerialità, da una parte, e dall'altra
anche una cultura più sociale, e quindi mantenendo come fine ultimo appunto il bene della comunità, e quindi
i bisogni esistenti all'interno della comunità in cui l'organizzazione stessa vive.
Come lo psicologo di comunità agisce all'interno di queste realtà? Utilizzando tutti gli strumenti che noi
abbiamo, sicuramente aiutando a costruire un:
• Lavoro di gruppo e gruppi di lavoro, che ha lo scopo di facilitare il consolidamento di una cultura
di gruppo, facilitando i processi di appartenenza, facendo in modo che, all'interno dell'organizzazione,
il gruppo lavori insieme condividendo procedure e modalità proprio per raggiungere l'obiettivo in
maniera altamente specializzata, integrando quindi i saperi e le metodologie, e favorendo un approccio
multidisciplinare, che in qualche modo arricchisce la modalità di lavoro stessa;
• Attraverso un lavoro di rete: per potenziare lo sviluppo di una rete sociale che coinvolga tutte le
agenzie di sostegno del territorio (formali e informali), per limitare l’isolamento territoriale delle singole
cooperative e per frenare rivalità tra cooperative dello stesso settore;
• L'analisi di comunità, che permette la conoscenza (e quindi i punti di forza e le aree del problema),
l’attivazione del territorio e migliora le capacità di cogliere quelli che sono i bisogni del committente e
della comunità intera;
• L'analisi organizzativa multidimensionale: mira a facilitare la comprensione condivisa e
partecipata delle dimensioni organizzative, l’individuazione di quelle che sono le priorità di
cambiamento e la conoscenza delle risorse e delle problematiche interne. È un'attività che permette di
facilitare la comprensione, fare un'analisi, un check-up organizzativo, prendendo in considerazione
tutte le dimensioni presenti;
• La ricerca intervento e la ricerca valutativa: servono per poter sperimentare nuove modalità
d’intervento e nuovi modelli teorici.
• La consulenza: che racchiude tutti gli interventi che noi abbiamo citato finora. Quindi parte dalla
richiesta di un committente e, in seguito a una valutazione della situazione reale, programma poi gli
interventi più idonei e naturalmente anche le operazioni di follow-up pervalutare questi interventi, e
quindi garantire una congruità tra gli obiettivi e le azioni messe in atto.
Il volontariato, che è un'altra realtà che rientra sempre all'interno della cornice del terzo settore, è un'attività
libera e gratuita e viene appunto svolta sia per ragioni di solidarietà sociale che di giustizia
sociale. Ci sono vari tipi di associazioni di volontariato, ma tutte nascono dalla spontanea volontà dei cittadini
di fare fronte a dei problemi che non sono stati risolti o non sono stati affrontati oppure risolti in modo adeguato,
e quindi rimanda anche ad un concetto nuovo di cittadinanza, una cittadinanza attiva, una cittadinanza
partecipe e desiderosa di introdurre dei cambiamenti all'interno della propria comunità, e quindi
richiama anche un altro concetto a noi caro che è quello di una comunità che ha empowerment, e che svolge la
propria azione nell'interesse della comunità. Gli obiettivi dell'associazione di volontariato possono essere
diversi, si rivolgono:
• A persone in difficoltà;
• Alla conservazione del nostro patrimonio artistico o culturale;
• Alla tutela dell'ambiente, della natura e degli animali.
In Italia è davvero molto sviluppato, il terzo settore in generale trova un grande sviluppo all'interno del nostro
contesto nazionale, soprattutto nelle regioni del Centro e del Nord. Inoltre il volontariatoè anche legittimato
in Italia dalla legge 266 del 1991, che:

• Regola il volontariato organizzato;

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• Istituisce delle strutture per lo sviluppo e per la crescita del volontariato, come i Centri di Servizio per
il Volontariato, che garantiscono delle operazioni per le associazioni di volontariato: di consulenza,
formazione, comunicazione e promozione sul territorio;
• Inoltre la legge 266 stabilisce anche la gratuità assoluta delle prestazioni fornite dall’associazione;
• Non prevede una retribuzione nemmeno per gli operatori soci;
• Indica la necessità di una struttura democratica dell’associazione, e quindi necessita di una struttura e
di un'organizzazione interna assolutamente quanto più possibile democratica e orizzontale.
Se prendiamo in considerazione le valutazioni fatte da Hatch e Colozzi, possiamo vedere chele caratteristiche
fondamentali che definiscono delle associazioni di volontariato sono:
• Rispetto all'origine, il gruppo deriva da un’aggregazione volontaria;
• Rispetto alla gestione, il gruppo è autogestito e decide autonomamente statuto, finalità, prestazioni
e destinatari, e quindi un'autogestione del gruppo in tutte le finalità e nell'organizzazione interna;
• Dal punto di vista del finanziamento, almeno una parte dei fonti ha una provenienza volontaria;
• Il gruppo non ha fini di lucro (per es. le ONLUS).
Cosa succede però all'interno di queste realtà? Quello che noi riscontriamo nella maggior parte delle
organizzazioni e delle associazioni di volontariato è una situazione mista, in cui all'interno troviamo sì, delle
persone che svolgono in modo gratuito la propria prestazione, accanto però a dei professionisti altamente
qualificati. Un aspetto delicato è il fatto che la composizione interna dei gruppi spesso è mista ed
è formata da volontari e figure professionali. Inoltre la convivenza è il frutto di un delicato
equilibrio e il rischio è che quest’equilibrio si rompa, snaturando o il carattere volontario
oppure quello di organizzazione strutturata. Quindi la convivenza è un frutto di un “equilibrio precario”.
I compiti dello psicologo di comunità nell’ambito del volontariato sono quelli di:
• Collaborare alla sensibilizzazione del territorio;
• Contribuire alla selezione dei volontari;
• Facilitare l’accoglienza e lo sviluppo del senso di appartenenza dei nuovi membri;
• Contribuire a far crescere e funzionare il piccolo gruppo;
• Promuovere rapporti di collaborazione e facilitare la comunicazione tra gruppi di auto-aiuto e sistemi
formali di cura;
• Essere di sostegno al leader nella gestione del gruppo e nell’attivazione di interventi di prevenzione del
burnout.
Se la prestazione è volontaria, la persona autonomamente decide di prestare il proprio servizio ad
un'associazione, evidentemente le aspettative e le motivazioni saranno davvero molto alte, quindi il pericolo
rispetto al burnout, di incorrere in delusioni delle aspettative, e in stress cronici, è altamente elevato. Su questo
bisogna intervenire e bisogna intervenire in maniera preventiva, anche garantendo e promuovendo i rapporti di
collaborazione che esistono tra il sistema formale dicura e i sistemi informali, cioè le associazioni di volontariato
non dovrebbero sostituirsi alla sanità o comunque ad altre istituzioni pubbliche, ma dovrebbero coadiuvarsi o
coadiuvare il proprio lavoro con queste, e quindi essere di aiuto in qualche modo. Questo limita tra l'altro anche
le fantasie di onnipotenza che anch'esse possono portare all'emergere di situazioni psicopatologiche, in termini
di stress da lavoro.
Passiamo ad un altro capitolo che è quello del mondo del lavoro. Prima di tutto dobbiamo dire in questo
senso che lo psicologo di comunità e la psicologia in generale non si è interessata molto all'ambito del lavoro
prima degli anni ‘70-‘80 proprio perché l'attenzione era semplicemente focalizzata sul profitto o sulla
competizione. Dagli anni ’70-‘80 in poi, anche in seguito alle vicendestoriche, si inizia a pensare al contesto
lavorativo come un contesto che è fonte di benessere o malessere per il lavoratore stesso, e quindi
iniziano ad esserci i primi interrogativi a riguardo. In più si sviluppano, anche dal un punto di vista teorico, le
nuove teorie, per cui l'organizzazione viene vista come un insieme di diverse dimensioni che in qualche modo si
intrecciano tra di loro e da un punto di vista teorico si sviluppa l'idea della necessità di intervenire attraverso
dei processi di prevenzione per il disagio, che poi è un disagio individuale, ma, all'interno dell'organizzazione, è
undisagio collettivo. Fondamentalmente quindi in generale c'è una rivalutazione della parte emotiva dei

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contesti lavorativi, finalmente considerati determinanti per il benessere di coloro che ci
lavorano.
I primi argomenti di studio trattati dagli psicologi sono:
• Lo studio sul rapporto tra la disoccupazione e il disagio mentale;
• La prevenzione delle malattie e degli incidenti sul lavoro;
• Il rapporto tra il benessere e il malessere, in questo caso il malessere, della persona e il processo di
disoccupazione o l'emergenza dei disagi mentali in senso più ampio.
Quando parliamo di malattie parliamo anche di malattie psicologiche, per esempio dello stress, contutti gli
interventi importanti sia a livello individuale, per aumentare l'abilità di coping o migliorare la reazione
dell'organismo all'evento stressante, ma anche sull'organizzazione intera stessa. Molti psicologi, già all'inizio,
hanno iniziato a lavorare direttamente con i sindacati, proprio per garantire e facilitare il loro insediamento sul
territorio, e quindi garantire un'attività di tutela del lavoratore più proficua.
Diciamo che in qualche modo si è anche modificata nel tempo la visione del lavoratore stesso, mentre prima il
lavoratore doveva essere assolutamente dipendente e passivo rispetto all'organizzazione e anche in qualche
modo distaccato emotivamente, l'unica responsabilità era quella di rispondere agli obblighi e alle mansioni che
veniva a lui assegnate. Nel corso del tempo invece si vede molto come è importante motivare le persone che non
sono più lavoratori dipendenti e non sono più visti come succubi dell'organizzazione, ma si valuta l'importanza
della motivazione, e quindi della responsabilizzazione del lavoratore e del coinvolgimento, si prende in
considerazione il coinvolgimento emotivo. Per questo tutte le tecniche di cui noi possiamo parlare
all'interno del mondo del lavoro sono delle tecniche che mirano ad aumentare l'empowerment
dell'individuo, del gruppo e dell'organizzazione stessa.
Vi sono tre tipi di strategie di empowerment, che possiamo riscontrare e attuare all'interno del mondo del
lavoro, che sono:

• Strategie di empowerment centrate sui singoli individui o sui gruppi di individui;


• Strategie di empowerment che mirano ad intervenire contemporaneamente sul singolo e
sull’organizzazione;
• Strategie di empowerment sull'intera rete.
Sul singolo noi abbiamo fondamentalmente delle attività di formazione-intervento, che:

• Sono programmi che aiutano e migliorano le capacità comunicative o di entrare in relazione con l'altro,
di entrare all'interno di un gruppo, di gestire un gruppo da parte del lavoratore;
• Dei corsi di stress management, di valutazione dell'ansia e di miglioramento nella gestione dell’ansia e
dello stress collegato al lavoro, tutti gli interventi anche collegati, per esempio, alle situazioni di
burnout;
• I servizi di counseling aziendale, gli interventi anche individuali di supporto psicologico e di brevi
psicoterapie, proprio per garantire alla persona il superamento del momento problematico.
Quindi vi sono degli interventi che modificano quella che è la struttura organizzativa interna delle associazioni
e delle aziende in generale, evitando e migliorando in qualche modo l'organizzazione interna: e quindi che da
verticistica (o verticale) diventa assolutamente più democratica e orizzontale. I lavoratori diventano parte
attiva e sono motivati ad assumersi più responsabilità e ad avere maggiore autonomia
decisionale. Per fare questo naturalmente un ruolo fondamentale è quello della leadership, e ci saranno
degli interventi sulla leadership, che andranno anche ad aiutare o comunque a facilitare un percorso di
maturazione da parte del leader, garantendo e modificando proprio la leadership in senso più democratico e di
sostegno del lavoratore. Quindi lo psicologo aiuta lo sviluppo di una leadership democratica e di
sostegno.
Le strategie di empowerment di rete hanno invece l'obiettivo di promuovere soprattutto le relazioni e gli
scambi tra le organizzazioni lavorative, da una parte, e dall’altra i sindacati, i servizi socio-sanitari e ricreativi e
le istituzioni, e quindi il territorio. Quindi lo psicologo di comunità favorisce i rapporti tra le
organizzazioni lavorative e il territorio. Sono tutti degli interventi che sonovolti ad ampliare, a

