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1.

IL CAMPO DELLA PSICOLOGIA SOCIALE


1. Una definizione della psicologia sociale
La psicologia sociale studia i modi e le forme con cui l’esperienza, l’attivita mentale/pratica e i comportamenti si
articolano con il contesto sociale. Cio viene analizzato sia a livello di processi basici della vita relazionale sia a
quei fenomeni che questi processi vengono a costituire operando nell’interazione sociale. La connessione tra
processi e fenomeni esiste perche in essa troviamo punti di unione dell’articolazione psico-sociale. La psicologia
sociale opera nella vita individuale e in quella collettiva nei quali i processi psicologici si strutturano con le
attivita pratiche delle persone e con le dinamiche delle organizzazioni e istituzioni sociali. Si presenta sia in
funzione di ricerca sia di intervento in vari campi. Nasce tra la fine dell’Ottocento e inizio Novecento in un
contesto sociale di grandi cambiamenti, anche nei modi di pensare e sentire degli individui. La rivoluzione
industriale trasforma anche la scienza, impone nuovi modi di vita e nuove forme di relazione. La crescita delle
citta continua. Cio che un tempo avveniva nella sfera privata diviene oggetto di partecipazione collettiva. Il
principio di autorita entra in crisi e impone nuove istituzioni. L’idea stessa di persona umana entra nella pratica
sociale trovando spazio nel vivo dell’esperienza quotidiana.
La psicologia e la sociologia: da un lato sta l’individuo con la sua attivita mentale e i suoi problemi personali;
dall’altro sta la societa, con le sue strutture, le sue dinamiche e i suoi fatti che trascendono il pensiero e agire
degli individui.
Secondo Serge Moscivi, il carattere originale del punto di vista della psicologia sociale e di mettere in questione la
separazione dell’individuale e del collettivo, di contestare la divisione tra psichico e sociale nei campi essenziali
della vita umana. Egli aggiunge che “si ha sempre a che fare con l’individuale e il collettivo insieme, inseparabili”.

2. Nel nostro tempo: problemi umani, problemi sociali


2.1 Globalizzazione e individualizzazione
La globalizzazione ha raggiunto anche l’ambito della vita sociale, alimentandosi nelle guerre locali. Con
individualizzazione si intende il processo mediante il quale l’individuo, durante la Modernita, e emerso come
persona singola capace di gestire se stessa in modo autonomo e di partecipare alla gestione della societa in cui
vive, raggiungendo il riconoscimento dei suoi diritti, della sua soggettivita, della sua identita e della sua sfera
privata. Cio ha alienato l’individuo, privandolo dei riferimenti sociali che lo aiutavano ad affrontare i problemi
della vita, portandolo a banalizzare il mondo privato e le relazioni interpersonali. Giddens dice che il senso di
impotenza e chiusura nel mondo individuale aumenta con la consapevolezza che le nostre esistenze sono
influenzate da eventi che avvengono al di la dei contesti sociali in cui operiamo quotidianamente. L’individuo nel
suo mondo ha il controllo delle scelte, rassicurandosi sulla propria identita.
Il mondo individuale appare intriso di schemi mentali e di valorizzazioni che ci giungono quasi prefabbricati dal
sociale o che sono da questo mediati. Un altro sociale e quello attualizzato negli stili di comportamento, nelle
modalita di acquisto e di consumo, ecc. Fattori sociali di ordine strutturale e fattori psicologici si uniscono nella
produzione della realta del nostro tempo che investe con i suoi problemi gli individui e la collettivita.

2.2 Problemi umani, problemi sociali


Questi problemi hanno un versante individuale in quanto è l’individuo che li subisce sulla propria persona e che
devi farvi fronte. Tuttavia vi è anche un versante sociale, poiché alla loro origine si trovano spesso fattori e/o
situazioni sociali, e infine perché è nel contesto sociale che possono essere reperite le risorse per fronteggiarli.
La componente soggettiva sono i processi psicologici di percezione, rappresentazione e valutazione che, filtrando
i dati oggettivi delle situazioni, conferiscono loro il carattere di problema. Questa intersezione delle due
dimensione specifica l’approccio, sia oggettivo che viene a perdere del significato umano dei fatti, sia soggettivo
viene a cessare il senso duro della realtà fattuale degli eventi e delle situazioni.
Una situazione costituisce un problema quando viene considerata nella coscienza come una deviazione della
norma. I problemi umani sono anche problemi sociali, questo per tre motivi: a) perché in origine sono situazioni
critiche nell’ambito della convivenza umana; b) perché sono i modi di relazione sociale che hanno trasformato le
situazioni in problemi; c) perché sono i problemi dell’individuo ma anche di molti.

2.3 Specializzazioni, competenze, problemi

Il bisogno di sicurezza è quella condizione che permette ai processi cognitivi e all’azione di concretizzarsi in un
contesto sostenibile. Il senso di insicurezza ha contribuito a focalizzare l’attenzione, a promuovere il controllo di
sé e dell’ambiente, e a sviluppare quelle forme di metacognizione che permettono all’individuo di adattare le
proprie conoscenze e abilità ai compiti che deve adempiere. Nel senso di insicurezza si intrecciano fattori
oggettivi e fattori psicologici.

3. Natura e cultura, individuo e società

L’ottica naturalistica ragiona sulle sostanze, pensando che esse abbiano una realtà. Quest’ottica va a cercare le
leggi che presiedono ai rapporti tra gli esseri umani oppure nella società, la quale viene considerata come un
organismo sostantificato. Per alcuni gli individui sono considerati come dei pilastri tra i quali il filo dei rapporti
si stende solo in un secondo momento. I processi psicologici sono espressione di un mondo individuale. Alcuni
considerano che le relazioni tra gli uomini siano prodotte e governate dalle legge di questo organismo globale,
assimilato a una specie di sostanza naturale. Essi affermano l’importanza del percorso interiore è scarsa, in
quanto la configurazione essenziale della sfera psicologica proviene dall’esterno.
La dimensione sociale è partecipe della natura stessa dell’essere umano così come lo è la dotazione di base che
presiede alla sua costituzione fisica. L’uomo è un essere fatto per proiettarsi all’esterno, strutturato in modo che
possa e debba stabilire rapporti con gli altri.
Secondo Malinowski, l’essere umano fa fronte ai bisogni vitali propri di ogni specie animale attraverso una
grande variabilità di modi sulla base delle competenze socio-culturali che gli sono proprie. Queste competenze
devono essere considerate parte delle capacità basiche di sopravvivenza che si sono formate nel tempo.
Nell’ambiente si trovano gli elementi indispensabili per soddisfare i bisogni dell’organismo. Il concetto di
bisogno è un concetto interazionale che lega organismo e ambiente. Il possesso delle competenze socio-culturali
ha reso il rapporto umani/ambiente indipendente dagli automatismi che reggono tale rapporto. L’essere umano
ha affrontato i suoi bisogni e i problemi presenti nell’ambiente con azioni guidate dalla capacità di vedere
alternative, di compiere scelte e prendere decisioni: una capacità basata sull’accumulare le esperienze e
tramandarle alle generazioni successive mediante la cultura. È sotto il profilo della simbolizzazione che le
elaborazioni del mondo interno esperienziale possono fissarsi all’esterno. La cultura è connessa con la capacità
che l’uomo possiede di tradurre in simboli gli oggetti e gli eventi, ricostruendo in un sistema astratto la realtà
che lo circonda. Questa competenza rende possibile di utilizzare il passato per la previsione e la progettazione
del futuro.
I processi psicologici e l’empirismo personale vengono determinati dal contesto sociale. Tale pensiero finisce col
privare di ogni possibile autonomia e capacità innovativa il singolo. L’agire, il fare, il trasformare appartengono a
una competenza degli individui, così come dei soggetti collettivi che operano nella società. La società ha la
funzione di ugualizzare ma anche quella di individualizzare gli esseri umani.

4. Gli individui in situazione

Con le nozioni di individualità e di soggettività indichiamo un essere umano che ha valore in quanto tale,
questo perché lo consideriamo come portatore in sé di tutte le determinazioni della specie umana. Nel pensiero
antico l’essere umano aveva valore solo perché apparteneva ad una comunità. La socialità distingueva l’uomo
dall’animale. Nel Medioevo, fuori dal suo ordine l’individuo perde ogni riconoscimento, divenendo un fuorilegge
nell’ordine umano e un peccatore in quello divino. Il senso dell’individuo emerge con l’umanizzazione, con il
pensiero che vede il mondo come opera dell’uomo.
Lo Stato moderno assoluto è nato come un progetto umano e pertanto suscettibile di essere rivoltato, cambiato.
Attraverso le trasformazioni promosse dall’azione degli individui che esso diverrà Stato di diritto, ove questi è a
tutela della persona individuale in quanto tale. Riconoscimento del lavoro ed estensione anche ai diritti sociali.
Questo individuo dei diritti si è forgiato nelle pratiche sociali, ma è nato con la concomitante scoperta del
mondo interno psicologico che ha trovato nell’affermazione dell’Io cartesiano la sua base. Il cogito ergo sum di
Cartesio ha posto in primo piano il soggetto del pensiero, che, attraverso la coscienza di sé, afferma la sua
esistenza in quanto io. Dire io parlando di sé significa affermare la propria identità e porsi come autore del
proprio parlare. Questa autoriflessività sostiene anche il soggetto dell’esperienza (“senza coscienza non c’è
persona”, Locke) e il soggetto conoscente di Kant, che acquista il senso del suo io indirizzandosi alle cose e
facendole oggetto dei suoi processi di conoscenza.
Il soggetto può mantenere il suo significato solo nella relazione con l’oggetto attraverso il quale costruisce il
proprio mondo psichico. Posto dentro al mondo il soggetto è da questo attraversato, portando con sé le
contraddizioni dello stare in situazione. Da quando Marx, Nietzsche e Freud hanno mostrato i limiti della
coscienza e il trasvetismo delle idee, la nostra concezione del soggetto si è fatta più problematica. Sono gli
individui in situazione che la psicologia sociale mette al centro della sua analisi, persone nell’insieme della loro
soggettività e della loro vita di relazione.

5. Nessuno vive solo

5.1. Il sociale nella vita quotidiana

Sin dalla nascita tutti instauriamo delle relazioni sociali. Nel mezzo, e per mezzo, di queste inter-relazioni
l’individuo cresce, sviluppa competenze, organizza la propria vita. Il mondo sociale è una parte intrinseca della
sua condizione.
L’idea di bambino competente, che dispone di una dotazione genetica atta ad affrontare l’esistenza, ci presenta
un essere umano dotato di competenze intrinseche. Codeste competenze necessitano di un ambiente specie-
specificatamente adatto per attivarsi in modo adeguato. L’ambiente in cui l’essere umano si trova è quello
umano-sociale prodotto dalla storia, dall’attività materiale, dalla cultura. La nostra specie è caratterizzata da
modalità sociotecniche di vita che devono essere imparate dai neonati. Esse riescono a trasmettersi mediante
un’implicita attività didattica che gli adulti svolgono verso i piccoli. È un’attività di comunicazione, un’offerta di
informazioni che passano attraverso modi espressivi e, in seguito, linguistici. Sin da neonato, l’essere umano
evidenzia caratteristiche che lo rendono attento al mondo sociale e predisposto alla relazione con gli altri. Mondo
sociale e mondo psichico sono articolati in un quadro in cui è continua la comunicazione tra l’esterno e il
linguaggio interno. In ogni nostro discorso è implicito un interlocutore, un tu che diviene condizione per la
concretizzazione dell’Io. Ci riconosciamo come noi stessi nella misura in cui non siamo altri, ma senza un mondo
di altri non potremmo riconoscerci. L’essere riconosciuti diviene parte integrale del riconoscersi. Avere
un’identità significa essere identificabili e identificati. Nei casi di solitudine, essa non è mai una situazione
intrapersonale, in quanto presuppone un contesto di relazioni sociali dal quale il soggetto si auto-esclude oppure
dal quale viene escluso. Coloro che hanno studiato casi di malati terminali o di vittime della tortura sanno che il
dolore si fa tanto più penoso e insostenibile quanto più questa parola si perde, quanto più esso viene de-
socializzato dalle circostanze o della crudeltà altrui.

5.2 Forme e livelli dell’articolazione psicosociale

Urie Bronfenbrenner ha elaborato una tipologia dei quattro livelli ai quali il contesto sociale può articolarsi con i
processi psicologici:

1. Microsistema: relazione interpersonali dirette;


2. Mesosistema: l’individuo è considerato nell’ambito delle relazioni tra due microsistemi;
3. Esosistema: costituito dal contesto cui influisce direttamente sulla vita relazione dell’individuo;
4. Macrosistema: costituito dal contesto culturale di norme, credenze, ideologie ecc.
Un’altra tipologia, sempre su quattro livelli, è quella proposta da Doise:

1. Intra-individuale: focalizzato dalle ricerche che analizzano i meccanismi che a livello dell’individuo gli
permettono di organizzare le proprie esperienze;
2. Inter-individuale;
3. Differenze di posizioni sociali: la tesi di Leon Festinger parte dall’assunto di ordine intrapsichico che
l’individuo ha un bisogno costante di disporre di una valutazione di sé. Tale valutazione può avvenire
attraverso un confronto con altre persone considerate in quanto tali a livello individuale od in base a
ruoli e posizioni sociali;
4. Ideologico: possono agire variabili contestuali più ampie, espressione delle ideologie che la società
sviluppa e che concorrono a stabilire i rapporti sociali. Milgram constatò come persone del tutto normali
reclutate riuscissero, esortate dallo sperimentatore, a infliggere scariche elettriche molto violente a delle
altre persone per favorirne l’impegno all’apprendimento. Il congegno era truccato e i soggetti che
apprendevano erano dei complici dello sperimentatore, ma ciò non lo sapevano coloro che infliggevano
le scariche.
6. Psicologia individuale e psicologia sociale

La psicologia sociale resta una psicologia in senso pieno, perché i fenomeni e le situazioni sociali li analizza
nell’ambito della loro articolazione con i processi psicologici e con l’esperienza delle persone che vi sono
coinvolte sia individualmente che collettivamente. L’indagine scientifica punta sui fatti, ma il progresso della
conoscenza scientifica è basato sul dialogo che si stabilisce tra rilevazione dei fatti e riflessione intellettuale. La
psicologia ha preso dalla filosofia l’interesse ai fenomeni della conoscenza in sé, mentre dalla fisiologia ha preso
la direzione del suo studio verso le strutture anatomo-funzionali del corpo umano.
Wundt ha posto al centro del suo studio una mente isolata dalle pratiche di vita cercandone leggi generali di
funzionamento e ha concepito come luogo di espressione dell’attività mentale l’ambiente fisico. La mente va
studiata nel mezzo delle sue relazioni concrete, perché essa è sempre di qualcuno: cioè di persone
concretamente definite dalla corporeità, dal loro sé e dalla loro attività.
Floyd Allport negava ogni realtà alla relazione: essa è un concetto prodotto dalla nostra mente. Per lui il modo
corretto di studiare un gruppo è quello di portare l’indagine sui singoli individui che lo compongono. Solo gli
individui sono reali.
Il cambiamento è un elemento costante dell’esistenza sia a livello storico-collettivo sia a livello della vita
quotidiana dei singoli, dei gruppi e delle comunità. Gli esseri umani contribuiscono a produrre le situazioni
sociali con la loro attività mentale e pratica, ma le situazioni sociali contribuiscono, interattivamente, a produrre
e plasmare tale attività.

2. ORIGINI E SVILUPPI DELLA PSICOLOGIA SOCIALE


1. Tra psicologia e sociologia

McDougall basa il suo studio sul concetto di istinto che interessava gli psicologi della sua epoca. Per istinto si
intende una disposizione innata che comporta una particolare attenzione verso certi oggetto. McDougall lo
collega con l’attivazione delle emozioni e con la produzione che vanno verso tali oggetti. Alcuni istinti vengono
considerati come elementi motivazionali che sono le fondamenta delle condotte sociali. McDougall modificherà la
sua concezione: gli istinti diventano delle propensioni che contribuiscono a indirizzare interessi, attenzioni e
comportamenti, ma non in modo deterministico, perché egli sviluppò una concezione intenzionale dell’agire
umano.
Ross prende le mosse da particolari fenomeni connessi con i comportamenti collettivi che diventano una
corrente capace di agire sul mondo individuale, determinando opinioni, interessi e sentimenti.

1.1 La società come imitazione

Per Tarde alla base di ogni fenomeno vi è l’imitazione. Egli mette in primo piano un principio di estensione e di
propagazione. La cosa sociale – e quella vitale – vuole propagarsi. Alla base della vita sociale vi sono tre cause:

• Desiderio: è concepito come lo stimolo che indirizza l’agire secondo ciò che si crede desiderabile. Il
funzionamento dell’attività che lo muove è guidato dal principio dell’equilibrio e il principio del
massimo. Il desiderio, dunque, crea un equilibrio nell’uomo e nella società ma, contemporaneamente,
società e individui lavorano per soddisfare la loro esigenza di equilibrio e di continuo aumento di
credenza e di desiderio;
• Invenzione: quell’operazione per cui il pensiero approda a nuove costruzioni nella realtà interna e
quella sociale. I leader psicologici della folla sono l’esempio perfetto. Essi determinano i destini dei
gruppi e delle nazioni. Questa è l’idea centrale nella psicologia delle folle, di tipo meccanicistico. Il
processo che domina è quello di suggestione, intesa come processo psichico che induce ad accettare
l’influsso altrui in modo inconscio. Ciò portò anche Freud ad interessarsi. Per lui il processo di
suggestione produce il quadro di una vita sociale fondata sulla relazione da modello a copia, quasi in
senso patologico.
• Relazione inter-psicologica: desiderio e invenzione si collegano ad essa formando dei punti di
intersezione che diventano a loro volta il centro di nuovi sviluppi e di nuove creazioni.
1.2 Il primato del sociale in Durkheim:

Secondo Durkheim la società è tenuta insieme da una solidarietà, intesa come elemento che affonda nella
coscienza collettiva e che va oltre una solidarietà meccanica tipica delle società primitive e solidarietà
organica in quelle moderne. Tale solidarietà è vista come collante sociale che è condizione di base della vita
associativa umana. Il fatto sociale si manifesta. Esso si spiega in base a fattori sociologici collegati alla
morfologia e alla struttura della società perché ha una sua esistenza.
Occorre cercare nella natura dell’individualità psichica le cause prossime e determinanti che vi si verificano: il
gruppo pensa, sente e agisce in modo del tutto diverso da quello in cui si comporterebbero i suoi membri, se
fossero isolati.
Durkheim afferma che l’individuo riceve la dignità da una fonte più alta che indica un fine impersonale e
anonimo, il cui si pone al di sopra di tutte le coscienze particolari e può pertanto servire a unirle.
L’individualismo diviene un fine collettivo che ci collega, è pietas e simpatia dell’uomo per l’uomo.

2. La psicologia delle folle

Le folle, nell’epoca di Le Bon, incutevano timore a chi le vedeva come espressione dei grandi movimenti di massa
che lottavano per i diritti sociali. Anche le folle pacifiche inquietavano, poiché concretizzavano l’espandersi di
una soggettività allargata anche al popolo: un senso personale del Sé che contribuiva a mettere in crisi quel
principio di autorità che aveva governato il mondo sinora e che le folle della rivoluzione francese avevano già
mal ridotto. Queste paure erano alimentate da un’ideologia razzista, antiugualitaria e antiliberale che dava i
primi segnali di ciò che avvenne nell’epoca del nazifascismo. Gli uomini sono separati da irriducibili differenze
dipendenti dalla razza di appartenenza che imprime all’individuo caratteristiche psicobiologiche e morali
indelebili. Le disuguaglianze possono essere solo controllate, in modo che gli inferiori non producano danni. In
tutti c’è un fondo di passioni che possono scatenarsi quando la vita irrazionale della folle travolge i principi
gerarchici che reggono l’ordine sociale. Le folle poco influenzate dalle leggi e dalle istituzioni sono incapaci di
aver un’opinione al di fuori di quelle suggerite da altri. La personalità singola sparisce nella folle, in quanto il
comportamento umano è sorretto da motivi inconsci che formano il fondo dell’anima delle folle. La folla è
incapace di azioni di razionali ed accumula la mediocrità. Le folle ragionano per immagini, le idee le
giustappongono per somiglianza e per successione. Sono sensibili all’impressione. Alla base vi sono tre
meccanismi:

a) Il senso di potenza: quando gli uomini si riuniscono e si affievolisce il loro senso di responsabilità;
b) Il contagio mentale: spinge a confondersi con l’anima collettiva;
c) La suggestionabilità: abolisce la volontà personale trasformando l’individuo in un automa. L’azione è la
caratteristica delle folle.
Su queste folle dominano le personalità dei capi: uomini d’azione dotati di forte volontà, capaci di imporsi e di
guidare il gregge, il quale non può fare a meno di un padrone. Gli strumenti che fungono per radicare le credenze
nelle folle sono: l’affermazione (breve, concisa, netta), la ripetizione, il contagio. Il prestigio sta alla base di
ogni potere: il prestigio del capo che esercita un fascino magnetico e che si impone sulla massa. Per gli psicologi
della folle la vita sociale diviene un elemento che de-valorizza il ragionamento, il controllo di sé e la personalità.

3. Le basi della psicologia sociale negli Stati Uniti


3.1. Il contesto sociale

Mentre la società europea è travagliata dalle contraddizioni che nascono dalla persistenza dei residui del vecchio
autoritarismo, da un lato, e dall’altro, dalla questione sociale connessa con le grandi masse di poveri che si
contrappongono a un piccolo ceto di ricchi, la società americana si è fondata sulla distruzione del popolo indiano.
In questa società vi è la possibilità di una scalata individuale al benessere e anche la possibilità di una
valorizzazione di sé. È nel darsi da fare che gli americani indicano lo strumento per la ricerca del benessere
individuale e per lo sviluppo sociale.
La valorizzazione dell’agire pratico è presente anche nei calvinisti puritani, ovvero una popolazione laboriosa e
innovativa che vedeva nel lavoro uno strumento di elevazione spirituale, organizzata in comunità nelle quali
l’impegno morale diviene anche sociale.
L’individualismo possessivo si viene ad aggiungere all’individualismo umanitario della tradizione puritana,
attento ai valori della solidarietà e dell’uguaglianza: contribuirà all’individualismo democratico che permane
come base della cultura liberal americana.
La concezione positiva del sociale nell’ambiente americano trova un sostegno di ordine filosofico e psicologico
nelle tesi dell’utilitarismo che privilegiano la responsabilità sociale, l’importanza delle motivazioni personali
che stanno alla base dell’azione e le conseguenze che essa comporta.

3.2 Il pragmatismo e il funzionalismo

Il pragmatismo di Peirce mette in primo piano la connessione tra la conoscenze e le sue conseguenze pratiche. Il
suo assunto di base è che il valore di verità di un’idea sia valutabile in base ai suoi effetti pratici. Noi abbiamo
credenze, le quali implicano lo stabilirsi di un modo o di un abito d’azione. Il pensiero è ricerca. Peirce considerò il
pragmatismo un metodo. James ne ha fatto un modo di pensare, di vedere le cose e i rapporti umani. Le idee sono
strumentali nella misura in cui servono a vivere, a decidere fra le diverse opzioni, a conformarsi nel mondo.
L’interesse del pragmatismo è rivolto al dato sociale e psicologico, ai problemi concreti dell’adattamento umano,
alle questioni della pratica sociale. Esso rivendica un universo pluralistico di idee contro ogni imposizione di
valori assoluti e unilaterali. Dewey sottolinea una concezione creativa e innovativa dell’esperienza, la quale è la
registrazione di ciò che è già accaduto e impegno per cambiare le situazioni fornite, con sguardo verso il futuro.
Il funzionalismo ha radici che partono dal pensiero di Charles Darwin. Egli vedendo nell’adattamento
all’ambiente il meccanismo che presiede alla selezione naturale e all’evoluzione delle specie, spianò la strada per
porre in risalto la relazione individuo-ambiente anche sul piano psicologico. James intraprese a studiare la mente
a livello dei processi che la articolano con il conteso. L’attività psicologica considerata come funzionale alla vita
relazionale e pratico-sociale dell’essere umano. Il funzionalismo è la psicologia delle operazioni mentali, si
occupa della mente nel suo compito di mediazione fra ambiente e bisogni dell’organismo, sottolinea il significato
cardine della relazione mente-corpo come fondamentale per comprendere la vita mentale. James affermò che
l’ambiente opera come un selezionatore di possibilità che l’organismo psicobiologico stesso sviluppa. L’attività
mentale è funzionale agli interessi che nascono nella relazione con l’ambiente fisico-sociale, ed è un’intelligenza
creativa che serve un proposito finale e lo pone essa stessa.
Il soggetto conoscente è attivo sia sul piano cognitivo sia su quello pratico, poiché la sua conoscenza e la sua
azione contribuiscono a fare e trasformare il mondo. La mente è una struttura che valuta e giudica. L’attività
mentale è motivata da quanto essa stessa elabora facendo esperienza attiva del mondo esterno.

4. La psicologia di James

William James si laureò in medicina presso l’università di Harvard, fondò nel 1873 presso questa stessa
università uno dei primi laboratori di psicologia sperimentale americani. Ottenne la cattedra di filosofia che
mantenne sino al 1907.
La sua ottica mira ai processi e analizza la mente quale posta in individui concreti, dotati di un corpo e visti nel
mezzo delle loro relazioni concreti. Per James la psicologia studia l’esperienza, la quale ci offre, da subito, un
mondo unitario di cose e di relazione. Da subito è pensiero: con tale termina indica l’intera vita psichica quale è
esperita nell’immediata (vita soggettiva) nel suo insieme di thought and feeling. Quest’ultimo termine
comprende tutto quanto viene sentito e conosciuto prima ancora di averne una conoscenza intellettuale. Si tratta
di un concetto centrale, poiché fa dell’esperienza una conoscenza intellettuale e sensibile. I feelings sono
espressione dell’intima connessione mente-corpo, sono forme di conoscenza immediata nel contatto con
l’ambiente e sono intrisi di valutazioni.
Considerando il corpo come elemento attivo nel rapporto con l’ambiente, i feelings partecipano alla conoscenza
di tale ambiente in relazione a noi stessi. Tale conoscenza è personale, ci fornisce un orientamento e una
valutazione immediata del contesto. James afferma che ciò che è sentito viene conosciuto a livello personale,
esercitando la sua influenza sulle nostre condotte. La conoscenza dei feelings è valutativa, ci dice come una cosa è
e come essa è in relazione a noi. Il presente è l’unico tempo sul quale noi possiamo operare, poiché l’attività
psichica è un flusso continuo.
Il pensiero va visto nel suo essere sempre di qualcuno: un individuo immerso nelle pratiche della vita. Per questo
il pensiero sceglie, valuta, giudica. Questa attività di valutazione e scelta costituisce il Self, unendo in un corpus di
oggetti pensati quegli oggetti dell’esperienza che ciascuno sente come propri.
L’organismo interagisce con l’ambiente come un insieme: la mente deriva dall’insieme strutturale e funzionale.
Nell’interazione si possono comprendere pienamente i fenomeni mentali. L’ambiente è un prodotto dell’attività
stessa dell’organismo.

