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Capitolo I. Le origini
Il diritto amministrativo nasce dopo la rivoluzione francese, con l’affermarsi del principio di legalità
e della divisione dei poteri, formandosi negli stati dell’Europa continentale dove si è passati dallo
Stato assoluto allo Stato di diritto. Diversamente paesi come l’Inghilterra, che non hanno vissuto
l’esperienza assolutistica non conosceranno agli inizi dell’800 neanche in forma embrionale un
diritto amministrativo.
Le radici affondano nello Stato di Polizia, che aveva un apparato burocratico il benessere dei
sudditi. Lo stato assoluto aveva infatti bisogno di maggiori entrate per finanziare i nuovi compiti: si
istituisce l’intendente, che ritroviamo sia in Francia che in Italia sin dalla fine del 700, con il
compito di raccogliere le tasse e mantenere l’ordine. Alle funzioni tradizionali di giustizia, difesa e
finanza si aggiunsero il genio civile, le miniere, la coltivazione e le acque, il che portò a creare
ulteriori uffici dipendenti dal sovrano.
Il 17 febbraio 1800 Napoleone fa promulgare una legge che disegna l’assetto organizzativo della
P.A.
Lo Stato è il detentore delle funzioni ammin. e la loro distribuzione avviene col principio gerarchico.
Per una rigida applicazione della separazione dei poteri è impedito all’Autorità giudiziaria di
interferire sul potere amministrativo. Il che comporta come conseguenza l’impossibilità per i
cittadini di ricevere tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione.
A metà ‘800 il Regno di Sardegna delineerà l’assetto organizzativo della PA che si protrarrà sino
alla fine del 20° secolo. La scelta di una amministrazione centrale per Ministeri risale alla legge
Cavour n° 1483/1853. L’unificazione amministrativa del nuovo Stato italiano introduce con la legge
su citata un accentramento sul piano organizzativo e politico: ogni amministrazione, a partire da
quella comunale, è ricondotta alla amministrazione dello Stato.
L’amministrazione è di tipo ministeriale e ciascun ministero si presenta con un apparato di uffici
servente il ministro. L’organizzazione gerarchica assicura e garantisce i fini dello Stato.
In questo disegno non c’è spazio per le autonomie, ritenendosi che l’unità non potesse che
avvenire dall’alto.
A metà dell’800 comincia ad elaborarsi una autonoma nozione di atto amministrativo legata
all'imperatività. Si riconducono a questa fenomeni diversi: l’unilateralità, l’immediata efficacia e la
dissociazione tra validità e efficacia, il regime di invalidità basato sull’annullabilità, la revocabilità,
l’esecutorietà. L’atto imperativo esprime la supremazia dell’amministrazione sul cittadino.
La fortuna dell’atto amministrativo è però legata all’istituzione della IV sezione del Consiglio
di Stato. Questa utilizzerà l’atto come “grimaldello” per giudicare l’amministrazione e costruire
il diritto amministrativo, che di conseguenza si è sviluppato sulle ginocchia del giudice
amministrativo.
Basti pensare che è attraverso le decisioni del Consiglio di Stato che si costruiscono le figure
ed i tipi di illegittimità: l’eccesso di potere, il giusto procedimento, l’obbligo di motivazione,
l’autotutela ammin.
L’ampliamento della sfera di intervento pubblico dovuto al pluralismo sociale e politico dell'inizio
‘900 ha comportato l’istituzione di aziende autonome ed enti pubblici economici, paralleli alla
P.A.
Al modello unitario e uniforme dello Stato liberale si contrappone la complessità del modello
pluralistico. I primi segni della crisi dello Stato liberale si hanno nel 1882 con le lotte agrarie
nella Valle Padana, la fondazione del Partito Socialista e la riforma elettorale.
L’industrializzazione porrà in primo piano la questione operaia e la crescita demografica
metterà in primo piano problemi urbanistici legati alla sovrappopolazione.
La legge 103/1903 sulla municipalizzazione dei servizi pubblici consente ai Comuni di assumere i
servizi di distribuzione di acqua potabile, illuminazione, fogne, reti telefoniche, nettezza pubblica
ecc.
Questo colloca alla pari: l’amministrazione che offre il servizio, ed il cittadino che ne
usufruisce. L’amministrazione si avvicina ai cittadini, ai loro problemi, dando risposte
attraverso i suoi servizi
Sin dagli inizi del ‘900 si assiste ad una espansione della P.A. attraverso la istituzione di Ammin.
parallele:
nel 1905 vengono riscattate le Ferrovie e si crea l’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato,
nel 1912 l’istituto Nazionale delle Assicurazioni etc. La crescita dell’amministrazione pubblica
raggiungerà il suo apice col regime fascista, durante il quale si cercherà però il rafforzamento del
modello accentrato di amministrazione, dipendente dal Governo ed organizzato gerarchicamente,
togliendo ogni autonomia.
Lo Stato non solo controlla il mercato, ma ne diventa attore:dopo il '29 l’IRI (Istit. ricostruzione
industriale) diventa azionista di imprese strategiche per l’economia nazionale (siderurgia,
meccanica, trasporti). L’attività dello Stato imprenditore è nuova e diversa da quella
provvedimentale e di prestazione di servizi che sono di per sè esercizio di funzione pubblica6150
Gli sviluppi successivi alla Costituzione dell’organizzazione ammin portano ad una sorta di
decentramento gerarchico da autorità periferiche, senza tuttavia rendere queste ultime
indipendenti dal centro.
Negli anni ‘70 il principio gerarchico comincia a vacillare nel momento in cui ai dirigenti viene
conferito un autonomo potere di decisione ed i provvedimenti amministrativi non definitivi
diventano impugnabili davanti al giudice amministrativo (legge 1034/71); nello stesso tempo inizia
l’attuazione del Titolo V, con l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario (legge 108/68).
Lo Stato negli anni '70 introduce la pensione, la cassa integrazione ed il Servizio Sanitario
Nazionale. Ovviamente anche l’istituzione delle Regioni comporta una nuova classe politica e
nuovi costi da sostenere. Assistiamo così ad una crescita del debito pubblico per finanziare
l’azione di un amministrazione che appariva sempre meno efficiente ed efficace.
A partire dalla seconda metà degli anni ’80 la ricerca di una maggiore efficienza porterà ad
abbandonare la formula dell' azienda-organo a favore del modello dell’ente pubblico
economico.
A livello locale, le aziende municipalizzate acquistano autonomia e divengono enti strumentali
dell’ente locale e possono inquadrarsi nella categorie degli enti pubblici economici.
Le trasformazioni che hanno investito negli anni ’90 l’organizzazione della P.A. hanno portato ad
una decentralizzazione verticale, con la valorizzazione delle autonomie territoriali, ma anche ad
una orizzontale.
La disaggregazione del modello ordinato secondo principi organizzativi, non più corrispondenti
alle esigenze di una amministrazione cui si chiede di rispondere ai cittadini in modo efficiente,
trasparente ed imparziale, si è risolta in una riorganizzazione iniziata nel 1990 con la legge di
riordino delle autonomie locali (l. 142/1990) e la legge sul procedimento amministrativo (l.
241/1990).
Il percorso di riforma si è completato con l’approvazione della riforma del Titolo V del 2001, a
cominciare dalla riscrittura dell’art. 114 Cost. dove “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle
Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Si tratta insomma di una riforma
in senso autonomistico che porta al ribaltamento del rapporto tra Stato ed autonomie, ed ad una
integrazione pubblico-privato.
Col nuovo diritto amministrativo si sostituisce alla centralità dello Stato la centralità del territorio.
La riforma del‘90 vuole rendere la P.A. responsabile verso la comunità un confronto paritario con i
cittadini. Si introduce una nuova articolazione, in un sistema di unità organizzative autonome con a
capo un dirigente. A questi l’ordinamento riconosce autonomia amministrativa, organizzativa e di
gestione, cui corrisponde una precisa responsabilità per i risultati conseguiti.
L’autonomia dirigenziale viene garantita con la distinzione tra politiche pubbliche e attività di
gestione.
Con la legge 241/90 sul procedimento amministrativo si è ridefinito il rapporto fra P.A. e cittadini
a favore di quest’ultimi, non più meri destinatari. I cittadini hanno il diritto, ex lege n°241/1990, di
partecipare al procedimento fornendo all’amministrazione elementi utili per una adeguata
istruttoria e per una completa assunzione degli interessi. La P.A. deve però permettere ai cittadini
di partecipare.
La pubblicità e la trasparenza costituiscono di conseguenza presupposti necessari della
partecipazione.
Negli anni ’90 vi è un’accelerazione verso un modello di giustizia amministrativa che offra
una tutela effettiva al cittadino e che superi i privilegi sostanziali e processuali
dell’amministrazione.
Il Consiglio di Stato nel primi anni 2000 approderà a ritenere che “l’esigenza dell’effettività della
tutela non può dirsi soddisfatta solo perché l’ordinamento consenta un rimedio giurisdizionale al
diritto, occorrendo invece che assicuri in modo specifico l’attuazione della pretesa sostanziale”.
Tuttavia, a fronte di questa evoluzione giurisprudenziale, sin dagli anni ’90 si è assistito a
interventi “frammentati e scoordinati” del legislatore, con una dilatazione della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo che ha determinato l’intervento della Corte costituzionale
ed una tensione sul riparto di giurisdizione tra Consiglio di Stato e Sezioni Unite della
Cassazione.
Queste sono le ragioni che hanno portato il Consiglio di Stato a cercare una nuova legittimazione
attraverso una codificazione del processo amministrativo. E difatti della codificazione del 2010
esso è stato protagonista, redattore e principale destinatario del codice stesso.
Il Codice adegua il processo ai principi che il legislatore costituente ha voluto riferire alla
giurisdizione in generale, da qualsiasi giudice esercitata. Sicché sono riconosciuti agli artt. 1-2-
3 del c.p.a. come principi generale del processo amministrativo: effettività, giusto processo,
dovere di motivazione di ogni provvedimento decisorio.
La crisi economica che ha investito l’Italia e l’Europa ha avuto un forte impatto sul diritto
amministrativo. Le politiche pubbliche richiedono, per gli stringenti vincoli sovranazionali, intese
preliminari con l'UE. Le decisioni amministrative sono fortemente condizionate dal vincolo del
pareggio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico. La revisione della spesa ha ricadute
sull’organizzazione e sull’attività amm. Il modello della spending review sposta il baricentro dal
nuovo cittadino al mercato.
Il dubbio è che queste declinazioni del diritto amministrativo portato dalla crisi economica
finiscano per mortificare le fondamenta della forma di stato democratica ed autonomista.
Il principio autonomistico
Tra enti autonomi non può evidentemente esistere gerarchia ma solo parità (anche se
l’ordinamento può prevedere forme di sostituzione dell’ente autonomo che non compia le sue
funzioni).
Hanno autonomia istituzionale sia gli enti territoriali che quelli in cui il territorio non è elemento
costitutivo.
- Sono enti autonomi non territoriali ad es. le Università, le Camere di commercio.
- Sono enti autonomi territoriali Stato, Regioni, Province, Città metropolitane, Comuni.
Negli enti territoriali l’autonomia assume una particolare rilevanza, in quanto si configura
come autogoverno, con organi legittimati dal voto popolare e perciò titolari di un proprio
indirizzo politico.
In Italia vi sono più di 8000 comuni , 10 città metropolitane, 107 Provincie, 20 Regioni, 5 a statuto
speciale.
Dopo l’unità d’Italia il Parlamento emana la legge comunale e provinciale che attua un sistema
accentrato di origine francese, in cui gli enti sono amministrazione indiretta dello Stato centrale.
Gli enti locali non hanno autonomia finanziaria, normativa e organizzativa: i loro organi e i loro
atti sono sottoposti al controllo statale attraverso il prefetto. Tale situazione si aggrava col
fascismo, che azzera l’autonomia politica degli enti, con la nomina governativa del podestà al
posto del sindaco.
Nel 1948 la Costituzione riconosce e garantisce l’autonomia degli enti territoriali esistenti e crea
le Regioni a Statuto ordinario, riconoscendo autonomie particolari alle cd. Regioni a statuto
speciale.
Tuttavia le Regioni a statuto ordinario vengono effettivamente costruite solo con le elezioni
del'70 ed un reale trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni avviene solo nel 1977.
La vera riforma degli enti locali attuativa della Costituzione avviene con la l. 142/1990,
preceduta dalla Carta europea delle autonomie locali, ratificata in Italia nel 1989.
L’art. 3 della Carta configura l’autonomia locale come il diritto e la capacità di
regolamentare ed amministrare una parte importante degli affari pubblici.
L’art. 4 co. 3 della Carta conferisce alle “autorità più vicine ai cittadini” le funzioni
amministrative, prevedendo anche l’attribuzione eventuale ad altro ente maggiore per via
dell’ampiezza territoriale, prefigurando quello che sarà il principio di sussidiarietà introdotto
con la riforma del 2001.
Sulla scia della Carta, l’art. 2 della l. 142/1990 afferma che gli enti locali curano lo sviluppo della
comunità che rappresentano: si tratta quindi di soggetti autonomi in grado di determinare i propri
interessi e tutelarli. Si attribuisce agli enti locali il potere di emanare Statuti propri, riducendo i
controlli esterni sui loro atti (poi eliminati con la riforma del Titolo V).
La prima legge c.d. Bassanini del '97 conferisce le funzioni alle Regioni e agli enti locali
per la semplificazione amministrativa, seguono le leggi Bassanini del 1998 e 1999 e dal
T.U. 267/2000.
Nella ripartizione tra livelli di governo, la funzione amministrativa, ai sensi dell’art. 118 Cost.
spetta ai comuni, scelta che trova fondamento anche nel trattato di Maastricht e nell’art. 3 del
T.U. 267/2000. Lo stesso art. 118 infatti precisa che tali funzioni possono essere conferite con
legge in via ascendente a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sulla base dei
principi di sussidiarietà e adeguatezza”.
Al Comune spettano in via prioritaria tutte le funzioni amministrative (118 Cost.) salvo quelle che
richiedono l’unitario esercizio a livello regionale. Possono essere proprie, oppure conferite con
legge statale o regionale, oppure fondamentali, attribuite cioè con legge statale.
L’elencazione delle funzioni fondamentali si rinviene oggi nella l. 135/2012: ex art. 19 spettano ai
comuni:
La Provincia costituisce un ente intermedio tra Comune e Regione, con funzioni in parte di
gestione amministrativa ed in parte di programmazione del territorio con il coinvolgimento dei
Comuni. Recentemente si è riaperto un acceso dibattito circa la possibilità di abolirle per ridurre
la spesa pubblica. Il d.l. 201/2011 svuotava di funzioni le Province, attribuendo ad esse solo
quella di indirizzo e coordinamento dell’attività dei Comuni e sostituiva gli organi elettivi con
consiglieri comunali provinciali.
Con la Riforma Delrio le province delle regioni ordinarie sono state trasformate in enti
amministrativi di secondo livello (per i quali non sono cioè più previste elezioni dirette) con
elezione dei propri organi a suffragio ristretto, mentre è stata prevista la trasformazione di 10
province in città metropolitane.
La legge in oggetto ha abolito la Giunta provinciale, redistribuendo le deleghe di governo
all'interno del Consiglio provinciale, molto ridimensionato nel numero dei suoi membri.
Un nuovo organo, l'Assemblea dei sindaci, delibera il bilancio e su eventuali modifiche statutarie.
L’ente “città metropolitana” è introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento con la legge
142/1990 . Secondo tale normativa era individuata all’interno delle aree metropolitane, la cui
delimitazione e l’effettiva istituzione delle città metropolitane erano rimesse all’iniziativa delle
regioni e degli enti locali interessati.
Solo la riforma Delrio ha dato finalmente attuazione alle città metropolitane, istituendone 10 nelle
Regioni a statuto ordinario, che sostituiscono le relative province (Roma, Torino, Milano, Venezia,
Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria).
Le funzioni assegnate alle città metropolitane possono essere raggruppate in quattro diverse
categorie:
b) le funzioni che le città metropolitane eserciteranno in qualità di enti che succedono alle
province;
c) le funzioni attribuite nell’ambito del processo di riordino delle funzioni delle province;
d) le ulteriori funzioni attribuite alle città metropolitane dallo Stato e dalle regioni in attuazione dei
principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118 Cost.
1. il sindaco metropolitano: di diritto è il sindaco del comune capoluogo, tuttavia gli statuti
possono prevedere che venga eletto a suffragio universale (come accade a Roma Milano e
Napoli).
2. il consiglio metropolitano, eletto a suffragio ristretto dai sindaci e dai consiglieri comunali
dei comuni della città metropolitana.
Alcune regioni (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna) hanno
uno Statuto speciale approvato con legge costituzionale, che attribuisce loro poteri più ampi
delle altre Regioni.
Autonomia e controlli
La riforma del Titolo V ha abrogato le norme che prevedevano controlli da parte dello Stato sugli
atti amministrativi delle Regioni e da parte delle Regioni su quelli degli enti locali.
Tuttavia l’art. 120 Cost. prevede un particolare meccanismo di controllo sostitutivo con cui lo
Stato può sostituirsi agli enti territoriali “nel caso di mancato rispetto di norme e trattati
internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e
sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiede la tutela dei livelli essenziali concernenti diritti
civili e sociali”. La Corte costituzionale ha precisato che:
L’autonomia finanziaria
L'art. 119 Cost. individua le fonti di finanziamento degli enti territoriali e prevede che la legge
statale istituisca un fondo perequativo per le Regioni con minore capacità fiscale per
abitante. Lo slancio autonomistico ha avuto una brusca interruzione a causa della crisi
economica.
In tal senso al fine di ridurre la spesa pubblica sono state emanate una serie di disposizioni che
hanno ridotto l’autonomia finanziaria: oggi tutti i Comuni sono chiamati a rispettare il patto di
stabilità; con leggi del 2012 vengono imposte severe riduzioni alla spesa degli enti subnazionali.
La Costituzione dedica solo una “Sezione” alla “Pubblica Amministrazione” composta dai soli artt.
97 e 98.
Tale scarsezza di articoli non deve fare intendere che il costituente sia indifferente alla P.A.
I principi si suddividono in 2 grandi categorie:
o Ex art. 24 “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e degli interessi
legittimi”. Tale articolo può essere compreso pienamente solo con il combinato disposto
con altri due articoli: 103 e 113, coi quali si tutelano pienamente le situazioni giuridiche
soggettive nei confronti della P.A. In particolare l’art. 24 stabilisce il riconoscimento della
tutela degli interessi legittimi;
l’art 103 precisa che il giudice cui compete tale tutela è il Consiglio di Stato nonché i
TAR; l’art 113 ribadisce che “contro gli atti della P.A. è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale”.
o L’art 28 prevede invece il principio di responsabilità diretta dei dipendenti pubblici per gli
atti compiuti in violazione delle posizioni giuridiche soggettive: tale riconoscimento della
responsabilità a carico dell’Amministrazione fa venire meno il dogma dell’immunità statale o
dell’infallibilità del potere pubblico. Ex art 28 si riconoscono 3 forme di responsabilità: civile,
penale e amministrativa.
Tuttavia nel diritto amministrativo si aggiungono anche responsabilità disciplinare e
dirigenziale, benchè prive di formale riconoscimento costituzionale.
o Gli artt. 31 e ss. riconoscono i diritti sociali, coi quali l’Amministrazione garantisce il più
importante obiettivo costituzionale: il pieno sviluppo della persona umana.
o L’art. 41 sancisce da una parte la libertà di iniziativa economica privata, dall’altra una riserva di
legge (che coinvolge la P.A.) circa la possibilità di controllare e coordinare l’attività economica ai
fini dell’utilità sociale. Ex artt. 42 e 43 la P.A. può espropriare la proprietà privata laddove
sussistano motivi di preminente interesse generale, dando al privato un equo indennizzo.
Principi costituzionali e amministrazione pubblica alla luce dello schema ex art. 1 della L.
241/1990
In base allo schema ex art. 1 della L. 241/1990 e la Legge sul Provvedimento ammin. è possibile
enunciare con maggiore esattezza i principi contenuti nell’art 97 Cost: legalità, imparzialità, buon
andamento, oltre ai nuovi principi di equilibrio di bilancio e di derivazione comunitaria.
- Imparzialità costituisce una specificazione del principio di uguaglianza. In entrambi i casi siamo
dinanzi ad un principio che impone un limite all’esercizio del pubblico potere: la P.A. non può fare
discriminazioni. All’imparzialità si collega il principio di concorsualità per l’accesso agli impieghi
pubblici ex art. 97,4.
L’art. 1 L. 241/90 prevede i princ. di pubblicità e trasparenza che rendono effettivo quello
d'imparzialità.
- Principio dell’equilibrio di bilancio: La L.cost. 1/2012 ha aggiunto una parte all’art. 97 Cost.,
introducendo il princ. di equilibrio di bilancio. E' una previsione che rafforza il princ. di buon
andamento.
Sono richiamati dall’art 1 della L. 241/1990 e come tali applicabili alla P.A.
- Principio di proporzionalità: impone alla P.A. di adottare la misura più mite possibile con
riguardo agli interessi antagonisti coinvolti nell’azione (il tutto nel perseguimento ottimale del
pubblico interesse).
Nel relativo controllo giurisdizionale il principio di proporzionalità si articola in tre profili:
- Principio di buona amministrazione: introdotto con l’art. 41 della Carta di Nizza del 2000 è il
diritto al trattamento del proprio interesse in modo imparziale entro un termine ragionevole,
ricomprendendo anche l’obbligo di motivare le proprie decisioni, il diritto di accesso, il diritto ad
essere ascoltati, il diritto al risarcimento per danni subiti. Più che un principio autonomo la buona
amministrazione sembra essere un grande contenitore in cui sono le prerogative date al privato
che dialoghi col potere amministrativo.
Ogni singolo ente a fini generali autentico è originario, necessario e pre-normativo, è infatti
soggetto sovrano nel suo ambito territoriale di competenza e potenzialmente in grado di
amministrarlo senza interventi esterni. Tuttavia accade spesso che un determinato ambito
territoriale rappresenti il contesto di riferimento di più enti (in Italia c'è la concorrenza tra 3 enti a
fini generali: il comune, lo Stato ed infine la stessa l’U.E. ). Ciascun componente costitutivo
dell’ordinamento costituzionale, oltre a fare affidamento sui suoi uffici amministrativi, può istituire
figure soggettive deputate all’interesse pubblico (agenzie, enti, società)e rendono conto del loro
operato all’Ente generale che l' ha istituito.
Va ricordato che la cura degli interessi generali è svolta anche da soggetti privati: parliamo
insomma di corpi intermedi, la cui attività è riconducibile al concetto di esercizio privato di funzioni
pubbliche.
Le Pubbliche Amministrazioni
Ciascun ente a fini generali è persona giuridica, espressione della sovranità del popolo che
compone la relativa comunità territoriale. Il singolo cittadino si ritrova ad essere
contemporaneamente parte di più comunità territoriali, per cui subisce contemporaneamente
la sovranità di più Enti a fini generali.
In ciascun soggetto a fini generali sono infatti presenti due matrici: la prima è di carattere
politico, relativa all’individuazione degli interessi generali e alla definizione delle strategie
per il loro ottimale perseguimento; la seconda è di impronta tecnico-operativa, preposta
all’attuazione di quelle strategie.
Quando si parla di P.A. ci si dovrebbe riferire esclusivamente alle strutture che operano
stabilmente o occasionalmente nell’ambito della seconda matrice.
Purtroppo nel lessico comune le “Pubbliche Amministrazioni” vengono intese
impropriamente come sinonimo di soggetti impegnati in attività di rilievo pubblicistico a
qualsiasi titolo.
Personalità e soggettività
Il grado intermedio sono invece gli Enti locali: ad es. in ciascuna Provincia, sotto il manto di
un’unica personalità giuridica, operano più soggetti di diritto.
Ma il maggior livello di discrasia tra unicità della personalità giuridica e molteplicità di figure
soggettive autonome lo si raggiunge con riferimento allo Stato (sotto una sola personalità
giuridica operano molteplici soggetti di diritto: Ministeri, Agenzie, Autorità Amministrative
indipendenti).
Nello Stato il ruolo unificatore viene però assicurato da elementi ministeriali e da strutture
di rilievo costituzionale o meno (Corte dei Conti, Consiglio di Stato, Avvocatura dello
Stato).
L’elemento base di ogni soggetto pubblico di diritto è l’Ufficio. Nel concetto rientrano:
persone fisiche che in esso operano (addetti e titolare dell’Ufficio). Tali soggetti sono
dipendenti dell’ufficio, ognuno di essi è parte allo stesso tempo di 2 rapporti giuridici:
- rapporto di servizio (che attiene all’impiego del dipendente)
- rapporto d’ufficio (che attiene alla sua attività professionale);
la sfera di competenza ad esso assegnata;
le dotazioni materiali per lo svolgimento dell’attività
le relazioni giuridiche che connettono il singolo ufficio con gli altri uffici.
a seconda che per il loro funzionamento debbano o meno essere presenti tutti i loro componenti.
