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Il diritto amministrativo comunitario in senso proprio è soltanto quello avente ad oggetto l’amministrazione comunitaria e si può
rilevare, ai fini del diritto amministrativo italiano, nel fatto che esso può trasformarsi in uno strumento di circolazione di modelli giuridici
che possono in futuro influenzare il nostro ordinamento.
Per amministrazione comunitaria si intende l’insieme degli organismi e delle istituzioni dell’Unione Europea a cui è affidato il compito di
svolgere attività sostanzialmente amministrativa e di emanare atti amministrativi.
Il moltiplicarsi dei compiti dell’Unione Europea determina, però, anche un parziale ridimensionamento del campo di azione
dell’amministrazione interna.
Questo problema è arginato dal principio di sussidiarietà che, però, ha due facce: una garantista a favore del decentramento e dei poteri
locali, a cui sono riservate le competenze salvo che essi non siano in grado di assicurare la realizzazione degli obiettivi che debbono
perseguire; l’altra che può agevolare processi di accentramento a favore del livello di governo superiore, consentendo a quest’ultimo di
agire anche al di là delle competenze ad esso attribuite formalmente ogni qual volta l’azione comunitaria si presenti come la più efficace.
Questo principio costituisce una vera e propria regola di riparto delle competenze tra Stati membri e Unione Europea per salvaguardare le
attribuzioni degli Stati stessi ed è stato inserito nel nostro ordinamento dalla Legge n. 59/1997 e dall’art. 3, comma V del T.U. sugli enti
locali, nonché dalla Legge costituzionale n. 3/2001.
In particolare, nei settori di competenza concorrente tra Unione e Stati membri, l’Unione Europea può intervenire soltanto se e nella misura
in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possano essere realizzati dagli Stati membri potendo, invece, essere meglio realizzati a livello
comunitario a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione stessa.
Spesso le amministrazioni nazionali sono chiamate a svolgere compiti esecutivi delle decisioni adottate dall’amministrazione comunitaria e
questo determina una complicazione del procedimento amministrativo, nel senso che si assiste alla partecipazione ad esso sia delle
amministrazioni italiane, sia dell’amministrazione comunitaria che emana l’atto finale destinato a produrre effetti per i cittadini.
Questa situazione crea dubbi e incertezze in ordine al giudice nazionale o comunitario al quale deve rivolgersi il privato che si ritenga leso
dall’azione procedimentale.
È importante chiarire che cosa si debba intendere per esecuzione nel diritto comunitario.
In particolare si deve distinguere tra esecuzione in via diretta, caratterizzata da funzioni svolte direttamente dalla Comunità, ed esecuzione
in via indiretta, che avviene, cioè, avvalendosi della collaborazione degli Stati membri.
La Commissione si avvale, oggi, di apparati esecutivi e di uffici che si sono creati e sviluppati spesso in materia non organica, attraverso
decisioni ad hoc, anche a motivo dell’essenza di una riserva di legge in materia di organizzazione che avrebbe probabilmente imposto uno
sviluppo più omogeneo.
Sotto il profilo soggettivo, nell’amministrazione comunitaria assume un ruolo centrale la Commissione che ha compiti di esecuzione
delle norme comunitarie.
CAPITOLO II
ORDINAMENTO GIURIDICO E AMMINISTRAZIONE: LA DISCIPLINA COSTITUZIONALE
L’amministrazione nella Costituzione: in particolare il “modello” di amministrazione emergente dagli artt. 5, 95, 97 e 98. La
separazione tra indirizzo politico e attività di gestione.
La Costituzione si occupa dell’amministrazione nella Sezione II del Titolo III della Parte Seconda.
Oltre agli articoli presenti nello stesso Titolo III, Sezione I, relativi al governo (in particolare l’art. 95), si ricordano gli artt. 5, 28, 52, 114 e
118; di rilievo sono, poi, le norme che interessano la materia dei servizi pubblici (artt. 32, 33, 38, 41, 43, 47), la responsabilità (art. 28) e le
altre disposizioni comunque applicabili all’amministrazione.
Dal quadro normativo costituzionale emergono diversi modelli di amministrazione, nessuno dei quali può essere considerato come
“modello” principale.
In base l’art. 98 della Costituzione, l’amministrazione pare in primo luogo direttamente
legata alla collettività nazionale al cui servizio i suoi impiegati sono posti.
Vi è, poi, il modello espresso dall’art. 5 della Costituzione e sviluppato nel Titolo V della Parte Seconda, caratterizzato dal disegno del
decentramento amministrativo e dalla promozione delle autonomie locali, capaci di esprimere un proprio indirizzo politico-
amministrativo.
L’art. 97 della Costituzione contiene una riserva di legge e mira a sottrarre l’amministrazione al controllo politico del Governo: quindi,
una amministrazione indipendente dal governo e che si legittima per la sua imparzialità ed efficienza; contemporaneamente, lo stesso
art. 97 della Costituzione pone limiti al legislatore che può incidere sull’amministrazione soltanto dettando regole per la disciplina della
sua organizzazione.
L’analisi dei modelli di amministrazione emergenti dal disegno costituzionale evidenzia la costante presenza della questione del rapporto
tra amministrazione, governo e politica.
Il Governo, insieme al Parlamento, esprime un indirizzo, qualificato dall’art. 95 della Costituzione come indirizzo politico e
amministrativo.
L’indirizzo politico può definirsi come la direzione politica dello Stato e, quindi, come quel complesso di manifestazioni di volontà in
funzione del conseguimento di un fine unico; invece, l’indirizzo amministrativo consiste nella prefissione di obiettivi dell’azione
amministrativa, ma che deve comunque essere stabilito nel rispetto dell’indirizzo politico.
L’art. 2, comma I della Legge n. 400/1988 attribuisce al Consiglio dei ministri il compito di determinare, in attuazione della politica
generale del governo, l’indirizzo generale dell’azione amministrativa e l’art. 5, comma II lettera a) della Legge n. 400/1988 prevede che il
Presidente del Consiglio dei ministri impartisca ai ministri le direttive politiche e amministrative in attuazione delle deliberazioni del
Consiglio dei ministri.
Il D.Lgs. n. 165/2001 attribuisce agli organi di governo l’indirizzo politico-amministrativo (artt. 4 e 14).
L’art. 42 del T.U. sugli enti locali dispone a sua volta che il consiglio comunale e quello provinciale siano organi di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo.
L’amministrazione deve essere leale verso la forza politica che detiene la maggioranza parlamentare e deve essere uno strumento di
esecuzione delle direttive politiche impartite dal ministro che assume la responsabilità degli atti del proprio dicastero.
Il significato del D.Lgs. n. 165/2001 non è quello di riservare l’attività di indirizzo ai soli organi politici, ma di identificare i contenuti
dell’attività, qualificata come “indirizzo politico-amministrativo”, sottratta ai dirigenti, ai quali una attività di indirizzo comunque spetta.
Gli organi politici possono controllare e indirizzare il livello più alto dell’amministrazione – la dirigenza – soltanto utilizzando gli strumenti
di cui al D.Lgs. n. 165/2001, in particolare la prefissione di obiettivi e la verifica dei risultati.
A differenza degli atti amministrativi, gli atti politici sono sottratti al sindacato del giudice amministrativo in forza dell’art. 24 della Legge
n. 5992/1989, la legge istitutiva del Consiglio di Stato: ad esempio, le deliberazioni dei decreti-legge e dei decreti legislativi; gli atti di
iniziativa legislativa del governo; la determinazione di porre la questione di fiducia; lo scioglimento dei consigli regionali.
Nel diritto amministrativo è stata elaborata la categoria degli atti di alta amministrazione, ad esempio, i provvedimenti di nomina dei
direttori generali delle aziende unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere, caratterizzati da una amplissima discrezionalità, considerati
l’anello di collegamento tra indirizzo politico e attività amministrativa in senso stretto e soggetti alla legge e al sindacato giurisdizionale.
Il principio di legalità.
Il principio di legalità esprime l’esigenza che l’amministrazione sia assoggettata alla legge, anche se esso è applicabile non soltanto alla
amministrazione, ma a qualsivoglia potere pubblico.
Nel nostro ordinamento giuridico convivono più concezioni del principio di legalità.
Il principio di legalità è considerato nei termini di non contraddittorietà dell’atto amministrativo rispetto alla legge — c.d. preferenze
della legge.
L’art. 4 delle disposizioni preliminari al Codice civile stabilisce che i regolamenti amministrativi “non possono contenere norme
contrarie alle disposizioni di legge”, da cui discende l’obbligo per il giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi e i
regolamenti non “conformi” alle leggi.
Questa accezione, che corrisponde all’idea di una amministrazione che può fare ciò che vuole purché non sia impedito dalla legge, è
stata successivamente superata dalle tesi della legalità formale e della legalità sostanziale.
Il principio di legalità è inteso anche nella sua accezione di conformità formale, nel senso che il rapporto tra legge e amministrazione è
impostato non solo sul divieto di quest’ultima di contraddire la legge, ma anche sul dovere della stessa di agire nelle ipotesi ed entro i
limiti fissati dalla legge che attribuisce il relativo potere.
Questo principio si applica ad alcuni atti amministrativi normativi, come i regolamenti ministeriali.
Il principio della legalità inteso come conformità sostanziale fa riferimento alla necessità che l’amministrazione agisca non solo entro i
limiti di legge, ma in conformità della disciplina sostanziale posta dalla legge stessa che incide anche sulle modalità di esercizio
dell’azione e, dunque, penetra all’interno dell’esercizio del potere.
Questa concezione si ricava dalle ipotesi in cui la Costituzione prevede una riserva di legge.
Vi sono, tuttavia, alcune differenze tra il principio di legalità e riserva di legge.
Quest’ultima riguarda il rapporto tra Costituzione, legge e amministrazione e, imponendo la disciplina legislativa di una data materia, ne
limita l’esercizio del potere normativo spettante all’esecutivo: la sua violazione comporta l’illegittimità costituzionale della legge stessa.
Le differenze si sostanziano nel fatto che il principio di legalità attiene al rapporto tra legge e attività complessiva della pubblica
amministrazione, quindi, anche quella non normativa: il mancato rispetto di questo principio determina l’illegittimità dell’azione
amministrativa.
I parametri a cui l’attività amministrativa deve fare riferimento sono non solo di legalità, ma anche di legittimità, la quale consiste nella
conformità del provvedimento e dell’azione amministrativa a parametri anche diversi dalla legge, ancorché alla stessa pur sempre collegati.
Tra questi parametri sono da annoverare anche “regole non scritte”.
In ragione del fatto che il potere si concretizza nel provvedimento, si comprende perché il principio di legalità si risolva in quello di tipicità
dei provvedimenti amministrativi: se l’amministrazione può esercitare i soli poteri autoritativi attribuiti dalla legge, essa può emanare
soltanto i provvedimenti stabiliti in modo tassativo dalla legge stessa.
Occorre, infine, richiamare il principio del giusto procedimento, elaborato dalla Corte costituzionale e avente la dignità di principio
generale dell’ordinamento: in particolare, esso esprime l’esigenza che vi sia una distinzione tra il disporre in astratto con legge e il
provvedere in concreto con atto alla stregua della disciplina astratta.
Il principio di imparzialità.
L’art. 97 della Costituzione pone due principi relativi all’amministrazione: il principio di buon andamento dell’amministrazione e il
principio di imparzialità.
La dottrina e la giurisprudenza hanno affermato la natura precettiva e non programmatica della norma costituzionale, la quale pone una
riserva di legge; inoltre, è stata affermata l’applicabilità diretta dei due principi sia all’organizzazione che all’attività amministrativa.
Il concetto di imparzialità esprime il dovere dell’amministrazione di non discriminare la posizione dei soggetti coinvolti.
L’imparzialità impone che l’amministrazione sia strutturata in modo da assicurare una condizione di oggettiva aparzialità e, in questo senso,
la norma costituzionale conterrebbe una riserva di organizzazione in capo all’esecutivo.
Esempi di applicazione del principio si trovano nell’art. 98 della Costituzione, che sancisce che i pubblici impiegati sono al servizio
esclusivo della Nazione e, quindi, non di interessi partigiani.
Il principio di imparzialità impone il criterio del pubblico concorso per l’accesso ai pubblici uffici, teso ad evitare la formazione di una
burocrazia politicizzata e che richiede che la commissione giudicatrice sia formata prevalentemente da tecnici.
Strettamente connesso all’imparzialità è il principio della predeterminazione dei criteri e delle modalità a cui le amministrazioni si debbono
attenere nelle scelte successive, che consente di verificare la rispondenza delle scelte concrete ai criteri che l’amministrazione ha prefissato
— c.d. autolimite.
La parzialità ricorre quando sussiste un ingiustificato pregiudizio o una indebita interferenza di alcuni di questi interessi, mentre
l’imparzialità, riferita all’attività di scelta concreta, si identifica nella congruità delle valutazioni finali e delle modalità di azione prescelte.
Questa congruità deve essere definita tenendo conto degli interessi implicati, di quelli tutelati dalla legge e degli altri elementi che possono
condizionare l’azione amministrativa.
I principi di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione e di sindacabilità degli
atti amministrativi. Il problema della riserva di amministrazione.
L’art. 24, comma I della Costituzione stabilisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri interessi legittimi”.
L’art. 113 della Costituzione dispone che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei
diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa.
Questa tutela non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.
La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti
dalla legge stessa”.
Questa disciplina esprime l’esigenza che ogni atto della pubblica amministrazione possa essere sindacato da parte di un giudice e che tale
sindacato attenga a qualsiasi tipo di vizio di legittimità: si tratta del principio di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini nei
confronti dell’amministrazione e del principio di sindacabilità degli atti amministrativi.
Secondo la Corte costituzionale, la norma in esame non impedisce l’emanazione delle c.d. leggi provvedimento, e cioè quelle leggi che
hanno contenuto puntuale e concreto alla stessa stregua dei provvedimenti amministrativi, purché sia rispettato il canone di ragionevolezza.
La legge provvedimento può essere però sindacata soltanto dalla Corte costituzionale, alla quale, tuttavia, non è possibile proporre
direttamente ricorso da parte dei soggetti privati lesi.
Emerge il problema della riserva di amministrazione, e cioè ci si deve chiedere se esista un ambito di attività ristretto riservato alla
pubblica amministrazione.
Di riserva dell’amministrazione potrebbe in primo luogo parlarsi nei confronti della funzione giurisdizionale.
In questo senso esiste un ambito sottratto al sindacato dei giudici, ordinari e amministrativi, costituito dal merito; tuttavia, in alcuni casi,
l’ordinamento dispone il superamento di questa riserva prevedendo che il giudice amministrativo abbia giurisdizione di merito, la quale
consente di sindacare l’opportunità delle scelte amministrative.
L’idea della riserva di amministrazione sembra, poi, confliggere con altri principi, come il principio della preferenza della legge.
Inoltre, una legge che non disponesse in via puntuale e concreta – sostituendosi all’amministrazione e nell’esercizio di un potere – in una
situazione caratterizzata dalla presenza di più interessi di cui occorre effettuare una valutazione e una ponderazione, violerebbe il principio
di imparzialità a cui il legislatore è vincolato in tema di attività amministrativa.
Un caso diverso di riserva a favore dell’amministrazione, relativo all’esercizio della funzione regolamentare, pare emergere dall’art. 117,
comma VI della Costituzione che riconosce la potestà regolamentare regionale in ogni materia diversa da quelle di competenza statale e la
potestà regolamentare dei comuni, province e città metropolitane “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle
funzioni loro attribuite”.
CAPITOLO III
L’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA: PROFILI GENERALI
Introduzione.
Ciascun ordinamento, oltre a riconoscere la soggettività e la capacità giuridica a tutte le persone fisiche, istituisce altri soggetti-persone
giuridiche e questo vale anche per le persone giuridiche pubbliche.
La dottrina e la giurisprudenza riconoscono come soggetti di diritto – e, dunque, come centri di imputazione di situazioni giuridiche
soggettive – anche organizzazioni che non hanno la personalità giuridica, come le associazioni non riconosciute (dette “ figure soggettive”),
le associazioni sindacali, i ministeri, le amministrazioni autonome e le autorità indipendenti non aventi personalità giuridica.
L’avvalimento era previsto dall’art. 118, ultimo comma della Costituzione, ma è stato cancellato dalla Legge costituzionale n. 3/2001;
tuttavia, esso è ancora presente perché previsto da una Legge ordinaria (art. 3, comma I, lett. f della Legge n. 59/1997) e consiste
nell’utilizzo da parte di un ente degli uffici di un altro ente.
Questi uffici svolgono attività di tipo ausiliario, ad esempio preparatoria o esecutiva, ma non costituisce deroga di competenze trattandosi di
una vicenda interna di tecnica organizzativa.
Col termine sostituzione si indica in generale l’istituto attraverso il quale un soggetto (sostituto) è legittimato a far valere un diritto, un
obbligo o una attribuzione che rientrano nella sfera di competenza di un altro soggetto (sostituito) operando in nome proprio e sotto la
propria responsabilità.
Le modificazioni giuridiche che subiscono diritti, obblighi e attribuzioni incidono direttamente nella sfera del sostituito, in capo al quale si
producono gli effetti o le conseguenze dell’attività posta in essere dal sostituto.
L’ordinamento disciplina il potere sostitutivo tra enti nei casi in cui un soggetto non ponga in essere un atto obbligatorio per legge o non
eserciti le funzioni amministrative ad esso conferite e la giurisprudenza sottolinea che il legittimo esercizio del potere di sostituzione
richiede la previa diffida.
Il potere sostitutivo in caso di inerzia può essere esercitato direttamente da un organo dell’ente sostituto, oppure da un commissario
nominato dall’ente sostituto.