5. La mente e la società

5.1. James M. Baldwin

Baldwin sviluppa nell’ambito di una concezione che vede la società come una rete consolidata di relazioni
psichiche, un tessuto di natura psicologica in cui il bambino entra alla nascita, formandosi nel tempo una teoria
di un essere umano sociale. Egli analizza le fasi dell’esperienza nel cui ambito si forma socialmente l’essere
umano. La prima fase è l’epoca dei processi sensoriali rudimenti, i processi del piacere e del dolore, la quale lui la
definisce come epoca affettiva. La seconda è l’epoca della rappresentazione, della memoria, dell’imitazione,
dell’azione difensiva, dell’istinto che passa a poco a poco nella terza, ossia l’epoca della rappresentazione
complessa, della coordinazione motoria complessa, della conquista, dell’azione offensiva e della volizione
rudimentale. Queste due vengono caratterizzate come epoche del riferimento obiettivo. Per ultima c’è l’epoca del
pensiero, della riflessione, dell’affermazione di sé, dell’organizzazione sociale, dell’unione delle forze, della
cooperazione. Questa viene chiamata epoca del riferimento soggettivo, la quale si fonda con l’epoca sociale ed
etica della storia umana.

5.2. George H. Mead

Nella sua psicologia sociale confluiscono la relazione oggettività-soggettività hegeliana e la teoria del
simbolo di Wundt. Il suo pensiero venne raccolto dopo la sua morte dai suoi allievi, tratto in particolar modo
dalle lezioni tenute all’università di Chicago.
Mead si definiva un behaviorista sociale. Il suo essere umano è dotato di una mente e di una capacità di
elaborazione interna. Si può studiare l’esperienza interiore attraverso il comportamento oggettivo, ma per
farlo bisogna considerare che l’atto esterno osservabile è solo una parte del processo che ha avuto inizio
nell’interno e che in un secondo istante giunge all’espressione esterna. La parte interna è l’atteggiamento. Mead
utilizza l’atteggiamento come gesto che prepara l’azione. I concetti di atteggiamento e gesto presuppongo un
individuo inserito in un insieme di inter-relazioni. Si cerca di spiegare la condotta dell’individuo nei termini della
condotta organizzata del gruppo sociale.
Mead intende la società, cioè l’insieme delle pratiche di cooperazione sociale, come complesse attività di gruppo.
Queste pratiche sono basate sulla continua interazione tra le persone. È centrale il concetto di comunicazione, la
quale, è fondata sul linguaggio come espressione di un sistema di significati condivisi, in cui il gesto diviene un
simbolo significativo. Questi è un simbolo che corrisponde a un significato nell’esperienza del primo e del
secondo individuo.
Nella sua ottica la capacità simbolica è costituita dalla vita sociale: da quel processo circolare interazionale che
si evolve nella più complessa forma del simbolico attraverso le dinamiche dell’azione sociale.
L’io non pre-esiste al tu: entrambi si costituiscono nella loro relazione. Prende corpo il Self, inteso come
espressione della presa di coscienza di sé che l’individuo matura trasportando al suo interno il dialogo che si è
formato nell’interazione.

6. Lo studio dei gruppi

Cooley definisce un gruppo primario quello che è caratterizzato da un’associazione e cooperazione intima,
faccia a faccia. Formano la natura sociale e gli ideali dell’individuo. L’Io si identifica con la vita e gli scopi comuni
del gruppo. Il singolo vive del sentimento della totalità e trova in esso i principali scopi verso cui dirigere la
propria volontà. Prima di ogni cambiamento di programma il gruppo è consultato. I loro commenti vengono
ascoltati e discussi, qualche volta le loro obiezioni giungono fino a bloccare una proposta di esperimento.
Moreno propone una teoria della relazione interpersonale e del gruppo e, contemporaneamente, anche quel
metodo sociometrico. Egli afferma che all’origine della società vi è stato un momento di creatività e spontaneità
caratterizzato da modalità di comunicazione interumane più dirette e sostanziali. La normatività e
cristallizzazione di rapporto ha rotto questo momento, creando un psico-dramma continuo.
La sociometria costituirebbe un modo per ritrovare il senso di quelle relazioni preferenziali che costituiscono
l’unica garanzia dell’armonia. Moreno parte dal concetto di adattamento, la sua idea centrale è di intervenire,
modificandolo, sul processo di selezione naturale. Moreno pensa che questo meccanismo di selezione sia crudele,
e che su di esso sia possibile intervenire, attraverso una ricostruzione della società che può essere effettuata
grazie a metodo empirici basati sulla ristrutturazione delle reciproche scelte interpersonali.

7. La ricerca empirica della Scuola di Chicago

Per gli studiosi del Dipartimento di sociologia dell’università di Chicago, la città stessa divenne un laboratorio. In
essa si presentano i problemi connessi con l’emigrazione e con la rapida industrializzazione. Robert E. Park
definì Chicago come uno stato psichico e un insieme di tradizioni, atteggiamenti e sentimenti organizzati che
riguardano queste tradizioni e si trasmettono con essa. La città è un prodotto della natura umana.
La human ecology è un’ottica che considera la vita associata di una comunità come un insieme interrelato di
unità che convivono in modo simbiotico attraverso una dinamica di competizioni, adattamenti e assimilazioni.
Thomas e Znaniecki fornirono un quadro dettagliato della vita e dei problemi degli immigrati polacchi,
cogliendoli nel delicato passaggio dal loro mondo contadino al mondo americano delle industrie e delle città.
The hobo è la ricerca condotta da Anderson sulla vita dei lavoratori migranti che si spostavano per gli Stati Uniti,
spesso senza mestieri ben definiti, alla ricerca di qualsiasi lavoro temporaneo. Egli studiò a fondo il fenomeno
favorito dalla sua storia, in quanto fu egli stesso un hobo finché una famiglia di contadini dello Utah gli diede un
lavoro e lo spronò a laurearsi e specializzarsi in sociologia. Fu in questo modo che utilizzò la tecnica
dell’osservazione partecipante.
Thrasher studiò in The gang la delinquenza urbana analizzando 1.313 bande giovanili dell’epoca, che erano
situate nelle aree naturali (interstizi), cioè zone di collegamento fra i settori più strutturati, stabili e organizzati
della città. La religione caratterizzata dai quartieri degradati, alta mobilità della popolazione e forte
disorganizzazione sociale veniva definita cintura della povertà.
The ghetto: A study in isolation condotta da Wirth sui ghetti urbani che permettono lo sviluppo di modi di vita
minoritari, avendo al tempo stesso funzioni di controllo e di segregazione sociale e di etichettatura identitaria.
La ricerca sul terreno è l’ottica di base che ha guidato l’approccio di tutti loro. L’indagine sociale è un metodo
noto come social survey, risale agli studi che Booth condusse sulla povertà dei lavoratori di Londra nell’ambito
del programma che la sinistra (il Partito laburista) andava conducendo contro la miseria in cui viveva la classe
operaia negli slums di Londra.
Sidney e Webb hanno utilizzato metodologie di ricerca complesse e integrate: coniugavano tecniche di indagine
diverse. Sono state spesso affiancate tecniche qualitative e tecniche quantitative.

8. Gli studiosi di Chicago, la microsociologia interazionista e la psicologia sociale

8.1. Thomas e Znaniecki

I due ricercatori di Chicago hanno sottolineato che la causa di un fenomeno è una combinazione di un fenomeno
sociale e di uno individuale. Vi è una dipendenza reciproca tra l’organizzazione sociale e quella della vita
individuale.
L’atteggiamento viene inteso come un processo psicologico individuale che determina l’attività reale o possibile
dell’individuo nel mondo sociale. La loro concezione dell’atteggiamento finisce col prodursi una spaccatura
nell’esperienza dell’individuo. Il valore come un elemento oggettivo dell’ambiente socioculturale verso cui gli
atteggiamenti si indirizzano.
I due studiosi definiscono la loro psicologia sociale come la scienza del versante soggettivo della società:
un’ottica che trova il suo spazio in una microsociologia soggettivistica (interazionismo simbolico).

8.2 L’interazionismo simbolico e la psicologia sociale sociologica

Blumer con interazionismo simbolico ha indicato l’ottica che guarda alla società come ad un mondo in cui ogni
cosa acquista una realtà umana quando viene dotata di significato dalle reciproche interpretazioni delle persone.
Cooley ha accentuato una concezione interpersonale della società e l’aspetto mentale dell’interazione. Thomas,
invece, ha affermato che se gli uomini definiscono reali le situazioni, saranno reali le loro conseguenze. La
definizione della situazione secondo Blumer vede gli uomini che agiscono in base ai significati che le cose
hanno per loro. Il significato di una cosa per una persona nasce dal modo con cui gli altri agiscono nei confronti
delle persone in merito alla cosa, l’uso dei significati da parte dell’attore accade mediante un processo di
interpretazione, in cui l’attore sociale è costantemente impegnato perché, interpretando l’altro, interpreta anche
il proprio Sé quale si costituisce nelle varie situazioni.
I significati sono visti come costruzioni generali, emerse dalle dinamiche che hanno investito la società
attraverso i tempi, mobilizzandone insieme le strutture materiali e quelle simbolico-culturale.

8.3. La vita sociale come rappresentazione

Goffman ha esposto la sua concezione della vita di relazione come luogo nel quale gli esseri umani sono
impegnati a presentarsi, a dare positive impressioni di sé, a sintonizzarsi con quanto il loro copione sulla scena
del mondo richiede. Un mondo in cui siamo plasmati dalla drammaturgia rituale mediante la quale ci
incontriamo con gli altri e affrontiamo le situazioni. Un mondo è la rappresentazione quale si svolge sulla scena
teatrale: una scena imposta senza la quale non potremmo neppure esistere. Le attività vengono trasformate in
rappresentazioni, nelle quali l’attore ne esprime l’esecuzione. Il sociale è visto come un insieme di interazioni, le
quali sono assunte come rituali. Tali rituali trascendono l’individuo, ne incanalano l’agire e, attraverso di esso,
ne vengono a costituire il Sé. Quest’ultimo è il prodotto dell’azione collettiva e dell’istituzione sociale.
In Asylum vengono analizzati gli effetti distruttivi che le istituzioni totali hanno sulla persona, mentre in Stigma
gli esiti che le stigmatizzazioni ricevute nell’interazione sociale possono avere, inchiodando psicologicamente gli
individui ai loro difetti fisici o ai loro handicap.
La recita deve avere un luogo solido in cui il teatro si leva. Goffman ha ipotizzato una serie di livelli in cui l’attore
può muoversi, i quali vengono da lui definiti cornici che hanno alla loro base la solida realtà fisica e biologica
dell’essere umano. Gli individui che si muovono sulla scena hanno acquisito una realtà fisica: tra la scena sociale
su cui avviene la recita e i corpi che la recitano c’è il vuoto.

8.4. L’etnometodologia

Per Garfinkel la realtà sociale in cui gli individui vivono e operano è quella costituita dall’insieme dei significati
ormai sedimentati attraverso le generazioni. Un mondo di conoscenze in cui noi entriamo da subito, perché essa
è fin dall’origine intersoggettiva e socializzata. È l’impegno nelle minute attività che vale a costituire la realtà
sociale in cui viviamo: dentro al cervello, per lui, non c’è proprio niente.
Ciò che tiene insieme il nostro mondo è il tacito consenso con cui gli attori sociali accettano i sistemi di
convenzioni in cui sono immersi e attraverso i quali affrontano i problemi della loro esistenza.
La realtà sociale appare come un qualcosa di fluido, che viene fatto e rifatto attraverso le condotte quotidiane,
intese a livello discorsivo. Attraverso gli scambi discorsivi la gente cerca di rendere comprensibile e spiegabile il
mondo in cui vive. Questi accounts diventano esse stesse parte della realtà sociale.

9. La psicologia sociale nella scienza del comportamento


9.1. Il fare dell’uomo come comportamento

Watson afferma che la psicologia deve studiare ciò che l’uomo fa. Identificando il fare con il mero
comportamento manifesto e utilizzando i dati comportamenti anche per analizzarlo e spiegarlo, egli produce
un rivolgimento della psicologia, in cui è eliminato ogni riferimento all’attività mentale, all’esperienza soggettiva
e all’attività pratica come era concepita fino ad allora.
Il comportamento diviene un evento in sé: può essere analizzato nei canoni stretti del metodo delle scienze
fisico-naturali, può essere oggettivamente descritto e se ne possono ricercare le cause, a esso esterne, che lo
attivano, come avviene per ogni altro fenomeno fisico. Inserito come una risposta che l’organismo dà a uno
stimolo esterno (teoria S-R) esso viene a perdere le sue due caratteristiche umane: il senso del fare come attività
che in qualche modo modifica il contesto fisico e/o sociale e quello della fonte attiva che gli sta dietro, ovvero del
soggetto con i suoi desideri.

9.2. La teoria S-R

Il comportamento dell’uomo è solo una parte dello schema totale di indagine seguito dal comportamentista. I
concetti di sensazione, percezione, attenzione, immagine, volontà e simili vengono sostituiti con quelli di stimolo,
risposta, abitudine, apprendimento. Il soggetto della teoria è un organismo indifferenziato che si muove in un
contesto anch’esso indifferenziato.
L’ottica del behaviorismo è ambientalistica perché l’ambientale resta indifferenziato. La teoria è anche
periferialista, in quanto descrive e analizza l’evento psichico nei termini di comportamenti e abitudini acquisiti
a livello di organi periferici al di fuori di ogni intervento del sistema nervoso centrale.
Il processo di apprendimento viene spiegato con l’utilizzo di modelli meccanicistici. Dapprima il modello
semplificato per tentativi ed errori, poi modelli basati sul condizionamento classico pavloviano per
associazione in cui la ripetuta associazione di uno stimolo capace di produrre una risposta adeguata a uno
stimolo produca la reazione voluta. Infine modelli di condizionamento operante di Skinner, il quale ha come
assunto l’idea che sia l’animale sia l’uomo tendono a ricercare il piacere e a fuggire dal dolore. Se le risposte a una
stessa situazione ricorrono più frequentemente quando procurano una situazione di piacere, allora si possono
variamente rinforzare i comportamenti che si desiderare fare apprendere con un opportuno gioco di premi, e
viceversa cercare di farli disimparare mediante rinforzi negativi o punizioni.

9.3. La teoria S-O-R e il neobehaviorismo

Le modificazioni indotte dal neobehaviorismo, portano ad un modello definito S-O-R volendo con O
rappresentare l’intervento più attivo dell’organismo, cioè una sua mediazione tra lo stimolo e la risposta. Hull ha
inserito tale forza motivazionale (drive) che spinge e guida l’organismo alla riduzione dei suoi bisogni primari
e, in seguito, dei bisogni secondari che si sono formati. Tali drives intervengono nella formazione delle
abitudini le quali mediano tra S ed R.
Tolman con il concetto di purposive behavior fa riferimento ad un comportamento a cui ineriscono scopi e
intenzioni (purposes). Il comportamento nella sua visione è mosso da stimoli che spingono ma anche da mete
che attirano, persistendo fino alla sua conclusione in una data situazione. La persistenza della meta consente
all’organismo di formarsi delle mappe cognitive del campo comportamento, nelle quali questo è rappresentato
come unità organizzata che viene imparata dall’organismo e viene memorizzata. Su questa base lo stimolo viene
concepito da Tolman come una sign-gestalt, ossia un’unità organizzata che acquista il suo significato grazie alla
meta che l’organismo ha cognitivamente anticipato.
La neurofisiologia di Hebb ha mostrato gli aspetti di integrazione delle funzioni nervose che avvengono a livello
centrale. Il cervello e la mente erano definiti un black box dai behavioristi, ma esso è costantemente in attività
anche al di là della stimolazione esterna e capace di autoattivazione spontanea. L’energia è nel cervello, costruito
per essere attivo.

10. L’apprendimento sociale e i comportamenti aggressivi

Gian Vittorio Caprara notò dei limiti nelle ricerche di Dollard, Doob, Miller, Mowrer sul comportamento
aggressivo analizzato in base all’ipotesi che esso sia attivato dalla frustrazione. I limiti sono l’isolamento del
fenomeno dal contesto sociale, la sua generalizzazione, la puntiformità con cui sono viste sia le occasioni di
stimolazione sia le reazioni dei soggetti e l’artificiosità complessiva del contesto di laboratorio in cui il problema
fu analizzato.
Il social learning ha assunto importanza negli studi indirizzati all’età dello sviluppo, poiché il mondo del
bambino è più impegnato di quello dell’adulto in una multiformità di processi di apprendimento che concorrono
al processo di socializzazione.
L’imitazione poteva avere un ruolo importante nella socializzazione concepita behavioristicamente come un
processo di adattamento al mondo degli adulti, ovvero di adeguamento a modelli. Questa tendenza all’imitazione
viene rinforzata dal fatto che quanto più l’agire del bambino si conforma ai canoni dell’agire dell’adulto, tanto più
sembra poter ottenere quei privilegi di cui gli adulti appunto godono.
Il rinforzo vicariante è un rinforzo che agisce attraverso i modelli ai quali egli è esposto.
Per Caprara l’aggressività è intesa come “una condotta suscettibile di essere appresa e analizzata in base agli
stimoli che si rivelano capaci di sollecitarla, in base ai rinforzi che si rivelano capaci di facilitarla o inibirla, in base
al grado di determinazione e di autocontrollo della persona che la pone in atto”.
I lavori di Bandura ci presentano un soggetto che è dentro al sociale, e che attraverso esso può modulare le sue
condotte.
L’apprendimento sociale viene concepito come rielaborazione realizzata mediante l’esperienza, diviene un
fattore che contribuisce a costruire il Sé, la personalità e i modi di vita che si esplicano nelle pratiche sociale.
Nelle pratiche di vita il soggetto conosce ed apprende, agisce.
Viviamo in una società che è colma di elementi di violenza, i quali agiscono in modo lineare e in modi più
complessi attraverso processi mentali automatici posti al di là del controllo cosciente.

3. LA CONCRETIZZAZIONE DELL’ARTICOLAZIONE PSICOSOCIALE


1. Un teorico pratico: Kurt Lewin

Nato in un paesino prussiano nel 1890, Lewin si formò a Berlino avendo come maestri Carl Stumpf, Max
Wertheimer e Wolfgang Kohler, ma seguendo anche le lezioni di Ernst Cassirer. Emigrato nel 1933 in America,
lavorò presso l’università dello Iowa, fondando nel ’44 il Center for Group Dynamics nel MIT.
Lewin era convinto che soltanto la messa a punto di un quadro complessivo e organico di analisi potesse dare
dignità di scienza autonoma alla psicologia. Nell’Istituto di psicologia di Berlino, condusse ricerche sia sui
problemi del lavoro e della condizione contadina e operaia, sia analizzando sul piano teorico ed empirico la
motivazione e l’azione nelle relazioni tra elementi soggettivi e dati oggettivi.
La teoria è un modo di guardare ai fenomeni in termini problematici, nell’intento di descriverli e spiegarli,
ponendo delle ipotesi che si cercano poi di verificare utilizzando i metodi più idonei. Guardare in termini
problematici ai fatti facendo ipotesi, significa anche scoprire fatti nuovi che prima non si erano visti. La teoria è
un’intelaiatura che sorregge ricerche e pratica, spingendole al di là della superficie delle cose e delle situazioni.
La riflessione teorica ci consente di puntare al cambiamento dell’esistente, sia nella ricerca sia nell’intervento. La
sua concezione della psicologia era anche pratica, in quanto sapeva che i fenomeni sono popolati di esseri umani,
e l’intento che lo guidava era di mettere a punto un sapere psicosociale atto a meglio conoscere questa realtà
umana, ma anche a costruire strumenti per migliorarla.

2. Persone umane e metodi della psicologia

Lo psicologo si trova al centro di una ricca e vasta regione di strani avvenimenti. La varietà dei fenomeni a cui
egli si trova di fronte quando si rivolge all’ambito concreto dell’esistenza umana è un immenso continente.
Quello che occorre fare per studiare le persone nel contesto dei loro problemi è di guardare oltre la facciata degli
eventi, andare sotto la superficie: non osservare dall’esterno. Focalizzando come oggetto degli esseri umani
intesi nell’interezza della loro esperienza, e come metodo quello dell’analisi empirica, Lewin richiama il campo
di analisi e il metodo della psicologia.
Il meccanicismo prescriveva allo studioso di porsi di fronte ai fenomeni in modo oggettivo e di analizzarli in tal
modo. Ciò implica assumerli come essi si presentano nella loro realtà di fatto osservabile, di descriverli nel loro
stato presente, e di spiegarli in modo deterministico sulla base del principio di causalità lineare.
Wundt e i suoi allievi studiavano l’atto conoscitivo nel percorso sensazione-percezione-rappresentazione
mentale mediante l’introspezione artificialmente controllata. Sull’altro versante il behaviorismo si allineava al
metodo meccanicistico. Dilthey propose un metodo adatto a studiare quei fenomeni che devono essere descritti e
spiegati dall’esterno, ma anche compresi nelle loro dimensioni interne di singolarità e di individualità.
Identificando questa dimensione interna con un vissuto difficilmente analizzabile, e insistendo sulla
comprensione dei vissuti come alternativa alla spiegazione delle scienze empiriche, l’ottica di Dilthey divenne
estremamente soggettivistica. Max Weber escluse rigorosamente ogni componente psicologica nell’analisi
delle dinamiche sociali.
La Gestalttheorie fa cogliere direttamente la realtà fenomenica del mondo in cui viviamo, ha fatto suo il metodo
fenomenologico, che valorizza l’esperienza del soggetto, pur evitando di cadere nel soggettivismo. Da essa
Lewin recepì l’idea che la nostra esperienza è costituita da percezioni strutturate di oggetti e/o reti di relazioni, e
che solo in tale campo di relazioni i singoli elementi trovano il loro significato. Lewin allargò la dimensione attiva
del soggetto all’intero campo dell’esperienza, e il ruolo del contesto alla situazione in cui l’esperienza ha luogo.
La persona è definita come un essere umano che è portatore di percezioni, conoscenze, bisogni, necessità,
motivazioni, emozioni, progetti, scopi, speranze e così via. Essa sta dentro ad un ambiente sempre precisato sul
piano situazionale, con tale ambiente è in relazione tramite i suoi processi percettivo-cognitivi ma anche tramite
la sua azione pratica. Nell’insieme della situazione la persona è inserita in modo dinamico, perché i cambiamenti
provocati dalla sua azione ritornano su di lui, modificando la percezione e la rivelazione dei fatti, il risultato della
rilevazione dei fatti influenza o guida l’azione. La soggettività viene vista nel contesto, i processi psicologici si
strutturano nella relazione con il contesto.

3. Il costrutto di campo e la field theory

3.1. Il campo e la nuova visione del mondo e della scienza

Maxwell studiò il costrutto di campo, contribuendo a far vedere il mondo che ci circonda in modo diverso. Il
campo elettromagnetico è quello che viene a crearsi tra due cariche elettriche di segno opposto: questo spazio è
un campo di energia analizzabile nella sua portata e nei suoi effetti mediante equazioni matematiche e analisi
empiriche. Il campo è un costrutto che vale a inserire in un quadro scientifico il ragionamento basato sulle
relazioni e sulle funzioni. Il costrutto di campo ci permette di ragionare sui fenomeni sulla base della
configurazione del sistema globale in cui i corpi sono compresi e che essi stessi contribuiscono a formare con il
loro sistema di relazioni, sulla base dell’energia che il campo possiede e della direzione delle forze in gioco, oltre
che dell’ampiezza delle forze stesse. È il campo compreso nello spazio tra le cariche e le particelle che è
fondamentale per la descrizione dei fenomeni. Le leggi di un campo dipendono dalla configurazione e dal
movimento del campo considerato. Gli eventi che si verificano in un campo ad un momento dato, hanno come
spiegazione quella che deriva dalle proprietà del campo stesso in quel momento in cui si verifica. Una spiegazione
basata sulla dinamica del sistema che comprende gli elementi in gioco: con una specifica enfasi sulla relazione tra
gli elementi.

3.2. Il vecchio metodo e i suoi limiti

La situazione concreta è sempre specifica, localmente definita: se viene statisticamente annegata tra le altre ogni
sua specificità si perde, e con essa anche il significato di quanto accade nel suo contesto. La questione di un’ottica
idiografica (indirizzata al caso singolo) fu posta da Gordon Allport, che concentra la sua attenzione per l’uno
considerato nella sua singolarità e ciò non può essere trascurato dalla psicologia quando guarda alla persona.

3.3. La field theory come metodo d’analisi psicosociale

La teoria di campo si caratterizza come metodo di analisi dei rapporti causali e di elaborazione dei costrutti
scientifici nell’ambito di situazioni considerate sotto il profilo del cambiamento. Tali rapporti causali vanno
sempre considerati come dipendenti dalle mutue relazioni tra i diversi fatti, in particolare dalle relazioni tra
l’oggetto e l’ambiente in cui esso si trova. Le cause di un fenomeno sono basate sull’analisi strutturale-genetica
delle condizioni complessive che lo fanno accadere, cioè della dinamica situazionale in cui è inserito. Occorre
guardare a fondo nella situazione, trovare quelle situazioni nelle quali i fattori responsabili della struttura
dinamica totale possono essere resi evidenti in modo netto e semplice. Vi è un riferimento alla piena concretezza
delle situazioni particolari. Il metodo che Lewin definisce costruttivo concreto è utile per la psicologia sociale
che, occupandosi di individui in situazione, è interessata sia a non perdere il senso particolare di ogni situazione
specifica, sia a mantenere aperta la ricerca di leggi generali. I vettori che determinano la dinamica di un evento
possono essere definiti in funzione della totalità concreta che comprende, contemporaneamente, l’oggetto e la
situazione. Per Lewin il fenomeno studiato è parte di una situazione globale che viene analizzata nel suo stato
presente come un insieme dinamico di forze che connettono sempre il fenomeno con il contesto in cui si realizza.
L’analisi viene condotta sulla base di relazioni tra variabili che sono tutte interne alla situazione stessa.