Esistono anche realtà operative che non si inseriscono in una figura soggettiva: i munera e gli
officia.
I Munera attengono allo svolgimento di attività pubblicistiche da parte di soggetti privati estranei
ad un contesto organizzativo strutturato (notai, tutori per gli interdetti e curatori per gli inabilitati).
Gli Officia sono entità non soggettivizzate che compiono attività giuridicamente rilevante.
1) Gerarchia: è una relazione organizzativa che può intercorrere esclusivamente tra uffici di una
medesima struttura organizzativa. Nei primi decenni di vita del Regno d’Italia era al contrario
l’unica formula organizzativa ipotizzabile nelle relazioni infrastrutturali , intersoggettive ed
interpersonali .
L’art. 97 co. 2° Cost. ha invertito la rotta: “Nell’ordinamento degli Uffici sono determinate le
sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari”.
La relazione di Gerarchia è stata confinata col tempo solo alle relazioni infrastrutturali e si è
ammorbidita per la necessità di valorizzare e responsabilizzare i livelli intermedi e inferiori.
Anche se la maggioranza degli uffici di una singola P.A continuano ad essere inseriti
gerarchicamente
(c.d. uffici di line), nei pochi casi in cui persiste in maniera caratterizzata, l’esercizio del potere di
ordine da un lato necessita una motivazione, dall’altro non può più comprendere l’individuazione
delle modalità concrete da adottare per il suo conseguimento.
3) Vigilanza: è una relazione organizzativa che può caratterizzare tutte le tre tipologie di
rapporti e si caratterizza per una supervisione dell’operato di un ufficio da parte di uno
diverso.
Tuttavia l’elemento che opera la supervisone non si trova in una posizione di sovra
ordinazione rispetto all’elemento destinatario della sua attenzione (ad es. Corte dei Conti e le
P.A. per le finanze pubbliche).
Oltre a queste relazioni strutturali, figurano anche rapporti giuridici episodici a contenuto
organizzativo. Il campo di applicazione di tali istituti si è andato assottigliando con il
consolidamento del principio di definizione degli ambiti di competenza esclusivi per i singoli
uffici delle P.A.
- Delega: il titolare di una funzione, il delegante, conferisce ad altro, il delegato, l’esercizio della
funzione, senza spogliarsi della titolarità della funzione e per questo mantiene nei confronti del
delegato potestà di indirizzo, direttiva e controllo.
In virtù del "delegatus delagare non potest", il delegato non può trasferire ad altri
l’esercizio della funzione. Gli effetti dell’attività del delegato ricadono infatti nella sfera
giuridica del delegante.
- Avocazione è un rapporto giuridico che presuppone una relazione gerarchica tra due elementi
e per tanto può verificarsi soltanto nell’ambito di relazioni infrastrutturali (nei soli casi previsti
dalla legge).
L’ufficio sovraordinato, al ricorrere di presupposti tassativi, può chiamare a sé l’esercizio della
competenza di un ufficio sottordinato.
- Avvalimento non si verifica alcuna alterazione all’ordinaria ripartizione tra i diversi uffici delle
competenze assegnate in via legislativa. Un ufficio che ordinariamente svolge i suoi compiti
all’interno di una figura soggettiva, pur rimanendo inserito nella struttura che lo comprende,
opera al servizio di un'altra.
Il rapporto organico
1) l’attività sia compiuta da un soggetto preposto alla titolarità con atto illegittimo (c.d. funzionario di
fatto),
3) l'attività sia compiuta da un soggetto per il quale una titolarità non vi è mai stata.
L’orientamento normativo è quello di considerare il più possibile efficaci gli atti posti in essere
dall’organo illegittimo, per ragioni di tutela dell’affidamento dei terzi che in buona fede sono entrati
a contatto con esso.
Potere
2) La seconda coppia è quella che vede contrapposti i poteri di indirizzo e i poteri di gestione.
La distinzione era già presente nel T.U. 142/90 degli enti locali, successivamente si è diffusa per
tutte le P.A. Si è passato così da un modello a responsabilità ministeriale ad un modello a
competenze differenziate, che attribuisce agli organi politici le funzioni di indirizzo; mentre agli
organi amministrativi l' attività di gestione.
Nel modello a competenze differenziate invece gli organi politici indicano gli obiettivi e
controllano l’operato dei dirigenti e degli uffici, mentre i dirigenti hanno la responsabilità della
gestione, senza che fra i primi e i secondi vi sia rapporto gerarchico, bensì si tratta di un
rapporto di direzione.
Inoltre la tipologia di controllo prevalente non è quella sugli atti, ma quella sul risultato o sulla
gestione.
I dipendenti vengono distinti in dirigenti e responsabili di aree, che compongono gli organi, e
gli altri che costituiscono gli uffici. I dirigenti possono essere nominati anche fra soggetti estranei
alla P.A.
3) Infine la terza distinzione è fra poteri vincolati, poteri discrezionali e poteri a discrezionalità
tecnica.
Discrezionalità tecnica: ricorre quando la P.A adotta una decisione o formula un giudizio,
dopo aver accertato un fatto con regole tecniche o specialistiche.
Si è discusso sulla individuazione dei limiti del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità
tecnica. In passato si sosteneva che la sindacabilità della discrezionalità tecnica
coincidesse con quella della discrezionalità amministrativa, dunque fosse limitata alla
verifica dell’ipotesi di eccesso di potere.
La Juris più recente ha invece sostenuto che il sindacato sulla discrezionalità tecnica può
attuarsi non solo attraverso un controllo estrinseco, finalizzato a ripercorrere l’iter logico
seguito dalla P.A, ma anche un controllo intrinseco che, consentendo al giudice di
avvalersi di regole e di conoscenze tecniche, permette di verificare direttamente
l’attendibilità delle operazioni rispetto all’esatta applicazione di criteri tecnici. Naturalmente,
però, il giudice, sebbene coadiuvato da un consulente tecnico, non può sostituirsi
all’amministrazione nella decisione: si determinerebbe una violazione del principio di
separazione dei poteri. Ecco perché si parla di “sindacato debole”.
I soggetti privati possono essere titolari di situazioni giuridiche soggettive di vantaggio nei
confronti dell’amministrazione, in particolare possono essere titolari di diritti soggettivi e
interessi legittimi.
Il diritto soggettivo è un interesse protetto dalla norma in maniera tale da assicurare al
titolare la piena soddisfazione dell’interesse. Si distinguono:
1) D. sogg. assoluti: conferisce al titolare una tutela che impone tutti i consociati di astenersi dal
turbare in qualsiasi modo il godimento del bene/diritto ;
2) D. sogg. relativi: la norma impone un obbligo di fare/non fare/ tollerare a uno o più soggetti
specifici
L’interesse legittimo
L’interesse legittimo nel nostro ordinamento nasce a seguito della legge abolitrice del contenzioso
amministrativo nel 1865: tutte le controversie con la p.a., anche quelle nelle quali ricorreva la
presenza di un provvedimento amministrativo, venivano devolute al giudice ordinario.
All’epoca, del resto, l’unica situazione giuridica soggettiva che un cittadino poteva vantare nei
confronti dell’amministrazione era il diritto soggettivo e l’unico giudice esistente era il giudice
ordinario.
In realtà il legislatore aveva considerato anche le controversie che, pur non coinvolgendo diritti
soggettivi dei cittadini, potevano insorgere fra questi e le amministrazioni.
Egli aveva infatti stabilito che “gli affari non compresi nell’articolo precedente saranno attribuiti alle
autorità amministrative, le quali provvederanno con decreti motivati”.
L’interesse legittimo nacque proprio dal processo evolutivo che investì gli “affari non compresi”. Ci
si rese presto conto che l’attività amministrativa causava situazioni di ingiustizia e di disparità di
trattamento, inoltre il giudice ordinario ridusse il suo sindacato nei confronti della p.a. entro margini
angusti, anche quando il provvedimento amministrativo incidesse su diritti soggettivi.
Si cominciò a teorizzare che l’esercizio di un pubblico potere produceva l’effetto di
degradare i diritti soggettivi a interessi legittimi.
Ecco perché con la legge n° 5992/889 il legislatore volle istituire IV Sezione del Consiglio di
Stato, cui devolvere la cognizione degli “affari non compresi”.
Ad essa venne devoluto il potere di “decidere sui ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o
violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa che abbiano per
oggetto un interesse di individui o di enti giuridici”. Il Consiglio di Stato era dotato per lo più di
funzioni consultive.
Quando venne istituita la IV sezione, rimase incerto per un lungo periodo se fosse stato istituito
un nuovo organo giurisdizionale, oppure se il nuovo organo dovesse decidere solo il
contenzioso amministrativo. La natura giurisdizionale della IV sezione si affermò solo
successivamente.
La Cassazione sostenne l’esigenza di conferire alle decisioni della IV sezione natura
giurisdizionale per consentire di pronunciarsi su di esse. L’interesse legittimo fu dunque
assunto come parametro sul quale fondare il criterio di riparto tra giudice ordinario e
amministrativo.
Una prima ricostruzione definì l’interesse legittimo come un interesse occasionalmente protetto.
L’ordinamento giuridico non tutelava direttamente l’interesse del privato, bensì solo quello
pubblico. L’interesse legittimo era un interesse del privato che riceveva una tutela indiretta e
occasionale, di riflesso, quando tra l’interesse pubblico e quello privato vi era piena coincidenza.
La tesi non era idonea a configurare l’interesse legittimo come una S.G.S. del privato, innanzitutto
perché l’interesse protetto dal diritto non era quello del privato, bensì quello pubblico e, in
secondo luogo, perché l’interesse del privato veniva configurato come un interesse inattivo, non
azionabile.
Dalla tesi dell’autonomia del diritto d’azione nacque un orientamento che conferì all’interesse
legittimo un ruolo meramente processuale e che lo qualificò come un potere di azione
processuale idoneo solo a provocare l’annullamento dell’atto. Guicciardi distingueva fra norme
di azione, di relazione e di merito:
Le norme di azione disciplinano i rapporti tra P.A. e cittadini, contraddistinti dal fatto che i
secondi sono subordinati alla prima, vale a dire da rapporti autoritativi.
Dallo sviluppo delle teorie processuali dell’interesse legittimo nacque un orientamento che,
rilevando che l’interesse legittimo è un potere di reazione contro un provvedimento
sfavorevole, deve però essere volto alla tutela di un interesse, di un bene, di un’entità
sostanziale.
Da ciò prese avvio un orientamento che proporrà la natura sostanziale dell’interesse legittimo.
La teoria ha ricevuto un significativo apporto dalla Costituzione, in particolare dagli artt. 3, 24, 113.
Il riconoscimento ai titolari di diritti soggettivi e a quelli degli interessi legittimi della tutela
giurisdizionale, che in virtù del principio di uguaglianza non può che essere della stessa intensità
e natura, implica l’equiparazione dei diritti soggettivi agli interessi legittimi.
La dottrina inizia dunque a considera l'interesse legittimo come situazione giuridica sostanziale.
Le indagini avviate negli anni ’60 hanno condotto ad acclarare che l’interesse legittimo era
configurabile già nella fase procedimentale, quindi viveva prima ed indipendentemente dal
processo.
La dottrina individuò infatti nel potere dell’interessato di intervenire nel procedimento,
presentando istanze, memorie e richieste, l’espressione sostanziale dell’interesse legittimo.
interesse legittimo pretensivo: è volto a conseguire una modificazione degli assetti giuridici
in modo tale da ampliare la sfera giuridica soggettiva del suo titolare (ad es. rilascio del
permesso di costruire).
interesse legittimo oppositivo: ricorre nelle ipotesi in cui l’esercizio del potere
amministrativo incide su situazioni giuridiche soggettive già acquisite dal privato.
Consistono cioè nel conferimento al titolare dei poteri volti a contrastare l’azione dell’P.A.
(ad es. Emanazione del decreto di esproprio che sottrae un bene immobile al suo titolare, il
quale esercita un interesse legittimo volto a contrastarlo)..
Il processo evolutivo dell’interesse legittimo proseguì fino al riconoscimento della sua risarcibilità.
Un’occasione importante per riflettere sul tema fu offerta dal convegno nazionale sull’ammissibilità
del risarcimento del danno patrimoniale derivante da lesione di interesse legittimi organizzato a
Napoli nel 1963. Nel corso del convegno si contrapposero due orientamenti:
1) la dottrina prevalente negava la risarcibilità del danno derivante dalla lesione dell’interesse
legittimo, sostenendo che la risarcibilità fosse preclusa dal fatto che l’interesse legittimo non aveva
natura sostanziale e che l’unica forma di tutela che l’ordinamento apprestava per esso era
l’annullamento dell’atto illegittimo. Secondo l’opinione in esame solo la violazione di un diritto
soggettivo integrava il presupposto del danno ingiusto ex art.2043 c.c. e legittimava la condanna
risarcitoria dell’amministrazione.
2) Sul fronte opposto si sostenne che, oltre alla risarcibilità del diritto soggettivo, potesse
prospettarsi anche quella di altre situazioni giuridiche soggettive come l’interesse legittimo,
ogniqualvolta venisse arrecato un danno consistente nella sottrazione di un vantaggio o di una
mancata attribuzione di un vantaggio.
Una spinta al superamento della tesi dell’ irrisarcibilità dell’interesse legittimo si deve anche ad
alcuni interventi del legislatore degli anni ’90. Il primo è la Direttiva 89/665 CEE, attuata in Italia
tramite la L. 142/1992: l’art. 13 stabilì che i soggetti che avessero subito una lesione a causa di
atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici, potevano chiedere il
risarcimento del danno all’amministrazione aggiudicatrice o al giudice ordinario, previo
annullamento dell’atto illegittimo da parte del giudice amministrativo.
La dottrina sostenne che la suddetta previsione normativa avesse introdotto un’ipotesi di
risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo; la Juris tuttavia sottolineò il carattere
eccezionale e settoriale della normativa, il cui ambito di applicazione era espressamente limitato
al settore degli appalti.
La svolta si ebbe con la Sentenza 500/1999 delle Sez. Unite della Corte di Cassazione,
affermando che l’art. 2043 c.c. racchiude una clausola generale primaria, del “danno ingiusto”,
in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell’ingiustizia, in quanto
lesivo di interessi ai quali l’ordinamento attribuisce rilevanza.
La Corte precisò che, affinché una situazione di interesse legittimo potesse ricevere tutela
sul piano risarcitorio devono sussistere tutti i presupposti descritti dall’art. 2043, ivi compreso
quello soggettivo.
La discrezionalità pura consiste nella libertà data alla P.A. di valutare i modi di
raggiungimento dell'interesse pubblico bilanciando diritti pubblici e privati.
La discrezionalità tecnica ricorre quando l'esame di fatti o di situazioni rilevanti per l'esercizio
del potere pubblico necessiti del ricorso a cognizioni tecniche o scientifiche di carattere
specialistico.
La P.A. valuta i fatti con canoni scientifici e tecnici, e non svolge alcuna comparazione tra
l'interesse pubblico primario e gli interessi secondari, per individuare la soluzione più
opportuna per l'interesse da perseguire (come invece avviene in caso di discrezionalità
amministrativa c.d. “pura”).
Tra la discrezionalità amministrativa e quella tecnica, perciò, vi è una diversità concettuale di
fondo: mentre la prima consta sia del momento del giudizio (nel quale si acquisiscono e si
esaminano i fatti), che del momento della scelta (nel quale si valutano gli interessi in gioco
scegliendo la soluzione più opportuna), la discrezionalità tecnica, viceversa, contiene il solo
profilo del giudizio, risolvendosi soltanto in una analisi di fatti, sia pure complessi, ma non di
interessi.
Al di là della distinzione, comunque i due fenomeni tengono ad interferire fra di loro.
Si può discutere infatti se ed entro quali limiti la funzione tecnico-interpretativa sia o meno
anch’essa da considerare a suo modo creativa del diritto, specie laddove il legislatore usi formule
legislative incerte. Così operando, il legislatore abdica alla propria funzione, trasferendola
direttamente in capo al giudice (nel diritto civile e penale) o all’autorità pubblica in prima battuta e
al giudice in seconda (nel diritto amministrativo). In tali ipotesi prevale l’orientamento volto a
riconoscere all’amministrazione una funzione sostitutiva a quella (non svolta) dal legislatore.
Sul tema è giunta una severa indicazione dalla Corte di Giustizia europea, secondo cui si ha
violazione del principio di proporzionalità in tutti quei casi in cui si rende operativamente
impossibile la sua effettiva applicazione. Una tale patologia si presenta ogniqualvolta al livello di
indeterminatezza di una clausola generale non dia al giudice di criteri sufficienti per verificare la
proporzionalità della scelta, sia essa tecnica o amministrativa pura.
Duplice funzione operativa dei principi giuridici nel procedimento e nel processo
amministrativo
2) in sede giurisdizionale, quando si procede alla verifica della legittimità dell’esercizio della P.A.
- l’autorità giudiziaria è affidataria del fine esclusivo di giustizia. Il giudice persegue solo la
giustizia.
In definitiva, le due autorità sono chiamate al rispetto di medesime regole, ma si pongono fra loro
in subordinazione, nel senso che le regole stesse valgono per la P.A. proporzionalmente al
potere effettivo che avrà a posteriori il giudice nel farle rispettare.
Pur essendo i rapporti tra amministrazione e giudice a favore del secondo, si continua a
riconoscere a favore della prima un margine insindacabile di autonomia nella contestualizzazione
della norma indeterminata, ossia nella sua qualificazione. Ancora dopo la l. 241/1990 i giudici
amministrativi giungevano a negare perfino l’esistenza dell’obbligo di motivare le scelte tecniche in
quanto “non discrezionali in senso puro”. Dunque fino a tempi relativamente recenti,
l’amministrazione non era neanche obbligata a rendere conto dei propri criteri di apprezzamento
del fatto, perché parte di un'attività interna, esternamente irrilevante.
Si costruiva così una discrezionalità impropria, impura, perfino più libera, più immune al
controllo di quanto lo fosse la discrezionalità pura, propria, dove l’obbligo di motivazione era
pacifico.
In anni più recenti, la giurisprudenza è andata aprendo alla qualificazione del fatto stesso,
giungendo ad operare forme di sindacato forte di natura sostitutiva, in contrapposizione al
tradizionale sindacato debole che, proprio nel timore di sconfinare nel merito, si limita a
ripercorrere l’iter logico tecnicamente seguito dall’amministrazione, limitandosi a verificare
l’esistenza di grave illogicità o palesi contraddizioni.
Fra le prime sentenze in cui si è iniziato ad applicare il sindacato c.d. forte v'è la 601/99 della IV
Sez del Consiglio di Stato, secondo cui il sindacato di legittimità deve essere finalizzato “non al
mero controllo esterno dell’iter logico dell’autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta
dell’attendibilità delle operazioni tecniche compiute”, poiché “anche se la valutazione spetta per
prima alla P.A non la autorizza a ritenere che sia un apprezzamento dell’interesse pubblico
assolutamente insindacabile”.
Un banco di prova dei rapporti di forza tra amministrazione e giurisdizione è offerto dalla clausola
generale della sicurezza, contenuta in numerose leggi a tutela dell’ambiente e dell’incolumità dei
cittadini.
Il principio di precauzione è stato introdotto nel 2005 con l’art. 1 della legge sul Procedimento
amministrativo, che ha accolto i principi del diritto comunitario, poi recepito dall’art. 301 del d.lgs
152/06: “in caso di pericoli anche solo potenziali per salute e ambiente, deve essere assicurato
un' alta protezione”. Il dovere di agire con cautela in capo ad ogni amministrazione deriva quindi
da formule e concetti legislativi elastici, cosicché la sua applicazione necessita di regole fondate
sulla ragionevolezza, nonché di una preventiva fissazione di soglie di rischio correlate al valore
da preservare e alle probabilità di danno.
Il principio di precauzione costituisce un importante paradigma del principio di proporzionalità:
applicarlo comporta proporzionare le possibili conseguenze negative con l'ottimale dell’interesse
pubblico, di modo da ridurre i timori entro un limite minimo tollerabile.
Nel calcolo della variabilità (forbice di rischio), il principio di precauzione dovrebbe operare al
rialzo, cioè con atteggiamento pessimistico, tenendo però anche conto di esigenze ulteriori
rispetto a quella di rimuovere il rischio, in primis di natura economica. La procedura è detta
quantificazione del rischio.
In definitiva, il bilanciamento non può essere che un esercizio di discrezionalità pura, pur
muovendosi nell’alveo originario di quella tecnica.
PARTE TERZA: IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
L’elaborazione della nozione ha ricevuto l’apporto della teoria sostanziale del procedimento,
secondo cui il procedimento costituisce la forma dell'attività amministrativa e sottolineando anche
la funzione di garanzia assolta dal procedimento, giungendo a parlare di “procedimento
garanzia”.
L’atipicità del procedimento amministrativo
1. fase preparatoria
2. fase costitutiva
3. fase integrativa dell’efficacia.
fase
dell’iniziativa
fase istruttoria
fase decisoria
fase di integrazione dell’efficacia.
Ci sono inoltre procedimenti che presentano fasi diverse da quelle elencate, come nell'
espropriazione:
Quella di Legittimazione sociale: la legittimazione delle decisioni pubbliche non può basarsi
ancora oggi sull’autorità dello Stato, bensì sull'approvazione della collettività, soddisfatta
dall'operato della P.A.
L’iniziativa procedimentale
La legge 241/1990 sul procedimento amministrativo si limita a fissare dei principi fondamentali,
non strutturando in maniera sistematica il procedimento amministrativo e neanche la sua
articolazione in fasi. Questo deficit interessa in particolar modo la fase di iniziativa del
procedimento.
Requisiti, oggetto e contenuto dell’atto di iniziativa sono definiti dalle previsioni legislative di
settore. L’ordinamento regola occasionalmente la fase dell’iniziativa all’art. 2 co. 1 L 241/1990,
rubricato Conclusione del procedimento: "ove il procedimento inizi a seguito di un’istanza,
ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le P.A hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di
un provvedimento espresso”.
Il procedimento può essere avviato d’ufficio dalla P.A. agente o su istanza di parte.
In generale, il potere di iniziativa è determinato dalla legge per ciascun procedimento.
Di conseguenza, nei casi in cui l’amministrazione è tenuta al perseguimento di uno specifico
interesse pubblico, dispone anche del potere di iniziativa per i procedimenti amministrativi
strumentali;
nei casi in cui l’ordinamento prevede l’istanza del privato come atto idoneo a determinare
l’avvio di un procedimento, la P.A. ricevente sarà vincolata a procedere ed a provvedere.
a) I procedimenti d’ufficio
I procedimenti c.d. d’ufficio sono avviati su iniziativa dell’autorità cui la legge attribuisce la
competenza di adottare il provvedimento conclusivo. Nei suddetti casi il soggetto iniziatore
coincide con quello decidente. Tale corrispondenza, tuttavia, genera incertezza per
l’individuazione del momento iniziale del procedimento, mancando un accadimento che consenta
immediatamente di individuare l’inizio del procedimento. Il tema non aveva importanza prima
dell’introduzione dell’obbligo di conclusione del procedimento.
L’art. 2 della legge 241/1990 ha stabilito che “nei casi in cui le leggi o i provvedimenti di cui ai
commi 3,4, 5 non prevedano un termine diverso, i procedimenti di competenza delle
amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro 30gg”. L’art. 2
prevede solo un generico riferimento all'inizio per stabilire la decorrenza dei termini. Né dalle
disposizioni di settore si rinviene una previsione univoca.
È frequente la previsione che il termine iniziale decorre genericamente dal momento in cui
l’autorità amministrativa riceve formale e documentata notizia del fatto da cui origina l’obbligo
di provvedere o da quello per cui necessita dare inizio al procedimento.
L’individuazione del dies a quo per il calcolo del termine di conclusione del procedimento è
“immediata” solo nelle ipotesi in cui vi è un atto o una segnalazione provenienti da uffici con
specifici compiti preordinati al provvedimento stesso.
Con la presentazione di una istanza, il privato intende soddisfare un suo interesse sostanziale, e
segna l’avvio del procedimento amministrativo, facendo sorgere nel soggetto che la presenta un
titolo ad ottenere un esito da parte della P.A. obbligata ad iniziare il relativo procedimento.
L’istante può essere sia una persona fisica sia giuridica privata; in realtà si ritiene che anche un
ente pubblico diverso dalla P.A. procedente possa formulare un’istanza usando la sua capacità
di diritto privato. Successivamente l’autorità ricevente verifica l' effettiva titolarità dell’interesse in
capo all’istante.
Infine, nel corso del procedimento, la P.A valuta la necessità e l’opportunità di soddisfare la sua
pretesa. Quando la legge riconosce al soggetto privato il potere di presentare un’istanza,
riconosce la titolarità di una situazione qualificata, ricostruita come interesse legittimo
pretensivo.
Pertanto in presenza di un’istanza di prevista ex lege la P.A. è obbligata ad intervenire.
Secondo parte della dottrina tali atti sono a forma libera, con eccezioni previste ex lege;
secondo altri richiedono la forma scritta ad substantiam a pena di invalidità.