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modificare le collaborazioni. Possono essere anche degli interventi semplici da un certo punto di vista, per
esempio, garantire che l'organizzazione o l'azienda possa dare propri locali per feste di quartiere o per garantire
delle riunioni di piccole associazioni nel quartiere della comunità.
Da un punto di vista della politica europea l'interesse è quello di aumentare la crescita, l'occupazione e le pari
opportunità dei cittadini, e possiamo distinguere l'intervento dello psicologodi comunità in due ambiti diversi:
quelli della politica sociale e dello sviluppo del lavoro.
• Nella politica sociale l'obiettivo dello psicologo di comunità è quello di aumentare e favorire lo
sviluppo dell'empowerment delle minoranze etniche e sociali, è garantire degli interventi che
ridistribuiscano le risorse, ma che aumenti anche l'empowerment delle fasce più svantaggiate. I compiti
dello psicologo di comunità sono:
o La conoscenza del territorio per individuarne le debolezze e promuoverne lo sviluppo, e per fare
questo è necessario conoscere quelle che sono le debolezze, ma anche i punti di risorsa di un
territorio;
o Lo sviluppo di comunità locali attraverso iniziative comunitarie, per favorirne l’empowerment,
e cioè la possibilità di azione delle comunità locali;
o L’individuazione di esigenze specifiche di alcune categorie, e quindi individuando i bisogni
specifici;
o Lo sviluppo della cultura d’impresa, sviluppando così anche una cultura d’impresa.
• Invece da un punto di vista dello sviluppo del lavoro troviamo tutti quegli interventi che mirano a
combattere la disoccupazione attraverso:
o Strategie per l'occupazione: che promuovono le pari opportunità a tutti, indipendentemente dal
sesso, dalla razza ecc., e quindi dalle situazioni specifiche;
o Favorire l'inserimento nel mondo del lavoro dei disabili e l’inserimento nel mercato del lavoro
dei giovani, e favorire l’inserimento dei lavoratori appartenenti alle classi svantaggiate
o Garantire degli interventi di istruzione e formazione.
Rispetto alla pubblica amministrazione, che è un altro ambito di intervento dello psicologo di comunità,
quello che dobbiamo sottolineare è che negli ultimi anni vi sono state delle criticità rispetto alla pubblica
amministrazione italiana, infatti:

• Vi è un’insoddisfazione dei cittadini, forse per una burocratizzazione esagerata o per una demotivazione
delle risorse umane impiegate;
• La crescita esagerata di norme e regolamenti;
• Risorse umane demotivate;
• Tutte le situazioni che creano uno stato di insoddisfazione generale che determina l’esigenza di ricorrere
a cambiamenti radicali.
Per cui è necessario apportare dei cambiamenti, in questo senso l'opera dello psicologo di comunità tutte le
strategie che conosce sono assolutamente utili. I cambiamenti da realizzare sono per esempio:

• Rispetto a modificare e a passare da un'amministrazione di tipo centripeta a un’amministrazione


centrifuga, che sia in grado di favorire un'equa, una corretta distribuzione delle funzioni;
• Di passare da un'amministrazione per procedure ad una invece più per risultati, centrata sull’efficienza
e sulla coerenza tra obiettivo e azione, e quindi finalizzata all'obiettivo, che vada a valutare quella che è
la congruenza tra le azioni e gli obiettivi prefissati;
• Un'amministrazione che non sia più autoreferenziale, ma che sia un'amministrazione di servizio,
centrata e progettata sui bisogni della comunità;
• Un'amministrazione con un sistema organizzativo di risorse umane motivate e professionali valorizzate,
un’amministrazione che abbia al suo interno un personalemotivato, sia da un punto di vista umano che
professionale.
La psicologia di comunità può utilizzare i suoi strumenti, costrutti e conoscenze per
accompagnarequesto processo di cambiamento.
Quindi gli strumenti utili sono:

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• L'analisi organizzativa multidimensionale (AOM);
• Il lavoro di consulenza;
• Il lavoro di gruppo, il piccolo gruppo o i gruppi di lavoro;
• La formazione;
• Il lavoro di rete.
Un altro ambito, naturalmente importante, è quello della politica. Anche in questo caso, come rispetto alla
pubblica amministrazione, noi avvertiamo e viviamo quotidianamente un distacco dal cittadino alla politica e ai
suoi rappresentanti. Vediamo infatti negli ultimi anni uno sviluppo di forme intermedie di associazioni
ambientaliste o semplicemente di movimenti, come anche è accaduto qui in Italia, e che tentano di mediare e di
avvicinare il cittadino anche alle sfere dell'alta politica. Nelle amministrazioni locali vi è una crescente richiesta
di strumenti, che siano in grado di:
• Riattivare un collegamento e un dialogo con la popolazione;
• Dare un certo potere decisionale e propositivo ai nuclei di base;
• Ridare vita ai processi partecipativi;
• Mobilitare le risorse informali.
Quello che come psicologi di comunità potremo fare è: intervenire per aumentare i processi partecipativi della
comunità, e mobilitare anche quelle che sono le risorse informali della comunità stessa, riattivare soprattutto
un dialogo e un collegamento con la popolazione stessa, e quindi dare un certo senso anche potere decisionale
anche ai nuclei di base della politica stessa.
L'ultimo ambito di cui parleremo è quello della formazione. Noi conosciamo due tipologie e due modalità di
formazione:
1. Un vecchio modello formativo: e cioè un modello più antico, più vecchio, in cui l’enfasi è
assolutamente sui contenuti, sulla tecnologia, a discapito del rapporto interpersonale. Non c’è
possibilità di introspezione, anzi c'è un certo distacco emotivo, e naturalmente l'insegnamento è solo
centrato sul prodotto che enfatizza solo gli aspetti cognitivi ed è direttivo;
2. L’altra modalità invece è un nuovo modello formativo: che è nuovo ed è un modello attendo al
contesto ambientale in cui è inserito, è un insegnamento flessibile che enfatizza molto gli aspetti
emozionali ed è un insegnamento circolare.
Questo perché si tratta di un processo che è centrato sulla relazione, pensiamo alle modalità di educazione socio-
affettive, al metodo Gordon semplicemente, un processo che è circolare, che quindi va dall'insegnante al
discente, ma che dal discente ritorna attraverso le situazioni di feedback e di retrazione all'insegnante stesso.
La formazione all'interno della psicologia di comunità è molto simile al nuovo modello formativo in psicologia
di comunità, per cui abbiamo degli interventi che:
• Coinvolgono le persone che lavorano all'interno di uno stesso ambiente, di uno stesso contesto, anche
se con mansioni, professionalità e specializzazioni diverse;
• Un modello formativo empowering, che valorizza le reali esperienze di lavoro, che valorizza la persona
e il proprio vissuto all'interno dell'esperienza lavorativa;
• Volto ad un'integrazione sia delle componenti emotive che di quelle cognitive;
• Che ha come obiettivo ultimo quello di migliorare l'accordo psicosociale, che noi sappiamo essere la
congruenza tra le richieste e le aspettative, da parte dell'ambiente di lavoro, e le richieste e le aspettative
e i bisogni del lavoratore stesso.

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Lezione 13
L’intervento sulla crisi e la relazione con lo stress
Oggi noi sentiamo parlare molto di crisi sia nell'ambito politico, nell'ambito economico, ecc. Fondamentalmente
prendiamo in considerazione soprattutto l'aspetto negativo della crisi. In realtà se partiamo dell'etimologia, il
termine crisi deriva da "krinein" che significa “decidere, giudicare”.
Quindi lo identifichiamo come un'occasione per scegliere, un potenziale di opportunità di cambiamento, di
possibilità di modificare le proprie strategie, e quindi di aumentare il proprio potenziale. La sua
valutazione come evento “positivo” o “negativo” dipende dalla drammaticità oviolenza dell’evento e dalle risorse
disponibili o attivabili, nell’individuo e nell’ambiente, per affrontarla. Quello che accade è che di per sé la crisi
non è negativa, perché può permettere un miglioramento della propria condizione di vita e della
condizione di vita della comunità. Diventa problematica o evento negativo quando l'intensità, la
frequenza, la durata dell'evento critico si scontra poi anche con delle variabili individuali
particolari o variabili sociali particolari. È un processo dinamico, critico, che ha a che fare sia con una
dimensione più psicologica del soggetto, ma anche con una dimensione più sociale.
Se dovessimo dare una definizione di crisi, sicuramente quella che prendiamo in considerazione è quella data
da Caplan, già nel 1961, che poi porterà in qualche modo anche alla classificazione dei tipi di prevenzione che
abbiamo già studiato. Secondo Caplan la crisi è:
“uno stato che si verificaquando la persona si trova a fronteggiare un ostacolo che le impedisce il
raggiungimento di importanti obiettivi vitali: questo è, per un certo lasso di tempo, insormontabile tramite
l’utilizzo deimetodi abituali di risoluzione dei problemi. Ne consegue un periodo di disorganizzazione, un
periododi sconvolgimento, durante il quale vengono fatti molti tentativi verso la soluzione del problema, che
però abortiscono. Alla fine viene raggiunta una qualche forma di adattamento, che può rivelarsi o meno
come la soluzione più utile per la persona e per chi le sta vicino”.
Crisi, per Caplan, significa che avviene uno stato di turbamento, di sconvolgimento, che è sia
psicologico che cognitivo della persona, rispetto alla difficoltà a fronteggiare l'ostacolo o una
situazione prendendo in considerazione le strategie usate da sempre. Questo avviene per un lasso di
tempo temporaneo perché, successivamente al momento di disorganizzazione, avviene una nuova forma di
adattamento, da parte dell'individuo stesso, che quindi può tornare ad una situazione di ripristino precedente o
simile a quella precedente, quindi omeostatico, o modificare in termini positivi o negativi. Naturalmente
colpisce non solo la persona direttamente, ma anche le persone che vivono intorno e in più anche i soccorritori.
Uno studioso della crisi e soprattutto partendo dall’elaborazione e dai concetti sull'elaborazione del lutto è lo
psichiatra Lindemann, che studiò le reazioni successive ad un incendio in un night di Boston in cui morirono
493 persone. Le reazioni che vide nei familiari o nelle persone lì presenti, durante l'evento critico, traumatico,
vennero classificate e studiate non come reazioni psicopatologiche della persona, ma come reazioni alla
difficoltà di elaborare l'evento. Quello che mette in luce non è la patologia come espressione di una
problematica intrapsichica, ma come influenzata da quelle che sono le caratteristiche degli eventi
esterni, soprattutto se questi eventi esterni risultano essere stressanti o traumatici per l'individuo stesso.
Quello che avviene, secondo Lindemann, è un processo di adattamento della persona all'ambiente esterno.
Terkelsen è un altro studioso della crisi e parla di quegli eventi critici come quegli eventi che per essere
affrontati richiedono da parte dell'individuo la messa in atto di meccanismi di adattamento. Egli si
occupò soprattutto delle crisi presenti nell’ambito degli studi psicologici sulla famiglia e vide che la crisi, l'evento
critico, riportava ad una ristrutturazione cognitiva, strutturale della famiglia, proprio per garantire
l'adattamento all'evento stesso. Distinse gli eventi critici in normativi e paranormativi, a secondo della
loro prevedibilità. Questa distinzione è fondamentale perché differenzia anche la tipologia di intervento che poi
noi mettiamo in atto in situazione di crisi; sono fondamentali per stabilire qual è l'azione migliore poi da fare.
La distinzione tra normativo e paranormativo dipende fondamentalmente dal grado di
prevedibilità dell'evento stesso.