3.4 Situazioni, problemi e principi d’indagine

Lewin con il costrutto di campo propone uno studio integrato dei fattori cognitivi, emotivi e ambientali nella
produzione della condotta, ma anche un’analisi del loro concreto modo di funzionare come sistema di fattori che
trovano la loro definizione e la loro funzione proprio in quanto sistema di interdipendenze. Quest’ottica consente
di centrare l’analisi su situazioni concrete della vita reale, di inserirle in un contesto più vasto di strutture e
processi, di analizzare problemi specifici in dipendenza da situazioni specifiche, di passare via via alla
formulazione di leggi generali relative al modo con cui l’uomo agisce, ragiona, valuta e così via, nell’interdipenza
con il contesto in cui è inserito.
Sul piano metodologico la field theory ci suggerisce l’analisi di un problema che va condotta in una situazione
precisa, definita in ordine ai fattori di ordine oggettivo e soggettivo che vi intervengono in un momento definito.
La determinazione dei fattori intervenienti va compiuta in termini teorici ed empirici. Tale definizione può
essere condotta su situazioni in sede sperimentale purché rispetti i criteri di precisazione. Solo nell’ambito
sperimentale potrà essere utilizzato il metodo delle variazioni sistematiche, ma anche nelle situazioni della vita
reale si può focalizzare il momento del mutamento come occasione privilegia di analisi.

4. Struttura e dinamica del campo psicologico-sociale

4.1. Spazio di vita ed ecologiche del campo

Il campo psicosociale si definisce come la totalità dei fatti coesistenti nella loro interdipendenza a un momento dato.
Vi sono tre tipi di fatti:

1. Comprende la persona e l’ambiente psicologico come è visto da essa. Questi fatti costituiscono lo spazio
di vita direttamente connesso con il mondo personale soggettivo;
2. Sono tutti i fatti che costituiscono l’ambiente quale oggettivamente è. Vengono definiti ecologia
psicologica. Lo psicologo esamina i dati non psicologici per scoprire il significato di questi dati nella
determinazione delle condizioni-limite della vita dell’individuo o del gruppo. Solo dopo che essi siano
noti, la ricerca potrà procedere all’indagine dei fattori che determinano le azioni in quelle situazioni
importanti;
3. Lewin aveva tenuto conto della trasformazione di questi fatti oggettivi in soggettivi, teorizzando una
terza area definita zona di frontiera del campo. In essa agiscono la percezione e l’azione mediante le
quali certe parti del mondo fisico e sociale vengono portate nello spazio di vita influendo su di esso.
La condotta è funzione sia del mondo interno personale (P) sia del mondo esterno (A) secondo la formula C = f
(P,A).
Il concetto di interdipendenza significa che le proprietà di ogni fatto derivano dalla relazione con tutti gli altri
fatti presenti, e in base a tale sistema di interrelazioni ogni fatto trova la sua spiegazione e la sua funzione nel
concorrere alla dinamica del sistema. Avviene talvolta che lo psicologo definisca alcuni aspetti del campo come
elementi di irrealtà, in contrapposizione ad elementi di realtà. Occorre tener presente che la realtà e l’irrealtà
di un fatto è data solo dal modo con cui esso è collegato con l’insieme della situazione totale. Nell’analisi dei
desideri ci possono essere componenti irreali in certe situazioni che diventano reali in altre, e così via.
Il comportamento dovrebbe essere considerato come funzione della persona e dell’ambiente, ma anche come
elemento attivo della loro costruzione. L’azione presuppone un’ottica promossa da un soggetto attivo, presenta
dei risultati che modificano la situazione. L’esperienza consiste in un costante passaggio dal soggettivo
all’oggettivo e viceversa. La dinamica del campo è costantemente strutturata da processi circolari che investono
la situazione nel suo insieme di componenti.

4.2. La coesistenza dei fatti a un momento dato

La definizione della situazione è affidata all’osservazione empirica, a un test diagnostico del presente la cui
validità è connessa alla qualità e all’accuratezza del procedimento utilizzato. L’anamnesi è una ricostruzione
storica della situazione, il test è una rilevazione dello stato presente, in cui possono entrare anche il passato
(psicologico) e il futuro (psicologico) se hanno un’influenza. Quello che il test viene a diagnosticare è l’incidenza
presente di questi elementi, colti in una prospettiva temporale che contiene in sé, nel presente, anche il passato e
il futuro. L’analisi lewiniana è effetto della situazione quale essa è qui e ora.

4.3. Organizzazione formale-dinamica del campo

I fenomeni devono essere rappresentati in modo spaziale. Lewin cerca una geometria in grado di rappresentare
questo spazio psicologico, atta cioè a descrivere il sistema di relazioni e interdipendenze tra i fatti del campo del
campo secondo distanze, posizioni, movimenti, ecc. Egli utilizza lo spazio odologico con il quale intende uno
spazio strutturato in modo finito, le cui parti sono composte di certe unità o regioni. “La direzione e la distanza
sono definite da traiettorie distinte che possono essere collegate con la locomozione psico-logica”.
La matematica vettoriale verrà utilizzata per rappresentare i mutamenti che avvengono nello spazio odologico,
mentre i concetti topologici per spiegarne parti strutturali.
Il campo si struttura, dividendosi in regioni e modificandosi in base a valenze e forze. Regioni, divisioni,
barriere, spazi sono rappresentazioni di stati psichici, di comportamenti, di situazioni, di attività e così via. Il
campo è diviso in regioni separate da frontiere di diversa stabilità e consistenza. Le regioni variano col variare
del campo. Questo reticolo di regioni non è mai completamente statico, perché i nostri processi percettivo-
motori sono sempre in atto; anche le barriere tra le regioni mutano in funzione di quello che succede nel campo,
potendo ingrandirsi in relazioni ad attività, comportamenti, necessità, e così via. Nelle regioni più interne (C)
stanno elementi stabili, personali. In quelle più periferiche personali (P) stanno elementi meno cogenti ma
importanti. Nell’ambiente psicologico (E) stanno regioni relative all’attività in corso e anche altre regioni più
varie. Altri elementi entrano così nel campo passando da A ad E attraverso la zona di frontiera: altre regioni si
creano, alcune regioni si spostano, alcune si restringono e altre si allargano.
Lewin analizza tale dinamica utilizzando gli spostamenti che sul piano psicologico la persona compie in base ai
sistemi di valenze e di forze che agiscono nel campo. La valenza è il valoro che una regione acquista in un dato
momento per la persona e determina la direzione della locomozione verso quella regione (valenza positiva) o la
fuga da quella regione (valenza negativa). La forza è la risultante del sistema di forze che agiscono in quel
momento nella regione del campo da cui si inizia la locomozione e si esprime con un vettore che ne indica la
direzione, l’intensità e il punto di applicazione. La direzione di una forza è determinata ovviamente dalla
regione in cui è situata la valenza positiva e verso cui il sistema di forze tende ad orientarsi. L’intensità è
determinata dall’intensità della valenza in collegamento con il mondo interno della persona e con l’ambiente.
L’elemento centrale è il concetto di bisogno, inteso come elemento dinamico di coordinazione. Un bisogno
aumenta la tensione, libera energie presenti ma non agenti, conferisce valenze all’ambiente, dà significato e
direzione alle forze.

4.4. Il gruppo e la sua dinamica

• Il gruppo come campo unitario: studio dei gruppi che costituiscono il vero ambiente sociale col quale
l’individuo entra in contatto in molti momenti della sua esistenza. Dopo Lewin la dinamica di gruppo
procederà nelle tre direzioni della sperimentazione, della clinica e della pratica sociale.
Nell’analisi lewiniana il gruppo è un fenomeno, ha una struttura propria, fini peculiari, e relazioni con
altri gruppi. L’essenza sta nella loro interdipendenza. Può essere definito come totalità dinamica, ciò
significa che un cambiamento di stato di una sua parte qualsiasi interessa lo stato di tutte le altre. Il
grado di interdipendenza delle frazioni del gruppo varia da una massa indefinita ad un’unità compatta.
Il gruppo ha bisogni di gruppo, dai quali nascono tensioni di gruppo che si collegano, nel campo del
gruppo, a valenze e forze. Le ricerche sperimentali sui fenomeni di gruppo vengono orientate sulle
caratteristiche del gruppo come struttura complessa;
• La ricerca sui gruppi democratici, autoritari e permissivi: in una ricerca vennero costituiti dei
gruppi di ragazzi che avevano come fine di fabbricare maschere per il teatro. La direzione dei gruppi si
divise in modo attivo (democratica), in altri autoritaria e altri più permissiva (laissez-faire). Nei primi
si creò una viva collaborazione tra i membri, producendo soddisfazione e creatività. Nei secondi
emersero rilevanti fenomeni di aggressività che si manifestano soprattutto verso taluni membri del
gruppo, cioè dei capri espiatori. Il passaggio dall’autocrazia alla democrazia era più lento, questo perché
l’autocrazia viene imposta all’individuo, mentre la democrazia deve essere appresa. I gruppi democratici
si rivelarono in grado di fornire una produzione basata sulla qualità, mentre quelli autocratici più portati
alla quantità. In seguito i gruppi democratici si rivelarono essere anche più efficienti di quelli autocratici,
in quanto in questi vi erano paurosi conflitti in assenza del leader;
• Il problema del cambiamento e la ricerca sulle abitudini alimentari: la ricerca collegata con la
dinamica di gruppo entra nel vivo della pratica sociale, grazie anche al problema del cambiamento.
Lewin aveva l’idea di studiare le cose cambiandole.
Le situazioni sociali si mantengono grazie ad un equilibro di forze al loro interno. Tale equilibrio è quasi
stazionario, caratterizzato da oscillazioni prodotte da forze uguali e contrarie. Un mutamento nella
struttura di tale campo di forze può avvenire o con l’aggiunta di forze nella direzione desiderata o con
ola diminuzione delle forze opposte.
Egli intraprese ricerche volte a dimostrare la superiorità del metodo basato su decisioni di gruppo. Un
processo di cambiamento riuscita consta di tre tappe: una di rottura, una di spostamento, una di
ricostruzione.
Lewin mise a confronto, su sei gruppi di massaie, per alcune settimane, due metodi per indurre la gente
a consumare anche parti meno nobili della carne: uno basato su tecniche classiche di propaganda,
l’altro basato su discussioni di gruppo guidate da un animatore in cui il tema dei consumi veniva
affrontato con notevole libertà. Alla fine si constatò che le tecniche tradizionali avevano prodotto
cambiamenti nei consumi di carne presso il 3% dei soggetti, mentre ben il 32% dei partecipanti ai
gruppi di discussione aveva modificato le proprie abitudini. Il coinvolgimento nel gruppo si dimostrò
superiore, la decisione presa nell’ambito delle sue dinamiche e in sostanza la partecipazione attiva può
produrre cambiamenti ma anche evitare tensioni e sviluppare relazioni democratiche.
5. La dinamica di gruppo e la ricerca-azione

5.1. Dinamica di gruppo e problemi umano-sociali

Lewin è indirizzato ad unire interventi concreti sulle pratiche sociali con l’elaborazione teorico-metodologica.
Nella dinamica di gruppo, la teoria e la pratica sono legate metodologicamente in modo tale che unite possono
fornire delle risposte a più problemi teorici e nello stesso tempo rafforzare quell’approccio razionale ai problemi
sociali pratici che è una delle esigenze fondamentali per la loro risoluzione.
Cartwright definisce gli obiettivi del Research Center for Gruop Dynamic del MIT:

1. Promuovere una conoscenza sistematica e formulare teorie fondamentali concernenti le forze


soggiacenti alla vita di gruppo, quelle che influenzeranno le relazioni tra i gruppi, quelle che agiscono
sullo sviluppo della personalità e l’adattamento dell’individuo;
2. Ridurre lo scarto tra il corpo di conoscenza delle scienze sociali e la pratica dell’azione sociale;
3. Fornire un programma d’insegnamento poggiante sulle conoscenze accumulate nella dinamica di
gruppo, sulle tecniche di ricerca, sulle tecniche di formazione di leader, sulla consultazione e sull’azione
sociale.
Prese corpo quel gruppo di formazione, noto come T-group (training group) nel quale le dinamiche interazioni
che insorgono tra i partecipanti al gruppo vengono utilizzate a scopo formativo, in senso clinico-sociale.
Autocentrandosi, il gruppo si focalizza sull’interazione pura e sui fenomeni che in essa avvengono,
coinvolgendo conoscenze e sentimenti che vengono analizzati e autoanalizzati nel vissuto immediato della
comune esperienza. Solo vivendo un’esperienza di sé tra gli altri ci si può conoscere: ci si può cambiare e aiutare
gli altri a cambiarsi.
5.2. La ricerca azione

La ricerca azione è fondata sulla partecipazione attiva e paritaria, utilizza l’indagine conoscitiva ai suoi vari
livelli, concependo la ricerca come strumento per analizzare in modo non dogmatico i problema. Si basa sulle
conoscenze che derivano dalla pratica concreta dei partecipanti e la finalizza a produrre cambiamenti nella
situazione. Ciò che importa è la collaborazione attiva del contesto, necessaria per lavorare sulla base di scopi
condivisi e per favorire la partecipazione attiva del gruppo. Esso funziona sotto la guida di un esperto psico-
sociale, attraverso una serie di fasi dirette a chiarire il problema, a piani successive linee di analisi precisate col
tempo anche grazie alle informazioni raccolte, a delineare, mediante successive analisi e discussioni, linee di
azione in vista di possibili azioni. Un processo che può avere diversa durata nel tempo. La ricerca-azione è la
trascrizione operativa del soggetto attivo nell’attività mentale e pratica. A lui si dà la parola, insieme con lui si
procede a produrre una conoscenza basata sulle sue e sulle nostre idee ma anche e soprattutto sulla sua attività
pratica svolta nella situazione. Il dato personale viene socializzato, discusso, messo in comune in un problema
comune. Mediante la dinamica relazione promossa dallo scambio di conoscenze, di valutazioni, di atteggiamenti,
di sentimenti, di emozioni, la ricerca-azione diviene un’educazione alla socialità e una crescita personale.
Un’azione che nasce come una interazione, la quale contribuisce a far entrare lo psicologo sociale nel gioco,
rompendo la situazione tradizionale della ricerca e dell’intervento psicologico. Il soggetto diviene un soggetto
attivo in modo reale: da questo riconoscimento possono iniziare eventuali ricostruzioni di identità, uscite da
condizioni di emarginazione, recuperi della propria voce.
L’idea dell’action reaserch dopo la morte di Lew perde di carica teorica, metodologia e politica.

6. Il significato della lezione di Lewin

Quando egli dichiarava che la scienza doveva focalizzarsi su dei problemi aveva in mente un quadro
epistemologico e uno della realtà quotidiana, una prospettiva in cui agiscono persone concrete alle prese con
questioni concrete. Lewin ha ragionato su significati, proponendo collegamenti tra il mondo delle
rappresentazioni e il mondo della realtà sociale, ha dato spazio a soggetti attivi. Egli ha impostato il problema
delle relazioni tra i fattori oggettivi e quelli soggettivi nella determinazione dell’agire umano.

7. La teoria della dissonanza cognitiva

7.1. La ricerca di consistenza cognitiva

La teoria della dissonanza cognitiva di Festinger vedeva l’uomo che tende ad essere coerente con sé stesso nel
modo di pensare e di agire. In assenza di tale coerenza si crea uno stato di disagio che si cerca di eliminare o
ridurre. Se cambia il suo comportamento, il problema viene risolto riportando una coerenza (consonanza) tra il
dato cognitivo e il dato comportamentale. In caso contrario, lo stato di dissonanza dovrà essere risolto in altro
modo, attraverso una ristrutturazione cognitiva. L’individuo, dunque, sperimenta una dissonanza in
concomitanza con una decisione. La dissonanza costituisce una motivazione a cercare modalità per eliminare il
disagio psicologico. Tali modalità possono essere costituite o da un cambiamento del comportamento o da una
ristrutturazione cognitiva. Le condizioni necessarie affinché tra due cognitions si produca uno stato di
dissonanza sono tre: pertinenza, discordanza e attivazione degli elementi a seguito di una decisione.

1. Pertinenza: significa che i due elementi cognitivi abbiano qualcosa in comune che li colleghi e abbiano
significato l’uno per l’altro. Secondo Festinger due cognitions possono essere dissonanti per motivi di
logica interna, perché in contrasto con norme culturali, con precedenti esperienze personali e così via.
L’unico metro per valutare la dissonanza di due elementi cognitivi è la logicità che essi possiedono in un
sistema concettuale conosciuto e utilizzato dal soggetto;
2. Discordanza: occorre che esse siano messe in azione nel mondo concreto dell’esperienza personale in
una decisione, ovvero nel momento in cui si concretizza l’interrelazione tra il mondo interno e quello
esterno. Senza decisione non vi è dissonanza. Il caso più evidente che mette in relazione discordanza e
decisione è quando quest’ultima avviene dopo una libera scelta. La persona, prima della scelta, può
sperimentare un conflitto più o meno forte. Esso dura sino alla decisione. È nella fase post-decisionale
che si produce lo stato di dissonanza, in cui il senso della scelta compiuta e l’eco della primitiva
situazione conflittuale permangono nella mente della persona generando fenomeni di incertezza,
rimpianto e così via.
7.2. Profezie sconfermate e venti dollari per una menzogna

Le decisioni suscettibili di produrre dissonanza sono anche quelle che si prendono quando nella vita ci troviamo
di fronte a fatti compiuti che, disconfermando nostre aspettative, ci costringono a ristrutturare il nostro mondo
mentale.
Un gruppo misticheggiante si costituì negli anni cinquanta attorno ad una presunta veggente. Ella affermava di
essere in contatto con i Guardiani dello spazio da cui riceveva messaggi. Un giorno diede la notizia che dopo due
mesi, il 21 dicembre di quell’anno, la città sarebbe stata distrutta da un’enorme alluvione. Un’astronave sarebbe
stata inviata per salvarli. Nulla di tutto ciò accadde, tuttavia il gruppo si compattò ed interpretò lo scampato
pericolo come una grazia ricevuta per aver costituito un movimento, e iniziò a promuovere un’intensa azione di
propaganda e proselitismo. Le persone cercarono nuovi elementi cognitivi per rinforzare una credenza che si
rivelò falsa. Il proselitismo è un accertato strumento di costruzione sociale della realtà.
Succede nel corso della vita sociale di trovarsi a sostenere un comportamento incoerente con le nostre opinioni a
causa di una decisione assunta sotto la spinta di circostanze varie: questa forma di dissonanza viene definita da
Festinger come accordo forzato. Se la persona non può esimersi dal comportamento richiesto, sperimenta uno
stato di dissonanza che cercherà di ridurre modificando il suo quadro cognitivo, adeguando le proprie idee e i
propri atteggiamenti alla tesi che è costretta a sostenere per accordo forzato. Tanto più basso sarà l’incentivo
che viene utilizzato, tanto più alto sarà lo stato di dissonanza che esso prova; tanto più alto lo stato di dissonanza
tanto più profondo sarà il cambiamento di atteggiamento.
Venti dollari per una menzogna: 71 soggetti vennero sottoposti a delle prove. Chiacchierando con ognuno di
loro singolarmente, lo sperimentatore affermò di star conducendo degli esperimenti per vedere se il fatto di dire
alla gente che il lavoro che devono eseguire è bello può provocare delle differenze nel rendimento; disse che il
lavoro consta nelle prove sostenute in precedenza dal soggetto. Chiese ad ogni soggetto di fargli da assistente
nell’introdurre la persona che doveva sostenere la prova e nel convincerla che la prova fosse interessante. In
realtà questa persona era un collaboratore dello sperimentatore, avente il compito di valutare il comportamento
del soggetto. Ad alcuni furono proposti 20 dollari come ricompensa, altri un dollaro. Alla fine delle prove goni
soggetto veniva intervistato da un altro ricercatore estraneo all’esperimento, e nel corso dell’intervista veniva
sondato il suo reale atteggiamento di fronte alle prove stesse. Si rivelò che i soggetti meno pagati furono più
convincenti nel proclamare l’interesse delle prove, diventandone convinti. Rosenberg criticò tale esperimento,
replicandolo e tenendo distinte le condizioni di produzione della dissonanza da quelle di rilevazione degli
atteggiamenti, riscontrando risultati diversi da Festinger. Rosenberg affermò che uno stato di apprensione e di
ansia per la valutazione induce il soggetto a modificare il proprio atteggiamento. Il soggetto al quale viene offerto
una grossa somma per un lavoro di un’oretta è indotto a pensare a qualche trucco nascosto, facendo nascere così
un’ostilità verso lo sperimentatore e ne deriva una situazione in cui viene rinforzata la rigidità al cambiamento.
Nuttin, con la collaborazione della televisione belga, ha attribuito i cambiamenti di atteggiamento al carattere
strano, inatteso, perturbante che le ricompense molto basse inducono nella situazione.
Giocattolo proibito: utilizzando il normale ambiente di gioco in una scuola materna, con il pretesto di far
valutare e scegliere giocattoli di uso comune, si riscontrò come l’effetto dissonanza potesse agire nel senso
indicato da Festinger.

7.3. Scelta, impegno, responsabilità

Solo la partecipazione reale alla decisione può coinvolgere la persona nella situazione. Persone che sotto una
dittatura sono costrette a comportarsi in modo contrario alle proprie idee maturano e costruiscono forme di
reazione che tendono a cambiare la situazione reale. Il concetto di commitment constata che un impegno avente
caratteristiche di pubblicità, tale cioè da impegnare socialmente la decisione di una persona, costituisce un
fattore che incide più sull’insorgenza di una dissonanza. La dissonanza sarà tanto maggiore quanto più il
soggetto si sente libero di decidere e di impegnarsi e quanto più tende a sentirsi responsabile della decisione che
prende. La decisione di impegnarsi, soprattutto se pubblica, vincola la persona a comportarsi in un dato modo
anche quando questo diventa contrario al senso comune.
7.4. Motivazione intrinseca e ruolo dell’azione

Quella che agisce è una motivazione intrinseca ai processi mentali stessi, connessa con la struttura e il
funzionamento dell’organizzazione mentale. Quello che importa è il suo emerge come espressione di un soggetto
attiva che ha bisogno di sentirsi competente e capace di autodeterminarsi nei rapporti con l’ambiente.
La teoria della dissonanza cognitiva mostra che l’impegno in un’azione assunto attraverso una decisione è
suscettibile di produrre un cambiamento di atteggiamento e del mondo cognitivo pre-esistente. Si può utilizzare
la dissonanza cognitiva per analizzare in modo empirico un aspetto specifico della costrizione ideologica che il
sociale può esercitare sullo psichico.

4. LA CONOSCENZA SOCIALE
1. L’approccio cognitivo

Nel 1957 Chomsky fonda il linguaggio su una teoria della mente. Chomsky contribuì alla rinascita di un
soggetto creativo che si muove nel mondo mediante un’analisi del problema della natura del linguaggio basata
sulla sua specifica formazione di linguista. Nel suo proposito di sviluppare lo studio della struttura linguistico
quale capitolo della psicologia umana, e nella convinzione che il contributo maggiore allo studio del linguaggio
risiede nella conoscenza che esso può fornire quanto al carattere dei processi mentali e alle strutture che essi
formano e manipolano. Chomsky analizza il linguaggio come sistema di pensiero. La sua critica alle teorie del
linguaggio legate a moduli comportamentistici è una critica a ogni psicologia che tenda a utilizzare i dati di
ordine comportamentale come un punto di partenza e principi esplicativi. Auspica una diversa psicologia che
muova dai principi sottostanti e dalle strutture mentali astratte che possono essere illuminati dalle prove
comportamentali. Il suo mentale è un complesso di meccanismi, processi e informazioni che stanno dietro
all’attività direttamente osservabile e che si può raggiungere costruendo della mente stessa modelli dettagliati e
coerenti. Il cognitivismo si focalizzerà su quello che studia la mente come un sistema organizzato e
gerarchizzato di strutture, meccanismi e processi che elaborano i dati che giungono dall’esterno, li trasformano,
li valutano, li collegano ad altri fino a giungere a stabilire soluzioni di azioni, di espressione, di pensiero. Da qui
l’espressione Human information processing (HIP) con cui si identificò il cognitivismo. L’ottica dell’HIP, che
vedeva una analogia tra funzionamento mentale e quello dei calcolatori, che, trasformando i processi di pensiero
in calcoli numerici, identificava i processi mentali con i procedimenti del calcolatore, entrò in crisi. L’attenzione
per il dato neurologico ha favorito la messa in campo di modelli connessionisti, fondati sulle reti neurali che,
simulando sul computer i processi mentali, sembrano in grado di rappresentarne meglio il complesso insieme di
collegamenti e di interazioni che li governa. I neuroscienziati richiamano con forza alla realtà unitaria
dell’attività neurofisiologica.
Nel cognitivismo si rileggono i vecchi lavori di Gordon Allport sugli atteggiamenti che avevano al loro centro un
soggetto mentalmente dotato e attivo: pro-attivo. Per lui la psicologia sociale deve esser connessa all’intero
pensiero occidentale sull’individuo e sulla società. Sheerer scrive sulla cognitive theory che la si può considerare
come una teoria che si occupa del problema di come l’uomo raccolga informazioni e conoscenze del mondo che
gli sta attorno e come agisca nell’ambiente e sull’ambiente circostante in base a queste conoscenze. La teoria
cognitiva ha il compito di scoprire i processi che sottostanno alle conoscenze, di determinare le condizioni del
loro formarsi e la loro funzione nel corso del comportamento.
Bruner mise in luce i fattori di ordine cognitivo-motivazionale che entrano in gioco nella percezione sociale
accanto a quelli sensoriali, sottolineò la capacità costruttiva della mente: il modo attivo con cui essa interviene
nell’organizzare e plasmare le informazioni ottenute dall’esterno.
Un ulteriore apporto è costituito da Miller, Galanter e Pribram che affrontano il fare in chiave cognitiva: cioè
mostrando come il comportamento possa essere esaminato in funzione del lavoro mentale che analizza le
richieste della situazione e le traduce in una gerarchia di piani e di scopi in base ai quali l’azione viene effettuata.
La tesi che sta alla base dell’approccio cognitivo vede il rapporto dell’uomo con l’ambiente come mediato da
strutture di conoscenza costituite dai processi mentali che elaborano, sotto forma di informazione, quanto
proviene dai nostri sistemi percettivi.
L’attività cognitiva riferita al rapporto col mondo esterno comprende quei processi attraverso i quali il mondo
della stimolazione sensoriale viene a essere quel mondo del quale noi diciamo che è percepito, ricordato e
pensato. La mente si configura come un meccanismo che raccoglie, trasforma ed elabora i dati.