E' comunque pacifico che la forma scritta sia necessaria quanto meno ad probationem.
L’art.2 co.2 sancisce l’obbligo di emanare un provvedimento espresso in presenza di un
obbligo dell’amministrazione di procedere. Vi è correlazione tra obbligo di procedere e
obbligo di provvedere. Più controversa è invece la questione relativa al quomodo del
procedimento, ovvero la vincolatività dell’istanza rispetto all’attività della P.A.
Deve ritenersi che il dovere di provvedere si sostanzia unicamente nel dover rispondere,
adottando un provvedimento espresso e legittimo, non necessariamente conforme
all’istanza. D’altra parte l’istanza circoscrive il campo di attività dell’amministrazione in due
modi:
Ex art. 1 co. 2 della L. 241/1990 la P.A. non può aggravare il procedimento se non per
straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria (divieto di
aggravamento).
L' istanza va distinta dalla Denuncia: atto privato con cui si comunica alla P.A un’esigenza o si
illustra una situazione di fatto. Può contenere anche la richiesta di adottare un provvedimento
amministrativo. Tuttavia, non è espressione di un interesse giuridicamente protetto dal suo
autore, a differenza dell’istanza. Per questa ragione non sono in grado di produrre gli stessi
effetti, a partire dare avvio al procedimento. Secondo un orientamento della Juris, dalla
presentazione di una denuncia sorgono in capo all’amministrazione un dovere di esame e un
dovere di provvedere basato su ragioni di giustizia e di equità.
Gli art. 14 e 14 ter L.241 disciplinano le modalità di svolgimento della Conferenza di servizi ,
indetta dalla P.A procedente per acquisire le determinazioni dei vari soggetti pubblici interessati
al procedimento, con esame dei diversi interessi pubblici coinvolti. Essa può essere:
Istruttoria: per individuare gli interessi pubblici rilevanti che possono esser presenti in una certa
procedura;
Preliminare: quando si svolge per procedure relative ad opere pubbliche o ad insediamenti
produttivi di beni e servizi, sempre prima della formale presentazione della domanda di avvio
del procedimento;
Decisoria: per adottare una decisione finale sostitutiva di intese, concerti, nulla osta o
assensi di altre autorità, formalmente richiesti e non pervenuti entro 30 giorni dall’inizio del
procedimento.
Ex art. 4, le P.A sono tenute ad indicare (con regolamento) l'unità organizzativa responsabile per
ciascun tipo di procedimento, nonché il soggetto che emetterà il provvedimento finale, a meno di
previsioni ex lege. Il 2° comma prescrive l’obbligo di pubblicare tali info, nel rispetto dei principi
di trasparenza e pubblicità. Per trasparenza deve intendersi l’accessibilità totale, anche mediante
la pubblicazione sui siti istituzionali.
L’art.6 della legge 241/1990 elenca i principali compiti del responsabile del procedimento: deve,
d'ufficio, adottare ogni misura idonea per l'adeguato e celere svolgimento dell'istruttoria. Valuta
le condizioni di ammissibilità (requisiti formali per iniziare il procedimento),
i requisiti di legittimazione (quelli soggettivi dei richiedenti) ed infine i presupposti rilevanti per
l'emanazione di provvedimento (precedenti all'avvio del procedimento, come la pubblicazione
del bando).
Spetta a lui la richiesta dei pareri, obbligatori e facoltativi, e in caso di mancata risposta entro
20gg, può comunque concludere il procedimento indipendentemente dal parere, senza essere
chiamato a rispondere degli eventuali danni dovuti alla suddetta mancanza (salvo il caso di
omessa richiesta del parere).
Anche il successivo art. 17 afferma che: se l’organo competente non provveda nei 90gg dal
ricevimento della richiesta, il responsabile deve chiedere le valutazioni tecniche ad altri organi
della P.A o ad enti pubblici con qualificazioni e capacità tecniche equipollenti, ovvero ad istituti
universitari”.
Complessa: qui il privato ha l’onere di fornire ogni elemento di prova per legittimare il proprio
assunto e l’amministrazione deve dimostrare la carenza dei presupposti e la connessa
violazione dell’interesse pubblico primario, ossia degli obiettivi istituzionali dell’ente.
- è vincolante quando non può essere disatteso, qui la discrezionalità è nell’an e non nel
quomodo;
All’istruttoria segue la fase decisoria ove si determina il contenuto dell’atto con la sua formale
adozione.
Oggi la Juris è unanime nel ritenere che il principio di partecipazione sia un princ.gen
dell’ordinamento. Eppure la compresenza nella stessa legge 241/1990 di altri principi
diametralmente opposti, come il principio di semplificazione, pone il problema di conciliarli. Non a
caso un tratto caratteristici della legge sul procedimento è l' antinomia tra celerità e partecipazione.
Il principio di partecipazione è da tempo entrato nel diritto comunitario ex art. 41 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, sancendo il diritto di ogni individuo ad una “buona
amministrazione e che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed
entro un termine ragionevole”.
La presenza del privato nel procedimento amministrativo mira a diverse finalità. L' obiettivo
principale della partecipazione è la garanzia, lasciando le altre sue possibili funzioni sul piano
delle conseguenze indirette. Si individuano 3 possibili funzioni della partecipazione
procedimentale, per cui si parla di polifunzionalità:
Procedimento/contradditto
rio
Procedimento/istruzione
Procedimento/collaborazione;
Le deroghe al principio di partecipazione - La deroga generale dell’art. 13
Una prima categoria di eccezioni al principio di partecipazione è prevista dalla stessa L. 241/90
all’art. 13, per i procedimenti diretti all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di
programmazione e pianificazione, nei procedimenti tributari, dove restano ferme le norme che li
regolano. Dottrina e giurisprudenza tuttavia hanno inteso l’art. 13 come disposizione, più che
preclusiva della partecipazione procedimentale, escludente l’applicazione del modello del Capo
Terzo.
La Juris peraltro ha precisato che, quando i destinatari del provvedimento di pianificazione o
programmazione sono soggetti individuati, permane l’obbligo di comunicargli l’avvio del
procedimento.
Tra le deroghe all’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento individuate dalla Juris vi è
in primis quella riguardante i procedimenti ad istanza di parte.
Fino a qualche anno fa la Juris unanimemente affermava che l’obbligo sussiste soltanto per i
procedimenti promossi autonomamente dalla P.A., mentre non è configurabile per quelli su
domanda del privato, poiché questi ultimi l’interessato non può non conoscerli, avendoli egli
stesso sollecitati.
Fu notato, da un lato, che il procedimento su istanza di parte inizia nel momento in cui la P.A dà
corso all’istanza stessa, quindi l’interessato deve essere messo in condizioni di sapere dell'inizio;
dall’altro, che la comunicazione dell’avvio del procedimento serve anche a conoscere il nome del
responsabile e l’oggetto.
Non mancano poi ancora oggi voci che continuano ad escludere l’obbligo di comunicazione di
inizio del procedimento nei casi di procedimenti volti all’emanazione di provvedimenti vincolati.
Appare preferibile l’orientamento del Consiglio di Stato: l' obbligo di comunicazione
sussiste sia nei procedimenti inerenti ad attività discrezionali, sia in quelli destinati a
concludersi con atti vincolati.
Vi è infine un filone di casi basato sul principio processual-civilistico del raggiungimento dello
scopo, dove l’esigenza di informare il destinatario dell’azione amministrativa non sussista
quando il destinatario stesso ne abbia già avuto conoscenza, anche aliunde, ovvero abbia
comunque partecipato o avuto la possibilità di farlo.
Il Contenuto
Le info che deve contenere la comunicazione di avvio del procedimento sono elencate
nell’art. 8 co. 2° L. 241/90 modificato dalla 15/2005, confermando la tesi che attribuisce alla
comunicazione di avvio, in funzione dell’instaurazione del contraddittorio, la stessa funzione
riconosciuta all’atto di citazione nel processo civile e all’informazione di garanzia in quello
penale. La comunicazione deve contenere:
- l’amministrazione competente
- l’oggetto del procedimento
- la data entro la quale deve concludersi il procedimento ed i rimedi esperibili in caso di inerzia
della P.A
I tempi e le modalità
Anche se l’art. 8 non lo prevede espressamente, si deve ritenere che la comunicazione deve
anche indicare il termine entro il quale i partecipanti possono esercitare i diritti a loro attribuiti
dall’art. 10.
La Juris ha stabilito che la comunicazione va effettuata con tempi e modalità tali da
consentire la partecipazione efficace dei soggetti interessati.
Per quanto riguarda le modalità l’art 8,3 prevede che, qualora la comunicazione personale risulti
gravosa per numero di destinatari o per altre difficoltà, si possa dare notizia dell’avvio mediante
forme di pubblicità idonee, stabilite di volta in volta dall’Amministrazione: ad es. affissione in
luoghi pubblici.
L’ultimo comma dell’art. 8 della Legge 241 si limita a stabilire che l’omessa comunicazione
dell’avvio “può essere fatta valere solo dal soggetto nel cui interesse la comunicazione è
prevista”, dando per scontate le conseguenze dell’omissione di tale adempimento. A seguito della
lacuna, le posizioni sono state diverse:
3) La Juris aveva infine optato per un approccio finalistico, individuando delle ragioni ulteriori che
legittimerebbero eccezioni alla regola dell’obbligo di comunicazione: l'omessa comunicazione
comportava l’annullamento dell’atto conclusivo solo nel caso in cui il soggetto non avvisato
potesse provare che, venendo sentito, ci sarebbe stata una ragionevole probabilità che il
procedimento ed il relativo provvedimento sarebbe stato diverso (si tratta a tutti gli effetti di una
probatio diabolica).
La legge 241/90 consente di partecipare al procedimento non soltanto a coloro che devono essere
avvisati del relativo inizio dall’amministrazione ma anche ad altri soggetti che, pur non potendo
pretendere l' avviso, possono venire a conoscenza dell’apertura del procedimento.
Trattasi di “qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati”, nonché dei “portatori di
interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento”.
Per l’individuazione dei soggetti legittimati ad intervenire serve che vi sia un determinato
interesse (pubblico, privato, diffuso) ed un successivo elemento, il pregiudizio che può derivare
dal provvedimento (o dalla sua mancata adozione). Risulta quindi necessario un vero
interesse sostanziale.
Portatori di interessi pubblici sono le P.A. e coloro legittimati a farne le veci (ad es. i
concessionari di pubblico servizio)
Portatori di interessi privati sono le persone fisiche /giuridiche e gli organismi privi di
personalità giuridica riconosciuta.
Portatori di interessi diffusi sono ampie categorie di soggetti, che possono farli
valere purchè costituiti in associazioni o comitati (al fine di evitare una c.d.
partecipazione “selvaggia”).
1) Hanno il diritto di prendere visione degli atti del procedimento, salvo le esclusioni ex art. 24.
Trattasi del diritto di accesso “endoprocedimentale” o “partecipativo” distinto
dall’“esoprocedimentale” o “informativo” : quest’ultimo ha una sua autonomia rispetto al
procedimento, mentre il primo è strumentale perché consente al partecipante di acquisire le info
necessarie per rapportarsi alla P.A. procedente. Anche il diritto di accesso all’art. 10 lett. A trova
tutela giurisdizionale nell’art. 25.
Un nuovo diritto dei partecipanti è sancito ex art. 10 bis L. 15/05 che disciplina il preavviso
di rigetto. Nei procedimenti ad istanza di parte, il responsabile o l’autorità competente, prima
dell'adozione di un provvedimento negativo, ne comunica tempestivamente agli istanti i motivi
ostativi all’accoglimento. Nei successivi 10gg gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto
le loro osservazioni ed eventuali documenti. Se non sono accolte il motivo è comunicato nel
provvedimento finale.
L’art. 10 bis esclude l’obbligo del preavviso di rigetto nelle procedure concorsuali e nei
procedimenti in materia previdenziale/assistenziale. La Juris ha inoltre escluso l'applicabilità
alle gare d’appalto, al procedimenti della conferenza dei servizi, quelli elettorali, alle decisioni
degli organi collegiali, alla SCIA.
Lo schema tradizionale ex art. 10 pone due regole procedimentali per garantire la partecipazione:
1) l’affermazione del principio di preclusione, che impone la definizione della materia del
contendere nel momento della emanazione del preavviso di rigetto, nel quale devono essere già
individuati tutti i motivi che l’amministrazione ritiene possano condurre al diniego del
provvedimento richiesto.
2) il riconoscimento di un vero e proprio diritto alla conoscenza del fascicolo del procedimento,
ossia di tutti gli atti istruttori che l’interessato potrà visionare per difendersi entro il termine di 10gg
previsto dalla legge.
Nel silenzio della legge, la Juris si è occupata del problema della necessaria corrispondenza tra
il contenuto del preavviso di rigetto e la motivazione del successivo provvedimento finale di
diniego.
Non si pongono problemi nell’ipotesi della mancata indicazione, nel preavviso di rigetto, di una
delle ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza, omissione che non può che rendere illegittimo il
diniego.
Il discorso si complica in presenza di una comunicazione dei motivi ostativi non sufficientemente
specifica. La Juris ritiene possibile che il preavviso non corrisponda totalmente e precisamente al
provvedimento, potendo l’amministrazione precisare meglio nell’atto di diniego.
L’annullabilità del provvedimento di diniego non preceduto dal preavviso di rigetto è riconosciuta
solo in caso di “deficit istruttorio rilevante”, e invece esclusa in presenza di atto vincolato che
non avrebbe potuto aver contenuto diverso o nel caso in cui, avendo l’istante prodotto
nell’istruttoria documenti idonei a confutare le tesi dell’ammin ed a sostenere le proprie ragioni, sia
stata raggiunta concretamente la finalità partecipativa dell’art. 10 bis.
Tale orientamento giurisprudenziale è stato criticato dalla dottrina, che ha osservato da un
lato che la fattispecie ex art. 10 bis non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 21 octies co.
2° L.15/05; dall’altro che la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non può
considerarsi un vizio procedimentale sanabile in forza di quella norma, rendendo il nuovo
istituto un contenitore vuoto.
La Conferenza di Servizi: istituto di semplificazione e coordinamento dell’attività
amministrativa
L’art. 14 della l. 241/90 delinea la conferenza di servizi come un istituto vocato all’esame
contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo.
La norma non rappresenta in realtà un’assoluta novità, dato che l’istituto trova origine in
numerose disposizioni di settore. Tuttavia è la L.241 ad elevare la conferenza di servizi a
modello generale, applicabile in linea di principio a ogni attività amministrativa in cui emerga
la compresenza di interessi pubblici differenziati e l’opportunità che vengano
comparativamente presi in considerazione. Il tutto nell’individuazione e soddisfazione
dell’interesse pubblico primario e prevalente.
La valenza generale del modulo conferenziale ha trovato l’avallo della Corte Costituzionale,
che ha sottolineato che non solo l'istituto risponde ad esigenze di semplificazione, ma è
soprattutto “orientato al principio di buon andamento ex art. 97 Cost.”
La disciplina è frutto di un progressivo affinamento, l'attuale normativa consta di ben 5 disposizioni.
L’ultimo intervento è quello del d.lgs. 127/2016, che rinnova completamente le 5 disposizioni citate.
Ex art. 14 co. 1°: “La conferenza di servizi istruttoria può essere indetta dall'ammin procedente,
anche su richiesta di altra P.A coinvolta nel procedimento o del privato interessato, quando lo
ritenga opportuno per esaminare gli interessi pubblici coinvolti in un proced. Ammin., ovvero in
più procedimenti connessi, riguardanti medesime attività o risultati”.
Dall’inciso “può essere indetta” si comprende come all’amministrazione procedente sia attribuito
un ampliamento dei margini di discrezionalità nella scelta delle modalità operative, senza però
sfociare in una libertà insindacabile nella scelta del modello organizzativo, bensì si parla di
sindacbilità giurisdizionale di quelle scelte illogiche e incongrue della P.A. che decida di non
ricorrervi.
Il co. 1°, nell’esplicitare la funzione e la valenza generale dell’istituto, offre anche fondamento
normativo alla conferenza da espedirsi nella fase istruttoria del procedimento (c.d. Conferenza
istruttoria). Nella conferenza istruttoria può prevedersi la partecipazione di organi ed uffici
esclusivamente interni all’amministrazione procedente ovvero anche di quelle esterne.
L’atto conclusivo non ha valenza di accordo, bensì di rappresentazione degli interessi dei
partecipanti.
Di conseguenza non è autonomamente impugnabile, in quanto inidoneo (al pari di qualsiasi atto
istruttorio) ad esplicare effetti giuridici che possano ledere posizioni soggettive su cui l’atto finale
andrà ad incidere, ed altrettanto inidoneo a vincolare l’attività decisionale dell’amministrazione
procedente, che rimane l’unico soggetto competente ad adottare la decisione finale.
Lo stesso comma fa riferimento anche alla c.d. Conferenza trasversale, quando gli interessi
coinvolti attengono a più procedimenti amministrativi riguardanti medesime attività o risultati.
L’art. 14 co. 2° offre invece fondamento normativo alla Conferenza decisoria, che è sempre
indetta quando l’acquisizione di pareri, intese, nulla osta o altri atti di assenso resi da diverse
amministrazioni, inclusi i gestori di beni o servizi pubblici, è necessaria per un provvedimento di
competenza della P.A. procedente. Oggi è l’unico caso di conferenza obbligatoria. Ai lavori
possono partecipare organi di differenti amministrazioni (c.esterna) ovvero anche solo organi
appartenenti alla stessa amministrazione (c. interna); in entrambi i casi l’atto conclusivo avrà
valenza di decisione pluristrutturata, in quanto sostitutiva di tutti gli atti necessari al
perseguimento del risultato e all’adozione della determinazione finale.
Il co. 3° prevede infine la Conferenza preliminare, la quale può essere richiesta su base
motivata dall’interessato, corredata da uno studio di fattibilità, per progetti di particolare
complessità e di insediamenti produttivi di beni e servizi”.
E' finalizzata ad indicare al richiedente, prima della presentazione dell’istanza o del progetto
definitivo, le condizioni per ottenere i necessari pareri, nulla osta, autorizzazioni, concessioni o
altri atti di assenso.
Funzione e natura giuridica della conferenza di servizi. Tipologia di atti che possono essere
acquisiti.
- è da escludersi che la conferenza abbia natura di organo collegiale poiché il connotato della
collegialità è inconciliabile sia con la composizione ad assetto variabile, sia con la imputabilità
diretta alle singole amministrazioni partecipanti delle risultanze dei lavori e dell’atto conclusivo.
La maggior innovazione del D.lgs. 127/2016 è però l’introduzione di due distinti moduli
organizzativi consistenti nella conferenza semplificata (art. 14 bis) e nella conferenza
simultanea (art. 14ter):
1) La semplificata ex art 14-bis, a carattere necessario e ordinario, è organizzata mediante la
semplice trasmissione per via telematica tra le amministrazioni partecipanti delle comunicazioni,
delle istanze e della relativa documentazione, insomma dematerializzata.
E' indetta entro 5gg lavorativi dall’inizio del procedimento o dal ricevimento della domanda, nel
caso sia ad istanza di parte. L’amministrazione procedente comunica alle altre amministrazione
interessate:
b) il termine perentorio, non superiore a 15gg, entro cui le P.A. interessate possono richiedere
eventuali integrazioni o chiarimenti su fatti, stati e qualità personali non trai documenti in
possesso delle ammin.
In caso di richiesta di integrazioni documentali, ex art. 2 co.7, i termini possono essere sospesi,
per una sola volta e per un periodo comunque non superiore a 30gg;
a) il termine perentorio per la conclusione non può essere superiore a 45gg (90 nel caso siano
coinvolte amministrazioni preposte alla tutela ambientale, territoriale, dei beni culturali o della
salute dei cittadini, quando le leggi o i regolamenti non stabiliscano termini diversi) entro il
quale le P.A devono inviare le proprie determinazioni. Tale termine decorre dalla data di invio
della comunicazione;
b) la data eventuale della riunione in modalità simultanea da tenersi nei 10gg successivi alla
scadenza del termine indicato alla lettera a), solo quando strettamente necessaria, nei casi
tassativi ex lege.
Non si tratta di due modelli rigorosamente separati, ma tendenzialmente integrabili, dal momento
che il secondo costituisce eventuale sviluppo del primo: la simultanea si innesca per ipotesi
complesse qualora, in via originaria o sopravvenuta, si riscontrino particolari difficoltà nel definire la
conferenza semplificata. Le amministrazioni coinvolte sono tenute a rendere le proprie
determinazioni nel termine indicato dall’amministrazione procedente nella comunicazione di
indizione della Conferenza, le quali debbono essere motivate e formulate in termini di
assenso/dissenso (nel secondo caso le modifiche necessarie per l'assenso).
Esclusi i casi in cui disposizioni del diritto dell’Unione europea richiedono l’adozione di
provvedimenti espressi (ad es. VIA, AIA, emissioni in atmosfera ecc.), la mancata comunicazione
della determinazione entro il termine indicato dalla P.A. procedente nella comunicazione di
indizione della Conferenza, equivale ad assenso senza condizioni (c.d. silenzio assenso).
Restano ferme le responsabilità dell’amministrazione, nonché quelle dei singoli dipendenti nei
confronti dell’amministrazione, per l’assenso reso, anche implicito.
Si considera acquisito l’assenso anche quando la determinazione è priva dei requisiti richiesti.
- sono stati acquisiti esclusivamente atti di assenso non condizionato, anche implicito;
- sono stati acquisiti atti di assenso con condizioni e prescrizioni che però, ad avviso della P.A
procedente, sentiti il privato interessato o le altre amministrazioni, possono essere accolte
senza necessità di modifiche sostanziali alla decisione oggetto della conferenza.
2) Conclusione negativa : produce l’effetto del rigetto della domanda, è adottata entro 5gg
lavorativi, qualora sono stati acquisiti atti di dissenso che l’amministrazione procedente non
ritiene superabili.
Nei procedimenti a istanza di parte questa determinazione produce gli effetti della comunicazione
dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza ex art. 10-bis (c.d. preavviso di diniego).
Se il proponente trasmette nuove osservazioni entro 10gg, la P.A indice (entro 5gg lavorativi)
una nuova conferenza semplificata, inviando le osservazioni ricevute alle P.A coinvolte e
fissando un nuovo termine. Qualora, entro questo termine, le amministrazioni confermino il loro
dissenso, comunque nella nuova determinazione conclusiva è data ragione del mancato
accoglimento delle osservazioni.
Quando sono stati acquisiti atti di assenso o dissenso che indicano condizioni o prescrizioni che
richiedono modifiche sostanziali, la nuova valutazione contestuale si svolgerà con la riunione
della conferenza simultanea, che si terrà nella data già indicata nella comunicazione di indizione
della conferenza.
Art. 14 ter: La conferenza simultanea (con la riunione) è prevista unicamente nei seguenti casi:
- nel corso della conferenza semplificata sono stati acquisiti atti di assenso/ dissenso che indicano
condizioni o prescrizioni che richiedono modifiche sostanziali. La riunione della conferenza
simultanea si terrà nella data già indicata nella comunicazione di indizione della conferenza;
- in caso di progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale (VIA) regionale: tutti gli atti di
assenso necessari sono acquisiti in una conferenza di servizi convocata direttamente in modalità
simultanea.
I lavori della conferenza simultanea si concludono entro 45 giorni dalla data della prima
riunione, 90 per decisioni complesse in cui siano coinvolte P.A. di tutela ambientale, culturale e
della salute, a meno di diverse previsioni contenute in leggi o regolamenti.
La nuova disciplina prevede, come quella previgente, all’art. 14-quinquies la possibilità per
le amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili di rimettere, in caso di dissenso
qualificato,
la questione al Presidente del Consiglio dei Ministri, ma con tempi stringenti, e per le
amministrazioni statali l’opposizione deve esser proposta dal Ministro competente.
L’attuale art. 14-quinquies prevede oggi due distinte e tassative fattispecie di dissenso qualificato:
1) Co 1°: si tratta il dissenso manifestato nella Conferenza da una delle amministrazioni preposte
alla tutela degli interessi sensibili: tutela ambientale, territoriale, patrimonio storico-artistico, della
salute e sicurezza.
- Se si trova un accordo viene adottata una nuova determinazione conclusiva della Conferenza;
- Se un accordo non è raggiunto, entro 15gg dalla riunione, la questione è rimessa al Consiglio
dei Ministri, alla cui riunione possono partecipare i presidenti delle Regioni o delle Province
autonome interessate.
Se il Consiglio non accoglie l’opposizione, la determinazione conclusiva della Conferenza acquista
efficacia. Può anche accogliere parzialmente l'opposizione, modificando il contenuto della
decisione della conferenza.
L' art. 19 si occupa di stabilire i confini della disciplina. Sussistono limiti materiali, nel senso
che talune materie sono sottratte, in particolare le attività economiche a prevalente
carattere finanziario e quelle attività soggette a limiti contingenti o strumenti di
programmazione.
- Limiti sono dovuti a normative di settore: sono sottratti alla SCIA gli atti previsti dalla
normativa per le “costruzioni in zone sismiche” e quelli “imposti dalla normativa comunitaria”.
