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LA VICENDA STORICA DEL REGIONALISMO

DALL’UNITÀ D’ITALIA ALLA CADUTA DEL FASCISMO


La questione regionale in Italia ha rappresentato, sin dalla costruzione risorgimentale dello Stato
unitario, una costante del dibattito politico sull'assetto istituzionale.
Nel periodo preunitario, in particolare a partire dalla Restaurazione (1814-1815), le leggi degli
Stati italiani sull'amministrazione locale avevano recepito, anche se non in maniera omogenea, la
legislazione francese napoleonica, dando vita a ordinamenti uniformi e accentrati in cui gli enti
locali rappresentavano strumenti di capillare realizzazione dei fini dello Stato. Il fulcro
dell'amministrazione centrale era costituito dal governo-ministero degli Interni, il cui principale
organo periferico, il prefetto, esercitava penetranti controlli sul complesso di enti locali. Il regno
sardo, in un primo momento, aveva richiamato in vigore la legislazione piemontese del 1775, e
solo negli anni successivi, e in particolare con le Regie Patenti di Carlo Felice del 1826, aveva
anch'esso recepito la legislazione francese. Nel panorama degli Stati italiani si distingueva il
Lombardo-Veneto, dove si applicava il modello austriaco, che prevedeva una differenziazione,
sotto il profilo organizzativo e soprattutto nei rapporti con le autorità centrali, tra classi di comuni.

Le riforme di Carlo Alberto


In seguito, la più significativa ristrutturazione delle amministrazioni comunali è avvenuta nel regno sardo
durante la fase iniziale delle riforme albertine, con il regio editto 659/1847, riscritto dal d.lgs. 807/1848. Il
sindaco era configurato come capo dell'amministrazione comunale e ufficiale del governo, nominato dal
re fra i consiglieri comunali, e dal re all'occorrenza rimosso; il consiglio comunale diventava elettivo, anche
se su base censitaria e a suffragio estremamente ristretto, e veniva affiancato da un organo intermedio con
funzioni consultive, il consiglio comunale di credenza (poi consiglio delegato). Queste riforme, che avevano
inoltre previsto due tipi di enti sovracomunali (provvisori) – le province e le divisioni – anticipavano per
molti tratti il futuro assetto territoriale.

Il primo nodo: l’annessione della Lombardia


Nel successivo decennio, infatti, il dibattito politico fu molto acceso, ma la questione della
revisione degli ordinamenti locali si ripropose concretamente solo al momento dell'unione della
Lombardia al Piemonte, nel 1859, dovendosi scegliere il modello da applicare al territorio di
nuova annessione. I lavori della Commissione Giulini, nominata da Cavour, furono interrotti
dalle vicende militari che portarono all'armistizio di Villafranca l'11 luglio 1859 e alle
conseguenti dimissioni dello stesso Cavour da presidente del Consiglio dei ministri e da
ministro dell'Interno. Tali cariche vennero assunte rispettivamente da La Marmora e da
Rattazzi, ma fu quest'ultimo che, esercitando i pieni poteri concessi al governo dal Parlamento,
varò, e applicò allo Stato sabaudo, la legge comunale e provinciale 23 ottobre 1859 (c.d. legge
Rattazzi), ispirata allo schema amministrativo accentrato franco-napoleonico.

LA LEGGE RATTAZZI
La legge Rattazzi, ponendosi in linea di continuità con le riforme albertine, ripartiva il comune,
struttura locale fondamentale, in tre organi (consiglio elettivo, giunta e sindaco nominato dal re
tra i consiglieri); confermava la distinzione tra spese obbligatorie e spese facoltative, nel senso
che ogni comune era obbligato a finanziare quel minimo di servizi che nello Stato ottocentesco
erano ritenuti indispensabili e, una volta soddisfatte tali spese, poteva impegnare ulteriori
risorse locali per fini diversi da quelli imposti dalla legge; manteneva un autoritario sistema di
controlli sulle amministrazioni comunali, affidato (anche) a un organo della provincia,
conservata come unica struttura sovracomunale, «un'entità ambigua», più rappresentativa del
governo a livello locale che espressione di autoamministrazione.
Al momento dell'unificazione di gran parte del territorio nazionale, avvenuta tramite successive
annessioni al regno di Piemonte e Sardegna dei territori appartenenti ai vari Stati preunitari, la
realtà politica italiana si presentava dunque complessa e segnata da notevoli squilibri economici
e sociali dovuti essenzialmente alla particolare configurazione geografica della penisola e alle
variegate vicende storiche dei diversi Stati, sottoposti a frequenti dominazioni straniere.

IL PROGETTO MINGHETTI
L'idea di articolare il territorio in regioni prese forma nei progetti elaborati per iniziativa di
Cavour che, tornato al governo nel 1860, istituì in seno al Consiglio di Stato una commissione
per lo studio della riforma del sistema amministrativo del regno. A questa commissione, il 13
agosto 1860, l'allora ministro dell'Interno Farini presentò una nota in cui genericamente
indicava l'istituzione, accanto alle province e ai comuni, di «altri centri più vasti», privi però di
«rappresentanza elettiva». L'idea venne sviluppata dal suo successore Minghetti, il quale, il 13
marzo 1861, propose alla Camera dei deputati quattro schemi di legge:
1. sulla ripartizione del regno e sulle autorità governative;
2. sull'amministrazione comunale e provinciale;
3. sui consorzi;
4. sull'amministrazione regionale.
I progetti esprimevano un chiaro orientamento verso un modello di decentramento
burocratico-istituzionale che non lasciava alcuna concessione a forme di autonomia politica.
Alla domanda che egli stesso si poneva: «Ma l'unità politica importa essa necessariamente
l'unità amministrativa?», Minghetti rispondeva che «imporre subito e dovunque le identiche
forme ei medesimi regolamenti (avrebbe recato) gravi inconvenienti e (suscitato) gravi
ripugnanze, senza corrispondere profitto». La regione, che egli concepiva come «consorzio
permanente di province», avrebbe provveduto all'istruzione superiore, agli archivi storici, alle
accademie di belle arti e a certa parte di lavori pubblici tramite deliberazioni assunte da una
commissione eletta dai consigli provinciali nel loro seno ed eseguite da un rappresentante del
governo (il governatore).

LA PRIMA LEGGE DI UNIFICAZIONE E LE RIFORME SUCCESSIVE


Tuttavia, dopo la morte di Cavour, i progetti vennero ritirati nel timore che potessero
rappresentare un pericolo per l'unità dello Stato appena raggiunta e il Parlamento approvò la
prima legge di unificazione comunale e provinciale del regno d'Italia 2248/1865, riproducendo
sostanzialmente la legge Rattazzi. La struttura costituzionale e amministrativa del regno italiano
venne così modellata su quella dello Stato unitario e accentrato di tradizione francese,
caratterizzato da un potere centrale forte, cui facevano capo delle strutture periferiche (le
prefetture), e dalla presenza di comuni e province quali unici enti autarchici territoriali.

LE RIFORME CRISPINE
Successivamente, le riforme crispine resero elettiva la carica del sindaco e quella del presidente
della deputazione provinciale: in base al testo unico della legge comunale e provinciale
5921/1889, art. 123, «Il sindaco, nei capoluoghi di provincia o di circondario, o che abbiano una
popolazione superiore a 10.000 abitanti, è eletto dal consiglio comunale nel proprio seno, a
scrutinio segreto. Negli altri comuni la nomina è fatta dal re fra i consiglieri comunali». Fu poi
con la legge 346 del 29 luglio 1896 che la nomina del sindaco da parte del consiglio comunale
venne estesa a tutti i comuni d'Italia. In base al medesimo testo unico 5921/1889, art. 200: «II
consiglio provinciale elegge nel proprio seno, a maggioranza assoluta di voti, una deputazione
incaricata di rappresentarlo nell'intervallo delle sessioni. Elegge ogni anno, nel proprio
seno, a maggioranza assoluta di voti, il presidente della deputazione provinciale». Tali riforme,
inoltre, attribuendo ad un nuovo organo periferico statale - la Giunta provinciale
amministrativa - il controllo politico delle amministrazioni locali, nel complesso
ridimensionarono il ruolo del prefetto, senza tuttavia modificare la struttura dello Stato. Il
dibattito sulla questione regionale, pur rimanendo sempre acceso nella letteratura politica (si
pensi al regionalismo «politico» propugnato dal Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo
innanzitutto come soluzione al grave problema meridionale), non produsse alcun esito
significativo in sede legislativa sino alle fasi conclusive della seconda guerra mondiale. Infatti,
l'unico testo normativo che concesse, nel 1921, particolari condizioni di autonomia (anche
legislativa) ai territori annessi al regno dopo la prima guerra mondiale (Trento, Bolzano e Friuli),
non ebbe il tempo di essere attuato per il capovolgimento della situazione politica nell'anno
successivo (marcia su Roma e avvento del fascismo).

IL REGIONALISMO DI DON LUIGI STURZO


«Per noi il movimento regionalista non ha carattere di semplice base di circoscrizione territoriale per un
migliore assetto degli organi statali decentrati alla periferia, ha una caratteristica amministrativa
organica autonoma; è una unità specifica, ragione della vita rappresentativa delle forze locali.
L'ente che deve sorgere deve essere sano, valido, completo, e quindi, nella caratteristica fondamentale,
elettivo-rappresentativo, autonomo-autarchico, amministrativo-legislativo; la regione in tutte le sue
appartenenze e sommando in essa tutti gli interessi collettivi limitati allo sviluppo locale-territoriale.
Chiarisco le parole sottolineate: elettivo-rappresentativo, perché non sia frutto di elezioni di secondo
grado o di enti specifici o di nomina statale, ma in base a elettorato diretto a suffragio universale,
comprese le donne, e a sistema proporzionale; autonomo-autarchico, perché esso, entro le leggi, governi
a sé, e dalle leggi tragga la sua caratteristica, e non sia un ente statale con poteri delegati, che abbia per
capo un governatore;
amministrativo-legislativo, che abbia una finanza, che possa imporre tributi, che amministri tali fondi e
che in tale atto, cioè nel complesso della sua attività specifica, faccia i regolamenti e le leggi di carattere
locale e dentro l'ambito del proprio territorio» (Relazione di don Luigi Sturzo al Terzo congresso
nazionale del Partito popolare a Venezia nel 1921).

LE RIFORME FASCISTE E LE REAZIONI DOPO LA LIBERAZIONE


La riforma del regime fascista del 1926 (in seguito raccolta nel testo unico della legge comunale
e provinciale 1934) portò al massimo accentramento politico e all'annientamento delle
autonomie locali. L'elezione diretta dei rappresentanti locali venne eliminata. Cambiò la forma
di governo di comuni e province: tutti i poteri di amministrazione del comune furono
concentrati in un organo di nomina regia (il podestà) e fu dilatato al massimo il ruolo del
prefetto, diventato l'interprete nella provincia del programma politico dello Stato.
Dopo la caduta del fascismo sarebbe stato ripristinato il precedente ordinamento comunale e
provinciale, mentre le condizioni di instabilità sociale, le accese controversie politiche in alcune
parti del territorio, avrebbero sconsigliato l'abolizione dell'istituto prefettizio quale responsabile
dell'ordine pubblico alle dirette dipendenze del ministero e nel tempo, anzi, le sue funzioni
sarebbero state rivitalizzate.

«VIA IL PREFETTO!»
Il monito «Via il prefetto!», pronunciato nel 1944 da Luigi Einaudi, si scontrò, nella realtà, con
una generale incapacità politica di intervenire in un sistema giuridico in parte sopravvissuto
anche dopo la grande (e assai contrastata) innovazione istituzionale introdotta dalla
Costituente.
«Via tutti i suoi uffici e le sue ramificazioni. Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina
centralizzata. Il prefetto se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde. Per fortuna, di fatto
oggi in Italia l'amministrazione centralizzata è scomparsa. Non accadrà nessun male se non ricostruiremo
la macchina oramai guasta e marcia. L'Unità del Paese non è data da prefetti e da provveditorati agli
studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali e dalle circolari e istruzioni romane. L'unità del
Paese è fatta dagli italiani» (da L'Italia e il secondo risorgimento, supplemento alla «Gazzetta ticinese»,
17 luglio 1944).

L'organizzazione interna sarebbe stata ricalcata su quella tipica di uno Stato unitario
centralizzato di stampo napoleonico, imitato prima dallo Stato sabaudo e poi dal Regno d'Italia,
con la provincia, ente non democratico di decentramento statale, presieduta dal prefetto (fino
al 1951), il sindaco capo dell'amministrazione ma anche ufficiale del governo, il segretario
comunale assegnato dal ministero dell'Interno. In occasione del centenario delle leggi
amministrative di unificazione, Feliciano Benvenuti osservò che la legge 2248/1865 non andava
considerata soltanto come «un fatto di legislazione», bensì come «un fatto politico» che aveva
improntato di sé «lo sviluppo del modo di essere, cioè di pensare e di agire, di tutta la nazione».

LE REGIONI NELLA COSTITUZIONE DEL 1948


Con la fine della dittatura la questione regionalistica venne ricollegata al fondamentale
problema dell'assetto istituzionale dello Stato. Già durante il primo governo Badoglio, in un
clima di notevole incertezza politica, si delle presentò la necessità di creare apposite forme di
amministrazione locale in alcune zone del Paese geograficamente decentrate, alle prese con
particolari problemi di natura sociale ed economica, dalle quali provenivano forti spinte
autonomistiche se non addirittura separatistiche.
Così, nel 1944, la Sardegna e la Sicilia furono dotate di organi provvisori: ciascuna isola venne
governata da un alto commissario, nominato dal presidente del Consiglio, affiancato da una
consulta regionale rappresentativa delle organizzazioni politiche, economiche, sindacali e
culturali locali.
Nonostante il particolare assetto amministrativo, la situazione della Sicilia non migliorò; così
venne concesso all'isola un ordinamento autonomo con uno statuto speciale, elaborato da una
commissione istituita appositamente dalla consulta regionale e adottato quasi integralmente
dal governo nazionale col d.lgs. luogotenenziale 455/1946.
Nel 1945, al fine di fronteggiare i problemi legati alle particolari condizioni geografiche,
economiche ma soprattutto linguistiche della popolazione valdostana, fu istituita la
«circoscrizione autonoma» della Valle d'Aosta, nuovo ente pubblico territoriale dotato di
competenza amministrativa in determinate materie.
Nel 1946, con l'accordo De Gasperi-Gruber, i capi di governo italiano e austriaco riconobbero
particolari condizioni di autonomia alle popolazioni di lingua tedesca della provincia di Bolzano.
Nel medesimo periodo, con la consultazione elettorale del 2 giugno 1946, svolta a suffragio
universale diretto, fu stabilito che la forma istituzionale dello Stato fosse quella repubblicana e si
elesse un'Assemblea costituente incaricata di stabilire il nuovo assetto costituzionale. Il
dibattito fu senz'altro condizionato da quelle prime già maturate esperienze di tipo regionale
che, avrebbero poi rappresentato, assieme al Friuli-Venezia Giulia, le uniche forme differenziate
di autonomia.
LA RELAZIONE AMBROSINI
«Nelle circostanze attuali, data la situazione del Paese in generale e di talune regioni in particolare, il
sistema dell'autonomia regionale potrebbe, in grazia alla sua elasticità, riuscire particolarmente adatto
per andare incontro alle diverse e complesse esigenze che vanno prese in considerazione. Esso infatti si
presta a essere applicato in modo elastico, sì da andare incontro alle peculiari esigenze delle varie
regioni, e particolarmente di quelle che per ragioni storiche e per speciali condizioni attuali, hanno
bisogno e richiedono di essere investite di più ampi poteri autonomi. Si intende accennare alla Sicilia, alla
Sardegna, alla Valle d'Aosta e al Trentino-Alto Adige. L'organizzazione regionale non potrà quindi,
tenendosi conto della situazione particolare delle quattro regioni suindicate, che risultare differenziata.
Ma qui siamo al modo diverso di applicazione del sistema, che in via di principio potrebbe naturalmente
venire applicato in modo uniforme a tutte le regioni» (Commissione per la Costituzione – II
sottocommissione - Relazione del deputato Ambrosini Gaspare sulle autonomie regionali - novembre
1946).

All'interno dell'Assemblea costituente fu istituita, con la precisa funzione di redigere un


progetto di Costituzione, la c.d. Commissione dei 75, presieduta dall'on. Ruini, a sua volta
suddivisa in tre sottocommissioni, la seconda delle quali si occupò specificamente
dell'ordinamento istituzionale. In seno a essa, il compito di elaborare uno schema di
ordinamento regionale spettò a uno speciale Comitato per le autonomie locali, composto da 10
deputati e presieduto dall'on. Ambrosini.
Le posizioni assunte dalle varie forze politiche rappresentate in commissione si diversificavano
circa la scelta del «modello» di organizzazione territoriale del potere. La Democrazia cristiana,
legata alle idee propugnate da don Luigi Sturzo, era nettamente favorevole alla creazione di
regioni come enti autonomi di decentramento istituzionale e politico. I repubblicani,
saldamente ancorati alla tradizione autonomistica, giunsero a proporre addirittura delle
soluzioni di tipo federalistico. Viceversa, il Partito comunista (e analogamente quello socialista)
fu inizialmente contrario alla suddivisione del territorio nazionale in regioni, viste come possibile
ostacolo alla realizzazione – «dirigistica» - di radicali riforme economico-sociali. I liberali, infine,
rimasero fermi nel respingere tanto modelli federalistici, quanto forme di autonomia regionale
politicamente forti.
A seguito della rottura (nel '47) del patto di collaborazione tra i partiti antifascisti usciti dalla
Resistenza, cui seguì l'estromissione delle sinistre dal governo, il PCI e il PSI assunsero posizioni
meno estreme e cominciarono a considerare le autonomie regionali come centri di
sopravvivenza e di contropotere politico, quantomeno nei territori «politicamente connotati»
(Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche).
Il progetto originario di ordinamento regionale elaborato in seno al Comitato dei 10 prevedeva
la costituzione della regione quale ente intermedio tra Stato e comuni (mentre la provincia era
destinata a sparire), costituito di organi elettivi, al fine di valorizzare le forze locali, ma pur
sempre «nel quadro dell'unità e dell'interesse dello Stato». Al nuovo ente venivano attribuiti tre
tipi di potestà legislativa (primaria o piena o esclusiva, concorrente o ripartita con
quella statale, attuativa della potestà dello Stato) con una graduazione diversa, vincolata da
limiti di varia intensità (maggiori nell'ultimo tipo, meno forti nel primo), esercitabile in
determinati ambiti materiali. Erano inoltre previste forme di partecipazione degli organi
regionali alla formazione e all'attività dei poteri centrali.
La diversità di opinioni all'interno dell'Assemblea costituente non consentì tuttavia
l'approvazione integrale del progetto e si resero necessarie delle correzioni di natura
compromissoria. Venne infatti eliminata la forma principale di potestà legislativa prevista per le
regioni ordinarie – quella primaria – mentre quella attuativa fu rimessa interamente alla
discrezionalità del legislatore ordinario, di volta in volta libero di decidere circa l'opportunità di
demandare tale potere alle regioni (art. 117 Cost.), cosicché la specie fondamentale di potestà
legislativa regionale rimase quella concorrente (art. 117.1 Cost.). Non vennero poi mantenute né
quelle disposizioni che prevedevano l'elezione da parte dei consigli regionali di una frazione dei
componenti del Senato – che in tal modo si sarebbe in parte configurato come Camera delle
regioni, sul modello di alcune seconde camere degli Stati federali – e neppure quelle che
attribuivano alle regioni la potestà di impugnare per qualsiasi motivo di legittimità gli atti
legislativi statali dinanzi alla Corte costituzionale.
I meccanismi di partecipazione delle regioni alle funzioni statali risultarono piuttosto limitati:
ai consigli regionali veniva data l'iniziativa delle leggi statali, la possibilità di richiedere
referendum abrogativo di legge statale ordinaria o approvativo di legge costituzionale;
a tre delegati per ogni regione era assegnato il compito di partecipare all'elezione del presidente
della Repubblica.
L'art. 126 Cost., inoltre, prevedeva (e prevede tuttora) l'acquisizione del parere di una
commissione di deputati e senatori per le questioni regionali prima dello scioglimento del
consiglio regionale.

LA C.D. BICAMERILINA
La Commissione parlamentare per le questioni regionali era destinata a diventare una delle
principali sedi di confronto istituzionale tra le regioni e il potere legislativo nazionale. Dopo un
primo periodo, con l'avvio della riforma regionale, di forte espansione delle sue funzioni – ad
opera della legislazione ordinaria e dei regolamenti parlamentari – la Commissione, in assenza
di una precisa regolamentazione dei rapporti di questa con le autonomie e con le stesse camere,
avrebbe conosciuto un progressivo declino. Il dibattito si è dunque successivamente incentrato
sulla rivisitazione del suo ruolo di garante dell'autonomia regionale, e ha condotto, in occasione
della riforma del Titolo V della Costituzione, alla previsione della facoltà delle camere, previa
modifica dei rispettivi regolamenti, di integrare la Commissione bicamerale per le questioni
regionali con rappresentanti delle regioni (e degli enti locali) e all'introduzione di un parere
della Commissione medesima sui progetti di legge relativi alle materie di potestà legislativa
concorrente e all'autonomia finanziaria, cui le commissioni referenti devono adeguarsi (sia che
si tratti di parere contrario che di parere favorevole condizionato però all'introduzione di
specifiche modificazioni), dovendo altrimenti l'assemblea deliberare a maggioranza assoluta dei
suoi componenti (art. 11, legge cost. 3/2001). La mancata attuazione di tale articolo – e quindi
la mancata trasformazione della Commissione in organo misto di raccordo tra centro e periferia
– è stata attribuita, in parte alle difficoltà sorte all'interno dello stesso organo bicamerale, in
parte all'attenzione che successivamente è stata orientata sulla riforma della «seconda camera»,
che richiama i lavori svolti da un comitato paritetico costituito dalle giunte per il regolamento di
Camera e Senato. Sta di fatto che le regioni sono rimaste “all'esterno” del procedimento
legislativo.

Insomma, non si realizzò certamente una figura federativa – considerato che la preminenza
della competenza dello Stato, in relazione alla quale quella regionale si poneva come particolare
(artt. 117 e 118 Cost.), la presenza di un controllo costituzionale sulle leggi (art. 127 Cost.) e
sull'attività degli organi regionali (art. 126 Cost.) e di un controllo di legittimità sugli atti
amministrativi delle regioni (art. 125 Cost.) – e tuttavia le regioni non furono nemmeno
concepite come semplici enti amministrativi di decentramento, poiché esse, costituite in enti
autonomi con propri poteri e funzioni (art. 115 Cost.), si videro attribuiti alcuni poteri normativi
propri, a riconoscimento della loro natura politica. La distinzione tra autonomia e
decentramento era evidente negli artt. 128 e 129 Cost. Il primo stabiliva che «Le provincie e i
comuni sono enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che
ne determinano le funzioni»; il successivo aggiungeva che «Le provincie e i comuni sono anche
circoscrizioni di decentramento statale e regionale. Le circoscrizioni provinciali possono essere
suddivise in circondari con funzioni esclusivamente amministrative per un ulteriore
decentramento».

L’AUTONOMIA E IL DECENTRAMENTO NELLA RELAZIONE DI MEUCCIO RUINI


Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75, nel presentare alla presidenza dell'Assemblea
costituente il progetto di Costituzione, il 6 febbraio 1947, così spiegò le diverse idee che stanno alla base
dell'«autonomia e del «decentramento:
«Il comune: unità primordiale; la regione: zona intermedia ed indispensabile tra la Nazione ed i comuni.
Mazzini, il più grande unitario del risorgimento, era per la regione; e si incontrava con la proposta di più
caute forme di decentramento in Cavour e nei politici della sua scuola. Sarebbe stato naturale e logico
che, all'atto dell'unificazione nazionale, si mantenesse qualcosa delle preesistenti autonomie; ma
prevalsero il timore e lo "spettro dei vecchi Stati"; e si svolse irresistibilmente il processo accentratore. È
oggetto di dispute quali ne furono gli inconvenienti, ed anche i vantaggi; molti dei malanni d'Italia si
attribuiscono all'accentramento; in ispecie pel mezzogiorno; se anche tutti gli studiosi meridionalisti non
sono fautori di autonomia.
Certo si è che oggi assistiamo e per alcune zone ci troviamo col fatto compiuto – ad un fenomeno inverso
a quello del risorgimento, e sembra anch'esso irresistibile, verso le autonomie locali. Non si tratta
soltanto, come si diceva allora, di “portare il governo alla porta degli amministrati”, con un
decentramento burocratico ed amministrativo, sulle cui necessità tutti oggi concordano; si tratta di
“porre gli amministrati nel governo di sé medesimi”».

LE REGIONI SPECIALI E I LORO STATUTI


A quei territori che avevano già ottenuto speciali prerogative l'art. 116 Cost. riconobbe più
estesi poteri, scegliendo così di adottare un doppio regime di autonomie regionali, caratterizzato
dalla presenza di regioni ordinarie – l'assetto delle quali veniva stabilito, nelle sue linee
essenziali, dal Titolo V della Costituzione - e di regioni ad autonomia speciale, l'organizzazione e
il funzionamento delle quali risultavano invece dai rispettivi statuti.

L’ART. 116 DELLA COSTITUZIONE


«Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d'Aosta sono
attribuite forme e condizioni particolari di autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi
costituzionali».