2. La comprensione degli eventi sociali

Heider ha considerato la ricerca dell’equilibrio cognitivo e della coerenza cognitiva come un fattore capace di
motivare un qualche tipo di azione diretta a ristrutturare il mondo mentale quando tale equilibrio viene a
mancare. Heider ha proposto una psicologia definita ingenua, in quanto basata su una concezione che integra
l’ottica fenomenologica con l’ottica funzionalista sull’esperienza quotidiana. La psicologia ingenua si basa
sull’utilizzo delle conoscenze non formulate o quasi-formulate sui rapporti interpersonali così come sono
espresse nella nostra esperienza e nel linguaggio quotidiano, su quanto di ovvio noi sperimentiamo nella vita
sociale e su quanto intuitivamente ne conosciamo. Muovere da una psicologia sociale ingenua vuol dire valutare
tutta una serie di aspetti che giocano un ruolo nella dinamica della vita di relazione. Questo significa tener conto
del soggetto come elemento attivo e consapevole del gioco di motivazioni, valutazioni, tentativi, scelte,
decisioni di cui è costituita la condotta sociale.
Gli individui hanno consapevolezza del loro ambiente circostante e degli eventi che accadono in esso (spazio di
vita); tale consapevolezza vien raggiunta con la percezione e altri processi; vengono influenzati dal loro
ambiente; producono (causa) mutamenti nell’ambiente; tentano e sono in grado (capacità) di produrre questi
mutamenti; hanno bisogni e sentimenti; hanno rapporti di unione con altre entità (appartenere) e sono
responsabili verso sé stessi e verso gli altri in conformità a certe norme (dovere morale). Alla base della
psicologia ingenua si collocano delle attribuzioni causali.
L’essere umano ha bisogno di un contesto che sia per lui soggettivamente stabile. Nella ricerca della causalità vi è
l’attribuzione a cause di natura personale in contrapposto a cause di natura ambientale, e, all’interno di
queste, a cause dovute a fattori transitori in opposizione a quelle dovute a fattori permanenti. L’attribuzione
in cause personali e impersonali e, nel caso delle prime, in intenzioni, è un’operazione ricorrente nel
quotidiano che determina il nostro modo di comprendere e di reagire all’ambiente circostante. L’intenzione è il
fattore centrale della causalità personale, e assume rilevanza nell’analisi ingenua dell’azione in fattori personali
della capacità e del tentare. Il primo si riferisce alla reale possibilità di produrre un mutamento; il secondo
esprime qualcosa che va oltre il semplice desiderio, che mira al cambiamento o all’azione anche se non si ha la
capacità necessaria a produrli. Entrambe le caratteristiche contraddistinguono la forza effettiva personale che
sta alla base di un'azione e che servono a far attribuire questa azione a una causa personale.

3. La teoria dell’attribuzione

3.1. L’essere umano come scienziato ingenuo

È un’idea di un essere umano che, a comanda, procede come una macchina analizzatrice. Da una macchina
rispondete ad una macchina che produce inferenze, come ha notato Moscovici. Una concezione di uomo come
scienziato ingenuo.

3.2. Dagli atti alle intenzioni

Jones e Davis hanno formalizzato le tesi di Heider in un modello che tenta di risalire dall’analisi degli effetti di
un’azione alle intenzioni dell’attore e quindi alle disposizioni di quest’ultimo. Per poter attribuire un’azione alle
intenzioni di un individuo, bisogna che gli effetti di quell’azione da noi osservati ci permettano di sapere che egli
sia a conoscenza dei risultati che otterrà e che abbia la capacità di attuarla. Se tale scelta è limitata da costrizioni
varie della situazione, gli effetti non possono più essere attribuiti all’attore, venendo a mancare la
corrispondenza tra azione-intenzione-disposizione. Più sovente si dà il caso che un’azione possa produrre effetti
diversi, oppure che azioni diverse possano produrre lo stesso effetto. In questo caso il criterio di discriminazione
sarà fondato sugli effetti non comuni di un’azione e sulla sua desiderabilità sociale. Occorrerà cercare l’effetto
non comune che emerge tra gli altri e su questo si fonderà la determinazione della intenzionalità e quindi
l’inferenza delle caratteristiche personali del ricercatore.
Diagnostico è anche il grado di desiderabilità sociale dell’azione: una condotta che segue le principali norme
sociali che regolano una situazione sociale è meno informativa di una che le viola.
3.3. Un’ANOVA mentale

L’ANOVA (Analysis of variance) è utilizzato per designare un metodo di analisi delle relazioni fra variabili, fra
una o più cause e un effetto. Kelley ha definito così il suo modello di attribuzione in base all’idea che il modo con
cui analizziamo le cause degli eventi corrisponda a questo metodo di analisi statistica. L’osservatore nella vita
quotidiana cercherà di ottenere informazioni esaurienti sulla situazione e sul comportamento dell’attore, in
modo da attribuire specifici effetti a specifiche cause. L’osservatore applicherà il principio della covarianza in
base al quale l’effetto è attribuito a quella condizione che è presente quando l’effetto è presente, assente quando
è assente. Il modello presume che nell’attribuzione vengano prese in considerazione le entità della situazione in
questione, le persone che interagiscono con queste entità e le varie modalità di interazione. Esso implica la
ripetizione delle osservazioni in modo tale da poter confrontare l’azione della persona che interagisce con quella
di altre persone, di fronte alla medesima entità ed ad altre, in tempi e modalità differenti. Questa serie di
confronti ci permette di evidenziare i quattro criteri soggettivi in base ai quali vengono compiute le attribuzioni:

• Specificità: l’effetto riscontrabile solo in presenza di quella entità;


• Coerenza nel tempo: lo stesso effetto verrà prodotto anche in occasione di altre entità;
• Coerenza nelle modalità: lo stesso effetto prodotto vi sarà anche se l’entità verrà presentata in altri
modi;
• Consenso: lo stesso effetto prodotto su altre persone.
Tra i vari cambiamenti proposti per rendere il modello ANOVA più realistico rispetto all’esperienza quotidiana vi
è quello delle condizioni anomale di Hilton e Slugoski. Questo modello, coerente con i principi di economia
cognitiva che ispirano la social cognition, tende a puntare su un processo semplificato, in cui il soggetto che
compie attribuzioni è aiutato dal possesso di schemi mentali in cui la sua esperienza ha già inscritto il rapporto
cause-eventi quale si dà nel corso normale dell’esperienza stessa.

3.4. La persona, il compito, la fortuna

Il successo può rassicurarci sulle nostre capacità, aiutarci a prospettare altri compiti più impegnativi, e anche
procurarci emozioni in generale positive. E viceversa l’insuccesso.
Weiner ha formalizzato la sua ottica su due assi incrociati: uno relativo alla dimensione esterno/interno e
l’altro alla dimensione stabilità/instabilità, cioè al fatto che le cause attribuite esterne o interne siano
considerate durevoli nel tempo, oppure transitorie. L’abilità e lo sforzo, cause interne, personali, avrebbero la
prima il carattere di stabilità e la seconda quello di instabilità. Le cause esterne vanno a pari passo con la
difficoltà del compito che rimanderebbe ad un dato stabile, mentre la fortuna è instabile. In generale la gente
tende ad attribuire il successo nelle proprie prestazioni a qualità interne, mentre l’insuccesso è attribuito a cause
esterne.

3.5. Gli errori di attribuzione

Nel clima dominante della teoria si è preferito pensare all’uomo come una macchina soggetta ad errori, ovvero
errori di attribuzione. Fra i quali annoveriamo:

• L’errore fondamentale e la divergenza attore/osservatore: l’errore fondamentale è una tendenza


che emerge quando si cerca di capire le cause del comportamento delle persone, quella che consiste nel
sovrastimare i fattori personali e nel sottostimare quelli ambientali connessi con la situazione. Jones e
Nisbett hanno rilevato una generale tendenza dell’attore ad attribuire le proprie azioni a fattori
ambientali, e una tendenza dell’osservatore ad attribuire le stesse azioni compiute da un altro a fattori
disposizionali, personali e stabili. Un’interpretazione che è stata convalidata da Storms mediante un
esperimento condotto in laboratorio nel quale, grazie ad un uso di telecamere, i soggetti assumevano, a
vicenda, il ruolo di osservatori e quello di attori, mostrando, nelle due posizioni, due modalità differenti
di attribuzione. L’idea di scienziato ingenuo viene confermata, perché le variazioni nell’attribuzione
sono ricondotte all’informazione esterna, trascurando le possibilità di un’attiva selezione delle
informazioni da parte dell’osservatore. Selezione che potrebbe essere effettuata in base alle motivazione
se presumiamo che nella vita quotidiana nessuno osserva l’agire di un altro fuori dal contesto normale
delle attività e delle relazioni interpersonali in cui è immerso. Poiché l’azione è connessa con il contesto
per un verso, e con la persona dall’altro, è comprensibile che colui che agisce tenda a sottolineare un
motivo connesso con i fattori situazionali. Osservando un altro, puntiamo soprattutto su di lui, come
fonte attiva di quello che fa. La Howard attribuisce a quella che essa definisce etica occidentale della
giustizia individualizzata il fatto presunto che il controllo dell’azione sia inerente all’attore. La norma
di internalità di Beauvois e Dubois interpreta il prevalere delle attribuzioni interne che di solito si
rilevano quando si analizzano degli eventi in cui sono coinvolte persone. Questo fatto è attribuito dagli
attori a processi cognitivi condizionati dall’ideologia dominante nella nostra società che ci fa credere di
essere gestori liberi e autonomi delle nostre condotte mentre siamo invischiati in manipolazioni
continue;
• Gli effetti self-serving o tendenze autodifensive: Zuckermann sostiene questo punto di vista
motivazionale, che vede i processi cognitivi piegarsi all’esigenza della persona di salvaguardare la stima
di sé e quanto si connette a un’autovalutazione positiva. Miller e Ross distinguono tra effetti protettivi
del Sé ed effetti di innalzamento del Sé pensando che quest’ultimo fenomeno possa essere spiegato
anche su base cognitiva. Una persona si aspetta di avere successo, cerca di avere risultati positivi dal suo
agire, tende ad averli. È naturale che riferisce a sé i risultati positivi dell’azione, anche perché è in
occasione del successo che si verifica il controllo della situazione. Si constatava che l’osservatore
riusciva ad affrontare le diverse situazioni in modo efficace e realistico. Questo e altri errori
attribuzionali possono essere visti come strategie legate agli scopi dei cosiddetti osservatori. Gilbert ha
evidenziato tre fasi: nella prima si mette in atto un processo di categorizzazione dell’azione osservata;
nella seconda vengono rilevate le caratteristiche personali dell’attore sulla base di quanto egli ha fatto;
nella terza può intervenire un’analisi dei fattori esterni suscettibili di aver costretto l’attore ad agire in
quel modo. Una specie di correzione su base situazionale della precedente attribuzione di ordine
disposizionale. Gilbert ha utilizzato l’idea di un’attività mentale automatica che si pone accanto a quella
intenzionale e controllata. Lieberman ha proposto di descrivere le componenti neurologiche coinvolte
nell’attività cognitiva mediante due processi, rispettivamente definiti X-system (reflexive) e C-system
(reflective), localizzati in aree cerebrali diverse, e deputati a svolgere funzioni inferenziali diverse. Il
sistema X (localizzato nella corteccia temporo-laterale, nei gangli basali e nell’amigdale) è quello che
interviene nel flusso dell’esperienza cosciente quale si realizza nella percezione. Esso vale a darci
automaticamente la consapevolezza di quello che percepiamo come il nostro mondo reale, di oggetti e
delle loro caratteristiche semantiche e affettive. Il sistema X produce l’esperienza continua della realtà,
mentre il sistema C (localizzato nel cingolo anteriore, nella corteccia prefrontale e nell’ippocampo) è
responsabile dei processi di pensiero controllati, consapevoli, logici. La sua localizzazione cerebrale lo
dispone ad attivarci in relazione al sistema X: può intervenire in suo aiuto. Entrambi possono
partecipare a tutte le fasi del processo inferenziale, e perché funzionano in modo ricorsivo, cioè
inviandosi reciproche informazioni. Più elevate sono la motivazione del soggetto e la sua abilità
cognitiva, più probabile sarà il ricorso a processi controllati; viceversa, trovarsi in una situazione di
scarsa motivazione e di scarsa abilità cognitiva tenderà a spingere la persona a utilizzare i processi
automatici.
4. Dallo scienziato ingenuo al soggetto della cognizione sociale

La ricerca si indirizza in senso descrittivo, ossia all’analisi delle prestazioni cognitive dell’individuo così come si
presentano e operano nelle relazioni sociali. La cognition viene studiata come acquisizione delle informazioni,
come loro trattamento e organizzazione mentale, immagazzinamento in memoria, recupero e utilizzo nelle
attività di inferenza, di giudizio. Si afferma che la cognizione sociale è il processo che permette alle persone di
pensare e dare senso a sé stesse, agli altri e alle situazioni sociali. Le operazioni di trattamento dell’informazione
vengono viste in un quadro in cui la necessità di essere accurati si coniuga con quella di far fronte in modo rapido
alle varie situazioni sociali. Gli errori (bias) vengono riguardati sotto il profilo dell’efficienza con cui l’individuo
affronta i problemi in cui è impegnato, utilizzando quelle strategie cognitive che sembrano più conveniente
rispetto alle sue motivazioni. Fiske aggiunge che la cognizione sociale deve essere accurata quanto basta per
guidare le nostre interazioni. Dobbiamo avere strutture adeguate per organizzare e prevedere tali interazioni. La
cognizione sociale deve essere flessibile per mutare al mutare degli scopi e delle circostanze. Questa scelta di
strategie mentali ha portato a coniare la definizione di essere umano come motivated tactitian. Uno stratega
perché la sua possibilità di fare scelte intenzionali è condizionata da automatismi cognitivi che agiscono fuori di
ogni intenzione, volontà e controllo cosciente.

5. La cognizione sociale

5.1. Immediatezza fenomenologica e percezione sociale

L’ambiente può essere considerato come una sorgente di stimoli ai quali i nostri sistemi recettori reagiscono
attraverso una serie di processi che pongono le condizioni della percezione, come processo attraverso il quale
facciamo esperienza immediata e diretta della realtà fenomenica circostante. Con quest’ultima si intende la
realtà data all’essere umano: quale cioè viene costituita, partendo dal mondo fisico, dai nostri organi sensoriali
edal nostro sistema nervoso. Un mondo come diceva Kant costituito dal rapporto del soggetto con l’oggetto: un
mondo che è inseparabile dalla rappresentazione che il soggetto ne ha. È l’essere umano stesso, nell’interezza
della sua intuizione sensibile e delle regole di organizzazione provenienti dalla mente, a costituire gli oggetti
dell’esperienza. Kant affermava che la nostra esperienza diretta ci dà, da subito, una conoscenza. James affida
questo processo di organizzazione dell’esperienza all’attività intrinseca dei processi psicofisiologici e della
mente. La percezione sta alla base della immediatezza fenomenica, ed è un fenomeno altamente organizzato. Può
essere intesa come l’organizzazione fenomenica delle informazioni sensoriali, corrispondenti a una data
situazione di stimolazione.
La Gestalttheorie ha visto tale organizzazione come connessa con il campo di stimolazione quale entra nei
sistemi di ricezione sensoriale, quindi come un processo primario (oggettivo-sensoriale) distinto
dall’ulteriore processo secondario nel quale interverrebbero altre funzioni cognitive di classificazione e di
inferenza. Altri approcci teorici hanno ipotizzato che sin dall’inizio intervengano dei fattori soggettivi-
funzionali. Tali processi di elaborazione cognitiva dell’informazione trasmessa dallo stimolo, operando sulla
base di schemi formatisi in dipendenza dell’esperienza, contribuiscono alla perceptual readiness: una
prontezza che concorre a selezionare il materiale informativo, a organizzarlo e a categorizzarlo.

5.2. Categorie, prototipi, esemplari

Una categoria è un insieme di specificazioni concernenti gli eventi che possono essere raggruppati come
equivalenti. La categorizzazione è la forma universale e prima della semplificazione e del riordinamento
dell’ambiente. La nozione di categoria di Aristotele è quella fondata sulle nozioni di comprensione e di estensione:
ogni elemento è compreso in una categoria se possiede tutte le caratteristiche necessarie e sufficienti che la
identificano e la distinguono, in un ordinamento in cui le caratteristiche sono equivalenti. Le classi categoriali
diventano col tempo più inclusive quanto più diventano larghe, e tanto più si allontanano dall’esemplare singolo
quanto più, allargandosi, diventano astratte.
Nelle categorie naturali (e sociali) esistono caratteristiche privilegiate attorno alle quali si costruisce l’idea di
similarità che serve per raggruppare e distinguere le classi e i membri: alcune caratteristiche sono più tipiche di
altre. Esiste un prototipo che, come membro di una categoria che possiede il massimo di attributi in comune con
i membri altre contrapposte categorie, vale a definire e/o rappresentare la categoria. Questi prototipi sono
rilevabili nell’esperienza comune.
Rosch ha evidenziato che il livello ottimale utilizzato per formare una categoria si situa in un punto medio tra il
livello più astratto e quello più concreto. Se ci troviamo di fronte al mondo dell’impegno sociale individueremo le
persone a un livello medio, come volontari. L’organizzazione prototipica applicata agli eventi sociali è
dipendente da un contesto culturale generale di norme, valori, modi di vita che può essere anche diverso per
persone e gruppi diversi. Su questa base è facile costruirsi delle rappresentazioni stereotipiche delle persone e
delle categorie. Le categorizzazioni sono fondate su tipi estremi o ideali.
Altri avanzano la tesi che un esemplare specifico diventi l’elemento centrale a cui poi si forma una categoria. È
con questa rappresentazione particolare che vengono confrontati le persone e gli eventi incontri via via
nell’esperienza per essere riconosciuti, identificati, categorizzati.

5.3. Gli schemi e gli script


Gli schemi sono strutture di dati che rappresentano conoscenze immagazzinate in memoria che intervengono
nelle varie operazioni cognitive di identificazione e categorizzazione delle informazioni, e poi nell’intero corso
dell’elaborazione che va dall’organizzazione sino alla formulazione di inferenze e di giudizi. Quando parliamo di
una mediazione cognitiva che interviene in ogni momento della nostra vita relazione è agli schemi che
attribuiamo tale funzione.
L’organizzazione categoriale rinvia a procedimenti di classificazione tassonomica, gli schemi vengono costruiti
sulla base della contiguità e delle relazioni tra i concetti in base a elementi più concreti. Anche gli schemi
presentano un’organizzazione gerarchizzata, costituita di parti fisse e di altre più variabili, di conoscenze più
concrete e di altre più astratte. Uno schema ha una struttura piramidale, con al vertice le informazioni più
astratte e generiche e, racchiuse in esse, le informazioni più specifiche. Il livello più basso consta in casi specifici
dello schema. Quest’ultimo è connesso con altri schemi in una rete di associazioni.
Gli schemi che possediamo intervengono rendendo più rilevanti certi attributi rispetto ad altri delle persone e
delle situazioni. Uno schema generale può possedere dei sottoschemi variamente articolati, e che tra schermi
diversi possono esserci relazioni. Gli schemi sono contenitori degli insiemi organizzati di conoscenze, suscettibili
di arricchirsi di dati nel corso dell’esperienza. Gli schemi attivano processi e sono essi stessi dei processi che si
attivano e agiscono sia in relazione a schemi più generali sia in relazione ai dati concreti, agli stimoli esperiti.
L’intera nostra esperienza avviene sia in relazione alle nostre strutture di conoscenza schematica (top-down) sia
in relazione ai dati concreti del contesto (bottom-up). Gli schemi studiati nella ricerca psicosociale sono quelli
di:

• Persone: sono relativi a tratti di personalità e categorie personali;


• Ruoli: si riferiscono a quelle prerogative che caratterizzano vari ruoli sociali, lavorativi oppure anche
ruoli riguardanti posizioni acquisite nella vita intima e familiare e ancora quei ruoli ascritti riguardanti
l’età oppure l’etnia, o il genere sessuale. Diviene agevole per il soggetto conoscente caratterizzare e
interpretare i comportamenti delle persone. Duex e Emswiller dimostravano che in generale per l’uomo
il successo è attribuito alla capacità e per la donna alla fortuna. Nei compiti femminili, maschi e femmine
vennero percepiti come altrettanto abili e competenti. In altre ricerche venne riconosciuto che il
successo della donna in compiti maschili può essere attribuito allo sforzo. Nel caso di insuccesso per
l’uomo si parla di difficoltà del compito, per la donna di mancanza di abilità;
• Eventi e azioni: relativi a quelle sequenze di azioni che vengono compiute abitualmente in modo
routinario. Questi schemi vengono definiti script, sono stati studiati da Abelson e rivestono interesse
nella vita quotidiana. Lo script è costituito dalla rappresentazione di una sequenza coerenti di eventi
attesi dall’individuo, che lo coinvolgono come partecipante o come osservatore. Esso ha tutte le
caratteristiche di uno schema atto a rappresentare un sistema di eventi collegati tra loro sia per via
temporale che causale, ed è in genere costruito su eventi e contenuti specifici. Abelson precisa che essi
possono essere ricavati anche da informazioni avute sulla situazione nel modo più vario, cosicché il
repertorio di script personali può essere molto vasto, e anche riguardante esperienze altrui. Gli script
personali rappresentano sequenze di azioni finalizzate ad un certo scopo e che sono specifici per la
persona. Uno script è composto da una serie di vignette tra loro collegate che definiscono la situazione
a cui si riferisce: la definiscono come fasi temporali che si succedono, e anche come concatenazioni di
cause-effetti. La vignetta può coinvolgere altre modalità sensoriali, nonché le reazioni affettive o
emotive del valutatori. La rappresentazione concettuale dell’immagine può essere non verbale, tale da
coinvolgere una molteplicità di nozioni. Il concatenamento della vignetta ha un senso causale, ogni
vignetta è una condiziona perché la successiva si realizzi. Lo script diventa nella mente dell’attore un
copione su cui egli può muoversi in funzione di eventi e comportamenti attesi.
6. Come funziona la conoscenza sociale

6.1. Il percorso cognitivo

Conoscere significa costruire delle rappresentazioni, partendo da una prima fase in cui la nostra attenzione
coglie uno stimolo che viene codificato. In tale fase di percezione entra in gioco un processo ricostruttivo-
organizzativo mentale in cui agiscono gli schemi. Questo loro intervento avviene già nelle fase di attenzioni, di
raccolta e di selezione delle informazioni, del loro completamento con processi di inferenza e con la loro
organizzazione in memoria. Gli schemi intervengono nella produzione di giudizi e di posizionamenti, nell’utilizzo
dell’informazione rispetto all’attività in corso.

6.2. Processi automatici e controllati. Processi schema-driven e data-driven

Sono considerati processi automatici quelli che si attivano senza l’intenzione della persona, che passano al di là
del campo della coscienza, che sfuggono al controllo, che sono efficienti nel senso di richiedere un minimo di
risorse cognitive, permettendo la contemporanea attivazione di altri processi mentale. All’estremo opposto
stanno i processi intenzionalmente attivati, consapevoli e posti sotto il controllo individuale, considerati meno
efficienti perché possono essere disturbati da inferenze personali e perché richiedono un maggiore carico
cognitivo. L’automaticità è una condizione fluida, disposta su un continuum che va da un massimo al minimo, e i
due tipi di processi sono spesso interagenti.
I processi schema-driven sono presenti nelle operazioni di trattamento dell’informazione, si impongono per la
loro rapidità, per l’utilità che hanno nel produrre conoscenze immediate delle situazioni, per formarci
impressioni di persone in base a categorie che già ci sono note. Quando traggo dal contesto concreto le mie
informazioni, utilizzo processi data-driven. Anche in questo caso, i due processi tenderanno a interessarsi e ad
integrarsi, passando dagli schemi ai dati.
Le situazioni in cui la necessità di evitare i costi dell’indecisioni supera la necessità di evitare i costi di sbagliare
sono:

a) le situazioni in cui la persona è interessata ai risultati che sono in gioco nella situazione ed in cui tali
risultati dipendono dal proprio agire o dall’agire di altri sia a livello cooperativo sia competitivo;
b) quando è messa in gioco la propria responsabilità, sia sotto il profilo di dover rendere conto delle
proprie decisioni, sia sotto il profilo della rilevanza personale che assumono le proprie azioni e
decisioni: una tipica situazione di questo genere si verifica quando le decisioni, i giudizi, le azioni di un
individuo sono personalizzate;
c) quando i nostri giudizi sono confrontati con criteri oggetti oppure quando sono ritenuti espressione di
una nostra personale capacità oppure quando sono importanti per la sorte della persona su cui si danno
i giudizi;
d) nelle attività interattive che richiedono una specifica attenzione per l’altra persona: le situazioni in cui è
messa in gioco la concezione di sé delle persone interagenti attraverso una specie di negoziazione di
identità.
Fiske e Neuberg hanno delineato un continuum in cui si muovono le nostre interpretazioni delle informazioni
relative alle persone. Ad un estremo del continuum abbiamo i processi schema-driven, e all’altro i data-driven.
Per quanto riguarda la formazione delle impressioni di persone, il continuum è caratterizzato da quattro stadi di
elaborazione. All’inizio le persone vengono categorizzate in modo automatico in base alle loro caratteristiche più
salienti. Nei casi in cui siamo sufficientemente motivati a prestare attenzione all’altra persona e disponiamo di
adeguate risorse cognitive, l’elaborazione continuerà tendendo innanzitutto a confermare la categorizzazione
iniziale; tale conferma avrà successo nel caso in cui le informazioni siano coerenti o irrilevanti rispetto
all’etichetta di partenza oppure mutuamente contraddittorie in modo da elidersi le une con le altre.

