Sei sulla pagina 1di 48

lOMoARcPSD|35528346

Lezioni di tutela intz. dei diritti umani

Diritto internazionale (Università degli Studi di Bari Aldo Moro)

Studocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.


Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)
lOMoARcPSD|35528346

Tutela Internazionale dei Diritti Umani

CAP 1. EVOLUZIONE STORICA DEI DIRITTI UMANI

1. Il superamento del dominio riservato agli Stati.

Fino all’istituzione dell’ONU il sistema di protezione dei diritti umani era debole e fondato pressoché
esclusivamente sul diritto interno, in alcuni casi con riferimenti al diritto naturale. I diritti umani venivano
talora considerati quali diritti innati dell’essere umano, ma trovavano un limitato fondamento nel diritto
positivo. Fra gli atti più noti nazionali vi sono la Dichiarazione dei Diritti Umani adottata dalla Virginia e la
Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del 1776 e la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789. In materia di tutela internazionale dei diritti umani, il limite generale era costituito dal
principio del dominio riservato degli Stati sul proprio territorio, come ribadito dall’articolo 2 par.7 della Carta
dell’ONU (che esclude l’applicazione di questo principio solo in relazione alle misure coercitive assunte dal
Consiglio di Sicurezza sulla base del Capitolo 7 della Carta). Il cittadino era considerato un suddito dello
Stato nazionale, il quale esercitava su di esso un “diritto reale di sovranità”, nel quadro di una concezione
sostanzialmente privatistica dei rapporti fra Stato e i propri cittadini. Lo Stato era quindi libero di svolgere
nei confronti dei propri cittadini ogni potere. L’elemento di raccordo fra tutela interna e internazionale in
materia di diritti umani è evidenziato nella Dichiarazione dei diritti internazionale dell’uomo adottata nel
1929 dall’Istituto del diritto Internazionale, nel cui preambolo si richiamano le costituzioni nazionali che
prevedono norme in materia di diritti umani.

2. Le origini della protezione internazionale dei diritti umani. La protezione dello straniero.

Il diritto internazionale esigeva tuttavia la protezione dei diritti appartenenti agli stranieri. Gli obblighi in
esame potevano riguardare singoli individui o gruppi di essi, come confermato dalla conclusione di trattati
intz aventi ad oggetto la tutela delle minoranze religiose. Da queste esigenze e in relazione ai rapporti con i
Paesi extraeuropei ha origine il “regime delle capitolazioni” secondo cui i cittadini stranieri venivano
giudicati all’estero, sia in sede civile sia talora in sede penale, da tribunali speciali che applicavano la loro
legislazione nazionale. Con riguardo al contenuto delle norme internazionali “classiche” sulla protezione dei
diritti degli stranieri, vanno richiamate: il divieto posto a carico dello Stato territoriale di adottare
comportamenti non legittimati da un sufficiente “attacco territoriale dello straniero” (no servizio militare);
l’obbligo per lo Stato di adottare misure preventive e repressive di condotte lesive nei confronti dello
straniero in ragione dell’importanza e delle funzioni svolte dallo straniero all’estero; l’obbligo sostanziale di
rispettare il principio di non discriminazione nei confronti dello straniero, questi atti discriminatori non si
limitano alle persone fisiche, ma comprendono anche le persone giuridiche; e l'obbligo procedurale di
consentire l’accesso alla giustizia nazionale.

3. La titolarità antica e moderna dei diritti degli stranieri.

La titolarità dei diritti degli stranieri apparteneva in passato esclusivamente allo Stato nazionale dello
straniero e non agli individui vittime delle lesioni, e di conseguenza la responsabilità internazionale dello
Stato autore della violazione ne poteva essere fatta valere unicamente dallo Stato nazionale dello straniero
in quanto unico titolare del diritto sostanziale leso. Esso aveva anche la facoltà di adottare contromisure o
agire in protezione diplomatica del proprio cittadino o della persona giuridica nazionale (come affermato
dalla Corte permanente di giustizia internazionale nel Caso Concessioni Mavrommatis in Palestina, sentenza
30 Agosto 1924). Questa concezione è oggi da ritenersi superata, in quanto ora l’individuo possa essere
direttamente titolare, sulla base di norme internazionali, di diritti sostanziali e procedurali, come pure di

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

obblighi intz. Questa tendenza evolutiva del diritto intz. implicaun rafforzamento dello status giuridico
dell’individuo in ambito intz, fino ad ipotizzare una sorta di personalità giuridica intz. l’esistenza di norme
intz che prevedono diritti sostanziali a favori di individui è stata confermata dalla Corte Internazionale di
Giustizia nei casi LaGrand (Germania v. US, 2001) e Avena (Messico v. US, 2004), in cui la Corte ha
affermato che l’articolo 36 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 24 Aprile 1963
contempla sia un diritto statale, sia un diritto individuali, a informare lo Stato nazionale dell’arresto,
detenzione e sottoposizione a processo del proprio cittadino. Lo Stato nazionale può quindi ricorrere alla
Corte internazionale in protezione diplomatica del proprio cittadino sulla base del Protocollo Opzione che
contiene una clausola compromissoria che lo consente.

4. La protezione diplomatica e i suoi sviluppi.

Gli sviluppi in materia di diritti umani hanno influenzato anche l’istituto della protezione diplomatica.
Questa incidenza è tuttavia limitata in quanto essa, in primo luogo, è circoscritta dal punto di vista
“contenutistico”, concernendo soprattutto la riduzione della discrezionalità dello Stato nazionale circa la
decisione di agire in protezione diplomatica e il contenuto di questa azione statale. Inoltre, l’incidenza è
limitata rationemateriae ad alcune gravi violazioni dei diritti umani. Di conseguenza, non è astato ancora
completato il collegamento fra titolarità dei diritti sostanziali da parte degli ndividui e obbligo dello Stato
nazionale di agire in protezione diplomatica in caso di violazione dei suddetti diritti. Significativa al riguardo
è la decisione della Corte Suprema del Sud Africa del 4 Agosto 2004 nel caso Kaunda e altri c. Presidente
della Repubblica del Sud Africa, in cui si è proceduto all’interpretazione di alcune norme costituzionali
sudafricane (1012,35) alla luce del regime normativo in tema di diritti umani, accertando di conseguenza
l’obbligo del governo, secondo i suoi obblighi internazionali, di agire al fine di proteggere i propri cittadini
che hanno subito una grave violazione dei diritti umani.Sentenza del 19 Ottobre 2011 n.21581 della
Cassazione a sezion Unite in cui viene accolto un ricorso di una società privata ritenendo sussistente
l'interesse legittimo di tale società a contestare in sede giurisdizionale la legittimità del mancato intervento
del governo italiano a seguito del rifiuto dell’amministrazione marocchina di continuare a far svolgere
l’attività commerciale in oggetto.Sentenza 4 dicembre 2017, il TAR Lazio conferma l’approccio restrittivo in
materia di protezione diplomatica, respingendo il ricorso di un cittadino italiano che invocava la protezione
da parte del nostro governo per una presunta persecuzione subita (di natura penale e tributaria),
affermando che “Lo stato che agisce in protezione diplomatica esercita un diritto di cui è titolare sul piano
internazionale lui stesso e non il cittadino."

CAP 2. FONDAMENTO GIURIDICO E TEORIE SUI DIRITTI UMANI.

1. Diritto naturale.

In dottrina si dibatte da tempo sul fondamento giuridico della tutela intz dei diritti umani. Le teorie più
accreditate sono quelle che fanno leva sul diritto naturale dell’individuo alla protezione dei propri diritti, sul
consenso degli aventi diritto e su convenzioni positivistiche del diritto. Alla tesi del diritto naturale si ispira
quella della "auto-evidenza”, secondo cui i diritti umani sono immediati ed evidenti (e quindi non hanno
bisogno di una giustificazione teorica e normativa) e secondo cui le fonti giuridiche sono solo riproduttive di
ciò che è insito nell’uomo.Quale che sia la variante di queste diverse teorie, esse sono accomunate dall’idea
che la materia in questione è sottratta alla discrezionalità dello Stato, che può soltanto confermarne
l’esistenza. Un riferimento ai diritti umani quali diritti naturali si ritrova nell’opinione dissenziente del giudice
Tanaka alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 18 luglio 1966 nel caso del "Sud Ovest
Africano" (Etiopia c. SA e Liberia c. SA) secondo cui il principio della protezione dei diritti umani deriva dal
concetto dell’uomo come persona e gli stati non possono creare diritti umani, ma soltanto confermarne

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

l’esistenza e assicurare una protezione giuridica. Ne consegue che il ruolo dello Stato non è altro che
dichiarativo in quanto i diritti umani esistano indipendentemente e prima dello Stato. Tuttavia, queste teorie
presentano dei limiti. Questi corrispondono, sotto il profilo teorico, alla loro generale debolezza, che incide
negativamente in sede di accertamento e applicazione dei relativi diritti, soprattutto a livello giudiziario.
Ancora, la genericità della tutela e la loro imprecisione fa sì che questi possano essere limitati in modo
significativo e talvolta ignorati del tutto, laddove ad esempio operino, in relazioni a certi diritti individuali o
collettivi, clausole di deroga ai trattati sui diritti umani per gravi situazioni di emergenza. A livello nazionale e
intz può poi sussistere sia un conflitto fra diritti dell’individuo o di una pluralità di individui e di diritti e
interessi statali. Da considerare anche l’effettiva incidenza dello Stato nel rendere vigenti ed operanti i
medesimi diritti. Queste situazioni denotano che il diritto di ogni individuo è limitato dalla titolarità del
medesimo diritto o di altri diritti da parte di diversi soggetti, con la conseguenza di rendere necessaria una
complessa opera di bilanciamento preventivo di queste opposte esigenze.

2. Consenso.

Un ulteriore orientamento dottrinale si basa sull’idea che il fondamento giuridico dei dritti umani risieda sul
consenso dei consociati. Vanno quindi considerati come diritti umani quei diritti che vengono riconosciuti
come tali da una determinata collettività di soggetti che dà vita a un nucleo sociale. Le questioni
problematiche concernenti la teoria in esame attengono, da un lato, l’identificazione dei consociati e quindi
le comunità di individui rilevanti ai fini della formulazione del consenso e, dall’altro, alla natura e alle
modalità di manifestazione del consenso da tenere in considerazione. Il consenso potendo essere
manifestato anche tacitamente, rischia di dar luogo ad interpretazioni quasi del tutto discrezionali, che
tendono ad accertare in modo approssimativo l’esistenza effettiva del consenso.

3. Teorie positivistiche.

Altre teorie rilevanti sono quelle di natura positivistica, che si fondono sulla trasformazione in termini di
diritto positivo dei diritti umani. Queste teorie implicano pertanto che i diritti umani discendano dalla loro
originaria dimensione naturale e/o morale e siano espressamente regolamentati a livello giuridico.
Essenziale al riguardo è il ruolo dello Stato e delle org. intz. in particolare alle funzioni di produzione e
attuazione delle norme contenenti i diritti individuali e collettivi. Queste teorie sono contigue alla tesi che
individua nel consenso dei consociati il fondamento giuridico dei diritti umani, infatti il consenso sociale si
traduce spesso, in base alle varie forme previste dall’ordinamento nazionale e intz, in regole di diritto
positivo.

4. Le caratteristiche generali del diritto intz dei diritti umani: universalità, indivisibilità e irrinunciabilità.

È ormai consolidata la convinzione che i diritti umani abbiano natura universale, indivisibile e irrinunciabile,
ma questo risultato non è stato realizzato in modo agevole. In passato si sono affermate correnti di
pensiero, per esempio, secondo la teoria di ispirazione Marxista, i diritti umani sono di origine occidentale e
hanno la finalità di tutelare solo una parte della popolazione nazionale, la ricca borghesia. Non sarebbero
universali quindi, perché tutelerebbero solo una parte della popolazione con un’eccessiva attenzione verso
gli aspetti individuali del diritto e non quelli collettivi. inoltre, non sono mancate obiezioni di fondo
provenienti da gruppi significati di Stati, gli stessi Paesi socialisti e i paesi decolonizzati, i quali hanno
avanzato critiche nei confronti di diritti umani di natura economica, che in un certo senso continuavano ad
agevolare e mantenere la presenza economica di altri stati nel territorio nazionale. Queste forme di
contestazione non vengono confinate della storia: gli Stati islamici per esempio vanno ben oltre la
valorizzazione del relativismo in materia di diritti umani. I diritti umani hanno natura universale, indivisibile

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

e irrinunciabile. Con il termine universalità si intende affermare che i diritti umani spettano a ogni essere
umano senza alcuna distinzione, e senza che essi siano sottoposti al meccanismo della reciprocità in termini
di applicazione delle norme internazionali in tema di diritti umani. Da questo punto i vista i trattati sui diritti
umani e quelli in materia di diritto internazionale umanitario costituiscono un’eccezione nel quadro del
diritto dei trattati, come confermato dalla Corte Internazionale di Giustizia nel parere consultivo del 21
giugno 1971 sulle "Conseguenze giuridiche per gli Stati della presenza continua del Sud Africa in Namibia" e
confermato dall’articolo 60 par. 5 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969, che esclude i
suddetti trattati dalla regola “inademplenti non est adimplendum” (in materia di estinzione o sospensione
dei trattati per inadempimento di una parte contraente). L’applicazione di questi trattai deve quindi essere
assicurata in modo assoluto e oggettivo, non essendo il loro rispetto subordinato all’osservanza da parte
degli altri stati contraenti. L'universalismo non significa condivisione uniforme e globale dei valori
sottostanti a ogni specifico diritto umano, tenendo conto delle peculiarità nazionali e locali nonché dei
diversi background di carattere storico, culturale e religioso. Con il termine indivisibilità si intende la stretta
dipendenza fra i vari diritti umani, i quali si completano e rafforzano l’un l’altro. Alcuni diritti di più recente
formazione sono infatti ricavati da altri diritti umani, soprattutto quelli di natura fondamentale. Così dal
diritto alla vita discendono, ad esempio, il diritto all’alimentazione e il diritto a condizioni di vita dignitose,
all’abitazione etc. La Corte Intz. Americana ha utilizzato il carattere dell’interdipendenza e indivisibilità dei
diritti umani in particolare al fine di estendere la propria competenza sulle violazioni di diritti che non
trovano adeguato fondamento nella Convenzione Americana nella sentenza del 31 agosto 2017 resa nel
caso Lagos del Campo c. Peru. La Corte ha evidenziato la interdipendenza e indivisibilità esistente fra i diritti
civili e politici e quelli economici, sociali, e culturali, i quali vanno considerati come diritti umani senza
gerarchia. Al momento, dati gli sviluppi in materia di tutela internazionale dei diritti umani, appare più
adeguato parlare di coordinamento necessario e costane che deve essere assicurato fra questi diritti, e
l’integrazione fra i vari regimi giuridico che operano. Infine, i diritti umani non possono essere oggetto di
rinuncia da parte dei loro titolari. Anche questa caratteristica non può essere intesa in termini assoluti e
soltanto alcuni diritti umani (in prevalenza di natura fondamentale) sono veramente irrinunciabili, mentre
altri possono essere oggetto di rinuncia totale o parziale (anche per fini economici). La rinuncia deve non
soltanto provenire dal titolare del diritto, ma anche essere “libera” quindi non imposta da terzi o da
condizioni di particolare bisogno economico.

5. Universalismo e forme differenziate di relativismo in materia di diritti umani.

Riguardo il conflitto fra esigenze di universalismo e relativismo in materia di diritti umani, il problema si è
posto riguardo il conflitto fra alcuni diritti umani e il diritto alla diversità culturale, protetto all’Articolo 22
della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e dalla Convenzione UNESCO del 20 Ottobre 2005 sulla
protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali. Questa Convenzione, all’articolo 2,
stabilisce che non è possibile invocare le disposizioni contenute al fine di violare i diritti umani contemplati
nella Dichiarazione Universale dei dritti dell’Uomo o dal diritto internazionale, o per limitarne la loro
portata. La diversità culturale incontra il suo limite quando essa si trova davanti a diritti fondamentali,
trovandosi a dover fare un passo indietro. Se invece sono diritti della stessa importanza, si deve fare un
bilanciamento.Gli usi consuetudinari da considerare vietati vi sono le mutilazioni genitali femminili, il cui
divieto è previsto dal Protocollo addizionale alla Carta africana dei diritti umani del 1981, dal General
Comment n.21 adottato nel 2009 dal Comitato ONU dei diritti economici, sociali, e culturali, e
dall’Assemblea Generale dell’ONU con risoluzione 20 Dicembre 2012. Un esempio evidente di assenza della
volontà di pervenire a soluzioni equilibrate in materia di universalità e diversità culturale nel quadro dei
diritti umani è la Carta Araba dei diritti umani del 2004, in cui la non discriminazione è comunque limitata
dalle regole dello Shari’a e dalle altri legge divine. Un tentativo di bilanciamento è stato recentemente

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

compiuto dalla Cassazione con la sentenza 15 Maggio 2017 n.2484 in cui la Cassazione ha affermato che
sebbene una società multietnica debba favorire l’integrazione e il mantenimento della cultura di origine
degli stranieri, garantendo in tal modo il pluralismo sociale e culturale, il suddetto obiettivo non può
superare il limite “costituito dal rispetto dei diritti umani e della società giuridica della società ospitante”. La
Corte osserva anche che sussiste un obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo
occidentale in cui ha liberamente scelto di inserirsi.

6. Diritti umani individuali e collettivi.

In passato il regime intz sui diritti umani era prevalentemente improntato su una visione individualistica
della tutela della persona. La disciplina normativa attuale è invece fondata su un approccio dualistico, in
base al quale diversi diritti umani possono assumere, anche in relazione alla medesima fattispecie, una
dimensione individuale e collettiva. Questa particolare connotazione dei diritti appare evidente in relazione
al diritto alla libertà religiosa, di opinione e di espressione, i quali sono esercitati, da un lato, da singoli, e
dall’altro, possono avvalersi di forme istituzionali attraverso le quali esprimere le proprie convinzioni.
Considerazioni analoghe possono svolgersi in relazione ad altri diritti come il diritto alla vita privata e
familiare. È poi del tutto pacifica la titolarità di alcuni diritti mani, come pure di determinati obblighi intz, da
parte di enti collettivi, quali minoranze, popoli indigeni, movimenti insurrezionali e imprese multinazionali. È
possibile pertanto ritenere che nel momento dell’esercizio individuale di determinati diritti, i quali in realtà
assumono una duplice dimensione, gli individui agiscano sia nel proprio specifico interesse, sia
nell’interesse della collettività.

CAP 3.FONTI NORMATIVE E LA LORO ATTUAZIONE NEGLI ORDINAMENTI NAZIONALI.

1. Juscogens e diritto intz generale: collegamento e sovrapposizione fra le due fonti normative.

(Articolo 38 dello Statuto della Corte delle Nazioni Unite: 1. Convenzioni internazionali 2. Consuetudine
internazionale 3. Principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili 4. In via sussidiaria, le decisioni
giudiziarie e la dottrina degli autori più autorevoli delle varie nazioni).

JusCogens (norme cogenti): Le norme imperative del diritto internazionale vietano non soltanto le violazioni
di particolare gravità dei diritti umani commesse nei confronti di una pluralità di individui, come nel caso di
genocidio, ma si estendono anche alla violazioni effettuate nei confronti di singoli individui, come nel caso
della tortura o della schiavitù. Inoltre, grazie anche al contributo dell’ONU si assiste a una progressiva
espansione dello juscogens verso la protezione di diritti umani in precedenza disciplinati dal diritto
internazionale generale o pattizio. Questa espansione dell’ambito applicativo dello juscogens ha dato vita a
una simmetrica estensione applicativa del diritto intz consuetudinario in materia di diritti umani. Di
conseguenza, il diritto generale tende progressivamente a proteggere diritti precedentemente esclusi
dall’ambito di tutela predisposto da questa fonte normativa. È tuttavia necessario notare come vi sia una
tendenza finalizzata ad accertare in modo piuttosto generoso la corrispondenza di certe regole giuridiche a
norme cogenti o a norme di diritto intz generale.

2. Caratteri specifici delle norme cogenti in materia di diritti umani.

Nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, la contrarietà alle norme imperative del diritto
internazionale è sanzionata con la nullità (ex tunc) dei trattati confliggenti (articolo 53), o con la loro
estinzione qualora la norma cogente si formi successivamente alla conclusione del trattato preso in esame
(articolo 64). Il regime in questione è altresì rafforzato dalla previsione di una clausola compromissoria che
consente alle parti della controversia in materia di contrarietà al diritto cogente di sottoporre la questione

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

alla Corte Internazionale di Giustizia (articolo 66). Parte della dottrina e della giurisprudenza intz è
favorevole all’applicazione del principio della nullità dei trattati incompatibili con le norme cogenti alle
norme consuetudinarie confliggenti con lo juscogens. La tesi in questione, ammissibile sotto il profilo
teorico, affida all’interprete un’eccessiva discrezionalità in quanto, a differenza delle norme pattizie per e
quali esiste sempre un testo scritto, per le norme consuetudinarie ciò non sussiste, risultando quindi non
sempre molto agevole per l0interprete l’individuazione del contenuto effettivo della consuetudice che i
profili specifici di incompatibilità con lo juscogens. Un’altra caratteristica peculiare delle norme cogenti in
materia di diritti umani attiene ai loro effetti in termini di obblighi statali di adeguamento a tali norme
imperative. Secondo la condivisibile impostazione della giurisprudenza internazionale, la norma cogente sul
divieto di tortura e quella di schiavitù prevederebbero altresì l’obbligo per gli Stati di regolamentare a livello
legislativo le fattispecie oggetto della norma internazionale. La norma cogente in esame conterrebbe gli
obblighi positivi dello Stato di legiferare, stabilendo apposite figure di reato corrispondenti a quanto
stabilito a livello internazionale e commisurate alla gravità delle violazioni in esame e di non adottare misure
nazionali che abbiano come effetto giuridico quello della impunità per crimini internazionali. Altrettanto
condivisibile appare la tesi secondo cui la contrarietà alle norme imperative produce l’effetto dell’invalidità
degli atti legislativi interni (ad. es. i provvedimenti di amnistia o di natura equivalente adottati a favore dei
responsabilità di atti di tortura) sebbene, in questi casi sia comunque necessaria una pronuncia delle corti
supreme o costituzionali interne al fine di dichiarare invalidi gli atti legislativi contrari al diritto cogente.
Questo profilospecifico delle norme di diritto cogente in tema di diritti umani è stato approfondito dalla
Corte Interamericana dei diritti dell’uomo, che ha considerato incompatibili con la Convenzione americana i
provvedimenti di amnistia adottati da alcuni paesi sudamericani applicabili anche ai crimini internazionali
commessi da funzionari civili e militari dei passati regimi dittatoriali, facendo salva esclusivamente l’ipotesi
della sussistenza, a favore dell’individuo responsabile di gravi ed effettive ragioni umanitarie.Il principio è
stato affermato nelle sentenze del 14 Marzo 2001 nel caso Barrios Altos c. Peru e del 26 Settembre 2006 nel
caso Almonacid-Arellano e altri c. Cile. Nella prima sentenza, la Corte ha affermato che i provvedimenti di
amnistia sono inammissibili in quanto hanno la finalità di prevenire l’individuazione e la punizione
dellepersone responsabili di gravi violazioni di diritti umani. Secondo la Corte, pertanto, la contrarietà alle
norme imperative non può che implicare l’effetto dell’invalidità dei suddetti atti interni in quanto essi
ostacolano l'individuazione delle persone responsabili. Nel secondo caso la Corte ha ulteriormente motivato
la sua posizione, osservando che le legislazioni nazionali che garantiscono l’amnistia ai responsabili di
crimini internazionali si pongono in evidente contrasto con l’oggetto e lo scopo della Convenzione
americana e non possono avere effetti legali. Analoga posizione è stata assunta dalla Corte Europea dei
Dritti dell’Uomo nella sentenza resa dalla Grande Camera il 17 Settembre 2014 che nel caso Mocanu e altri
c. Romania ha affermato che nel caso di condotte di organi statali che possono configurare atti di tortura o
trattamenti inumani o degradanti, i procedimenti giudiziari di natura penale non possono essere interrotti in
ragione dell’operatività delle norme in materia di prescrizione. La violazione di norme di juscogens in
materia di diritti umani ha effetti anche sul piano della responsabilità internazionale dello Stato, con la
previsione di una responsabilità statale aggravata in caso di violazione grave di norme cogenti (che
prevedono obblighi erga omnes: da rispettare nei confronti dell’intera comunità internazionale).

3. I principi generali di diritto.

Un’ulteriore fonte normativa rilevante in materia di diritti umani è rappresentata dai principi generali di
diritto interno, contemplati quali fonti normative nell’articolo 38 dello Statuto della Corte Internazionale di
giustizia e usati per colmare le lacune del diritto. Essi posseggono un’importanza minore nel sistema delle
fonti internazionali per quanto riguarda i diritti umani, tuttavia continuano a svolgere un ruolo incisivo nei
settori continui ad esso quale il diritto internazionale penale dove rilevano, fra altri, il principio di legalità, il

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

principio di irretroattività della norma penale e il principio del contraddittorio. Uno dei principi generali di
diritto internazionale che assume particolare importanza nel campo dei diritti umani è il principio di
proporzionalità, che viene usato nella giurisprudenza internazionale per valutare la liceità sia delle misure
nazionali di deroga ad alcuni trattati internazionali sia di limitazioni di numerosi diritti umani protetti a
livello convenzionale.