Grazie alla XVII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che consentiva all'Assemblea
costituente di deliberare sugli statuti regionali speciali entro il 31 gennaio 1948, alla scadenza
del termine e dopo soli tre giorni di discussione, furono approvati (con successiva promulgazione
il 26 febbraio) gli statuti di Sicilia (l.c. 2), Sardegna (l.c. 3), Valle d'Aosta (l.c. 4) e Trentino-Alto
Adige (l.c. 5).
Si segnala la specificità della legge costituzionale di approvazione dello statuto della regione
siciliana che, a causa dei tempi strettissimi, recepì integralmente il regio decreto del 1946, senza
effettuare i necessari interventi di coordinamento con la Carta fondamentale nel frattempo
approvata. Rimase così, ad esempio, l'Alta Corte della regione siciliana – avente il compito di
giudicare la legittimità delle leggi emanate dall'assemblea regionale nonché delle leggi e dei
regolamenti statali ritenuti lesivi delle norme statutarie dell'isola – benché essa risultasse
incongrua nel nuovo assetto costituzionale ed è per ciò che non poté sopravvivere all'entrata in
funzione della Corte costituzionale, la quale con la sentenza 6/1970, invocando l'unitarietà dello
Stato, formalmente dichiarò illegittime le disposizioni che la prevedevano, nonostante il loro
rango di legge costituzionale votata dalla stessa Assemblea costituente.
Una particolarità dello statuto della regione Trentino-Alto Adige fu di non nascere sulla base di
dirette iniziative delle popolazioni interessate (i cui rappresentanti vennero comunque
consultati), bensì di un disegno di legge che recepiva alcuni punti dell'accordo De Gasperi-
Gruber del 1946. Esso ha introdotto meccanismi di privilegio giuridico delle popolazioni di lingua
tedesca della provincia di Bolzano e dei vicini comuni bilingui della provincia di Trento, e
concesso loro l'esercizio di un potere legislativo ed esecutivo autonomo. Successivamente, nel
1969, il c.d. Pacchetto concertato tra Italia e Austria, tradotto nella legge cost. 1/1971, avrebbe
significativamente modificato lo statuto, mantenendo e rafforzando l'autonomia delle due
province di Trento e di Bolzano (con più accentuate garanzie a favore delle minoranze tedesca e
ladina), nel contesto di una regione le cui competenze vennero per contro assai ridotte. Seguì da
ultimo il dpr 670/1972, di «Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo
statuto speciale per il Trentino-Alto Adige».
Infine, la peculiare e tormentata questione del territorio triestino - nel 1948 ancora diviso nella
zona A (Trieste e alcuni comuni circostanti) e zona B (Istria e Slovenia) – ritardò l'approvazione
dello statuto del Friuli-Venezia Giulia, che avvenne con la legge cost. 1/1963. Il regime militare
alleato governò infatti fino al Memorandum di intesa stipulato a Londra nel 1954 tra il nostro
governo e i governi inglese, statunitense e jugoslavo, con il quale la zona A passò
all'amministrazione (ma non alla sovranità) italiana - situazione che si prolungò fino alla ratifica
del Trattato di Osimo nel 1975 che definì gli attuali confini. Va notato che lo statuto lasciava il
problema della tutela delle minoranze sullo sfondo, limitandosi a prevedere «parità di diritti e di
trattamento a tutti i cittadini» a prescindere dal gruppo linguistico di appartenenza, «con la
salvaguardia delle rispettive caratteristiche etniche e culturali».
L'approvazione degli statuti speciali fu dunque condizionata da diverse vicende politiche e
internazionali, che si presentarono all'Assemblea costituente quasi come «fatti compiuti di cui
tener conto, senza che però venissero approfondite le vere «ragioni della specialità» che non in
tutti i casi, infatti, emersero con nettezza. Quindi, l'ampiezza dell'effettiva differenziazione di
queste regioni, tra di loro, andava misurata in base alle concrete scelte politiche espresse
esercitando le particolari competenze loro attribuite dagli statuti, più che alla mera lettera di
questi. In tale valutazione avrebbe pesato senza dubbio l'opera di omologazione intrapresa dalla
Corte costituzionale, nonché dal legislatore attraverso i decreti legislativi di attuazione degli
statuti.
Va considerato inoltre che, inizialmente (e prima dell'avvio delle regioni ordinarie), i rapporti tra
lo Stato e le regioni esistenti vennero improntati all'idea di «contrapposizione» più che di
coordinamento tra i vari centri di autorità e alle regioni fu affidato il mero compito di dare
attuazione alla politica generale statale. Anche i diversi moduli funzionali attraverso i quali i
decreti di attuazione degli statuti speciali avevano voluto garantire una compartecipazione (il
concerto, l'intesa, la codipendenza, la consultazione, il concorso ecc.) erano stati congegnati in
modo da riservare all'amministrazione centrale un indiretto ma efficace potere di controllo sulle
scelte locali, nella logica dello Stato centralizzato.
Ancora, il peculiare tipo di raccordo consistente nella partecipazione dei presidenti delle regioni
e delle province ad autonomia differenziata alle sedute del Consiglio dei ministri era stato
ritenuto necessario, dalla Corte costituzionale, solo in presenza di «un interesse differenziato e
dotato di una particolare rilevanza o intensità» e pertanto come interesse proprio e peculiare
della singola regione o provincia autonoma (vedi ad es. sentt. 544 e 545/1989; 85, 224, 343 e
381/1990; 37 e 191/1991). Del resto, la stessa Corte si mostrò orientata prevalentemente verso
il contenimento dell'autonomia regionale, in particolare avallando la tecnica del «ritaglio» delle
materie, utilizzata dallo Stato nella formulazione di norme suscettibili di investire competenze
appartenenti alle regioni, differenziate sulla base della distinzione tra interesse locale e interesse
nazionale. Solo sporadicamente, negli anni '50 e '60 essa fece chiari o impliciti riferimenti alla
collaborazione tra Stato e regioni, e anche in quei casi per lo più in nome di interessi generali
statali e a presidio dell'unità dello Stato.
La Costituzione aveva comunque introdotto un modello giuridico del tutto nuovo. I Costituenti
avevano sicuramente presenti esigenze (tecniche) di semplificazione e di efficienza dell'apparato
amministrativo e legislativo statale (le regioni «per la riforma dello Stato»), ma intendevano
soprattutto risolvere il problema della garanzia democratica e quindi avevano pensato alle
regioni come a organismi politici, con la funzione, cioè, di assumere decisioni politiche,
attraverso il potere legislativo, anche divergenti da quelle statali. Solo così sarebbe stato
possibile introdurre modelli di organizzazione amministrativa e di funzionamento diversi da
quelli decisi dalla maggioranza di governo, da adattare alle molteplici condizioni del Paese con
particolare riguardo al Meridione.
L'idea che aveva dominato il dibattito in seno all'Assemblea costituente era quella, teorizzata
dal filosofo francese Constant, della libertà come garanzia dei poteri locali, e quindi delle singole
collettività intese quali «società naturali», nei confronti dello Stato, e come difesa della
«diversità» territoriale. Laddove c'è autonomia «vi è sempre un principio di autogoverno sociale,
ovvero «lo svolgimento in senso positivo della libertà, la quale viene acquistata dall'individuo
passando per un gruppo sociale e quindi per la partecipazione al potere pubblico» (Berti 1975,
288, richiamandosi al pensiero di Tocqueville e, da noi, di Cattaneo). Tale connessione è infatti
ben presente nella Costituzione all'art. 5, sebbene la portata rivoluzionaria di tale norma, che
concilia unità e indivisibilità della Repubblica con il principio autonomistico (da collegarsi a
quello del pluralismo istituzionale di cui all'art. 114 Cost.), non fu colta immediatamente,
cosicché i principi di autonomia e di decentramento vennero applicati nell'ambito della
gerarchia statale.
Il nuovo, e inedito, modello giuridico, frutto del difficile processo di trasformazione di uno Stato
accentrato in un sistema di governo autonomo, imponeva inoltre una definizione da parte del
legislatore nazionale dei confini dei poteri della regione, nata come ente «specializzato» tipico
di uno Stato (sovrano e originario) che «concede» l'autorità alle sue articolazioni territoriali
interne (gli enti derivati) nella misura in cui essi si dimostrino «affidabili».
L'indeterminatezza del ruolo che le regioni avrebbero dovuto assumere si sarebbe rivelata un
vero elemento di debolezza progettuale e strutturale della Costituzione, in mancanza tra l'altro
di significativi strumenti di raccordo tra Stato e regioni ad autonomia ordinaria.

L'AVVIO DELLE REGIONI ORDINARIE: LA RITARDATA APPROVAZIONE


DELLA LEGISLAZIONE ATTUATIVA DEL TITOLO V
L'VIII e la IX disposizione transitoria e finale della Costituzione avevano stabilito,
rispettivamente, che le elezioni consiliari dovessero essere indette entro un anno dall'entrata in
vigore della Costituzione (termine prorogato al 30 ottobre 1949 e ancora successivamente al 31
dicembre 1950), e che entro tre anni, sempre dall'entrata in vigore della Costituzione, la
Repubblica adeguasse le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza
legislativa attribuita alle regioni.
In realtà, il processo di realizzazione dell'idea regionale sarebbe durato ancora per oltre
vent'anni dopo l'approvazione del testo costituzionale, dimostrando, nei fatti, una certa
continuità con il passato, ovvero la tendenza alla conservazione di un ordinamento accentrato,
benché non voluto dalla Costituente.
Infatti, approvata la legge elettorale solo nel 1968 e la legge sulla finanza regionale nel 1970, le
prime elezioni dei consigli regionali si svolsero nel 1970, mentre, per quanto riguarda le
autonomie locali, l'art. 128 Cost. («Le provincie e i comuni sono enti autonomi nell'ambito dei
principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni») rimase a
lungo inattuato, cosicché, fino alla legge di riforma 142/1990, il sistema di organizzazione e
funzionamento degli enti locali fu regolato dai testi unici del 1915 e del 1934.
Una volta entrata in vigore la Costituzione, la iniziale tendenza delle forze di governo fu di non
realizzare i più qualificati istituti costituzionali e i pochi concreti interventi legislativi finirono in
parte per pregiudicare l'effettiva attuazione dell'ordinamento regionale. È noto che i confini
delle regioni italiane furono decisi in base a linee geografiche meramente amministrative,
ovvero sulla base dei compartimenti statistici costituiti per la raccolta dei dati demografici ed
economici del Regno d'Italia. Le regioni previste dall'Assemblea costituente erano diciannove.
Solo nel 1963, dopo numerose proroghe del termine (il 1953) entro il quale era possibile
modificare, senza procedure aggravate, l'elenco contenuto nell'art. 131 Cost. (XI disp. trans. e
fin. Cost.), si è provveduto a dividere gli Abruzzi dal Molise. A dire il vero, in seno alla
Costituente era mancata una seria riflessione sulla (adeguata) dimensione delle regioni in vista
di uno svolgimento di funzioni e di un'erogazione di servizi efficaci ed efficienti, e anche questo
avrebbe inciso sulla rilevanza politico-istituzionale dell'ente. Inoltre, la creazione delle regioni
non avrebbe dovuto significare uno sdoppiamento della burocrazia, bensì la costituzione di
un’«organizzazione indiretta necessaria» o «impropria». Infatti, la disposizione dell'art. 118
Cost., per cui «la regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle
province, ai comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici», non escludeva certamente
la creazione di strutture amministrative regionali, ma andava interpretata nel senso che «le
autonomie regionali non debbano provocare un accentramento regionale in luogo di un
accentramento statale e che debba essere evitato, per quanto possibile, il costituirsi d'una
cospicua burocrazia regionale» (Corte cost. 11/1959). Del resto, anche l'art. 117 Cost.
individuava tra le materie di competenza legislativa regionale «l'ordinamento degli uffici e degli
enti dipendenti dalla regione»; inoltre, i commi 2 e 3 dell'VIII disposizione transitoria e finale
della Costituzione avevano disposto che per la formazione dei propri uffici le regioni dovessero
trarre il personale da quello dello Stato e degli enti locali.
Le prime norme attuative accentuarono la scarsa chiarezza del disegno costituzionale, che da un
lato disegnava «una amministrazione regionale tutta esercitata con la collaborazione degli enti
locali», dall'altro finiva per «burocratizzare le regioni a danno di quelle stesse istituzioni che
“normalmente” ne dovrebbero svolgere le funzioni amministrative». Infatti, la legge Scelba
62/1953 (recante «Costituzione e funzionamento degli organi regionali») creò le regioni come
grossi centri di amministrazione, «caricando quelle parti per cui la regione era un comune
gigante, attenuando quelle per cui poteva divenire un ente politico rappresentativo di
gruppi propri».
Quanto al ritardo con cui sono state attuate le regioni ordinarie, suonano emblematiche le
parole pronunciate da Piero Calamandrei nel 1955, proprio durante il governo Scelba, a
proposito dell'«ostruzionismo della maggioranza» e del continuo rinvio dell'attuazione di quella
grande e impegnativa riforma.
Erano gli anni della ricostruzione postbellica, del crescente sviluppo industriale del nostro paese,
fonte indiscutibile di squilibri territoriali, cui si rispose con un massiccio intervento del potere
pubblico nell'economia (attraverso i grandi enti pubblici economici e in particolare le c.d.
partecipazioni statali) e con una forte centralizzazione degli apparati amministrativi. L'idea che
le riforme economico-sociali dovessero essere dominate dallo Stato mal si conciliava con i
principi di autonomia e decentramento e, quindi, le prime esperienze di programmazione
economica (vedi ad es. la legge 685/1967) non contribuirono certo a spianare la strada alla
riforma. La regione veniva infatti prefigurata più come ente strumentale che come soggetto
dotato di potere di indirizzo politico: tanto che l'ambiguità del testo costituzionale, che non
precisava il sistema (diretto o indiretto) di elezione, aveva consentito che nel 1964 fosse
presentato un disegno di legge (ddl 1391, poi ritirato) che riservava la scelta dei consiglieri
regionali ai consiglieri provinciali di ciascuna regione.
Anche la Corte costituzionale aveva più volte affermato – già in relazione alle regioni speciali –
che la legislazione relativa all'elaborazione di programmi economici era riservata allo Stato, in
base al presupposto che i piani non potessero essere impostati «che secondo una visione
generale delle necessità del Paese, e con riferimento ai mezzi finanziari necessari» da assegnare
«secondo un ordine di preferenze» fissato dal legislatore statale. Alle regioni sarebbe spettato il
compito di intervenire nei medesimi settori con proprie leggi e propri mezzi, ma solo nei limiti e
secondo le direttive fissate con legge dello Stato, al fine di assicurare il coordinamento tra le
varie sfere di attività (Corte cost. 4/1964).
Nel 1968, infine, fu approvata la legge elettorale 108, la quale – in un clima ormai mutato –
scelse l'elezione diretta dei consiglieri regionali come unico modo per affermare l'autonomia
politica dei nuovi enti.

L'APPROVAZIONE DEGLI STATUTI ORDINARI


Dopo le elezioni consiliari del 1970, le regioni dovettero in primo luogo approvare il proprio
statuto. In base all'art. 123 Cost. gli statuti delle regioni ordinarie venivano adottati dal
consiglio regionale e successivamente approvati con legge del Parlamento. Questo complesso
procedimento aveva creato dubbi sulla natura giuridica dello statuto, non essendo chiaro se la
legge del Parlamento perfezionasse l'atto (dandogli natura di legge statale) o fosse solo
condizione di efficacia dello statuto come legge regionale. La prassi, seguita dalla I
Commissione permanente del Senato, di subordinare l'approvazione all'introduzione di precise
modifiche (non potendo il Parlamento apportarle direttamente), da un lato faceva preferire la
tesi della fonte di diritto regionale, ma dall'altro aveva portato a un'accentuata omologazione
tra i vari statuti.
Quanto ai contenuti, l'art. 123 Cost. prevedeva che lo statuto disciplinasse il procedimento
legislativo, i referendum e l'organizzazione interna della regione, intesa sia come
organizzazione politica (distribuzione del potere tra gli organi fondamentali dell'ente e
disciplina del loro assetto e funzionamento), sia come organizzazione strettamente
amministrativa e burocratica (ordinamento degli uffici e del personale). Poiché, tuttavia,
«l'ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla regione» era anche
materia di competenza legislativa regionale, la disciplina degli statuti si era concentrata sui
rapporti tra gli organi politici, e quindi sulla «forma di governo» (espressione di origine
dottrinale che comparirà poi nell'art. 123 modificato dalla riforma del 1999) entro, però, gli
spazi lasciati dalla Costituzione: spazi che rimanevano angusti anche se la Carta fondamentale
non precisava con chiarezza funzioni e posizioni di consiglio, giunta e suo presidente. Al primo
spettavano in ogni modo le «potestà legislative e regolamentari», più «altre funzioni»
(evidentemente amministrative) a esso attribuite «dalle leggi» (anche regionali): cosicché parte
dell'amministrazione, non era chiaro in che misura, veniva sottratta alla giunta, «l'organo
esecutivo della regione», il cui presidente rappresentava l'ente (art. 121 Cost.). Né era posto
alcun criterio per l'elezione del consiglio regionale, limitandosi l'art. 122.1 a demandare la
definizione del sistema elettorale alla legge del Parlamento e a stabilire che «Il presidente ei
membri della giunta sono eletti dal consiglio regionale tra i suoi componenti». Nell'insieme,
tuttavia, risultava ben chiaro che la Costituzione propendeva in particolare per il modello
parlamentare-assembleare, che poi fu quello adottato, tendenzialmente, da tutti gli statuti: ed
era conseguenza inevitabile che, in presenza di un unico sistema elettorale, ci fosse un unitario,
omogeneo sistema politico regionale.

IL TRASFERIMENTO DELLE FUNZIONI


L'VIII disposizione transitoria e finale della Costituzione richiedeva che leggi della Repubblica
regolassero per ogni ramo della pubblica amministrazione il passaggio alle regioni
delle funzioni statali loro attribuite dall'art. 117 Cost. e del relativo personale dipendente dallo
Stato. Il primo trasferimento fu disposto dalla delega contenuta nella legge finanziaria
281/1970, in attuazione della quale vennero emanati, nel gennaio del 1972, gli undici decreti
legislativi che realizzarono la c.d. prima regionalizzazione.
Questi decreti definirono scarse, frammentarie e tassative funzioni amministrative regionali,
individuandole tra quelle ministeriali trasferibili (secondo una tecnica che potremmo chiamare
«burocratica») e mantenendo allo Stato le competenze residue. Ciò, da un lato, consentì la
sopravvivenza di numerose strutture burocratiche statali a fianco di uffici regionali, dall'altro
impedì una gestione organica dei vari settori di interesse. Inoltre, mancando le leggi cornice
che avrebbero dovuto delimitare gli ambiti delle funzioni legislative regionali, sui quali poi
disegnare le corrispondenti funzioni amministrative, il governo, con tali decreti, finì per
riempire la famosa «pagina bianca» alla quale Livio Paladin (sviluppando l'immagine di Gaetano
Salvemini che aveva paragonato il testo del Titolo V della Costituzione appena approvato a un
«vaso vuoto con sopra la targhetta regione») assimilava le materie comprese negli elenchi
costituzionali, capovolgendo il principio del parallelismo enunciato dall'art. 118 Cost. (le
funzioni legislative rimanevano identificate attraverso le funzioni amministrative trasferite) e,
al tempo stesso, «distorcendolo». Infatti, mentre la competenza legislativa risultava ripartita
tra Stato e regioni (art. 117 Cost.), l'art. 118 Cost. sembrava escludere la competenza
amministrativa statale nelle materie regionali: «Spettano alle regioni le funzioni
amministrative per le materie elencate nel precedente articolo, salvo quelle di interesse
esclusivamente locale».
Il modello, in realtà, fin da subito si era evoluto in modo diverso, innanzitutto per la resistenza
della burocrazia statale e ministeriale a smantellare completamente i propri uffici, e in parte
anche perché proprio in mancanza delle leggi cornice si pensava che le materie regionali non
potessero essere regolate dallo Stato solo con l'intervento legislativo. Prova ne è stata la riserva
allo Stato, con l'art. 17 della legge finanziaria del 1970, della «funzione di indirizzo e di
coordinamento delle attività delle regioni che attengono a esigenze di carattere unitario, anche
con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale e agli impegni derivanti dagli
obblighi internazionali». Tale funzione avrebbe suscitato interrogativi e polemiche in ordine al
suo fondamento costituzionale, al suo ambito di applicazione, ai suoi effetti e ai modi del suo
esercizio.
Un nuovo trasferimento di funzioni alle regioni, non ancora accompagnato da una
riorganizzazione dell'amministrazione statale, si ebbe, in attuazione della legge delega
382/1975, con il dpr 616/1977, che determinò la c.d. seconda regionalizzazione. In questo caso
il governo, procedendo per «settori organici», aveva affiancato i trasferimenti di funzioni nelle
materie costituzionalmente previste alle deleghe di funzioni amministrative statali, in modo da
assegnare alle regioni il perseguimento e la gestione di politiche pubbliche.

REGIONALIZZARE L’AMMINISTRAZIONE SENZA RIFORMARE LO STATO?


«Rimane il fatto che né la prima delega, né la seconda si proponevano lo scopo di riorganizzare
lo Stato nell'insieme delle funzioni amministrative secondo principi generali. Esse si propone-
vano, piuttosto, di attribuire alle regioni quanto loro per Costituzione spettasse». Più tardi, la
legge Bassanini 1,59/1997 avrebbe collegato il progetto devolutivo «anch'esso alla Costituzione
assecondandone l'ispirazione, ma non secondo una logica di attuazione. Il collegamento è piuttosto con
l'art. 5 che con il Titolo V in quanto tale» e l'obiettivo è quello di «riorganizzare globalmente "lo Stato"
(lo Stato in senso ampio, quale insieme di organizzazioni preposte alle pubbliche funzioni)» [Falcon
1998, X].

La tecnica di distribuzione delle funzioni e dei compiti residui, a favore della regione, aveva
portato a un ampliamento degli ambiti di competenza regionale.
Ma se da un punto di vista quantitativo tale espansione è indubitabile, dal punto di vista
qualitativo la disciplina regionale riuscì poco e con difficoltà a effettuare scelte davvero
indipendenti da quelle statali. Il vero nodo critico è sempre stato il rapporto tra legge regionale
e legge statale, che non si esaurisce in un mero riparto di competenze di stampo
dualista/separatista, ma implica un complesso sistema di rapporti giuridici e politici. La forte
centralizzazione dei partiti, cioè la mancanza di un ceto politico regionale distinto da quello
statale, avrebbe sicuramente reso «difficile ragionare dell'autonomia politica delle regioni» [Bin
2010, 134].

L’ASSESTAMENTO ATTRAVERSO LA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE


Nella definizione dell'assetto dei rapporti Stato-regioni, il ruolo della Corte costituzionale si
sarebbe rivelato importantissimo. È pacifico che essa, fin dalla sua primissima giurisprudenza,
abbia assunto posizioni restrittive nei confronti dell'autonomia regionale, sulla base della
premessa che «i limiti delle competenze regionali vanno ricercati, più che nella natura delle
norme da emanare, nelle finalità per cui l'ente regione è stato creato» (sent. 7/1956).
Proprio questa vocazione a disciplinare interessi di dimensione regionale, e l'esigenza di
garantire l'unità dell'ordinamento statale, hanno portato la Corte per prima cosa a escludere la
possibilità per le regioni di disciplinare, entro i consueti limiti, i profili di diritto privato delle
materie loro assegnate. Poi, dalle riserve di legge poste dagli artt. 25 e 108 Cost. essa ha
ricavato i limiti, rispettivamente, del diritto penale e del diritto processuale. L'emanazione di
norme relative all'esercizio del magistero punitivo, quindi, va intesa come «una delle
espressioni più alte della sovranità statale unitaria» (sent. 6/1956) – anche se le leggi regionali
possono concorrere a precisare, secundum legem, presupposti d'applicazione di norme penali
statali (sent. 142/1969) – ed è altrettanto chiaro che «la Costituzione riserva agli organi
legislativi dello Stato la disciplina di tutto quanto concerne l'amministrazione della giustizia, sia
in riguardo alla istituzione dei giudici che alle loro funzioni e alle modalità del correlativo
esercizio» (sent. 4/1956).
In attuazione dell'art. 117 Cost., in base alla legge Scelba 62/1953, specifiche leggi dello Stato
avrebbero dovuto dettare i principi fondamentali per ciascuna materia di competenza
concorrente. All'avvio della riforma regionale, in mancanza di leggi cornice, la legge finanziaria
281/1970 aveva previsto che detti principi potessero essere desunti dalle «leggi vigenti.
Queste, però, non erano state strutturate in base all'idea di un riparto di competenze statale e
regionale, bensì alla necessità di disciplinare compiutamente la materia. L'ampio contenzioso
che ne derivò fece si che la funzione di «codificazione dei principi si scaricasse sulla Corte
costituzionale, diventando così un «giudizio politico».
La Corte, riferendosi alle regioni speciali, aveva ricondotto i principi stabiliti dalle leggi dello
Stato ai «criteri generali ai quali s'informa una determinata disciplina legislativa statale e che
di questa e dei relativi istituti sono caratteristici», escludendo «ovviamente» che si trattasse di
tutte le regole della legge statale «perché altrimenti il potere normativo regionale si ridurrebbe
a un semplice potere regolamentare» (sent. 49/1958). Fatta questa condivisibile
constatazione, però, la Corte, negli anni '70, ma anche dopo, ha spesso interpretato la natura di
principio in maniera estensiva, basando la sua valutazione sulla distinzione tra interesse statale
e interesse regionale, tra esigenze unitarie e differenziazione della disciplina.
A proposito dell'interesse nazionale, la Costituzione del 1948 lo aveva previsto come limite di
merito alla potestà legislativa regionale (art. 117), della cui violazione era competente a
giudicare il Parlamento, su ricorso da parte del governo nell'esercizio della sua funzione di
controllo preventivo della legge regionale (art. 127).
La Corte costituzionale ha però trasposto tale limite dal piano politico al piano della legittimità:
se la regione, infatti, è stata creata per disciplinare interessi di dimensione regionale, una sua
legge che incida sull'interesse nazionale travalica l'ambito di competenza assegnatole dalla
Costituzione. Sulla base di questo presupposto, e affiancando quindi al criterio della
separazione orizzontale delle competenze (per «materie») un criterio verticale (per «livello
degli interessi»), la Corte ha finito spesso per giustificare la permanenza in capo allo Stato di
rilevanti settori di materie regionali, giustificando il noto fenomeno del c.d. ritaglio delle
materie.

UN ESEMPIO EMBLEMATICO DI RITAGLIO DELLA MATERIA: LA SENTENZA 138/1972


Giudicando del decreto di trasferimento riguardante la materia «fiere e mercati», la Corte
precisa che è necessario «pur nell'ambito di una stessa espressione linguistica [...] identificare
materie sostanzialmente diverse secondo la diversità degli interessi, regionali o sovraregionali,
desumibile dall'esperienza sociale e giuridica». Perciò la materia «fiere e mercati» solo in parte
è da intendersi «di carattere regionale, giacché queste manifestazioni, quando abbiano più
vasta dimensione, corrispondono a interessi sostanziali che fanno immediatamente capo alla
intera comunità nazionale e appartengono, conseguentemente, alla competenza dello Stato»;
«va tenuto ben presente che la stessa ragion d'essere dell'ordinamento regionale risiede nel
fatto che la Costituzione, presupponendo l'esistenza di interessi regionalmente localizzati, ha
disposto che essi siano affidati alla cura di enti di corrispondente estensione territoriale.
Dovendosi pertanto le regioni considerare come enti esponenziali di interessi di livello
regionale, è d'uopo ritenere che l'ordinamento costituzionale, come impone che siffatti
interessi si soggettivizzino nelle regioni (restando allo Stato, in armonia con l'art. 5 Cost., solo il
potere di stabilire i principi fondamentali), così esige, nel quadro di una razionale
individuazione delle due sfere di competenza, che allo Stato faccia capo la cura di interessi
unitari, tali in quanto non suscettibili di frazionamento territoriale».
Se per quanto riguarda la potestà legislativa il rispetto delle esigenze di carattere unitario era
stato garantito dai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, per la potestà
amministrativa questa esigenza, come già accennato, doveva essere soddisfatta dalla funzione
statale di indirizzo e coordinamento introdotta dall'art. 17 della legge 281/1970, che
inizialmente la Corte costituzionale aveva ancorato esclusivamente al limite dell'interesse
nazionale, del quale costituiva infatti il «risvolto positivo» (sentt. 39 e 138/1971 e 191/1976).
Successivamente, la legge delega 382/1975 aveva stabilito che la funzione si esercitasse «fuori
dei casi in cui si provveda con legge o con atto avente forza di legge, mediante deliberazione
del Consiglio dei ministri, su proposta del presidente del Consiglio, d'intesa con i ministri
competenti» (o con delega al CIPE). L'impugnazione, da parte di alcune regioni, di un atto
governativo di indirizzo e coordinamento in materia di artigianato – in contrasto e prevalente
su atti (anche legislativi) regionali da esso difformi – aveva spinto la Corte a richiedere,
nell'osservanza del principio di legalità anche sostanziale, previe specifiche disposizioni
legislative statali contenenti principi e criteri idonei a vincolare e dirigere la scelta del governo
(sent. 150/1982).
La legge 400/1988 avrebbe in seguito attribuito riconoscimento legislativo alla Conferenza
Stato-regioni, già istituita con dpcm 12 ottobre 1983, conferendo a essa «compiti di
informazione, consultazione e raccordo, in relazione agli indirizzi di politica generale suscettibili
di incidere nelle materie di competenza regionale», compresi i «criteri generali relativi
all'esercizio delle funzioni statali di indirizzo e coordinamento».
Il modello, sostanzialmente accentrato, di ripartizione delle competenze cominciava insomma a
essere messo in discussione, a favore di un modello di collaborazione, anche se ancora
abbozzato. Esso venne spesso utilizzato a favore dello Stato, perché era mosso pur sempre
dall'idea di un'amministrazione unica statale-regionale. In luogo di un modello dualista, che
avrebbe potuto caratterizzarsi come «co-gestione della produzione delle leggi (come
in Germania), si stava affermando un sistema in cui il concorso nella gestione degli interessi
operava anche sul piano amministrativo, con una tendenziale superiorità dell'amministrazione
statale.
Il concreto passaggio al c.d. regionalismo cooperativo sarebbe stato ad ogni modo stimolato
non tanto da precise scelte politiche, quanto, soprattutto, proprio dagli indirizzi fissati dal
giudice costituzionale – sebbene anche l'elaborazione giurisprudenziale, al pari dell'attività
legislativa, sia stata caratterizzata, nel corso del tempo, da frequenti oscillazioni tra letture
«centraliste» e letture «autonomiste» del modello regionale.

IL PRINCIPIO DI LEALE COLLABORAZIONE E L’ISTITUZIONE DELLA


CONFERENZA STATO-REGIONI
(Principio di leale collaborazione ) (Conferenza Stato-regioni )
Inizia dunque a registrarsi nella giurisprudenza costituzionale un lento ma progressivo
affermarsi del principio di leale collaborazione: in maniera non ancora incisiva negli anni '70,
con contorni decisamente diversi a partire dalla giurisprudenza degli anni '80.
Assieme all'affermarsi della leale collaborazione, come principio costituzionale che regola i
rapporti tra Stato e regioni, sul piano organizzativo e istituzionale viene a svilupparsi il
«sistema delle conferenze ».