6.3. Il funzionamento degli schemi

L’attenzione è il primo processo che presiede alla nostra esperienza, incidendo sia sull’insieme dell’attività di
decodifica e del trattamento cognitivo dell’informazione sia sulle condotte che, nella vita reale, ne conseguono.
L’esperienza è ciò a cui si decide di prestare attenzione, con ciò si sottolineo il carattere selettivo dell’attenzione
che è un processo che si congiunge con i vari che conducono alla rappresentazione e che si innestano nell’azione.
La percezione e il pensiero sono fatti per l’azione. La decisione in parte può essere una decisione in senso
proprio, in parte può avvenire su base automatica. D’altro canto vi è una quantità di altri stimoli che emergono
nella situazione e che si impongono visivamente per la loro salienza. Quest’ultima è una caratteristica in cui
particolarità dello stimolo e particolarità cognitivo-emotive del percipiente si intersecano strettamente,
mostrando come l’idea stessa di informazione rimandi sempre all’interazione tra oggetto e contesto. La salienza
è espressione anche della relazione oggetto-contesto, del mondo con cui lo stimolo si impone rispetto al contesto.
Ciò può avvenire per vari motivi:
a) Distintività: che lo stimolo assume per sue caratteristiche rispetto agli altri presenti;
b) Rilevanza: dovuta a sua certa rispondenza con passate conoscenze dell’osservatore;
c) Vividezza: la capacità di risvegliare qualche segnale emotivo oppure immagini concrete oppure a causa
della sua prossimità nel tempo e nello spazio. La vividezza è un dato che molto incide sulla salienza degli
stimoli;
d) Accessibilità: la capacità di uno stimolo di attivare schemi in memoria a esso affini, tali da poter entrare
rapidamente nel processo di categorizzazione con cui lo codifichiamo.
Gli schemi attivati in fase di encoding hanno influenza sull’organizzazione della conoscenza in memoria,
richiamano processi di inferenza. L’informazione può essere tanto meglio memorizzata quanto più si situa ai due
estremi di un continuum che va dalla massima alla minima congruenza rispetto alla conoscenza schematica
posseduta. Tenendo conto che uno schema diviene tanto più consistente quanto più presto si è messo all’opera e
quanto più frequentemente è stato utilizzato, si comprende anche quanto sia difficile una sua modifica nel corso
dell’esperienza. La necessità di risparmiare risorse cognitive e di rispondere rapidamente alle situazioni
contribuisce a renderci dei conservatori sul piano mentale, ma anche produrre stereotipi che intervengono nella
percezione e valutazione delle situazioni sociale e delle persone.

6.4 Processi abbreviati di ragionamento: le euristiche

Il ragionamento è l’attività mentale mediante la quale l’essere umano si dà una spiegazione dalle cose. Andare al
di là dell’informazione data vuol dire produrre inferenze: utilizzare l’informazione che possediamo per ottenere
delle informazioni nuove. Ragionare significa fare inferenze per produrre giudizi. Quest’ultimo quando
riguardano eventi sociali sono più intriganti di quelli relativi al mondo fisico, perché l’informazione sociale è più
ambigua, instabile di quanto non lo siano le informazioni sul mondo fisico. L’agire umano è sottoposto a molte
fonti di influenza, fattori cognitivi e fattori emozionali si intersecano.
La difficoltà di disporre rapidamente di informazioni più ampie, l’inaffidabilità delle informazioni disponibili ci
inducono a utilizzare quei processi di ragionamento abbreviato e semplificato che Kahneman e Tversky hanno
definito euristiche. Esse sono procedimenti che permettono di scoprire nuovi fatti in modo non
necessariamente abbreviato, anzi. Da un lato le euristiche ci sono molto utili perché ci consentono di produrre
rapidamente inferenze utilizzando anche il sapere sociale condiviso assorbito nei nostri schemi mentali, altre
volte ci inducono in errore. Tra le euristiche più note vi sono:

• Euristica della rappresentatività: quella che utilizziamo quando, dovendo fare delle inferenze, ci
affidiamo a elementi rappresentativi dell’evento o della persona;
• Euristica della disponibilità: utilizzata per esprimere un giudizio circa la probabilità di verificarsi di un
evento. Utilizziamo degli esempi che vengono in mente facilmente, ciò vuol dire con molta probabilità ce
ne saranno altri. Tale disponibilità di esempi è connessa alla salienza che agli eventi viene data dai
media. Il contesto sociale contribuisce nel generare schemi di riferimento mentale. I media sottolineano
le appartenenze categoriali sociali, facendo acquisire agli schemi di riferimento degli stereotipi che
contribuiscono a generare pregiudizi;
• Euristica della simulazione: utilizzata quando, per valutare gli esiti di un evento realmente accaduto, la
gente si immagina gli esiti che esso avrebbe potuto avere se (applicando il ragionamento
controfattuale). Quanto più facilmente immaginiamo che le cose sarebbero potute andare
diversamente, tanto più ci rammarichiamo;
• Euristica dell’ancoraggio e aggiustamento: utilizzata quando, dovendo stimare frequenze e
probabilità, ci si ancora a qualche dato di partenza, aggiustando poi la stima o verso l’alto o verso il
basso. Gli errori sono dovuti anche al fatto che questo punto di partenza finisce col dimostrarsi
mentalmente così tenace dall’influire sul giudizio successivo.
6.5. Processi cognitivi e stereotipi

Con stereotipo si intende delle credenze molto semplificate, basate su alcuni attributi generalizzati, relative a
gruppi e categorie sociali, i cui membri vengono etichettati utilizzando queste credenze indipendentemente dalle
loro specifiche individuali. Convergono due cognitions: la scarsa accuratezza nell’identificazione delle
caratteristiche del gruppo in questione e la categorizzazione dell’individuo effettuata attribuendogli le
caratteristiche semplificate del gruppo.
Nel clima politically correct attuale, il pregiudizio etnico ha assunto forme mascherate ma è sempre vivo,
allargato nella nostra società all’universo tutto degli extracomunitari. Lo stereotipo guida anche altre forme di
pregiudizio. L’etnocentrismo, messo in luce da Sumner, è inteso come un gruppo-centrismo o come un noi-
centrismo, utilizzato per difendere e innalzare l’ingroup contro l’outgroup, verificato sperimentalmente da
Tajfel. Viviamo in un mondo di stereotipi che diventano pregiudizi: cioè giudizi sulle persone espressi prima di
averle realmente conosciute.
Mostrando che gli individui attivano in modo incosciente e automatico schemi di conoscenza che vengono a
classificare le persone dando loro un significato categoriale capace di trascinare inconsapevolmente
atteggiamenti e comportamenti, gli psicologi sociali hanno connesso errori e bias al funzionamento normale
dei processi cognitivi. Esiste una positiva correlazione tra il grado di positività dell’esemplare attivato in
memoria e il grado di gentilezza e di favorevolezza delle forme di linguaggio utilizzato. I bias che più colpiscono
sono quelli attivati con le procedure del prime, che consistono nel presentare uno stimolo e nel far seguire
subito dopo l’interpretazione di informazioni su un qualcosa. Questi prime si sono mostrati capace di influenzare
interpretazioni, giudizi, atteggiamenti, comportamenti automaticamente. Si è così constatato come uno
stereotipico tradizionalmente radicato possa agire nei giudizi sociali. L’elemento stereotipico è spesso intrinseco
ai processi di pensiero, emergendo nelle più differenti situazioni di valutazione sociale.

7. Allargare il quadro della conoscenza sociale

Il contesto sociale è visto come composto di altre persone, e che il sociale è visto a livello di eventi intrapsichici.
La messa in risalto degli stereotipi che spesso guidano i nostri rapporti con gli altri acquista una specifica
rilevanza sociale nella nostra società attuale, dominata da pregiudizi che rendono difficile il dialogo tra gli
individui e i gruppi.
I procedimenti schematici, le euristiche, le categorizzazioni permettono all’individuo di affrontare con la
necessaria rapidità cognitiva le situazioni sociali in quello che esse richiedono. Tali modalità cognitive finiscono
anche col rinchiudere il pensiero in un circolo chiuso nel quale l’andata al di là dell’informazione data si risolve
sovente in un ritorno sull’informazione già posseduta. Se uno schema formatosi nell’esperienza e consolidato
dall’uso diviene anche il più disponibile per indicarci quale informazione assumere, è quasi inevitabile che
l’individuo divenga un animale conservatore, come lo hanno definito Fiske e Taylor. Secondo loro la gente opera
in questo modo per salvaguardare le proprie risorse cognitive. La sequela di errori e dei bias possibili può
sembrare interminabile.
Le persone possiedono opportuni contravveleni per constatare errori e bias, per rendere più flessibile la
cognizione. Tale flessibilità interviene quando l’individuo cessa di essere una macchina inferenziale e viene
chiamato a più realistici scopi esistenziali che mettono in gioco la sua responsabilità, la previsione di una
relazione pratica con l’altra persona, le sue capacità di giudizio reali.
Meno concreto e meno realistico è il modo con cui il soggetto e il contesto sociale sono considerati nella
prospettiva teoria della social cognition come due entità in loro stesse definite e separate tra loro. Da un lato sta
l’individuo chiuso nella sua attività di elaborazione che si apre solo per raccogliere l’informazione, selezionarla e
organizzarla. Dall’altro lato sta il contesto concepito come fonte di informazione. È un quadro statico senza
interazione tra i due poli.

6. L’AZIONE COME PROCESSO PSICOSOCIALE


1. Il mondo pratico dell’azione

1.1 Il fare umano e l’azione

Con la nozione di azione la psicologia sociale prende in esame questa attività umana, inserendola in un ambito
concettuale suscettibile di analisi teorico-empirica. Ogni ruolo sociale e lavorativo implica un qualche fare. Con il
nostro fare produciamo oggetti e diamo vita a situazioni, altre situazioni cambiano, costruiamo e distruggiamo.
Con la nozione di azione definiamo e analizziamo il fare umano sotto il profilo del significato psicologico e sociale
che esso assume, dei processi che vi sono implicati, delle modalità di relazione che esso comporta con il contesto
fisico e sociale. L’azione è specificata rispetto al rapporto dell’essere umano con l’ambiente, rispetto alla nozione
di comportamento, rispetto alla cognizione e ai processi cognitivi in senso lato.

1.2. La relazione con il contesto

Il fare dell’uomo è contraddistinto dall’essere caratterizzato da una variabilità di modi e di forme che
comportano visioni alternative delle situazioni, e dall’esprimersi in un rapporto trasformativo con l’ambiente.
L’essere umano è intervenuto sull’ambiente, utilizzandolo e trasformandolo, creando culture diversificate, norme
e così via, anche grazie alla trasmissione dell’esperienza attraverso le generazioni. Una trasmissione non passiva
perché ogni generazione l’ha utilizzata a modo suo. Ogni essere umano, sia nei suggerimenti sia nei limiti che
trova nel mondo sociale in cui nasce e si sviluppa, continua ad agire esercitando questa possibilità di scelta e di
decisione che è implicita nel suo agire, nonostante possa essere condizionata e limitata da molti fattori.

1.3. Azione e comportamento

La mente rimanda a tutto ciò che non si vede, ma che riteniamo esserci: emozioni, sensazioni, conoscenze ecc.
Quando parliamo di osservabile ci riferiamo all’insieme delle azioni compiute da una persona. Il concetto di
comportamento descrive qualcosa che avviene. L’agire si distingue dal comportarsi perché presuppone alla sua
origine una fonte attiva che fa qualcosa, e perché l’azione stessa è un’attività suscettibile di produrre
modificazioni e cambiamenti.

1.4 Azione e cognizione

Il soggetto dell’azione è un essere capace di rappresentarsi le situazioni, di valutarle, di elaborare piani e


strategie, nonché di controllare il corso del suo agire. Un’azione può essere contenuta in uno script ed essere
attuata quasi automaticamente, ma in origine è sempre mediata dall’attività mentale. L’azione implica sempre un
intervento sulle cose che produce una modificazione nello stato delle cose esistente. L’azione si svolge nel segno
del cambiamento. Anche quando si agisce per impedirlo si modifica qualcosa, riducendo le forze che operano in
favore del cambiamento.
La parola è uno degli strumenti di azione sul piano sociale. Tutte le ricerche sul linguaggio danno spazio alla
pragmatica per analizzare la comunicazione e per studiare la semantica. Parlare una lingua è esercitare
un’influenza sugli altri. Anche il pensiero può produrre modificazioni. Per divenire un agente di cambiamento
il pensiero deve farsi azione. L’azione per potersi realizzare abbisogna di risorse psicologiche e di risorse non
psicologiche, oggettive, contestuali, che contribuiscono anche a limitarla e vincolarla.

1.5. L’azione, il potere, il contesto

Il potere dell’uomo è la sua capacità di trasformare la natura. La facoltà costitutiva di ogni agire umano, ovvero
la capacità di trasformare, è la categoria di base del concetto di potere. La storia del potere coincide con la
storia dell’agire umano. Quando trasformiamo ciò che ci è dato dalla natura a nostro vantaggio, esercitiamo un
potere anche sugli altri uomini. L’agire ci dà potere, ma per realizzare l’azione occorre disporre del potere sulle
risorse.

1.6. Il mondo pratico-sociale dell’azione

Il concetto di praxis elaborato da Aristotele deriva dal greco e serve a tradurre i vocaboli azioni e pratica
perché rimanda al mondo pratico-sociale in cui si svolge l’attività umana. Nella trattazione di Aristotele il
termine praxis indica l’attività in generale promanante da individui attivi ed espressa nel mondo dalla vita
associata della comunità: la polis. Il carattere attivo dell’agire così inteso si definisce in opposizione sia a ciò che
si subisce, si patisce (pathos), sia a ciò che avviene per necessità. Nel pensiero antico greco l’essenza stessa del
mondo era vista come un movimento in cui ogni cosa si colloca nell’ambito di un’attività in divenire, tesa a
raggiungere il suo fine. L’essere umano nel mondo pratico conserva la sua libertà di azione, nei limiti della vita
sociale della polis e delle sue leggi. Aristotele dice che c’è sempre una decisione in chi agisce perché pratico e
scelto sono la stessa. Nei fenomeni naturali ciò che avviene accade perché deve.
La socialità è, insieme con la capacità di usare la ragione per distingue l’utile e il dannoso, il giusto e l’ingiusto,
ciò che distingue l’uomo dagli altri animali. L’uomo è un animale sociale. Sociale in greco è politicos, ovvero un
sociale organizzato, politico nel senso della comunità organizzata in cui si svolge la vita umana. La scoperta
dell’individualità realizzata nell’Età moderna ha slegato la realizzazione di sé dai vincoli della comunità politica.
Ha dato un significato alla persona al di là delle sue appartenenze, tuttavia isolandola nel mondo interno del
pensiero e della coscienza.
Il materialismo psicofisico settecentesco ha visto l’agire come un comportamento meccanicisticamente
determinato dall’ambiente e da automatismi somatici. L’essere umano è considerato come una macchina
organica i cui pensieri, cognizioni, sentimenti sono determinati unicamente dal suo terreno fisico-chimico e la cui
psicologia è analizzabile in termini meccanicistici e deterministici. Marx scriveva che questo materialismo ha
trasformato l’uomo in un soggetto passivo. L’uomo partecipa dell’essere natura ed è condizionato dagli elementi
naturali che sono necessari ai suoi bisogni vitali, in tal senso è passivo. Tuttavia è anche attivo in quanto
indirizzando su tali elementi la sua attività, trasforma la natura, la umanizza e la storicizza. L’attività pratica
costruisce l’essere umano stesso, perché questi, per realizzare il suo pieno essere sé, deve estrinsecarsi
all’esterno, tradurre sul piano oggettivo quanto sta potenzialmente nella sua testa. Essa però costruisce anche la
società, in quanto mediante l’attività pratica l’uomo entra in contatto con gli altri, sviluppa rapporti di
cooperazione e di scambio, intesse relazioni e si dà un’organizzazione sociale.
È stato Max Web che ha portato per primo il concetto di azione al centro delle scienze sociali, definendo l’agire
umano come un atteggiamento se e in quanto l’individuo che agisce o gli individui che agiscono congiungono a
esso un senso oggettivo. Un’ottica in cui l’attribuzione di senso implica di guardare alle condotte umane
dall’esterno e dal punto di vista del soggetto che agisce. D’altro canto, facendo dell’agire il vero elemento centrale
delle dinamiche sociali, Weber ha proposto uno specifico legame tra i fenomeni e gli uomini, nel quadro di un
contesto sociale che assume i contorni di un prodotto umano.

2. Esperienza dell’azione e sua definizione strutturale

2.1. L’esperienza dell’azione

Giddens propose di definire l’azione come il flusso di interventi, attuali o progettati e comunque determinanti
conseguenze, da parte di esseri corporei, sul processo in corso degli accadimenti nel mondo. Propose di parlare
di pratiche umane, intese come serie ripetute di attività pratiche.
Alla base dell’azione ci sono scelte tra alternative possibili, e in queste scelte si esprime la padronanza del
proprio agire. Tali scelte e decisioni sono spesso imposte dalle circostanze, oppure condizionate dal flusso degli
eventi indipendenti da colui che agisce che avvengono nell’ambiente sociale. Motivazioni e scopi che si
organizzano nel tempo della vita dal passato al presente, proiettandosi sul futuro, in parte strutturandosi in
propositi e progetti che intenzionalmente vengono tradotti in azioni concrete.

2.2. Il quadro dinamico-strutturale dell’azione

Lo schema di Parsons ci aiuta a descrivere l’azione nei seguenti elementi:

• Un agente attivo rispetto a qualcosa;


• Un fine inteso come possibile situazione futura che indirizza l’agire;
• Una situazione esistente diversa da quella designata dal fine;
• Un sistema di relazioni che collegano tra loro l’agente, il fine, la situazione.

Per Luciano Gallino l’azione può essere definita come una sequenza intenzionale di atti forniti di senso che un
soggetto compie scegliendo tra varie alternative possibili, sulla base di un progetto concepito in precedenza ma
che può evolversi nel corso dell’azione stessa, al fine di trasformare uno stato di cose esistente in altro a esso più
gradito, in presenza di una determinata situazione dalla quale il soggetto tiene conto nella misura in cui dispone
a suo riguardo informazioni e conoscenze. Mario Von Cranach, invece, la definisce come consapevolmente
pianificata e diretta a uno scopo. L’azione è un comportamento motivato e volontario, è accompagnata da
emozioni ed è condotta e controllata socialmente.
I punti salienti sono:
1. L’intenzione, lo scopo, la motivazione;
2. La struttura, la pianificazione, il controllo dell’agire;
3. La relazione tra attività mentale e attività pratica nel loro ruolo reciproco;
4. La situazione soggetto-contesto nel cambiamento.

3. Intenzione, volontà, motivazione

3.1. La motivazione come elemento dell’azione

Con motivazione si designa un’area complessa di studio in cui vengono analizzate quelle componenti di ordine
soggettivo e oggettivo che si ritengono capaci di attivare e orientare le condotte umane. L’analisi della
motivazione si indirizza alle unità più ampie e comprensive nelle quali le attività e le condotte vengono ad
assumere il loro significato sia a livello di chi le mette in atto, sia a livello della situazione globale che sta di
fronte all’osservatore. La motivazione è stata analizzata da un lato puntando a tendenze di base di tipo cognitivo-
affettivo suscettibili di indirizzare in senso lato l’essere umano nella via aperta da McDougall con il suo concetto
di propensivity, e in quell’altra via in cui è stato utilizzato il concetto di bisogno. Murray ha inserito nella sua
teoria della personalità il bisogno come una situazione intrapsichica emergente nella vita di relazione che
indirizza verso condotte atte a soddisfarlo. Questi bisogni sono stati analizzati da Murray mediante il Test
proiettivo di apprercezione tematica (TAT): viene ricordato perché McClelland misurerà il bisogno di
riuscita (need of achievement) che verrà utilizzato nella teoria motivazionale di Atkinson. La motivazione è
considerata come parte del processo che partecipa della strutturazione dinamica dell’agire.

3.2. L’intenzione e la volontà

L’intenzione, intesa come un momento in cui l’attore ha l’idea di impegnarsi nell’azione e ha il proposito di
attuarla. L’intenzione è spesso connessa alla volontà, la quale si lega al problema della libertà dell’iniziativa
umana e della sua articolazione con la necessità che partecipa della condizione umana. Intendiamo l’intenzione
come modalità di espressione di un soggetto attivo, capace di scegliere e decidere in modo deliberato dei suoi
attivi.
Wundt ha concepito come fonte di attivazione dell’agire un atto di volontà mosso dalla rappresentazione di un
oggetto stimolante e lo stato di eccitazione.
L’atto di volontà concepito come il formarsi e lo svolgersi di una determinazione soggettiva che innesca l’azione e
la guida nel suo compimento, Ach ha teorizzato una tendenza determinante che funziona attraverso una fase
iniziale in cui prende forma il proposito di agire, una seconda fase in cui tale proposito si fissa come un impegno
nel compito, una terza in cui tale vissuto genera una tensione specifica ad agire, e l’ultima fase in cui è il vissuto
dello sforzo in atto a predominare, accompagnando l’azione nella sua realizzazione. Una delle critiche che gli
sono state rivolte è quella relativa alla mancanza di considerazione per i fattori che intervengono a produrre
l’iniziale intento di agire, ovvero l’elemento motivazione che si impone nella mente divenendo ciò che determina
la scelta e la decisione.
Kuhl nota che nell’esperienza quotidiana la persona che agisce è sollecitata da molte istante motivazionali. Deve
esistere un processo capace di tutelare l’alternativa di azione che è stata scelta e di controllare il corso
dell’azione fino a che la meta non sia stata raggiunta, un mediatore volizionale della coerenza tra cognizione e
azione. Kuhl distingue un momento costituito dalla tendenza motivazionale che rinvia alla scelta di un certo
corso d’azione, e un altro costruito dall’intenzione come espressione diretta dell’atto di volontà. Analizza poi il
funzionamento attraverso i diversi processi che concorrono a permettere l’esecuzione di un’azione, regolandone
e controllandone il corso.

1. L’attenzione selettiva: facilita l’acquisizione di informazioni che supportano l’intenzione in corso;


2. Il controllo dell’encoding: facilità la codificazione degli stimoli collegati all’intenzione in corso;
3. Il controllo emotivo: inibisce gli stati emotivi che potrebbero diminuire l’efficacia della volizione;
4. Il controllo motivazionale: accentua l’importanza degli incentivi che sorreggono l’intenzione corrente;
5. Il controllo ambientale: protegge da interferenze;
6. La riduzione dell’elaborazione di informazioni: implica la rinuncia ad acquisire informazioni su
eventuali corsi d’azione alternativi che potrebbero mettere a repentaglio la motivazione corrente.
Kuhl ha formulato una tipologia divisa in action-oriented e state-oriented. La prima è contraddistinta dalla
focalizzazione su aspetti specifici dello stato presente, quello futuro e la discrepanza tra essi, oltre un’alternativa
di azione che possa rimuovere tale discrepanza. Il secondo è espressione di un’attività cognitiva fine a sé stessa,
in cui possono essere presenti elementi dell’altro orientamento, ma non tutti e non inserita in una specifica
focalizzazione sull’agire atto a cambiare la situazione. Ciò provoca un’oscillazione tra alternative e intenzioni
diverse che rendono meno efficace o inibiscono l’azione. Quando nell’intenzione uno o più elementi che la
costituiscono sono poco chiari o debolmente attivati, la volontà diviene debole e si determina un controllo
dell’azione di tipo state-oriented (SO). I fattori che portano a indebolire l’intenzione sono legati all’indecisione, al
persistere dell’analisi di precedenti fallimenti, ad un orientamento intrinseco dell’individuo verso uno dei due
stati sopraddetti.

3.3. La motivazione tra mete personali e valenze sociali

Brentano intese l’intenzionalità come il riferimento di ogni atto umano a un oggetto fuori di sé. Tale riferimento
costituisce il processo psicologico. L’intenzione connessa con l’azione può essere intesa come l’intenzionalità
nel campo pratico.
Il bisogno è sempre espressione della fondamentale relazione dell’essere umano con l’ambiente: cioè come
mancanza di qualcosa di necessario all’organismo vivente che nell’ambiente c’è. Un bisogno è qualcosa che nasce
nell’ambito delle situazioni di vita e che interviene sullo strato di tensione interna indirizzando l’individuo verso
quegli oggetti capaci di soddisfarlo. È la valenza che tali oggetti assumono per la persona a incidere sia sulla
tensione sia sui propositi che guidano l’azione. Nel concreto dell’attività mentale e di quella pratica sono i
propositi che operano, intesi come quasi-bisogni. Il proposito fa sì che l’oggetto, la cui valenza (V) è in funzione
di un elemento soggettivo e di uno soggettivo. Certe caratteristiche dell’oggetto partecipano dell’insorgenza di un
bisogno e della tensione interna, ma è anche quest’ultima che concorre a produrre la valenza complessiva della
meta. Lewin ha definito la distanza della meta intendendo la distanza così come il soggetto la percepisce e la
valuta in relazione alla sua situazione personale. Essa è legata a fattori oggettivi da un lato e soggettivi dall’altro,
connessi con la percezione e la rappresentazione dell’oggetto e di sé.