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• Come eventi normativi noi definiamo quegli eventi prevedibili, anche se possono essere delle volte
rari, che sono attesi dagli individui che si aspettano certi eventi in determinati periodi della loro vita.
Pensiamo, per esempio, alle crisi evolutive, ai momenti di passaggio delle fasi del ciclo vitale della
famiglia. La crisi evolutiva è associata alle transizioni da uno stadio di sviluppo a un altro, come ad
esempio l’ingresso nella scuola, o nel mondo del lavoro, il fidanzamento o il matrimonio, la nascita del
primo figlio, il distacco di un figlio adolescente, il pensionamento, ecc. L'orientamento rispetto
all'intervento è un orientamento di tipo preventivo (di prevenzione primaria), anche se poi vedremo che
ci sono degli interventi di prevenzione secondaria, soprattutto per ridurre i danni poi provocati
dall'evento stesso.
• Per quanto riguarda invece gli eventi paranormativi, troviamo tutti quegli eventi assolutamente rari,
inattesi, accidentali, inaspettati, da parte dell'ambiente, non solo quindi morti violente fino ad arrivare
alle vere e proprie catastrofi. Quindi ad esempio, le morti a causa di incidenti o per malattie improvvise,
invalidità, rapine o sequestri, gravidanze indesiderate, licenziamenti, disastri ambientali, ecc.
Distinguiamo due tipi principali di eventiparanormativi:
o Gli eventi paranormativi naturali, ambientali;
o Gli eventi paranormativi tecnologici.
Gli eventi naturali sono appunto i cataclismi, il terremoto, ecc., sono eventi in cui non c'è da parte del soggetto
la percezione del controllo dell'evento stesso. Invece gli eventi paranormativi tecnologici, i disastri
ambientali, per esempio, sono quelli su cui l'uomo stesso agisce e si differenzia dal primo perché qui c'è una
perdita del controllo sugli eventi stessi. Questi eventi sono così imprevedibili, che la crisi viene chiamata “crisi
situazionale”.
Holmes e Rahe esaminano le connessioni tra la qualità e la frequenza dei cambiamenti esistenziali e il rischio
o la probabilità di ammalarsi. Rispetto agli eventi critici dobbiamo prendere inconsiderazione anche il fatto che
più l'evento è critico per la persona e più comporta il rischio di malattia della persona stessa. Tra
gli eventi più critici e le situazioni più stressanti sono da citare sicuramente:

• Le morti, in particolare la morte di un coniuge;


• Il divorzio;
• La carcerazione;
• La perdita del lavoro.
Il divorzio e la morte hanno a che fare con la separazione dagli affetti, sono critici perché viene meno tutta quella
parte di sostegno emotivo che la famiglia, il coniuge, il partner in qualche modo comporta, e portano ad una
situazione di crisi, per esempio, economica della persona stessa, pensiamo soltanto alle situazioni dei padri
divorziati che si trovano in una situazione critica rispetto alla necessità di trovare un alloggio e che sono spesso
portati a ritornare all'interno della loro famiglia di origine, quindi vissuta come una sorta di fallimento, di
regressione e in più all'interno anche di una situazione di difficoltà economica, con gli alimenti da pagare, ecc.
Nel divorzio vi è un aumento significativo di problemi di salute, incidenti stradali o comportamenti a rischio tra
i coniugi nel semestre che segue la separazione. La carcerazione è un momento in cui la persona perde
assolutamente il contatto con la propria famiglia, le proprie possibilità di sostegno esterne ed entraall'interno
di quel circuito della situazione sociale rispetto alla possibilità del soggetto di svolgere le sue azioni, secondo la
propria autonomia e libertà di scelta. A queste possiamo aggiungere naturalmente l'occupazione, la
disoccupazione, con tutte le conseguenze sul livello più personale di difficoltà economica, di perdita di status, di
ruolo ecc.
Caplan definisce l’evoluzione della crisi e distingue quattro stadi fondamentali:
1. Un iniziale aumento di tensione in seguito all’influenza di un evento esterno;
2. Vi è un aumento di tensione, di sensazione di inefficacia e di turbamento, come un’inadeguatezza della
modalità di affrontare la situazione e l’influenza continuativadell’evento;
3. La mobilitazione di altre risorse personali e/o ambientali;
4. La tensione cresce fino a creare una crisi vera e propria, se nessuna strategia ha successo.

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L'aumento di tensione si accompagna a una possibilità di messa in pratica delle proprie strategie di coping, e
quindi di problem solving. Se queste strategie sono inadeguate, la tensione si accompagna ad una
sensazione di inefficacia, che comporta la mobilitazione di altre energie o risorse che, se
funzionali, portano addirittura ad una situazione di miglioramento, di sensazione di acquisizione di
empowerment, la persona si sente più competente e più capace, ha acquisito delle nuove capacità di problem
solving, ha risolto la situazione, quindi si sente efficace, raggiunge un miglioramento, rispetto la percezione di
sé, oppure, se queste strategie continuano ad essere inefficaci, la tensione continua a crescere fino
alla crisi vera e propria e ad un momento in cui la persona perde le speranze rispetto alla possibilità di
successo. Però la situazione di crisi tende a diminuire dopo alcune settimane, in quanto vengono trovati una
risposta e un nuovo equilibrio. La crisi è uno stato acuto che si risolve generalmente entro 4-6
settimane. Comunque la fase di turbamento e di sconvolgimento emotivo, cognitivo e psicologico ha una fine,
e comporta un nuovo status.
Le persone non tollerano alti livelli di disorganizzazione per lunghi periodi di tempo, questo perché l’organismo
non tollera per molto tempo la situazione di crisi. Dopo un certo periodo, l’instabilità lascia il posto a un nuovo
equilibrio più o meno positivo. Da ciò si deduce che il tempo utile per intervenire in modo adeguato è
limitato.
Un concetto molto simile connesso a quello di crisi è assolutamente quello dello stress. Lo stress secondo Selye
è:
“una reazione non specifica, esibita dall’individuo, quando deve affrontare un’esigenza o adattarsi ad una
novità”.
È una situazione, una risposta aspecifica dell'individuo, rispetto ad una richiesta ambientale, ad
una situazione che arriva dall'esterno (per risposta aspecifica intendiamo uno stato di attivazione del
sistema nervoso vegetativo e del sistema neuroendocrino, e quindi del nostro sistema cerebrale, che interviene
di fronte a stimoli stressanti di diversa natura, e quindi attraverso una modificazione degli stati fisiologici della
persona stessa). Lo stress è una reazione psicologica adattiva caratteristica della vita. Di per sé lo stress, così
come la crisi, non è una reazione psicopatologica, ma è un'attivazione dell'individuo, rispetto ad un
evento che capita e che porta ad un nuovo adattamento, ad un nuovo equilibrio. Molto simile quindi
alla concezione di crisi, tanto che possiamo definire la crisi come quella fase, quella condizione di
disorganizzazione psicologica, che subentra come conseguenza di stress acuti o di una serie di
stressmeno intensi, ma frequenti e ripetuti. In realtà più che stress parliamo di stressor, cioè degli
eventi stressanti, perché stress è la reazione, la risposta dell'individuo; l'evento che produce stress lo
identifichiamo come stressor, che sono acuti o meno intensi, però durano di più. In questo senso distinguiamo
anche una distress, collegato a un turbamento, a una fase di difficoltà dell'individuo e collegato ad un'intensità,
ad una durata, ad una frequenza molto importante dell'evento stressante, ed è uno stress invece che ha a che
fare con la mobilitazione delle risorse, delle energie della persona, rispetto a stressor meno intensi o comunque
di una frequenza limitata nel tempo.
Le fasi di reazione fisiologica allo stress sono molto simili alle fasi rispetto all'emersione della crisi:
1. Vi è una fase di reazione di allarme: che comprende lo shock iniziale di fronte all’evento stressante
e la successiva mobilitazione dei meccanismi fisici di difesa. Arrivano la richiesta ambientale e l'evento
stressor, e si attivano tutte le energie fisiologiche e difensive da parte dell’individuo: aumenta la
pressione arteriosa, il battito cardiaco, il tono muscolare, c'è una produzione maggiore degli ormoni
stress correlati del cortisolo, ecc.;
2. Vi è la fase della resistenza: in cui si tenta di ristabilire un nuovo equilibrio e un nuovo adattamento
alla situazione stressante. C'è una normalizzazione degli indici fisiologici perché l'individuo si sposta
verso una fase di equilibrio, inizia ad adattarsi alla nuova situazione;
3. Infine vi è la fase dell’esaurimento: in cui l’individuo è sopraffatto da stress ripetuti e/o cronici e non
è più in grado di reagire con meccanismi di allarme;
Diversi autori, che si sono occupati del tema della “crisi”, hanno spesso dato letture che tendevano a privilegiare
o le dimensioni individuali oppure quelle ambientali. Quello di cui invece parliamo noi oggi è quello che è più
congruo, all'ottica epistemologica della psicologia di comunità, che è un modello integrato sulla crisi. Un

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modello integrato che è portato avanti da Lazarus, ma anche dalla Dohrenwend, che propone un modello nel
quale integra i diversi elementi individuali e contestuali e ipotizza un processo di attivazione e
risoluzione della crisi multi-determinato e multidimensionale.
Parla della crisi come di una situazione multidimensionale e multi-determinata, cioè concorrono allacrisi sia
fattori individuali che fattori contestuali. I fattori individuali e i fattori contestuali concorrono sia
l'attivazione della crisi stessa, cioè un individuo è più vulnerabile verso uno o l'altro degli eventi stressanti
ecc., sia alla risoluzione della crisi stessa. Quali sono questi fattori psicologici e i fattori sociali di cui parla
Dohrenwend? Parliamo di fattori psicologici come di mediatori psicologici tra la crisi e la sua risoluzione,
e i mediatori psicologici sono innanzitutto:

• Le caratteristiche di personalità, psicologiche, per esempio, l'introversione, la difficoltà alla


socializzazione, la chiusura su sé stessi, il nevroticismo, la tendenza ansiosa o al turbamento
emozionale;
• Il livello di istruzione;
• Il sistema dei valori;
• Le aspirazioni;
• Le abilità di coping (sono quelle strategie comportamentali e mentali che la persona mette in atto
rispetto ad un evento esterno);
• L'orientamento del locus of control (è la concezione per cui io mi sento capace di attivare un controllo
sugli eventi, e quindi di valutare gli eventi come qualcosa che dipendono dal mio comportamento, è un
buon mediatore rispetto alla situazione di crisi);
• Il grado di empowerment: quindi di potere, di essere in grado di capacità di empowerment.
I mediatori situazionali invece hanno a che fare assolutamente con:

• La fase di ciclo vitale che la persona si trova a vivere, e quindi uno stesso evento crisi può avere delle
ricadute, delle ripercussioni, delle conseguenze sulla vita e sulla qualità della vita della persona a
seconda dei momenti storici diversi in cui capita;
• Le caratteristiche della rete sociale del soggetto in difficoltà: le caratteristiche della rete sociale
all'interno della quale l'individuo si trova, che è diversa o funzionale a seconda dell'evento critico;
• Le risorse del contesto: le fonti di sostegno formale e informale realmente presenti nella dimensione
spazio-temporale della persona (e questo fattore si interseca col precedente).
L’evoluzione della crisi può portare a tre esiti diversi, e quindi:

• Un ripristino della situazione precedente;


• Una crescita psicologica;
• Una reazione disfunzionale persistente, cioè una situazione di patologia.
È importante in questo senso intervenire soprattutto in maniera preventiva sulle possibili situazioni di crisi,
individuando gruppi a rischio e rafforzando sia i mediatori psicologici, che quelli situazionali, e andando ad
agire sulla popolazione che può essere a rischio e quindi apportando una modifica, un rafforzamento di quelle
che sono le capacità di mediazione e i mediatori situazionali e anche quelli psicologici.
A seconda del tipo di crisi che andiamo ad affrontare, cioè se normativa o para-normativa, noi metteremo in
campo modalità di intervento diverse. La prima modalità d’intervento riguarda gliinterventi su crisi
imprevedibili, che sono:
• Gli interventi di primo e di secondo ordine, secondo Slaikeu;
• La psicologia dell'emergenza;
• Le azioni di cooperative sociali, e quindi le attività da parte di azioni delle cooperative sociali;
• Gli interventi di prevenzione della cronicizzazione o dei danni di sintomatologie post-traumatiche, e
quindi gli interventi di riduzione del danno;
• Gli interventi di gruppo, e quindi gli interventi che utilizzano come strumento il gruppo;
• Un intervento molto attivo in psicologia di comunità, che è quello dell'analisi di comunità.