L’EMERGERE DEL PRINCIPIO DI LEALE COLLABORAZIONE: UN CASO STAMINALE


La pronuncia che segna la nascita del principio di leale collaborazione (sent. 175/1976) riguarda
significativamente la materia ambientale, definita a più riprese dalla Corte come un «bene immateriale
unitario» (sent. 641/1987), e oggi elevata a valore costituzionale, alla cui tutela devono concorrere tutti
i diversi soggetti istituzionali (sent. 62/2005).
In quella prima decisione – e in altre di poco successive (per es. sent. 187/1985) –, la Corte chiede che
«i rapporti tra Stato e regioni ubbidiscano, assai più che a una gelosa, puntigliosa e formalistica difesa
di posizioni, competenze e prerogative, a quel modello di cooperazione e integrazione nel segno dei
grandi interessi unitari della Nazione» (sent. 219/1984). Ne deriva che la leale collaborazione può
anche giustificare «l'erosione» delle competenze regionali a favore dello Stato (sent. 359/1985)
[Mangiameli 2008, 58], equilibrando la compressione che subisce la regione quando a favore della
competenza dello Stato operino criteri come quello della prevalenza o l'assunzione della competenza in
sussidiarietà, con il riconoscimento di un ruolo centrale dell'intesa con la regione interessata ( sentt.
303/2003 e 233/2004, dove «è la prima volta che il mancato rispetto del dissenso regionale costituisce
causa di annullamento di un atto statale» (Ruggiu 2004]). Con la sentenza 251 del 2016 si registra
l'estensione della leale collaborazione a taluni procedimenti di delega legislativa [Rivosecchi 2017].
GLI ANNI ‘90: LA LENTA ESPANSIONE DELLE COMPETENZE REGIONALI
Una delle ragioni della tardiva e incompleta attuazione del disegno autonomista voluto dalla
Costituzione, ma soprattutto di quella che è stata da molti definita la crisi dello stesso «modello
costituzionale», è sicuramente da ricercare nel carattere nazionale e nella spiccata
centralizzazione del sistema dei partiti politici, che non avrebbe consentito alle regioni di
contrapporre a quello la logica della rappresentanza territoriale (D'Atena 2006, 499 s.): tant'è
che le stesse regioni sarebbero diventate «strumenti dei partiti politici nazionali». Non desta
dunque sorpresa il fatto che il tema della riforma del regionalismo si sia posto
prepotentemente nell'agenda politico-istituzionale proprio agli inizi degli anni ‘90, quando il
tradizionale sistema dei partiti è entrato in crisi ed è stato travolto dalle inchieste giudiziarie e
dalla scomparsa di quelli della fase storica successiva al 1948; e quando è apparso sulla scena
politico-istituzionale un partito che della battaglia federalista – a tratti secessionista – faceva
una bandiera politica.

L’OFFENSIVA REFERENDARIA DEGLI ANNI ‘90


La crisi del sistema politico negli anni ‘90 fu sicuramente favorita da un'importante «offensiva
referendaria», che non si era limitata a dare luogo al noto referendum per il passaggio da un
sistema elettorale proporzionale a un sistema elettorale maggioritario nel 1993, ma che aveva
anche inciso in maniera significativa sul sistema delle autonomie territoriali. Ci si riferisce in
particolare ai due referendum (promossi dalle stesse regioni), svoltisi il 18 e 19 aprile 1993,
diretti ad abrogare le leggi istitutive del ministero dell'Agricoltura e Foreste e del ministero
del Turismo e dello Spettacolo, abrogazioni approvate con maggioranze dal 70 all'80% dei
votanti. Ovviamente, il presupposto di questi referendum era che le competenze assegnate a
questi ministeri fossero da devolvere alle regioni.
Si apre così una nuova stagione di «devoluzione di competenze a favore del sistema delle
autonomie territoriali e delle regioni in particolare: formalmente un terzo trasferimento di
competenze, che tuttavia si evidenzierà molto diverso dai due trasferimenti degli anni '70, non
solo e non tanto sotto il profilo quantitativo, ma soprattutto sotto quello qualitativo.
Il vero «punto di non ritorno» nel percorso evolutivo verso la riforma costituzionale del 2001 è
sicuramente segnato dalla c.d. legge Bassanini I (59/1997), che definisce gli ambiti materiali
che restano nella titolarità dello Stato (artt. 1.3 e 4), afferma una sostanziale competenza
amministrativa residuale in capo alla regione, e dispone, infine, che le regioni conferiscano a
comuni, province o altri enti locali tutte quelle funzioni amministrative «che non richiedono
l'unitario esercizio a livello regionale» (art. 4.1), con un'evidente anticipazione della riforma
costituzionale (artt. 118.1 e 2).

UN DECENNIO DI RIFORME PER LE AUTONOMIE LOCALI


Per il sistema delle autonomie territoriali, gli anni ‘90 si aprono con la legge che disciplina
l'ordinamento degli enti locali, la legge 142/1990. Questa disciplina si rivela di particolare
interesse non solo per gli enti locali, poiché, tra l'altro, per la prima volta riconosce a questi
autonomia statutaria, ma anche e forse soprattutto perché anticipa alcuni aspetti della
complessiva riforma costituzionale del Titolo V della Parte II della Costituzione.
In particolare, l'art. 3 della legge 142/1990 attribuiva alle regioni l'organizzazione dell'esercizio
delle funzioni amministrative a livello locale attraverso i comuni e le province nell'ambito delle
materie di cui all'art. 117 Cost. (vecchio testo), tramite leggi regionali che individuassero
gli interessi comunali e provinciali in rapporto alle caratteristiche della popolazione e del
territorio [Martines, Ruggeri e Salazar 2008, 217 s.]. La giurisprudenza costituzionale ravvisava
a tale riguardo nella regione un «centro propulsore del sistema delle autonomie locali» (sent.
343/1991), ma poneva non pochi dubbi in ordine alla tenuta del quadro costituzionale. Questa
suggestione, che andava nel senso del riconoscimento alle regioni di una competenza in
materia di «ordinamento degli enti locali», almeno quanto all'allocazione delle competenze,
venne sostanzialmente confermata dalle riforme Bassanini e dal testo unico dell'ordinamento
sugli enti locali, per poi essere abbandonata dalla riforma costituzionale, che ha riservato alla
competenza esclusiva del legislatore statale la definizione delle funzioni fondamentali di
comuni e province (art. 117.2, lett. p).
Importantissima fu inoltre la riforma che introdusse l'elezione diretta dei vertici dell'esecutivo
a tutti i livelli territoriali (escluso quello statale), a partire da quello comunale e provinciale
(legge 81/1993), per finire con la legge cost. 1/1999, che ha «incentivato» l'elezione diretta del
presidente della regione (vedi SS III.10 e V.6). Queste riforme hanno consentito l'emersione di
protagonismi politici e la personalizzazione della lotta politica, con parziale emancipazione del
dibattito politico a livello locale dalle dinamiche politico-istituzionali nazionali.
Il che, se da un lato faceva acquisire alle riforme del sistema amministrativo intervenute per
via legislativa la nota qualifica di «riforma in senso federale a Costituzione invariata» o di
«federalismo amministrativo a Costituzione invariata», poneva non pochi dubbi in ordine alla
conformità a Costituzione di una sostanziale inversione del criterio di conferimento delle
competenze amministrative, a fronte di un dettato costituzionale che continuava a essere
improntato sull'enucleazione tassativa delle materie di competenza legislativa regionale e sul
parallelismo delle funzioni amministrative rispetto agli ambiti della competenza legislativa. Di
qui la considerazione, da molti condivisa, della sostanziale necessità della riforma
costituzionale del 2001, onde offrire fondamento costituzionale, a posteriori, alla riforma delle
competenze amministrative.

I RAPPORTI TRA LA REGIONE E GLI ENTI LOCALI E L’ESORDIO DEL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ
La legge delega 59/1997, unitamente alla disciplina attuativa (d.lgs. 112/1998), delinea dunque
i profili del rapporto devolutivo di competenze amministrative tra regioni ed enti locali.
In particolare, dispone all'art. 4 che le regioni «conferiscono alle province, ai comuni e agli altri
enti locali tutte le funzioni che non richiedono l'unitario esercizio a livello regionale», in ragione
dell'osservanza dei «principi fondamentali» individuati al 3° comma dell'art. 4, vale a dire del
principio di sussidiarietà, che impone «l'attribuzione della generalità dei compiti e delle
funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le
rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni
incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine
di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie,
associazioni e comunità, all'autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini
interessati». Conformemente a questo impianto, la disciplina attuativa, di cui all'art. 3.2 del
d.lgs. 112/1998, dispone che «La generalità dei compiti e delle funzioni amministrative è
attribuita ai comuni, alle province e alle comunità montane, in base ai principi di cui all'articolo
4, comma 3, della legge 15 marzo 1997,59, secondo le loro dimensioni territoriali, associative e
organizzative, con esclusione delle sole funzioni che richiedono l'unitario esercizio a livello
regionale».
LA RIFORMA COSTITUZIONALE DEL 1999: ELEZIONE DIRETTA DEI
PRESIDENTI E NUOVI STATUTI REGIONALI
Quanto alla forma di governo regionale, è da evidenziare che il percorso evolutivo che nella
prima metà degli anni ‘90 spinge nel senso della transizione da sistemi di democrazia
«mediata» a sistemi di democrazia «immediata», iniziato con l'elezione diretta dei sindaci (e
dei presidenti delle province: vedi non poteva non avere riflessi sulla forma di governo delle
regioni.
La forma di governo regionale originariamente disegnata dalla Costituzione si caratterizzava
per essere parlamentare a preminenza assembleare, con il consiglio regionale, unico organo
eletto a suffragio universale e diretto, che eleggeva il presidente e i membri della giunta
regionale tra i suoi componenti. Questo modello aveva determinato alti livelli di instabilità degli
esecutivi regionali, i quali, in un contesto politico caratterizzato da alta frammentazione
partitica, incentivata da una legislazione elettorale proporzionale pura, non erano altro che la
sostanziale emanazione dei consigli.
Il primo tentativo di razionalizzazione transita tuttavia per la semplice riforma del sistema
elettorale, tramite la legge 43/1995 (che novellava la legge elettorale 108/1968), con
l'introduzione di un sistema elettorale formalmente misto, ma i cui effetti erano decisamente
maggioritari. Erroneamente, con questa legge si intendeva influire sul funzionamento della
forma di governo senza tuttavia porre mano a quella per la cui riforma sarebbe stata necessaria
una revisione costituzionale. Si interveniva dunque secondo un complicato modello elettorale
che avrebbe dovuto assicurare stabili maggioranze in consiglio, mediante una sorta di premio di
maggioranza, a supporto di un esecutivo il cui vertice veniva sostanzialmente designato dal
corpo elettorale. Veniva infine contemplata una norma «antiribaltone», che si evidenziava, già
a prima lettura, incapace di assicurare il risultato al quale era preposta, per la sua formulazione
assai poco tassativa, e finanche di dubbia legittimità costituzionale, che determinò,
paradossalmente, i più alti livelli di instabilità degli esecutivi regionali forse
mai registrati.
La scarsa efficacia di questo meccanismo di razionalizzazione rese evidente la necessità di
introdurre un modello dalle maglie decisamente più strette, intervenendo direttamente sulla
forma di governo con un'adeguata revisione
costituzionale. Così, la legge cost. 1/1999 non fa altro che riprodurre, con taluni adattamenti,
la forma di governo neoparlamentare già operante a livello locale, con la previsione
dell'elezione a suffragio universale e diretto del presidente della giunta regionale,
contestualmente all'elezione del consiglio regionale, potere per il presidente «eletto» di
nominare e revocare i componenti della giunta, e previsione del c.d. simul stabunt simul
cadent.
Ferma restando la previsione da parte della legge cost. 1/1999 di una disciplina transitoria, in
attesa della definizione della forma di governo a opera delle singole regioni, che
costituzionalizzava sostanzialmente il meccanismo della legge 43/1995, con trasformazione del
capolista della lista regionale in autentico candidato alla presidenza della giunta, l'elemento
qualificante di questa riforma è sicuramente la possibilità per gli statuti regionali di scegliere la
specifica forma di governo, derogando, in ipotesi, la stessa previsione dell'elezione diretta del
presidente di regione, unitamente alla possibilità per i consigli regionali di legiferare sul
sistema di elezione, i casi di ineleggibilità e incompatibilità del Presidente, degli altri
componenti della giunta e dei consiglieri regionali, nel rispetto dei principi fondamentali posti
con legge statale (art. 122.1 Cost. ); legge 2 luglio 2004, n. 165, recante Disposizioni di
attuazione dell'articolo 122, primo comma, della Costituzione.
I TENTATIVI DI RECUPERARE SPAZI DI INFLUENZA POLITICA DA PARTE DEI CONSIGLI
REGIONALI
Pur avendo assicurato questo impianto di governo una definitiva stabilizzazione degli esecutivi
regionali e contribuito a valorizzare sensibilmente il ruolo del presidente della regione, era
inevitabile l'affermarsi di spinte se non proprio ostruzionistiche, sicuramente di tiepida
accoglienza da parte dei consigli regionali, incaricati di adottare i nuovi statuti. Sicura riprova si
trae dal fatto che la seconda stagione «statutaria» delle regioni di diritto comune tarda
decisamente a decollare, con i primi statuti che si avranno solo dopo le chiare prese di
posizione della Corte costituzionale in ordine ai limitati margini di derogabilità della disciplina
costituzionale. Infatti, apparve assai inopportuno scostarsi dall'opzione per l'elezione a
suffragio universale e diretto del presidente di regione; il che determinava tutta una serie di
corollari non derogabili dallo statuto. Ci aveva provato il Friuli-Venezia Giulia ad approvare nel
2002 una «legge statutaria» imperniata sull'elezione indiretta del presidente, ma il risultato del
referendum confermativo sul testo dello statuto fu disastroso per la maggioranza al governo
della regione: difficile spiegare ai cittadini che non devono essere loro, ma i consiglieri
regionali, a scegliere il presidente.
Vista l'esperienza, i legislatori statutari si rassegnano, ma tentano di recuperare in diverse
maniere spazi di incidenza politica: o attraverso tentativi, poi rivelatisi fallimentari, di
«ammorbidire» in qualche modo la regola del simul simul (sentt. 304/2002 e 2/2004), oppure,
questa volta con esiti positivi, introducendo negli statuti regionali voti di sostanziale investitura
iniziale della giunta e di approvazione del programma, mozioni di censura o addirittura di
sfiducia nei confronti dei singoli assessori approvate a maggioranza qualificata. Ipotesi di
incidenza politica consiliare che non determinano mai obblighi di dimissioni del presidente,
della giunta o del singolo assessore colpito da censura o sfiducia, non producono dunque
effetti giuridicamente vincolanti, secondo quanto specificato dalla Corte (sent. 12/2006), ma
determinano indubbi effetti politici nel condizionamento consiliare delle scelte del presidente,
contribuendo a ridimensionare il forte ruolo di preminenza che il dettato costituzionale
riconosce al presidente «eletto», che «nomina e revoca i componenti della giunta», si presume,
libero da ogni condizionamento non solo giuridico, ma anche politico. Soprattutto perché è il
solo nei cui confronti l'art. 126.2 Cost. delinea un legame fiduciario con il consiglio regionale –
un legame che consente al consiglio di votare la sfiducia al duro prezzo di «suicidare» se stesso,
provocando lo scioglimento anticipato, così da far emergere qualche dubbio di «armonia con la
Costituzione di previsioni del genere.

LA RIFORMA COSTITUZIONALE DEL 2001: UN QUADRO D’INSIEME DEL


NUOVO TITOLO V
Sul finire della XIII legislatura, con soli sette voti di scarto, viene approvata
la legge cost. 3/2001 di revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione, poi confermata
in sede referendaria il 7 ottobre 2001. Se da un lato la riforma – per comune avviso – si era resa
necessaria per assicurare a posteriori fondamento costituzionale alla riforma
dell'amministrazione, intervenuta con la c.d. legge Bassanini, dall'altro lato riproponeva
sostanzialmente il testo di riforma già approvato in seno alla Commissione bicamerale
per le riforme costituzionali, istituita con legge cost. 1/1997 e presieduta dall'on. D'Alema.
La singolarità di questo percorso riformatore, che paradossalmente prende le mosse da quella
che avrebbe dovuto essere la disciplina di attuazione (legge 59/1997 e d.lgs. 112/1998), pone
una seria ipoteca sul modello di regionalismo che sarebbe stato adottato in sede di revisione
costituzionale.
In particolare, la scelta del legislatore di riforma costituzionale non poteva che dirigersi verso
un criterio allocativo della competenza di matrice federale, con riconoscimento alle regioni
della competenza residuale-generale e attribuzione allo Stato di competenze in ambiti
tassativamente enucleati in Costituzione. Si presumeva infatti che questa radicale inversione
operata a livello costituzionale, peraltro imposta dalla necessità di riportare le competenze
amministrative «in asse» con il dettato costituzionale, avrebbe agevolato quel percorso mai
intrapreso di riforma complessiva dell'amministrazione pubblica. Questa scelta concorse a
determinare l'abbandono dell'opzione per un regionalismo differenziato, sul modello spagnolo,
che avrebbe imposto la conservazione della competenza residuale e generale
in capo allo Stato, e la differenziazione dei regimi delle competenze nelle
diverse regioni. Della «differenziazione» rimase soltanto il regime di specialità per le cinque
regioni a statuto speciale e una timidissima differenziazione lasciata come ipotesi futura nel
nuovo testo dell'art. 116 Cost.
Da subito, i più attenti commentatori della riforma hanno evidenziato che, quanto meno sotto il
profilo formale (l'equiordinazione tra le diverse componenti territoriali delle quali la Repubblica
«è costituita» viene entusiasticamente enunciata nell'articolo di apertura del riformato Titolo V
della Parte II della Costituzione, l'art. 114.1), era sancito il venir meno del ruolo «tutorio»
tradizionalmente svolto dallo Stato nei confronti delle regioni, in considerazione del radicale
superamento del sistema dei controlli statali sugli atti regionali. La legge cost. 3/2001 ha
eliminato i controlli governativi sulla legge regionale, modificando l'art. 127 Cost.; ha
mantenuto una verifica di legittimità costituzionale sulle leggi regionali, successiva all'entrata
in vigore, azionabile dal governo o dalle altre regioni, entro sessanta giorni dalla pubblicazione;
ha eliminato il controllo di merito da parte delle camere, peraltro mai azionato. Identica sorte
non poteva non toccare al controllo statale sulla legittimità degli atti amministrativi regionali.
Analogamente non potevano essere conservati i controlli regionali sugli atti di province,
comuni e altri enti locali, di cui all'abrogato art. 130 Cost., che contemplava un controllo
preventivo di legittimità (e un eventuale controllo nel merito) a opera di un organo della
regione.
È tuttavia principalmente con riguardo alla competenza legislativa che viene meno la citata
funzione «tutoria; tant'è che in occasione della prima pronuncia resa dalla Corte costituzionale
sul riformato Titolo V (sent. 282/2002) è stato significativamente rilevato che «finalmente [...]
una legge regionale viene presa sul serio, cioè trattata come una "vera” fonte primaria, in
diretto contatto con la Costituzione, e non come un atto “sotto tutela”, il cui rapporto con la
Costituzione debba essere sempre e comunque mediato dall'interposizione della legislazione
statale». Il che era del resto già formalmente evidenziato dall'espressa previsione di limiti
comuni alla potestà legislativa dello Stato e delle regioni, all'art. 117.1.
Sempre nella medesima ottica deve essere letto non solo il riconoscimento alle regioni di una
competenza legislativa residuale-generale, ma anche la nuova conformazione della potestà
legislativa concorrente, che, da unica tipologia di potestà legislativa riconosciuta alle regioni
nel sistema previgente, diviene una delle diverse tipologie di potestà legislativa regionale.
L'affermazione della competenza residuale e generale a favore del legislatore regionale ha però
imposto la «positivizzazione dei limiti tradizionalmente opposti alla competenza legislativa
concorrente regionale, quali, in particolare, il limite del «diritto privato», del «diritto penale»
e del «diritto processuale». La riserva allo Stato delle c.d. «materie ordinamentali» –
ordinamento civile, ordinamento processuale, ordinamento penale – ha fatto sì che sia
rimasto immutato il carattere di fondo delle competenze regionali, il cui esercizio non può non
risentire della «delimitazione della legislazione regionale al solo diritto amministrativo».
Molto vistoso è anche il venir meno del tendenziale parallelismo tra funzione legislativa e
funzione amministrativa, per l'allocazione di quest'ultima sulla base dell'originaria
formulazione dell'art. 118 Cost. Nel nuovo testo non sussiste infatti alcun automatismo di
allocazione della funzione amministrativa, poiché è il principio di sussidiarietà, differenziazione
e adeguatezza a dover guidare l'assegnazione delle competenze in capo ai vari livelli di governo
Questa allocazione della funzione amministrativa comporta la naturale configurabilità di poteri
sostitutivi «ordinari», vale a dire la naturale sostituzione del titolare della funzione legislativa
che alloca la funzione amministrativa nei confronti del destinatario della medesima, nel
rispetto delle condizioni e dei limiti delineati dalla Corte costituzionale. Le ragioni di questa
sostituzione sono da ricercarsi nella necessità di perseguire gli «interessi unitari coinvolti», non
garantiti tempestivamente dall'ente competente (sent. 43/2004).
Ferma restando questa forma di sostituzione «ordinaria», non v'è dubbio che
la riforma del 2001, nella sostituzione «straordinaria» di cui all'art. 120.2 Cost. , abbia delineato
un'ipotesi di trasfigurazione dell'«interesse nazionale»; il limite è formalmente scomparso, ma
le esigenze di tenuta dell'unità e indivisibilità della Repubblica possono confluire nella
sostituzione straordinaria. Il che è reso evidente dalle parole della Corte, laddove ha chiarito
che «la nuova norma deriva palesemente dalla preoccupazione di assicurare comunque, in un
sistema di più largo decentramento di funzioni quale quello delineato dalla riforma, la
possibilità di tutelare, anche al di là degli specifici ambiti delle materie coinvolte e del riparto
costituzionale delle attribuzioni amministrative, taluni interessi essenziali [...] che il sistema
costituzionale attribuisce alla responsabilità dello Stato» (sent. 43/2004).
Quanto invece all'affermazione di un potere statale di «unificazione normativa», la
metamorfosi dell'«interesse nazionale» transita di preferenza per il principio di sussidiarietà
verticale, per l'esigenza di assicurare l'esercizio unitario, ai sensi dell'art. 118.1 Cost. , della
funzione amministrativa (sent. 43/2004), con conseguente allocazione verso l'alto, in ragione
del principio di legalità e del c.d. «parallelismo invertito», della stessa funzione
legislativa (sent. 303/2003).
Con la riforma costituzionale, il ruolo degli enti locali pare radicalmente mutato. Viene meno
ogni ipotesi di controllo, sia di legittimità sia di merito, sugli atti, in forza dell'abrogazione
dell'art. 130 Cost. Mentre nel sistema previgente le province e i comuni erano «enti autonomi
nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le
funzioni» (così l'abrogato art. 128 Cost.), ora è costituzionalmente riservato un ambito di
competenza regolamentare «in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite» (art. 117.6), ma soprattutto è loro costituzionalmente
riconosciuta (e riservata) l'autonomia statutaria, nonché una sfera (per altro indeterminata) di
«poteri e funzioni da esercitare «secondo i principi fissati dalla Costituzione» (art. 114.2 Cost. ;
ma sul complesso problema della definizione delle attribuzioni degli enti locali).
Il vero punto nodale dell'intera riforma del Titolo V è però il riconoscimento dell'autonomia
finanziaria di entrata e di spesa sia per le regioni sia per gli enti locali. Non vi è dubbio infatti
che il corposo trasferimento di competenze entro il quale la regione acquista capacità
normativa e con riguardo al quale regioni ed enti locali assumono potenzialmente capacità
amministrativa e di gestione, rischierebbe di rimanere sulla carta senza la previsione e la
garanzia di adeguati strumenti finanziari per farvi fronte.
Le grandi linee di questo nuovo sistema finanziario consistono nel riconoscimento
dell'autonomia di entrata e di spesa agli enti territoriali, che stabiliscono e applicano tributi
propri e dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio.
Risorse queste che, unitamente a quelle eventualmente provenienti da un fondo perequativo,
devono assicurare il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche loro attribuite (art. 119
Cost.), ferma restando la possibilità di destinare agli enti territoriali risorse aggiuntive per
«promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli
squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona.
L'attuazione di questo nuovo disegno costituzionale è iniziata con grande ritardo, con la legge
42/2009 (sul c.d. federalismo fiscale), che sancisce in particolare il passaggio dalla spesa
«storica» alla spesa «standard», e con la serie ivi prevista di decreti legislativi di attuazione. E
su essa ha inciso la recente riforma introdotta dalla legge cost. 1/2012, che – sotto la spinta
della grave crisi finanziaria – ha modificato, assieme all'art. 81 Cost., altre disposizioni che
interessano i rapporti finanziari dello Stato con le regioni e le autonomie locali.
Dopo numerosi anni (quasi venti) dall'entrata in vigore della riforma costituzionale si può
prendere atto che una legislazione statale non sempre attenta alle dinamiche dell'autonomia,
legislatori regionali non sempre pronti o capaci a cogliere i corretti margini di intervento e una
giurisprudenza costituzionale che ha contribuito in maniera significativa alla definizione, se non
proprio rimodulazione, del sistema delle competenze hanno prodotto evidenti tendenze di
ricentralizzazione a favore del legislatore statale, di contrazione dell'autonomia di spesa e
talvolta organizzativa degli enti territoriali (sent. 148 e 198/2012), attraverso un’applicazione
estensiva e pervasiva dei principi fondamentali sul coordinamento della finanza pubblica e del
sistema tributario, soprattutto in occasione della c.d. «legislazione della crisi».

L’ATTUAZIONE DELLA RIFORMA DEL 2001: LEGGE LA LOGGIA E


RICOGNIZIONE DEI PRINCIPI FONDAMENTALI DELLE MATERIE
Alla legge cost. 3/2001 viene data attuazione solo nel 2003, con la c.d. legge La Loggia
(131/2003). In particolare, visto l'incremento delle materie di competenza concorrente e visto
l'alto livello di contenzioso che era scaturito per la corretta individuazione dei principi
fondamentali nelle materie di cui all'art. 117.3 Cost. , si tenta, tra l'altro, di affrontare il
problema della concreta esplicitazione di tali principi. Così, all'art. 1.4 il governo viene delegato
ad adottare, entro tre anni dall'entrata in vigore della legge, «uno o più decreti legislativi
meramente ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle
materie previste dall'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, al fine di orientare
l'attività legislativa dello Stato e delle regioni, fino all'entrata in vigore delle leggi con le quali il
Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali.
Evidentemente, questo approccio presupponeva una netta cesura tra impianto previgente e
impianto post-riforma, e rispondeva perciò all'esigenza di offrire chiarezza ai legislatori
regionali e statali, in attesa della definizione dei nuovi principi fondamentali. La Corte
costituzionale ha tuttavia dichiarato incostituzionali i commi 5 e 6 dell'art. 1, poiché apparivano
in contrasto «con l'oggetto "minimale" della delega, così come configurato dal comma 4 in
termini di "mera ricognizione" dei principi fondamentali vigenti», indirizzando invece, «in
violazione dell'art. 76 della Costituzione, l'attività delegata del Governo in termini di
determinazione-innovazione dei medesimi principi sulla base di forme di ridefinizione delle
materie e delle funzioni, senza indicazione dei criteri direttivi» (sent. 280/2004).
La legge 131/2003 affronta diversi altri aspetti: offre attuazione all'art. 117.5, in materia di
partecipazione delle regioni alle fasi ascendenti e discendenti della normazione dell'Unione
europea e in materia di attività internazionale delle regioni; offre attuazione all'art. 118 Cost.,
quanto all'esercizio delle funzioni amministrative, e all'art. 120 Cost., relativamente all'esercizio
del potere sostitutivo statale. Incide infine sul giudizio di legittimità costituzionale in via di
azione (con modifiche all'art. 35 della legge 87/1953), dettando termini brevi per la fissazione
dell'udienza di discussione davanti alla Corte, introducendo l'ipotesi di sospensione cautelare
della legge impugnata e aprendo la porta del giudizio di legittimità agli enti locali, ma solo
attraverso la sollecitazione da parte di questi del governo o della regione, che restano le uniche
parti processuali.