3.4 La teoria aspettativa per valore

Atkinson ha costruito un modello di motivazione denominato aspettativa per valore (A x V) che costituisce una
prospettiva strategica sulla scelta e sulla decisione di intraprendere un’azione. I modelli utilitaristico-
probabilistici presumono che le condotte siano guidate dal principio di utilità e che la mente umana procede
secondo i principi di razionalità calcolando la probabilità con cui tali azioni possono avere successo. Essi
comportano il chiarimento delle alternative possibili, la stima del valore di ciascuna, il calcolo della probabilità di
successo che le scelte possono avere e la decisione in merito a quanto scritto.
Quando si agisce nelle incerte cose del mondo entra in gioco il concetto di probabilità soggettiva, proposto da De
Finetti e sviluppato da Savage, che consiste in un’ipotesi soggettiva che il risultato si verifichi, ossia
un’aspettativa che si cerca di rendere il più precisa possibile.
Atkinson aggiunge che il need of achievement è caratterizzato dal fatto che si connette all’agire in sé e alla
riuscita, oltreché essere ricavato dalle risposte al TAT. Quest’ultimo è un metodo mascherato in cui sentimenti,
fantasia, motivi emergenti dagli individui sono interpretati come tali dallo psicologo. Il need of achievement è
considerato da McClelland e Atkinson come una tendenza radicata nella personalità sin dai primi anni di vita,
diretta a mantenere alte le proprie prestazioni in situazioni ove esistano norme di eccellenza e in cui accanto alla
possibilità di riuscita siano previsti anche rischi di insuccesso, ove si manifesti il risk-taking behavior.
La teoria aspettativa per valore ha la seguente formula:

Ts = Ms x Ps x Is

T è la tendenza al successo in una determinata situazione ed è funzione di un motivo personale stabile (Ms), della
probabilità soggettiva di successo (Ps) valutata in base all’esperienza passata, e dall’incentivo soggettivo (Is) che
esprime il valore attribuito alla meta. Quest’ultimo parametro è stato legato da Atkinson alla difficoltà che la
meta presenta, in modo coerente con l’ottica che vede il risultato di un’azione tanto più attraente quanto più
l’azione per raggiungerlo è difficoltosa. Ma, poiché quanto più un’azione è difficoltosa tanto più la probabilità di
avere successo è scarsa, l’incentivo diviene funzione inversa di tale probabilità.
Si sperimenta un grande orgoglio in concomitanza con il successo in compiti difficili, e grande vergogna a seguito
dell’insuccesso in compiti facili.
La motivazione intrinseca è una tendenza connessa ai meccanismi cognitivi utilizzati nell’attivazione e nel
controllo dell’azione concreta.

4. Due modelli di analisi del processo di azione

4.1. Il percorso gerarchico sequenziale dell’azione

La modalità di funzionamento può essere rappresentata in modelli dinamici o in modelli flow-chart, nei quali le
varie operazioni si incardinano l’una all’altra in una certa sequenza temporale. Il più noto è il TOTE elaborato da
Miller, Galanter e Pribram. Un altro è il Livello di aspirazione realizzato da Lewin. Questo schema elaborato può
divenire un modello atto a cogliere le operazioni relative allo svolgimento del processo mentale-pratico in cui si
snoda concretamente il percorso dell’azione. Il modello LA tiene conto anche delle componenti emozionali delle
dimensioni soggettive che intervengono a interpretare e mediare quelle oggettive.

4.2. Il modello del Livello di aspirazione

Con essi si mirava ad analizzare come si formano le mete di soggetti posti di fronte a compiti impegnativi
richiesti dalle situazioni. Divenendo uno schema sperimentale complesso nel cui ambito studiare il mondo con
cui i soggetti elaborano delle previsioni e si pongono delle aspirazioni relativamente alle loro prestazioni in certi
compiti sulla base dei risultati ottenuti in precedenza in compiti uguali. Il modello funziona mettendo i soggetti
di fronte a un compito da eseguire che sia familiare e sui cui risultati sia possibile fare previsioni in termini
quantitativi. Il compito si compone in generale di 8-10 prove, ciascuna della durata di un minuto o due. Prima di
ogni prova si richiede ai soggetti di una previsione sulla sua prestazione nella forma di un’aspirazione che miri
al massimo risultato possibile, cercando di essere realista perché gli sforamenti sia verso l’alto sia verso il
basso rispetto ai risultati raggiunti verranno considerati come penalità e sottratti al punteggio. Elementi
cognitivi ed elementi motivazionali sono articolati nella scelta e nella decisione, creando un clima di tensione. Il
realismo della situazione può essere accresciuto legando la prova a un qualche tipo di premio o di beneficio. Alla
fine di ogni prova si richiede al soggetto di fornire una valutazione personale del risultato ottenuto,
successivamente si comunica il risultato facendo con lui il calcolo delle eventuali penalità. Da tale calcolo è
esclusa la prima prova in quanto per essa il soggetto non ha alcun punto di riferimento per la sua aspirazione. Il
modello così utilizzato permette di analizzare il formarsi di una meta in relazione alle esigenze di ottimizzazione
dei risultati, alle proprie capacità e in genere all’impatto cognitivo-affettivo legato alle operazioni di valutazione
relative al compito e a sé. In questo contesto vi è modo di verificare sia il livello di realtà a cui un individuo
riesce a situarsi, sia le sue possibilità di staccarsi dalla concreta realtà di fatto per proiettarsi su un’altra
possibile realtà producibile con l’azione. Da tale punto di vista si possono ottenere informazioni sulla
connessione tra i riferimenti oggettivi che costituiscono la base su cui si organizzano le mete nel senso classico
del typical shift e i riferimenti soggettivi legati alla forza dell’intenzione.
Si prefigura il ruolo cognitivo dell’azione attraverso il meccanismo di retroazione (feedback) che la
contraddistingue, cioè mediante il ritorno dei risultati sul mondo mentale da cui l’azione è partita.

4.3. Il modello TOTE

Il termine TOTE è l’acronimo dell’espressione inglese Test-operate-test-exit, ossia un esame della situazione, la
messa in campo dell’atto, il controllo del risultato. I riferimenti a Miller, Galanter e Pribram vennero
dall’ingegneria, e più precisamente dallo schema del servomeccanismo, una macchina controllata dal suo stesso
comportamento mediante processi di andata e ritorno dell’informazione.
Il TOTE trova sostegno nei modelli neurofisiologici cosiddetti di riafferenza utilizzati per rappresentare la
relazione dell’attività motoria muscolare col sistema nervoso centrale. Il TOTE è un’unità operativa che collega
azione-controllo-progettazione. In una prima fase viene condotta un’operazione di ispezione (test) per
controllare se la situazione è rispondente a ciò che si è progettato: se la rispondenza non viene constata viene
emessa un’azione (operate) adatta a modificare la situazione nel senso voluto. Si ricontrolla nuovamente (test)
e se la modificazione è avvenuta nel senso previsto la sequenza viene abbandonata (exit) per passare a un’altra.
Un’azione significativa, avente cioè uno scopo, è composta di più operazioni, che possono intendersi come un
concatenarsi in unità TOTE nell’ambito di un piano. Un piano è un insieme gerarchizzato di istruzioni, cioè un
processo interno all’organismo, che può controllare l’ordine in cui deve essere eseguita una sequenza di
operazioni.
Il TOTE è costruito come unità che comprende a un tempo attività, informazione e controllo cognitivo. L’unità
TOTE si integra in una struttura gerarchica costituita di varie unità: questa struttura può essere a sua volta
rappresentata in forma di unità TOTE, nel modello che comprende unità sia strategiche sia tattiche.
Hacker concepisce il sistema di regolazione dell’azione come un sistema di immagine. Le azioni si presentano
come una struttura-processo formata di varie sottoazioni che si susseguono nel tempo, ma che anche si
dispongono in una gerarchia di piani situati ai tre livelli: il più alto, intellettivo (piani e strategia), quello
intermedio percettivo-concettuale (schemi di azione), e quello sensorio-motorio che è il più basso.

5. Pianificazione e controllo dell’azione

5.1. Fasi dell’azione e processi mentali

Con pianificazione e controllo si intende l’insieme di operazioni mentali mediante le quali un’azione viene
concretamente realizzata, partendo dal primo momento in cui si forma il suo piano nella mente del soggetto sino
al momento del suo esito finale, passando attraverso le varie fasi dell’esecuzione. Tali fasi sono tutte controllate
in vario modo e con l’intervento di vari processi, compresa la fase di pianificazione la quale è un processo che
può comprendere rettifiche anche in corso d’opera.

5.2. Conoscenza dichiarativa e conoscenza procedurale

La conoscenza dichiarativa è quella relativa al sapere che cosa. È la conoscenza concettuale classica sulle cose e
situazioni. La conoscenza procedurale è relativa al sapere come agire, quella che organizza le regole e le
modalità per fare qualcosa. Da un lato è il sapere che traduce in termini operativi le conoscenze dichiarative,
dall’altro è anche un sapere costruitosi nell’esperienza diretta dell’agire: conoscenza tacita.
Rasmussen ha studiato l’intreccio di queste due conoscenze nel controllo dell’azione definendole rispettivamente
come knowledge-based e ruled-based a livello della rappresentazione delle conoscenze.

5.3. Processi intenzionali e processi automatici

Secondo Rasmussen mentre le due forme di sapere implicano delle rappresentazioni simboliche quando
innescano un meccanismo automatico, quest’ultimo funziona poi, sia a livello cognitivo che a livello motorio. Il
problema degli automatismi nel controllo dell’azione è stato studiato sia a livello di operazioni mentali applicate
alla soluzione di problemi, sia in termini operativi connessi con l’azione in compiti specifici. Un’attenzione
dovuta per un verso perché l’intervento di processi automatici nell’agire è costante e necessario per assicurare la
rapidità degli atti in sequenza, in quanto scaricano l’apparato mentale da un lavoro troppo gravoso, per un altro
verso perché l’eccessiva confidenza in questi processi può essere causa di errori gravi.

5.4. Processi discendenti (top-down) e ascendenti (bottom-up)

I processi discendenti sono presenti quando, rilevata la situazione utilizzando i dati concreti del suo stato
presente, si procede alla pianificazione facendo poi partire dal piano così predisposto le prime regole per attivare
l’azione. Quanto più la situazione presenta elementi di novità per il soggetto, quanto più l’azione è complessa,
quanto più è ridotta l’esperienza personale tanto più l’azione sarà guidati top-down dal piano formulato. Può
accadere anche l’inverso, che il soggetto poco esperto si butti sui dati grezzi del contesto affidando il suo agire
all’informazione immediata che i bottom-up inviano ai centri di elaborazione: poiché in genere questi dati sono
frammentari, legati alle operazioni in atto, si possono dare vari errori che sono negativi sia per condurre a buon
fine l’azione sia talvota per il soggetto in sé. Nello svolgimento normale dell’azione l’intervento dei bottom-up è
di primaria importanza perché essi sono necessari al controllo dell’agire. La mancata utilizzazione dei bottom-up
può interferire negativamente nelle strategie comportamentali del soggetto, ma a livello delle strategie di
azione questo mancato utilizzo può produrre sia il fallimento dell’azione stessa, sia anche errori che incidono
direttamente sulla persona.

5.5 Piani e controlli

La pianificazione concerne la costruzione della rappresentazione iniziale della situazione e la selezione delle
regole procedurali da utilizzare in vista dei risultati voluti.
Un processo che presiede alla pianificazione è costituito dal passaggio dal genere al particolare, e dall’astratto
al concreto: tale processo può riguardare sia le rappresentazioni della situazione, sia l’anticipazione dei risultati
delle procedure di azione. Il piano conserva la sua forza, in parte come lo scopo, ma può subire modifiche e
rettifiche prodotte dal controllo. Si danno così controlli knowledge-based, ruled-based e skill-based.
Quest’ultimo è relative ad attività che si avvalgono di una routinizzazione automatica che si instaura sin da
bambini, oppure ad attività che specificamente dipendono dall’esperienza, dalla pratica, dall’esercizio in
dipendenza dalla meta dell’azione, cioè goal-dependent.
I controlli possono riguardare sia procedure in relazione al buon adeguamento alla meta, sia situazioni critiche
non previste, sia risultati parziali di ogni singola operazione e risultati finali ottenuti. Dorner ha mostrato come
l’intervento di processi intenzionali e coscienti di riflessione sull’agire possa indurre ad acquisire competenze
capaci di migliorarne i risultati.

5.6 Scelta della meta e organizzazione dell’azione

Lewin considera una fase di scelta (goal setting) e una di impegno (goal striving) senza cercarne la
connessione. Mentre delle ricerche hanno mostrato la forza della persistenza della meta, quelle di Kuhl hanno
permesso di identificare il ruolo cognitivo che il goal striving assume nel controllo dell’azione.
Il modello Rubicone, messo a punto da Heckhausen con Gollowitzer: nelle fasi sequenziali (temporali) che
contraddistinguono il processo intenzione-azione (fasi di deliberazione, pianificazione, messa in atto,
valutazione) esiste un momento (goal decision) in cui si mette fine alle possibili alternative e incertezze. Le
quattro fasi definite dal modello Rubicone sono le seguenti:

1. Fase predecisionale di azione: contraddistinta dal desiderare e deliberare. Fra i vari desideri
sollecitati dall’insieme delle motivazioni viene effettuata una scelta, in base ai criteri di fattibilità e
desiderabilità;
2. Fase decisionale preazionale: in cui il desiderio viene trasformato in una goal intention rispetto alla
quale l’individuo si sente impegnato. Subito dopo si entra nella fase preazionale contraddistinta da
un’opera di pianificazione che può avere varie pause onde mettere ordine alle attività già in corso,
stabilire tappe nell’ambito di scopi e sottoscopi. In queste pause viene esaminato quando e dove iniziare
l’azione, come agire e per quanto tempo. L’impegno provoca una decisione di azione che è diversa dalla
decisione di uno scopo (behavioral intention vs goal intention);
3. Fase iniziale e fase di azione: diretta alla realizzazione del fine, che può essere definito a vari livelli di
astrazione e la cui rappresentazione mentale dirige l’intero corso dell’azione. La forza della goal
intention è l’elemento cruciale sia nella determinazione dell’inizio dell’azione sia nel dar peso allo sforzo
compiuto per realizzare lo scopo;
4. Fase di raggiungimento dello scopo e post-azione: caratterizzata dalla valutazione dei risultati in
merito al raggiungimento della meta, in base alla quale possono essere prese decisioni future e
promosse future pianificazioni di altre azioni.

6. Il ruolo cognitivo e sociale dell’azione

6.1. La mente, l’azione, la conoscenza

Anche nelle azioni eseguite col minimo dispendio cognitivo perché già scriptate in strutture schematiche,
l’attività mentale è presente sia nella forma intenzionale che presiede all’avvio dell’azione maggiore, sia nella
forma automatica in cui si svolge il suo monitoraggio. Può essere presa in considerazione una relazione con
l’ambiente che avvenga a livello mentale nel senso classico, ma anche a livello di sistemi somatici e
neurofisiologici più ampi. Proprio l’azione ci richiama all’intervento di processi centrali di controllo
tradizionalmente definiti come mentali.
L’approccio cognitivo ha messo in luce la mediazione operata dalle strutture mentali nella relazione con il
contesto fisico e sociale. L’azione presenta altre forme di cognizione dovute ai modi particolari con cui si rivolge
ai dati del contesto:

a) Come dati rappresentati anche in termini di sapere procedurale;


b) Come dati che servono in quanto risorse per agire;
c) Come dati sui quali l’agire stesso si indirizza per produrre cambiamenti o evitarli.

6.2. La metacognizione

Con il concetto di metacognizione si intende un insieme di processi emergenti nell’attività mentale relativi alla
conoscenza delle proprie conoscenze, per un verso, e alla conoscenza procedurale, per l’altro, che assumono un
particolare risalto nella pianificazione e nel controllo dell’azione. Legata al fare, una metacognizione ha
preceduto altre forme più formalizzate di conoscenza.
Una qualche dimensione di autoconoscenza relativa al proprio conoscere è presente nella nostra conoscenza
personale tacita ed emergente nel contatto diretto con le cose. Wellman la definisce come la conoscenza che una
persona ha sui propri processi e stati cognitivi quali memorizzare, conoscere, congetturare, illudersi. Nella sua
analisi egli individua cinque differenti set di conoscenza che costituiscono la metacognizione.

1. L’esistenza: la persona sa che esistono pensieri e stati mentali;


2. La distinzione: tra i molti processi cognitivi in cui siamo impegnati, noi sappiamo fare delle distinzioni;
3. L’integrazione: pur sapendo che gli atti mentali sono fra loro diversi, la persona sa anche che in qualche
modo essi si integrano e che, messi insieme, fanno qualcosa che poi chiamiamo mente;
4. Le variabili: in qualche modo noi sappiamo che diverse variabili incidono sulle nostre prestazioni
mentali;
5. Il controllo cognitivo: sappiamo quando sappiamo qualcosa e quando no; sappiamo quando
comprendiamo e quando non comprendiamo, e così via.

Brown afferma che nella metacognizione confluiscono due processi che si intersecano. Da un lato vi sono i
processi relativi al sapere che, knowing that, e si mantiene attraverso le situazioni diverse, è cosciente e può
essere riferito ad altri. Dall’altro lato esiste una conoscenza relativa ai processi di regolazione e di controllo, nel
senso di un sapere come: questo knowing how non è stabile, dipende dalle situazioni, non affiora alla coscienza.
La novità di questa posizione consiste nell’ipotesi di un sistema centrale esecutivo, inteso come un
metasistema cognitivo di controllo dell’attività che, sotto il nome di central processor, interpreter, supervisor
or executive system, dovrebbe avere le seguenti capacità:

a) Essere in grado di predire le limitazioni della capacità del sistema di cui è controllore ed esecutore;
b) Avere coscienza del suo repertorio di programmi di lavoro (heuristic routines) e dei campi in cui
applicarlo;
c) Saper identificare e caratterizzare il problema cui si trova di fronte;
d) Essere capace di pianificare strategie appropriate di problem solving;
e) Essere capace di controllare l’efficacia delle routines chiamate in servizio;
f) Saper valutare dinamicamente queste operazioni in relazione ai successi-insuccessi in modo da
temporalizzare strategicamente il termine dell’attività.

6.3. Le strategie del soggetto dell’azione

Piaget ha mostrato come dall’azione non necessariamente cosciente si giunga a una rappresentazione
cosciente di fini, mezzi, regole attraverso un processo di concettualizzazione che trasforma in operazioni formali
quelle che prima erano operazioni concrete. La comprensione di un’azione in una situazione è la fase
fondamentale del processo di presa di coscienza: quando questo avviene gli schemi di azione si trasformano in
nozioni e operazioni connesse al rapporto mezzi-fini e a una spiegazione causale delle situazioni. Ciò implica una
riflessione del soggetto anche sul proprio funzionamento cognitivo, e il valore di tale riflessione è stato
empiricamente rilevato da Dorner.
È nel dominio dell’attività mentale cosciente e intenzionale che la razionalità dell’agire opera, attraverso la
trasformazione dei desideri in motivazioni concrete e la trasformazione di queste in piani adeguati alle
situazioni. La razionalità, come atteggiamento strategico nella scelta di modi adeguati per far fronte ai problemi
in corso, passando dalle operazioni concrete alla loro rappresentazione in termini di regole, è una sua
prerogativa intrinsecamente costitutiva. Lindenberg ha proposto un quadro schematico: essere razionali significa
cercare possibilità e quindi imparare a essere inventivi, significa fare delle scelte di fronte alle limitazioni delle
risorse, prospettarsi delle possibilità future, valutare la situazione e gli eventi possibili nel futuro, e infine
massimizzare i risultati quando si agisce. La razionalità si manifesta come un elemento creativo, che consente
anche di intervenire sulla formulazione stessa dei problemi e di modificarla onde trovare soluzioni semplificate
procedendo per vie diverse.
La vita di relazione è fatta anche di passioni, ideali, emozioni, sentimenti che interferiscono costantemente con
l’attività della mente e che entrano nell’agire umano, talvolta facendo compiere grandi cose anche da errori nel
controllo dell’azione, come notò Reason, e comportando anche esiti assai più perversi come disse Boudon. Simon
ha rilevato come l’agire sia in generale sorretto da criteri di soddisfazione, cioè da una razionalità che indirizza ad
azioni adatte al conseguimento di determinati obiettivi. Si può parlare di una razionalità capace di strategie
opportune. Elster individuò tre maggiori ostacoli al dispiegarsi della razionalità: a) la distorsione dei fini
subintenzionali b) il possibile divenire irrazionale di fini razionali c) le contraddizioni presenti nella mente
umana. Il rimedio che propone è quello di legarsi, cioè limitarsi nelle preferenze e negli scopi, nella valutazione
delle proprie capacità.

6.4. Individui in situazione

Considerare gli esseri umani sotto il profilo dell’azione significa considerarli come individui in situazione, in cui
il punto di vista soggettivo che entra nella cognizione sociale è coniugato in vario modo con la dimensione
oggettiva del contesto. Un soggetto in situazione necessita di conoscenze sulla situazione stessa, ma nelle
strutture in cui tale conoscenza viene rappresentata entrano anche relazioni strumentali relative al potere
delle cose e delle persone che l’uso ha consolidato nelle pratiche di vita individuali e sociali. La psicologia ha
considerato l’esperienza come una specie di fatto in sé, e messo al suo centro un soggetto nudo. L’uomo
trascorre tutta la sua esistenza in un mondo di strumenti di ogni tipo, e a essi costantemente si affida in ogni
suo approccio con il mondo. Il soggetto dell’azione ha un cognitivo rapporto con ogni sorta di tecnologie, con
quanto cioè viene prodotto dalle scienze della natura e da quelle umane e sociali: le tecnologie sono utilizzate
anche come prolungamento strumentale della cognizione. Dovendo poi economizzare energie cognitive
l’individuo lo fa utilizzando strumenti che lavorino per lui oppure utilizza il lavoro di altri individui esercitando
su questi il suo potere oppure instaurando con loro cooperazioni e collaborazioni.
L’azione connette l’essere umano alla sua storia e alla sua cultura, cioè agli strumenti e al potere, e contribuisce
così a fargli costruire rappresentazioni nelle quali le cose sono percepite e valutate come possibili risorse e nelle
quali il potere degli strumenti è percepito e valutato in rapporto al proprio potere. È quest’ultimo che viene
connesso a quello delle cose, l’uno e l’altro interagendo al livello cognitivo-affettivo in cui prendono forma le
intenzioni, le aspirazioni, i progetti. L’azione trova i suoi vincoli nelle risorse necessarie a realizzarla, e le risorse
sociali sono connesse ai rapporti di potere. Ciononostante, l’azione è anche lo strumento per tradurre in concreto
prospettive di cambiamento.

7. Il ruolo ideologico delle pratiche sociali

7.1. Ideologia e sottomissione

Beauvois e Joule dicono che la gente è convita di comportarsi in modo coerente e razionale in funzione delle
proprie idee, opinioni, concezioni di sé e del mondo. La tesi dei due autori è che il nostro agire è diretto dalle
circostanze e dagli obblighi sociali in cui siamo coinvolti e a cui ci sottomettiamo. Dopo di che, mettiamo in
funzione un processo di razionalizzazione che ci induce a giustificare a posteriori le nostre condotte come
liberamente intraprese date le circostanze. La loro concezione perviene alla conclusione che la riduzione della
dissonanza ha la funzione di razionalizzare il comportamento.
Secondo Kiesler l’impegno è definito in senso comportamentale come il tenersi legato di un individuo alla sua
azione. Solo l’azione determina l’impegno. Quando un individuo a seguito delle pressioni dell’ambiente si
impegna in un’azione vi sono due possibilità:

Se l’azione è inconsistente con il sistema di credenze precedentemente sostenute dall’individuo, l’impegno all’azione
porterà la persona a modificare i suoi atteggiamenti verso una maggiore coerenza con l’azione. Se l’azione è
coerente con il sistema di credenze precedenti, l’impegno nell’azione dovrebbe far sì che la persona sia più resistente
agli attacchi mossi in seguito alle sue credenze.

Kiesler indica cinque fattori:

1. Il grado di coinvolgimento pubblico o in qualche modo chiaramente manifesto che il soggetto sente di
avere: tanto maggiore è la rilevanza sociale del suo comportamento, tanto maggiore sarà l’impegno;
2. L’importanza che l’azione riveste per lui;
3. Il grado di irrevocabilità dell’azione;
4. La quantità delle azioni fatte dal soggetto: ci possono essere azioni connesse tra di loro, per le quali se
egli è impegnato in una, non può esimersi dal compiere anche le altre;
5. Il grado di volizione intesa come libertà di scelta che il soggetto può sperimentare quando compie
l’azione: esiste un rapporto reciprocamente inverso tra la volizione e la quantità di pressioni esterne sul
soggetto

7.2. La norma di internalità

Noi subiamo sin da bambini un effetto di psicologizzazione che ci fa credere di essere decisori e controllori delle
nostre condotte. Dubois muove sul locus of control, cioè sul controllo dei propri comportamenti che gli
individui possono attribuire a se stessi (cause interne) oppure all’ambiente (cause esterne). Su tali basi Rotter
elaborò una tipologia di personalità che classifica gli individui in esterni e interni. Dubois mette in evidenza come
da delle ricerche emerga un’immagine assai positiva degli interni, che appaiono più attivi, più inclini a nuove
esperienze, più esperti, più competenti, meno sensibili alla persuasione altrui, più popolari, dotati di un’alta
stima di sé. L’internalità mentre fa apparire l’attore come persona autonoma e capace di dirigere il proprio agire
e di controllare l’ambiente, lo propone anche come essere socialmente caratterizzato in modo positivo. La norma
di internalità è una valorizzazione socialmente appresa di quelle posizioni che valorizzano il ruolo sociale
dell’attore. Una norma creata da quello stesso meccanismo di riproduzione ideologica che tende a esaltare
l’illusoria libertà decisionale del soggetto onde meglio vincolarlo al sistema normativo vigente e all’ordine dei
rapporti di potere esistenti.

7.3. La manipolazione delle condotte e delle idee

Le manipolazioni reggono perché, quando uno compie un’azione in cui è stato trascinato, finisce con l’impegnarsi
sul serio, e quanto più gli si fa sentire che è proprio lui ad avere deciso tanto più si impegna. La manipolazione è
l’unico modo con cui le persone prive di potere possono ottenere qualche cosa dagli altri. Ma anche chi ha il
potere usa la manipolazione, perché questo gli evita costi eccessivi, lasciando che nei sottoposti resti l’idea di
essere liberi. Gramsci affidava il tramite tra le relazioni di potere e il pensiero all’agire umano, e lo stesso
strumento era posto alla base del cambiamento.