- Ancora, la SCIA non può essere utilizzata nel caso in cui il rilascio di un certo provvedimento
dipenda da una scelta discrezionale della P.A. Ex art 19. il rilascio del provvedimento deve
dipendere “esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti ex lege o da atti
amministrativi a contenuto generale”.
La SCIA è dunque ammissibile solo per attività ammin vincolate, quei poteri il cui esercizio
richiede solamente l’accertamento di determinati presupposti.
Gli ampi poteri a favore dei privati in materia di SCIA impongono, oltre che limiti applicativi,
anche notevoli poteri di controllo della P.A., previsti nel 3 e 4 co. dell’art. 19 e si sostanziano
nell' ordinare il divieto di prosecuzione dell’attività, nonché la rimozione degli eventuali effetti
dannosi da essa prodotti, laddove si accerti un abuso da parte del privato.
Ciò può essere evitato attraverso una vera e propria sanatoria della SCIA, come sottolinea
l’attuale co. 3°: “Qualora sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla
normativa vigente, l’amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a
provvedere, prescrivendo le misure necessarie entro un termine non inferiore a 30gg per la loro
adozione.
In difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il termine, l’attività si intende
vietata.
Una delle questioni più dibattute sulla DIA (Denuncia di Inizio Attività) prima ed ora SCIA è la sua
natura. Una recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (15/2011) ha chiarito
che la SCIA “costituisce un atto privato” il cui scopo è “comunicare l’intenzione di intraprendere
un’attività direttamente ammessa dalla legge”; essa “non costituisce un provvedimento
amministrativo a formazione tacita”, non potendo pertanto dar luogo ad alcun titolo costitutivo, a
seguito dell'aggiunta del comma 6-ter all'art 19. Il 6-ter precisa poi che i soggetti che si ritengono
lesi potranno “sollecitare” i poteri di controllo della P.A.
I casi di attivazione di controlli amministrativi su sollecitazione privata si verificano spesso
nell'edilizia.
Il problema è comprendere quali rimedi siano esperibili: specie nel caso in cui i poteri di controllo
della P.a.
siano stati attivati e si risolvano negativamente.
Sembra potersi escludere che il privato possa proporre ricorso per ottenere l’annullamento
della SCIA, quando la P.A. ha deciso di non avviare i poteri su sua sollecitazione.
Potrebbe proporre azione di accertamento per verificare l’insussistenza dei presupposti su cui si
basa la SCIA.
1) espressione della superiorità del potere pubblico che decide e trasforma unilateralmente
situazioni giuridiche private;
2) dall’altro, espressione di garanzia, intesa alla tutela degli interessi del destinatario.
La tesi in esame presenta il grave difetto di indurre a ritenere che il provvedim. ammin
appartenga a una categoria teorica, generale e astratta, pienamente compatibile con gli assetti
ordinamentali e costituzionali, sottraendolo così ad una verifica di costituzionalità. Al contrario,
una riflessione sul provvedimento non può che collocare lo stesso nel contesto storico in cui si
trova ad agire.
L’istituto del provvedimento amministrativo pone problematiche di tipo teorico, dogmatico e pratico:
- si discute se possa esser emanato solo da P.A o anche da privati, dell’imperatività del regime di
validità.
- Anche determinare i soggetti cui è rivolto costituisce un aspetto problematico: non è chiaro se i
destinatari possano essere solo i privati, persone fisiche o giuridiche, o anche i soggetti pubblici.
- Si riconosce generalmente che una P.a. possa emanare un atto ammin rivolto nei confronti di
un’altra P.a.
- Invece non è chiaro se una P.a. possa emanare un provvedimento autoritativo nei confronti
di un’altra anch’essa dotata di poteri autoritativi, e se l’atto così emanato abbia i caratteri tipici
del provved ammin.
La locuzione “atto amministrativo” compare per la prima volta durante la Rivoluzione francese,
introdotta da Merlin, che la riteneva un’ordinanza, una decisione, azione o atto di una P.A nelle
sue funzione pubbliche. La nozione era tanto ampia da comprendere anche le operazioni e i
comportamenti dell’amministrazione. Dalla Francia tale nozione si diffuse in Germania e in Italia.
In Italia la locuzione comparve ad opera di Romagnosi e Manna. Nella legislazione la locuzione
comparve in primis negli artt. 4 e 5 della L. 2248/1865 , nella L. 5992/1889 si fece riferimento ad
“atti e provvedimenti di un Autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante”.
A seguito di dette disposizioni l’espressione “atto amministrativo” si stabilizzò in Juris ed in
dottrina.
La distinzione tra atti di imperio e di gestione comparve in Francia già in epoca rivoluzionaria
al fine di definire in quali casi fosse precluso al giudice di ingerirsi degli affari amministrativi.
In Italia la distinzione venne recepita da Romagnosi, che parlò, più che di atti di imperio, di atti di
autorità, per specificare il criterio di riparto fra giudici e organi del contenzioso amministrativo,
riservando al giudice la cognizione delle controversie nelle quali fosse stato adottato un atto di
gestione, un contratto, un atto patrimoniale, escludendo la cognizione di quello ordinario nelle
controversie in cui la P.A. fosse parte. L’interesse per la distinzione fu riattualizzato sia dalla Legge
abolitrice del contenzioso amministrativo sia da quella istitutiva della IV Sez del Consiglio di Stato,
conferendo all’atto amministrativo un ruolo centrale, in tema di riparto fra giudice ordinario e
amministrativo ed in tema di sindacato giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione.
La prima apparizione della locuzione “provvedimento amministrativo” si ha in Germania, nel 1845
grazie ad Otto Mayer, una traduzione dal francese acte admistratif, con connotazione autoritaria.
Il merito di Mayer è aver sviluppato il provvedimento amministrativo in una prospettiva sistematica.
Il suo metodo giuridico si fonda “sulla fede nel potere dei principi generali del diritto”. L’autore
risente della filosofia di Hegel: lo Stato è la realizzazione della ragione, persegue scopi
superindividuali e, per raggiungerli, può sacrificare la sua gente per la futura grandezza del
suo popolo.
La forma di Stato prevista nella sua teoria è quella autoritaria, dove tuttavia il monarca ha
concesso la Costituzione (non uno stato di polizia, bensì una sua legalizzazione), definito
“Stato moderno”.
Lo Stato è un fatto pregiuridico, la sua sovranità deriva dal potere, per questo è superiore al
diritto. Proprio per questo motivo non può essere persona giuridica, perché non esiste
alcuna norma giuridica superstatale che renda lo Stato tale. Al contrario esso è sovrano in
virtù di un potere pregiuridico.
Nella teoria mayeriana i poteri sono solo due: Legislativo ed Esecutivo, mentre Corona e Popolo
sono le due componenti del potere statale nella monarchia costituzionale.
Il Popolo occupa una posizione inferiore perché partecipa alla creazione della volontà
statale, mentre il contributo maggioritario è pur sempre quello del principe, l’esecutivo.
Tutte le altre attività dello Stato sono solo dei frammenti della sovranità statale, si sintetizzano
come potere esecutivo e si caratterizzano per il fatto di essere vincolate da qualsiasi norma
giuridica.
Pertanto legge e Amministrazione sono in rapporto gerarchico tra loro (legge dopo
amministrazione).
Mayer contesta anche le costruzioni consortili dello Stato, in particolare quella di Von Gierke,
secondo la quale lo Stato tedesco sarebbe identità di Stato e popolo. Un consorzio
comporterebbe una limitazione all’attività dello Stato, che è illimitata. Di fronte ad esso non vi
sono cittadini, ma sudditi.
Stabilito che i due poteri dello Stato sarebbero il legislativo e l’esecutivo, il secondo secondo
Mayer si articola a sua volta in Amministrazione e Giurisdizione, in posizione ugualitaria.
Per giustizia si intende quella ordinaria, ed esiste solo per applicare la legge. L’amministrazione
abbraccia invece tutte le attività statali che non costituiscono legislazione. Amministrazione e
giurisdizione sono parti di uno stesso potere e tale condizione preclude la possibilità che siano in
contrasto tra loro. L’amministrazione è controllata internamente della giustizia amministrativa.
Quest’ultima non è separata dall’amministrazione, ma interna ad essa e priva di tutti gli attributi
fondamentali della giurisdizione, quali l’indipendenza e l’imparzialità.
Con la Costituzione di Weimar il potere legislativo diventa il potere statale supremo, che non
spetta più al monarca bensì al Parlamento, quale organo rappresentativo della volontà
popolare.
L’idea mayeriana di Stato diventa quindi inadeguata. Questi tuttavia non accetta le nuove
conclusioni e tenta di salvare il suo modello affermando che il governo parlamentare non implica
che il titolare del potere esecutivo sia un organo subordinato rispetto alla rappresentanza
popolare.
Non riuscendo a giustificare la discrasia fra teoria e pratica, si limiterà a dire che la legge è
inadeguata a far fronte ai compiti amministrativi, quindi il potere esecutivo rimarrebbe autonomo
rispetto alla legge, che non potrebbe intervenire su di esso se non per indirizzarlo.
In definitiva il modello di Mayer è compatibile solo con la monarchia costituzionale, l'apporto
più significativo rimane aver individuato un legame indissolubile fra Stato, potere e
provvedimento ammin.
In Italia, alla fine dell’800, il filone liberale configura il provvedimento come espressione di
autorità, ma gli attribuisce un fondamento giuridico: una concezione agli antipodi rispetto a quella
di Mayer.
La dottrina successiva, nel tentativo di puntualizzare la nozione, distinse l’atto amministrativo, che
costituiva esercizio delle funzioni proprie della P.A. dall’atto di amministrazione, con il quale si
gestiva il patrimonio. Distinse inoltre fra atti amministrativi positivi e negativi, questi ultimi
consistenti in un obbligo di non fare; fra atti amministrativi generali, con la funzione di porre una
norma generale (quali i decreti e i regolamenti), e atti ammin speciali, definiti provvedimenti, coi
quali si applicano leggi e regolamenti ai casi particolari.
I provvedimenti amministrativi vennero distinti a loro volta in interni ed esterni, a seconda che
fossero diretti ad agenti subalterni o ai cittadini. La dottrina individuò i caratteri dell’atto
amministrativo nella discrezionalità, revocabilità, speditezza, sindacabilità e responsabilità, tutti
con efficacia giuridica derivante dal potere sovrano dell'autorità emanante. La dottrina in esame è
di Meucci.
Anche se per questi, come per Mayer, l'efficacia giuridica è giustificata dalla sovranità dello
stato, la distinzione risiede nell’individuazione del fondamento del potere autoritativo:
secondo Meucci ha un fondamento giuridico; secondo Meyer esso è pregiuridico.
L’ideologia politico-culturale di Meucci lo conduce ad escludere tutte le concezioni che
subordinano completamente il popolo allo Stato, così come quelle che ne esagerano la
forza (socialismo) o che esasperano la forza dell’individuo (Individualismo).
Secondo Meucci il popolo è la fonte della sovranità; la sua volontà è il potere costituente,
sebbene non sia volontà imperante.
Lo Stato è dunque una forza collettiva, un’istituzione necessaria, etica, naturale.
Il suo fine è la libertà individuale e la soddisfazione del bene comune.
La teoria di Meucci venne liquidata dalla dottrina successiva come contributo di scarso rilievo.
Al contrario, se adeguatamente sviluppata, avrebbe portato a riconoscere che il provvedimento,
per essere imperativo, deve rinvenire nella legge un fondamento esplicito.
Piuttosto la dottrina, per ricostruire la nozione di atto e di provvedimento amministrativo,
assunse come parametro di riferimento l’elaborazione teorica del negozio giuridico.
Anche per l’atto amministrativo si cominciò a distinguere fra elementi essenziali, naturali e
accidentali:
- Gli elementi essenziali e naturali vennero individuati come nel negozio, nel soggetto,
nell’oggetto, nella causa, nei motivi, nella finalità e nella forma;
La tendenza ad utilizzare la teoria del Negozio si protrasse fino ai nostri giorni, seppur non senza
criticità:
Una seconda critica si muove dall'idea che il privato agisca in parità con gli altri
consociati, mentre l’amministrazione si trova in una posizione di supremazia, che le
consente di adottare dichiarazioni unilaterali di volontà direttamente incisive e modificative
della sfere soggettive altrui.
Inoltre l’amministrazione si trova di fronte ad una pluralità di interessi pubblici e privati da
equilibrare, mentre il negozio giuridico privato non è idoneo a equilibrare interessi
contrapposti.
Sulla scorta di tali premesse Alessi suggerisce di individuare diverse tipologie di atti distinguendo
da un lato, il provvedimento, dall’altro, tutti quegli atti che non lo sono (ad es. certificazioni e
notificazioni).
degradazione dei
diritti esecutività
inoppugnabilità.
La ricostruzione di Giannini è stata condivisa dalla dottrina successiva, solo alcuni lo hanno
criticato. Ad es. si è contestato che il provvedimento abbia necessariamente struttura unilaterale,
che sia necessariamente imperativo , o che il provvedimento invalido abbia la stessa efficacia di
quello valido. In definitiva, secondo le parole di Scoca:
- Dal punto di vista della struttura è un atto unilaterale, esercizio di un potere unilaterale ed
autoritativo;
- dal punto di vista della formazione, è l’atto terminale del procedimento, segue la decisione e ne è
separato,
- dal punto di vista della disciplina è un atto la cui validità si basa sulla sua funzione e l'
efficacia è caratterizzata dalla esecutività.
Stato costituzionale di diritto è quello del secondo dopoguerra, con le Costituzioni moderne rigide.
Vige il principio di legalità in senso sostanziale (o in senso stretto); la legge condiziona l’esercizio
del potere
e ne determina il contenuto. Nel diritto amministrativo i provvedimenti sono sottoposti al principio
di tipicità e tassatività:
1) I provvedimenti amministrativi tipici sono solo quelli indicati come tali dal legislatore;
Inoltre il provvedimento, in quanto formale, è anche atto costitutivo. La costitutività può essere di 2
tipi:
Tale diversa natura della costitutività dà luogo alla distinzione degli atti formali in:
1) Atti precettivi: sono atti formali che consistono in un precetto, produttivo di prescrizioni
giuridiche. Essi sono sempre atti di esercizio di una situazione di potere.
Il provvedimento è un atto precettivo; però a volte è anche strumentale, nei casi in cui costituisce
l’esito di un subprocedimento, a sua volta strumentale alla formazione di un procedimento più
ampio.
La legge 241/90 sancisce che il provvedimento è l’esito (non necessario) del procedimento e, per
converso, che la sua emanazione presuppone un procedimento. Disciplina l’inizio e la
conclusione del procedimento, l’obbligo di motivazione, la necessità dell’istruttoria e le modalità
di partecipazione.
Può essere preceduto da una Conferenza di Servizi, da accordi fra P.A o accordi integrativi.
Per imperatività si intende l’attitudine del provvedimento a produrre effetti che incidono
unilateralmente nella sfera giuridica altrui producendo la costituzione, modificazione o
estinzione di situazioni giuridiche soggettive, senza alcun consenso o collaborazione da parte
dei suoi destinatari.
Non ha come conseguenza necessaria l’inoppugnabilità, vale a dire l’incontestabilità in sede
giurisdizionale, una volta decorso il termine di impugnazione di 60 o 30gg previsto dal legislatore.
Quindi l’imperatività non costituisce più espressione della sovranità dello Stato, ma rinviene il
suo fondamento in una norma legislativa espressa. Il fulcro diventa il principio di uguaglianza
ex art 3 Cost, che presiede all’esercizio della funzione amministrativa per abolire le
disuguaglianze sociali. Non è un carattere generale di tutti i provvedimenti amministrativi.
Il legislatore, nei casi in cui omette di conferire espressamente efficacia imperativa agli
effetti del provvedimento, ne configura uno non imperativo.
Contrariamente l’imperatività, pur non essendo una caratteristica di tutti i provvedimenti
amministrativi, non sussiste solo per i provvedimenti che restringono o limitano la situazione
giuridica del destinatario.
Anche quelli che la ampliano sono imperativi nei casi in cui il legislatore conferisce loro
l’idoneità a produrre gli effetti ampliativi senza il consenso o anche contro la volontà del
destinatario.
- è atto imperativo o autoritativo, perché produce effetti che operano subito nella sfera giuridica
altrui;
Tuttavia nel diritto amministrativo italiano nessuna legge definisce in generale la nozione di
provvedimento o ne individua gli elementi strutturali. Alcuni elementi si desumono dalle discipline
di specifici provvedim. Tuttavia tali norme non consentono di formulare una tipologia generale di
elementi strutturali o statici, perché sono discipline dettate per finalità particolari.
Si è sostenuto che un attendibile modello teorico andrebbe ravvisato nelle norme che disciplinano
il contratto e che individuano i suoi elementi essenziali: volontà, causa, oggetto, forma.
Secondo la tesi in esame, l’art. 21-septies della legge 241/90 prevede la nullità del
provvedimento per mancanza degli elementi essenziali, rinviando all’art. 1418 c.c., che
dispone la nullità del contratto per mancanza di uno dei requisiti essenziali ex art. 1325.
L’impostazione in esame non può essere condivisa: in realtà l’art. 21-septies non opera alcun
rinvio, né espresso né implicito, all’art. 1418 c.c. Non necessariamente il riferimento alla
nullità si traduce in un richiamo al regime della nullità del contratto.
Inoltre le 2 discipline hanno obiettivi diversi: per il contratto, il fine è evitare che i privati abusino
della loro autonomia; per il provvedimento, il fine è limitare gli abusi delle pubbliche autorità.
Non può sfuggire che il legislatore potrebbe modulare liberamente quelli che considera elementi
essenziali per un determinato tipo di provvedimento.
1) L’art. 21 septies della L. 241/90 contempla la nullità per i provvedimenti privi degli elementi
essenziali, presupponendo quindi l’esistenza di elementi essenziali del provvedimento.
2) L’art. 21 octies disciplina invece l’annullabilità del provvedimento, sancendo che è
annullabile quello adottato in violazione di legge, viziato da accesso di potere o da
incompetenza.
Da quest'ultimo articolo si può desumere che il legislatore presuppone l’esistenza di elementi
che, pur non essendo essenziali, sono pur sempre elementi del provvedimento: sono gli
elementi costitutivi.
La volontà
La dottrina che ha ricostruito il provvedimento sulla base del negozio giuridico ha conferito alla
volontà dell’amministrazione un ruolo essenziale, distinguendo tra meri atti e negozi giuridici: solo
per questi ultimi la manifestazione di volontà dell’ente produrrebbe effetti giuridici.
Altri autori, invece, distinguevano tra atti che costituiscono negozi di diritto pubblico, per i quali la
volontà dell’amministrazione è libera e discrezionale, e meri atti amministrativi per i quali la
volontà è vincolata.
Il distacco dalle teorie privatistiche del negozio giuridico ha condotto la dottrina a due stadi di
elaborazione:
In conclusione, la volontà non può ritenersi elemento essenziale del provvedimento, neppure
nella forma di volontà procedimentale, perché nessuna norma di legge gli conferisce rilevanza
giuridica.
Nella legge sul procedimento è presente la locuzione “volontà dell’amministrazione” (ad es. art. 14
ter co. 6), tuttavia l’espressione ha un significato del tutto generico, che non vale a connotarla
come autonomo elemento del provvedimento.
Pertanto la volontà non è né un elemento essenziale né un elemento costitutivo del
provvedimento.
La causa
La causa è uno degli elementi essenziali del provvedimento: secondo un cospicuo orientamento la
causa è il perseguimento dell’interesse pubblico, inteso come scopo concreto al quale il provved.
tende ed è emanato. La causa non è scindibile dall’atto, è l’idoneità dell’atto a produrre i suoi
effetti.
Così intesa, è dunque elemento essenziale, perché è il provvedimento in sé, la sua conformità alla
norma che lo rende idoneo a produrre i suoi effetti.
La motivazione
In origine si affermava che la motivazione consistesse nella indicazione dei motivi che hanno
indotto l’amministrazione ad adottare il provvedimento, e non era ritenuta necessaria negli atti e
nei provvedimenti. Secondo la Juris era necessaria nei casi previsti dalla legge, o in presenza di
un atto discrezionale.
Nel corso degli anni, per estendere il suo sindacato sui provvedimenti della P.A., la Juris aveva
elaborato numerose figure di eccesso di potere riferite alla motivazione (caso di mancanza o
insufficienza della stessa). Accanto alla suesposta “concezione formalista” della motivazione, ne
fu formulata una “sostanziale”, che riconduceva la motivazione ai concreti interessi pubblici
perseguiti dalla P.A.
Una delle conseguenze era la “dequotazione giudiziale” perché, potendo desumere la
motivazione dalla natura degli interessi pubblici soddisfatti col provvedimento, non era più
necessario esternarla formalmente. Veniva dunque meno la possibilità di annullare il
provvedimento privo di motivazione.
- ha stabilito il contenuto della motivazione indicandolo nei presupposti di fatto e nelle ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione;
L'art. 3 co. 1° si articola in una pluralità di statuizioni, di cui una principale e due secondarie:
E' disciplinato dall’art. 3 co. 1: la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze
dell’istruttoria:
I presupposti di fatto sono i fatti presi in considerazione dal diritto, giuridicamente rilevanti.
Le relazioni giuridiche sono argomentazioni di natura giuridica che conducono
all’adozione di una determinazione.
Il comma presuppone l’ammissibilità di una motivazione per relationem, imponendo alla P.A.,
quando le ragioni della decisione risultano da un atto richiamato nella stessa, di indicarlo e di
renderlo disponibile.
Originariamente qualsiasi vizio della motivazione integrava un eccesso di potere per difetto della
motivazione. A seguito dell’emanazione dell’art. 3 della l. 241/90, la situazione è completamente
cambiata:
I vizi per genericità, per illogicità, per contraddittorietà, per insufficienza, per
incongruità determinano l’illegittimità del provvedimento per eccesso di potere.
Il provvedimento privo di motivazione è considerato dalla Juris illegittimo per violazione di
legge.
In entrambe le ipotesi il provvedimento è qualificato come annullabile e non come atto nullo,
perché la giurisprudenza e la dottrina non considerano la motivazione un elemento essenziale,
ma solo costitutivo.
Fra gli elementi del provvedimento amministrativo vengono comunemente annoverati anche
l’oggetto e il contenuto, talvolta concepiti come un unicum, a volte come figure differenti.
L’oggetto:
L’oggetto è inteso anche come ciò che l’amministrazione intende realizzare, distinto dal
contenuto.
Per un orientamento sostiene che l’oggetto sia un dato sempre estraneo al provvedimento.
In realtà l’oggetto, inteso come il bene sul quale incide l’atto amministrativo, non ne costituisce un
elemento. Piuttosto gli atti costituiscono esercizio di poteri che esplicano effetti incidenti su
situazioni giuridiche soggettive altrui, costituendole, modificandole o estinguendole.
La forma
La forma non è l’atto in sé, ma un suo elemento. Nel diritto civile domina il principio di libertà delle
forme.
Per l’atto amministrativo:
Nelle prime elaborazioni predomina la convinzione che la forma sia una modalità di
manifestazione della volontà dell’amministrazione, che può essere anche non scritta.
Secondo Giannini occorre distinguere tra forma come manifestazione degli elementi singoli
che compongono un atto, ed esternazione: che è il modo in cu i l’atto nel suo complesso si
esteriorizza. Non esiste un principio della libertà delle forme, ma vi sono disposizioni
specifiche per alcuni.
Secondo Sandulli la forma è la veste sotto cui l’atto si presenta nel mondo esterno.
Un atto amministrativo non potrebbe esistere ove una manifestazione esteriore mancasse.
Nello Stato costituzionale di diritto gli atti che incidono unilateralmente e imperativamente nelle
sfere giuridiche altrui devono assumere una forma legale. Tre disposizioni poste dalla L.
241/90 ci aiutano:
2. Ex art. 21-bis: il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia
verso i destinatari con comunicazione effettuata con le forme per la notifica agli irreperibili
ex cpp
3. Ex art. 11 co. 2: gli accordi di cui al presente articolo debbono essere stipulati a pena di
nullità per atto scritto, salvo che la legge disponga diversamente”.
Con le tre norme comprendiamo che il provvedimento deve assumere necessariamente forma
espressa e scritta (su carta o supporto informatico). In definitiva, oggi la forma è un elemento
essenziale.
Gli elementi accidentali del provvedimento amministrativo: condizione, termine, modo
L’elaborazione dell’atto amministrativo, sotto il condizionamento della teoria del negozio giuridico,
copiò la distinzione fra elementi naturali ed accidentali tradizionalmente riferita ai negozi giuridici di
diritto privato. Secondo Lucifredi, apporre elementi accidentali all’atto amministrativo deriva dalla
necessità di:
Sulla scorta degli influssi della dottrina tedesca si è formato un orientamento che ritiene
apponibili gli elementi accidentali, purchè non alterino gli effetti tipici del provvedimento,
snaturandolo.