In ordine ai poteri sostitutivi dello Stato sulla regione, la Corte costituzionale ha affermato che debba essere rispettato il principio della leale
cooperazione, che impone allo Stato di intervenire soltanto dopo avere adottato le misure (informazioni attive e passive, sollecitazioni,
ecc…) idonee a qualificare l’intervento del sostituto come necessario a causa dell’inerzia della regione.
L’art. 5 del D.Lgs. n. 112/1998 disciplina i poteri sostitutivi dello Stato in caso di accertata inattività delle regioni e degli enti locali che
comporti inadempimento agli obblighi comunitari o pericolo di grave pregiudizio agli interessi nazionali.
Ai sensi dell’art. 120, comma II della Costituzione, infine, il Governo “può sostituirsi agli organi delle regioni, delle città metropolitane,
delle province e dei comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, oppure di pericolo
grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, oppure quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in
particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi
locali”.
Il comma III specifica che “la legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di
sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”.
La delega di funzioni amministrative è figura che ricorre nei rapporti tra Stato e regioni e tra regioni ed enti locali.
In particolare, le regioni, secondo quanto disposto dall’art. 118 della Costituzione (vecchia formulazione) esercitano in via normale le
proprie funzioni amministrative delegandole alle province, ai comuni e agli altri enti locali.
Queste deleghe sono operate con legge (art. 118, comma III e art. 4, comma V della Legge n. 59/1997).
La recente riforma della Legge costituzionale n. 3/2001 ha sostituito l’art. 118 della Costituzione e ha costituzionalizzato l’istituto del
conferimento di funzioni amministrative ai vari livelli di governo locale sulla base dei “principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza”.
Alcune forme associative, tradizionalmente distinte in federazioni e consorzi, possono essere costituite tra enti.
Le federazioni di enti svolgono attività di coordinamento e di indirizzo dell’attività degli enti federati, nonché attività di rappresentanza
degli stessi: ad esempio, l’A.C.I., il C.O.N.I. e le federazioni nazionali di ordini e collegi.
Alcune federazioni comprendono anche soggetti privati, altre possono costituire federazioni di diritto privato: ad esempio, A.N.C.I.,
associazione nazionale dei comuni italiani.
I consorzi costituiscono una struttura stabile volta alla realizzazione di finalità comuni a più soggetti, spesso realizzano o gestiscono opere
o servizi di interessi comuni agli enti consorziati, i quali restano comunque di regola titolari delle opere e dei servizi.
I consorzi pubblici possono essere classificati in entificati e non entificati, obbligatori e facoltativi.
Esistono, poi, consorzi formati soltanto da enti pubblici ovvero anche da privati.
I consorzi entificati sono enti di tipo associativo.
Nell’ambito delle forme associative tra enti, debbono altresì essere ricordate le unioni di comuni, mentre caratteri simili ai consorzi hanno
gli uffici comuni che gli enti locali possono costituire attraverso convenzione e che operano con personale distaccato degli enti partecipanti,
ai quali viene affidato l’esercizio di funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti all’accordo.
Il T.U. sugli enti locali, modificato dall’art. 35 della Legge n. 448/2001 e dalla Legge n. 326/2003, prevede per i servizi locali di rilevanza
economica tre forme di gestione:
società pubbliche direttamente affidatarie del servizio come le società a capitale misto pubblico e privato, nelle quali il socio
privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;
società pubbliche direttamente affidatarie del servizio come le società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli
enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la
società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano nella logica della
concorrenza e del mercato;
affidamento del servizio a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare.
Per la disciplina relativa alla dismissione delle partecipazioni azionarie nelle società in cui sono stati trasformati gli enti privatizzati, l’art. 2
del D.L. b. 332/1994 convertito in Legge n. 474/1994, modificato dalla Legge n.350/2004, accanto ai limiti al possesso azionario e al
divieto della cessione della partecipazione, consente allo Stato di mantenere poteri speciali (golden share: opposizione all’assunzione di
partecipazioni che rappresentano almeno la ventesima parte del capitale sociale) esercitabili soltanto in caso di pericolo per “interessi vitali”
dello Stato medesimo con riferimento alle società operanti nel settore della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di
energia e degli altri pubblici servizi, individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.
Ricorre ente pubblico laddove lo statuto delle società per azioni e la disciplina delle dismissioni implichino la impossibilità di uno
scioglimento: infatti, l’esistenza e la destinazione funzionale della società sono predeterminate con atto normativo e rese indisponibili alla
volontà dei propri organi deliberativi.
Le società a partecipazione pubblica maggioritaria sono assoggettate ad una disciplina di diritto speciale.
Le società per azioni a partecipazione pubblica locale sono soggetti privati nei limiti in cui possano disporre della propria esistenza e del
proprio oggetto.
I concessionari di opere e gli affidatari di servizi pubblici sono categorie di soggetti privati che presentano carattere pubblicistico, i quali,
collocati in sul mercato in regime di libera concorrenza, sono assoggettati a settori c.d. esclusi, allorché agiscano “in virtù di diritti speciali
o esclusivi”.
Sono diritti speciali o esclusivi i diritti costituiti per legge, per regolamento o in virtù di una concessione o di altro provvedimento
amministrativo avente l’effetto di riservare ad uno o più soggetti l’esercizio di attività.
L’art. 2461 del Codice civile si occupa delle società di interesse nazionale estendendo ad esse la normativa di cui agli artt. 2458 e 2459 del
Codice civile “compatibilmente con le disposizioni delle leggi speciali che stabiliscono per queste società una particolare disciplina circa la
gestione sociale, la trasferibilità delle azioni, il diritto di voto e la nomina degli amministratori e dei dirigenti.
Tra queste società si ricorda la RAI-TV, concessionaria del servizio pubblico.
Recentemente, gli artt. 11 e 14 della Legge n. 59/1997 hanno conferito al governo la delega ad emanare decreti legislativi diretti a
“riordinare gli enti pubblici nazionali operanti in settori diversi dalla assistenza e previdenza, le istituzioni di diritto privato e le società per
azioni controllate dallo Stato”, individuando quale criteri e principi direttivi “la fusione o soppressione di enti con finalità omologhe o
complementari, la trasformazione di enti per i quali l’autonomia non sia necessaria o funzionalmente utile in ufficio dello Stato o di altra
amministrazione pubblica oppure in struttura di università, col consenso della medesima, ovvero la liquidazione degli enti inutili”.
L’organo.
La personalità giuridica delle organizzazioni è riferita alle situazioni giuridiche e ai rapporti giuridici.
Per poter agire le organizzazioni potevano ricorrere a due istituti:
la rappresentanza, alla stessa stregua di quella necessaria disposta per le persone fisiche incapaci di agire;
utilizzare la figura dell’organo;
Attraverso l’organo la persona giuridica agisce e l’azione svolta dall’organo si considera posta in essere dall’ente.
L’organo non è separato dall’ente e, quindi, a differenza di quanto accade nella rappresentanza, la sua azione non è svolta in nome e per
conto di altri, ma corrisponde all’attività propria dell’ente.
La capacità giuridica spetta comunque all’ente, che è centro di imputazioni di effetti e di fattispecie.
L’organo è, dunque, uno strumento di imputazione, e cioè l’elemento dell’ente che consente di riferire all’ente stesso atti e attività.
Spesso l’organo permette all’ente di rapportarsi con altri soggetti giuridici o comunque di produrre effetti giuridici.
Più in particolare, l’organo va identificato nella persona fisica o nel collegio in quanto investito della competenza attribuita
dall’ordinamento: ad esempio, il contratto stipulato dal dirigente comunale si considera concluso dal Comune.
In assenza del titolare, l’ordinamento indica colui che è chiamato a svolgere le relative funzioni.
Tra persona fisica preposta all’organo ed ente pubblico corre un rapporto giuridico, definito “rapporto di servizio”.
I poteri vengono attribuiti soltanto all’ente avente la soggettività giuridica ed esso si avvale di più organi, ognuno di essi, pur senza esserne
titolare, esercita una quota di quei poteri, detta competenza.
La competenza è ripartita secondo svariati criteri: per materia, per valore, per grado o per territorio.
La competenza va tenuta distinta dall’attribuzione, che indica la sfera di poteri che l’ordinamento generale conferisce ad ogni ente pubblico.
L’imputazione di fattispecie in capo agli enti da parte di soggetti estranei alla loro organizzazione.
Tra le attività pubbliche che vengono esercitate da soggetti privati si pensi alle funzioni certificative spettanti al notaio, alle possibilità che
concessionari emanino atti amministrativi o eroghino servizi pubblici, alla potestà spettante ai cittadini di procedere all’ arresto in
flagranza di reato, al potere degli interessati di produrre dichiarazioni sostitutive di certificazioni, alla possibilità di affidare ai terzi la
riscossione dei tributi.
Il privato può agire direttamente in base alla legge, o in forza di un atto della pubblica amministrazione.
Egli riceve spesso un compenso da parte dell’ente pubblico oppure da utenti che fruiscono della sua attività.
L’attività si configura nei confronti dei terzi come pubblicistica, alla stessa stregua di quella che avrebbe posto in essere l’ente pubblico
sostituito.
Il controllo.
Il controllo è una altra importante relazione interorganica che consiste nell’attività di verifica, esame e revisione dell’operato altrui.
Nel diritto amministrativo il controllo costituisce una autonoma funzione svolta da organi peculiari.
Il controllo consiste in un esame, da parte di un apposito organo, di atti e attività imputabili ad un altro organo controllato.
Il controllo è svolto in ogni caso nell’ambito delle relazioni gerarchiche dove l’organo gerarchicamente superiore controlla l’attività
dell’organo subordinato.
Il controllo, che è sempre doveroso, deve essere svolto nelle forme previste dalla legge e si conclude con la formulazione di un giudizio,
positivo o negativo, sulla base del quale viene adottata una misura.
Il controllo si divide in interno ed esterno a seconda che esso sia esercitato da organi dell’ente o da organi di enti diversi.
Un esempio di controllo interno è costituito dal controllo ispettivo.
Il controllo sugli organi degli enti territoriali è previsto, per quanto riguarda le regioni, dall’art. 126 della Costituzione e dagli artt. 141 e
segg. del T.U. sugli enti locali in ordine agli enti territoriali diversi dalla regione.
Il controllo può essere condotto alla luce di criteri, di volta in volta, differenti - conformità alle norme (controllo di legittimità, denominato
vigilanza), opportunità (denominato tutela), efficienza, efficacia, ecc… - e avere oggetti diversi tra loro: organi, atti normativi, atti
amministrativi di organi individuali e collegiali, contratti di diritto privato, attività.
Le misure che possono essere adottate a seguito del giudizio sono di vario tipo: repressive (annullamento dell’atto); impeditive (le quali non
eliminano l’atto ma ostano a che l’atto produca efficacia, come rifiuto di approvazione o visti); sostitutive (c.d. controllo sostitutivo).
Nel controllo sugli organi la misura è la sostituzione all’organo ordinario nel compimento di alcuni atti.
In altri casi la misura è lo scioglimento dell’organo.
Ancora diversa è la misura che consiste nell’applicazione di sanzioni ai componenti l’organo.
Nell’ambito dei controlli sugli atti si distingue tra controlli preventivi (rispetto alla produzione degli effetti degli atti) e successivi (i quali
si svolgono quando l’atto ha già prodotto i suoi effetti).
In una via di mezzo tra controlli successivi e preventivi si collocano i controlli mediante riesame, i quali procrastinano l’efficacia dell’atto
all’esito di una nuova deliberazione dell’autorità decidente.
In particolare, il controllo di ragioneria nell’amministrazione statale e il controllo della Corte dei Conti.
Un particolare tipo di controllo (contabile e di legittimità) è il controllo di ragioneria esercitato dagli uffici centrali di bilancio a livello
centrale e dalle ragionerie provinciali a livello di organi decentrati delle amministrazioni statali, i quali provvedono alla registrazione degli
impegni di spesa risultanti dai provvedimenti assunti dalle amministrazioni statali e possono inviare osservazioni sulla legalità della spesa
senza che ciò abbia effetti impeditivi sull’efficacia degli atti.
Oggi, gli uffici di ragioneria svolgono il controllo interno di regolarità amministrativa e contabile.
Controllo successivo esterno e costituzionalmente garantito è quello esercitato dalla Corte dei Conti “organo al servizio dello Stato-
comunità” attraverso il meccanismo della registrazione e dell’apposizione del visto.
La Corte dei conti svolge anche altre importanti funzioni di controllo potendo “richiedere alle amministrazioni pubbliche e agli organi di
controllo interno qualsiasi atto o notizia e può effettuare e disporre ispezioni e accertamenti diretti”.
Nel quadro dei controlli spettanti alla Corte dei conti si contemplano:
un controllo preventivo sugli atti;
un controllo preventivo sugli atti che il Presidente del Consiglio dei ministri richieda di sottoporre temporaneamente a controllo o che
la Corte dei conti deliberi di assoggettare per un periodo determinato a controllo “in relazione a situazioni di diffusa e ripetuta
irregolarità rilevate in sede di controllo successivo”;
un controllo successivo sui titoli di spesa relativi al costo del personale, sui contratti e i relativi atti di esecuzione, in materia di sistemi
informativi automatizzati, stipulati dalle amministrazioni statali e sugli atti di liquidazione dei trattamenti di quiescenza dei pubblici
dipendenti;
un controllo successivo sugli atti “di notevole rilievo finanziario individuati per categorie e amministrazioni statali” che le sezioni unite
stabiliscano di sottoporre a controllo per un periodo determinato;
un controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, esercitato da una speciale sezione della
Corte;
un controllo sulla gestione degli enti locali effettuato dalla sezione delle autonomie: il controllo, originariamente limitato agli enti
locali con popolazione superiore ad ottomila abitanti e poi esteso ad altri comuni e province si conclude con un referto al Parlamento.
La Legge n. 131/2003, nel dare attuazione all’art. 118 della Costituzione, ha individuato due nuove forme di controllo:
La Corte dei conti, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, verifica il rispetto degli equilibri di bilancio da parte di
Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, in relazione al patto di stabilità interno e ai vincoli derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea .
Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti verificano il perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi statali o
regionali di principio e di programma, secondo la rispettiva competenza, nonché la sana gestione finanziaria degli enti locali e
il funzionamento dei controlli interni e riferiscono sugli esiti delle verifiche esclusivamente ai consigli degli enti controllati;
un controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, nonché sulle gestioni fuori
bilancio e sui fondi di previdenza comunitaria.
La Corte, nell’esercizio di una funzione ritenuta giurisdizionale, pronuncia il giudizio di parificazione sul rendiconto generale dello Stato
(consistente nella certificazione di parità tra i conti della Corte medesima e quelli forniti dall’amministrazione del tesoro), accompagnato da
specifica relazione.
La disciplina del controllo preventivo risulta dalla combinazione della Legge n. 20/1994 e del T.U. della Corte conti.
Ai sensi dell’art. 27 della Legge n. 340/2000 l’atto trasmesso alla Corte conti diviene in ogni caso esecutivo trascorsi sessanta giorni dalla
sua ricezione senza che sia intervenuta una pronuncia della sezione di controllo.
L’esito del procedimento di controllo è comunicato dalla sezione nelle ventiquattro ore successive alla fine dell’adunanza e le deliberazioni
sono pubblicate entro trenta giorni dalla data dell’adunanza stessa.
Il T.U. della Corte dei conti contempla anche il meccanismo della registrazione con riserva, il quale consente all’atto di venire vistato e
registrato.
In particolare, a fronte della ricusazione del visto, il Consiglio dei ministri può adottare una deliberazione con la quale insiste nella richiesta
di registrazione: la Corte è chiamata a deliberare a sezioni riunite e, ove non riconosca cessata la causa del rifiuto, ne ordina la registrazione
e vi appone il visto con riserva.
La registrazione con riserva impegna la responsabilità politica dell’esecutivo: per questa ragione, ogni quindici giorni, la Corte dei conti
trasmette al Parlamento un elenco con tutti i provvedimenti registrati con riserva.
La registrazione può essere richiesta anche con riferimento ad una o più parti dell’atto; l’atto che il governo ritenga debba avere corso
diventa esecutivo se le sezioni riunite non abbiano deliberato entro trenta giorni dalla richiesta.
I rapporti tra gli organi e l’utilizzo, da parte di un ente, degli organi di un altro ente.
I rapporti tra organi diversi possono comportare una modificazione dell’ordine delle competenze.
Analoga modificazione può essere determinata dalla conferenza di servizi.
Debbono essere ricordati l’avocazione, la sostituzione e la delegazione.
Nell’avocazione un organo esercita i compiti, spettanti ad un altro organo in ordine a singoli affari, per motivi di interesse pubblico e
indipendentemente dall’adempimento dell’organo istituzionalmente competente.
La sostituzione ha, invece, come presupposto l’inerzia dell’organo sostituito nell’emanazione di un atto cui è tenuto per legge e consiste
nell’adozione, previa diffida, da parte di un organo sostituto degli atti di competenza di un altro organo.
L’organo sostituto è, di norma, un commissario.
La sostituzione attiene all’attività di controllo sugli atti, e non sugli organi, i quali continuano nella loro attività tranne per quella relativa
all’adozione dell’atto che essi avevano l’obbligo di emanare.
La gestione sostitutiva coattiva è la sostituzione di organi dell’ente, caratterizzata dallo scioglimento dell’organo o degli organi dell’ente e
dalla nomina di altri soggetti quali organi straordinari che gestiscano l’ente per un periodo di tempo limitato.
In alcuni casi la sostituzione è legata al controllo.
In questi casi si parla di controllo sostitutivo.
La delegazione è la figura in forza alla quale un organo investito in via primaria della competenza di una data materia consente
unilateralmente, attraverso atto formale, ad un altro organo di esercitare la stessa competenza.