8. L’azione tra libertà e necessità

Il mondo delle pratiche è un mondo in cui operano gruppi, categorie, comunità intere, e nel quale l’azione del
singolo è assai spesso vincolata dall’agire dei collettivi, e talvolta anche in questo sommersa. Sono queste le fonti
attive che promuovono l’azione, ed è l’agire stesso che sovente fa emergere nella cognizione delle
rappresentazioni rivolte alle situazioni quali potrebbero essere. È in questa dinamica che hanno preso corpo
quelle idee di libertà, di dignità e di giustizia sulle quali Asch aveva richiamato l’attenzione degli psicologi sociali.
Il sentirsi attivi nei confronti delle proprie azioni è un sentimento che nasce dal dover affrontare in prima
persona i problemi dell’esistenza, dal dover cercare risorse e strumenti. Ed è espressione di una personale
identità la quale si esprime anche nell’agire. È proprio l’azione che consente alla persona di rivedere le proprie
idee ritornando su di esse, di cercare collaborazioni e di rompere solitudini. Così siamo in grado di meglio
vederle e di contrastarle.

9. CONOSCENZA E VALUTAZIONE NELLE DINAMICHE SOCIALI:


ATTEGGIAMENTI E RAPPRESENTAZIONI
1. Una conoscenza diffusa e valutativa

Le cose occorre anche situarle in quelle pratiche dell’uso che sono connesse a giudizi di valore. L’universo
condiviso e intersoggettivo della conoscenza è alla base anche della nostra possibilità di interloquire,
comunicare, interagire, mentre l’universo valoriale è intriso di differenze e anche di conflitti e idee che si
confrontano perché è legato al potere e alle dissimmetrie che lo connotano nella società. Idee e significati
circolano nel mondo sociale sotto forma di discorsi, espressioni e parole dette e scritte. Moscovici ha coniato la
nozione di rappresentazioni sociali.

2. Gli atteggiamenti

2.2. Le tre dimensioni dell’atteggiamento

L’atteggiamento indica qualcosa di più profondo sul piano intrapsichico in almeno due sensi, che sono derivati
alla psicologia dall’opera di Darwin in cui gli atteggiamenti posturali dell’animale sono considerati come
espressione emozionale di attacchi simulati. Utilizzando tale idea, Mead ha ripreso il concetto di atteggiamento
come un segno, come quella parte non visibile del comportamento che sta nella testa.
Gordon Allport ha considerato l’atteggiamento come uno stato di prontezza mentale che esercita un’influenza
direttrice o dinamica sulle risposte che un individuo dà agli oggetti e situazioni con cui si relaziona. Allport ha
connesso la componente affettiva a quella cognitiva.
Krech, Crutchfield e Ballachey distinguono nella dimensione conoscitiva aspetti di ordine cognitivo in senso
stretto e valutazioni, comprende nella dimensione affettiva sia emozioni, sia sentimenti più ampi, sia aspetti più
sottili di tipo empatico, e infine vede la tendenza ad agire come una disponibilità che impegna l’individuo.

2.3. Analisi empirica e misura degli atteggiamenti

Thurstone ha messo a punto quella che si definisce come scala a intervalli soggettivamente uguali, suscettibile
di misurare gli atteggiamenti verso un oggetto di riferimento nell’arco di un continuum valutativo tra un polo più
negativo e uno più positivo. La costruzione della scala prevedeva il ricorso a un gruppo di giudici che dovevano
valutare il valore di alcune affermazioni significative su un certo oggetto sociale. Selezionate poi le affermazioni
sulle quali i giudici avevano mostrato maggior accordo, queste venivano sottoposte ai soggetti di cui si voleva
indagare l’atteggiamento, i quali dovevano indicare il loro accordo o disaccordo con ciascuna di esse. Si ricava
così il punteggio di ogni persona calcolando la media dei valori scalari delle affermazioni che la persona aveva
dichiarato di condividere.
La scala a punteggi sommati di Likert consiste in un insieme di affermazioni che esprimono credenze,
sentimenti, intenzioni comportamentali verso l’oggetto indagato su cui i soggetti intervistati devono esprimere il
loro accordo o disaccordo usando, a seconda delle versioni, da 5 a 7 categorie di risposta.
Un altro strumento è il differenziale semantico, messo a punto da Osgood, Suci e Tannenbaum, che funziona
presentando ai soggetti intervistati un insieme di coppie di aggettivi contrapposti, separati da sette caselle. Il
compito dei soggetti è quello di valutare l’oggetto presentato usando queste coppie di aggettivi.

2.4. Gli atteggiamenti come struttura cognitiva


La tesi di Fazio è che l’atteggiamento possa esercitare la sua influenza sui processi di percezione e di giudizio
quanto più facilmente esso sia accessibile all’individuo. Tale accessibilità dipende dalla forza con cui la
valutazione è associata con l’oggetto nell’ambito di un continuum che va da un polo massimo a un polo minimo.
Nel primo caso l’atteggiamento relativo a un oggetto sarà evocato rapidamente al solo presentarsi dell’oggetto,
nel secondo caso l’atteggiamento richiederà un processo più lungo e faticoso sul piano cognitivo. Una tecnica
d’indagine fondata sul priming affettivo, il quale è stato utilizzato per la prima volta da Fazio e dai suoi
collaboratori in un esperimento strutturato in due fasi. Nella prima, ai soggetti fu presentata sullo schermo di un
computer una lunga sequenza di parole, misurando il tempo che essi impiegavano per dichiarare se ognuna di
esse avesse per loro una valenza negativa o positiva, in base al presupposto che le risposte più veloci si
sarebbero ottenute per gli oggetti connotati. Nella seconda fase, a ogni partecipante vennero presentate come
prime le parole che egli aveva giudicato in modo più veloce, e anche alcune parole che avevano richiesto un più
lungo tempo di elaborazione, facendole seguire da parole target costituite da aggettivi che sono unanimemente
considerati positivi o negativi. Il compito dei soggetti era quello di indicare nel modo più veloce e accurato la
valenza di tali aggettivi. I risultati mostrarono con grande chiarezza che le risposte più veloci si avevano nei casi
in cui c’era coerenza valutativa fra il prime e il target, ossia quando erano entrambi positivi o negativi, e che
quelle più lente si osservavano nelle situazioni di incoerenza fra essi. Risultati analoghi non si ebbero però per le
sequenze in cui la parola target era preceduta da prime connotati più debolmente. Fazio sostenne che gli
atteggiamenti estremi possono essere attivati in modo automatico grazie alla semplice esposizione all’oggetto cui
fanno riferimento.
Greenwald, McGhee e Nosek hanno proposto di rilevare gli atteggiamenti tramite lo Implicit association test
(Iat). Si tratta di uno strumento volto a misurare in modo indiretto la forza delle associazioni fra concetti diversi,
fondato sul presupposto che la facilità con cui si mettono in atto le stesse condotte, come risposta a stimoli fra
loro diversi, dipende dal grado con cui tali stimoli sono associati fra loro. Nella tipica procedura Iat i soggetti
devono completare alcuni compiti di categorizzazione utilizzando un computer opportunamente programmato
per misurare i tempi impiegati nel loro svolgimento e il numero di errori commessi. Il primo compito consiste
nel collocare nella loro categoria di appartenenza degli elementi che appaiono sullo schermo del computer. Per
farlo, si chiede ai soggetti di usare due tasti del computer. Il secondo compito consiste nel premere uno dei due
tasti se la parola che appare nello schermo è positiva e l’altro tasto se la parola è negativa. Questi compiti
vengono definiti compiti critici, i quali possono prevedere un uso compatibile o incompatibile dei tasti. Nel
secondo caso il tempo necessario ai partecipanti per la categorizzazione degli stimoli risulta più elevato e il
numero di errori di categorizzazione è superiore. Greenwald sviluppò alcuni algoritmi che consentono di
combinare l’informazione relativa alla differenza fra i tempi impiegati nel portare a termine i due compiti critici e
quella relativa alla differenza nel numero di errori commessi nel loro svolgimento. Gli indici che ne derivano
costituiscono una misura degli atteggiamenti impliciti delle persone intervistate nei confronti degli oggetti cui
il test fa riferimento.

2.5. Formazione e cambiamento degli atteggiamenti

• Esperienza diretta: gli atteggiamenti formati da essa sono quelli più resistenti ai cambiamenti in
quanto in genere prevedono una forte associazione tra rappresentazione e valutazione. Secondo Fazio e
Zanna tali atteggiamenti sono più radicati e più chiari nell’individuo in quanto egli possiede maggiori
informazioni sull’oggetto considerato;
• Esperienza mediata: è quella che si può realizzare osservando il comportamento altrui;
• Processi di comunicazione: i gruppi di riferimento sono importanti nella formazione degli
atteggiamenti perché il condividere le stesse valutazioni spesso ha una funzione di adattamento sociale;
• Processi di mera esposizione: il ruolo dell’informazione sull’oggetto è ridotto al minimo. Zajonc ha
dimostrato che la sola esposizione visiva di uno stimolo, se ripetuta, produce un atteggiamento rispetto
a esso più favorevole. Questo perché l’esposizione frequente allo stimolo lo rende familiare, riducendo
l’ansia nei confronti di ciò che è sconosciuto.
Altre direzioni di ricerca hanno indagato il cambiamento degli atteggiamenti in base all’effetto di
corrispondenza, secondo cui l’influenza di un messaggio persuasivo è mediata dagli effetti sul piano funzionale
e su quello strutturale. L’ipotesi è che un messaggio è maggiormente persuasivo se è congruente con le funzioni o
con la struttura di uno specifico atteggiamento. Quando per una persona un atteggiamento assume una funzione
di adattamento sociale, un messaggio centrato sull’immagine sociale avrà più effetto di un altro tipo di
messaggio. Allo stesso modo, se si assume che un atteggiamento può privilegiare una specifica componente, la
comunicazione persuasiva avrà più effetto se congruente con la componente maggiormente attivata.

2.6. Le relazioni tra atteggiamento e azione

La Piere intendeva analizzare se l’atteggiamento negativo producesse comportamenti congruenti di esclusione.


Egli e una coppia cinese visitarono 251 alberghi e ristoranti e solo in un caso furono rifiutati come clienti. Ciò
risultò in netto contrasto con l’atteggiamento rilevato in una fase successiva in cui gli stessi albergatori e
ristoratori dichiararono per il 92% dei casi di non accettare membri della razza cinese come clienti. Furono
questi i primi risultati che evidenziarono la scarsa predittività degli atteggiamenti nei confronti dei
comportamenti.
Fishbein e Ajzen proposero di specificare il concetto di atteggiamento definendolo come il processo valutativo
dell’azione. Un concetto che è entrato nella loro teoria dell’azione ragionata, seguendo il modello elaborato in
passato dallo stesso Fishbein nell’aspettativa per valore.

• L’atteggiamento nel modello aspettativa per valore: secondo Fishbein gli atteggiamenti sono la
risultante della somma delle credenze salienti di un individuo su un determinato oggetto. Ogni singola
credenza è vista nei termini della probabilità percepita (aspettativa) rispetto al fatto che l’oggetto
possieda determinate caratteristiche, congiunta al valore che la persona attribuisce a quelle
caratteristiche, vale a dire alla loro valutazione positiva o negativa. Il modello lega la formulazione
dell’atteggiamento alle credenze possedute rispetto all’oggetto e anche all’accessibilità di tali credenze,
che può variare a seconda delle situazioni. De Vries e van der Pligt hanno dimostrato che l’indice
sintetico ottenuto dalla moltiplicazione delle credenze correla solo moderatamente con l’atteggiamento
che le persone esprimono complessivamente verso l’oggetto;
• La teoria dell’azione ragionata: Fishbein e Ajzen assumono che le persone agiscano in base alle loro
interazioni, intendendo per intenzione la decisione di intraprendere un certo comportamento. Tale
decisione dipende dall’atteggiamento verso l’azione prevista e dalle norme soggettive alle quali la
persona fa riferimento. Per norme soggettive intendono le credenze rispetto all’approvazione o
disapprovazione di persone significative, congiunte alla motivazione a soddisfare o meno a tali
aspettative. La teoria venne criticata perché non considerava i possibili comportamenti poco ragionati,
poco controllabili dal soggetto, quali quelli automatici connessi con l’abitudine, quelli che esprimono
forme di dipendenza o che derivano da stati emotivi.
Ajzen propose una modificazione fondata sull’idea che il controllo dell’agire si svolga in un continuum dal
massimo al nullo. Tale elaborazione venne denominata teoria del comportamento pianificato.
Gli studi empirici diretti a verificare la teoria hanno evidenziato che sia l’atteggiamento sia le norme soggettive e
la percezione di controllo sono in relazione significativa con l’intenzione di compiere un’azione. Sia l’intenzione
espressa sia la percezione di controllo si connettono significativamente con l’attuazione effettiva del
comportamento, pur se tra i due fattori maggior peso riveste la percezione di controllo.
Quando il controllo è percepito come totale, il processo previsto è simile a quello formulato dalla teoria
dell’azione ragionata. Nei casi invece in cui il controllo risulta problematico, occorre tener conto dei vari fattori
che incidono su di esso. Questi possono essere sia personali sia situazionali. La percezione di controllo
dipenderà dal controllo effettivo e dalle credenze circa le proprie possibilità di controllo, che varieranno in base
alle esperienze pregresse del soggetto, alle aspettative su impedimenti, ostacoli, risorse od opportunità, e dai
rimedi degli altri. In una situazione in cui il controllo non sia totale, l’intenzione sarà intesa come la volontà di
provare a intraprenderla: un piano d’azione.

3. I pregiudizi

3.1. Il radicamento psicosociale del pregiudizio

Secondo Allport il pregiudizio è un atteggiamento di ostilità o di rifiuto verso un gruppo nel suo insieme o verso
un individuo appartenente a quel gruppo. Le scienze psicologiche e sociali hanno chiarito che tale atteggiamento
ostile e denigratorio è solitamente rivolto all’outgroup.
Lippmann utilizzò il termine stereotipo per indicare quelle rappresentazioni degli altri fisse e impenetrabili al
ragionamento, che, ricevendole già fabbricate dal contesto sociale, gli individui utilizzano per etichettare gli altri,
tendenzialmente in modo negativo, spesso distorcendo dati di realtà. I pregiudizi costellano la nostra vita sociale,
talvolta traducendosi in forme di discriminazione palese, prospettando quell’insieme di atteggiamenti in senso
lato che tendono a privilegiare l’ingroup a discapito dell’outgroup.

3.2. Etnocentrismo e noi-centrismo

Sumner ha formalizzato, come etnocentrismo, la tendenza che sin dall’antichità le formazioni sociali hanno
evidenziato a collocare se stesse al centro del mondo. Nelle parole di Sumner il termine designa una concezione
per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa, e tutti gli altri sono classificati e valutati in
rapporto a esso. C’è il nostro gruppo (we-group) e ci sono gli altri gruppi (others-groups): e il we-group diviene
il metro col quale la situazione umana esistente viene rappresentata e valutata: si tende a esaltare il noi e a
inferiorizzare gli altri. Quanto più gli altri gruppi si allontanano dallo spazio fisico, geografico e culturale
dell’ingroup, tanto meno sono umani. La razza nera nell’opera dell’inglese Long era considerata l’anello
intermedio tra l’uomo e l’orangutan. Spesso si è discriminato su caratteristiche fisiche fondendole con
caratteristiche culturali, tornando poi alle naturali nel senso di definire come naturalmente negativi quei tratti
che venivano stigmatizzati. La discriminazione sottostante al pregiudizio antisemita ha seguito questa strada.
Leach afferma che il noi-centrismo è un fenomeno radicato nelle radici stesse della coscienza, come
un’estensione della sfera centralizzatrice dell’Io, di quell’egocentrismo nel quale il noi sostituisce l’Io come
centro di identificazione. In tale ottica l’etnocentrismo è una caratteristica universale umana che tende
costantemente a riproporsi laddove esista una divisione fra popoli e nazioni.

3.3. Confronto tra i gruppi e identità sociale

Tajfel ha mostrato come sia quasi naturale la caratterizzazione degli individui basata sui dati della categoria
d’appartenenza. Nella categorizzazione sociale noi procediamo in base a connotazioni di valore che tendono a
valorizzare l’ingroup, anche perché è l’appartenenza al nostro gruppo che determina la nostra identità sociale.
Per questo motivo, nelle relazioni sociali noi tendiamo a pensare e reagire come membri del nostro gruppo e a
favorire tale gruppo perché così rinforziamo la nostra identità sociale. Le dinamiche sociali sono da vedersi come
animate da un costante confronto sociale tra i gruppi. Esse sottolineano le caratteristiche di un gruppo
acquistando gran parte del loro significato in rapporto alle differenze percepite rispetto ad altri gruppi e alla
connotazione di valore assegnata a tali differenze. I rapporti intergruppi ci permettono di meglio cogliere la
dimensione psicosociale del pregiudizio.
Adorno ha condotto nel suo studio sulla personalità autoritaria un’ampia ricerca sugli aspetti psicologici del
pregiudizio utilizzando varie scale che puntavano a mettere in luce tratti di personalità acquisiti nelle esperienze
infantili in un’ottica di tipo psicoanalitico. La tesi è quella che le esperienze avvenute sotto forme rigide di
educazione autoritaria parentale sono suscettibili di provocare turbe psichiche che le persone cercano di
risolvere mediante condotte e pregiudizi autoritari, di discriminazione e ostilità verso gli altri, soprattutto se
individui e/o gruppi più deboli.
La categorizzazione per un verso costituisce una semplificazione, con conseguente assimilazione di certe
caratteristiche dell’oggetto a quelle più generali della categoria, per un altro verso offre materiale laddove le
informazioni sul singolo oggetto sono poche o povere. Tali categorie funzionano come idee preconcette sulle
persone e sulle situazioni sociali. Idee che riflettono l’esperienza concreta, ivi compresa quella che si realizza
nell’agire pratica quale si svolge in un contesto di valenze sociali.

10. LE RELAZIONI TRA I GRUPPI


1. Senso di appartenenza e conflitto fra i gruppi
La caratteristica chiave per definire un gruppo è l’interdipendenza tra i suoi membri, che a sua volta può avere
due diversi fondamenti. Il primo è la condivisione di uno scopo perseguibile solo mediante il coordinamento
delle azioni dei singoli: ne deriva l’interdipendenza del compito. Esiste una seconda condizione di
interdipendenza che Lewin definisce interdipendenza del destino. Essa costituisce un elemento macroscopico
di unificazione, nel senso che qualunque aggregato casuale di individui può divenire gruppo, se le circostanze
ambientali attivano la sensazione di essere improvvisamente nella stessa barca. Utilizzare questa seconda forma
di interdipendenza come chiave per leggere le relazioni fra i gruppi permette di allargare notevolmente la
potenziale dimensione dei gruppi stessi.

2. Interdipendenza e conflitto intergruppi

2.1. Interdipendenza del compito e conflitto

Sherif ha coordinato un ciclo di indagini denominato come gli esperimenti di Robbers Cave. Le persone
sentono di far parte di un gruppo soprattutto quando si trovano a tentare di perseguire degli scopi il cui
raggiungimento richiede la coordinazione delle loro azioni individuali. Da tale necessità conseguono
inevitabilmente la necessità per il gruppo di organizzarsi al proprio interno in sistemi gerarchici di status,
l’attribuzione di ruoli alle persone e l’elaborazione di norme che ne regolano la vita e ne garantiscono l’integrità e
la sopravvivenza stessa. In base alla teoria del conflitto realistico, Sherif sostiene che il conflitto tra gruppi ha
una base concreta, innescandosi quando essi competono per il raggiungimento di uno scopo, specie nei casi in cui
le risorse disponibili sono scarse. In questi casi il conflitto, che trova il suo fondamento in cause specifiche e
limitate alla situazione contingente, tende a generalizzarsi, manifestandosi anche al di fuori degli ambiti
competitivi e promuovendo un’ostilità generalizzata tra i gruppi in interazione. Dal punto di vista psicosociale, le
principali conseguenze del conflitto sono la diffusione di stereotipi negativi nei confronti degli appartenenti agli
altri gruppi e la discriminazione dei membri dell’outgroup in favore di quelli dell’ingroup.
I soggetti degli esperimenti erano una ventina di ragazzini di 12 anni di età, ospiti di un campo estivo localizzato
in una struttura lontana dai centri abitati. Furono scelte persone che non si conoscevano, al fine di studiare come
sarebbero cambiati i loro comportamenti a partire dal momento in cui i ricercatori li avessero divisi in due
gruppi. Il personale adulto del campo era interamente costituito dall’équipe degli sperimentatori, che potevano
osservare le interazioni dei ragazzi senza insospettirli. Il campo estivo durava 18 giorni e nell’arco di questo
periodo le ipotesi formulate da Sherif venivano messe empiricamente alla prova variando le condizione di
interazione fra i partecipanti. Nella prima fase dell’esperimento i ragazzino stavano tutti insieme: in questa fase
si formavano delle diadi, in base alle loro affinità caratteriali. Nella seconda, adducendo ragioni organizzative, i
ragazzi venivano suddivisi in due gruppi, separando le diadi. Ai due gruppi venivano fatte praticare
separatamente attività che necessitavano di un’interazione coordinata fra i loro componenti. L’obiettivo era
quello di stimolare l’interdipendenza del compito, al fine di verificare se essa potesse essere considerata il
fondamento del senso di appartenenza. In questa fase i gruppi tentavano di definire una loro identità, inoltre
sviluppavano norme e un sistema di status. Nella terza tappa i due gruppi venivano messi in diretta competizione
fra loro: al vincitore di ciascuna prova sarebbe stata consegnata una coppa, e a ogni componente del suo gruppo
sarebbe stato dato un coltellino, mentre gli appartenenti al gruppo perdente non avrebbero ricevuto nulla.
L’ostilità tra i due gruppi era presente anche nelle situazioni non competitive. Le analisi sociometriche
mostrarono la presenza di un sistematico favoritismo per i componenti dell’ingroup, che veniva considerato
migliore dell’outgroup. La quarta fase costituiva nell’introduzione di un obiettivo comune a tutti i partecipanti,
da perseguire mediante la collaborazione con l’outgroup che avrebbe stimolato un senso di appartenenza più
inclusivo, promuovendo la risoluzione del conflitto. Sherif e i suoi colleghi osservarono che la necessità di una
collaborazione tra gruppi tendeva a ridurre in modo assai sensibile i comportamenti competitivi e conflittuali tra
essi. I ragazzi finivano talvolta per tornare a frequentare di preferenza gli amici che si erano fatti nella prima
fase.

2.2. Interdipendenza del destino e conflitto

Rabbie e Horwitz condussero un esperimento a cui partecipavano 8 soggetti, ripartiti dai ricercatori in due
gruppi (i blu e i verdi). La suddivisione era casuale. A questo punto i partecipanti dovevano svolgere alcuni
compiti che essi ritenevano costituissero l’oggetto dell’indagine, ma che in realtà erano solo un pretesto per
giustificare il setting della ricerca. Per evitare che i soggetti sperimentassero un senso di interdipendenza
fondato sulla necessità di perseguire un obiettivo comune, le prove venivano fatte svolgere individualmente. Una
volta che avevano ultimato il loro compito, ai partecipanti veniva richiesto di valutare i membri dell’ingroup,
quelli dell’outgroup e il clima all’interno dei due gruppi. Nella condizione di controllo le persone valutavano allo
stesso modo i componenti e il clima dei due gruppi. Nella condizione sperimentale la procedura vedeva che
prima che cominciassero a svolgere le prove, ai soggetti era stato promesso un compenso consistente in una
radio portatile. Tuttavia, al termine del compito, il ricercatore comunicava loro che, per mancanza di fondi, era
stato possibile acquistare solo quattro apparecchi: si sarebbe potuto ricompensare un solo gruppo di
partecipanti. In metà dei casi la scelta dei premiati veniva effettuata in maniera casuale, nell’altra metà era
operata dallo sperimentatore. In nessun caso essa dipendeva dal comportamento dei membri dei gruppi: ciò
serviva per far loro sperimentare un destino comune indipendente dalla loro prestazione. Dopo che il ricercatore
aveva stabilito chi sarebbe stato ricompensato, i soggetti dovevano valutare i membri e il clima dei due gruppi. I
membri dell’ingroup erano valuti in modo più positivo di quelli dell’outgroup. Rabbie e Horwitz spiegarono i loro
risultati sostenendo che nella condizione di controllo i soggetti, finivano per valutare un insieme indifferenziato
di individui senza ragione per privilegiarne alcuni a discapito di altri. Nella condizione sperimentale la
condivisione di un destino comune faceva sì che l’appartenenza ai blu piuttosto che ai verdi diventasse saliente:
l’interdipendenza del destino stimolava la nascita psicologica dei due gruppi che promuoveva il loro conflitto.

3. Categorizzazione sociale e rapporti intergruppi

3.1. L’intergroup bias

Tajfel vedeva il favoritismo per l’ingroup come una conseguenza dei semplici processi cognitivi di
categorizzazione del mondo sociale. La sua ipotesi di partenza fu che, come l’interdipendenza del compito,
anche l’interdipendenza del destino non è indispensabile allo sviluppo di un conflitto tra gruppi: postulò che esso
potesse basarsi sulla semplice esistenza di due categorie sociali compresenti in una situazione data. Tajfel
condusse una serie di studi fondati sul paradigma dei gruppi minimi. Nei suoi esperimenti fa appello al fatto
che gli individui sentano di appartenere al gruppo, anche in assenza di qualsiasi tipo di interazione. Ai soggetti
venivano mostrate delle riproduzioni di alcuni quadri di Paul Klee e Vasilij Kandinskij, e si chiedeva loro di
indicare se preferiva l’uno o l’altro artista. Questa predilezione veniva in seguito utilizzata come base per
costruire i gruppi. Nella seconda fase ai soggetti veniva chiesto di premiare, assegnando piccole somme di
denaro, altri due partecipanti, presentati in modo asettico e impersonale, dei quali sapevano qual era il pittore
che avevano maggiormente apprezzato. I risultati mostrarono chiaramente l’esistenza di notevole favoritismo
per l’ingroup. È sufficiente che un outgroup sia evocato sulla scena perché si determini una discriminazione netta
fra tale gruppo e il proprio. Questa tendenza viene denominata intergroup bias.