Il parametro di riferimento è costituito allora dal principio di tipicità del provvedimento
amministrativo. Sarà possibile apporre tanto una condizione ed un termine; non invece un
modus, perché presuppone l’esistenza di un atto di liberalità, qualifica che non può assumere
un provvedimento amministrativo.
Anche il provvedimento amministrativo, come ogni altro atto giuridico, può esplicare i suoi effetti
nel tempo.
L’efficacia temporale pone la questione della decorrenza degli effetti, nonché sulla loro durata.
Per la determinazione del tempo a decorrere dal quale un atto esplica degli effetti abbiamo:
- effetti immediati;
- effetti differiti;
- effetti retroattivi.
- effetti istantanei;
- effetti di durata (o a scadenza o a termine);
- effetti permanenti.
Il provvedimento amministrativo a effetti immediati è quello che produce effetti giuridici al
momento della sua emanazione o al momento della sua perfezione (qualora per essere efficace
deve essere controllato) o al momento della sua comunicazione all’interessato (qualora si tratti di
un provvedimento recettizio).
Si è sostenuto anche che il provvedimento non ha effetti retroattivi perché solo al legislatore è
riconosciuta la possibilità di disporre che gli effetti si producano anche per il passato.
E' stato affermato che i provvedimenti ampliativi o comunque favorevoli, privi di controinteressati,
potrebbero avere efficacia retroattiva, mentre una siffatta efficacia sarebbe preclusa a quelli volti
ad incidere negativamente sulle posizioni del destinatario.
La possibilità che l’amministrazione emani un provvedimento con effetti retroattivi comporta la
configurabilità di un potere amministrativo che possa stabilire anche il momento a decorrere
dal quale il provvedimento può produrre i suoi effetti. Sarebbe la legge ad escludere i casi in
cui limitare tale potere.
I limiti al potere di emanare un provvedimento retroattivo sono quelli legislativi e non altri:
limiti espressi: il legislatore vieta espressamente alla P.A. di conferire effetti
retroattivi ad un provvedimento.
Il provvedimento retrodatato
Il provvedimento retrodatato reca, come data di emanazione, una data diversa e anteriore a
quella della sua effettiva adozione. Un provvedimento retrodatato può esplicare indifferentemente
effetti immediati, differiti o retroattivi. La retrodatazione è solo una vicenda che attiene alla
apposizione della data al provvedimento.
Si posso configurare due tipi diversi di provvedimento amministrativo ora per allora:
A) Il provvedimento ora per allora per successione di norme, emanato in conformità alla
normativa vigente in un tempo passato, ma in contrasto con quella in vigore al momento della sua
adozione. Può essere ulteriormente diviso in:
- Nei provvedimenti amministrativi a contenuto vincolato, ove gli interessi sono individuati in sede
normativa, la relazione di rilevanza giuridica si ha non appena gli interessi sono acquisiti nel
procedimento.
Si emanerà un provvedimento amministrativo ora per allora ogni volta che, prima del
verificarsi di una sopravvenienza di fatto e di diritto, nel corso del procedimento
amministrativo:
in presenza di una funzione amministrativa vincolata nell’an, nel quomodo e nel quando,
venga presentata una richiesta volta a conseguire il provvedimento amministrativo,
corredata dagli atti che attestino l’esistenza di tutti i presupposti e requisiti richiesti
Affinché il giudice possa tenere conto delle sopravvenienze di fatto accadute nella fase
introduttiva, le parti debbono introdurle, altrimenti rimarranno estranee e non potranno essere
prese a base della pronuncia. I canali di ingresso delle sopravvenienze di fatto nel processo
amministrativo possono essere:
Diretti: solo avvalendosi degli atti tipici della fase introduttiva del processo. Con la
chiusura di questa fase non è più possibile alcun inserimento diretto.
Indiretti e Surrettizi: nel corso della fase istruttoria attraverso l’acquisizione di una
prova o l’esperimento di un mezzo di prova, che valgano ad accertare il fatto mutato.
Non esistono altri elementi con i quali inserire le sopravvenienze nel processo.
Quanto alle sopravvenienze di diritto, inerenti l’oggetto del giudizio, che eventualmente si
verifichino nel corso della fase introduttiva, non ricevono alcuna preclusione o limite.
Le sentenze del Giudice amministrativo sono idonee a precludere e limitare i vari tipi di
sopravvenienze, poiché innescano, a seconda della natura della loro statuizione, una
preclusione processuale oppure una limitazione di natura sostanziale. Infatti nella sentenza
passata in giudicato convivono due elementi logici:
1) una statuizione con efficacia esecutiva (come quella della sentenza di 1° del TAR),
cioè sulla qualificazione dei fatti;
2) l' irretrattabilità della stessa, di modo che nessun soggetto e nessuna sopravvenienza possa
pronunciarsi una seconda volta sulla questione su cui c'è già il provved definitivo.
Ipotesi in cui la P.A. deve emanare un provvedimento ora per allora di diritto
intertemporale:
3) quando, in presenza di un’attività amministrativa vincolata nell’an, nel quomodo e nel quando,
dopo che la richiesta sia validamente presentata dall’interessato, intervengono sopravvenienze di
fatto e di diritto. Ciò perché la maturazione della funzione amministrativa si realizza già nella fase
vincolata del procedim.
4) quando le mutazioni di fatto e di diritto avvengono dopo l’avvio di una funzione amministrativa
discrezionale che si canalizzi nell'unica direzione possibile. La consumazione della discrezionalità
comporta infatti l’anticipazione della maturazione della funzione amministrativa.
L’efficacia soggettiva del provvedimento delimita la sfera dei soggetti che ne risentono gli effetti.
Si vuole sostenere che il provvedimento incida solo sui destinatari, ma tale conclusione risulta
essere il frutto della concezione negoziale del provvedimento.. Superando detta concezione
distinguiamo tra:
effetto diretto: si produce nei confronti dei destinatari del provvedimento, modificando
le loro situazioni giuridiche soggettive;
effetto indiretto: si produce nei confronti dei terzi, incidendo sulle loro situazioni giuridiche
soggettive con un effetto legato alla modifica di quelle dei destinatari dell’effetto diretto;
o L’efficacia preclusiva è quella che prescinde dal passato e fonda una situazione giuridica
originaria la cui validità non è condizionata dall’esistenza di un rapporto di derivazione da uno
stato giuridico anteriore.
Eseguibilità o esecutività
Sulle nozioni di eseguibilità e di esecutività v'è incertezza, dato che dottrina, giurisprudenza e
legislazione le hanno usate senza conferirgli un significato preciso: a volte come sinonimi, altre
come opposti. L’eseguibilità o l’esecutività, secondo un diffuso orientamento, è l’idoneità del
provvedimento efficace ad essere eseguito, non essendoci cause ostative (di diritto o di fatto).
Il provvedimento eseguibile o esecutivo, quando ha carattere costitutivo, produce
automaticamente l’effetto che la legge vi ricollega; invece, quando ha bisogno di atti/attività
attuative, impone alla P.A. di provvedervi.
Va annoverata anche la tesi di chi ha ritenuto di dover distinguere tra esecutività ed eseguibilità:
Invece degna di nota è la tesi secondo la quale l’eseguibilità o esecutività indica la caratteristica
del
provvedimento a produrre effetti giuridici immediati (distinti dagli effetti differiti e dagli effetti
retroattivi).
Questa impostazione sembra recepita dal legislatore che all’art. 21 quater l. 241/90, rubricato
“Efficacia ed esecutività del provvedimento amministrativo”, prevede che i provvedimenti
amministrativi
efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo diversamente stabilito dalla legge o dal provvedim.
medesimo.
La norma porterebbe ad identificare il provvedimento eseguibile (o esecutivo che dir si voglia) col
provvedimento immediatamente efficace.
Esecutorietà
Indica l'idoneità di un atto giuridico ad essere eseguito anche contro la volontà del suo
destinatario, senza preventivo giudizio di cognizione. Va distinta dall’efficacia: un atto è efficace
quando è idoneo a produrre effetti giuridici nel mondo esterno all’autore dell’atto, ma poi gli atti (ivi
compresi i provvedimenti) possono essere tanto autoesecutivi quanto eteroesecutivi:
- l’atto autoesecutivo produce effetti automaticamente quando è idoneo con la sola emanazione
a produrre l’effetto desiderato e non vi sia un problema di adeguamento della realtà esterna.
- l’atto eteroesecutivo si ha quando per essere efficace deve produrre una modifica del mondo
esterno, con la conseguenza che, in caso di inosservanza da parte del destinatario, sarà
necessario che venga attuato.
Quello politico è stato ravvisato nella necessità di soddisfare i fini generali; invece
l’individuazione del suo fondamento giuridico è stata oggetto di intenso dibattito, con diverse
interpretazioni.
Nelle prime ricostruzioni il potere di eseguire coattivamente i provvedimenti amministrativi
è stato ricondotto all’essenza stessa del potere dell’amministrazione, frutto della sovranità
dello Stato.
Su di un piano diverso vi sono quegli autori che hanno riconosciuto all’esecutorietà natura di
carattere solo eccezionale del provvedimento, presente solo nei casi e secondo le modalità
legali:
taluni hanno ritenuto l’esecutorietà come una manifestazione del potere di autotutela della
p.a., giacché l’amministrazione, quando esegue i suoi atti, non realizza pretese ma cura
interessi pubblici;
altri hanno sostenuto che anche l’esecutorietà è soggetta al principio di legalità e l’hanno
configurata come un potere autonomo, connotato non automatico di tutti i provvedimenti.
Proprio quest’ultima direzione interpretativa è stata recepita dal legislatore che, all’art. 21 ter l.
241/90 ha stabilito che “nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le P.A possono imporre
coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti”.
La distinzione comunque ha ormai valenza solo didattica data l’interferenza tra diritto privato e
pubblico. Del resto le funzioni possono essere esercitate anche con strumenti consensuali e non
autoritativi, soprattutto dopo che la legge sul procedimento del 2005 consente di concludere in
qualsiasi caso accordi con i privati. Viceversa, anche i servizi possono avere bisogno di un’attività
in parte pubblicistica: ove l’amministrazione voglia esternalizzare il servizio avrà bisogno di una
gara ad evidenza pubblica.
I nulla osta sono atti di autorizzazione che intercorrono tra più amministrazioni, una
delle quali autorizza l’altra al compimento di certe attività o all’acquisto di beni.
4) La dispensa è l’atto con cui il destinatario viene esentato da un obbligo previsto ex lege,
perché è la stessa legge che consente alla P.A., con valutazione discrezionale, di dispensarlo (es.
da obblighi scolastici).
Vi sono poi provvedimenti che producono effetti negativi nei confronti dei destinatari, riducendo in
maniera coattiva e unilaterale la sfera giuridica. Proprio in ragione di ciò, è evidente che tali
provvedimenti sono sottoposti a particolari cautele quanto alla loro emanazione e alla loro
efficacia.
Ad essi, in particolare, andrà applicata inderogabilmente la disciplina sulla partecipazione
procedimentale (artt. 7 ss.), sulla motivazione (art. 3), sull’efficacia del provvedimento limitativo
(art. 21 bis). Essi sono:
1) gli atti estintivi di un diritto: sono di varia natura, ma hanno tutti in comune il trasferimento
a titolo definitivo di un diritto dal proprietario all’amministrazione. Essi sono:
Discorso a parte va fatto per le sanzioni disciplinari in materia d’impiego presso le pubbliche
amministrazioni, in quanto si tratta di violazioni del rapporto contrattuale compiute da soggetti
in una peculiare posizione nei confronti dell’amministrazione. Esse sono:
5) la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione oltre 10 giorni fino a un massimo
di 6 mesi,
I provvedimenti possono essere classificati non solo in base al loro contenuto, ma anche in base
al numero dei soggetti che li emanano o verso cui sono diretti. Distinguiamo:
- l’atto collegiale è adottato da un organo composto da più persone fisiche, che
delibera secondo un procedimento specifico, poiché la deliberazione è assunta
acquisendo l’opinione di ciascuno. Sussistono perciò regole specifiche per la
convocazione dell’organo, la redazione dell’ordine del giorno, il numero dei presenti e dei
votanti, la votazione, la deliberazione e la verbalizzazione.
- l’atto complesso o pluristrutturato viene emanato con l’azione integrata di più
Organi od Enti. Si pensi alla “determinazione motivata di conclusione del procedimento”
ex art. 14 quater della legge sul procedimento o agli accordi tra pubbliche
amministrazioni ex art. 15.
A seconda del numero dei destinatari del provvedimento, invece, oltre agli atti individuali
sussistono:
Gli atti generali hanno destinatari indeterminabili al momento della loro emanazione e
hanno una disciplina specifica (es. atti di pianificazione urbanistica , bilanci)
Gli atti con destinatari plurimi si rivolgono ad un numero ampio, ma non generale di
destinatari e si distinguono, a loro volta, in scindibili ed inscindibili:
1. l’atto scindibile produce effetti separati e distinti per i singoli destinatari, e la sorte
dell’uno non sempre incide sull’altro. Es la destituzione di un membro di commissione
non provoca la revoca degli altri
2. L'atto inscindibile ha una tale unità che la sorte dell’uno incide sull’altro.
Ad es. lo scioglimento di un Consiglio comunale: se il TAR dà ragione ad un consigliere
che aveva proposto ricorso avverso il provvedim di scioglimento, tutto il Consiglio sarà
interamente ricostituito
1) Atti di conoscenza: sono attestazioni da parte della P.A. di fatti o atti che le sono noti per
una propria attività. Sono tali tutti i tipi di certificazione, peraltro sono tutti oggi sottoposti alla
disciplina dell’autocertificazione, secondo cui sono autocertificabili tutti gli stati di fatto e qualità
personali.
Vengono esclusi dalla disciplina del D.p.r. 445/2000 solo i certificati medici, sanitari, veterinari, di
origine, di conformità CE, di marchi o brevetti.
2) Atti di giudizio: esprimono una valutazione su fatti o persone in base a regole giuridiche
o abilità professionali. Sono tali i pareri, le consulenze tecniche, gli esami scolastici o di un
pubblico concorso.
3) Atti di sentimento o desiderio: sono quegli atti con cui l’amministrazione esprime una propria
aspirazione che potrà essere o meno accolta da un’altra P.A. Sono tali le proposte o le
designazioni, cioè l’indicazione di una rosa di nomi da parte di un’amministrazione nei confronti
di un’altra che in quel novero dovrà scegliere un soggetto da nominare ad un incarico pubblico.
Il potere atipico delle ordinanze
Si è detto più volte che i poteri amministrativi e quindi anche i relativi provvedimenti sono tutti
tipici. Sussiste, tuttavia, una categoria di provvedimenti come le ordinanze che, per far fronte ad
esigenze urgenti, derogano al principio di tipicità, nel senso che la norma individua l’autorità
competente ad emanarle ma non il loro contenuto, vista l’imprevedibilità degli eventi a cui
l’ordinanza deve far fronte.
A questi casi negli ultimi anni si sono affiancate numerose altre ipotesi di ordinanze atipiche.
Infatti, in nome dell’emergenza, la norma attribuisce all’autorità amministrativa un potere
innominato e in deroga alle regole ordinarie: esempi si riscontrano nella protezione civile,
nell’emergenza ambientale, nella disciplina dei c.d. grandi eventi, nel commissariamento degli
appalti per le opere pubbliche strategiche per lo sviluppo del Paese. Evidentemente la
giurisprudenza costituzionale e amministrativa è molto attenta ai limiti al potere di ordinanza, che
deve attenersi ai principi generali dell’ordinamento, ma anche alla tutela dei diritti personali e ai
principi fondamentali di tutela giurisdizionale.
LE PATOLOGIE PROVVEDIMENTALI
Nel diritto amministrativo, la validità del provvedimento amministrativo risiede nella sua conformità
alla fattispecie normativa che lo disciplina, ma altresì nel pieno rispetto dei principi sulla potestà
discrezionale. Ci si riferisce quindi a quelle fattispecie più o meno difformi rispetto al modello
legale, tenendo conto, tuttavia, che nella prospettiva dell’agire amministrativo, l’invalidità non
costituisce la negazione logica della validità, ma piuttosto una fattispecie autonoma produttiva di
propri effetti giuridici (Giannini).
La circostanza che l’invalidità costituisca una fattispecie autonoma produttiva di propri effetti
giuridici implica l’esigenza d'accertamento del regime giuridico degli stati anormali del
provvedimento.
Diversamente, in diritto privato la materia trova una specifica regolamentazione in base alla quale
si devono distinguere nell’invalidità la nullità e l’annullabilità: l’una con affezioni più gravi, l’altra di
gravità minore. La nullità è caratterizzata dalla inidoneità dell’atto a produrre i suoi effetti sin
dall’origine e può essere accertata in ogni tempo, per iniziativa di qualsiasi soggetto; non può
essere convalidata, bensì convertita. L’annullabilità a sua volta comporta la produzione
provvisoria degli effetti sino a quando venga dichiarata; l’annullamento può essere pronunciato
solo entro termini stabiliti e per iniziativa unicamente delle parti legittimate; è consentita la
convalida.
Il regime delle invalidità nel diritto amministrativo si era formato per via giurisprudenziale sulle
norme che disciplinavano le modalità di reazione all’esistenza dei vizi degli atti amministrativi e
alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive attraverso l’annullamento dell’atto impugnato.
I contenuti, i presupposti sostanziali di quelle norme erano evidentemente da identificare con
i vizi, le difformità dell’atto rispetto alle prescrizioni della legge, e gli atti che non le rispettano
sono contrari al principio di legalità, dunque illegittimi, per i quali l’ordinamento riconduce
alcune conseguenze.
La prima e naturale conseguenza è quella di non consentire la produzione degli effetti giuridici
dell’atto o che siano cancellati gli effetti già prodotti.
A seconda della gravità della violazione e della rilevanza della norma violata, il regime di invalidità
degli atti comporterà conseguenze diverse e graduabili: esistono perciò diverse tipologie di
invalidità.
L’irregolarità
Può accadere che la violazione della norma riguardi una semplice prescrizione formale, tale
da non fare giudicare la difformità determinante ai fini della vitalità ed efficacia dell’atto.
Il legislatore o i giudici in sede di applicazione possono ritenere che la non gravità della
violazione non sia idonea a provocare l’invalidità dell’atto: in questi casi si attribuisce alla
semplice violazione formale il valore di irregolarità e non di invalidità, facendo prevalere la
finalità dell’esistenza dell’atto e della produzione dei suoi effetti, pur essendoci una lieve
difformità dalla legge.
Illiceità e illegittimità
Illegittimità e invalidità
Spesso nell’uso corrente i termini “illegittimità” e “invalidità” vengono utilizzati come sinonimi, ma
essi in realtà hanno significati diversi. Infatti:
- L’illegittimità è la condizione in cui si trova l’atto ritenuto non conforme alle regole che lo
disciplinano.
L’invalidità è quindi il regime giuridico che deriva dalla difformità dell’atto dalla legge, che si
applica in caso di illegittimità. Eppure le conseguenze dell’illegittimità dell’atto non sono
automatiche. Ci sono anche:
- atti sottoposti al regime di invalidità pur non essendo illegittimi (atti viziati nel merito),
Nel primo caso la valutazione sulla validità dell’atto tiene conto dell’idoneità del comportamento
amministrativo alla cura dell’interesse pubblico, in quanto elemento prevalente nell’esercizio del
potere amministrativo; nel secondo caso, pur essendo l’atto difforme dalle regole che lo
disciplinano (cioè illegittimo), l’annullabilità è esclusa dalla legge per salvaguardarne gli effetti,
diretti a conseguire comunque l’interesse pubblico.
Annullabilità e nullità
Il giudizio sulla validità del provvedimento privilegia gli aspetti collegati alla correttezza
dell’esercizio del potere e all’idoneità del comportamento dell’amministrazione a perseguire
l’interesse pubblico, rispetto alla verifica di conformità delle disposizioni sulla struttura dell’atto, ai
vizi della volontà o dell’esternazione.
Nel diritto amministrativo il sistema delle invalidità si è formato essenzialmente in sede
giurisprudenziale e sulla base della disciplina processuale dell’art. 26 T.U. Consiglio di Stato, che
individua i tre vizi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere, e dell’art. 45 che
prevede la conseguenza dell’annullamento per l’atto illegittimo impugnato.
Con la L. 15/05 il legislatore inserisce nella disciplina sul procedimento amministrativo il Capo IV
bis, dedicato alla efficacia e alla invalidità del provvedimento amministrativo, descrivendo per la
prima volta la disciplina dell’annullabilità e della nullità del provvedimento. Alla luce di questa
disciplina vengono delimitate le cause di annullabilità nei loro contenuti (art. 21 octies), a seguito
dell’introduzione di cause di nullità (art. 21 septies) e di ipotesi di non annullabilità (art. 21 octies
co. 2°).
I vizi di legittimità
1) Incompetenza
2) Violazione di legge
3) Eccesso di potere
I quali però rappresentano più una categoria ove rientrano casi e fattispecie riconducibili ad
ognuno dei tre. L’attività amministrativa è sottoposta alla legge, che ne disciplina la competenza, i
presupposti, le forme, il procedimento, gli effetti, le finalità dell’azione.
Qualsiasi deviazione da tali norme o principi determina l’illegittimità dell’azione amministrativa.
L’annullabilità è dunque la situazione tipica del diritto amministrativo.
L’incompetenza
Quando invece l’organo che non è competente ad emanare il provvedimento non fa neanche parte
della P.A. detentrice del potere, si ha incompetenza assoluta e comporta la nullità del
provvedimento per difetto assoluto di attribuzione (art. 21 septies).
Quindi il vizio di legittimità cui consegue l’annullabilità si ha nei soli casi di incompetenza
relativa per materia, per grado, per territorio, per valore, inoltre il vizio di incompetenza si può
ravvisare quando si verifica un difetto di legittimazione dell’organo decidente.
La violazione di legge
Spesso questo vizio viene considerato residuale, ad indicare che ad esso sono riconducibili tutte le
ipotesi di violazione delle norme che non determinando né incompetenza né eccesso di potere.
D’altra parte è evidente che non è possibile elencare tutti i casi in cui si configuri la violazione di
legge: a titolo esemplificativo, sono riconducibili ad essa la mancanza di motivazione del
provvedimento visto l’obbligo ex art. 3 l. 241/1990 o la mancata richiesta di un parere
obbligatorio.
L’eccesso di potere
L’eccesso di potere in realtà ricomprende in sé una serie di casi eterogenei emersi dalla
dottrina e dalla giurisprudenza. Quando nel 1889 venne istituita la IV Sezione del Consiglio di
Stato, l’eccesso di potere indicava il caso in cui l’amministrazione avesse superato i limiti del
potere ad esso attribuito.
Tuttavia, di fronte alla difficoltà nel ricercare l’illegittimità intrinseca del provvedimento, il
giudice amministrativo ha introdotto figure sintomatiche per consentire una adeguata
cognizione della legittimità sostanziale del provvedimento, e cioè:
a) la contraddittorietà palese tra due atti o all’interno dell’atto (tra motivazione e dispositivo)
b) l’illogicità manifesta
c) la disparità di trattamento
e) l’ingiustizia manifesta.
Le figure sintomatiche dell’eccesso di potere si sono col tempo rese autonome rispetto allo stesso
sviamento di potere ed hanno finito per rappresentare situazioni che comportano di per sé
l’illegittimità, indipendentemente dal rinvio ad altri difetti di cui costituirebbero sintomo.
Di recente, l’eccesso di potere ha assunto una valenza più generale inglobando tutte quelle ipotesi
in cui la decisione o il procedimento dell’amministrazione si dimostrino contrari ai principi
dell’ordinamento, come la ragionevolezza e la proporzionalità, anche in ragione dell’applicazione
dei principi comunitari:
I vizi di merito
L’atto è viziato nel merito quando è ingiusto, inopportuno o comunque non conforme al criterio
di buona amministrazione, pur non presentando difformità sul fronte della legittimità.
Se l’illegittimità è la difformità dell’atto dal paradigma normativo costituito dalle norme di
azione, l’illegittimità per vizi di merito si verifica nei casi in cui la scelta discrezionale confligge
coi criteri non giuridici della opportunità e della convenienza. Il vizio di merito rileva solo nei
casi previsti dalla legge.
La nullità
L’espresso riconoscimento dei casi di nullità del provvedimento amministrativo è avvenuto solo
con la Legge
15/05 che ha modificato la legge del 1990. L’art. 21 septies dispone oggi che: “è nullo il
provvedimento che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di
attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché degli altri casi
espressamente previsti dalla legge”. Va ricordato che i casi di nullità sono residuali rispetto a
quelli di annullabilità.
La legge del 1889 che attribuiva alla IV Sezione del Consiglio di Stato il potere di annullare gli atti
non faceva riferimento alla possibilità di dichiararne la nullità, bensì disponeva che la pronuncia
sull’illegittimità (quindi d'annullamento) potesse avvenire solo su ricorso.
La dottrina cominciò ad esaminare casi in cui il difetto del provvedimento fosse così clamoroso da
impedirne la sua considerazione come espressione della volontà della P.A. ovvero il caso di atto
inesistente.
