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Diritto penale

Legittimazione e compiti del diritto penale

Il codice penale consta solo di una parte, tutto il resto è la normativa complementare, che
contiene la disciplina di materie molto diverse tra loro, che però sono diventate importanti
nella vita sociale. Dal 1930 la vita sociale è molto cambiata, si è arricchita di aspetti quali
l’ordinamento penitenziario, la prostituzione, la criminalità organizzata, le armi, l’interruzione
di gravidanza, ecc.

Uno dei principali problemi legati al diritto penale è l'ipertrofia del diritto penale (ipertrofia:
qualcosa che è cresciuto troppo). Nel corso dei decenni infatti la materia penale si è molto
arricchita, per questo ci sono tante norme complementari. Troppo spesso quando si
interviene in una nuova materia, si crea l’esigenza di tutela determinati beni giuridici e di
descrivere determinati comportamenti sgraditi, il legislatore interviene quindi con la tutela
penale.
Da questo problema ne emergono altri a catena, come ad esempio la scelta della pena e gli
effetti di questa: la pena detentiva carceraria è ancora oggi la sanzione che viene
maggiormente utilizzata. E’ chiaro che se il diritto penale è ipertrofico e si usa sempre il
carcere, esso diventa un luogo affollatissimo e già nell’Ottocento si diceva che se si ricorre
alla sanzione penale troppo spesso e alla pena carceraria, ciò comporta come conseguenza
un deficit sul piano dell’effettività.
Da parte del cittadino medio c’è una grossa delusione: non c’è una risposta adeguata e in
tempi rapidi (es. un soggetto che vede una persona imputata di reato grave magari vede la
pena di molto ridotta per patteggiamento o perché sceglie il rito abbreviato - procedura
abbreviata avendo una pena minore). Anche nel diritto penale sostanziale sono stati previsti
una serie di istituti che servono a tener lontane dal carcere le persone entro certe condizioni.
La sanzione penale richiede da parte del legislatore una ponderazione. Il bisogno di
affettività e l’ineffettività che spesso caratterizza il diritto penale sta nell’incrocio di questi
problemi.
Es. di ineffettività di legislazione simbolica (scelta della sanzione penale per venire incontro
alla percezione di sicurezza che ha una parte della popolazione) art. 589 bis (vuol dire che
c’era già qualcosa prima) omicidio stradale per colpa = omicidio colposo con violazione di
norme sulla disciplina della circolazione stradale, seguono altri commi che spiegano altri
contesti. Nessuna di queste situazioni però non era già precedentemente punibile.
Scegliere una pena adeguata, puntare su pene interditive, puntare sulla prevenzione usando
strumenti adeguati allo scopo: tutto questo farebbe della situazione una situazione
controllabile.

Il diritto penale si divide in diritto penale sostanziale e processuale.


Il diritto penale è la materia che descrive le fattispecie di reato e prevede una pena alla
commissione di un reato. La pena o sanzione penale è il carattere distintivo del diritto
penale.
Il reato è un fatto vietato dalla legge, alla cui commissione viene ricondotta una pena: è
sbagliatissima la definizione REATO PENALE, perché il reato è solo penale. Si può dire
reato o fatto penalmente rilevante.
Ciò che distingue il reato dalle altre situazioni sgradevoli è la presenza della pena. Per
capire se siamo di fronte a un reato o no, è necessario vedere la fattispecie e la sanzione: le
sanzioni sono tipiche, quindi stabilite dal legislatore.
Il diritto penale si fonda sul principio di legalità, cioè le fattispecie e le pene devono essere
previste dalla legge. Il codice è diviso in tre libri: 1. Dei reati in generale; 2. Dei delitti in
particolare; 3. Delle contravvenzioni in particolare. Al secondo titolo del primo libro troviamo
le pene principali stabilite per i delitti (ergastolo, reclusione, multa) e per le contravvenzioni
(arresto, ammenda) > art. 17
Poi ci sono le pene accessorie descritte dall’art. 19 per i delitti (interdizione dai pubblici uffici,
interdizione da una professione o da un’arte, interdizione legale, interdizione dagli uffici
direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, incapacità di contrattare con la pubblica
amministrazione, estinzione del rapporto d’impiego o di lavoro, decadenza o sospensione
dall’esercizio della responsabilità genitoriale) e per le contravvenzioni (sospensione
dall’esercizio di una professione o di un’arte, sospensione dagli uffici direttivi delle persone
giuridiche e delle imprese). Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la
pubblicazione della sentenza penale di condanna.
Nell’art. 18 troviamo la denominazione e la classificazione delle pene principali: sotto la
denominazione di pene detentive o restrittive della libertà personale la legge comprende
l’ergastolo, la reclusione e l’arresto. Sotto la denominazione di pene pecuniarie la legge
comprende la multa e l’ammenda.

La persona offesa è la persona titolare del bene giuridico, la persona che subisce. Nel caso
di un reato contro la persona, cerchiamo la persona offesa. In altri casi ci saranno persone
che non necessariamente ricevono un’offesa alla propria persona, ma in modo indiretto.
Questa branca del diritto risulta particolarmente gravosa anche per chi subisce la pena, che
principalmente subisce la pena detentiva, in cui vede compressa la sua libertà personale.
Il diritto penale è strettamente collegato al potere di sovranità dello Stato, infatti viene quasi
spontaneo pensare che tutto ciò si ricolleghi al patto che sta alla base della società: il
contratto sociale a cui pensava Rousseau. Si affida la protezione dei propri beni allo Stato,
comprimendo la libertà di poter fare qualunque cosa.

Il diritto penale vero e proprio coincide con il diritto penale moderno, che nasce con le parole
di Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene), studioso appartenente a un gruppo di
intellettuali che si riuniva a Milano nel Settecento, considerati strani perché pensavano in
maniera diversa.
Questo gruppo si è fatto ritrarre con una stufa, a quel tempo considerata segno di modernità
per il suo nuovo modo di scaldare le case.
A questo punto è bene porsi problemi riguardanti i fondamenti del diritto penale e che potere
ha lo Stato. La storia del diritto penale moderno è segnata da una svolta epocale: il
passaggio dall’equazione reato = peccato all’equazione reato = fatto dannoso per la società,
cioè la repressione dei soli comportamenti che mettono in pericolo o ledono beni individuali
o collettivi. La svolta viene preparata dall’opera pionieristica dei giusnaturalisti, che
caldeggiano uno Stato secolarizzato guardiano della pace esteriore, ma è con l'Illuminismo
che la separazione si consolida con il primato dell’oggettivo sul soggettivo. In questo senso
Beccaria rileva che, per affermare e graduare la responsabilità dell’agente, “bisogna
distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggera e questa dalla perfetta
innocenza, ma la vera misura dei delitti è il danno alla nazione”.
Le pene sono sempre esistite, ma avevano un particolare significato: inizialmente non ci si
poneva il problema della finalità e della proporzione, quindi erano molto diverse e con una
certa variante di efferatezza, non esistevano infatti dei veri e propri codici.
Le pene venivano decise a caso (per i nobili, per le persone che non lo erano) e
consistevano nella soppressione pura e semplice della persona che aveva sbagliato
(soppressione della vita stessa o schiavitù della persona). Esistevano anche pene che
consistevano nel lavoro, quali la conduzione delle galere o la condanna ai lavori forzati,
pene strazianti che avevano lo scopo di far soffrire il presunto reo.
Alla pena veniva data una grande spettacolarizzazione: veniva sempre eseguita in pubblico
perché era uno spettacolo fondamentale, in questo modo il sovrano faceva vedere il suo
potere es. marcia dei forzati in catene, che molto spesso erano persone che non erano state
condannate nel Paese in cui avrebbero poi espiato la pena, ma venivano venduti a un altro
Stato che ne aveva bisogno).
L’unica vaga idea di razionalità, che però non corrisponde alla nostra, era quella della
bilancia, cioè l’idea di bilanciare il male che fosse stato inferto dall’azione involuttuosa.
Quindi che cosa legittima il ricorso dello Stato all’arma della pena? La risposta a questo
interrogativo viene offerta dalle teorie della pena, che possono ricondursi a tre filoni
fondamentali: la teoria retributiva, la teoria della prevenzione generale e la teoria della
prevenzione speciale o individuale.
Sia Kant che Hegel erano fieri sostenitori della pena retributiva: ritenevano infatti che la pena
si giustificasse da sé, si punisce perché è giusto, non perché la pena sia utile in vista di una
qualsivoglia utilità (sostenevano quindi la teoria assoluta della pena, svincolata cioè dalla
considerazione di un qualsivoglia fine da raggiungere): secondo questa teoria, la pena
statuale si legittima come un male inflitto dallo Stato per compensare il male che un uomo
ha inflitto a un altro uomo o alla società (es. nella sua forma più primitiva, legge del taglione).
L’idea della retribuzione va avanti e continua a serpeggiare anche in pensatori moderni.
Cesare Beccaria però la pensava in maniera molto diversa: il potere dello Stato nei confronti
dell’individuo può essere infatti molto pericoloso e il diritto penale non può quindi giustificarsi
solo per il fatto di esistere, ci vogliono delle regole.
Il diritto penale moderno nasce come un sistema di regole perché bisogna tendere ad un
certo risultato e Beccaria fa delle considerazioni molto importanti su quale sia il fine politico
delle pene e sulla tortura: cosa si ottiene con la tortura? Secondo lui questo abuso non
dovrebbe essere tollerato nel diciottesimo secolo.
Purtroppo la tortura è ancora oggi ampiamente praticata in troppi Paesi del mondo, anche in
quelli che si annoverano tra i Paesi civili. Da qualche anno in Italia abbiamo il reato di
tortura, ma è stato introdotto solo dopo tanto tempo.
Ma quindi quali devono essere le finalità della pena? Beccaria riflette anche facendo
riferimento all’idea della proporzione tra misfatto e pena, che deve essere quanto più
possibile conforme alla natura del delitto.
E’ importante dunque scegliere le pene in un certo modo, perché deve facilitare il contrasto
di quelle che sono le motivazioni del reato.

“Il vero fine della pena è duplice: impedire al colpevole di compiere altri crimini e
dissuadere gli altri dal farne di simili. A questo scopo bisogna infliggere pene che,
oltre a esser proporzionate al delitto commesso, abbiano una reale funzione
deterrente, senza tormentare inutilmente il «corpo del reo».”
Le considerazioni sugli aspetti preventivi della pena, che stanno alla base della teoria
moderna della pena sono stati riprese più tardi dagli studiosi dell’Ottocento, con la necessità
di trovare delle finalità alla pena.
L’art. 27 Cost. terzo comma fa riferimento alla rieducazione del condannato (“le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato”), anche se Cesare Beccaria non parlava proprio di
rieducazione, ma di controspinta al reato.
Quando si sceglie una certa pena, bisogna tenere presente che su questo momento devono
giocarsi determinate chance preventive. Beccaria scrive che il fine della pena non è altro che
d'impedire il reo dal far nuovi danni ai cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali; è
quindi necessario usare le pene in modo che il reo non faccia altri danni (prevenzione
speciale, perché riferita al soggetto che ha realizzato il fatto di reato) e prevenzione nei
confronti di tutti gli altri consociati. La minaccia della pena già di per sé quindi costituisce uno
strumento di prevenzione generale. Le teorie preventive assegnano dunque uno scopo alla
pena e proprio per questo vengono designate come relative, cioè incentrate sugli effetti della
pena. In particolare la teoria di prevenzione generale legittima la pena come mezzo per
orientare le scelte di comportamento della generalità dei suoi destinatari, facendo leva sugli
effetti di intimidazione correlati al contenuto afflittivo della pena, alla quale si assegna una
funzione di controspinta psicologica, tale da neutralizzare le spinte a delinquere dei
consociati. Nel lungo periodo, l’effetto di prevenzione generale viene perseguito inoltre
attraverso l’azione pedagogica della norma penale: si confida cioè che col tempo si crei nella
collettività una spontanea adesione ai valori espressi dalla legge penale.
La teoria di prevenzione speciale concepisce invece la pena come strumento per prevenire
che l’autore del reato commetta in futuro altri reati. Questa funzione può essere assolta in tre
forme: risocializzazione (aiuto al condannato a inserirsi o reinserirsi nella società nel rispetto
della legge); intimidazione (rispetto alle persone per le quali la pena non può essere
strumento di risocializzazione); neutralizzazione (quando il destinatario della pena non
appaia suscettibile né di risocializzazione, né di intimidazione, l’unico obiettivo che la pena
può perseguire nei suoi confronti è renderlo inoffensivo).
La prevenzione generale ha anche una sorta di declinazione in positivo: la minaccia della
pena presenta il volto “cattivo” dell’ordinamento, ma in un certo senso è anche positiva
perché è quella per cui si riconduce alla prevenzione della sanzione il significato di porre
l’attenzione sull’importanza che ha il bene che dobbiamo tutelare (ci si rivolge ai consociati
per far capire che certi comportamenti minacciano un certo bene). L’effetto di prevenzione
generale perseguito dal legislatore attraverso la minaccia della pena incontra, d’altra parte,
un limite nella funzione di prevenzione speciale e più precisamente di rieducazione, che la
Costituzione (art. 27 comma 3) assegna alla pena. Il tipo e la misura della pena minacciata
dal legislatore devono essere tali da rendere possibile che successivamente, nello stadio
dell’inflizione e soprattutto in quello dell’esecuzione si realizzi un’opera di rieducazione del
condannato. Come ha sottolineato la Corte costituzionale “il privilegio di obiettivi di
prevenzione generale e di difesa sociale non può spingersi fino al punto da autorizzare il
pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione”.
Secondo Beccaria, la vita, la proprietà e l’onore non potevano non essere accompagnati da
una sanzione penale.
Es. il bene ambiente è un bene di cui il diritto penale si è occupato solo in tempi recenti.
Durante gli anni Settanta (anni dei pretori d’assalto, figura monocratica che oggi non esiste
più) si è cercato di trovare nel codice altre norme che potessero adattarsi alla situazione.
Ma prevedere pene blande non è di certo il modo per sottolineare l’importanza di un bene,
quindi le cose sono cambiate. L’ambiente è diventato un bene degno ed è una scelta
recente, avvenuta perché l’Unione Europea ha spinto in questa direzione. Una pena elevata
e consistente è dunque segno dell’attenzione del legislatore per quel bene.
Altro es. la libertà sessuale è una declinazione della libertà della persona che appare in
chiare lettere solo in tempi recenti nel codice (anni 90), art. 609 bis “chiunque con violenza
o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti
sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni”. Il legislatore prevede tre
modalità delle quali la terza non assomiglia alle precedenti, è una situazione ambigua, non
c’è violenza, minaccia, ma non c’è neanche il consenso. L’abuso di autorità è certamente
meno brutale, ma potrebbe durare nel tempo e quindi assume condizioni di gravità molto
elevate.
Per le altre modalità (trarre in inganno la persona offesa, abusare della condizione di
inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del reato) la pena prevista è la
stessa.
Con la riforma dunque sono previsti gli stessi limiti edittali (minimo e massimo della pena)
per tutte queste situazioni e il fatto che tutte queste siano parte del reato di violenza
sessuale pone l’accento sul fatto che la libertà sessuale sia diventata importante: il salto è
durato decenni.

Riassumendo, oggi la pena si ritiene che debba avere delle finalità (prevenzione generale e
particolare), che vanno accostate a diverse fasi (momento della comminatoria per la
prevenzione generale, cioè quando il reato viene previsto nella fattispecie: chi commina la
pena è il legislatore, il giudice è quello che la irroga: momento della decisione per la
prevenzione speciale, ha accertato il fatto e deve decidere qual è la pena giusta da applicare
a questo soggetto; poi c’è la fase dell’esecuzione, che può essere l’esecuzione della pena
detentiva o altre sanzioni o determinati istituti per la prevenzione speciale).
Entrambe le finalità di prevenzione non possono giocare un ruolo completamente autonomo
nel momento della commisurazione della pena. La legittimazione della pena varia a seconda
del tipo di Stato in cui si pone il problema (es. Stato totalitario si reprime come reato
qualsiasi sintomo di ribellione e conseguentemente si assegna alla pena il compito di
ottenere a qualsiasi prezzo la fedeltà alla legge e concentrando sull’intimidazione e
neutralizzazione le chances di prevenzione di nuovi reati del condannato). Per dare una
risposta nel nostro ordinamento bisognerà muovere dai lineamenti dello Stato descritti dalla
Costituzione italiana, procedendo a un esame separato dell’uso della pena da parte dei
singoli poteri dello Stato (potere legislativo: selezionare i comportamenti penalmente
rilevanti; potere giudiziario: accertare la violazione delle norme legislative e infliggere pene
adeguate al caso concreto; potere esecutivo: curare l’esecuzione delle pene inflitte dal
giudice).

Il diritto penale ha fondamentalmente la funzione di tutela dei beni giuridici, che, fulcro
dell’intervento penalistico solvono delle funzioni interne al diritto penale stesso, quali ad
esempio la funzione interpretativa (ciò serve al giudice riguardo alle domande
sull’estensione della norma).
La prevenzione generale (esplicazione nel momento della minaccia della pena) è il momento
della minaccia della pena, il volto severo della legge che si rivolge a tutti i consociati, ma
spetterà al giudice determinare in concreto la pena.
Un aspetto della prevenzione speciale (esplicazione nel momento dell’applicazione della
pena) è invece la funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.).

La secolarizzazione del diritto penale si inserisce in un più vasto movimento ideale volto alla
laicizzazione complessiva dello Stato: lo Stato teocratico cede progressivamente il passo a
uno Stato laico e liberale, fondato da uomini per scopi immanenti all’umana società e
portatore dei valori della tolleranza civile, della libertà religiosa e dell’inviolabilità della
coscienza. La secolarizzazione del diritto penale è un processo che non si realizza senza
contrasti e in modo uniforme in tutti i Paesi. In Italia, sulla scia di Beccaria e di altri grandi
illuministi, il modello liberale di diritto penale si afferma stabilmente nell’Ottocento, trovando
compiuta teorizzazione nell’opera di Francesco Carrara.
La concezione del reato che assume quale pietra angolare il fatto dannoso, e assegna a
dolo e colpa il ruolo di meri limiti alla responsabilità dell’autore del fatto, domina nella dottrina
penalistica italiana dell’Ottocento e Novecento e viene fatta propria dal legislatore sia nella
codificazione del 1889, sia in quella del 1930.
La funzione del diritto penale è quella di proteggere i beni dagli attacchi di chi delinque e in
base a questo si sceglie la conformazione del diritto penale. Sono i beni giuridici, individuali
o collettivi, il perno sul quale poggiano le singole figure di reato, mentre il ruolo del dolo,
della colpa e degli altri elementi della colpevolezza è quello di limiti alla rilevanza penale
dell’offesa ai beni tutelati. Suggello finale dell’impronta oggettivistica del nostro diritto penale
è il rango costituzionale del principio di offensività (non c’è reato senza offesa ai beni
giuridici).
Le scelte possibili sono due: diritto penale del fatto o diritto penale dell’autore.
Con il diritto penale del fatto si intende che il legislatore basa le sue scelte su una
descrizione di fatti e a quelli si riferisce per la determinazione della pena.
Con il diritto penale dell’autore è invece il legislatore che pensa che sia meglio stabilire
determinate pene in base a quella che è la personalità del singolo. Si delinea dunque un tipo
di autore e in base a questa figura si determina il tipo e la durata della pena, diventa
fondamentale non il concetto di fatto, ma quello di pericolosità sociale (questa scuola del
diritto penale è partita dagli studi del medico Cesare Lombroso, in seguito a tanti altri studi,
tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, si è giunti poi alla scuola positiva, di cui
Enrico Ferri è il maggiore esponente).
Vengono abbandonati determinati schemi, per favorire quelli che vedono come metro la
pericolosità sociale di chi aveva commesso il reato. Si afferma l’idea che la pena debba
essere utilizzata per difendere la società da persone pericolose e che la sua durata debba
essere assolutamente o relativamente indeterminata, e cioè venir meno solo col cessare
della pericolosità. In primo piano nel diritto penale dovrebbero essere posti, perciò, tipi di
persone socialmente pericolose: la pena potrebbe essere applicata in presenza di qualsiasi
sintomo di pericolosità individuale. La conseguenza è molto grave, perché a questo punto la
pena avrebbe anche potuto non essere una pena predeterminata: se lo scopo diventava la
neutralizzazione, la pena non aveva senso che fosse predeterminata anche nel massimo, in
ragione dello studio specifico che veniva fatto sulla singola persona.
Per il diritto penale del fatto è invece assolutamente necessaria la predeterminazione dei
limiti nei quali lo Stato può intervenire, si fondava sull’idea del limite, quindi del fatto e sul
principio di legalità. Secondo von Liszt: “Non chi è socialmente pericoloso, bensì solo chi ha
commesso azioni socialmente pericolose ben determinate e nettamente individuate nella
legge soggiace alla potestà punitiva dello Stato. Questo è il significato del principio nullum
crimen sine lege.”
I risvolti illiberali della scuola positiva sono evidenti: si affidano al giudice poteri
incontrollabili, in presenza di dati incerti e manipolabili.
La scuola positiva ha comunque avuto un impatto sul nostro codice: in esso sono infatti
previste anche le misure di sicurezza, cioè risposte sanzionatorie che però possono
intervenire solo sulla base di una commissione del reato e nel momento successivo a quello
in cui si è scontata la pena. Le misure di sicurezza sono il retaggio della scuola positiva,
sulla base dell’idea che anche la pericolosità sociale dovesse giocare un ruolo: sistema del
doppio binario (è un sistema per il quale si prevede, accanto e in aggiunta alla pena
tradizionale inflitta sul presupposto della colpevolezza, una misura di sicurezza, vale
a dire una misura fondata sulla pericolosità sociale del reo e finalizzata alla sua
risocializzazione).
Art. 49 Reato supposto erroneamente e reato impossibile: non è punibile chi commette un
fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato. La
punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza
dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso. … Nel caso
indicato nel primo capoverso, il giudice può ordinare che l’imputato prosciolto sia
sottoposto a misura di sicurezza.
Art. 115 Accordo per commettere un reato. Istigazione: salvo che la legge disponga
altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato
e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo.
Nondimeno, nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare
una misura di sicurezza. Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a
commettere un reato, se l’istigazione è stata accolta, ma il reato non è stato
commesso. Qualora l’istigazione non sia stata accolta e si sia trattato di istigazione a
un delitto, l’istigatore può essere sottoposto a misura di sicurezza.

La pena si applica solo a chi ha commesso un reato previsto dalla legge, la pericolosità
sociale sta invece alla base delle misure di sicurezza, ma solo quando si ritiene che il
soggetto sia socialmente un pericolo (art. 202 “Le misure di sicurezza possono essere
applicate soltanto alle persone socialmente pericolose, che abbiano commesso un
fatto preveduto dalla legge come reato. La legge penale determina i casi nei quali a
persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di sicurezza per un
fatto non preveduto dalla legge come reato” Nota: una misura di sicurezza può quindi
trovare applicazione solo al ricorrere di due condizioni: la commissione di un fatto
previsto dalla legge come reato (presupposto oggettivo) e la pericolosità sociale e
criminale del soggetto (presupposto soggettivo). Quest'ultimo è condizione
essenziale per l'applicazione e il mantenimento della misura di sicurezza, in quanto
questa può aversi anche quando ricorra solo questo presupposto ovvero in quei casi
tassativi in cui il legislatore fa prevalere l'esigenza rieducativa sulla oggettiva
realizzazione di un fatto non costituente reato, definibile quindi quasi-reato (v. 49 e
115). Art. 203 “Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona,
anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati
nell'articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla
legge come reati. La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle
circostanze indicate nell'articolo 133.”
Il titolo ottavo del libro primo “Delle misure amministrative di sicurezza” usa il termine
amministrativo, dall’art. 199 in poi si trova questa disciplina, comunque sottoposta al
principio di legalità.

Art. 133 “Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente, il


giudice deve tener conto della gravità del reato desunta: 1) dalla natura, dalla specie,
dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; 2)
dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla
intensità del dolo o dal grado della colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della
capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere
del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del
reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4)
dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.”

Lo stesso fa la Costituzione, l’art. 25 Cost. comprende anche le misure di sicurezza:


Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Nessuno
può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del
fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei
casi previsti dalla legge.

Nel 1930 viene fatto un compromesso tra le due scuole di pensiero.


Nell’art. 215 del codice penale vengono fatti degli esempi di misure di sicurezza, le misure di
sicurezza personali si distinguono in detentive e non detentive: “sono misure di sicurezza
detentive: 1) l'assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro; 2) il
ricovero in una casa di cura e di custodia; 3) il ricovero in un manicomio giudiziario;
4) il ricovero in un riformatorio giudiziario. Sono misure di sicurezza non detentive: 1)
la libertà vigilata; 2) il divieto di soggiorno in uno o più Comuni, o in una o più
Province; 3) il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche;
4) l'espulsione dello straniero dallo Stato.
Quando la legge stabilisce una misura di sicurezza senza indicarne la specie, il
giudice dispone che si applichi la libertà vigilata, a meno che, trattandosi di un
condannato per delitto, ritenga di disporre l'assegnazione di lui a una colonia agricola
o ad una casa di lavoro.”
Non tutte sono state mai realmente utilizzate o applicate, alcune si sono estinte (es. colonia
agricola) e sono ormai considerate una sorta di residuato. Le più applicate sono la confisca,
l’ospedale psichiatrico giudiziario e la libertà vigilata, con tanti problemi per quanto riguarda
l’ospedale psichiatrico giudiziario (luogo di detenzione dove non veniva mai svolta la cura di
cui avevano bisogno gli internati, per tante ragioni. La legge 180 ha abolito gli ospedali
psichiatrici civili, ma sono rimasti quelli giudiziari. I direttori non erano mai psichiatri, ma da
un certo momento in poi ciò è cambiato).

L’art. 25 Cost. secondo comma fa riferimento al fatto (diritto penale del fatto), l’art. 1 del
codice penale è l’articolo che contiene il principio di legalità e il fatto è richiamato anche qui,
a conferma del fatto che il diritto penale si deve fondare sulla descrizione di un fatto
concreto: nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente
preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.
Questo articolo porta con sé l’idea di doversi fondare sul principio di legalità: num lucrinem
sine lege. Entrambi sono importanti anche perché servono come criterio per orientarsi nella
determinazione di diversi istituti.

Art. 56 “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto,
risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica.”
Il tentativo esiste anche all’estero e ha significative somiglianze con questa norma.
Nel nostro ordinamento che si fonda sul principio di legalità, è chiaro che ci debba essere
una norma atta a descrivere il tentativo: il tentativo è un fatto che si è interrotto, il problema è
“lo si può punire nel momento in cui non si sono verificati tutti gli elementi della fattispecie?”
Sì, ma solo se c’è appunto una norma a stabilirlo.
La selezione è presente già nell’art. 56 e si parla solo di delitto tentato, non di
contravvenzione, unita all’art. di riferimento del reato che si sarebbe consumato: la punizione
arriva su combinato disposto. La scelta è stata fatta in direzione delle fattispecie più gravi
che possono riguardare la persona, la sanità pubblica, ma anche l’ambito economico.
Con “atti idonei” si fa riferimento a qualcosa che debba avere una capacità offensiva e serve
più che altro al giudice per capire dove stesse andando l’azione.
Art. 624 (chiunque s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la
detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei
mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516.) e art. 622 (chiunque, avendo
notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un
segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è
punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la
multa da euro 30 a euro 516.) Entrambi gli articoli sono configurati pensando a una
generalità (“chiunque”). Ma chi non ha realizzato niente della fattispecie tipica potrà essere
punito a quali condizioni? Potrà essere punito solo se c’è una norma di riferimento, nel caso
del concorso di persone la norma di riferimento è l’art. 110 (quando più persone
concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo
stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti) e vengono quindi punite anche
quando non hanno realizzato l’aspetto della fattispecie tipica, se non ci fosse questo articolo
non potrebbero essere punite. Soltanto chi realizza almeno una parte della fattispecie tipica
può essere punito ai sensi di quell’articolo (es. mandante in un omicidio o un furto).

Il diritto penale del fatto comporta per il legislatore dei criteri nella scelta, parliamo in questo
caso di principio di frammentarietà: il legislatore deve pensare bene ai fatti che descrive e
intende sottoporre a pena, vi è quindi una conseguenza sulla configurazione della
fattispecie.
Il legislatore sceglie certi fatti con determinate coloriture e ne lascia fuori altri e questo
criterio deve essere tenuto presente anche dal giudice. Quanto più è preciso il legislatore,
tanto più evidente è la scelta che fa ed è tanto maggiore la precisione del legislatore quanto
di secondaria importanza è il bene giuridico tutelato. Laddove invece si tratti di bene
giuridico di primaria importanza, il legislatore può essere generico.
Es. art. 575 (chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non
inferiore ad anni ventuno) e art. 640 (chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno
in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la
reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032): l’articolo
sull’omicidio è più generico, al legislatore non interessano le modalità, quindi si riferisce a
“chiunque cagioni la morte”. Tutti i delitti riguardanti il patrimonio saranno invece configurati
in maniera più specifica (la truffa ha infatti una descrizione minuziosa).
Frammentare vuol dire dunque scegliere un tipo di condotta, in certi contesti si scelgono
fattispecie generiche, in altri no.

Il principio di offensività, il principio di colpevolezza e il principio di proporzione stanno


anch’essi alla base della scelta del legislatore. L’offensività, già nell’Ottocento, era un criterio
che veniva declinato in riferimento al tipo di bene giuridico suscettibile di essere offeso, le
cose in seguito si sono complicate.
Ora se ne tiene conto seppure determinati beni giuridici siano lontani dalle singole condotte
che possono offendere, quindi ci si sbilancia molto su quello che è il bene giuridico (es.
ambiente, l’offensività va valutata anche sulla base di diverse condotte). L’offensività va
dunque misurata su quella che è l’evoluzione della società. Secondo il principio di
offensività, non vi può essere reato senza offesa a un bene giuridico, cioè a una situazione
di fatto o giuridica, carica di valore, modificabile e quindi offendibile per effetto di un
comportamento dell’uomo. Il catalogo dei beni varia col variare degli assetti sociali e di ciò
che ne condiziona l’esistenza; si affiancano infatti oggi nuovi beni: ambiente, sicurezza del
lavoro, trasparenza e corretto funzionamento dei mercati finanziari. Che il legislatore possa
reprimere con la pena soltanto fatti offensivi di beni giuridici è affermato dalla costante
giurisprudenza della Corte costituzionale, che attribuisce al principio di offensività rango
costituzionale, come vincolo, oltre che per il giudice anche per il legislatore.
L’offensività si distingue in astratto (precetto rivolto al legislatore, il quale è tenuto a limitare
la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto
offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione) e in concreto (criterio
interpretativo-applicativo per il giudice comune), ma non è impossibile che il tipo astratto si
verifichi nel concreto con tante sfaccettature e si riveli totalmente inoffensivo = uno degli
elementi si verifica comunque, ma non con connotazioni di offesa (es. furto se sottraggo una
cosa mobile, non posso rubare una cosa immobile. Può essere però che venga rubato
anche qualcosa che non riesce ad avere un valore economico, ciò corrisponde comunque a
una fattispecie di furto, ma in questa situazione l’offensività concreta non c’è, spetterà
comunque al giudice non considerare questo fatto concreto corrispondente al tipo).
Qualcuno ha qualche dubbio però sul fatto che questo criterio possa essere portato avanti.
Questo criterio è stato adottato anche all’estero, ma nonostante questo c’è chi ha voluto
sfatare il mito dell’offensività osservando che ci sono reati previsti dal legislatore per i quali è
estremamente difficile (es. delitti di obbligo: fatti previsti come reato che rappresentano
semplicemente un obbligo da parte dei consociati, l’esempio base è soprattutto per i reati in
campo economico). La Corte costituzionale ha inoltre sottolineato che il principio di
offensività riguarda non soltanto gli elementi costitutivi del fatto, ma anche le circostanze
aggravanti ed è chiamato a operare anche rispetto a tutti gli istituti che incidono
sull’individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. In quest’ultima
accezione, il principio viene invocato per esprimere un’esigenza di proporzione tra misura
della pena e gravità dell’offesa al bene giuridico. La duplice valenza del principio di
offensività è stata riconosciuta anche dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite.

Il principio di colpevolezza è un elemento fondamentale per il reato: si deve sempre essere


puniti per un fatto colpevole. Con “colpevolezza” in questo caso non si intende quella
comunemente intesa, che è quella di tipo processuale.
Si intende la colpevolezza per i fatti, quindi in senso sostanziale ed è la necessità in un
ordinamento moderno che il fatto che viene punito sia il fatto che viene commesso con un
elemento soggettivo che lo accompagna (dolo, colpa). E’ il fatto realizzato con la volontà o
con la negligenza: chi si trova nella condizione di agire, sa che sta agendo contro
l’ordinamento. Come ha riconosciuto anche la Corte costituzionale, il ricorso alla pena da
parte del legislatore si legittima in relazione non ad ogni offesa a un bene giuridico, ma
soltanto in relazione ad offese recate colpevolmente: offese cioè personalmente
rimproverabili al loro autore.
Il diritto penale del fatto è il diritto penale del fatto colpevole e troviamo traccia di questo
anche nella costituzione, sempre all’art. 27 in cui si dice che “la responsabilità penale è
personale”; il secondo comma fa riferimento invece alla colpevolezza procedurale.
Nel tempo sono state fatte diverse interpretazioni di questa frase: la responsabilità penale è
ricondotta alla persona fisica che ha commesso il reato e non a quella giuridica, per evitare
che si introduca la responsabilità penale della persona giuridica, presente in Francia e nei
Paesi di common law.
Secondo un’altra interpretazione si risponde per quello che una persona ha realizzato e non
per quello che altri hanno fatto, si evita quindi la responsabilità per fatto di altri o
responsabilità collettiva. Questa è l’interpretazione minimale, a cui poi si è aggiunta quella
riguardante la persona giuridica.
Il principio di colpevolezza è dunque dotato di rango costituzionale ed è strettamente
correlato alle funzioni della pena: a quella della prevenzione generale perché essendo il fine
della comminatoria quello di orientare le scelte di comportamento dei consociati, gli effetti
motivanti così perseguiti possono essere raggiunti solo se il fatto vietato è frutto di una libera
scelta dell’agente o almeno è da lui evitabile con la dovuta diligenza; a quella della
prevenzione speciale perché la rieducazione del condannato postula almeno la colpa
dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica.

Verso la fine degli anni 80 c’è stata una sentenza (24 marzo 1988) che ha enunciato a
chiare lettere la necessità di arricchimento della colpevolezza del reato. La sentenza
riguardava l’art. 5 del codice penale (nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza
della legge penale). L’articolo è stato scardinato nel principio che enunciava, la sentenza lo
ha dichiarato parzialmente illegittimo, prevedendo alcune situazioni in cui l’ignoranza della
legge è scusabile.
Si sono poi susseguite altre sentenze, che hanno detto che in definitiva non è possibile
punire solo sulla base della responsabilità oggettiva, ma è necessario che ci sia l’elemento
soggettivo (dolo, colpa) costitutivo della fattispecie.

Secondo il principio di proporzione, ci deve essere una proporzione nella scelta dei fatti
punibili che riguarda il fatto e la pena che viene combinata. In particolare questo principio
esprime una logica costi-benefici, più precisamente l’esigenza che i vantaggi per la società
che si possono attendere da una comminatoria di pena siano idealmente messi a confronto
con i costi immanenti alla previsione di quella pena: costi sociali e individuali, in termini di
sacrificio per i beni della libertà personale, del patrimonio, dell’onore, ecc.
E’ necessario che la proporzione sia anche basata sul fatto della prevenzione generale (es.
l’art. 575 omicidio prevede una reclusione non inferiore agli anni 21, mentre l’art. 630 sul
sequestro di persona a scopo di estorsione prevede una reclusione dai 25 ai 30 anni. Da un
lato ci troviamo di fronte alla soppressione della vita e dall’altro alla soppressione della
libertà personale ed è dunque evidente la sproporzione tra le due. La ragione per la pena
minima così alta del 630 è una ragione storica, originariamente le pene erano molto più
proporzionate, ma ci sono stati poi anni in cui il sequestro di persona a scopo di estorsione
era altamente praticato soprattutto dalle bande in Sardegna, Toscana, a Milano e in un
secondo periodo anche i sequestri dell ‘Ndrangheta per finanziare le bande. Da qui la
necessità di elevare il minimo della pena. Si riteneva infatti che la pena più alta servisse da
deterrente, ma tutto questo non ebbe nessun effetto di deterrente reale. A un certo punto
però di sequestri di persona non se ne sono più fatti, perché erano delitti costosissimi cioè
veramente impegnativi e servivano tante persone). La Corte costituzionale afferma che la
pena deve essere proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il
sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale e a quella di
tutela delle posizioni individuali. E la tutela del principio di proporzionalità conduce a negare
legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità
statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo e alla società
sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti.
I costi della pena devono essere quanto meno controbilanciati dalla dannosità sociale di
quella classe di fatti (sinonimo di principio di proporzionalità è principio di meritevolezza di
pena). Occorre a questo punto una duplice sottolineatura: non tutte le offese si equivalgono,
l’offesa infatti può assumere la forma del danno o quella del pericolo ed entrambe possono
essere più o meno gravi; non tutti i beni giuridici si equivalgono.
Perché il ricorso alla pena sia fonte di un complessivo vantaggio per la società, occorre che
la pena sia in grado di produrre un reale effetto di prevenzione generale. Il legislatore deve
dunque astenersi dal sottoporre a pena classi di fatti per le quali la pena non è in grado di
produrre alcun effetto generalpreventivo.
La pena deve essere proporzionata in astratto e in concreto alla gravità oggettiva e
soggettiva del reato, perché solo a tale condizione sarà in grado di produrre un effetto
rieducativo.
Il principio di sussidiarietà invece postula che la pena venga utilizzata soltanto quando
nessun altro strumento, sanzionatorio o non, sia in grado di assicurare al bene giuridico una
tutela altrettanto efficace nei confronti di una determinata forma di aggressione. Oltre che
meritata, cioè proporzionata alla gravità del fatto, la pena deve dunque essere necessaria:
ad essa si può fare ricorso solo come ultima ratio.
Entrambi i principi sono ancorati alla Costituzione: il principio di proporzione è immanente ai
principi costituzionali di eguaglianza-ragionevolezza (art. 3 Cost.) e della rieducazione del
condannato (art. 27 comma 3 Cost.), esso è riconosciuto anche nel diritto dell’Unione
Europea (art. 49 comma 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, le pene inflitte non
devono essere sproporzionate rispetto al reato); il principio di sussidiarietà è invece
ricollegabile al principio enunciato nell’art. 13 comma 1 Cost., ove si riconosce carattere
inviolabile alla libertà personale. Da ciò segue che la Costituzione impone al legislatore di
fare della pena un uso il più possibile limitato: soltanto cioè quale strumento residuale, in
assenza di altri strumenti idonei ad assicurare una pari tutela al bene giuridico.
L’idea della sussidiarietà e della proporzione devono poi riverberarsi sulle scelte del
legislatore (prevedere) e del giudice (applicare).