LA MANCATA RIFORMA DELLA RIFORMA DEL 2006


Poco dopo aver intrapreso la strada di una tardiva attuazione della riforma adottata nel corso
della XIII legislatura, nella legislatura successiva l'allora maggioranza di centro-destra approva
un disegno di legge di revisione dell'intera Parte II della Costituzione, in cui viene rivista anche
la disciplina degli assetti territoriali della Repubblica. La riforma viene approvata in seconda
deliberazione con la sola maggioranza assoluta, il 16 novembre 2005, ma successivamente
respinta in occasione del referendum confermativo svoltosi il 25 e 26 giugno 2006.
Per quanto specificamente interessa gli assetti territoriali, questa riforma interveniva a
emendare taluni passaggi problematici del Titolo V.
Nel dettaglio, veniva integrato l'elenco delle materie di competenza legislativa esclusiva
statale: si aggiungeva la competenza a dettare norme generali sulla tutela della salute,
sicurezza e qualità alimentari (ma la materia era già di competenza concorrente); venivano
spostate nell'elenco delle competenze esclusive le materie «grandi reti strategiche di trasporto
e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza», l'ordinamento della
comunicazione, l'ordinamento delle professioni intellettuali, l'ordinamento sportivo nazionale,
la produzione strategica, trasporto e distribuzione nazionali dell'energia. Tutte materie
riportate alla competenza esclusiva statale, sottraendole all'elenco di quelle di competenza
concorrente, in ragione delle evidenti esigenze di disciplina uniforme sull'intero territorio
nazionale di tematiche del genere, non adeguatamente prese in considerazione nel 2001 in
ragione di un eccesso di entusiasmo «federalista» che aveva accompagnato quella riforma.
L'elenco delle materie di competenza concorrente subiva un ridimensionamento e veniva
integrato l'art. 117.4 Cost. , ove, accanto alla clausola di residualità a favore della competenza
legislativa delle regioni, erano individuate alcune materie, particolarmente delicate, enucleate
in maniera esplicita, attribuendole alla competenza non già residuale, ma esclusiva regionale:
assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici
e di formazione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche; definizione della parte dei
programmi scolastici e formativi di interesse specifico della regione; polizia amministrativa
regionale e locale.
L'obiettivo della riformulazione proposta dell'art. 117.4 Cost. consisteva nella chiara
enucleazione di alcuni contenuti delle materie di spettanza esclusiva-residuale regionale: essa
veniva tuttavia svolta senza tenere conto della portata e potenzialità comunque pervasiva e
invasiva di buona parte delle competenze esclusive trasversali statali e dei principi
fondamentali nelle materie di pertinenza concorrente.
Veniva proposto il superamento dell'anomalia tutta italiana di un bicameralismo perfetto.
Tuttavia, il «Senato federale della Repubblica» evidenziava un labile collegamento con il
territorio regionale, che era dato dal fatto che i senatori venissero eletti in ogni regione
contestualmente all'elezione del consiglio regionale e dovessero avere ricoperto o ricoprire
cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all'interno della regione, o essere
stati eletti senatori o deputati nella regione, o più semplicemente risiedere nella regione alla
data dell'indizione delle elezioni. Con tutta evidenza, si trattava di condizioni di eleggibilità
decisamente diverse rispetto a quelle contemplate per camere alte realmente ed
effettivamente rappresentative delle istanze territoriali.
La vera problematica di questo anomalo bicameralismo su base territoriale si riverberava
tuttavia sul procedimento legislativo, posto che il legame fiduciario intercorreva con la sola
Camera dei deputati. La Camera dei deputati aveva competenza a legiferare in via prevalente
nelle materie di cui all'art. 117.2 Cost. , di pertinenza esclusiva statale, e il Senato aveva
competenza prevalente a legiferare nelle materie di cui all'art. 117.3, di spettanza concorrente
Stato-regioni; su alcune materie particolarmente delicate la funzione legislativa veniva
esercitata collettivamente dalle due camere, con l'attivazione di un complicatissimo
meccanismo di composizione delle distanze per le evenienze in cui una delibera parlamentare
non venisse approvata nel medesimo testo da entrambe le assemblee. Evidentemente, si
sarebbero riprodotti nel rapporto tra le due camere i numerosi dubbi allocativi che avevano
originato un nutrito contenzioso tra Stato e regioni, con il rischio di analogo contenzioso tra i
due rami del Parlamento.
Non mancavano in questo testo di «riforma organica» ulteriori elementi problematici. In primo
luogo, la proposta di modifica dell'art. 126 Cost. «ammorbidiva» il simul stabunt simul cadent ,
non facendolo operare per le ipotesi di morte o impedimento permanente del presidente di
regione, lasciando allo statuto di disciplinare l'ipotesi della nomina del nuovo presidente. Non
v'è dubbio che si sarebbero così assecondate le istanze regionali di «affievolimento del simul
simul, poco prima «bloccate» dalla Corte costituzionale, rendendo poco efficace il meccanismo
di razionalizzazione della forma di governo neoparlamentare.
Il testo di riforma aggiungeva un art. 127-bis, che contemplava un ricorso diretto alla Corte
costituzionale nei confronti di leggi o atti con forza di legge dello Stato o della regione da parte
di comuni, province e città metropolitane, di fronte alla presunta lesione di loro competenze
costituzionalmente previste.
Questa previsione tentava di affrontare il problema dell'effettività della tutela delle prerogative
costituzionalmente definite degli enti locali, risolvendola tuttavia in maniera radicalmente
opposta alle soluzioni tipicamente «federali», ove l'ordinamento del governo locale è materia di
competenza esclusiva degli Stati membri. Un ulteriore elemento problematico della (mancata)
riforma del 2006 riguardava la permanenza di due momenti di collegamento tra Stato e regioni,
potenzialmente concorrenti tra loro. Con tutta evidenza, la Camera delle regioni non veniva
considerata un adeguato momento di rappresentanza delle istanze territoriali, tant'è che veniva
mantenuto invariato il sistema delle conferenze, trovando addirittura esplicita
costituzionalizzazione, con non poche problematiche di coordinamento tra i due citati elementi
di collegamento.

LE REGIONI AL CENTRO
Con la bocciatura referendaria della riforma organica della Parte II della Costituzione svaniva il
tentativo di creare una camera rappresentativa delle istanze territoriali, e in particolare di
coinvolgimento delle stesse nel procedimento di formazione delle leggi statali. Ma il problema
permaneva. La stessa facoltà – pervista dalla riforma del 2001 – che i regolamenti parlamentari
integrino la Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle
regioni e degli enti locali, e disegnino una procedura rinforzata di approvazione delle leggi per
superare il parere contrario o condizionato della Commissione in questione, era stata intesa
come una soluzione provvisoria, in attesa della revisione del Titolo I della Parte II della
Costituzione.
La mancata introduzione di una Camera delle regioni non ha tuttavia prodotto l'attuazione di
questo meccanismo, ma ha semplicemente confermato come l'unico momento di collegamento
tra Stato e regioni restasse il sistema delle conferenze, che si accreditava dunque come l'unica
sede istituzionale di emersione del principio di leale collaborazione. Stando alla Corte
costituzionale, infatti, «una delle sedi più qualificate per l'elaborazione di regole destinate a
integrare il parametro della leale collaborazione è attualmente il sistema delle conferenze
Stato-regioni e autonomie locali. Al suo interno si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi
ordinamentali della Repubblica, in esito al quale si individuano soluzioni concordate di
questioni controverse» (sent. 31/2006). Tuttavia, il sistema delle conferenze non risolve affatto
il problema della cooperazione tra Stato e sistema delle autonomie, perché non può incidere
sul procedimento di formazione della legge, proprio quello sul quale invece operano le seconde
camere, con l'unica eccezione individuata dalla Corte costituzionale per taluni procedimenti di
delega legislativa, con la previsione di una «collaborazione imposta» come limite ulteriore
all'esercizio della delega. In particolare, con la sentenza n. 251 del 2016, resa sulla c.d. riforma
«Madia», legge 7 agosto 2015, n. 124, recante Deleghe al Governo in materia di
riorganizzazione delle Amministrazioni pubbliche, la Corte costituzionale ha precisato che «è
pur vero che questa Corte ha più volte affermato che il principio di leale collaborazione non si
impone al procedimento legislativo. Là dove, tuttavia, il legislatore delegato si accinge a
riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse,
sorge la necessità del ricorso all'intesa». Sicché, fatta salva questa sola ipotesi che pare
comunque abbastanza circoscritta, il nodo della partecipazione delle regioni al procedimento
legislativo resta irrisolto.

IL TENTATIVO DI RIFORMA COSTITUZIONALE DEL 2016


Proprio per cercare di affrontare e risolvere le problematiche, rimaste irrisolte, di rappresentanza
politica delle regioni «al centro», in occasione della XVII legislatura viene approvato dal
Parlamento, a maggioranza assoluta (12 aprile 2016, pubblicato in G.U. il 15 aprile 2016) un
disegno di legge di riforma costituzionale recante Disposizioni per il superamento del
bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di
funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II
della Costituzione, che venne tuttavia nuovamente bocciato in sede referendaria, il giorno 4
dicembre 2016.
L'elemento qualificante di questo testo di riforma, che toccava in maniera organica tutta la Parte II
della Costituzione, fatta eccezione per il Titolo IV, «La Magistratura», era infatti il superamento
del «bicameralismo paritario».
Solo la Camera dei deputati era titolare del rapporto di fiducia con il Governo ed esercitava la
funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e di controllo dell'operato del Governo (art.
55.4 Cost.). Il Senato rappresentava le istituzioni territoriali, esercitando funzioni di raccordo tra lo
Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l'Unione europea; si limitava a concorrere
all'esercizio della funzione legislativa «nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione»;
partecipava alle decisioni dirette alla formazione e all'attuazione degli atti normativi e delle
politiche dell'Unione europea; valutava le politiche pubbliche e l'attività delle pubbliche
amministrazioni, verificando l'impatto delle politiche dell'Unione europea sui territori;
concorreva ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo e a verificare l'attuazione
delle leggi dello Stato (art. 55.5 Cost.).
Invero, almeno sotto il profilo legislativo, il bicameralismo partitario permaneva per tutta una serie
di materie espressamente individuate all'art. 70.1 Cost. Tra queste, ad esempio, per
l'approvazione delle leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali, per le leggi di
determinazione dell'ordinamento, della legislazione elettorale, degli organi di governo, delle
funzioni fondamentali di comuni, città metropolitane e per la disciplina di principio sulle forme
associative dei comuni; per l'approvazione della legge di definizione delle norme generali, le forme
e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle
politiche dell'Unione europea, nonché per tutta una serie di altre tematiche variamente
incidenti sulle autonomie territoriali.
Tutte le altre leggi venivano approvate dalla Camera dei deputati (art. 70.2 Cost.), rimanendo
salva la possibilità per il Senato di «richiamare» il progetto di legge e di deliberare su quello, con
successiva delibera definitiva della Camera dei deputati (art. 70.3 Cost.). Erano infine previsti
procedimenti particolari per le leggi di attivazione della supremacy clause, ove la delibera del
Senato poteva essere superata dalla Camera solo con la maggioranza assoluta dei componenti
(art. 70.4 Cost.) e per i disegni di legge di cui all'art. 81.4 che dovevano essere sempre sottoposti
all'esame del Senato (art. 70.5 Cost.).
Molto ha fatto discutere la composizione del Senato della Repubblica che si collocava
sostanzialmente in una posizione mediana tra il modello statunitense, di elezione diretta dei
membri della Camera alta, e il modello tedesco, ove nel Bundesrat sono rappresentati gli
esecutivi dei Länder. Il testo optava per una sorta di rappresentanza indiretta, prevedendo che i
novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali venissero eletti dai consigli
regionali e dai consigli delle province autonome di Trento e Bolzano, con metodo proporzionale,
fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi
territori (art. 57.1). Restava in capo al presidente della Repubblica la controversa possibilità di
nominare cinque senatori, che permanevano in carica per sette anni (art. 59.2 Cost.), i quali
potevano anche non avere alcun collegamento con il territorio.
L'art. 57.6 rinviava ad una legge «bicamerale» la definizione delle modalità di attribuzione dei
seggi e di elezione dei membri del Senato tra i consiglieri e i sindaci, nonché delle modalità
dell'eventuale sostituzione. La durata del mandato dei senatori doveva coincidere con quella degli
organi dai quali venivano eletti, ovvero dei consigli regionali (art. 57.4 Cost.). Decisamente
controverso e di non chiara lettura l'ultimo passaggio dell'art. 57.4 Cost., aggiunto in seconda
lettura per assicurare un legame dei senatori con il corpo elettorale, a tenore del quale i consigli
regionali dovevano eleggerli «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati
consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi».
Quanto alle competenze del Senato, oltre a compartecipare con diversa intensità al procedimento
legislativo, poteva disporre inchieste su materie di pubblico interesse concernenti le autonomie
territoriali (art. 82.1 Cost.), ma soprattutto, poteva eleggere due giudici alla Corte costituzionale
(art. 135.1 Cost.).
In un'ottica di riscrittura del sistema delle competenze e di ricentralizzazione di alcune materie,
conformemente a quanto già prodotto dalla giurisprudenza costituzionale, la novità più
significativa era rappresentata dall'abrogazione della competenza concorrente e dalla confluenza
di buona parte delle materie ivi contemplate nella competenza esclusiva statale, ex art. 117.2
Cost.
Numerose materie vi confluivano interamente, come coordinamento della finanza pubblica e del
sistema tributario, ordinamento scolastico, istruzione universitaria e programmazione strategica
della ricerca scientifica e tecnologica, previdenza complementare e integrativa, tutela e sicurezza
del lavoro, politiche attive del lavoro, commercio con l'estero, valorizzazione dei beni culturali e
paesaggistici, ordinamento sportivo, ordinamento delle professioni e della comunicazione, sistema
nazionale e coordinamento della protezione civile, produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell'energia, infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse
nazionale e relative norme di sicurezza, porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e
internazionale. Altre materie venivano inserite nell'elenco ex novo, come norme sul procedimento
amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche tese ad assicurare l'uniformità sul territorio nazionale. In molti altri casi la confluenza
avveniva attribuendo alla competenza esclusiva statale la sola titolarità sulle disposizioni generali e
comuni, come già era previsto per l'istruzione, riproducendo così sostanzialmente una nuova
concorrenza regionale per la disciplina di dettaglio che residuata, come nel caso della tutela della
salute, delle politiche sociali e della sicurezza alimentare, dell'istruzione e formazione
professionale, delle attività culturali e turismo, del governo del territorio. Un'autentica
competenza concorrente era contemplata per le disposizioni di principio sulle forme associative
dei comuni, ferma restando la competenza in capo allo Stato dell'ordinamento, della legislazione
elettorale, degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di comuni e città metropolitane.
L'art. 117.3 elencava espressamente, ma non tassativamente, tutta una serie di materie di
competenza esclusiva regionale, in sostanza esplicitando e dettagliando gli ambiti che sarebbero
rimasti a fronte delle discipline generali e comuni statali più sopra indicate ed enucleando ambiti
tradizionali di competenza regionale, mantenendo la clausola finale di residualità.
L'oggettiva contrazione della competenza regionale veniva controbilanciata dalla conferma della
facoltà per lo Stato di delegare alle regioni l'esercizio della potestà regolamentare nelle materie di
sua competenza legislativa esclusiva (art. 117.6 Cost.), ma soprattutto rendendo più semplice il
procedimento di conferimento di «forme e condizioni particolari di autonomia» ex art. 116.3
Cost., richiedendo la maggioranza semplice per la legge di attribuzione, elencando tassativamente
le materie di competenza esclusiva statale nelle quali chiedere ulteriori funzioni,
Un elemento significativo, ancorché problematico, di novità era contemplato all'art. 117.4 Cost.,
ovvero la previsione di una sorta di supremacy clause, con la possibilità per la legge dello Stato, su
proposta del governo di intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo
richiedesse «la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela
dell'interesse nazionale». Come più sopra evidenziato, il parere negativo del Senato su questa
legge poteva essere superato dalla Camera dei deputati solo con una nuova deliberazione a
maggioranza assoluta dei componenti (art. 70.4 Cost.). Analogo coinvolgimento del Senato, sotto
forma di parere, era contemplato per l'attivazione del potere sostitutivo ex art. 120.2 Cost., ove si
prevedeva inoltre che la legge di definizione delle procedure avrebbe stabilito «i casi di esclusione
dei titolari di organi di governo regionali e locali dall'esercizio delle rispettive funzioni» nell'ipotesi
di accertamento dello stato di grave dissesto finanziario dell'ente.
Nessuna modifica era disposta per gli organi di governo e la forma di governo regionale, salva la
definizione di un limite agli emolumenti di consiglieri regionali, presidente e componenti della
giunta, che non potevano superare quelli dei sindaci dei comuni capoluogo di regione (art. 122.1
Cost.).
Come anticipato, la bocciatura del testo in sede referendaria, il 4 dicembre 2016, ha lasciato
aperte le problematiche di un difetto di rappresentanza delle regioni al centro, soprattutto di
incidenza nel procedimento legislativo, e di una forse necessaria rimodulazione del sistema delle
competenze, a fronte dell'oramai alluvionale giurisprudenza costituzionale in argomento, che ha
in parte «ricalibrato», se non «riscritto», il modello testuale.
Non pare di certo casuale che a seguito della bocciatura di una riforma costituzionale che
riportava formalmente allo Stato importanti competenze si sia registrata, sul finire della XVII
legislatura, una tendenza di segno opposto, ovvero, la richiesta da parte di tre regioni (Lombardia,
Veneto ed Emilia-Romagna; nei primi due casi richieste precedute da referendum consultivi,
svoltisi il 22 ottobre 2017) di attivare la procedura di conferimento di «ulteriori forme e condizioni
particolari di autonomia», ai sensi dell'art. 116.3 Cost. Con queste regioni, in data 28 febbraio
2018, il governo ha formalizzato tre accordi preliminari, propedeutici alla formalizzazione
delle intese.
UNITÀ E ARTICOLAZIONE DELLA REPUBBLICA
PRINCIPIO DI UNITÀ E PRINCIPIO DI AUTONOMIA
(Sanciti entrambi dall’Art. 5 Cost.)
Qualunque ordinamento giuridico che ripartisca i propri poteri su base territoriale individua al
contempo un equilibrio tra due principi: quello di autonomia, che consente agli enti territoriali di
assumere un proprio indirizzo politico anche in contrapposizione al governo centrale, e quello di
unità, che impone un limite alla differenziazione in nome di valori avvertiti come essenziali per
l'intera comunità politica. E questo equilibrio scaturisce in parte dal diritto positivo e in parte
dall'esperienza, intesa come prassi applicativa delle previsioni normative, destinata a evolvere nel
tempo.
Il riparto delle attribuzioni tra potere centrale e autonomie territoriali dipende infatti, e
innanzitutto, dalle regole costituzionali sul potere legislativo, amministrativo e giudiziario: e
abbiamo visto nel capitolo dedicato alle diverse esperienze degli Stati federali e regionali come le
rispettive costituzioni stabiliscano, ciascuna in maniera differente, quali competenze spettino al
governo centrale e quali agli enti autonomi. E così, solo per riprendere qualche esempio: Stati
Uniti e Germania ripartiscono tra la federazione e le sue componenti territoriali (Stati membri e
Länder), non solo il potere legislativo ed esecutivo, ma anche quello giudiziario che, viceversa,
Spagna e Italia riservano in via esclusiva al governo centrale.
L'equilibrio tra i principi di unità e autonomia si determina però anche alla luce delle vicende
storiche, istituzionali, economiche e sociali che un ordinamento attraversa nel tempo, e che
condizionano l'interpretazione e l'applicazione delle regole costituzionali. Facciamo qualche
esempio: il GG (la Costituzione tedesca) prevede che non solo al Bund ma anche ai Länder
spettino ampie competenze normative; e tuttavia, le vicende politiche dell'ordinamento tedesco
dal 1948 a oggi hanno portato a quello che si suole definire federalismo d'esecuzione, poiché
Bund e Länder, con accordi di natura politica e meccanismi ispirati alla leale collaborazione, hanno
riservato al primo larga parte dei compiti legislativi e ai secondi una rilevante autonomia in ambito
amministrativo. E ancora, guardando alle vicende oramai secolari dell'ordinamento statunitense, si
può notare come i rapporti di forza tra federazione e Stati membri abbiano sovente oscillato nei
loro equilibri, con un punto di svolta significativo segnato dalla crisi finanziaria del 1929 e dalla
successiva «grande depressione»: un contesto che ha favorito l'espansione delle competenze del
governo federale, con politiche pubbliche guidate dal centro e imposte agli Stati per fronteggiare
l'emergenza economica.
In entrambi i casi citati l'esperienza si è mantenuta all'interno della cornice costituzionale sul
riparto delle attribuzioni, ma ragioni di natura istituzionale, economica o politica hanno favorito
una tra le possibili interpretazioni e applicazioni delle regole giuridiche.
In questo capitolo affronteremo i principi costituzionali generali che caratterizzano il regionalismo
italiano e che delineano la cornice entro cui si collocano le disposizioni sul riparto delle
competenze legislative e amministrative, nonché le regole sull'autonomia finanziaria degli enti
territoriali. Ci occuperemo pertanto dei principi di autonomia - e della conseguente articolazione
dell'ordinamento - e di unità della Repubblica – e dei poteri statali rivolti alla sua tutela –; quindi
del principio di leale collaborazione, solo citato dalla Costituzione (art. 120.2), ma ritenuto dalla
giurisprudenza costituzionale uno dei cardini dei rapporti Stato-autonomie territoriali; infine del
principio di sussidiarietà, introdotto nella Carta costituzionale dalla riforma del 2001.
L’ARTICOLAZIONE DELLA REPUBBLICA
La Costituzione del 1948 ha accompagnato la proclamazione del principio di autonomia
(contenuta nell'art. 5) a un'articolazione dei poteri su base territoriale, prevedendo accanto a
quello statale i livelli di governo regionale, provinciale e comunale. Le autonomie territoriali,
nella prospettiva del Costituente, partecipano alla diversificazione del potere politico e
concorrono così alla concretizzazione del principio democratico e della sovranità popolare (Corte
cost. 829/1988 e 106/2002).

L’ART. 114., PRIMA E DOPO LA RIFORMA DEL 2001


L'originaria formulazione dell'art. 114 Cost. disponeva che «la Repubblica si riparte in regioni,
province e comuni», rispetto ai quali lo Stato era, evidentemente, qualcosa di diverso e maggiore.
Ma la disposizione è stata riscritta dalla riforma costituzionale del 2001, che ha riproposto
l'articolazione della Repubblica in termini di equiordinazione dei livelli di governo statale e
territoriale («La Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane,
dalle regioni e dallo Stato»).

Il principio di equiordinazione va però correttamente inteso: esso non esprime una totale
equiparazione degli enti indicati, che dispongono tra l'altro di poteri profondamente diversi tra
loro (Corte cost. 274/2003); e non intacca nemmeno la sovranità interna dello Stato, dal momento
che l'autonomia di cui godono gli enti territoriali non giunge a determinare una forma di Stato
di matrice federale o confederale (Corte cost. 365/2007). Il pluralismo istituzionale paritario,
affermato oggi dall'art. 114 Cost., accompagna piuttosto l'interpretazione del riparto di
competenze e delle relazioni tra potere centrale ed enti autonomi: viene così esclusa ogni
possibilità di intendere quelle relazioni come un rapporto di gerarchia tra il livello di governo
statale e quelli territoriali e i diversi soggetti istituzionali concorrono – appunto – con pari
dignità alla formazione dell'ordinamento repubblicano, del quale essi fanno parte.
Ciò precisato, le disposizioni costituzionali che seguono l'art. 114 Cost. provvedono poi a ripartire
le attribuzioni tra le diverse articolazioni della Repubblica: e così,
a) quanto alle funzioni normative può dirsi che la potestà di revisione costituzionale spetta
in via esclusiva allo Stato (art. 138 Cost.), quella legislativa ordinaria allo Stato e alle
regioni (art. 117.1 Cost., con l'integrazione dell'art. 118.1 quanto al principio di
sussidiarietà), quella regolamentare anche a comuni, province e città metropolitane (art.
117.6 Cost.), e quella statutaria a regioni ed enti locali (artt. 114.2 e 123 Cost.);
b) le funzioni amministrative sono ripartite tra i diversi livelli di governo in forza dei principi
di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza affermati dall'art. 118 Cost.;
c) infine, la funzione giudiziaria spetta in via esclusiva allo Stato.
Un discorso sull'articolazione della Repubblica deve però completarsi ricordando altri due profili:
la distinzione tra regioni ordinarie e autonomie speciali, da un lato, e il possibile «regionalismo
differenziato» di cui all'art. 116.3 Cost.
Si sono già ripercorse le vicende storiche che hanno condotto Friuli-Venezia Giulia, Sardegna,
Sicilia, Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, Trentino-Alto Adige/Südtirol e all'interno di quest'ultimo le
province autonome di Trento e di Bolzano a disporre di forme e condizioni particolari di
autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali. In questa sede possiamo limitarci a osservare
come convivano un ordinamento generale, dettato dal Titolo V della Parte II della Costituzione,
che contiene le regole sull'autonomia delle regioni ordinarie, e sette ordinamenti speciali, che
contengono le regole, di rango costituzionale, sull'autonomia di ciascuna regione o provincia
speciale.
Così, se mi chiedo quale competenza legislativa spetti a una regione ordinaria, cercherò la
risposta negli artt. 117 ss. della Costituzione; se mi chiedo invece quali siano le competenze
legislative – ad esempio – della regione Sicilia o della provincia autonoma di Trento, sarà ai
rispettivi statuti speciali che dovrò guardare, e in particolare alle singole disposizioni che
disciplinano l'autonomia normativa del singolo ente. Dopo la riforma costituzionale del 2001
l'ordinamento generale del Titolo V e quelli delle autonomie speciali non sono però rigidamente
separati: il legislatore costituzionale ha voluto infatti che il nuovo assetto di competenze previsto
dalla Carta costituzionale valesse anche per una regione speciale qualora più favorevole per essa
di quello contenuto nello statuto di autonomia (la c.d. clausola di maggior favore).
L'articolazione della Repubblica potrebbe poi trovare ulteriori sviluppi alla luce dell'ultimo comma
dell'art. 116 Cost., introdotto con la riforma costituzionale del 2001: disposizione che consente di
differenziare il regime giuridico delle competenze delle regioni ordinarie (ricalcando, almeno in
parte, il modello spagnolo). Partendo dai contenuti, le regioni ordinarie possono acquisire
maggiori competenze di quelle previste dal vigente Titolo V nelle materie di competenza
concorrente di cui all'art. 117.3 Cost. e nelle seguenti materie di competenza esclusiva statale:
organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull'istruzione; tutela dell'ambiente,
dell'ecosistema e dei beni culturali. Venendo al procedimento, le forme e le condizioni di maggiore
autonomia vengono disposte da una legge dello Stato approvata a maggioranza assoluta, sulla
base di un'intesa con la regione interessata (alla quale spetta pure l'iniziativa) e sentiti gli enti
locali. Quanto ai limiti di questa differenziazione, ve ne sono di espressi e di impliciti: il limite
espresso dettato dalla norma costituzionale è il rispetto dei principi di cui all'art. 119 Cost., a
temperare la maggiore autonomia finanziaria che le singole regioni dovessero vedersi riconoscere
a seguito delle accresciute competenze; quanto ai limiti impliciti, è evidente che le maggiori
competenze regionali dovrebbero comunque tenere conto degli interessi unitari che, soprattutto
in materie trasversali come la tutela dell'ambiente, sono riservati in maniera inderogabile alle
competenze statali.
La norma è rimasta a lungo inattuata e solo di recente tre regioni ordinarie Emilia Romagna,
Lombardia e Veneto – hanno avviato il procedimento previsto dall'art. 116 Cost.: le trattative con
lo Stato, avviate tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018, sono attualmente in corso.