La Corte di Cassazione ha introdotto poi la nozione di carenza di potere, sostenendo che se
l’amministrazione pretende di esercitare un potere che non le è stato conferito dalla legge,
l’atto non può esistere come atto amministrativo e dunque non può produrre effetti.
In seguito si ampliò la portata della carenza di potere anche ai casi in cui la legge attribuisce il
potere, ma subordina il suo esercizio a presupposti precisi, in assenza dei quali il potere (in
astratto esistente) non può essere esercitato in concreto: ad es. la dichiarazione di pubblica
utilità rispetto all' espropriazione.
Nella casistica della giurisprudenza amministrativa vennero poi prese in considerazione le ipotesi
di atti adottati in violazione o in elusione del giuridicato, affermando che atti difformi dal giudicato
sarebbero nulli. La tendenza della giurisprudenza era comunque molto restrittiva circa le situazioni
di nullità degli atti, e per diverse ragioni:
- perché si riteneva che il giudice amministrativo non avesse giurisdizione in queste ipotesi,
non potendo pronunciare sentenze di accertamento;
quanto alla tutela giurisdizionale, l’art. 31 co. 4 c.p.a. disciplina un’azione di declaratoria
di nullità davanti al giudice amministrativo, che può essere proposta entro 180 giorni.
Quanto alla nullità che deriva dalla violazione o elusione del giudicato, l’art. 114 c.p.a. precisa
che il giudice possa dichiarale nell’ambito del giudizio di ottemperanza, senza necessità di un
giudizio a sé ed entro il termine di prescrizione di 10 anni dal passaggio in giudicato della
sentenza.
Si riconosce dunque la possibilità di una pronuncia di accertamento in capo al giudice
amministrativo.
Gli atti che nel procedimento precedono il provvedimento finale sono preparatori, posti in
funzione di questo: per questo motivo sono detti atti endoprocedimentali.
Secondo l’impostazione tradizionale, l’illegittimità si manifesta solamente all’interno del
provvedimento in quanto questo solo è in grado di incidere con il suo carattere autoritativo sulla
situazione giuridica soggettiva, mentre gli atti endoprocedimentali, in quanto atti interni del
procedimento, non sarebbero in grado di ledere le posizioni soggettive dei privati. Pertanto solo il
provvedimento potrà costituire oggetto di impugnazione da parte di chi ritenga di aver subito una
lesione dall’azione amministrativa.
Tuttavia negli ultimi anni il ruolo assunto dal procedimento (soprattutto per la valorizzazione delle
garanzie dei privati) ha portato ad ampliare l’ammissibilità di ricorsi contro l’illegittimità di atti del
procedimento. L’ordinamento ha infatti ammesso che i comportamenti tenuti dall’amministrazione
all’interno del rapporto che si istaura con i privati che hanno un interesse rilevante nel
procedimento sono tali da poter ledere le situazioni giuridiche soggettive ex art. 21 octies.
Va precisato però che, allo stato attuale, la dottrina non riconosce in generale autonomia ai
c.d. interessi procedimentali, cioè quegli interessi che attengono a fatti del procedimento.
Così al momento il comportamento della P.A. lesivo delle norme procedimentali rischia,
dunque, di rimanere talvolta senza tutela e privo di conseguenze. Ciò non toglie che alcuni di
casi di violazione delle disposizioni procedimentali assumano tale importanza da ottenere un
loro spazio all’interno dei vizi dell’azione amministrativa.
Il co. 2° introduce nel regime dell’annullabilità degli atti amministrativi una novità fondamentale:
Il problema è allora stabilire cosa succede nel caso in cui la P.A. non provveda nei termini stabiliti.
Quando l’amministrazione non provveda o non provveda nei termini, si ha c.d. silenzio-
inadempimento, nei confronti del quale è previsto un rimedio processuale del soggetto
interessato al provvedimento davanti al giudice amministrativo per sanzionare il
comportamento dell’amministrazione contrario all’art. 2 (art. 21 bis della legge T.A.R.)
La L. 69/09 ha introdotto una specifica conseguenza sanzionatoria nei confronti
dell’amministrazione che non osserva i termini del procedimento, prevedendo
espressamente la possibilità di richiedere il risarcimento del danno da ritardo.
Una ulteriore modifica dell’art. 2 è stata introdotta col d.l. 5/2012, che introduce una nuova
disciplina relativa alle conseguenze dei ritardi delle amministrazioni, da cui possono derivare
la responsabilità disciplinare e amministrativa del dirigente e del funzionario inadempiente, e
ciò costituisce elemento di valutazione delle performance individuali. Viene anche previsto un
potere sostitutivo in caso di inerzia, da affidare al dirigente/funzionario di più elevato livello.
Infine è prevista anche la nomina eventuale di un commissario quando non abbiano
rispettato ulteriori termini rispetto a quelli originariamente previsti per concludere il
procedimento
- Quando esistono ragioni di impedimento della comunicazione per particolari esigenze di urgenza
e celerità
L’art. 21 octies comma 2° accoglie espressamente questa visione non formalista dell’obbligo ex
art. 7: si afferma la prevalenza della sostanza sulla forma nel momento in cui si nega l’annullabilità
del provvedimento (pur sempre illegittimo perché difforme dalla norma) ogniqualvolta sia
dimostrato in giudizio che la comunicazione di avvio del procedimento, e la conseguente
partecipazione al procedimento del privato, non avrebbe modificato il contenuto del
provvedimento.
La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza
La legge 15/05 ha introdotto nella L. 241/90 l’art 10-bis, che dispone che nei procedimenti ad
istanza di parte il responsabile del procedimento o l’organo competente, prima di adottare il
provvedimento di diniego, deve comunicare tempestivamente a coloro che hanno presentato
l’istanza i motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza. I soggetti interessati, entro 10gg dal
ricevimento della comunicazione, hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni,
eventualmente corredate da documenti.
La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (debbono essere motivati)
interrompe i termini previsti per la conclusione del procedimento, che ricominciano alla
scadenza dei 10gg.
Infine sono previste le eccezioni delle procedure concorsuali e dei procedimenti in materia
previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanze di parte, poiché è coinvolto un gran
numero di soggetti.
I procedimenti di secondo grado sono quei procedimenti che ne hanno ad oggetto precedenti
procedimenti, quando la P.A. decide di intervenire nuovamente sulla medesima questione,
perché è ancora titolare dello stesso potere e conserva la disponibilità degli effetti prodotti dal
primo provvedimento.
Il punto di partenza per comprendere la funzione di tali procedimenti è considerare che
l’amministrazione deve costantemente perseguire l’interesse pubblico, assicurandogli la
maggiore soddisfazione possibile.
In ragione di ciò sottopone l’atto precedente ad una verifica di validità, ovvero i suoi effetti ad una
verifica di corrispondenza all’interesse pubblico. Secondo autorevole dottrina, infatti, la categoria
dei procedimenti di secondo grado deve ripartirsi in due sottocategorie:
1) procedimenti di riesame, con i quali la P.A. riesamina i propri atti verificandone la validità;
2) procedimenti di revisione, nei quali si verifica il risultato dell'atto emanato, cioè gli effetti
prodotti.
In realtà anche nei procedimenti di riesame l’amministrazione deve guardare alla conformità
all’interesse pubblico dell’assetto di interessi prodotto dall’atto, sicchè sembra più giusto
inquadrare tutte le figure in esame nell’unica categoria dei procedimenti di secondo grado o di
riesame.
A questo punto bisogna domandarsi quale sia il fondamento del potere di riesame.
Solo con la legge 15/2005, integrativa della l. 241/1990, nel nostro ordinamento sono stati
disciplinati espressamente alcuni provvedimenti di secondo grado: ciò nel Capo IV bis, artt. da 21
bis a 21 nonies. Fino ad allora i provvedimenti di secondo grado erano pacificamente ammessi
da giurisprudenza e dottrina, ma privi di qualsivoglia fondamento normativo. Il problema del
fondamento del potere di riesame si poneva in particolare per l’annullamento e per la revoca,
provvedimenti coi quali si dispone autoritativamente e unilateralmente il ritiro di un precedente
atto, potendo ciò anche incidere negativamente sulla sfera giuridica dei terzi che avevano
confidato nella stabilità del provvedimento di primo grado.
La giurisprudenza aveva posto una serie di regole da rispettare per adottare legittimamente un
provvedimento di 2° grado (obbligo di motivazione, di considerazione delle “posizioni favorevoli”,
ecc.). Ma il problema era quello di conciliare un potere così autoritativo ma non previsto dalla
legge con il fondamentale principio di legalità: la Juris e la maggior parte della dottrina rinvennero
la soluzione nel concetto di autotutela, cioè la facoltà riconosciuta all’amministrazione di
intervenire direttamente per poter tutelare i propri interessi, senza che sia necessaria
l’intermediazione di una autorità giurisdizionale. In realtà l’amministrazione non tutelerebbe se
stessa, ma l’interesse pubblico di cui è portatrice.
Prima di analizzare i singoli provvedimenti di secondo grado, risulta necessario precisare altresì
che giurisprudenza e dottrina dominanti ritengono che, in caso di richiesta di riesame di un
provvedimento da parte di un privato, l’amministrazione non ha l’obbligo di dare avvio al relativo
procedimento di riesame, il che esclude anche che possa formarsi il silenzio inadempimento.
E' disciplinato dall’art. 21 nonies della legge 241/90: “il provvedimento amministrativo illegittimo,
ai sensi dell’art. 21 octies, può essere annullato d’ufficio, sussistendo le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a 18 mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, e
tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati dall’organo che lo ha emanato,
ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
L’annullamento ha posto subito un problema, se fosse giusto sacrificare situazioni che, sebbene
sorte da un atto illegittimo, avevano col tempo acquisito una loro stabilità.
Il presupposto fondamentale dell’annullamento di ufficio è certamente l’esistenza di un vizio di
legittimità (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere), tuttavia, si tratta di un
elemento necessario ma non sufficiente per potersi procedere all’annullamento.
La Juris ha infatti costruito l’atto di annullamento non come un atto vincolato, ma discrezionale,
perchè è necessario che sussista un ulteriore elemento: l’interesse pubblico
all’annullamento. Questo non può essere quindi identificato con l’interesse al ripristino della
legalità.
L’atto viene annullato non soltanto perché illegittimo, ma perché, a seguito di una valutazione
discrezionale, la decisione di annullare è il risultato della comparazione e del bilanciamento tra
vari interessi: l’interesse all’annullamento dell’amministrazione, l’interesse alla conservazione
dell’atto da parte di coloro che da esso avevano ricevuto un vantaggio ed eventualmente
l’interesse opposto all’annullamento di altri privati.
Posto, dunque, che la prima condizione è che il potere non si sia esaurito, la seconda è che
l’amministrazione deve avere la disponibilità degli effetti. Infatti la competenza a disporre
l’annullamento spetta allo stesso organo che ha emanato il primo provvedimento oppure ad “altro
organo previsto dalla legge”.
Il carattere discrezionale dell’annullamento d’ufficio si differenzia dai casi di annullamento
doveroso quali l’annullamento in sede giurisdizionale oppure in sede di controllo, casi in cui il
giudice o la stessa amministrazione, se ritengono l’atto viziato, devono disporne l’annullamento
senza alcuna scelta. Altro caso di annullamento doveroso è quello in cui un atto amministrativo
viene dichiarato illegittimo dal giudice ordinario, che non ha il potere di annullarlo: sarà la P.A. a
dover rimuovere l’atto in questione.
Il procedimento d’annullamento d'ufficio deve rispettare la forma di quello di primo grado ed
assicurare la massima partecipazione a chi potrebbe subirne un pregiudizio.
Una figura particolare di annullamento di ufficio è stata introdotta con la legge finanziaria 2005: per
conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le P.A., può sempre essere disposto
l'annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l'esecuzione degli
stessi sia ancora in corso. L'annullamento di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o
convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall'eventuale pregiudizio patrimoniale
derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall'efficacia del provvedimento,
anche se la relativa esecuzione sia perdurante”.
La revoca
E' il contraltare dell’annullamento d’ufficio: mentre quest’ultimo è concepito come reazione
dell’amministrazione all’atto illegittimo, la revoca copre l’area del merito, della non
corrispondenza all’interesse pubblico dell’attività amministrativa.
Col tempo è stata superata l’antica concezione della revoca come rimedio all’invalidità di un atto
per vizi di merito originari o sopravvenuti (contrapposta all’annullamento disposto per gli atti affetti
da vizi di legittimità), per approdare ad una visione della revoca come provvedimento che
interviene non sull’atto precedente ma sulla sua efficacia, per impedire che lo stesso continui a
produrre effetti per l’avvenire, a seguito di un giudizio di non compatibilità di tali effetti con
l’interesse pubblico che si intendeva perseguire.
La revocabilità è una caratteristica solo degli atti ad efficacia durevole, ergo quelli ad efficacia
istantanea o quelli che hanno già esaurito la loro efficacia sono irrevocabili.
Come si può determinare l'inidoneità degli effetti dell’atto alla soddisfazione dell’interesse pubblico
- Un fatto sopravvenuto che modifichi a tal punto la situazione da renderla incompatibile con gli
obiettivi che si volevano realizzare.
- La Juris ha sempre ammesso anche la revoca cd. Pentimento o ripensamento, quando la P.A.,
resasi conto che un atto non ha prodotto gli effetti sperati, può revocare il precedente
provvedimento.
- Una terza figura ha, per così dire, carattere intermedio: la revoca potrebbe essere disposta in
presenza non di un fatto sopravvenuto, in quanto già esistente al momento dell’adozione del primo
atto, ma non conosciuto dall’amministrazione, ossia un fatto oggettivamente preesistente ma
soggettivamente ignoto.
La revoca ha efficacia solo per il futuro, e cioè ex nunc: sono fatti salvi gli effetti
prodotti fino all’emanazione dell’atto di revoca perché sorti pur sempre da un atto
legittimo.
Per delimitare l’ampia discrezionalità legata alla revoca, il legislatore con la l. 164/14
ha voluto precisare da un lato che il “mutamento della situazione di fatto” non
doveva essere prevedibile al momento del rilascio del provvedimento, dovendo
trattarsi di circostanze imprevedibili o riconnesse a nuovi atti di programmazione,
ovvero a sopravvenienze normative.
Per i soggetti che subiscono un pregiudizio dalla revoca, emerge anche l’esigenza che
l’ordinamento riconosca una forma di ristoro. Oggi l’indennizzo è riconosciuto in via generale
dall’art. 21 quinquies. La disposizione configura due ipotesi di revoca per sopravvenienza:
A ben vedere, si potrebbe ritenere che non si tratta di due ipotesi del tutto distinte, dato che
normalmente è il fatto sopravvenuto che determina i sopravvenuti motivi di pubblico interesse: il
nuovo fatto si traduce in un nuovo interesse.
La previsione dell’indennizzo anche per la revoca tende ad uniformarla a quella del recesso
dall’accordo, per il quale era previsto l’indennizzo sin dalla L. 241/190. Tuttavia l’art. 21-quinquies
non ha colmato tutte le differenze di regime tra le due figure:
La revoca, di natura ampiamente discrezionale, deve essere distinta da altri provvedimenti che,
vengono definiti anche revoche improprie o anche sanzionatorie, ma potrebbero più
correttamente qualificarsi come provvedimenti di decadenza, aventi al contrario carattere
vincolato.
Questo tipo di provvedimento presuppone un rapporto di durata sorto con un provvedimento
favorevole per il privato (ad es. una concessione), la cui efficacia è però subordinata alla
persistenza del possesso da parte del destinatario di una serie di requisiti o all’adempimento di
una serie di obblighi.
In tali casi viene adottato un provvedimento che, sebbene venga definito revoca, presenta
tutt’altra natura e funzione, poiché ha carattere vincolato e finalità sanzionatoria.
I procedimenti ad esito conservativo - La sospensione
La sospensione può intervenire sia nei confronti di un atto ad efficacia istantanea, a condizione
che non abbia ancora prodotto i suoi effetti, sia di un atto ad efficacia continuata, i cui effetti, anche
se hanno iniziato a prodursi, non siano ancora esauriti oppure la cui esecuzione non sia stata
portata a termine.
La convalida
la convalida consiste nell’emanazione di un nuovo atto con il quale viene rimosso il vizio.
In diritto civile, invece, il contratto convalidato non muta il suo contenuto e la convalida
consiste semplicemente in una forma di rinuncia all’azione di annullamento da parte
dell' impugnante.
Non tutti i vizi rendono possibile la convalida: si ritiene che l’atto convalidabile debba essere
affetto da vizi formali (ad es. di procedura) e non sostanziali (ad es. la mancanza dei
presupposti); è invece convalidabile l’atto affetto da incompetenza o da vizio procedimentale.
Pur essendo un secondo provvedimento, la convalida si salda con l’atto convalidato e quindi i
suoi effetti retroagiscono al momento dell’emanazione dell’atto convalidato.
In ragione dell’attuale art. 21-nonies, che subordina la convalida alle sole condizioni della
sussistenza delle ragioni di interesse pubblico e del tempo ragionevole, qualche sentenza ha
considerato ammissibile la convalida in corso di giudizio, ossia la convalida richiesta al giudice
amministrativo.
La sanatoria e la rettifica
La sanatoria non è disciplinata dalla legge 241/90, ma è una figura individuata da dottrina e
giurisprudenza. Si verifica allorché un provvedimento presenta un vizio, consistente nella mancata
emanazione di un atto che necessariamente doveva precedere il provvedimento conclusivo o che
doveva essere adottato da un organo diverso da quello che ha emanato l’atto finale.
In questo caso si può procedere alla sanatoria del vizio mediante l’emanazione successiva
dell’atto procedimentale mancante o la sostituzione, sempre successiva, di un atto invalido
con un atto valido. Tuttavia non tutti gli atti endoprocedimentali possono essere adottati
dopo il provvedimento:
non si può procedere alla sanatoria nel caso in cui l’atto mancante sia un parere, e cioè un atto
che doveva necessariamente precedere il provvedimento.
Quanto alla rettifica, si tratta di una figura che si distingue nettamente da convalida e
sanatoria perché si verifica nei confronti di atti che non presentano alcun vizio, ma solo uno o
più errori.
E' l’eliminazione, con efficacia retroattiva, di un errore materiale dell’atto, che però non lo rendeva
viziato. L’errore può riguardare elementi di fatto (nomi, domicili, dati anagrafici, etc.), e l'atto che
presenta tali errori viene normalmente definito irregolare.
La ratifica
La legge può prevedere che in particolari condizioni, un organo diverso da quello ordinariamente
competente possa adottare un atto in luogo di quest’ultimo. L’organo competente, alla prima
occasione utile, ratificherà l’atto in precedenza emanato. Va precisato l’atto non è viziato da
incompetenza, poiché il potere di adozione dell’atto da sottoporre a ratifica è riconosciuto dalle
norme che regolano il funzionamento degli organi collegiali a favore del presidente del collegio.
Se non interviene la ratifica entro il termine previsto ex lege, l’atto cessa comunque di produrre
effetti.
Può anche accadere che, a conclusione del procedimento di riesame, l’amministrazione decida di
modificare il provvedimento di primo grado attraverso una riforma, che ha efficacia ex nunc e può
essere sostitutiva di una o più parti del provvedimento precedente o aggiuntiva.
Se la modifica disposta con l’atto di secondo grado produce un effetto eliminatorio di parte
dell’atto precedente, sarebbe più corretto definire tale figura come annullamento parziale.
L’ipotesi più frequente si verifica quando il privato chiede un provvedimento ampliativo della
propria sfera giuridica, l’amministrazione adotti un provvedimento di diniego e il richiedente
faccia scadere il termine di impugnazione del provvedimento a lui sfavorevole.
In caso di riproposizione dell’istanza da parte del soggetto, se l’amministrazione apre un nuovo
procedimento, rinnova l’istruttoria e adotta un atto dal contenuto analogo al precedente, avremo un
atto di conferma. Trattandosi di un nuovo atto, l’atto di conferma è direttamente impugnabile.
Ma l’amministrazione può limitarsi, rispetto alla nuova istanza del privato, ad adottare un atto
meramente confermativo, che non è il risultato di un riesame, ma un atto con cui si dichiara di
aver già provveduto sulla precedente istanza d’identico contenuto e di non dover provvedere
ulteriormente.
Tale atto non rimette in termini il privato che abbia lasciato scadere il termine per proporre ricorso.
Il silenzio amministrativo è un fenomeno che si verifica nei casi in cui la P.A. ometta di
pronunciarsi quando sia obbligata a farlo. Nella fase iniziale era considerato una figura unitaria; le
differenze fra le diverse situazioni di inerzia erano valutate solo per individuare i casi in cui
conferire all’inerzia il valore di accoglimento dell’istanza (cd. silenzio-assenso o accoglimento) e
quelli di rigetto (c.d. silenzio-rigetto). Nella prima giurisprudenza del Consiglio di Stato si
escludeva che avverso l’inerzia della P.a. si potesse invocare la tutela giurisdizionale per via
dell’assenza del dovere di provvedere.
Una leggera apertura venne offerta con la sentenza (78/1894) in cui si sostenne la “possibile
equivalenza dell’omissione di qualunque provvedimento alla formale dichiarazione di diniego”
e con un importante parere reso dal Consiglio di Stato nel 1900.
La prima decisione espressa sul tema sarà la sentenza n° 429/1902 del Consiglio di Stato
sez. IV. La sentenza si occupò dell’istituto del silenzio per la prima volta, relativamente
all’inerzia serbata dall’amministrazione nei confronti di un ricorso gerarchico, ossia se la sua
proposizione imponesse “l’obbligo giuridico di provvedere” e se in caso di sua inerzia fosse
possibile adire il Consiglio di Stato. Con la sentenza 429/1902 il Consiglio di Stato equiparò “il
prolungato silenzio” dell’amministrazione al rigetto, con conseguente esperibilità del ricorso
giurisdizionale da parte del privato ed arricchimento delle forme di tutela del cittadino nei
confronti dell’amministrazione.
Eppure la pronuncia rimase per anni isolata, essendo considerato assai ardita.
La ricostruzione del silenzio sulla base della dogmatica del negozio giuridico di diritto
privato
Negli anni successivi alla sentenza, il tema venne sì esaminato dalla dottrina, ma classificò il
silenzio come dichiarazione di volontà. Tale impostazione ricalcò quella che la dottrina
privatistica, che classifcò il silenzio come manifestazione di volontà.
In uno dei primi studi sul silenzio dell’amministrazione, Borsi sostenne che la sentenza del 1902
fosse incompatibile con la normativa vigente all’epoca, che non imponeva all’amministrazione
alcuni obbligo di provvedere, cosicchè l’inerzia non poteva essere considerata un fenomeno
patologico.
Successivamente, si escluse che il silenzio dell’amministrazione potesse costituire una
dichiarazione tacita di volontà degli enti pubblici, se non in casi eccezionali, vale a dire solo in
presenza di una legge espressa.
Non mancarono tesi diverse, come quella di Forti, secondo cui il fondamento dell’impugnabilità del
silenzio rifiuto va ravvisato non nell’esistenza di un obbligo di provvedere, ma nel poter proporre
l’azione.
Cioè l’azione avverso il silenzio è volta a evitare che la garanzia giurisdizionale del ricorso possa
rimanere frustrata ogniqualvolta l’amministrazione, volendo sottrarsi al sindacato del giudice,
rimanga inerte.
A ridosso della pronuncia 429/1902, Juris e Dottrina arrivarono con approcci e risultati differenti:
Per la giurisprudenza, occorreva stabilire se il cittadino potesse invocare tutela giurisdizionale
anche nei casi in cui l’amministrazione rimaneva silente.
Negli anni successivi al 1934, la dottrina, recependo i risultati della teoria privatistica sul negozio
giuridico, sostenne la tesi secondo la quale il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza del
privato costituiva una manifestazione tacita di volontà della P.A.
Sempre in quegli anni, altra parte della dottrina sostenne che l’interpretazione del silenzio
come rifiuto andava adottata in vista dell’effetto processuale di rendere possibile il ricorso
alla giurisdizione amministrativa, che “nella sua struttura processuale, presuppone il
provvedimento”.
Un diverso orientamento sostenne l’esistenza di una norma non scritta secondo la quale
l’inerzia serbata dall’amministrazione assumerebbe valore di provvedimento negativo.
Uno degli esiti più significativi della dottrina nella fase successiva all’emanazione del R.D. è
rappresentato dall’individuazione di diverse tipologie di silenzio:
una prima tipologia è quella del silenzio dell’amministrazione, obbligata a provvedere su una
istanza del privato, che le abbia anche prefissato un termine, che va considerato come rifiuto
di provvedere nel senso richiesto dall’interessato;
La dottrina prevalente considerava come silenzio assenso tutte le situazioni nelle quali, in
base a una norma, alla scadenza del termine entro il quale l’autorità amministrativa
doveva emanare un determinato atto, si produceva un effetto giuridico positivo.
Secondo altro orientamento gli effetti della formazione del silenzio assenso venivano
considerati equipollenti a quelli di un atto positivo dell’amministrazione.