In definitiva, il ricorso alla pena da parte del legislatore si legittima nel nostro ordinamento
per finalità di prevenzione generale, entro i limiti imposti dal principio della rieducazione del
condannato, a tutela proporzionata e sussidiaria di beni giuridici contro offese inferte
colpevolmente.
E’ nell’aspetto della commisurazione della pena che si vede come i principi trovano
attuazione. Il giudice ha una grande responsabilità, che gli deriva dalle sue precise
competenze: deve essere non solo competente sul piano del diritto, ma anche una sorta di
“psicologo”, una persona di cui ci si possa fidare. Egli deve scegliere la pena più idonea a
prevenire il rischio che egli delinqua nuovamente, intimidendo la persona in questione o
promuovendone il reinserimento nella società; secondo la stessa logica il giudice dovrà poi
operare l’ulteriore scelta del quantum di pena, entro i limiti minimo e massimo fissati dalla
norma incriminatrice. Ne segue che una pena orientata verso la rieducazione del
condannato dovrà essere prescelta dal giudice al di sotto del tetto segnato dalla misura della
colpevolezza: nella commisurazione della pena le considerazioni di prevenzione speciale
incontrano dunque un limite invalicabile segnato dalla colpevolezza per il singolo fatto.
Dolcini si è occupato del problema della commisurazione, di capire quindi come i principi di
prevenzione e proporzione potessero giocare nel momento della commisurazione. Ha
un’impostazione molto nobile, perché ha ritenuto che la pena debba essere commisurata
alla colpevolezza complessivamente considerata, intesa come rimproverabilità del fatto, la
colpevolezza rappresenta il limite massimo: il giudice dovrà quindi individualizzare le sue
scelte con riferimento alla persona, tenendo come misura massima della pena la
colpevolezza (art. 133 serve come linea guida al giudice).
Questo è però un traguardo ideale, non tutti sono d’accordo con l’impostazione di Dolcini,
perché secondo alcuni non si raggiunge il risultato che il reo senta di ricevere una pena
giusta.
L’impostazione di Dolcini è quella più garantista, ritagliata sul rispetto della dignità umana: si
impedisce di considerare solo la prevenzione generale o solo quella speciale, prima di tutto
bisognerà cercare di trovare il massimo di pena commisurabile nel limite superiore di
colpevolezza.
La prevenzione generale e la prevenzione speciale dovranno servire a commisurare la pena,
mai superando il limite della colpevolezza.
L’art. 133 indica gli elementi fattuali che orientano il giudice, ma il legislatore nulla ha detto
riguardo alle finalità nella fase della commisurazione, quindi la dottrina si è fatta carico di
trovare una guida, altrimenti prima, negli anni Settanta/Ottanta il momento della
commisurazione della pena veniva quasi ignorato nella motivazione dai giudici, non c’era
trasparenza nel momento commisurativo.
Oggi le cose sono cambiate, nella motivazione della sentenza ci sono motivazioni di fatto,
ma anche con riferimento alla scelta del tipo della misura della pena.
Sarebbe però importante che il legislatore dicesse qualcosa di più sulla finalità della pena:
l’art. 133 con il suo elenco di criteri fattuali senza un fine a cui collegarli non è un articolo
efficiente: uno qualunque di questi elementi può giocare in modo diverso nei confronti della
persona contro cui è applicato.
Bisogna sempre tenere presenta la proporzione, la gravità oggettiva del fatto, il bisogno di
risocializzazione e quanto può dare tutto questo la detenzione, ma sempre tenendo come
criterio di massima la colpevolezza complessivamente considerata.
L’art. 27 Cost. fa riferimento alla rieducazione; la prevenzione speciale è volta infatti a
prevenire che il soggetto commetta ulteriori reati o reati analoghi a quello che ha commesso,
ciò può avvenire in tre forme diverse con significati molto diversi: rieducazione,
risocializzazione o neutralizzazione.
Quella più adatta a un ordinamento democratico come il nostro è la risocializzazione: con
l’esecuzione della pena, anche e soprattutto detentiva, si dovrà perseguire uno scopo di
risocializzazione condizionato al dare alla persona le condizioni ideali per poter essere
reinserito nella società. Il compito dell’ordinamento è quindi quello di creare queste
condizioni minime.
La rieducazione invece ha un significato troppo ambiguo e negativo, sembra coincida con
l’imposizione di valori e i valori non si possono imporre.
La neutralizzazione vuol dire che la persona viene contenuta e costretta in carcere, in modo
da non poter più nuocere (istituti di detenzione ristretta o particolare).

Nella fase di esecuzione, la ricerca della rieducazione del condannato incontra una serie di
limiti. L’opera di rieducazione non può infatti essere condotta coattivamente: perché sia fatta
salva la dignità dell’uomo e perché la pena risulti rispettosa del principio di umanità, la
rieducazione deve assumere la forma dell’offerta di aiuto, non quella della trasformazione
coattiva della personalità.
La rieducazione deve inoltre cedere il passo almeno in parte alla neutralizzazione del
condannato, qualora questi non appaia suscettibile né di essere reinserito nella società
attraverso l’esecuzione della pena, né appaia sensibile ai suoi effetti di intimidazione-
ammonimento.
Questa logica trova espressione nella disciplina dettata nell’ordinamento penitenziario agli
artt. 4 bis e 41 bis, che designano un regime speciale di esecuzione della pena detentiva per
gli autori di taluni gravissimi reati, per lo più commessi nel quadro di organizzazioni criminali.
In tempi recenti però è stata segnata dalla Corte costituzionale una parziale inversione di
rotta per specifici aspetti della disciplina dettata da entrambi gli articoli.

L’inflizione della pena da parte del giudice trova un ulteriore fondamento giustificativo nelle
esigenze della prevenzione generale dei reati: significa infatti confermare la serietà della
minaccia contenuta nella norma incriminatrice, mostrando ai potenziali trasgressori della
norma che non potranno violarla impunemente.
D’altra parte, che le pene minacciate dalla legge si traducano in concreto in sede di
condanna è funzionale alla prevenzione generale non solo come intimidazione-deterrenza,
ma anche come orientamento culturale.
La prevenzione generale non può però svolgere nessun ruolo nella commisurazione della
pena. Il giudice non può cioè quantificare la pena allo scopo di statuire un esempio nei
confronti dei terzi. Pene esemplari si porrebbero infatti in frontale contrasto con due principi
costituzionali: con il principio di personalità della responsabilità penale, perché una parte
della pena applicata al singolo si fonderebbe non su ciò che lui ha fatto, ma su ciò che
potranno fare in futuro altre persone, si tratterebbe di una responsabilità per un ipotetico
fatto altrui; con il principio della dignità dell’uomo, in base al quale l’uomo non può essere
degradato a mezzo per il conseguimento di scopi estranei alla sua persona.

Una volta commisurata la pena, può aprirsi un’ulteriore fase in cui lo stesso giudice può
disporre che la pena non venga eseguita ovvero può sostituirla con pene diverse e meno
gravose di quella inflitta. Questa possibilità abbraccia una limitata fascia di reati di gravità
medio-bassa, i cui autori possono essere ammessi alla sospensione condizionale della pena
(entro il limite di due anni di pena detentiva) o alla sostituzione della pena detentiva breve
(cioè non eccedente i due anni).
In questa fase domina incontrastata l’idea di prevenzione speciale: il giudice può evitare al
reo gli effetti desocializzanti del carcere, sospendendo l’esecuzione della pena, qualora
abbia ragione di prevedere che quel soggetto non commetterà in futuro nuovi reati; secondo
la stessa logica, il giudice può sostituire la pena detentiva breve con una pena non privativa
o solo parzialmente privativa della libertà personale: il giudice dovrà scegliere la pena più
idonea al reinserimento sociale del condannato o più realisticamente quella che comporti
minori rischi di desocializzazione.
La pena inflitta dal giudice deve essere eseguita. Questo compito è affidato a diversi organi
del potere esecutivo (apparato dell’amministrazione penitenziaria, polizia penitenziaria,
cancellerie presso il giudice dell’esecuzione, organi del Ministero della Giustizia).
L’esecuzione della pena è imposta ancora una volta dalla prevenzione generale:
mancherebbe di qualsiasi credibilità un sistema nel quale il legislatore minacci le pene, il
giudice le applichi ai trasgressori della legge, ma le pene rimangano poi lettera morta, senza
che nessuno si curi di eseguirle.
In particolare la pena detentiva deve essere orientata per quanto possibile verso finalità di
prevenzione speciale: deve rendere possibile la rieducazione del condannato, proponendosi
di aumentare le chances di reinserirsi nella società libera nel rispetto delle sue regole.

Sono vari gli angoli visuali dai quali si possono osservare i rapporti tra il diritto penale e gli
altri settori dell’ordinamento. In primo luogo, accade in ogni tempo, che vi siano situazioni
conflittuali che reclamano una pluralità di interventi sanzionatori, con misure tratte dai più
diversi rami dell'ordinamento. E’ quindi possibile che una data classe di fatti sanzionati
penalmente attiri anche altre sanzioni, e che sia perciò illecita a diversi titoli (penale, civile,
amministrativo, disciplinare). Dall’azione coordinata e convergente di questa molteplicità di
interventi ci si potrebbe ripromettere un controllo più penetrante, che consentirebbe di
relegare la sanzione penale, nei fatti, al suo naturale ruolo di ultima ratio. Ad esempio, un
assiduo controllo in sede amministrativa della correttezza dei pubblici funzionari sembra in
grado di ridurre rischi di corruzione, concussione e peculato, evitando il distruttivo intervento
ex post della giustizia penale. Per contro, nella materia societaria e finanziaria, all’assenza di
adeguati controlli preventivi interni ed esterni, amministrativi e civilistici, tra il 2002 e il 2015
si assommava una disciplina penale, congegnata per non essere quasi mai applicata: con il
risultato di confinare solo sulla carta, come lettera morta, quelle molteplici e convergenti
forme di intervento e di controllo, penale, civile e amministrativo.
Va chiarito se l’inflizione della sanzione penale vincoli o meno gli organi preposti
all’applicazione delle sanzioni extrapenali. La disciplina apprestata dal nostro ordinamento è
nel senso di una un’articolata e differenziata efficacia del giudicato penale di condanna nei
giudizi civili, amministrativi e disciplinari. Nel giudizio civile o amministrativo per le
restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del
responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale, la
condanna con sentenza penale irrevocabile « pronunciata in seguito a dibattimento ha
efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità
penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso »; « la stessa efficacia ha la
sentenza irrevocabile di condanna pronunciata a norma dell’art. 442» — resa cioè nel
giudizio abbreviato - salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito
abbreviato.
Negli altri giudizi civili e amministrativi « la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in
seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quando si controverte intorno a un diritto o a
un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti
materiali oggetto del giudizio penale », «purché la legge civile non ponga limitazioni alla
prova della posizione soggettiva controversa ».
Ben più ampia e penetrante è l’efficacia della sentenza penale di condanna nei giudizi
disciplinari, ^costringere le pubbliche amministrazioni a prendere sul serio le condanne dei
pubblici funzionari per i delitti commessi nell’esercizio delle loro funzioni o nelle svolgimento
del loro servizio, una riforma del 2001 ha stabilito perentoriamente che « la sentenza
irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare
davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua
illiceità penale e all’affermazione che l'imputato l'ha commesso».

I rapporti tra il diritto penale e gli altri rami dell’ordinamento si lasciano cogliere da un altro e
più ampio angolo visuale: l’accessorietà ovvero l’autonomia della norma penale rispetto alla
disciplina extrapenale della classe di fatti costitutivi delle figure di reato. Vi sono norme
incriminatrici in rapporto di accessorietà con gli altri rami dell’ordinamento: disciplinano
materie in parte già giuridicamente preformate dal diritto civile o amministrativo, alle cui
regole il giudice penale dovrà necessariamente fare riferimento; non dovrà solo constatare
dei fatti, ma anche applicare quelle regole giuridiche extrapenali. campo occupato dai c.d.
elementi normativi della fattispecie legale che compaiono in molti titoli della parte speciale.
Ad es., delitti contro il patrimonio « l’altruità » della cosa nel furto (art. 624 c.p.),
nell’appropriazione indebita (art. 646 c.p.), ne\ danneggiamento (art. 635 c.p. etc., sta a
denotare che la cosa ‘non è di proprietà’ dell’autore di quei vari delitti.
Altre norme incriminatrici sono invece caratterizzate da autonomia rispetto agli altri rami
dell’ordinamento, in primo luogo come autonomia del significato da attribuire a un dato
termine, pur presente in quegli altri rami. Talora è la stessa legge a conferire quell’autonomo
significato, stabilendo che cosa significa « agli effetti della legge penale » questo o quel
termine, qualunque sia la norma incriminatrice in cui compaia.
L’autonomia del diritto penale si manifesta anche sotto altri profili. Per soddisfare le peculiari
esigenze di tutela espresse da questa o quella norma incriminatrice, se ne amplia in via
interpretativa il raggio d’azione, reprimendo fatti che non troverebbero tutela in altri rami
dell’ordinamento. Più frequentemente, l'autonomia del diritto penale si afferma di fronte all
inva lidi ta civilistica di un negozio, che non si ripercuote sulla configurabilità del reato
consistente nella stipulazione di quel negozio, purché siano presenti tutti i requisiti di validità,
eccettuato quello per cui il fatto costituisce reato.

Ciascuno di quei rami ha autonomia di strutture e di funzioni, ma all’interno di un quadro


unitario: l'intero ordinamento. E’ inammissibile che uno stesso fatto venga considerato
favorevolmente da una branca e negativamente da un’altra. E’ fornire gli strumenti per
eliminarle e il primo compito dell’interprete è mostrare la via per conseguire la necessaria
coerenza dell’ordinamento. Sono le cause di giustificazione, gli istituti che fanno emergere la
connessione fra i differenti settori dell’ordinamento e l’unità profonda del sistema: si tratta
delle facoltà e dei doveri, derivanti da norme situate in ogni settore dell’ordinamento, che
autorizzano o impongono la commissione di un fatto, rendendolo lecito nell’intero
ordinamento e così precludendo l’inflizione di ogni tipo di sanzione prevista per quel fatto dai
diversi settori dell'ordinamento.

La prova della sussistenza degli elementi costitutivi di un reato è governata da regole di


giudizio il cui significato è univoco: l’onere di provarli incombe sull’accusa. già una regola di
rango costituzionale ad imporlo: il principio della presunzione di non colpevolezza sino alla
condanna definitiva pervade dall’inizio alla fine del procedimento penale l’accertamento della
responsabilità dell’imputato, accollando alla sola accusa l’onere di vincere quella
presunzione, così da consentire la pronuncia della sentenza di condanna. Il codice di
procedura penale fissa le regole probatorie sulla cui base, in esito al giudizio, va pronunciata
la sentenza di assoluzione: non solo quando vi è la prova che « il fatto non sussiste,
l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge
come reato ovvero il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per
altra ragione », ma anche in situazioni di dubbio: quando cioè « manca, è insufficiente o è
contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto
costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona non imputabile ».
Una sentenza di condanna può per contro essere pronunciata solo quando « l’imputato
risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio ».

Questo quadro lineare è però esplicitamente contraddetto dal legislatore, quando conia le
norme incriminatrici che delineano i c.d. reati di sospetto , cioè quei reati al cui interno
compare un’anomala regola probatoria, che allevia alla pubblica accusa il peso di provare la
presenza di un elemento costitutivo del reato, trasferendo sull’imputato l’onere di provare
l’assenza di quell’elemento. Una così frontale violazione della presunzione di non
colpevolezza, comporta l’illegittimità costituzionale di simili norme incriminatrici, che la Corte
costituzionale ha infatti affermato in una ipotesi — in materia di criminalità mafiosa relativa ai
titolari di beni di valore sproporzionato al proprio reddito o alla proprie attività economica
che« non (potessero) giustificar(ne) la legittima provenienza ».

La contraddizione con quell ’insieme di regole probatorie è altrettanto frontale, quando la


giurisprudenza — talora assecondata dalla dottrina - modifica la struttura del reato, sempre
per alleviare l’onere probatorio dell'accusa. Sono svariati gli elementi del reato che rischiano
di subire questo illegittimo stravolgimento strutturale: primeggia il dolo, che può dirsi perciò
presente e provato solo se si accerta, tenendo conto di tutte le circostanze del caso
concreto, che l’agente ha avuto l’effettiva rappresentazione e volizione di quel fatto; una
rappresentazione solo potenziale invece fondare solo un rimprovero di colpa. Quando però
l’accusa non riesce a provare quell’effettiva rappresentazione del fatto reclamata dalla
struttura del dolo, spesso il giudice interviene in suo soccorso, stravolgendo la struttura del
dolo: ritiene sufficiente accertare che l’agente potesse e dovesse prevedere la realizzazione
del fatto, trasformando così la prova del dolo in prova della colpa.
Non meno vistoso è lo stravolgimento del rapporto di causalità spesso operato dalla
giurisprudenza. A volte è impossibile provare la sussistenza di un rapporto di derivazione
causale tra una data azione e un singolo evento concreto, perché non sono ancora
disponibili leggi scientifiche con il cui aiuto spiegare se quell’evento concreto è davvero
riconducibile a quella data azione, come alla sua causa. Per aggirare questo ostacolo
probatorio, talora la giurisprudenza stravolge la fisionomia del rapporto di causalità: quel
rapporto non dovrebbe intercorrere più tra azione ed evento, bensì fra l’azione e il pericolo
dell’evento, accreditato dalle indagini epidemiologiche, cosicché un’intera categoria di reati -
i reati di evento - vedrebbe radicalmente modificata la propria struttura, che è imperniata
nitidamente dalla legge su un rapporto di causalità — da provare al di là di ogni ragionevole
dubbio — tra una data azione e un singolo evento concreto, non sul pericolo del verificarsi di
quell’evento. Sono note le ragioni politico-criminali di questo stravolgimento da parte della
giurisprudenza: si vogliono soddisfare i bisogni di punizione alimentati dalla moderna
‘società del rischio’, che è percorsa da preoccupazioni crescenti per il manifestarsi di
fenomeni sospettati di creare seri pericoli per l’incolumità delle popolazioni. solo il legislatore
potrebbe assolvere quel compito coniando nuove norme incriminatrici; è invece contra
legem la tendenza della giurisprudenza a modificare surrettiziamente la fisionomia del
rapporto di causalità per eludere i relativi problemi probatori e per dare risposta a quei non
trascurabili bisogni di punizione.

Il codice penale è diviso in tre libri e la dottrina parla di parte generale e parte speciale per
quanto riguarda il contenuto. Il libro primo si apre con la dicitura “Dei reati in generale”, il
secondo dall’art. 241 “dei delitti in particolare” e il terzo dall’art. 650 “delle contravvenzioni in
particolare”.
La parte generale corrisponde al contenuto del libro primo, in cui sono enunciati i principi
fondamentali come quello di legalità, l’ignoranza della legge penale, la validità territoriale del
diritto penale italiano, le condizioni di punibilità in determinate situazioni. Nel titolo secondo
si fa riferimento alle pene: quali sono, i limiti edittali generali delle pene, le pene accessorie.
Andando verso gli artt. 50 e seguenti ci sono le cause di giustificazione e il tentativo, tutti i
riferimenti a istituti che si applicano a tutti i reati, la definizione di dolo e colpa, il concorso di
pene, il reo e la persona offesa dal reato, la condizione soggettiva quindi la capacità di
intendere e di volere, il concorso di persone nel reato, la recidività, la commisurazione della
pena, riferimenti all’esecuzione della pena, le cause estintive del reato (prescrizione,
oblazione per le contravvenzioni e sospensione condizionale della pena), le sanzioni civili
che seguono comunque alla commissione di un reato e le misure di sicurezza, che chiudono
il primo libro del codice.
La parte speciale è costituita dagli altri due libri.

La parte generale è sicuramente la parte più recente per quanto riguarda l’approfondimento
che la riguarda (nel caso del dolo, della colpa e del concorso di reati), nasce e si
approfondisce nella sua struttura dopo la parte speciale, che è nata prima.
I codici nascono già completi, ma nell’evoluzione storico sociale, i singoli reati sono nati
prima. E’ proprio nell’applicazione giudiziale dei singoli reati che si è poi creato un
approfondimento: es. omicidio, nell’Ottocento venivano presi in considerazione quasi
sempre solo gli omicidi dolosi, la colpa era un elemento soggettivo poco conosciuto, è nata
con l’evoluzione tecnologica e con l’inizio di attività molto pericolose quali la guida
dell’automobile, da cui è quindi conseguita l’esigenza di approfondire il suo studio.
La definizione di colpa ancora oggi non dice in maniera molto esplicita tutti i passaggi per il
suo accertamento, è stato necessario studiarla anche con manifestazioni concrete per
capire quali potessero essere rilevanti per il criminale.
Ciò vale anche per il dolo che è rappresentazione e volontà, ma le varie sfumature hanno
dato vita nel tempo ad affinamenti per diversi gradi di intensità di dolo.
Questo avviene un po’ in tutti gli ambiti del diritto penale, ad esempio anche nel diritto
penale internazionale, ma per ragioni molto diverse (è il diritto che riguarda i crimini
internazionali, che sono nati prima della parte generale del diritto penale internazionale, nata
appena nel 1998 grazie al Trattato di Roma con il quale è stata costituita la Corte penale
internazionale, che giudica i crimini internazionali contro l’umanità, i crimini di guerra, il
genocidio e i crimini di aggressione. Questi hanno avuto uno sviluppo precedente come
categoria e sono stati giudicati per la prima volta nel processo di Norimberga).
L’evoluzione non è uguale per tutte le categorie, ma ha comunque preceduto la nascita della
parte generale. I casi precedenti a Norimberga avevano disposizioni di carattere generale,
ma non si può dire che ci fosse una vera e propria codificazione.
Il primo codice penale in vigore nel Regno d’Italia, approvato nel 1889 e vigente dal 1890 al
1931, viene comunemente designato come codice Zanardelli, dal nome del guardasigilli del
tempo e presenta i tratti caratteristici del diritto penale liberale: nella parte generale riafferma
i fondamentali principi di garanzia di ascendenza illuministica; anche la parte speciale
delinea un rapporto non autoritario tra Stato e cittadino, prevedendo una vasta gamma di
delitti contro la libertà. Al codice Zanardelli succede il codice Rocco, così designato dal
nome del guardasigilli dell’epoca, Alfredo Rocco, approvato nel 1930 ed entrato in vigore dal
1931 (l’influenza della cultura liberale, che ancora permea gran parte dei compilatori del
codice, porta peraltro a conservare, nella parte generale, alcuni principi di garanzia, come i
principi di legalità e di irretroattività delle norme incriminatrici. Altri principi invece, come
quello di colpevolezza, vengono ampiamente derogati. Nel catalogo delle pene ricompare la
pena di morte, prevista sia per i delitti politici, sia per delitti comuni; nel quadro delle misure
di sicurezza si introduce una pena detentiva indeterminata per autori di reato capaci di
intendere e di volere, presunti dalla legge o ritenuti dal giudice socialmente pericolosi. La
parte speciale è invece caratterizzata da un drastico innalzamento dei livelli di pena,
delineando anche una vasta gamma di reati di opinione). Quando c’è un dubbio riguardante
le norme del codice, l’interpretazione viene fatta alla luce della Costituzione, che ha innovato
l’ordinamento. Il codice è precedente alla Costituzione (1930), sono state fatte molte
modifiche, ma è rimasto lo stesso. Aveva un volto piuttosto arcigno, con scelte che non sono
mai state sconfessate anche nei periodi più bui del regime. Subito dopo la caduta del
fascismo e prima ancora dell’edificazione del nuovo Stato repubblicano, il governo
provvisorio ribalta alcune scelte emblematiche della legislazione penale fascista: abolisce la
pena di morte e ripristina le circostanze attenuanti generiche. Contemporaneamente si pone
mano anche alla progettazione di un nuovo codice penale, destinata però a esaurirsi in una
serie di proposte mai coronate da successo: dal 1948 sino al 2007 si susseguono infatti
svariati progetti.
Il codice penale non ha mai avuto una riforma globale, l’Italia è infatti uno dei pochi Paesi
che non hanno rinnovato dalle fondamenta il codice: perfino la Francia, che aveva il Code
Napoleon fino a 25 anni fa, ha dato un altro volto al diritto penale; la Germania è intervenuta
prima e i Paesi usciti dal blocco sovietico subito dopo il 1989 hanno cambiato sia il codice
penale che la Costituzione.
Ciò comunque non significa che il contenuto sia uguale a quello del 1930: alcuni interventi
normativi sono stati fatti subito, altri in tempi recenti grazie all’intervento della Corte
costituzionale, infatti quando la conformazione di una fattispecie non sembra essere
conforme al principio costituzionale, la Corte potrebbe intervenire a cassare la norma in
questione (es. ignoranza della legge penale, la Corte costituzionale è intervenuta con una
sentenza interpretativa di accoglimento parziale e ciò ha rivoluzionato il sistema per quanto
riguarda il principio di colpevolezza).
Sono stati fatti tanti tentativi per cambiare il Codice, soprattutto per la parte che riguarda i
delitti, ci sono infatti delle carenze per quanto riguarda la loro conformazione.
Tanti tentativi sono andati a vuoto, l’ultimo è di qualche anno fa, il codice Rocco ha ormai 90
anni. Già prima della fine della guerra, il decreto luogotenenziale aveva introdotto delle
circostanze attenuanti generiche, perché ci si era resi conto che le pene erano molto alte:
queste circostanze sono presenti ancora oggi all’art. 62 bis “il giudice, indipendentemente
dalle circostanze previste nell'articolo 62, può prendere in considerazione altre
circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena.
Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come
una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze
indicate nel predetto articolo 62”.
Nel 1974 è stato fatto invece un primo intervento sul concorso di reato ed è stato istituito il
reato continuato, la sospensione condizionale della pena e il giudizio di bilanciamento tra
circostanze aggravanti e attenuanti. Una legge del 1981 invece oltre a operare una vasta
depenalizzazione di illeciti minori, ha introdotto la nuova tipologia sanzionatoria delle pene
sostitutive della detenzione breve; una legge del 1990 ha eliminato la responsabilità
oggettiva per le circostanze aggravanti.
Più avanti c’è stata l’esigenza di intervenire anche sulle scelte di politica criminale: fino al
1994 esistevano ancora i delitti contro la morale pubblica, che riguardavano la violenza
sessuale, è poi parso evidente che il bene tutelato da queste norme era la libertà sessuale e
non la morale pubblica, infatti queste sfumature non sono sembrate più tollerabili.
In questo ambito è stato più difficile introdurre modifiche (art. 609 bis e seguenti), ma ora si
ha una disciplina più completa e corrispondente a quella che è la sensibilità attuale.
Nel corso del tempo c’è stato uno scontro all’interno del Parlamento per decidere come si
doveva configurare la fattispecie, se renderla punibile d’ufficio o mantenerla punibile per
querela di parte e se mantenere una divisione tra la violenza carnale e gli atti di libidine
violenta. Oggi la violenza sessuale comprende aspetti diversi e il cambiamento è durato 20
anni, è arrivato nel momento in cui la giurisprudenza stava andando avanti con
un’interpretazione molto ampia del termine violenza, introducendo anche quella psicologica
e non più solo quella fisica.
La giurisprudenza ha un ruolo molto importante, propulsivo, ha il polso della situazione
perché si trova davanti ai fatti concreti.
Altro es. l’aborto era considerato un reato e veniva classificato tra i delitti contro l’integrità
della stirpe, l’articolo è poi stato abrogato e sostituito con la legge 194 al di fuori del codice
penale. La legge è poi tornata nel codice penale come delitto contro la maternità, ma queste
sono considerazioni di tipo ideologico non più accettabili oggi.
Legge 194/78: la 194 consente alla donna, nei casi previsti dalla legge, di ricorrere alla
IVG in una struttura pubblica (ospedale o poliambulatorio convenzionato con la
Regione di appartenenza), nei primi 90 giorni di gestazione; tra il quarto e quinto
mese è possibile ricorrere alla IVG solo per motivi di natura terapeutica.
Tra il 2010 e il 2013 diversi interventi legislativi volti a lottare contro il sovraffollamento
carcerario, hanno poi interessato le misure alternative alla detenzione. Rilevantissime novità
sono state poi introdotte in tema di misure di sicurezza personali, nel 2011 è stata prevista la
chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Nel 2014 inoltre è stata superata la tradizionale
regola che ancorava la durata delle misure di sicurezza detentive al permanere della
pericolosità sociale, introducendo il diverso principio secondo cui la durata di qualsiasi
misura di sicurezza detentiva non può superare la durata massima della pena detentiva
comminata per il reato commesso.
Un ruolo crescente hanno assunto nel tempo le leggi penali speciali (o leggi penali
complementari, cioè le leggi penali situate fuori dal codice), alle quali, di regola, si applicano
gli istituti della parte generale del codice, es. reati in materia di armi, circolazione stradale,
edilizia e urbanistica, immigrazione, mercati finanziari, procreazione assistita, prostituzione,
sicurezza nei luoghi di lavoro e stupefacenti.

La Corte costituzionale ha svolto un ruolo importante nel cambiare la conformazione di certe


fattispecie, ma essa non può fare più di tanto per quello che il suo ruolo: è un organo
deputato ad affrontare la fattispecie normativa penale con le norme costituzionali, il rischio è
però che in certi contesti si sostituisca al legislatore, al quale spettano scelte di politica
criminale (=la scelta dei fatti penalmente rilevanti).
La Corte costituzionale opera con il principio di uguaglianza e ragionevolezza, con il limite di
non sostituirsi al legislatore, altrimenti starebbe violando il principio di legalità, quindi può
avere un effetto riduttivo, ma non il contrario.
Es. intervento della Corte costituzionale sull’istigazione e l’aiuto al suicidio (art. 580, caso
Cappato), la Corte in questo caso ha ragionato in due tempi: nel primo tempo (settembre
2018) ha trovato una decisione interlocutoria e non ha quindi pronunciato sentenza, ha
emesso un’ordinanza, che era una sorte di decisione condizionata. La Corte si è infatti resa
conto che pronunciare l’illegittimità parziale avrebbe avuto delle conseguenze e quindi si è
trattenuta, ha comunicato al legislatore come la pensava ed è lui che sarebbe dovuto
intervenire, facendo la sintesi dei diritto a rifiutare le cure, del diritto alla salute e tutta una
serie di considerazioni della giurisprudenza del tempo sulla fine della vita, ha deciso dunque
di lasciare tempo al legislatore.
Dopo un anno per adeguarsi, l’anno scorso la Corte ha ripreso la questione ed è arrivata fino
in fondo. In passato la Corte faceva un altro tipo di considerazione e individuava i punti
critici, ma rendendosi conto che se avesse pronunciato l’illegittimità avrebbe creato un vuoto
di tutela, assoluto o relativo, è intervenuta dando degli avvisi e indicando espressamente al
legislatore di intervenire.
La Corte costituzionale sta anche molto attenta a porre dei limiti ben precisi del proprio
sindacato per le conseguenze che ne possono derivare.
Altro es. legge sulla procreazione medicalmente assistita è stata fatta con una precisa idea
dietro e una forte matrice ideologica volta a vietare determinate pratiche, oggi questa legge
non ha quasi più operatività, la Corte costituzionale è infatti intervenuta più volte per
determinare l’illegittimità costituzionale e ha semplicemente considerato i principi
costituzionali.

Il legislatore non è ancora arrivato a fare una nuova disciplina organica, ma ha aggiunto la
riserva di codice: il codice penale si è arricchito dell’art. 3 bis (nuove disposizioni che
prevedono reati possono essere introdotte nell'ordinamento solo se modificano il
codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la
materia), che disciplina questa riserva di codice. Questa è una norma di principio che
riserva al codice un ruolo propulsivo di un processo virtuoso che ponga freno alla
proliferazione della legislazione penale, rimettendo al centro del sistema il codice penale e
ponendo le basi per una futura riduzione dell’area dell’intervento punitivo, secondo un
ragionevole rapporto fra rilievo del bene tutelato e sanzione penale. Si tratta di un monito di
rilievo che il legislatore fa a se stesso e il fatto che sia inserito nel codice e non nella
costituzione non vincola il legislatore per il futuro. Questa disposizione vuole porre freno a
questa modalità: troppi reati spesso sono inseriti in contesti dissonanti, l’incongruenza è
legata all’uso del decreto legge che introduce aspetti che non c’entrano nulla. La riserva ha
comportato l’inserimento nel codice di determinate fattispecie delle norme complementari,
sia nella parte generale che in quella speciale (es. disciplina del bilanciamento di
circostanze, art. 593 bis e ter, materia di doping, vari interventi da parte del legislatore che
hanno determinato una riformulazione), ma rimane comunque ancora molto al di fuori del
codice. La riforma ha quindi realizzato un riassetto solo parziale della legislazione penale.
Nozione di reato: delitti e contravvenzioni

Un fatto costituisce reato solo quando la legge gli ricollega una pena. E’ dunque solo in base
a un criterio nominalistico (ciò che il legislatore designa con il nome di pena) che i reati si
identificano e si distinguono dalle altre categorie di illeciti. Il legislatore trova nella
Costituzione limiti e direttive di fondo per le sue scelte di incriminazione, ma si tratta sempre
di scelte largamente discrezionali: la qualità di reato non è immanente a questo o a quello
schema di condotta umana, ma è impressa dall’esterno, attraverso la minaccia legislativa di
una sanzione penale. Non tutte le sanzioni penali assolvono peraltro alla funzione di
identificare i reati. Tale compito è affidato alle sole pene principali, vale a dire: l’ergastolo, la
reclusione, la multa, l’arresto e l’ammenda e per i reati militari la reclusione militare. Non
rappresentano invece un criterio di identificazione dei reati né le pene accessorie, né le
misure di sicurezza, né le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Le pene accessorie
infatti si aggiungono alla condanna a una pena principale, di conseguenza la funzione di
identificazione del reato è già assolta dalla pena principale. Inoltre le pene accessorie sono
conseguenza solo di alcune condanne. Le misure di sicurezza d’altro canto possono essere
applicate soltanto alle persone socialmente pericolose, che abbiano commesso un fatto
preveduto dalla legge come reato. L’applicazione della misura di sicurezza presuppone
dunque, oltre alla pericolosità sociale dell’agente, la commissione di un fatto che già deve
essere identificato come reato. Infine, le pene sostitutive delle pene detentive brevi non
possono identificare i reati in quanto sostitutive: presuppongono infatti l’inflizione di una pena
principale e solo in via eventuale sono applicate dal giudice in sostituzione della pena
detentiva.
La specie delle pene principali elencate nell’art. 17 c.p. rappresenta il criterio per distinguere
il reato dall’illecito civile. Quando un fatto costituisce illecito civile, ma non è al contempo
sanzionato con una delle pene principali, quel fatto non costituisce reato. Uno stesso fatto
può peraltro costituire sia un reato sia un illecito civile, in tal caso l’ordinamento reagisce in
una forma peculiare: anche al fine di attenuare le reazioni delle vittime dei reati, estende
l’area del danno risarcibile al danno non patrimoniale, apprestando a tale scopo due tipi di
sanzioni civili: il risarcimento e la pubblicazione della sentenza di condanna. Ulteriore
sanzione civile da reato è quella delle restituzioni (interpretazione restrittiva: restituzione del
tolto; interpretazione più ampia: ogni forma di reintegrazione della situazione preesistente al
reato).
Distinguiamo come forme di risposta l’illecito penale, civile e amministrativo, nonché i nuovi
illeciti civili: sono sistemi di tutela diversi tra di loro, a volte hanno finalità comuni e a volte
no. Quando si realizza un fatto di reato, questa situazione concreta può far conseguire
anche degli effetti di carattere civile.
Esiste il principio di frammentarietà, il legislatore deve fare delle scelte, ciò che rimane fuori
dalle fattispecie e non rientra nei limiti, non significa che abbia conseguenze dannose nei
fatti: il fatto non costituisce reato perché non rientra nel tipo, ma le conseguenze dannose
fanno scattare l’illecito civile (art. 2043 codice civile): questa formula permette l’intervento da
parte di una branca diversa dell’ordinamento di ristorare la situazione che ha visto
comunque un’offesa, che può essere anche non penalmente rilevante.
Queste sono scelte che spesso possono competere alla persona offesa (es. reato punibile a
querela della persona offesa che decide di non sporgere querela e tentare solo la via civile
del risarcimento del danno, in cui si ritiene di avere maggiori chances).
Il diritto civile può quindi venire ad integrare la tutela di soggetti. La parte civile ha
determinate prerogative ed è tanto discussa, molto spesso si ritiene di ingombro all’interno
del processo penale.
Es. caso del petrolchimico di Marghera ha cagionato danni alla laguna, ma anche una serie
di lesioni o morte dei lavoratori, ha quindi coinvolto la vita di tantissime persone e famiglie e
ha provocato gravi danni all’ambiente. Il processo è durato alcuni anni e si è svolto a Mestre.
Durante il processo erano presenti le parti civili, che ad un certo punto si sono ritirate perché
hanno ottenuto il risarcimento, ma che è successo poi nel processo penale? I giudici e gli
avvocati sono stati molto più liberi di ragionare sul diritto e il caso si è sciolto per assenza di
colpa con riferimento a vari imputati. Tutto ciò ha fatto sì che non essendoci più la parte
civile, gli aspetti giuridici hanno potuto essere molto più approfonditi.

Ogni reato obbliga al risarcimento e alle restituzioni (art. 185 e seguenti del codice penale). Il
legislatore ha dettato una serie di articoli istituendo anche una sorta di istituti come l’azione
revocatoria collegati però al penale. Questa disciplina parallela va ad aggiungersi a quella
civile del 2043 e seguenti.
L’art. 185 fa riferimento al danno patrimoniale o non patrimoniale e sono state fatte tante
interpretazioni che hanno fatto pensare che il danno non patrimoniale rappresentasse una
sorta di pena privata, anche se così non è (= ingresso a determinate istanze che non era
possibile portare avanti quando il fatto in sé non era reato e quindi si pensava si potesse
chiedere solo il risarcimento patrimoniale).

La legislazione penale vigente suddivide i reati in due categorie delitti e contravvenzioni —


utilizzando come unica nota distintiva il criterio formale della specie delle pene comminate
(art. 39 cp). Si ha dunque un delitto ogni qualvolta la legge commini l’ergastolo, la reclusione
o la multa, una contravvenzione ogniqualvolta la legge commini l’arresto o l’ammenda. Sono
inoltre delitti i reati militari puniti con la reclusione militare.
La rilevanza della distinzione tra delitti e contravvenzioni riguarda la diversa disciplina cui
vengono assoggettate le due classi di reati sotto molteplici profili, tra i quali spiccano
l’elemento soggettivo del reato, il tentativo e la recidiva.
In realtà, nonostante la diversità dei nomi, le pene detentive temporanee e le pene
pecuniarie previste per i delitti e per le contravvenzioni hanno contenuti completamente o
largamente coincidenti.
) L’elemento soggettivo di regola richiesto per i delitti è il dolo, salvi i casi in cui la legge
espressamente dà rilevanza alla colpa o alla preterintenzione.
contravvenzioni, invece, di regola possono essere commesse sia con dolo, sia per colpa.
Solo eccezionalmente sono previste contravvenzioni che debbono necessariamente essere
commesse con dolo, oppure contravvenzioni che debbono necessariamente essere
commesse per colpa.
Il tentativo è di regola configurabile solo per i delitti. Eccezionalmente in una legge speciale
possono comparire contravvenzioni rilevanti anche nella forma del tentativo.
La recidiva, diversamente da quanto prevedeva ’originaria disciplina del codice del 1930,
interessa oggi, a seguito della riforma realizzata dalla legge c.d. ex Cirielli, soltanto gli autori
di delitti.
Ulteriori differenze sul terreno del diritto sostanziale, riguardano tra l’altro: l‘applicabilità della
legge penale italiana quando il reato sia commesso all'estero, prevista negli artt. 1 ss. c.p
per soli delitti e non anche per contravvenzioni; le pene principali (ben diversi sono, ad es., i
limiti massimi previsti, in via generale, per le pene detentive dei delitti e delle
contravvenzioni); ; le cause di estinzione del reato; le cause di estinzione della pena; le
circostanze.
Significative differenze tra delitti e contravvenzioni riguardano infine la disciplina
processuale. Mentre i delitti sono perseguibili d’ufficio salvo che la legge preveda
espressamente la procedibilità a querela, per le contravvenzioni si procede sempre d’ufficio.
Per le contravvenzioni non possono essere disposte misure cautelari personali coercitive,
quali la custodia cautelari, quali l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza di reato.
Diversa è infine la riduzione di pena prevista per il giudizio abbreviato.