IL PRINCIPIO DI UNITÀ DELLA REPUBBLICA E I POTERI STATALI A SUA


TUTELA
Il principio di unità della Repubblica, sancito dall'art. 5 Cost., esprime l'esigenza di salvaguardare
interessi di dimensione nazionale, avvertiti come essenziali per la tenuta dell'ordinamento: la
giurisprudenza costituzionale afferma con nettezza come spetti allo Stato il compito di tutelare
queste istanze unitarie (ad es. Corte cost. 274 e 303/2003; sull'interesse nazionale come clausola
di tutela delle istanze unitarie nel Titolo V previgente).
A questo proposito, è vero che a fondamento di tutte le competenze statali vi è l'esigenza di
tutelare interessi unitari la cui dimensione comporta la chiamata in causa del livello di governo
centrale. In questa sede vogliamo però soffermarci su determinate attribuzioni che, alla luce della
lettera della Costituzione e dell'interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale,
delineano per lo Stato un ruolo di custode dell'unità dell'ordinamento repubblicano, con una
significativa limitazione dell'autonomia regionale e degli enti locali.
A. Partendo dall'ambito legislativo, la tutela degli interessi unitari può leggersi in alcune
attribuzioni riservate allo Stato.
a) Nell'ambito della competenza legislativa esclusiva continuano a rientrare le materie
che, tradizionalmente, costituiscono esplicazione della sovranità statale: sovranità
verso l'esterno, con la gestione dei processi di governo comunitari e dei rapporti di
diritto internazionale con gli altri ordinamenti sovrani (art. 117.2, lett. a), Cost.), e verso
l'interno, con il governo della sicurezza nazionale (art. 117.2, lett. d) e h), Cost.) e
dell'economia (art. 117.2, lett. e), Cost.).
b) Sempre nell'ambito della competenza legislativa esclusiva ex art. 117.2 Cost.,
particolare rilievo meritano le c.d. materie trasversali: non sono veri e propri settori
dell'ordinamento, ma finalità che la Costituzione impone allo Stato di raggiungere e
che, proprio per questo, comportano una potenziale ingerenza in tutte le sfere di
competenza regionale. Si tratta di svariati e qualificati titoli di competenza previsti
dall'art. 117.2 Cost. quali – soprattutto – la tutela della concorrenza (ad es. Corte cost.
239/2016; 285/2016), la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili sociali (ad es. Corte cost. 10/2010; 207/2012) la tutela
dell'ordine pubblico e della sicurezza (Corte cost. 118/2013; 33/2015) la tutela
dell'ambiente e dei beni culturali (Corte cost. 272/2009; 215/2015; 218/2017).
c) Un discorso specifico meritano poi le materie dell'ordinamento civile,
dell'ordinamento penale e della giurisdizione, anch'esse di competenza esclusiva
statale. La prima (l'ordinamento civile) si traduce nell'esigenza di garantire l'uniformità
nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti
giuridici fra privati: ciò comporta che l'autonomia legislativa regionale, anche dopo la
riforma del Titolo V, rimanga confinata alla disciplina dell'attività amministrativa, senza
possibilità di incidere in rilevantissimi settori della vita dei consociati (dal diritto delle
persone a quello della famiglia, dai rapporti contrattuali al diritto commerciale e del
lavoro: ad es. Corte cost. 401/2007; 290/2013; 175/2016). La seconda (l'ordinamento
penale) riserva allo Stato la determinazione delle fattispecie incriminatrici e delle
relative sanzioni, a prescindere dall'ambito materiale al quale afferisca la condotta
vietata: è dunque lo Stato a selezionare, in via esclusiva, i valori meritevoli di tutela
tramite l'esercizio della potestà punitiva e a farlo in relazione all'intero territorio
nazionale. La terza (la giurisdizione) riserva allo Stato e, di conseguenza, inibisce alle
regioni la disciplina delle norme di organizzazione e dei rapporti processuali che devono
dunque risultare uniformi sull'intero territorio nazionale.
d) La grave crisi economica e finanziaria che ha colpito i paesi dell'area euro a far data dal
2007, e le correlate esigenze di contenimento e controllo della spesa pubblica di cui lo
Stato deve rendere conto a livello europeo e internazionale, hanno «stabilizzato»
un'interpretazione particolarmente centralista della materia concorrente del
coordinamento della finanza pubblica: dal momento che la legge dello Stato può
legittimamente
i) condizionare le politiche regionali imponendo vincoli alla spesa corrente degli enti
territoriali in nome, appunto, dell'interesse unitario alla stabilità finanziaria del paese
(ad es. Corte cost. 141/2010; 38/2016);
ii) «riorientare» la spesa pubblica, per una maggiore efficienza del sistema (ad es. Corte
cost. 272/2015);
iii) recuperare risorse inutilizzate al fine di stimolare l'economia (ad es. Corte cost.
69/2016).
Di contro, i principi statali volti al riequilibrio della finanza pubblica debbono consentire
comunque alle regioni di adottare misure alternative per il contenimento della spesa
pubblica, seppure assicurando il medesimo saldo imposto dalla norma statale (ad es.
Corte cost. 64/2016); assumere carattere di transitorietà, se rivolti a mero
contenimento della spesa (ad es. Corte cost. 141/2016); nella giurisprudenza più
recente, valorizzare il carattere «virtuoso» degli enti territoriali che abbiano adottato
politiche di bilancio rigorose (ad es. Corte cost. 272/2015).
La Corte costituzionale ha comunque giudicato illegittimi i tentativi dello Stato di
derogare, in nome della emergenza economica, al riparto di competenze tra regioni e
potere centrale: il risanamento dei conti pubblici e le conseguenti politiche economiche,
seppure dovute nell'adempimento di obblighi assunti sul piano europeo, vanno infatti
perseguiti nel rispetto della sfera di attribuzioni delle regioni (ad es. Corte cost.
148/2012).
e) L'art. 81 Cost. è stato oggetto, nel 2012, di una riforma costituzionale che ha espresso, in
generale, «istanze unificanti» (Corte cost. 61/2018). In particolare, alla luce della
riformulata disposizione costituzionale, la legge di bilancio dello Stato e le leggi
finanziarie che prevedano interventi strutturali volti a favorire lo sviluppo e la crescita
economica del Paese sono espressione di una competenza del potere centrale volta a
guidare e programmare la politica economica nazionale, al di là dei singoli titoli di
competenza materiale; tuttavia, è pur sempre necessario il rispetto del principio di leale
collaborazione, che deve comportare un adeguato coinvolgimento degli enti territoriali
(cfr. sempre Corte cost. 61/2018). Si tratta di una prospettiva almeno in parte innovativa
nella giurisprudenza costituzionale, che individua così un preciso ancoraggio
costituzionale all'elaborazione di politiche economiche nazionali, indicando anche le
coordinate per un loro contemperamento con l'autonomia regionale.
f) Infine, la chiamata in sussidiarietà: si tratta di un istituto elaborato dalla giurisprudenza
costituzionale che, finalizzato alla tutela delle esigenze unitarie, introduce una clausola
elastica di riparto delle competenze muovendo dal principio di sussidiarietà verticale ex
art. 118.1 Cost. Il meccanismo consente allo Stato di recuperare al centro funzioni
amministrative e legislative anche al di là del riparto delle materie contenuto nell'art.
117 Cost., costruendo così delle politiche pubbliche a tutela di particolari interessi unitari
(Corte cost. 303/2003).
B. L'art. 120.2 Cost. prevede un potere di intervento governativo nei confronti degli organi
di regioni ed enti locali in tre ipotesi: il mancato rispetto di norme e trattati
internazionali o della normativa comunitaria; il pericolo grave per l'incolumità e la
sicurezza pubblica; la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica dell'ordinamento,
e in particolare dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Per
la giurisprudenza costituzionale si tratta di un potere sostitutivo dal carattere aggiuntivo
rispetto ad altre ipotesi di sostituzione e straordinario, poiché volto a fronteggiare
emergenze istituzionali di particolare gravità che comportano il rischio di compromettere
interessi essenziali della Repubblica; in conclusione, di uno strumento a tutela dell'unità
e indivisibilità della Repubblica, garantita dall'art. 5 Cost. e perciò affidata alla
responsabilità dello Stato (Corte cost. 43/2004: sul procedimento sostitutivo,
disciplinato dall'art. 8 della legge 131/2003).

LE DIVERSE IPOTESI DI POTERI SOSTITUTIVI STATALI


La Costituzione del 1948 non prevedeva ipotesi di sostituzione statale nei confronti delle
regioni; è stato invece il legislatore ordinario a introdurle, a tutela inizialmente del rispetto degli
obblighi internazionali e comunitari e poi degli interessi nazionali compromessi da eventuali
inerzie normative o amministrative da parte delle regioni (vedi ad es. Corte cost. 177/1988).
La riforma del 2001 ha invece introdotto nella stessa Carta costituzionale la previsione di due
poteri sostitutivi statali:
a) una sostituzione normativa, prevista dall'art. 117.5 Cost., da parte dello Stato nei confronti
delle regioni, nell'ipotesi di inadempimento nell'attuazione e nell'esecuzione di accordi
internazionali e di atti dell'Unione europea;
b) il potere sostitutivo straordinario, introdotto dall'art. 120.2 Cost., le cui regole d'esercizio
sono state dettate dall'art. 8 della legge 131/2003; infine, la giurisprudenza costituzionale ha
legittimato anche
c) una sostituzione ordinaria, che coniuga principio di sussidiarietà e tutela di esigenze unitarie
nel riparto delle funzioni amministrative e opera da parte dello Stato nei confronti di regioni ed
enti locali, e da parte delle regioni nei confronti di comuni e province (la funzione viene
assegnata al livello di governo minore, ma il livello di governo superiore può sostituirsi
nell'esercizio di una competenza a tutela di interessi unitari).

La configurazione del potere sostitutivo ex art. 120.2 Cost. come extrema ratio, a tutela di
valori particolarmente significativi per la tenuta dell'ordinamento nazionale, ha trovato poi
accentuazione almeno sotto diversi profili.
In primo luogo, l'intervento statale sembra destinato a contrastare non solo inerzie regionali e
locali (la mancata adozione di un provvedimento), ma anche inadempimenti nella tutela degli
interessi menzionati dalla disposizione costituzionale (l'adozione cioè di provvedimenti i cui
contenuti sono però insufficienti): lo si desume tanto dal tenore della legge 131/2003
(disposizione attuativa della previsione costituzionale) – che regola l'intervento statale per le
«finalità» previste dall'art. 120 Cost. (art. 8.1) e nei casi di «violazione della normativa
comunitaria (art. 8.2) - quanto da alcune pronunce giurisprudenziali che hanno legittimato la
sostituzione nei casi sia di «mancato» che di «irregolare compimento di attività e relativa
compromissione degli interessi unitari (ad es. Corte cost. 227/2004, riferita a un'ipotesi di
sostituzione ordinaria: con riferimento alla sostituzione straordinaria, Corte cost. 152/2015).
In secondo luogo, l'intervento statale è rivolto a fronteggiare inerzie e inadempimenti non solo
amministrativi, ma anche normativi da parte delle regioni: lo afferma espressamente l'art. 8.1
della legge 131/2003, e la conclusione sembra avallata dalla giurisprudenza costituzionale (così,
seppure incidentalmente, Corte cost. 236/2004).
In terzo luogo, la giurisprudenza costituzionale, coerentemente con i propri assunti sulla natura
straordinaria del potere statale, ha annullato previsioni legislative che introducevano
sostituzioni ex art. 120 Cost. in assenza però di vere e proprie emergenze istituzionali in grado di
compromettere gli interessi tutelati dalla disposizione (Corte cost. 371/2008 e 165/2011).
In quarto luogo, vanno ricordati la prassi legislativa e gli orientamenti giurisprudenziali formatisi
in materia di commissariamento delle regioni per il rientro dai disavanzi sanitari, disposto
proprio in forza dell'art. 120.2 Cost. a tutela dell'unità economica. La giurisprudenza
costituzionale, per un verso, ha negato che gli atti adottati dai commissari ad acta abbiano
natura legislativa (Corte cost. 361/2010; 278/2014); per l'altro, però, ha ammesso che i predetti
atti costituiscano un limite di legittimità per le leggi regionali (ad es. Corte cost. 2/2010;
110/2014; 190/2017) anche solo potenzialmente lesive delle prerogative del commissario (ad
es. Corte cost. 117/2018), avallando inoltre una prassi di atti commissariali che abrogano
disposizioni legislative regionali e che «sostituiscono la legge come base legale per l'adozione di
successivi provvedimenti amministrativi.
Infine, nel quadro degli strumenti a disposizione dello Stato per fronteggiare la crisi economica,
il potere sostitutivo ex art. 120 Cost. è stato riconosciuto come il mezzo per rimediare al
mancato adeguamento delle regioni alle sentenze della Corte costituzionale in materia di
coordinamento della finanza pubblica - quasi una forma di esecuzione coattiva imposta dallo
Stato (Corte cost. 121/2012).
DAL GG ALLA COSTITUZIONE ITALIANA
La tutela dell'«unità giuridica» e dell'«unità economica» dell'ordinamento è una locuzione che il
legislatore costituzionale del 2001 ha copiato dall'art. 72 del GG, destinato alla disciplina della
konkurrierende Gesetzgebung (competenza legislativa concorrente). La Costituzione tedesca
individua però i predetti presupposti come clausola di riparto preventivo delle competenze
legislative tra Bund e Länder, mentre la Costituzione italiana li trasforma in condizioni di
esercizio del potere sostitutivo ai sensi dell'art. 120.2: il problema è che, a prescindere dai
contenuti che si vogliano attribuire all'espressione, tutelare l'unità giuridica o economica
dell'ordinamento costituisce una finalità da perseguire innanzitutto in via normativa e
preventiva, piuttosto che con interventi sostitutivi. E la conferma arriva proprio dalle vicende del
commissariamento di alcune regioni per il rientro dai disavanzi finanziari in materia sanitaria –
di cui si è appena accennato nel testo – per assicurare adeguatamente la tutela dell'«unità
economica» gli atti commissariali, formalmente amministrativi, hanno assunto contenuti
sostanzialmente normativi, abrogando norme di legge, inibendo l'attività legislativa regionale in
quel settore, regolando procedimenti amministrativi: un insieme di attività necessarie per
guidare l'ente regionale nella complessa procedura di riduzione strutturale del deficit nel campo
della sanità.

C. Venendo all'ambito amministrativo, i poteri statali a tutela degli interessi unitari


trovano espressione nella funzione di indirizzo e coordinamento, nella sostituzione
ordinaria e, ancora una volta, nella chiamata in sussidiarietà.
a) La funzione di indirizzo e coordinamento è espressione di un potere statale nei confronti
delle funzioni amministrative regionali introdotto in via legislativa sotto la vigenza
dell'originario Titolo V della Parte II della Costituzione; trova fondamento nell'art. 5
Cost. e deve orientarsi alla tutela di esigenze unitarie non frazionabili (ad es. Corte cost.
150/1982 e 177/1988).
Dopo la riforma costituzionale del 2001 la funzione di indirizzo e coordinamento appare
legittima nelle sole materie di competenza esclusiva statale, ma non in quelle di
competenza concorrente (qualche incertezza sul punto, però, da Corte cost. 45/2008) e
residuale regionale: soluzione affermata dall'art. 8.6 della legge 131/2003, ma
soprattutto fatta propria dalla Corte costituzionale, seppure con pronunce sporadiche
(ad es. sent. 329/2003).
b) I poteri sostitutivi ordinari consentono invece allo Stato di rimediare all'inerzia
regionale nell'adozione di atti amministrativi, qualora ciò comporti un pregiudizio per
gli interessi unitari. Si tratta di una soluzione organizzativa che consente di mantenere la
titolarità della funzione amministrativa in capo all'autonomia territoriale, garantendo
però al potere centrale un intervento in seconda battuta nella misura in cui risulti
necessario a salvaguardia delle esigenze unitarie (Corte cost. 43/2004).
La combinazione di questi due istituti permette dunque al potere centrale una tutela
degli interessi unitari tanto a monte quanto a valle dell'attività amministrativa
regionale: gli atti di indirizzo e coordinamento, infatti, orientano l'attività regionale nel
rispetto delle esigenze unitarie; qualora poi queste ultime trovino compromissione dalla
mancata adozione di atti e provvedimenti amministrativi, ecco che può scattare la
sostituzione da parte dello Stato nei confronti della regione inadempiente.
c) Venendo infine alla chiamata in sussidiarietà, l’istituto è stato originariamente
elaborato dalla giurisprudenza costituzionale al fine di consentire uno slittamento verso
il livello di governo statale di funzioni amministrative e legislative altrimenti di
competenza regionale (o locale). La giurisprudenza successiva ne ha però esteso il
campo d’applicazione, consentendo alla legge statale di incunearsi in vario modo nelle
competenze regionali: lo Stato, pertanto, non solo può avocare al centro determinate
funzioni amministrative (Corte cost. 303/2003), ma può anche adottare atti di
programmazione o atti di riparto delle risorse finanziarie che incidono inevitabilmente
sull’autonomia amministrativa degli enti territoriali (ad es. Corte cost. 16/2010); infine,
può perfino dettare regole direttamente cogenti per l'amministrazione regionale,
disciplinandone i procedimenti amministrativi (Corte cost. 88/2007). Si tratta dunque di
un complesso di poteri articolati e penetranti, legittimati dalla tutela di interessi unitari
necessariamente affidati alla cura del potere centrale e tendenzialmente
controbilanciati da meccanismi collaborativi in favore delle regioni.
D. L'art. 126 Cost. assegna allo Stato il potere di scioglimento anticipato del consiglio
regionale e di rimozione del presidente della giunta nelle ipotesi di «gravi violazioni di
legge», «atti contrari alla Costituzione» e per «ragioni di sicurezza nazionale». Si tratta
di un potere sanzionatorio molto forte, la cui attivazione è oltretutto condizionata a
presupposti indeterminati: è da stabilire, infatti, in che cosa consista e in quali
circostanze venga minacciata la sicurezza nazionale; e quando, per contrastare violazioni
di legge o della Costituzione, non bastino più gli ordinari mezzi di tutela giurisdizionale
(ricorso in via d'azione e conflitto di attribuzioni), ma sia necessaria l'adozione di un
provvedimento così dirompente per l'autonomia regionale. Ma proprio da ciò si
comprende la natura di extrema ratio del potere statale, che può attivarsi solamente in
ipotesi di particolare gravità, e quindi di reale compromissione di principi costituzionali
particolarmente rilevanti la cui tutela spetta al potere centrale, garante di interessi
unitari dell'intero ordinamento.
E. Infine, lo Stato ha il potere di impugnare le leggi regionali censurando la violazione di
tutte le disposizioni e i principi, espressi e inespressi, della Carta costituzionale. Mentre
infatti le regioni devono dimostrare che l'atto legislativo dello Stato invade la loro sfera
competenza, il governo può invece denunciare qualunque vizio di incostituzionalità
della legge regionale. Questa asimmetria di posizioni nel giudizio principale, affermata e
ribadita da una costante giurisprudenza della Corte costituzionale, consegna allo Stato il
ruolo di custode del rispetto della Costituzione nella sua integralità: e dunque, in
definitiva, è anche per questa via che passa la tutela da parte del potere centrale degli
interessi unitari (si pensi, solo per fare un esempio, a una legge regionale lesiva del
principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.).

LA LEALE COLLABORAZIONE TRA STATO E REGIONI


Il principio di leale collaborazione impone allo Stato e alle regioni un esercizio delle proprie
competenze che non prevarichi quelle di controparte e contemperi invece interessi statali e
regionali ogniqualvolta questi si sovrappongano. La leale collaborazione è un principio che, nel
silenzio della Costituzione del 1948, la Corte costituzionale aveva ricavato in via deduttiva,
individuandone il fondamento nell'art. 5 Cost. e nel carattere unitario dell'ordinamento il quale
impone una composizione di interessi statali e regionali in concorso tra loro (ad es. Corte cost.
996/1988; sulla progressiva affermazione del principio).
Dopo la riforma del 2001 la leale collaborazione ha trovato espressa menzione nella Carta
costituzionale, ma solo con riferimento alla disciplina d'esercizio del potere sostitutivo previsto
dall'art. 120.2 Cost. , e tuttavia la giurisprudenza costituzionale non ha avuto dubbi nel
confermare la valenza generale del principio che «deve presiedere a tutti i rapporti che
intercorrono tra Stato e regioni» (ad es. Corte cost. 31/2006).
La leale collaborazione, prima ancora che un principio giuridico, rappresenta una condizione
necessaria per il funzionamento di un sistema articolato tra potere centrale e autonomie
territoriali: e lo conferma proprio l'esperienza dell'ordinamento italiano.
Il modello di rapporti tra Stato e regioni, disegnato dalla Costituzione del 1948 e dagli statuti
delle autonomie speciali, si ispirava a un criterio di separazione delle competenze: le materie
perimetravano i campi di competenza legislativa statale e regionale, e le funzioni
amministrative, in nome del principio del parallelismo, seguivano quelle normative. Questo
schema presupponeva la possibilità di configurare attribuzioni rigidamente ripartite, deputate
alla cura di interessi statali o regionali giammai sovrapposti tra loro, e non prevedeva
dunque delle sedi di confronto tra potere centrale e autonomie territoriali per coordinare
l'esercizio dei rispettivi poteri.
La realtà delle cose ha dimostrato però che un modello astratto di questo tipo è destinato a non
funzionare: le materie, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi tendono a sovrapporsi tra
loro (si pensi, solo per fare un esempio fra i tanti possibili, al caso della tutela dell'ambiente che
può intersecare il governo del territorio), e gli interessi di dimensione statale si intrecciano con
quelli regionali (la pianificazione urbanistica del territorio regionale può risultare condizionata,
ad esempio, dalla tutela dell'ambiente imposta con norme statali); inoltre, l'attuazione di
politiche pubbliche non coincide quasi mai con uno solo degli ambiti materiali presenti in
Costituzione (si pensi, ad esempio, a un intervento di sviluppo economico a favore della
produzione di energia da fonti rinnovabili, che interseca le materie della produzione e trasporto
di energia, della tutela dell'ambiente e della concorrenza, del governo del territorio,
dell'industria, delle acque pubbliche). Vero tutto ciò, il «governo di un ordinamento evoluto e di
una società complessa necessita allora di meccanismi di cooperazione tra potere centrale e
autonomie territoriali: le competenze sono attribuite dalla Costituzione, ma il loro esercizio può
richiedere un confronto tra le parti al fine di contemperare interessi di dimensione nazionale e
locale.
Mentre discorso diverso può essere fatto per l'intensità della collaborazione, che viene
calibrata diversamente da ciascun ordinamento federale o regionale.
CONSULTAZIONE, PARERE E INTESE
Quali sono gli strumenti che concretizzano il principio di leale collaborazione nell'ordinamento
italiano? La legislazione vigente, con l'avallo della giurisprudenza costituzionale, ne prevede
sostanzialmente quattro:
a) la consultazione, che implica che si informi la controparte e si prenda atto delle eventuali
ragioni da essa espresse (ti comunico come intendo esercitare una determinata competenza,
dimmi la tua posizione e la terrò in considerazione nella misura in cui non pregiudichi gli
interessi affidati alla mia tutela);
b) il parere, ovvero l'obbligo di richiedere la formulazione di puntuali ragioni favorevoli o
contrarie alle prospettate modalità di esercizio di una competenza (devo necessariamente
chiederti di prendere posizione e devo tenere conto di quanto mi dici, ma posso superare il
dissenso con una ragionevole motivazione);
c) l'intesa in senso debole, ovvero la ricerca di un accordo come condizione di esercizio di una
competenza (devo fare quanto possibile per raggiungere un accordo, ma in caso contrario
posso esercitare la competenza motivando le ragioni della mancata intesa);
d) l'intesa in senso forte, ovvero l'accordo come presupposto per l'esercizio di una competenza
(se l'accordo non si trova non posso superare unilateralmente il dissenso della controparte).

ACCORDI E INTESE
Il d.lgs. 281/1997 prevede, accanto al parere e all'intesa, anche l'accordo come strumento di
concretizzazione del principio di leale collaborazione (mentre una norma ancor più generale
sugli accordi tra pubbliche amministrazioni è contenuta nell'art. 15 della legge 241/2990).
Si tratta di un istituto che, secondo parte della dottrina, deve distinguersi dall'intesa poiché:
a) ha carattere facoltativo;
b) non necessita di previsioni legislative puntuali, ma è lasciato alla libera iniziativa delle parti;
c) introduce un vincolo meramente politico, e non vi sono regole giuridiche che disciplinino le
ipotesi di mancato consenso;
d) non ha un oggetto predeterminato, potendo variare dal coordinamento delle rispettive
normazioni all'adozione di politiche comuni tra Stato e regioni. Va detto però che, se è vero che
il d.lgs. 281/1997 riserva alle sole intese - e ai pareri – una disciplina giuridica del
procedimento, la legislazione statale successiva ricorre ai due termini in maniera del tutto
promiscua: qualificando talvolta come «intese» atti che paiono disciplinati come accordi e
riservando ad «accordi» le regole più stringenti previste per le intese. Sicché, in definitiva,
spetta all'interprete valutare, di volta in volta, la natura degli atti stipulati tra Stato e
regioni, e prima ancora i contenuti delle disposizioni di legge che eventualmente li disciplinano.

Chi è poi la controparte dello Stato nei meccanismi di leale collaborazione?


Ovvero, chi deve essere consultato, o fornire il parere richiesto o stipulare le intese previste da
una norma di legge? Si tratterà della singola regione nell'ipotesi di provvedimenti che incidano
solamente sul suo territorio (si pensi, ad esempio, alla localizzazione di un'opera pubblica, o ai
provvedimenti di gestione di una determinata autorità portuale di una città); oppure della
Conferenza Stato-regioni, nel caso di atti statali che tocchino interessi ascrivibili a tutte le
autonomie regionali (si pensi all'adozione di atti normativi, di programmazione o di riparto
delle risorse finanziarie).