Un’altra interpretazione oscillava invece tra due tesi estreme: la tesi della
identificazione fra il silenzio-assenso e l’atto amministrativo positivo e la tesi
dell’equipollenza di effetti giuridici fra silenzio-assenso e atto amministrativo.
Si sosteneva, inoltre, che vi erano due ipotesi distinte di silenzio assenso, la prima
corrispondente a un provvedimento amministrativo (c.d. silenzio assenso provvedimentale),
la seconda corrispondente a un atto del procedimento amministrativo diverso sia
dall’emanazione del provvedimento sia dall’emanazione degli atti di controllo (c.d. silenzio
assenso endoprocedimentale).
Dopo il d.l. 9/1982, una parte della dottrina ha prospettato la qualificazione del silenzio
assenso (provvedimentale) come una situazione di legittimazione ex lege.
La previsione del silenzio assenso va considerata nella logica di quelle previsioni che
attribuiscono a una condotta non significativa di un soggetto “l’effetto” tipico di un atto.
Un rilevante contributo alla teoria del silenzio amministrativo si deve alla tesi secondo la
quale non è possibile ricondurre il comportamento inerte della pubblica amministrazione a
una manifestazione di volontà, e quindi a qualunque tipo di atto della P.A., espresso, tacito,
presunto.
I casi in cui l’inerzia può essere equiparata ad un provvedimento ricorrono solo quando è la
stessa legge che gli attribuisce un determinato significato (positivo o negativo), ovvero nelle
ipotesi di silenzio tipizzato.
Il silenzio, nela tesi di Scoca, è una pausa nello svolgimento della funzione amministrativa.
La P.a. deve pronunciarsi sulla domanda del privato, perché l’inerzia contrasta con l’interesse
pubblico. Il silenzio viene definito, quindi, non come provvedimento di rifiuto, bensì come
mancanza di un provvedimento sia positivo che negativo, e pertanto come mancanza di
determinazione dell’attività amministrativa di fronte all’attività del privato.
Mancanza di pronuncia che, data la presenza di un dovere di porla in essere, si qualifica come
omissione (anomala) di pronuncia.
Quindi Scoca distingue l’ipotesi di silenzio tipizzato dalla figura vera e propria del silenzio.
Nel silenzio tipizzato la norma non configura l’azione della pubblica amministrazione come dovuta,
ma pone per la pubblica amministrazione l’onere di provvedere in un certo modo; perciò il
comportamento inerte è considerato dalla norma come vero esercizio del potere attribuito alla
P.A.; diversamente nel caso di silenzio vero e proprio il comportamento è considerato come non
esercizio dello stesso, contro il quale il soggetto interessato alla pronuncia può agire.
Infine, l’autore affronta il problema del provvedimento sopravvenuto, vale a dire del provvedimento
emanato dall’amministrazione dopo la formazione del silenzio. Secondo la tesi in esame, per
risolvere il problema, occorre tener presenti le diverse qualificazioni che il silenzio riceve
dall’ordinamento.
Nel silenzio vero e proprio,il provvedimento sopravvenuto costituisce il solo atto con il quale si
pone la disciplina del rapporto amministrativo.
Nel 1971 il legislatore emanò due importanti disposizioni normative che introdussero decisive
modifiche anche in tema di tutela avverso al silenzio dell’amministrazione: L’art. 6 D.P.R.
1199/71 sancì che “decorsi 90gg dalla presentazione del ricorso senza che l’organo adito
abbia comunicato la decisione, il ricorso si intende respinto, e contro il provvedimento
impugnato è esperibile il ricorso all’autorità giurisdizionale competente o quello straordinario al
Pres. Repubblica”.
1) L’art. 20 L.1034/71 stabilì che “nei casi in cui contro gli atti o provvedimenti emessi da organi
periferici dello Stato o di enti pubblici a carattere ultraregionale sia presentato ricorso in via
gerarchica, il ricorso al TAR è proponibile contro la decisione sul ricorso gerarchico e, in
mancanza, contro il provvedimento impugnato, se entro 90gg la P.A. non abbia comunicato e
notificato la decisione dell’interessato”.
Sandulli rilevò che le norme citate avevano innovato la disciplina dell’art. 5 R.D. 383/1934.
Il problema da affrontare, secondo l’autore, era la sorte per le ipotesi di mero silenzio
inadempimento, quando per mancanza di una espressa previsione normativa, il silenzio non
valore legale tipico. Secondo Sandulli la disciplina elaborata alla giurisprudenza per il silenzio
inadempimento di basava sui principi di legalità e di giustiziabilità dell’azione amministrativa,
ma mancava la base per la ricostruzione della disciplina specifica per il silenzio
inadempimento.
Applicando l’art.25 del T.U. 3/1957 sullo Statuto degli impiegati civili dello Stato, era necessario
attendere il decorso del termine di almeno 90gg dalla presentazione dell’istanza prima di mettere
in mora la P.A. assegnandole poi un termine di 30 giorni per provvedere.
Inoltre, secondo Sandulli, per ricorrere contro il silenzio inadempimento non esistono termini di
decadenza, i quali operano solo quando si impugni un provvedimento.
Le decisioni rese nel 1978 dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato e la giurisprudenza
successiva
A tali sviluppi fece seguito l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato 4/1978, in cui si sostenne
che l’inerzia protratta dall’amministrazione non equivaleva a un rifiuto di annullare il
provvedimento, ma integrava una vera e propria decisione di rigetto. L’eventuale decisione
esplicita del ricorso amministrativo, emanata oltre il termine di 90 giorni, era illegittima, ma
efficace. Era illegittima perché l’amministrazione, una volta decorso il termine, perdeva il potere di
decidere legittimamente il ricorso; l’atto sopravvenuto se negativo costituiva un mero atto
confermativo, che non doveva essere impugnato dal ricorrente.
Questa ricostruzione implicava che, qualora il soggetto non avesse proposto ricorso
avverso l’inerzia, perdeva la possibilità di censurare l’operato dell’amministrazione, perché
gli era precluso il potere di impugnare l’atto sopravvenuto meramente confermativo.
A distanza di pochi giorni, il Consiglio di Stato emise un’altra importante decisione resa
dall’Adunanza Plenaria con sentenza 10/1978, la quale, pronunciandosi sulle modalità di
formazione del silenzio rifiuto, accolse la posizione di Sandulli, ritenendo di dover applicare al
silenzio-rifiuto la procedura ex art. 25 T.U. degli impiegati civili dello Stato, per cui, decorsi
inutilmente 60gg dalla presentazione di un’istanza, il privato doveva diffidare e mettere in mora
la P.A. affinché provvedesse entro 90gg.
Decorso infruttuosamente il termine, era possibile impugnare il silenzio dinanzi al giudice
amministrativo.
Nelle decisioni 16 e la 17 del 1989 Il Consiglio di Stato stabilì che nel si è affrontato il problema del
provvedimento sopravvenuto. caso di silenzio nel ricorso gerarchico, il decorso del termine per
la formazione del silenzio-rigetto non aveva effetti sostanziali, perché non integrava alcun
provvedimento fittizio, ma solo l’effetto processuale di legittimare il ricorso giurisdizionale.
Invero, una volta formatosi il silenzio-rigetto, il privato poteva scegliere tra adire immediatamente il
giudice oppure attendere l’eventuale provvedimento sopravvenuto di rigetto, anche sollecitando la
P.A.
Con l’impiego di tale impostazione si giunse all’entrata in vigore della l. 241/90, il cui art. 2
introdusse il principio del dovere della P.A. di concludere il procedimento amministrativo con un
provvedimento espresso In particolare gli enti pubblici, ove non vi fosse disciplina di legge e
regolamenti, debbono stabilire per i procedimenti di propria competenza i termini di conclusione
dei medesimi.
Ove ciò non capiti, la stessa disposizione di legge fissava un termine generale di conclusione di
30 giorni, con decorrenza dall’inizio d’ufficio del procedimento o dalla ricezione dell’istanza del
privato.
silenzio inadempimento: ricorre negli altri casi, vale a dire quando la P.A. resta inerte
nonostante il decorso del termine entro il quale il procedimento avrebbe dovuto concludersi,
senza che la legge qualifichi tale inerzia. Qui il legislatore ha disciplinato una forma di tutela
successiva, con la previsione di un apposito rito processuale per consentire al cittadino di
rivolgersi all’autorità giudiziaria per eliminare gli effetti pregiudizievoli prodotti dall’inerzia della
pubblica amministrazione.
silenzio significativo: quando l’ordinamento attribuisce al silenzio della P.A. un valore legale
tipico. In tali ipotesi il legislatore ha voluto conferire al cittadino una forma di tutela preventiva,
in quanto con tale previsione interviene direttamente per scongiurare gli effetti pregiudizievoli
connessi all’inerzia della P.A. riconoscendo al silenzio dell’amministrazione un significato
legale tipico;
Il regolamento di attuazione della l. 241/90 sottolinea come l’assenso si configuri solo laddove la
domanda del privato indichi le generalità del richiedente, l’oggetto e le caratteristiche dell’attività
da svolgere, con allegata una dichiarazione sulla sussistenza dei presupposti e dei requisiti per
svolgere tali attività.
Tali adempimenti sono volti ad evitare che l’inerzia dell’amministrazione legittimi l’esercizio
dell’attività in contrasto con la normativa di settore.
La possibilità di stipulare accordi tra P.A. e privati è prevista dunque dall’art. 11 della l. 241/90. Il
co. 1 sancisce che “in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’art. 10,
l’amministrazione procedente può concludere accordi con gli interessati al fine di determinare il
contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di esso”.
Si collega col “contatto procedimentale” che si instaura attraverso la partecipazione, e dunque
con i diritti concessi ex art. 10, non ultimo quello di presentare documenti e memorie.
Tale ultimo obbligo è assai importante per quel che riguarda la stipulazione degli accordi ex art.
11.
Infatti esso comporta che, in presenza di un’iniziativa del privato di proporre la loro stipula, questa
iniziativa non può essere “archiviata” sic et simpliciter dall’amministrazione, dovendo questa
decidere se accogliere o meno la proposta e infine se dar corso ad una decisione consensuale o
seguire la via dell’unilateralità.
Nel primo caso l’accordo sarà conseguenza di una proposta, esattamente come avviene quando
due soggetti addivengono alla conclusione di un contratto; ma anche nel secondo caso la
decisione sarà in qualche modo frutto della proposta, dato che nell’ambito del provvedimento
l’amministrazione dovrà indicare le ragioni per le quali, a fronte di una proposta, si è preferita la
determinazione unilaterale a quella bilaterale.
Evidentemente, l’accordo avrà senso solo se determina un assetto di interessi più equilibrato e
meno conflittuale, cioè se risponda a ragioni di economicità, efficienza ed efficacia. Insomma
avrà senso se esso consenta di raggiungere un risultato analogo, se non addirittura migliore,
con minor spreco di risorse, facendosi così preferire rispetto alla decisione unilaterale, che
ordinariamente resta sempre quella provvedimentale unilaterale. A tal proposito, sono
necessarie altre due precisazioni:
1) in primo luogo, nulla esclude che la stipula dell’accordo possa essere frutto di una
proposta che, in qualche misura, provenga dalla stessa amministrazione, la quale ritenga di
dover avanzare una sorta di proposta transattiva all’interno del procedimento
Gli accordi disciplinati dall’art. 11 della legge 241/90: struttura, contenuto e limiti
Per questi ultimi, a seguito del parere reso sul disegno di legge dal Consiglio di Stato, era stato
inizialmente previsto che fosse possibile concluderli solo nei casi previsti dalla legge,
introducendo una regola opposta a quella prevista dal par. 54 della legge sul procedimento
tedesca.
Tale disposizione suscitò ferventi critiche, dato che essa finiva per confinare la possibilità di
concludere un accordo sostitutivo non solo in esito ad una scelta dell’amministrazione, bensì al
fatto che il legislatore ne avesse previsto la presenza nello specifico caso. Insomma ciò
significava rendere del tutto inutile l’intera categoria dell’accordo sostitutivo. Inoltre si andava
creando una vera e propria frattura con l’accordo
preliminare, il quale invece sembrava potersi concludere tutte le volte che l’organo lo ritenesse
opportuno. Ecco perché la l. 15/2005 è intervenuta sul co. 1° eliminando il suddetto limite posto
agli accordi sostitutivi, con l’evidente fine di liberalizzarne l’adozione.
Ma non per questo ogni problema è risolto. Infatti il co. 3° dell’art. 11 sancisce che gli accordi
sostitutivi di provvedimenti sono soggetti ai medesimi controlli dei provvedimenti che sono
chiamati a sostituire. L’assoggettamento degli accordi sostitutivi ai medesimi controlli dei
provvedimenti significa che il regime giuridico è il medesimo e che, dunque, l’accordo sostitutivo
possa concludersi tutte le volte che rientri nell’alveo della tipicità. Se, invece, il regime giuridico
degli accordi fosse sic et simpliciter privatistico, il risultato sarebbe quello di dotare inopinatamente
l’amministrazione di uno strumento in grado di bypassare il principio di legalità in nome di una
negozialità fuori controllo (lo stesso pericolo avvertito dal Consiglio di Stato in sede consultiva sul
disegno di legge).
Ora è possibile procedere alla individuazione di alcune regole generali che riguardano tanto
gli accordi sostitutivi quanto quelli preliminari:
1) essi debbono essere redatti per iscritto a pena di nullità, salvo che la legge disponga
altrimenti. A questa disposizione originaria è stato poi aggiunto il co. 4 bis che prevede che “a
garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa, la conclusione
dell’accordo sia preceduta da una determinazione dell’organo che sarebbe competente per
l’adozione del provvedimento”. Dunque sono soggetti a formalizzazione sia la volontà di
addivenire alla conclusione dell’accordo sia l’accordo stesso.
2) la scelta di addivenire all’accordo deve ritenersi possibile, come già detto, solo laddove esista
un potere discrezionale, cioè quando l’organo decidente abbia la possibilità di apprezzare
effettivamente la situazione e valutare quale strumento sia più opportuno utilizzare anche dal
punto di vista della convenienza (intesa come ottimizzazione delle risorse e contenimento della
spesa).
3) vi sono altri due limiti posti dal co. 1° dell’art. 11: entrambe le fattispecie di accordi vanno
concluse “senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico
interesse”:
Quanto al perseguimento dell’interesse pubblico, ciò è ovvio, dovendosi ricondurre tali accordi
all’ambito sostanzialmente pubblicistico. La suddetta valutazione di convenienza trova dunque
conferma proprio in questo limite espresso.
Quanto al limite generale del pregiudizio dei terzi, la regola privatistica è che il contratto vincola
solo le parti che lo stipulano e che esso non è opponibile ai terzi.
Ma se dall’ambito privatistico ci si sposta al pubblicistico ci si rende conto come invece gli
accordi siano in grado di spiegare effetti analoghi a quelli dei provvedimenti, i quali incidono e
producono effetti diretti e riflessi “in un numero potenzialmente infinito di interessi”.
Il recesso e la rinegoziazione
Il difficile equilibrio tra i due opposti principi pacta sunt servanda e rebus sic stantibus riemerge
nel co. 4 dell’art. 11, il quale consente all’amministrazione (eccettuato il caso dei diritti quesiti)
di recedere unilateralmente dall’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, salva la
corresponsione di un indennizzo per gli eventuali “pregiudizi verificatosi in danno del privato”.
Insomma la previsione di una siffatta facoltà da un lato è indubbiamente coerente con altre norme
di carattere
pubblicistico che consentono di sciogliere vincoli contrattuali in cui sia parte una p.a.; dall’altro
dimostra che, laddove l’interesse pubblico non sia più adeguatamente perseguito, è sempre
possibile per l’amministrazione sciogliere il vincolo tramite indennizzo. Occorre risolvere alcuni
quesiti, ossia:
La soluzione al primo quesito dipende ancora una volta dalla scelta di base circa il regime che si
intende applicare, quello pubblicistico o quello privatistico. Eppure la regola privatistica di
scioglimento dei contratti
è il mutuo dissenso e non la volontà ad nutum di uno dei contraenti: a tal fine è infatti
necessaria una apposita clausola negoziale, essendo ordinariamente impossibile che una
delle parti provochi con atto unilaterale lo scioglimento del vincolo.
Se invece la clausola di recesso viene posta in un’ottica pubblicistica, risulta chiaro che
l’intervento dell’amministrazione non è un vero atto di recesso bensì una revoca, che è
peraltro obbligata ad adottare ogniqualvolta intervengono ragioni obiettive tali da rendere
l’accordo non più confacente all’interesse pubblico: è questa soluzione a spiegare come sia
possibile che l’amministrazione sciolga l’accordo.
Del resto la disciplina contenuta nell’art. 11 è pienamente confermata dall’art. 21 quinquies, ove
l’atto di revoca è giustificato da ragioni di opportunità (tra le quali la sopravvenienza di ragioni di
pubblico interesse), con la corresponsione eventuale di un indennizzo per i pregiudizi subiti
incolpevolmente dal privato. Tuttavia
è evidente che l’art. 11 contempla una sola delle tre ipotesi di revoca. Cerulli Irelli ha risolto questa
divergenza riconoscendo all’amministrazione, nell’ipotesi in esame, un potere di “autotutela
legata”, vale a dire un potere di autotutela circoscritto al solo sopravvenire di fatti nuovi e non ad
una riconsiderazione della vicenda nel suo complesso a prescindere dalle sopravvenienze. In
caso contrario (cioè laddove fosse possibile per l’amministrazione sciogliere l’accordo per
contrasto ab initio con l’interesse pubblico), la pattuizione sarebbe evidentemente sbilanciata a
favore della parte pubblica, facendo sfumare il senso dell’accordo, cui peraltro il privato non
avrebbe alcuna ragione di vincolarsi.
La soluzione rinviene quindi un compromesso tra le due clausole pacta sunt servanda e rebus sic
stantibus.
L’unica possibile alternativa al recesso è quella della rinegoziazione: infatti, laddove entrambe le
parti ritengano opportuno o addirittura necessario rivedere l’assetto di interessi determinato
dall’accordo, invece di scioglierlo, potranno anche decidere di rivederlo opportunamente.
Qualche dubbio potrebbe residuare sul piano della trasparenza, dubbi eliminati utilizzando gli
strumenti di pubblicità (ai terzi coinvolti che hanno diritto di partecipare) dello stesso art. 11, tra
cui la rinegoziazione.
Infatti ex art. 4 bis, a garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione
amministrativa, la stipulazione dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo
che sarebbe competente per l'adozione del provvedimento”.
Lo stesso principio vale anche nel caso di rinegoziazione, la quale può anche seguire allo
scioglimento dell’accordo quando le circostanze lo consigliano: le parti potranno sempre
sciogliere l’accordo non più confacente all’interesse pubblico per mutuo consenso e nel
contempo concordare di modificarlo solo dopo averlo sciolto o meno, liberandosi semplicemente
dal vincolo reciproco senza un nuovo assetto.
In sintesi:
a) il recesso dall’accordo è un atto dovuto tutte le volte in cui risulti obiettivamente il venir
meno del perseguimento dell’interesse pubblico (solamente) per fatti sopravvenuti.
c) a prescindere dai fatti sopravvenuti, è sempre possibile il mutuo dissenso, ossia la decisione
delle parti di non mantenere in vita l’accordo.
Il co. 4 dell’art. 11 contiene una espressa disposizione in base alla quale al recesso segue un
eventuale indennizzo per i “pregiudizi in danno” subiti dal privato. La norma intende quindi
assicurare, attraverso una c.d. responsabilità da atto legittimo, un “adeguato ristoro” alla
controparte privata, fermo restando che il pregiudizio deve effettivamente verificarsi e non darsi
per presunto in ragione del semplice recesso (che potrebbe anche non recare alcun pregiudizio al
privato).
Resta, tuttavia, il problema del quantum dell’indennizzo. Occorre partire dall'assunto che
l’indennità non è una sorta di penale del recesso, bensì l’espressione della volontà del legislatore
di non addossare sul privato le conseguenza di un fatto oggettivo (il sopravvenire di ragioni di
interesse pubblico) di cui, in una certa misura, entrambi i contraenti sono tenuti a prendere atto.
Se, infatti, è vero che il privato non può essere “vittima” del recesso, è altrettanto vero è il
recesso è conseguenza non di una autotutela esercitata melius re perpensa (cioè dopo un
ripensamento, di una nuova valutazione dell’amministrazione sulla stessa questione), ma di una
sopravvenienza che nemmeno l’amministrazione aveva previsto.
Sembra perciò preferibile la soluzione che limita il risarcimento al solo danno emergente: fare
rientrare anche il lucro cessante nella voce indennitaria non solo parifica l’indennizzo al
risarcimento del danno (quando qui non vi è alcuna attività illecita), ma presuppone aspettative di
stabilità del vincolo che il privato nemmeno può vantare, essendo già a conoscenza della
possibilità che sopravvenienze future potrebbero farla venire meno.
Discorso a parte, ovviamente, riguarda il caso in cui il recesso sia illegittimo, in quanto adottato
non in conformità ai presupposti ex art. 11: in questo caso bisogna propendere senza dubbi per il
risarcimento pieno (ciò confermando a contrario anche la scelta precedente).
Il rinvio ai principi del codice civile operato dal co. 2° dell’art. 11 rappresenta una questione mai
definitivamente risolta. Esso afferma: “si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del
codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili”. Il problema sta nel fatto
che tale rinvio sembra, prima facie, deporre per una soluzione privatistica del regime giuridico
applicabile agli accordi. Ma, se si analizza la disposizione, già sul piano letterale ci si avvede che
non si tratta di un mero rinvio bensì un rinvio residuale e a fini integrativi della disciplina. Del resto
il regime da applicare agli accordi non sarà mai integralmente pubblicistico o privatistico, giacchè
da un lato sono implicati potere autoritativi (recesso) volti al mantenimento dell’accordo nell’ambito
dell’interesse pubblico, dall’altro appare innegabile la struttura latamente negoziale degli accordi:
insomma si ha una sorta di contaminatio.
Per affrontare in modo equilibrato questa questione, pare necessario operare una partizione
in fasi, dal momento di formazione a quello della conclusione degli accordi:
Fase della proposta: l’art. 10 l. 241/90 prevede che le parti presentino memorie e
documenti nonché proposte che ai sensi dell’art. 11 possono portare alla conclusione
dell’accordo.
Fase delle trattative: non disciplinata dall’art. 11, risulta sicuramente di marca negoziale
oltre che improntata ad un’estrema informalità.
Le trattativa condurranno alla stipula dell’accordo, frutto di una proposta cui ha fatto
seguito, secondo canoni propri della formazione del contratto, un’accettazione conforme.
A questo punto si dà luogo alla formalizzazione dell’accordo, giacchè l’art. 11 richiede
che esso avvenga in forma scritta a pena di nullità.
Quanto detto evidenzia che il rinvio ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti
non può intaccare le regole pubblicistiche cui gli accordi sono soggetti, prime fra tutte quelle
espressamente poste dello stesso art. 11. Risulta quindi confermata la natura pubblicistica degli
accordi, solo integrati (a certe condizioni) dalle norme del codice civile compatibili.
A tal proposito, può parlarsi di tre limiti all’applicazione delle norme del codice civile:
2) detti principi non operano sempre, ma solo in via residuale ed integrativa rispetto alla
disciplina pubblicistica;
3) i medesimi principi devono altresì essere compatibili con quelli che regolano gli accordi.
Quali sono dunque le norme cui si può certamente ricorrere? Pensiamo alle norme a proposito di:
Essendo intervenuto il d.lgs. 104/2010, contenente il Codice del Processo Amministrativo, ogni
profilo di carattere giurisdizionale è stato contemplato in esso, con l’abrogazione del co. 5
dell’art. 11. In esso si dichiarano espressamente devolute al giudice amministrativo le
controversie che riguardino atti, accordi o comportamenti delle p.a.
In definitiva, gli accordi disciplinati dall’art. 11 costituiscono una novità in senso assoluto nel
panorama dei rapporti consensuali tra amministrazione e privati. Essi sembrano essere
tendenzialmente votati verso un ambito pubblicistico; si realizzano in un contesto
procedimentale; presentano regole che risulterebbero quantomeno anomale in un contesto
privatistico; non sono soggetti alle norme del codice civile tout court, ma solo alle norme di
principio in via residuale ed integrativa quando compatibili. Se si trattasse di fattispecie negoziali
vere e proprie tante cautele sarebbero del tutto fuori luogo.
Giannini ebbe però modo di osservare che, in mancanza di una norma espressa, non era
possibile costruire il contratto di diritto pubblico, inteso come fattispecie consensuale alternativa al
provvedimento.