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Invece la seconda modalità d’intervento riguarda gli interventi su crisi prevedibili, e comprende:

• Il preparare i gruppi o gli individui ad affrontare gli eventi stressanti eccezionali, inevitabili e
prevedibili, e quindi alla possibilità di affrontare la crisi
• Ridurre l'impatto negativo delle principali transizioni di vita e di crisi evolutive, e delle situazioni
critiche;
• Potenziare una serie di competenze: cioè potenziare proprio i mediatori psicologici;
• Potenziare, attraverso la loro attività, i volontari, che lavorano all'interno di associazioni, cooperative,
ecc.
Rispetto alla crisi imprevedibile, Slaikeu distingue gli interventi di primo ordine e interventi di
secondo ordine. L'intervento di primo ordine comprende interventi di primo aiuto o di pronto soccorso,
offerti nelle ore immediatamente successive alla manifestazione della crisi, che avviene alla popolazione e
all'individuo che ha subito l'evento. L’intervento di primo ordine ha soprattutto lo scopo di:

• Fornire sostegno, parliamo soprattutto di sostegno materiale;


• Ridurre la pericolosità, la sensazione di pericolosità dell'evento;
• Limitare l’insorgenza della confusione;
• Incanalare l’energia di chi è affetto da crisi, e quindi, l'ansia e tutti i sentimenti che emergono all'interno
della situazione di crisi imprevedibile.
Invece gli interventi di secondo ordine sono proprio quegli interventi che noi possiamo definire come una
terapia della crisi o intervento sulla crisi stessa. Quindi l’intervento di secondo ordine prevede una terapia della
crisi condotta dal personale specializzato e appartenente a servizi istituzionali, articolata in più incontri nell’arco
di alcune settimane e finalizzata a sostenere eorientare il cliente in crisi, e stimolare e facilitare una risoluzione
costruttiva della crisi.
Perciò la terapia della crisi o l’intervento sulla crisi in atto possiamo considerarli come una forma
di prevenzione secondaria, in quanto può limitare gli effetti degli eventi stressanti subito dopo
il loro impatto, proprio perché vanno a ridurre successivamente l'impatto di quelle che sono le conseguenze
secondarie dell'evento. Sono di solito interventi attuati da personale specializzato, che si articolano in più
incontri, all'interno delle settimane che seguono l'evento, e finalizzata sia a sostenere la persona che è entrata in
crisi sia a facilitare proprio la risoluzione della crisi stessa.
Un campo fondamentale su cui dobbiamo porre l'attenzione, soprattutto rispetto agli eventi catastrofici come il
terremoto in Abruzzo e altri, è quello della psicologia dell'emergenza. Secondo Cusano (2002):
“la finalità della psicologia dell'emergenza è quella di preservare l’equilibrio psichico delle vittime, dei
parenti e dei soccorritori dell’azione psico-lesiva degli eventi shock e poi di ripristinarlo se compromesso,
nonché quella di facilitare la riparazione del tessuto sociale lacerato, il recupero dell’identità e della
sicurezza collettiva e l’intervento degli organismi pubblici e privati. Il raggiungimento di queste finalità si
perviene attraverso lo studio, la prevenzione e il trattamento dei processi psichici e dei fenomeni sociali che
vengono a determinarsi nelle persone e nella collettività colpita dall’evento traumatico”.
La psicologia dell’emergenza identifica tutta una serie di interventi che hanno come scopo
quello di preservare l'equilibrio psichico delle persone sottoposte all'evento critico, e allo shock
che ne consegue. La finalità è di preservare o di ripristinare l'equilibrio psichico, quando questo è
compromesso, ma riparare anche il tessuto sociale stesso, quindi aumentare la possibilità di ricevere sostegno
sociale all'interno della propria comunità, vittima dell'evento catastrofico, per recuperare un senso di identità e
di sicurezza collettiva. Tutto questo avviene attraverso degli interventi di studio, di prevenzione e di cura, sia dei
processi psichici dell'individuo, sia dei processi sociali che si vengono a determinare all'interno di un evento
traumatico, in seguito ad un evento traumatico. Le caratteristiche dell'intervento sono specifiche perché sì, è un
intervento clinico, ma si differenzia dall'intervento clinico classico:

• Il focus è astorico, cioè non si va indietro nel tempo a scoprire le ragioni delle difficoltà dell'individuo
e scavando nella storia dell'individuo stesso, ma è assolutamente focalizzato sul qui ed ora, sulle

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caratteristiche della situazione che il soggetto sta vivendo e su cosa può impiegare, in termini di risorse,
di competenze e di potenzialità personali, per affrontare la situazione stessa;
• L'obiettivo è l’acquisizione di nuove capacità di risolvere quel problema specifico, e quindi
garantire alla persona di ripristinare il proprio senso di potere, di empowerment, di controllo della
gestione, di capacità di fare;
• Rispetto alla durata, è limitato nel tempo;
• Necessita di operatori attivi, direttivi e orientati al problema, soprattutto in una prima fase
seguente all'evento catastrofico in cui c'è una grande disorganizzazione nella persona e nella comunità.
Successivamente l'obiettivo primario dell'intervento della psicologia dell'emergenza o dell'intervento comunque
su crisi imprevedibile è quello di ritirarsi, lasciando spazio all'individuo e alla collettività per garantire un
percorso di autonomizzazione e di rendersi indipendenti dall'operatore stesso, e di riacquistare la propria
capacità e le proprie competenze.
Quindi ci sono due settori principali di intervento della psicologia dell’emergenza, da parte della psicologia di
comunità:
• Un intervento direttamente sul singolo: e quindi si occupa degli eventi traumatici che la persona
subisce direttamente, a cui si trova ad assistere o dei quali viene a conoscenza;
• Gli interventi sulla collettività: si occupa degli eventi traumatici che colpiscono intere comunità,
quindi rispetto a situazioni che coinvolgono tutti quanti.
In Italia ha una storia relativamente recente: il primo evento significativo della psicologia
dell’emergenza è stato quello della fondazione dell'Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia (ISIG), in
seguito proprio al terremoto in Friuli nel 1976. L’ISIG si occupò di mettere in atto, di attivare interventi:
• Sia di informazione: per rendere consapevoli le varie comunità dei rischi presenti nel loro territorio e
della possibilità di ridurli;
• Sia di formazione: cioè sulla possibilità di sviluppare nel sistema sociale quelle competenze che possono
rendere la persona e la collettività in grado di reagire adeguatamente al verificarsi di una situazione di
emergenza, e quindi ad un evento traumatico.
Tutti i quadri clinici, cioè tutte le risposte disadattive che chiedono di essere gestite, possono riguardare il
singolo, come la collettività, quando questa è sottoposta a stress dovuto a calamità naturali o eventi eccezionali.
Mauri vede uno stesso andamento tra la risposta disadattiva dell'individuo all'evento traumatico e la risposta
disadattiva della collettività all'evento traumatico, quindi li tratta allo stesso modo. Mauri distingue quattro
fasi dell'elaborazione emozionale, rispetto ad un evento traumatico, come può essere quello di una crisi
imprevedibile:

• La fase eroica: che comprende il momento del disastro o le ore immediatamente successive. Le
emozioni sono forti e le persone sono spinte a mettere in atto azioni eroiche, la persona è un
sopravvissuto ed è spinta a mettere in atto gesti eroici;
• La fase della luna di miele: che va da una settimana fino a due mesi dopo l'evento, i sopravvissuti
hanno una forte sensazione di aver condiviso con gli altri un’esperienza estremamente pericolosa, e di
essere riusciti a superarla, la persona si sente assolutamente fortunata, sopravvissuta, sente di aver
vissuto insieme al suo gruppo, e quindi si fonda una grande vicinanza a questo, un'esperienza fuori dal
comune, e quindi di avere qualcosa in più rispetto agli altri;
• La fase di disillusione: che va da due mesi a due anni dopo, è caratterizzata da rabbia, risentimento,
amarezza per la mancata soddisfazione delle promesse di aiuto e vi è la perdita del senso di “condivisione
comunitaria”, gli aiuti promessi dal governo o comunqueda altri enti vengono meno, e quindi ci si sente
abbandonati, traditi profondamente;
• La fase di ricostruzione: dopo due anni di solito, in cui c'è la consapevolezza di doversi far carico, in
prima persona, delle situazioni e della risoluzione dei propri problemi, e si rimette in atto tutto un
meccanismo di sviluppo, di potenziamento delle proprie decisioni.
Rispetto agli interventi promossi dalle cooperative sociali, possiamo, per esempio, riferirci alla gestione
dei Servizi di Pronto Intervento Sociale, e cioè gli SPIS, che sono interventi di solito che durano 24 ore su 24, i

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cittadini possono telefonare e parlare del proprio evento, e gli operatori definiscono direttamente la possibilità
di intervenire o meno. All'interno dell'equipe, è prevista una multidisciplinarietà, infatti le equipe funzionali
negli SPIS sono multi-professionali perché sono composte da:
• Lo psicologo;
• L'assistente sociale;
• L'educatore professionale;
• Due assistenti domiciliari.
Rispetto invece agli interventi di prevenzione della cronicizzazione o dei danni di sintomatologie post-
traumatiche in territori a rischio, e sulla riduzione del danno, possiamo avere:
• Interventi di pre-evento: dedicati a tutta la popolazione per informare su cosa è e come si struttura
una reazione d’ansia, e cosa è possibile fare per evitare comportamenti a rischio ad essa correlati. Quindi
vanno ad informare su quelle che possono essere le conseguenze, anche in termini psicopatologici,
rispetto ad un evento traumatico;
• Interventi di post-evento: attivati dopo che l’evento traumatico è accaduto. Si tratta di trattamenti
precoci e rapidi che, attraverso il gruppo, prevengono la strutturazione e la cronicizzazione di quadri
clinici trascurati, sottovalutati o male diagnosticati. Quindi sono interventi clinici veri e propri di post-
evento, necessari per evitare la cronicizzazione di un quadro psicopatologico.
Abbiamo anche gli interventi di gruppo che vengono utilizzati soprattutto sui bambini. Per esempio,
pensiamo agli interventi predisposti da cooperative, come Save the Children, in caso di crisi imprevedibili. Gli
strumenti più usati sono:

• Le interviste di gruppo, quindi all'interno del gruppo;


• La produzione di disegni.
L’intervista fornisce l’opportunità per i bambini di discutere del “loro racconto” in un setting di gruppo. Questo
facilita la partecipazione e l’ascolto delle strategie di coping degli altri bambini, così da ampliare la conoscenza
di alternative costruttive. Infatti è attraverso il confronto con gli altri bambini, e le tecniche proiettive, come
quella del disegno, che non solo si può esprimere più liberamente il proprio disagio, ma si possono anche
acquisire delle modalità di coping più funzionali.
L'analisi di comunità è uno degli strumenti privilegiati della nostra disciplina perché consente:

• Di conoscere in modo approfondito le realtà territoriali, le risorse, le carenze e i bisogni prevalenti;


• Facilitare la programmazione di interventi mirati;
• Stimolare la partecipazione delle persone e promuovere la competenza della comunità stessa
nell’identificare i propri bisogni;
• Attivare la costituzione di reti tra le agenzie formali e informali del territorio.
Quindi l’analisi di comunità consente non solo di conoscere le aree problema, ma anche le aree di risorse del
proprio territorio, ma di mettere in atto proprio degli interventi mirati, attraverso la partecipazione di tutta la
comunità, aumentando il senso di empowerment, e di competenza dellacomunità intera.
Rispetto invece alle crisi prevedibili, abbiamo degli interventi che vanno a preparare la persona o
il gruppo rispetto la possibilità di gestire e di affrontare gli eventi stressanti eccezionali,
inevitabili e prevedibili. L’obiettivo di quest’intervento è quello di incrementare la capacità del paziente di
affrontare la situazione. In ambito sanitario vengono attuati interventi in area chirurgica o oncologica per
facilitare la gestione dell’evento traumatico, favorire lo sviluppo nel paziente di un comportamento di
compliance, facilitare l’adattamento del malato e della sua rete familiare alla nuova condizione di vita in tutti i
suoi diversi stadi della malattia. Abbiamo poi degli interventi che riducono l'impatto negativo degli
eventi stressanti, come possono essere, per esempio:
• Gli eventi nella gravidanza;
• Tutta la preparazione al parto;
• L'esperienza scolastica, e quindi il passaggio da una fase scolastica all'altra.

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L’obiettivo è quello di mirare alla preparazione, sul piano delle informazioni e su quello delle emozioni
anticipabili, di eventi e crisi specifiche.
In più naturalmente ci sono tutti quegli interventi che sono volti ad aumentare le capacità e le
potenzialità del soggetto, e quindi i mediatori psicologici della persona, aumentare la capacità di problem
solving, l'intelligenza emotiva o l'aumento dell'autostima e del senso di auto efficacia. Quindi ci sono degli
interventi che hanno lo scopo di potenziare una serie di competenze, come:
• La creatività e la duttilità nell’assunzione dei ruoli;
• La definizione del problema, l’analisi e la scelta di alternative (e quindi la capacità di problem solving);
• L’aumento dell’autostima e del livello di aspirazione (e cioè l’achievement, e quindi la realizzazione);
• Lo sviluppo delle competenze emozionali (e quindi l’intelligenza emotiva);
• La capacità di mediazione.
Inoltre vi sono degli interventi volti anche a potenziare e a formare i volontari che si trovano molto spesso,
soprattutto con lo sviluppo del terzo settore a fronteggiare situazioni di crisi. Ci sono degli interventi che hanno
lo scopo di potenziare i volontari con l’obiettivo dell’azione di formazione perle persone che, senza le qualifiche
accademiche, si trovano in relazione con i membri della comunità in situazioni di crisi.