La delegazione richiede una espressa previsione legislativa: essa, infatti, altera l’ordine legale delle competenze.
La delegazione fa sorgere un rapporto nell’ambito del quale il delegante mantiene poteri di direttiva, di vigilanza, di revisione e di
avocazione.
L’organo delegatario è investito del potere di agire in nome proprio, anche se per conto e nell’interesse del delegante, sicché la
responsabilità per gli illeciti eventualmente commessi rimane in capo al delegatario stesso.
La delega di firma consiste nella possibilità per un delegato di sottoscrivere un atto, la cui competenza resta al delegante e sarà dunque a
lui imputato.
L’organo di una persona giuridica può anche essere organo di altra persona giuridica: ad esempio, il sindaco è contestualmente organo del
comune e organo dello Stato perché riveste la qualità di ufficiale di governo e, dunque, realizza una vicenda di imputazione in capo allo
Stato dell’attività da esso posta in essere.
La disciplina attuale del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche.
La c.d. “privatizzazione del pubblico impiego” è stata operata dal D.Lgs. n. 29/1993 ed è stata completata dal D.Lgs. n. 80/1998; il
contenuto di queste ultime disposizioni è stato riprodotto dal D.Lgs. n. 165/2001.
I principi che ispirano la normativa di cui al D.Lgs. n. 165/2001 possono così sintetizzarsi.
I rapporti di lavoro sono disciplinati dalle disposizioni del Codice civile e dalla contrattazione sia sul piano individuale sia su quello
collettivo; l’unica eccezione all’assoggettabilità alla disciplina contrattuale riguarda le categorie indicate all’art. 3 — personale in
regime di diritto pubblico: magistrati, avvocati dello stato, personale militare e delle forze di polizia, personale della carriera
diplomatica e prefettizia.
La legge prevede limiti all’autonomia contrattuale individuale o collettiva: si pensi alla disciplina legale, non derogabile mediante
contratto, della parità di trattamento e dell’attribuzione delle mansioni proprie delle qualifiche superiori.
Restano assoggettati alla disciplina pubblicistica gli organi, gli uffici, i principi fondamentali dell’organizzazione, i procedimenti di
selezione per l’accesso al lavoro e quelli di avviamento, i ruoli, le incompatibilità, le responsabilità, ad eccezione delle sanzioni e degli
illeciti disciplinari, la determinazione delle dotazioni organiche.
Le organizzazioni sindacali, al di fuori delle materie economiche, debbono essere “consultate” o informate senza che sia richiesto il loro
consenso in tema di organizzazione e in tema di eccedenze di personale.
La contrattazione collettiva si svolge a vari livelli: nazionale e integrativa.
Quest’ultima può essere attivata da ciascuna amministrazione a carico dei propri bilanci.
Nella contrattazione collettiva nazionale la parte pubblica è legalmente rappresentata da una apposita Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN: essa ha personalità di diritto pubblico ed è soggetta al potere di indirizzo
esercitato dalle pubbliche amministrazioni che, a tal fine, danno vita a “comitati di settore”) della cui assistenza, comunque, le
pubbliche amministrazioni possono avvalersi ai fini della contrattazione integrativa.
Sotto il profilo giurisdizionale, sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie riguardanti il
rapporto di lavoro dei dipendenti e le controversie in materie di procedure concorsuali di assunzione.
I dipendenti sono assoggettati ad una particolare responsabilità amministrativa per danni cagionati all’amministrazione, penale e
contabile.
La responsabilità disciplinare è regolata dall’art. 55 del D.Lgs. n. 165/2001 che, oltre ad imporre alcune garanzie a favore del
dipendente nel corso del procedimento disciplinare, prevede la definizione ad opera dei contratti collettivi della tipologia delle
infrazioni e delle relative sanzioni.
Ove non siano previste dai contratti collettivi procedure di conciliazione stragiudiziali, ma esse sono state introdotte dai contratti
collettivi, l’interessato può impugnare la sanzione inflittagli dinanzi al collegio arbitrale di disciplina che emette la sua decisione entro
novanta giorni.
Il reclutamento del personale non dirigenziale avviene tramite procedure selettive che garantiscono in misura adeguata l’accesso
dall’esterno, o attraverso avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per le qualifiche e i profili per i quali è richiesto il solo
requisito della scuola dell’obbligo (art. 35 del .Lgs. n. 165/2001).
L’art. 20 della Legge n. 488/1999 fissa in 24 mesi la durata di validità delle graduatorie dei concorsi che per gli enti locali è invece di
tre anni.
Viene eliminato il potere di gestione degli organi politici e affermato il principio della distinzione tra indirizzo politico (spettante agli
organi politici) e gestione (spettante ai dirigenti).
I soggetti di diritto nel diritto amministrativo: le formazioni sociali e gli ordinamenti autonomi.
Le organizzazioni sociali sono costituite da aggregazioni di individui sorretti da finalità etiche, religiose, ideali e che perseguono interessi,
non caratterizzati dallo scopo di lucro, in parte coincidenti con quelli affidati alla cura dei soggetti pubblici.
Il terzo settore è, dunque, composto dalle associazioni no-profit e dalle organizzazioni di volontariato, associazioni e cooperative.
Rientrano in questo ambito moltissime associazioni, quali le comunità terapeutiche, le istituzioni pro-loco, le organizzazioni impegnate nei
settori della ricerca, dello sport, dell’istruzione, della beneficenza, della protezione civile, dell’accoglienza e dell’adozione di stranieri,
dell’assistenza, del servizio civile, della tutela dei beni culturali e così via.
Il campo di azione di numerose tra queste organizzazioni è, in linea di massima, quello dei c.d. servizi sociali.
La Legge n. 328/2000 disciplina un sistema integrato di interventi e servizi sociali e la normativa di settore prevede che le organizzazioni
che perseguono finalità di interesse generale possano ricevere finanziamenti pubblici e siano talora sottoposte a forme di controllo o
vigilanza, oppure ad un regime fiscale favorevole.
La Legge 11 agosto 1991, nr. 266 ha disciplinato le organizzazioni di volontariato, nell’ambito delle quali emerge, quale profilo
caratterizzante, il fine dell’assistenza alla persona.
L’art. 8 del T.U. sugli enti locali affida al Comune il compito di “valorizzare” le libere forme associative e di promuovere organismi di
partecipazione popolare.
Il D.Lgs. n. 460/1997 sulla disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale ha previsto
la creazione presso il Ministero delle Finanze di una anagrafe unica delle O.N.L.U.S.
Queste organizzazioni sono definite come le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli enti di carattere privato, con
o senza persona giuridica, i cui statuti o atti costitutivi, redatti nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata,
contengano espressamente una serie di indicazioni:
lo svolgimento di attività in particolari settori (assistenza sociale e socio-sanitaria, assistenza sanitaria, beneficenza, formazione,
sport dilettantistico, tutela, promozione e valorizzazione delle cose di interesse artistico e storico, tutela dell’ambiente, promozione
della cultura e dell’arte, tutela dei diritti civili, ricerca scientifica);
l’esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale;
il divieto di distribuire utili e avanzi di gestione, nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’organizzazione;
l’obbligo di impiegare gli utili o gli avanzi di gestione per realizzare delle attività istituzionali e quelle ad esse direttamente
connesse.
Altre formazioni, caratterizzate da una normazione propria, possono essere configurate come ordinamenti autonomi.
Per quanto riguarda le confessioni religiose, l’art. 8 della Costituzione stabilisce che quelle diverse dalla chiesa cattolica possano
organizzarsi secondo i propri statuti quando non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
L’ordinamento sportivo è, invece, privo di garanzia costituzionale.
Il legislatore statale potrebbe sostituire con proprie norme quelle dettate in questo ordinamento.
La Legge n. 280/2003 stabilisce ora che “la Repubblica riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale
articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale” e “i rapporti tra ordinamento
sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento
giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo”.
Il C.O.N.I. (Comitato olimpico nazionale italiano), ente esponenziale dell’ordinamento sportivo, è, secondo il diritto italiano, un ente
pubblico.
Il riconoscimento dell’uso generale di quei beni pubblici che assolvono la loro funzione a servizio della collettività (demanio idrico,
stradale, beni di interesse storico e così via) è mezzo rivolto alla rimozione degli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di tutti” all’organizzazione politica, economica e sociale del paese (art. 3 della Costituzione).
In alcuni casi esso è subordinato al pagamento di una somma (pedaggio), altre volte è occorre ottenere una autorizzazione dall’ente
pubblico (scarico nelle acque pubbliche).
Vi sono, infine, situazioni in cui il bene è posto al servizio di singoli soggetti (uso particolare).
Questo è il caso delle riserve di pesca, delle concessioni di beni pubblici, delle concessioni di derivazione di acque pubbliche, della
situazione del frontista rispetto alla strada pubblica.
Nelle situazioni indicate il ruolo dell’amministrazione muta: nel caso dell’uso diretto deve conservare, tutelare e utilizzare direttamente il
bene, nelle altre, invece, emerge l’aspetto della regolamentazione e dell’organizzazione dell’uso da parte dei terzi.
Occorre in ultimo accennare ad un ulteriore e sempre più rilevante uso diretto dei beni degli enti pubblici, costituito dal conferimento dei
beni stessi come capitale di dotazione nelle aziende speciali oppure in società per azioni (art. 118 del T.U. sugli enti locali).
Il bene dell’amministrazione proprietaria diventa in queste ipotesi elemento del ciclo produttivo posto in essere da altro soggetto giuridico
pubblico.
Va ricordato che il D.L. n. 63/2002, convertito nella Legge n. 112/2002, ha previsto l’istituzione della già citata Patrimonio s.p.a. (avente
compiti di valorizzazione, gestione, e alienazione del patrimonio dello Stato; il capitale sociale, fissato in un milione di euro, è interamente
detenuto dal ministero dell’economia) e di Infrastrutture s.p.a. (società finanziaria vigilata dal ministero dell’economia e avente il
compito di finanziare le infrastrutture e le grandi opere pubbliche, concedere finanziamenti, garanzie e assumere partecipazioni, detenere
immobili ed esercitare ogni attività strumentale connessa ai suoi compiti istituzionali).
CAPITOLO IV
L’ORGANIZZAZIONE DEGLI ENTI PUBBLICI
Le aziende autonome.
Le aziende autonome (o amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo) sono amministrazioni caratterizzate dal fatto di essere
incardinate presso un ministero e di avere una propria organizzazione, separata da quella ministeriale.
Le amministrazioni autonome svolgono attività prevalentemente tecnica, amministrano in modo autonomo le relative entrate, dispongono di
capacità contrattuale e sono titolari di rapporti giuridici, pur non avendo un proprio patrimonio (il patrimonio è, infatti, dello Stato).
La loro attività consiste spesso nella produzione di beni o di prestazione di servizi, e molte di esse sono state trasformate in enti pubblici
economici o società per azioni.
Prive di norma di personalità giuridica, esse sono, di solito, rette dal ministro che ne ha altresì la rappresentanza; il ministro dirige ed è
affiancato dal consiglio di amministrazione, che ha compiti consultivi e/o deliberativi, e dal direttore, quale organo esecutivo.
Il bilancio e il rendiconto dell’azienda sono legati allegati al bilancio dello Stato.
Molte aziende autonome sono state soppresse, mentre altre aziende sono state trasformate: l’amministrazione autonoma delle Poste e
telecomunicazioni è stata trasformata in ente pubblico economico ed è divenuta s.p.a. mentre l’azienda autonoma delle ferrovie dello stato è
stata trasformata in società per azioni.
La Cassa depositi e prestiti è stata trasformata in Cassa depositi e prestiti società per azioni e questo soggetto finanzia lo Stato ed enti
pubblici e le opere, gli impianti, le reti e le dotazioni destinati alla fornitura di servizi pubblici e alle bonifiche.
Le amministrazioni indipendenti.
Le amministrazioni indipendenti sono sorte per ovviare all’incapacità dell’organizzazione amministrativa tradizionale di provvedere ai
compiti ad essa attribuiti, incapacità in via di massima imputata all’indebito condizionamento politico e alle carenze tecniche degli organi
amministrativi.
Le autorità indipendenti prevedono l’attribuzione di compiti rilevanti a soggetti dotati di notevole indipendenza rispetto al governo e agli
organi politici.
Come autorità indipendenti vengono generalmente ricordati: la Banca d’Italia; la Consob (che si occupa del mercato dei prodotti
finanziari, assicurando la trasparenza e garantendo la completezza delle informazioni, a tutela del risparmio); l’I.S.V.A.P. (Istituto per la
vigilanza sulle assicurazioni private, che si occupa del settore delle assicurazioni; l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (essa
subentra nei procedimenti amministrativi e giurisdizionali e nella titolarità dei rapporti attivi e passivi facenti capo al Garante per l’editoria;
tra i compiti di questa autorità vi è quello di verificare che, nel sistema integrato delle comunicazioni e nei mercati che lo compongono, non
si costituiscano posizioni dominanti e che siano rispettati i limiti di legge); l’Autorità garante della concorrenza e del mercato;
l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici; l’Autorità per l’energia elettrica e il gas.
Dotati di compiti di garanzia, piuttosto che di amministrazione attiva, sono il Garante per la privacy, e la Commissione di garanzia per
l’attuazione della legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali; e l’Autorità per l’informatica nella pubblica
amministrazione.
La Banca d’Italia è qualificabile come ente pubblico a struttura associativa, istituto di emissione e svolge le funzioni di vigilanza sulle
aziende di credito e di governo del settore valutario e monetario. Il suo organo di vertice è costituito dal Governatore.
Alcune di queste autorità non hanno neppure personalità giuridica.
Esse dispongono per lo più di autonomia organizzativa e funzionale, e sono titolari di poteri provvedimentali talvolta sanzionatori e sono
soggette al controllo della Corte dei conti.
I vertici delle diverse autorità delle telecomunicazioni, dell’elettricità e del gas sono nominati dal Presidente della Repubblica previa
deliberazione del Consiglio dei ministri su proposta del ministro competente e parere favorevole delle commissioni parlamentari.
I vertici delle altre autorità sono generalmente nominati o designati dai presidenti delle camere, oppure, come per il Garante per la Privacy,
eletti per metà dalla camera e metà dal senato.
L’elemento caratterizzante delle autorità consiste nel fatto che esse sono indipendenti dal potere politico del governo pur dovendo
trasmettere relazioni al governo e al parlamento in ordine all’attività svolta.
Le autorità non sono tenute ad adeguarsi all’indirizzo politico espresso dalla maggioranza, e per questo motivo sono definite neutrali, a
differenza delle tradizionali amministrazioni che devono essere “imparziali”.
Numerose tra le autorità indipendenti sono chiamate a verificare, anche esercitando poteri giustiziali, la compatibilità del comportamento
degli operatori economici, pubblici o privati, con le regole della concorrenza.
Difatti, una “liberalizzazione” pura e semplice di particolari mercati lascerebbe irrisolto il problema di salvaguardare esigenze collettive e
rischierebbe di non impedire il consolidarsi di nuove forme di monopolio privato anziché pubblico.
Le autorità sono preposte a vigilare alcuni settori sensibili del mercato.
Il difensore civico non rientra nella categoria delle autorità indipendenti e non è istituito a livello di organizzazione statale, ma è una figura
che presenta alcuni profili di analogia con esse.
Esso è nato come soggetto chiamato ad atteggiarsi a snodo flessibile informale di collegamento tra cittadini e poteri pubblici, in grado di
assicurare una maggiore trasparenza dell’organizzazione amministrativa.
Questo soggetto funge da ausilio per l’amministrazione attiva e può favorire una miglior scelta finale in vista dell’interesse pubblico.
L’art. 11 del T.U. sugli enti locali definisce il difensore civico comunale e provinciale come garante “dell’imparzialità e del buon
andamento della pubblica amministrazione”, mentre l’art. 127 ha previsto che i difensori civici delle regioni e delle province autonome
esercitino, sino all’istituzione del difensore civico nazionale, le proprie funzioni di richiesta, di proposta, di sollecitazione e di intimazione
anche nei confronti delle amministrazioni periferiche dello Stato.
Al difensore civico spetta, poi, il compito di riesaminare, su istanza dell’interessato, le richieste di accesso in caso di rifiuto o di
differimento.
La legge attribuisce al difensore civico una pluralità di funzioni che costituisce forse il limite stesso dell’istituto.
Difatti, è difficile pensare che un medesimo soggetto sia in grado di attuare e gestire le tantissime funzioni attribuite: poteri che vanno dalla
tutela dei cittadini al controllo all’attività amministrativa, dalla difesa della legalità alla ricerca della trasparenza, dall’azione finalizzata al
miglioramento del rapporto cittadini-amministrazione alla responsabilizzazione dei soggetti pubblici.
Il difensore civico dispone di poteri non incisivi.
Difatti, non può annullare o riformare atti, imporre misure sanzionatorie o emanare provvedimenti decisori.
Affinché possa svolgere le sue funzioni, il difensore deve comunque disporre di poteri caratterizzati da un notevole tasso di informalità e
fruire di canali per così dire di informazione e di conoscenza in relazione all’attività degli organi di amministrazione attiva, pur nel rispetto
di una netta alterità di ruoli.
La marcata indipendenza e la riduzione del condizionamento politico costituiscono gli ulteriori tratti essenziali del modello di difensore
civico.
Il difensore civico riveste una posizione peculiare, nella quale l’autorevolezza del titolare dell’ufficio si coniuga con una indipendenza
notevole nei confronti dell’amministrazione interessata.
Il modello è dunque quello di un organo soggetto esclusivamente alla legge piuttosto che quello di un organo esso stesso direttamente
responsabile o sottoposto all’attività di indirizzo di un soggetto politicamente responsabile.