4. Le fonti di diritto pattizio: le convenzioni universali e regionali.

Fra le fonti normative di maggiore importanza del diritto internazionale dei diritti umani vanno annoverati i
trattati internazionali, che possono essere suddivisi a seconda del loro carattere universale o regionale, dei
diritti collettivi o individuali che proteggono o dal livello di protezione assicurato sul piano pattizio. I core
treaties sono quei trattati elaborati nel quadro dell’ONU che sono generalmente ritenuti di particolare
importanza in quanto svolgono una funzione-guida anche al di fuori del sistema ONU per la conclusione di
ulteriori trattati e per indirizzare le attività dei numerosi organi dell’ONU e delle OI. Essi sono generalmente
individuati nei due Patti del 16 Dicembre 1966, nella Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di
discriminazione razziale del 1965, nella Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei
confronti delle donne del 1979, nella Convenzione contro la tortura e gli altri trattamenti inumani o
degradanti del 1984, nella Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, nella Convenzione per la
prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948 e nella Convenzione di Ginevra sullo status
dei rifugiati del 1951. Va precisato che diverse norme contenute in questi trattati sono riproduttive di norme
consuetudinarie e in numero più ridotto di regole di juscogens.

5. Natura particolare degli obblighi stabiliti dai trattati sui diritti umani. Limiti all’applicazione del regime
giuridico generale sul diritto dei trattati.

La prima nota caratteristica dei trattati sui diritti umani è che essi non si prefiggono la protezione di diritti e
interessi statali, ma diritti e libertà spettanti agli individui o a gruppi di essi, a prescindere dalla loro
appartenenza a un determinato Stato e quindi estendendo la tutela anche agli apolidi. Questi trattati hanno
inoltre un carattere oggettivo e assoluto, contrapposto al carattere sinallagmatico dei trattati in genere che
invece sono basati sul principio di reciprocità nel rispetto delle norme pattizie. La violazione da parte di uno
Stato di un trattato sui diritti umani non consente agli altri Stati parte di invocare l’estinzione o la
sospensione del trattato stesso in applicazione della regola inadimplenti non est adimplendum prevista
dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 all’articolo 60 para. 5. Inoltre, le regole pattizie
sui diritti umani prevedono spesso obblighi erga omnes partes. Pertanto, gli obblighi dello Stato contraente
sono assunti nei confronti di tutti gli altri State parte i quali possono reagire alle violazioni delle regole
pattizie utilizzando mezzi quali i ricorsi interstatali. La Grande Camera della CEDU, nella sentenza relativa alla
controversia Cipro c. Turchia del 2014 ha affermato che un ricorso statale sottoposto all’esame della CEDU
può avere una duplice e diversa finalità. Il ricorso può o avere lo scopo di far accertare disfunzioni e lacune
di natura sistemica nell’ordinamento nazionale dello Stato convenuto, oppure di denunciare le violazioni
della CEDU commesse nei confronti dei cittadini dello Stato autore del ricorso (in questa tipologia di ricorsi,
l’azione giudiziaria è assimilabile agli interventi dello Stato nazionale in protezione diplomatica dei propri
cittadini). Appare consolidata la tendenza della giurisprudenza e della prassi degli organi di controllo sul
rispetto di alcuni trattati sui diritti umani a valutare la legittimità, ed eventualmente a ritenere invalide (e
quindi come non apposte) le riserve considerate da tali organi contrarie all’oggetto e allo scopo del trattato
o non conformi al regime previsto in materia di riserve ai trattati sui diritti umani. Un esempio recente
relativo al sistema CEDU è costituito dalla declaratoria di invalidità della riserva apposta dall’Italia agli
articoli 2-4 del Protocollo n.7 alla CEDU, nella quale si stabiliva che questi articoli potessero applicarsi ai soli

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

illeciti qualificati come penali dalla legge italiana. Nella sentenza del 4 Marzo 2014 relativa al caso Grande
Stevens c. Italia, la CEDU ha dichiarato la nullità della riserva, in quanto ritenuta priva dei requisiti di
precisione e chiarezza riguardanti i dati legislativi nazionali che devono essere forniti dallo Stato al momento
della formulazione della riserva. Occorre in conclusione chiarire che la disciplina sui diritti umani non
costituisce affatto un sistema giuridico speciale ormai autonomo rispetto al diritto intz, ma ne costituisce al
contrario parte integrante e fondamentale, contribuendo allo sviluppo progressivo del diritto e della
comunità intz.

6. La nozione di giurisdizione nei trattati sui diritti umani e la questione dell’applicazione extraterritoriale
di tali trattati.

L’applicazione di questi trattati deve essere assicurata dagli Stati parti non solo sul proprio territorio ma
anche nelle aree nelle quali sussiste la “giurisdizione” dello Stato stesso. La nozione di giurisdizione è più
ampia di quella di sovranità e comprende i territori stranieri nei quali lo Stato sia titolare di un controllo
effettivo del territorio, esercitato ad esempio attraverso forme stabili di occupazione militare (come
recentemente affermato nel General Comment n.36 del 30 Ottobre 2018 dal Comitato ONU dei diritti umani
istituito dal Patto sui diritti civili e politici del 1966). Questo controllo può avere origine da condotte assunte
in violazione del principio che vieta l’uso della forza e del principio di autodeterminazione dei popoli, come
nel caso dei territori palestinesi occupati da Israele (1967) o dell’occupazione militare turca della parte
settentrionale di Cipro (1974). Il controllo effettivo del territorio straniero può inoltre ricavarsi da condotte
di Stati stranieri poste in essere in modo legittimo come sulla base di un’autorizzazione del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU (come avvenuto per l’occupazione militare anglo-statunitense sulla base della
risoluzione del 2003 n.1483 adottata al termine del conflitto armato internazionale avvenuto sul territorio
iracheno). L’esame della giurisprudenza della Corte EDU induce a non escludere che in casi di occupazione,
l'obbligo di rispettare le norme della CEDU ricada sia sullo stato occupato - obbligandolo in particolare ad
adottare tutte le misure possibili al fine di garantire il rispetto dei diritti garantiti dalla CEDU - sia dallo Stato
occupante (anche nel caso di un governo locale di natura secessionista). Alcuni organi di controllo sul
rispetto dei diritti umani hanno ulteriormente ampliato la nozione di giurisdizione in esame, includendo
anche i casi nei quali il controllo effettivo esercitato dallo Stato sul territorio straniero risulta limitato nel
tempo e nello spazio. In questo modo si è accertata la responsabilità dello Stato parte di trattati sui diritti
umani in situazioni di controllo di breve durata, derivanti sopratutto da incursioni di organi militari e di
polizia in territorio straniero (Ecuador c. Colombia: incursione militari colombiani in Ecuador per uccidere o
catturare membri del FARC). Altri organi di controllo applicano un criterio del controllo “personale”,
esercitato quindi dallo Stato su singoli operanti all’estero. Questo criterio ha natura sussidiaria rispetto a
quello del controllo territoriale, e il ricorso ad esso viene effettuato sulla base di un’interpretazione
teleologica delle norme pattizie, valorizzando quindi le particolari finalità dei trattati sui diritti umani. Il
controllo esercitato dallo Stato sulla persona ha trovato conferma nel parere consultivo del 15 novembre
2017 adottato dalla Corte Interamericana dei diritti dell’uomo, in relazione a una fattispecie riguardante
danni ambientali di natura transfrontaliera di cui era responsabile uno Stato parte della Convenzione. La
Corte ha accertato la responsabilità dello Stato di origine dei danni ambientali per gli eventi lesivi causati a
individui residenti in altri Stati, ma ritenuti sotto la giurisdizione dello Stato di origine, posto che, secondo la
Corte sussisteva una relazione di causalità fra il fatto che ebbe origine nel territorio dello Stato e l’effetto sui
diritti umani delle persone fuori da esso. Di applicazione extraterritoriale deve parlarsi anche del divieto per
lo Stato contraente ai trattati sui diritti umani di estradizione, espulsione o consegna di individui che
rischino nel Paese di destinazione finale di essere sottoposti a tortura o trattamenti inumani o degradanti.
Con sentenza del 26 Ottobre 2017 in merito al provvedimento di espulsione di un cittadino straniero,
richiamando quanto affermato più volte dalla Corte EDU con riguardo all’articolo 3 sul divieto di tortura, la

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

Cassazione ha affermato la non eseguibilità dei provvedimenti di espulsione verso Paesi in cui vi sia il rischio
di tortura o di trattamenti inumani o degradanti.

7. Trattati sui diritti umani e la loro applicazione interindividuale.

L'accertamento della responsabilità dello Stato contraente un trattato sui diritti umani per violazione
materialmente commesse da privati è fondato sul mancato rispetto del principio di due diligence e quindi
riscontrabile laddove lo Stato non abbia adottato tutte le misure necessarie tenendo conto della peculiarità
del caso concreto, per prevenire e reprimere le violazioni commesse fra privati. I criteri utili al fine di
verificare l’osservanza di tale principio sono quello della capacità effettiva dello Stato di far fronte a queste
condotte lesive (che va modulato in ragione delle caratteristiche del caso specifico), il criterio della
conoscenza effettiva o della conoscibilità da parte dello Stato del rischio di violazioni nei confronti delle
vittime di queste condotte (come di recente affermato dalla Corte Interamericana nella sentenza del 26
settembre 2018 relativa al caso Lopez Soto e altri c. Venezuela) e il principio di proporzionalità. Nel caso
Talpis c. Italia del 2017 la Corte EDU ha accertato la violazione da parte dell’italia degli obblighi positivi
esistenti in materia di tutela del diritto alla vita e del diritto a non essere sottoposto a trattamenti inumani o
degradanti in considerazione, in questo caso specifico, dello stato di paura e di angoscia prodotti nella
vittima a causa del mancato intervento degli organi statali.

8. Trattati sui diritti umani e diritto intz umanitario.

Una condotta lesiva posta in essere durante un conflitto armato può configurare la violazione di regole
appartenenti allo jus in bello e di regole sui diritti umani. Nel parere consultivo dell’8 Luglio 1996 relativo
alla Liceità della minaccia o dell’uso delle armi nucleari, la Corte ha osservato che la disciplina in materia di
diritti umani e in particolare quella prevista dal Patto ONU sui diritti civlili e politici si applica anche durante i
conflitti armati, fatta salva la clausola di deroga contenuta nell’articolo 4 del Patto. Nel conseguente parere
consultivo del 2004 sulle Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nel territorio palestinese
occupato, la Corte ha confermato la posizione assunta nel precedente parere e ha sistematizzato il
complesso delle relazioni fra diritti umani e diritto internazionale umanitario, affermando che possono
realizzarsi in concreto tre situazioni: (1) Certi diritti appartengono esclusivamente al diritto internazionale
umanitario; (2) Altri diritti appartengono esclusivamente ai diritti umani; (3) Altri possono appartenere ad
entrambi. Nella sentenza del 19 dicembre 2005 relativa alle Attività armate sul territorio del Congo, la Corte
ha richiamato le tre ipotesi sopra descritte in tema di rapporti fra diritti umani e diritto internazionale
umanitario, facendo riferimento a una serie di trattati in materia di diritto internazionale umanitario e di
convenzioni (di natura universale e regionale) in tema di diritti umani applicabili al caso concreto. Anche la
Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale si applica anche in caso di
conflitto armato. Le sovrapposizioni fra le norme di diritti umani e quelle del diritto internazionale
umanitario possono essere risolte per via interpretativa sulla base di diversi principi ermeneutici quali il
principio di specialità e il principio di complementarità o di coordinamento fra fonti normative tramite un
esame specifico della fattispecie concreta.

9. Deroghe e clausole di restrizione nei trattati sui diritti umani.

Alcuni trattati sui diritti umani contengono clausole espresse di deroga in caos di conflitto armato o per altre
situazioni di emergenza (articolo 15 CEDU e 4 Patto civili e politico). Queste clausole prevedono
generalmente una serie di limiti sostanziali, quali l’inderogabilità di alcune norme pattizie che tutelano diritti
di carattere fondamentale e di obblighi procedurali quali quelli di notifica formale dei provvedimenti di
deroga. Ai fini della valutazione delle misure adottate dagli Stati in situazioni di emergenza si fa riferimento

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

anche al principio di proporzionalità, in cui vengono presi in considerazione la natura delle misure nazionali
adottate, gli effetti concreti prodotti sui diritti umani, la durata di tali misure e l’individuazione dei soggetti
destinatari dei provvedimenti restrittive. Infine sono valutate le finalità perseguite dallo Stato con l’adozione
degli atti in questione, analizzando sia se le misure adottate siano effettivamente funzionali alla tutela delle
istituzioni statali e della collettività nazionale oppure se le misure siano invece prive di questa finalità e
aventi solo lo scopo di limitare i diritti dell’intera collettività nazionale. Natura diversa hanno invece le
clausole di restrizione di alcuni diritti umani generalmente stabilite nel regime giuridico internazionale,
solitamente incluse nelle medesime norme che sanciscono i diritti stessi. Queste restrizioni hanno la
funzione di bilanciare l’esercizio dei diritti oggetto di limitazione con altri diritti individuali o collettivi oppure
rispetto a interessi dello Stato considerati di particolare importanza. Per accertare la legittimità delle
restrizioni imposte dallo Stato, gli organi di controllo sul rispetto dei trattati sui diritti umani sottopongono i
provvedimenti adottati dallo stato alla verifica della necessità dell’ingerenza effettuata dallo Stato che va
giustificata alla luce della protezione dei suddetti interessi generali o individuali e in secondo luogo al test di
proporzionalità delle misure adottate, analizzando la portata, gli effetti concreti e la durata delle azioni
concretamente poste in essere a livello statale.

10. Trattati sui diritti umani e diritto interno: rango, diretta applicabilità ed efficacia diretta dalle norme
convenzionali negli ordinamenti nazionali.

Una delle condizioni più significative per garantire il rispetto effettivo delle norme internazionali è costituita
dalla loro corretta applicazione negli ordinamenti nazionali, che varia a seconda della diversa apertura dei
sistemi giuridici nazionali verso l’ordinamento internazionale. Un altro elemento fondamentale è dato dalla
scelta dei procedimenti di adattamento al diritto generale e pattizio e dal corrispondente rango attribuito
alle norme internazionali sul piano interno. Nell’ordinamento Italiano, sulla base dell’Articolo 10 della
Costituzione le norme di diritto internazionale generale godono di una particolare tutela con il solo limite
dei principi supremi della Costituzione, e sulla base dell’Articolo 117 invece le norme pattizie acquistano il
rango di norme interposte fra Costituzione e legge ordinaria. L’articolo 10 regola anche il regime sulla tutela
dello straniero, stabilendo che la sua condizione giuridica è regolata dalla legge in conformità delle norme e
dei trattati internazionali. Gli obblighi internazionali sui diritti umani, di natura consuetudinaria e pattizia
sono prevalentemente contenuti in norme direttamente applicabili negli ordinamenti nazionali, senza
quindi bisogno (almeno in linea di principio) di alcuna attività integrativa a livello legislativo interno, ed
efficaci direttamente nei medesimi sistemi giuridici interni in quanto prevedono diritti individuali o collettivi
azionabili direttamente davanti ai tribunali nazionali. Gli obblighi dello stato possono essere negativi (di non
facere) oppure positivi (facere), i secondi implicano azioni concrete da parte degli Stati, spesso di natura
legislativa al fine di assicurare la conformità rispetto alle norme internazionali. Gli obblighi possono inoltre
essere specifici (riguardo il rispetto dei singoli diritti umani) oppure generali (desunti da una o più norme
contenute in trattati vincolanti per lo Stato preso in esame). I secondi richiedono allo Stato di predisporre un
ampio e adeguato apparato legislativo in modo da prevenire e reprimere le violazioni di una pluralità di
diritti umani. Il rispetto di questi obblighi positivi diviene spesso indispensabile per lo Stato al fine di evitare
violazioni “strutturali” o “sistemiche” delle norme convenzionali, che derivano da disfunzioni o lacune di
sistema o di struttura dello Stato e che se non eliminate implicano violazioni statali “in serie” della
medesima norma internazionale (come avvenuto in Italia con riferimento alle violazioni del “termine
ragionevole” entro il quale concludere processi nazionali ex art. 6 CEDU). I diritti contenuti nei trattati
conclusi sopratutto a tutela dei diritti economici, sociali e culturali come ad esempio il Patto Onu del 1966
sono protetti non soltanto attraverso la previsione di obblighi integralmente e immediatamente applicabili,
ma anche in base ad obblighi considerati vincolanti ma a realizzazione progressiva (secondo quanto
affermato dallo stesso Comitato ONU dei diritti economici, sociali e culturali nel General Comment n.3 del

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

1990). La ratio sottesa alla concessione di un certo margine di discrezionalità in termini di misure nazionali
da adottare e di arco temporale entro il quale adottarle è costituita prevalentemente dalle gravi difficolta
invocate dagli Stati per garantire il rispetto effettivo di questi diritti. Nondimeno, gli Stati sono tenuti a una
serie di adempimenti graduali e tali da garantire un progressivo e integrale rispetto dei diritti umani -
adempimenti che sono controllati alla luce dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità delle misure
concretamente adottate - con esclusione di misure regressive del livello di tutela già esistente a livello
nazionale. In sede di recepimento degli accordi che contengono obblighi positivi a carico degli Stati, questi
sono tenuti non soltanto ad adeguare i propri ordinamenti nazionali al momento dell’esecuzione dello
specifico trattato ma anche a intervenire successivamente, sopratutto a seguito di decisioni degli organi di
controllo sul rispetto dei trattati, che talora vengono rafforzati da protocolli addizionali. Si tratta quindi di
una continua opera di monitoraggio circa la corrispondenza degli ordinamenti nazionali rispetti a una
determinata convenzione internazionale e agli accordi ad essa collegati, cosi come interpretata dagli
eventuali organi di controllo sull’osservanza delle relative norme convenzionali.

11. Il soft law.

Le regole internazionali non obbligatorie, o di soft law, rilevano in generale nel diritto internazionale sia
quali elementi di esortazione e di stimolo per gli Stati circa il rispetto delle norme di diritto positivo, sia in
materia di sviluppo del diritto internazionale generale, rientrando nell’opinione jurisacnecessitatis degli Stati
e delle OI. L’esempio più incisivo di soft law nel quadro dei diritti umani è la Dichiarazione universale dei
diritti dell’Uomo, approvata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948 e
regionalmente la Dichiarazione Americana dei diritti e doveri dell’uomo, approvata dall’Organizzazione degli
Stati americani il 2 maggio 1948. La dichiarazione ONU, pur non essendo vincolante, acquista particolare
rilevanza sul piano generale in quanto costituisce il primo strumento giuridico di natura universale in
materia di diritti umani. La dichiarazione si occupa sopratutto dei diritti civlii e politici con taluni riferimenti
a quelli economici, sociali, e culturali. Nonostante non vi sia un sistema accentrato di controllo circa
l’osservanza delle regole contenute nella Dichiarazione, vi è l’obbligo di cooperazione fra le Nazioni Unite e
gli Stati membri, ex art.2 par.5 della Carta dell’ONU. Si può però affermare, sulla prassi successiva della
Dichiarazione, che essa abbia costituito un essenziale parametro giuridico di riferimento per
l’interpretazione innanzitutto della Carta dell’ONU (è stata inserita infatti fra gli strumenti giuridici la cui
osservano deve essere accertata dallo Human RightsCouncil nell’espletamento del suo Universal Periodic
Review) e come modello giuridico per l’elaborazione di convenzioni internazionale di carattere regionale, sia
all’interno dell’ONU che al di fuori di esso (ad.es. nel preambolo della CEDU si richiamano gli scopi generali
della Dichiarazione).

12. Il sistema della CEDU: caratteri generali e organizzazione della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il sistema della CEDU (47 SM), che comprende la Convenzione adottata il 4 novembre 1950 nel quadro del
consiglio d’Europa e i successivi protocolli addizionali (16), si avvale oggi di un unico organo di controllo (la
Corte) che ha sostituito il più articolato duplice sistema di controllo (da un lato la Commissione europea dei
diritti dell’uomo che aveva funzioni amministrative e quasi giudiziarie e decideva sulla ricevibilità dei ricorsi
e adottava dei rapporti nel merito della controversia, e dall’altro il Comitato dei Ministri del Consiglio
d’Europa, cui era demandata l’adozione di una decisione vincolante sul merito dei ricorsi e della stessa Corte
europea. Attualmente, la Corte europea giudica nella composizione di giudice unico, Comitati di tre giudici,
Camere di sette giudici e Grande Camera da diciassette giudici. Il giudice unico ha competenze limitate e
può esclusivamente dichiarare irricevibile o cancellare dal ruolo della Corte, con decisione non sottoposta
ad appello, un ricorso individuale laddove tale decisione non possa essere adottata senza ulteriori

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

accertamenti. Qualora il ricorso non sia dichiarato irricevibile o cancellato dal ruolo dal giudice unico
competente, esso viene trasmesso a un Comitato o a una Camera per l’ulteriore esame. Anche i Comitati
hanno competenze specifiche in materia di valutazione dei ricorsi individuali sottoposti alla Corte e hanno in
particolare la funzione di dichiarare irricevibile o cancellare dal ruolo il ricorso, con decisione effettiva
adottata all’unanimità, oppure dichiararlo ricevibile e pronunciare contestualmente (sempre con giudizio
unanime) la sentenza di merito quando la questione relativa all’interpretazione o all’applicazione della
CEDU o dei suoi Protocolli sia oggetto di una giurisprudenza consolidata della Corte. Nell’ipotesi in cui non
sia stata adottata alcuna decisione o sentenza ai sensi degli articoli 27 e 28 della CEDU e la competenza sia
stata deferita a una delle Camere della Corte, essa si pronuncia in via eccezionale, anche con decisioni
distinte, sulla ricevibilità e sul merito dei ricorsi individuali e interstatali. Infine, qualora la quesitone oggetto
del ricorso sottoposta all’esame di una Camera sollevi gravi problemi di interpretazione della CEDU o dei
suoi Protocolli, o laddove la soluzione del ricorso rischi di provocare un contrasto con la precedente
giurisprudenza, può rimettere il caso alla Grande Camera, salvo che una delle parti si opponga. Questa
facoltà di opposizione delle parti sarà definitivamente soppressa dall’articolo 3 del Protocollo n.15 alla
CEDU, non ancora entrato in vigore. Un’ulteriore competenza della Grande Camera è costituita dalla
richiesta di riesame, proveniente da una delle parti della controversia, della sentenza resa da una Camera,
che può essere presentata entro tre mesi dalla data di pubblicazione di quest’ultima. In questo caso la
richiesta è filtrata da un collegio di cinque giudici appartenenti alla stessa Grande Camera che valuta se la
questione oggetto del ricorso sollevi gravi problemi di interpretazione o applicazione della CEDU o dei suoi
Protocolli, oppure se riguardi una rilevante questione di importanza gerarchica nel sistema della CEDU. In
entrambi i casi, la GC si pronuncia sulla ricevibilità e sul merito con sentenza definitiva. Inoltre, la Corte, ex
art.47 della CEDU, è titolare del potere più ampio di adottare pareri consultivi su richiesta del Comitato dei
Ministri, per questioni giuridiche relative all’interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli.

13. I ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo e le condizioni di ricevibilità.

Alla Corte EDU possono essere presentati ricorsi di natura statale o individuale. Per quelli individuali, essi
possono provenire sia da singoli individui che da gruppi di individui od organizzazioni non governative
(anche le persone giuridiche), a patto che tali soggetti dimostrino di possedere la qualità di vittima a seguito
della violazione di uno dei diritti previsti nella CEDU o nei protocolli addizionali. Riguardo le organizzazioni
non governative, è esclusa l’ammissibilità di ricorsi provenienti da associazioni rappresentative di interessi
collettivi ma non specificamente colpite dalla violazione attribuita allo Stato parte. La Corte ha affermato nel
caso Ada Rossi e altri c. Italia che non è sufficiente per il ricorrente individuale “to claimthat the mere
existence of a lawviolateshisright under the Convention” essendo altresì necessario che “the
lawshouldhavebeenapplied to hisdetriment”. Nella giurisprudenza più recente la Corte ha affermato che i
ricorsi provenienti dalle ONG sono ammissibili laddove la vittima non abbia la capacità giuridica di agire, in
quanto ad esempio gravemente malato, non vi siano parenti che possano rappresentarla e l’ONG in
questione sia stata specificamente e attivamente coinvolta nella vicenda sorta sul piano interno (ad esempio
presentando ricordi a nome dell’individuo di fronte ad organi o ai tribunali nazionali per violazione di diritti
umani di carattere fondamentale). Le ONG possono quindi svolgere la funzione di “supplenza” in assenza di
altri soggetti legittimati o capaci di agire in giudizio. Riguardo la determinazione nella nozione di vittima, la
Corte è incline a considerare ammissibili sia i ricorsi provenienti da vittime “indirette”, ad esempio dai
congiunti stretti della vittima diretta, sia da vittime potenziali, ad esempio nel caso della potenziale
adozione di una legge che pur non ancora applicata nei confronti del ricorrente abbia quest’ultimo come
destinatario. Ciò è avvenuto in relazione a leggi nazionali che prevedono sanzioni penali a carico degli
omosessuali o che vietano di indossare il velo islamico in pubblico. Le altre condizioni di ammissibilità dei
ricorsi individuali (ex art.35 CEDU) sono il previo esaurimento dei ricorsi interni, il superamento del limite

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

temporale di sei mesi dall’adozione della decisione interna definitiva - termine che sarà ridotto a quattro
mesi appena entrerà in vigore il Protocollo n.15 - la pretestuosità (abusività) o manifesta infondatezza del
ricorso e il fatto che il ricorso risulti identico ad altro già esaminato dalla Corte. Da ultimo, in base all’entrata
in vigore del protocollo n.14, è stato introdotto il “criterio de minimis” di ammissibilità del ricorso
individuale, relativo all’accertamento di un pregiudizio importante, valutato in termini economici, nei
riguardi della vittima della violazione, nel senso che la lesione individuale non debba situarsi al di sotto di
una soglia minima di gravità. Essa varia in relazione al diritto violato e alle condizioni personali della vittima.