Lezione 14
La tossicodipendenza e le new addiction
La tossicodipendenza è un fenomeno complesso. Per iniziare a trattare questo tema utilizziamo i criteri
diagnostici, che sono presenti all'interno del manuale diagnostico dei disturbi di personalità più utilizzato, che
è il DSM. Partiamo dalla definizione datadall'interno del DSM IV per cui la tossicodipendenza è una modalità
patologica d’uso di una sostanza che porta ad una menomazione oppure a un disagio
clinicamente significativo, come manifestato da tre (o più) delle condizioni seguenti, che
ricorrono in qualunque momento dello stesso periodo di 12 mesi.
Affinché ci sia diagnosi di tossicodipendenza quindi è necessario ci sia:
• La tolleranza, e quindi l'individuo ha bisogno di assumere dosi sempre maggiori della sostanza (per
sostanza intendiamo sia una sostanza d'abuso, ma anche una tossina o un farmaco, per ricevere le stesse
situazioni di piacere);
• L'astinenza, che è un'astinenza psicologica, ma anche fisica, che incontriamo soprattutto
nell'astinenza da oppiacei;
• L’assunzione per tempi più lunghi e in quantità maggiori di quanto previsto dal soggetto;
• C’è il desiderio persistente o i tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso della
sostanza, e ci sono dei tentativi spesso infruttuosi di riduzione o comunque c'è la volontà di
interrompere l'uso della sostanza;
• Una gran quantità di tempo spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza, ad
assumerla o a riprendersi dai suoi effetti, e quindi una gran quantità di tempo è legata
all'acquisto o alla ricerca della sostanza stessa;
• C’è l’interruzione o la riduzione d’importanti attività sociali, lavorative o ricreative, c'è
anche una compromissione o addirittura, nei casi più gravi, un'interruzione di tutte le aree funzionali
del soggetto, da quella lavorativa, sociale, interpersonale;
• Un uso continuo della sostanza nonostante la consapevolezza di avere un problema
persistente o ricorrente, di natura fisica o psicologica: pensiamo, per esempio, ai danni da HIV,
in soggetti dipendenti dall'eroina, o alle compromissioni gastrointestinali di soggetti alcol dipendenti.

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Le sostanze che più di tutti conosciamo e sui quali ci vogliamo soffermare sono:

• L'oppio, e con tutti i suoi derivati: e quindi l’eroina e la morfina, che spesso provocano una sensazione
di benessere e di estraniazione dall’ambiente, dalla realtà, e una minore percezione del dolore, e quindi
un aumento di soglia rispetto alle sensazioni negative;
• L'alcool: che è una delle sostanze più utilizzate, anche perché più facilmente accessibili, soprattutto
nel nostro contesto, e in qualche modo più accettate culturalmente, produce una percezione irrealistica
delle proprie capacità e un aumento dell’aggressività, disinibisce e diminuisce l’autocontrollo;
• La cocaina: è una delle sostanze psicotrope per eccellenza, aumenta tutti gli stati percettivi della
persona, c'è un aumento della fiducia nelle proprie possibilità, nelle proprie capacità e una riduzione
della fatica fisica e mentale. Infatti vi è uno stato di euforia persistente, allegria, una sensazione di
potenza e di benessere, anche se noi sappiamo che i soggetti che utilizzano la cocaina per molto tempo,
poi questa fase di euforia si alterna anche a picchi molto depressivi, anche per l'emergenza di stati
paranoidi;
• Le anfetamine: dove spariscono le barriere e le inibizioni;
• L'extasy (MDMA): sono delle sostanze utilizzate soprattutto tra i giovani dove vi è un aumento
dell’autostima, della capacità empatica e delle capacità socializzanti, e quindi di comunicazione con gli
altri.
• Gli psicofarmaci, soprattutto le benzodiazepine (ansiolitici), che vengono spesso usati o da soli,
proprio per alleviare il proprio dolore interno o in concomitanza con sostanze, come l'eroina, per
aumentarne l'effetto, o la cocaina e l'alcol proprio per ridurre e smorzare l'effetto. Quindi gli
psicofarmaci, come le benzodiazepine, aumentano gli effetti sedativi degli oppioidi o controllano gli
effetti negativi della cocaina e dell’extasy;
• Gli allucinogeni: sono delle sostanze che producono un'alterazione della percezione e uno stato quasi
parallelo, a quello di vita normale, con visioni spesso paradisiache, ma anche negative;
• I cannabinoidi, come la marijuana e l’hashish: che sono molto utilizzati tra i giovani e aumentano
soprattutto alcune sensibilità sensoriali e vi è una percezione di una maggiore capacità di
socializzazione;
• Gli inalanti, come il popper: adesso meno usati, che potenzia il desiderio e le prestazioni sessuali, e
quindi sono collegati ad una maggiore prestazione sessuale;
• La nicotina e la caffeina: inserite come sostanze da dipendenza soprattutto nel DSM V.
Il DSM V apporta delle differenze rispetto al DSM IV:
• Viene eliminato il concetto di abuso e vengono considerati, su un continuum, tre livelli di dipendenza,
e cioè lieve, moderato e grave. Viene bandito il concetto di abuso (per cui era necessario si avesse
soltanto uno dei criteri che prima abbiamo elencato), mentre si parla solo e sempre di dipendenza
attraverso un continuum. Affinché ci sia diagnosi di dipendenzalieve è necessaria la presenza di almeno
di due o tre indici, che sono gli stessi rispetto a quelli che abbiamo elencato precedentemente, 4 o 5 per
la dipendenza moderata e oltre 6 per la dipendenza grave;
• Rispetto agli indici, i criteri sono 11 e l'unica differenza è che vengono eliminati i criteri di astinenza e
di tolleranza, considerati come conseguenza necessaria dell'assunzione della sostanza, e invece viene
introdotto il craving, e cioè l'impulso istantaneo e immediato verso la sostanza, la tendenza impulsiva
verso la sostanza;
• Vengono introdotte la Sindrome da astinenza da cannabinoidi, il Disturbo da uso di tabacco e il Disturbo
da astinenza da caffeina, di caffè. La Sindrome da astinenza da cannabinoidi insorge per un uso
prolungato degli stessi e comporta sia delle difficoltà psicologiche, e quindi come l'irritabilità, l'insonnia,
la perdita di peso, ecc., quanto anche fisiche, quindi cefalee, disturbi gastrointestinali, tremori, ecc. Il
Disturbo da uso di tabacco si è riscontrato rispetto all'uso della nicotina e del tabacco in generale, lo
stesso nucleo fondante delle dipendenze, quindi il soggetto è sempre portato ad un craving, quindi è
sempre portato allaricerca del tabacco, spesso ritiene di poter smettere o intende smettere o prova a
smettere,ma non ci riesce, quindi valgono anche per questa tipologia di dipendenza gli stessi criteri delle
dipendenze in generale. Invece il Disturbo da astinenza da caffeina si manifesta soprattutto intorno a

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24 ore dopo l'interruzione dell'assunzione della sostanza e presenta sempre gli stessi sintomi, sia
psicologici, che fisici-clinici, dell'astinenza da cannabinoidi;
• Una grande novità del DSM V è l'introduzione, nei disturbi da dipendenza e correlati all'uso delle
sostanze, del gioco d'azzardo: è l'unica dipendenza comportamentale che viene inserita ed è una novità
perché fino al DSM IV invece era considerata all'interno di un'altra categoria, quella del discontrollo
degli impulsi. Quindi finalmente anche le dipendenze comportamentali, e in questo caso il gioco
d'azzardo, sono considerate a tutti gli effetti delledipendenze.
I nuovi comportamenti relativi alla dipendenza vengono chiamati “new addictions”. Che cosa sono le
dipendenze comportamentali o le new addictions? Riguardano la dipendenza non più da una sostanza,
o dall'uso tossico di una sostanza, ma da un comportamento che è quotidiano e che
normalmente viene accettato, anzi in alcuni casi valorizzato dalla cultura stessa in cui viviamo;
è un uso patologico di quel comportamento in un soggetto che già di per sé presenta delle vulnerabilità. Per
poter riconoscere l'addiction è necessario valutare tre criteri, tre aspetti fondamentali, che sono:

• L'impulsività, c'è sempre la tentazione ad agire per ricercare quel comportamento, che è un
comportamento che produce piacere, attraverso un'alterazione dello stato di coscienza;
• La compulsione, e cioè la messa in atto di comportamenti o pensieri per ridurre l’ansia o allontanare
le sensazioni spiacevoli, che in qualche modo allontanano tutti i sentimenti spiacevoli, che sono collegati
all'uso della sostanza;
• L'ossessione, e cioè pensieri, immagini o impulsi intrusivi, che portano a rivivere mentalmente la
situazione di dipendenza, e cioè l'intrusività nella mente del soggetto di pensieri o impulsi, che in
qualche modo portano a rivivere la situazione di dipendenza.
Per esempio il gioco d’azzardo. Diciamo che il gioco è un comportamento accettato, normale, anzi aiuta i
processi di socializzazione, di sana competizione. Alcune ricerche valutano che l'80% della popolazione italiana,
almeno una volta, abbia giocato anche ai giochi d'azzardo, e quindi alle slot-machine o alle scommesse, ecc.
Diventa problematico quando il comportamento diviene rigido e ripetitivo. Avviene che nel momento in cui
gioco, ho la sensazione di allontanarmi da quelle che sono le preoccupazioni della vita quotidiana o che
fondamentalmente ha disilluso le mie aspettative, soprattutto in un momento critico, come quello che stiamo
vivendo, per entrare all'interno di un mondo di fantasia, in cui si sviluppa un po' un delirio di onnipotenza, e
comunque la possibilità di modificare le condizioni della propria vita, quindi c'è quasi una confusione tra
la realtà e la fantasia. Il gioco di azzardo in questo senso è ancora più pericoloso degli altri giochi perché in
questa tipologia il limite tra la fantasia le a realtà diventa ancora più labile, cioè davvero la scommessa diviene
un rifugio della mente che permette all'individuo di avere una fantasia illusoria, di modificare il corso della
propria vita, l'onnipotenza diventa ancora maggiore, e quindi diconseguenza ancora maggiore la delusione dopo,
quando questo non avviene, e cade in un circuitoche si rinforza vicendevolmente. Possiamo distinguere il gioco
d'azzardo in tre forme:
• Il gioco d’azzardo non problematico (ricreativo): e quindi un comportamento fisiologico che
porta alla socializzazione e alla sana competizione, per cui c'è un comportamento fisiologico che
permette di avvicinarsi agli altri, le spese sono comunque contenute;
• Il gioco d'azzardo problematico: è un comportamento che mette a rischio la salute psicofisica e
sociale dell’individuo, e quindi aumentano i rischi per la salute psicofisica del soggetto, il tempo
dedicato al gioco aumenta e aumentano anche le spese relative, collegate;
• Infine abbiamo il gioco d'azzardo patologico: dove il comportamento è intensivo, sono presenti il
craving e anche sentimenti di inquietudine, e ovviamente le spese elevate producono dei debiti. Nel
gioco d’azzardo patologico troviamo la stessa tipologia di caratteristiche che troviamo nelle dipendenze.
Non ci sono ad oggi ancora degli interventi specifici e specializzati per il gioco d'azzardo, né tantomeno un
intervento legislativo adeguato. Rispetto all'intervento e alla cura di questo tipo di patologie è l'importanza di
un intervento multimodale, e quindi multidisciplinare.
Altre new addictions che trattiamo sono quella della dipendenza da tecnologie della comunicazione, e
quindi l'uso ripetitivo e disfunzionale della macchina, del pc, della tv, di internet, e anche gli smartphone. Queste
dipendenze comportamentali implicano un'interazione disfunzionale uomo-macchina (come ad esempio la tv,