PARTE SESTA: CONTROLLI E RESPONSABILITÀ
Il controllo individua una relazione intersoggettiva o interorganica, vale a dire un rapporto giuridico
che può instaurarsi tra soggetti o tra organi diversi della P.A. Il controllo consiste nella verifica di
un’attività precedentemente posta in essere sulla scorta di parametri definiti. L’attività di controllo
si articola in 2 fasi:
1) il soggetto che effettua il controllo deve accertare se nella fattispecie concreta ricorrono i
presupposti e gli elementi che in astratto sono stati previsti dal legislatore. All’esito di tale verifica
viene formulato un giudizio di conformità o di non conformità rispetto ai canoni secondo i quali
deve essere emanato l’atto o esercitare l’attività. Tuttavia l’attività di controllo non si arresta ma va
oltre;
L’attività di controllo può assumere differenti caratteristiche. In base all’oggetto, si distingue tra:
B1) preventivi: vengono posti in essere prima che il provvedimento amministrativo possa
produrre i suoi effetti, per cui precludono la sua efficacia;
B2) successivi: si svolgono dopo che l’atto abbia prodotto i suoi effetti o a seguito del
compimento dell’attività controllata
B3) di legittimità: mira ad accertare che l’atto posto in essere non risulti viziato da incompetenza,
eccesso di potere o violazione di legge;
B4) di merito: è la verifica dell’opportunità di emanare un determinato atto da parte della P.A.
Una particolare tipologia di controllo è il controllo di gestione, il quale non si basa sulla
revisione del singolo atto o di singoli atti, ma ha ad oggetto l’attività amministrativa
complessivamente intesa.
I controlli di gestione si distinguono, infatti, dai controlli di legittimità in quanto “il parametro di
riferimento non è solo la legge, bensì quei valori che l’art. 1 l. 241/1990 pone a fondamento
dell’azione amministrativa”. In particolare i suddetti controlli mirano ad accertare il raggiungimento
degli obiettivi al fine di incentivare l’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’attività amministrativa:
Efficacia: indica la capacità della P.A. di ottenere determinati risultati in virtù degli obiettivi
prefissati;
L’art. 97 Cost. fonda tale ricostruzione nel momento in cui sancisce il principio del buon
andamento della pubblica amministrazione. All’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione
si riteneva che tale principio non avesse efficacia cogente: in dottrina e giurisprudenza esso
venne considerato semplicemente come un’indicazione del costituente al legislatore futuro.
Successivamente, nell’elaborare la figura dell’eccesso di potere, la Juris amministrativa ha
conferito rilevanza alla capacità dell’amministrazione di conseguire un risultato utile in tempi rapidi
e in maniera opportuna: il principio di buon andamento ha quindi acquistato rilevanza giuridica,
per poi essere tradotto in una pluralità di discipline che hanno imposto di verificare la qualità
dell’azione della p.a.
La Costituzione e il sistema dei controlli statali sulle Regioni e sugli enti locali
La Costituzione incise in particolar modo proprio sul sistema dei controlli statali sugli enti
locali. Ai sensi dell’art. 125, il controllo di legittimità sugli atti amministrativi della Regione
doveva essere esercitato in forma decentrata da un organo dello Stato, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge.
La legge poteva ammettere in determinati casi il controllo di merito al solo effetto di promuovere il
riesame della deliberazione da parte del Consiglio Regionale.
L’art. 130 invece stabilì che un organo della Regione dovesse esercitare, anche in forma
decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali. Fu
anche previsto che, nei casi determinati dalla legge, poteva esercitarsi anche il controllo di
riesame sugli atti degli enti locali "nella forma di richiesta motivata agli enti deliberanti di
riesaminare la loro deliberazione”.
Quindi le novità introdotte dalla Costituzione rispetto al quadro normativo precedente furono
rappresentate dalla modifica della titolarità della funzione di controllo degli atti degli enti locali, che
veniva affidata ad organo della Regione e non ad organo statale, e dalla previsione che il controllo
di merito sugli atti non potesse tradursi nella sostituzione dell’atto censurato, ma soltanto in una
richiesta di riesame rivolta all’organo competente. Essa aveva dato indicazioni diverse rispetto al
passato in materia di controlli sugli atti degli enti locali, ma non aveva fatto ugualmente per quanto
riguarda il controllo sugli organi.
La legge Scelba (62/1953) non dettò perciò una nuova disciplina in materia di controlli sui
soggetti e sugli organi, lasciando sostanzialmente immutata la disciplina del T.U. comunale e
provinciale del 1934 e le prerogative prefettizie in materia.
Fu istituito il Comitato regionale di controllo (CO.RE.CO.), quale organo di controllo regionale,
il quale potè diventare operativo solo a seguito dell’istituzione delle Regioni.
L’evoluzione dei sistemi di controlli in Italia dagli anni ’90 al d.lgs 150/2009 (cd. riforma
Brunetta)
Esigenze di riforma emersero già negli anni 70, ma si sono tradotte sul piano normativo solo
negli anni 90, inizialmente con riferimento all’amministrazione locale.
La legge 142/90 abolì i controlli di merito, che nel tempo si erano tradotti in una vera e propria
ingerenza dello Stato nelle autonomie locali; ridusse fortemente i controlli preventivi di legittimità
sugli atti degli enti locali; introdusse forme di controlli interni di gestione.
La Legge Bassanini e il T.U. degli Enti Locali del 2000 ridimensionarono ulteriormente
l’ambito di applicazione dei controlli di legittimità sugli atti.
Successivamente la L.cost. 3/2001, recante la riforma del Titolo V, abrogò gli artt 125,1 e 130 sui
controlli di legittimità sugli atti delle Regioni e degli enti locali, e di conseguenza anche i
CO.RE.CO.
Da una parte la centralità dei controlli di legittimità sugli atti venne meno; dall’altra, il legislatore
potenziò il sistema dei controlli interni nelle P.A., sulla convinzione che l’attività di verifica non
dovesse investire gli atti amministrativi singolarmente, bensì accertare che l’attività fosse
adeguata agli obiettivi da perseguire. Tuttavia, una vera e propria disciplina organica del sistema
dei controlli interni nelle organizzazioni statali è stata introdotta solo con il D.lgs. 286/1999.
In base a tale decreto il sistema di controlli interni è stato articolato in 4 tipologie di controlli:
2) Controllo di gestione
La predetta disciplina di controlli interni va armonizzata con il d.lgs. 150/2009 (c.d. Riforma
Brunetta).
Tale decreto ha ad oggetto la riforma organica della disciplina del rapporto di lavoro alle
dipendenze della
P.A., ma ha finito per avere un impatto generalizzato sulla realtà amministrativa.
In tale ottica, le P.A. sono tenute a sviluppare il c.d. ciclo di gestione delle performance.
L’utilizzazione della nozione di performance, tipicamente manageriale e aziendale, è significativa
nell’ottica della modernizzazione della P.A.
Per performance si intende il risultato, il contributo che ciascun soggetto all’interno
dell’amministrazione è in grado di offrire al raggiungimento di un determinato obiettivo.
In siffatto sistema, quindi, il controllo è strumentale rispetto alla valutazione e rappresenta solo un
momento del suddetto ciclo, volto a migliorare il funzionamento della amministrazione.
Le altre tipologie di controlli interni comunque sopravvivono: in particolare il ciclo di gestione
della performance e il sistema di monitoraggio e valutazione, posti dalla riforma Brunetta,
coesistono col controllo di regolarità amministrativa e contabile: oggetto di tale controllo
sono gli atti aventi riflessi finanziari sui bilanci dello Stato, delle altre p.a. e degli organismi
pubblici.
Le P.A. devono altresì provvedere ad analizzare la gestione delle risorse finanziarie e dei risultati
conseguiti dai programmi di spesa al fine di migliorare il livello di efficienza ed efficacia della
spesa pubblica.
Il controllo di regolarità amministrativa e contabile è preventivo e successivo ed è svolto dagli
uffici di bilancio centrali, dalle ragionerie territoriali dello Stato, dai servizi ispettivi di finanza
pubblica e dai collegi di revisione presso gli enti e organismi pubblici in base alle disposizioni di
legge vigenti.
- La CIVIT svolge una funzione di regolazione, vigilanza e controllo del processo di misurazione e
valutazione della performance delle pubbliche amministrazioni, in modo da assicurare all’interno,
una buona gestione da parte delle singole amministrazioni e all’esterno la qualità dei servizi offerti
dalla pubblica amministrazione ai cittadini. I compiti della CIVIT sono stati peraltro arricchiti
rispetto al momento della sua istituzione, in particolare per quanto riguarda la funzione di garanzia
della trasparenza e dell’integrità delle p.a.: attualmente la Commissione svolge anche le funzioni di
Autorità nazionale anticorruzione (ANAC).
- Gli OIV, invece, devono monitorare il funzionamento complessivo del sistema della valutazione,
della trasparenza e dei controlli interni. Gli OIV sono nominati, sentita la CIVIT, dall’organo di
indirizzo politico-amministrativo per un periodo di 3 anni presso ciascuna amministrazione.
Quanto ai compiti, innanzitutto gli OIV propongono “all’organo di indirizzo politico-amministrativo
la valutazione annuale dei dirigenti di vertice e l’attribuzione ad essi di premi”. Inoltre gli OIV
sostituiscono i Servizi di controllo interno: pertanto ad essi è affidato lo svolgimento del controllo
strategico.
Resta dubbio il loro ruolo nell’ambito delle altre tipologie di controlli interni, cioè nel controllo di
regolarità amministrativa e contabile e in quello di gestione.
I controlli amministrativi negli enti locali a seguito dell’emanazione del decreto legge
174/2012
La disciplina è contenuta nel T.U. degli enti locali (d.lgs. 267/2000), modificata col d.l. 174/2012, in
virtù del quale sono state implementate e modificate le tipologie di controlli interni.
La principale novità è la devoluzione agli stessi enti il potere di provvedere alla “riorganizzazione”
del sistema dei controlli interni con la loro autonomia normativa e organizzativa, peraltro
occasione importante per provvedere ad un loro potenziamento. Le nuove tipologie di controllo
previste sono:
I controlli interni tradizionali già esistenti, quello sulla regolarità tecnico amministrativo e
contabile, quello strategico e quello di gestione, sono stati rafforzati.
Il sistema attuale deve garantire l’osservanza degli obiettivi del patto di stabilità interni (controllo
sugli equilibri finanziari); deve verificare l’efficacia, l’efficienza e l’economicità degli organismi
gestionali esterni dell’ente (controllo sulle società partecipate); deve garantire il controllo della
qualità dei servizi erogati (controllo sulla qualità dei servizi erogati dall’ente).
Per quanto riguarda i controlli tradizionali, invece, si tenga presente che il controllo di regolarità
amministrativa e contabile interviene sia nella fase preventiva alla formazione dell’atto, dove il
responsabile del servizio attesta con parere di regolarità tecnica la correttezza dell'azione
amministrativa, sia in quella successiva, affidata al segretario, che provvede alla selezione
soltanto di alcuni atti da sottoporre a controllo, “secondo motivate tecniche di campionamento”.
Per quanto riguarda il controllo strategico, invece, dopo il d.l. 174/2012 deve essere
finalizzata “alla rilevazione dei risultati conseguiti rispetto agli obiettivi predefiniti, degli aspetti
economico-finanziari connessi ai risultati ottenuti, dei tempi di realizzazione rispetto alle
previsioni, della qualità dei servizi erogati”. L’esercizio del controllo in esame è stato affidato ad
un’unità sottoposta al direttore generale, laddove previsto, o del segretario comunale negli enti
in cui non è prevista la figura del direttore generale.
In passato era diffusa l’idea che la disciplina della responsabilità civile non fosse applicabile alla
P.A. Si riteneva, infatti, che l’esercizio dei pubblici poteri non sfociasse mai nella lesione di un
diritto. Il cittadino, quindi, poteva subire le conseguenze dannose provocate dall’azione
amministrativa, senza ricevere alcuna forma di risarcimento, considerato che le finalità
d’interesse generale che lo Stato persegue giustificavano sempre il sacrificio del privato.
Si deve allora principalmente alla giurisprudenza il merito di aver evidenziato che la responsabilità
della P.A. per le condotte poste in essere nel corso della sua attività materiale e/o di diritto privato
non presenta le peculiarità che, invece, s’incontrano quando si affronta la questione nell’ambito
dell’attività provvedimentale. Sul punto si può ad es. richiamare una delle prime decisioni con cui si
risarcì il danno subito da un paziente, ricoverato presso un ospedale pubblico, per effetto di una
trasfusione di sangue, effettuata senza le dovute cautele preventive.
Insomma col tempo si fece strada l’idea che l’amministrazione non potesse essere sottratta alla
disciplina comune della responsabilità civile, quando non agisce con l’esercizio dei suoi poteri
pubblici autoritativi (iure imperii), ma pone in essere, alla pari dei soggetti privati, delle semplici
condotte materiali o utilizza le sue capacità di diritto privato (iure gestionis). Rimase, invece, per
lungo tempo ferma la convinzione che non vi potesse essere alcuna responsabilità derivante alla
p.a. dalla sua attività provvedimentale.
La disciplina costituzionale
Nella Carta Costituzionale, dunque, si è avvertita l’esigenza di togliere l’incertezza attraverso l’art.
28 Cost.: “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente
responsabili, secondo le leggi penali, civili, amministrative, degli atti compiuti in violazione dei
diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.
Ne deriva che nei confronti della P.A. è possibile configurare le varie forme di responsabilità
previste dal codice civile, tra le quali anche la responsabilità precontrattuale, contrattuale e
extracontrattuale.
Il rinvio alle leggi ordinarie è dunque volto ad escludere qualsiasi forma di esenzione da
responsabilità per la P.A. ed i suoi agenti, al fine di uniformare il trattamento degli enti pubblici a
quello riservato nei confronti dei soggetti privati. Ciò naturalmente non impedisce che il quadro
della disciplina dettata dal codice civile non possa essere integrato anche da ulteriori norme, volte
a modellare in maniera più specifica la disciplina degli illeciti della p.a. (ad es. si rinvia alla
regolamentazione del d.p.r. 3/1957).
E' ormai pacifico che, in caso di illecito, sussista una forma di responsabilità solidale, che
investe sia i pubblici dipendenti sia gli enti pubblici.
Il privato eventualmente danneggiato può dunque chiamare in giudizio contestualmente sia le
persone fisiche che hanno agito per la P.A., sia la medesima amministrazione, il cui patrimonio
offre ovviamente maggiori garanzie patrimoniali quanto al risarcimento. In tal senso depone altresì
l’art. 22 del d.p.r. 3/1957, secondo cui “l’impiegato che, nell’esercizio delle attribuzioni ad esso
conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto è personalmente
obbligato a risarcirlo.
L’azione di risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con l’azione
diretta nei confronti dell’amministrazione”.
Nell’ambito della responsabilità della P.A. il vero problema era ammettere la risarcibilità degli
interessi legittimi, la cui lesione fu inizialmente negata perché:
in primo luogo la risarcibilità è stata preclusa dal riparto della giurisdizione. Infatti, da una
parte il giudice amministrativo, pur essendo legittimato a pronunciarsi nei confronti degli
interessi legittimi, non era dotato del potere di risarcire i danni; dall’altro il giudice ordinario,
pur avendo il potere di risarcire i danni, non era dotato di giurisdizione sugli interessi
legittimi;
La Giurisprudenza negava risarcibilità agli interessi legittimi, con l'esclusione di due ipotesi in
cui essa ammetteva la risarcibilità dei danni arrecati dalla P.A.:
1) la prima riguardava l’ipotesi dell’atto ablatorio che incideva illegittimamente sul “diritto
originario” di proprietà del privato, comportandone l’affievolimento e/o la degradazione a mero
interesse legittimo.
In questo caso il danneggiato doveva prima impugnare l’atto dinanzi al giudice amministrativo e
poi, dopo averne ottenuto l’annullamento, richiedere al giudice ordinario il risarcimento del diritto
ingiustamente affievolito (che era riemerso in seguito all’eliminazione retroattiva dell’atto).
2) la seconda ipotesi riguardava, invece, la diversa categoria dei diritti derivati, ossia dei
diritti che il privato acquistava sulla base del rilascio di un provvedimento ampliativo, la quale
fu ammessa dalla Cassazione con la sentenza 5145/1979. Qui le Sezioni Unite, nell’ambito di
una vicenda relativa ad una licenza di commercio, evidenziarono che con il rilascio del
provvedimento favorevole la posizione del privato si evolveva in un diritto soggettivo perfetto
tale che, ove un atto di secondo grado lo rimuovesse illegittimamente, il soggetto leso poteva,
una volta ottenuto l’annullamento dinanzi al giudice amministrativo, adire il giudice ordinario
per ottenere il risarcimento del danno.
Una spinta innovatrice arrivò con la direttiva CEE 665/1989, la quale imponeva agli Stati
membri di prevedere dei rimedi volti ad assicurare l’obbligo di risarcire i danni causati dalla
violazione del diritto
comunitario o dalle norme di recepimento interne.
La L. 142/1992 che recepì la direttiva innescò dunque un processo di revisione degli orientamenti
che in passato avevano escluso la risarcibilità degli interessi legittimi: una volta affermata, sia
pure specificamente nel settore degli appalti, la necessità di risarcire anche tali situazioni, divenne
difficile continuare a negare l’esperibilità di tale rimedio anche negli altri campi. Successivamente
il legislatore stesso è intervenuto con norme che hanno aperto la strada verso la risarcibilità degli
interessi legittimi:
l’art. 17 co. 1 lett. f d.lgs 59/1997, con cui si è introdotta la “previsione per i casi di mancato
rispetto del termine del procedimento, di ritardato o incompleto assolvimento degli obblighi e delle
prestazioni da parte della pubblica amministrazione, di forme di indennizzo automatico”;
l’art. 35 co. 1 d.lgs. 80/1980, che ha stabilito che il giudice amministrativo “dispone, anche
attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”.
La Sent n. 500/99 delle Sezioni Unite n. 500 e l’assegnazione al G.a. del potere di risarcire i
danni.
Nella pronuncia citata si afferma che il dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi è stato
sottoposto negli anni ad un lento processo di erosione, dato che è ormai acquisito che il principio
che la risarcibilità di cui all’art.2043 c.c. riguardi non più solo i diritti assoluti, ma anche i relativi
ed altre posizioni giuridiche. Nell’ambito di quest’ultima categoria si include il diritto all’integrità
del patrimonio o alla libera determinazione negoziale, per i quali è stata riconosciuta la
risarcibilità dei danni da perdita di chance. Percorso analogo è stato compiuto nel settore dei
rapporti con la P.A., riconoscendo la vera natura dell’interesse legittimo, che non è di carattere
meramente processuale.
Al contrario possiede anche una dimensione sostanziale, atteso che esso risulta correlato
all’esercizio di un potere amministrativo da cui può derivare il conseguimento di un bene della
vita.
La Cassazione affermò quindi che nell’art. 2043 c.c. non rientra solo il diritto soggettivo, atteso
che “è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell’ingiustizia”, ossia che risulti
meritevole di tutela. Non si possono individuare aprioristicamente gli interessi suddetti,
considerato che “caratteristica del fatto illecito delineato dall’art. 2043 c.c. è proprio la sua
atipicità”.
Sarà il giudice a selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, comparando quelli in conflitto.
Infine, la sentenza 500/99 ha sollecitato un secondo intervento del legislatore che ha esteso la
competenza del giudice amministrativo a pronunziarsi sulle richieste di risarcimento dei danni.
In tal senso l’art. 7 della legge 205/00 ha previsto che il TAR, nella sua giurisdizione, conosce
anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. Tale disciplina è
oggi recepita dall’art. 30 c.p.a.
La struttura dell’illecito extracontrattuale della P.A. nel Codice del processo amministrativo
La disciplina introdotta dall’art. 30 c.p.a., tuttavia, sembra inquadrare la responsabilità della P.A.
per l’esercizio (o il mancato esercizio) illegittimo/illecito della funzione amministrativa proprio nella
sfera della responsabilità extracontrattuale.
Il legislatore ha quindi condiviso la linea della pronuncia 500/1999, nella quale si affermava che,
al fine di identificare un illecito della P.A., il giudice dovrà verificare se nella fattispecie vi è:
della PA. L’applicazione dello schema dell’art. 2043 cc nei confronti della PA ha posto
alcuni problemi.
L’elemento oggettivo
Se per la presenza dell’elemento oggettivo è necessario che vi sia una violazione della legge,
tuttavia per la nota pronuncia la lesione dell’interesse legittimo “ questa è condizione necessaria,
ma non sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043, poiché occorre anche che
risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della P.A., l’interesse al bene della vita al
quale l’interesse legittimo si correla, e che tale interesse al bene della vita sia meritevole di tutela
alla luce dell’ordinamento positivo”.
Inoltre, in tale decisione si afferma che l’esercizio illegittimo della funzione amministrativa
inciderebbe in modo diverso a seconda del tipo diverso di interesse legittimo:
Si è osservato che non sempre la presenza di un vizio di legittimità dell’atto è causa di una
violazione dell’interesse alla conservazione del bene della vita, già contenuto nella sfera
giuridica del soggetto titolare di un interesse legittimo oppositivo. Quando, infatti, l’atto è inficiato
da un vizio di legittimità formale o procedurale, l’amministrazione ben potrebbe adottare la
medesima decisione sulla base di un secondo atto sempre sfavorevole, ma emendato dal profilo
di invalidità di carattere formale.
Inoltre, con riguardo alla previsione del giudizio prognostico, una certa dottrina ha ritenuto che
questa sia nient’altro che “una rete di contenimento” attraverso la quale la Cassazione ha
voluto limitare le ricadute finanziarie che il superamento del dogma dell’irrisarcibilità degli
interessi legittimi avrebbe altrimenti prodotto sulle casse dello Stato.
Sempre con riferimento a tale giudizio (c.d. sulla spettanza del bene della vita), si dubita della
possibilità di esperirlo nelle ipotesi in cui la P.A. eserciti una discrezionalità tecnica dato che il
giudice non potrebbe sostituirsi nelle valutazioni della P.A. in ragione del principio della
separazione dei poteri.
Eppure escludere che il giudice amministrativo possa sostituirsi alle scelte discrezionali per
verificare la fondatezza della pretesa, ha il limite di far dipendere l’esito del giudizio risarcitorio da
una successiva decisione della stessa p.a.: infatti, soltanto quando essa, in seguito al riesercizio
del suo potere discrezionale, riconoscerà il bene della vita al privato, si potrà richiedere il
risarcimento del danno.
Ma è evidente che in questo caso l’amministrazione non sarà certo interessata a concedere il
bene, dato che in questo modo ammetterebbe la sua colpa.
Del resto, un giudizio ipotetico sembra essere stato introdotto anche all’interno dell’art. 21 octies a
proposito dell’annullamento, imponendo al giudice amministrativo di verificare quale sarebbe stato
il contenuto dell’atto ove non fosse ricorso alcun vizio.
L’elemento soggettivo
La pronuncia 500 della Cassazione ha escluso che il presupposto soggettivo della colpa possa
essere assorbito dall’illegittimità dell’atto e dalla sua esecuzione, cioè sia configurabile in re ipsa
(tesi precedente). Pertanto, ai fini della verifica dell’elemento soggettivo, il giudice dovrà svolgere
un’indagine “estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente, ma della P.A.
intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione o esecuzione dell’atto
illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona
amministrazione quali limiti esterni alla discrezionalità”.
Tuttavia, il criterio indicato dalle Sezioni Unite desta non poche perplessità:
Infine, una dottrina illustre ha osservato che “se per apparato s’intende il solo organismo
agente, si possono determinare casi di violazione dei suddetti principi senza colpa; se per
apparato s’intende l’insieme degli organismi pubblici comunque coinvolti dalla condotta
illecita, allora ogni condotta dà luogo a colpa”.
Si configura quindi una difficoltà ad individuare la nozione di colpa nell’attività della P.A.:
Secondo un primo orientamento, l’elemento psicologico dell’illecito della P.A. ricorre quando, oltre
al profilo dell’illegittimità degli atti, si rinviene una violazione dei principi costituzionali di
imparzialità, buon andamento o delle norme di legge in materia di celerità, efficienza, efficacia e
trasparenza, nonché degli altri principi generali dell’ordinamento (ragionevolezza, proporzionalità,
adeguatezza).
Secondo un altro, invece, ciò che contraddistingue la nozione di colpa dalla mera illegittimità
dell’atto sarebbe la gravità della violazione. La violazione risulta grave quando si è in presenza di
un quadro fattuale e normativo così chiaro da rendere manifesta l’imperizia o la negligenza
dell’organo che ha adottato l’atto. Al contrario la colpa si esclude quando si ha un errore
scusabile, perché sul punto la giurisprudenza è divisa, o la disciplina giuridica di riferimento è di
difficile interpretazione, o la vicenda risulta complessa. La giurisprudenza ha inoltre evidenziato,
ex art. 2697 c.c., che l’onere della prova grava sul privato.
Un ultimo indirizzo ha però ridotto il peso di tale onere probatorio gravante in capo al privato,
avendo considerato l’illegittimità del provvedimento, pur in mancanza di un’espressa previsione
normativa, idonea a porre una presunzione relativa, semplice.
Pertanto, una volta accertata l’illegittimità dell’atto attraverso la presunzione semplice viene
dimostrata automaticamente la presenza dell’elemento soggettivo dell’illecito. Spetterà
piuttosto alla P.A. l’onere di provare la scusabilità dell’errore: insomma, siamo in presenza di
un’inversione dell’onere della prova.