Il difensore civico, alla stessa stregua delle autorità indipendenti, trova il proprio riferimento costituzionale nell’art. 97 della Costituzione
ma esso non dispone di poteri decisori.
La Legge n. 131/2003 prevede all’art. 1 che “Le disposizioni normative statali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle
materie appartenenti alla legislazione regionale continuano ad applicarsi, in ciascuna regione, fino alla data di entrata in vigore delle
disposizioni regionali in materia…, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale.
Le disposizioni normative regionali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione
esclusiva statale continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia, fatti salvi gli effetti di
eventuali pronunce della Corte costituzionale”.
In relazione alle funzioni amministrative, l’art. 118 della Costituzione ammette una doppia lettura: quella secondo cui i comuni sono titolari
di tutte le funzioni amministrative, secondo il modello dei “poteri originari” e quella in forza della quale le funzioni e i poteri sono ad essi
conferiti da Stato e regioni, secondo il modello dei “poteri derivati”.
L’opinione comune in dottrina è quella secondo cui occorre una legge per distribuire le funzioni negando, cioè, che la Costituzione abbia
direttamente operato conferimenti di funzioni.
L’art. 118 della Costituzione afferma che la distribuzione delle funzioni deve avvenire “sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza”.
La Costituzione non contiene indicazioni chiare circa la fonte competente ad operare questa “distribuzione” delle funzioni amministrative
tra i vari livelli territoriali.
La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 303/2003, occupandosi della disciplina che, per la realizzazione delle grandi opere, attribuisce
importanti poteri al Governo, ha ammesso che la legge statale possa conferire funzioni amministrative allo Stato ancorché relative a materia
che rientrano nella potestà legislativa regionale.
Secondo la Corte, infatti, la possibilità di allocare la funzione, giustifica la sussistenza della potestà legislativa statale di regolarne
l’esercizio.
Lo spostamento della funzione è, tuttavia, subordinato al rispetto del metodo dell’intesa con la Regione.
La legge che conferisce funzioni e ne disciplina l’esercizio, infatti, “deve risultare adottata a seguito di procedure che assicurino la
partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, prevedere adeguati meccanismi di
cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali”.
Il conferimento è, quindi, possibile a condizione che una intesa sia stata raggiunta o tentata, oppure venga prevista dalla legge in ordine al
momento di esercizio del potere amministrativo.
Alcune funzioni sono escluse da questo processo di distribuzione verso l’alto: si tratta delle funzioni fondamentali degli enti locali,
individuate e disciplinate dalla legge statale.
La Legge n. 131/2003 dispone ora all’art. 7 che lo Stato e le regioni, “secondo le rispettive competenze” provvedono a “conferire le
funzioni amministrative da loro esercitate alla data di entrata in vigore della presente legge, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza, attribuendo a province, città metropolitane, regioni e Stato soltanto quelle di cui occorra assicurare
l’unitarietà di esercizio, per motivi di buon andamento, efficienza o efficacia dell’azione amministrativa oppure per motivi funzionali o
economici o per esigenze di programmazione o di omogeneità territoriale, nel rispetto, anche ai fini dell’assegnazione di ulteriori funzioni,
delle attribuzioni degli enti di autonomia funzionale, anche nei settori della promozione dello sviluppo economico e della gestione dei
servizi.
Stato, regioni, città metropolitane, province, comuni e comunità montane favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati,
per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Ai fini del trasferimento, il Governo presenta al Parlamento uno o più disegni di legge collegati alla manovra finanziaria annuale, per il
recepimento degli accordi con le regioni e le autonomie locali, da concludere in sede di Conferenza unificata, diretti in particolare
all’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative necessarie per l’esercizio delle funzioni e dei
compiti da conferire.
Fino alla data di entrata in vigore di questi provvedimenti, le funzioni amministrative continuano ad essere esercitate secondo le attribuzioni
stabilite dalle disposizioni vigenti, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale.
Le regioni dispongono di potestà legislative e amministrative.
L’art. 117 della Costituzione prevede la potestà legislativa regionale c.d. concorrente relativamente ad alcune materie e stabilisce che alle
regioni spetta la “potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.
Le regioni, ai sensi dell’art. 118 della Costituzione, esercitano altresì funzioni amministrative conferite ad esse per esercitarne l’esercizio
unitario “sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.
Si tratterà presumibilmente delle funzioni di indirizzo, di programmazione e di controllo.
Esse dovranno comunque essere individuate dalle leggi statali e regionali.
L’art. 121 della Costituzione prevede che il presidente della Giunta regionale “dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla
regione, conformandosi alle istruzioni del governo della Repubblica”.
In ordine alle modalità di svolgimento delle funzioni, la Costituzione prevede pure “intese con altre regioni” per il migliore esercizio delle
proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni (art. 117, comma IX).
Nelle materie di sua competenza, la regione può, inoltre, concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei
casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.
Quanto ai limiti che le regioni incontrano nell’esercizio delle funzioni amministrative, è stato configurato un potere governativo di
indirizzo e coordinamento attinente ad esigenze di carattere unitario (art. 3, comma I della Legge n. 382/1975).
L’art. 118, comma III della Costituzione prevede oggi che la legge statale disciplini forme di coordinamento tra Stato e regioni nelle
materie dell’immigrazione e dell’ ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale, nonché forme di intesa e
coordinamento nella materia dei beni culturali.
L’art. 2 del T.U. sugli enti locali precisa che, ai fini del T.U. medesimo, si intendono per enti locali i comuni, le province, le città
metropolitane, le comunità montane, le comunità isolane e le unioni di comuni.
A questo riguardo, il T.U. sugli enti locali estende la propria disciplina ai consorzi cui partecipano enti locali (con esclusione di quelli che
gestiscono attività aventi rilevanza economica e imprenditoriale e, ove previsto dallo statuto, dei consorzi per la gestione dei servizi sociali
per i quali è prevista l’applicazione delle norme sulle aziende speciali all’art. 31, comma ultimo).
La disciplina del T.U. sugli enti locali comprende, ai sensi dell’art. 93, quella della responsabilità patrimoniale dei dipendenti.
Un decisivo impulso al perfezionamento del sistema regionale fu rappresentato dalla Legge n. 59/1997, contenente delega al governo per il
conferimento di funzioni e compiti alle regioni e agli enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione
amministrativa.
In particolare, questa legge diede attuazione al Titolo V, come allora vigente, della Costituzione.
Il quadro costituzionale oggi è cambiato a seguito della promulgazione della Legge costituzionale n. 3/2001, e occorrerà attendere il termine
del processo di conferimento regolato dalla Legge n. 131/2003 per poter compiutamente ridisegnare la mappa delle funzioni.
La Legge n. 59/1997, nel conferimento delle funzioni e dei compiti, mirò a realizzare una localizzazione territoriale delle funzioni e dei
compiti amministrativi in ragione della loro strumentalità rispetto agli interessi della collettività.
La legge utilizzò il termine conferimento comprensivo dei vari istituti attraverso i quali funzioni e compiti potevano essere assegnati, nel
quadro costituzionale allora vigente, a regioni, comuni, province, comunità montane e altri enti locali: trasferimento, delega e attribuzione.
La legge si ispira in primo luogo al principio di sussidiarietà: l’art. 1, comma II stabilisce che sono conferite alle regioni e agli enti locali
tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità,
nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori precisando che, ove possibile, le responsabilità
politiche debbono essere attribuite all’autorità territorialmente più vicina ai cittadini interessati.
Il conferimento deve avvenire rispettando, inoltre, i principi di completezza, di efficienza e di economicità, di cooperazione tra Stato,
regioni ed enti locali, di responsabilità e unicità dell’amministrazione, di omogeneità, di adeguatezza, di differenziazione nell’allocazione
delle funzioni, di copertura finanziaria e patrimoniale dei costi, di autonomia organizzativa e regolamentare e di responsabilità degli enti
locali nell’esercizio delle funzioni e dei compiti amministrativi ad essi conferiti.
La legge mira ad imporre un criterio di riparto tra funzioni statali e regionali improntato al principio secondo cui la competenza, in generale,
è della regione, fatti salvi i compiti e le funzioni statali attinenti ad una serie di materie indicate come tali dal comma III dell’art. 1.
Esse sono: affari esteri e commercio estero; difesa, forze armate, armi e munizioni, esplosivi e materiale strategico; rapporti tra lo Stato e le
confessioni religiose; tutela dei beni culturali e del patrimonio storico-artistico; cittadinanza, immigrazione, rifugiati e asilo politico,
estradizione; consultazioni elettorali ed elettorato; moneta, perequazione delle risorse finanziarie, sistema valutario e banche; dogane,
protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; ordine pubblico e sicurezza pubblica; amministrazione della giustizia; poste e
telecomunicazioni; previdenza sociale; ricerca scientifica; istruzione universitaria, ordinamenti scolastici, programmi scolastici,
organizzazione generale dell’istruzione scolastica e stato giuridico del personale; vigilanza in materia di lavoro e cooperazione; trasporti
aerei, marittimi e ferroviari di interesse nazionale.
L’art. 1, comma VI chiarisce che “la promozione dello sviluppo economico, la valorizzazione dei sistemi produttivi e la promozione della
ricerca applicata sono interessi pubblici primari dello stato, le regioni, le province, i comuni e gli altri enti locali assicurano nell’ambito
delle rispettive competenze, nel rispetto delle esigenze della salute, della sicurezza pubblica e della tutela dell’ambiente”.
In attuazione della Legge n. 59/1997 è stato emanato il D.Lgs. n. 112/1998 che ha proceduto ad operare il conferimento di funzioni e
compiti.
Le materie interessate dal conferimento sono: sviluppo economico e attività produttive, territorio, ambiente e infrastrutture, servizi alla
persona e alla comunità, polizia amministrativa regionale e locale.
Il conferimento comprende anche le funzioni di organizzazione e le attività connesse e strumentali all’esercizio delle funzioni e dei compiti
conferiti, quali fra gli altri, quelli di programmazione, di vigilanza, di accesso al credito, di polizia amministrativa, nonché l’adozione di
provvedimenti contingibili e urgenti previsti dalla legge (art. 1, comma II del D.Lgs. n. 112/1998).
La c.d. Legge Bassanini (Legge n. 59/1997), riformando l’amministrazione a Costituzione invariata, non poteva ampliare la potestà
legislativa della regione, ma soltanto incidere sui suoi compiti amministrativi.
Al fine di rispettare, o recuperare, il parallelismo tra funzioni amministrative e funzioni legislative all’art. 2 prevedeva che “la disciplina
legislativa delle funzioni e dei compiti conferiti alle regioni ai sensi della presente legge spetta alle regioni quando è riconducibile alle
materie di cui all’art. 117, comma I della Costituzione.
Nelle restanti materie spetta alle regioni il potere di emanare norme attuative ai sensi dell’art. 117, comma II della Costituzione”.
L’art. 5 del D.Lgs. n. 112/1998, prevede un potere sostitutivo in relazione alle funzioni e ai compiti spettanti alle regioni e agli enti locali
“in caso di accertata inattività che comporti inadempimento agli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea o pericolo di
grave pregiudizio agli interessi nazionali”.
Il nuovo testo dell’art. 120 della Costituzione disciplina il potere sostitutivo del governo nei confronti degli “organi delle regioni, delle città
metropolitane, delle province e dei comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria
oppure di grave pericolo per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’utilità
economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali, prescindendo dai confini
territoriali dei governi locali”.
Ai sensi del comma ultimo, la legge “definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto de principio di
sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”.
Le disposizioni attuative sono state poste dall’art. 8 della Legge n. 131/2003 che introduce, tra l’altro, i seguenti principi: i provvedimenti
sostitutivi devono essere proporzionati alle finalità perseguite, all’ente interessato deve essere assegnato un congruo termine per adottare i
provvedimenti dovuti o necessari, decorso inutilmente il quale il Governo adotta i provvedimenti necessari, anche normativi, oppure
nomina un apposito commissario.
La normativa prevedeva che il decentramento avvenisse anche da parte delle regioni a favore di province, comuni e altri enti locali.
L’art. 4, comma I della Legge n. 59/1997 stabilisce che la regione conferisca a questi ultimi enti “tutte le funzioni che non richiedono
l’unitario esercizio a livello regionale”.
Ai sensi del comma V di questa legge “ciascuna regione adotta, entro sei mesi dall’emanazione di ciascun decreto legislativo, la legge di
puntuale individuazione delle funzioni trasferite o delegate agli enti locali e di quelle mantenute in capo alla regione stessa.
Qualora la regione non provveda entro il termine indicato, il governo è delegato ad emanare, entro i successivi novanta giorni, sentite le
regioni inadempienti, uno o più decreti legislativi di ripartizione di funzioni tra regioni ed enti locali, le cui disposizioni si applicano fino
alla data di entrata in vigore della legge regionale”.
La riforma “Bassanini” si occupa anche dei già citati poteri di indirizzo, di coordinamento e di direttiva, stabilendo che “gli atti di
indirizzo e coordinamento delle funzioni amministrative regionali, gli atti di coordinamento tecnico, nonché le direttive relative all’esercizio
delle funzioni delegate, sono adottati previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province
autonome di Trento e di Bolzano, o con la singola regione interessata”.
Se l’intesa non si perfeziona con l’assenso del governo e dei presidenti delle regioni e delle province autonome entro 45 giorni dalla prima
consultazione, gli atti possono essere adottati con deliberazione del Consiglio dei ministri, previo parere della Commissione parlamentare
per le questioni regionali da esprimere entro 30 giorni dalla richiesta.
L’organizzazione regionale.
Il consiglio regionale esercita le potestà legislative e le altre funzioni ad esso conferite dalla Costituzione e dalle leggi.
La giunta regionale è l’organo esecutivo, esercita potestà regolamentare e dispone anche di poteri di impulso e di iniziativa legislativa.
Il presidente della giunta regionale rappresenta la regione; dirige la politica della giunta e ne è responsabile; promulga le leggi ed emana i
regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative delegate ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative
delegate dallo Stato alla regione, conformandosi alle istruzioni del governo della Repubblica (art. 121 della Costituzione).
Ai sensi dell’art. 123 della Costituzione la forma di governo di ciascuna regione è determinata dallo statuto.
Il presidente della giunta regionale è eletto a suffragio universale e diretto, salvo che lo statuto disponga diversamente.
Il presidente nomina e revoca i componenti della giunta.
Sul piano della legislazione ordinaria, l’art. 4 del T.U. sugli enti locali consente alla regione di organizzare l’esercizio delle funzioni
amministrative a livello locale attraverso i comuni e le province.
Atteso che la regione dispone pure di funzioni amministrative, esiste anche un apparato amministrativo regionale che si distingue in centrale
e periferico.
La regione può avvalersi anche di enti dipendenti, che si caratterizzano anche e soprattutto sotto il profilo squisitamente strutturale come
uffici regionali entificati, ai quali residua in linea di massima una ridotta autonomia.
Un esempio è costituito dai consorzi di bonifica.
Tra i soggetti di diritto pubblico operanti nell’ambito dell’organizzazione regionale, particolarmente importanti sono le aziende sanitarie
locali, aventi il compito di assicurare livelli di assistenza sanitaria uniforme nel proprio ambito territoriale, qualificate come aziende dotate
di personalità giuridica pubblica e di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica.
Le regioni possono assumere partecipazioni in società finanziarie regionali il cui oggetto rientri nelle materie regionali.
In particolare, le società finanziarie regionali sono state create con lo scopo di porre a disposizione degli imprenditori operanti nell’ambito
delle regioni aiuti finanziari, nonché servizi, assistenza, consulenza e sostegno.
L’art. 16 della Legge n. 127/1997 prevede la presenza di difensori civici regionali.
L’art. 138 del T.U. annovera tra i controlli l’annullamento straordinario governativo; la Sezione Enti Locali della Corte dei Conti
verifica l’operato attraverso i revisori dei conti, mentre l’art. 147 del T.U. impone agli enti locali di effettuare dei controlli interni
consentendo anche di stipulare convenzioni tra più enti per l’istituzione di uffici unici per l’effettuazione dei controlli stessi.
Per quel che concerne il controllo sugli organi, la normativa al momento in vigore attribuisce il potere di scioglimento dei consigli
comunali e provinciali in capo al Presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’interno.
Le cause di scioglimento, relative a situazioni di grave deviazione funzionale dell’organo, sono:
il compimento di atti contrari alla Costituzione, gravi e persistenti violazioni di legge, gravi motivi di ordine pubblico;
l’impossibilità di assicurare il normale funzionamento degli organi e dei servizi per dimissioni, impedimento permanente,
rimozione, decadenza, decesso del sindaco o del presidente della provincia, per cessazione dalla carica per dimissioni di almeno la
metà più uno dei consiglieri (le dimissioni debbono essere contestuali oppure presentate contemporaneamente al protocollo al fine
di rendere evidente la volontà della maggioranza di dissolvere l’organo), riduzione dell’organo assembleare per impossibilità di
surroga alla metà dei componenti il consiglio;
la mancata approvazione del bilancio nei termini.
In questa ultima ipotesi è prevista la nomina di un commissario che esercita le attribuzioni conferitegli col decreto stesso, ad
eccezione del caso in cui lo scioglimento sia dovuto a dimissioni, impedimento permanente, rimozione, decadenza, decesso del
sindaco o del presidente della provincia.
In questa ipotesi lo scioglimento non dipende dal comportamento del consiglio, sicché il consiglio e la giunta rimangono in carica
sino all’elezione del nuovo consiglio e del nuovo sindaco o presidente della giunta e le funzioni del sindaco e del presidente sono
svolte rispettivamente dal vicesindaco e dal vicepresidente.