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il pc o internet), e presentano anche gli stessi aspetti nucleari della dipendenza da sostanze. Perciò la macchina
diviene dominante, l’interazione con la macchina diviene dominante, nella mente dell'individuo, tanto che c'è
una situazione davvero di irritabilità, di irrequietezza e di difficoltà nel momento in cui, per esempio, il soggetto
non è collegato in rete, e non sa quello che succede in rete. Molto forte è la compromissione spesso delle altre
aree funzionali del soggetto, soprattutto quella relazionale, interpersonale, e in mondo più vasto, sociale. L’uso
additivo è finalizzato a regolare gli stati emotividifficilmente gestibili in altro modo.
La stessa funzione avviene rispetto ai comportamenti sessuali nella dipendenza sessuale: il soggetto
continuamente mette in atto comportamenti, pensieri, fantasie o atti di tipo sessuale reiterativi, per regolare
uno stato emotivo interno negativo e per allontanare quelli che sono le emozioni spiacevoli e difficoltose, e
quindi questi pensieri o comportamenti funzionano proprio come mezzo per alleviare le emozioni negative. C'è
in questo caso una perdita del controllo e una compromissione del funzionamento sociale e lavorativo, e quindi
delle aree più funzionali.
Lo shopping compulsivo è ancora più vasto come problematica proprio perché è avvallata in qualche modo
dalla nostra cultura, la cultura del consumismo, ecc. S'identifica come quella patologia, per cui ci sono delle
preoccupazioni eccessive e un impulso eccessivo di cercare o acquistare beni, spesso inutili e superflui, e
comunque in modo superiore alle proprie capacità economiche. Questo porta il soggetto ad esporsi anche alla
possibilità di dover fare dei debiti, e spesso anche ad entrare all'interno di un circuito più delinquenziale. Oltre
allo shopping compulsivo normale oggi possiamo parlare anche dello “shopping compulsivo in rete”, dove
l'acquisto è ancorapiù facile e più diretto, e non si ha la necessità di rendere conto ai familiari o altro, si può
agire di nascosto, senza un giudizio esterno.
Ci soffermiamo, parlando di questo fenomeno, valutando quella che è la lettura clinica, perché lo
consideriamo un fenomeno complesso, per cui è difficilmente riscontrabile un'unica causa, un'unicaeziologia,
ma ne parliamo anche come un problema sociale, relazionale e sociale. Secondo Freud (1856-1939), la
tossicodipendenza è il risultato di una regressione e fissazione ai primi stadi dello sviluppo della persona, in
particolare alla fase orale. Inoltre vi è la connessione tra l’uso delle sostanze e le spinte narcisistico e gli stati
maniacali di tipo ossessivo, soprattutto nel suo libro “Lutto e melanconia” (1915). Successivamente parlerà di
spinte narcisistiche o di stati maniacali di tipo ossessivo. Quindi per Freud il problema è all'interno
dell'individuo, in relazione a dei conflitti intrapsichici.
Le successive teorizzazioni vanno invece più in una direzione relazionale. Olievenstein introduce la “fase
dello specchio” in cui, intorno ai 2 anni, il bambino esce dalla fase di simbiosi con la madre e si accorge
dell’esistenza di un sé separato. Egli lo vede come una difficoltà quindi rispetto al rispecchiamento con la madre.
Infatti la madre funziona come uno specchio: perciò se quest’opera di rispecchiamento funziona, il bambino lo
svilupperà in maniera sana, aumenta e cresce la propria identità, e la valutazione di quelle che le proprie
emozioni, i propri bisogni, ecc. Mentre se questo rispecchiamento non funziona si parla di “specchio infranto”
e quello che ne deriva è un senso di frammentazione del sé, e in questo senso il comportamento tossicomanico,
cioè la dipendenza, va ad agire producendo un'illusione rispetto a una possibilità di sentirsi intero.
Altri autori che mettono in evidenza le difficoltà di relazione con la madre, soprattutto di rispecchiamento e di
ridimensionamento, sono le tendenze idealizzanti del bambino per Kohut. Quando la relazione con la
madre presenta gravi carenze, l’Io del soggetto (anche nelle fasi successive dello sviluppo) rimane indebolito e
incapace di tollerare le frustrazioni. La ricerca della droga è funzionale all’allontanamento del senso di
inadeguatezza, che il soggetto continuamente prova, e alla percezione illusoria di serenità.
Invece secondo Kernberg, la tossicodipendenza è causata dal fallimento delle prime operazioni di distacco del
bambino dalla madre. Quindi diventa fondamentale questo rapporto di attaccamento: per esempio, un rapporto
di carenze in età infantile, all'interno della propria famiglia, produrrebbe una difficoltà di mentalizzare, e quindi
di riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri e su questo la tossicodipendenza entra come meccanismo
compensatorio per allontanare gli stati negativi della mente.

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Da un punto di vista ancora più relazionale, troviamo l'apporto degli autori sistemici, per cui ogni sintomo
permette l'omeostasi del sistema familiare. Nelle famiglie con un membro tossicodipendente vi sono
caratteristiche determinate:
• Una sovversione delle gerarchie tradizionali, con coalizioni tra i membri di diverse generazioni;
• Una madre iper-coinvolta, indulgente e fusionale con il ragazzo;
• Un padre periferico, assente emotivamente.
Un concetto molto importante è quello della “pseudo-individuazione” di Stanton (1979), per cui il ragazzo,
attraverso il comportamento della dipendenza, tossicomanico in questo caso, quasi vuole manifestare la propria
indipendenza e la propria autonomia con comportamenti oppositori, finendo però per rimanere dipendente non
solo dalla sostanza stessa, ma della famiglia stessa per le difficoltà economiche, di crescita e così via. I genitori
dei tossicodipendenti molto spesso hanno vissuto carenze e traumi minimizzati non elaborati, e questo non
permette l’adeguata assunzione del ruolo generazionale. Per cui gli adulti non riescono ad assolvere al loro
compito genitoriale nelmiglior modo possibile.
Rispetto alle classificazioni, una molto importante è quella operata da Cancrini, che distingue quattro tipi di
dipendenze, di tossicomanie:
• Una tossicomania traumatica: che nasce dopo un evento che ha una grande e forte risonanza
emotiva, un lutto, una separazione, ecc., per cui la dipendenza serve ad allontanare i pensieri negativi,
“non ci voglio pensare”, “questa cosa non esiste”;
• Una tossicomania di area nevrotica: che è una copertura di una nevrosi attuale, e si ha in soggetti
più predisposti a caratteristiche ansiose o con un forte turbamento emotivo;
• Le tossicomanie “di copertura” o “di compenso”: che copre i disturbi psichici più gravi, come ad
esempio le organizzazioni borderline di personalità, e in generale riguardano personalità con una
grande disfunzionalità;
• Le tossicomanie “nucleari”: in cui la motivazione all’abuso di sostanza va ricercata direttamente
nella struttura di personalità del tossicomane, come ad esempio i disturbi sociopatici. Quindi dobbiamo
ricercare la causa all'interno dei primi anni dell'infanzia dell'individuo, che cresce all'interno di famiglie
disorganizzate e multi-problematiche.
In tutti i casi comunque la tossicodipendenza, secondo quest’autore, è un tentativo disperato di auto-cura,
e questa è la base da cui poi deve partire l'intervento clinico.
Se allarghiamo il campo di osservazione, da un punto di vista più sociale, vediamo che sicuramente un basso
livello socioeconomico influisce molto sull'uso della sostanza o dei comportamenti dipendenti:
l'insicurezza, la crisi con le difficoltà economiche portano al gioco o alla dipendenza, ancora di più se parliamo
delle vecchie dipendenze, come quelle relative all'eroina ecc., estraniarsi da un mondo che non piace, dove ci
sono anche difficoltà socioeconomiche. Questo però comportaun circolo vizioso perché il comportamento
di dipendenza aumenta l'emarginazione, l'emarginazione fa sentire ancora di più lo svantaggio, e quindi si
ritorna all'uso o al comportamento, all'addiction, al punto di addiction.
Quindi possiamo parlare di un fenomeno complesso, multi-sfaccettato, con un insieme di concause,dobbiamo
parlare di cause che hanno a che fare con l'ambito più relazionale, e soprattutto sociale. Quindi da un punto di
vista sociale vi è:
• Un basso livello socio-economico;
• Dei comportamenti dipendenti;
• L’emarginazione.
L'Osservatorio Europeo delle Droghe parla di una vasta casistica di persone che hanno utilizzato sostanze di
dipendenza: almeno 85 milioni di europei adulti hanno usato, o consumato almeno una volta nel corso della
loro vita, sostanze illecite, tossiche. La maggior parte di questi, e cioè 77 milioni dichiara di aver consumato
cannabinoidi. Queste stime sono molto inferiori per coloro che dichiarano di aver consumato altre droghe.
Rispetto all'andamento generale negli ultimi anni si è visto un abbassamento dell'uso dell'eroina, soprattutto

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per via parenterale, quindi endovenosa, ecc., ma anche un aumento delle nuove droghe, in più dobbiamo
valutare anche un aumento dei comportamenti addicted.
Da un punto di vista della cura, come psicologi di comunità noi ci dobbiamo interrogare molto sul nostro
intervento, agire sia a livello di cura, ma anche di prevenzione e di riabilitazione. Per quanto
riguarda la cura, sicuramente non possiamo non prendere in considerazione:
• I gruppi di self-help, che permettono di avere una maggiore consapevolezza e una maggiore attenzione
sui rischi della dipendenza da sostanze, e di creare le basi per una maggiore responsabilizzazione dei
singoli. Permettono di uscire dall'isolamento con le funzioni socio-emotive e di helper, permettono di
sentire il sostegno, di sentirsi accettati, sentire il sostegno da parte dell'altro, venire informati su quelle
che sono le conseguenze dell'uso o le problematiche ad esso connesse, e fa sentire competenti nel
momento in cui, oltre a ricevere aiuto, riesco a darlo ad un'altra persona;
• Un altro intervento su cui ci dobbiamo soffermare è un intervento di rete: gli interventi di rete
permettono dei movimenti cognitivi e pragmatici, che producono una ridefinizione e il cambiamento
delle rappresentazioni di sé e degli altri. Questo è sicuramente un intervento molto importante, perché
gli interventi della rete producono una ridefinizione delle rappresentazioni mentali che si hanno di sé e
degli altri, come attori all'interno di questo processo.
Un altro campo fondamentale è quello della prevenzione. “Prevenire” per Ryan, per esempio, che nella sua
opera "Blaming the Victim" parla in modo approfondito di questo tema, significa non solo agire sull'individuo
ma andare a modificare tutte quelle componenti sociali che vittimizzano il portatore del problema, in qualche
modo il soggetto, cambiando quelle che sono anche le situazioniche comportano un'etichettamento, e rinforzano
il comportamento patologico.
Rappaport individua nell’empowerment lo strumento principale della prevenzione. Viene fornita una
possibilità di cambiamento, a partire dal potenziamento dei propri punti di forza, e quindi dal “learned
helplessness” (impotenza appresa) a “learned helpfullness” (speranza appresa), per cui si passa da una
condizione di impotenza appresa a una condizione di speranza appresa. All'interno di questa visione ciò che
viene messo in evidenza è che per agire a un livello preventivo bisogna agire sull’empowerment, anche questo è
un concetto studiato dalla psicologia di comunità, quindi agire sul cambiamento e sul potenziamento di quelli
che sono i propri punti di forza dell'individuo e della collettività.
In questo senso, la prevenzione deve diventare un vero e proprio “metodo d’azione”, che deve
promuovere quelle che sono le capacità e le competenze sociali ed individuali, le competenze degli individui e
dei gruppi, per incrementare il benessere. Inoltre deve agire, secondo Zani e Palmonari, secondo due
orientamenti fondamentali:
• Una prevenzione reattiva: che è rivolta ad incrementare le capacità del singolo di far fronte alle
situazioni di stress (come le strategie educative e formative e le promozioni di capacità di coping);
• Una prevenzione proattiva: che va ad agire direttamente sul territorio eliminando quelli che sono i
fattori ambientali di stress (come ad esempio i programmi di sviluppo del sostegno sociale, le azioni
sociali e politiche e le ricerche-intervento), che possono contribuire all'emergenza del fenomeno delle
dipendenze.
Gli obiettivi della prevenzione sono:
• Costruire minoranze attive e leadership, che riescano a ridurre la diffusione;
• L’attivazione di interventi efficaci in fase precoce;
• La riduzione dei danni apportati dal fenomeno problematico;
• L’attivazione di una politica che agisca in maniera coerente per raggiungere questi obiettivi.
Abbiamo due tipi di interventi di prevenzione primaria:
• Programmi di prevenzione nelle scuole, soprattutto attraverso programmi di "Peer Education":
che stimolano direttamente una partecipazione attiva da parte dei ragazzi, presentando e promuovendo
anche stili di vita sani e modelli di gratificazione alternativi,stili di vita diversi e modalità diverse di