Oggi esistono anche i nuovi illeciti civili, che sono un’invenzione recente e riguardano solo
una parte dei reati. Il legislatore ha preso alcuni reati, ad es. art. 594 fattispecie di ingiuria,
l’art. 635 per alcune forme del danneggiamento e si è posto il problema se mantenere
queste fattispecie ancora come reato o trasformarle in altro o abrogarle definitivamente.
Non si discute di depenalizzazione, la discussione era se tenerli o estrometterli dal novero
dei reati.
La discussione riguarda ad es. anche la Germania. Questi reati non sono più illeciti penali,
ma non hanno rilevanza meramente civile: nella sostanza il legislatore ripropone il tipo, non
sono più penali, ma non appartengono esclusivamente all’ambito atipico civile. Sono stati
tenuti come tipi a cui si è ricondotta una sanzione pecuniaria civile (né multa, né ammenda,
né sanzione pecuniaria amministrativa), si applica a situazioni quando vengono realizzate
con dolo e il versamento della somma non va alla persona offesa, ma va nella cassa delle
ammende, ha quindi una destinazione di tipo pubblico. In questo contesto è comunque
possibile richiedere da parte del danneggiato il risarcimento del danno in sede civile, la
sanzione pecuniaria può anzi essere irrogata solo a condizione che venga accordato il
risarcimento del danno. Il concorso di persone in questa forma di illecito civile è regolato
secondo il modello della responsabilità concorrente. L’autorità competente è il giudice civile
e la disciplina processuale è quella dettata dal codice di procedura civile, la prescrizione
matura in cinque anni.
I nuovi illeciti civili mantengono un aspetto di carattere punitivo, qualcuno ha richiamato i
punitive damages, un istituto di common law in cui vengono riconosciuti dei risarcimenti
altissimi, non necessariamente commisurati al tipo di danno inflitto, ma al tipo di condotta
con la quale i danni sono stati commessi.
Tutto ciò rientra nella necessità di limitare l’ipertrofia del diritto penale, evitando che si
introducano troppe fattispecie.
Lo stesso Beccaria parlava della necessità di tutela sul piano penale la vita, la libertà
personale e l’onore. Fatti come l’ingiuria e la diffamazione non si era mai dubitato che
dovessero rimanere in ambito penale, il legislatore le ha tolte dal codice penale ma non le ha
abbandonate del tutto per la presenza di legami forti che non si riesce a recidere.
Questi fatti sono passati alla competenza del giudice civile, escono dalla competenza del
giudice penale; anche l’istituzione del giudice di pace in sede penale ha rappresentato uno
di questi interventi di deflazione.
La grande ripartizione nella tutela di determinati beni giuridici si fa tra illeciti penali e illeciti
amministrativi. L’illecito amministrativo non è una novità, ma negli ultimi decenni è stato
riformato, è entrato nel nostro ordinamento con un suo statuto preciso.
Questa disciplina/tutela integrata è nata dalla necessità di non gravare ulteriormente sul
diritto penale e spesso arrivare alla prescrizione per intasamento degli uffici.
L’inflazione del diritto penale, l’inflazione dei procedimenti processuali, l’estinzione del reato
e quindi la mancata risposta portano all’ineffettività del diritto penale, si è quindi ristrutturato
l’illecito amministrativo.
Anche nei rapporti con l’illecito amministrativo, l’unico criterio per identificare i reati è offerto
dal nome delle pene principali. In particolare quando la legge commina la multa o
l’ammenda, ci si trova in presenza di un reato, mentre sanzioni pecuniarie non designate
come multa o ammenda hanno natura di sanzione amministrativa.

Per una limitata gamma di reati la legge prevede sanzioni civili di carattere punitivo
accessorie rispetto alle sanzioni penali: sanzioni civili designate come riparazione pecuniaria
e consistenti nel pagamento di una somma di denaro a favore della persona offesa dal
reato, che si cumulano con la reclusione o con la multa e con l’eventuale risarcimento del
danno. Es. diffamazione commessa con il mezzo della stampa, alcuni delitti contro la
Pubblica Amministrazione (peculato, corruzione, concussione, induzione indebita a dare o
promettere utilità).

Da tempo l’illecito amministrativo affianca nell’ordinamento giuridico statale l’illecito penale,


reprimendo offese a beni giuridici selezionate in base ai principi di proporzione e di
sussidiarietà, è quindi uno strumento di deflazione del sistema penale.
Con la legge 689 del 1981 il legislatore attua una riforma seria: è una delle leggi più razionali
che ha toccato aspetti diversi ma coerenti, ha operato una depenalizzazione (passaggio da
illecito penale a illecito amministrativo di uno o più fatti), ha preso una serie di reati punibili
con la sola pena pecuniaria e ha deciso che sarebbero diventati illeciti amministrativi. La
disciplina generale dell’illecito amministrativo contenuta in questa legge abbraccia profili sia
di diritto sostanziale, sia di diritto processuale. Quanto al diritto sostanziale, la scelta di fondo
del legislatore dell’81 è stata nel senso di una larga mutuazione di principi penalistici: una
soluzione coerente con la funzione di tutela preventiva di beni giuridici assolta dalle sanzioni
amministrative interessate da tale disciplina (tra gli istituti penalistici mutuati per l’illecito
amministrativo non si annovera quello del tentativo). Quanto ai profili procedimentali e
processuali, basterà segnalare che la sanzione amministrativa viene irrogata, nella forma
dell’ordinanza-ingiunzione, dall’ufficio periferico del Ministero nella cui competenza rientra la
materia alla quale si riferisce la violazione, ovvero, in assenza di tale ufficio, dal Prefetto.
Contro l’ordinanza-ingiunzione, l’interessato può proporre opposizione davanti al giudice di
pace civile ovvero davanti al tribunale civile. Sia il procedimento per l’irrogazione delle
sanzioni amministrative, sia le eventuali successive fasi giurisdizionali non coinvolgono il
giudice penale. Il giudice penale conosce dell’illecito amministrativo solo in caso di
connessione obiettiva con un reato, nel caso cioè in cui l’esistenza di un reato dipenda
dall’accertamento di un illecito amministrativo.
Il legislatore o fa una depenalizzazione mirata o può decidere che intere categorie di reati
(es. quelli punibili solo con una sanzione pecuniaria, quindi spesso pesca dalle
contravvenzioni). Il legislatore ha contestualmente creato anche un sistema di illecito
amministrativo e ha creato le sanzioni sostitutive delle pene brevi.
Il giudice può decidere di sostituire con delle altre sanzioni che il legislatore ha indicato
(semidetenzione, libertà controllata e pena pecuniaria) ciò che è rimasto penalmente
rilevante ma si trova ai livelli più bassi.
Il legislatore ha fissato una disciplina molto precisa per l’illecito amministrativo, ha fissato
principi di base e alcuni aspetti di disciplina tali da connotarne la natura.
Le norme previste come disciplina di una certa materia sono sempre indicative di una certa
materia sono sempre indicative delle finalità che questo istituto ha, ad es. i criteri per
individuare in concreto una situazione sono sempre indicativi delle finalità che quel tipo di
illecito deve avere.
I nuovi illeciti civili hanno criteri di commisurazione della sanzione pecuniaria civile che
somigliano a quelli dell’art. 133 cp, indicante che le sanzioni hanno natura punitiva.

Le norme complementari alla voce depenalizzazione della legge si apre con il principio di
legalità, il presupposto dell’imputabilità, le cause di esclusione della responsabilità, il
concorso di persone nell’illecito amministrativo che ricorda l’art. 110 che disciplina il
concorso di persone nel reato, che è contrario alla responsabilità solidale: la scelta quindi
avrebbe potuto essere diversa, adottandone una simile a quella della responsabilità civile.
Anche l’articolo che riguarda la commisurazione o l’applicazione di sanzioni amministrative è
uno specchio di questo illecito amministrativo, che condivide le finalità con l’illecito penale:
anche qui l’intento è punitivo e non risarcitorio.
L’illecito amministrativo è un sistema complementare all’illecito penale perché condivide la
funzione di tutela dei beni giuridici e la funzione della sanzione amministrativa, quindi di
funzione di deterrente.
Ci sono ambiti in cui troviamo entrambi i tipi di sanzione, la complementarità avviene
guardando la scala di gravità tra le diverse condotte.
Uno dei principali studiosi delle sanzioni amministrative ha individuato la metafora della
portaerei: essa rappresenta la base di tutela sulla quale teniamo fermo l’illecito
amministrativo, una tutela di base preventiva, poi quando la gravità della situazione
precipita, gli aerei partono e rappresentano il diritto penale.
Altro es. nell’ambito della tutela di prevenzione degli infortuni sul lavoro (sicurezza sul lavoro
e ciò che riguarda la materia previdenziale: mancato versamento dei contributi del lavoro
dipendente, prima era disciplinato dal diritto penale, ma l’illecito amministrativo ha svolto la
funzione di assorbimento della tutela di base, andando a coprire una serie di situazioni e
lasciando intervenire il diritto penale nei casi più gravi). La stessa cosa è avvenuta con la
tutela della sicurezza sul lavoro, la normativa è stata riformata completamente nel 2008 e
prevede una serie di illeciti penali e amministrativi contravvenzionali, quindi un sistema
integrato per quanto riguarda la tutela di base che è fortemente preventiva. Lo scopo è stato
quello di far adeguare le aziende a una determinata situazione qualora non vengano
rispettate le norme di legge sulla predisposizione di dispositivi di protezione individuale. Se
la violazione di una di queste fattispecie comportasse di conseguenza la causazione di un
evento di danno come la morte o la lesione personale, entra in gioco l’illecito penale
codicistico.
L’illecito amministrativo, per poter concorrere insieme al diritto penale, deve per forza avere
criteri applicativi e delle strutture simili e la legge del 1981 glieli ha dati. La possibilità di
ricorso alle sanzioni amministrative si fa al giudice di pace o al tribunale civile.
I vantaggi dell’illecito amministrativo sono stati evidenti ad es. nel contesto della prima
ondata della pandemia: il legislatore ha fatto un primo intervento impulsivo in cui ha fatto un
unico riferimento all’art. 650, ha rivisto poi le posizioni e ha incentrato tutto sulla sanzione
amministrativa, che ha il vantaggio di essere applicabile subito senza un processo.
L’illecito amministrativo è così importante oggi perché è l’unico strumento sanzionatorio che
hanno a disposizione le regioni: esse infatti non hanno potestà penale e non possono
neanche applicare sanzioni penali già esistenti a proprie situazioni che individuino come
penalmente rilevanti secondo la loro considerazione. Le regioni non avrebbero altrimenti
alcuno strumento per far rispettare i propri precetti.
L’illecito amministrativo è anche la sanzione che l’UE ha a disposizione per sanzionare le
violazioni alle proprie disposizioni. La constatazione è stata fatta nel tempo interpretando i
vari trattati che si sono stratificati, si esclude infatti che l’E abbia potestà penale autonoma e
completa, ma ha sicuramente potestà sanzionatoria amministrativa.

Questa forma di tutela dei beni ha preso piede in Europa all’interno dei singoli ordinamenti
(es. Germania) e ha fatto sì che l’illecito amministrativo arrivasse anche all’attenzione delle
corti sovranazionali, come la Corte EDU (a cui ci si rivolge quando si ritiene che non venga
adeguatamente tutelato il diritto stabilito nella CEDU e il cittadino abbia esperito ogni tipo di
strumento interno senza esito) e la Corte di giustizia dell’UE, che interpreta i trattati.
La Corte EDU si occupata di definire quella che era la matière penale, per capire quanto si
potesse estendere quella materia non strettamente penalistica, ma che aveva in comune
alcuni aspetti.
Con la sentenza Engel del 1976, la Corte elabora la nozione del tutto autonoma di matière
penale e si potrebbe così incorrere nella truffa delle etichette (quando si dà a un istituto un
certo nome, ma nella sostanza è un altro). Con riferimento alla matière penale, la Corte EDU
dice che bisogna guardare al contenuto, quindi alla natura sostanziale di una determinata
materia, disciplina, sanzione: la Corte non considera decisiva la formale qualificazione
dell’illecito nell’ordinamento di questo o quel Paese del Consiglio d’Europa, ma dà rilievo
anche alla natura sostanziale dell’illecito e della relativa sanzione. Importa cioè stabilire se la
disposizione sanzionatoria si rivolga alla generalità dei consociati e non a una cerchia
limitata di destinatari; se la sanzione persegua uno scopo repressivo e preventivo e non
meramente risarcitorio; se abbia una connotazione afflittiva, potendo raggiungere un
rilevante grado di severità: criteri che si applicano alternativamente e non cumulativamente,
nel senso che si considera sufficiente che la verifica alla stregua di uno dei criteri ora
enunciati dia esito positivo perché l’illecito e la relativa sanzione debbano ascriversi alla
materia penale. Con la sentenza Öztürk del 1984, un cittadino tedesco di origine turca si
rivolto alla Corte EDU contestando di non avere avuto un giusto processo per l’applicazione
della sanzione amministrativa, pur senza avere un procedimento penale in senso stretto, ma
un giusto procedimento di applicazione.
Con la sentenza Grande Stevens del 2014, la Corte EDU affronta un problema diverso,
quello del ne bis in idem (l’imputato prosciolto o condannato in via definitiva non può essere
di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto). Il problema è capire se la
sanzione penale e quella amministrativa previste per lo stesso fatto sono entrambe
applicabili: si pone dunque anche un problema di duplicazione anche processuale per
quanto riguarda il giudizio per sanzione penale e sanzione amministrativa (doppio binario
sanzionatorio, è il caso dell’abuso di informazioni privilegiate e delle manipolazioni di
mercato). In termini generali, il concorso tra sanzioni penali e amministrative è disciplinato
dalla l. 689/1981, dove si prevede invece l’applicabilità della sola disposizione speciale
(quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione
che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che
prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale).
La sentenza ha detto che per capire se applicare entrambe le sanzioni o sceglierne una
soltanto occorre guardare se la sanzione amministrativa ha una connotazione afflittiva, se
può raggiungere un certo grado di severità, questi sono criteri che si possono applicare
alternativamente.
Questa assimilazione trova pieno fondamento per quanto riguarda i diritti della CEDU (art. 7
che enuncia fondamentalmente il principio di irretroattività della norma penale/divieto di
retroattività e si applica anche all’illecito amministrativo e questo l’ha riconosciuto anche la
nostra corte costituzionale).
Ciò non significa, d’altra parte, che tutte le garanzie di cui il diritto interno correda la
sanzione penale debbano considerarsi estese alle sanzioni amministrative, questo vale solo
per quanto stabilito dalla Corte EDU, quindi ci sono aspetti che la corte italiana ha precisato.
Detto diversamente, ciò che per la giurisprudenza europea ha natura penale deve essere
assistito dalle garanzie che la stessa ha elaborato per la materia penale; mentre solo ciò che
è penale per l’ordinamento nazionale beneficia degli ulteriori presidi rinvenibili nella
legislazione interna.
La materia dell’illecito amministrativo è entrata a pieno diritto nella cosiddetta matière pénale
secondo la CEDU e la giurisprudenza della Corte EDU.

Un analogo problema concerne i rapporti tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in


materia tributaria : ad es., le condotte di omesso versamento di ritenute dovute o certificate e
di omesso versamento dell’IVA sono sanzionate penalmente. In assenza di pronunce della
Corte Edu concernenti la materia tributaria che coinvolgano direttamente l’Italia, in un primo
tempo la Corte EDU ha affermato principi ampiamente coincidenti con quelli enunciati nella
sentenza Grande Stevens in materia di abusi di mercato: in particolare, in una sentenza
relativa alla Finlandia, ha ritenuto sussistente ai sensi dell’art. 4 Prot. 7 CEDU il divieto di un
giudizio penale per violazioni della normativa tributaria già sanzionate in via definitiva
dall’amministrazione fiscale mediante l’applicazione di sovrattasse.
Successivamente, la Corte di Strasburgo ha alquanto ridimensionato la portata del ne bis in
idem. Secondo la Corte, il divieto non sarebbe violato allorché ricorra una duplice
condizione: a) la risposta sanzionatoria complessiva (sanzione penale più sanzione
amministrativa) da parte dell’ordinamento non risulti sproporzionata per eccesso; b) esista
una « connessione sostanziale e cronologica sufficientemente stretta » tra procedimento
penale e procedimento amministrativo. In ogni caso, è necessario che i due procedimenti
siano, se non contemporanei, almeno vicini nel tempo e che nella determinazione della
sanzione applicata nel secondo procedimento si tenga conto anche di quella irrogata nel
primo.

Il problema del ne bis in idem in rapporto a sanzioni penali e sanzioni amministrative si pone
anche in relazione all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’ UE, che sancisce il
« diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato ». Sul doppio binario
sanzionatorio in materia tributaria la Corte di Giustizia UE si è dapprima pronunciata con una
sentenza relativa alla Svezia, nella quale ha affermato la diretta applicabilità dell’art. 50,
salvo demandare al giudice dello Stato membro il compito di stabilire se la sanzione
pecuniaria amministrativa in questione avesse natura sostanzialmente penale alla luce dei
criteri Engel. La risposta della Corte di Giustizia UE è venuta di recente con tre sentenze
che, facendo propria, almeno in parte, la logica che ha ispirato la Corte Edu nella citata
sentenza A. e B. contro Norvegia, hanno fissato i limiti entro i quali può considerarsi
rispettato il divieto di bis in idem previsto dall’art. 50 della Carta di Nizza. Fondamentale, a
giudizio della Corte, il ruolo del principio di proporzione, in forza del quale il complesso delle
sanzioni irrogate non può andare oltre lo stretto necessario; deve altresì essere garantito un
coordinamento fra i due procedimenti relativi all’idem factum, così da limitare il più possibile
gli oneri supplementari generati dalla duplicazione dei procedimenti e delle sanzioni.
Sempre in relazione all’Italia, si registra inoltre una pronuncia della Corte di Giustizia che ha
affrontato il peculiare problema dell’operatività del ne bis in idem nei casi in cui una sanzione
amministrativa per violazioni tributarie e una sanzione penale si rivolgano l’una nei confronti
di una persona giuridica e l’altra nei confronti della persona fisica del legale rappresentante
dell’ente, la Corte, premesso che l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali presuppone che
le due sanzioni si rivolgano nei confronti della stessa persona, ha escluso una violazione del
principio ne bis in idem qualora una sanzione riguardi una persona fisica e l’altra una
persona giuridica.

I principi enunciati a livello sovranazionale dalla Corte Edu e dalla Corte di Giustizia UE, nel
tentativo di contemperare le esigenze repressive proprie degli ordinamenti nazionali con le
istanze garantistiche espresse dal principio ne bis in idem, sono recepiti anche dalla
giurisprudenza nazionale. Ad es., in tema di danneggiamento aggravato, la Corte di
cassazione ha affermato che il principio ne bis in idem, come enunciato nell’art. 649 c.p.p.»
non opera allorché le due procedure —penale e amministrativa — «risultino complementari,
in quanto dirette al soddisfacimento di finalità sociali differenti, e detenninino l’inflizione di
una sanzione penale “integrata”, che sia prevedibile e, in concreto, complessivamente
proporzionata al disvalore del fatto».
Anche in tema di manipolazione di mercato, per la Corte di cassazione « non sussiste la
violazione del principio di ne bis in idem nel caso in cui le sanzioni penale ed amministrativa
complessivamente irrogate rispettino il principio di proporzionalità’, alla luce della recente
giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea… e della Corte europea dei diritti
dell’uomo ».
Un tentativo di soluzione dei problemi generati dal doppio binario sanzionatorio in materia di
illeciti finanziari è stato operato dal legislatore « quando per lo stesso fatto è stata applicata,
a carico del reo, dell’autore della violazione o dell’ente una sanzione amministrativa
pecuniaria ai sensi dell’articolo 187 septies ovvero una sanzione penale o una sanzione
amministrativa dipendente da reato: a) l’autorità giudiziaria o la CONSOB tengono conto, al
momento dell’irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già
irrogate; b) l’esazione della pena pecuniaria, della sanzione pecuniaria dipendente da reato
ovvero della sanzione pecuniaria amministrativa è limitata alla parte eccedente quella
riscossa, rispettivamente, dall’autorità amministrativa ovvero da quella giudiziaria ».

Ai confini del diritto penale (responsabilità amministrativa delle persone giuridiche)

La responsabilità delle persone giuridiche è una delle ragioni dell’importanza dell’illecito


amministrativo e della sua funzione complementare al diritto penale.
Quando diciamo “responsabilità penale delle persone giuridiche”, se ci riferiamo al nostro
ordinamento ne dobbiamo parlare in forma dubitativa, se ne parliamo in generale possiamo
dire che esiste ed è nata in ambito di common law. Oggi il panorama legislativo è mutato
radicalmente. Anche i paesi europei continentali prevedono, in larga maggioranza, la diretta
responsabilità delle imprese: perlopiù responsabilità penale, autonoma rispetto a quella
eventuale delle persone fisiche che agiscano per l’impresa.
Oggi perciò non vi è più un paradiso d’impunità per la criminalità delle imprese, anche se
nominalmente si tratta spesso di responsabilità amministrativa, come in Italia, Germania e
Spagna. Adottando il recente modello dei sistemi anglosassoni extraeuropei, i criteri di
attribuzione della responsabilità rispecchiano le patologie che si annidano colpevolmente
nell’impresa come organizzazione.
Con responsabilità penale delle persone giuridiche intendiamo una forma di responsabilità
delle persone giuridiche in ambito punitivo, perché oscilla tra la responsabilità penale vera e
propria e la responsabilità amministrativa, ma in ogni caso ne parliamo facendo riferimento
all’ambito punitivo nel quale rientrano entrambi.
Qual è la necessità di questo tipo di responsabilità? Il problema è sorto quando non si
riteneva sufficiente una risposta di tipo civilistico, l’allocazione del danno in certi contesti non
è sembrata una risposta sufficiente, es. la Ford ha provocato danni molto gravi alle persone
in seguito a incidenti per un determinato difetto di funzionamento di un modello, ciò ha
sollevato un grande allarme sociale.
Ci si rivolge a un ente/entità astratta, composta da tantissime persone che ci lavorano a
livelli diversi. Le ragioni per imputare la responsabilità di tipo punitivo spesso sono nate dalla
difficoltà di individuare una responsabilità penale individuale in capo a quella o a un’altra
persona, quindi la necessità di ricostruire la responsabilità penale in capo all’ente.
L’art. 27 della Costituzione dice che la responsabilità penale è personale, l’interpretazione
che si è portata avanti per molto tempo dava a questa espressione il significato che la
responsabilità fosse solo della persona fisica e non giuridica. Questa può essere considerata
come una spia del background culturale che esisteva negli ordinamenti a diritto continentale:
l’idea della pena è qualcosa che si lega alla persona; alla responsabilità penale si associa
normalmente l’idea dello stigma. In Europa quindi questa responsabilità è arrivata più tardi
ed è propria della Francia; la Germania ha fatto scelte diverse (negli anni 70, scelta di
responsabilizzazione sul piano dell’illecito amministrativo per la persona giuridica), per noi è
stata una sorta di occasione mancata, perché nella legge 689 la responsabilità
amministrativa della persona giuridica non è stata prevista, sono passati vent’anni e nel
2001 finalmente è arrivata la legge 231 che ha istituito una responsabilità della persona
giuridica.

Decreto legislativo 231 dell’8 giugno 2001, attuativo della legge-delega 29 settembre 2000 n.
300, che ratificava e dava esecuzione a una serie di convenzioni europee, in particolare in
materia di corruzione. Questa forma di responsabilità riguarda attualmente una serie
eterogenea di delitti: un lungo catalogo che, anche sotto la spinta dei più svariati obblighi
internazionali, sembra destinato a crescere ancora, negli anni a venire. L’iniziale campo di
applicazione della responsabilità da reato delle persone giuridiche era costituito da una serie
di delitti dolosi ai danni della Pubblica Amministrazione o delle Comunità europee.
Successivamente, per lo più sotto la spinta di convenzioni internazionali volte a contrastare i
fenomeni di criminalità organizzata realizzata anche grazie alla copertura di enti economici, il
legislatore italiano ha di anno in anno notevolmente allungato l’elenco dei reati ascrivibili agli
enti.
Con questo decreto legislativo, il legislatore ha configurato la “disciplina della responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di
personalità giuridica, dipendente da reato”. La disciplina dettata dal d.lgs. delimita la cerchia
degli enti ai quali può essere attribuita la responsabilità amministrativa da reato: gli enti
forniti di personalità giuridica, le società e le associazioni anche prive di personalità giuridica.
Sono invece esclusi lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici,
nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale. La Corte di cassazione ha
affermato l’applicabilità alle società con partecipazione pubblica, mista o totale, qualora
esercitino attività economiche. Rispondono anche gli enti stranieri, nel cui vantaggio o
interesse sia stato commesso un reato sul territorio del nostro Stato da parte di soggetti
apicali ovvero da parte di soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza. Ci sono elementi
di carattere formale che ci riportano all’illecito amministrativo: la responsabilità della persona
giuridica è una responsabilità di tipo amministrativo in dipendenza da reato. Ricondurre una
sanzione così grave è qualcosa che necessariamente si ripercuote anche sulla vita di tutte le
persone che lavorano all’interno dell’azienda e questa obiezione si è posta molto spesso per
la responsabilità penale o amministrativa dell’ente, perché nei casi più gravi in cui si arriva a
un’interdizione, a pagare sono tutte le persone. La dottrina e la giurisprudenza hanno
guardato dentro al testo di questa legge e hanno deciso cosa prendere come riferimento per
capire se si trattasse davvero di una sanzione amministrativa che si collega alla
commissione di un reato o se si tratta di una vera e propria responsabilità penale.
Il testo comincia con i “principi generali e i criteri di attribuzione della responsabilità
amministrativa”. L’art. 2 enuncia il principio di legalità e se guardiamo all’art. 1 del codice
penale si vede che ci sono formule che ritornano, il principio di legalità è enunciato quasi con
gli stessi termini. Oltre al principio di legalità, in particolare troviamo il principio di riserva di
legge: deve essere la legge a stabilire quando un ente può essere considerato responsabile
sul piano amministrativo in relazione a un determinato reato. Non può essere quindi un
decreto ministeriale a stabilire che la responsabilità delle persone giuridiche si collega anche
a tutta una serie di reati già esistenti, ma che il governo decide di ricondurre alla
responsabilità amministrativa.
Il secondo principio qui enunciato è il divieto di retroattività (l'ente non può essere ritenuto
responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in
relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una
legge entrata in vigore prima della commissione del fatto) ed entrambi i principi sono
tipici della matière pénale.
Un altro principio è che l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto che secondo
una legge posteriore non costituisce più reato (art. 3 secondo comma, riscritto sulla falsariga
dell’art. 2 del codice penale). Siamo di fronte a una scelta precisa del legislatore che ha
introdotto esattamente dei principi tipici e caratteristici del diritto penale e questo è un
esempio di omogeneità tra i due sistemi.
A norma dell’art. 26 d.lgs. n. 231/2001, la responsabilità dell’ente sorge anche se il reato ha
la forma del tentativo. In tal caso le sanzioni pecuniarie e interdittive sono ridotte da un terzo
alla metà. Inoltre, si applica alla responsabilità dell’ente una particolare causa sopravvenuta
di non punibilità: l’ente non risponde quando volontariamente impedisce il compimento
dell’azione o la realizzazione dell’evento.
Esistono però anche gli elementi soggettivi, quelli che chiamiamo dolo e colpa. Il legislatore
ha pensato a una sorta di responsabilità soggettiva dell’ente? Si è pensato all’eventualità di
guardare a chi ha agito in nome e per conto dell’ente, ma questo avrebbe una conseguenza:
anche se il soggetto fisico ritenuto responsabile ha commesso il fatto con dolo o colpa, se
l’ente risponde di riflesso, risponde oggettivamente. Questa situazione è stata pensata, ma
l’ente non risponderebbe davvero per responsabilità soggettiva propria, ma di riflesso per la
persona che ha commesso il fatto, quindi questa non sarebbe una vera e propria
responsabilità soggettiva in capo all’ente e la responsabilità del singolo potrebbe non essere
accertata: la ragione della nascita della responsabilità penale dell’ente è anche che spesso
non è possibile attribuire la responsabilità a quella o all’altra persona, cionondimeno la
responsabilità dell’ente può essere costruita in maniera autonoma.
La responsabilità “colpevole” dell’ente (art. 5) dà una serie di indicazioni diverse dà la
possibilità di costruire la colpa di organizzazione/in organizzazione: non è un’idea del nostro
ordinamento, ma è un’idea legata ai compliance programs nati come documento strutturale
interno delle aziende nel common law per fondare la responsabilità colpevole dell’ente.
Dall’art. 5 in poi vengono date alcune indicazioni: la responsabilità dell’ente non è proprio
oggettiva, anzi si è escluso che debba essere tale. L’ente risponde per reati commessi nel
suo interesse o a suo vantaggio da due tipi di persone che lavorano nell’ente (quelle con
funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua
unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone
che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; quelle
sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti precedentemente
elencati). L’ente non risponde se le persone apicali hanno agito nell’interesse esclusivo
proprio o di terzi.
L’art. 6 dice che “l'ente non risponde se prova che:
a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione
del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie
di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei
modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente
dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) le persone hanno commesso il
reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è
stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b)”.
La responsabilità è costruita con i presupposti dell’art. 5 e la verifica concreta in giudizio
dell’organizzazione di cui l’ente potrebbe essersi dotato. Nel momento in cui i modelli
vengono adottati è quindi possibile anche provare la propria irresponsabilità avendo
efficacemente dotato questa organizzazione.
L’art. 6 è quello che da un lato ci fa vedere come è possibile costruire la responsabilità
dell’ente, ma all’interno si nasconde un principio che è esattamente opposto a ciò che vige
nell’ambito della responsabilità penale: l’ente non risponde se prova che …, quindi si mette
nero su bianco l’inversione dell’onere della prova. E’ nell’interesse dell’ente provare di aver
adottato efficacemente questi meccanismi, quindi è tenuto a provare la propria
irresponsabilità. Ma la responsabilità dell’ente è penale, amministrativa o incarna un terzo
modello di responsabilità?
Per molti questo è indice del fatto che non siamo in presenza di una responsabilità penale,
che deve essere sempre provata in tutti i suoi aspetti dall’accusa e non deve essere chi si
difende a provare di non essere responsabile (in contrasto con la presunzione di non
colpevolezza stabilita dall’art. 27 comma 2 Cost.). Il giudice deve poi motivare su tutti gli
aspetti, altrimenti anche l’erronea o carente motivazione può essere ragione di ricorso in
Corte di Cassazione; inoltre si può anche obiettare che la legalità e l’irretroattività della
disciplina sono principi che già regolano gli illeciti amministrativi delle persone fisiche, la
colpevolezza è già richiesta per la responsabilità amministrativa delle persone fisiche e il
giudice penale è già competente a conoscere del reato e dell’illecito amministrativo della
persona fisica quando fra i due illeciti vi sia connessione obiettiva. L’inversione dell’onere
della prova a carico dell’ente non trova, invece, nessun ostacolo nell’inquadramento della
responsabilità come responsabilità amministrativa. L’inquadramento come responsabilità
penale si lascerebbe preferire per una parte della dottrina per i seguenti motivi: le garanzie
di diritto sostanziale fornite all’ente sono quelle proprie del diritto penale (legalità e
irretroattività); anche la responsabilità dell’ente si attiene al modello della responsabilità per
fatto proprio colpevole, sia pure attraverso una forma di colpevolezza che sconta le
peculiarità di un soggetto operante come organizzazione; competente a giudicare della
responsabilità dell’ente, assicurandogli le stesse garanzie difensive previste per la persona
fisica, è lo stesso giudice penale che giudica della sussistenza del reato.
Parla infine nel senso della responsabilità amministrativa dell’ente il nome delle sanzioni
comminate dalla legge. Si sa che un fatto costituisce reato solo quando la legge gli ricollega
una sanzione che il legislatore designa con il nome di una delle pene principali: nessuna
delle sanzioni applicabili all’ente è designata dalla legge con il nome di una delle pene
principali.
In giurisprudenza sembra prevalere un orientamento secondo il quale la responsabilità da
reato dell’ente non avrebbe natura né penale, né amministrativa: si tratterebbe di un tertium
genus nascente dall’ibridazione della responsabilità amministrativa con principi e concetti
propri della sfera penale.
La Corte di Cassazione si è infatti attestata su tre diverse interpretazioni: in alcuni casi di
responsabilità amministrativa, in altri di penale e in altri ancora la situazione intermedia è
stata definita responsabilità mista. Sono peraltro presenti nella giurisprudenza di legittimità
anche affermazioni a favore della natura amministrativa della responsabilità dell’ente. La
giurisprudenza esclude tra l’altro l’applicabilità all’ente della causa di non punibilità della
particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis del codice penale.

L’interesse è qualcosa che si valuta preventivamente, invece il vantaggio si valuta


successivamente, si valuta quello che è stato l’impatto offensivo.
I reati per cui l’ente può rispondere oggi sono tanti e vanno dal traffico dei migranti, alla
schiavitù, alla pornografia minorile: all’inizio l’elenco era piuttosto carente e non riguardava
neanche i reati commessi con la violazione delle regole sulla tutela sicurezza sul lavoro.
L’estensione del catalogo è dovuta all’esigenza di rispettare degli obblighi di carattere
internazionale, sia dalle Nazioni Unite che da direttive dell’UE. Oggi per noi è importante che
si sia responsabili per reati collegati alla criminalità organizzata, che ormai si è riprodotta
nelle stesse forme anche in altri Stati diversi dagli Stati culla (es. Germania, che non è
Paese in cui si è sviluppata autonomamente, ma il movimento di capitali ha fatto sì che si
spostasse anche all’estero con conseguenza gravosa che spesso gli altri ordinamenti non
sono ancora in grado adesso di avere strumenti normativi penali per rispondere).

Innanzitutto è necessario che il reato sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio


dell’ente da soggetti in posizione apicale o da soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza di
uno dei soggetti apicali. E’ esclusa la responsabilità dell’ente quando il soggetto abbia agito
nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. Come ha sottolineato la Corte di cassazione,
l’interesse e il vantaggio dell’ente sono concetti distinti e rilevano in via alternativa:
l’interesse va apprezzato ex ante, e cioè al momento della commissione del fatto, secondo
un metro prevalentemente soggettivo; il vantaggio va invece valutato ex post, secondo un
metro oggettivo, alla luce degli effetti concretamente prodotti dal reato. Quando si parla però
di reati colposi di evento (omicidio colposo, lesioni colpose), un esempio può essere il caso
Thyssenkrupp (dicembre 2007), in cui in un’acciaieria di Torino morirono 7 operai, ma la
responsabilità della persona giuridica per la morte (responsabilità per un evento) come può
essere valutata alla luce dei parametri di interesse e vantaggio? L’evento morte sicuramente
non è un vantaggio per nessuno, ma casomai l’interesse da parte dei soggetti apicali a non
investire nella prevenzione (condotta che viola regole cautelari: solo la violazione delle
regole cautelari può essere commessa nell’interesse o a vantaggio dell’ente, spesso allo
scopo di ottenere un risparmio nei costi di gestione). Nel momento in cui si tratta di prendere
decisioni per prevenzione, si decide di risparmiare su ulteriori misure per il fatto che
l’acciaieria era destinata a essere chiusa.
Il secondo criterio su cui si fonda l’attribuzione all’ente della responsabilità per i reati
commessi tanto da soggetti in posizione apicale, quanto da soggetti sottoposti alla direzione
o vigilanza dei soggetti apicali, è la rimproverabilità all’ente di una colpa di organizzazione:
cioè la mancata adozione o l’inefficace attuazione di un modello di organizzazione e
di gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi ovvero il
mancato affidamento del compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei
modelli a un organismo autonomo dell’ente.
La responsabilità dell’ente quindi si può definire come responsabilità di colpa o per colpa in
organizzazione perché l’oggetto della prova può essere questo ma se non si riesce a
provare, viene accertata una sorta di colpa di mancanza di organizzazione interna e legata
alla mancata vigilanza dal momento in cui si tratti di fatto che può essere regolarizzato da
chi sta in una sottoposizione alla vigilanza di soggetti che rappresentano gli apici.
Oggi, individuare questi modelli di organizzazione è diventata una specialità, è proprio un
mestiere perché c’è chi lavora su questi meccanismi, di cui hanno bisogno le società.
L’adozione di modelli di organizzazione non è di per sé obbligatoria, ma può escludere la
responsabilità dell’ente qualora venga commesso un reato nel suo interesse o vantaggio. I
modelli sono strutturati in modo unitario, avendo la funzione di individuare le aree di rischio
della commissione di reati all’interno del singolo ente e di vigilare sul rispetto degli standard
di comportamento da osservare e delle procedure da seguire da parte di chiunque. E’ stata
disciplinata di recente anche la protezione delle persone che lavorano all’interno
dell’impresa che possono essere in una posizione tale da informare su eventuali pratiche
illecite svolte all’interno dell’ente, questi sono i cosiddetti whistleblowers, per i quali è stato
previsto un meccanismo di protezione.
Questa responsabilità può essere una responsabilità accessoria legata alla commissione di
un fatto di reato, ma anche la possibilità di attribuire quel reato a una determinata persona.
Può quindi essere definita accessoria, ma la responsabilità (in questo caso autonoma)
dell’ente sussiste anche autonomamente (art. 8) quando autore reato non è stato identificato
oppure non è imputabile o quando si estingue per causa diversa dall’amnistia, ad es. la
morte del reo o per prescrizione.
Il cumulo delle due responsabilità è solo eventuale. La più importante e frequente ragione
dell’autonoma responsabilità dell’ente risiede nella complessità dei processi produttivi e
gestionali che, coinvolgendo una pluralità di persone, molto spesso impediscono di
identificare il singolo autore. In quanto l’autonoma responsabilità dell’ente è responsabilità
da reato, va accertata la sussistenza di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi del reato che
gli viene ascritto, per colpa d’organizzazione o per una politica criminale d’impresa.
Si è ritenuto di non applicare all’ente l’art. 131 bis del codice penale, la decisione è stata
presa dalla Corte di Cassazione nel 2019 e da qui si è trovato un criterio ulteriore per dire
che questa non è una responsabilità penale.
Questo aspetto soggettivo della responsabilità dell’ente è incentrato soprattutto sull’aspetto
colposo, però vi è anche la possibilità diversa, cioè quella di individuare una sorta di
responsabilità quasi connaturata alla natura stessa dell’ente, qualcosa che caratterizza
proprio la sua attività (una sorta di dolo dell’ente): ad esempio la situazione in cui l’ente
venga stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare reati di
associazione a delinquere e di associazione mafiosa. In questo caso, all’art. 24 ter (delitti di
criminalità organizzata), siamo di fronte a una sorte di dolus generalis legato ad attività
dell’impresa, al punto che non si tratta più di criminalità d'impresa ma di impresa criminale e
si applica la sanzione di interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività ai sensi dell’art. 16
comma terzo.L'impresa cessa completamente la sua attività. Normalmente la sanzione
viene anche applicata in via temporanea, perché se viene applicata in via definitiva pesa
tantissimo su tutte le persone che lavorano all’interno dell’ente.

E’ sul terreno probatorio che la disciplina italiana opera una distinzione tra i reati commessi
da soggetti in posizione apicale e i reati commessi da soggetti sottoposti all’altrui direzione.
Nel primo caso, l’onere di provare l’assenza di una colpa di organizzazione grava sull’ente. Il
dubbio non nuoce all’ente quando, invece, si tratti di reati commessi da soggetti sottoposti
all’altrui direzione o vigilanza: la legge non opera, in tal caso, nessuna inversione dell’onere
della prova.

Quindi la responsabilità della persona giuridica è una responsabilità amministrativa da reato,


che scatta nel momento in cui viene accertata la commissione di un reato, questo
indipendentemente dal fatto che possa essere una responsabilità di questo o di quel
soggetto preciso. Ma può anche essere che non sia così e ciononostante scatta la
responsabilità della persona giuridica con quelle premesse indicate prima. Oggi le imprese si
cautelano con l’adozione di modelli organizzativi, che non è obbligatorio adottare, ma
provando l’adozione e l’efficace applicazione di questi modelli l’ente può ritenersi esente di
responsabilità.

Le sanzioni comminate nei confronti dell’ente sono: (art. 9) la sanzione pecuniaria,


commisurata secondo lo schema delle quote, il cui numero viene determinato dal giudice in
base alla gravità del fatto, al grado della responsabilità dell’ente e all’attività svolta per
eliminare o attenuare le conseguenze del fatto o per prevenirne la reiterazione e il cui
importo dipende dalle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente; le sanzioni interdittive
temporanee, la cui scelta da parte del giudice va operata sulla base degli stessi criteri che
regolano la determinazione del numero delle quote delle pene pecuniarie; le sanzioni
interdittive definitive; la confisca del prezzo o del profitto del reato, che è sempre disposta
con la sentenza di condanna, salvi i diritti dei terzi in buona fede; la pubblicazione della
sentenza di condanna, il giudice può disporla quando nei confronti dell’ente viene applicata
una sanzione interdittiva.
A proposito delle sanzioni interdittive, la Corte di cassazione ha chiarito che si tratta di
sanzioni principali, con la conseguenza che in caso di patteggiamento le sanzioni interdittive
devono essere oggetto di un espresso accordo tra le parti in ordine al tipo ed alla durata.

La disciplina della prescrizione dell’illecito dell’ente è modellata sulla falsariga di quella


prevista per gli illeciti civili: cinque anni dalla consumazione del reato e inizio di un nuovo
periodo di prescrizione dopo ogni atto interruttivo.
L’estinzione fisiologica (e non fraudolenta) dell’ente— come nel caso della cancellazione di
una società a seguito di una procedura fallimentare - determina l’estinzione dell’illecito,
ricorrendo un caso assimilabile alla morte del reo prima della condanna.