14. Il controllo della Corte europea dei diritti dell’uomo. Natura e contenuto delle sentenze della Corte di
Strasburgo e il ruolo del Comitato dei Ministri.

Come stabilito dall’articolo 19 della CEDU, il rispetto degli obblighi contenuti nella Convenzione è assicurato
attraverso l'istituzione della Corte EDU, le cui sentenze definitive sono obbligatorie per le parti contraenti. La
Corte può anzitutto rendere decisioni aventi ad oggetto misure provvisorie, le quali sono considerate di
natura obbligatoria per gli Stati parte e concernono pressoché esclusivamente misure particolarmente
urgenti finalizzate a evitare il rischio concreto di violazioni di diritti fondamentali. Le decisione della Corte in
materia di misure provvisorie sono solitamente eseguite a livello nazionale, come affermato dalla
Cassazione (“alla doverosa osservanza degli obblighi che scaturiscono dai provvedimenti anche provvisori
della Corte di Strasburgo .sono tenute tutte le istituzioni della Repubblica”). La Corte adotta diverse
tipologie di sentenze, la più frequente è quella “ordinaria”, in cui la Corte accerta la violazione delle norme
della CEDU e dei protocolli addizionali, corrispondendo se necessario una "equa soddisfazione” all’individuo
leso ex art. 41 della CEDU. Nella giurisprudenza applicativa di tale norma, il diritto all’equa soddisfazione è
stato trasformato in diritto a ricevere il risarcimento del danno morale e materiale sofferto dal ricorrente. A
partire dalla sentenza del 3 Luglio del 2000, resa nel caso Scozzari e Giunta c. Italia, la Corte ha ampliato i
tipi di sentenze che possono essere da essa adottati, attribuendosi il diritto di indicare allo Stato parte il cui
sistema giuridico non è in linea con la CEDU (o i suoi protocolli addizionali) misure generali e/o individuali
(che possono anche coesistere in un caso). Le misure generali possono essere di varia natura e quindi
implicare il ricorso, da parte dello Stato, a misure o provvedimenti di carattere legislativo, amministrativo e
avere altresì ad oggetto una “inversione di rotta” con orientamenti della giurisprudenza nazionale
considerati incompatibili con il sistema della CEDU. Queste misure generali sono in linea di principio
giustificate dalla Corte in base all’esistenza di disfunzioni strutturali e di sistema riscontrate
nell’ordinamento nazionale dello Stato parte, le quali comportano violazioni ripetitive della medesima
norma pattizia. Le sentenze di questa natura vengono denominate “sentenze-pilota” in quanto indicano allo
Stato una serie di misure che devono essere applicate per risolvere i problemi strutturali riscontrati e hanno
effetto su tutti i ricorsi di contenuto analogo presentati alla Corte. La procedura necessaria per avviare
l’adozione di queste decisioni è oggi contenuta nell’articolo 61 del Regolamento di procedura della Corte. Le
misure individuali della Corte sono invece generalmente motivate da situazioni specifiche di difformità
rispetto a quanto previsto dalla CEDU e dai protocolli addizionali, le quali, secondo il giudizio della Corte,
possono essere superate attraverso il ricorso a soluzioni ad hoc (che non lasciano un ampio margine di
apprezzamento agli Stati in tema di attuazione di tali misure, a differenza di quelle generali). Fra queste vi è
la forma riparatoria in tema idi responsabilità internazionale dello Stato consistente nella restitutio in
integrum. Le misure individuali indicate dalla Corte possono ad esempio assumere la forma della revisione
del processo penale iniquamente condotto a livello nazionale, della riconsegna di un bene illecitamente
confiscato, del rilascio del detenuto illegittimamente condannato sul piano interno ecc. Fra le decisioni più
importanti vi sono le sentenze monito, nelle quali la Corte, pur escludendo la violazione di norme
convenzionali nel caso di specie, formula appunto un monito allo Stato parte, affermando che in futuro la
Corte potrebbe modificare la propria posizione sulla questione giuridica sottoposta al suo esame e quindi

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

ritenere le condotte statali non più conformi alla CEDU e ai protocolli addizionali. Le questioni giuridiche in
esame attengono ad applicazioni moderne e controverse di determinati diritti individuali su cui ancora non
si è formato un consenso europeo. Il monito della Corte non riguarda soltanto i casi da porre al confine tra
condotta legittima dello Stato parte e violazione della CEDU, ben potendo anche riguardare la maggiore o
minore gravità della violazione attribuita allo Stato. (Ad. esempio la Corte ha affermato che una condotta
che al momento della decisione configuri un trattamento inumano e degradante in futuro potrebbe essere
considerata un atto di tortura alla luce degli sviluppi normativi). Le sentenze monito sono state usate in
materia di tutela dei transessuali con riferimento al diritto della vita privata e familiare di cui all’articolo 8
CEDU, laddove la Corte ha prima ammonito il Regno Unito circa l’inadeguatezza della propria legislazione
che non consentiva le rettifiche ai registri dello stato civile per annotare i cambiamenti di sesso e di nome, e
successivamente condannato con la sentenza del giugno 2002 nel caso Christine Goodwin c. Regno Unito.
Nel Caso S.V c. Italia la Corte ha di recente affermato (2018) che il diritto dell’individuo di modificare i
registri sia invocabile da lui anche prima che egli venga sottoposto all’intervento chirurgico. La Corte ha reso
una sentenza monito anche in relazione al provvedimento legislativo adottato dalla Francia che vieta la
copertura del viso e quindi impedisce di indossare il velo islamico in pubblico. Con la sentenza della Grande
Camera del 1° Luglio 2014 nel caso S.A.S c. Francia, la Corte ha ritenuto la suddetta legislazione non
contraria all’articolo 9 della CEDU in materia di libertà religiosa dato l’ampio margine di apprezzamento degli
Stati in situazioni del genere e dell’assenza di un consenso europeo, tuttavia ha ammonito lo Stato circa la
possibilità della formazione di un consenso europeo che consideri inaccettabile legislazioni di questo tipo. Il
monito formulato dalla Corte può anche dissolversi in ragione del consolidamento Europeo proprio intorno
alla posizione assunta dallo Stato parte preso in esame, com’è successo con la progressiva convinzione di
legittimità di misure legislative che inibiscono di indossare il velo (oltre a S.A.S, anche Ebrahimian c. Francia
e Belcacemi e Oussar c. Belgio). Il caso Belga è arrivato tramite rinvio pregiudiziale di un giudice nazionale
anche di fronte alla Corte di giustizia dell’UE (Lussemburgo), che ha ribadito soluzione della Corte EDU
(ossia che il divieto era l’esito di un articolato processo legislativo che ha permesso di realizzare un
equilibrio fra i vari interessi generali e individuali configgenti). La supervisione circa il rispetto delle sentenze
della Corte EDU spetta al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che dopo aver intimato allo Stato di
conformarsi alla sentenza può rivolgersi nuovamente alla Corte nel caso in cui ritenga che lo Stato non abbia
eseguito, in tutto o in parte, quanto statuito dalla sentenza stessa. Ad esempio, il Comitato, dopo aver
intimato all’Azerbaigian di adempiere a quanto stabilito in una prima sentenza in materia di violazione degli
articoli 5 e 6 della CEDU, si è rivoto alla Corte per la mancata esecuzione delle sentenze di merito. Nel caso
in cui la Corte accerti l’inadempimento della sua precedente decisione, la conseguenza è che essa possa
nuovamente deferire il caso al Comitato “for consideration of the measures to be taken” con il solo effetto
che il Comitato potrà continuare ad occuparsi della questione e adottare misure di ulteriore condanna.

15. Il rango e gli effetti della CEDU nell’ordinamento italiano.

Riguardo il rango e gli effetti delle norme CEDU nel sistema italiano; il quadro è cambiato in maniera
radicale con le sentenze gemelle della Corte Costituzionale del 24 Ottobre 2007 n.348/349. Secondo queste
sentenze la portata effettiva delle norme del sistema della CEDU deve essere individuata alla luce anche
della giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Riguardo al rango delle norme pattizie, la Corte ha affermato
che la natura sub-costituzionale della CEDU, e quindi di livello inferiore all’intera Costituzione Italiana e non
solo ai suoi principi fondamentali, in quanto le regole pattizie sono da considerare norme interposte fra
Costituzione e legge ordinaria. Il giudice di merito, qualora ritenga che non sia possibile risolvere per via
ermeneutica l’antinomia giuridica fra norma di legislazione ordinaria e norma del sistema della CEDU, deve
sollevare incidente di costituzionalità e rinviare gli atti alla Corte. Con sentenza del 13 Giugno 2018 n.120, il
carattere di norma interposta è stato attribuito anche alle norme della Carta sociale europea, considerate

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

come il naturale completamento sul piano sociale della CEDU. In egual modo la Corte ha valorizzato la
Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 1996, e la Convenzione delle Nazioni Unite sui
diritti del fanciullo del 1989. Con la sentenza del 25 marzo 2015, n.49 la Consulta, dopo aver richiamato
l’obbligatorietà delle sentenze della Corte Europea in materia di applicazione della CEDU ha aggiunto che
“sarebbe errato ritenere che la CEDU abbia reso gli operatori giuridici nazionali passivi ricettori di un
comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, quali che siano le
condizioni che lo hanno determinato. La Corte ha ulteriormente chiarito il suo pensiero affermando che le
sentenze della Corte europea (EDU) hanno effetti diversi nell’ordinamento italiano a seconda della loro
natura e del loro contenuto. Se il giudice comune si occupa di una controversia in relazione alla quale la
Corte EDU si è espressamente pronunciata, esso non potrà negare di dar corso alla decisione promanante
dalla Corte di Strasburgo. Con riferimento invece alle altre sentenze emesse dalla Corte EDU, solo nel caso
in cui il giudice si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota” egli sarà tenuto a
conformarsi alle statuizioni della Corte di Strasburgo. Per ricavare l’assenza di “diritto consolidato” nella
giurisprudenza della Corte EDU, la Consulta richiama “la creatività del principio affermato rispetto al solco
tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo o contrasto con altre pronunce
della Corte; la ricorrenza di opinioni dissenzienti; la circostanza che se quanto deciso promana da una
sezione semplice o l’assenza di avallo della Grande Camera; il dubbio che il giudice europeo non sia stato
posto in condizione di apprezzare i tratti dell’ordinamento giuridico nazionale nel caso di specie,
estendendovi solamente criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti (fattori alternativi e
non cumulativi). Pertanto, laddove tutti o alcuni di questi indizi siano riscontrabili nel caso di specie, “non vi
è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte
EDU per decidere una peculiare controversia”. Il recepimento della CEDU nell’ambito del diritto dell’UE si
sarebbe rafforzato, secondo parte della giurisprudenza, alla luce dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona
nel 2009. Con sentenza del 4 ottobre 2018 n.24198 la Cassazione ha censurato la condotta delle autorità
italiane in materia di mancata esecuzione di una sentenza ed ha affermato l’incorporazione della CEDU nel
sistema giuridico dell’Unione Europea. Gli orientamenti giurisprudenziali che affermano la disapplicazione
delle norme interne in quanto contrastanti con le norme della CEDU sono in contrasto con l’ultimo
approccio della Corte costituzionale che esclude il ricorso a tale effetto disapplicato obbligandolo invece a
sollevare questioni di costituzionalità delle norme interne alla luce del parametro normativo interposto
della CEDU.

16. Gli effetti delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (EDU) nel sistema giuridico italiano.

In materia di effetto delle sentenze rese da tribunali internazionali, bisogna fare riferimento alle sentenze
adottate dalla Corte internazionale di giustizia, in relazione alle quali si applica l’articolo 94 della Carta
dell’ONU secondo cui ogni membro si impegna a conformarsi alle suddette decisioni e in caso di mancata
esecuzione, l’altra parte della controversia può ricorrere al Consiglio di Sicurezza che può adottare
raccomandazioni o decisioni al fine di garantirne l’esecuzione (ad.es. caso Avena). La rilevanza delle
sentenze delle Corte EDU è confermata dalla legge del 9 gennaio 2006 n.12, che instaura un meccanismo ad
hoc di monitoraggio della giurisprudenza della Corte. Spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri
promuovere gli “adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte EDU
emanate nei confronti dello Stato italiano”, informando tempestivamente di queste decisioni il Parlamento
al quale è altresì tenuto a presentare una relazione annuale sullo stato di esecuzione delle suddette
pronunce. A seguito della sentenza della Corte EDU dell’8 gennaio 2013 nel caso Torreggiani e altri c. Italia,
nella quale si è accertata la violazione strutturale dell’articolo 3 della CEDU (trattamento inumano o
degradante la situazione nelle carceri), sono state emanate le disposizioni contenute nella legge 11 agosto
2014 n.117 che consentono al detenuto che ritenga di trovarsi in una situazione non conforme all’articolo 3

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

di rivolgersi all giudice dell’esecuzione per richiedere la riduzione della pena inflitta o il risarcimento dei
danni subiti. Nel caso Cestaro (G8 di Genova), la Corte EDU ha qualificato come strutturali e sistemiche
violazioni specifiche e isolate nel tempo (e non solo violazioni reiterate nel corso di un notevole periodo di
tempo), sul presupposto sia che la norma violata protegga valori e principi essenziali del sistema della CEDU
ma anche data l’inerzia legislativa dello Stato contraente. Questa vicenda ha fatto si che il reato di tortura
fosse previsto nell’ordinamento italiano. Con riferimento alle misure individuali indicate all’Italia dalla Corte
EDU va affrontato il problema della riapertura dei processi penali condotti in difformità al principio dell’equo
processo ex art. 6 CEDU, al principio di legalità o di irretroattività della norma penale ex art. 7 CEDU. Il
nostro legislatore non ha finora previsto un meccanismo di revisione dei processi penali a seguito di
sentenza della Corte EDU. Nel caso Somogyi, la Cassazione ha affermato la necessità per il giudice italiano di
conformarsi alle sentenze della Corte EDU anche se ciò comporta mettere in discussione attraverso il
riesame o la riapertura dei procedimenti penali, l’intangibilità del giudicato. Nel caso Contrada, la
Cassazione ha rilevato che il principio di irretroattività delle norme penali è principio fondante del nostro
sistema penale, assistito dalla garanzia costituzionale e ha utilizzato il rimedio dell’incidente di esecuzione,
dichiarando che la pronuncia interna di condanna non è suscettibile di ulteriore esecuzione e non è
produttiva di ulteriori effetti penali. Nel caso Drassich, previo accertamento della violazione del diritto a un
equo processo da parte della Corte EDU, la Cassazione ha optato per una sorta di revisione parziale del
processo penale, ammettendo il ricorrere a esperire il ricorso straordinario per Cassazione. Nel caso
Scoppola, la Cassazione ha deciso di convertire la pena da ergastolo a trent’anni come richiesto dalla Corte
EDU. La Corte Costituzionale ha affermato che nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza
convenzionale non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria
della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali sono
incoraggiati a provvedere in tal senso.

17. Cenni di altri organi di controllo sul rispetto di alcuni trattati sui diritti umani: la Corte interamericana
dei diritti dell’uomo e la Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli.

I sistemi regionali: La Convenzione Americana dei diritti umani del 1969 prevede la possibilità di presentare
alla Commissione interamericana, organo dell’Organizzazione degli Stati americani (OSA), petizioni da parte
di individui, o ad opera di entità non governative (riconosciute da almeno uno stato parte) a seguito del
consueto esaurimento dei ricorsi interni, e a ricorsi interstatali fra SM dell'OSA. Per questi ultimi occorre
accertare il previo riconoscimento della competenza della Commissione da parte degli Stati coinvolti nei
procedimenti. Qualora la Commissione dovesse accertare la violazione della Convenzione ad opera di uno
Stato part, essa è tenuta a redigere unapporto non vincolante comprensivo di proposte e raccomandazioni
per lo Stato inadempiente. Entro tre mesi dalla trasmissione del rapporto, la Commissione oppure lo Stato
parte della controversia, possono adire la Corte ma solo nei confronti degli Stati che hanno accettato la Sua
competenza. La Corte svolge anche un ruolo di controllo sull’esecuzione delle sentenze. Essa, da un lato
monitora l’attuazione delle proprie sentenze sulla base sia di un dettagliato rapporto che lo Stato convenuto
è tenuto a presentarle che di un analogo rapporto ad opera delle vittime della violazione. D’altro lato essa
riferisce annualmente all’assemblea generale dell’OSA circa l’attuazione delle sue sentenze e formulando
raccomandazioni. La Corte Interamericana, ex art. 64 della Convenzione, può inoltre adottare pareri
consultivi (su richiesta degli Stati OSA) relativi all’interpretazione della Convenzione o di altri trattati sui
diritti umani negli Stati americani e può anche fornire pareri (sempre su richiesta) sulla compatibilità tra
legge nazionale e strumenti internazionali. Il sistema Africano inizia con l’adozione della Carta Africana dei
diritti dell’uomo e dei popoli nel 1981 dall’Unione Africana. In base ad essa è stata istituita la Commissione
africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, la quale, oltre a possedere una significativa funzione consultiva, è
titolare di un’ampia funzione contenziosa (controversie sull’applicazione e interpretazione della Carta, del

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

Protocollo del 1998 e di ogni altro strumento internazionale ratificato dalle parti). Questa notevole
competenza rationemateriae della Corte le ha permesso di accertare la violazione da parte di Stati membri
dell’UA di diritti umani che trovano fondamento nei Patti ONU del 1966. Le sentenze della Corte sono
vincolanti e vengono trasmesse alle parti della controversia e a tutti gli altri Stati membri dell’Unione
africana, alla Commissione africana e al Consiglio esecutivo dell’UA, che ne controllano la corretta
esecuzione.

CAP 4. NAZIONI UNITE E DIRITTI UMANI.

1. Il contributo generale dell’ONU allo sviluppo della tutela intz dei diritti umani.

La nascita e il funzionamento dell’ONU hanno costituito uno spartiacque fondamentale in tema di diritti
umani, dando vita alla formazione di numerose norme di diritto intz generale e pattizio e di avri sistemi di
controllo sul risoetto di alcune convenzioni di natura universale. Nella Carta dell’ONU, il rispetto dei diritti
umani e delle libertà fondamentali senza alcuna distinzione vengono letti funzionalmente a quello che è
l’obiettivo principale dell’ONU: il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La prassi
applicativa della Carta ha prodotto nel tempo dignità e rilevanza autonoma dei diritti umani tanto da
provocare lo smantellamento del principio del dominio riservato. Infatti, tale principio non è più invocabile
dagli SM dell’ONU con riferimento alle gravi violazioni dei diritti umani.

2. Gli organi di controllo sul rispetto della convenzioni ONU in tema di diritti umani.

Gli organi di controllo sul rispetto dei diritti umani protetti da convenzioni ONU sono numerosi e con
competenze diverse, sebbene privi di poteri vincolanti. Il sistema di controllo del Patto sui diritti civili e
politici del 1966 è svolto dal Comitato dei diritti umani, istituito dal Patto stesso e fondato sull’obbligo degli
Stati di sottoporre rapporti periodici circa lo stato complessivo di conformità agli obblighi del Patto nonché
sulle possibilità di presentare comunicazioni statali o individuali. Il Comitato non dispone di poteri di
inchiesta ed è privo di poteri vincolanti. Esso può soltanto costituire una procedura di follow-up sul rispetto
dei “reports” e dei “general comments” adottati in relazione a questa specifica competenza, i quali possono
essere trasmessi agli Stati parte (che possono a loro volta sottoporre observations on anycomments) e al
Consiglio economico e sociale dell’ONU. E’ anche contemplata l’ipotesi di una comunicazione interstatale
avente ad oggetto la violazione di una norma del Patto, a condizione che gli Stati oggetto del procedimento
abbiano accettato in qualsiasi momento la competenza del Comitato in materia. La procedura consiste in
una prima fase, che può definirsi a carattere diplomatico e che opera esclusivamente a livello bilaterale fra i
due Stati interessati. Nel caso in cui la questione non sia stata risolta in un modo che soddisfi entrambi gli
Stati, entrambi possono rivolgersi al Comitato. In questa seconda fase, esso offre i suoi “good offices” per
risolvere la questione. Qualora questo tentativo fallisca, il Comitato può decidere nel merito, in
contraddittorio fra le parti ed entro il termine di un anno dalla notifica della comunicazione. Il rapporto
conclusivo non è vincolante e viene comunicato agli Stati parti del procedimento, i quali, qualora ritengano
che la soluzione indicata dal Comitato non sia soddisfacente, possono richiedere al Comitato stesso di
istituire una procedura di conciliazione non obbligatoria e il cui avvio è infatti subordinato al “priorconsent
of the parties concerned”. Sulla base dell’entrata in vigore del primo Protocollo facoltativo e addizionale è
prevista poi la possibilità di presentare comunicazioni individuali aventi ad oggetto violazioni delle norme
del Patto e utilizzabile solo nei confronti degli Stati che abbiano ratificato il suddetto Protocollo. Le
condizioni di ricevibilità delle comunicazioni sono il previo esaurimento dei ricorsi interni e l’assenza di
controversie pendenti al momento del deposito della comunicazione. Non sono invece stabiliti limiti di
tempo per la presentazione della comunicazione. Le comunicazioni individuali, che possono essere oggetto
anche di misure cautelari, sono decise da “views” non vincolanti che vengono trasmesse allo Stato non

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

interessato e all’individuo che ha attivato la procedura, e nelle quali vengono effettuate raccomandazioni
aventi ad oggetto la modifica di leggi, il risarcimento del danno, ecc. Il sistema di monitoraggio del Patto sui
diritti economici, sociali e culturali è presieduto dal Comitato dei diritti economici, sociali e culturali, creato
dal Consiglio economico e sociale dell’ONU nel 1985. In base al Protocollo opzionale (approvato dall’AG
ONU) nel 2008 ed entrato in vigore nel 2013, si sono attribuite al Comitato nuove competenze in materia di
valutazione di comunicazioni provenienti da Stati, individui o gruppi di individui sottoposti alla giurisdizione
degli Stati parte e che ritengono di aver subito una violazione di uno dei diritti protetti dal Patto. La
competenza del Comitato a ricevere le comunicazioni individuali è automatica, invece per le comunicazioni
statali occorre che sia lo Stato “comunicante” che quello accusato della violazione del Patto abbiano
effettuato una specifica dichiarazione di accettazione della competenza del Comitato, e di voler ricevere e
prendere in considerazione queste comunicazioni. Riguardo alle comunicazioni di natura individuale, il
Comitato deve valutare la ragionevolezza delle misure implementate dagli Stati parte, tenendo in
considerazione che essi possano adottare una vasta gamma di misure per implementare i diritti contenuti
nella Convenzione. L’esito finale delle comunicazioni individuali è rappresentato dall’adozione di views non
vincolanti con annesse recommendationscommunicate alle parti del procedimento, che lo Stato è tenuto a
prendere in considerazione e fornire entro sei mesi dalla loro ricezione una risposta scritta contenente le
misure adottate a seguito delle indicazioni poste in essere dal Comitato. La procedura per le comunicazioni
di carattere interstatale assume dapprima carattere diplomatico e solo successivamente carattere
contenzioso. Altro sistema di controllo è il Comitato istituito dalla Convenzione sull’eliminazione di ogni
forma di discriminazione nei confronti delle donne del 1979, al quale si possono presentare comunicazioni
individuali.

3. Il ruolo dell’Assemblea Generale, del Consiglio economico e sociale e dello Human RightsCouncil.

Sulla base della Carta dell’ONU, le competenze principali in materia di diritti umani spettano all’Assemblea
generale e al Consiglio economico e sociale. Il ruolo del consiglio si è affievolito, da un lato dato a causa
dell’intervento massiccio dell’AG (di cui il Consiglio è organo sussidiario) e dall’altro lato in quanto le
competenze originariamente previste per esso sono state acquisite da organi successivamente istituiti quale
il Human RightsCouncil. Il Consiglio aveva istituito una procedura di ricorso individuale detta procedura
1503 del 1970, che fondava la competenza di alcuni organi sussidiari dell’ONU (e fra questi l’ex commissione
dei diritti umani) i quali potevano valutare le istanze presentate che concernevano ipotesi di violazioni gravi
di diritti umani, ed eventualmente rivolgersi al Consiglio economico e sociale per l’adozione di
raccomandazioni. Questa procedura aveva la finalità di raccogliere informazioni e, al più, di sollecitare lo
Stato a conformarsi alle norme sui diritti umani. Con risoluzione dell’AG del 15 marzo 2006 n.60/251, è stato
infine istituito lo Human RightsCouncil, che ha sia assorbito e migliorato alcune procedure dapprima
affidate ad altri organi (come la procedura 1503), che istituito nuove e più incisive procedure di controllo sul
rispetto dei diritti umani negli SM dell’ONU. In particolare, la compliance procedure è stata istituita dallo
Human RightsCouncil con risoluzione del 18 giugno 2007 n.5/1 per sostituire ed ampliare la procedura
1503. Essa consente a individui o gruppi di questi e ONG di presentare un reclamo a fronte delle gravi e
sistematiche violazioni dei diritti umani da parte di uno Stato membro dell’ONU. Non sono ammessi reclami
provenienti da singoli individui e concernenti specifiche e isolate violazioni dei diritti umani. Lo Human
RightsCouncil ha creato due gruppi di lavoro con competenze diverse: il Working group on communications
(funzione di filtro) e il Working group on situations (procede alla valutazione di merito e presenta un
rapporto al HRC). Un’ulteriore competenza attribuita al HRC è costituita dall’espletamento delle “procedure
speciali”, che possono essere attivate su istanza di uno Stato membro dell’ONU o di una ONG e possono
riguardare la violazione dei diritti umani commesse in uno specifico Stato oppure avere una natura tematica
(vengono approfondite le cause/rimedi delle violazioni a livello mondiale). Infine, il HRC svolge un Universal

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

Periodic Review ogni 4-5 anni nei confronti di tutti gli SM dell’ONU. Questo consiste nell’esame periodico
della conformità del singolo stato al regime normativo in materia di diritti umani.