3.2. La teoria dell’identità sociale

Secondo Tajfel il conflitto può fondarsi anche su un guadagno psicologico. I gruppi competono anche per il
prestigio. Se una società viene percepita come caratterizzata da forti elementi di stratificazione sarà probabile
che le condotte sociali tendano a collocarsi vicino al versante intergruppi: le persone reagiranno come membri
del loro gruppo restando in certe definite relazioni nei confronti dei membri degli altri gruppi. Per Tajfel, una
parte dell’identità si fonda su una definizione di sé in termini individuali, e può essere definita identità
personale. Un’altra parte si fonda sulle appartenenze a gruppi e categorie sociali. L’identità sociale è quella parte
della concezione di sé di un individuo che gli deriva dalla consapevolezza di essere membro di un gruppo (o più)
sociali, oltre al rilievo emozionale collegato a questa condizione di membro. L’individuo che si trova per
qualunque motivo a far parte di un gruppo cercherà di rafforzarne la caratterizzazione in modo che essa risulti
soddisfacente per la propria identità. Le persone valorizzano l’ingroup per tentare di promuovere la propria
autostima. Secondo Tajfel il confronto intergruppi viene a innescarsi in modo automatico in tutte le situazioni in
cui almeno due gruppi sono compresenti in modo saliente. È in queste situazioni che il gruppo di appartenenza
viene percepito come tale e che i suoi membri tendono a considerarsi simili tra di loro, attribuendosi un insieme
di caratteristiche comuni che li distinguono dai componenti degli outgroup. L’intergroup bias si fonda su tre
processi psicologici: la categorizzazione sociale, l’identificazione e il confronto sociale. La categorizzazione è
sociale quando gli oggetti classificati sono individui e le categorie gruppi. La finalità principale del confronto che
tendiamo ad operare è l’autoaccrescimento. Appartenere ai gruppi socialmente stigmatizzati può ostacolare
la positività dell’identità sociale. In questi casi, secondo Tajfel e Turner, gli individui possono ricorrere a
differenti strategie per preservare un’identità sociale soddisfacente. Prima fra tutte è la mobilità sociale:
possono abbandonare il gruppo stigmatizzato cercando di entrare in gruppi più premianti dal punto di vista
identitario. Quando ciò non è possibile, gli individui hanno a disposizione la possibilità di impegnarsi per
promuovere il cambiamento sociale. Ciò può avvenire modificando materialmente la realtà sociale oppure
spostando i termini del confronto su caratteristiche che permettano al proprio gruppo di primeggiare. Altre
strategie utilizzate sono la disidentificazione, la quale consiste nel minimizzare le proprie relazioni personali
con il gruppo svantaggiato e considerarsi come singoli.

3.3. Sviluppi della teoria dell’identità sociale

Turner ha formulato la teoria della categorizzazione del Sé, secondo cui il comportamento individuale e quello
di gruppo possono essere considerati entrambi come fondati sul medesimo processo di categorizzazione che
applichiamo a noi stessi e alle altre persone. Identità sociale e personale sono espressione di un sé unico, che può
manifestarsi a diversi livelli. Il più generale è quello in cui ci consideriamo come esseri umani, spostandoci verso
categorie più concrete possiamo far riferimento a gruppi via via più piccoli. Quando ci definiamo a tale livello
siamo propensi a ricorrere all’intergroup bias. Il livello di astrazione ci vede arrivare a definirci come singoli
individui. La scelta di tale livello con il quale definiamo noi stessi e le altre persone coinvolte nel qui e ora della
situazione in cui ci troviamo dipende dalle caratteristiche di tale situazione. Secondo il modello che Turner
definisce Accessibilità per corrispondenza, nelle differenti circostanze gli individui utilizzano la categoria per
loro più saliente, che permette di distinguere i vari attori sociali presenti sulla scena.
Si possono distinguere gruppi autonomi, i cui membri per definirsi non necessitano di contrapporsi a quelli di
latri gruppi, e gruppi relazionali, i cui componenti si definiscono differenziandosi dall’outgroup. Secondo Hinkle
e Brown, il meccanismo dell’intergroup bias si innesca quando è saliente l’appartenenza a gruppi del secondo
tipo.
Le società individualiste enfatizzano il singolo come attorie sociale rilevante, la competizione, le conquiste
individuali e i modi con cui ognuno può distinguersi dagli altri, sono caratterizzate da valori legati alla
realizzazione personale. Le società collettiviste sono centrate sugli elementi che accomunano i loro componenti
e sui gruppi, contraddistinguendosi per l’importanza accordata alle norme e ai valori che danno la massima
rilevanza alla cooperazione, alla compattezza dei legami fra gli individui e al raggiungimento degli obiettivi
comuni. Hinkle e Brown combinando il tipo di cultura di appartenenza e la natura del gruppo di cui si fa parte più
saliente nel qui e ora, hanno proposto che l’intergroup bias si manifesta nei contesti culturali collettivisti quando
sono in gioco le appartenenze a gruppi relazionali.

4. Appartenenze multiple e funzioni dell’identità sociale

Le stesse persone che secondo un sistema di categorizzazione risulterebbero essere membri del nostro ingroup,
secondo un altro sistema possono essere considerate componenti di un outgroup. Deschamps e Doise hanno
mostrato sperimentalmente che attivare la salienza di un sistema di categorizzazione incrociata, che combina
l’appartenenza a due gruppi, può portare a una riduzione dell’intergroup bias. Doise ha mostrato come lo status
sociale - obiettivo dei gruppi - sia un fattore che influisce in modo rilevante su discriminazioni, giudizi e
valutazioni sia all’interno dell’ingroup che sull’outgroup.
Uno dei limiti dell’impostazione tajfeliana è quello di aver studiato le conseguenze dei processi cognitivi legati
alle appartenenze sociali senza distinguere tra le differenti motivazioni. Studi recenti si sono rivolti all’analisi di
una più realistica identità sociale multidimensionale, basata su appartenenze molteplici che possono risultare
più o meno salienti in funzione della situazione. Identificarci con un gruppo dominante può servirci per
aumentare la nostra autostima in situazioni sociali in cui potremo definirci superiori rispetto alle persone che
appartengono a un gruppo dominato.
Deaux ha individuato sette funzioni principali dell’identità sociale. La prima si riferisce a bisogni individuali:
appartenere a un gruppo può contribuire a far sviluppare una più accurata conoscenza e comprensione di sé. La
seconda è detta confronto sociale verso il basso: trova il suo fondamento nell’esigenza di promuovere la
positività della propria identità personale operando confronti vantaggiosi con altri membri del proprio gruppo.
La terza e la quarta concernono i nostri bisogni di socialità, si collocano a livello interpersonale: l’appartenenza a
gruppi può consentirci di sperimentare relazioni interpersonali positive e proficue. Esistono tre funzioni
collegate con le relazioni intergruppi e sono quelle più vicine a quelle individuate alle teorie tajfeliane. Si tratta
della promozione dell’autostima collettiva, del confronto e della competizione intergruppi e della
cooperazione e della coesione intergruppo.

11. L’INFLUENZA SOCIALE


1. Cos’è l’influenza sociale

Quando si parla di influenza sociale si fa riferimento a un più ristretto ambito di ricerca, ovvero lo studio delle
modalità secondo cui le opinioni e i comportamenti pubblici e privati degli individui sono influenzati da altri
soggetti. Si sono alternate due principali concezioni: la prima considera l’influenza come il prodotto dei rapporti
di forza del mondo sociale, colui che, in funzione del numero, di un maggiore potere o di maggiore autorità, è più
forte, può influenzare le opinioni e i comportamenti di chi è in una posizione di inferiorità; la seconda è stata
proposta da Moscovici e si tratta del modello genetico, il quale mira a spiegare l’influenza come il prodotto di un
processo interattivo fra gli attori coinvolti, definito anche dai loro rapporti di forza. Il modello genetico ha
spostato il focus degli studi sull’influenza sociale dalle condizioni sociali e personali alla base di questo fenomeno
ai processi di pensiero e agli stili di comportamento che la producono.

2. Il modello funzionalista

2.1. La pressione verso il conformismo

L’effetto autocinetico di Sherif è un’illusione ottica che consiste nel fatto che, in una stanza buia, senza punti di
riferimento, un punto luminoso proiettato su uno schermo dà l’impressione di oscillare anche se in realtà è
fermo. L’esperimento consisteva nel far valutare ai soggetti sperimentali l’ampiezza degli spostamenti di un
punto luminoso proiettato su uno schermo in una sequenza di prove. La principale variabile che interessava era
costituita dalle differenze di valutazione manifestate dai soggetti nelle situazioni in cui esprimevano i propri
giudizi da soli rispetto a quando li esprimevano in situazioni di gruppo. In una prima versione dell’esperimento,
i soggetti svolgevano l’esperimento da soli nel laboratori. Avveniva che le prime valutazioni tendessero a
stabilizzarsi intorno a un valore standard individuale. I soggetti si costruivano una norma personale di
valutazione, decidendo una volta per tutte quanto ampio fosse lo spostamento del punto e utilizzando tale
norma per valutare i successivi movimenti. Sherif ideò una seconda versione del suo studio. La prima condizione
sperimentale vedeva i soggetti svolgere le prove da soli, proseguendo in un secondo tempo l’esperimento in
gruppi di tre persone. In una seconda condizione avveniva l’inverno: i soggetti iniziava le prove in gruppo e, in
seguito, continuavano da soli. I soggetti che iniziavano svolgendo le prove individualmente si costituivano delle
stabili norme personali di valutazioni. Quando successivamente svolgevano il loro compito in gruppo, tendevano
a far convergere le loro norme individuali verso un valore intermedio. Si assistette alla nascita di una norma di
gruppo. Nella seconda condizione, gli individui, esprimendo i loro giudizi in gruppo, sviluppavano una norma
comune. Quando eseguono poi il compito da soli, tendevano sistematicamente a utilizzare tale norma senza
modificarla. Sherif interpretò questi risultati sostenendo che, all’interno dei gruppi, si sviluppano rilevanti
tendenze al conformismo. Questa tendenza origina dalla sensazione spiacevole di percepirsi come un deviante
rispetto al gruppo. Le norme costituiscono per Sherif degli schemi di riferimento comuni che, guidando le
percezioni, permettono ai membri di un gruppo di avere una visione comune del mondo in cui agiscono.

2.2. L’influenza della maggioranza


Asch aveva come ipotesi di partenza quella che, all’interno dei gruppi sociali, sono le opinioni maggioritarie
quelle più influenti. Ideò un esperimento in cui si chiedeva ai soggetti di esprimere un giudizio percettivo, nel
quale alle persone venivano presentate una linea campione e tre linee di confronto etichettate con le lettere A, B
e C. Il compito consisteva nell’indicare quale delle tre linee di confronto fosse uguale alla linea campione. In
questo caso vi erano due gruppi di partecipanti. I primi, che costituivano il gruppo di controllo, esprimevano le
loro valutazioni, ed erano sempre corrette. Nel secondo la prova veniva effettuata in gruppi di 8 persone, che
comunicava i propri giudizi pubblicamente, ad alta voce. Le prime sei persone interpellate erano tutte dei
complici dello sperimentatore, istruite a dare la risposta errata. Toccava poi all’unico soggetto sperimentale,
seguito dall’ultimo collaboratore, che dava anch’egli la risposta errata. I risultati dell’esperimento mostrarono
che ben un terzo dei soggetti ingenui del gruppo sperimentale finiva per conformare la propria risposta a quelle
espresse dalla maggioranza. Asch interpretò questi risultati come una prova del fatto che le persone tendono a
essere influenzate dalle opinioni e dalle posizioni della maggioranza. A parere di Asch, l’influenza è frutto di un
processo di ragionamento che, nelle situazione in cui siamo in minoranza, ci può portare a cambiare la nostra
opinione partendo dal presupposto che, se la maggioranza delle altre persone con cui siamo in interazione valuta
una situazione in maniera differente da noi, è possibile che la valutazione corretta sia la loro. Si tratta del
processo psicologico definito influenza informativa da Deutsch e Gerard. Secondo loro, ad essa si aggiunge una
seconda forma di influenza che trova il proprio sostegno empirico in una replica dell’esperimento di Asch. Alcuni
soggetti sperimentali esprimevano i loro giudizi senza essere visti dal resto del gruppo. I due autori osservarono
che, nelle occasioni in cui i soggetti ingenui possono esprimere in forma privata la loro posizione minoritaria,
l’ampiezza dell’influenza della maggioranza si riduce sensibilmente. Si tratta dell’influenza normativa, che ci
spinge a rispondere pubblicamente in modo coerente con le aspettative degli altri membri dei gruppi a cui
apparteniamo. Si strutturò così quella visione dell’influenza sociale che Moscovici definirà paradigma
funzionalista.

2.3. L’obbedienza all’autorità

Milgram riteneva che la collaborazione di migliaia di tedeschi alla messa in atto dello sterminio fosse da
imputare a caratteristiche culturali e di personali del popolo tedesco. Ideò una situazione sperimentale in cui
un’autorità poneva ai soggetti sperimentali delle richieste capaci di indurli a mettere in atto comportamenti
distruttivi manifestatamente contrari alle loro norme e ai loro valori personali. Scopo dello studio era analizzare
fino a che punto le persone erano disposte a rinunciare ai dettami della loro coscienza per obbedire alle richieste
dell’autorità. I soggetti, volontari e pagati, venivano convocati individualmente in un laboratorio universitario
dove incontravano un’altra persona che avrebbe partecipato all’esperimento. Lo sperimentatore comunicava
loro che la ricerca era finalizzata ad analizzare i processi di apprendimento e gli effetti esercitati su questo dalle
punizioni. Per tale motivo si sarebbe stabilito con un sorteggio quale dei due soggetti sperimentali avrebbe
svolto il ruolo di insegnante e quale quello di allievo. Solo una delle due persone era il soggetto sperimentale, il
sorteggio era truccato per far sì che fosse l’insegnante. Quest’ultimo avrebbe dovuto far svolgere all’allievo una
serie di esercizi mnemonici. Ogni volta che l’allievo avesse commesso un errore l’insegnante avrebbe dovuto
infliggergli una punizione e, col susseguirsi degli errori, la punizione sarebbe dovuta diventare sempre più
severa. L’allievo veniva legato a una sedia elettrica e gli veniva applicato un elettrodo al polso, mentre
l’insegnante doveva manovrare un complesso macchinario con cui avrebbe potuto infliggere le scosse elettriche
punire l’allievo. Il generatore elettrico aveva 30 interruttori con l’indicazione di voltaggi crescenti dai 15 ai 450
volt. La consegna era che a ogni errore dell’allievo corrispondeva una scossa superiore alla precedente. L’allievo,
in realtà, non riceveva alcuna scossa ma l’insegnante non ne era al corrente. L’allievo fingeva di provare dolore,
mentre l’insegnante veniva incitato dallo sperimentatore a proseguire. Circa due terzi dei soggetti arrivavano a
somministrare agli allievi fino all’ultimo scossa. Milgram si dedicò a studiare le condizioni che potevano
aumentare o diminuire la sottomissione all’autorità. In ulteriori indagini mise in luce che l’obbedienza era
maggiore quando l’allievo era più lontano dall’insegnante e massima quando non lo vedeva nemmeno. Un altro
fattore che influiva era la percezione di legittimità dell’autorità: quando l’esperimento era condotto all’interno
dell’università e lo sperimentatore era in camice, i soggetti sperimentali erano più inclini a obbedirgli rispetto a
quando l’esperimento si svolgeva in un ufficio anonimo fuori dal college oppure lo sperimentatore era un uomo
qualunque. L’interpretazione di Milgram del fenomeno si fonda sul concetto di stato eteronomico (agentic
state). Si tratta della condizione che sperimentano gli individui quando si riconoscono all’interno di un sistema
gerarchico, consistente nella situazione di dipendere necessariamente dagli ordini dell’autorità. Lo stato
eteronomico comporta alcune conseguenze a livello psicologico che possono spiegare l’indifferenza con cui
individui normali possono eseguire ordini assurdi o distruttivi. L’attenzione viene selettivamente rivolta
all’autorità e distolta dalla vittima, si tende a ridefinire la situazione in maniera da giustificare la fondatezza degli
ordini che si attuano. Una conseguenza è la perdita soggettiva di responsabilità del soggetto che attua gli ordini.
Sentire di essere solo un ingranaggio nella macchina della distruzione, attribuendo la responsabilità delle
proprie condotte alle persone gerarchicamente superiori, permette di compiere azioni distruttive minimizzando
la propria responsabilità personale. La perdita di responsabilità è un’ottima difesa per l’immagine di sé. La
pressione normativa spinge a sottometterci alle autorità considerate legittime.

3. Il modello genetico

3.1. La critica del modello funzionalista

Hollander nella teoria del credito idiosincratico afferma che nei gruppi l’innovazione è promossa dal leader.
Per arrivare a rivestire tale ruolo le persone devono guadagnare credito nei confronti degli altri membri del
gruppo, ottenendolo dimostrandosi inizialmente particolarmente leali e fedeli rispetto alle norme e alle mete
condivise. La leadership offre loro la possibilità di modificare i valori e le norme comuni. Per Hollander,
l’influenza è una questione di potere e procede in maniera unidirezionale dall’alto verso il basso, pur non
escludendo che i detentori di una posizione privilegiata abbiano la possibilità di modificare le norme vigenti e di
promuovere il cambiamento sociale.
Secondo Moscovici tutte le persone e tutti i gruppi sono sia fonte sia bersaglio di influenza, anche in misura
diversa in funzione del loro status. L’influenza sociale è nella possibilità anche delle minoranze o di singoli
individui. Scopo dell’influenza esercitata da chi non detiene potere sarà quello di promuovere il cambiamento
sociale.

3.2. L’influenza minoritaria

Per l’esperimento di Moscovici vennero costituiti due gruppi, i quali come nell’esperimento di Asch dovevano
fornire valutazioni di stimoli percettivi ambigui. Il gruppo di controllo era formato da sei soggetti ingenui,
quello sperimentale da quattro soggetti ingenui e da due complici, istruiti a dichiarare sistematicamente che
tutte le diapositive proiettate erano di verde. La quasi totalità dei partecipanti del gruppo di controllo (99,75%)
riferì correttamente di aver visto delle diapositive blu. Questo avvenne anche per la maggioranza dei componenti
del gruppo sperimentale ma in maniera minore (91,58%). La presenza di una minoranza di partecipanti che
riferiva valutazioni errate aveva il potere di spingere in errore una quota significativa di soggetti ingenui.
Secondo Moscovici quello che conta è il comportamento messo in atto dalla minoranza, e in particolare dalla
coerenza con la quale essa sostiene il punto di vista alternativo alla maggioranza. Egli sostiene che i processi di
influenza dipendono dallo stile di comportamento tenuto da chi effettua il tentativo di influenza: tutti gli
individui possono esercitare influenza.

3.3. Condiscendenza e conversione

L’influenza maggioritaria ha come scopo il mantenimento dello status quo e si realizza attraverso i fenomeni
di conformismo. Un processo che viene definito di condiscendenza da Moscovici e Personnaz, e avviene a
seguito di un’attività di confronto sociale con la maggioranza. Nel caso di influenza minoritaria, il gruppo
minoritario propone il cambiamento e la messa in discussione di qualche punto di vista largamente condiviso.
Per avere successo la minoranza deve costringere i membri della maggioranza a un lavoro cognitivo rivolto alla
messa in discussione delle opinioni precedenti e ad un esame approfondito delle proposte alternative. Il conflitto
porta alla necessità di una risoluzione per mezzo di una negoziazione. Il risultato del processo di influenza
dipende da come la negoziazione viene portata avanti dalla minoranza
Vi sono varie difese contro i devianti: Doise, Deschamps e Mugny individuano il meccanismo della
naturalizzazione, che consiste nel minare la credibilità del gruppo minoritaria bollandolo con etichette che
riconducono la sua devianza a proprietà intrinseche al gruppo stesso. La persistenza della minoranza nel
sostenere le sue opinioni può indurre i membri della maggioranza a focalizzare la loro attenzione sull’oggetto
della disputa e a prendere in considerazione le argomentazioni della controparte. Attraverso un processo di
validazione, le tesi minoritarie possono essere rifiutate o accettate: in quest’ultimo caso si attua l’influenza e si ha
una conversione.
L’esperimento condotto da Moscovici e Personnaz utilizzava un’illusione ottica, in questo caso l’after-effect
cromatico. Se fissiamo per alcuni secondi una macchia colorata proiettata su di uno schermo bianco,
immediatamente dopo la fine della proiezioni vedremo una macchia del colore complementare a quello visto in
precedenza. I soggetti dovevano valutare pubblicamente il colore di diapositive di tonalità ambigua interpretabili
come blu o verde, e anche in questo caso vi era una minoranza che sosteneva che il colore era verde. Dopo i
soggetti dovevano valutare il colore dell’after-effect cromatico. In questo caso la valutazione avveniva senza la
presenza di nessun altro soggetto. Se i soggetti erano realmente convinti del fatto che il colore che vedevano
fosse blu, avrebbero dovuto interpretare l’after-effect come giallo. Se invece i soggetti avessero dato una risposta
pubblica blu esclusivamente dipendente dal non voler deviare dall’opinione maggioritaria, ma in realtà si fossero
convinti della bontà dell’opinione minoritaria che il colore proiettato era verde, avrebbero interpretato l’after-
effect come rosso. I risultati dimostrarono che molte persone che nella valutazione del colore della diapositiva
avevano aderito pubblicamente all’opinione maggioritaria, nella valutazione dell’after-effect, che consideravano
svincolata dalla precedente, rivelavano che in realtà avevano privatamente accettato l’interpretazione proposta
dalla minoranza.

4. L’influenza come processo unitario vs. duale

4.1. Un processo unico per maggioranza e minoranza

Vari studiosi hanno considerato l’influenza come il frutto di un processo unico. Tra questi Latané e Wolf, secondo
cui l’influenza sociale, che loro chiamano impatto sociale, è il prodotto di tre caratteristiche della fonte
dell’influenza:

• Forza: può essere definita in potere o status detenuto dalla fonte e di abilità che essa possiede nel
sostenere le posizioni proposte;
• Immediatezza: è la vicinanza tra la fonte e il bersaglio dell’influenza, che può essere intesa tanto in
senso spaziale quanto temporale;
• Numero: si riferisce alle dimensioni del gruppo che esercita l’influenza.

L’impatto sociale sarà massimo nei casi in cui la fonte di influenza è caratterizzata da forza, immediatezza e
numero elevati, minimo nei casi in cui sono ridotti. Essendo la dimensione della fonte una variabile in gioco nel
processo, l’influenza di un gruppo numeroso avrà maggiori possibilità di esercitarsi e il peso relativo degli altri
due fattori sarà più basso. Il risultato del processo dipende anche dalla numerosità del gruppo bersaglio.
All’aumentare delle dimensioni del gruppo su cui si esercita l’influenza, l’impatto della fonte su ciascun singolo
individuo si riduce. La conversione avviene unicamente in quei casi in cui la posizione minoritaria è dimostrabile
come più corretta rispetto a quella della maggioranza.

4.2. Elaborazione convergente ed elaborazione divergente

Nemeth ha sostenuto e argomentato la sensatezza della distinzione tra l’influenza maggioritaria e quella
minoritaria, sia dal punto di vista dei processi di pensiero che stanno alla base dell’influenza, sia per quel che
concerne i loro effetti. Le differenze tra l’impatto di una maggioranza e una minoranza, secondo la Nemeth,
concernono il tipo stesso di cambiamento generato dalla fonte dell’influenza. Ella sostiene che le minoranze
possono spesso influenzare un numero maggiore di persone su argomenti affini, parlando in questo caso di
influenza indiretta. A suo parere, la minoranza riesce a ottenere che la maggioranza presti più attenzione
all’argomento in discussione a livello generale e si impegni in un’elaborazione approfondita delle informazioni a
esso relative.
L’influenza maggioritaria si basa su di un’elaborazione dell’informazione di tipo convergente: le persone
accettano la posizione della maggioranza senza metterla in discussione o quantomeno si limitano a verificare la
fondatezza dell’opinione dominante senza prendere in considerazione possibili alternative. L’influenza
minoritaria stimola un’elaborazione divergente: con il proprio comportamento costringe la maggioranza a
prendere in considerazione punti di vista differenti e a confrontarli con le proprie opinioni attraverso
un’elaborazione approfondita e più dettagliata. Alcuni esperimenti hanno confermato queste tesi, mostrando
come i punti di vista minoritari possano aumentare la creatività nei gruppi e condurre a prestazioni migliori
nella soluzione dei problemi.
Janis aveva analizzato alcuni casi prese di decisione errate da parte di gruppi di persone esperte e ben preparate,
attribuendo molti di questi errori a un processo psicologico chiamata groupthink. Si tratta di un processo
cognitivo che deriva da una scarsa presa in considerazione di possibili alternative, e che si manifesta all’interno
dei gruppi uniti, nei quali l’assenza di posizioni minoritarie spinge a un’elaborazione divergente che preveda di
prendere in esame possibili alternative.
Secondo un altro modello il cambiamento di opinione può avvenire a seguito di due processi diversi di
elaborazione dell’informazione: una sistematica, cioè approfondita e dispendiosa dal punto di vista cognitivo, e
una euristica, cioè basata su scorciatoie di pensiero e poco dispendiosa. La scelta del percorso di elaborazione
da utilizzare dipende dal grado di motivazione e dalle abilità cognitive della persona. I dati empirici mostrano
che il cambio di opinione è più probabile quando avviene attraverso processi di elaborazione sistematica della
posizione proposta. Nel caso dell’influenza esercitata da una maggioranza entrerebbe in azione un’eristica.
Quando le persone hanno un’opinione differente da quella maggioritaria, si convincono più facilmente a
impegnarsi in un’elaborazione sistematica, cioè ad analizzare più a fondo le argomentazioni per controllare la
validità della loro opinione. De Vries e collaboratori sostengono la tesi che la numerosità del gruppo influenzate
sia il fattore che con maggiore probabilità induce a processi di elaborazione sistematica. L’influenza
maggioritaria, essendo supportata dalle euristiche che si basano sulla numerosità della fonte di influenza motiva
a verificare l’opinione della maggioranza, cioè a un pensiero di tipo convergente. Al contrario l’influenza
minoritaria suscita processi di elaborazione divergente, che possono essere meno efficaci in maniera diretta, ma
che, come conseguenza dell’allargamento della riflessione sul tema generale, possono generare cambiamenti di
opinione in merito ad argomenti che vi si collegano

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