Leale collaborazione e poteri legislativi statali


Quanto all'ambito di applicazione del principio, va detto che la leale collaborazione, salvo una
rilevante eccezione, non condiziona il procedimento di formazione della legge e degli atti con forza
di legge, ma ne può vincolare i contenuti nel senso di prescrivere che in sede di attuazione vi siano
adeguate forme di cooperazione con gli enti territoriali. Il punto va chiarito: un provvedimento
legislativo statale può incidere anche su interessi regionali, ma ciò non significa che nel
procedimento di formazione lo Stato debba raggiungere un'intesa con le regioni; la leale
collaborazione impone piuttosto alla legge statale di prevedere adeguati strumenti (consultazioni,
pareri, intese) che in sede di attuazione (adozione di fonti regolamentari, o atti amministrativi
generali) e applicazione (adozione di provvedimenti amministrativi) di quella legge coinvolgano le
regioni interessate; e lo Stato deve poi rispettare l'accordo raggiunto con la regione, a pena di
illegittimità degli atti adottati. Facciamo un esempio: lo Stato può disciplinare i procedimenti per la
realizzazione di infrastrutture strategiche per il paese, e lo può fare senza dover concordare con le
autonomie territoriali i contenuti del provvedimento legislativo; tuttavia, nel momento in
cui si debba poi localizzare sul territorio una determinata opera, ecco che il principio di leale
collaborazione impone un coinvolgimento con la regione interessata nell'adozione del relativo
provvedimento (poiché la scelta del dove collocare l'infrastruttura tocca interessi affidati alla cura
della regione - ad esempio, in materia di pianificazione urbanistica, di commercio e industria, di
viabilità). Se lo Stato agisce unilateralmente, o non rispetta l'accordo raggiunto con la regione
(localizzando l'opera in un punto diverso del territorio regionale rispetto a quanto deciso assieme),
quest'ultima può tutelare le proprie competenze ricorrendo alla Corte costituzionale e sollevando
un conflitto di attribuzioni per ottenere l'annullamento dei provvedimenti amministrativi adottati
dallo Stato, in quanto lesivi del principio di leale collaborazione.
La regola, come dicevamo, conosce un'eccezione: in una recente e importante pronuncia, infatti, è
stato riconosciuto che qualora
a) il legislatore statale abbia optato per il modulo della delega legislativa ex art. 76 Cost.;
b) l'intervento legislativo riguardi una pluralità di materie sia di competenza statale che regionale,
legate tra loro «in un intreccio inestricabile;
c) non sia possibile individuare una materia prevalente sulle altre, ebbene, in tale ipotesi il
Governo deve, in nome del principio di leale collaborazione, raggiungere un'intesa con la
Conferenza Stato-regioni al fine di concordare i contenuti dei decreti legislativi delegati (Corte
cost. 251/2016).
Il principio di leale collaborazione costituisce dunque uno dei fondamenti sui quali poggia l'assetto
dei rapporti tra Stato e regioni: ma a tale enunciazione deve accompagnarsi una riflessione sulla
reale portata applicativa del principio e sui riflessi nelle dinamiche tra potere centrale e
autonomie territoriali.
a) La leale collaborazione è stata teorizzata dalla dottrina e formulata dalla giurisprudenza
costituzionale come contrappeso alla supremazia statale. Il potere centrale può e deve farsi carico
di assicurare una tutela adeguata agli interessi unitari, limitando e conformando l'ampiezza delle
attribuzioni regionali: ma i meccanismi di cooperazione consentono di temperare questa
prevalenza delle istanze unitarie, assicurando un coinvolgimento regionale nelle decisioni statali.
Se guardiamo però alla prassi e alle modalità con cui la leale collaborazione si è concretizzata, è
diffusa l'impressione che il principio si sia tradotto più di frequente in una ulteriore limitazione
delle attribuzioni regionali, piuttosto che in una reale compartecipazione delle autonomie
territoriali alle scelte dello Stato: in questa direzione si possono ricordare alcuni fenomeni come il
ritorno allo Stato di competenze altrimenti regionali, con previsione – come contropartita – di
meccanismi di leale collaborazione; oppure l'assimilazione tra intese c.d. deboli e forti, con le
seconde che – nonostante le enunciazioni di principio – non si traducono in strumenti di
codecisione paritaria, perché lo Stato può procedere anche in caso di espresso dissenso delle
regioni; e ancora l'evoluzione della chiamata in sussidiarietà, nella quale originariamente la leale
collaborazione portava Stato e regioni a individuare assieme gli interessi unitari da tutelare,
mentre, nella giurisprudenza successiva alla sentenza 303/2003, il principio si traduce nella
previsione di consultazioni, pareri e intese a valle di decisioni statali assunte unilateralmente. È
per queste ragioni che, sia sotto la vigenza del Titolo V originario quanto dopo la riforma del 2001,
si è talora parlato non tanto di leale collaborazione, ma piuttosto di pseudocollaborazione tra
Stato e regioni, con le seconde fortemente penalizzate dalle prassi applicative del principio.
b) Abbiamo osservato come la giurisprudenza costituzionale sia ferma nell'escludere che la leale
collaborazione condizioni il procedimento di formazione degli atti legislativi statali, con
l'eccezione per un'ipotesi peculiare (delega legislativa, «intreccio inestricabile di competenze»,
obbligo di intesa governo Conferenza Stato-regioni prima della adozione dei decreti delegati:
Corte cost. n. 251/2016): perché ciò accada in generale sarebbe necessaria una modifica delle
relative disposizioni costituzionali (gli artt. 72, 76 e 77 Cost.), in assenza della quale non è
consentito introdurre vincoli procedurali che si traducano in condizioni di legittimità delle leggi e
degli atti con forza di legge (ad es. Corte cost. 437/2001; 278/2010). Si tratta di una conclusione
convincente, poiché difende la precettività degli enunciati costituzionali in materia di fonti del
diritto: tuttavia è innegabile che una leale collaborazione limitata al versante dell'attuazione e
dell'applicazione delle leggi rappresenti un temperamento assai blando alla supremazia statale,
con due conseguenze rilevanti nell'assetto complessivo dei rapporti tra Stato e regioni. In primo
luogo, la mancata partecipazione regionale alla formazione degli atti legislativi impedisce una
sintesi condivisa tra interessi statali e regionali sin dal livello delle fonti primarie; in secondo luogo,
e come conseguenza di ciò, mancando a monte una condivisione delle scelte legislative, il
confronto tra Stato e regioni si trasferisce, a valle, in sede giudiziaria, con un contenzioso assai
frequente su leggi e atti con forza di legge statali.

Accordi a monte del procedimento legislativo e intese stipulate nel corso del procedimento
legislativo
Stato e autonomie territoriali (regioni ed enti locali) raggiungono un accordo per il finanziamento di un
fondo, con risorse da ripartire in favore delle regioni, in materia di protezione civile: la legge finanziaria
statale disattende però l'impegno assunto; le regioni lamentano la rottura dell'intesa e, di conseguenza, la
violazione del principio di leale collaborazione, ricorrendo perciò alla Corte costituzionale. Ma il giudice
delle leggi è ancora una volta fermo nel ribadire il proprio indirizzo giurisprudenziale: «il principio di leale
collaborazione fra Stato e regioni non può essere dilatato fino a trarne condizionamenti, non altrimenti
riconducibili alla Costituzione, rispetto alla formazione e al contenuto delle leggi» (Corte cost. 437/2001;
nella giurisprudenza successiva, vedi ad es. Corte cost. 1/2008 e 88/2009). La posizione del giudice
costituzionale è chiara: in assenza di una modifica della Costituzione, che preveda vincoli di procedimento e
di contenuto in nome della leale collaborazione, gli accordi raggiunti tra Stato e regioni a monte della
stesura di un provvedimento legislativo assumono un valore meramente politico, e non giuridico.
Invece, nel caso di delega legislativa ex art. 76 Cost. e «intreccio inestricabile» di competenze statali e
regionali, il Governo deve, in nome della leale collaborazione, acquisire l'intesa con la Conferenza Stato-
regioni prima di adottare i decreti legislativi delegati (Corte cost. n. 251/2016). È evidente però come in
questa ipotesi l'accordo intervenga all'interno del procedimento legislativo, e ricalchi uno schema già
conosciuto nel nostro sistema delle fonti (si ammette infatti, in generale, che l'adozione del decreto
legislativo delegato ex art. 76 possa venire condizionata, a pena di illegittimità, da particolari oneri
procedurali).

c) La leale collaborazione è nata come un principio inespresso, ricavato in via interpretativa


dalla giurisprudenza costituzionale: la sua attuazione, con strumenti concreti, è stata - ed è
affidata al legislatore ordinario, i cui indirizzi sono stati - e sono tuttora - avallati o corretti dalla
Corte. Il risultato di un tale processo è però una obiettiva indeterminatezza dell'ambito di
applicazione del principio e dei suoi contenuti, con un incremento del tasso di contenzioso tra
Stato e regioni. E infatti, se è incontestata l'affermazione di principio per cui la leale
collaborazione non possa mancare in tutte le ipotesi di intreccio fra interessi statali e regionali,
non è poi così semplice, in concreto, decidere quando una determinata fattispecie di concorso
di competenze determini davvero l'esigenza di prevedere meccanismi di cooperazione; e così,
tanto per fare un esempio, vi sono stati perfino dei casi di chiamata in sussidiarietà che la
Corte costituzionale, in ragione del rilievo delle esigenze unitarie coinvolte, ha ritenuto
legittimi anche se privi di strumenti di leale collaborazione (Corte cost. 423/2004 e 151/2005).
Non solo:
a risultare indeterminati sono soprattutto i criteri con cui decidere quale, tra i diversi istituti,
traduca adeguatamente, nel caso concreto, le esigenze della leale collaborazione. Insomma:
come stabilire se sia necessario prevedere una semplice consultazione, l'obbligo di richiedere
un parere motivato, un'intesa debole oppure forte? È la stessa Corte costituzionale a dirci che
si tratta di una valutazione da compiere caso per caso, tenendo conto della rilevanza degli
interessi regionali e statali in gioco (ad es. Corte cost. 62/2005); ma quest'ampia discrezionalità
in capo al legislatore statale, unitamente all'assenza di una partecipazione vincolante al
procedimento legislativo da parte regionale, finisce inevitabilmente con l'accentuare il
contenzioso tra Stato e regioni.

Le diverse – e imprevedibili – facce della leale collaborazione: un caso esemplare


Il caso è noto, proprio perché costituisce un buon esempio di intervento «correttivo» della
Corte costituzionale che riscrive disposizioni di legge statale introducendo – o modificando – gli
strumenti che concretizzano la leale collaborazione. Una legge dello Stato riordina la disciplina delle
attività cinematografiche: a fronte di numerosi ricorsi regionali che lamentavano la lesione di
competenze normative e amministrative, la Corte costituzionale (sent. 285/2005) riconduce
innanzitutto l'intervento legislativo alla materia concorrente della promozione e organizzazione di
attività culturali; ciò premesso, e riconosciuta l'esigenza di una leale collaborazione in rapporto a
svariatissime fattispecie regolate dalla legge, il giudice costituzionale, con una serie di pronunce
additive e sostitutive, riformula decine di disposizioni legislative imponendo il coinvolgimento della
Conferenza Stato-regioni talvolta con intese e talvolta con parere obbligatorio. In particolare, la Corte
osserva come nell'ipotesi di adozione di atti normativi o programmatori appaia «ineludibile» il
meccanismo dell'intesa per concretizzare adeguatamente il principio di leale collaborazione; mentre
nel caso di poteri di nomina, o per la natura tecnica del potere normativo previsto, il coinvolgimento
delle regioni «può limitarsi» a un parere obbligatorio. Peccato che le regole così fissate dalla Corte
risultino piuttosto indeterminate (ad es.: le nomine soggiacciono al parere obbligatorio delle regioni
solo se «di particolare delicatezza»: parametro obiettivamente opinabile). Inoltre, esse valgono per quel
caso, e vengono disattese in altre pronunce (vedi ad es. Corte cost. 27/2004).

d) Esistono davvero le intese forti? «Il mancato raggiungimento dell'intesa costituisce ostacolo
insuperabile alla conclusione del procedimento» (Corte cost. 6/2004): le intese in senso forte (o
paritarie) sembrano dunque configurare un potere di reale codecisione in capo alle parti. Se così
fosse, però, il mancato accordo determinerebbe una situazione di stallo, con pregiudizio degli
interessi in gioco: ad esempio, se Stato e regione devono localizzare di comune accordo
un'infrastruttura strategica sul territorio regionale e non raggiungono un'intesa, la mancata
realizzazione dell'opera pregiudica l'interesse unitario allo sviluppo economico del paese. Il
problema è ben presente allo stesso giudice costituzionale, che infatti ha «invitato» spesso il
legislatore a configurare meccanismi legislativi che, pur ispirandosi anch'essi a principi
collaborativi, consentano di superare la paralisi decisionale (ad esempio, se si deve nominare
d'intesa l'organo di vertice di un'autorità amministrativa e non si raggiunge un accordo, lo Stato
può proporre una terna di nomi alla regione e, in caso di mancata scelta, procedere alla nomina di
uno dei tre candidati proposti; oppure, invitare la regione a formulare una terna di nomi, nella
quale poi individuare il prescelto). Se così è, la distinzione tra intese deboli e intese forti finisce
inevitabilmente con lo sfumare: il dissenso regionale, in entrambe le ipotesi, non può mai
costituire un ostacolo insormontabile all'esercizio di una competenza ma, al contempo, non può
venire ignorato dallo Stato. Diverse sono piuttosto le conseguenze giuridiche di una mancata
intesa: un obbligo di motivazione in capo allo Stato nel caso di intese deboli, per spiegare le
ragioni del mancato accordo (ad es. Corte cost. n. 1/2016); un ulteriore meccanismo ispirato alla
leale collaborazione per evitare una situazione di stallo, nell'ipotesi invece di intese forti.
Inoltre, a conferma della difficoltà di ricostruire in maniera sistematica la giurisprudenza della
Corte, non vanno dimenticate quelle pronunce che anche in presenza di una intesa in senso forte
ammettono comunque, qualora le ulteriori procedure cooperative siano risultate infruttuose, una
decisione unilaterale da parte dello Stato: si tratta di un'ipotesi che lo stesso giudice costituzionale
valuta come «estrema», ma che contribuisce ulteriormente a sfumare le differenze tra tipologie di
intesa (ad es., Corte cost. 179/2012; 7/2016).
Divide et impera? La collaborazione «a strappi» dello Stato con regioni e comuni
Lo Stato, la regione e un comune trovano un'intesa per la realizzazione di un'opera pubblica una
metropolitana «leggera» - considerata di interesse strategico nazionale, tanto da comportare un'attrazione
in sussidiarietà delle competenze regionali in favore del potere centrale; assunti, anche da parte statale,
tutti gli atti amministrativi necessari alla realizzazione dell'infrastruttura, il comune cambia idea e spinge il
governo ad adottare un decreto legge che revoca i finanziamenti; la regione non ritiene legittima questa
rottura unilaterale dei patti assunti, e impugna il provvedimento legislativo. La Corte costituzionale
respinge però le censure regionali osservando, per quanto qui interessa, che il governo può tornare sui
propri passi senza la necessità di un'intesa «uguale e contraria» con la regione, tanto più che la decisione
statale è stata assunta in accordo con l'ente locale interessato (Corte cost. 79/2011). Si tratta però di una
visione della leale collaborazione che lascia perplessi, poiché consente allo Stato di stipulare o disattendere
gli impegni assunti, giocando oltretutto sulla contrapposizione politica, in questo caso, tra regione e
comune (non più) interessato all'opera pubblica.

IL SISTEMA DELLE CONFERENZE


(Vai qui)
La Costituzione del 1948 ha disegnato un assetto istituzionale che non prevede una camera di
rappresentanza delle autonomie territoriali: le due assemblee legislative (Camera dei deputati e
Senato della Repubblica), al di là di alcune differenze nella composizione, realizzano infatti un
bicameralismo perfetto con identità di ruolo e funzioni. Non erano mancate invero, in sede di
Assemblea costituente, voci favorevoli alla presenza al centro degli interessi territoriali, ma le
proposte si erano intrecciate con quelle di chi sosteneva una rappresentanza estesa alle categorie
produttive e professionali, richiamando così troppo da vicino l'esperienza del corporativismo
fascista.
È vero che l'elezione del Senato, ai sensi dell'art. 57 Cost., deve avvenire su base regionale, ma le
regole elettorali che si sono succedute nel tempo non hanno mai conferito all'assemblea il
carattere di organo di rappresentanza delle regioni. Così come, nelle dinamiche dei rapporti tra
Stato e regioni, non ha avuto alcun peso determinante la Commissione bicamerale per le
questioni regionali, prevista dall'art. 126 Cost. e chiamata dai regolamenti parlamentari a
sindacare il rispetto del limite dell'interesse nazionale: la trasposizione di quel limite dalla sfera del
merito a quella della legittimità ha decretato infatti una sostanziale inattività dell'organo.

L'infelice storia della «Bicameralina»


La riforma costituzionale del 2001 aveva previsto invero - come soluzione transitoria, in attesa della
riforma del Senato - un nuovo ruolo per la Commissione bicamerale, demandandone però l'attuazione
ai regolamenti parlamentari. Essi avrebbero dovuto integrarne la composizione con i rappresentanti
delle regioni e degli enti locali: così formata, la Commissione avrebbe potuto formulare pareri
obbligatori su disegni di legge nelle materie concorrenti e in materia finanziaria, l'eventuale dissenso
espresso in Commissione sarebbe risultato superabile solamente con un voto a maggioranza assoluta
dell'assemblea legislativa (art. 11, legge cost. 3/2001). Fatto sta che anche questa «Bicameralina»
(come è stata chiamata nel linguaggio corrente, per evidenziare comunque il carattere minimale di una
simile compartecipazione delle autonomie al procedimento legislativo) non ha trovato alcuna
attuazione a distanza di oltre dieci anni dalla riscrittura del Titolo V.

Ciò che invece ha concretizzato il principio di leale collaborazione a livello istituzionale sono stati
l'introduzione e il progressivo consolidamento del c.d. sistema delle conferenze, ovvero la
previsione della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province
autonome. Si tratta di organismi a composizione mista, formati cioè da rappresentanti dello Stato
e delle autonomie territoriali, titolari di svariati poteri di intervento nella formazione degli atti
normativi e nei processi decisionali che riguardano interessi comuni.
Ma al di là delle attribuzioni formali che la legge assegna loro, le conferenze sono oggi la sede del
confronto politico tra lo Stato, le regioni e gli enti locali benché non menzionate in Costituzione -
e ciò nemmeno dopo la riforma del 2001 – e disciplinate da semplici fonti primarie, hanno visto
crescere nel tempo e consolidarsi il loro ruolo politico di «organi» di rappresentanza degli interessi
territoriali, supplendo così all'assenza di soluzioni istituzionali di rango costituzionale (spesso
annunciate, ma mai realizzate nel corso di tutti questi anni).

CONFERENZA STATO-REGIONI
Composizione, attribuzione e procedure della Conferenza Stato-regioni sono disciplinate in via
generale dal d.lgs. 281/1997, al quale però si affiancano svariate fonti legislative che attribuiscono
alla Conferenza ulteriori competenze (si pensi, ad es., all'art. 5 della legge 11/2005, in materia di
formazione del diritto comunitario) o che prevedono, in relazione a puntuali fattispecie normative,
l'obbligo di consultazione o di intesa con lo Stato.
Per quanto riguarda la composizione, ne fanno parte di diritto da un lato i presidenti di tutte le
regioni nonché delle due province autonome di Trento e di Bolzano; dall'altro il presidente dBel
Consiglio dei ministri (oppure un ministro su sua delega), al quale spetta anche la presidenza
dell'organo. Ai lavori della Conferenza possono poi essere invitati, di volta in volta, ministri o
rappresentanti
di pubbliche amministrazioni interessati agli argomenti affrontati.

LA CONFERENZA STATO-CITTÀ E LA CONFERENZA UNIFICATA


La Conferenza Stato-città e autonomie locali rappresenta la sede istituzionale di confronto tra il potere
centrale e le autonomie territoriali subregionali. È composta, per parte statale, dal presidente del Consiglio
dei ministri (o dal ministro dell'Interno o per gli Affari regionali) che la presiede, dai ministri dell'Economia
e delle Finanze, delle Infrastrutture, dei Trasporti, e della Salute; per gli enti locali, dai presidenti dell'ANCI
(Associazioni nazionale dei comuni d'Italia), dell'UPI (Unione province d’Italia), dell'UNCEM (Unione
nazionale comuni, comunità ed enti montani), da quattordici sindaci designati dall'ANCI e da sei presidenti
di provincia designati dall'UPI. Per quanto riguarda le attribuzioni, le più rilevanti sono il coordinamento nei
rapporti tra lo Stato e le autonomie locali, e la discussione e l'esame dei profili attinenti alle politiche
finanziarie in materia di enti locali, all'esercizio delle funzioni e alla gestione dei servizi pubblici.
La Conferenza unificata è costituita dai componenti delle due conferenze Stato-regioni e Stato-città ed è
presieduta dal presidente del Consiglio dei ministri (o dal ministro dell'Interno o per gli Affari regionali);
quanto alle attribuzioni più rilevanti:
a) esprime pareri su provvedimenti statali particolarmente qualificanti (disegno di legge finanziaria,
documento di programmazione economica e finanziaria; schemi di decreto legislativo di trasferimento di
funzioni dallo Stato alle autonomie territoriali;
b) promuove e sancisce intese tra governo e autonomie territoriali, nonché accordi al fine di coordinare
l'esercizio delle rispettive competenze e svolgere in collaborazione attività di interesse comune (la disciplina
del procedimento relativo alla mancata intesa o all'urgenza è analogo a quello stabilito per la Conferenza
Stato-regioni);
c) in generale, è comunque competente in tutti i casi nei quali la Conferenza Stato-regioni e la Conferenza
Stato-città e autonomie locali debbano esprimersi su un medesimo oggetto.

Per quanto riguarda le attribuzioni, la tipologia delle competenze spettante alla Conferenza può
essere così specificata:
1) poteri di intervento nei processi normativi statali (promozione e conclusione di accordi
e intese; formulazione di pareri sui disegni di legge o di decreto legislativo o di
regolamento del governo nelle materie di competenza regionale; elaborazione di
proposte normative al governo);
2) poteri di partecipazione ad altri processi decisionali (coordinamento della
programmazione statale e regionale; determinazione dei criteri di riparto delle risorse
finanziarie; definizione di indirizzi; ancora la stipula di accordi e intese);
3) poteri di nomina (indicazione di rappresentanti regionali in organismi a composizione
mista Stato-regioni, e di responsabili di enti o organismi).
Per quanto riguarda infine le procedure di funzionamento, va ricordato in primo luogo che la
Conferenza Stato-regioni deve riunirsi almeno una volta ogni sei mesi; ma in realtà la
convocazione è molto più frequente, e avviene tutte le volte che sia necessario, anche su
richiesta dei presidenti delle regioni. Inoltre, il d.lgs. 281/1997 detta regole precise nelle ipotesi
di intese e pareri obbligatori su atti normativi dello Stato. E così, quanto alle intese, esse
debbono raggiungersi entro trenta giorni dalla prima riunione della Conferenza che abbia
all'ordine del giorno la proposta statale; in difetto e anche nei casi di urgenza (che va peraltro
giustificata), il governo può procedere unilateralmente ma motivando congruamente le ragioni
del mancato accordo e con l'obbligo di sottoporre i provvedimenti adottati alla Conferenza per
eventuali osservazioni delle quali l'esecutivo deve tenere conto (il che significa che quanto
meno il governo dovrà motivare le ragioni che lo portano a ignorare le osservazioni formulate
dalle regioni). Quanto ai pareri, la procedura è simile: la Conferenza deve produrli entro venti
giorni dalla richiesta, e in difetto lo Stato può procedere; in caso di urgenza scatta l'obbligo di
sottoporre i provvedimenti già adottati alla Conferenza, e il governo deve tenere conto delle
eventuali osservazioni.

La Conferenza Stato-regioni può decidere a maggioranza?


Il d.lgs. 281/1997 (all'art. 2.2) prevede che la Conferenza Stato-regioni adotti alcune determinazioni
all'unanimità o almeno a maggioranza assoluta dei suoi componenti, ma nulla stabilisce per le intese
con lo Stato; il punto è delicato, poiché è in gioco la possibilità che una regione si veda giuridicamente
vincolata anche in caso di dissenso. La Corte costituzionale ha affrontato il problema con un approccio
orientato alla sostanza piuttosto che alla forma: se la Conferenza è regolarmente convocata, e un
presidente di regione non partecipa e non manifesta formalmente il proprio dissenso sulle posizioni
comuni, le decisioni assunte saranno comunque vincolanti anche per gli assenti (Corte cost. 206/2001).
Ciò che conta, insomma, è la lealtà con cui vengono svolte le procedure che conducono all' intesa con lo
Stato, e la possibilità concreta che ciascuna parte possa far valere le proprie ragioni. Va ricordato
peraltro che, di prassi, le riunioni delle conferenze «ratificano» decisioni concordate tra i presidenti di
regione in sedi formali (come la Conferenza dei presidenti, istituita dalle regioni appunto al fine di
consentire un confronto politico tra di loro, a monte di decisioni da assumere nel confronto con il
governo e gli enti locali) e informali (come i c.d. tavoli tecnici di confronto tra enti autonomi e potere
centrale); sicché eventuali mediazioni volte a superare i dissensi politici di qualche regione trovano
svolgimento prima della convocazione delle conferenze, nelle quali si assumono decisioni comuni e già
condivise.

Un'analisi delle regole giuridiche che presiedono al funzionamento della Conferenza Stato-
regioni deve però accompagnarsi anche a un'indagine sulla prassi (estesa anche alle altre due
conferenze): poiché è guardando alle dinamiche reali dei rapporti tra Stato e regioni che può
comprendersi appieno natura e ruolo del sistema delle conferenze nell'assetto costituzionale
italiano. E così, un primo dato da evidenziare è quello relativo agli ambiti materiali sui quali le
conferenze sono chiamate a esprimersi, in sede di elaborazione degli atti normativi. Le materie
oggetto di «negoziato» vanno infatti ben al di là di quelle di competenza concorrente di cui
all'art. 117.2 Cost. , risultando frequente che Stato e regioni concorrano nell'elaborare
provvedimenti in materie esclusive statali (come ad es. l'immigrazione), oppure residuali
regionali (ad es. il turismo). Un secondo dato dimostra la crescita quantitativa dell'attività delle
conferenze, chiamate a esprimere con grande frequenza pareri, intese o accordi sulle politiche
pubbliche. Un terzo elemento evidenzia l'attivismo delle conferenze che, nelle ipotesi di
mancato accordo con il governo, si rivolgono al Parlamento, destinatario di proposte informali
o richieste di audizione nelle commissioni competenti.
Un quarto elemento testimonia invece la capacità di contrapposizione politica delle conferenze
nei confronti del potere centrale, e ciò al di là delle appartenenze politiche dei singoli
presidenti di regione, di provincia o dei sindaci: tanto nell'approvazione delle leggi finanziarie
annuali quanto nell'adozione di altri provvedimenti particolarmente significativi per l'azione del
governo centrale (si pensi, ad es., al c.d. «piano casa» nel 2009 o alla legge sul nucleare nel
2010) le autonomie territoriali hanno rallentato o disertato i lavori delle conferenze,
contestando – a volte con successo, altre meno – le decisioni statali.
Tale situazione è tuttavia mutata nel tempo: la grave crisi finanziaria ed economica nella quale
è caduto il Paese ha determinato, in generale, un ridimensionamento del ruolo politico delle
regioni a scapito del potere centrale, chiamato a governare una situazione di «emergenza»
protrattasi per lunghi anni - a partire dal 2011. Anche il sistema delle conferenze ne ha in
parte risentito: non, forse, dal punto di vista delle concrete attività che sono proseguite, ma
certamente con riferimento al «peso» politico delle conferenze nelle dinamiche del governo
nazionale.
In conclusione, è diffusa la convinzione che il sistema delle conferenze sia venuto conquistando
un ruolo politico e istituzionale che va ben oltre le competenze formali assegnate dalla legge -
seppure tale ruolo risulti in parte ridimensionato negli anni della emergenza economica. Si
tratta comunque di una vicenda che presenta luci e ombre: in positivo, può rimarcarsi
l'individuazione di sedi di confronto tra Stato e autonomie territoriali che favoriscono
l'elaborazione di politiche comuni la cui attuazione, in un ordinamento policentrico, deve
inevitabilmente contare sulla volontà condivisa dei diversi livelli di governo. In negativo, si
possono sottolineare almeno tre profili: in primo luogo l'informalità delle regole che governano
questi processi collaborativi conduce a svalutare la precettività degli enunciati costituzionali in
ordine al riparto delle competenze (basti pensare che gli ordini del giorno delle conferenze e gli
accordi raggiunti sembrano talvolta ignorare l'intervenuta riforma del Titolo V e le nuove
attribuzioni legislative previste in capo allo Stato e alle regioni); in secondo luogo è innegabile
che, pur registrando un accresciuto peso politico del sistema delle autonomie territoriali, la
collaborazione in sede di conferenze non introduce, in linea di massima, vincoli giuridici nella
formulazione della legislazione statale (con la conseguenza, già rimarcata, di un elevato tasso di
contenzioso); in terzo luogo, al di là delle intese raggiunte o degli accordi sfumati, è diffusa la
tendenza a una continua rinegoziazione da parte delle autonomie territoriali delle politiche
assunte dal potere centrale, con procedure non sempre accompagnate dal necessario grado di
pubblicità: il che non giova alla stabilità degli indirizzi politici assunti dal governo, e rende
difficile per l'opinione pubblica una corretta imputazione della responsabilità politica.

Le seconde camere funzionano?


In un libro divenuto un classico del federalismo (Wheare 1946] si scriveva che «di tutti i Senati federali
esistenti soltanto quello degli Stati Uniti funziona». Questa realtà può dirsi ancora attuale. In tutti gli
Stati, federali o regionali, dove esistono seconde camere di rappresentanza territoriale, queste
dimostrano deficit operativi. Il primo elemento di crisi si ravvisa nella tendenza dei rappresentanti che
siedono nelle seconde camere a seguire logiche partitiche, anziché territoriali. Il secondo elemento di
crisi si ravvisa nella posizione di «eterno secondo che queste camere alte giocano rispetto alla Camera
bassa: quest'ultima rappresenta l'interesse generale e in genere ha competenze maggiori. Il terzo
elemento di crisi è diretta conseguenza della più generale crisi di ruolo che attraversano un po' tutti i
parlamenti esautorati nei circuiti decisionali dalla preminenza degli esecutivi: questo favorisce una
«fuga» degli stessi territori dalla sola rappresentanza parlamentare favorendo la ricerca di contatti con il
governo. Un quarto motivo di crisi deriva dal fatto che la rappresentanza parlamentare è in sé
insufficiente: le regioni in Parlamento partecipano alla decisione sulle leggi, ma a loro serve anche
partecipare alla creazione degli atti che le attuano (regolamenti).
Ma forse le ragioni del fallimento delle seconde camere sono più antiche: a ben vedere, infatti, gli
antenati della rappresentanza territoriale non erano seconde camere, ma organi che dialogavano con il
governo. Anche il primo Stato regionale, la Costituzione spagnola del 1931, era nato con un Parlamento
monocamerale.
Ciononostante, in molti Stati regionali privi della Camera delle regioni si continua a rivendicarne la
presenza. Sicuramente la rappresentanza in tale organo avrebbe un forte potere simbolico, ma, almeno
per il momento, non sono stati trovati gli ingredienti per far sì che le camere regionali funzionino
veramente al servizio della rappresentanza territoriale.