4. Consiglio di Sicurezza e diritti umani. Le sanzioni verso gli Stati membri.

Il Consiglio di sicurezza, nonostante non sia dotato in base alla Carta dell’ONU di una competenza normativa
specifica in tema di diritti umani, ha sviluppato una prassi estensiva che parte dal presupposto secondo cui
la violazione grave e sistematica dei diritti umani possa costituire una minaccia alla pace e alla sicurezza
internazionale. Una delle misure adottate dal Consiglio sono le sanzioni economiche in forma di embargo
decise nei confronti di Stati il cui governo praticava razzismo, come avvenuto nel caso della Rodesia del Sud
o il Sud Africa. Il Consiglio ha poi adottato analoghe sanzioni nei confronti dell’Iraq e della Libia. Riguardo a
quest’ultima, il Consiglio ha condannato le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario
commesse dalle forze militari governative durante la guerra civile del 2011, richiedendone l’immediata
cessazione e decidendo un embargo sulle armi nonché misure sanzionatoria di natura individuale nei
confronti di esponenti del regime governativo. Il Consiglio ha inoltre deferito la situazione creatasi in Libia
alla Corte penale internazionale. Il Consiglio, in ragione della persistenza delle gravi violazioni, ha inoltre
autorizzato gli SM dell’ONU di prendere tutte le misure necessarie al fine di proteggere la popolazione civile
e le aree popolate da civili in Libia. Il Consiglio ha così confermato la possibilità di autorizzare l’uso della
forza sia per reagire alle gravi violazioni dei diritti umani commesse da diversi soggetti durante un conflitto
armato interno, come già avvenuto in Rwanda, che nei confronti di governi responsabili per le suddette
violazioni.

5. Consiglio di Sicurezza e sanzioni individuali. Il controllo sulla legittimità della c.d. smart sanctions alla
luce del regime sui diritti umani.

Un altro mezzo usato dal Consiglio per reagire alle gravi violazioni dei diritti umani sono le sanzioni
individuali irrogate nei confronti di persone fisiche o giuridiche (non previsto in Carta ONU, che prevede solo
sanzioni verso Stati). Va premesso che questa prassi del Consiglio, pur perseguendo un obiettivo del tutto
legittimi, pone, da un lato, questioni di legittimità rispetto alla Carta dell’ONU, la quale non prevede la
possibilità di adottare sanzioni verso privati, ma soltanto nei confronti di Stati. Dall’altro lato essa può
risultare in contrasto con l’esigenza di tutela dei diritti fondamentali dei soggetti colpiti dalle misure
sanzionatorie. Bisogna infatti osservare che l’adozione di sanzioni individuali avviene a seguito di un
procedimento sommario che non garantisce né il diritto di accesso dell’individuo al Consiglio, o ai suoi
organi sussidiari, né la protezione dei diritti di difesa. Infatti, il procedimento di inserimento e cancellazione
delle liste di persone fisiche e giuridiche oggetto di sanzioni individuali (c.d. listing e delisting) per un verso
ha carattere unicamente intergovernativo, per l’altro mantiene un carattere poco trasparente quanto alle
regole procedurali e sostanziali applicate. Caso Nada: relativo all’attuazione da parte della Svizzera delle
misure sanzionatorie di carattere individuale adottate dal Consiglio di sicurezza e consistenti nel
“congelamento” delle risorse finanziarie di un individuo sospettato di atti di terrorismo. Il tribunale federale
svizzero ha respinto il ricorso di Nada invocando l’articolo 103 della Carta dell’ONU, che sancisce la
prevalenza degli obblighi stabiliti dalla Carta e delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. La Corte EDU, con
sentenza del 2012, ha invece condannato la Svizzera per violazione degli articoli 8 e 13 della CEDU (vita
privata + diritto a un ricorso effettivo). Caso Al-Dulimi e Montana Management c. Svizzera: con la sentenza
della Grande Camera del 2016, la Corte EDU ha confermato la sua posizione, pur segnalando (a differenza
del caso Nada) che la risoluzione del Consiglio rilevante nel caso in questione lasciasse un più limitato
margine di discrezionalità agli SM.

6. Consiglio di Sicurezza e Corte penale intz.

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

Il Consiglio di Sicurezza e la Corte penale internazionale condividono l’obiettivo di perseguire i responsabili


di crimini internazionali. Le norme dello Statuto della Corte, che vengono in rilievo in tema di rapporti fra
questi due organi contemplano le due ipotesi di referral e deferral di una situazione nella quale è
prospettabile la commissione di crimini internazionali. Da specificare la costante presenza di casi assai
controversi, è possibile distinguere ilDeferral, in base al quale il Consiglio può bloccare temporaneamente le
indagini condotte dalla Corte; mentre colReferral, ai sensi dell’articolo 13 della Carta della Corte, essa può
esercitare la propria giurisdizione anche nell’ipotesi in cui il Consiglio di Sicurezza, nell'ambito delle azioni
prevedute dal capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, segnali al Procuratore una situazione nella quale
uno o più di tali crimini appaiono essere stati commessi (applicato in Sudan e Libia). La situazione in Libia è
stata devoluta dal Consiglio di Sicurezza all’esame della Corte penale con risoluzione 1970/2011, tuttora
pendente. La situazione in Sudan, che è stata sottoposta dal Consiglio alla Corte con la risoluzione del
1593/2015, presenta numerosi aspetti problematici, creando un significativo terreno di scontro tra la Corte
e i diversi paesi africani. La giurisprudenza della Corte ha infatti oscillato fra decisioni nelle quali si è invocata
l’eccezione, sulla base del diritto intz generale, alla regola dell’immunità in caso si commissione di crimini
intzda parte degli individui responsabili, dando luogo ad una mancanza di coerenza effettiva. Con decisione
della Pre-trial Chamber del 6 luglio 2017 la Corte ha stabilito che il referral operato dal Consiglio di sicurezza
abbia messo il Sudan, paese non parte dello statuto della Corte penale, in una posizione analoga a quella
propria degli stati parti dello statuto (per cui vige irrilevanza delle immunità personali o funzionali dei
responsabili dei crimini ex art.27). È incontestabile che la Corte abbia utilizzano tutti gli strumenti a
disposizione allo scopo di perseguire i responsabili dei crimini intz commessi in Sudan (riconducibili al capo
di stato in carica, Al-Bashir). Un analogo a aperto contrasto sembra essersi creato fra la Corte penale e
l’attuale amministrazione americana in relazione alla possibilità che la Corte avvii un’indagine sui crimini intz
commessi in Afganistan, paese parte dello statuto della Corte, anche ad opera di militare di Paesi non parti
dello Statuto, come gli Stati Uniti.

CAP 5. I PRINCIPALI DIRITTI UMANI PROTETTI.

1. Classificazione dei diritti umani.

Vi sono, a seconda del periodo di formazione, diritti di prima, seconda, terza, e quarta generazione: prima
(diritti civili e politici); seconda(diritto di proprietà, diritti economici sociali e culturali); terza (diritto di
autodeterminazione dei popoli, diritto allo sviluppo, diritto all’ambiente, diritto individuale alla pace);
quarta (campo biomedico e biotecnologie) generazione. I diritti possono anche essere classificati per il
diverso livello di tutela previsto a livello internazionale, esistendo diritti più importanti e maggiormente
tutelati di altri, definiti in dottrina core rights. La violazione dei core rights può implicare sia una
responsabilità aggravata da parte dello Stato (qualora si tratti di una violazione grave di norme cogenti) sia
la responsabilità penale dell’individuo che ha commesso il crimine internazionale.

2. Diritto alla vita: contenuto globale e obblighi statali.

Il diritto umano per eccellenza è il diritto alla protezione della vita, che tutela non soltanto l’integrità fisica
ma anche quella psichica di ogni essere umano. Esso è tutelato dall’articolo 3 della Dichiarazione Universale,
l’articolo 6 del Patto sui diritti civili e politici e l’articolo 2 della CEDU. Non è un diritto assoluto in quanto le
norme che lo prevedono possono essere derogate per ragioni e in situazioni espressamente previste dal
diritto internazionale. E’ possibile privare della vita un individuo solo per atto legittimo di guerra, di polizia,
o in caso di legittima difesa e a condizione che le misure letali adottato dallo Stato o dai privati siano
conformi ai principi di stretta necessità e proporzionalità, costituendo in via definitiva l’estrema ratio al fine
di proteggere la vita dell’individuo aggredito o di altri soggetti a fronte di una minaccia reale nei loro

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

confronti. La finalità del diritto è pertanto quella di prevenire atti arbitrari di privazione della vita da parte
delle autorità nazionali o di privati. La violazione del diritto alla vita da parte dello Stato può configurarsi
anche nel caso in cui si arrechi un pregiudizio grave alla vita e all’integrità fisica della persona senza che ciò
provochi la morte dell’individuo. La corte EDU nella sentenza McCann e altri c. Regno Unito del 1995 ha
affermato che la tutela del diritto alla vita va assicurata non soltanto durante l’espletamento dell’azione
lesiva, ma anche nella fase di intelligence e preparazione dell’azione. Lo Stato che intende ricorrere a misure
letali nei confronti di un individuo deve non soltanto valutare in modo rigoroso se l’uso della forza da parte
delle autorità sia proporzionale allo scopo di proteggere le persone dalla violenza illegittima ma anche
verificare se l’operazione di contrasto fosse organizzata e controllata dalle autorità in un modo che
minimizzasse il più possibile l’uso della forza letale. Secondo la Corte EDU, l’osservanza effettiva del diritto
alla vita implica il rispetto, da parte dello Stato, di una serie di obblighi negativi di astensione dal
compromettere la vita e l’incolumità delle persone e di obblighi positivi di prevenzione in relazione a
possibili lesioni provenienti da organi statali o da privati, predisponendo misure di protezione rafforzata a
tutela di individui particolarmente vulnerabili od oggetto di specifiche minacce tramite l’esecuzione della
due diligence (General Comment n.36 del 2018). Questi obblighi sussistono anche quando lo Stato abbia
delegato determinate funzioni di sicurezza nazionale a enti privati, che possono sempre essere considerati
organi di fatto dello Stato se agiscono sulla base di istruzioni, direzione o controllo. L’obbligo positivo di
prevenzione di lesioni, ad opera di organi statali o di privati, opera a fortiori laddove la vittima si trovi sotto
l’autorità e il controllo di organi statali, ad esempio nel caso di detenzione o fermo. Infine, lo Stato deve
rispettare obblighi positivi che impongono lo svolgimento di indagini effettive e rapide (anche sul piano
giudiziario) per determinare le ragioni della privazione del diritto alla vita e individuare e punire gli eventuali
responsabili. Questi obblighi positivi implicano la necessità di predisporre misure operative a salvaguardia
del diritto alla vita e misure di carattere generale tali da istituire un quadro normativo chiaro e completo di
protezione del diritto. Sia la previsione dei reati che la determinazione delle pene devono corrispondere alla
gravità delle condotte lesive che volano il diritto alla vita. Il diritto alla vita va salvaguardato sia in tempo di
pace che in tempo di guerra. Dal diritto alla vita e il collegato diritto alla tutela della dignità umana discende
il divieto di commercio e di traffico degli organi e tessuti umani.

Riguardo l’extraterritorialità di questo diritto, è vietato espellere stranieri che rischino nel loro Paese di
destinazione finale di subire un pregiudizio al diritto alla vita. La valutazione comprende un esame oggettivo
della situazione generale riscontrabile dello Stato di destinazione e del rischio localizzato, inteso come
concernente le specifiche parti di territorio dove l’individuo è destinato, e un esame soggettivo consistente
nel rischio particolare esistente per l’individuo in questione delle sue convinzioni personali, politiche,
religiose o sessuali. Il principio in questione è stato estensivamente applicato cosi da comprendere l’ipotesi
in cui, nel paese di destinazione, l’individuo espulso non diceva cure necessarie per guarire le sue malattie
oppure tali cure siano significativamente inferiori (come nel caso Paoposhvili c. Belgio).

Riguardo la tutela del nascituro invece la giurisprudenza internazionale tende a non prendere una posizione
specifica sul problema in questione, mantenendo una posizione di neutralità e lasciando agli Stati la
possibilità di includere o meno la protezione del nascituro nel quadro del diritto alla vita (la Convenzione
Americana tutela il diritto alla vita sin dal suo concepimento ad esempio). Con sentenza del 27 marzo 2011
relativa al caso Giuliani e Gaggio c. Italia, la Grande Camera della Corte EDU ha escluso la responsabilità
dello Stato per le condotte di alcuni organi di polizia assunte a margine della riunione del G8 di Genova
siccome l’uso della forza letale è stato considerato necessario e proporzionato rispetto al pericolo in cui si
trovava l’autore della misura letale. Caso Panaitescu c. Romania: Nel 2012 la Corte EDU ha accertato la
responsabilità dello Stato in ragione del ritardo ingiustificato nella somministrazione di cure e farmaci
gratuiti per curare un paziente di cancro tramite ostacoli burocratici imposti dalle autorità amministrative.

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

In quanto a pena di morte, vi è la tendenza universale di vietarla almeno per alcune categorie di individui
particolarmente vulnerabili: i minorenni, le donne incinte e i disabili mentali. Inoltre, essa dovrebbe essere
irrogata soltanto per i reati piu gravi (art. 6 Patto diritti civili e politici). Il General Comment n.36 del 2018
prevede il divieto per lo Stato che ha abolito la pena di morte di espellere, estradare o consegnare un
individuo che rischi, nel paese di destinazione finale, di essere sottoposto alla pena capitale (a meno che lo
stato assicuri la non esecuzione della pena di morte). Lo stesso General Comment considera irrevocabile la
scelta di vincolarsi al secondo protocollo opzionale sull’abolizione della pena di morte (adottato con
risoluzione dell’AG e addizionale al Patto sui diritti civili e politici). E’ invece pacifico che vi sia il divieto
assoluto di pena di morte nell’ambito UE, come stabilito dall’articolo 2 della Carta dei diritti fondamentali e
dai Protocolli 6 e 13 alla CEDU. Nel 2010 la Corte EDU ha affermato che l’articolo 2 della CEDU sia stato
modificato, alla luce della prassi applicativa della CEDU da parte degli Stati contraenti, nel senso di vietare la
pena di morte sotto ogni circostanza. Al divieto consegue inoltre l’illiceità di provvedimenti di espulsione o
allentamento di individui che rischino di essere sottoposti alla pena di morte in Paesi extraEU.

3. Diritto alla vita, procreazione medicalmente assistita, maternità surrogata e questioni di fine vita.

Il diritto alla vita ha dato origine a nuovi diritti di quarta generazione, sorti per effetto dell’evoluzione
scientifica nel campo della biomedicina. La Carta dei diritti fondamentali dell’UE e il Protocollo del 1998
allegato alla Convenzione di Oviedo prevedono il divieto di pratiche eugenetiche (con scopo di selezionare
la specie umana), il divieto di clonazione di esseri umani e il divieto di interventi sul genoma umano non
motivati da ragioni diagnostiche o terapeutiche.

In tema di procreazione medicalmente assistita si parla di tecniche omologhe od eterologhe a seconda delle
procedure di procreazione interne od esterne alla coppia. Inizialmente in Italia era consentita solo la
fecondazione omologa da parte delle coppie sposta o conviventi e i casi di diagnosi preimpianto erano
limitate secondo la legge 40/2004. Con sentenza del 28 agosto 2012 relativa al caso Costa e Pavan c. Italia,
la Corte ha in particolare condannato il nostro Paese per violazione del diritto alla vita privata e familiare,
con particolare riferimento ai limiti posti dalla legge italiana e dalle conseguenti linee guida del Ministero
della salute, per effettuare una diagnosi preimpianto funzionale all’accesso alle tecniche di procreazione
assistita. La condanna della Corte è stata principalmente motivata dall’incoerenza riscontrabile
nell’ordinamento italiano che, da un lato, impedisce il ricorso alla diagnosi preimpianto per alcune gravi
malattie genetiche trasmissibili al feto, mentre dall’altro consente l’aborto terapeutico per quelle medesime
malattie. La Consulta, richiamando la Corte EDU nel caso Costa e Pavan, ha censurato l’irragionevolezza del
divieto contenuto nella legge 40/2004 affermando che il sistema normativo non consente di far acquisire
prima alla donna un’informazione che le permetterebbe di evitare di assumere “dopo” una decisone ben
più pregiudizievole per la sua salute. La Corte EDU ha adottato decisioni contraddittorie in materia: con
sentenza relativa al caso S.H e altri c. Austria ha considerato contraria al principio di non discriminazione e al
diritto alla vita privata e familiare la legislazione austriaca che consentiva la fecondazione omologa e vietava
quella eterologa, affermando che gli stati parti non potessero distinguere tra le due e creare discriminazioni
ingiustificate nei confronti delle coppie sterili; tuttavia in sede di riesame la Grande Camera ha ribaltato le
conclusioni precedenti affermando che la scelta di uno Stato parte della CEDU di proibire alcune tipologie di
procreazione mediamente assistita rientra nel margine di apprezzamento di tale Stato e non è quindi
contraria al diritto al rispetto della vita privata e familiare.

Anche in tema di maternità surrogata gli stati hanno adottato orientamenti normativi e seguito prassi assai
divergenti. L’Italia è fra quei paesi che hanno vietato in termini assoluti la maternità surrogata in base alla
legge 40/2004, quindi sia nel caso in cui vi sia un legame biologico fra il nascituro e uno dei genitori, sia che

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

il legame biologico sia assente. Nella sentenza del 24 gennaio 2017 relativa al caso Paradiso e Campanelli c.
Italia, la Grande Camera della Corte ha considerato compatibile con la CEDU il divieto di maternità surrogata
previsto dalla legge 40/2004. Più specificatamente, la Corte ha escluso la sussistenza stessa del diritto alla
vita familiare ex art.8 della CEDU, valorizzando al riguardo l’assenza di un legame biologico tra il figlio e i
genitori nonché il breve periodo di permanenza del bimbo nella famiglia in questione (sei mesi).

Donazione di embrioni umani e ricerca scientifica: La Grande Camera della Corte di Strasburgo, nella
sentenza del 27 agosto 2015, nel caso Parrillo c. Italia, si è in particolare occupata della legittimità del
divieto di donazione di embrioni derivanti da fecondazione in vitro a fini di ricerca scientifica, divieto
contenuto nell’articolo 13 della citata legge 40/2004. La Corte, che ha analizzato la vicenda in esame sotto il
profilospecifico del diritto alla vita privata del ricorrente, ha escluso la contrarietà di tale divieto rispetto
all’articolo 8. Sebbene il divieto di donazione degli embrioni costituisca un’ingerenza nella vita privata
dell’individuo, essa può essere considerata come necessaria in una società democratica in quanto
espressione di un adeguato bilanciamento tra gli interessi generali e individuali e non eccede il margine di
apprezzamento riconosciuto al riguardo agli Stati parti della CEDU. La Corte ha inoltre evidenziato l’assenza
di un consenso europeo fra gli Stati e la significativa discrezionalità concessa dagli strumenti internazionali
esistenti quali la Convenzione di Oviedo del 1997.

In materia di questioni relative all'interruzione dell’idratazione e alimentazione artificiali, particolare


interesse ha suscitato la vicenda Englaro risolta dalla Cassazione nel 2007. La Cassazione ha fondato le
proprie conclusioni sugli articoli 2,13,32 della Costituzione e sul principio del consenso libero e informato di
cui alla Convenzione di Oviedo (non ancora vigente in Italia). Secondo la Corte, il principio del consenso
libero e informato implica la libertà di rifiutare una terapia medica e tale scelta individuale non equivale a
una forma di eutanasia configurandosi piuttosto come volontà “che la malattia segua il suo corso naturale”.
La volontà di interrompere le cure deve essere “autentica e genuina” e può essere ricavata da atti espressi
ma anche desunta in modo implicito, ad esempio in base allo stile di vita e alla personalità del paziente
prima di contrarre la malattia, i quali possono essere ritenuti incompatibili con la persistenza di uno stato
vegetativo. Laddove l’individuo non sia in grado di manifestare in modo espresso e inequivocabile la sua
volontà, la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza deve essere finalizzata a dare
sostanza e coerenza all’identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in
stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. L’interruzione è ammessa soltanto nel caso in cui
lo stato vegetativo della persona sia irreversibile, da valutare secondo standard sanitari riconosciuti a livelli
internazionale. La disciplina normativa sul cd. testamento biologico è stata successivamente approvata dal
Parlamento con legge del 14 dicembre 2017 n.219, nella quale si accoglie il principio del consenso
informativo dell’avente diritto o dei suoi rappresentanti legali, che si estende alla decisione di rifiutare una
terapia medica, compresa l’idratazione e alimentazione artificiali. La sentenza relativa al caso Englaro
costituisce un elemento di sviluppo se si tiene in considerazione che nel precedente caso Welby, il Tribunale
di Roma, in sede civile aveva dichiarato inammissibile la richiesta di interruzione del trattamento sanitario
sebbene, in sede penale, avesse escluso l’accertamento della responsabilità penale del medico che aveva
aiutato Welby a mettere in pratica la sua decisione di interrompere la ventilazione artificiale che lo teneva in
vita, riconoscendo a favore del medico la sussistenza della scrutinante consistente nell’adempimento di un
dovere. Il più recente caso Antoniani (Dj Fabo) ha natura diversa in quanto Antoniani, a seguito del
provvedimento del Tribunale di Roma che non acconsentiva all’interruzione del trattamento che lo
manteneva in vita, ha deciso di recarsi in svizzera, accompagnato da un politico italiano, per avvalersi della
tecnica del suicidio assistito (espressamente regolamentata in Svizzera). Nel caso Lambert e altri c. Francia la
Corte ha escluso la violazione del diritto alla vita nell’ipotesi di autorizzazione da parte degli organi giudiziari

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

nazionali, all’interruzione del trattamento sanitario in esame, ricollegandolo al quadro del margine di
discrezionalità degli Stati parte.

La Corte EDU si è inoltre pronunciata sulla conformità delle pratiche di eutanasia ammesse in alcuni Stati
parte della CEDU rispetto al diritto alla vita, affermando che il diritto di ogni individuo di porre termine alla
propria esistenza costituisce un aspetto del diritto alla vita, a condizione che la scelta sia libera e
consapevole e in linea con quanto affermato dal Comitato ONU dei diritti umani nel General Comment n.36
del 30 Ottobre 2018. L’individuo ha anche il diritto di scegliere la modalità e il momento in cui mettere in
atto la sua decisione. La Corte EDU ha quindi assunto una posizione di neutralità alle decisioni di fine vita,
assicurandosi esclusivamente che le scelte operate a livello nazionale siano “ragionate” nel senso di essere
espressione di un’ampia ponderazione degli interessi configgenti e risultino proporzionate allo scopo da
conseguire.

4. I diritti collegati al diritto alla vita.

Dal diritto alla vita derivano il diritto alla tutela della dignità umana, il diritto alla salute, il diritto a
un’abitazione adeguata e stabile, il diritto all’acqua potabile, il diritto al cibo e il diritto ai servizi sanitari
essenziali. Il collegamento fra i suddetti diritti è ampiamente evidenziato nella prassi intz.

5. Divieto di genocidio.

Il divieto di genocidio è contenuto in una norma di diritto cogente e i relativi obblighi a carico degli Stati
hanno quindi natura erga omnes. Il carattere cogente della norma che vieta il genocidio è stato confermato
anche dalla Corte Internazionale di giustizia nella sentenza del 26 febbraio 2007 relativa al caso
dell’Applicazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, nella quale
peraltro la Corte richiama ulteriori precedenti giurisprudenziali in materia di determinazione della natura
cogente del divieto in esame. Gli obblighi statali vietano non solo le condotte finalizzate a commettere il
genocidio, ma anche i contegni omissivi dello Stato in relazione ad azione lesive assunte da privati laddove
lo Stato abbia la capacità di prevenire e reprimere il genocidio secondo il principio di due diligence. La
fattispecie di genocidio consiste nell’uccisione intenzionale, distruzione o stermini di un gruppo (o di una
parte sostanziale) sotto il profilo quantitativo e qualitativo, di un gruppo specificatamente individuato a
livello nazionale, etnico, razziale o religioso (Art. 2 Convenzione Genocidio e Art. 6 Statuto Corte Penale
Int.). La c.d. pulizia etnica, che consiste nella modifica della composizione etnica della popolazione
attraverso gravi violazioni dei diritti umani (ad.es. tramite deportazione o trasferimento forzato della
popolazione) può costituire una modalità di attuazione di genocidio a condizione che siano rispettati i
requisiti posti dall’Articolo 2. Il crimine del genocidio richiede un elemento oggettivo consistente negli atti di
istruzione di un gruppo di individui, e un elemento soggettivo costituito dalla specificaintenzione di
distruggere tale gruppo. Riguardo al negazionismo del genocidio, l’elemento fondamentale per valutare il
conflitto fra libertà di opinione e divieto di genocidio è rappresentato per un verso dalla buona fede
dell’autore delle opinioni espresse e dall’affidabilità delle notizie storiche rilevanti, e per l’altro dal contesto
sociale e politico nel quale le opinioni sono manifestate. Caso Perincek c. Svizzera: la Corte EDU ha ritenuto
prevalente il diritto alla libertà di opinione, considerando contraria all’articolo 10 della CEDU la condanna
penale irrogata a un politico turco che aveva negato il genocidio degli Armeni (1915) in Svizzera. In casi di
crimini storicamente accertati, come il genocidio degli ebrei, la Corte sembrerebbe considerare al di fuori
del perimetro di protezione della libertà di espressione e di opinione e posizioni negazioniste. La Corte,
rigettando il ricorso individuale nel caso M’Bala M’Bala c. Francia ha precisato che il ricorrente avesse
abusato del diritto di libertà di espressione allo scopo di perseguire finalità contrarie all’oggetto e scopo
della CEDU.