Nel silenzio della legge, si è posto il problema se il danneggiato da reato possa costituirsi
parte civile nel procedimento contro l’ente chiamato a rispondere a norma del d.lgs. n.
231/2001. Prevale in giurisprudenza e in dottrina un orientamento negativo, per molteplici
ragioni: da un lato, l’autonomo illecito di cui l’ente deve rispondere non è produttivo di danni
diversi e ulteriori rispetto a quelli che derivano dal reato presupposto, per i quali l’ente
potrebbe essere chiamato a rispondere come responsabile civile ai sensi dell’art . 2049 c.c.;
d'altro lato, la disciplina del codice di procedura penale sulla costituzione di parte civile non è
applicabile neppure in via analogica, in quanto la mancata disciplina dell’istituto nell’ambito
del d.lgs. n. 231/2001 non costituisce una lacuna, bensì « una consapevole scelta del
legislatore ». La mancata previsione della possibilità della costituzione di parte civile nel
procedimento contro l’ente è stata ritenuta compatibile con il diritto dell’Unione Europea. Va
peraltro segnalato che l’ente potrà essere citato come responsabile civile nel processo
penale contro la persona fisica chiamata a rispondere del reato presupposto: normalmente,
ma noi necessariamente, si tratterà di un processo riunito a quello instaurato nei confronti
dell’ente per l’accertamento della responsabilità da reato.

Analisi e sistematica del reato

Quando si dice che a un reato deve seguire una pena, tutto questo è il preludio a un
accertamento che avverrà in ambito giudiziale. Ci sono vari modi di accertare i fatti, a questi
corrisponde una diversa commisurazione della pena più o meno accurata.
Nel nostro ordinamento vi è quindi la molteplicità di accertamento, è interessante notare che
negli Stati Uniti i fatti che vengono accertati in dibattimento sono in minima parte, la maggior
parte vengono risolti con il patteggiamento, la loro formula preferita.
Anche per i reati esistono le cause di estinzione: dalla sospensione condizionale della pena,
all’amnistia, alla prescrizione, all’oblazione alle contravvenzioni, alla morte del reo.
La storia dell’accertamento di reato può anche finire prima per cause naturali previste dalla
legge, ma non negative, che non rappresentano necessariamente una conseguenza non
voluta come la prescrizione: la situazione in cui si finisce prima perché la legge pensa che ci
possa essere una via diversa.
La giustizia riparativa è considerata come disciplina autonoma, i cui aspetti sono stati ritenuti
per molto tempo più appartenenti alla criminologia che al diritto penale, ma il diritto positivo
ha fatto registrare interventi in questo senso quindi non può più escludersi che questo
aspetto appartenga alla disciplina penalistica.
La giustizia riparativa può anche svolgere una funzione complementare della giustizia
penale, dal momento in cui questa faccia il suo corso.
La giustizia riparativa o transitional justice è stata implementata da una direttiva dell’UE del
2012, che fa riferimento a questi aspetti. Si tratta di una giustizia che non viene attuata con il
rito. Qualcosa che è rigorosamente al di fuori delle aule giudiziarie, è un procedimento
anche lungo che ha lo scopo di avvicinare l’autore del reato e la vittima, renderli partecipi in
modo attivo e solo se vi acconsentono liberamente, ad affrontare questioni che stanno sotto
al reato e quello di una terza persona che deve essere imparziale e non è il giudice.
Il mediatore è una figura molto diversa, diventata una professione, trova le sue origini nella
mediazione civile e anche in particolare nella mediazione familiare, ma oggi c’è anche la
figura del mediatore penale. Esistono uffici di mediazione presso tribunali, che però non
hanno a che fare con l’amministrazione classica della giustizia, il risultato verrà portato al
giudice, che dovrà poi prendere decisioni.
Esistono dei riferimenti normativi precisi, istituti come il perdono giudiziale per i minori, che
esisteva già nel codice rocco e a certe condizioni se si riteneva che il minore stesse
mostrando segni di pentimento, veniva concesso il perdono in una formula paternalistica.
Proprio partendo dal processo minorile nel 1998, quando è stato riformato il codice penale si
è istituita per la prima volta la sospensione del processo con messa alla prova: il
procedimento penale in corso viene sospeso per poter far in modo che il minore autore del
fatto di reato possa avviare un percorso di avvicinamento alla vittima e cercare di elaborare il
fatto e arrivare a una condizione tale per cui riconoscendo lo sbaglio e conoscendo la
sofferenza della vittima possa arrivare a convincersi della gravità di quanto ha fatto e
ricostruire un rapporto di tipo civile con la persona offesa senza dover conoscere l’istituzione
carceraria.
Es. questo istituto viene utilizzato anche in situazioni di violenza sessuale tra minorenni, in
cui non vi è violenza fisica ma pressione psicologica, o in situazioni di revenge porn
(diffusione non consensuale di immagini a contenuto sessuale di un’altra persona).
In certi contesti si è capito che la risposta migliore è fermare l’accertamento con la messa
alla prova, tutto nell’interesse del minore.
Poi nel 2000 si è fatto riferimento alla giustizia riparativa con il giudice di pace in sede
penale, prima della sentenza di condanna potrebbe tentare conciliazione tra le parti.

Il percorso non si è fermato, ma è arrivato alla modifica del codice penale: la sospensione
del procedimento con messa alla prova dell’imputato (art. 168 bis e quater del codice
penale) che rimandano poi al codice di procedura penale. E’ entrata in vigore una nuova
normativa dove si arriva a considerarla causa di estinzione del reato.
Da certe premesse culturali si trova il pensiero che a certe condizioni sia più utile per il
recupero della persona e della fase sociale, provare a trovare una composizione del
conflitto.
Sotto ogni reato c’è il conflitto, specialmente nei reati che coinvolgono le persone. E’ dunque
possibile coinvolgere in questo procedimento la vittima e l’autore, ciò presuppone un
incontro e un riconoscere la situazione dell’altro.
La mediazione è sempre consensuale (occorre quindi il pieno consenso partecipativo della
persona offesa) e non va mai confuso con quelle situazioni come es. la lettera di scuse, il
risarcimento del danno: tutto questo preso di per sé può non avere alcun senso, inserito
invece in un contesto di mediazione può funzionare.
La giustizia riparativa agisce anche dopo l’accertamento del reato, può essere sostitutiva di
un accertamento rituale, ma può anche essere qualcosa che aiuta dopo l’accertamento: sia
per gli accertamenti di fatti sanguinosi che non vedono una sentenza definitiva che accerti la
responsabilità (es. caso della strage di piazza della loggia, anni 70). Questo lungo percorso
giudiziario lasciava i parenti delle vittime delusi, la mediazione può aiutare nel momento in
cui accompagna il procedimento o è importante dopo che le responsabilità sono state
accertate e lasciano aperte delle grosse ferite nelle persone che hanno perso delle persone
care.
Lo scopo della mediazione è quella di riconoscere l’altro, conoscere le ragioni e capire se c’è
un punto di incontro che non necessariamente sta a metà, questo fa bene a entrambi. Sono
procedimenti applicati su piccola scala nel nostro ordinamento e in altri ordinamenti, ma
anche utilizzati su vastissima scala per ricostruire il tessuto sociale danneggiato, ad es. dopo
l’apartheid in Sudafrica, le commissioni di verità e riconciliazione hanno lavorato duramente.

La struttura del reato

Il codice penale e le altre leggi penali prevedono e puniscono una molteplicità di reati in
modo specifico. L’individuazione di un numero chiuso di specifiche figure di reato
rappresenta l’espressione di uno stadio evoluto del diritto penale, sotto un duplice profilo. Da
un lato, attraverso quel numero chiuso si realizza la prima autolimitazione della potestà
punitiva statuale. Dall’altro lato, l’individuazione delle singole figure di reato è un processo in
continuo svolgimento, che rispecchia una molteplicità di fenomeni: l’emersione di nuovi beni
o di nuove forme di aggressione a beni già protetti, nonché l’enucleazione di più specifiche
incriminazioni da originari, amplissimi tipi di reato.
La dottrina ha altresì proceduto ad astrarre dai singoli reati elementi comuni, che hanno
formato oggetto di elaborazione concettuale, in parte recepita e fatta propria dal legislatore
nella parte generale delle codificazioni. Sono nati così i concetti che compaiono nel libro
primo del codice penale italiano del 1930 sotto il titolo “Dei reati in generale”. Si tratta di
concetti generali, perché fissano una volta per tutte alcuni elementi comuni alla totalità o a
una parte dei tipi di reato descritti nella parte speciale e sono concetti astratti, perché
dipendono contenutisticamente dai singoli reati, ai quali debbono essere di volta in volta
accostati per acquistare rilevanza giuridica. Il numero dei concetti generali va oltre però
quello dei concetti delineati nella parte generale del codice. La dottrina giuridica può e deve
elaborare ulteriori concetti generali e astratti (fatto, antigiuridicità, colpevolezza, punibilità).
L’esigenza di analizzare separatamente gli elementi strutturali di ogni reato e di collocarli
secondo un ordine logico-sistematico è oggi avvertita dalla totalità della dottrina. Ciascun
elemento del reato è presupposto indispensabile per l’applicabilità della pena nel caso
concreto. Da un punto di vista formale, tutti gli elementi del reato si collocano perciò sullo
stesso piano. Se però ci si domanda qual è la funzione assolta da ciascun elemento nella
struttura del reato, le risposte saranno necessariamente diverse.
Ogni reato risulta composto da una serie di elementi, disposti l’uno di seguito all’altro nel
seguente ordine logico: il reato è un fatto umano, antigiuridico, colpevole, punibile. Non si
tratta dell’unico modello di analisi del reato: altri ne vengono proposti da parte della dottrina
e la preferenza dovrà essere data al modello che meglio rispecchia la fisionomia che il reato
possiede nel nostro ordinamento.

L’alternativa tra primato del fatto o primato dell’autore nell’analisi del reato, in altri termini tra
primato dell’oggettivo o primato del soggettivo, non può essere sciolta se non ricordando
quanto detto in precedenza. Si dovrà optare per un modello di analisi oggettivistico, che
muove cioè dall’accertamento del fatto, o viceversa per un modello soggettivistico, che
muova cioè dall’indagine sull’autore, a seconda che il legislatore abbia collocato il fatto o
l’autore al centro della struttura del reato.
Il legislatore italiano ha quasi costantemente costruito i tipi di reato assegnando il primato
all’oggettivo rispetto al soggettivo, cioè al fatto rispetto all’autore: nella legislazione italiana il
reato è, innanzitutto, offesa a uno o più beni giuridici. La Costituzione italiana ha infatti
disegnato un modello di reato che fa perno sul fatto (art. 25 co. 2 Cost.), assegnando invece
alla colpevolezza il ruolo di individuare le condizioni che consentono di rimproverare il fatto
al suo autore.
Il vincolo imposto dalla Costituzione opera altresì nei confronti dell’interprete, che dovrà
necessariamente muovere dall’individuazione del fatto incriminato, riservando ad uno stadio
logicamente successivo l’accertamento della personale responsabilità di chi ha commesso il
fatto.

L’approccio di tipo teorico ha delle ragioni ben precise: a seconda di come si guardano le
diverse parti del reato, c’è una ragione diversa per ritenere che ce ne siano due (concezione
bipartita), tre o addirittura quattro.
Nella manualità il termine bipartito viene fuori successivamente quando nasce la concezione
tripartita. Nella bipartita, il reato era costituito da elemento oggettivo ed elemento soggettivo,
poi con la concezione tripartita gli elementi sono diventati tre: fatto, antigiuridicità e
colpevolezza. Ultimamente è emersa anche la concezione quadripartita, adottata anche dal
nostro manuale, che aggiunge la punibilità.
Che si adotti una concezione o l’altra non cambia tantissimo dal tipo applicativo, ognuno
divide in parti ancora più specifiche e la ragione è capire perché si punisce, che cosa si
punisce e al contrario anche quando non si punisce e perché, che cosa manca.
E’ importante dunque il ragionamento che fa il giudice applicato alla realtà concreta:
scomporre la realtà concreta e applicare un ragionamento è utile per un approfondimento
dei vari aspetti.
Se si ritornasse verso la concezione bipartita si riuscirebbe di meno a vedere determinati
aspetti della realtà complessa che è il reato.
Qualunque sia l’approccio che si voglia adottare, il nostro ordinamento ha adottato una
concezione del diritto penale del fatto, già dal codice rocco, ma oggi è anche ancorato alla
costituzione (art. 25), in particolare è ancorato al principio di legalità, principio fondamentale
del diritto penale.
L’evoluzione è stata sottolineata soprattutto dagli studiosi, dagli scienziati penali, ma
guardando anche a quella che è la normativa. Nel codice non troviamo scritto “concezione
bipartita, tripartita o quadripartita”, ma troviamo delle descrizioni normative che non
necessariamente danno la cornice in cui sono state inserite, quindi vi è lo sforzo teorico per
collocare determinate parti all’interno di questo o quello schema.
Il sistema è dato dalla parte generale, è lì che troviamo gli elementi per costruire lo
specchietto della bipartita, ecc., ma tutti quelli che si sono avvicinati alla materia ne hanno
tratto poi delle conseguenze diverse. Dividere il reato in almeno tre parti però è più utile,
perché lo rende più chiaro.
Ad es. se abbiamo l’elemento oggettivo e quello soggettivo, i due elementi descrittivi sono
piuttosto basici e dentro al soggettivo non sappiamo bene cosa metterci.
Se parliamo invece di fatto, antigiuridicità e colpevolezza, nel termine antigiuridicità
individuiamo un determinato elemento al quale facciamo corrispondere situazioni che poi
troviamo nella normativa.
Il giudice nel momento in cui deve dare la motivazione, è chiamato comunque a dare delle
spiegazioni ed è tenuto a valutare tutti i punti e quindi a motivarli, non può eludere la
motivazione su un determinato punto.
Nella sostanza poi le cose cambiano a seconda di come il giudice si comporta, lo specchio
però è sempre la motivazione.

Per facilitare l’esercizio prendiamo in considerazione le prime due concezioni: 1. elemento


oggettivo ed elemento soggettivo o psicologico; 2. fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza.
L’indice analitico è un elenco di parole che si trovano in fondo al codice e da lì troveremo o
no queste parole, una volta individuate andremo a vedere a che cosa rimandano nel testo
del codice.
Es. elemento soggettivo/psicologico o colpevolezza (fault, Schuldhäftigkeit) rimanda agli
articoli 43, 42 e 27 Cost.
Lo scopo di questo discorso è vedere se dal termine colpevolezza, passati al testo
normativo troviamo il termine colpevolezza. Il termine colpevolezza non è nel testo di queste
norme, c’è solo il termine elemento psicologico e rimanda all’art. 43: la prima conclusione è
che c’è corrispondenza tra quello che è il linguaggio dottrinale e quello del codice per quanto
riguarda l’elemento psicologico.
L’art. 43 contiene l’espressione elemento psicologico non nel testo, ma nella rubrica
(Elemento psicologico del reato). L’altro termine usato è colpevolezza e non c’è
corrispondenza tra la dottrina e la normativa, perché non lo troviamo negli articoli, ma c’è
comunque una cosa da notare: quando nell’indice analitico troviamo il termine colpevolezza,
veniamo rimandati agli artt. 42 e 43, sia la colpevolezza che l’elemento psicologico
rimandano all’art. 43, questo vuol dire che c’è realmente un’attinenza tra i due, che
rimandano agli stessi elementi strutturali del reato. Quindi quando parliamo di colpevolezza
o di elemento psicologico possiamo ben dire che ci stiamo riferendo ad un oggetto che non
è identico, ma ha molta affinità.
All’art. 43, l’elemento di contatto è proprio la descrizione del dolo e della colpa, abbiamo
dunque a che fare con qualcosa che attiene alla colpevolezza.
Mettendo in rapporto i due termini in un disegno, possiamo fare un grande cerchio con la
scritta colpevolezza e all’interno fare un cerchio più piccolo con su scritto elemento
psicologico: esso quindi non è l’unico, ma uno degli elementi della colpevolezza = l’elemento
psicologico fa parte della colpevolezza.
L’altro art. da tenere presente è il 42, dove in rubrica ha responsabilità per dolo o per
colpa o per delitto preterintenzionale, questo art. al primo comma dice che “nessuno
può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se
non l'ha commessa con coscienza e volontà” e descrive quello che è il criterio di
imputazione di un’azione, che vale per tutti.
Il secondo comma va più nello specifico “nessuno può essere punito per un fatto
preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvo i casi di
delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”.
L’art. 43 ci descrive quando il delitto è doloso, preterintenzionale o colposo.
Nell’indice analitico abbiamo trovato citato anche l’art. 27 Cost.: la responsabilità penale è
personale, quindi questo primo comma costituzionalizza il principio di colpevolezza e anche
in questo contesto dobbiamo riferire all’elemento colpevolezza, l’elemento psicologico.
Come già sappiamo, di questo primo comma sono state fatte letture diverse a seconda del
momento storico: da una prima lettura minima che serviva ad escludere la responsabilità per
fatto di altri, si è arrivati alla seconda, si risponde non soltanto per fatto proprio, ma per fatto
proprio colpevole, dove colpevole indica la necessità della presenza del dolo o della colpa,
cioè dell’elemento psicologico. Che sia questa ormai l’interpretazione è dato dalle numerose
sentenze della Corte costituzionale, a partire dalla 364/88.

Ora cerchiamo nell’indice analitico se c’è l’espressione elemento oggettivo o fatto tipico
(criminal conduct, Tatbestandsmäßigkeit): c’è solo il termine fatto e si trovano diversi
riferimenti (determinato, di lieve entità, doloso della persona offesa, espressamente previsto
come reato…) si trovano dunque tante indicazioni ma nessun riferimento a fatto tipico o
tipicità.
Troviamo sia situazioni che fanno riferimento alla parte generale (artt. 1, 2, 131 bis, …) sia
situazioni che fanno riferimento alla parte speciale (in particolare art. 341 oltraggio a
pubblico ufficiale; art. 609 bis violenza sessuale, che non fa riferimento specifico al fatto, ma
lo fa nei commi precedenti e “nei casi di minore gravità” fa un riferimento implicito a una
situazione di fatto.
Ci ricolleghiamo dunque al termine elemento oggettivo, per capire se il fatto e l’elemento
oggettivo possono indicare la stessa cosa.
L’elemento oggettivo e il fatto possono essere usati per indicare lo stesso significato, a volte
però quando la legge dice fatto, probabilmente non indica solo l’elemento oggettivo, ma
forse si riferisce al fatto concreto complessivamente considerato: la legge però non parla di
fatto concreto, ma di fatto.
La parola fatto indica dunque allo stesso tempo il fatto concreto che realizza l’agente, ma
anche il fatto descritto dalla norma, a seconda del contesto.
Non abbiamo trovato l’aggettivo tipico, ma lo riprendiamo perché se teniamo presente che
possiamo indicare queste due cose, abbiamo elementi per capire che cosa vuol dire tipico: il
fatto è tipico quando il fatto concreto corrisponde agli elementi descritti nella norma, che
rappresenta la fattispecie astratta. A volte il fatto tipico è usato per indicare solo la fattispecie
astratta, ma tutto questo assume significato nel momento in cui un fatto concreto
corrisponde esattamente agli elementi descritti nella norma e quindi si dice che il fatto
concreto diventa un fatto tipico.
Il termine fatto ricorre in molti altri artt. della parte generale non indicati nell’indice analitico
(artt. 45, 46, 47, 49, …). In tutte queste situazioni il significato è lo stesso, quando diciamo
fatto dobbiamo quindi capire se facciamo riferimento a un fatto concreto e ad es. nell’art. 47
troviamo l’espressione completa e chiara (errore di fatto). La stessa espressione completa si
trova anche negli artt. 48 e 49 per reato supposto erroneamento o reato impossibile.
Il codice descrive delle fattispecie astratte alle quali deve corrispondere il fatto concreto
commesso dalla persona agente. Il fatto che chiamiamo tipico è costituito da parti diverse:
elementi che sinteticamente possiamo riportare a tre: la condotta, l’evento e il nesso causale
o rapporto di causalità.

Ora cerchiamo il termine condotta nell’indice analitico e troviamo quella contraria all’ordine o
lavoro delle famiglie (nella parte speciale), del reo contemporanea o susseguente al reato
(qui non parliamo del fatto di reato), della persona offesa, riparatoria.
Qui condotta vuol dire quello che vuol dire nel linguaggio comune: la condotta è un
comportamento. In tutte queste situazioni condotta vuol dire comunque comportamento e
quindi possiamo notare la coincidenza tra un termine tecnico usato da giudici e dottrina, ma
che il legislatore usa raramente e quello del linguaggio comune.
Il codice non ignora questo elemento, ma usa dei termini diversi: art. 42 comma 1 non dice
condotta, ma usa azione od omissione. L’art. 40 descrive il rapporto di causalità e usa di
nuovo azione od omissione. L’art. 41 tratta il concorso di cause e di nuovo troviamo azione
od omissione. Anche l’art. 43 che descrive l’elemento psicologico del reato, descrive il delitto
doloso e di nuovo parla di azione od omissione: parla della condotta che è uno degli
elementi nei quali scomponiamo il fatto tipico o elemento oggettivo. La condotta può essere
quindi attiva od omissiva.
Proprio leggendo queste norme troviamo anche il secondo elemento che appartiene al fatto
tipico, cioè l’evento: art. 40 (nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla
legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del
reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento,
che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo), art. 43 (il delitto: è
doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il
risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto,
è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od
omissione).
Che cos’è un evento? La morte, la lesione personale si possono indicare come eventi nel
linguaggio comune. L’evento cambia qualcosa nella situazione concreta, qualcosa di
materiale quindi che si può descrivere empiricamente, una modificazione della realtà.
Nell’indice analitico abbiamo una serie di riferimenti alla voce “evento”, artt. 44, 83, 40, 43,
49. Abbiamo un panorama minimo di base in cui viene nominato l’evento, possiamo
completare con l’art. 56 (chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a
commettere un delitto, risponde di delitto tentato(3), se l'azione non si compie o
l'evento non si verifica), ma è necessario capire se in tutti questi contesti normativi il
termine evento ha lo stesso significato.
Art. 40: non è diverso da quello che abbiamo detto precedentemente, abbiamo la condotta
(azione/omissione) e l’evento che consegue all’azione od omissione.
Art. 42 comma 3: anche qui si parla di conseguenza ad azione od omissione.
Art. 43: quest’articolo usa gli stessi termini dei precedenti, quindi la logica come prima fase
ci porterebbe a dire che stiamo parlando di nuovo dell’evento come è stato descritto prima.
Ma è necessaria una riflessione: qui l’art. 43 sta descrivendo il delitto doloso, poi
preterintenzionale e colposo. Ci sta dando gli elementi costitutivi del dolo riferiti al delitto,
allora qui viene automatico pensare che questa descrizione dovrebbe potersi riferire a
qualunque tipo di delitto doloso, ma nei reati che si manifestano come delitti c’è sempre un
elemento come lo abbiamo descritto? Per es. art. 416 associazione per delinquere, art. 593
omissione di soccorso base prevista nel codice, questo che cos’è? E’ un reato in cui
troviamo una condotta omissiva, sia nel primo che nel secondo comma, ed è rilevante di per
sé perché la pena è comminata per il solo avviso all’autorità o la mancata prestazione
(chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o
un'altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo,
per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all'Autorità è punito
con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a duemilacinquecento euro.

Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato,
ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l'assistenza
occorrente o di darne immediato avviso all'Autorità). Da questa minima ricognizione
vediamo che in questi reati in certi casi c’è l’evento come pensato prima, in altre situazioni
c’è soltanto la condotta. Torniamo quindi all’art. 43 che descrive il delitto doloso come riferito
a un evento dannoso o pericoloso… che vuol dire? Qui il termine evento va inteso in modo
più ampio, non vuole indicare soltanto l’evento in senso naturalistico, ma indicherà gli
elementi che costituiscono il fatto di reato: la scelta è stata fatta mettendo insieme le varie
norme, altrimenti la descrizione del dolo si applicherebbe soltanto a una parte dei delitti. Il
discorso è ancora diverso se prendiamo il delitto preterintenzionale: siamo ritornati
all’accezione ristretta (evento in senso naturalistico descritto come modificazione della
realtà) e lo possiamo dire in maniera sicura perché sono solo due i casi (omicidio
preterintenzionale e aborto preterintenzionale). Quindi quando la legge parla di evento non
intende sempre la stessa cosa.

Il legislatore ha la tendenza alla descrittività ed è sempre più facile descrivere determinati


aspetti se si fa un riferimento a un evento, qualcosa di staccato dalla condotta.
Quello che è oggetto del dolo abbiamo conferma interna del fatto che non può essere solo
l’evento in senso tecnico: l’art. 47 errore di fatto conferma che l’art. 43 non può riferirsi
soltanto all’evento. L’errore è il contrario del dolo, ciò che può escludere il dolo.
Action/omission, Handlung/Unterlassung; l’evento in senso naturalistico result, Erfolg.
Abbiamo notato quindi che l’interpretazione letterale non sempre è sufficiente,
l’interpretazione sistematica (leggere insieme gli art. 43, 47) e quella teleologica (che guarda
alla finalità della norma) possono essere molto utili.
Art. 40 il rapporto causale ha bisogno di elementi esterni per essere accertato, le
conoscenze possono non essere immediatamente alla portata del giudice e a volte non sono
consolidate, per questo la scelta dell’ordinamento tedesco è di non descrivere il nesso di
causalità.

Lo schema di analisi del reato che meglio rispecchia la fisionomia che ogni reato possiede
nel nostro ordinamento è quello che individua nel reato quattro elementi: un fatto (umano);
l’antigiuridicità del fatto; la colpevolezza del fatto antigiuridico; la punibilità del fatto
antigiuridico e colpevole. Il reato è dunque un fatto (umano) antigiuridico, colpevole, punibile.
Punibile può essere soltanto un fatto umano antigiuridico e colpevole, colpevole può essere
soltanto un fatto umano antigiuridico, antigiuridico può essere soltanto un fatto umano.

II secondo elemento del reato — l’antigiurìdicità — esprime il rapporto di contraddizione tra il


fatto e l’intero ordinamento giuridico. Questo rapporto di contraddizione non si configura
quando anche una sola norma, ubicata in qualsiasi luogo dell’ordinamento, facoltizza o
rende doverosa la realizzazione del fatto. Si dà il nome di cause di giustificazione all’insieme
delle facoltà e dei doveri derivanti da norme che autorizzano o impongono la realizzazione di
un fatto penalmente rilevante (es. legittima difesa).
Se il fatto è commesso in assenza di ogni causa di giustificazione, il fatto è antigiuridico, e
costituirà reato se concorreranno gli altri estremi del reato (la colpevolezza e la punibilità).
Se invece è commesso in presenza di una causa di giustificazione, il fatto è lecito, e quindi
non costituisce reato, difettando l’estremo dell’antigiuridicità: è lecito in qualsiasi luogo
dell’ordinamento, e perciò non assoggettabile a nessun tipo di sanzione. In questo senso la
dottrina parla di ‘efficacia universale” delle cause di giustificazione.

Il diritto penale moderno ha però raggiunto uno stadio di civiltà nel quale rapporti fra il
singolo agente e il fatto antigiuridico da lui commesso sono molto più ricchi e complessi.
Dopo che sia stata accertata l’esistenza di un fatto antigiuridico, la legge penale esige infatti
che entri in scena un ulteriore elemento nella struttura del reato: la colpevolezza dell’agente.
Con questa formula si designa l’insieme dei requisiti dai quali dipende la possibilità di
muovere all’agente un rimprovero per aver commesso il fatto antigiuridico. Nel diritto vigente
i requisiti sui quali si fonda e si gradua il rimprovero personale’ per la commissione del fatto
antigiuridico possono così individuarsi:
- dolo, colpa, ovvero dolo misto a colpa;
- assenza di scusanti, ovvero normalità delle circostanze concomitanti alla
commissione del fatto;
- conoscenza o conoscibilità della legge penale violata;
- capacità di intendere e di volere.
Si tratta di requisiti in parte espressamente fissati dal legislatore, il quale nondimeno ha
introdotto ampie deroghe alle istanze del principio di colpevolezza (responsabilità oggettiva,
…). Tutti i requisiti sui quali si fonda la colpevolezza dell’agente vanno riferiti e strettamente
collegati al singolo fatto antigiuridico da lui commesso.
Il dolo è rappresentazione e volizione di tutti gli estremi del fatto antigiuridico. La colpa
consiste nella negligenza, nell’imprudenza, nell’imperizia o nell’inosservanza di norme
giuridiche preventive e deve abbracciare tutti gli elementi del fatto antigiuridico. Il dolo misto
a colpa consiste nella rappresentazione e volizione di taluni elementi del fatto e nella
realizzazione per colpa di altri elementi (l'evento, un presupposto della condotta, etc). Per
considerare colpevole l’agente non basta che abbia commesso un fatto antigiuridico con
dolo, per colpa o con dolo misto a colpa: la colpevolezza esige anche che il fatto
antigiuridico sia commesso dall’agente in assenza di scusanti, cioè di circostanze anormali,
tali, nella valutazione legislativa, da influenzare in modo irresistibile la volontà dell’agente o
le sue capacità psicofisiche e da rendere perciò inesigibile un comportamento diverso da
quello tenuto nel caso concreto. La conoscenza o la conoscibilità della legge penale violata
comporta che l’agente sapesse, o almeno potesse sapere usando la dovuta diligenza, che il
fatto antigiuridico da lui commesso — doloso, colposo o rimproverabile a titolo di dolo misto
a colpa - era represso da una norma incriminatrice. Infine: non è colpevole, e quindi non può
essere punito, chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non era imputabile (art. 85 c.p.);
ed è imputabile chi è « capace » sia « di intendere », cioè di rendersi conto del significato o
delle conseguenze dei propri atti, sia « di volere », cioè di inibire o attivare i propri impulsi.

. Nel nostro ordinamento le minacce di pena operano “con riserva : si applicano cioè ai fatti
antigiuridici e colpevoli solo in presenza di una serie di ulteriori condizioni. Se tali condizioni
non sussistono, la pena è inapplicabile e il fatto non costituisce reato. Compare così, nella
struttura del reato, l’ultimo elemento: la punibilità del fatto antigiuridico e colpevole.
All’interno di questa categoria va ricondotto l’insieme delle eventuali condizioni, ulteriori ed
esterne rispetto al fatto antigiuridico e colpevole, che fondano o escludono l’opportunità di
punirlo. E’ controverso se la punibilità debba essere collocata tra gli elementi del reato,
ovvero se appartenga ad un diverso e ulteriore capitolo del diritto penale: in altri termini, se il
nome di reato debba attribuirsi solo a un fatto antigiuridico, colpevole e punibile o se invece
ad integrare il reato siano sufficienti i primi tre elementi, , salvo prendere atto che
l’assoggettamento a pena dell’autore di un fatto antigiuridico e colpevole passa attraverso un
successivo, autonomo accertamento, che ha per oggetto la punibilità.
La pena è ciò che caratterizza il diritto penale rispetto a qualsiasi altro ramo
dell’ordinamento, e ciò che caratterizza il reato rispetto ad ogni altra figura di illecito: è
dunque la stessa fisionomia del reato a reclamare una sistematica che collochi la punibilità
tra gli elementi del reato. Il reato in astratto è individuato dalla comminatoria legale di una
pena: del pari, di reato potrà parlarsi in concreto solo in presenza di un fatto antigiuridico,
colpevole e punibile. La logica sottostante alla presenza della punibilità nella struttura del
reato può così compendiarsi: tra un fatto antigiuridico e colpevole e la relativa sanzione vi è -
o, meglio, vi può essere - uno spazio riservato ad ulteriori scelte politico-criminali
sull’opportunità di una effettiva punizione, che il legislatore può compiere direttamente,
ovvero indirettamente, attribuendo il relativo potere al giudice.
Le scelte del legislatore sull’opportunità di punire un fatto antigiuridico e colpevole possono
esprimersi nella individuazione di un duplice ordine di condizioni: a) condizioni che fondano
la punibilità; b) condizioni (o cause) che escludano la punibilità.

Fondano la punibilità quelle che il legislatore designa come «condizioni obiettive di


punibilità». Si tratta di quegli accadimenti, menzionati in una norma incriminatrice, che non
contribuiscono in alcun modo a descrivere l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma, ma
esprimono solo valutazioni di opportunità in ordine all’inflizione della pena: ad es., la
sorpresa in flagranza nel reato di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli e la
dichiarazione di fallimento nel reato di bancarotta prefallimentare.
Escludono la punibilità — e possono dunque designarsi complessivamente come ‘cause di
esclusione della punibilità’: a) alcune situazioni contestuali alla commissione del fatto che
attengono alla posizione personale dell’agente o ai suoi rapporti con la vittima (cause
personali concomitanti di non punibilità): ad es., la non punibilità di chi ha commesso la gran
parte dei delitti contro il patrimonio a danno di un congiunto; fc>) alcuni comportamenti
dell’agente susseguenti alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole ■<cause
personali sopravvenute di non punibilità) ad es., la ritrattazione nei delitti di false
informazioni al pubblico ministero, falsa testimonianza e falsa perizia o interpretazione; c)
alcune situazioni che ineriscono all’entità dell’offesa (cause oggettive di esclusione della
punibilità) : è il caso dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto; d) alcuni
fatti, naturali o giuridici, successivi alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole, che o
sono del tutto indipendenti da comportamenti dell’agente o comunque non si esauriscono in
un comportamento dell’agente (c.d. cause di estinzione del reato) ad es., la morte del reo
prima della condanna.
Talvolta il legislatore rimette al giudice il compito di valutare l’opportunità di una effettiva
punizione dell’autore di un fatto antigiuridico e colpevole. E’ il caso, ad esempio,
dell’oblazione nelle contravvenzioni punite con pene alternative:
punibilità del ‘contravventore’, che chieda tempestivamente di pagare una somma
corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda prevista dalla legge per la
contravvenzione commessa. E’ il caso, inoltre, della esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto: all’interno dei limiti fissati dalla legge per l’applicabilità
dell’istituto, il giudice è chiamato infatti ad accertare in concreto se, per l’esiguità del danno o
del pericolo e per le modalità della condotta, l’offesa sia così tenue da rendere inopportuna
l’inflizione di una pena.

L’ordine nel quale sono disposti gli elementi del reato secondo la sistematica quadripartita è
un ordine logico che ha un fondamento normativo, come emerge in particolare da due
disposizioni del codice di procedura penale. L art. 530 c.p.p., in relazione alla sentenza
pronunciata all’esito del dibattimento, individua formule assolutorie corrispondenti a ciascun
elemento della sistematica quadripartita del reato: il fatto non sussiste; il fatto è stato
commesso in presenza di una causa di giustificazione; il fatto non costituisce reato; il fatto è
stato commesso in presenza di una causa personale di non punibilità.
art. 129 co. 1 c.p.p., inoltre, impone l’immediato proscioglimento in ogni stato e grado del
processo quando il giudice riconosce che il fatto non sussiste ovvero che il fatto non
costituisce reato (con quest’ultima formula si allude, qui, alla presenza di cause di
giustificazione, all’assenza dei requisiti della colpevolezza, all’assenza di condizioni obiettive
di punibilità ovvero alla presenza di cause di esclusione della punibilità).

Questo ordine logico e normativo soddisfa un interesse del cittadino, si riflette sull’attività
dell’avvocato penalista e, soprattutto, vincola il giudice nella scelta della formula di
proscioglimento. Il cittadino, nella veste di imputato, ha un preciso interesse alla formula di
proscioglimento. L’avvocato penalista, che sostenga la tesi della non configurabilità del reato
per difetto di questo o di quell’elemento, dovrà —in sede di conclusioni - chiedere la formula
assolutoria corrispondente. 1 giudice — chiamato a scegliere la corretta formula di
proscioglimento non potrà escludere la responsabilità argomentando in base alla presenza
di una causa di giustificazione, quando non sussista nessun fatto penalmente rilevante da
giustificare; né potrà escluderla, ritenendo insussistente la capacità di intendere o di volere,
senza aver previamente accertato l’esistenza di un fatto antigiuridico doloso o colposo, non
scusato, etc.; né potrà infine assolvere l’imputato sulla base dell’assenza di una condizione
oggettiva di punibilità o della presenza di una causa di esclusione della punibilità, senza aver
previamente accertato l’esistenza di un fatto antigiuridico e colpevole.
Secondo questa logica, la Corte di cassazione ha affermato che « ai fini dell’applicazione
della esatta formula di assoluzione, il giudice deve innanzitutto stabi lire se il ‘fatto* sussiste
nei suoi elementi obiettivi (condotta, evento, rapporto di causalità) e, solo in caso di
accertamento affermativo, può scendere all’esame degli altri elementi (imputabilità, dolo,
colpa, condizioni obiettive di punibilità, etc.) da cui è condizionata la sussistenza del reato».
In definitiva, la sistematica quadripartita garantisce sia all’analisi teorica, sia alla prassi
giudiziaria completezza, razionalità e verificabilità: nell’accertamento della responsabilità
penale non si trascurerà nessun aspetto rilevante per il diritto; gli elementi del reato verranno
vagliati secondo una successione che rispecchia l’ordine normativo e nella quale troveranno
posto solo gli argomenti pertinenti ad ogni singolo elemento.

Peraltro, il diritto penale in ogni tempo e in ogni luogo risulta composto, oltre che da divieti di
agire, anche da comandi di agire: accanto ai reati commissivi compaiono perciò reati
omissivi, cioè reati caratterizzati dall’omissione delle azioni imposte da quei comandi per
proteggere i beni giuridici. Avendo però assunto come prototipo i reati commissivi, la teoria
del reato ha trasportato e applicato le regole proprie dei reati commissivi anche ai reati
omissivi. Ciò ha portato ad oscurare le notevoli peculiarità strutturali dei reati omissivi,
presenti in molti capitoli della parte generale del diritto pennate. D’altro canto, le peculiarità
strutturali dei reati omissivi potevano restare in ombra senza molti danni finché lo Stato
puniva raramente le condotte omissive. Negli ultimi decenni la situazione è radicalmente
cambiata. L’avvento dello Stato sociale, e del governo pubblico dell’economia, ha
comportato la crescita progressiva dei comandi di agire, la cui inottemperanza viene
penalmente sanzionata per assicurare efficacia agli interventi e ai controlli degli organi
pubblici. Il ruolo di grande spicco assunto dai reati omissivi nel diritto penale moderno deve
tradursi in uno studio più attento ed esclusivo delle loro peculiarità. Ciò suggerisce, ai fini
didattici, di dedicare uno speciale rilievo ai reati omissivi all’interno dei capitoli relativi al fatto
e alla colpevolezza, nonché di segnalare comunque i tratti caratterizzanti della responsabilità
omissiva nei più svariati capitoli della parte generale.

Il fatto

Il fatto è l’insieme degli elementi oggettivi che individuano e caratterizzano ogni singolo reato
come specifica forma di offesa a uno o più beni giuridici. Essendo il fatto una specifica forma
di offesa ad uno o a più beni giuridici, ne segue, che compongono il fatto tutti e solo quegli
elementi oggettivi che concorrono a descrivere quella forma di offesa: la condotta, cioè
un’azione o un'omissione, cioè il mancato compimento di una azione giuridicamente
doverosa; i presupposti della condotta cioè le situazioni - di fatto o di diritto che devono
preesistere o coesiste la condotta; l’evento o gli eventi, cioè gli accadimenti temporalmente e
spazialmente separati dalla condotta e da questa causati; il rapporto di causalità tra condotta
ed evento; l’oggetto materiale, cioè la persona o la cosa sulla quale incide l’azione o
l’omissione o l’evento; le qualità o le relazioni giuridiche o di fatto richieste per il soggetto
attivo del reato nei c.d. reati propri, cioè nei reati che possono essere commessi soltanto da
soggetti qualificati, l’offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, nella forma
del danno o in quella del pericolo.
Non tutti gli elementi menzionati compaiono in ogni fatto di reato. Mentre una condotta
un’offesa sono presenti in qualsiasi fatto penalmente rilevante, gli altri elementi sono
presenti soltanto in talune figure di reato.
In particolare, vi sono reati in cui il fatto è costituito soltanto da un’azione o da un’omissione
dannosa o pericolosa - reati di mera condotta - mentre nei reati di evento il fatto consta di
una condotta, di uno o più eventi e di un rapporto di causalità che collega la condotta
all’evento o agli eventi.
Gli elementi costitutivi del fatto sono di regola espressamente previsti dalla norma
incriminatrice; talora sono invece sottintesi, nel senso che la loro presenza è tacitamente
richiesta dalla norma per la configurazione del fatto.
Ad esempio, nella truffa è un elemento sottinteso il compimento di un atto di disposizione
patrimoniale da parte della persona indotta in errore.
Nella grande maggioranza dei casi gli elementi del fatto di reato sono individuati dal
legislatore come elementi positivi, cioè come elementi la cui presenza nel caso concreto è
necessaria per la sussistenza del fatto. Talora però la legge richiede per l’esistenza del fatto
l’assenza di una qualche situazione di fatto o giuridica: si parla in questo caso di elementi
negativi Ad esempio, risponde di procurato aborto chiunque cagiona l’interruzione della
gravidanza senza il consenso della donna.
Per individuare gli elementi del fatto di reato il legislatore può fare uso sia di concetti
descrittivi, sia di concetti normativi. Si parla di concetti descrittivi allorché il legislatore usa
termini che fanno riferimento, descrivendoli, a oggetti della realtà fisica o psichica,
suscettibili di essere accertati con i sensi. Un elemento del reato è invece individuato con un
concetto normativo quando il legislatore fa ricorso ad un concetto che fa riferimento ad una
norma o ad un insieme di norme giuridiche o extragiuridiche: con la conseguenza che
quell’elemento del reato può essere compreso soltanto sotto il presupposto logico della
norma richiamata. La distinzione rileva, oltre che in relazione al principio costituzionale di
precisione, nella materia della successione di leggi penali e in tema di dolo e errore sulla
legge extrapenale.