Tutto ciò ripropone la questione di una risposta più soddisfacente al problema della
rappresentanza al centro degli interessi territoriali. Le proposte, però, sono molteplici e
divergenti tra loro; ciò non deve sorprendere, poiché non esistono soluzioni di ingegneria
costituzionale valide in ogni tempo e in ogni luogo, ma ciascuna va calata nel contesto politico,
economico e sociale di un determinato ordinamento. E così vi è chi propone di
costituzionalizzare il sistema delle conferenze, razionalizzandone le procedure e aumentando
semmai il potere delle autonomie territoriali di condizionare i processi normativi statali: e
l'assunto muove dalla considerazione per cui una seconda camera legislativa di rappresentanza
dei territori è soluzione che, in altri ordinamenti, non ha dato sempre risposte soddisfacenti.
Di contro si sostiene l'opportunità di prevedere una vera e propria Camera di rappresentanza
delle autonomie, salvo poi dividersi tra chi vorrebbe limitarla alle sole regioni e chi vorrebbe
estenderla, invece, anche agli enti locali. Infine, non mancano i fautori del c.d. modello
Bundesrat, sulla falsariga dell'ordinamento federale tedesco.
La riforma costituzionale del 2016, bocciata dal referendum ex art. 138 Cost.,
ridisegnava tra l'altro il ruolo e le competenze del Senato prevedendolo, almeno nelle
intenzioni, come la sede istituzionale del confronto tra potere centrale e autonomie territoriali
in ordine all'esercizio dei poteri legislativi. E il fallimento di quel tentativo riformatore lascia sul
tavolo tutte le questioni e i dubbi che abbiamo sino a qui evidenziato.

Il Bundesrat tedesco è una seconda camera?


Nella storica «sentenza sul Bundesrat» del 25 giugno 1974, il Tribunale costituzionale tedesco ha
precisato che tale organo non può essere considerato una seconda camera. Anche se, ancora oggi, esso
è spesso classificato come esempio di buon funzionamento di una Camera delle regioni, tale
qualificazione appare errata o, quanto meno, incompleta perché trascura tutte le funzioni che tale
organo svolge insieme al governo.
Che cos'è, dunque, il Bundesrat? Secondo il Tribunale costituzionale si tratta di un organo di
partecipazione a garanzia degli interessi dei Länder, con una collocazione istituzionale autonoma. Caso,
invero, unico rispetto al modello camerale e a quello delle conferenze, nell'ambito dei quali le regioni
dialogano rispettivamente con il Parlamento o con il governo, il Bundesrat è, dunque, un organo
spiccatamente territoriale, non incardinato né nel Parlamento né nel governo, bensì dotato di
un'ubiquità istituzionale che lo rende idoneo a dialogare con entrambi i circuiti. Una sorta di «jolly
pigliatutto», insomma, che sembra dimostrare come, forse, il successo della rappresentanza territoriale
risieda nella sua capacità di dialogare con il centro sia sul fronte parlamentare sia su quello governativo.
La caratteristica più evidente del Bundesrat (che è poi stato in ciò preso a modello per il Consiglio prima
della Comunità e ora dell'Unione europea) è che i rappresentanti dei Länder sono i membri dei loro
esecutivi (come nel Consiglio dell'UE, essi si riuniscono in base alla loro competenza settoriale e alla
materia da trattare), e ogni rappresentante dispone di un pacchetto di voti proporzionato alla
dimensione demografica del Land rappresentato. Caratteristiche che ben poco si addicono a una vera
seconda camera, ma che rafforzano la natura di rappresentanza territoriale dell'organo.
IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ
Il principio di sussidiarietà, in termini generali, esprime l'intenzione di limitare, per quanto
possibile, l'attività dello Stato in favore dei livelli di governo più vicini al cittadino e
dell'iniziativa dei privati.
Il principio di sussidiarietà conosce due declinazioni, in senso verticale e orizzontale. Il
principio di sussidiarietà VERTICALE comporta la tendenziale allocazione delle funzioni al livello
di governo più prossimo al cittadino, a condizione di un'adeguata tutela degli interessi in gioco;
in caso contrario, la titolarità della competenza va assegnata al livello di governo idoneo per
dimensione alla cura dei predetti interessi. Facciamo un esempio, del tutto astratto: per
la realizzazione di un'opera pubblica che soddisfi interessi circoscritti alla dimensione comunale
(la costruzione di una strada che abbia inizio e fine in un centro abitato) il livello di governo
competente sarà appunto quello del
comune; ma se la strada attraversa più comuni, la competenza spetterà alla
provincia; se l'opera pubblica ha poi un rilievo regionale, la competenza sarà
della regione; infine, se parliamo di un'arteria di collegamento strategica per
gli interessi nazionali, la titolarità spetterà allo Stato.

Filosofia politica e principi giuridici


La sussidiarietà è un principio con una matrice culturale molto complessa, avendo trovato elaborazione
nella dottrina sociale della Chiesa (con particolare riferimento al profilo orizzontale), nelle correnti di
pensiero del liberalismo classico e del federalismo tedesco dell'Ottocento (con riferimento, almeno
originariamente, soprattutto al profilo verticale): in entrambe le accezioni esprime la volontà di limitare,
per quanto possibile, l'ingerenza dello Stato nell'autonomia delle comunità territoriali e
nell'organizzazione della società. L'aspirazione di fondo del principio, al di là delle contingenze storiche
che ne hanno accompagnato la teorizzazione, è quella di favorire la libertà di autodeterminazione degli
enti territoriali e delle formazioni sociali, sul presupposto che meglio possano rilevare e soddisfare gli
interessi a loro vicini.
Quando però il principio viene trasposto nell'ambito giuridico, è necessario fare riferimento alle fonti
del diritto di un determinato ordinamento per verificare se, con quale ambito di applicazione e con quali
modalità la sussidiarietà acquisti una dimensione precettiva. Per esempio, è legittimo per un governo
orientare la propria politica in materia di diritti sociali in favore del principio di sussidiarietà
orizzontale, incentivando l'erogazione da parte dei privati di determinate attività di interesse generale
(a condizione, ovviamente, che si rispettino altri principi costituzionali, come ad esempio quello che
assicura la tutela del c.d. contenuto minimo di un diritto fondamentale, i principi di eguaglianza, di
pluralismo e di laicità). Similmente: è legittimo, in assenza di prescrizioni costituzionali contrarie, che
determinate funzioni amministrative vengano trasferite dal livello di governo statale a un livello
territorialmente più prossimo al cittadino. Ma, nell'uno e nell'altro caso, non significa che ciò sia anche
doveroso: perché accada è necessario che vi siano prescrizioni di diritto positivo che prevedano il
principio di sussidiarietà verticale e orizzontale come criterio di riparto delle funzioni tra livelli di
governo, e delle attività di interesse generale tra privati e pubblici poteri.
Il principio di sussidiarietà orizzontale riguarda invece il riparto di competenze tra poteri pubblici e
soggetti privati nello svolgimento di attività di interesse generale, con una preferenza in favore dei
privati a meno che non si dimostri che solo l'intervento pubblico garantisce una determinata qualità
della prestazione erogata. Facciamo un esempio, anche qui del tutto astratto: se si dimostrasse che i
privati sono in grado di assicurare l'assistenza alle persone non autosufficienti, garantendo standard
minimi di qualità fissati dalla legge e a minori o uguali costi per le casse pubbliche e per i cittadini, il
principio di sussidiarietà orizzontale imporrebbe allo Stato di favorire l'erogazione del servizio da parte
dei privati.
Il principio di sussidiarietà esprime dunque un'aspirazione: quella di limitare l'intervento statale
favorendo l'autonomia degli enti territoriali più vicini ai cittadini e la libertà delle formazioni sociali
private di organizzare ed erogare i servizi di utilità generale per la collettività. Però l'intervento del
potere centrale non è escluso, anzi è dovuto in tutti i casi nei quali solamente lo Stato può
garantire adeguata tutela degli interessi in gioco. Il problema allora, da un punto di vista giuridico, è
verificare innanzitutto i presupposti al ricorrere dei quali l'intervento statale «supplisce»
all'inadeguatezza degli enti territoriali e dei privati; la disciplina delle modalità operative con cui quei
presupposti vengono accertati; infine, i criteri di giudizio con cui vengono sindacate le relative decisioni
assunte dai diversi livelli di governo.
È per questo che, riassumendo, possiamo dire che il principio di sussidiarietà presenta contenuti
neutrali, poiché è in sede politica che va deciso quanto spetti fare al potere centrale e quanto alle
autonomie territoriali e ai privati.
Al giurista interessa soprattutto verificare quali siano le modalità procedurali con cui si giunge alle
predette decisioni, e come queste ultime vengano poi sindacate da un giudice.

Sussidiarietà e proporzionalità
La sussidiarietà si avvicina, nei contenuti, a un altro principio assai rilevante nei rapporti tra
potere centrale e autonomie territoriali: il principio di proporzionalità. Teorizzato dalla dottrina
tedesca come strumento di garanzia dei diritti individuali nei confronti del potere pubblico, nel nostro
ordinamento la proporzionalità è parametro di giudizio anche dei rapporti tra Stato e
regioni (ad es. Corte cost. 303/2003). Il principio esprime, in generale, la necessità che i mezzi
siano adeguati ai fini: se allo Stato è affidata la cura di un determinato interesse, i provvedimenti
normativi e amministrativi dovranno limitarsi alla tutela di quell'interesse senza comprimere
ulteriormente - e inutilmente - le competenze regionali. Anche la proporzionalità non ha contenuti
predeterminati, ma ciò che rileva è la sua giustiziabilità; e la giurisprudenza amministrativa – seppure
con riferimento ad ambiti diversi da quello dei rapporti Stato-regioni – si è sforzata di elaborare un test
di giudizio strutturato in tre tappe (verifica dell'idoneità del mezzo prescelto nel perseguire il fine
annunciato; della necessarietà, ovvero l'inesistenza di altre soluzioni che a parità di tutela per l'interesse
perseguito penalizzino meno quello sacrificato; infine, del ragionevole bilanciamento tra l'interesse
tutelato e quello compresso). Un test di giudizio seguito talvolta anche dalla Corte costituzionale,
sebbene con minore rigore (ad es. Corte cost. 6/2004), e che potrebbe essere riproposto, con gli
opportuni cambiamenti, anche nello scrutinio delle leggi chiamate ad attuare il principio di sussidiarietà
enunciato nell'art. 118 Cost. al fine di non limitare la decisione del giudice a una mera asserzione sul
rispetto o meno del principio.

Nell'ordinamento italiano il principio di sussidiarietà verticale è stato introdotto in via


legislativa nel corso degli anni '90, per trovare poi compiuta formulazione a livello di fonte
costituzionale con la riforma del 2001: l'art. 118.1, infatti, prevede ora che le funzioni
amministrative siano attribuite ai comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario,
vengano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base del principio di
sussidiarietà (nonché dei principi di differenziazione e adeguatezza);
mentre l'art. 118.4 introduce il principio di sussidiarietà ORIZZONTALE stabilendo che Stato,
regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale. Infine, pure l'art. 120.2
menziona espressamente il principio di sussidiarietà, ma al limitato fine di regolare le modalità
d'esercizio del potere sostitutivo del governo.
Ciò premesso, all'indomani dell'entrata in vigore della riforma del Titolo V è prevalsa la tesi
interpretativa per cui il principio di sussidiarietà necessiti, per una compiuta attuazione, di
un'intermediazione legislativa: l'allocazione delle funzioni ai comuni (e agli enti via via più
comprensivi solamente a fronte dell'inadeguatezza del livello di governo più vicino al cittadino),
la possibilità di svolgere attività di interesse generale da parte dei privati richiedono puntuali
previsioni di legge, in assenza delle quali le norme di principio scritte in Costituzione non
trovano diretta applicazione. E così, ad esempio, può essere che il riparto delle funzioni
amministrative in una certa materia, disposto dalla legge prima della riforma del 2001, non
assegni al comune tutte le attribuzioni che gli spetterebbero applicando con rigore il principio
di sussidiarietà verticale; e, tuttavia, ciò non autorizza a ignorare il dettato legislativo
assegnando, in assenza di una puntuale disposizione di conferimento, le funzioni al livello
di governo comunale. Analogamente, lo svolgimento da parte di privati delle attività di
interesse generale richiede una disciplina legislativa di autorizzazione e regolazione delle
modalità di erogazione dei servizi o delle prestazioni.
Questo compito, a cui era chiamato il legislatore (statale e regionale) dopo la riforma
costituzionale del 2001, si presentava particolarmente impegnativo poiché, se preso sul serio,
avrebbe portato a una riscrittura del sistema amministrativo del nostro ordinamento; così non
è stato, anche se è opportuno condurre due discorsi diversi per la sussidiarietà verticale e
orizzontale.
a) Una coerente e compiuta attuazione della sussidiarietà verticale avrebbe richiesto - e
richiederebbe tuttora, per la verità - una riconsiderazione di tutte le funzioni amministrative
oggi ripartite tra i diversi livelli di governo, e ciò al fine di verificare che la loro allocazione risulti
coerente con il principio, favorendo, sin dove possibile, lo «slittamento» delle funzioni verso il
basso sino al livello di governo comunale. E invece nella prassi legislativa vi sono stati
certamente degli interventi molto significativi, ma circoscritti a determinati settori
dell'ordinamento (si pensi, per fare degli esempi, al c.d. codice dell'ambiente: d.lgs. 151/2006;
o al codice del turismo: d.lgs. 79/2011).
A fronte di una modesta attuazione legislativa, il principio di sussidiarietà è stato valorizzato
dalla giurisprudenza costituzionale sotto profili diversi. Per esempio, riconoscendo allo Stato (e
alle regioni) poteri sostitutivi ordinari nei confronti dell'amministrazione locale, si è consentito
all'ente territoriale minore di mantenere la titolarità di una funzione amministrativa, ma al con-
tempo allo Stato si è consentito di intervenire «in seconda battuta» a tutela delle esigenze
unitarie in caso di inerzia dell'ente competente (Corte cost. 43/2004; vedi S VII.6).
Ma il principio di sussidiarietà è stato esteso dalla Corte costituzionale anche al riparto delle
competenze legislative attraverso la c.d. chiamata in sussidiarietà e riconoscendo la natura
«trasversale» di pressoché tutte le materie statali «esclusive».
b) Per quanto riguarda invece il principio di sussidiarietà orizzontale, rilevano soprattutto due
profili. In primo luogo, è discussa la portata precettiva del principio. La disposizione
costituzionale introduce una mera facoltà in capo al legislatore oppure un vero e proprio
obbligo giuridico, risultando incostituzionali le previsioni normative che non «dismettano» le
attività di interesse generale in favore dei privati qualora si dimostri che questi possano
svolgerle al pari della pubblica amministrazione? Detto altrimenti: il ruolo sussidiario dei
pubblici poteri può intendersi come vero e proprio dovere di astensione in favore dei privati? Il
dibattito rimane aperto, anche perché molto dipende da quali siano davvero le «attività di
interesse generale» di cui parla l'art. 118.4 Cost. (anche quelle in grado di generare lucro, ad
esempio?) e, di conseguenza, quali siano i parametri in rapporto ai quali comparare l'attività
dei pubblici poteri con quella dei privati. Insomma, anche i contenuti della sussidiarietà
orizzontale dipendono in larga parte da scelte politiche, che devono trovare nella legge la sede
appropriata per concretizzarsi bilanciando i predetti valori in maniera adeguata.
In secondo luogo il principio di sussidiarietà orizzontale è rimasto ai margini della
giurisprudenza costituzionale (salvo alcune pronunce in materia di scuole paritarie - Corte cost.
220/2007 - e fondazioni bancarie - Corte cost. 300 e 301/2003), mentre è la prassi legislativa
delle regioni a offrire spunti di riflessione. Infatti, è interessante notare come esperienze
politiche ispirate al principio di sussidiarietà orizzontale abbiano trovato spazio proprio in
ambito regionale, più che statale, e ciò ben prima dell'approvazione della riforma
costituzionale del 2001 (si pensi, ad esempio, al modello di organizzazione sanitaria della
regione Lombardia, espressamente ispirato al predetto principio). Mentre altre regioni,
politicamente non favorevoli al principio di sussidiarietà orizzontale, si sono ben guardate dal
riconsiderare le proprie politiche alla luce dell'entrata in vigore dell’art. 118.4 Cost. Il che
conferma, da un lato, che politiche ispirate alla sussidiarietà orizzontale erano legittime anche
nel precedente quadro costituzionale, sempre nei limiti delle competenze regionali; dall'altro,
che l’art. 118.4 Cost. non è stato vissuto nella prassi legislativa regionale – né in quella statale –
come un vero e proprio dovere di intervento, ma tuttalpiù come la conferma di un’opzione di
politica legislativa.

LE REGIONI A STATUTO ORDINARIO. L’AUTONOMIA


STATUTARIA E L’ORGANIZZAZIONE FONDAMENTALE
L’AUTONOMIA STATUTARIA
LA POTESTÀ STATUTARIA
La potestà statutaria consiste nel potere di approvare un proprio statuto.
L'art. 114.2 Cost. configura le regioni, i comuni, le province e le città metropolitane come «enti
autonomi con propri statuti [...] secondo i principi fissati dalla Costituzione».
L’articolo accomuna in questa definizione anche gli enti territoriali minori e dunque riconosce
anche a tali enti sia la caratteristica dell'autonomia, sia la potestà di darsi statuti propri.
Differenze tra statuti regionali e statuti enti locali minori
Tuttavia, gli statuti delle regioni si distinguono per alcuni aspetti dagli statuti degli enti locali
minori. Infatti, lo statuto regionale è una fonte primaria, nel senso che si colloca a livello
gerarchico tra le fonti primarie del diritto (tant’è che viene approvato con una legge regionale).
Invece, gli statuti di comuni, province e città metropolitane sono fonti subordinate alla legge.
Quindi, la prima grande differenza è la natura giuridica.
Inoltre, mentre lo statuto regionale (quale fonte primaria) è direttamente regolato dalla
Costituzione (in particolare dall’art. 123 Cost.), la disciplina degli statuti comunali, degli statuti
provinciali e di quelli delle città metropolitane è rimessa in buona parte alla legge ordinaria.
L’art. 123 Cost. definisce:
 l’oggetto degli statuti regionali (riferendosi, ovviamente, alle sole regioni ordinarie);
 i limiti alla potestà statutaria (cioè i limiti che incontra la regione nel momento in cui
approva il proprio statuto o approva delle modifiche al proprio statuto);
 il procedimento che la regione deve seguire per approvare lo statuto.
Gli STATUTI SPECIALI (gli statuti delle regioni a statuto speciale) sono invece approvati con
legge costituzionale . Questo consente che gli statuti speciali siano collocati sullo stesso livello
gerarchico della Costituzione.
LA RIFORMA DEL 1999
Importante è poi capire come la disciplina della potestà statutaria sia cambiata con l’intervento
della legge costituzionale 1/1999 (che ha novellato integralmente l’art. 123 Cost.).
Prima del 1999 lo statuto regionale (ordinario) era approvato dal consiglio regionale con un
procedimento aggravato che presupponeva il raggiungimento della maggioranza assoluta, ma –
una volta deliberato dallo stesso consiglio regionale – esso doveva conseguire l’approvazione
da parte del Parlamento che adottava una legge di approvazione dello statuto della singola
regione.
Dopo la revisione del 1999 (quindi attualmente) la disciplina costituzionale prevede un diverso
procedimento di approvazione, perché lo statuto è approvato direttamente dal consiglio
regionale con un procedimento disciplinato dall’art. 123 Cost. che prevede due deliberazioni
successive a maggioranza assoluta intervallate da un periodo di tempo non inferiore a due
mesi.
Vi sono poi differenze importanti anche dal punto di vista contenutistico, perché prima del
1999 l’art. 123 Cost. stabiliva che lo statuto dovesse disciplinare l’organizzazione interna della
regione, il diritto di iniziativa e le regole sul referendum regionale sulle leggi e sui
provvedimenti.
Oggi, invece, dopo la riforma del 1999, il contenuto dello statuto prevede la disciplina della
forma di governo regionale, la disciplina dei principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento della regione, la disciplina del diritto di iniziativa, la disciplina del referendum
su leggi e provvedimenti, quella dei procedimenti di pubblicazione delle leggi e dei regolamenti
regionali. Quindi un contenuto più ampio.
Prima del 1999 sul fronte dei limiti all’esercizio della potestà statutaria l’art. 123 stabiliva che
gli statuti dovessero essere approvati in armonia con la Costituzione e in armonia con le leggi
della Repubblica. Quindi c'erano sostanzialmente due vincoli: la Costituzione e le leggi dello
Stato.
Dopo la revisione del 1999 i limiti fanno riferimento esclusivamente all’armonia con la
Costituzione.
Quindi, è evidente come dopo il 1999 le regioni hanno acquisito maggiore autonomia in termini
di potestà statutaria.