Il consiglio si scioglie, inoltre, nel caso di approvazione consiliare di una mozione di sfiducia.
Col decreto di scioglimento è nominata una commissione straordinaria per la gestione dell’ente.
L’interesse legittimo.
L’ordinamento generale riconosce prevalenza agli interessi che possono entrare in conflitto tra di loro attribuendo, di volta in volta, diritti,
se prevale l’interesse del soggetto privato, oppure poteri amministrativi, se prevale l’interesse pubblico, i quali ultimi consentono di
produrre vicende giuridiche in ordine a situazioni dei terzi.
Nei confronti dell’esercizio del potere, il privato si trova in uno stato di soggezione.
Accanto alla disciplina che attribuisce il potere, vi è quella che regolamenta l’esercizio in concreto dello stesso — c.d. norme di azione.
Il momento dell’esercizio non è, infatti, lasciato all’arbitrio dell’amministrazione, ma è retto da una serie di disposizioni spesso molto
puntuali.
Il potere deve essere esercitato in vista dell’interesse pubblico coerentemente al principio di funzionalizzazione che informa tutta l’attività
amministrativa.
La pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa è l’interesse legittimo.
L’interesse legittimo può essere definito come la situazione soggettiva di vantaggio costituita dalla protezione giuridica di interessi finali
che si attua non direttamente e autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile e immediata di un altro interesse del soggetto,
meramente strumentale, alla legittimità dell’atto amministrativo e soltanto nei limiti della realizzazione di questo interesse strumentale.
L’interesse legittimo è menzionato dalla Costituzione in tre norme: l’art. 24, ove è accostato al diritto soggettivo, garantendone la tutela
giurisdizionale; l’art. 103, nell’ambito del quale è contemplato come oggetto principale dalla giurisdizione amministrativa; l’art. 113 della
Costituzione, ove si precisa che la sua tutela è sempre ammessa contro gli atti della pubblica amministrazione.
Tra i poteri riconosciuti al titolare dell’interesse legittimo si possono ricordare, in primo luogo, i tradizionali poteri di reazione: il loro
esercizio si concretizza nei ricorsi amministrativi e nei ricorsi giurisdizionali, volti ad ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo.
Accanto a quelli ora descritti possiamo, poi, aggiungere i poteri di partecipare al procedimento amministrativo.
I documenti e le osservazioni che rappresentano il punto di vista del cittadino devono essere presi in considerazione dall’amministrazione
procedente; quindi, il titolare può stimolare l’azione amministrativa, instaurando un dialogo che si conclude con l’emanazione del
provvedimento.
Tra i poteri che sono collegati alla titolarità di un interesse legittimo vi è, infine, quello di accedere ai documenti della pubblica
amministrazione: l’art. 22 della Legge n. 241/1990 ammette, infatti, siffatta possibilità per i portatori di interessi giuridicamente rilevanti,
nozione questa che ricomprende sicuramente l’interesse legittimo.
Peculiare categoria è quella degli interessi procedimentali, che avrebbero la caratteristica di attenere a “fatti procedimentali”.
Questi hanno un campo d’azione assai più ampio di quello dell’interesse legittimo.
L’interesse legittimo sorge quando la soddisfazione del suo interesse dipende dall’esercizio di un potere, e non quando un soggetto venga in
qualche modo implicato dall’esercizio di un potere.
L’interesse procedimentale risulta spesso sfornito di tutela effettiva, non potendosi ricorrere al giudice per la sua violazione, a differenza di
quanto accade nell’ipotesi di titolarità di interesse legittimo.
Il problema del rispetto del principio della concorrenza, o più in generale dell’esistenza di effetti distorsivi sul mercato, è particolarmente
delicato in tema di servizi pubblici, allorché questi vengano affidati ex-lege in regime di concessione ad un soggetto predeterminato,
oppure nei casi in cui il rapporto abbia durata eccessiva, tale comunque da escludere la possibilità per altri imprenditori di “entrare nel
mercato”, anche in ragione dell’esistenza di una situazione di monopolio.
Interessa il diritto amministrativo anche la libertà di circolazione dei beni e, in particolare, le misure amministrative che comportino
indebite restrizioni delle importazioni e delle esportazioni che configgono con la disciplina comunitaria.
Il diritto comunitario, nonché quello nazionale, imponendo alcuni obblighi di servizio pubblico ai gestori nelle ipotesi in cui occorra
soddisfare determinati criteri di continuità, regolarità e capacità cui il privato non si atterrebbe ove seguisse soltanto il proprio interesse
economico, consente di individuare i correlativi diritti dei cittadini alle prestazioni che ne costituiscono oggetto.
I poteri concessori.
L’esercizio dei poteri concessori, a fronte dei quali il destinatario si presenta come titolare di interessi legittimi pretesivi, produce l’effetto
di attribuire al destinatario medesimo status e situazioni giuridiche (diritti) che esulavano dalla sua sfera giuridica in quanto
precedentemente egli non ne era titolare.
Esistono molteplici esempi di concessioni: la concessione di uso di beni, la concessione di esercizio di servizi pubblici, la concessione della
cittadinanza, la concessione del sistema di riscossione, la concessione di costruzione e gestione di opere pubbliche.
In ordine alle concessioni di beni e di servizi pubblici, accanto al provvedimento col quale si esercita il potere concessorio amministrativo,
si può individuare una convezione bilaterale di diritto privato (detta concessione-contratto) finalizzata a dar assetto ai rapporti patrimoniali
tra concessionario e concedente.
I due atti sono strettamente legati, nel senso che l’annullamento della concessione travolge il contratto e, quindi, la permanenza del rapporto
contrattuale è condizionata dalla vigenza del provvedimento concessorio.
La concessione è detta traslativa quando il diritto preesiste in capo all’amministrazione (si pensi alla concessione di servizi pubblici) sicché
esso è trasmesso al privato, mentre è costitutiva nei casi in cui il diritto attribuito è totalmente nuovo, nel senso che l’amministrazione non
poteva averne la titolarità (sarebbe tale la concessione di cittadinanza o di onorificenze).
Non è trasmissibile, o suscettibile di essere costituito mediante atto, il potere.
Non è, quindi, corretto affermare che l’amministrazione trasferisce un potere al privato.
Il soggetto pubblico può soltanto consentirne l’esercizio al concessionario.
Per quanto riguarda la concessione di opere pubbliche, la legislazione, sulla scorta dell’influenza comunitaria, mira ad equipararle
all’appalto, o almeno a limitare la discrezionalità di cui gode l’amministrazione chiamata a rilasciarle, al fine di evitare che
l’amministrazione possa svincolarsi dalle regole poste a tutela della concorrenza.
Non a caso la legislazione definisce queste concessioni come “contratti”.
In passato era prevista la concessione di servizi pubblici che ricorreva quando l’ordinamento intendeva garantire alla collettività alcune
prestazioni e attività e consentiva all’amministrazione di affidarne lo svolgimento a soggetti privati attraverso un provvedimento
concessorio.
Attualmente questo tipo di concessione è stato eliminato in relazione ai servizi pubblici locali a carattere industriale.
Nei provvedimenti concessori rientrano le sovvenzioni, che attribuiscono al destinatario vantaggi economici.
La categoria è disciplinata dall’art. 12 della Legge n. 241/1990, che si riferisce a “sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari”,
nonché all’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati.
In generale, le sovvenzioni riguardano lo svolgimento di attività imprenditoriali, i contributi attengono ad attività colturali o sportive,
mentre i sussidi sono attribuzioni rientranti nella beneficenza generale.
Il vantaggio può essere diretto (erogazione di somme) o indiretto (sgravi da alcuni oneri) e non sussiste l’obbligo in capo al beneficiario di
pagare alcun corrispettivo.
L’art. 12 della Legge n. 241/1990 prevede che, nelle forme prescritte dai rispettivi ordinamenti, vengano predeterminati e pubblicati “criteri
e modalità cui le amministrazioni devono attenersi” il cui rispetto dovrà emergere dalla motivazione del provvedimento.
I poteri ablatori.
I poteri ablatori incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario.
Essi hanno segno opposto rispetto a quelli concessori, nel senso che impongono obblighi, oppure sottraggono situazioni favorevoli in
precedenza pertinenti al privato, attribuendole di norma, ma non necessariamente, all’amministrazione (ablatori reali).
Il destinatario si presenta come titolare di interessi legittimi oppositivi.
L’effetto ablatorio può incidere su diritti reali, diritti personali o su obblighi a rilevanza patrimoniale.
Tra i provvedimenti ablatori reali vengono in evidenza le espropriazioni, le occupazioni, le requisizioni, le confische e i sequestri.
L’espropriazione è il provvedimento che ha l’effetto di costituire un diritto di proprietà o altro diritto reale in capo ad un soggetto
(espropriante) previa estinzione del diritto in capo ad altro soggetto (espropriato) al fine di consentire la realizzazione di una opera pubblica
o per altri motivi di pubblico interesse e dietro versamento di indennizzo ai sensi dell’art. 42, comma III della Costituzione
La disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità è contenuta nel Testo Unico di cui al D.P.R. n. 327/2001 e succ. mod.
Secondo la Corte Costituzionale l’indennizzo non deve necessariamente corrispondere al valore di mercato del bene, ma deve costituire un
“serio ristoro”.
La legge prevede anche la possibilità di procedere all’occupazione temporanea di alcuni beni.
In passato l’ipotesi più rilevante era costituita dall’occupazione d’urgenza e riguardava il possesso delle cose destinate all’espropriazione,
purché fosse pagato un indennizzo e l’opera da realizzare a seguito dell’espropriazione fosse dichiarata indifferibile e urgente.
Nel caso in cui l’immobile venisse irreversibilmente trasformato, anche se l’amministrazione non riusciva a concludere nei termini il
procedimento espropriativi si produceva comunque l’acquisto della proprietà di esso a favore dell’amministrazione che era, tuttavia, tenuta
a risarcire il danno, e al privato era preclusa la possibilità di ottenere la restituzione del bene.
Attualmente il T.U. citato disciplina l’istituto dell’ “occupazione anticipata” che conferma questo indirizzo.
Può, inoltre, verificarsi l’ipotesi di occupazione usurpativa, caratterizzata dalla realizzazione dell’opera in mancanza di dichiarazione di
pubblica utilità (l’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni per pubblica utilità prevede che l’autorità che utilizza senza titolo un bene per scopi
di interesse pubblico “modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può
disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni”).
L’art. 49 del T.U. disciplina, poi, l’occupazione temporanea che può essere disposta quando ciò sia “necessario per la corretta esecuzione
dei lavori”, prevedendo la relativa indennità.
Le requisizioni sono provvedimenti attraverso i quali l’amministrazione dispone della proprietà o, comunque, utilizza un bene di un privato
per soddisfare un interesse pubblico.
L’ordinamento conosce alcuni esempi di requisizioni in proprietà che riguardano soltanto le cose mobili e possono essere disposte,
generalmente, per esigenze militari, dietro la corresponsione di una indennità.
La requisizione in proprietà ha effetti irreversibili.
La requisizione in uso è un provvedimento che ha come presupposto l’urgente necessità.
Essa riguarda sia mobili, sia immobili e comporta la possibilità di poter utilizzare il bene, che rimane in proprietà del titolare, per il tempo
necessario e pagando una indennità.
I caratteri dell’urgenza, della temporaneità e dell’indennità valgono a differenziare la requisizione in uso sia dall’espropriazione, sia dalle
ordinanze di necessità e urgenza, che non aprono la via all’indennizzo.
Ai sensi dell’art. 7 della Legge n. 2248/1865, “allorché per grave necessità pubblica l’autorità amministrativa debba senza indugio disporre
della proprietà privata…, essa procederà con decreto motivato senza, tuttavia, pregiudizio di diritti delle parti”.
Questa norma è in generale ritenuta come disposizione applicabile ogni qualvolta altra prescrizione conferisca all’amministrazione il potere
di disporre della proprietà del privato, imponendo di agire mediante decreto motivato.
La confisca è un provvedimento ablatorio a carattere non già espropriativi, ma sanzionatorio ed è la misura conseguente alla commissione
di un illecito amministrativo: si pensi alla confisca di un immobile realizzato abusivamente.
Il sequestro è il provvedimento ablatorio di natura cautelare.
Esso mira, in genere, a salvaguardare la collettività dai rischi derivanti dalla pericolosità del bene.
Alcuni provvedimenti ablatori incidono non solo sui diritti reali, ma sulla complessa sfera giuridica del privato, privandolo di un diritto o di
una facoltà.
Gli ordini hanno in particolare l’effetto di imporre un comportamento al destinatario.
Essi si distinguono in comandi (ordini di fare: ad esempio, l’ordine di demolire il manufatto abusivo) e divieti (ordini di non fare: ad
esempio, il divieto di circolazione stradale), nonché in generali e particolari (se rivolti a tutti o a persone in particolare).
Alcuni ordini si inseriscono in una relazione interorganica e, dunque, sono rivolti ai dipendenti, e non ai privati.
Dagli ordini si distinguono le direttive, che rispetto agli ordini presentano una minore vincolatività.
La diffida consiste nel formale avvertimento ad osservare un obbligo che trova il proprio fondamento in altro provvedimento o nella legge.
Esistono, poi, poteri ablatori caratterizzati dal fatto che impongono obblighi a rilevanza patrimoniale che hanno come effetto la costituzione
autoritativa di rapporti obbligatori: si pensi ai provvedimenti sui prezzi e a tutti i casi di prestazioni imposte.
I poteri sanzionatori.
Per sanzione si intende la conseguenza sfavorevole di un illecito applicata coattivamente dallo Stato o da altro ente pubblico, e cioè la
misura retributiva (inflazione di un male ritenuto maggiore rispetto al beneficio che dalla violazione possa derivare) nei confronti del
trasgressore.
Per illecito si intende la violazione di un precetto compiuta da un soggetto.
La sanzione ha carattere eminentemente afflittivo ed è la conseguenza di un comportamento antigiuridico di un soggetto, di cui è diretta e
immediata conseguenza.
Non è sanzione la misura, di carattere preventivo e cautelare, che non presuppone l’accertamento della violazione della legge, a meno che
non sia fondata sull’accertato pericolo della violazione stessa da parte del soggetto.
Non è sanzione la dichiarazione di nullità o la rimozione dell’atto invalido perché la reazione dell’ordinamento opera qui soltanto nei
confronti dell’atto, mentre il soggetto rimane estraneo alla diretta considerazione normativa.
Non è sanzione la reintegrazione, in qualsiasi forma, dello stato di cose antecedente alla trasgressione, da cui esula qualsiasi finalità
afflittiva.
Nella vigente legislazione non è definito il concetto di sanzione amministrativa.
Le sanzioni amministrative non hanno un contenuto loro peculiare, ma si possono individuare soltanto in modo residuale, quali misure
afflittive non consistenti in sanzioni penali o in sanzioni civili.
La sanzione amministrativa può definirsi come la misura afflittiva non consistente in una pena criminale o in una sanzione civile, irrogata
nell’esercizio di potestà amministrative come conseguenza di un comportamento assunto da un soggetto in violazione di una norma o di un
provvedimento amministrativo.
I principi generali della sanzione amministrativa vanno ricercati nella legislazione ordinaria, costituita dalla Legge n. 689/1981, nella quale
sono contenuti principi di tipo garantistico modellati su quelli penalistici.
Essi operano sul piano delle fonti (principio di legalità), sul piano della successione delle leggi nel tempo (principio di irretroattività), sul
piano della interpretazione (principio del divieto di analogia).
La sanzione amministrativa è il risultato dell’esercizio di un potere amministrativo.
La tassatività delle sanzioni è espressamente affermata dall’art. 1 della Legge n. 689/1981.
La recente Legge costituzionale n. 3/2001 di riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione non elenca le sanzioni tra le materie
riservate allo Stato o alla potestà legislativa concorrente.
La cosiddette sanzioni ripristinatorie colpiscono la res e mirano a reintegrare l’interesse pubblico leso, mentre le sanzioni afflittive – le
sole sanzioni in senso proprio – si rivolgono direttamente all’autore dell’illecito.
Queste ultime si distinguono ulteriormente in sanzioni pecuniarie e sanzioni interdittive, che incidono sull’attività del soggetto colpito.
Posizione a parte occupano le sanzioni disciplinari che si riferiscono ai soggetti che si trovano in un peculiare rapporto con
l’amministrazione.
Con riferimento alle sanzioni disciplinari a cui sono assoggettabili i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, va ricordato che il D.Lgs.
n. 165/2001 prevede una regolamentazione specifica in tema di responsabilità disciplinare, stabilendo che ai dipendenti presso le pubbliche
amministrazioni si applicano l’art. 2106 del Codice civile e l’art. 7, commi I, V e VIII della Legge n. 300/1970 e devolvendo al giudice
ordinario tutte le controversie attinenti il rapporto di lavoro, comprese quelle in materia di sanzioni disciplinari.
L’art. 55 del D.Lgs. n. 165/2001 prevede che le tipologie delle infrazioni e delle relative sanzioni siano definite dai contratti collettivi.
La legge contempla anche un gruppo di sanzioni amministrativa: le sanzioni accessorie, come l’art. 20 della Legge n. 689/1981 che
prevede alcune misure interdittive consistenti nella privazione o nella sospensione di facoltà o diritti derivanti da provvedimenti della
pubblica amministrazione.
La violazione del precetto dà luogo all’illecito amministrativo, per il quale la Legge n. 689/1981 prevede una riserva di legge.
Per quanto attiene l’elemento psicologico, ai fini della sussistenza dell’illecito di richiede il dolo o la colpa: la giurisprudenza, introducendo
una sorta di inversione dell’onere della prova, afferma che spetta al trasgressore la dimostrazione dell’assenza della colpa.