Si parla di reati di mera condotta quando il fatto si esaurisce nel compimento di una o più
azioni (reati di mera azione) ovvero nel mancato compimento un'azione doverosa (reati di
mera omissione o reati omissivi propri): in questi reati è irrilevante che all'azione o
all’omissione descritta dalla norma incriminatrice consegua il verificarsi di uno o più eventi.
I reati di pura condotta si sostanziano soltanto in una condotta umana, si perfezionano
quindi al compiersi di una condotta.
Si parla invece di reati di evento quando il fatto consta non solo di un’azione o di
un’omissione, ma anche di uno o più eventi, conseguenza dell’azione (reati commissivi di
evento) o dell’omissione (reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione).
La distinzione tra reati di mera condotta e reati di evento rileva sotto svariati profili: tra l’altro,
solo nei reati di evento sorge il problema del nesso di causalità: ; solo le norme incriminatrici
di reati di evento, combinate con l’art.40 co. 2 c.p., possono dar vita a reati omissivi impropri.
Ai fini dell’applicabilità della legge penale italiana, nei reati di mera azione o di mera
omissione la legge italiana è applicabile se la condotta è stata realizzata, almeno parte, nel
territorio dello Stato, mentre nei reati di evento la legge italiana è applicabile anche se la
condotta è stata integralmente realizzata in territorio straniero, ma l’evento si è verificato nel
territorio dello Stato.
Al centro di ogni fatto commissivo penalmente rilevante compare, un’azione umana, che è
strettamente correlata alla fisionomia del diritto penale italiano, che reprime gli attacchi
dell’uomo all’integrità dei beni giuridici e non la mera volontà di offendere un bene che non si
sia tradotta in una attività esteriore. La dottrina, elaborando le più svariate teorie dell’azione
sforzata di delineare un concetto contenutisticamente così ricco da essere in grado di
descrivere in modo esauriente l’enorme varietà di azioni incriminate nell’odierna legislazione
penale. Questo sforzo teorico si è però rivelato infruttuoso. unica nota concettuale
delibazione che accomuna tutti i reati commissivi è il carattere di attività esteriore.

Il legislatore può esigere che l’azione sia compiuta con determinate modalità, e si parla in
questo caso di reati a forma vincolata l'azione concreta sarà rilevante solo se corrisponde al
lo specifico modello di comportamento descritto nella norma incriminatrice. Oppure, il
legislatore può attribuire rilevanza ad ogni comportamento umano che abbia causato un
determinato evento: si parla allora di reati a forma libera. In questi casi l’azione concreta
penalmente rilevante si individuerà nei reati dolosi in funzione del mezzo impiegato in
concreto dall’agente e nei reati colposi tipica qualsiasi azione che abbia colposamente
creato il pericolo concretizzatosi nell’ evento. Il ricorso da parte del legislatore all’una o all *
altra tecnica dipende in larga misura dall’importanza del bene giuridico la cui aggressione è
repressa penalmente. Beni ritenuti di alto rango vengono tutelati dal legislatore ‘da ogni lato’:
si rinuncia cioè a selezionare questa o quella modalità con cui può essere recata l’offesa,
attribuendo rilevanza alla causazione pura e semplice dell’evento. Es. beni della vita e
dell’integrità fisica. Sul versante opposto si trovano invece beni stimati di minor rango, ai
quali l’ordinamento accorda una tutela soltanto frammentaria: tali beni giuridici, cioè,
vengono protetti di regola solo contro specifiche classi di comportamenti, scelte dal
legislatore per la loro particolare capacità offensiva. L'esempio per eccellenza è il bene
giuridico ‘patrimonio’. Talora, configurando un reato a forma vincolata, il legislatore dà rilievo
al compimento non di una, ma di più azioni, che devono essere realizzate secondo una
determinata successione temporale.

Il fatto rappresenta nella concezione tripartita il primo elemento del reato. Il fatto è
quell’elemento che il giudice deve sempre accertare nel momento in cui svolge la sua attività
giudiziale (vedere se il fatto concreto è sussumibile/può essere sussunto in una fattispecie
astratta: sussunzione del fatto, si trova anche nelle altre branche del diritto). Questo fatto
comunque si manifesti rappresenta una qualche forma di offesa, aggressione a un bene
giuridico. Il fatto, che sia un reato di condotta o di evento, può essere realizzato in diverse
forme: forma attiva (commissiva) o forma omissiva. Questa è quindi la prima distinzione:
nella condotta umana dalla quale può eventualmente derivare un evento di rilevanza penale,
la condotta può essere attiva od omissiva. Il diritto penale si è formato fondamentalmente
sulle condotte commissive, si è pensato infatti che il fatto di reato potesse essere sempre
descritto come una condotta attiva (libro di Marinucci degli anni Settanta, “Il reato come
azione. Critica di un dogma”), nell’evoluzione sociale ha fatto prendere coscienza del fatto
che i reati possono realizzarsi non solo con condotta attiva, ma anche omissiva e quindi non
si poteva ritenere sul piano teorico di far sempre corrispondere la figura della condotta
penalmente rilevante con un’azione, è stata dunque posta particolare attenzione alla
condotta omissiva. Il legislatore introduce anche il termine “omissione”, ma quello che è
mancato per tanto tempo è l’elaborazione teorica della condotta omissiva, del reato omissivo
sempre pensando a un idealtipo di reato che corrispondesse soltanto a un reato a condotta
attiva.
Soltanto dalla metà degli anni Settanta, dal punto di vista didattico è stata introdotta la
distinzione: il primo manuale che affronta il problema in modo diverso è il Fiandaca Musco,
che spiega il reato dividendolo tra commissivo ed omissivo, commissivo doloso e colposo, e
omissivo doloso e colposo. Non tutti gli istituti possono automaticamente trasferirsi dal reato
a condotta commissiva al reato a condotta omissiva, es. tentativo art. 56 “chi compie atti
idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto
tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica” cita soltanto la condotta
attiva, che sia un lapsus del legislatore o una scelta consapevole lo si capisce solo nel
momento in cui ci si mette a tavolino a ragionare se il delitto tentato sia applicabile anche a
reati omissivi oppure o no.
Per i reati omissivi e in particolare omissivi di evento o reati commissibili mediante omissione
o reati omissivi impropri è stata necessaria una lunga riflessione e ricostruzione a partire
dall’art. 40. La condotta per come la descrive il legislatore può essere la più varia e anche le
stesse modalità descrittive del legislatore possono variare a seconda del tipo di reato.
Es. quasi tutti i reati, con poche eccezioni, riportano effettivamente una vera e propria
condotta, un vero e proprio fatto. Vi sono tuttavia, e sono i residuati di mentalità poliziesca,
reati che non si configurano come una vera e propria figura di reato consistente in una
condotta, essi sono classificati in genere sotto il nome di reati di possesso e di sospetto:
delitto di detenzione di monete falsificate, di filigrane, di documento falso, materiale
pornografico realizzato utilizzando minori di anni 18. Queste sono situazioni in cui non
possiamo dire che ci sia una vera e propria condotta, però il legislatore ha ritenuto di doverle
comunque punire per ragioni di prevenzione, tutela di un bene giuridico. In queste situazioni
non è facile individuare condotta, ma il legislatore cerca di aggirare questa mancanza
facendo leva su un’esigenza di tutela, individuando una sorta di offesa in questi atti di
pericolo (tutela molto anticipata di determinati beni).
I reati di sospetto sono il retaggio di una mentalità poliziesca: possesso ingiustificato di
chiavi o grimaldelli, di valori, però sono anche fattispecie dichiarate illegittime dalla Corte
costituzionale, perché nel momento in cui si confronta la fattispecie con l’art. 25 Cost., la
corte è chiamata per forza di cose a pronunciarsi sull’esistenza di un fatto nella descrizione
della norma, in certi casi ha dichiarato illegittimo reato di sospetto, anche recentemente in
una legge di contrasto alla criminalità organizzata, Tale disposizione puniva coloro che,
essendo sottoposti a procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione,
risultassero titolari o avere la disponibilità a qualsiasi titolo di denaro, beni o altra utilità di
valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla
propria attività economica, e dei quali non (potessero) giustificare la legittima provenienza.
Di fronte a una comminatoria molto elevata, tale da risultare ingiustificata al tipo di condotta,
la corte ha assunto questo comportamento.
Ogni reato descrive una condotta, attiva od omissiva, tendenzialmente troviamo però reati
come quelli di possesso, che si configurano diversamente e di sospetto, sui quali in
particolare grava un dubbio di legittimità costituzionale.
Ci sono anche elementi impliciti, che la logica ci dice che ovviamente fanno parte della
fattispecie e devono essere accertati e che si possono considerare come dei presupposti di
fatto, che la logica ci dice che ci devono essere perché si possa realizzare questa
fattispecie: sono situazioni di fatto o giuridiche che possono essere preesistenti o che
devono anche permanere durante tutta l’esecuzione e sono chiamate presupposti della
condotta (es. reato di aborto colposo, un presupposto è lo stato di gravidanza della persona
offesa).
Uno speciale sottogruppo di ‘reati di possesso’ è costituito dai c.d. reati di sospetto,il cui
carattere peculiare è di natura processuale e riguarda l’inserzione nella norma incriminatrice
di un’anomala regola di giudizio: : in contrasto con la presunzione di non colpevolezza
l’onere della prova della destinazione o della provenienza lecita della cosa incombe infatti
interamente sull’imputato, e finché il giudice versi in dubbio si impone una pronuncia di
condanna.

Spesso la norma incriminatrice richiede il verificarsi di un evento, cioè un accadimento


temporalmente e spazialmente separato dall’azione e che da questa deve essere causato:
più. precisamente, trattandosi di un elemento del fatto di reato, il nome di evento spetta
soltanto a quella o a quelle conseguenze detrazione che sono espressamente o tacitamente
previsto dalla norma incriminatrice. Non compete il nome di evento, come elemento
costitutivo del fatto, a quelle conseguenze dell’azione che rilevano sul piano penalistico
come circostanze del reato, è il caso ad esempio del danno patrimoniale di rilevante entità,
previsto come circostanza aggravante.
L’evento, che pure fa parte del fatto tipico, è una caratteristica che c’è in determinati reati e
non c’è in altri, il giudice dovrà anche accertare il nesso di causalità tra condotta ed evento.
L’evento è la modificazione della realtà, che ci appare come conseguenza dell’azione od
omissione e dobbiamo poterlo tenere separato anche da un punto di vista descrittivo
dall’azione od omissione. L’evento può essere molto diverso a seconda del bene giuridico
che viene tutelato e quindi esso condiziona la descrizione stessa del fatto. Quindi avremo la
modificazione della realtà esterna in senso fisico o ideale, psichico, l’alterazione di un
sistema, di un apparato, ma può essere addirittura in certi casi un comportamento umano.
La nozione di evento, come accadimento che deve essere causato dall’azione, è
espressamente utilizzata dal legislatore in una serie di previsioni normative di parte
generale: fra l'altro, nella definizione del rapporto di causalità nella definizione del delitto
doloso. Accanto alla nozione di evento sin qui descritta, designato come evento
naturalistico, parte della dottrina parla anche di evento giuridico per alludere all’offesa al
bene tutelato dalla norma incriminatrice, che è elemento costitutivo di tutti i fatti penalmente
rilevanti.
Es. omicidio art. 575: “chiunque cagiona la morte di un uomo”, qui c’è sia la condotta che
l’evento, che è la morte, che possiamo definire come un evento di tipo naturalistico. La
condotta qual è? Non è descritta, questo non vuol dire che non ci sia, ma vuol dire che per
legislatore è irrilevante come si realizzi l’evento morte, quello che importa è “cagionare” la
morte. Al legislatore non interessa come viene causato l’evento, anche se comunque gli
interessa che sia accertato il nesso causale: l’importante è verificare che ci sia stato tra
condotta ed evento morte, ciò si nota nella parola “cagiona”. L’omicidio è un reato a forma
libera, molto semplice nella sua descrizione.
Nella condotta troviamo degli elementi descrittivi: possono essere compresi facendo
riferimento alla realtà empirica; quelli normativi invece per essere completamente compresi
hanno bisogno di far riferimento o a qualcosa che può essere apprezzato in una realtà
sociale o di tipo giuridico, quindi abbiamo elementi normativo-sociali e normativo-giuridici,
questi secondi possono essere presi soltanto facendo riferimento a una descrizione giuridica
esterna alla fattispecie. La morte, già individuata come evento, è un elemento di che tipo?
La morte nel corso del tempo e dell’evoluzione del sistema ha dovuto essere descritta
giuridicamente. Nel momento in cui è stata fatta la normativa sull’espianto degli organi, si è
dovuto riflettere su questo momento, bisognava dare un confine tra la vita e la morte, per cui
la morte è il momento in cui cessano tutte le funzioni cerebrali. Normalmente questo
problema non dovremmo neanche porcelo, però in determinati contesti è estremamente
importante stabilire se una persona è in ancora in vita o meno, anche per poter stabilire se
c’è stato un omicidio, quindi la morte non è più un fatto puramente empirico, ma è diventato
anche qualcosa di normativo.

Altro es. furto art. 624: “chiunque s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a
chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri” la descrizione della realtà viene
fatta attraverso l’impossessamento e la sottrazione, tutte e due le interpretazioni (reato di
condotta o reato di evento) potrebbero essere accettabili, tuttavia ciò può avere
conseguenze sull’applicazione di determinati istituti. Se prendiamo in considerazione
l’ipotesi di condotta, l’interpretazione sarebbe furto consumato, se la sottrazione e
l’impossessamento sono la stessa cosa; se non lo sono possiamo distinguere una condotta
e un evento. La sottrazione consiste nel togliere una cosa mobile dalla disponibilità di chi la
detiene. Se si ritiene che la sottrazione e l’impossessamento sono la stessa cosa, sono reati
consumati; se si ritiene che l’impossessamento sia qualcosa di più (consolidamento di una
situazione di disponibilità sulla cosa): riusciamo a distinguere due momenti, la condotta è la
sottrazione e l’impossessamento è il consolidamento della situazione. La cosa è più facile da
vedere se le persone che agiscono sono due. A seconda che si ritenga che sia un reato di
evento o di condotta, anche la punibilità del tentativo o del reato consumato cambia.
L’elemento “chiunque si impossessa della cosa mobile altrui” richiama alla descrizione fatta
prima, la cosa mobile altrui è un elemento normativo e il termine altrui ci indica che
dobbiamo andare a riferirci a norme civilistiche, la cosa non è nostra ma appartiene a
qualcun altro. Il seconda comma è stato aggiunto successivamente, perché nella cosa
mobile non era immediatamente riconducibile l’energia elettrica e si è evitato così di
interpretare il primo comma con l’interpretazione analogica.

Altro es. truffa art. 640: “chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore,
procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”, l’artificio o raggiro è la
condotta, che produce un effetto: l’induzione in errore e il procurarsi ingiusto profitto con
altrui danno. Quindi la truffa si consuma solo nel momento in cui ci si è procurato ingiusto
profitto a sé od altri. Posto che è un reato di evento, rispetto a omicidio e furto, è un reato a
forma libera o vincolata? Vincolata, perché la condotta è descritta (anche nel furto, non è
indifferente per il legislatore come si procura il danno, la condotta deve realizzarsi in un certo
modo). Il legislatore mette in atto una selezione attuando quello che è il principio di
frammentarietà. Per tutelare il patrimonio, vi è una serie piuttosto nutrita di fattispecie che
sono ben delineate con una forma specifica della condotta. A forma libera, in altri contesti
come omicidio, vi sono il reato di valanga, naufragio e incendio: cioè i delitti contro
l’incolumità pubblica. Es. art. 426 reato a forma libera, la tutela deve essere realizzata anche
descrivendo il delitto senza addentrarsi nei particolari della condotta (chiunque cagiona
un'inondazione o una frana, ovvero la caduta di una valanga).

Art. 609 bis delitto di violenza sessuale: “chiunque, con violenza o minaccia o mediante
abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali” e i due commi che
descrivono le diverse modalità di violenza: violenza, minaccia e abuso di autorità sono la
condotta che provoca la costrizione o che fa subire atti sessuali, è l’evento. Se l’azione
rimane sospesa e la vittima reagisce prontamente e quindi non arriva a compiere o subire
atti sessuali, in questo caso abbiamo la situazione in cui si realizza la condotta, ma non si
realizza l’evento. Il secondo comma dà una condotta alternativa, l’induzione. Questo è un
reato di evento, in base a quello che abbiamo visto dovremmo dire che è a forma vincolata,
ma c’è stata esigenza da parte del legislatore di descrivere tutte le condotte possibili e ci
riesce difficile immaginare in altro modo la condotta, come se il legislatore avesse voluto
esaurire tutte le possibilità, di fatto non ha voluto lasciar fuori altre possibilità o dubbi
interpretativi.

La condotta ci deve essere sempre, che sia attiva od omissiva; poi a questa condotta può
conseguire un evento e questo lo capiamo leggendo le fattispecie, se è un reato di evento o
uno di pura condotta. La distinzione è tra i reati di sola condotta o di evento, dove dobbiamo
trovare un evento nella fattispecie che il legislatore ci ha dato.

Es. l’omissione di soccorso art. 593, è un reato di condotta; art. 328 omissione e rifiuto di atti
d’ufficio, secondo comma è un reato di condotta, due sono omissivi e uno attivo.
Art. 318 corruzione per l’esercizio della funzione, reato di pura condotta che si sostanzia nel
ricevere indebitamente.

Altro es. art. 367 simulazione di reato è un reato di evento: c’è una parte che descrive la
condotta, ma perciò che abbia una sua potenzialità lesiva, il legislatore prevede che ci sia
anche l’inizio di un procedimento penale per accertarlo. La condotta è una condotta credibile
che porta all’inizio di un procedimento penale, qui il bene tutelato è la corretta
amministrazione della giustizia.
E’ di pura condotta anche il reato di falsa testimonianza, qui non interessa quali siano le
conseguenze.
Ci si è domandato se anche il testimone può rientrare nel concetto di pubblico ufficiale: la
corruzione in atti giudiziari porta alla contestazione di anche un altro reato, ma anche la
corruzione è un reato di pura condotta: delitto aggravato dall’evento, ma permane come
reato di condotta, perché l’evento agisce solo in funzione aggravante.

Quando tra gli estremi del fatto compare un evento, l’evento rileva se e in quanto sia stato
causato dall’azione: tra la condotta e l’evento ci deve sussistere il nesso causale, che fa
parte del fatto tipico allo stesso modo in cui ne fanno parte gli altri due. Il nesso causale si
trova quindi nei reati di evento. L’art. 40 è la norma cardine per quanto riguarda la
descrizione del nesso causale e l’art. 41 disciplina il concorso di cause.
“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se
l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è
conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha
l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” abbiamo due diverse descrizioni di
un rapporto causale, quello del primo comma è inquadrabile come nesso causale di tipo
materiale, effettivo: c’è la condotta, c’è l’evento, mettiamo in relazione i due con un nesso.
Solo una condotta attiva cagiona un evento.
Il secondo comma prende in considerazione la condotta omissiva: l’accertamento del nesso
causale nei due tipi di reato è diverso. Con nesso causale si intende il criterio di imputazione
di un evento a una condotta attiva o omissiva, l’accertamento è diverso.
Una semplice omissione non è che cagioni l’evento, ma equivale a cagionarlo, il legislatore
dà quindi un’indicazione importante. Da questo secondo comma si è originata tutta la teorica
del reato omissivo di evento, cioè il reato omissivo improprio.
È penalmente rilevante soltanto il mancato compimento di azioni imposte da comandi
contenuti in norme giuridiche: obblighi etico-sociali, pur avvertiti come vincolanti da parte
della collettività, rilevano per il diritto penale solo se ribaditi da norme giuridiche. All'interno
dei reati omissivi si distinguono due sottogruppi: i reati omissivi propri (o di mera omissione)
e i reati omissivi impropri (o commissivi mediante omissione). Sono reati omissivi propri
quelli nei quali il legislatore reprime il mancato compimento di una azione giuridicamente
doverosa, indipendentemente dal verificarsi o meno di un evento come conseguenza
dell’omissione; tali reati sono direttamente configurati da singole norme incriminatrici, che
descrivono sia azione doverosa la cui omissione è penalmente rilevante, sia i presupposti in
presenza dei quali sorge l'obbligo giuridico di agire. L’obbligo giuridico di agire presuppone il
potere materiale di compiere l’azione doverosa (ad impossibilia nemo tenetur). ad esempio,
se chi trova abbandonato o smarrito un fanciullo minore di anni dieci è il portatore di un
grave handicap fisico, che si trovi da solo e sprovvisto di mezzi per comunicare a distanza, il
mancato avviso all’autorità non integrerà un’omissione penalmente rilevante a norma dell’art
593 c.p. Anche nei reati omissivi propri è presente l’offesa al bene tutelato, come elemento
sottinteso del fatto. ad esempio, nell’omissione di soccorso di una persona ferita (art. 593 co.
2 c.p.) l’offesa consiste nel mantenimento di una preesistente situazione di pericolo per la
vita o l’integrità fisica, che si aveva l’obbligo di rimuovere compiendo le azioni doverose
imposte dalla legge.
Sono reati omissivi impropri (o reati commissivi mediante omissione) quei reati nei quali la
legge incrimina il mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa imposta per
impedire il verificarsi di un evento: in questi casi l’evento è elemento costitutivo del fatto. Il
dovere giuridico di agire ha dunque un’estensione più ampia rispetto a quella che
caratterizza i reati omissivi propri, includendo nel suo oggetto anche [’impedimento
dell’evento. Anche l’obbligo di impedire l’evento presuppone il relativo potere materiale.
A differenza dei reati omissivi propri, per lo più i reati omissivi impropri non sono configurati
attraverso apposite norme di parte speciale. La loro previsione è il risultato del combinarsi di
una disposizione di parte generale, l’art. 40 co. 2 c.p. e di norme incriminatrici di parte
speciale che vietano la causazione di un evento: l’art. 40 co. 2 c.p- dispone infatti che « non
impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo ». La
giurisprudenza è orientata nel senso di ammettere la configurabilità di un reato omissivo
improprio anche nei reati a forma vincolata. Parte della dottrina ritiene invece che
l’equivalenza tra il cagionare e il non impedire un evento richiesta dall’art. 40 co. 2 c.p. non
possa rinvenirsi nei reati a forma vincolata, come la truffa, non potendosi individuare
nell’omesso impedimento dell’evento il particolare disvalore espresso dalle modalità
dell’azione richieste dalla norma incriminatrice. La legge penale italiana costruisce
l’equivalenza tra la condotta attiva e la condotta omissiva sulla base del solo requisito della
sussistenza dell'obbligo giuridico di impedire l’evento. È invece la legge penale tedesca che
subordina tale equivalenza alla ulteriore presenza di un secondo requisito, espresso dalla
c.d. clausola di corrispondenza: la condotta omissiva deve corrispondere alla realizzazione
della fattispecie mediante una condotta attiva.
Due sono comunque i criteri vincolanti ai quali il giudice deve attenersi per stabilire se e
quando l'omesso impedimento di un evento sia penalmente rilevante: a) non basta la mera
possibilità materiale di impedire l’evento, né un obbligo di attivarsi che abbia la sua fonte in
norme di natura etico-sociale: rileva solo il mancato compimento di un’azione impeditiva
dell’evento imposta da una norma giuridica’, b) è il contenuto delle singole norme giuridiche
che decide quali siano i presupposti in presenza dei quali sorge l’obbligo di impedire l’evento
e quali siano gli eventi il cui verificarsi deve essere impedito.
Il rispetto del primo criterio è imposto dal dettato dell’art - 40 co. 2 c.p., il quale
espressamente subordina la rilevanza penale dell’omesso impedimento di un evento alla
presenza di un « obbligo giuridico » di impedirlo: un obbligo che fa del suo destinatario il
garante dell'integrità di uno o più beni giuridici, impegnandolo a neutralizzare i pericoli
innescati da comportamenti di terzi o da forze della natura. L’art. 40 co- 2 c.p. rinvia a norme
giuridiche extrapenali ovunque ubicate, senza distinguere a seconda del loro rango. Potrà
trattarsi di norme contenute in leggi in senso formale o in senso materiale, in atti generali e
astratti del potere esecutivo in atti normativi emanati da organi degli enti locali ovvero in fonti
di diritto privato. Secondo la giurisprudenza e una parte della dottrina, fonte dell’obbligo di
impedire l’evento può essere anche una precedente attività pericolosa. Questo orientamento
appare però discutibile: manca infatti una norma giuridica.

La struttura del rapporto di causalità nel reato omissivo improprio è quindi peculiare e
diversa da quella dei reati commissivi. Nei reati commissivi il rapporto di causalità è una
relazione reale tra accadimenti: si configura quando l’azione è un antecedente storico che
non può essere eliminato mentalmente senza che l’evento venga meno. Per contro, nei reati
omissivi il rapporto di causalità tra omissione ed evento è ipotetico: sussiste quando razione
doveroso è stata omessa, se fosse stata compiuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento,
nel senso che, aggiungendola mentalmente, l’evento non si sarebbe verificato.
L’accertamento del rapporto di causalità tra omissione e evento richiede una duplice
indagine: accertare un effettivo rapporto di causalità tra un dato antecedente e un dato
evento concreto. In secondo luogo, si deve compiere un ‘giudizio controfattuale, modellato
secondo la peculiare struttura del reato omissivo improprio: bisogna chiedersi cioè se,
aggiungendo mentalmente l’azione doverosa che è stata omessa, ne sarebbe seguita una
serie di modificazioni della realtà che avrebbero bloccato il processo causale sfociato
nell’evento. Una duplice indagine — in primo luogo l'accertamento della causa reale
dell’evento (c.d. causalità reale) e solo successivamente l’accertamento dell’efficacia
impeditiva dell’azione omessa (c.d. causalità ipotetica) - è richiesta anche dalla
giurisprudenza, che affronta questo problema soprattutto a proposito dell'attività medico-
chirurgica. Quando l’evento è il risultato di un processo causale innescato da fattori
meccanici o naturali, per stabilire se l’azione doverosa che è stata omessa avrebbe o meno
impedito l’evento si dovrà fare ricorso a leggi scientifiche. Parte della giurisprudenza
condivide l’esigenza di una probabilità dell’impedimento dell’evento ai limiti della certezza.
L’orientamento oggi prevalente in giurisprudenza è però quello inaugurato dalle Sezioni
Unite con la sentenza Franzese che, considera sufficiente ai fini della sussistenza del nesso
causale un grado medio-basso dì probabilità statistica, qualora con certezza possano
escludersi decorsi causali alternativi.
Secondo parte della dottrina non sarebbe necessario accertare che l’azione doverosa, se
compiuta, avrebbe impedito l’evento: basterebbe accertare che quell’azione avrebbe
diminuito il rischio del verificarsi dell’evento. gettiva dell’evento si opera, tuttavia, omissivi
impropri della teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento si opera, tuttavia, un’estensione
della responsabilità penale. Si tratta di una soluzione contra legem, il cui accoglimento
porterebbe alla trasformazione di reati di evento in altrettanti reati di pericolo.

Es. l’omicidio è un reato di evento a forma libera e come tale può essere realizzato sia con
una condotta attiva che omissiva, proprio perché è a forma libera. Quando abbiamo la
condotta omissiva, parliamo di equivalenza causale, servirà dunque un ragionamento
ulteriore per utilizzare il nesso di causalità materiale come criterio di imputazione dell’evento
nei confronti di chi ha tenuto una condotta omissiva. Se a un passaggio a livello arriva un
treno e le sbarre non vengono abbassate e il treno travolge l’automobile che pensava di
poter passare, accade un evento, cioè un disastro ferroviario e dunque la morte di una o più
persone: c’è una sequenza di eventi, la sequenza materiale ce l’abbiamo di fronte e il
giudice farà degli accertamenti. Tutto questo ci serve per configurare quella che è la realtà
dei fatti: il treno è deragliato perché lo scambio non ha funzionato, ma perché? Perché non è
stata fatta una corretta manutenzione (ad esempio).
Da una parte abbiamo la sequenza causale che può essere accertata con relativa
semplicità, ma questo ci dà solo una sequenza materiale, tuttavia in situazioni come queste,
quando si deve ricostruire la responsabilità penale, non ci troviamo di fronte a una condotta
commissiva, ma potrebbe essere anche omissiva (es. chi non ha disposto regolare
manutenzione degli scambi): non si va quindi a cercare una condotta attiva, ma piuttosto
una omissiva ed è così ogni volta che si verificano fatti che una volta erano chiamati infortuni
sul lavoro, oggi si parla piuttosto di sicurezza sul lavoro e quindi di mancata adozione di
dispositivi di sicurezza.
Quando siamo di fronte a comportamenti omissivi si farà riferimento al secondo comma, che
è proprio il punto di partenza per costruire la tematica e teorica del reato omissivo improprio,
che è diverso da quello commissivo.
Il rapporto di causalità è descritto nell’art. 40, che ad es. altri sistemi non descrivono, come
quello tedesco, che è perfettamente consapevole del fatto di doversi appoggiare a discipline
diverse. Il problema cruciale al quale si deve dare risposta è che cosa sia necessario per
poter affermare che un dato evento è conseguenza di una data azione. Il legislatore italiano
ha inteso fornire una risposta a tale interrogativo, dettando all’art. 41 c.p. una serie di regole
sotto la rubrica « concorso di cause ». Peraltro, questa normativa è stata oggetto di svariate
interpretazioni: si è ritenuto e si ritiene che il legislatore abbia accolto ora questa ora quella
teoria della causalità. Le principali teorie della causalità possono così compendiarsi:
a) l’azione A è causa dell’evento B, se può dirsi che senza A, tenendo conto di tutte le
circostanze del caso concreto, l’evento B non si sarebbe verificato (teoria condizionalistica o
della condicio sine qua non); b) l’azione A è causa dell’evento B quando senza l’azione A
l’evento B si sarebbe verificato e inoltre l’evento B rappresenta una conseguenza prevedibile
(o normale) dell’azione A (teoria della causalità adeguata); c) l’azione A è causa dell’evento
B quando senza l’azione A l’evento B si sarebbe verificato e inoltre il verificarsi dell’evento B
non è dovuto al concorso di fattori eccezionali (teoria della causalità umana). Descritti i tratti
salienti di queste teorie, si farà cenno, inoltre, alla teoria dell’imputazione oggettiva
dell’evento che propriamente non è una teoria della causalità, ma al pari delle teorie della
causalità adeguata e della causalità umana si propone come correttivo della teoria
condizionalistica.
La teoria condizionalistica muove dalla premessa che ogni evento è la conseguenza di molti
fattori causali, che sono tutti egualmente necessari perché l’evento si verifichi:
giuridicamente rilevante come causa dell’evento è ogni azione che non può essere eliminata
mentalmente senza che l’evento concreto venga meno. Si parla a questo proposito di
‘procedimento di eliminazione mentale’ ovvero di ‘giudizio controfattuale’.
Questa concezione della causalità trova piena applicazione anche in due gruppi di casi
discussi in dottrina.
a) causalità ipotetica: l’evento che rappresenta il punto di riferimento del rapporto di
causalità non è l’evento astratto descritto dalla norma incriminatrice bensì 1’ even to
concreto, cioè individuato attraverso tut te le modalità detta sua verificazione,
comprese fra l’altro le modalità spazio-temporali; in secondo luogo, il rapporto di
causalità va accertato tenendo conto del decorso causale effettivo, e non di un
decorso causale solo ipotetico, che cioè poteva verificarsi ma non si è verificato:
bisogna domandarsi « come sono andate le cose », e non « come potevano
andare».
b) causalità addizionale: il rapporto di causalità va accertato in relazione all’ evento
concreto, descritto alla luce di tutte le sue modalità.
Ma quando si può dire che eliminando mentalmente una determinata azione l’evento
concreto non si sarebbe verificato? Come ha più volte sottolineato la Corte cassazione, tali
contenuti vanno desunti da leggi scientifiche, da enunciati che esprimono successioni
regolari di accadimenti, frutto dell’osservazione sistematica della realtà fisica o psichica. Il
procedimento da seguire per l’utilizzazione delle leggi scientifiche, al fine di spiegare il
perché di un determinato evento concreto, viene comunemente designato come
‘sussunzione del caso concreto’ sotto quella legge: la premessa maggiore di questo
procedimento è una legge scientifica che descrive la successione regolare tra la classe di
accadimenti A e la classe di accadimenti B; la premessa minore è un caso concreto
sussumibile sotto quella legge scientifica,noi senso che l’azione umana a è stata seguita
dall’evento b; la conclusione è che quell’azione concreta è causa di quell’evento concreto.
La teoria condizionalistica (o della condicio sine qua non) può dunque essere così
riformulata: causa dell’evento è ogni azione che — tenendo conto di tutte le circostanze che
si sono verificate — non può essere eliminata mentalmente, sulla base di leggi scientifiche,
senza che l’evento concreto venga meno. Le leggi scientifiche utilizzabili dal giudice per la
spiegazione causale dell’evento possono essere o leggi universali o leggi statistiche. Si
parla di leggi universali quando si tratta di enunciati che asseriscono regolarità senza
eccezioni nella successione di eventi; ; molto più spesso deve ricorrere invece a leggi
statistiche, cioè a leggi che enunciano regolarità statistiche emerse dall’osservazione della
realtà empirica e «che affermano che in un gran numero di casi (non però in tutti i casi) ali
accadimento segue l’accadimento b. Talvolta il giudice si trova di fronte ad una pluralità di
possibili spiegazioni causali dell’evento, ciascuna fondata su una diversa legge scientifica.
Tra le spiegazioni causali alternative, il giudice dovrà dare la preferenza a quella che meglio
si attaglia al caso concreto.

La grande importanza del rapporto causale negli ultimi 40 anni è legata alla necessità di un
suo accertamento estremamente accurato. Oggi si dice che il rapporto di causalità ha una
sua formula di riferimento, che si deve però appoggiare a delle leggi scientifiche. Fino a
qualche decennio fa questo aspetto era trascurato, era importante che il giudice avesse
delle buone intuizioni. Esempi storici sono quelli dei danni da talidomide e le macchie blu:
per la talidomide negli anni 60/70 si erano verificati in Germania e Gran Bretagna
soprattutto, tante nascite di bambini con malformazioni molto gravi agli arti, la frequenza di
questi eventi aveva fatto sospettare che fosse stato un farmaco assunto durante la
gravidanza, in particolare un farmaco con funzione antiemetica, era dunque necessario
capire con quale meccanismo il medicinale avesse agito sulla malformazione del feto.
Nacque quindi il problema di come accertare questa situazione.
Un caso più recente è quello del petrolchimico di Marghera, riguardante l’effetto che poteva
avere sui lavoratori e le morti per l’amianto. Tutte queste situazioni hanno fatto riflettere a
lungo. L’art. 40 non racconta poi molto, quindi come facciamo a dire che l’evento è stato la
conseguenza di una condotta? Perchè in certi casi lo possiamo dire e in altri no?
L’interprete ha provato a elaborare diversi schemi di accertamento del nesso causale, una
volta si parlava di causa efficiente, causa determinante, ultima causa, che andranno poi a
confluire nella formula della condicio sine qua non.
Questa è la formula più calzante per il diritto penale: la condotta di chi agisce è la condotta
penalmente rilevante perché ha causato un determinato evento ed è in particolare quella
condotta senza la quale l’evento non si sarebbe verificato. E’ causa dell’evento quell’azione
od omissione senza la quale l’evento non si sarebbe verificato.
Il legislatore richiede al giudice un ragionamento ipotetico, deve immaginarsi una situazione
nella quale la condotta non si è realizzata, avremmo avuto comunque quell’evento? Se la
risposta è no, allora la condotta è causa dell’evento, se la risposta è sì, vuol dire che la
realizzazione della condotta non è stata rilevante per la realizzazione dell’evento.
Il giudice, nel momento in cui avrà provato la sequenza materiale della situazione non dovrà
dare una motivazione specifica e accurata (es. come funziona fuoco, quale procedimento
chimico innesca sulla carta), tutto questo perché sappiamo già che cosa succede, non c’è
molto da spiegare.
Ma in determinati casi dire che quella condotta è stata la condicio sine qua non, non è così
semplice, come nel caso del farmaco. Tutte queste spiegazioni devono essere date dal
giudice appoggiandosi a leggi scientifiche. Il punto è che la condicio sine qua non è una tesi
di spiegazione del nesso causale estremamente utile per le esigenze di certezza che ha il
diritto penale, tuttavia presenta questo limite: le situazioni sono tante e diverse e non
possiamo essere sempre certi; il giudice se non si appoggia a determinati elementi esterni
non può motivare solo sulla base della sua intuizione. Il nesso va provato come tutti gli altri
elementi del fatto in maniera molto precisa, specifica. L’evoluzione della varietà delle
situazioni che si presentano possono essere anche sconosciute al giudice, spesso è
necessario per individuare e motivare il nesso causale, cercare la legge scientifica che
spieghi l’accaduto.
Ha bisogno quindi di essere integrata in determinate situazioni dalla ricerca di leggi
scientifiche e quindi da una motivazione specifica anche su questo punto.
L’accertamento del nesso causale può quindi essere immediato o molto complesso in altri
casi. Un altro es. è il caso della camera iperbarica di una clinica privata nel 1996, ci sono
stati 11 morti in seguito all’incendio di questa camera, l’incendio è divampato in pochi
secondi. L’evento finale è l’omicidio plurimo colposo, l’incendio colposo, in questo contesto
la causa dell’evento finale è data da una serie di eventi e condotte che sono quasi tutte
omissive, si può quindi definire rete causale, dove ciascuno degli elementi ha avuto un suo
ruolo preciso.
Le leggi scientifiche possono avere doppia natura: universale (il cui grado di verificabilità è
pari a 100) o statistica (il cui grado di accertamento è inferiore a 100, pari al 70, 60, 50%, ha
comunque una sua validità pur essendo di tipo statistico). Se fosse affidabile solo una o
anche altra, è stata una questione molto dibattuta fino alla sentenza Franzese delle Sezioni
Unite, che ha fatto il punto della situazione.

Solo negli anni novanta, con la sentenza relativa al disastro di Stava sotto l’impulso di un
grande studioso della causalità, Federico Stella, la Corte di cassazione ha operato una
svolta irreversibile a favore del modello della sussunzione sotto leggi scientifiche. Il
riferimento a leggi scientifiche, e in particolare a leggi statistiche, solleva il problema del
grado di probabilità richiesto perché la condotta possa considerarsi condizione necessaria
dell’evento. Un’ulteriore tappa, di grande rilievo, nell’evoluzione giurisprudenziale in materia
di causalità è poi segnata da una pronuncia della Corte di cassazione a Sezioni Unite del
2002 (Cass. Sez. Un., 11 luglio 2002, n. 30328, Franzese, CED 222138). . In tale sentenza
si ribadisce, in primo luogo, la necessità di fare uso di leggi scientifiche nell’accertamento
della causalità; si respinge inoltre con fermezza qualsiasi tentativo di considerare
sussistente il nesso causale ogniqualvolta l’azione abbia aumentato il rischio del verificarsi
dell’evento, secondo una versione ‘italiana’ della teoria dell’imputazione oggettiva
dell’evento. la sentenza ritorna sul problema relativo al grado di probabilità dell’evento
necessario per la sussistenza del nesso causale e ne dà una soluzione diversa da quella
adottata dalla giurisprudenza precedente. Anche probabilità statistiche medio-basse
sarebbero sufficienti qualora risulti la « sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori
interagenti in via alternativa »: detto diversamente, qualora risulti la sicura assenza di altri
fattori causali in grado di spiegare nel caso concreto il verificarsi dell’evento. questo requisito
la sentenza dà il nome di « probabilità logica », che consentirebbe di raggiungere « la
certezza processuale » della sussistenza del rapporto di causalità. Questo orientamento,
che ha avuto seguito anche in altre decisioni della Suprema Corte
persuade però fino in fondo. Come mostra l’esperienza giudiziaria, il ruolo delle spiegazioni
causali alternative è sempre molto importante: Io confermano processi anche clamorosi, nei
quali il tema più dibattuto da accusa e difesa è stato quello delle spiegazioni diverse di
questo o quell’evento lesivo. Viene il dubbio che si voglia compensare l’assenza di una ‘vera
prova del nesso di causalità e che, contraddicendo una delle premesse di principio da cui
muove la stessa sentenza, si finisca per considerare causa dell’evento un comportamento
umano che ha soltanto aumento il rischio del suo verificarsi. Secondariamente, va
sottolineato che provare il nesso di causalità attraverso l’esclusione di tutte le altre possibili
cause presuppone che il giudice conosca tutte le possibili cause di un evento: una
situazione ipotizzabile quasi soltanto in teoria. D’altra parte, l’accusa dovrebbe fornire la
prova certa del mancato intervento, nel caso concreto, di ciascuno di quei possibili fattori
causali, a ragione la dottrina ha parlato in proposito di probatio diabolica.