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gratificazione, diverse rispetto a quello che può essere l'uso delle sostanze o comportamenti a rischio,
come quelli del gioco;
• Gli interventi di riduzione del danno: questo è il secondo il tipo di intervento, riconosciuto e
avvallato soprattutto dagli anni ‘80 in poi, che prende in considerazione il fatto che i danni collegati
all'uso delle sostanze non sono solo danni fisici, come può essere la compromissione per HIV e
sieropositività per l'uso delle siringhe, ma sono anche danni relazionali, interpersonali, rispetto alla
compromissione delle relazioni familiari o del contesto più vicino, ma anche lavorativi. Di conseguenza
sono danni che contagiano la comunità intera.
Gli obiettivi della riduzione del danno sono:
• Limitare le conseguenze sociali correlate all’uso di droghe;
• Salvaguardare la salute dei soggetti, e quindi ridurre il fenomeno dell’overdose;
• Realizzare il più ampio contatto possibile tra gli operatori sanitari e le relative strutture con la
popolazione dei tossicodipendenti;
• Raggiungere un gran numero di potenziali pazienti;
• Avanzare delle proposte in una prospettiva di un eventuale coinvolgimento in percorsi terapeutici,
attraverso l’offerta di alternative credibili e accettabili.
Quindi attuare una prevenzione nell'ottica della riduzione del danno significa: limitare le conseguenze sociali
legate all'abuso, salvaguardando, per esempio, anche la salute del soggetto, prevenire episodi di overdose o
l'aumento delle patologie correlate. In questosenso pensiamo alla distribuzione delle siringhe o dei preservativi,
che avvengono all'interno dei centri diurni per persone dipendenti.
A cosa serve la riduzione del danno? La riduzione del danno serve anche ad aumentare la possibilità
di entrare in contatto con soggetti problematici: molto spesso infatti il dipendente o non
riconosce, anche rispetto alle new addictions, la propria dipendenza o la sottovaluta o
comunque non si fida, non ha necessità, non ha desiderio reale (o non ci riesce proprio a causa della
dipendenza) ad interrompere quello che è il comportamento patologico. Quindi avvicinare l'utente
lavorando nella riduzione del danno significa anche agganciare e aumentare l'alleanza con lo stesso, aumentare
la probabilità che venga inserito e che decida di inserirsi anche all'interno di un contesto di cura a 360°. È
importante che nei percorsi terapeutici, ci siano delle alternative credibili e accettabili per la persona stessa.
Nella riduzione del danno, i detenuti e gli internati tossicodipendenti rappresentano circa il 30% della
popolazione carceraria. Quindi tutto questo deve avvenire anche nell'istituzione totale, e all'interno degli istituti
penitenziari. Secondo la legge 230 del 1999, i detenuti e gli internati tossicodipendenti hanno diritto, al pari dei
cittadini in stato di libertà, all’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione,
previste nei livelli essenziali e uniformi di assistenza. Fondamentalmente quello che si pensa è che il soggetto
sia sì, un soggetto privato della propria libertà, ma non privato degli altri diritti di cura, come tutti gli altri
cittadini.
Un altro aspetto che lo psicologo di comunità deve valutare è quello del reinserimento e dell'inclusione
sociale, da parte del soggetto, è favorire progetti di riabilitazione, attraverso progetti di formazione, formazione
on the job e l'inserimento lavorativo. Per fare questo, affinché questi interventi siano davvero strategici ed
efficaci, è necessario lavorare sulla rete di collaborazione e di coordinazione tra le varie strutture e gli enti
sanitari presenti sul territorio, partendo dagli enti che si occupano della formazione fino a quelli che si occupano
della cura e dellariabilitazione a quelli presenti per l'orientamento lavorativo. Lo psicologo può intervenire:

• Costruendo un sistema di valutazione comune sulla formazione professionale e sull’orientamento


finalizzato all’inserimento lavorativo;
• Costruendo sistemi di controllo delle immagini che gli utenti hanno dei servizi.
Quindi lo scopo della riabilitazione e del reinserimento è quello di favorire progetti di formazione
edi inserimento lavorativo. Lo psicologo:
• Può limitare i processi di distorsione, presenti nell’attuazione delle diverse strategie;
• Può tenere nella giusta considerazione l’influenza del contesto in cui l’intervento è stato effettuato;
• Può evitare la natura auto-confermativa delle misure di valutazione dei programmi nel sociale;

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• Promuove una modalità di lavoro interdisciplinare, come il lavoro di gruppo e il gruppo di lavoro.
Il lavoro che lo psicologo fa nel campo delle tossicodipendenze è quello della valutazione degli interventi e delle
strategie messe in atto: limitare quelli che sono gli errori collegati al trattamento stesso o all'intervento più in
generale, e significa anche prendere in considerazione l'influenza del contesto. Noi sappiamo che la psicologia
di comunità ha come oggetto di studio la relazione tra il soggetto e il contesto e l'ambiente, e la valutazione è
finalizzata a diminuire la tendenza auto-confermativa, autoreferenziale delle strutture, e infine aumentare
soprattutto la possibilità di mettere in atto un intervento di tipo multidisciplinare.
La sindrome del burnout colpisce particolarmente gli operatori dell'"helping profession", che implicano un
intenso coinvolgimento emotivo. L’interazione tra operatore e utente nasce proprio da un reale problema di
quest’ultimo, questo perché all'interno di questa tipologia di lavoro l'incontro con l'altro parte sempre da un
disagio, da una difficoltà, da un problema di quest'ultimo, questo carica di ansia e di preoccupazione anche
l'operatore, quando la soluzione non è immediata o facilmente risolvibile, allora la frustrazione aumenta, lo
stress aumenta e si può incorrere in questa fase. Inoltre ci sono situazioni che per l’operatore possono essere
frustranti, logorarlo emotivamente e portarlo quindi al burnout. L'interesse degli studiosi nasce intorno agli
anni ‘70 ed è ancora molto vivo, anche perché è sempre più evidente e presente, all'interno di varie tipologie di
lavoro. Etimologicamente il termine deriva da "to burn" e significa esaurirsi e il suo participio “burnout”, può
essere tradotto come bruciato. Spesso infatti in soggetti molto stressati troviamo l'esclamazione “sono esaurito!”,
“sono scoppiato!”. Quindi la prima cosa che dobbiamo fare, quando parliamo di burn-out, è prendere in
considerazione la relazione con l'evento stressante. Per stress noi intendiamo una risposta
biologica specifica, da parte dell'organismo, rispetto ad un evento o stessor ambientale.
Cosa accade più nello specifico? Se parliamo, per esempio, della sindrome generale di adattamento,
all'interno della quale si identifica il movimento dell'individuo nei confronti dello stress, abbiamo:
1. Una prima fase di allarme, quindi incontriamo lo stressor e questo aumenta e mobilita tutte quelle
che sono le nostre strategie difensive, quindi fisiologiche soprattutto: aumenta la pressione cardiaca,
aumenta il tono muscolare, c'è una maggiore produzione di ormoni correlati allo stress, e il cortisolo,
ecc. Quindi l'organismo si attiva di fronte lo stress.
2. In una seconda fase di resistenza: l’organismo si adatta alla nuova situazione, si normalizzano gli
indici fisiologici, alla ricerca di un nuovo equilibrio;
3. Se però lo stress aumenta, l'evento stressante aumenta per tempo o per intensità,
l'individuo, e l'organismo di conseguenza, cede rispetto alle sue capacità di difendersi e
perde assolutamente tutte le sue energie. Questa fase è tipica delle persone che incorrono in una
situazione di burn-out. L'emozione prevalente è quella di non avere proprio più energie, di non poter
più agire, di non poter più imporre la propria competenza, la propria professionalità, all'interno del
lavoro, e anche al di fuori del lavoro stesso, è una condizione che entra anche negli altri contesti di vita
e li influenza.
Se parliamo delle definizioni e delle teorizzazioni dello stress, la prima, quella di Freudenberger (1927-1999),
che appunto inserisce la sindrome di burn-out, all'interno anche dellescienze sociali, ne parla proprio come una
forma di stress cronico. Questo stress cronico sembra essere in relazione con un elevato
investimento emotivo, rispetto a un’attività, da parte del soggetto ed è influenzato dalla
mancanza di riconoscimento sociale e di gratificazione, da parte della struttura, rispetto al
lavoro svolto.
Anche Maslach, che è una delle principali teoriche del burnout, parla di una situazione in cui si passa da
un sovrainvestimento emotivo all'esaurimento emotivo stesso da parte del soggetto.
Se prendiamo però la definizione data da Cariota Ferrara e da La Barbera (2006), sostengono che il
burnout:
“è una particolare tipologia di stress cronico, legata principalmente alle Helping Professions, che comporta
uno stato di sofferenza psicofisica del soggetto, unitamente a sentimenti di inadeguatezza professionale,
mancata gratificazione personale, demotivazione, disinvestimento,risentimento e cinismo rispetto al lavoro
e all’utenza”.

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La Maslach, di cui accennavamo poco fa, propone proprio un modello con tre componenti
fondamentali, queste tre componenti non sono distinte tra di loro, non avvengono l'una senza l'altra, ma
spesso si confondono, però sono sempre presenti quando il soggetto è sottoposto ad una situazione di stress che
lo porta ad esperire il burnout:
• Il primo vissuto fondamentale è quello dell'esaurimento emotivo: e cioè la sensazione
assoluta di sentirsi svuotati, inariditi, impoveriti professionalmente e personalmente, e quindi di non
riuscire più a provare né emozioni né competenze nei confronti dell'utenza. C'è una perdita generale
dell'energia dell'organismo, per cui si pensa di non poter essere piùattivi in nessun modo;
• Collegato a questo è il sentimento di depersonalizzazione: e cioè lo sviluppo di rapporti
lavorativi freddi e impersonali, "non mi sento più capace”, “mi ritiro", significa che noninvestirò più nel
rapporto con l'altro, per cui i rapporti diventeranno freddi, distanti e caratterizzati da un forte cinismo,
soprattutto nei confronti dell'utenza;
• Tutto questo è collegato ad una ridotta realizzazione personale: e cioè vi è il decremento
dell’autostima e della gratificazione personale. Quindi il soggetto perde la possibilità di avere fiducia
nelle proprie capacità. Il livello di autostima e di gratificazione personale scema lasciando uno stato
assolutamente depressivo. Cherniss parla anche di “una risposta di coping disadattivo rispetto ad uno
stressor”. Che cosa avviene rispetto all'evento stressante? In questo caso, secondo Cherniss, lo
stressor è una discrepanza tra le risorse personali, di cui il soggetto dispone, e le richieste
ambientali. Rispetto a questo, la modalità di coping che noi sappiamo essere tutte quelle strategie
mentali e comportamentali che l'individuo attua, rispetto ad un evento esterno, ad una richiesta
ambientale o a uno stressor, ecc., è in questo caso disadattiva. Essendoci una risposta disadattiva,
aumenta lo stress che aumenta la risposta disadattiva, quindi è un circolo che si auto-
fomenta reciprocamente.
Le modalità di coping adottate sono orientate all’evitamento e inducono il professionista ad affrontare la
situazione stressante in maniera passiva. Sono delle modalità di fronteggiamento, evidentemente disadattive,
agiscono sul senso di auto-realizzazione e favoriscono l’istaurarsi del circolo vizioso, tipico delle situazioni di
stress cronico.
Secondo Pines, il burn-out è direttamente proporzionale all’aspettativa cognitivo-emotiva
dell’operatore di dare un senso alla propria vita tramite il lavoro. Pines ne parla più da un punto di
vista cognitivo ed emotivo, come una condizione che è direttamente proporzionale e collegata all'investimento
emotivo-cognitivo che la persona ha avuto all'inizio, nell'inserimento, nella fase dell'inserimento nel proprio
lavoro. Prima di parlare delle fasi in cui si sviluppa questa sindrome parliamo anche di diverse tipologie.
Farber propone tre diverse tipologie del burn-out, e cioè:
• Il burnout classico (o frenetico): che un po’ quello di cui stiamo parlando, in cui il soggetto, di fronte
allo stress, aumenta la sua attività lavorativa fino all’esaurimento psicofisico. La persona aumenta
l'impegno, investe ancora di più rispetto a quelle che sono le proprie energie e rispetto anche al
riconoscimento esterno, fino ad arrivare all'esaurimento;
• Il burnout da sotto-stimolazione (underchallanged): in cui il soggetto è demotivato e
insoddisfatto, a causa della monotonia e della ripetitività del lavoro. Il lavoro è così tanto demotivante,
ripetitivo, sempre uguale e insoddisfacente per l'individuo, che il soggetto appunto è demotivato, non
investe proprio nel lavoro, si ritira a prescindere;
• Il burnout da scarsa stimolazione (wornout): il soggetto ritiene il proprio lavoro troppo
stressante, rispetto al riconoscimento che lo stesso comporta, e tenta di prevenire l’esaurimento,
riducendo il proprio ritmo lavorativo. Quindi il soggetto percepisce che c'è una discrepanza tra
l'impegno necessario per il lavoro, quindi il lavoro è troppo stressante, rispetto alla gratificazione che
ne deriva.
Rispetto all’insorgenza della sindrome del burnout distinguiamo quattro fasi fondamentali:
• La prima fase è quella dell'entusiasmo idealistico: vi è l’idealizzazione della scelta professionale. Le
motivazioni sono accompagnate da aspettative di “onnipotenza”, di soluzioni semplici e di successo