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

6. Divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti: delimitazione delle rispettive fattispecie.

Il divieto di tortura è previsto da una norma di juscogens che stabilisce obblighi erga omnes, come
affermato dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza del 2012 riguardanti le "Questioni
concernenti l’obbligo di perseguire o estradare”. Questo divieto è contenuto nella Dichiarazione Universale
all'articolo 5, all’articolo 3 della CEDU, all’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e da trattati
specificamentefinalizzati a proibire tali condotte quali la Convenzione ONU contro la tortura del 1984, e gli
analoghi strumenti del sistema interamericano e europeo. Il divieto di tortura implica una serie di obblighi
positivi, tra cui quello di carattere legislativo - consistente nella predisposizione di una disciplina normativa
interna avente ad oggetto il divieto di tortura, che deve inoltre assumere un contenuto adeguato alla gravità
delle condotte lesive in questione - nonché gli obblighi positivi in materia di prevenzione e repressione delle
violazioni di tale divieto, siano essere commesse da organi statali o da privati. L’applicazione concreta del
divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti richiede in primo luogo che venga individuata la
soglia minima di gravità per ricondurre determinate condotte lesive nell’ambito di applicazione delle norme
internazionali rilevanti in materia, e in secondo luogo che venga posta la distinzione fra le fattispecie
riconducibili alla “tortura” e quelle concernenti i trattamenti “Inumani” o “degradanti”. E’ affermata nella
prassi il divieto riguardo alla “tortura di Stato”, commessa quindi da organi (de jure o de facto) appartenenti
allo Stato. Il divieto di tortura comprende la sofferenzafisica o mentale e si distingue dal divieto di
trattamenti inumani o degradanti in relazione alla più ridotta soglia di gravità richiesta per l’accertamento di
queste ultime condotte lesive. Nel caso Irlanda c. Regno Unito (1978), la Corte EDU ha chiarito che tutte le
violazioni da ricondurre nel quadro di applicazione dell’articolo 3 della CEDU debbano possedere un livello
minimo di gravita, che non può essere individuato in termini assoluti bensì relativi a seconda delle
circostanze del caso specifico. Per quanto riguarda la distinzione fra trattamento inumano e degradante, la
Corte EDU ha stabilito, nel caso Jalloh c. Germania del 2006, che è da qualificare come inumano un
trattamento premeditato, applicato per ore e che causi lesioni corporali o sofferenze intense sotto il
profilofisico e mentale, mentre va considerato degradante un trattamento tale da creare nella vittima un
senso di paura, angoscia e inferiorità così da umiliarla e piegare la sua resistenza fisica o morale nonché
indurla ad agire contro la sua volontà o coscienza.

L’Italia ha subito diverse condanne per violazione dell’articolo 3 della CEDU riguardo le condizioni dei
detenuti. Nel caso Torreggiani e altri c. Italia del 2013, la Corte ha accertato, per un verso la sussistenza di
un trattamento inumano e degradante nei confronti dei ricorrenti, e per altro verso il carattere strutturale
del problema del sovraffollamento delle carceri italiane. Con sentenza Contrada c. Italia, la Corte ha
condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della CEDU a seguito della decisione delle autorità nazionali
di mantenere in carcere il detenuto nonostante il peggioramento del suo stato di salute. Lo stesso principio
è stato applicato nel caso Provenzano c. Italia del 2018, in cui la Corte ha statuito che il mantenimento di nei
confronti di un detenuto del “carcere duro” possa configurare un trattamento inumano e degradante in
ragione sia del grave stato di salute che del peggioramento fisico e psichico del detenuto.

È legittimo domandarsi se configuri un’ipotesi di trattamento inumano o degradante il divieto importo a


livello nazionale di accedere a tecniche che consentano all’individuo di interrompere la propria vita. Se nella
gran parte dei casi quest’ipotesi va esclusa, non può essere escluso che laddove si dimostri in modo
specifico e incontestabile che il mantenimento in vita di un individuo, il quale si trovi in uno stato vegetativo
permanente e irreversibile, procuri a tale individuo sofferenze di particolare intensità, il divieto di accedere
a tali pratiche possa configurare un trattamento inumano o degradante.

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

7. Quale esempio di diritto scaturente dall’interpretazione estensiva del divieto di tortura e di trattamenti
disumani e degradanti , sebbene non autonomo dallo stesso, vi è il diritto alla speranza, ossia il diritto di
avere una prospettiva di rilascio per preservare la dignità umana nei casi di condanne penali consistenti
nell’ergastolo a vita od ostativo

8. Tornando al divieto di espellere o estradare un individuo verso Paesi nei quali esso rischi di essere
sottoposto a tortura o trattamenti inumani odegradanti, esso è espressamente stabilito negli strumenti più
recenti di protezione internazionale (ad.es. Articolo 19 Carta dei diritti fondamentali UE). Secondo il recente
General Comment n.4, adottato nel 2018 dal Comitato ONU contro la tortura, il carattere assoluto e
inderogabile di questo divieto va riconosciuto anche al principio di non-refoulement in relazione a individui
che rischino, nel Paese di destinazione finale, di essere sottoposti a tortura o ai suddetti trattamenti lesivi. Il
Comitato ha inoltre sottolineato, da un lato, che il principio di non-refoulement si applica sia ai territori nei
quali lo Stato parte esercita la propria sovranità, sia ai territori sotto al suo controllo o autorità(come del
resto già affermato nella sentenza relativa al caso Al Sadoon e Mufdhi c. Regno Unitoconcernente il
trasferimento alle autorità irachene, da parte del contingente militare inglese di occupazione dell Iraq a
conclusione della terza guerra del Golfo del 2003, di alcuni cittadini iracheni accusati di reati per i quali, in
caso di condanna, poteva essere comminata la pena di morte, e dall’altro lato, che le assicurazioni
diplomatiche fornite dagli Stati di destinazione finale dell’individuo e concernenti l’esclusione del ricorso alla
tortura o ai trattamenti inumani o degradanti non devono costituire una scappatoia per indebolire la
portata del principio di non-refoulement. Nel caso Saadi c. Italia del 2018, concernente la vicenda di un
cittadino straniero che dopo aver scontato una condanna penale in Italia era destinato ad essere rimpatriato
nel suo Stato nazionale dove era stato condannato in contumacia da un tribunale militare a lunga pena
detentiva per coinvolgimento in attività terroristiche, la Corte ha ritenuto che il provvedimento di
espulsione fosse contrario all’articolo 3 CEDU in considerazione del rischio effettivo che l’individuo potesse
essere sottoposto a tortura o trattamenti inumani o degradanti nel paese di destinazione, ignorando quindi
la sicurezza e l’ordine pubblico dello Stato. La corte ha infine ritenuto che non fosse possibile un
bilanciamento tra i valori e gli interessi protetti dall’art. 3 e quelli relativi all’esigenza di tutelare la sicurezza
nazionale.

9.Il principio aut dedere aut judicare obbliga gli Stati parte a perseguire i responsabili di tali violazioni o a
consegnarli ad altri Stati che vantino titoli di giurisdizione più significativi ed è incluso in diversi trattati,
quale la Convenzione ONU contro la tortura del 1984 all’articolo 5. Tale principio è stato considerato
conforme alla CEDU nella decisione del 2009 OuldDah c. Francia, nella quale si è ritenuta legittima la
condanna per violazione del divieto di tortura inflitta dai tribunali francesi, in base a quel diritto, modificato
alla luce della citata conv. Del 1984, nei confronti di un cittadino straniero per crimini commessi nel proprio
paese nazionale e contro cittadini di questo Paese nonostante che il condannato avesse beneficiato nello
stato di appartenenza di un provvedimento di amnistia. Per la corte di Strasburgo l’assenza di legislazioni
nazionali o di orientamenti giurisprudenziali che accolgano il principio della giurisdizione universale per
controversie civili instaurate, davanti ai tribunali degli stati parte, allo scopo di richiedere il risarcimento del
danno sofferto per atti di tortura commessi all’estero da organi di paesi terzi, non confligge con il diritto di
accesso a un giudice es. art. 6 CEDU. Nel medesimo caso la corte ha escluso l’esistenza di una norma
consuetudinaria in materia di giurisdizione universale, pur richiedendo agli stati parti della CEDU di tenere
in considerazione gli sviluppi della prassi interna e internazionale al fine di rendere effettiva la tutela del
diritto individuale alla riparazione nei casi di gravi violazioni dei diritti umani, in particolare alla luce del
forum necessitatis, che consente l’affermazione della giurisdizione nazionale anche per violazioni dei diritti
umani commesse all’estero, a condizione che sussista un collegamento fra la controversia e il foro nazionale
e non vi siano giurisdizioni nazionali “concorrenti” e più connesse alla fattispecie concreta. La lacuna

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

normativa Italiana riguardo al crimine di tortura ha fatto si, non solo che i giudizi nazionali non potessero
condannare individui per condotte riconducibili a questa fattispecie, ma anche che l’Italia venisse più volte
condannata dalla Corte EDU per violazione dell’obbligo positivo di predisporre un’apposita figura di reato a
livello nazionale (caso Cestaro, caso Blair e altri entrambi casi relativi ai reiterati atti di tortura commessi a
margine del G8 di Genova). La lacuna normativa è stata colmata con la legge n.110 del 14 Luglio 2017, che
introduce nel codice penale l’articolo 613-bis, in base al quale costituisce reato la condotta dell’individuo
che “con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un
verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia,
potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, sia nel
caso in cui il fatto sia commesso mediante più condotte che nel caso che comporti un trattamento inumano
e degradante per la dignità della persona. Sono previste pene più severe laddove le condotte lesive siano
assunte da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in
violazione dei suoi doveri. La medesima legge ha inoltre modificato l’articolo 19 del decreto legislativo n.286
del 1998, stabilendo il divieto di respingimento, espulsione o estradizione di una persona verso uno Stato
qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. L’articolo 4 della
legge del 2017 poi esclude il riconoscimento a favore dello straniero sottoposto a procedimento penale o
condannato per reato di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale di qualsivoglia forma di
immunità.

10. In materia di repressione del crimine di tortura occorre verificare se sia da riconoscere l’immunità della
giurisdizione al paese estero e agli individui autori di condotte qualificabili come tortura. Per quanto
concerne l‘immunità della giurisdizione civile dello Stato straniero accusato di tortura, la giurisprudenza
italiana, che risale al caso Ferrini del 2004, è nota a negare l’immunità dello Stato straniero, il quale, pur
agendo nell’esercizio delle sue funzioni ufficiali (jure imperi) sia responsabile di crimini internazionali e della
violazione di norme di diritto cogente (nel caso Ferrini la deportazione da parte della Germania nazista di
cittadini italiani in campi di concentramento e di lavoro forzato). Il principio affermato dalla Cassazione in
questo caso è stato più volte ribadito in successive pronunce allo scopo di richiedere, in sede di giurisdizione
civile, il risarcimento del danno arrecato alle vittime o agli eredi di tali violazioni, sia in sede di giurisdizione
penale. Questa posizione comportava conseguenze sul piano del processo di esecuzione, ivi compreso il
profilo del riconoscimento, a fini esecutivi, di sentenze straniere di condanna della Germania per ulteriori
crimini internazionali commessi durante la seconda guerra mondiale nei paesi occupati militarmente. Per
tale ragione era stata pertanto disposta l’iscrizione in Italia di un’ipoteca giudiziaria su Villa Vigoni, bene di
proprietà della Germania ma adibito ad attività culturali, quindi rientrante tra i beni destinati a pubblica
funzione, sui quali non è possibile applicare alcuna misura esecutiva. A seguito del ricorso presentato dalla
Germania nei confronti del nostro Paese di fronte alla Corte internazionale di giustizia, essa, con sentenza
del 3 febbraio 2012, ha accertato la violazione da parte dell’Italia della norma consuetudinaria in materia di
immunità dello Stato dalla giurisdizione civile, affermando, sulla base di una ricostruzione piuttosto ambia
della prassi interna e internazionale in materia, che la norma sull’immunità dello Stato vada applicata anche
nel caso in cui lo Stato convenuto in giudizio sia sospettato di aver violato norme di juscogens durante
operazioni militari condotte all’estero. La Corte ha inoltre affermato che le regole internazionali in tema di
immunità hanno carattere procedurale, mentre le norme di jus cogens e quelle che vietano la commissione
di crimini internazionali hanno natura sostanziale, operando quindi su piani e in momenti diversi davanti
alle giurisdizioni nazionali. La corte non ha poi considerato applicabile, in materia di immunità dello stato,
l’eccezione alla regola dell’immunità contenuta in alcune legislazioni nazionali, nonché in talune convenzioni
internazionali , regionali e universali che esclude il riconoscimento dell’immunità dello stato in relazione a
procedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto il risarcimento causato dalla morte, da lesioni personali o con

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

riguardo a beni per incidenti avvenuti sul territorio dello stato del foro. La corte ha quindi richiesto all’Italia
di eseguire la sentenza adottando provvedimenti legislativi o scegliendo comunque modalità di esecuzione
tali da impedire l’espletamento di eventuali azioni giudiziarie nei confronti della Germania per i medesimi
fatti e di revocare le decisioni dei tribunali nazionali già adottate e in contrasto con quanto stabilito dalla
corte. Con legge del 14 gennaio 2013 poi il nostro legislatore ha stabilito il principio secondo lui, laddove in
una sentenza emessa dalla suddetta Corte si sia esclusa la giurisdizione italiana per alcune controversie, il
giudice di merito debba dichiarare il difetto di giurisdizione, mentre, per le sentenze passate in giudicato, si
è indicata la soluzione della revocazione delle decisioni. La Corte Costituzionale, con sentenza del 24 ottobre
2014 n. 238 ha annullato sia la legge del 2013, sia la legge contenente l’ordine di esecuzione della Carta
dell’ONU limitatamente all’obbligo di rispettare la sentenza del 2012 della Corte internazionale di giustizia,
applicando quindi la teoria dei controlimiti costituzionali e affermando la prevalenza di un principio
fondamentale della Costituzione (il diritto di accesso alla giustizia) e del diritto alla dignità personale sulla
norma consuetudinaria.

In tema di immunità, bisogna distinguere le immunità personali o diplomatiche dell’individuo-organo,


spettanti agli organi supremi dello Stato (capo di Stato, capo di governo, Ministro degli esteri e agenti
diplomatici) e le immunità funzionali di cui sono titolari tutti gli organi statali. In merito alle immunità
personali, va osservato che gli statuti dei due tribunali ad hoc per l’ex Iugoslavia e per il Ruanda nonché lo
statuto della Corte penale internazionale, escludono che la titolarità di immunità personali e funzionali
possa impedire l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei responsabili dei crimini internazionali previsti
nei rispettivi statuti. Alcuni tribunali nazionali hanno affermato la prevalenza delle norme internazionali in
materia di crimini internazionali rispetto alle norme di diritto internazionale consuetudinario in tema di
immunità personali, come nel caso di Al-Bashir, con specifico riferimento alla violazione dell’obbligo da
parte dello stato nazionale di arrestare e di consegnare alla corte penale l’imputato. Tuttavia, la
giurisprudenza internazionale e nazionale, complessivamente considerata, sembra tuttora favorevole al
riconoscimento dell’immunità personale per gli organi supremi dello Stato accusati di crimini internazionali,
come affermato nel 2002 dalla Corte internazionale di giustizia nel caso “mandato di arresto dell’11 aprile
2000” relativa alla controversia sorta a seguito della richiesta di arresto formulata dalla magistratura belga
nei confronti del Ministro degli esteri della Repubblica democratica del Congo. La corte ha infatti escluso
l’esistenza di un’eccezione alla regola dell’immunità del ministro degli esteri in carica nell’ipotesi di
commissione di crimini di guerra e contro l’umanità. Sembrerebbe invece da escludere l’immunità
funzionale dell’individuo-organo accusato di crimini internazionali, anche se purtroppo non mancano
elementi della prassi in senso contrario (Jones c. Regno Unito, Corte EDU 2014; caso Abu Omar del 2014 nel
quale si sono considerate al di fuori delle funzioni attribuite agli organi statali stranieri le attività consistenti
nel sequestro di Abu Omar.

11. Il divieto di schiavitù e il divieto di servitù sono contenuti in norme internazionali di carattere cogente,
mentre il divieto al lavoro forzato od obbligatorio sembrerebbe contemplato in una norma di diritto
consuetudinari. Tali divieti erano contenuti nel protocollo addizionale alla convenzione del lavoro forzato del
2014 mentre Sul piano europeo possono richiamarsi l’articolo 4 della CEDU e l’articolo 5 della Carta dei
diritti fondamentali dell’UE che stabilisce anche il divieto di tratta di essere umani. La normativa
internazionale prevede sia obblighi di astensione dal ricorrere a tali pratiche, che obblighi positivi che
comprendono l’obbligo di prevenire e reprimere le violazioni di questi diritti commessi da organi statali o da
privati, l’obbligo di carattere legislativo di prevedere nell’ordinamento nazionale le apposite figure di reato al
fine di punire i responsabili e infine l’obbligo di avviare e portare a termine in modo effettivo le indagini
necessarie per accertare le violazioni dei divieti qui esaminati, come ad esempio affermato dalla Corte EDU
nella sentenza del 26 luglio 2005 relativa al caso Siliadin c. Francia. La schiavitù, ossia l’esercizio su una

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

determinata persona dei poteri tipici del diritto di proprietà(anche in relazione al traffico di esseri umani) ,
oggi costituisce anche un crimine internazionale quando commesso in un conflitto armato. Di notevole
importanza è la distinzione fra schiavitù e servitù e fra lavoro forzato e lavoro obbligatorio. Nel caso Siliadin
c. Francia, la Corte EDU ha affermato che la qualificazione di una certa condotta quale schiavitù richiede che
venga accertato l’esercizio su una determinata persona di un diritto di proprietà tale a ridurla allo status di
una “cosa”. Nel caso della servitù invece occorre che venga evidenziata una forma particolarmente seria di
diniego della libertà che si configura in ipotesi in cui l’individuo non sia solamente obbligato a svolgere dei
determinati servizi a favore di terzi, ma altresì costretto a vivere su una proprietà altrui (senza poter
modificare questa condizione). Le due fattispecie della schiavitù e servitù si distinguono quindi in base al
livello più grave della segregazione della persona e dell’annientamento di ogni forma di libertà individuale
del soggetto ridotto in schiavitù. Con riferimento invece alla distinzione tra lavoro forzato e lavoro
obbligatorio, già nella sentenza del 23 novembre 1983 la Corte di Strasburgo ha chiarito che le ipotesi di
lavoro forzato devono essere fondate sull’esistenza di una costrizione fisica o mentale, mentre quelle
riconducibili alla nozione di lavoro obbligatorio non comprendono situazioni lavorative che hanno origine da
relazioni contrattualmente e liberamente concluse dalle parti (seppur sottoposte a sanzioni in caso di
inadempimento) bensì concernono situazioni nelle quali l’obbligatorietà del lavoro è richiesta sotto minaccia
di una punizione e l’attività lavorativa è eseguita contro la volontà della persona interessata. Fra le eccezioni
al divieto di lavoro forzato od obbligatorio espressamente previste dall’articolo 4 della CEDU vi è l’attività
lavorativa richiesta ai detenuti, che secondo la Corte EDU deve essere preso in considerazione nel quadro
del sistema nazionale di sicurezza sociale, sebbene non sia obbligatorio per lo Stato applicare il regime
generale previsto in materia previdenziale. I fattori in base ai quali è possibile decifrare la condotta lesiva e
qualificarla come una fattispecie di servitù o di schiavitù sono sia di natura soggettiva (l’età, il sesso, la
vulnerabilità) che di natura oggettiva (il livello di limitazione della libertà personale, l’orario di lavoro,
l’assenza di una adeguata remunerazione, la schiavitù da debito situazione debitoria a carico del
lavoratore nei confronti del datore di lavoro, in base alla quale quest’ultimo esercita un controllo fisico e
psicologico sul lavoratore per un ampio periodo di tempo).

Il diritto internazionale impone anche la proibizione di forme particolari di schiavitù come la tratta di essere
umani, vietata dai due protocolli addizionali alla Convenzione dell’ONU contro il crimine
organizzatotransnazionale del 2000, la Convenzione europea sull’azione contro il traffico di essere umani del
2005 e l’analoga convenzione nel quadro dell’associazione del SudEst Asiatico. Siccome non vi sono norme
ad hoc sulla tratta di essere umani, si possono usare in supplenza i divieti generali di schiavitù, servitù e
lavoro forzato od obbligatorio, come nel caso Rantsev c. Cipro e Russia (Corte EDU). Anche nel caso L.E. c.
Grecia la corte ha richiamato gli obblighi positivi dello stato di prevenire e reprimere le violazioni del divieto
di schiavitù e di servitù perpetrate a livello interindividuale e di condurre indagini effettive per punire i
responsabili di queste gravi condotte lesive. Il caporalato poi, consiste nella forma più grave di sfruttamento,
una schiavitù derivante dall’esercizio di un sostanziale diritto di proprietà esercitato sull’individuo e la sua
mercificazione al fine del suo sfruttamento economico e personale, ed è vietato in Italia grazie alla legge
n.199 del 2016. Nel caso Chowdury c. Grecia la corte ha ricondotto nell’ambito del lavoro forzato, collegato
alla tratta di esseri umani la situazione in cui si trovavano alcuni lavoratori stagionali stranieri i quali
vivevano e svolgevano le attività lavorative in uno stato di degrado, senza un’effettiva retribuzione per il
lavoro svolto e sotto il controllo di guardie private armate. La corte ha ribatto sia l’obbligo per gli stati parti
della cedu di predisporre in quadro legislativo e amministrativo avente ad oggetto il divieto di lavoro
forzato, in modo da prevenire e reprimere la condotte lesive di organi statali o privati rientranti in questo
divieto.

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

12.Fra i divieti contenuti nel diritto internazionale generale vi sono il divieto di discriminazione razziale e il
divieto di apartheid. La Convenzione ONU del 21 dicembre 1965 sull’eliminazione di ogni forma di
discriminazione razziale ha introdotto il divieto generalizzato di discriminazione razziale, che vieta in
particolare ogni condotta consistente in atti di “distinzione”, “esclusione”, “restrizione”, o “preferenza”
basati su “razza, colore della pelle, origini o etnie e aventi lo scopo o l’effetto di nullificare o impedire il
riconoscimento dei diritti umani e l’esercizio delle libertà fondamentali politiche, religiose, culturali o sociali.
Gli Stati contraenti si impegnano, per un verso a condannare la discriminazione razziale e adottare con tutti i
mezzi adatti senza esitazione politiche finalizzate a eliminare la discriminazione razziale e favorire l’intesa
tra tutte le razze, e per altro verso a vietare a soggetti pubblici o privati di utilizzare forme di propagando o
incitamento alla discriminazione razziale. Gli Stati si obbligano inoltre a reprimere, anche con strumenti di
natura giudiziaria, gli atti di discriminazione razziale concretamente adottati, prevedendo il diritto a
un’adeguata riparazione per il danno ricevuto, e a eliminare alla radice i pregiudizi e i comportamenti che
sono alla base delle discriminazione razziale attraverso apposite misure da adottare nel settore
dell’insegnamento, dell’educazione, della cultura e dell’informazione. La Convenzione del 1965 ha anche
istituito un comitato di controllo privo di poteri vincolanti competente a esaminare sia i rapporti biennali
degli Stati parte sulle misure di conformità alla convenzione, sia comunicazioni interstatali e individuali
(previa accettazione della competenza). L’apartheid viene qualificato dalla Convenzione ONU del 30
novembre 1973 sull’eliminazione e la repressione del crimine di apartheid come crimine contro l’umanità e
gli atti che configurano tale pratica sono considerati contrari alla Carta dell’ONU. Le pratiche che rientrano
nel divieto di apartheid (art.2) sono quelle aventi lo scopo di stabilire o mantenere forme di dominazione da
parte di un gruppo razziale su un altro gruppo razziale tramite oppressione. Tale disciplina ha avuto impulso
per reagire alla pratica segregazionista seguita in Sud Africa a partire dagli anni ’60. La Convenzione prevede
obblighi positivi per gli Stati di adottare tutte le misure necessarie, anche di natura legislativa, al fine di
prevenire e reprimere sia i responsabili diritti di atti di apartheid che coloro che ne incoraggiano le condotte.
Si stabilisce inoltre il principio della giurisdizione penale universale in relazione alle competenze giudiziarie
dei tribunali degli stati contraenti, o in merito alla competenza di un tribunale internazionale, per i reati che
rientrano nella nozione di apartheid ai sensi dell’art. 2 della convenzione, per i quali si esclude che possano
essere considerati reati politici. Le misure discriminatorie possono consistere in condotte o atti diretti
specificamente a discriminare certi individui o gruppi di essi, oppure in atti indiretti che possono essere
individuati solo previo esame del caso di specie. La discriminazione inoltre può avvenire per ragioni di
cittadinanza, lingua, religione, sesso, motivi etnici o di orientamento sessuale. Il divieto di discriminazione in
genere, che ha quindi portata residuale nell’ordinamento internazionale, avendo lo scopo di vietare le
pratiche discriminatorie diverse da quelle più gravi sopra analizzate, sembra essere contenut nel diritto
internazionale consuetudinario. Il divieto di alcune forme discriminatorie sembra possedere un più solido
fondamento nella prassi interna e internazionale, quali ad esempio le discriminazioni fondate su motivi
religiosi o etnici le quali trovano riscontro già bei risalenti trattati sulle minoranze religiose e sono oggetto di
numerosi atti di soft law emanati dalle organizzazioni internazionali come la dichiarazione sull’eliminazione
di ogni forma di intolleranza e discriminazione basata sulla religione sul pensiero del 1981.