Infine, l’ordinamento ha previsto alcune ipotesi di sanzioni pecuniarie inflitte a persone giuridiche e riconosciute, quindi, direttamente
responsabili.
I poteri di ordinanza, i poteri di programmazione e di pianificazione, i poteri di imposizione dei vincoli, i poteri di controllo.
Il potere di ordinanza, esercitabile nelle situazioni di necessità e urgenza, è caratterizzato dal fatto che la legge non predetermina in modo
compiuto il contenuto della statuizione in cui il potere può concretarsi, e consente all’amministrazione stessa di esercitare un potere tipico
in presenza di situazioni diverse da quelle previste in via ordinaria o seguendo procedimenti differenti.
Il potere di ordinanza, il cui esercizio dà luogo alla emanazione delle ordinanze di necessità e urgenza, non rispetta il principio della
tipicità dei poteri amministrativi che, in applicazione del principio di legalità, impone la previa individuazione degli elementi essenziali dei
poteri a garanzia dei destinatari degli stessi.
D’altronde le ordinanze di necessità e urgenza sono previste proprio per far fronte a situazioni che non possono essere risolte rispettando il
normale ordine delle competenze e i normali poteri.
Tra gli esempi più rilevanti ricordiamo le ordinanze contingibili e urgenti del sindaco (art. 54 del T.U. sugli enti locali), le ordinanze
dell’autorità di pubblica sicurezza e le ordinanze che possono essere adottate nelle situazioni di emergenze sanitarie o di igiene pubblica.
Le ordinanze vanno distinte dai provvedimenti d’urgenza, atti tipici e nominati suscettibili di essere emanati sul presupposto dell’urgenza
ma che, tuttavia, sono di contenuto predeterminato dal legislatore.
Vanno ricordati i poteri di pianificazione e i poteri di programmazione.
La programmazione, che comprende anche la pianificazione, indica il complesso di atti mediante i quali l’amministrazione, previa
valutazione di una situazione nella sua globalità, individua le misura coordinate per intervenire in un dato settore.
Al fine di conservare alcuni beni immobili che presentano peculiari caratteristiche ambientali, urbanistiche e così via, la legge attribuisce
all’amministrazione il potere di sottoporre gli stessi a vincolo amministrativo che, generalmente, è imposto mediante piano attraverso cui
si produce una riduzione delle facoltà spettanti ai proprietari.
Si tratta dell’imposizione di obblighi di fare o di non fare.
Questo vincolo può essere assoluto (se impedisce di utilizzare un bene) o relativo.
L’apposizione del vincolo è una azione conseguente all’accertamento della nel bene di pre-esistenti caratteri definiti in generale dalla legge:
ciò spiega perché non esiste per i privati la possibilità di ottenere un indennizzo.
Infine, i poteri di controllo ricorrono nei rapporti tra amministrazione e privati: difatti, si hanno esempi di atti che vengono rilasciati a
seguito dell’esito positivo di un controllo sull’attività da essi svolta.
Il controllo presuppone l’avvenuta instaurazione di una particolare relazione tra amministrazione e privato che può sorgere a seguito di un
atto autorizzatorio o di dichiarazione di inizio attività del privato.
I poteri strumentali e i poteri dichiarativi. Le dichiarazioni sostitutive.
L’amministrazione, in occasione dell’esercizio del potere, pone in essere atti strumentali ad altri poteri, detti atti dichiarativi, come pareri,
proposte, atti di controllo, accertamenti.
L’efficacia dichiarativa incide su di una situazione giuridica preesistente rafforzandola, specificandone il contenuto o affievolendola
impedendo così la realizzazione della situazione in una certa direzione.
Alcuni atti dichiarativi hanno la funzione di attribuire certezza legale ad un dato.
Questi atti, detti di certazione, producono certezze che valgono erga omnes.
Essi sono tipici e nominati ed è da ritenere che siano espressione di un potere certificativo.
Le conoscenze acquisite dall’amministrazione sono spesso conservate e ordinate in appositi registri, albi, liste, elenchi, casellari e così via.
Anche altri atti di accertamento, rendendo possibile la conoscenza del fatto registrato, hanno un effetto di certezza: essa è, però, “notiziale”
in quanto è superabile con la prova contraria.
La certezza può essere “messa in circolazione” mediante certificati, i quali sono atti con cui appunto si riproduce una certezza.
Il certificato è il documento “tipico” (previsto espressamente dalla legge) “rilasciato da una amministrazione avente funzione di
ricognizione, riproduzione e partecipazione a terzi di stati, qualità personali e fatti contenuti in albi, elenchi o registri pubblici o comunque
accertati da soggetti titolari di funzioni pubbliche” (art. 1 del D.P.R. n. 445/2000: Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia di documentazione amministrativa, modificato dal D.P.R. n. 137/2003).
Detto T.U. parla anche di certificazioni, le quali, in senso proprio, sono le dichiarazioni di scienza esternate mediante certificato: tra
certificazione e certificato vi è, dunque, lo stesso rapporto che corre tra contenuto e contenente.
La registrazione non è un certificato perché in essa è prevalente la funzione di acquisire conoscenze rispetto a quella di esternare, propria
del certificato.
Il certificato ha normalmente i caratteri dell’atto pubblico, essendo rilasciato da un pubblico ufficiale autorizzato a darvi pubblica fede, e fa
piena prova, fino a querela di falso, tanto in sede amministrativa quanto in sede giurisdizionale, di ciò che in esso è dichiarato e della
provenienza.
Dalle certazioni e dai certificati occorre distinguere gli attestati (attestati di benemerenza) che sono atti amministrativi sempre tipici, ma
insuscettibili di creare la medesima certezza legale creata dalle certazioni e che, a differenza dei certificati, non mettono in circolazione una
certezza creata da un atto di certazione.
Ancora differenti sono le attestazioni atipiche (attestati di frequenza a corsi, attività di svolgimento di studio e ricerca) che, sul piano
dell’ordinamento generale, creano al più una presunzione e gli atti di notorietà che sono atti formati, su richiesta di un soggetto, da un
pubblico ufficiale (notaio, sindaco) in base alle dichiarazioni simultanee rese in sua presenza e sotto giuramento da alcuni testimoni (non
meno di due).
Da questi atti risulta che la notizia di determinati fatti è diventata di pubblico dominio.
Allo scopo di alleggerire il carico di lavoro dei pubblici uffici e contestualmente consentire ai privati di poter provare all’amministrazione
determinati fatti, stati e qualità a prescindere dall’esibizione dei relativi certificati è nato l’istituto giuridico della dichiarazione sostitutiva,
che è un atto del privato capace di sostituire una certificazione pubblica, e rispetto alla quale è alternativa.
Le dichiarazioni sostitutive si distinguono dai certificati in quanto: non provengono da un ente pubblico; sono destinate a confluire soltanto
in un singolo rapporto tra cittadino e amministrazione (i certificati, invece, valgono in generale e a tutti gli effetti, anche nei rapporti tra
cittadini); le dichiarazioni sostitutive hanno la stessa validità temporale degli atti che sostituiscono; non consistono in una trascrizione del
contenuto di un pubblico registro.
La mancata accettazione della dichiarazione sostitutiva costituisce violazione dei doveri d’ufficio.
La legge attribuisce alla pubblica amministrazione il compito di controllare la veridicità delle dichiarazioni sostitutive, il quale avviene
mediante raffronto tra il contenuto delle stesse e quello degli atti di certazione.
La dichiarazione sostitutiva di certificazione è il documento, sottoscritto dall’interessato in sostituzione dei certificati: ad esempio, data e
luogo di nascita, residenza, cittadinanza, stato civile e di famiglia, nascita del figlio, posizione reddituale, titolo di studio, qualifica
professionale.
In luogo della dichiarazione il cittadino può produrre il certificato o la copia autentica oppure esibire un documento che li attesti.
Il T.U. prevede che il cittadino possa rendere al funzionario competente dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, e cioè atti con cui
il privato comprova, nel proprio interesse e a titolo definitivo, tutti gli stati, fatti e qualità personali non compresi in pubblici registri, albi ed
elenchi (quindi, non suscettibili di attestazione con dichiarazione sostitutiva di certificazione), nonché stati, fatti e qualità personali relativi
ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza.
I certificati rilasciati dalle amministrazioni attestanti stati e fatti personali non soggetti a modificazione hanno validità illimitata; invece, le
restanti certificazioni hanno validità di sei mesi dalla data del rilascio.
Gli stati, i fatti e le qualità personali contenuti in documenti di identità o di riconoscimento non più in corso di validità possono essere
comprovati mediante esibizione e dichiarazione che i dati non hanno subito variazioni (art. 45 del D.P.R. n. 445/2000).
L’art. 49 del T.U. non consente che i certificati medici, sanitari, veterinari, di origine, di conformità CE, di marchi o brevetti siano sostituiti
“da altro documento”.
L’art. 71 del T.U. specifica che il controllo sulle dichiarazioni sostitutive di certificazione e di atto di notorietà debba avvenire, anche a
campione, in tutti i casi in cui “sorgano fondati dubbi” sulla loro veridicità.
Esso è effettuato secondo due modalità: consultando direttamente gli archivi dell’amministrazione certificante, oppure richiedendo alla
medesima conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei registri.
Le dichiarazioni sostitutive possono essere anche utilizzate nei rapporti tra privati che vi consentano (art. 2 del D.P.R. n. 445/2000): in
questo caso l’amministrazione competente per il rilascio della relativa certificazione, previa definizione di appositi accordi, è tenuta a
fornire, su richiesta del privato corredata dal consenso del dichiarante, conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le
risultanze dei dati custoditi.
Cenni ad alcune tra le più rilevanti vicende giuridiche il cui studio interessa il diritto amministrativo: il decorso del tempo e la
rinuncia.
Il decorso del tempo produce la nascita o la modificazione di una serie di diritti ed è alla base degli istituti della prescrizione e della
decadenza.
Il potere in quanto attributo della soggettività non è trasmissibile e non è neppure prescrittibile a seguito del decorso del tempo.
Il diritto soggettivo è, invece, soggetto a prescrizione ove non esercitato per un certo periodo di tempo: si pensi al diritto di percepire lo
stipendio, che si prescrive in cinque anni.
Il tempo, unitamente all’esercizio di un diritto, è alla base dell’istituto dell’usucapione dei diritti reali, ma per quanto attiene il diritto
amministrativo occorre ricordare che non è ammesso l’acquisto per usucapione di diritti su beni demaniali.
Tra gli atti che producono vicende estintive di diritti si annovera la rinuncia, negozio avente effetto abdicativi cui può seguire un effetto
traslativo (accrescimento della sfera altrui) o estintivo.
Il potere, intrasmissibile e imprescrittibile, non può essere oggetto di un atto di rinunzia.
Sono, invece, normalmente rinunciabili i diritti soggettivi (come il diritto all’indennizzo in caso di espropriazione); non sono rinunciabili le
situazioni che ineriscono ad interessi diversi da quelli del loro titolare (ad esempio, è irrinunciabile l’ufficio di tutore) e i diritti di libertà.
In tema di crediti dei dipendenti aventi causa nel rapporto di lavoro, si ricordi che l’amministrazione non può rinunciare alla prescrizione
e alla relativa eccezione.
Non è possibile rinunciare nemmeno agli interessi legittimi perché seguono il potere e il suo esercizio.
Le fonti del diritto (in particolare quelle legislative) attinenti alle situazioni giuridiche.
Le fonti giuridiche sono i fatti e gli atti produttivi di norme giuridiche.
La materia costituisce oggetto del diritto costituzionale.
Molte fonti pongono norme di diritto amministrativo o sono atti soggettivamente amministrativi, nel senso che sono posti in essere da
autorità amministrative.
Cenni ad alcuni riflessi della distinzione tra norme di relazione e norme di azione sui problemi della difformità dell’atto dal
paradigma normativo e del riparto di giurisdizione.
Le norme di relazione proteggono, in particolare, i diritti soggettivi.
Si può, dunque, dire che alla violazione di una norma di relazione consegue la lesione di un diritto soggettivo.
Poiché il giudice che tutela i diritti soggettivi è il giudice ordinario, come affermato dalla Costituzione, la stessa situazione può essere
descritta affermando che il giudice ordinario sindaca la violazione delle norme di relazione.
Sul piano sostanziale va aggiunto che, ove l’amministrazione agisca in violazione di una norma di relazione, essa pone in essere un
comportamento che non è espressione di un potere.
L’atto amministrativo emanato in assenza di potere è nullo ed è sindacabile dal giudice ordinario: ad esempio, un provvedimento di
esproprio emanato da una amministrazione non competente.
Il giudice ordinario ha giurisdizione nei casi in cui l’amministrazione abbia agito in carenza di potere ponendo in essere un atto nullo, e
cioè non produttivo di effetti.
L’interesse legittimo è anche la pretesa all’osservanza delle norme di azione.
Sotto il profilo processuale, la tutela dell’interesse legittimo è affidata al giudice amministrativo.
L’azione amministrativa che non rispetti le norme di azione è sicuramente illegittima: tuttavia, ove siano rispettate le norme di relazione che
attribuiscono il potere, l’atto finale non è nullo.
Gli effetti prodotti in questo modo sono, tuttavia, precari.
L’atto è, cioè, emanato in una situazione in cui il potere sussiste, ma è stato esercitato in modo non corretto e, quindi, la giurisdizione del
giudice amministrativo si individua in base al canone del cattivo esercizio del potere amministrativo.
Il giudice che accerti la violazione di norme di azione dovrà eliminare sia l’atto, sia i suoi effetti, emanando una decisione di annullamento.
Il regime dell’atto posto in essere in violazione di norme di azione è, dunque, l’annullabilità.
L’atto può essere annullato anche in via di autotutela dalla stessa amministrazione che ha emanato l’atto.
L’atto illegittimo può essere disapplicato dal giudice ordinario, annullato dall’amministrazione in sede di decisione di ricorso
amministrativo, oppure in sede di controllo.
I regolamenti amministrativi.
I regolamenti si distinguono in regolamenti governativi, ministeriali e degli enti pubblici, in base al soggetto e all’organo da cui
provengono.
La disciplina dei regolamenti governativi è fissata dalla Legge n. 400/1988.
Per la loro emanazione la legge richiede la deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato.
Emanati con decreto del Presidente della Repubblica e sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti, essi sono pubblicati nella
Gazzetta ufficiale e debbono essere espressamente denominati “regolamenti”.
L’art. 17 della Legge n. 400/1988 prevede diversi tipi di regolamenti governativi.
I regolamenti esecutivi rappresentano le fonti governative mediante le quali sono poste norme di dettaglio rispetto alla legge o al decreto
legislativo da eseguire.
I regolamenti attuativi e integrativi rispetto alle leggi che pongono norme di principio possono essere adottati al di fuori delle materie
riservate alla competenza regionale.
I regolamenti indipendenti sono emanati per disciplinare le materie in cui ancora manchi la disciplina da parte di leggi o atti aventi forza
di legge.
Vi sono, poi, i regolamenti che disciplinano l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le
disposizioni dettate dalla legge.
L’art. 17, comma II Legge n. 400/1988 disciplina i regolamenti di delegificazione, o autorizzati, i quali possono essere adottati solo a
seguito di una specifica previsione di legge.
Col termine delegificazione si intende l’attribuzione al potere regolamentare del compito di disciplinare materie anche in deroga alla
disciplina posta dalla legge.
La norma dispone che “con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di
Stato, sono emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le
quali le leggi della Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del governo, determinano le norme generali regolativi
della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti.
Con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari”.
Un massiccio impiego dei regolamenti di delegificazione è previsto per l’attuazione di direttive comunitarie e ai fini di semplificazione dei
procedimenti amministrativi.
I regolamenti di delegificazione e quelli di organizzazione rappresentano, oggi, atti di importanza essenziale nel quadro delle fonti.
La legge contempla, poi, i regolamenti ministeriali, nonché i regolamenti interministeriali, adottati con decreti interministeriali in
quanto attinenti a materie di competenza di più ministri.
I regolamenti ministeriali debbono autoqualificarsi come tali e non possono dettare norme contrarie ai regolamenti governativi.
Essi debbono trovare il fondamento in una legge che espressamente conferisca il relativo potere al ministro ed essere attinenti alle “materie
di competenza del ministro”.
Essi vanno comunicati al Presidente del Consiglio dei Ministri prima della loro emanazione e sono sottoposti al parere obbligatorio del
Consiglio di Stato, al visto della Corte dei conti e alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
CAPITOLO VI
IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
Introduzione
Il provvedimento è l’atto normativo che produce vicende giuridiche in ordine alle situazioni giuridiche di soggetti terzi.
L’emanazione del provvedimento finale è, di norma, preceduta da un insieme di atti, fatti e attività, tutti tra di loro connessi poiché
concorrono all’emanazione del provvedimento stesso.
Questi atti, fatti e attività sono caratterizzati dallo scopo comune e unitario e confluiscono nel procedimento amministrativo.
Il procedimento amministrativo è stato definito come “forma della funzione”.
La funzione è una serie coordinata di attività e di atti endoprocedimentali.
Il procedimento è caratterizzato da peculiarità del diritto pubblico tra le quali:
la necessità di dare evidenza alle modalità di scelta effettuate dall’amministrazione in vista dell’interesse pubblico;
l’importanza di enucleare i vari passaggi che conducono alla determinazione conclusiva ai fini del sindacato operato dal giudice
amministrativo;
l’esistenza di norme giuridiche (norme di azione) alle quali è soggetta l’amministrazione nel corso della sua attività;
il procedimento deve essere strutturato in modo da consentire che la scelta discrezionale possa proficuamente avvenire.