L’art. 40 contiene la formula esplicativa del nesso causale “nessuno può essere punito
per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da
cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.
Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a
cagionarlo” fa riferimento a una sequenza, l’evento che interessa sempre al giudice quando
deve accertare il fatto di reato è l’evento finale, cioè l’elemento costitutivo dell’imputazione.
Può essere ad es. morte di più persone che consegue un incendio, l’evento finale è la morte
e ci sono eventi che hanno cagionato la morte, es. incendio, si deve poi risalire alle condotte
attive od omissive, la catena causale può essere composta da tanti sotto eventi, che sono
quelli che a loro volta innescano una catena, che determinano poi l’evento finale. A ciascuno
dei sotto eventi può corrispondere una condotta umana, quindi rilevante per il diritto penale,
ciascuna delle quali dobbiamo poter dire che è stata condicio sine qua non dell’evento.
Quando ci sono tante condotte da prendere in considerazione, alle quali attribuire un
particolare ruolo nella web of causation, non avranno tutte la stessa rilevanza, ma il giudice
deve poter dire che ciascuna di queste è stata condicio sine qua non, quindi quell’evento
può essere in una certa misura imputato anche a quel dato soggetto.
In una situazione così complessa si ricostruiscono tanti tasselli, ciascuno dei quali
rappresenta un momento dell’evoluzione causale: alcune sono cause scatenanti, alcune
sono cause disponenti, ma tuttavia per poter imputare la responsabilità occorre individuare
qual è il nesso causale in relazione all’evento.

Quando l’impedimento dell’evento a cui è obbligato il garante dipende dalla condotta di terze
persone, l'accertamento del nesso tra omissione ed evento non potrà basarsi su inesistenti
leggi scientifiche: si farà riferimento invece a massime di esperienza al fine di accertare la
probabilità che si verifichi quella serie di condotte, l’una dopo l’altra, dal cui susseguirsi
dipende che non si verifichi l’evento da impedire.
Del pari, quando, come nell’amministrazione delle imprese, l’evento da impedire consiste
nella commissione di un reato, l’accertamento dell’omesso impedimento da parte dei garanti
non potrà basarsi su inesistenti leggi scientifiche. decisivo sarà stabilire se il garante abbia
attivato tutte le possibili procedure giudiziarie o amministrative che ne avrebbero impedito la
consumazione, il cui esito felice, l’impedimento del reato in itinere, dipende da una serie di
comportamenti umani collegati, l’uno all’altro, da un mero rapporto di probabilità (pag. 281).

La tesi della condicio sine qua non è chiamata anche tesi dell’equivalenza delle cause: ogni
antecedente, purché si possa dire che è stato condicio sine qua non, si può considerare
causa.
Il nesso causale fa parte degli elementi costitutivi e deve essere accertato al pari di tutti gli
altri elementi costitutivi. Il nostro libro fa riferimento alla teoria condizionalistica e prende
anche in considerazione le altre tesi che si sono succedute: delle varie teorie causali
elaborate nel corso dei decenni, bisogna fondamentalmente prenderne in considerazione 2
che nascono come correttivo della condicio sine qua non e sono la tesi della causalità
adeguata e della causalità umana.
Ciascuna delle due teorie ha una sua storia legata a determinati contesti, non nascono in
contrapposizione alla teoria della condicio sine qua non ma vorrebbero essere dei correttivi.
Poi ci sono le cosiddette obiezioni, la causalità alternativa ipotetica, la causalità addizionale,
l’obiezione del regresso all’infinito.
La teoria della causalità adeguata si propone di escludere il rapporto di causalità quando nel
decorso causale, accanto all’azione umana, siano intervenuti fattori - preesistenti, simultanei
o sopravvenuti - anormali. Per la sussistenza del rapporto di causalità non basta che l’azione
sia condizione necessaria dell’evento, ma occorre altresì che l’evento sia una conseguenza
normale o almeno non improbabile dell’azione. Eventi imprevedibili per la loro anormalità
non possono essere evitati neppure dall’uomo prudente e giudizioso, in secondo luogo, si
osserva che la punizione di chi abbia cagionato un evento imprevedibile non soddisfa né le
esigenze della ‘giusta retribuzione’, né quelle della prevenzione: non merita infatti alcun
castigo chi non poteva prevedere l’evento seguito alla sua azione, e la pena minacciata nei
confronti di chi cagioni un determinato evento può trattenere dall’agire solo chi possa
prevedere le conseguenze del suo operare. Per accertare la sussistenza del rapporto di
causalità, la teoria in esame impone di compiere una ‘prognosi postuma’, articolata in due
momenti. In primo luogo il giudice deve compiere un ‘viaggio nel passato’, riportandosi
idealmente al momento in cui il soggetto ha agito, e in relazione a quel momento deve
formulare un giudizio ex ante: deve chiedersi cioè quali erano i normali o non improbabili
sviluppi causali dell’azione. In secondo luogo il giudice deve porre a confronto il decorso
causale effettivamente verificatosi con quelli che erano prevedibili.
Anche la teoria della causalità umana appone un limite alla nozione di causa proposta dalla
teoria condizionalistica: l’evento non deve essere dovuto al concorso di fattori eccezionali. Il
rapporto di causalità si considera dunque escluso non già, come sostiene la teoria della
causalità adeguata, tutte le volte in cui il decorso causale è anormale, bensì solo nei casi in
cui tra fazione e l’evento intervengono fattori causali rarissimi, che hanno cioè una minima,
insignificante probabilità di verificarsi. possono considerarsi opera dell’uomo soltanto gli
sviluppi causali che l’uomo può dominare con i suoi poteri conoscitivi e volitivi e tra gli
sviluppi dominabili non possono essere ricompresi quelli dovuti al concorso di fattori causali
rarissimi. Secondo questa concezione, la gamma degli eventi che possono dirsi causati da
un’azione risulta più ristretta rispetto a quanto postulato dalla teoria condizionalistica, ma più
ampia rispetto alla ricostruzione proposta dalla teoria della causalità adeguata.
Secondo la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento, l’evento causato dall’azione
potrebbe essere oggettivamente imputato all’agente solo in presenza di almeno due
condizioni: a ) che l’agente, con la sua condotta, in violazione di una regola di
diligenza/prudenza/perizia, abbia creato o aumentato o non diminuito il rischio del verificarsi
di un evento del tipo di quello che si è verificato e inoltre b) che l’evento sia la
concretizzazione del rischio che la regola cautelare violata mirava a evitare o a ridurre. Nella
sostanza, la teoria dell’imputazione oggettiva anticipa nel fatto di reato uno degli elementi
del nesso colpa-evento, realizzandone un’inutile duplicazione concettuale priva di qualsiasi
ragion d’essere in un ordinamento come il nostro, nel quale tale nesso requisito necessario
per la sussistenza della colpa nei reati di evento. La teoria dell’imputazione oggettiva
dell’evento rappresenta uno sviluppo della teoria dell’adeguatezza, ma non una teoria della
causalità: l’imputazione oggettiva viene in effetti concepita come un requisito ulteriore
rispetto alla causalità. La teoria dell’imputazione oggettiva dà risposta all’autonomo, ulteriore
quesito se l’evento possa considerarsi opera dell’agente, cioè se l’evento sia a lui
imputabile. Una parte della dottrina italiana importa dall’estero la teoria dell’imputazione
oggettiva, ma ne modifica la funzione e la portata. Concepisce infatti la teoria
dell’imputazione oggettiva non come limite alla teoria condizionalistica della causalità, bensì
come strumento concettuale per sostituire la causazione dell’evento con l’aumento del
rischio del suo verificarsi. Il risultato di questa operazione sarebbe però la trasformazione
sottobanco dei reati di evento in reati di pericolo.

La teoria condizionalistica oggi non è più messa in discussione e ha una sua valenza anche
all’estero, viene considerata il perno dell’accertamento causale. È accreditata non solo nel
diritto penale, ma anche civile quando si tratta di accertare il danno, ci si allinea su quelle
che sono le posizioni penalistiche. Qual è il limite della teoria condizionalistica? E’
necessario riferirsi a una legge scientifica, tutte le volte in cui non sia immediata la
soluzione. Dopo la giurisprudenza che si è succeduta, si è arrivati nel 2002 alla sentenza
Franzese (dal 2003 in poi non può più essere citato per esteso il nome dell’imputato, per una
questione di privacy).
Questa sentenza è quella che ha messo il punto di diritto (principi giuridici che vengono
enunciati dalla corte di cassazione, è un giudice di legittimità, ricorso blindato legato a
determinate motivazioni). Alla corte di cassazione a sezioni unite era stata poi trasmessa la
decisione, le sezioni unite intervengono quando c’è un contrasto tra sezioni diverse, può
quindi accadere che all’ennesimo ricorso in cassazione, la sezione a cui è assegnata decida
di rimettere la decisione alle sezioni unite, che mettono punti di diritto su determinato tema,
dai quali difficilmente la giurisprudenza successiva potrà scostarsi, a meno che non cambino
le condizioni di fondo. La decisione della cassazione, comunque sia, ha un valore vincolante
per il giudice di appello a cui viene rimessa la causa. La cassazione non decide sul fatto,
decide sui determinati punti che le vengono sottoposti.
A un certo punto anche nell’accertamento del nesso causale si è reso necessario il ricorso
alle sezioni unite, perché si erano create divergenze con riferimento all’uso delle leggi
scientifiche per l’accertamento del nesso causale. Anche le leggi statistiche possono essere
prese in considerazione dal giudice per spiegare e accertare il nesso causale? Sono state
prese diverse posizioni, anche in passato, quindi nel 2002 ci si è rivolti alle sezioni unite con
la sentenza Franzese.
Alcuni corollari della teoria condizionalistica:
a) Il concorso di fattori causali preesistenti, simultanei o sopravvenuti non esclude il
rapporto di causalità tra l’azione e l’evento, quando l’azione è una condizione
necessaria dell’evento: e ciò vale anche se i fattori estranei all’opera dell’uomo sono
rari o anormali.
b) Il rapporto di causalità non è escluso nemmeno se il fattore causale ulteriore rispetto
all’azione dell’uomo consiste in un fatto illecito di un terzo.
c) Il rapporto di causalità è invece escluso quando tra l’azione e l’evento è inserita una
serie causale autonoma, cioè una serie causale che è stata da sola sufficiente a
causare l’evento: in tal caso l’azione è solo un antecedente temporale e non una
condicio sine qua non dell’evento.

Indubbiamente il primo e il terzo comma dell’art. 41 c.p. enunciano due corollari della teoria
condizionalistica: Il primo comma stabilisce che « il concorso di cause preesistenti o
simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole,
non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento »: il che equivale a
dire che per la sussistenza del rapporto di causalità basta che agente abbia posto in essere
uno solo degli antecedenti necessari dell’evento.
Il terzo comma stabilisce che « le disposizioni precedenti si applicano anche quando la
causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui »: e ciò
equivale a dire che un’azione che sia condizione necessaria dell’evento ne resta causa
anche se tra i fattori causali si annoveri un fatto illecito altrui. Il secondo comma dispone che
« le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole
sufficienti a determinare l’evento », anche questa disposizione ribadisce l’adesione del
legislatore alla teoria condizionalistica. Sei caso di cause sopravvenute che sono state da
sole sufficienti a determinare l’evento, è evidente che tra razione e l’evento è inserita una
serie causale autonoma, la quale fa sì che quell’azione rappresenti una condizione
necessaria dell’evento, ma solo un suo antecedente temporale. Coerentemente, l’art. 41 co.
2 c.p. prosegue dicendo che « se l’azione od omissione precedentemente commessa
costituisce di per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita ».

L’adesione da parte del legislatore italiano alla teoria condizionalistica non comporta un
eccessivo ampliamento dell’area della responsabilità penale. Nelle ipotesi di responsabilità
per dolo o per colpa le esigenze di delimitazione della responsabilità perseguite dalle teorie
della causalità adeguata e della causalità umana sono comunque soddisfatte quando, una
volta accertata la sussistenza del rapporto di causalità tra una determinata azione e un
determinato evento, si passa ad esaminare se quell’evento stato causato dolosamente o
colposamente. Non di rado — in materia di interruzione del nesso causale -- la
giurisprudenza, riecheggiando in parte le teorie della causalità adeguata e della causalità
umana, sembra confondere il dell’accertamento del nesso causale con quello, logicamente
successivo, dell’accertamento della colpa. La teoria condizionalistica sembrerebbe semmai
produrre un’eccessiva dilatazione della responsabilità penale nelle ipotesi in cui l’evento
viene posto a carico dell’agente a titolo di responsabilità oggettiva, cioè solo perché l’azione
dell’agente lo ha materialmente causato, senza che sia necessario accertare la sussistenza
del dolo o della colpa. Una delle ragioni che storicamente sono all’origine della teoria della
causalità adeguata è proprio quella di arricchire la struttura del rapporto di causalità nei reati
aggravati dall'evento, introducendovi in via interpretativa un limite sostanzialmente
coincidente con quello della colpa: non può essere infatti rimproverato all’agente per colpa
un evento che per la sua anormalità o eccezionalità non poteva essere sto, e quindi, evitato,
neppure da un uomo dotato del massimo di conoscenze esistenti al momento dell’azione.
Oggi» però, dopo l’avvento della Costituzione, tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva —
compresi i delitti aggravati dall’evento - non hanno più diritto di cittadinanza nel nostro
ordinamento. La Corte costituzionale ha infatti riconosciuto rango costituzionale al principio
di colpevolezza e ne ha tratto la conseguenza che ogni elemento del fatto deve essere
investito almeno dalla colpa: interpretate in conformità alla Costituzione, le norme che
prevedono delitti aggravati dall’evento vanno dunque lette come se già prevedessero il limite
della colpa.
Nient'affatto persuasiva risulta infine l’obiezione, spesso mossa alla teoria condizionalistica,
di aprire la strada a un ‘regresso all’infinito’, andando alla ricerca della causa penalmente
rilevante anche tra gli antecedenti più remoti dell’evento. Se il regresso all’infinito fosse un
problema reale, non si capirebbe come tale problema non si ponga mai nella giurisprudenza.
La verità è che nella prassi il problema della causalità si pone soltanto per un
comportamento del quale si sospetti che sia antigiuridico e colpevole.

Nella sentenza (Franzese) prima c’è la spiegazione di quello che è successo, poi c’è il
CONSIDERATO IN DIRITTO, dove la corte fa il suo ragionamento, che è la premessa di
quello che è il dispositivo, cioè la decisione: la cassazione emana i cosiddetti principi di
diritto. Dopo continua con la motivazione e dà la soluzione finale.
Questa sentenza ha determinato un momento importante per quanto riguarda prendere in
considerazione le leggi scientifiche che non hanno un grado di verificabilità pari a 100
(anche 1). Siamo a Napoli nel 1999 (sentenza di primo grado), il dottor Franzese è colpevole
di omicidio colposo, (art. 589 “chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è
punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”, fattispecie che corrisponde quasi
all’art. 575, qui si specifica “per colpa” quindi è diverso dall’omicidio doloso, viene specificata
che la responsabilità soggettiva è la colpa, questo rappresenta una di quelle eccezioni
enunciate all’art. 42 “nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta
dalla legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà. Nessuno può
essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso
con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti
dalla legge. La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico
dell'agente, come conseguenza della sua azione od omissione. Nelle contravvenzioni
ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa
dolosa o colposa”). L’imputato è un medico condannato per omicidio colposo con
attenuanti generiche, art. 62 bis “il giudice, indipendentemente dalle circostanze
previste nell'articolo 62 può prendere in considerazione altre circostanze diverse,
qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono
considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come una sola
circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate
nel predetto articolo 62”, sono elementi che vengono descritti nel codice penale e sono di
tanti tipi, alcune circostanze sono aggravanti e attenuanti comuni che stanno negli artt. 61 e
62 e poi vi sono le circostanze attenuanti generiche, che sono circostanze atipiche, cioè non
vengono tipizzate, mentre tutte le altre sono descritte in tutti i loro elementi costitutivi, ciò
non vale per queste altre, al giudice spetta evidenziare, non può rifarsi agli elementi indicati
dal 62, ma deve individuare dal caso concreto delle particolarità che gli consentano di dire
che l’imputato merita una diminuzione di pena.
Il medico venne condannato alla pena di 8 mesi di reclusione e poi anche al risarcimento del
danno a favore della parte civile. In primo grado il giudice aveva ritenuto fondato l’impianto
accusatorio fornito dal Pubblico Ministero (“l’imputato non aveva compiuto durante il periodo
di ricovero del paziente una corretta diagnosi né praticato appropriate cure, omettendo per
negligenza e imperizia di valutare i risultati…, autorizzando anzi l'ingiustificata dimissione
del paziente giudicato “in via di guarigione giuridica”).
Qual è la condotta imputata al medico? Omissiva, lo si vede dal termine “omettendo”: non si
sono valutati i risultati degli esami ematologici e quindi non si è curata l’allarmante situazione
e si è dimesso il paziente.
Negligenza e imperizia sono i termini che vengono dalla descrizione della colpa al terzo
comma dell’art. 43. La negligenza è la situazione tipica di chi trascura determinati aspetti,
l’imperizia è quella particolare situazione di colpa verificata, che si prende in considerazione
quando si deve valutare la condotta alla stregua di regole di carattere tecnico. In genere si
dice che negligenza o imprudenza fanno riferimento a una situazione di colpa non
qualificata, ma a volte l’imperizia può riassumere sia l’una che l’altra.
Queste tre situazioni (negligenza, imprudenza, imperizia) si riferiscono a quella che è
chiamata colpa generica, perché la regola di riferimento per capire quanto la condotta
contrasta con queste, non è data da una norma scritta (altrimenti si tratterebbe di colpa
specifica), ma ci sono delle regole sociali che corrispondono a quello che si ritiene debba
essere fatto, non a quello che comunemente si fa. L’imperizia però fa riferimento a regole di
carattere tecnico.
“Diagnosi e cura che, se doverosamente realizzate, sarebbero invece state, secondo i
consulenti medico-legali e gli autorevoli pareri della letteratura scientifica in materia, idonee
ad evitare la progressiva evoluzione della patologia infettiva letale “con alto grado di
probabilità logica o credibilità razionale” (sentenza di primo grado).
La corte di appello di Napoli nel 2000 conferma la sentenza di primo grado. Contro questa
sentenza, i difensori propongono ricorso e si arriva alla cassazione, si parla di violazione di
legge in relazione agli artt. 40, 41, 589 del codice penale e manifesta illogicità della
motivazione quanto all’affermazione della responsabilità, perché non era stata dimostrata la
direzione del reparto e la posizione di garante in capo all’imputato né l’effettiva causalità
delle addebitate omissioni di diagnosi e cura.
Parliamo di responsabilità per un evento morte, determinato con condotta omissiva, che ha
comunque una sua valenza causale nel secondo comma dell’art. 40. Nel caso di condotta
omissiva e causalità omissiva, stiamo cercando di accertare l’equivalenza causale della
condotta omissiva, dove la persona deve però essere una persona che riveste una
posizione di garanzia, cioè chi aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento (es. posizione
del medico, del datore di lavoro, genitori nei confronti dei figli).
La quarta sezione della corte di cassazione rimette il ricorso alle sezioni unite sul rilievo
dell’esistenza di un radicale contrasto interpretativo, in ordine alla ricostruzione del nesso
causale tra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della
responsabilità professionale del medico-chirurgo. Al più recente orientamento, secondo il
quale è richiesta la prova che un diverso comportamento dell’agente avrebbe impedito
l’evento con un elevato grado di probabilità “prossimo alla certezza” e cioè in una
percentuale di casi “quasi prossima a cento”, si contrappone l’indirizzo maggioritario, che
ritiene sufficienti “serie ed apprezzabili probabilità di successo” per l’impedimento
dell’evento.
Le sezioni unite si trovano di fronte a un contrasto al loro interno e devono prendere
posizione, passano quindi al considerato in diritto: in tema di reato colposo omissivo
improprio la sussistenza del nesso di causalità deve essere ricondotta all’accertamento che
con il comportamento dovuto ed omesso l’evento sarebbe stato impedito con elevato grado
di probabilità vicino alla certezza, ovvero siano sufficienti soltanto serie ed apprezzabili
probabilità di successo della condotta che avrebbe potuto impedire l’evento.
Questa è la manifestazione di reato che sembra essere evanescente per quanto riguarda la
condotta, perché quello che salta agli occhi è l’evento, e la condotta così come l’elemento
soggettivo sono quelli meno materici, perché non c’è condotta attiva e non c’è responsabilità
dolosa, ma c’è una situazione di inosservanza di regole, quindi questo reato si realizza quasi
come una sorta di doppia omissione. E’ tutto valutato in negativo, è la situazione più
normativa che si possa immaginare nella realizzazione di un fatto di reato.
Nell’ambito della scienza giuridica penalistica può dirsi assolutamente dominante
l’interpretazione che fa leva sulla teoria condizionalistica, temperata, ma in realtà ribadita
mediante il riferimento, speculare e in negativo, alla causalità umana quanto alle serie
causali sopravvenute, autonome e indipendenti, da sole sufficienti a determinare l’evento:
art. 41 comma 2. Art. 41: “Il concorso di cause preesistenti o simultanee o
sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non
esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento. Le cause
sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti
a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente
commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita. Le
disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o
simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”. Norma che è stata
interpretata come integrativa all’art. 40: a conferma della cosiddetta equivalenza delle cause;
il secondo comma è di più delicata interpretazione: riguarda soltanto le cause sopravvenute
e parla di esclusione del rapporto di causalità. Fa riferimento alla causalità umana, che è
una di quelle teorie che vorrebbero porsi come correttivo, sostenuta da Francesco Antolisei,
che definiva il diritto penale come la parte più umana del diritto e aveva queste sue
particolarità, la causalità umana e la suitas per l’interpretazione del primo comma dell’art.
42.La causalità umana era un correttivo alla condicio sine qua non, perché riteneva che
quest’ultima, come spiegazione causale portasse a conseguenze non accettabili, troppo
rigorose, si poneva dunque il problema della valutazione di determinati nuovi esempi che
potessero costituire cause sopravvenute e fossero al di fuori della possibilità di essere
controllate dalla mente stessa dell’uomo: cause eccezionali, quelle che la persona umana
non può neanche immaginare nel momento in cui si accinge a una determinata azione
(usata nella ricostruzione del nesso di causalità nel disastro del Vajont).
Dovremmo quindi anche accertare che l’evento non è stato prodotto di fattori eccezionali. La
cassazione richiama questa tesi che però viene oggi ritenuta uno schema di accertamento
bifasico non del tutto corretto, perché porta dentro all’accertamento del nesso elementi che
hanno connotazione di carattere soggettivo, che logicamente devono appartenere a un altro
momento di accertamento degli elementi del reato, cioè l’elemento psicologico o
colpevolezza. Riguarda qualcosa di diverso dall'oggettività a cui bisogna attenersi per
valutare l’esistenza del nesso causale.
La causalità umana e quella adeguata adesso non possono più essere accolte.
E’ dunque causa penalmente rilevante la condotta umana, attiva o omissiva, che si pone
come condizione necessaria nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il
risultato, senza la quale l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si sarebbe
verificato. Si conclude dicendo che “si è osservato che, in tanto può affermarsi che, operata
l’eliminazione mentale dell’antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si
sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, già da prima, che da una
determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento.” Da qui la necessità di
riferirsi alle cosiddette leggi di copertura: il giudice deve per forza fare affidamento in certi
contesti alle leggi scientifiche, che siano universali o statistiche, queste ultime sono tanto più
dotate di alto grado di credibilità razionale o probabilità logica quanto più trovano
applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il
ricorso a metodi di prova razionali ed empiricamente controllabili.
Il giudice quindi ha davanti una sequenza e deve ridescrivere il singolo evento in queste
modalità tipiche ripetibili nell’accanimento lesivo e deve ricorrere a una serie di assunzioni
tacite e presupporre come presenti determinate condizioni iniziali. La sequenza deve essere
possibile da generalizzare e la generalizzazione avviene mediante il ricorso ad una legge
scientifica.
Nel paragrafo 3 la corte deve dare conto dell’importanza del ragionamento logico che sta
portando avanti. Lo schema condizionalistico ha portata tipizzante, in ossequio alle garanzie
costituzionali di legalità e tassatività delle fonti di responsabilità penale e di personalità della
stessa soprattutto nell’ambito delle fattispecie causalmente orientate (le fattispecie di evento
sono distinte in forma libera o vincolata: l’omicidio è una fattispecie a forma libera o anche
detta causalmente orientata = non importano le modalità e tutto si incentra sul nesso che
lega una qualunque condotta e il disvalore di evento).
Il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio
controfattuale, altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a
parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione
necessaria, anche per i più complessi sviluppi causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o
biologici.
La condotta omissiva ha sempre posto qualche problema in più nell’accertamento del nesso
causale, è definita equivalenza, non è una vera causazione ma equivale a una causazione.
Qui la corte di cassazione è attenta a questo aspetto, il soggetto non ha compiuto un certo
atto e per accertare la relazione causale deve fare riferimento a cosa sarebbe successo se il
soggetto avesse posto in essere la condotta doverosa: fa proprio riferimento all’essenza
normativa del concetto di omissione, che postula una relazione con un modello alternativo
di comportamento attivo, specifico e imposto dall’ordinamento.
Il reato omissivo improprio o commissivo mediante omissione, che è realizzato da chi viola
gli speciali doveri collegati alla posizione di garanzia non impedendo il verificarsi dell’evento,
presenta una spiccata autonomia dogmatica (va trattato diversamente dal reato commissivo,
va studiato in maniera autonoma perché ha delle sue specificità), scaturendo dalla clausola
generale di equivalenza causale all’art. 40 comma 2 sulle disposizioni di parte speciale che
prevedono le ipotesi-base di reato commissivo orientate verso la produzione di un evento
lesivo, suscettive così di essere convertite in corrispondenti ipotesi omissive.

C’è stato un filone giurisprudenziale che nel corso del tempo aveva fatto la volatilizzazione
del nesso eziologico, con particolare riferimento ai delitti omissivi impropri nell’esercizio
dell’attività medico-chirurgica. C’è stata una sorta di attenuazione degli elementi ricostruttivi
del nesso causale in virtù della natura poco materiale, che facevano anche leva sulle
difficoltà probatorie nel processo. Si sarebbe quindi pensato che l’accertamento avrebbe
dovuto seguire dei binari un po’ meno definiti, quindi accertando anche una spiegazione
causale immaginando il compito alternativo doveroso come qualcosa che se si fosse
realizzato avrebbe evitato l’evento tipico realizzatosi con una serie di apprezzabili probabilità
di successo. Non abbassava il limite di probabilità di non verificabilità dell’evento, questo
non è oggi accettato dalle sezioni unite. Si riteneva che quando è in gioco la vita umana un’
equivalenza causale dovesse essere accertata anche quando le probabilità di sopravvivenza
della persona offesa sarebbero state anche poche. Le sezioni unite però non condividono
questa posizione, rappresentata prevalentemente dalla quarta sezione.
La corte di cassazione si rende conto che le difficoltà di prova sono alte, ma questa non può
essere una ragione per abbassare lo standard di verificazione del nesso causale e dare
quindi una nozione debole della causalità, che sul terreno della teoria parlerebbe piuttosto di
aumento del rischio. Si deve comunque riuscire a provare che il comportamento alternativo
doveroso avrebbe evitato l’evento e non semplicemente diminuito il rischio dell’evento.
Il momento integrativo è la considerazione accurata del fondamento della legge scientifica di
tipo probabilistico e quindi statistico e poi la sua considerazione nel contesto concreto per
capire se è applicabile guardando la situazione concreta e guardando se nel caso concreto
potrebbero trovarsi delle spiegazioni causali diverse.
La probabilità logica è quindi la verifica aggiuntiva.
Si applica sia nei contesti in cui bisogna valutare il nesso causale tra una condotta e un
evento, ma anche per ascrivere la responsabilità per un fatto preciso al di fuori della
condotta omissiva (es. caso Franzoni, madre per uccisione bambino e caso Stasi, uccisione
della fidanzata, utilizzata quindi per la riconducibilità di un fatto a una persona). Si tratta di
schemi che servono per corroborare la raccolta anche di prove indiziarie.
La corte di cassazione parla quindi di probabilità logica e alla fine enuncia i principi/punti di
diritto:
a) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale
condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge
scientifica, universale o statistica, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal
medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si
sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente
posteriore o con minore intensità lesiva.
b) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di prob espresso dalla
legge statistica la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso
causale, perché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base
delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del
ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi,
risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva
del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado
di credibilità razionale o probabilità logica
c) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla
ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, comportano la
neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

Abbiamo quindi la conditio sine qua non come base di partenza, una volta fatto ricorso a una
legge scientifica non possiamo dedurre dal suo coefficiente di probabilità che questa
esprime la conferma dell’esistenza del nesso causale, perché dobbiamo verificarne la
validità nel caso concreto tenendo conto di tutte le circostanze del caso. Potremmo anche
ritenere che pur data una probabilità medio-bassa, dobbiamo ritenere in assenza di altri
fattori alternativi che la condotta è stata condizione necessaria dell’evento con un alto grado
di credibilità o probabilità logica. In assenza di tutto questo siamo in una condizione di
ragionevole dubbio e quindi va negata la sussistenza del nesso causale e prosciolto
l’imputato.
Può accadere che il giudice, pur sospettando un legame causale tra una data azione e un
dato evento, si trovi nell’impossibilità di corroborare quel sospetto, non potendo rintracciare
una legge scientifica in base alla quale spiegare l’evento: il giudice dovrà escludere la
sussistenza del rapporto di causalità. Sull’esigenza che il giudice, allorché per la
ricostruzione dell’eziologia dell’evento sia necessario svolgere indagini o acquisire dati o
valutazioni che richiedano specifiche competenze tecniche, disponga una perizia, anziché
avvalersi di proprie personali competenze scientifiche e tecniche.
secondo il giudice di legittimità « ai fini della ricostruzione del nesso causale è utilizzabile
anche una legge scientifica che non sia unanimemente riconosciuta, essendo sufficiente il
ricorso alle acquisizioni maggiormente accolte o generalmente condivise, attesa la diffusa
consapevolezza della relatività mutabilità delle conoscenze scientifiche. »
Sui problemi relativi all’utilizzabilità di teorie scientifiche nuove, sulle quali cioè la comunità
scientifica non ha avuto modo di esprimersi compiutamente, la Corte ha accolto la tesi dei
difensori (es. teoria dell’effetto acceleratore dell’amianto), affermando che le teorie nuove
possono essere utilizzate soltanto a condizione che le premesse scientifiche sulle quali si
fondano siano sottoposte stesso scrutinio di attendibilità che generalmente si utilizza per le
leggi di copertura.

Il contenuto e i presupposti degli obblighi giuridici richiamati dall’art. 40 co. 2 c.p. (nel
linguaggio della dottrina, spesso designati come ‘posizioni di garanzia’) possono essere
desunti solo dalle singole norme giuridiche che fondano l’obbligo di impedire questo o
quell’evento. Dall’insieme di queste norme, si possono individuare due diverse classi di
obblighi: obblighi di protezione e obblighi di controllo.
Si parla di obblighi di protezione quando l’obbligo giuridico riguarda la tutela di uno o più
beni che fanno capo a singoli soggetti o a una determinata classe di soggetti nei confronti di
una gamma più o ampia di pericoli. Obblighi giuridici di protezione possono derivare dalle
fonti più disparate. L’obbligo di impedire l’evento nascente da contratto sorge a partire non
dal momento pattuito fra le parti, bensì dal momento in cui l’obbligato assume effettivamente
e materialmente l’incarico.
E’ necessario cioè che l’obbligato venga a contatto con la specifica situazione pericolosa
che egli deve neutralizzare: l’instaurarsi di questo contatto è infatti un presupposto implicito
della rilevanza penale degli obblighi giuridici di protezione fonte contrattuale.
Obblighi di controllo sono quelli aventi per oggetto la neutralizzazione dei pericoli derivanti
da una determinata fonte, in funzione di tutela di chiunque possa essere messo a
repentaglio da quella fonte di pericolo, sia pericoli creati da forze della natura, sia pericoli
connessi allo svolgimento di attività umane.

La condicio sine qua non ha bisogno di un’integrazione, che non necessariamente deve
avvenire sempre, ma deve avvenire ogni volta che non è noto il meccanismo che sottostà a
una serie di eventi.
Le tesi della causalità adeguata e umana sono nate come correttivi, è diverso riferirsi alla
causalità adeguata e umana rispetto alla sussunzione sotto leggi scientifiche, perché chi ha
elaborato queste teorie voleva restringere l’ambito della condicio sine qua non, non è così
invece per chi ritiene che la condicio sine qua non non sia autosufficiente ma vada integrata.
Le altre due teorie non la rinnegano, ce l’hanno comunque come punto di partenza ma
ritengono sia eccessivo estendere la nozione di causa solo attraverso la teoria della condicio
sine qua non.

La causalità adeguata ritiene che la nozione di causa dovesse riferirsi soltanto a quelle
condotte che sì, da un lato rispettano la qualificazione di condicio sine qua non dell’evento,
ma dall’altra parte vuole limitare la nozione di causa a quelle condotte alle quali sia seguito
un evento normalmente prevedibile, per le quali possa dirsi che rappresenta una
conseguenza normale. Si applica uno schema quindi di prevedibilità all’accertamento della
teoria causale e tende ad escludere gli eventi imprevedibili. Si ragiona sull’imprevedibilità
dell’evento per escludere che una condotta ne sia stata oggettivamente la causa. Questa
teoria ha una sua storia precisa, è nata per limitare le conseguenze dell’imputazione
dell’evento aggravante nei casi di reati aggravati dall’evento.
Es. omissione di soccorso, art. 593 “chiunque, trovando abbandonato o smarrito un
fanciullo minore degli anni dieci, o un'altra persona incapace di provvedere a se
stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di
darne immediato avviso all'Autorità è punito con la reclusione fino a un anno o con la
multa fino a duemilacinquecento euro. Alla stessa pena soggiace chi, trovando un
corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in
pericolo, omette di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso
all'Autorità. Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la
pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata”, il terzo comma
descrive un evento, il reato che abbiamo di fronte è un reato di condotta: si consuma solo
con la realizzazione di tutti gli elementi descritti o nel primo comma o nel secondo (2
condotte diverse), basta questo perché ci sia il reato, la fattispecie è già integrata e la
persona è punibile per il solo fatto di non aver dato avviso all’autorità o non aver prestato
l’assistenza occorrente. Il terzo comma descrive invece un evento: classico esempio di
delitto aggravato dall’evento.
Altri art. 591 “chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero
una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra
causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura,
è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi
abbandona all'estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel
territorio dello Stato per ragioni di lavoro. La pena è della reclusione da uno a sei anni
se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte.
Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o
dal coniuge, ovvero dall'adottante o dall'adottato”, lo schema è lo stesso, è un reato
commissivo di condotta, al terzo comma troviamo la pena se deriva dalla lesione personale
o dalla morte, che un aggravamento di pena: un altro esempio di delitto aggravato
dall’evento. Questo evento aggravante è sempre stato posto a carico del soggetto che
realizza la condotta attiva od omissiva sulla base del nesso di causalità.
Tempo fa, prima che venisse modificato anche il criterio dell’imputazione delle circostanze
aggravanti, si riteneva che l’evento aggravante fosse ascritto a titolo di responsabilità
oggettiva, cioè senza concorso di dolo, altrimenti cambierebbe l’imputazione, e neanche di
colpa.
A un certo punto è sembrato che questo schema fosse eccessivamente gravoso, per cui si è
deciso di stringere la nozione di causa con riferimento a questi delitti per i motivi già detti: è
così che è nata la causalità adeguata, si è cercato di capire se nel caso concreto questo
evento dovesse ritenersi come evento imprevedibile, nonostante la situazione di abbandono
o mancato soccorso fosse stata condicio sine qua non, occorreva vedere se questo evento
potesse ascriversi a evento prevedibile.
Da qui si è poi passati a estendere la teoria della causalità adeguata alla sfera della
causalità in generale, quindi del reato di evento in cui il nesso causale è da accertare come
elemento costitutivo del reato base, indipendentemente da qualunque aggravamento ci sia.
Le ragioni per cui qui non funziona questo tipo di ragionamento è che sono schemi di
ragionamento che trasportano sul piano oggettivo elementi di carattere soggettivo, quindi la
causalità adeguata va esclusa per questa ragione. Adesso non ha più ragion d’essere,
perché è cambiata la giurisprudenza della corte costituzionale e ci sono stati anche
mutamenti di carattere normativo, è cambiato anche criterio di imputazione delle stesse
circostanze aggravanti, che non possono più essere applicate oggettivamente.

Per la causalità umana valgono più o meno le stesse considerazioni, elaborata da Antolisei,
che aveva anche trovato una sua conferma normativa. La causalità umana vuole limitare
l’operatività della condicio sine qua non dicendo che la condotta si possa considerare causa
nel momento in cui è stata e senza il quale evento non si sarebbe verificato, tuttavia è
eccessivo estendere a tutti gli antecedenti, ma occorre guardare anche qui dal punto di vista
dell’evento e capire se questo evento è di carattere eccezionale, va oltre categoria di
prevedibilità e imprevedibilità, vorrebbe pensare a quelli che sono tutti i possibili sviluppi di
una situazione, oltre a questi potrebbero esserci sviluppi fuori dall’umana comprensione, che
quindi possono essere chiamati eccezionali. Questi eventi eccezionali trovano la loro
giustificazione normativa nell’art. 41 (concorso di cause), nel secondo comma “le cause
sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti
a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente
commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita”.
E’ difficile che oggi si possa rinvenire nel ragionamento motivazionale del giudice, perché si
è concentrati sulla condicio sine qua non e sulla ricerca di legge scientifica di copertura (nei
casi problematici) e la ricostruzione della causalità è legata alla presenza di una legge
scientifica universale o statistica.

La teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento è una tesi elaborata da un giurista tedesco,


Claus Roxin, mira a limitare la condicio sine qua non, non la rinnega. Trovandosi di fronte a
una serie di situazioni che si può dire siano state antecedenti senza le quali l’evento non si
sarebbe verificato, occorre però fare una seconda verifica: occorre che l’agente abbia violato
una regola di diligenza, prudenza o perizia (stiamo parlando con il linguaggio della colpa) e
facendo questo abbia aumentato o non diminuito il rischio di verificazione di un evento simile
o del tipo di quello che si è verificato; inoltre occorre che l’evento sia la concretizzazione del
rischio che la regola cautelare mirava a evitare o a ridurre. La tesi un po’ più complessa per i
termini che usa, la funzione vorrebbe essere la stessa, ma si introducono gli elementi tipici
del lessico della colpa, anticipando una valutazione tra condotta ed evento passando
attraverso gli estremi della colpa. Es. caso realmente accaduto in Germania, una signora
anziana in bici transita su un’ allea e ci sono le macchine che vanno nelle rispettive corsie. A
un certo punto aveva pensato di immettersi sulla carreggiata per attraversarla e scende dal
marciapiede, si trova auto che in retromarcia stava parcheggiando, quest’auto prende la
persona e dalla collisione ne deriva una grave lesione e successivamente la morte. Il giudice
tedesco deve valutare se la persona può essere ritenuta colpevole di omicidio colposo.
Sul piano della connessione materiale, la condotta dell’automobilista è stata condicio sine
qua non? Sì, se non ci fosse stato l’impatto, l’evento non si sarebbe verificato. Ma
fermandosi all’accertamento, verrebbe poi da analizzare la colpevolezza e siccome non è un
fatto doloso, occorrerebbe capire se vi è stata violazione di una qualche regola di prudenza,
diligenza o di qualche norma. Se applichiamo l’imputazione oggettiva dell’evento come ha
fatto il giudice tedesco, sì, è condicio sine qua non, ma bisogna anche vedere se è stata
violata una norma di diligenza e se con questa si è aumentato il rischio di verificazione
dell’evento. Si chiede la velocità di retromarcia, se il soggetto ha fatto la manovra come
descritto dal codice della strada. La velocità era stata superiore a quella che avrebbe dovuto
tenere e probabilmente aveva violato una regola di diligenza e prudenza, ma la seconda
condizione vorrebbe che ciò che si è verificato rappresenti proprio la concretizzazione del
rischio che la regola cautelare mirava a evitare. Qui occorrerebbe domandarsi che cosa
questa norma (limite di velocità) voleva evitare, se si è realizzato un evento che rappresenta
la concretizzazione del rischio tipico, l’evento tipico che andrebbe evitato rispettando quella
norma. Il giudice aveva risposto di no, aveva ritenuto che la regola cautelare in quel caso
mirava a evitare l’impatto con veicoli che provenissero da dietro, ma non a evitare eventi del
tipo di quello che si è verificato (investimento di una bici sbucata da una pedonale).
Applicando questo schema di fatto viene meno la qualifica di causa al comportamento del
signore alla guida e in questo modo viene esclusa la responsabilità penale già sul piano
dell’individuazione del nesso causale. Se fosse successo in Italia avremmo una
contravvenzione da contestare o un illecito amministrativo, un illecito rimarrebbe comunque
ma non necessariamente la responsabilità penale.
Applicando la tesi dell’imputazione oggettiva dell’evento, che però in Italia non viene presa in
considerazione, c’è comunque spazio nel momento dell’accertamento della colpa per
completare la responsabilità penale, ma questa tesi anticipa in maniera molto esplicita gli
schemi di accertamento che stanno nella colpa. La ragione principale per cui viene riportata
questa tesi e non viene accettata dal nostro libro è che adottare questo ragionamento può
comportare di accertare non tanto il nesso causale come qualcosa che sia realmente
accaduto tra condotta ed evento, ma accertare la natura di causa per aver aumentato il
rischio di verificazione dell’evento, rischiamo di portare l’accertamento del nesso causale
incompleto e questo è pericolosissimo soprattutto nel caso di reato omissivo. Molto spesso
si trova la tendenza a scrivere che per non aver posto in essere una determinata condotta
non possiamo dire che abbia comportato la verificazione dell’evento, ma abbia aumentato il
rischio o non diminuito la verificazione dell’evento.

Art. 41 nel secondo comma, Antolisei aveva voluto trovare conferma della sua tesi. Ma non
si può trarre una qualche nozione di eccezionalità riferita a queste cause da sole sufficienti a
determinare l’evento, è un’interpretazione, ma non ci sono appigli di carattere letterale.
Quindi l’art. 41 nel primo comma “il concorso di cause preesistenti o simultanee o
sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non
esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento” non è che la
conferma della tesi della condicio sine qua non, l’equivalenza delle cause: possono essere
tante le condotte, la condotta umana può essere valutata in un contesto in cui si valutano
fattori di carattere naturale e ciononostante se si può dire che la causalità umana è stata
condicio sine qua non, il fatto che vi siano altri fattori non esclude che il rapporto di causalità
sussista. Se ci sono altre condotte umane, risponde il terzo comma “le disposizioni
precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o
sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui” es. dell’incendio alla camera iperbarica
dove ci sono tante omissioni di tipo diverso, ciascuna può rappresentare la causa dell’evento
e tutto questo non esclude la responsabilità in capo a quello che in quel caso particolare fu
l’imputato principale (primario della clinica che aveva acquistato camera e non aveva
formato bene il personale).
Nel secondo comma non vi è nessun riferimento a natura eccezionale di eventi che Antolisei
vorrebbe essere l’elemento indicatore della causalità umana, quindi che vuol dire? Non è
che sia in contrasto con la tesi della condicio sine qua non nei limiti dell’operatività, perché ci
possono essere serie causali che insistono su una precedente azione. La legge parla di
cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento. Vuol dire anche cercare
l’evoluzione di serie causali autonome, che non necessariamente possono essere serie
causali concomitanti all’azione, che servirebbero a ritenere che non è provato il nesso
causale, ma serie causali che si sono verificate in un momento successivo, si deve
ridescrivere tutto l’evento, sono casi della vita, può succedere al giudice che nella raccolta
degli elementi probatori possa incappare in un elemento che gli faccia pensare al fatto che è
successo qualcosa di diverso. E’ possibile che la sequenza causale venga ridescritta, solo
nel momento in cui possiamo dire che la causa sopravvenuta è stata unica condicio sine qua
non dell’evento, solo a questo punto possiamo ritenere che si sia verificata la situazione del
secondo comma. Quella accertata dal giudice non è una concausa, ma è stata da sola
sufficiente a cagionare l’evento.
Non vi è nessuna contraddizione con la condicio sine qua non, anche questo comma ne
rappresenta un corollario, sono eventi che possono capitare e non è importante che fossero
prevedibili, è una verifica che va fatta oggettivamente. Non rimane niente di impunito.

Ci sono state delle obiezioni sul piano logico alla condicio sine qua non, volevano minare
alla base la capacità euristica di questa tesi. La teoria critica del regresso all’infinito voleva
criticare l’equivalenza delle cause, quindi di antecedenti che vengono tutti messi sullo stesso
piano, qualcuno ha obiettato che in questo modo si sarebbe andati indietro all’infinito a
ricercare le cause, andando anche a considerare la responsabilità di chi avesse venduto …,
la responsabilità dei genitori che hanno generato la persona giudicata. Messo così è
assurdo, perché il giudice ha una visione concreta delle cose, quindi tirare fuori questa
obiezione è insensato. Es. responsabilità di chi ha venduto l’arma va valutata sotto altri
aspetti che non hanno a che vedere con il regresso all’infinito.
In altre situazioni si deve andare indietro a valutare la sequenza causale anche di
cinquant’anni e questo accade quando ci sono eventi catastrofici, dove c’è una
stratificazione di cause, condotte, di sottoeventi, ma comunque avverrebbe poi una
scrematura, quindi il regresso all’infinito non ha senso.
Le obiezioni sono quelle della causalità ipotetica e causalità addizionale, queste tre non
sono teorie ma obiezioni alla condicio sine qua non, vorrebbero minare alla base la sua
validità.
La causalità alternativa ipotetica: se consideriamo lo schema della condicio sine qua non
come schema causale e quindi prendiamo in considerazione come causa dell’evento quelle
senza le quali l’evento non si sarebbe verificato, questo schema può essere sconfessato da
una causa che fa parte di una sequenza causale magari concomitante e che sarebbe
intervenuta in modo alternativo alla causa che è stata presa in considerazione, in modo che
si possa dire che se noi eliminiamo mentalmente la condotta di questo soggetto, l’evento si
sarebbe verificato ugualmente perché era in atto una sequenza causale separata, diversa e
indipendente, ma che con certezza avrebbe comportato la morte ad esempio di lì a poco.
Es. incendio della casa e omicidio doloso della signora all’ultimo piano: il soggetto compie
un’azione omicidiaria nei confronti di una persona all’interno di una casa che però sarebbe
stata distrutta poco dopo la verificazione della morte da un incendio che si stava già
sviluppando e che si sarebbe sviluppato prepotentemente comportandone la morte. In
questo caso, se diciamo che quest’uomo non avesse compiuto questa condotta, la persona
sarebbe morta ugualmente. Perché non possiamo andare dietro a questo ragionamento per
escludere la responsabilità sul piano causale? Senza questa condotta si sarebbe verificata
lo stesso la morte, se eliminiamo mentalmente la prima azione, l’evento si sarebbe verificato
lo stesso, perché non si può ragionare così? Quello che è ipotetico è il dinamismo di questa
sequenza causale sulla persona offesa dalla prima azione. L’attributo causale rimane con
riferimento alla prima condotta perché siamo in grado di descrivere l’evento morte come
conseguenza dell’intervento da parte di un’altra persona che ha fatto una determinata cosa
e di dire che l’evento si è verificato quel giorno, a quell’ora con quella modalità e quindi
siamo in grado di dire che la condotta è stata condicio sine qua non dell’evento. Noi
dobbiamo valutare la sequenza causale che si è effettivamente realizzata e non quella che
si sarebbe realizzata anche se non si fosse realizzata la prima. Quello che importa è
descrivere l’evento morte in concreto, non in astratto. Ci si attiene a quelli che sono stati i
fatti reali. La sequenza causale e quindi l’evento morte va valutato hic et nunc, qui e adesso,
non ci interessa che si sarebbe verificato comunque un’ora dopo. Il giudice deve valutare
come sono andate le cose e non come sarebbero potute andare.

La causalità addizionale: qualcuno ha detto che non era giusto prendere in considerazione il
predicato della condicio sine qua non, se ci sono due condotte che agiscono
contemporaneamente, vengono a fondersi in una situazione di causalità e anche se tutte e
due queste condotte sono da sole idonee a determinare l’evento, se ne eliminiamo una non
va bene dire che l’evento non si sarebbe verificato, non va bene esprimersi in questi modi
perché in questo contesto se togliamo una condotta l’evento si sarebbe verificato lo stesso.
Questo è l’obiettivo della causalità addizionale, però è una situazione paradossale quella
che viene descritta perché nel momento in cui si fondono le due modalità causali, queste
vanno considerate entrambe e quindi l’evento finale va considerato come il prodotto delle
due condotte. Quindi dobbiamo descrivere l’evento come concorso delle due cause,
verificazione per unione delle due cause. Ci sono varie considerazioni che si possono fare in
generale: il giudice in una situazione complessa si avvale di consulenti tecnici, anche le parti
avranno consulenti e potrebbe essere che il giudice si trovi di fronte a spiegazioni causali
diverse, determinate caratteristiche fattuali che servono a ricostruire o meno una prova. Il
giudice poi alla fine decide in base a quella che è la sua personale convinzione, non è
arbitrario ma è una valutazione che il giudice fa.
A volte si sente parlare di indagini epidemiologiche e della loro rilevanza, quando si è di
fronte a una che ha per oggetto la rilevazione di determinati dati (morte, contrarre
determinate malattie in una popolazione che è esposta a determinati agenti es. onde
elettromagnetiche, emissioni di fabbrica), sono fatte su base scientifica però non possono
rappresentare quella legge scientifica di cui il giudice ha bisogno, non possono coincidere
con la legge scientifica che riporta un determinato evento di una o più persone a quel
determinato comportamento. L’accertamento del nesso causale è sempre un accertamento
individualizzato, cioè legato al caso concreto che deve essere ricondotto in una copertura di
legge scientifica generale e quindi generalizzante, dove il caso concreto è solo uno dei tanti
elementi che risultano nella descrizione generale.
Le indagini epidemiologiche rappresentano degli studi, dei risultati, che parlano in generale,
non spiegano una valenza causale, se anche si potesse spiegare questa avrebbe poi
bisogno di essere tradotta in una relazione causale provata nel caso concreto e che possa
essere ricondotta a una legge scientifica generale. Non basta l’indagine epidemiologica, ma
occorre sempre dimostrare l’incidenza del caso concreto, quindi la concreta concatenazione
causale del caso particolare.
È peraltro presente in giurisprudenza un diverso orientamento, al quale ha dato origine la
sentenza Franzese, secondo cui le indagini epidemiologiche possono offrire valide leggi di
copertura di relazioni eziologiche.
In conformità alla loro finalità preventiva, le indagini epidemiologiche possono
indubbiamente fornire la base, secondo la logica del ‘principio di precauzione’, per vietare
l’impiego di quella sostanza, magari minacciando pene ai contravventori, perché
statisticamente quella sostanza ha aumentato nella popolazione il rischio di una data
patologia.

L’oggetto materiale del reato è qualcosa o qualcuno nei confronti del quale si realizza una
determinata condotta.
Es. art. 624 furto, l’oggetto materiale è la cosa mobile altrui; omicidio, l’oggetto materiale è il
corpo della persona nella quale si riverbera l’azione od omissione.
Il soggetto attivo è chi realizza la condotta attiva o colui che realizza l’omissione
giuridicamente rilevante. I reati, per la maggior parte, possono essere commessi da
chiunque: si parla in questo caso di reato comune; vi sono però reati che possono essere
commessi soltanto da chi possegga determinate qualità o si trovi in determinate relazioni
con altre persone: si parla in questo caso di reato proprio. Quando una norma si apre con
“chiunque”, può essere qualunque persona a realizzare questo fatto, non è rilevante
nessuna sua particolare qualità o condizione, ma vi sono reati che invece si chiamano reati
propri perché sono qualificati dalla situazione del soggetto attivo, siamo di fronte a un reato
proprio per es. nel reato di concussione art. 317 “il pubblico ufficiale o l'incaricato di un
pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a
dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altra utilità, è punito
con la reclusione da sei a dodici anni” è collocato nel titolo secondo del libro secondo ma
in particolare nel capo primo che dice dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, dal 314 in poi muove la serie di reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, sono tutti propri perché possono essere realizzati solo da pubblici ufficiali.
La legge ci spiega che cosa si intende con pubblico ufficiale all’art. 357 “agli effetti della
legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione
legislativa, giudiziaria o amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione
amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e
caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica
amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi” e
358 “agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i
quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve
intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma
caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima, e con esclusione dello
svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente
materiale” nel 359 “agli effetti della legge penale, sono persone che esercitano un
servizio di pubblica necessità: 1) i privati che esercitano professioni forensi o
sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale
abilitazione dello Stato, quando dell'opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a
valersi; 2) i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un
pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante
un atto della pubblica Amministrazione” qui abbiamo tutta una serie di definizioni che
contribuiscono a descrivere ogni singola fattispecie. La nozione funzionale di pubblico
ufficiale è contrapposta a quella formale, si capisce chi è nel momento in cui esercita una
determinata funzione.
I reati propri possono essere realizzati da una persona che abbia determinata qualifica o
caratteristica, che deriva dal suo rapporto con il bene giuridico o la persona offesa. Ci sono
anche in ambiti diversi situazioni in cui la titolarità è legata a una determinata caratteristica,
per es. delitto controverso art. 578 infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale
“la madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o
del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono
materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici
anni. A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione
non inferiore ad anni ventuno. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire
la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi. Non si applicano le
aggravanti stabilite dall'articolo 61 del codice penale”, delitto che vede come soggetto
attivo solo la madre, è considerato reato proprio. palle qualità o relazioni richieste per il
soggetto attivo nel reato proprio dipende la fisionomia stessa del fatto come offesa a un
bene giuridico: si tratta cioè di una posizione del soggetto che riflette un particolare rapporto
con il bene giuridico, il quale può essere attaccato direttamente solo da chi appartenga a
una cerchia determinata di soggetti.
In queste situazioni bisogna individuare la persona che ha particolari caratteristiche per
essere autore di reato, particolarmente importante quando si realizza il fatto in concorso con
altri, in determinate situazioni per classificare il reato sotto una determinata fattispecie
invece che un’altra (es. peculato invece che furto, magari aggravato) comporta di vedere
quale sia il soggetto che ha posto in essere l’azione principale e possa considerarsi autore,
se è un pubblico ufficiale trascina con sé anche la classificazione del reato.
Quando c’è solo una persona, l’azione di pubblico ufficiale deve essere accertata per capire
se siamo in presenza di quel reato, ma a maggior ragione quando ci siano due persone che
realizzino quella fattispecie di reato in concorso, per capire a quale delle due si debba
assegnare la qualificazione di autore che trascina con sé la classificazione di reato. Da un
lato, il soggetto privo della qualifica richiesta dalla norma incriminatrice (il c.d. estraneo) che
ha agevolato o istigato la persona qualificata (il c.d. intraneo) alla commissione del reato
proprio concorre oggettivamente in questo reato, perché In a contribuito all’offesa del bene
giuridico tutelato dalla norma; d’altro lato, si potrà avere un concorso doloso all’offesa che
caratterizza il reato proprio solo l’agevolatore o l’istigatore sia a conoscenza di tutti gli
elementi del fatto, a cominciare dalla qualità del soggetto attivo. Quanto alla natura delle
qualità o delle relazioni del soggetto attivo che entrano a comporre il fatto nei reati propri,
può trattarsi sia di qualità o relazioni di fatto, sia di qualità o relazioni giuridiche. Numerose
sono, d’altra parte, le ipotesi in cui la legge richiede qualità o re lozioni giuridiche in capo al
soggetto attivo per la sussistenza del fatto di reato: ad esempio, il fatto costitutivo del delitto
di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) può essere realizzato soltanto in presenza delle qualità di
pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio.

Definire l’offesa come elemento del reato, descrivibile in maniera generale, sarebbe
improprio. Quando parliamo di struttura del reato ci riferiamo al fatto, all’antigiuridicità, alla
colpevolezza e alla punibilità. Qui stiamo parlando di fatto e descriviamo la condotta,
l’evento e il nesso causale e sono queste le tre categorie che prendiamo in considerazione
come e strutturali.
L’offesa dove sta? Il diritto penale descrive delle situazioni di offesa, ma non è sempre
esplicitata, è qualcosa di ricavabile in via interpretativa, qualcosa di implicito, non è detto che
se ne parli esplicitamente in termini di lesione di bene giuridico o anche di pericolo per il
bene giuridico. Quello che a volte viene espresso e ci rimanda all’offesa è la qualità di
persona offesa dal reato, è comunque la conferma definitiva che nel reato si trova sempre
un’offesa da qualche parte. Il termine persona offesa dal reato è più di uso processuale, ma
lo si può trovare nella descrizione dei vari delitti. La persona offesa dal reato può anche
essere danneggiata e quindi legittimata a chiedere un risarcimento in sede civile o penale
con la costituzione di parte civile, ma dal reato possono derivare conseguenze dannose
anche per persone diverse dalla persona offesa dal reato, es. omicidio comporta l’offesa di
privazione della vita per la persona che è soggetto passivo, che è vittima (termine
criminologico, non penalistico), ma possiamo avere anche tanti danneggiati, tutte le persone
che possono provare di aver subito un danno patrimoniale o di tipo morale in conseguenza
di questa azione (es. figli, genitori).
L’offesa a volte è proprio esplicitata e dipende dalla tecnica di redazione delle fattispecie, es.
oltraggio a pubblico ufficiale, la fattispecie si configura come chiunque offende l’onore di una
persona presente: si fa esplicito riferimento a una determinata condizione che viene
aggredita, questa è la descrizione dell'offesa, in altri casi è implicita.
Ci sono altre situazioni in cui l’offesa non sembra apparire (es. corruzione, concussione), ci
può essere un elemento come ad es. la simulazione di reato, ma anche il favoreggiamento
personale, l’offesa non è esplicitata ma essendo un reato contro l’amministrazione della
giustizia, leggiamo nella condotta una situazione di pericolo o danno per il giusto corso della
giustizia, l’art. 319 ter è uno dei reati più gravi, struttura composita “se i fatti indicati negli
articoli 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo
civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da sei a dodici
anni. Se dal fatto deriva l'ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a
cinque anni, la pena è della reclusione da sei a quattordici anni; se deriva l'ingiusta
condanna alla reclusione superiore a cinque anni o all'ergastolo, la pena è della
reclusione da otto a venti anni” la corruzione effettuata per favorire o danneggiare una
parte in un processo civile o penale, si realizza una situazione offensiva perché mette in
pericolo corretto svolgimento della giustizia. Il secondo comma mostra la progressione
nell’offesa, diventa offesa di danno.
Se la situazione ha dato luogo a condanna ingiusta, possiamo definire il reato come
plurioffensivo? Non riguarda solo la messa in pericolo, l’offesa a un bene giuridico ma può
riguardare l’offesa di diversi beni giuridici. Una corruzione al fine di favorire o danneggiare
una parte in un processo può comportare una modificazione grave anche nella vita,
gravissima se abbiamo una condanna ingiusta alla reclusione, ma può essere anche una
variazione della situazione patrimoniale se siamo nel processo civile, in entrambi i casi si ha
comunque un danno o un pericolo. E’ un danno per l’amministrazione della giustizia ma
anche per la persona.
Il furto è classificato come reato contro il patrimonio, però ha una sorta di ripercussione
negativa sulla vita delle persone, l’offesa può essere multipla e questi es. lo testimoniamo
molto bene, anche il reato di calunnia è un’offesa alla persona e all’amministrazione della
giustizia.
Anche i beni giuridici possono essere di diverso tipo, servono a classificare anche all’interno
del codice le diverse categorie di reati, ma soprattutto definire diverse categorie di beni,
serve a descrivere anche la variegata realtà. La vita è un bene individuale, l’integrità
personale, libertà sessuale; poi abbiamo anche beni collettivi es. reati contro la pubblica
amministrazione, la personalità dello Stato, sono anche chiamati beni istituzionali che
appartengono a una collettività. Poi ci sono beni diffusi o a titolarità diffusa e l’ambiente ne è
l’esempio più classico. L’ambiente è di tutti e ciascuno di noi può essere colpito nel
momento in cui viene realizzato un fatto che aggredisce questo bene. L’ambiente è un bene
strumentale alla tutela di un altro bene, la salute.
Le classificazioni sono maturate sulla base dell’evoluzione sociale.
I reati di danno e di pericolo: descriviamo delle categorie che si individuano come tali in base
al bene giuridico che prendiamo come parametro di riferimento. I reati di pericolo si
distinguono in pericolo concreto e astratto, per questi vale un discorso a parte.
Nei delitti contro la personalità dello Stato si trovano delle situazioni come attentato al
Presidente della Repubblica, offesa alla libertà del Presidente della Repubblica, offesa
all’onore o prestigio del Presidente della Repubblica, artt. 276 e seguenti, qui è la carica che
porta con sé la differenza, si può considerare reato plurioffensivo perché c’è il surplus della
carica che ricopre (es. è punito con l'ergastolo perché è un reato di motivazione politica).

Altro e fondamentale elemento costitutivo del fatto penalmente rilevante è l’offesa al bene o
ai beni tutelati, che può assumere la forma della lesione o del pericolo per l’integrità del bene
o dei beni. Nel caso in cui l’offesa riguardi un solo bene giuridico, si parla di reato
monoffensivo: furto, omicidio. Se l’offesa riguarda invece più beni, si parla di reato
plurioffensivo: si pensi ad esempio alla rapina o all'estorsione, che coinvolgono sia il
patrimonio, sia la persona.
Diversi sono i modi in cui l’offesa al bene giuridico affiora nella fattispecie legale, a volte in
modo espresso, altre volte in modo sottinteso. In alcune ipotesi l’offesa al bene protetto è un
elemento espresso del fatto di reato, in quanto esplicitamente menzionato nella norma
incriminatrice. In altre ipotesi, all’interno del modello di reato, la legge individua un elemento
costitutivo che rappresenta l’equivalente fenomenico dell’offesa al bene giuridico: anche in
questi casi l’offesa si può considerare elemento costitutivo espresso del fatto di reato. Così,
ad esempio, nelle ipotesi di omicidio, l’evento « morte di un uomo» o « morte di una
persona» esprime la lesione del bene giuridico vita umana.
Altre volte l’offesa al bene giuridico non compare nella lettera della norma incriminatrice, né
direttamente, né indirettamente. In molte di queste ipotesi l’offesa al bene giuridico va fatta
emergere in via interpretativa, trattandosi di un elemento sottinteso del fatto di reato (quanto
ai reati di pericolo astratto, nei quali il pericolo non è elemento del fatto di reato, né
espresso, né sottinteso). La norma incriminatrice, pur non menzionando espressamente
l’offesa né un evento che ne rappresenti l’equivalente fenomenico, vieta una condotta in
quanto crea il pericolo del verificarsi di un evento offensivo. E proprio in queste ipotesi
l’elemento dell’offesa al bene giuridico assume un ruolo particolarmente rilevante nella
ricostruzione degli esatti contorni del fatto di reato (es. calunnia, falsa testimonianza, frode
processuale, evasione, ecc.).
In un diritto penale aderente al principio costituzionale di offensività il giudice deve in
definitiva conformarsi al seguente, fondamentale criterio interpretativo: la lettera della legge
rappresenta soltanto il limite esterno imposto all’opera dell’interprete; entro questo limite, per
ricostruire i fatti penalmente rilevanti, l’offesa al bene giuridico rappresenta un indispensabile
criterio selettivo, che determina l’espulsione dal tipo legale dei comportamenti inoffensivi.
Diversa dall’ipotesi in cui manchi l’offesa al bene giuridico è quella in cui l’offesa vi sia, ma
sia particolarmente tenue (o esigua). Talora la particolare tenuità dell’offesa assume
rilevanza nel quadro di una circostanza attenuante. È il caso, ad es., del « danno
patrimoniale di speciale tenuità nei delitti contro il patrimonio».
Anche la Corte di cassazione ha più volte sottolineato che la mancanza dell’offesa è cosa
diversa dalla sua particolare tenuità. Così, ad esempio, ha affermato che « l’art. 131 bis c.p.
ed il principio di inoffensività in concreto operano su piani distinti, presupponendo, il primo,
un reato perfezionato in tutti i suoi elementi, compresa l’offensività, benché di consistenza
talmente minima da ritenersi “irrilevante” ai fini della punibilità, ed attenendo, il secondo, al
caso in cui l’offesa manchi del tutto, escludendo la tipicità normativa e la stessa sussistenza
del reato».

A seconda della natura del soggetto che ne è titolare, i beni giuridici possono raggrupparsi in
due fondamentali sottoclassi: i beni individuali e i beni collettivi. Si parla di beni individuali
per identificare i beni che fanno capo a singole persone fisiche. Si tratta di beni che
l’ordinamento riconosce e garantisce, in linea di principio, a tutti gli esseri umani, e che
rappresentano il contenuto di altrettanti diritti soggettivi individuali. Si designano invece beni
collettivi quelli che fanno capo: a) allo Stato o ad altri enti pubblici, b) alla generalità dei
consociati o, comunque, ad ampie cerchie di soggetti indeterminati. Si tratta,
rispettivamente, dei c.d. beni istituzionali e dei c.d. beni a titolarità diffusa. Beni istituzionali
sono quelli facenti capo allo Stato come espressione della collettività organizzata (integrità
del territorio, indipendenza, segreti di Stato, Costituzione, forma di Governo, etc.), ai singoli
poteri o organi dello Stato (esercizio delle funzioni o attribuzioni del Presidente della
Repubblica, del Governo, delle Assemblee legislative, della Corte costituzionale; pubblica
amministrazione, amministrazione della giustizia, etc.) o ad altri enti pubblici (esercizio delle
funzioni delle Assemblee regionali, della Banca d’Italia, della Consob, etc.). Beni a titolarità
diffusa sono invece quelli la cui integrità rispecchia cioè un interesse diffuso fra tutti i
consociati, o comunque fra cerchie ampie e indeterminate di soggetti (incolumità pubblica,
fede pubblica, economia, ambiente, etc.).
A seconda delle ragioni poste dal legislatore sfondamento della rispettiva tutela, si
distinguono beni strumentali e beni finali. Beni strumentali (o ‘intermedi’) ampiamente
presenti tra i beni collettivi sono quei beni la cui integrità è strumento e condizione per la
sopravvivenza di uno o più beni ulteriori. Questi ultimi — i c.d. beni finali — restano ‘sullo
sfondo’, nel senso che la loro lesione o messa in pericolo è irrilevante: ciò che richiede la
norma incriminatrice è soltanto la lesione o la messa in pericolo del bene strumentale. Un
emblematico esempio di beni strumentali è rappresentato dall’insieme dei beni ambientali.
L’offesa ai beni finali resta al di fuori delle fattispecie legali: i beni ambientali ricevono dal
legislatore una protezione autonoma in nessun modo subordinata al verificarsi di un danno o
di un pericolo per i beni finali. Il legislatore non può aspettare che si produca la morte o il
pericolo di morte per una o più persone come effetto dell’immissione di sostanze
cancerogene nell’acqua potabile o nell’aria, né può attendere il distacco di una valanga o il
verificarsi di un’inondazione o di un altro disastro come conseguenza di dissennate opere di
sbancamento o di disboscamento: ferma restando l’incriminazione di questi svariati disastri,
assicurata dalle norme che tutelano l’incolumità pubblica, il legislatore deve intervenire
anticipatamente, presidiando con la sanzione penale la purezza dell’acqua e dell’aria,
l’assetto orografico, il patrimonio boschivo, etc.

Il furto e l’estorsione sono reati plurioffensivi, l’art. 630 è classificato come reato contro il
patrimonio, perché il bene giuridico funge da classificatorio e viene messo qui, però il
sequestro di persona è alla base quindi è anche un delitto contro la libertà personale.
L’offesa può essere un elemento che viene esplicitato, es. ingiuria ha una formulazione
molto semplice, ci riporta al bene giuridico tutelato e quindi all’offesa (chiunque offende
l’onore di una persona presente); la diffamazione fa un riferimento esplicito (art. 595
“chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più
persone offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con
la multa fino a milletrentadue euro”), è esplicitato infatti sia il verbo sia il bene giuridico. In
tutte queste situazioni viene esplicitato il bene giuridico offeso, anche nel secondo comma
ricorre il termine “offesa”, anche nell’ultimo comma (“se l'offesa consiste nell'attribuzione
di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa
fino a duemilasessantacinque euro. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con
qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione
da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro. Se l'offesa
è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua
rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate“).
In altre situazioni non troviamo esplicitato il termine offesa, es. omicidio, la descrizione rende
implicito tutto quanto, noi sappiamo che la morte di un uomo è l’offesa. Anche quando si fa
riferimento a lesioni personali, si ha la descrizione empirica di lesione di salute psichica o
fisica, quindi è facile dedurre l’offesa in quelli che sono i reati contro la persona.
Poi ci sono tante altre situazioni che si ritrovano nei delitti contro l’amministrazione della
giustizia, dove in questi casi abbiamo esempi diversi, in cui non è così semplice dedurre
dalla lettura della fattispecie se vi sia sempre e comunque un’offesa. Questo introduce un
discorso diverso, lo scarto tra la descrizione del fatto di reato e la sussistenza di un'effettiva
lesione del bene giuridico.
In questi casi dove non è immediato, non si può dire con certezza che quando si verificano
gli elementi della fattispecie, e si ha quindi un reato consumato, si abbia anche
automaticamente un’offesa: ciò fa parte dei limiti legati alla descrizione, perché il legislatore
deve fare una scelta, creare un tipo, prende determinati elementi che in genere hanno una
tradizione (sempre stesse parole e) si crea un tipo che ha una tradizione consolidata. Non è
detto però che con queste parole che si sono scelte, automaticamente si riesca sempre a
incarnare tutte le possibili manifestazioni dell’offesa.
Es. calunnia art. 368, quando si parla di calunnia nell’accezione comune si intende una cosa
diversa dall’art. perché molto spesso si intendono affermazioni diffamatorie, la calunnia in
realtà è un delitto molto grave contro l’amministrazione della giustizia, ma è anche un reato
contro la persona “chiunque, con denuncia [c.p.p. 333], querela [c.p.p. 336], richiesta
[c.p.p. 342] o istanza [c.p.p. 341], anche se anonima o sotto falso nome, diretta
all'Autorità giudiziaria o ad un'altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne o
alla Corte penale internazionale, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente,
ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a
sei anni. La pena è aumentata se s'incolpa taluno di un reato pel quale la legge
stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un'altra pena
più grave. La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna
alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una
condanna all'ergastolo; [e si applica la pena dell'ergastolo, se dal fatto deriva una
condanna alla pena di morte]“.
Dalla descrizione si capisce che si tratta di un comportamento grave offensivo, si incolpa
una persona con determinate modalità. Dalla prima parte deduciamo che la fattispecie
contiene gli elementi atti a descrivere un’offesa grave all'amministrazione della giustizia, ma
anche alla persona, non abbiamo però elementi ulteriori per selezionare in base a quella che
è la concreta offensività del fatto. Da qualche tempo la corte costituzionale e di cassazione
hanno distinto tra l'offensività in astratto e quella in concreto: l’offensività in astratto va
valutata sulla base della descrizione di una fattispecie di reato che può essere più o meno
convincente, potrebbe descrivere una fattispecie soggettiva o situazioni in cui la descrizione
è compatibile con i canoni di descrizione dell’offesa in astratto ma potrebbe non trovare
riscontro in determinati casi concreti. E’ solo la cosiddetta law in action (diritto applicato dai
giudici nel momento in cui devono interpr applicare determinata fattispecie) che ci può dire
se il caso concreto presenta effettivi profili di offesa tali da ritenere che possa essere
contestata la fattispecie di volta in volta in questione.
Ci sono degli es. in corte di cassazione abbastanza recenti che dicono che nel caso della
calunnia, non si ha calunnia quando l’inizio di un procedimento penale contro l’incolpato è
reso di fatto impossibile o dalla manifesta infondatezza dell’addebito o dalla circostanza che
l’incolpato non fosse più in vita al momento della presentazione della denuncia: situazione in
cui l’offesa seppure ben descritta in realtà non si manifesta concretamente e quindi si
esclude la possibilità di contestare questo reato, ciò è dovuto molto spesso ai limiti del tipo,
limiti della possibilità che ha il legislatore di descrivere, altrimenti dovrebbe fare postille e
piccoli commi, sono aspetti un po’ impossibili da riportare perché le situazioni concrete in cui
l’offesa non c’è sono tante e dipende dalla situazione empirica, quindi non è pensabile che il
legislatore anticipi questo tipo di scelta all’interno della fattispecie.
La stessa cosa avviene con altri reati es. falsa testimonianza art. 372, ha una sua rilevanza
offensiva indubbia, in concreto potrebbe anche darsi che questo comportamento cada su
elementi che sono del tutto ininfluenti per la decisione del giudice, a questo punto anche
l’aver negato il vero e affermato falso è moralmente sbagliato, diventa ininfluente per una
verificazione dell’offesa nel caso concreto, quindi si è ritenuto falsa testimonianza in questo
particolare contesto non si verifichi.
Nella law in action possiamo vedere che ci può essere uno scollamento tra la fattispecie
astratta e quello che accade nella situa concreta.
Anche nell’ambito del testo unico degli stupefacenti vi sono tanti esempi. La sostanza
stupefacente viene descritta nella fattispecie, dall’altro lato c’è una lista che la integra grazie
a un decreto ministeriale, questi sono aspetti che riguardano il principio di riserva di legge: è
una fattispecie a composizione multipla, dove il legislatore descrive le condotte, quello che è
l’oggetto materiale e poi l’integrazione che riguarda specificatamente le singole sostanze
stupefacenti è lasciata a una tabella che può essere aggiornata velocemente dal ministero
della salute quando si presenti la necessità, quindi senza ricorrere al legislatore.
Anche qui vi sono dei casi in cui nonostante ricorra la condotta descritta nella fattispecie si è
dovuto precisare che ci sono situazioni nelle quali la sostanza non contiene il cosiddetto
principio attivo, riguarda sia la cessione ad uso non personale come anche la coltivazione
stessa, perché la coltivazione per solo uso personale è vietata salvo ritenere la condotta
inoffensiva nel momento in cui si faccia un accertamento che il principio attivo riscontrato
nelle dosi sequestrate non c’è e non è tale da costituire l’effetto stupefacente: in questi casi
la condotta è conforme al tipo, ma non è offensiva. In queste situazioni si arriva a un
proscioglimento.
L’offesa quindi è un elemento importante che va sempre accertato in astratto e anche in
concreto, es. se avessero incriminato il fatto di essere una persona non in condizione di
permesso regolare, questo sarebbe stato un comportamento di per sé inoffensivo, perché
colpirebbe il modo di essere di una persona. Di per sé non è propriamente un
comportamento che può ritenersi offensivo, siamo in dubbio di offensività. Nella maggior
parte dei casi abbiamo situazioni che possono rispondere ai canoni di fatto offensivo, ma nel
caso concreto poi possono rivelarsi situazioni non offensive. Questo è un lavoro che il
giudice deve saper fare, oggi ci sono delle guide che derivano dalla giurisprudenza della
cassazione e quindi c’è una conferma a livello di corte di cassazione e corte costituzionale di
questa necessità di prevedere situazioni penalmente rilevanti che descrivano comportamenti
astrattamente offensivi ma poi anche nel caso concreto di accertare quelli che sono della
concreta offensività.

Anche altra situazione un po’ diversa, emersa di recente in una prospettiva di riforma che ha
interessato varie parti del diritto penale e ha introdotto una causa di esclusione della
punibilità. Art. 131 bis introdotto nel 2015, esclusione della punibilità per particolare tenuità
del fatto “nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a
cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la
punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o
del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, l'offesa è di particolare
tenuità e il comportamento risulta non abituale. L'offesa non può essere ritenuta di
particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l'autore ha agito per motivi
abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o,
ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in
riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa
sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una
persona. L'offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si
procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi
di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, ovvero nei
casi di cui agli articoli 336, 337 e 341 bis, quando il reato è commesso nei confronti di
un pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni. Il comportamento è abituale
nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per
tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun
fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si
tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. Ai fini della
determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma non si tiene conto
delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di
specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In
quest'ultimo caso ai fini dell'applicazione del primo comma non si tiene conto del
giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all'articolo 69. La disposizione del
primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del
danno o del pericolo come circostanza attenuante”, la punibilità in questi casi è esclusa
quando il giudice valuta le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo, fatta
la valutazione, ritiene che l’offesa sia di particolare tenuità e il comportamento in questo
caso non risulta abituale. Poi l’art. va avanti e limita il giudizio del giudice. Crea una cornice
di carattere semioggettivo, queste situazioni vengono richiamate al giudice perché possa
valutare ancora meglio la situazione ed escludere tutte queste situazioni concrete da un
giudizio di particolare tenuità.
Quando si cita l’art. 133, vuol dire che sta entrando in gioco la discrezionalità del giudice. Il
legislatore ha ritagliato un ulteriore momento di discrezionalità al giudice penale con tutti i
limiti posti per arrivare a elaborare un giudizio di particolare tenuità del fatto, in questo caso
si esclude la punibilità.
La locuzione speciale tenuità ricorre anche in altri contesti, ad es. circostanze attenuanti con
riferimento ai delitti contro patrimonio, es. cagionato danno di particolare tenuità alla persona
offesa. Se non si riesce a ritenere l’offesa di particolare tenuità ai fini del primo comma del
131 bis, questo non esclude che ci possa essere una tenuità dell’offesa da valutare ad altri
fini, perché spesso concetti vengono utilizzati nel diritto penale solo ai fini e per gli effetti
dell'applicazione di una certa disciplina e non di un’altra.

Beni giuridici individuali che vengono protetti in quanto i titolari sono i singoli, collettivi che
fanno capo alle istituzioni (pubblica amministrazione, ordine pubblico, amministrazione della
giustizia) sono chiamati anche beni istituzionali, poi ci sono quelli a titolarità diffusa come
l’ambiente, l’economia, l’incolumità pubblica, a titolarità quindi condivisa da più persone e poi
beni strumentali e beni finali: beni che costituiscono l'oggetto della tutela del legislatore che
possiamo chiamare beni finali, come se avesse l’obiettivo da raggiungere mediante la tutela,
ma sapesse che per raggiungere la tutela completa di questi beni occorre anche munire di
tutela dei beni intermedi, chiamati anche strumentali.
Es. salute come bene finale, bene strumentale la salubrità dell’acqua, dell’aria.