13.Il diritto alla libertà e alla sicurezza personale (art. 3 Dichiarazione Universale, art. 5 CEDU e art. 5 Carta
Fondamentale UE) vieta ogni forma di arresto, detenzione, o privazione della libertà personale posta in
essere dal potere pubblico e avente carattere arbitrario. Esso sembra derivare dall’antico istituto sancito
dalla Magna Charta libertatum del 1215 dell’habeas corpus che prevedeva delle garanzie sostanziali e
procedurali a favore degli individui accusati di alcuni reati e finalizzate a limitare l’arbitrio del potere
pubblico. Le violazioni in questione sono fondate su illeciti continuati che cessano soltanto nel momento in
cui viene ripristinata la libertà personale dell’individuo, fermo restando il diritto di quest’ultimo al

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

risarcimento del danno per la violazione subita. Le garanzie previste nelle norme internazionali in questione
si applicano in linea di principio, a qualsiasi privazione della libertà individuale, pur di natura temporanea e
anche laddove queste privazioni vengano condotte al di fuori dei luoghi tradizionali nei quali l’individuo è
generalmente privato della sua libertà (carceri, caserme, ecc). Va osservato che se la maggior parte delle
violazioni di questo diritto ha riguardo a condotte lesive attribuibili allo stato, è da accogliere la tesi secondo
cui le norme rilevanti in materia possano applicarsi a livello interindividuale, obbligando quindi lo stato a
prevenire e reprimere, anche attraverso misure di carattere legislativo lesioni commesse fra privati sulla
base del citato principio di due diligence. L’articolo 5 CEDU specifica in particolare le garanzie di natura
sostanziale e procedurale che devono essere rispettate dagli Stati parte perassicurare l’osservanza del diritto
alla libertà personale. La garanzia “primaria” è la conformità alla legge nazionale dei provvedimenti
restrittivi di libertà personale, in modo da escludere l’arbitrarietà in origine delle misure adottate. Anche il
contenuto della legge nazionale deve essere controllato a livello internazionale, nel senso che una misura
restrittiva, pur prevista dalla legge, può essere in contrasto con le regole e gli standard internazionali in
tema di diritti umani. Le disposizioni stabilite dalla legge devono essere accessibili e prevedibili, tanto in
condizioni di normalità quanto in situazioni di emergenza, nei casi di conflitto armato o di semplici tensioni
e disordini interni di una certa gravità di limitazioni della libertà non giustificate da causa legittima. Fra le
altre garanzie previste dall’articolo 5 CEDU vi sono anche il diritto all’individuo arrestato o detenuto a essere
prontamente informato, in una lingua a lui comprensibile, dei motivi dell’arresto e delle accuse formulate a
suo carico; il diritto a essere portato quanto prima davanti a un giudice per essere giudicato (entro un
termine ragionevole); e il diritto a presentare un ricorso a un tribunale perché esso giudichi entro un breve
termine sulla legittimazione della misura di privazione della libertà. Configurano particolari violazioni del
diritto di libertà sarizioni forzate ed extraordinaryrenditions che spesso sono tra loro collegate.

Le sparizioni forzate consistono in rapimenti e sequestri continuati di persona effettuati da organi statali.
Esse possono essere interne allo Stato che procedere al rapimento e al sequestro di persona, senza quindi il
coinvolgimento di organi statali stranieri e senza che le vittime vengano successivamente “consegnate alle
autorità di Paesi terzi allo scopo di detenere, torturare e spesso uccidere gli individui oggetto di tali pratiche.
In alcuni casi le sparizioni sono comunque effettuate sulla base di informazioni ottenute con la
collaborazione fra servizi di intelligence di più paesi, attribuendo quindi una certa “internazionalità” a
queste condotte lesive come nella famigerata operazione “Condor” avviata agli inizi degli anni ’70 del secolo
scorso fondata sulla collaborazione fra i servizi segreti di alcuni Paesi latino americani, governati all’epoca da
regimi dittatoriali e finalizzata alla sparizione dei rispettivi oppositori politici. La sparizione forzata implica
violazioni a catena di diritti fondamentali: diritto alla libertà e sicurezza personale, diritto alla vita, diritto a
non essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti ecc. Gli strumenti dedicate alla
sparizione forzata sono la Convenzione del 1994 degli OSA e la Convenzione ONU del 2006 per la protezione
di tutte le persone dalle sparizioni forzate, che prevede obblighi sostanziali e procedurali in materia (obbligo
di investigare sui casi di sparizione e informare i parenti, obbligo di vietarle a livello nazionale). Il diritto alla
verità spetta ai parenti delle persone sparite e la cui violazione persiste, trattandosi di illecito continuato da
parte dello Stato fino al momento in cui i congiunti delle vittime ottengano informazioni chiare ed esaurienti
circa le sorti dei familiari. Tale diritto è stato elaborato dalla corte interamaericana dei diritti dell’uomo a
partire dalla sentenza del 1988 Velasquez-Rodriguez c. Honduras, nella quale si richiamava l’obbligo dello
stato di condurre indagini sui casi di sparizione di individui e di tenere informati i parenti delle vittime e
successivamente della corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima ha, ad esempio condannato gli stati
parti della CEDU per violazione del diritto alla vita, con riguardo agli obblighi sostanziali e procedurali
previsti nella norma pattizia, e del diritto a non essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti in
considerazione dello stato di angoscia prodotto nei parenti a seguito della sparizione dei propri congiunti,

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

censurando l’inerzia dello stato e la mancanza di cooperazione con i parenti delle vittime al fine di informarli
sugli avvenimenti concernenti la persona sparita. Il diritto alla verità ha generalmente natura individuale ma
la giurisprudenza ha affermato che quando le sparizioni coinvolgono una pluralità di soggetti, possa avere
natura collettiva in quanto anche la popolazione potrebbe avere interesse a prendere coscienza delle
ignobili condotte di cui sono state vittime determinati soggetti.

Le consegne straordinarie sono consegne dei medesimi individui ad agenti di Paesi stranieri, i quali
provvedono generalmente a trasferire questi individui in Paesi terzi o luoghi segreti allo scopo di interrogarli
o detenerli senza alcun limite di tempo e senza assicurazioni legali. La complicità di altri Stati può sussistere
sin dal momento della pianificazione della consegna ed essere presente anche nella fase del prelevamento
dell’individuo in esame, ma può anche verificarsi nell’ipotesi in cui la persona oggetto della sparizione venga
consegnata alle autorità di un paese che non hanno partecipato al sequestro ma che si mostrano disponibile
a detenere questi individui. Con sentenza n.106 del 2009 la Corte Costituzionale ha affermato che le
consegne straordinarie sono contrarie alle tradizioni costituzionali e ai principi di diritti europeo. Caso
ElMasri c. Macedonia: il ricorrente era stato oggetto di sparizione forzata ad opera delle autorità macedoni
e successivamente di consegna straordinaria a favore di agenti americani della CIA e trasferito in
Afganistan(violati artt. 3(divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti), 5(diritto alla libertà e alla
sicurezza) e 13 (diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva). Caso Nasr e Ghali c. Italia: la Corte ha
accertato la violazione dellemedesime norme del Caso El Masri, rilevando come, pur essendo stata condotta
una indagine giudiziaria e condannati i responsabili, il governo non abbia garantito l’esecuzione della
sentenza di condanna, emettendo anche provvedimenti di grazia da parte del Presidente della Repubblica
per alcuni individui di cittadinanza americana.

14. Il diritto all’equo processo riguarda sia le modalità di funzionamento del processo, sia l’organizzazione
complessiva del sistema giudiziario nazionale, che deve garantire l’espletamento dei procedimenti giudiziari
in modo corretto, efficace e indipendente da altri poteri dello Stato (in particolare l’esecutivo). Il diritto in
questione è previsto dall’articolo 14 del Patto sui diritti civili e politici, dall’articolo 6 CEDU e dall’articolo 47
della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. In alcuni strumenti normativi, il diritto all’equo processo è
frammentato in più norme, come avviene per gli articoli 10 e 11 della Dichiarazione universale dei dritti
dell’uomo. Al diritto in questione sono collegate una serie di ulteriori garanzie autonome che ne integrano il
contenuto. Uno dei diritti da esso compreso è il principio del ne bis in idem, che vieta allo Stato di
processare un individuo per gli stessi fatti per i quali sia stato giudicato in precedenza con sentenza
definitiva, e ciò a prescindere dall’esito del primo procedimento giudiziario. Il divieto del ne bis in idem non
impedisce invece allo Stato di applicare, per i medesimi fatti e agli stessi individui, sanzioni di natura e
contenuto effettivamente diversi, ad esempio a carattere amministrativo e penale, a condizione tuttavia che
le sanzioni in questioni siano prevedibili e gli individui non debbano sopportare un pregiudizio eccessivo a
seguito dell’applicazione congiunta di tali sanzioni. I fatti penalmente rilevanti devono essere
intrinsecamente connessi nel tempo e nello spazio. Un esempio può essere fornito dal caso Gran Stevens c.
Italia. Va premesso che alcune di queste garanzie, che si traducono in ulteriori diritti si applicano
trasversalmente ai vari procedimenti giudiziari, altri si applicano soltanto ad alcuni procedimenti,
soprattutto quelli di natura penale che necessitano di una disciplina più dettagliata e garantista. Fra i
principali diritti che integrano il contenuto del diritto all’equo processo vi è il diritto di accesso effettivo a un
giudice nazionale, che implica che lo Stato non possa frapporre ostacoli di natura sostanziale o procedurali
che siano ingiustificati e sproporzionati riguardo all’esigenza di tutela di interessi general, quali la celerità
dei procedimenti giudiziari o la certezza del diritto. Laddove l’individuo sia riuscito a ottenere una pronuncia
giudiziaria favorevole, lo Stato è tenuto a garantirne la corretta e integrale esecuzione della decisione
assunta dai giudici nazionali. Il diritto di accesso alla giustizia è considerato derogabile per ragioni che

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

attengono a esigenze di conformità a norme internazionali, in materia di immunità della giurisdizione statale
riconosciuta a certe condizioni agli Stati stranieri e alle OI, e di adeguamento al regime normativo nazionale
in tema di immunità dei parlamentari nazionali a patto che essa sia ristretta alle attività svolte nel quadro
delle sue funzioni ufficiali del parlamentare. Con riferimento all’immunità dello Stato straniero, la Corte EDU
ha riconosciuto la legittimità della limitazione del diritto di accesso alla giustizia nazionale di un Paese parte
della CEDU anche nell’ipotesi in cui lo Stato straniero convenuto in giudizio sia accusato di crimini
internazionali (Al-Asdani c. Regno Unito), mentre con riferimento alle immunità delle OI, viene applicato
dalla Corte il principio della protezione equivalente fra tutela apprestata nell'ordimento dello Stato del foro
e tutela assicurata nel quadro dell’Organizzazione. Altri diritti che integrano il diritto a un equo processo
sono il diritto a un tribunale indipendente(di cui è assicurata l’effettività dal principio dell’inamovibilità dei
giudici, dalle loro competenze e dalla durata del mandato), imparziale e costituito per legge, il diritto allo
svolgimento di una procedura giudiziaria discussa in udienze pubbliche e il diritto allo svolgimento in tempi
ragionevoli del procedimento giudiziario. La Corte EDU ha affermato in tema che la ragionevolezza del
termine entro il quale concludere il procedimento giudiziario dipende da diversi fattori, quali in particolare
la complessità della controversia, la rilevanza e delicatezza degli interessi in gioco e la condotta delle parti e
del giudice. In materia penalistica vi sono la presunzione di innocenza; il diritto alla parità di armi fra accusa
e difesa; il diritto di difendersi in modo autonomo o di avvalersi di un difensore (e il connesso diritto al
gratuito patrocinio); il diritto di essere prontamente informato delle accuse penali; il diritto di disporre dei
tempi e mezzi adeguati per la difesa; il diritto di accesso alladocumentazione a disposizione dell’accusa; il
diritto a un doppio grado di giudizio e il diritto a non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato
(art. 2 e 4 del Protocollo n.7 alla CEDU).

15.Il principio di legalità e la correlata irretroattività della norma penale stabilisce che non si può essere
arrestati, detenuti o condannati se non in base a provvedimenti legislativi entrati in vigore prima della
commissione delle condotte ritenute in violazione della norma penale. A livello internazionale, il principio di
legalità è previsto dall’articolo 7 della Dichiarazione universale, l’articolo 15 del Patto sui diritti civili e
politici, l’articolo 9 della Convenzione americana, l’articolo 7 della CEDU e l’articolo 49 della Carta dei diritti
fondamentali dell’UE. Il principio di legalità nel settore penale esige un’applicazione particolarmente
rigorosa a fronte dell’importanza dei valori che intende proteggere: la libertà dell’individuo e la certezza del
diritto, ed è per questa ragione considerato inderogabile nel quadro del Patto sui diritti civili e politici e nel
quadro della CEDU. Il principio di legalità concerne tanto l’aspetto relativo alla previsione del reato quanto
quello concernente la determinazione delle pene previste per quel determinato reato in base al brocardo
latino “nullumcrimen, nulla poena sine lege”. Esso comprende il principio più specifico dell’irretroattività
della norma penale che vieta sia l’applicazione retroattiva di norme penali, sia interpretazioni estensive o di
natura analogica delle medesime norme aventi un effetto peggiorativo rispetto a quello espressamente
previsto a livello normativo. L’irretroattività è concessa solo quando da essa scaturisca un effetto
migliorativo delle condizioni fissate per l’individuo. La particolare rilevanza del principio di legalità in ambito
penale sembra costituire un argine nei confronti dell’applicazione retroattiva di norme appartenenti al
diritto dell’UE come dimostrato dal caso Taricco in cui, nel 2017, la corte di giustizia dell’UE ha introdotto
una deroga al principio generale della disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con norme
direttamente applicabili del diritto dell’UE, laddove si dimostri che l’obbligo di disapplicare le disposizioni
del codice penale in questione contrasti con ll principio di legalità dei reati e delle pene. Il principio di
legalità deve essere assicurato anche sotto il profilo sostanziale, e quindi lo Stato deve formulare i divieti
penali e le relative pene in modo accessibile, chiaro e prevedibile così da soddisfare il requisito della
conoscibilità delle legge penale. I criteri della conoscenza e prevedibilità si applicano sia in termini assoluti
(laddove il divieto abbia come destinataria la collettività statale) che in termini relativi (nel caso in cui i reati

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

possono essere commessi solo da specifiche categorie di individui - ad.es i “reati proprio” che
presuppongono la qualifica di pubblico ufficiale). Soprattutto il criterio della prevedibilità è flessibile in
quanto può essere applicato in maniera diversa in relazione al caso concreto. Si ritiene che il requisito della
prevdibilità della legge si pongo in un rapporto di proporzionalità rispetto al fattore della complessità delle
regole giuridiche. L’articolo 7 della CEDU prevede che il rispetto del principio di legalità non possa costituire
un ostacolo all’avvio di procedimenti giudiziari e alla condanna di individui responsabili di crimini
internazionali, considerati vietati, al momento della commissione del fatto lesivo, sulla base dei principi
generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili. In altre parole, l’articolo permette ai giudici parte della
CEDU di giudicare gli individui accusati di crimini internazionali pur in assenza di norme nazionali specifiche
che vietino la condotta, sulla base dei principi generali di diritto ricavabili dai sistemi giuridici nazionali dei
Paesi contraenti e di stati terzi, nonché in base alla prassi applicativa di tale norma alla luce delle pertinenti
norme di diritto internazionale.

16. Il diritto alla vita privata e familiare è protetto dall’articolo 12 della Dichiarazione universale, dall’articolo
17 del Patto sui diritti civili e politici e dagli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Lo Stato
ha l’obbligo sia di prevenire la violazione di questo diritto in maniera “verticale”, ossia da ingerenze
effettuate da organi statali nei confronti nei privati, che la violazione “orizzontale” commessa a livello
interindividuale. Questo diritto ormai costituisce una sorta di “contenitore”sono quale sono confluiti una
serie di ulteriori diritti e garanzie ed appartiene alla categoria di diritti che possono essere sottoposte a
restrizioni. Inoltre le norme in materia di tutela della vita privata e familiare hanno un’applicazione
“verticale”, concernendo nella maggiora parte dei casi nelle ingerenze degli organi statali nei confronti di
privati. Tuttavia nei casi più gravi di violazione della vita privata e familiare, ad esempio nei casi di violenza
domestica sulle donne, emerge un’applicazione orizzontale di queste norme, che obbliga lo stato a
prevenire e a reprimere le violazioni commesse a livello interindividuale. Il diritto alla vita privata e familiare
può essere sottoposto a restrizioni e di conseguenza Le interferenze nella vita privata e familiare sono
legittime a condizione che esse siano previste dalla legge e giustificate da esigenze di interesse generale
(sicurezza nazionale, difesa dell’ordine pubblico, prevenzione dei reati) oppure da esigenze di carattere
individuale (tutela dei diritti dei singoli individui o di specifici gruppi). Il bilanciamento deve anche essere
effettuato ex post in relazione alla peculiarità della vicenda concreta, e il margine di apprezzamento che va
riconosciuto allo Stato in materia di bilanciamento dei diversi interessi viene ampliato o ridotto in
considerazione di diversi fattori ed elementi propri del caso concreto, venendo in considerazione la natura,
la portata generale e la durata dell’intervento statale, la rilevanza degli interessi confliggenti, l’identità e le
funzioni degli individui coinvolti.

La nozione di vita privata e familiare, compartimenti stagni ai fini della valutazione delle fattispecie concrete
poiché alcune condotte statali incidono contemporaneamente sulla vita familiare di uno o più soggetti,
garantiscono anche la tutela dei luoghi, dei beni e dei documenti riconducibili sia alla sfera personale sia a
quella lavorativa dell’individuo, concludendo quindi un’adeguata protezione della corrispondenza postale o
telematica e delle conversazioni telefoniche di natura privata o professionale. Il diritto specifico alla vita
privata protegge la sfera personale, fisica e psichica dell’individuo e comprende sia un aspetto interno
(intimo della persona) che uno esterno, consistente nel diritto di ogni individuo di sviluppare e mantenere
relazioni personali con altri individui in genere. Questo diritto contiene anche il diritto a non subire
intercettazioni o controlli ingiustificati sulle comunicazioni (tramite telefoni, strumenti telematici o
satellitari) con lo scopo di intercettare le comunicazioni o localizzare la posizione di una persona. Le
intercettazioni o controlli possono essere di natura individuale o collettiva (intercettazioni di massa) che
permettono, attraverso l’applicazione di una serie di criteri di individuazione della persona o dei luoghi posti
sotto controllo, di intercettare un numero enorme di comunicazioni fra le persone. In questi casi lo stato

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

deve disciplinare con legge tali interferenze assicurando chiarezza e prevedibilità. Nelle ipotesi delle
interecettazioni di massa il criterio di prevedibilità della legge subisce delle attenuazioni. Inoltre in queste
ipotesi lo stato è tenuto a realizzare un corretto equilibrio fra gli interessi individuali e quelli generali
contrapposti. Alcuni criteri utili a verificare la necessità e la proporzionalità delle misure adottato sono: la
natura elle condotte lesive poste sotto intercettazione, l’individuazione delle categorie di persone per le
quali è ammissibile la sottoposizione a controllo, la determinazione di un limite temporale, la previsione di
procedure e misure precauzionali per la raccolta, la comunicazione a terzi e la distruzione dei dati ottenuti,
la predisposizione di adeguati meccanismi per verificare la corretta applicazione e sottoporre a revisione le
misure restrittive imposte alla vita privata di una pluralità di individui. Nelle ipotesi di intelligence sharing
regime tra Stati, la condotta dello Stato che utilizza le informazioni ottenute da altri Stati consiste in una
violazione delle norme in materia di privacy se le informazioni non venisse sottoposte al vaglio dei principi
di legalità, necessità e proporzionalità.

La nozione di famiglia si estende anche a quella nata sulla base della relazione di fatto fra genitori e figli
naturali o adottivi e a quella costituita da stranieri stabilmente residenti all’estero. Ne consegue che le
misure di espulsione nei confronti di stranieri che abbiano costituito gruppi familiari in altri Paesi sono
sottoposte ad una valutazione particolare da parte degli organi di controllo. Questi usano criteri come quelli
relativi alla natura e alla gravità del reato commesso, alla tipologia della famiglia costituita, se vi siano figli
minori, nonchè il radicamento effettivo dello straniero sul territorio dello stato.

Fra gli ulteriori diritti da ricomprendere nella nozione di vita privata e familiare c’è il diritto alla protezione
dell’immagine e della riservatezza della persona o della famiglia, il diritto alla reputazione e all’onore, il
diritto al nome e il diritto alla identità personale (la cui applicazione si estende alla protezione dell’embrione
umano ottenuto attraverso la fecondazione in vitro posto che esso costituisca parte integrante del materiale
genetico e biologico dell’individuo). Il diritto al nome costituisce un elemento essenziale per l’identificazione
della persona e comprende anche il diritto a conoscere le proprie origini, sebbene il profilo specifico della
rivelazione dell’identità dei genitori biologici possa essere oggetto di bilanciamento da parte dello stato con
il diritto di questi ultimi di mantenere l’anonimato. La corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Fazzo c.
Italia nel’2014 ha stabilito l’illegittimità dell’imposizione del solo cognome paterno al figlio.

Vanno inoltre annoverati fra questi il diritto alla protezione dei dati personali e il diritto all’oblio (sparizione
delle informazioni riguardo fatti risalenti nel tempo). Il primo diritto implica che i dati personali siano trattati
solo qualora vi sia il consenso della persona interessata, o in base alla legge. Il diritto alla protezione dei dati
personali deve essere modulato in base all’età della persona, sia al tipo di dati personali, con la conseguenza
che la protezione debba essere rafforzata nel caso di uso di dati particolarmente sensibili, come quelli
riguardanti lo stato di salute della persona. L’individuo inoltre ha diritto di accesso ad alcune informazioni
raccolte dalle autorità nazionali, come quelle concernenti il suo stato di salute o quelle raccolte nei registri
dello stato civile e riguardanti la sua persona. Il secondo diritto può implicare in alcuni casi un bilanciamento
da parte dello stato tra l’interesse dell’individuo alla sparizione delle informazioni riguardanti la sua persona
e le opposte esigenze dell’opinione pubblica.

Con la sentenza del 24 giugno 2010 resa nel caso Schalk e Kopf c. Austria, la Corte EDU ha affermato che le
coppie stabili dello stesso sesso rientrano nella nozione di famiglia secondo l’articolo 8 della CEDU. Nel
successivo caso Vallianatos e altri c. Grecia, si è effettuata un’ulteriore apertura garantendo un’analoga
protezione alle coppie omosessuali che per motivi sociali o personali non siano stabilmente conviventi. Nel
2015 la Corte ha censurato l’inerzia del legislatore italiano nell’adozione di una disciplina sulle unione civili
per le coppie omosessuali, accertando la violazione dell’articolo 8 della CEDU, nel caso Oliari e altri c. Italia.

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

La vicenda aveva persino condotto ad un intervento della corte costituzionale che nel 2010 ha compreso le
unioni civili nell’ambito delle “formazioni sociali” tutelate dalla costituzione ai sensi dell’art. 2. La corte di
Strasburgo dunque ha emesso tale sentenza per il fatto che il monito che promanava dalla corte
costituzionale fosse rimasto inosservato. Con la legge 20 maggio 2016 n. 76, il nostro legislatore ha previsto
una regolamentazione delle unioni civili di natura omosessuale e ha stabilito norme per le unioni di fatto in
genere, assicurando una (pur limitata) tutela dei membri di tali unioni sotto il profilo dell’adozione di un
unico cognome, del regime patrimoniale, dei diritti in materia successoria, ecc.