La recente normativa configura il procedimento come un modulo nel cui interno far confluire l’esercizio di più poteri provvedimentali, in
particolare autorizzativi e concessori, tra di loro connessi.
È da segnalare la disciplina relativa allo sportello unico delle attività produttive.
Gli artt. 23 e segg. del D.Lgs. n. 112/1998 prevedono che i comuni si dotino di una struttura unica responsabile dei procedimenti attinenti
alle attività produttive (concernenti la realizzazione, l’ampliamento, la cessazione, la riattivazione, la localizzazione, la rilocalizzazione di
impianti produttivi, nonché il rilascio delle concessioni o autorizzazioni edilizie) la quale deve dar vita ad uno sportello unico “al fine di
consentire a tutti gli interessati l’accesso, anche in via telematica, al proprio archivio informatico contenente le domande di autorizzazione e
il relativo iter procedurale, gli adempimenti necessari per le procedure autorizzatorie, nonché tutte le informazioni disponibili a livello
regionale, comprese quelle concernenti le attività promozionali che dovranno essere fornite in modo coordinato”.
Nella situazione in cui, per svolgere una certa attività, il privato deve ottenere distinti provvedimenti non connessi sotto il profilo giuridico,
ma di fatto tutti attinenti al medesimo bene della vita, il nesso tra i vari procedimenti non è di presupposizione, ma di consecuzione: ad
esempio, nel caso di intervento su un immobile situato in zona soggetta a tutela paesistica che necessita di un ulteriore autorizzazione
relativa ai beni paesaggistici e ambientali.
La responsabilità civile, penale e disciplinare del responsabile del procedimento rimane soggetta alle regole vigenti, anche se gli impulsi e
le sollecitazioni, conseguenti alle funzioni di vigilanza, denuncia e segnalazione affidati al responsabile possono comunque essere presi in
considerazione ai fini della valutazione della legittimità o liceità del comportamento tenuto dal responsabile medesimo.
D’altro canto, il responsabile potrebbe commettere il reato previsto all’art. 328 del Codice penale, allorché rimanga inerte nella promozione
del procedimento e nel compimento degli atti che la legge affida alla sua competenza.
Piuttosto, ove il responsabile abbia correttamente agito, dovrebbe potersi individuare il soggetto che ha effettivamente rallentato o bloccato
il procedimento.
In conclusione, ancorché la legge parli di “responsabile del procedimento”, deve essere ribadito soprattutto il ruolo di guida e di
coordinamento in seno al procedimento rivestito da questo soggetto.
L’istruttoria procedimentale.
L’istruttoria è la fase del procedimento volta all’accertamento dei fatti e dei presupposti del provvedimento e alla acquisizione e
valutazione degli interessi implicati dall’esercizio del potere.
L’istruttoria è condotta dal responsabile del procedimento come disposto dall’art. 6 della Legge n. 241/1990.
Tra gli obblighi del responsabile figura quello di curare “l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria”.
La decisione amministrativa finale deve essere preceduta da adeguata conoscenza della realtà esterna, la quale avviene appunto attraverso
l’istruttoria.
L’istruttoria del procedimento amministrativo serve per acquisire interessi e verificare fatti.
I fatti sono eventi, o situazioni, gli interessi sono aspirazioni a beni della vita.
L’attività conoscitiva, volta ad acquisire la conoscenza della realtà di fatto, si svolge mediante una serie di operazioni i cui risultati
vengono attestati da dichiarazioni di scienza, acquisite al procedimento.
I dati di fatto rilevanti possono essere individuati dall’amministrazione oppure rappresentati dai terzi attraverso lo strumento della
partecipazione.
Essi sono spesso attestati da documenti, certificazioni o dichiarazioni presentati o esibiti all’amministrazione o da questa direttamente
formati.
Gli interessi vengono introdotti nel procedimento attraverso l’iniziativa dell’amministrazione procedente, l’acquisizione delle
determinazioni di altri soggetti pubblici, la indizione della conferenza di servizi e la partecipazione procedimentale.
La partecipazione procedimentale.
Uno degli strumenti più importanti per introdurre interessi pubblici e privati nel procedimento è costituito dalla partecipazione.
Ai sensi degli artt. 7 e 9 della Legge n. 241/1990, sono legittimati all’intervento nel procedimento:
i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre i suoi effetti diretti;
i soggetti che per legge debbono intervenire nel procedimento;
i soggetti che possono subire un pregiudizio dal provvedimento, purché individuati o facilmente individuabili;
i portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati cui possa derivare
un pregiudizio dal provvedimento.
La differenza principale tra le categorie indicate rispettivamente dall’art. 7 e dall’art. 9 riguarda le modalità con cui i soggetti acquisiscono
la conoscenza della pendenza di un procedimento nel quale intervenire.
L’art. 9 consente, infatti, la partecipazione ai soggetti cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento.
L’art. 7 prevede, invece, un dovere dell’amministrazione di comunicare l’avvio del procedimento, il quale non può comportare un eccessivo
aggravio per l’amministrazione stessa, mentre la partecipazione disciplinata all’art. 9 è indipendente dal ricevimento dell’avviso del
procedimento.
Gli statuti degli enti locali possono ampliare la cerchia dei soggetti titolari del potere di partecipazione poiché l’art. 8 del Testo Unico sugli
enti locali stabilisce che devono essere previste nello statuto forme di partecipazione degli interessati nel procedimento relativo all’adozione
di atti che incidono su situazioni giuridiche soggettive.
La disciplina degli enti locali prevede numerosi strumenti e istituti di partecipazioni quali la consultazione, le istanze, le petizioni, le
proposte, i referendum, le azioni popolari, il diritto di accesso e di informazione dei cittadini.
La dottrina ha spesso utilizzato la nozione di parti del procedimento individuando in questo modo le parti necessarie (quelle contemplate
dall’art. 7) e parti eventuali (contemplate dall’art. 9).
L’unica parte necessaria è l’amministrazione procedente poiché la legge prevede strumenti per superare l’inerzia degli eventuali altri
soggetti pubblici.
Per la categoria dei soggetti indicati nell’art. 7 della Legge n. 241/1990 la comunicazione di avvio del procedimento è atto strumentale e
necessario per garantire la partecipazione, ma in ogni caso la conoscenza dello stato del procedimento è consentita dall’esercizio del diritto
di prender visione degli atti del procedimento stesso.
Considerando che la funzione del procedimento è quella di consentire la miglior cura dell’interesse pubblico, si deve ritenere che anche la
partecipazione sia strumentale alla più congrua decisione finale in vista dell’interesse pubblico: essa ha, cioè, funzione collaborativa.
La pubblica amministrazione considera, infatti, il contributo al fine di ottenere una migliore conoscenza della realtà e della complessa trama
degli interessi coinvolti, conoscenza che è strettamente preordinata alla scelta della modalità di perseguimento dell’interesse pubblico.
I fatti rappresentati dagli intervenienti non possono essere accettati acriticamente, con la conseguenza che l’amministrazione può essere
chiamata ad estendere l’ambito oggettivo della realtà indagata alla ricerca dei fatti implicati in quella rappresentazione.
La pubblica amministrazione dovrà più precisamente verificare la pertinenza delle memorie all’oggetto del procedimento, accertare i fatti
introdotti nel procedimento dai privati, identificare altri fatti ignoti ed elaborare le rappresentazioni dei privati.
Mediante la partecipazione è pure dato introdurre ipotesi di soluzione, le quali vanno ad arricchire il quadro delle possibilità all’interno del
quale l’amministrazione opererà la scelta finale.
L’art. 11 della Legge n. 241/1990 prevede, infatti, che la conclusione degli accordi tra amministrazione e privati può avvenire “in
accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’art. 10”.
I soggetti passivi del diritto di accesso sono le amministrazioni pubbliche, le aziende autonome e speciali, gli enti pubblici e i gestori dei
servizi pubblici; questi ultimi possono essere privati equiparati ai soggetti pubblici in virtù dell’attività di rilievo pubblicistico – art. 23 della
Legge n. 241/1990 e art. 2 del D.P.R. n. 352/1992.
Sotto il profilo oggettivo, il diritto di accesso riguarda i documenti amministrativi.
L’art. 22, comma II della Legge n. 241/1990 ne fornisce una ampia definizione: è considerato tale ogni “rappresentazione grafica, fono
cinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni, formati dalle pubbliche amministrazioni o,
comunque, utilizzati ai fini dell’attività amministrativa”.
Non solo gli atti scritti su supporto cartaceo, dunque, né solo i provvedimenti finali (perciò anche gli atti interni o endoprocedimentali), né
unicamente gli atti amministrativi (quindi, anche altri atti che confluiscono nel procedimento come i pareri legali, i progetti dei tecnici, i
referti medici).
L’accoglimento della richiesta di accesso ad un documento comporta anche la facoltà di accesso agli altri documenti nello stesso richiamati
e appartenenti al medesimo procedimento, fatte salve le eccezioni di legge o regolamento (art. 5, comma III del D.P.R. n. 352/1992).
L’accesso è consentito non soltanto nei confronti degli atti che attengono a procedimenti amministrativi finalizzati all’emanazione di
provvedimenti, ma altresì ai procedimenti relativi all’attività di diritto comune della pubblica amministrazione; infatti, l’art. 22 si riferisce
all’attività nel suo complesso, senza distinzioni ulteriori.
La richiesta deve essere motivata, indicare gli estremi del documento oppure gli elementi che ne consentano l’individuazione e far
constatare l’identità del richiedente.
Il D.P.R. n. 352/1992 introduce la possibilità di esercitare in via informale il diritto di accesso, “mediante richiesta, anche verbale,
all’ufficio dell’amministrazione centrale o periferica, competente a formare l’atto conclusivo del procedimento o a detenerlo stabilmente”.
La richiesta informale, “esaminata immediatamente e senza formalità, è accolta mediante indicazione della pubblicazione contenente le
notizie, esibizione del documento, estrazione di copie, ovvero altra modalità idonea”.
La richiesta formale, che avviene con atto scritto e che deve essere accolta con l’atto disciplinato dall’art. 5 del D.P.R. n. 352/1992, può
essere prescelta dal richiedente, oppure imposta all’amministrazione “qualora non sia possibile l’accoglimento immediato della richiesta in
via informale, ovvero sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente, sulla identità, sui suoi poteri rappresentativi, sulla sussistenza
dell’interesse alla stregua delle informazioni e delle documentazioni fornite o sull’accessibilità del documento” (art. 4 del D.P.R. n.
352/1992: in questi casi “il richiedente è invitato contestualmente a presentare istanza formale”).
A seguito di domanda di accesso, l’amministrazione può:
invitare il richiedente a presentare istanza formale, nel caso di richiesta informale che non sia immediatamente accoglibile;
rifiutare l’accesso;
differire l’accesso;
limitare la portata dell’accesso, consentendo l’accesso solo ad alcune parti del documento;
accogliere l’istanza.
Il rifiuto, il differimento e la limitazione all’accesso devono essere motivati, mentre la legge non stabilisce nulla per l’accoglimento.
L’art. 25, comma IV della Legge n. 241/1990 dispone che nel caso in cui l’amministrazione non si pronunci entro 30 giorni sulla richiesta
di accesso, questa si intenda respinta.
In caso di accoglimento, il diritto di accesso si esercita mediante esame gratuito ed estrazione di copia del documento.
Il rilascio di copia è subordinato al rimborso del costo di riproduzione e dei diritti di segreteria.
L’esame è effettuato dal richiedente o da persona da lui incaricata, con l’eventuale accompagnamento di altra persona di cui vanno
specificate le generalità (art. 5 del D.P.R. n. 352/1992).
Secondo l’art. 5, comma IV del D.P.R. n. 352/1992, l’esame dei documenti avviene presso l’ufficio indicato nell’atto di accoglimento della
richiesta, ma una altra norma prevista dall’art. 11 del D.Lgs. n. 165/2001 prevede che debbono essere assunte iniziative volte all’incremento
delle modalità di accesso alle informazioni anche con l’uso delle procedure informatiche.
Il differimento dell’accesso è consentito nei casi in cui e fino a quando la conoscenza dei documenti non impedisca o gravemente ostacoli lo
svolgimento dell’azione amministrativa (art. 24, comma IV della Legge n. 241/1990).
Non tutti gli atti sono suscettibili di essere conosciuti dai cittadini.
L’art. 24 della Legge n. 241/1990 prevede alcune categorie di documenti sottratti all’accesso, come ad esempio i documenti coperti da
segreto di Stato, degli altri casi di segreto o di divieto di divulgazione previsti dalla legge.
Ciascuna amministrazione è, poi, chiamata ad adottare regolamenti al fine di individuare le categorie di documenti escluse dall’accesso.
L’esclusione dei documenti amministrativi dal regime dell’accesso è disposta a salvaguardia dei seguenti interessi: sicurezza, difesa
nazionale e relazioni internazionali; politica monetaria e valutaria; ordine pubblico; prevenzione e repressione della criminalità; riservatezza
dei terzi, persone, gruppi e imprese, “garantendo, peraltro, agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici”.
Col termine riservatezza si indica quel complesso di dati, notizie e fatti che riguardano la sfera privata della persona e la sua intimità.
La privacy confligge spesso con l’esigenza di diffondere atti che siano in possesso della pubblica amministrazione e che contengano
indicazioni relative a dati attinenti alla sfera personale dei soggetti.
Il D.Lgs. n. 196/2003 “codice in materia di protezione dei dati personali” ha riorganizzato e innovato la materia e ha contestualmente
abrogato le disposizioni precedenti, introducendo regole in relazione all’accesso alle informazioni detenute dalle pubbliche
amministrazioni.
Ai sensi dell’art. 7 del D.Lgs. n. 196/2003, l’interessato ha diritto di ottenere dai soggetti pubblici la conferma del fatto che essi detengano
dati personali che lo riguardano (qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente o associazione, identificati o
identificabili anche indirettamente mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione
personale) nonché “la loro comunicazione in forma intelligibile”.
In particolare, l’interessato ha diritto di ottenere l’indicazione della provenienza dei dati personali trattati dall’ente pubblico; delle finalità e
modalità di trattamento; della logica applicata se il trattamento avviene con strumenti elettronici; degli estremi dei soggetti responsabili
nelle operazioni di trattamento, dei soggetti cui potrebbero eventualmente essere comunicati questi dati personali.
Una volta conosciuti i dati personali e/o le informazioni detenuti da un ente pubblico, l’interessato ha diritto di ottenerne l’aggiornamento,
la rettifica, l’integrazione, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima, il blocco.
In relazione alle pubbliche amministrazioni, l’art. 8 del Codice della privacy prevede che questi diritti esercitabili da ciascun soggetto sui
propri dati personali non possono essere esercitati se il trattamento di questi ultimi avviene ad opera di soggetti pubblici “per esclusive
finalità inerenti alla politica monetaria e valutaria, al sistema dei pagamenti, al controllo degli intermediari e dei mercati creditizi e
finanziari, nonché alla tutela della loro stabilità”.
Questo diritto di accesso, regolato al di fuori della Legge n. 241/1990, non può essere utilizzato allorché l’esibizione documentale comporti
anche la conoscenza di dati personali di soggetti terzi rispetto al richiedente.
L’art. 10 del D.Lgs. n. 196/2003 esclude che questo accesso possa riguardare dati personali relativi a terzi “salvo che la scomposizione dei
dati trattati o la privazione di alcuni elementi renda incomprensibili i dati personali dell’interessato”.
L’art. 19 del D.Lgs. n. 196/2003 prevede che la comunicazione e la diffusione di dati personali da parte di amministrazioni a soggetti
pubblici o privati “sono ammesse unicamente quando sono previste da una norma di legge o di regolamento” e in questo caso non è
necessario il consenso dell’interessato.
L’art. 59 del Codice della privacy precisa che “i presupposti, le modalità, i limiti per l’esercizio del diritto di accesso a documenti
amministrativi contenenti dati personali, e la relativa tutela giurisdizionale, restano disciplinati dalla Legge n. 241/1990 e succ. mod. e dalle
altre disposizioni di legge in materia, nonché dai relativi regolamenti di attuazione, anche per ciò che concerne i tipi di dati sensibili e
giudiziari e le operazioni di trattamento eseguibili in esecuzione di una richiesta di accesso” e considera “di rilevante interesse pubblico” le
attività finalizzate all’applicazione di questa disciplina.
Quando l’accesso ai documenti la cui conoscenza potrebbe confliggere con le esigenze di riservatezza di dati personali di soggetti terzi, il
Codice della privacy fa espressamente rinvio ai principi e alle regole contenute nella Legge n. 241/1990, che in sostanza richiede
all’amministrazione di effettuare una ponderazione tra interessi contrapposti. In particolare, la Legge n. 241/1990 prevede che la
riservatezza di terzi, persone, gruppi e imprese, costituisca una delle esigenze in relazione alle quali può essere escluso il diritto di accesso,
specificando, peraltro, che deve essere garantita agli interessati “la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o difendere i loro interessi giuridici”.
Come sostenuto anche dal Consiglio di Stato, ad. Plen. n. 5/1997, il diritto di accesso volto alla cura e alla difesa di interessi prevale sulla
tutela della riservatezza di terzi.
Tuttavia, nei casi di conflitto tra accesso e privacy, la legge consente non già l’accesso pieno, ma la sola visione degli atti, escludendo il
diritto di estrazione di copia.
Il conflitto può avere una soluzione diversa quando un soggetto pubblico è chiamato a trattare dati sensibili.
Il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti
amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, oppure consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà
fondamentale e inviolabile.
È l’amministrazione che pondera gli interessi in conflitto decidendo caso per caso con “valutazione ampiamente discrezionale”.