Distinzione importante tra reati di danno e di pericolo, questo perché l’offesa/lesione del
bene può prendere diverse forme e gradi.
Il legislatore dedica alle fattispecie un nome: fa riferimento al pericolo e noi sappiamo che
quelli sono reati di pericolo, es. titolo sesto del libro secondo abbiamo delitti contro
l’incolumità pubblica, il capo primo ci dice di delitti comune pericolo mediante violenza, si
trova tutta una serie di delitti. Il capo secondo parla di delitti di comune pericolo mediante
frode, la distinzione è così anche per quanto riguarda i reati contro il patrimonio, c’è una
distinzione tra i delitti commessi mediante violenza e commessi mediante frode, ma molto
spesso non troviamo dentro le due parti che hanno queste intitolazioni davvero delle
situazioni che possiamo ricondurre all’una o all’altra, ma il legislatore usa spesso queste
classificazioni a scopo esemplificativo.
Comune pericolo, incolumità pubblica richiama la precedente distinzione tra beni individuali
e collettivi, fa riferimento esplicito al pericolo, distinguiamo reato di danno o di pericolo a
seconda del bene giuridico che viene tutelato e leggiamo le modalità di offesa diverse con
questa particolare lente, quella del bene giuridico.
Tendenzialmente un reato di danno descrive un’offesa più grave, ma non è detto, anche un
pericolo può essere un reato molto grave. Quando parliamo di reati di pericolo si tende a
parlare anche di anticipazione della tutela, perché il legislatore decide di associare la
sanzione penale a una condotta che non ha ancora raggiunto quell’effetto così grave da far
corrispondere al danno del bene giuridico. Es. particolare è il delitto tentato, art. 56 “chi
compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di
delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica. Il colpevole del
delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena
stabilita è l'ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da
un terzo a due terzi. Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace
soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato
diverso. Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il
delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà” questo è un es. di anticipazione della
tutela, la scelta di applicare la fattispecie di tentativo a tutte le fattispecie delittuose, quindi è
una tecnica descrittiva del tentativo che configura però un reato a sé stante e otteniamo
dalla combinazione tra art. 56 e una qualunque delle fattispecie interessate che vengano
prese di volta in volta in considerazione.
Il tentativo è un esempio di reato di pericolo a sé stante, che ha una sua particolare struttura.
Possiamo avere un reato consumato che configura una particolare lesione, se decidiamo di
punire anche il tentativo di quel reato decidiamo di anticipare la tutela perché a determinate
condizioni abbiamo una messa in pericolo del bene giuridico.
Reati di pericolo es. 422, 423, 423 bis, tutti quelli che seguono sono reati di comune pericolo
e hanno determinate caratteristiche, anche se non tutti hanno lo stesso tipo di formulazione.
Art. 430 disastro ferroviario, 431, 438 epidemia.
Alcuni es. di reati di pericolo, definiti come tali dallo stesso legislatore che dedica loro una
rubrica. All’interno di questa categoria vengono distinti reati di pericolo concreto e astratto,
anche definiti da qualcuno reati di pericolo presunti. Reati di pericolo concreto: 423 primo
comma “chiunque cagiona un incendio è punito con la reclusione da tre a sette anni”,
430 “chiunque cagiona un disastro ferroviario è punito con la reclusione da cinque a
quindici anni”, 431 “chiunque, al solo scopo di danneggiare una strada ferrata ovvero
macchine, veicoli, strumenti, apparecchi o altri oggetti che servono all'esercizio di
essa, li distrugge in tutto o in parte, li deteriora o li rende altrimenti in tutto o in parte
inservibili, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di un disastro ferroviario, con la
reclusione da due a sei anni. Se dal fatto deriva il disastro, la pena è della reclusione
da tre a dieci anni. Per strade ferrate la legge penale intende, oltre le strade ferrate
ordinarie, ogni altra strada con rotaie metalliche, sulla quale circolino veicoli mossi
dal vapore, dall'elettricità o da un altro mezzo di trazione meccanica” viene descritta la
condotta di chi danneggia strada ferrata, oppure art. 437 “chiunque omette di collocare
impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro,
ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
Se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena è della reclusione da tre a dieci
anni”, tra queste varie fattispecie quali sono i reati di pericolo concreto? Sono tutti reati di
pericolo, ma quali sono di pericolo concreto e perché? Art. 431, 422, hanno in comune
l’elemento esplicitato del pericolo, questi sono casi in cui viene citato espressamente
l’elemento del pericolo nella fattispecie, se c’è questo tipo di riferimento siamo davanti a reati
di pericolo concreto, quindi c’è una spia sul piano formale, cioè l'esistenza nella fattispecie
dell’elemento costitutivo pericolo, questo ha una conseguenza, sappiamo che il giudice deve
accertare questo elemento.
L’incendio non ha l’elemento di pericolo esplicitato quindi diremo che è un reato di pericolo
astratto, ma rimane un elemento che possiamo dedurre. Un tempo si usava questa
distinzione, oggi si tende invece a fare una distinzione un po’ più sottile andando al di là di
quello che è il significato che appare tra gli elementi della fattispecie: quindi si dice che il
reato è di pericolo concreto quando il pericolo appare come elemento esplicitato e il giudice
deve quindi accertarlo, però si dice che il giudice lo debba fare anche tutte quelle volte in cui
l’elemento pericolo non è esplicitato, rimane implicito che però in via interpretativa si
ricostruisce comunque.
Reati di pericolo astratto invece sono oggi quei reati nei quali non è esplicitato il pericolo e
sulla base di quella che è l’esperienza concreta noi possiamo dire che un tipo di
comportamento magari non preso di per sé, ma associato ad altri consimili può costituire
una situazione di pericolo per un bene giuridico se non addirittura di lesione. Questo è un po’
il problema dell’anticipazione della tutela: il legislatore si rende conto che alcuni beni
possono essere danneggiati o messi in pericolo gravemente concretamente non da un
comportamento soltanto, ma da una serie di comportamenti diffusi e ripetuti nel tempo.
Ciascuno di questi comportamenti in sé non ha una concreta lesività, ma ha un’alta
potenzialità di lesione se pensato in mezzo ad altri comportamenti.
Es. bene ambiente, se lo spezzettiamo e lo vediamo nei suoi vari aspetti, riusciamo a
percepire che il singolo comportamento inquinante in quel caso, se non si rispettano le
norme, i limiti, si ha una condotta probabilmente da sola non necessariamente così
pericolosa, tale da mettere concretamente in pericolo. Una singola condotta in sé può non
voler dire molto, ma va valutata in rapporto ad una serie di altre condotte simili, che possono
essere più o meno gravi, questo comportamento può costituire reato di pericolo astratto.
Qui si perde un po’ la distinzione formale fatta prima, perde la sua rigidità.
L’incendio art. 423 quindi che cos’è? Dal punto di vista formale non è definibile reato di
pericolo concreto, però qualcuno parla di r di pericolo concreto anche nelle situazioni in cui
non è esplicitato ma ci si arriva in via interpretativa. E’ un reato di pericolo concreto, la
sinteticità di questa fattispecie ci porta a porre l’attenzione sulla parola incendio e a cercare
che cos’è, si capisce che qui il giudice non deve contestare il delitto di incendio se esco e do
fuoco a un po’ di legna che ho in casa, non è un incendio, va interpretato come fuoco di
grandi dimensioni e vasta intensità. In questo caso non è espresso l’elemento del pericolo,
ma la parola incendio sostituisce l’idea del pericolo, ha una pregnanza semantica. Nel
momento in cui il giudice accerti elementi, nella parola incendio accertata così prova quello
che è il pericolo concreto per la pubblica incolumità. La stessa cosa si può dire del reato di
epidemia.
I reati di pericolo astratto sono o quelli del tipo indicato, dove una condotta in sé non mette in
pericolo nulla, invece la ripetizione di queste condotte nel tempo in un vasto ambito possono
portare ad una concreta messa in pericolo, quindi si anticipa la tutela perché se il legislatore
non lo facesse sarebbe troppo tardi, ci sarebbe una compromissione del bene.
Tra questi ce ne sono anche di altro tipo, che possono essere considerati come regole
cautelari anche rigide, es. tutte situazioni che troviamo vietate nel codice della strada come
divieto di passare con il semaforo rosso, un tempo erano contravvenzioni oggi sono illeciti
amministrativi. E’ vietato di per sé, regola cautelare rigida che non ammette nessuno
smussamento, situazione in cui il pericolo astratto va punito, non possiamo distinguere che
si può passare con rosso se l’incrocio è libero, non è possibile pensare a una fattispecie che
faccia delle distinzioni e che permetta di fare degli accertamenti.
La violazione della quarantena è ad esempio un reato di pericolo astratto.

Qual è la modalità con cui il giudice deve affrontare lo schema di accertamento del pericolo
concreto? Tema di cui gli studiosi si sono occupati negli ultimi 40 anni, considerando che il
codice rocco ha 90 anni, quindi l’attività è stata approfondita recentemente.
La materia dei reati di pericolo concreto era una materia molto studiata anche all’estero,
soprattutto in Germania, questa nozione di pericolo non aveva delle indicazioni precise per
l’accertamento del giudice, destino simile a quello avuto dal nesso causale.
Sono tutti aspetti che si sono dovuti approfondire con il tempo, dà l’impressione del diritto
penale come di qualcosa che è in continua evoluzione.
Concetto di prognosi ex ante in concreto e a base totale: è una formula ma bisogna
applicarsi nella comprensione delle singole parti, è importante concentrarsi sulle parti per
capire che cosa vuol dire, sono le stesse parole che si useranno quando si dovrà accertare
la struttura del tentativo, in particolare la struttura dell’idoneità degli atti.
Il termine idoneità nell’art. 56 va spiegato proprio con la formula di prognosi ex ante in
concreto, nel tentativo si dice prognosi postuma ex ante, postuma perché è una prognosi
che fa il giudice a cose fatte. Il giudice deve capire se c’è stata effettivamente una
verificazione di un pericolo, si mette idealmente nella condizione in cui si trovava chi ha
realizzato il fatto in questione e deve fare una prognosi, perché deve valutare mediante le
condizioni che accerta qual era la probabilità di verificazione del danno, quindi la
consistenza del pericolo.
Deve valutare quelle che sono le leggi scientifiche o le situazioni concrete, di fatto, cioè deve
prendere in considerazione tanti elementi di fatto, tutti quelli che c’erano al momento in cui si
è posta l’azione o si deve valutare la condotta. Deve usare tutto quello che era disponibile
nella conoscenza scientifica e fattuale al momento in cui si sono verificati i fatti aggiungendo
a questo tipo di accertamento anche l’accertamento del conosciuto/vissuto ulteriore da parte
della persona di cui bisogna accertare la responsabilità. Questa si chiama base di giudizio,
quando si parla di base di giudizio per i reati di pericolo concreto così come per il tentativo, è
l’insieme di tutti questi elementi di fatto ai quali applicare delle conoscenze di carattere
scientifico ed eventualmente anche conoscenze ulteriori che il soggetto avesse.
Fatto questo il giudice ha una base e deve poter valutare se era probabile che quella
condotta potesse evolversi nella lesione del bene, quindi possa aver creato a quelle
condizioni una concreta messa in pericolo per il bene. Il giudice deve guardare a 360 gradi
senza fare delle selezioni, non deve astrarsi ma calarsi nella situazione concreta e
raccogliere tutti gli elementi possibili, esistenti, perché l’accertamento della situazione di
pericolo ha comunque a che fare con l’aspetto oggettivo, estendere la conoscenza a tutte
quelle che sono le circostanze presenti al momento del fatto.
Si possono fare tanti es. come reati di strage, non come le stragi che si sono verificate, ma
una situazione in cui una persona che abbia determinate conoscenze scientifiche pensi che
una sostanza possa essere pericolosa e quindi decida immetterla dentro l’impianto di
aerazione del palazzo. Se questo avviene, il giudice per poter contestare il delitto di strage,
non basterà che accerti il fine di uccidere della persona in questione, che magari può
sussistere, deve essere accertato che la sostanza fosse una sostanza tossica, ma deve
essere accertato che gli atti fossero davvero tali da porre in pericolo la pubblica incolumità.
La tentata strage si ha soltanto quando ci siano degli elementi da valutare alla stregua del
tentativo sotto il profilo dell’idoneità.
Un es. di tentata strage era stata quando c’era stato Ludwig a cui si attribuivano vari delitti,
tutti con uno sfondo moralistico. Ad un certo punto sono stati presi, erano due, perché
stavano per appiccare il fuoco a una discoteca, quella è una tentata strage: se fossero
riusciti a continuare l’azione, sarebbero stati incriminati perché avrebbero compiuto atti tali
da porre in pericolo la pubblica incolumità. In questo caso però erano stati scoperti prima,
questa è una tentata strage di cui poi va provato il dolo.
La legge dice atti idonei diretti in modo non equivoco, questa è la formula del tentativo.
Questa non equivocità degli atti ci deve portare a leggere negli atti compiuti un indizio che ci
porti verso la fattispecie astratta. La non equivocità serve al giudice per orientarsi, l’idoneità
esprime l’idea della messa in pericolo del bene, che è poi la ratio del tentativo.
Lo schema non vale per quanto riguarda il nesso causale, perché è qualcosa che si accerta
a cose fatte, quindi lo schema decisionale è diverso. Quando si parla di giudizio prognostico
che va fatto ex ante, questo schema vale per i casi di reato di pericolo concreto, vale per il
tentativo, non vale per il nesso causale, perché bisogna guardare a posteriori quello che è
stato, perché abbiamo il secondo elemento che negli altri due casi abbiamo. La stessa cosa
non può valere per l’accertamento della responsabilità nel concorso di persone nel reato,
quando bisogna valutare la responsabilità del singolo partecipe.
C’è una coerenza di fondo, se parliamo di situazione di pericolo concreto o nel tentativo
dove non c’è il secondo termine perché non si è consumato il reato, allora possiamo parlare
di giudizio prognostico, fatto ex ante e in concreto.

A volte non è così facile distinguere tra fattispecie di pericolo astratto e concreto perché il
legislatore usa formule che potrebbero risultare ambigue, es. 440 “chiunque corrompe o
adultera acque o sostanze destinate all'alimentazione, prima che siano attinte o
distribuite per il consumo, rendendole pericolose alla salute pubblica, è punito con la
reclusione da tre a dieci anni. La stessa pena si applica a chi contraffà, in modo
pericoloso alla salute pubblica, sostanze alimentari destinate al commercio. La pena
è aumentata [64] se sono adulterate o contraffatte sostanze medicinali” fattispecie
grave non è di facilissima collocazione, è molto descritta, il giudice deve accertare un
pericolo concreto, ma in che termini? Abbiamo il termine pericolo e quindi sembrerebbe un
pericolo concreto, ma il legislatore si preoccupa di dire prima che siano attinte o distribuite
per il consumo, quindi che cosa vuole esprimere? Qualcuno ha ritenuto che fosse pericolo
astratto, poi la giurisprudenza ha cambiato idea perché possono considerarsi pericolo
concreto.

L’introduzione della tecnica della costruzione della fattispecie con i valori soglia, che servono
a determinare fino a che punto è consentito assumere una certa sostanza, scaricare
determinate sostanze liberamente all’interno delle acque, a seconda del contesto il
legislatore individua questi criteri. Oltre ai valori soglia si ritiene che una certa condotta sia
pericolosa per il bene giuridico tutelato, oggi li abbiamo nel testo unico ambientale. Spesso i
valori soglia sono demandati alla legislazione regionale nelle materie di competenza, altro
es. presenza di alcol nel sangue soglia oltre la quale si può essere contestati alla guida sotto
l’influenza dell’alcol: situazioni nelle quali il legislatore ha affidato ad un elemento di carattere
quantitativo la soglia della punibilità. Se si supera il valore soglia dovremmo essere già
nell’area del penalmente rilevante e del presunto/astratto pericolo.
Su questo gioca ancora un po’ quello che abbiamo detto sullo scarto tra tipicità e offesa
concreta: la situazione in cui il superamento dei valori soglia di una bassa percentuale
integra comunque la fattispecie astratta, ma non è concretamente offensivo. Quindi
possiamo dire che se il reato si configura come di pericolo astratto, poi la verifica concreta
della sussistenza del pericolo potrebbe passare attraverso la porta stretta del superamento
minimo dei valori soglia. Se vengono superati in maniera quasi marginale, si può accertare
che non vi sia stato un concreto pericolo per il bene giuridico, è una verifica ulteriore che può
essere fatta in situazioni come quella appena descritta, quindi si dice che non c’è stata
nessuna offesa, è un modo per superare in pochi casi lo sbarramento rigido dei valori soglia.
Quindi sono quasi tutti reati di pericolo concreto, quelli di pericolo astratto sono quelli dove
non si lascia spazio per l’accertamento del pericolo in concreto perché si tratta di una regola
rigida, ma anche art. 437, questa fattispecie è una fattispecie di condotta omissiva, queste
sono situazioni in cui indipendentemente dal fatto che si crei un pericolo concreto,
rimangono situazioni di per sé punibili, regole rigide.

L’offesa può assumere le forme della lesione (o danno) o del pericolo per l'integrità del bene
giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
Si tratta di due diversi gradi dell’offesa: la lesione esprime infatti la distruzione, l’alterazione
in peggio, la diminuzione di valore, etc. dell’entità in cui si concretizza il bene giuridico; il
pericolo esprime invece la probabilità della lesione, in altri termini una lesione soltanto
potenziale.
Configurando reati di danno (o di lesione), il legislatore reprime fatti che compromettono
l’integrità dei beni (ad esempio omicidio), configurando reati di pericolo, il legislatore anticipa
la tutela: reprime fatti che minacciano l’esistenza o il godimento del bene.

Sono reati di pericolo concreto quelli in cui il giudice deve accertare se nel singolo caso
concreto il bene giuridico ha corso un effettivo pericolo: e questo accertamento, è doveroso
sia quando il pericolo è elemento espresso del fatto di reato, sia quando è elemento
implicito, da ricostruire in via interpretativa. Sono invece reati di pericolo astratto quei reati
nei quali il legislatore,sulla. base di leggi di esperienza, ha presunto che una classe di
comportamenti sia, nella generalità dei casi, fonte di pericolo per uno o più beni giuridici.
Come ha sottolineato la Corte costituzionale, la presunzione legale di pericolosità del fatto è
compatibile con i principi costituzionali di offensività e di ragionevolezza nella misura in cui
«non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit ». reati di
pericolo astratto il pericolo non è dunque elemento del fatto di reato e la sua sussistenza nel
caso concreto non deve essere accertata dal giudice. Ciò che il giudice deve accertare è
soltanto il verificarsi di quel comportamento che il legislatore ha ritenuto normalmente
pericoloso.

Nei reati di pericolo concreto l’accertamento del pericolo esige una prognosi ex ante in
concreto a base totale. Il giudice deve riportarsi idealmente al momento nel quale si è
verificata l’azione o l’evento della cui pericolosità si tratta; per formulare la prognosi deve poi
utilizzare il massimo di conoscenze (di leggi scientifiche e di situazioni di fatto) disponibili al
momento del giudizio, ivi comprese le eventuali, occasionali conoscenze ulteriori
(scientifiche o di fatto) del singolo agente, che gli consentiranno di dire se, data quell’azione
o quell’evento, era probabile (non semplicemente possibile) il verificarsi della lesione del
bene; infine, come ‘base’ del giudizio prognostico, il giudice deve tener conto di tutte le
circostanze presenti al momento in cui si è compiuta l’azione o si è verificato l’evento. Alla
stregua di tali criteri il giudice stabilirà se il bene giuridico, nel singolo caso concreto, ha
corso il pericolo di essere leso.

L’inquadramento di un illecito penale tra i reati di pericolo astratto o tra i reati di pericolo
concreto è spesso controverso. In passato, la giurisprudenza è giunta a configurare come
reati di pericolo astratto figure delittuose nelle quali l’offesa al bene tutelato compare
espressamente nella formulazione legislativa. Così, ad esempio, la Corte di cassazione ha
ricondotto alla categoria dei reati di pericolo astratto la adulterazione e la contraffazione di
sostanze medicinali (art. 440 co. 3 c.p.), in relazione alle quali la legge richiede che siano
rese « pericolose alla salute pubblica ». . Oggi, questa discutibile linea di tendenza sembra
peraltro superata.
Un reato di pericolo concreto può aversi anche quando la norma incriminatrice non enuncia
espressamente il pericolo quale elemento costitutivo del fatto: falsa testimonianza, il pericolo
concorre a costituire il fatto di reato anche se elemento sottinteso (in giurisprudenza prevale
tuttavia la tesi che configura la falsa testimonianza come reato di pericolo astratto).
Adottando una corretta interpretazione delle norme incriminatrici, che valorizzi il pericolo
concreto tutte le volte in cui ciò sia possibile, i reati di pericolo astratto possono ridursi in
definitiva ad una gamma ristretta, comprensiva quasi esclusivamente di ipotesi in cui la
tutela del bene giuridico non è realizzabile se non con la tecnica del pericolo astratto. E’
quanto si verifica in relazione ad alcuni beni collettivi (in primis, i beni ambientali), le cui
dimensioni sono tali che solo eccezionalmente possono essere offesi da una singola
condotta. Di regola, l’offesa di quei beni può essere soltanto il risultato del cumularsi di una
pluralità di condotte, ciascuna delle quali da sola non è in grado di creare un pericolo
concreto per il bene e va non di meno repressa per la pericolosità derivante dal suo
possibile cumularsi con altre condotte dello stesso tipo.

Vi sono reati di pericolo imperniati sul superamento di una ‘soglia’ quantitativa: fattispecie di
reato, cioè, nella cui descrizione il legislatore, talora rinviando ad ‘allegati’ della stessa legge
incriminatrice ovvero ad atti generali ed astratti di enti locali o della pubblica
amministrazione, fissa in parametri numerici una soglia quantitativa oltre la quale il fatto è
ritenuto pericoloso per il bene giuridico tutelato. Alla base della previsione di queste soglie
quantitative sta per lo più un contemperamento di interessi ad opera del legislatore: al bene
giuridico tutelato dalla norma incriminatrice (ad es., la purezza delle acque) si contrappone
un diverso interesse (ad es., l’esercizio di attività produttive), che il legislatore ritiene di non
poter integralmente sacrificare a vantaggio del bene penalmente protetto. Ora, è indubbio
che dietro le norme incriminatrici che fissano secondo parametri quantitativi la soglia della
rilevanza penale di alcune condotte vi sono regole di esperienza che enunciano la normale
pericolosità delle condotte che oltrepassino quella soglia. Tuttavia, la rigidità di norme così
strutturate non ha impedito alla Corte Costituzionale di valorizzare il principio di offensività,
indicando all’interprete la strada per rimodellare quelle norme, sia pure soltanto in parte,
secondo lo schema del pericolo concreto. La premessa della decisione della Corte è che «
l’offensività deve ritenersi di norma implicita nella configurazione del fatto »; cionondimeno,
può « verificarsi divergenza fra tipicità e offesa » « a causa della necessaria astrattezza
della norma »; in altri termini, l’utilizzazione di criteri quantitativi rigidi può portare a
considerare sempre pericolosi fatti in concreto inoffensivi. Questo scarto tra « tipicità e
offesa » è senz’altro presente, secondo la Corte, « in tutti i casi in cui V eccedenza rispetto
al limite di tolleranza si presenti in termini quantitativamente marginali, comunque modesti ».
In questi casi rimane precipuo dovere del giudice di merito… apprezzare, alla stregua del
generale canone interpretativo offerto dal principio di necessaria offensività della condotta
concreta, se la eccedenza eventualmente accertata sia di modesta entità, così da far
ritenere che la condotta dell’agente - avuto riguardo alla ratio incriminatrice del divieto… e
tenuto conto delle particolarità della fattispecie — sia priva di qualsiasi idoneità offensiva dei
beni giuridici tutelati e conseguentemente si collochi fuori dall’area del penalmente
rilevante».

L’azione e l’omissione sono le due manifestazioni della condotta, che fa parte dell’elemento
oggettivo. Art. 40 si fa riferimento esplicito “Nessuno può essere punito per un fatto
preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la
esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire
un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”, l’art. 42
parla di azione od omissione “nessuno può essere punito per un'azione od omissione
preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà”,
l’art. 43 descrive l’elemento psicologico del reato “il delitto: è doloso, o secondo
l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od
omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente
preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.
La condotta quindi può manifestarsi come condotta attiva od omissiva, a cui negli ultimi
decenni è stata posta un’attenzione particolare a questo tipo di condotta, perché un tempo ci
si basava di meno. Tutta la costruzione dogmatica era concentrata sull’azione, negli anni 70
venne scritto il famoso libro di Marinucci però “Il reato come azione. Critica di un dogma”,
apre poi la strada a tante riflessioni e seguono negli anni almeno tre libri sugli studi sul reato
omissivo e in particolare sui reati omissivi impropri.
Il reato omissivo può essere proprio o improprio. L’omissione è qualcosa che non accade,
un non accadimento, una non condotta, non c’è attivazione da parte del soggetto, ma c’è
appunto il non attivarsi, di cui appunto la prima selezione che va fatta è che quando parliamo
di omissione, cioè di non facere, dobbiamo sempre ricordare che una mancata azione può
essere penalmente rilevante in quanto vi sia però un obbligo di agire che non viene
rispettato. Questo è un presupposto che vale sempre per tutti i tipi di reato omissivo, proprio
o improprio, ed è una formula condivisa anche dagli ordinamenti del common law. Le
conseguenze poi possono essere diverse, possono esserci o non esserci e per
l’ordinamento che ci siano o no può essere più o meno rilevante a seconda del tipo, cioè del
fatto tipico, in cui inserire l’omissione.
I reati omissivi propri li abbiamo già incontrati, come si riconoscono e per cosa si
caratterizzano? Sono delle situazioni in cui il legislatore impone di tenere un certo
comportamento, che se non si tiene si è sanzionati. La sanzione quindi è ricondotta alla
semplice omissione, al non fare (omissione di soccorso, omissione degli atti di ufficio,
omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale e varie cose nell’ambito dei reati finanziari e
tributari, …). Se non si tiene quella determinata condotta, si è sanzionati e questo
indipendentemente dal fatto che ci siano delle conseguenze.
Art. 593 al terzo comma “se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione
personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata” abbiamo
due conseguenze causalmente riconducibili all’omissione, ma queste stanno fuori dal reato
base, che è semplicemente l’omesso soccorso come descritto nei primi due commi. Questo
è un tipo di delitto che prevede un aggravamento di pena, quindi è un delitto aggravato
dall’evento, richiamato quando abbiamo parlato della teoria della causalità adeguata.
L’azione che si deve compiere deve essere quindi un’azione che si deve compiere, che
abbiamo il dovere di compiere e poi queste azioni doverose sono normalmente descritte
dalle norme: il reato omissivo proprio si definisce così perché è descritto come tale
dall’ordinamento e normalmente è un reato di condotta.
Sono abbastanza semplici da riconoscere e hanno una loro tipicità, un loro schema tipico
ben preciso che riconosciamo nel momento in cui vediamo il termine omissione e tutti questi
sinonimi.
Che cosa hanno di caratteristico però tutti i reati omissivi? L’obbligo giuridico di tenere un
certo comportamento, ma anche la possibilità di agire nel senso voluto dalla norma.
Il presupposto per rispondere dell’omissione è che si sia effettivamente in grado di agire nel
senso in cui la norma ci chiede.
Anche in questi reati si trova un’offesa, ma dove sta nell’omissione? Il testo dà una lettura
dell’omissione di soccorso dicendo che l’offesa sta nel non porre rimedio a una situazione e
quindi nel far permanere le condizioni di pericolo per il bene giuridico. Questo è condivisibile,
anche facile da capire, facciamo permanere una situazione di pericolo che potrebbe
aggravarsi. Non è proprio così per tante altre situazioni di omissione, in ambito finanziario,
economico, dove si parla appunto di non fare ma si prevede un obbligo di fare,
comunicazione e non è così semplice ricavare un’offesa empiricamente descrivibile come
quella che possiamo trovare nell’omissione di soccorso.
Questi reati di obbligo (Pflichtdelikten) sono tutti reati omissivi che impongono in genere un
obbligo di fare, ma sono reati omissivi, dove appunto l’offesa non è immediatamente
percepibile e secondo qualcuno non c’è. Ciononostante vanno comunque ritenuti necessari
per poter tutelare ad ampio raggio un bene giuridico che magari potrebbe essere aggredito
in futuro quando mancassero determinati elementi agli organi, quindi alle agenzie CONSOB,
ecc. deputate al controllo dell’attività economica ad es.
Ci sono poi i reati omissivi impropri, che a differenza dei propri non sono immediatamente
individuabili attraverso un segno del fatto tipico e prendono il nome anche di reati commissivi
mediante omissione, perché qui la differenza al legislatore qui importa che in conseguenza
dell’omissione si verifichi un determinato evento. Rispetto alla categoria precedente,
l’obbligo giuridico di agire, il presupposto materiale (cioè l’effettiva capacità di agire), però
c’è anche un secondo elemento, l’obbligo giuridico non è soltanto quello di agire, ma è
l’obbligo di agire per evitare che si verifichi un evento, quindi un soggetto in questo caso non
è semplicemente tenuto ad agire, ma è tenuto ad impedire un evento e questa formula
l’abbiamo già trovata (art. 40 secondo comma). Il nucleo dei reati omissivi impropri è proprio
dentro questo art. In tutti questi casi in cui possiamo parlare di reato omissivo improprio, noi
sappiamo che siamo di fronte ad un reato di evento, che quindi questo evento fa parte
dell’elemento costitutivo del tipo, quindi fa parte integralmente del tipo del reato (invece nei
reati omissivi propri, la condotta esauriva la tipicità del fatto e l’evento eventualmente
rappresentava soltanto una situa eventuale ed aggravante), qui l’obbligo è di agire perché si
ha l’obbligo giuridico di impedire l’evento.
Gli esempi classici sono quelli della posizione del garante, ma per capire l’importanza del
reato omissivo improprio nella società attuale è meglio partire da qualche altra situazione.
Es. ambito della sicurezza sul lavoro, oggi abbiamo un sistema di imputazioni di obbligo in
capo al datore di lavoro, dirigenti, preposti, varie figure che sono figure di garanti, hanno
l’obbligo giuridico di impedire un determinato evento (morte, lesione fisica dei lavoratori), ma
questo tipo di obblighi un tempo non erano considerati tali, non si parlava di sicurezza sul
lavoro come un bene in sé da salvaguardare nella prospettiva di tutelare la vita e il
benessere del lavoratore, si parlava infatti di infortuni sul lavoro. L’infortunio richiama la
sfortuna, è stato un caso, un qualcosa che è andato storto, l’impianto di un tempo era tutto
legato unicamente alla risposta in senso di ristoro del danno, pensione di invalidità, una
risposta dell’ordinamento legata al dopo, non c’era però una struttura teorica, un impianto
teorico che vedesse le cose dal punto di vista del diritto penale e costruisse delle posizioni di
garanzia specifiche, tutto questo nasce nel momento in cui si vuole legare all’omissione di
impedire un determinato evento proprio quell’importanza che deriva dal fatto che si
realizzano determinate situazioni, sono situazioni in cui si ravvisa una titolarità di obblighi in
soggetti che hanno una responsabilità nei confronti delle persone.
Maggiore sensibilità verso determinate situazioni che porta a dare importanza alla
costruzione precisa di un reato omissivo improprio.
Tutto si gioca per ricostruire la responsabilità tra reato omissivo e la colpa, una costruzione
di questo tipo non è più rara, da un evento che è stato cagionato ricostruiamo un nesso di
causalità materiale e poi ci manca la parte da ricostruire sul piano oggettivo della condotta,
che può essere attiva ma poi possiamo anche invece vedere delle omissioni, anche da parte
di altre persone. Quindi è possibile che in tutti questi contesti vi siano sia azioni che
omissioni, quindi la catena da ricostruire è piuttosto lunga, a volte anche con diversi rami.
Dove c’è la colpa e la violazione di norme cautelari non c’è un dolo, non è che sia facile da
provare, però anche la responsabilità colposa che necessita di accertare delle norme
cautelari aggiunge un elemento di tipo normativo alla costruzione della responsabilità.
Per cui, nell’attribuire la responsabilità per un evento bisogna fare un ragionamento che va
al di là del nesso causale e risale o alla responsabilità per mancato impedimento dell’evento
(e quindi vedere chi ha omesso cosa) e se determinate condotte omissive, così come anche
attive, sono condotte che hanno violato una norma cautelare.
Il penale quindi entra anche in situazioni del genere (contrariamente al pensiero comune che
collega il diritto penale al serial killer, agli omicidi, ecc.).
La struttura del reato omissivo improprio salta fuori dall’unione, chiamiamolo combinato,
dell’art. 40 secondo comma e una fattispecie di reato, che può essere una fattispecie che
troviamo nel codice come anche una fattispecie che troviamo fuori dal codice, quindi
comunque norme incriminatrici, un reato specifico e l’art. 40.
Se il termine omissione o un suo equivalente non è riscontrabile nella fattispecie dove
andremo a cercare i reati che possono essere anche interpretati come reati omissivi?
Bisogna andare a cercare quelli che non hanno una determinata connotazione di condotta,
perché quelli in cui la condotta è descritta in un certo modo o l’omissione c’è perché è
descritta o non c’è. Dobbiamo andare a cercare in quei reati dove la condotta non è descritta
con determinati elementi precisi. Es. omicidio recita “chiunque cagiona la morte di un uomo”,
è un reato a forma libera, per il legislatore non è importante quale sia la condotta che
provoca l’evento, è importante l’evento, si dice che sono costruiti proprio sul disvalore di
evento e non ci importa come è avvenuto, non ci importa la tipologia causale, non devo
trovare determinate caratteristiche della condotta, è una tutela a tutto tondo di questo bene
giuridico e poca importanza ha il come. Nel momento in cui abbiamo appurato questo,
abbiamo l’indicazione dell’art. 40: se il soggetto non ha compiuto un’azione, non ha fatto,
non ha tenuto una condotta doverosa, dobbiamo capire chi aveva l’obbligo di agire e se chi
non ha agito aveva l’obbligo di impedire l’evento, sono cose diverse, perché in una
situazione potremmo trovare persone che avevano l’obbligo di agire e non lo hanno
rispettato, ma cionondimeno potremmo ravvisare delle situazioni in cui la persona aveva
l’obbligo di agire e di impedire l’evento. Allora l’evento del reato a forma libera potrà essere
ascritto a titolo di responsabilità penale soltanto a chi aveva l’obbligo giuridico di impedirlo.
Quindi si devono individuare le posizioni di garanti, coloro che hanno l’obbligo giuridico di
impedire determinati eventi (genitori nei confronti dei figli, datori di lavoro nei confronti dei
lavoratori, il dirigente), è la normativa che ce lo dice, quindi dobbiamo cercare
nell’ordinamento quella norma che fonda l’obbligo di impedire l’evento, l’obbligo deve essere
un obbligo giuridico di impedire l’evento, non un obbligo semplicemente valutabile sul piano
morale, perché questo non interessa al legislatore.
Es. i genitori possono delegare un po’ delle loro funzioni di garanzia a una babysitter per
esempio, questi soggetti sono obbligati a det funzioni per lavoro; portare bambini in piscina,
una parte delle loro funzioni trasferite al bagnino, all'istruttore di nuoto.
Quindi bisogna un po’ lavorare di interpretazione sulle norme per capire quali sono gli ambiti
delle posizioni di garanzia.
Le posizioni di garanzia, che sono proprio parte del fatto tipico, fanno parte della tipicità del
fatto omissivo. Sarebbe bene avere proprio un elenco di posizioni di garanzia a seconda dei
contesti, che nelle linee generali dovrebbero essere proprio definite dalla legge penale e poi
troverebbero una loro specificazione anche in fonti diverse, es. posizione di garanzia del
medico. Sarebbe bene avere tale elenco anche per una questione garantista del diritto
penale stesso nei confronti dell’eventuale responsabile, il quale ha modo di sapere in quali
responsabilità può incorrere. In passato ciò non è sempre stato così facile: quando vent’anni
fa si era redatto il progetto di riforma, il progetto Grosso, in quel progetto di riforma della
parte generale erano state inserite le posizioni di garanzia e sarebbe stato un passo avanti
molto importante sul piano della costruzione del reato omissivo improprio, sia nei confronti di
eventuali imputati sia per una maggiore chiarezza nella costruzione del reato omissivo.
Il reato omissivo improprio può essere costruito nel contesto dei reati a forma libera,
prendendo l’esempio dell’omicidio (per colpa), possiamo trasformare questo reato da attivo
ad omissivo, purché individuiamo una persona che possa dirsi garante (colui o colei che
aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento), perché questo ci chiede l’art. 40, ma non solo
per individuare un rapporto di equivalenza causale come ci dice il secondo comma, ancora
di più per poter individuare con sicurezza le figure dei garanti e questo può avvenire solo nei
reati a forma libera. Sarebbe più corretto che avvenisse sempre e solo nei reati a forma
libera, però vi è una tendenza da parte della giurisprudenza a ricostruire anche dei a forma
vincolata come reati omissivi impropri (es. mentire/dire il falso in un’interpretazione ampia si
tende ad interpretare il raggiro così, il tacere è un omettere ed ecco che l’omissione entra lo
stesso e quindi si hanno truffe per omissione, il testo ricorda che comunque non è corretto).

Abbiamo degli obblighi diversi, sia obblighi di protezione che obblighi di controllo.
Gli obblighi di protezione o posizioni di garanzia sono quelli elencati prima legati ad esempio
alla posizione dei genitori: è la posizione di chi deve garantire l’integrità, la tutela di tutti i
beni giuridici che fanno capo a una persona (posizione classica del genitore). La posizione
di controllo è più ristretta ed è diversa perché è legata a una fonte specifica di pericolo, che
può essere un’attività, un luogo, una macchina, anche un luogo di divertimenti ad es., tutte
queste situazioni dove la posizione di controllo è definita così perché bisogna controllare una
fonte di pericolo per spesso un numero indeterminato di persone, ma non è sempre così,
può essere anche un numero determinato di persone, es. certi macchinari che si usano nelle
fabbriche, possono essere una fonte di pericolo per il numero di persone che ci lavorano.
Questi obblighi possono essere trasferiti: determinate funzioni possono essere trasferite con
limite temporale o contenutistico e questo è scritto nella legge.

Problemi peculiari presenta l’individuazione dei garanti nell’ambito delle imprese strutturate
in forma societaria. In proposito si lasciano individuare due fondamentali categorie di doveri
di garanzia: a) quelli relativi alla amministrazione dell’impresa, finalizzati alla protezione del
patrimonio sociale (obblighi di protezione), nonché b) quelli relativi alla gestione tecnica,
operativa e commerciale dell’impresa sociale, finalizzati al controllo delle fonti di pericolo
immanenti all'esercizio dell’attività di impresa (obblighi di controllo).
Dai doveri di protezione del patrimonio sociale discende l’obbligo di impedire la commissione
di reati fallimentari e societari da parte dei direttori generali, , dei dirigenti preposti alla
redazione dei documenti contabili societari, ), nonché da parte dell’institore. Titolari di questo
ordine di obblighi sono i membri del consiglio di amministrazione della società, i membri del
comitato esecutivo o l’amministratore o gli amministratori delegati, ai quali il consiglio
d’amministrazione può delegare parte delle proprie attribuzioni.
La delega di funzioni al comitato esecutivo o all’amministratore delegato lascia tuttavia
sussistere posizioni di garanzia in capo ai membri del consiglio di amministrazione: permane
cioè il dovere di impedire i reati da chiunque stiano per essere commessi, anche dai soggetti
delegati — quando i membri del consiglio di amministrazione siano venuti a conoscenza del
pericolo della loro realizzazione.

Anche gli obblighi di controllo — correlati alla gestione tecnica, operativa e commerciale
dell’impresa — incombono sulle persone fisiche che occupano i vertici dell’organizzazione:
titolare dell’impresa individuale e consiglieri d’amministrazione delle società di capitali. • Ad
essi la legge affida il compito di organizzare la struttura e l’attività dell’impresa in nodo
adeguato alla salvaguardia degli interessi dei singoli e della collettività che possono essere
messi in pericolo dall’attività di impresa. Peraltro un’ottimale tutela di tali beni esige che
destinatari degli obblighi di garanzia siano anche altri soggetti operanti all’interno
dell’impresa, anche soggetti, cioè, diversi dagli amministratori della società. , possono
essere trasferiti per delega obblighi di controllo su una più o meno ampia gamma di fonti di
pericolo, ma in ogni caso rimane in capo ai vertici dell’impresa un dovere di vigilanza sul
rispetto da parte dei delegati dei compiti ad essi attribuiti. Si tratta di un dovere che va
adempiuto creando adeguati sistemi di informazione e di monitoraggio sull’attività
dell’impresa. Gli amministratori potranno pertanto rispondere, in concorso con gli autori, per
omesso impedimento dei più diversi reati, dolosi o colposi, commessi da terzi nell’ambito o
nell’esercizio dell’attività di impresa: omicidi colposi, lesioni colpose, delitti contro la pubblica
incolumità, reati ambientali, etc.
La fonte di un obbligo di garanzia in capo al soggetto delegato è un atto dell’autonomia
privata che delinea l’organizzazione interna dell’impresa. In materia di sicurezza del lavoro,
per la validità della delega e della conseguente assunzione dell’obbligo di garanzia è
necessario: a) che la delega risulti da atto scritto recante data certa; b) che il delegato
possegga tutti i requisiti di professionalità e di esperienza richiesti dalla specifica natura delle
funzioni delegate; c) che si attribuiscano al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione
e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; d) che si attribuisca al
delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate; e) che la
delega sia accettata dal delegato per iscritto. Inoltre, alla delega deve essere data adeguata
e tempestiva pubblicità.

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