Il diritto a credere in una determinata religione ed esprimere le proprie convinzioni in pubblico o privato
costituisce l’aspetto principale della libertà di pensiero, coscienza, e religione. Esso può essere esercitato in
forma individuale o collettiva (semplice se invocato da una pluralità di soggetti con stessa religione o
istituzionale se esercitato attraverso enti o istituzioni religiose). Tale diritto ha una dimensione interna che
attiene alla sfera privata dell’individuo, e una esterna che concerne le manifestazioni esteriori delle proprie
opinioni e convinzioni religiose. L’osservanza effettiva di tale diritto implica il rispetto dello Stato sia di
obblighi negativi di astensione rispetto all’esercizio di tale diritto, sia di obblighi positivi aventi lo scopo di
consentire effettivamente a ogni individuo di manifestare liberamente il proprio credo e le proprie opinioni
in materia di religione. Tale diritto sembra informato al principio del rispetto del pluralismo religioso. La
necessità per lo stato di tutelare la libertà di coscienza e religione non gli impedisce di mostrare una
preferenza verso una dterminata religione o di accogliere una religione di stato, purchè i membri della
collettività nazionale siano liberi di professare altre fedi religiose e che i precetti della religione di stato non
rislutino incompatibili non solo con la libertà di religione in genere, ma anche con altri diritti umani ad
esempio quello a non essere discriminati in ragione del proprio credo religioso. La legge islamica (Sharia) è
incompatibile con i principi democratici fondamentali della CEDU, e quindi non può essere introdotta in uno
dei suoi stati parti come religione di Stato. La libertà religiosa comprende anche il diritto a non credere e il
diritto a modificare le proprie convinzioni religiose. Da questi diritti discendono il diritto a non rivelare in
pubblico le proprie convinzioni religiose e il diritto a non subire pressioni finalizzate a mantenere o mutare
la propria fede religiosa. Lo Stato ha anche l’obbligo di assicurare la pacifica coesistenza fra le varie religioni
presenti nel suo territorio vietando condotte di natura blasfema finalizzate a diffondere odio e intolleranza.
Occorre soffermarsi inoltre sulle controversie insorte in merito all’uso di simboli religiosi utilizzati tanto a
livello individuale, uso del velo, quanto da parte di enti pubblici come l’apposizione del crocifisso in alcune
scuole pubbliche cristiane. In relazione alla questione del velo, la giurisprudenza della corte europea dei
diritti dell’uomo ha finora escluso la contrarietà rispetto al diritto di libertà religiosa del divieto di indossare
il velo islamico nei luoghi pubblici previsto in alcuni paesi parti della CEDU, in quanto espressione di un
bilanciamento tra l’interesse individuale e l’interesse generale, relativo alla sicurezza dello stato. In modo
diverso si è pronunciato il comitato ONU dei diritti umani che ha accertato violazione da parte della Francia
del diritto alla libertà religiosa e del diritto a non essere discriminati su base religiosa in ragione del citato
divieto di usare il velo in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Un’analoga situazione di incertezza si è
verificata nel caso Lautsi c.Italia, riguardante la liceità dell’affissione de crocifisso in una scuola pubblica
italiana. In suddetto caso nel 2011 la corte ha evidenziato il fatto che nell’apposizione del crocifisso non ci
fosse alcuna forma di indottrinamento.

La libertà di opinione e di espressione è sancita dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale, l’articolo 19


del Patto sui diritti civili e politici, l’articolo 10 della CEDU, l’articolo 11(libertà dei media) della Carta dei
diritti fondamentali dell’UE e l’articolo 13 della Convenzione americana. Tali libertà costituiscono i pilastri di
una società democratica. La libertà di opinione e di espressione contiene sia un profilo positivo che uno
negativo, in quanto tutelano sia il diritto a esprimere le proprie idee e opinioni, che a ricevere quelle altrui.
La dimensione collettiva della libertà di espressione può configurarsi in forma semplice, attraverso forme

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

espressive che coinvolgono in modo spontaneo e non organizzato più individui, o in forma istituzionalizzata,
sulla base di enti e luoghi preposti alla diffusione delle più varie forme artistiche ed espressive (teatri,
scuole). Nel quadro della libertà di espressione rientrano le opinioni minoritarie o “estreme” basate su
argometazioni assai discutibili sotto il profilo di ricostruzione storica, politica, economica. Ciò si può dedurre
dall’esame della sentenza Lehideux e Isorni c. Francia, nella quale viene considerata incompatibile con il
diritto alla libertà d’opinione la sentenza di condanna penale di 2 individui che avevano pubblicato sul
quotidiano Le Monde un articolo finalizzato a riabilitare la figura del maresciallo Petain, capo del Governo di
Vichy in Francia, collaborazionista del regime nazista. Questo diritto può essere sottoposto a restrizioni, a
patto che esse siano previste dalla legge e siano funzionali alla protezione sia di rilevanti interessi
collettivi(sicurezza e ordine pubblico) sia di egualmente importanti interessi e diritti individuali. Per
verificare la legittimità delle restrizioni imposte dallo Stato si fa riferimento a un duplice test di legittimità: la
necessità dell’ingerenza da parte dello Stato e la proporzionalità delle misure adottate. Nel caso del
negazionismo il limite esterno alla libertà di espressione è costituito dal divieto di incitamento alla violenza,
all’odio e alla discriminazione razziale. Anche in questa sede fanno capo obblighi positivi come quello della
predisposizione di un quadro normativo e sociale ce favorisca il libero esercizio di questa libertà da parte di
ogni individuo.

La libertà di informazione,pur essendo spesso incardinata nella medesima norma posta a tutela della libertà
di espressione e di opinione, merita una valutazione a sé con specifico riguardo ai suoi profili relativi alla
protezione dei giornalisti e al pluralismo informativo. Essa assume una duplice dimensione consistente nel
diritto “positivo” di informare e nel diritto “negativo” di essere informati su fatti e vicende di interesse
pubblico. I giornalisti svolgono una funzione indispensabile e di contrappeso nei confronti del potere
esecutivo e costituiscono un elemento essenziale per la creazione di una società democratica e plurale.
Anche in questo caso sono previsti a carico dello stato obblighi positivi e negativi. La tutela dei giornalisti
implica anche la tutela delle fonti giornalistiche collegata alla libertà di stampa. Ciò implica a sua volta la
protezione della segretezza delle fonti giornalistiche, salvo che sia pregiudicati interessi fondamentali dello
stato. In quest’ultimo caso lo stato dovrà operare un bilanciamento. Il margine di discrezionalità attribuito al
giornalista per l’espletamento della sua professione è ampio anche qualora le sue considerazioni possano
risultare lesive della reputazione altrui soprattutto quando il soggetto bersaglio di tali asserzioni è un
personaggio raggiunto da una notorietà tale da renderlo sottoponibile e critica e satira. Per verificare se le
misure di compressione dellalibertà di informazione esercitata dai giornalisti siano lecite occorre bilanciare
il diritto in esame con il diritto alla reputazione e all’onore degli individui offesi. Per far ciò, i criteri utilizzati
dalla Corte EDU sono l’accertamento della buona fede del giornalista, che può commettere errori o forzare
l’interpretazione di certe notizie, ma senza indulgere in comportamenti assunti in mala fede o con il solo
scopo di offendere un individuo, nella valutazione della gravità dell’attacco e degli effetti negativi che esso
ha comportato sulla vita privata e familiare del soggetto, nonchè l’effettivo interesse della collettività
relativamente all’apprensione di tale notizia. Quanto affermato trova riscontro nel caso sottoposto alla corte
europea dei diritti dell’uomo Kaboglu e Oran c.Turchia, relativo a reiterati attacchi compiuti dai giornalisti
turchi nei confronti di due docenti universitari per le loro opinioni espresse in materia di diritti appartenenti
a determinate minoranze. Secondo la corte gli articoli contenevano degli hate speeches volti a far scaturire
nei soggetti colpiti paura e timore a causa di minacce, anche fisiche, che venivano riportate nel testo degli
stessi articoli, al fine di inibire i soggetti in questione per quanto concerneva la manifestazione delle proprie
opinioni. La libertà di informazione comprende il pluralismo informativo, che si estende a tutti i mezzi
d’informazione e diffusione di idee e opinioni. Il pluralismo implica da un lato la diversificazione dei soggetti
proprietari delle fonti e degli strumenti di informazione, e d’altro lato la diversificazione dei contenuti
effettivi dell’informazione diffusa al pubblico. La Corte EDU, nel caso Centro Europa 7 c. Italia, concernente

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

l’ingiustificato ritardo nell’assegnazione effettiva delle frequenze televisive ad un soggetto che aveva già
ottenuto il diritto all’assegnazione della licenza dopo un lungo iter giudiziario a livello nazionale, ha
affermato che non può esserci democrazia senza pluralismo e per questo esso va garantito. La corte in
questa sede ha anche effettuato una “classifica” segnalando che l’impatto più immediato ed efficace
sull’opinione pubblica è dato agli strumenti audiovisivi.

Anche il diritto di accesso a internet è funzionale rispetto alla libertà di espressione. Ciò è testimoniato dalle
legislazioni nazionali come quelle di Estonia e Finlandia o da regole costituzionali come quelle dell’ Ecuador.
L’accesso al web costituisce oggi un completamento indispensabile per l’effettivo godimento di una serie di
diritti umani, quali la libertà di espressione e di opinione, la libertà religiosa, il diritto all’istruzione ecc..sono
contrarie al regime sui diritti umani le misure come il blocco totale e per ampi periodi di tempo, dell’accesso
alla rete. Nel 2012 la corte europea dei diritti dell’uomo nel caso AhmetYldirim c. Turchia la corte ha statuito
che il temporaneo oscuramento di un sito di proprietà di un docente universitario e successivamente il
blocco, adottato nei suoi confronti, all’accesso al motore di ricerca Google per qualsiasi attività svolta
dall’individuo fossero da considerare contrari al diritto alla libertà di espressione garantito dall’art. 10 CEDU.

Il diritto dei rifugiati è tutelato sopratutto dalla Convenzione di Ginevra del 28 Luglio 1951 sullo status di
rifugiato, integrato dal Protocollo del 1967 che ha eliminato le limitazioni temporali e geografiche poste
nella Convenzione (fatti erano limitati a quelli avvenuti prima del ’51 in Europa). Il requisito principale per lo
status di rifugiato è il fondato timore di persecuzione in base alla razza, religione, cittadinanza,
appartenenza a un gruppo sociale o opinioni politiche, e l’allontanamento dal Paese di origine senza che
esso gli offra protezione. La tutela contro La persecuzione, motivata dall’inserimento in un determinato
gruppo sociale o fondata sull’orientamento sessuale dell’individuo, va garantita anche laddove provenga da
privati. Il principio fondamentale di questo diritto è quello del non refoulement, che vieta il respingimento o
l’espulsione di individui che rischino di essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani o degradanti
nello Stati di origine, che si applica oltre che sul territorio nazionale, anche su navi della marina militare e in
aeroporti in quanto esse siano considerate aree nelle quali si esercita la giurisdizione dello Stato (come
affermato nella sentenza HirsiJamaa c. Italia, 2012 Corte EDU, concernente il soccorso in mare effettuato da
una nave della marina militare italiana aveva acconsentito al trasferimento a bordo dei migranti, i quali
erano stati successivamente consegnati alle autorità libiche). Il diritto internazionale non consente che si
aggiri il divieto di respingimento , ad esempio effettuando operazioni di interdizione navale aventi quale
finalità quella di impedire che le imbarcazioni, con a bordo individui che possono richiedere lo status di
rifugiato, entrino nel mare territoriale. Infine, come rilevato dalla Commissione Interamericana in una
decisione nel 1997, l’obbligo di non refoulement non conosce limitazioni geografiche. Le condotte finalizzate
a impedire l’accesso al mare territoriale o a evitare il trasbordo su navi militari di individui che potrebbero
rivendicare lo status di rifugiato sono illegittime. Una volta che il richiedente asilo si trovi sul territorio dello
Stato o sotto la giurisdizione statale, esso è obbligato a dargli effettivo accesso ai meccanismi previsti a
livello nazionale per acquisire lo status di rifugiato. Serie di accordi tra Italia e Libia in materia di contrasto
all’immigrazione clandestina: Accordo di Roma (2000) Due protocolli di attuazione (2007), ulteriore
protocollo (2009) Memorandum di intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto
all’immigrazione, ecc. (2017) . va precisato che a prescindere dall’esistenza di convenzioni internazionali o di
norme appartenenti a sistemi speciali, le quali obbligano gli stati parte a salvare i migranti via mare e a
trasferirli presso un porto sicuro, sul piano del diritto internazionale generale lo stato è responsabile sia nel
caso in cui impedisca lo sbarco presso i propri porti o il trasbordo in navi militari nazionali, sia nell’ipotesi in
cui cooperi con altri stati allo scopo di inibire la partenza o l’arrivo dei rifugiati o di individui che rischino di
essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti nello stato d’origine. Una volta che il richiedente asilo
si trova sul territorio dello stato o sotto la giurisdizione dello stato nel senso sopra chiamato, lo stato è

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

obbligato a dare accesso effettivo ai meccanismi previsti a livello nazionale per acquistare lo status di
rifugiato. Lo stato è tenuto a predisporre misure per la verifica dei requisiti necessari per l’acquisto di tale
status, concedendo ai soggetti tutte le granzie previste come quella relativa al giusto processo, adeguate alla
particolare situazione del soggetto(come nel caso in cui sia un minore). L’inadeguatezza del trattamento
riservato ai richiedenti asilo in centri di assistenza e accoglienza è stata rilevata nel 2016 relativamente al
caso Khalafia c. Italia, in cui la corte europea dei diritti del’uomo ha accertato la violazione della libertà
personale(art. 5= e dell’assenza di un sistema che assicurasse la garanzia prevista dall’art. 13 ossia la tutela
giurisdizionale effettiva. Al rifugiato sono riservati una serie di diritti previsti dalla convenzione di Ginevra e
che talora sono estesi anche ai figli dei soggetti interessati (come il diritto all’istruzione). I rifugiati godono
anche di tutti i diritti umani contemplati dalle norme consuetudinarie e pattizie rilevanti in materia. Regime
diverso è previsto per la protezione sussidiaria che è concessa nel caso in cui l’individuo rischi, a seguito
dell’allontanamento dal paese nel quale ha richiesto protezione, di essere sottoposto a tortura o
trattamenti disumani nel paese di destinazione finale. Diverso è anche il regime di protezione temporanea
riservata a coloro che fuggono da Paesi oggetto di conflitti armati, interni o internazionali, o nei quali sono
avvenute gravi calamità naturali o causate dall’uomo.

Il diritto alla cittadinanza è previsto dall’articolo 15 della Dichiarazione Universale, tuttavia le ipotesi di
attribuzione e di revoca di cittadinanza rientrano nel margine di apprezzamento degli Stati insieme alla
scelta dei criteri attraverso quale attribuirla (jussanguinis, jus soli, misto). L’ipotesi mista è stata accolta
dall’ordinamento italiano con legge del 5 febbraio 1992 n.91, modificata dalla legge del 1° dicembre 2018
n.132 che riconosce una pur marginale rilevanza al criterio dello ius soli, per un verso al fine di limitare i casi
di apolidia, attribuendo la cittadinanza all’individuo nato in Italia da genitori ignoti o apolidi, o laddove il
figlio non ottenga la cittadinanza dei genitori secondo la legge nazionale di questi ultimi qualora l’apolide
risieda in Italia da almeno 3 anni, o se non nato in Italia da 5. Sempre a seguito della nascita sul territorio
italiano, l’individuo straniero acquista la cittadinanza qualora abbia risieduto senza interruzioni in Italia fino
al raggiungimento della maggiore età. Infine è prevista la cittadinanza per naturalizzazione, ossia in caso di
residenza in Italia per più di dieci anni. Sulla base della prassi internazionale, gli stati devono sforzarsi di
ridurre i casi di apolidia e quindi di non assumere contegni arbitrari nelle attività di concessione e di revoca
della cittadinanza. L’esame delle misure degli stati in tema di revoca della cittadinanza è stato condotto in
caso di coinvolgimento in attività terroristiche (principio introdotto in Italia con la legge 1° dicembre 2018 a
seguito di condanna definitiva per gravi reati) o di comportamento fraudolento dell’individuo durante il
procedimento di ottenimento della cittadinanza.(caso Rottman, omissione della menzione dei reati penali
commessi). Vi sono ipotesi di cittadinanza “facilitata” come quella connessa in taluni provvedimenti di Cipro
e Malta nei confronti dei soggetti che hanno realizzato significativi investimenti in suddetti Paesi. In
determinati casi i provvedimenti di revoca della cittadinanza possono risultare contrari al regime
internazionale su i diritti umani qualora cmportino apolidia, oppure siano applicate misure nazionali
eccessive e poco ponderate. Ulteriori diritti politici sono annessi a quello alla cittadinanza. Gli stati tuttavia
stentano a riconoscere a questi diritti(come il diritto all’elettorato attivo o passivo) il carattere di diritti
umani in quanto strettamente dipendenti dal possesso della cittadinanza.

Fra i diritti economici va esaminato il diritto di proprietà che trova fondamento nella prassi finalizzata a
tutelare gli investimenti di società straniere all’estero allo scopo di limitare il potere dello Stato territoriale di
nazionalizzare o espropriare i beni stranieri. La nozione di proprietà comprende i diritti sui beni mobili,
immobili e di proprietà intellettuale. Lo stato è tenuto a rispettare sia obblighi negativi di non interferenza
che obblighi postivi finalizzati a garantire l’osservanza del diritto in concreto anche da privati (tramite
l’esercizio del principio di due diligence). Nel sistema della CEDU, l’articolo 1 del primo Protocollo
addizionale tutela il rispetto dei beni di ogni persona fisica e giuridica, prevedendo il rispetto del diritto di

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

proprietà, la disciplina dei casi di privazione nella proprietà, e la regolamentazione statale dell’uso dei beni
che deve risultare conforme all’interesse generale. Ripetute condanne sono state inflitte all’Italia a seguito
dell’applicazione dell’istituto di derivazione giurisprudenziale consistente nell’occupazione acquisitiva o
accessione invertita, che consente alla P.A di occupare terreni appartenenti a privati al fine di costruire
opere pubbliche, pur in assenza di provvedimenti formali di espropriazione dei beni. Il diritto internazionale
impone di riconoscere un indennizzo a favore dell’individuo privato della proprietà.

Fra i diritti sociali bisogna esaminare il diritto al lavoro (Art. 23 Dichiarazione Universale, Art. 6-8 Patti sui
diritti economici, sociali, e culturali) e i diritti di assistenza sociale a favore dei soggetti maggiormente
bisognosi. Particolare rilevanza assume l’attività svolta dall’Organizzazione internazionale del Lavoro,
fondata nel 1919 e successivamente divenuta un istituto specializzato dell’ONU. La CEDU non prevede
protezione dei diritti sociali, che sono però inclusi nella Carta Sociale Europea del 1996(predisposta per la
protezione di tutti i lavoratori ed in particolare di categorie ritenute più vulnerabili) che prevede un sistema
di controllo incentrato sull’invio al Segretario generale del Consiglio d’Europa di rapporti a cadenza biennale
sullo stato di attuazione dei diritti. L’esame dei rapporti statali è affidato al Comitato europeo dei diritti
sociali che valuta la conformità delle condotte e delle legislazioni degli State parte rispetto alle norme
pattizie. La Carta prevede anche un sistema di reclami collettivi per le organizzazioni internazionali e
nazionali dei datori di lavoro e dei lavoratori e per le organizzazioni non governative dotate di status
consultivo presso il Consiglio d’Europa, che possono presentare un reclamo nei confronti di una parte
contraente avente oggetto l’inosservanza delle norme convenzionali. Su questo reclamo si pronuncia il
Comitato Europeo dei diritti sociali (non vincolante).

I principali diritti culturali sono costituiti dal diritto all’istruzione (Art. 26 Dichiarazione Universale e Art. 13
Patto) e dal diritto di partecipare alla vita culturale del Paese nel quale l’individuo risiede o di cui è cittadino.
Il primo appare fondamentale per la costruzione della personalità dell’individuo e per l’esercizio dialtri diritti
umani. La natura del diritto all’istruzione richiede l’osservanza da parte dello stato di obblighi positivi volti a
garantire l’istruzione primaria a carattere pubblico, gratuito e obbligatorio. Per quanto riguarda l’istruzione
superiore ed universitaria invece essa deve essere formalmente accessibile a tutti sulla base della
meritevolezza dell’individuo. L’istruzione deve essere esente da forme di indottrinamento. Ciò implica la
predisposizione di un programma di studi ampio che garantisca il pluralismo originario cioè la possibilità di
scegliere percorsi educativi distinti a seconda delle diverse esigenze dell’individuo, quanto un pluralismo
interno concernente la diffusione di teorie e opinioni differenti in relazione all’interpretazione di certi
elementi o fatti oggetto di insegnamento. Lo Stato in materia di insegnamento ed educazione deve
rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori degli studenti.

Il diritto di autodeterminazione dei popoli può essere invocato soltanto da enti collettivi, individuati
nell’intera popolazione nazionale o in una parte specifica di essa. Esso è considerato un principio di natura
consuetudinaria che pone obblighi erga omnes ed è altresì qualificato come uno dei principi essenziali del
diritto internazionale contemporaneo dalla Corte internazionale di Giustizia ("Timor Est" 1995 a seguito
delle violazioni commesse dalle autorità indonesiane e ribadito in "Conseguenze giuridiche della
costruzione di un muro nel territorio palestinese occupato" 2004) .tale principio non è retroattivo e non può
mettere in discussione quindi gli assetti territoriali risalenti nel tempo. La sua origine si fa risalire alla
dichiarazione del presidente degli USA, Wilson, del 1921. Il principio di autodeterminazione interna ha
conosciuto uno sviluppo minore, ed è protetto solo dai due Patti dell’ONU. Esso implica l’espletamento da
parte dello Stato di libere elezioni da tenere a intervalli regolar. Esso può avere senno una dimensione
esterna, che si applica alle colonie, ai territori occupati con la forza da una potenza straniera e a quelli
sottoposti a una regime razzista o di apartheid, e che costituisce un diritto per i popoli in questione, come

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

affermato dalla Corte Internazionale di giustizia nel parere del 2010 nel caso del Kosovo. La volontà
popolare deve essere manifestata in modo libero, senza alcun condizionamento da parte delle autorità dello
Stato nazionale o di altri Stati. Laddove il condizionamento esterno avvenga sulla base di un’occupazione o
un controllo militare estero (come nel caso del referendum della Crimea e del controllo militare russo del
2014), si configura il duplice divieto di uso della forza e del principio di autodeterminazione. Laddove non
sussista il consenso del governo nazionale all’autodeterminazione esterna si crea un conflitto fra il principio
di autodeterminazione e il principio di integrità territoriale dello Stato, come avvenuto in Quebec(nel caso
di specie la corte suprema canadese ha escluso la legittimità della secessione stabliendo che se essa viene
richiesta dalla popolazione locale , occorre che il governo centrale ne prenda atto e negozi una soluzione
concordata che non necessariamente debba portare alla secessione), Kosovo, e in Catalogna. L’ipotesi della
secessione come rimedio si basa su due condizioni: 1. La revoca ingiustificata dell’autonomia in passato
concessa (come avvenuto in Kosovo) 2. Le gross violations dei diritti umani, che configurano altresì crimini
internazionali, commesse dalle autorità del governo centrale nei confronti della popolazione locale che
chiede la secessione.

Il diritto allo sviluppo è considerato dall’Assemblea generale quale diritto inalienabile di particepare,
contribuire e godere lo sviluppo economico, sociale, culturale e politico in cui si realizzano i diritti umani
fondamentali. Gli Stati hanno la responsabilità di garantire il rispetto di questo diritto e di creare condizioni
nazionali e internazionali favorevoli alla realizzazione del diritto allo sviluppo. Il diritto allo sviluppo può
costituire un parametro normativo utile a rafforzare la portata di diritti umani più concreti, come desumibile
anche dalla carta africana del 1981. La nozione si è arricchita del termine “sostenibile”, che esprime la
necessità di conciliare lo sviluppo economico con la protezione dell’ambiente. Questo diritto implica il
rispetto di obblighi negativi di astensione dall’adottare decisioni che compromettano il godimento e
l’equilibrio dell’habitat naturale, e obblighi positivi consistenti in misure concrete finalizzate a preservarlo. I
suddetti obblighi positivi operano anche quando le violazioni o il loro rischio provengano da privati nel
rispetto, da parte dello stato, del principio di due diligence, come recentemente affermato dalla corte
europea dei diritti dell’uomo nella sentenze dello scorso 24/01 nel caso Cordella e altri c. Italia, relativa al
noto caso di grande inquinamento atmosferico prodotto dall’azienda ILVA di Taranto. L violazioni gravi del
diritto umano all’ambiente possono avere ripercussioni anche sulla vita e sulla salute dell’individuo. La
sostenibilità dello sviluppo non si limita al profilo ambientale ma si estende anche al profilo economico e
sociale. In questo senso vanno evitati gli eccessi di uno sfrenato sviluppo economico che possano
compromettere l’equilibrio ambientale globale e contribuire all’impoverimento di determinati paesi.

Diritti Umani, Stati, e attori non statali

1.Con riferimento alle attività poste in essere degli Stati, il loro ruolo è determinante per un verso ai fini
della formazione delle norme generali e pattizie sui diritti umani e della loro applicazione all’interno dei
sistemi giuridici nazionali, e per l’altro verso, in tema di accertamento di eventuali violazioni anche a livello
giudiziario attraverso l’istituzione di meccanismi di controllo sul rispetto di determinate convenzioni
internazionali, che prevedono sia forme di ricorso interstatale, sia di natura individuale o collettiva.
Rilevante è inoltre la funzione assicurata dalle organizzazioni internazionali, le quali, come si è rilevato con
riguardo all’esame delle Nazione Unite, svolgono attività di grande importanza in materia di predisposizione
di strumenti giuridici vincolanti e non vincolanti nonché di accertamento delle violazioni delle norme sui
diritti umani. Nelle sentenze dei casi Al Barakaat e Kadi il Tribunale dell’UE ha affermato che nell’esercizio
delle proprie competenze, l’UE è tenuta al rispetto dello jus cogens inteso come un ordinamento pubblico
internazionale che s’impone nei confronti di tutti i soggetti del diritto internazionale, compresi gli organi
dell’ONU, e al quale non è possibile derogare. Le questioni concernenti la responsabilità delle OI sono

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

specificatamente affrontate dal progetto di articoli adottato nel 2011 dalla Commissione del diritto
internazionale, che ricalca ampiamente il contenuto del più noto progetto del 2001 sulla responsabilità
internazionale dello Stato.