La Legge n. 241/1990 assegna al giudice amministrativo la tutela giurisdizionale “contro le determinazioni concernenti il diritto di accesso”
e nei casi di rifiuto, espresso o tacito, o di differimento (T.A.R. in primo grado e Consiglio di Stato in grado di appello).
La legge prevede un processo abbreviato e l’art. 26 della Legge T.A.R. dispone che l’azione può anche essere proposta in pendenza di una
ricorso.
L’art. 25, comma IV della Legge n. 241/1990 con specifico riferimento ai casi di rifiuto, espresso o tacito, e di differimento, consente altresì
al richiedente di chiedere nel termine di trenta giorni al difensore civico competente il riesame della determinazione.
Se il difensore ritiene illegittimo il diniego o il differimento, lo comunica a chi l’ha disposto e, ove questi non emani il “provvedimento
confermativo motivato” entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico, l’accesso è consentito.
L’inerzia mantenuta sulla sollecitazione del difensore civico ha, dunque, il significato di un assenso, differentemente dall’inerzia relativa
alla richiesta iniziale che equivale a diniego.
Entro 30 giorni dall’esito dell’istanza rivolta al difensore civico, il richiedente potrà adire comunque al giudice amministrativo perché la
legge ha inteso favorire l’impiego di questo strumento di tutela non giurisdizionale, assicurando il privato che il suo impiego non preclude
l’azione dinanzi al giudice.
Il Codice della privacy affida la tutela del diritto di accesso volto ad ottenere la comunicazione in forma intelligibile dei propri dati
personali al Garante del trattamento dei dati personali e al giudice ordinario (art. 145 del codice).
Infine, la Legge n. 241/1990 istituisce presso la presidenza del Consiglio una Commissione per l’accesso ai documenti (CADA), nominata
con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il consiglio dei ministri e
presieduta dal sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio.
La Commissione vigila affinché venga attuato il principio di piena conoscibilità dell’azione amministrativa, redige una relazione annuale
sulla trasparenza dell’amministrazione e propone al governo le modificazioni normative necessarie per realizzare la garanzia del diritto di
accesso.
I fatti semplici sono spesso rappresentati nel procedimento attraverso le attività di:
esibizione di documenti di identità o di riconoscimento in corso di validità;
acquisizione diretta di documenti.
L’amministrazione e i gestori di pubblici servizi, in luogo degli atti e certificati già in loro possesso o che siano tenuti a certificare,
debbono acquisire d’ufficio le relative informazioni, previa indicazione, da parte dell’interessato, dell’amministrazione competente
e degli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati richiesti;
produzione di certificati, di documenti o di autocertificazioni.
Dal punto di vista teorico, la differenza tra dichiarazioni sostitutive di certificati e autocertificazioni sta nel fatto che le
dichiarazioni sostitutive riguardano dati contenuti in pubblici registri, mentre le autocertificazioni attengono a situazioni non
consacrate in atti di certazione.
Tra i procedimenti volti ad accertare i fatti possono ricordarsi le inchieste e le ispezioni, le quali hanno normalmente ad oggetto accadimenti
e comportamenti, ovvero ancora beni di pertinenza di soggetti terzi.
Queste operazioni sono destinate a raccogliere informazioni e dati di fatto necessari per provvedere e danno luogo ad atti di accertamento, i
quali sono acquisiti all’istruttoria del procedimento.
L’inchiesta amministrativa è un istituto che mira ad una acquisizione di scienza o, in rari casi, ad una valutazione relativa ad un evento
straordinario che non può essere conosciuto ricorrendo alla normale attività ispettiva.
L’inchiesta è svolta infatti da un organo istituito ad hoc e si conclude, di norma, con una relazione.
L’ispezione è un insieme di atti, di operazioni o di procedimenti mirati ad acquisizioni di scienza che ha ad oggetto il comportamento di
persone.
Essa consiste in un atto, spesso meramente interno, che l’amministrazione rivolge all’organo o all’ufficio competente che dovrà compiere
l’ispezione stessa e che attribuisce, quindi, la legittimazione all’organo o all’ufficio a procedere all’ispezione nel caso concreto.
L’atto ha come vero destinatario il soggetto terzo che è sottoposto all’ispezione.
Il procedimento si chiude solitamente con una relazione, un rapporto o un verbale.
I due istituti possono spesso confondersi.
La fase consultiva.
Una volta acquisiti tutti gli interessi coinvolti nella scelta finale e verificati i fatti rilevanti, l’amministrazione deve procedere ad una
valutazione di siffatto materiale istruttorio.
In alcune ipotesi questa valutazione viene effettuata mediante atti emanati da appositi uffici od organi che confluiscono in un ulteriore
momento della fase istruttoria, costituita dal subprocedimento consultivo.
Si tratta di uffici e organi, di norma collegiali, distinti rispetto a quelli che svolgono attività di amministrazione attiva e dotati di particolare
preparazione e competenza tecnica.
Gli atti mediante i quali viene esercitata questa forma di attività, detta consultiva, e aventi un contenuto di giudizio sono i pareri.
I pareri in senso stretto devono essere nettamente distinti da altri atti, denominati nella prassi “pareri-note”, che hanno la funzione di
rappresentare il punto di vista o gli interessi dell’amministrazione che li emana.
Non devono nemmeno essere confusi i pareri con gli atti resi da consulenti o esperti privati, i quali non svolgono funzioni di
amministrazione consultiva.
Un particolare tipo di parere è, poi, quello previsto, per comuni e province, dall’art. 49 del T.U. sugli enti locali: “su ogni proposta di
deliberazione sottoposta alla giunta e al consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine alla sola
regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile
di ragioneria in ordine alla regolarità contabile”.
I pareri si distinguono in:
pareri obbligatori, se la loro acquisizione è prescritta dalla legge;
pareri facoltativi.
Essi non sono previsti dalla legge, ma l’amministrazione può di propria iniziativa richiederli, purché ciò non comporti un
ingiustificato aggravamento del procedimento;
pareri conformi.
Si tratta di pareri che lasciano all’amministrazione attiva la possibilità di decidere se provvedere o meno: se essa provvede, non
può, tuttavia, disattenderli;
pareri semivincolanti.
Questi pareri possono essere disattesi soltanto mediante l’adozione del provvedimento da parte di un organo diverso da quello che,
di norma, dovrebbe emanarlo, impegnandone la responsabilità amministrativa e politica;
pareri vincolanti.
Si tratta di pareri obbligatori che non possono essere disattesi dall’amministrazione, salvo che essa non li ritenga illegittimi.
Il subprocedimento consultivo inizia con la richiesta di parere, la quale consiste nella formulazione di un quesito, prosegue con lo studio del
problema, con la discussione, con la determinazione, con la redazione e si conclude con la comunicazione all’autorità richiedente.
Ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 241/1990 qualora l’amministrazione procedente intenda disattendere il parere deve adeguatamente
motivare il provvedimento, perché l’atto deve essere motivato in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Il procedimento consultivo è disciplinato dall’art. 16 della Legge n. 241/1990 e succ. mod.
Il parere obbligatorio deve essere reso entro 45 giorni.
Per quanto riguarda i pareri facoltativi, gli organi sono tenuti a dare immediata comunicazione alle amministrazioni richiedenti del termine
entro il quale il parere sarà reso.
Trascorso questo termine senza che sia stato comunicato il parere, è facoltà dell’amministrazione richiedente di procedere
indipendentemente dall’acquisizione del parere.
La circostanza che la legge parli di facoltà di procedere pare implicare la possibilità per l’organo di amministrazione attiva di attendere il
parere anche se tardivo.
Questa disciplina non si applica nei casi in cui il parere debba essere reso da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica,
territoriale e della salute dei cittadini, per evitare che l’amministrazione procedente resti “bloccata” in attesa di un parere.
Le richieste di pareri resi dal Consiglio di Stato, che è organo di consulenza giuridico-amministrativa del governo e di altre
amministrazioni, sono effettuate dagli “organi di governo che esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo”.
L’art. 17 della Legge n. 127/1997 individua i casi in cui essi sono richiesti in via obbligatoria (emanazione di atti normativi del governo,
emanazione di Testi Unici, decisioni dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, schemi generali di contratti tipo, accordi e
convenzioni predisposti da uno o più ministri) e abroga “ogni diversa disposizione di legge che preveda il parere del Consiglio di Stato in
via obbligatoria”.
L’abrogazione non concerne le norme legislative che dispongono pareri vincolanti e stabilisce che gli stessi debbano essere resi entro 45
giorni dal ricevimento della richiesta salvo che la legge non preveda termini più brevi, termine decorso il quale l’amministrazione attiva può
procedere indipendentemente dall’acquisizione del parere.
I pareri del Consiglio di Stato sono pubblici e recano l’indicazione del Presidente del collegio e dell’estensore.
Sempre l’art. 17 della Legge n. 127/1997 istituisce una sezione consultiva del Consiglio di Stato per l’esame degli schemi di atti normativi
per i quali il parere è prescritto per legge o è comunque richiesto dall’amministrazione, nonché per gli schemi di atti normativi comunitari,
se richiesto dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il parere è reso in adunanza generale per “gli schemi di atti legislativi o regolamentari devoluti dalla sezione o dal presidente del Consiglio
di Stato a causa della loro particolare importanza”.
Il parere è espressione della funzione consultiva e comporta un consiglio in ordine agli interessi che l’amministrazione procedente deve
tutelare, tenuto conto della situazione di fatto così come accertata nell’istruttoria.
Le valutazioni tecniche attengono ad uno o più presupposti dell’agire che debbono essere valutati nel corso dell’istruttoria.
Il nullaosta è un atto di amministrazione attiva che viene emanato in vista di un interesse differente da quello curato dall’amministrazione
procedente.
La semplificazione procedimentale.
La Legge n. 127/1997 reca misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo
(modificata, poi, dalla Legge n. 191/1998), mentre la Legge n. 59/1997 contiene la delega al governo per il conferimento di funzioni e
compiti alle regioni e agli enti locali per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa.
L’esigenza di semplificare è particolarmente sentita anche in materia procedimentale.
L’art. 11 della Legge n. 137/2002 ha previsto che presso il Dipartimento della funzione pubblica sia istituito, con decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri, un ufficio dirigenziale di livello generale col compito di coadiuvare il ministro nell’attività normativa e
amministrativa di semplificazione delle norme e delle procedure.
Presso la presidenza del Consiglio dei Ministri sono pure istituiti non più di due servizi col compito di provvedere all’applicazione
dell’analisi dell’impatto della regolamentazione.
Il compito di attuare il disegno di semplificazione procedimentale è affidato a decreti legislativi e alle fonti regolamentari di
delegificazione.
L’art. 20 della Legge n. 59/1997 consente di affermare che la semplificazione comporta la riduzione delle fasi procedimentali,
l’adeguamento alle nuove tecnologie informatiche, la riduzione dei termini nonché l’accorpamento e la regolamentazione uniforme dei
procedimenti che attengono alla stessa attività.
La Legge n. 127/1997 si occupa anche di altri aspetti, quali la conferenza di servizi, la disciplina dei pareri e la documentazione
amministrativa.
La Legge n. 241/1990 definisce come istituti di semplificazione la conferenza di servizi, gli accordi tra amministrazioni, la prefissione
di termini e di meccanismi procedurali per consentire di ottenere in termini certi pareri o valutazioni tecniche, l’autocertificazione, la
liberalizzazione di attività private e il silenzio-assenso.
CAPITOLO VII
LA CONCLUSIONE DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO:
IL PROVVEDIMENTO E GLI ACCORDI AMMINISTRATIVI
Gli atti determinati dal contenuto del provvedimento, l’atto complesso il concerto e l’intesa.
L’amministrazione conclude il procedimento emanando una decisione.
La fase decisoria può essere costituita da una serie di atti, da un atto proveniente da un unico organo, da un fatto oppure da un accordo.
Quando la fase decisoria consiste nell’emanazione di atti, o deliberazioni preliminari determinativi del contenuto del provvedimento finale,
si assiste all’adozione da parte di un organo di un atto che, per produrre effetti, deve essere esternato ad opera di un altro organo.
L’atto del primo organo è, quindi, determinativo del contenuto del provvedimento finale, ma non è costitutivo degli effetti.
La decisione su proposta è un atto di impulso procedimentale necessario perché il provvedimento finale possa essere emanato, e indicativo
del contenuto dello stesso.
L’organo al quale la proposta è rivolta ha sempre il potere di rifiutare l’adozione dell’atto finale, ma non può modificare il contenuto della
proposta.
La determinazione preliminare e l’atto finale rimangono separati, ma quando le due situazioni si fondono danno luogo all’atto complesso.
Il concerto è un istituto che si riscontra nelle relazioni tra organi dello stesso ente: l’autorità concertante elabora uno schema di
provvedimento e lo trasmette all’autorità concertata.
Il consenso dell’autorità concertante condizione l’emanazione del provvedimento: questo consenso è espresso con atto che non si fonde con
quello dell’amministrazione procedente, che è l’unica ad adottare l’atto finale.
L’intesa viene, di norma, raggiunta tra enti differenti ai quali tutti si imputa l’effetto.
Difformità del provvedimento dal paradigma normativo: la nullità e l’illiceità del provvedimento amministrativo.
Il provvedimento emanato in violazione delle norme attributive del potere è nullo.
L’articolo 21 septies si occupa della nullità, ai sensi del quale un provvedimento è nullo a causa della mancanza di elementi essenziali,
come soggetto, contenuto, oggetto, finalità, forma e motivazione; del difetto assoluto di attribuzione; della violazione o elusione del
giudicato; degli altri casi espressamente previsti dalla legge.
Nel caso di mancato rispetto di una norma attributiva del potere in concreto, il provvedimento va qualificato come illecito.
Ove, invece, esso sia difforme dalle norme di azione che disciplinano l’esercizio del potere va qualificato come annullabile.
La dottrina amministrativistica riconduce nullità, illiceità e annullabilità nell’ambito della categoria della invalidità, consistente nella
difformità dell’atto dalla normativa che lo disciplina.
Il regime giuridico della nullità è mutuato da quello codicistico: assenza di effetti, insanabilità, rilevabilità d’ufficio e in qualunque tempo,
possibilità di conversione dell’atto.
Le situazioni in cui nella realtà il problema del contrasto con una norma di relazione si pone con maggior frequenza attengono a contesti
differenti, in cui si versa nella situazione di carenza di potere in concreto.
Secondo la giurisprudenza, il criterio di discriminazione tra la giurisdizione del giudice amministrativo e quella del giudice ordinario si
fonda sulla contrapposizione tra “cattivo esercizio del potere” e “carenza di potere”.
Il potere non esiste e l’effetto non si produce quando l’amministrazione agisce violando una norma attributiva del potere.
Per contro, la incisione di altrui situazioni soggettive è, di norma, da collegare all’esercizio di un potere che esiste.
Più in particolare, la mancanza di potere può presentarsi sia come carenza “in astratto”, sia come carenza di potere “in concreto”.
In questo caso, tuttavia, il potere non manca totalmente: sia pur ridotta, una estrinsecazione del potere sussiste perché “in astratto” esso c’è
in quanto le norme attributive del potere sono state osservate e ciò basta perché il suo esercizio mantenga quel tanto di autoritatività che gli
consente di esplicare effetti giuridici.
Infatti, in questo caso non sono rispettate norme ulteriori e aggiuntive diverse dalle prime che, pur non attendendo alla esistenza del potere,
pongono limiti all’esercizio di esso a protezione dell’interesse del singolo e non sono, dunque, riconducibili alle norme di azione.
Si pensi al decreto di espropriazione conforme all’ordinamento emanato dopo la scadenza del termine fissato ai sensi di legge nella
dichiarazione di pubblica utilità.
In questo caso il provvedimento è illecito.
Gli accordi tra amministrazione e privati ex art. 11 della Legge 7 agosto 1990 n. 241.
Le tipologie di accordi tra amministrazione e privati sono gli accordi sostitutivi di provvedimento e gli accordi integrativi del
provvedimento, determinativi del contenuto discrezionale del provvedimento stesso.
L’accordo sostitutivo tiene luogo del provvedimento, l’accordo determinativo del contenuto non elimina la necessità del provvedimento nel
quale confluisce, sicché il procedimento si conclude pur sempre con un classico provvedimento unilaterale produttivo di effetti.
L’accordo sostitutivo è ammesso nei soli casi previsti dalla legge, mentre l’accordo integrativo può sempre essere concluso.
L’accordo pubblico deve essere stipulato “in ogni caso nel perseguimento dell’interesse pubblico” e “per sopravvenuti motivi di pubblico
interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo”.
Gli accordi devono essere stipulati per iscritto a pena di nullità, salvo che la legge disponga diversamente.
L’amministrazione può recedere unilateralmente dall’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse “salvo l’obbligo di provvedere
alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato”.
Le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione sono riservate alla giurisdizione esclusiva.
Agli accordi si applicano i principi del Codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili.
L’accordo è strettamente legato al tema della partecipazione.
Esso può essere concluso “in accoglimento di osservazioni e proposte”.
L’accordo integrativo è un accordo endoprocedimentale destinato a riversarsi nel provvedimento finale.
Ammissibile soltanto nell’ipotesi in cui il provvedimento sia discrezionale, esso fa sorgere un vincolo tra le parti: in particolare,
l’amministrazione è tenuta ad emanare un provvedimento corrispondente al tenore dell’accordo.
Il provvedimento non è revocabile, almeno per quella parte che corrisponde all’accordo, in ordine alla quale si può esercitare il potere di
recesso.
L’accordo sostitutivo elimina la necessità di emanare un provvedimento ed è soggetto ai medesimi controlli previsti per il provvedimento
sostituito.
Nel nostro ordinamento sono previsti pochi casi di accordo sostitutivo tra i quali si ricorda l’accordo di cessione che produce effetti del
decreto di esproprio.