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generalizzato e immediato. Quindi questa fase è tipica delle persone che iniziano, si avvicinano a lavori
basati sulla relazione d'aiuto, in cui il soggetto è assolutamente portato ad investire, possiamo anche
dire a una vocazione. Non c'è fondamentalmente una valutazione realistica di quelle che possono essere
le difficoltà presenti nella soluzione del problema portato dall'utente. Si prende in considerazione
soltanto il proprio investimento, il proprio desiderio di aiutare e di stare vicino all'altro e di risolvere la
situazione problematica, e questo comporta un errore di valutazione, che poi aumenta la disillusione, e
quindi anche la frustrazione successiva. Il lavoro diventa, e tutto quello che ne consegue o che lo
circonda, assolutamente prioritario, fonte di maggiore soddisfazione possibile. Questo è molto
frequente anche in ambito clinico, per esempio, il paziente riporta dei vissuti che risuonano nel nostro
intimo, noi ci sentiamo troppo vicini a lui, c'è quasi una commistione di quelli che sono i propri bisogni
con i bisogni dell'altro. Quindi si perdono i propri confini, è una situazione che definiremmo al limite
psicotico, rispetto a questo vissuto;
• La seconda fase è quella della stagnazione: in cui l’operatore passa da un super investimento iniziale
ad un graduale disimpegno, dove il sentimento di profonda delusione determina una chiusura verso
l’ambiente di lavoro e verso i colleghi; il lavoro non è più visto come così tanto gratificante, come
possibilità di soddisfare tutti i propri bisogni, perde d'importanza, e quindi nascono i primi segni di
irrequietezza, di irritabilità, rispetto all'utenza e rispetto ai propri colleghi, o semplicemente di
stanchezza;
• La terza fase è quella della frustrazione: è la fase più centrale e più critica di tutto il processo.
L’operatore crede di non essere più in grado di aiutare nessuno. I sentimenti predominanti sono la
frustrazione e il fallimento. Vi è un dubbio sul significato stesso del proprio lavoro e sul proprio valore.
Inoltre vi è un vissuto di vergogna e di impotenza per non essere all’altezza del compito. Le emozioni
principali sono quelle della frustrazione, “non sono più di aiuto a nessuno”, “non posso aiutare
nessuno”, “non posso più fare il miolavoro al meglio”, e del fallimento: “non riesco più”. Rispetto a
questo poi naturalmente si attivano delle difficoltà lavorative che spesso finiscono con l'acting out, con
l'agito, quindi ilsoggetto rimane per molto tempo a casa per malattia, arriva in ritardo, si assenta dal
postodi lavoro, e il tutto per evitare il contatto, sia anche con i colleghi e superiori, le persone intorno,
ma anche con l'utenza stessa. A questo segue un processo poi di colpevolizzazione;
• L'ultima fase è proprio quella in cui possiamo diagnosticare la sindrome del burnout, è quella
dell'apatia: l’apatia è il momento del distacco emotivo e relazionale dagli altri e dalla propria attività.
Viene messa in discussione la vita personale e possono insorgere disturbi psicosomatici di una certa
entità. C’è un distacco emotivo, assoluto, relazionale sia rispetto agli altri sia rispetto alla propria
attività, e quindi viene messa in discussione non solo la vita professionale, ma anche la vita personale.
Secondo Maslach (1975), la sindrome del burnout è la malattia tipica delle professioni di aiuto (o
helping profession) nelle quali non si utilizzano solo competenze tecniche, ma anche abilità sociali ed energie
psichiche. Quali sono le categorie più a rischio di incorrere in questa sindrome? Questa sindrome colpisce:
• Prima fra tutti troviamo gli operatori socio-sanitari, gli psicologi, gli assistenti sociali, i medici e gli
infermieri. Le ricerche in questo campo hanno evidenziato:
o L'esaurimento emotivo;
o La depersonalizzazione;
o La riduzione della realizzazione personale.
In questo caso, molto alto spesso è il grado di esaurimento emotivo tra il personale infermieristico e medico.
Il Burnout Inventory della Maslach è un questionario self-report che si basa su 22 item che vanno ad
indagare questi tre vissuti principali che caratterizzano la sindrome. Cos'è che caratterizza soprattutto questa
prima categoria?
Sicuramente un sovraccarico lavorativo, quindi spesso difficoltà nella turnazione, ore di lavoro troppo lunghe,
ecc. Quindi un'organizzazione del servizio della struttura disfunzionale, ma anche una vicinanza troppo stretta
e troppo intima con quella che è la malattia del soggetto, spesso in condizione terminale o comunque a rischio
di vita, una situazione chespesso porta poi la persona stressata a dire "la mia attività non serve", perché c'è

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un'evenienza, e una possibilità effettiva e diretta di morte o di gravità, di peggioramento della situazione clinica
del paziente
• Un'altra categoria che è esposta al rischio del burn-out sono gli impiegati del front-office della
Pubblica Amministrazione, che sono persone che quotidianamente devono aiutare l'utente,
rispondere alla richiesta dell'utente rispetto a un disservizio dell'amministrazione, emantenere, nello
stesso momento, un rapporto di lealtà e di vincolo all'amministrazione che è assolutamente il datore di
lavoro;
• Gli insegnanti sono un'altra categoria a rischio e non solo proprio per la caratteristica del lavoro.
L'impegno nella gestione è molto difficoltoso, soprattutto oggi nella gestione dei rapporti con gli alunni,
con i genitori, ma anche con i colleghi, ma anche una condizione proprio ambientale che porta a
continue innovazioni tecnologiche, a sfide rispetto alla possibilità dell'integrazione con le classi
multietniche. In più, anche culturalmente, sono la tipologia di lavoro che di solito è caratterizzato da un
poco riconoscimento da parte della società e anche da una gratificazione economica bassa.
Ci sono sia fattori personali che fattori contestuali e ambientali che espongono al rischio del
burnout, questi sono fondamentali ed è fondamentale prenderli in considerazione soprattutto per
implementare delle vere strategie di prevenzione. I fattori personali correlati alla persona rispetto a un alto
rischio di burnout sono:
• L’introversione: quindi una timidezza, un'inibizione nelle relazioni sociali;
• Il nevroticismo: dove per nevroticismo intendiamo soprattutto una tendenza all’instabilità e al
turbamento emotivo, in persone caratterizzate da una forte ansia e tendenza ansiosa o anche in cui è
più facile attuare dei comportamenti ipercritici, nei confronti di sé stesso e dell'altro, o di pessimismo
nei confronti della vita, “tutto è andato così finora, quindi noncambierà, andrà sempre peggio”, non c'è
una visione positiva ed evoluzionistica, in sensopositivo, della situazione;
• Il locus of control esterno: identifica la tendenza dell'individuo ad attribuire a cause interne o
esterne gli eventi della propria vita. Se nel momento in cui il locus of control è esterno, quello che
succede nella mia vita è gestito e controllato dall'ambiente e non da me, quindi io avrò poca possibilità
di incidervi, e quindi di conseguenza queste persone è più facile che salga l'ansia o lo stress, attecchisca
di più, e quindi sia più facile l'emergenza di una sindrome di burnout;
• Il basso senso di autoefficacia: collegata al locus of control esterno c'è un minore senso di auto
efficacia. L'autoefficacia è un concetto di Bandura, che identifica la fiducia che il soggetto può avere,
rispetto alle proprie competenze e rispetto alla possibilità di agire, per raggiungere determinati obiettivi
fissati prima dalla persona;
• La struttura di potere dell’organizzazione in cui la persona lavora: in cui le forme di lavoro
sono centralizzate e fondate su una scala gerarchica, che causano maggiore stress.
I sintomi che si possono provare, che soprattutto emergono nella quarta fase, nella fase di apatia, rispetto al
burnout, si possono distinguere in:

• Sintomi aspecifici: l'irrequietezza, l'irritabilità, il senso di stanchezza, l’esaurimento, l’apatia, il


nervosismo e l’insonnia;
• Sintomi somatici: quindi i disturbi gastrointestinali, le ulcere, le cefalee, l’aumento o il calo di peso,
la nausea, i disturbi cardiovascolari e le difficoltà sessuali;
• Sintomi psicologici: come la depressione, la bassa stima di sé, il senso di colpa, la sensazione di
fallimento, la rabbia, il risentimento, l’irritabilità, l’aggressività, l’alta resistenza ad andare al lavoro,
l’indifferenza, il negativismo, l’isolamento, il sospetto e la paranoia, la rigidità di pensiero e la resistenza
al cambiamento, la difficoltà nelle relazioni con l’utenza, il cinismo e l’atteggiamento colpevolizzante nei
confronti dell’utenza e dei colleghi di lavoro.

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Per quanto riguarda le conseguenze del burnout noi vediamo che non si riferiscono solo all'individuo, ma
compromettono e influenzano anche il contesto lavorativo, quindi il rapporto con l'utenza e non solo. Le
conseguenze del burnout avvengono su tre livelli fondamentali, che sono:
• Il livello degli operatori: che pagano il burn-out in termini personali, e quindi sia fisico che psico-
relazionale.
• Il livello degli utenti: per i quali un contatto con gli operatori sociali, in burnout, risulta frustrante,
inefficace e dannoso;
• Il livello della comunità: che vede svanire i forti investimenti nei servizi sociali.
Per quanto riguarda gli interventi dobbiamo pensare ad interventi di tipo preventivo, che agiscano prima
dell'insorgenza della sindrome che si riferiscono alla possibilità di aumentare le competenze dei soggetti e dei
gruppi, che possono agire:
• Sul singolo: sono soprattutto interventi di formazione per sviluppare un equilibrio tra il distacco e il
coinvolgimento eccessivo, come ad esempio l’informazione, le esperienze di gruppo e la discussione dei
casi. Possono essere attivate al primo ingresso, nel momento del lavoro, ma anche successivamente, in
modo continuativo o in determinati momenti tipici dell'attività lavorativa. La formazione serve non solo
a dare le informazioni di base su quelloche è la sindrome, per riconoscere i sintomi, e in qualche modo
attivarsi rispetto a questo, ma soprattutto per identificare quelle che sono le possibilità di distanziarsi e
raggiungere unequilibrio tra il distacco emotivo e il troppo impegno rispetto al lavoro;
• Sull'equipe: sono interventi volti ad individuare gli obiettivi più realistici, in modo da ridurre le
richieste imposte agli operatori e permettere alternative di gratificazione;
• Sull'organizzazione: sono interventi che rendono il carico di lavoro più gestibile e rendono più chiari
e definiti i ruoli assunti, come ad esempio la riduzione del carico di lavoro, l’utilizzazione del personale
ausiliario;
• Un altro intervento che noi possiamo fare è quello di utilizzare degli strumenti per un check-up,
come l’“Organizational Check-up Survey", che analizza gli aspetti chiave della vita organizzativa, quali
soprattutto il continuum tra disimpegno e investimento ma anche va a valutare le tre dimensioni
dell'isolamento emotivo, della depersonalizzazione e della ridotta realizzazione personale, fino a
valutare anche proprio la struttura e la gestione all'interno dell'attività lavorativa
Cherniss fa una classificazione più netta che racchiude un po' tutti i principali interventi che noi possiamo
utilizzare per affrontare questa sindrome, quindi abbiamo:

• Lo sviluppo dello staff: per aumentare la conoscenza della sindrome con gli strumenti soprattutto
informativi;
• Interventi sull'organizzazione: per rendere più gestibile il carico di lavoro e definire meglio i ruoli;
• Programmi di formazione sul management: e quindi programmi di formazione per i leader, i
dirigenti, gli amministratori;
• Altri interventi che vadano a valutare il conflitto all'interno dell'organizzazione, e quindi
finalizzati ad aumentare la possibilità di condivisione e di collaborazione, la compartecipazione
dell'organizzazione stessa;
• E in più la definizione di obiettivi e modelli di gestione: per aumentare quella che è la
consapevolezza rispetto a quelli che sono gli obiettivi del proprio lavoro e in modo congruo e specifico
la responsabilità.

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