2.La dottrina si è ampiamente soffermata sul regime giuridico dei Non-State Actors, analizzando il profilo
degli obblighi derivanti da norme internazionali in materia di diritti umani e di diritto internazionale
umanitario. Il fondamento giuridico in base al quale si è considerato legittimo applicare talune norme
internazionali ad alcuni attori non statali è la soggettività internazionale di questi enti. Fra le teorie
maggiormente seguite in dottrina vi è quella che valorizza, in relazione ai movimenti insurrezionali e ad
alcuni gruppi armati dotati di una sufficiente struttura e organizzazione politico-militare, l'elemento del
controllo del territorio e della popolazione ivi residente, ciò a prescindere alla soggettività di tali enti.
Secondo lo Special Rapporteur Philip Alston, nel quadro dell’esame della guerra civile in Sri Lanka, laddove
un gruppo armato eserciti un controllo significativo su un territorio o sulla popolazione e abbia una struttura
politica identificabile, è necessario che esso rispetti i diritti umani. Agli attori non stati coinvolti sopratutto
nei conflitti armati (internazionali o interni) che abbiano un’articolata struttura organizzativa di natura
politica e militare è possibile applicare una parte del regime giuridico internazionale in materia di diritti
umani. Appare anzitutto pacifico che ad essi possano applicarsi le norme di jus cogens in materia di diritti
umani. In questo senso, la Commission of Inquiry on the SyrianArab Republic, istituita dal citato Human
RightsCouncil per indagare sulle violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale minatorio commesse
dalle varie parti in conflitto sul territorio siriano, ha rilevato che come minimo, gli Stati, gli individui, e gli
attori non statali (inclusi i gruppi armati) devono rispettare le norme di ius cogens. La distinzione fra
movimenti di liberazione nazionali e sugli insorti è data dalla durata molto più ampia sotto il profilo
temporale e lo scopo di liberare il territorio nazionale da una dominazione coloniale, un’occupazione
straniera o un regime di natura razziale nel caso di liberazione nazionale. Il movimento di liberazione non è
solo destinatario di obblighi ma anche di diritti stabiliti da norme internazionali, quali il principio di
autodeterminazione dei popoli. Riguardo gli insorti, la titolarità del principio di autodeterminazione dei
popoli spetta al “popolo insurrezionale” nella misura in cui esso sia effettivamente individuabile, e può
essere fatto valere tanto nei confronti del governo al potere quanto verso il governo insurrezionale. Lo
stesso vale anche per i movimenti insurrezionali di natura terroristica, come l’ISIS, che pare aver esercitato
un potere quasi sovrano in territori formalmente appartenenti a Iraq e Siria, giungendo a qualificarsi come
“califfato” il 29/06/2014 con la finalità di assumere il potere in più stati..

3.Una parte della dottrina sostiene che l’individuo abbia ormai acquisito la personalità giuridica, mentre
un’altra parte rimane dell’opinione tradizionale secondo cui l’individuo continui ad essere soltanto
beneficiario di norme internazionali indirizzate unicamente agli Stati o a OI. Gli individui partecipando, pur
indirettamente, alla formazione di alcune norme internazionali per affermare le proprie posizioni e idee
circa il contenuto delle regole internazionali adottate nel quadro delle suddette conferenze, e partecipano
altresì alla funzione di accertamento del diritto internazionale attraverso la presentazione di ricorsi oistanze
a corti internazionali. Certi sistemi, come quello della CEDU, permettono la presentazione automatica di
ricorsi da parte di individui a partire dal momento della ratifica del trattato. Le persone fisiche sono
direttamente destinatarie della normativa in materia di crimini internazionali che permette ai tribunali
internazionali (anche quelli di natura temporanea) di processare individui accusati di genocidio, crimini di
guerra e crimini contro l’umanità. In qualche misura, anche gli atti obbligatori adottati da OI e aventi quali
destinatari anche attori non statali, quali le smart sanctions poste in essere dal Consiglio di Sicurezza
dell’ONU nei confronti di persone giuridiche o fisiche, sono indicativi della progresso rilevanza assunta sul
piano internazionale degli individui.

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

4. Le minoranze e le popolazioni indigene sono titolari del diritto di autodeterminazione dei popoli (interna),
che costituisce la garanzia fondamentale e il parametro giuridico di riferimento intorno al quale ruotano
tutte le altre garanzie che gli spettano. La tutela internazionale delle minoranze ha preceduto la protezione
dei diritti umani. Tale fenomeno, con particolare riferimento alle minoranze religiose risale al XVI secolo, con
la conclusione di diversi trattati internazionali, in prevalenza bilaterali, che miravano a prevenire guerre fra
stati, le quali erano motivate da esigenze di tutela dei membri di queste minoranze .in Europa può citarsi il
trattato di Cavour fra Emanuele Filiberto di Savoia e i Valdesi del 1661(in seguito alla riforma luterana) Gli
strumenti giuridici applicabili alle minoranze riconoscono facoltà e diritti ai membri delle minoranze e solo
in misura limitata alle minoranze in quanto tali, anche data la difficoltà di far valere i diritti collettivi
riconosciuti alle minoranze . A partire dal secondo dopoguerra, la protezione dei gruppi minoritari è stata
progressivamente assorbita nel contesto normativo più ampio dei diritti umani, come stabilito dall’articolo 1
della Convenzione quadro del 1995 sulla protezione delle minoranze nazionali elaborata dal Consiglio
d’Europa. Nel Caso Molla Sali c. Grecia del 2018, la Corte EDU ha affermato il principio in base al quale
l’applicazione di alcune regole contenute nella Sharia erano in conflitto con il principio di non
discriminazione e il principio che consente agli appartenenti di una minoranza di rinunciare ad avvalersi del
regime normativo previsto a tutela delle minoranze. Riguardo la difficolta a far valere i diritti delle
minoranze, questa è data anche dalla necessità da parte dei gruppi minoritari di designare organi
rappresentativi competenti per far valere i loro diritti. Ricordando il requisito di status di vittima per
ricevibilità dei ricorsi, la violazione deve essere stata commessa nei confronti di specifici individui
appartenenti alla minoranza, come affermato dalla Corte EDU nel 2000 nel caso Noack c. Germania. Gli
obblighi positivi degli stati risultano essenziali per garantire una tutela effettiva dei gruppi minoritari e
indigeni. La minoranza è necessariamente territoriale, nel senso che un medesimo gruppo può essere
considerato minoranza all’interno di un certo Stato, ma non raggiungere le caratteristiche proprie della
minoranza in un altro Stato laddove manchino i requisiti della coesione e della solidarietà necessari per
rivendicare la tutela della propria identità culturale, etnica, linguistica e religiosa. Insieme al principio di
autodeterminazione e quello di non discriminazione, rileva anche il principio che ne vieta l’assimilazione
totale (cui conseguirebbe il disconoscimento delle caratteristiche peculiari delle minoranze). Gli obblighi
positivi sugli Stati includono il rispetto dell’identità e della diversità culturale delle minoranze, l’uso della
lingua minoritaria. Lo Stato può riservare un trattamento differenziato e più favorevole alle minoranze a
patto che questo trattamento sia giustificato da ragioni obiettive (art. 6 Costituzione: minoranze
linguistiche). La tutela per i popoli indigeni appare più limitata, con eccezione delle Costituzioni degli Stati
nei quali si trovano ampie popolazioni indigene (Sud e Centro America). Il regime giuridico stabilito a favore
delle popolazioni indigene appare maggiormente orientato a valorizzare i profili collettivi dei diritti che
vengono in rilievo. Lo strumento giuridico universale di natura obbligatoria più importante ai fini della tutela
dei popoli indigeni è costituito dalla Convenzione del 27 giugno 1989 n.169 elaborata nel quadro
dell’Organizzazione internazionale del lavoro. La Convenzione OIL pone una distinzione fra popoli tribali, i
quali si distinguono dalle altre componenti della comunità nazionale per le condizioni sociali culturali ed
economiche e vivono totalmente o prevalentemente in base ai loro usi e tradizioni particolari in Stati
indipendenti, e i popoli indigeni, i quali, sempre all’interno di Stati indipendenti, discendono dalle
popolazioni che abitavano in suddetti Paesi (o alcune parti di questi territori in periodi precedenti alla loro
colonizzazione, conquista o stato attuale). Ai fini dell’individuazione di un popolo indigeno o tribale, la
Convenzione recepisce il principio della “autoidentificazione” dei medesimi popoli indigeni in quanto tali.
Rilevante, seppur non obbligatoria anche la Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni, adottata nel 2007
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Vi è l’obbligo degli Stati poi di tener contro del particolare
modus vivendi dei popoli indigeni per quanto concerne il sistema penale di espressione dei reati commessi
dai propri membri, sempre che esso sia compatibile con i principi fondamentali del sistema giuridico

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

nazionale e con i diritti umani internazionali. La Convenzione dedica poi numerose previsioni alla protezione
di alcuni specifici diritti dei popoli indigeni, quali i diritti sulle terre da esse abitate (art. 13-19), il diritto alla
proprietà o all’uso esclusivo di un dato territorio in considerazione del carattere funzionale fra il
mantenimento dell’identità culturale e religiosa delle comunità indigene e il loro territorio ancestrale.
Questa specifica connessione è evidenziata dall’articolo 13 della Convenzione OIL ed è stata valorizzata dalla
giurisprudenza della Corte Interamericana e da vari tribunali nazionali.

5.Le imprese multinazionali sono quegli enti che operano in più Stati, di regola attraverso società aventi
personalità giuridica distinta dalla società madre, ma da essa controllate con modalità e intensità diverse,
generalmente in base a un controllo di tipo azionario o amministrativo (approvazione del bilancio, nomina
organi direttivi). Per questo motivo, le società madre e le società controllate costituiscono un unicum sotto il
profilo economico. A livello nazionale, le singole società operanti sul territorio sono tenute a rispettare le
norme interne di quello Stato, e in caso di violazione di tali norme da parte della società controllata (ma
anche della società madre se si dimostri che essa eserciti un controllo particolarmente intenso sulla società
collegata) può sussistere una responsabilità penale o civile dei singoli individui che hanno commesso il fatto
lesivo o della società quale soggetto giuridico autonomo. Con il decreto legislativo dell’8 giugno 2001 n.231,
è stato introdotto nel nostro ordinamento la responsabilità di reato delle persone giuridiche, a condizione
che soggetti apicali o subordinati abbiano commesso, nell’interesse o a vantaggio dell’ente, uno dei reati
presupposto e sempre che sussista l’imputazione soggettiva. Sono previste sia sanzione pecuniarie che
sanzioni a carattere interdittivo. Sul piano internazionale, il tentativo di regolamentare le attività delle
imprese multinazionali si è concretizzato sopratutto nell’adozione di diversi codici di condotta, quali le
Guidelines del 1992 della Banca Mondiale, le Guide linesdell’OCSE, e la dichiarazione tripartita dell’OIL del
1977. Tra gli strumenti più recenti spiccano le Norms on the Transnational Corporations and other business
enterprises with regards to human rights adottato nel 2013 dalla Sotto-Commissione dei diritti umani.
Esistono anche iniziative autonome da parte delle stesse imprese di autoregolazione o di adesione
volontaria a regole e principi esterni, quale la c.d responsabilità sociale d’impresa, che consiste
nell’adesione da parte delle imprese multinazionale a pratiche e condotte virtuose nel rispetto dei principi
essenziali in materia di diritti umani.. Il Global Compact dell’ONU (1999) costituisce invece un network al
quale aderiscono Stati, OI, ONG, imprese multinazionali ed esponenti della società civile.In materia di
responsabilità per le condanne lesive delle imprese multinazionali, essa può essere accertata laddove tali
società operino quali organi de iure (imprese controllate) o de facto (istruzione, direzione, e controllo) da
parte di uno Stato nei confronti di persone giuridiche o fisiche. Inoltre, sia lo Stato nazionale dell’impresa
che gli Stati in cui essa operano possono essere dichiarati responsabili per non aver prevenuto e represso le
attività lesive sulla base del principio di due diligence. La normativa in tema di crimini internazionale può
essere applicata in caso di commissione di crimini commessi da singoli individui o nel caso di costituzione di
una joint criminal enterprise attraverso la quale un gruppo di individui, condividendo un determinato
disegno criminoso, commettono uno o più crimini internazionali. Il tribunale per l’ex Iugoslavia, nel caso
Tadic, ha affermato il principio secondo il cui non è indispensabile che i membri dell’associazione criminale
abbiano materialmente partecipato alla commissione dei crimini internazionali, essendo sufficiente che si
verifichi che essi facessero parte dell’associazione criminale e ne condividessero gli scopi comuni.

6.Le ONG, che non possiedono personalità giuridica internazionale, esercitano attività di rilievo in materia di
formazione di norme internazionali, o di modifica di quelle esistenti, effettuando un’opera di pressione nei
confronti di Stati e di OI, presso le quali godono spesso dello status di osservatore che consente loro di
partecipare (pur in forma limitata) alle attività delle organizzazioni. La funzione più significativa svolta delle
ONG attiene alla denuncia nei confronti degli Stati per le gravi violazioni dei diritti umani da esse commesse,
violazioni che possono essere isolate (denuncia di singole violazioni) oppure sistematiche (una serie di

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

violazioni di vari diritti). In questo secondo caso non mancano, da parte delle ONG più strutturate (Amnesty
International, Human rightswatch) relazioni o rapporti annuali sullo stato complessivo del rispetto dei diritti
umani in un determinato Paese, che per un verso hanno un valore informativo di natura generale, e per
l’altro verso vengono richiamati anche a livello giudiziario allo scopo di rafforzare le argomentazioni degli
organi di controllo. Alcuni sistemi pattizi attribuiscono poi alle ONG la funzione di amicus curiae, al fine di
acquisire da tali enti informazioni ed elementi utili alla risoluzione delle controversie (ma non ne diventano
parte). La Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli invece consente a ONG particolarmente
qualificate e dotate dello status consultivo davanti alla Commissione africana di presentare ricorsi alla Corte,
a condizione che lo Stato convenuto abbia effettuato una previa dichiarazione di accettazione della
competenza della Corte a ricevere siffatta tipologia di ricorsi. Lo stesso accade presso il Consiglio d’Europa
riguardo l’inosservanza delle norme della Carta sociale.

Responsabilità per violazione dei diritti umani:

1.Lo sviluppo del regime della responsabilità dello Stato per violazioni dei diritti umani ha dato luogo
all’eliminazione dell’elemento del danno di natura interestatale, in quanto i destinatari effettivi delle norme
sui diritti umani sono gli individui. Mentre le norme internazionali proteggono generalmente interessi statali
e assumono pertanto un carattere sinallagmatico, ponendo quindi obblighi di carattere reciproco fra gli
Stati, le norme sui diritti umani si prefiggono invece l'obbligo di proteggere valori assoluti e universalmente
riconosciuti a livello internazionale, prevedendo spesso obblighi erga omnes, assunti quindi da un
determinato stato nei confronti dell'intera comunità internazionale o di una pluralità di stati specificamente
individuati. Come affermato dalla Corte internazionale di giustizia nel parere consultivo del 28 maggio 1951,
sulle "Riserve alla convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio", la convenzione
del 1948 è stata adottata per motivi puramente umanitari e di civilizzazione. In modo ancora più specifico, la
Corte ha affermato, nel caso “Barcellona Traction", che da un lato gli obblighi erga omnes interessano tutti
gli Stati, e dall'altro lato sotto il profilo del loro fondamento giuridico, ha precisato che alcuni di questi
obblighi siano contenuti in norme di diritto internazionale generale e di jus cogens.

2.La violazione delle norme internazionali che pongono obblighi erga omnes implica un regime di
responsabilità aggravata a livello internazionale, che trova fondamento nel progetto di articoli approvato dal
2001 dalla Commissione del diritto internazionale sulla responsabilità dello Stato, riproduttivo del diritto
internazionale generale. Il suddetto regime di responsabilità concerne innanzitutto il profilo relativo ai
soggetti che possono invocare l’eventuale violazione delle norme erga omnes: che per le norme
consuetudinarie coincidono con l’intera comunità internazionale, mentre per le norme pattizie coincide con
le parti del trattato. Rispettivamente tutti gli Stati della comunità internazionale o quelli parte dei trattati sui
diritti umani (a seconda quindi del carattere consuetudinario/pattizio della norma era omnes) possono
richiedere allo Stato autore delle violazioni la cessazione della condotta illecita nonché assicurazione e
garanzia circa la non ripetizione. La medesima regola prevede che gli omnes possano altresì chiedere la
riparazione del danno inferto alle vittime delle violazioni (quindi uno stato non leso può chiedere
riparazione a favore dello steso leso). Una delle conseguenze più significative della violazione di obblighi
erga omnes di carattere pattizio risiede nella possibilità per ogni parte contraente di invocare la
responsabilità di uno Stato parte del trattato per la violazione delle norme convenzionali. Inoltre, in caso di
violazione grave di norme cogenti gli Stati hanno l’obbligo di non riconoscere la situazione giuridica
costituitasi per effetto di tale violazione e l’obbligo di non prestare aiuto o assistenza per il mantenimento di
questa situazione.

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

3.Riguardo la possibilità per gli individui di invocare la responsabilità dello Stato per le violazioni dei diritti
umani e richiedere una riparazione per i danni subiti al di fuori di specifici sistemi giuridici di natura pattizia,
essa è limitata nella prassi alle gravi violazioni dei diritti umani e nel caso di crimini internazionali nel diritto
internazionale umanitario. Indicativa in questo senso è la risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU
adottata nel 2005 sui Basic principles and guide lines relativa al diritto di singoli individui, o gruppi di essi,
alla riparazione per le gravi violazioni dei diritti umani e dello jus in bello. Essa, che non è obbligatoria,
raccomanda agli Stati di rispettare le norme contenute nelle varie convenzioni. La risoluzione richiama una
serie di obblighi positivi quali quello di predisporre strumenti legislativi, amministrativi e di controllo che
garantiscano il rispetto del diritto individuale alla riparazione. Inoltre, la risoluzione prevede che, nei casi in
cui le violazioni da parte dello Stato configurino crimini internazionali, sia necessario applicare il principio
della giurisdizione penale universale. Si invitano quindi gli Stati a rispettare il diritto funzionale di accesso
alla giustizia al fine di rendere effettiva la possibilità per l’individuo di richiedere la riparazione per le
violazioni subite, che deve consistere in un risarcimento “adequate, effective and prompt”. Sempre nel
quadro degli strumenti di soft law va citata la risoluzione del 30 Agosto 2015 adottata dall’Istituto di diritto
internazionale nella sessione di Tallin e relativa alla competenza universale in materia civile con riferimento
a istanze di riparazione per crimini internazionali. In essa si prevede, a favore delle vittime di crimini
internazionali, il diritto di accesso alla giurisdizione statale allo scopo di richiedere e ottenere una
riparazione adeguata ed effettiva, a condizione che altri Stati non vantino collegamenti più stretti con la
controversia in questione, tenendo contro dell’identità delle vittime e degli accusati nonché di altre
circostante pertinenti, ma nella misura in cui tali mezzi alternativi di soluzioni della controversia risultino
comunque conformi al principio dell’equo processo e siano altresì idonei a garantire una riparazione
appropriata ed effettiva per le vittime dei crimini. Il diritto in questione è stato di recente affermato dalla
Corte EDU nel caso Nait-Liman in tema di accesso ai tribunali di uno Stato parte della CEDU allo scopo di
richiedere la riparazione per la violazione del divieto di tortura commesso da organi di Stati stranieri
all’estero. Nella sentenza si afferma il carattere consuetudinario della norma che contiene il diritto
individuale alla riparazione per gravi violazioni dei diritti umani.

4. A fronte della violazione di obblighi erga omnes da parte di uno Stato, è noto che lo Stato direttamente
leso possa adottare contromisure pacifiche nei confronti dello Stato autore della violazione. E’ da escludere
che lo Stato possa adottare misure implicanti l’uso della forza in quanto ciò contrasterebbe con la norma di
juscogens che lo vieta. Il progetto di articoli della Commissione del diritto internazionale sulla responsabilità
degli Stati esclude che lo stati non direttamente leso possa anche solo ricorrere a contromisure
pacifiche(come quelle di carattere economico) verso lo stato responsabile, mentre una parte della dottrina
lo ammette (risoluzione 27 Agosto 2005 dell'Istittuto di diritto internazionale) si pensi al fatto che le sanzioni
economiche adottate dal consiglio di sicurezza nei confronti di Gheddafi fossero state anticipate da sanzioni
unilaterali approvate da alcuni stati occidental, si pensi al caso del gasdotto siberiano le cui sanzioni
impartite alla Russia si sono tradotte in misure individuali nei confronti di esponenti del regime governativo
al potere. Al momento è da escludere l’obbligo per gli Stati non direttamente lesi di intervenire con
contromisure pacifiche, mentre non è escluso che sussista la facoltà per essi, a condizione che lo Stato
responsabile si sia macchiato di gravissime violazioni dei diritti umani configuranti l’inosservanza di norme
imperative del diritto internazionale.

5.L’intervento umanitario(di recente a tale istituto si è accostata la dottrina della “responsability to protect”)
è l’intervento effettuato da uno o più Stati in territorio straniero allo scopo di proteggere l’intera
popolazione civile, o una sua parte delimitata sotto il profilo territoriale, etnico o religioso, a seguito delle
gravi violazioni dei diritti umani e della commissione di crimini internazionali effettuate dal governo al
potere. Appare evidente che il ricorso all’intervento umanitario implica l’uso della forza da parte degli stati

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)


lOMoARcPSD|35528346

intervenienti. La dottrina favorevole all’esistenza di una norma consuetudinaria che preveda il ricorso
all’intervento umanitario tende a limitare l’uso della forza come estrema ratio alla quale fare ricorso in tema
di fallimento delle misure che non la implicano e soltanto alla luce di gravissimi violazioni dei diritti umani,
come nel caso del Kosovo. Nel Protocollo del 2002 dell’Unione Africana relativo all’istituzione del Consiglio
di Sicurezza, si stabilisce il principio dell’intervento dell’UA sul territorio di uno stato membro
dell’Organizzazione in conformità a una decisione dell’Assemblea e nell’ipotesi di commissione di crimini di
guerra, genocidio, e crimini contro l’umanità. Nella prassi recente, l’intervento armato più significativo è
stato quello del massiccio bombardamento aereo effettuato nel 1999 nei confronti della Serbia e motivato
dalle grave violazioni dei diritti umani commesse dal regime serbo nei confronti della popolazione kosovara
di origine albanese. Il governo del Regno Unito ha definito il contenuto e i limiti dell’intervento umanitario
anche in relazione a possibili interventi successivi. Questa posizione è stata infatti ribadita con riferimento
all’intervento condotto nel 2018 insieme a Francia e Stati Uniti nei confronti del Regime di Assad, motivato
dal presunto uso di armi chimiche nei confronti della popolazione civile siriana insorta. Le condizioni
cumulative che secondo il Regno Unito giustificano il ricorso alla forza su base eccezionale a titolo di
intervento umanitario e allo scopo dichiarato di alleviare l’enorme sofferenza umana sono, in primo luogo,
la prova convincente di una condizione umanitaria bisognosa di aiuto, l’inesistenza di mezzi alternativi
all’uso della forza allo scopo di tutelare il diritto alla popolazione civile e laproporzionalità e necessità
dell’uso della forza. La Francia e gli Stati Uniti hanno invocato anche altri motivi di giustificazione, quali la
tutela della sicurezza nazionale, l’esigenza di prevenire la diffusione e l’uso futuro di armi chimiche, e la
necessità di reagire con un adeguato uso della forza all’uso di armi chimiche contro la popolazione. Una
certa apertura a favore dell’intervento umanitario è ravvisabile nel rapporto finale del 2004 adottato dal
High Panel on Threats, Challenges and Change, istituito dal Segretario Generale dell’ONU, in cui si accerta
l’esistenza di una norma emergente che permetterebbe al Consiglio di Sicurezza di autorizzare un’azione
coercitiva per porre fine alla commissione di un genocidio o di altre gravi violazioni dei dirti umani e del
diritto umanitario internazionale nei casi in cui il regime governativo si sia mostrato incapace o non lo abbia
voluto prevenire. Tuttavia, non è al momento ravvisabile né una generalizzata prassi né opinioni juris ac
necessitatis a favore dell’intervento umanitario mentre una posizione contraria è stata assunta dal Gruppo
dei 77 nella 2000 Declaration of the South Summit. La responsabilità di proteggere spetta anzitutto al
sovrano territoriale, come affermato dal Consiglio di Sicurezza durante il conflitto armato in Libia. A fronte
della violazione dell’obbligo dello Stato territoriale di proteggere la popolazione civile, la dottrina della
responsabilità di proteggere prevede prima il ricorso agli strumenti diplomatici e pacifici per proteggere la
popolazione minacciata, e infine l’uso della forza, che deve essere tuttavia autorizzato dal Consiglio di
Sicurezza (capi. VII Carta ONU). Questi passi sono contenuti nella risoluzione approvata dal World Summit
Outcome del 2005.

Scaricato da salvatore cascella (sasycascella29@gmail.com)

Potrebbero piacerti anche