I CONTENUTI DELLO STATUTO


CONTENUTO NECESSARIO DEGLI STATUTI DELLE REGIONI ORDINARIE
L'art. 123 Cost. nel momento in cui indica il contenuto degli statuti regionali indica degli
aspetti che non possono mancare all'interno degli statuti. Significa, cioè, che se viene
approvato uno statuto che omette di disciplinare anche soltanto uno degli aspetti indicati
nell’art. 123, quello statuto è illegittimo (si parla infatti di contenuto necessario/obbligatorio).
Come accennato pocanzi, ogni statuto regionale deve necessariamente contenere la disciplina
della forma di governo regionale, la disciplina dei principi fondamentali in materia di
organizzazione e funzionamento della regione, la disciplina del diritto di iniziativa, la disciplina
del referendum e quella dei procedimenti di pubblicazione delle leggi e dei regolamenti
regionali. Quindi, sono cinque oggetti che costituiscono il contenuto necessario dello statuto
(su cui la regione deve intervenire attraverso i propri statuti, pena l’illegittimità di questi
ultimi).
RISERVA DI STATUTO
Sul contenuto necessario degli statuti è intervenuta la Corte costituzionale che, con la sent.
304/2003, ha interpretato questa disposizione dell'art. 123 ammettendo la possibilità di una
disciplina frazionata del contenuto necessario. Vale a dire che, secondo la Corte costituzionale,
è legittimo che una regione scelga di disciplinare in tempi diversi tutti i contenuti previsti
all'art. 123 e che cioè lo statuto, per alcuni aspetti di dettaglio riguardanti il contenuto
necessario, rinvii ad una successiva legge regionale o regolamento regionale.
Il contenuto necessario è quindi coperto da una riserva di statuto che la Corte costituzionale
ha riconosciuto come relativa, nel senso che questa fonte è obbligata a dettare le norme di
base relative al contenuto necessario, mentre la disciplina integrativa può essere contenuta in
altri atti normativi, e cioè nella legge regionale e nel regolamento interno del consiglio
regionale.
Se, invece, fosse stata una riserva di statuto assoluta la disciplina frazionata non sarebbe stata
consentita.
La presenza di una riserva di statuto, peraltro, comporta che i cinque oggetti che costituiscono
il contenuto necessario siano riservati allo statuto e cioè affidati alla protesta statutaria
regionale (in ragione di una competenza introdotta dalla Costituzione che l’ha sottratta ad
eventuali altre fonti del diritto).
RISERVA DI LEGGE
La riserva di legge è uno strumento che talvolta la Costituzione utilizza per riservare alla legge
il compito di disciplinare una determinata materia.
TIPI DI RISERVA DI LEGGE (uguali ai tipi di riserva di statuto)
 Si parla di riserva di legge rinforzata quando è la stessa disposizione costituzionale a
predeterminare in parte il contenuto della stessa legge (quando la Costituzione traccia
le coordinate attraverso le quali si deve muovere la legge);
 Si parla di riserva di legge assoluta quando la Costituzione (o una legge costituzionale)
impone esclusivamente alla legge di disciplinare una materia.
 Si parla di riserva di legge relativa quando la Costituzione affida alla legge di disciplinare
i principi generali di una determinata materia, consentendo però alla legge di rinviare ad
un regolamento il compito di disciplinare le regole di dettaglio.
1.FORMA DI GOVERNO E SISTEMA ELETTORALE
Per forma di governo si intende l'assetto dei rapporti tra organi della regione (consiglio
regionale, presidente della giunta, giunta) e l'ulteriore disciplina della composizione e della
organizzazione di tali organi. L’art. 121 Cost. stabilisce che sono organi della Regione: il
Consiglio regionale, la Giunta e il suo Presidente (ai quali si aggiunge il consiglio delle
autonomie locali previsto dall’art. 123 Cost.).
L'oggetto «forma di governo» è stato introdotto con questo nome tra i contenuti necessari
dello statuto dalla legge cost. 1/1999. In realtà, il precedente oggetto di competenza statutaria
«organizzazione interna della regione» andava a coincidere con la forma di governo, dato che
l'organizzazione amministrativa dell'ente - prima della riforma costituzionale del 2001 (legge
cost. 3/2001) – era sottratta alla disciplina dello statuto in quanto materia di potestà
concorrente («ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla regione»).
Inoltre, prima della revisione del 1999 la forma di governo regionale era disegnata in modo
pressoché compiuto dalla stessa Costituzione, mentre oggi la parte predeterminata
direttamente dalle norme costituzionali è circoscritta e conseguentemente l'area delle scelte
rimesse allo statuto è più ampia.
Rientra poi nella forma di governo la scelta circa le modalità di elezione del presidente della
Regione.
L’art. 122 Cost. dispone che il Presidente della Giunta regionale, salvo che lo statuto regionale
disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto.
Tale disposizione costituzionale riconosce quindi agli statuti la possibilità di optare per una
forma di governo con elezione diretta del Presidente della giunta o per un modello incentrato
sull'elezione consiliare dell'esecutivo.
In poche parole, esistono due modalità di elezione del presidente della regione:
1. la prima, verso cui peraltro la Costituzione tende a spingere, prevede che il Presidente
della giunta venga eletto unitamente al consiglio regionale direttamente dal corpo
elettorale (c.d. elezione diretta del presidente della Regione);
2. la seconda, comunque ammessa dalla Costituzione, prevede che il presidente della
giunta e la giunta siano eletti dal consiglio regionale (quindi non dagli elettori).
Peraltro, tutte le regioni a statuto ordinario hanno scelto l’elezione diretta.
DISCIPLINA DELLE INCOMPATIBILITÀ E DELLE INELEGGIBILITÀ
Quanto alla disciplina delle incompatibilità e delle ineleggibilità, la Corte ha fatto valere
rigidamente il principio di specialità tra l'art. 122.1 e l'art. 123.1. Cost. e ha quindi affermato
la competenza del binomio legge statale di principio-legge regionale di dettaglio, con
esclusione dello statuto, anche in relazione alle cc.dd. «incompatibilità interne» – quali
l'incompatibilità della carica di assessore e quella di consigliere regionale - che certamente
rientrerebbero anche nella forma di governo in senso stretto, visto che riguardano i rapporti tra
due organi di vertice della regione (sentt. 378 e 379/2004, che hanno dichiarato
l'incostituzionalità per incompetenza delle disposizioni dello statuto di Umbria ed Emilia-
Romagna che prevedevano tale incompatibilità).
IL LIMITE DEL DOPPIO MANDATO
Secondo il legislatore della legge 165/2004, costituisce un principio fondamentale di competenza
statale ex art. 122.1. Cost. anche la regola della non immediata rieleggibilità dopo il secondo
mandato del presidente della giunta eletto a suffragio universale. A ben vedere, tale previsione
potrebbe attenere più alla forma di governo che alla disciplina delle ineleggibilità: infatti, tale
limite determina una rilevante caratteristica strutturale dell'organo presidenziale e ha un diretto
impatto sui rapporti tra presidente della giunta e consiglio regionale, considerato che il limite
alla ricandidabilità del presidente, in assenza di analoga previsione per i consiglieri regionali,
può indebolire la posizione del primo rispetto ai secondi. Per contro, è da ricordare che la Corte
costituzionale (sent. 2/2004) ha annullato la disposizione dello statuto calabrese, la quale
prevedeva che la carica di presidente della giunta regionale non potesse essere ricoperta per
più di due mandati consecutivi (art. 33.7): le ragioni di tale incostituzionalità non sono però
esplicite, visto che l'accoglimento ha riguardato una censura svolta globalmente dal governo
sull'art. 33 dello statuto, relativo all'elezione del presidente e del vicepresidente della giunta
regionale. La regola per cui il presidente eletto a suffragio diretto può essere rieletto solo per un
altro mandato consecutivo è comunque tuttora presente nello statuto dell'Umbria (art. 63.5),
mai impugnato su questo punto.
LA DURATA DEGLI ORGANI ELETTIVI
La durata ordinaria degli organi elettivi (consiglio regionale e presidente della giunta, se eletto
a suffragio universale e diretto) è fissata dalla legge statale, che sul punto si vede riconosciuta
una competenza specifica dall'art. 122.1 Cost. Di competenza statutaria, invece, rimane la
disciplina della prorogatio, compresa la prorogatio in caso di scioglimento anticipato del
consiglio regionale o di anticipata cessazione della carica del presidente e della giunta e anche
in caso di annullamento delle elezioni regionali, ma salva l'ipotesi di scioglimento o rimozione
sanzionatori, per la quale sussiste una competenza della legge statale che la Corte costituzionale
ritiene implicita nell'art. 126.1 Cost. (sent. 196/2003).
Deve ritenersi compresa nella competenza dello statuto anche la disciplina dei meccanismi per
la formazione della giunta in caso di elezione consiliare del presidente della giunta, punto che
la legge statale approvata ai sensi dell'art. 122.1 Cost. ha invece preteso di regolare tramite il
principio fondamentale secondo cui la regione, quando non abbia scelto l'elezione a suffragio
universale e diretto del presidente della giunta, deve prevedere «termini temporali tassativi,
comunque non superiori a novanta giorni, per l'elezione del Presidente e per l'elezione o la
nomina degli altri componenti della Giunta» (art. 1.1, del lett. b) legge 165/2004). La legge
statale non regola però le conseguenze superamento di tali termini massimi per la formazione
della giunta.
Analogamente, la previsione del divieto di mandato imperativo per i consiglieri regionali è
principio che dovrebbe essere doverosamente previsto negli statuti (e infatti si ritrova in essi),
stante la sua attinenza alla forma di governo più che al sistema elettorale in senso stretto. Il
legislatore statale ha però ritenuto di prescrivere tale regola come principio fondamentale del
sistema elettorale (art. 3, legge 165/2004), ma tale disposto ha comunque valore ricognitivo di
un precetto derivabile dal limite dell'armonia con la Costituzione.
2.PRINCIPI FONDAMENTALI DI ORGANIZZAZIONE E FUNZIONAMENTO
L’art. 123 Cost. annovera tra i contenuti necessari dello statuto (senza i quali lo statuto
sarebbe illegittimo) anche la disciplina dei principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento. Questo comporta quindi l’attribuzione allo statuto della competenza a
disciplinare a livello strutturale l’organizzazione amministrativa della regione attraverso la
determinazione di tali principi.
Essi riguardano appunto le regole che concernono l'organizzazione degli uffici e dei servizi
regionali.
Su questo punto quasi tutte le regioni hanno optato per la c.d. disciplina frazionata (cioè
affidare allo statuto il compito di indicare i principi generali e lasciare alle leggi la disciplina di
dettaglio: organizzazione degli uffici, piante organiche, distribuzione delle competenze tra i vari
uffici, declinazione dei diversi servizi regionali).
Secondo l'orientamento della Corte costituzionale rientrano sempre nell'ambito dei principi di
organizzazione e funzionamento della regione anche le regole sul procedimento legislativo che
deve seguire il consiglio regionale e sulle fonti del diritto regionale.
3.DIRITTO DI INIZIATIVA
L’art. 123 Cost., accanto alla forma di governo e ai principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento, annovera tra i contenuti necessari dello statuto (che lo statuto è quindi
costituzionalmente obbligato a disciplinare) anche il diritto di iniziativa.
Secondo l’interpretazione della Corte costituzionale la norma costituzionale ricomprende
all’interno del diritto di iniziativa la disciplina dell’iniziativa legislativa popolare (quindi la
petizione popolare per l'approvazione di una legge da parte della regione, quante firme sono
necessarie, ecc.: tutti aspetti che rientrano in questa materia e che lo statuto deve disciplinare).
Sempre in questa materia rientra anche l’iniziativa legislativa dei singoli consiglieri regionali.
4.REFERENDUM SU LEGGI E PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI DELLA REGIONE
Un’altra materia che, in base all’art.123 Cost., gli statuti regionali devono obbligatoriamente
disciplinare è quella riguardante i referendum su leggi e provvedimenti amministrativi.
Sempre secondo la Corte costituzionale la norma costituzionale in questione, dato il limite
dell’armonia con la Costituzione (statuito dallo stesso art. 123), quando parla di referendum su
leggi e provvedimenti amministrativi fa riferimento al referendum abrogativo (visto che la
Costituzione, con riferimento ai referendum statali, ne regola espressamente la forma
abrogativa: art. 75 Cost.).
Quindi quel che gli statuti regionali devono prevedere è uno strumento referendario volto a
ottenere l’abrogazione successiva di una legge approvata dal consiglio regionale.
Inoltre, la Corte costituzionale non esclude che all'interno di questa materia referendum su
leggi e provvedimenti amministrativi si facciano rientrare anche altre forme di referendum
(come quelli territoriali?).
5.PUBBLICAZIONE DELLE LEGGI E DEI REGOLAMENTI REGIONALI
L’art. 123 Cost. assegna alla competenza dello statuto anche la disciplina della pubblicazione
delle leggi e dei regolamenti regionali. In questo ambito rientrano la fase della promulgazione
delle leggi regionali a cura del presidente della giunta, nonché la disciplina della vacatio legis
[periodo di tempo che intercorre tra la pubblicazione di una legge sul Bollettino ufficiale della
Regione (BUR) e la sua entrata in vigore].
L'ultimo oggetto di necessaria regolazione statutaria è il consiglio delle autonomie locali (CAL),
configurato dall'art. 123 Cost. organo di consultazione fra la regione e gli enti locali.
CONTENUTO EVENTUALE
Accanto alle norme che disciplinano gli oggetti del contenuto necessario, negli statuti regionali
– sia in quelli entrati in vigore nel 1971, sia in quelli approvati dopo il 1999 – si trovano
disposizioni che costituiscono il c.d. contenuto eventuale dello statuto.
Solitamente con tale locuzione si allude al complesso di norme programmatiche o di principio
che indicano i settori nei quali la regione intende intervenire o gli interessi o le finalità che
l'ente dichiara di curare o di promuovere o, ancora, le norme che elencano posizioni soggettive
(diritti o interessi) riconosciute dall'ente in capo agli amministrati: secondo la Corte
costituzionale si tratta di «contenuti [...] che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti
della regione, [...] che indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo; contenuti
che talora si esprimono attraverso proclamazioni di finalità da perseguire» (sentt, 372, 378 e
379/2004).

Un esempio di norme programmatiche: lo statuto della Lombardia


Art. 2 - Elementi qualificativi della Regione.
1. La Regione riconosce la persona umana come fondamento della comunità regionale e ispira ogni
azione al riconoscimento e al rispetto della sua dignità mediante la tutela e la promozione dei diritti
fondamentali e inalienabili dell'uomo.
2. La Regione promuove la libertà dei singoli e delle comunità, il soddisfacimento delle aspirazioni e dei
bisogni materiali e spirituali, individuali e collettivi, e opera per il superamento delle discriminazioni e
delle disuguaglianze civili, economiche e sociali.

La questione della validità ed efficacia di disposizioni di questo tipo si era già posta in
riferimento ai vecchi statuti: la giurisprudenza costituzionale ne aveva affermato la legittimità,
osservando anzi che i principi dettati negli statuti legittimano la «presenza politica della
regione, in rapporto allo Stato o anche ad altre regioni, riguardo a tutte le questioni di
interesse della comunità regionale, anche se queste sorgono in settori estranei alle singole
materie indicate nell'art. 117 Cost. e si proiettano al di là dei confini territoriali della regione
medesima (sent. 829/1988).
La Corte pareva aver letto tali disposizioni – già contenute in statuti che erano, secondo
l'opinione prevalente, leggi statali atipiche - come norme attributive o ricognitive di una
qualche competenza regionale (in tal senso si veda anche la sent. 921/1988), attivabili quanto
meno con strumenti non autoritativi - «attraverso atti di proposta, di stimolo, di iniziative o,
anche, attraverso intese, accordi o altre forme di cooperazione», precisa la sentenza 829/1988 -
a loro volta suscettibili di trovare copertura nella legge regionale. A ben vedere, però, l'attività
non pubblicistica della regione extra materias poteva reperire una sufficiente legittimazione già
nel carattere della regione quale ente politico esponenziale della collettività regionale (sent.
51/1990), senza necessità di appello alle disposizioni programmatiche degli statuti.
Dopo la riforma dell'art. 123 Cost., i giudici costituzionali si sono posti in un primo tempo in
linea di continuità con questo indirizzo e hanno confermato che «la riflessione dottrinale e la
stessa giurisprudenza di questa Corte [...] riconoscono da tempo la legittimità dell'esistenza,
accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri possibili contenuti, sia che risultino
ricognitivi delle funzioni e dei compiti della regione, sia che indichino aree di prioritario
intervento politico o legislativo», pur avvertendo che rimaneva «opinabile la misura
dell'efficacia giuridica di tali contenuti ulteriori (sent. 2/2004).
In un secondo tempo, però, la Corte costituzionale, pur ribadendo che tali disposizioni
costituiscono un contenuto possibile dei nuovi statuti regionali, ha negato ogni valenza
normativa agli enunciati in parola, arrivando a sostenere che essi rimangano mere
proclamazioni culturali o politiche incapaci di esprimere norme giuridiche e quindi insuscettibili
di essere assunte a oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale (in applicazione di tale
premessa, la Corte ha dichiarato inammissibili le impugnazioni proposte dal governo ai sensi
dell'art. 123.2 Cost. contro disposizioni programmatiche contenute negli statuti della Toscana,
dell'Umbria e dell'Emilia-Romagna: sentt. 372, 378 e 379/2004).

La Corte e i principi statutari


A tale conclusione la Corte perviene non già in ragione del carattere eccessivamente generale o
meramente «promozionale delle proposizioni statutarie di principio, visto che enunciati normativi di
questo stesso tipo, contenuti nella Costituzione, dispiegano pacificamente effetti giuridici, essendo
capaci a) di invalidare la legislazione o gli atti amministrativi che si pongano in contrasto attivo con tali
programmi; b) di orientare l'interpretazione delle norme vigenti; c) di guidare l'attività di integrazione
dell'ordinamento da parte degli interpreti. La negazione di ogni effetto giuridico alle proposizioni
programmatiche contenute negli statuti regionali è motivata dalla Corte con la competenza limitata
dello statuto, che non è assimilabile a una costituzione, fonte a competenza generale: «qui [...] non
siamo in presenza di Carte costituzionali», ma solo di fonti regionali «a competenza riservata e
specializzata», cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono
comunque «essere in armonia con i precetti e i principi tutti ricavabili dalla Costituzione».
Dal punto di vista dogmatico il ragionamento della Corte si presta a molte critiche. In primo luogo, è
discutibile la negazione di efficacia giuridica a disposizioni contenute in un atto-fonte, visto che la
produzione del diritto avviene secondo procedure formalizzate e quindi se la disposizione è stata
approvata secondo il prescritto procedimento essa deve essere considerata idonea a esprimere norme
(salva, naturalmente, la verifica della legittimità delle norme e del grado di vincolatività delle stesse in
ragione di ciò che dicono: difficilmente potrebbe trarsi un contenuto normativo - per fare un esempio -
dall'art. 1.1 dello statuto della Campania, a mente del quale «la Regione, crogiolo delle antiche civiltà
italica, etrusca, greca, romana e sannita, svolge la funzione di grande mediatrice fra oriente e occidente
conferitale dal carattere universale della sua cultura»). In secondo luogo, questo indirizzo capovolge il
canone per l'interpretazione degli atti normativi magis ut valeant, che impone di leggere i testi
attribuendo loro un significato precettivo (il canone del «legislatore non ridondante», come lo ha
definito la Corte costituzionale). In terzo luogo, la tesi dei giudici costituzionali potrebbe essere intesa
nel senso che una violazione della competenza comporta inefficacia, anziché invalidità della norma, e
anche questa affermazione appare in contrasto con assunzioni generalmente condivise.

Verosimilmente la posizione della Corte costituzionale si spiega, e si giustifica, con ragioni


essenzialmente pratiche, vale a dire con l'intento di fare salva la legittimità delle disposizioni
impugnate, sia pure al prezzo della loro efficacia, senza pregiudicare nel merito questioni che
rimanevano ancora eccessivamente astratte e indefinite, e quindi non «mature» per una
decisione. La stessa collocazione di scelte di indirizzo tra i principi dello statuto, anziché in
norme legislative regolative di politiche pubbliche, prova del resto che le stesse regioni
intendevano proclamare, più che regolare o agire.
Se è così, la posizione dei giudici costituzionali, peraltro contenuta in decisioni di rigetto e
quindi non vincolanti sul piano dell'interpretazione delle disposizioni, rimane una soluzione
provvisoria e di compromesso, suscettibile di revisione nel momento in cui tali norme
trovassero svolgimento e concretizzazione nella legislazione regionale successiva o ricevessero
applicazione diretta a opera degli operatori giuridici (amministrazione e giudici, in primo luogo).
La successiva affermazione della Corte, contenuta in un obiter dictum della sentenza 365/2007,
secondo cui alle disposizioni programmatiche degli statuti regionali ordinari non è stata
riconosciuta alcuna efficacia giuridica e «quindi illegittima sarebbe una legge regionale che
pretendesse di dar loro attuazione», va letta probabilmente nel senso che la regione non può
adottare leggi regionali fuori dalle materie di propria competenza invocando le norme
programmatiche dello statuto.
L'attuazione legislativa di una norma programmatica: il crocifisso della regione
Un esempio di attuazione di una norma programmatica si trova nella legge reg. Lombardia 18/2011,
Esposizione del crocifisso negli immobili regionali. Tale legge si dichiara attuativa dell'art. 2.4, lett. f),
dello statuto, che impegna la regione a perseguire, «sulla base delle sue tradizioni cristiane e civili, il
riconoscimento e la valorizzazione delle identità storiche, culturali e linguistiche presenti sul territorio».
La legge lombarda esplicita come propria finalità il riconoscimento dei valori storico-culturali e sociali
delle radici giudaico-cristiane della regione, e persegue tale finalità con l'esposizione obbligatoria del
crocifisso nelle sale istituzionali e all'ingresso degli immobili regionali e di quelli in uso
all'amministrazione regionale. È chiaro che la legittimità costituzionale della legge regionale dovrà
essere misurata in relazione ai parametri costituzionali - in primo luogo in rapporto al principio
costituzionale di laicità e di eguaglianza senza distinzioni di religione - e che in quella sede potrà porsi
anche la questione della validità della norma dello statuto regionale, interpretata dal consiglio regionale
come norma che autorizza la regione a utilizzare la simbologia confessionale cristiana.

La soluzione data dalla Corte al problema delle norme programmatiche dà però luogo ad altre
difficili questioni. La principale è che viene addossato all'interprete il compito di distinguere,
nell'ambito delle disposizioni dello statuto, tra quelle produttive di effetti e quelle prive di
contenuto normativo. Tale distinzione va condotta necessariamente guardando agli oggetti di
competenza dello statuto, tra i quali l'art. 123.1 Cost. indica anche i principi di organizzazione e
di funzionamento: è quindi fisiologico che lo statuto detti anche norme strutturate come
principi, e si tratterà allora di verificare se esse appartengano o meno al contenuto necessario.

Proclamazione politica o norma giuridica? Il diritto di voto degli stranieri


Guardiamo alle seguenti due disposizioni presenti nello statuto dell'Emilia-Romagna.
Art. 2- Obiettivi
1. La Regione ispira la propria azione prioritariamente ai seguenti obiettivi:
[...]
f) il godimento dei diritti sociali degli immigrati, degli stranieri profughi rifugiati e apolidi, assicurando,
nell'ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli immigrati
residenti.
Art. 15 - Diritti di partecipazione
1. La Regione, nell'ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, riconosce e
garantisce a tutti coloro che risiedono in una provincia del territorio regionale i diritti di partecipazione
contemplati nel presente titolo, ivi compreso il diritto di voto nei referendum e nelle altre forme di
consultazione popolare.
Entrambe sono state censurate dal Governo, sul presupposto che con tali norme la Regione avrebbe
inteso attribuire il diritto di voto ai non cittadini residenti, in violazione - secondo il ricorso del
presidente del Consiglio - dell'art. 48 Cost. e di altre disposizioni costituzionali. La Corte, nella sent.
379/2004, dichiara inammissibile la questione riferita all'art. 2.1. (disposizione programmatica, priva di
effetti giuridici) e infondata nel merito quella sollevata sull'art. 15.1 (disposizione evidentemente
considerata produttiva di norme).
Perché questa differenza? Secondo la Corte, «a differenza dell'art. 2, comma 1, lettera f), l'art. 15,
comma 1, si configura come una norma relativa a un ambito di sicura competenza regionale («diritti di
partecipazione»), competenza che la Regione potrà esercitare nell'ambito delle facoltà che le sono
costituzionalmente riconosciute».

Di un contenuto eventuale si può però parlare in un'accezione completamente diversa.


Negli statuti troviamo, infatti, disposizioni che non sono un contenuto necessario (visto che
possono esserci come non esserci) ma che, una volta introdotte nello statuto, appartengono al
contenuto necessario, dato che rientrano in uno dei macro-oggetti («forma di governo» o
«principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento»). Un esempio è costituito dalla
disciplina di organi regionali ulteriori rispetto a quelli elencati negli artt. 121.1 e 123.4 Cost.,
organi di cui l'esperienza statutaria offre una ricca esemplificazione (i collegi di garanzia
statutaria, il consiglio regionale dell'economia e del lavoro, il sottosegretario alla presidenza
della giunta regionale). Questi contenuti, che si potrebbero denominare come parti eventuali
del contenuto necessario, devono essere considerati a tutti gli effetti giuridicamente vincolanti,
visto che trovano fondamento nell'art. 123.1 Cost.

IL PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE DELLO STATUTO


La principale novità del nuovo art. 123 Cost. – e il più significativo progresso, sotto il profilo
dell'autonomia statutaria della regione - è rappresentata non già dalla ridefinizione degli
oggetti di potestà statutaria o del limite verticale, bensì dalla riconfigurazione del
procedimento di formazione dello statuto, che ha trasformato la fonte in un atto normativo
imputabile in via esclusiva alla regione.
Il procedimento di formazione dello statuto si struttura in diverse fasi: l'iniziativa,
l'approvazione, i controlli, la promulgazione e la pubblicazione.
La Costituzione si occupa solo di talune di queste fasi, e anche le fasi direttamente disciplinate
dall'art. 123 Cost. trovano ivi soltanto un principio di disciplina; il resto della regolazione è
rimesso agli statuti regionali, che sono fonti abilitate a incidere sul procedimento di formazione
degli atti normativi e quindi anche sul proprio iter legis; oppure, sulla base degli statuti, ad altre
fonti regionali, quali la legge regionale (per quanto riguarda i dettagli del referendum
oppositivo e le possibili interferenze con l'impugnazione del governo) o il regolamento interno
del consiglio regionale (per quanto riguarda la fase consiliare).
L'unica fase del procedimento realmente indisponibile da parte della regione è quella
dell'impugnazione governativa, ma anche questo è vero solo in senso relativo, essendo
consentito allo statuto, o alla legge regionale, di disciplinare gli effetti del ricorso governativo
sul procedimento di formazione dello statuto.
La fase dell'iniziativa non è regolata in Costituzione, come del resto non è regolata l'iniziativa
delle comuni leggi regionali, ed è quindi integralmente rimessa alla disciplina statutaria tenuta
solo al rispetto del limite dell'armonia con la Costituzione.

Il procedimento di approvazione dello statuto secondo il vecchio art. 123 Cost.


Il testo originario dell'art. 123.2 Cost, prevedeva che lo statuto fosse deliberato a maggioranza assoluta
dal consiglio regionale e approvato dalle camere con legge.
Benché fosse certo che al Parlamento era preclusa la possibilità di emendare il testo approvato dal
consiglio regionale, essendogli data la sola facoltà di approvare o di respingere lo statuto, nei fatti il
potere di negare l'approvazione dello statuto - per di più sulla base di valutazioni condotte alla stregua
di un parametro (l'«armonia con la Costituzione e con le leggi della Repubblica») non ben definibile nel
suo contenuto e il cui apprezzamento era rimesso a un organo massimamente politico - si traduceva in
un incisivo condizionamento a carico della potestà statutaria.
Prova ne è che le «trattative informali» condotte dalla I Commissione permanente del Senato con i
consigli regionali in occasione della prima stagione statutaria si concludevano con il cedimento delle
regioni, che hanno formalmente ritirato le proprie delibere statutarie e le hanno ritrasmesse al governo,
per il seguito parlamentare, solo dopo che i testi erano stati emendati in conformità ai rilievi sollevati
dal Senato.
Nel braccio di ferro tra camere e regione era inevitabile che fosse la regione a soccombere, visto che il
rimedio del conflitto di attribuzione, in ipotesi attivabile da questa nei confronti dell'illegittimo rifiuto
del Parlamento di approvare lo statuto deliberato dal consiglio regionale o nei confronti dell'inerzia
delle camere, non poteva comunque garantire in via sostitutiva l'approvazione parlamentare.
Proprio in ragione di tali condizionamenti e delle prassi seguite in occasione dell'approvazione dei primi
statuti regionali la dottrina più realista aveva configurato gli statuti come fonti normative
soggettivamente imputate allo Stato, e tale inquadramento aveva trovato implicite conferme anche
nella giurisprudenza costituzionale (sent. 10/1980).

I titolari dell'iniziativa legislativa statutaria sono individuati dallo statuto stesso e, nel silenzio di
questo, troveranno applicazione le norme dettate per l'iniziativa delle leggi regionali. Taluni dei
nuovi statuti escludono l'iniziativa popolare per le leggi statutarie, sulla base di una scelta che
postula l'incompetenza del corpo elettorale nella materia statutaria: scelta poco comprensibile
a fronte della disciplina costituzionale che nell'art. 123.3 Cost. espressamente prevede il
coinvolgimento diretto degli elettori, sia pure in funzione oppositiva.
La fase dell'esame e dell'approvazione si articola nell'esame in commissione - che nel caso
dell'approvazione dei nuovi statuti dopo il 1999 è stata quasi sempre deferita a commissioni
con funzioni referenti appositamente istituite - e nelle due deliberazioni in aula, che la
Costituzione impone di adottare a maggioranza assoluta dei componenti del consiglio regionale
e con un intervallo non inferiore a due mesi.
Il testo costituzionale è chiaro nel prescrivere la maggioranza assoluta per entrambe le
approvazioni dello statuto, e dunque già per la prima votazione.
L'art. 123 Cost, non specifica invece se detta maggioranza qualificata sia necessaria, oltre che
per la votazione finale del testo, anche per l'approvazione dei singoli articoli e dei loro
emendamenti, o se invece per tali votazioni sia sufficiente la maggioranza semplice. Anche
questa scelta deve ritenersi disponibile da parte della regione.
Nella prassi le singole regioni, in sede di approvazione dei nuovi statuti, si sono orientate in
modo differente. Alcuni consigli regionali hanno preteso la maggioranza assoluta anche nel
voto sui singoli articoli, altri si sono accontentati della maggioranza semplice [Carlotto 2007, 58
ss.).
Quanto alla seconda approvazione, l'art. 123 Cost. si limita a prescrivere a) che essa intervenga
non prima che siano trascorsi due mesi dalla prima approvazione, e b) che avvenga anch'essa a
maggioranza assoluta dei componenti del consiglio. La disposizione costituzionale non regola le
ulteriori modalità della seconda approvazione, e in particolare non dice se la votazione debba
svolgersi articolo per articolo o invece sul solo testo complessivo, né se in tale sede siano
proponibili emendamenti ai singoli articoli.
L'esperienza dell'approvazione dei nuovi statuti ha visto la preferenza, da parte dei consigli
regionali, per l'opzione favorevole alla possibilità di emendare la delibera statutaria in sede di
seconda votazione, ma non sono mancate soluzioni diverse, poi codificate nello stesso statuto
(si veda l'art. 64.2 St. Lomb.).
Ci si è chiesti se lo statuto possa prevedere ulteriori aggravamenti del procedimento di
formazione dello statuto stesso [Tosi 2001, 98 ss.]. Una volta riconosciuta la competenza di
questa fonte in ordine alla disciplina dei procedimenti normativi in generale, e di quello di
formazione dello statuto in particolare, la risposta varia a seconda del tipo di aggravamento
previsto. Infatti, ove lo statuto pretenda di incidere su profili già direttamente regolati dall'art.
123 Cost. – pensiamo alla maggioranza necessaria o al termine dilatorio ivi previsti - le
regole difformi rispetto a quelle dettate dalla Costituzione dovrebbero essere considerate
illegittime, anche se in ipotesi più garantiste (pensiamo ad esempio all'innalzamento della
maggioranza richiesta per la seconda approvazione).
Per contro, se lo statuto introducesse oneri procedimentali ulteriori - quali il parere
obbligatorio di un organo consultivo, come ad esempio il parere del CAL (vedi S V.11) - rispetto
alle fasi regolate in Costituzione, tali previsioni non si porrebbero di per sé in contrasto con
l'art. 123 Cost., che non è una norma a fattispecie chiusa.
La revoca dell'approvazione della delibera statutaria
Si è posto il problema della possibile revoca delle deliberazioni consiliari di approvazione dello statuto,
prima della promulgazione. Taluni consigli regionali, di fronte all'impugnazione governativa, hanno
ritenuto di modificare la delibera statutaria, sostituendola con un nuovo testo conforme ai rilievi di
governo: ciò è quanto accaduto con lo statuto della Liguria (vedi ord. 353/2005) ed è quanto ha provato
a fare il consiglio regionale dell'Abruzzo, che però non è giunto in tempo.
Tale prassi non appare di per sé censurabile, purché la revoca avvenga con le forme previste dall'art.
123 Cost. La deliberazione, una volta definitivamente approvata, può essere rimossa soltanto con un
contrarius actus, approvato con il procedimento richiesto per l'atto oggetto della revoca (in base al
principio secondo cui i provvedimenti di secondo grado sono soggetti alla disciplina del provvedimento
base).
Nel caso dello statuto molisano impugnato dal governo, la revoca della seconda delibera di
approvazione dello statuto è invece stata disposta con una comune legge regionale (legge reg. 4/2012,
che è entrata in vigore dopo l'udienza di discussione dell'impugnazione governativa e che non ha avuto
alcun effetto sul giudizio, dato che la Corte costituzionale ha comunque deciso nel merito (sent.
63/2012).
Dopo la pubblicazione della sentenza della Corte, che ha dichiarato infondate tutte le censure sollevate
dal governo, il legislatore molisano (art. 3, legge reg. 7/2012) ha disposto l'abrogazione della legge reg.
4/2012 e la «reviviscenza della deliberazione legislativa avente ad oggetto la seconda approvazione
dello statuto.

Una volta che la delibera statutaria è stata approvata in due testi identici, essa è oggetto di una
prima pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione, pubblicazione che è detta notiziale
perché ha la funzione di far conoscere la delibera ai fini della possibile opposizione referendaria
e - come vedremo anche dell'impugnazione governativa. Dalla pubblicazione notiziale, infatti,
decorre il termine di tre mesi entro il quale una frazione del corpo elettorale della regione, pari
a un quinto degli elettori, ovvero una frazione di consiglieri regionali, pari a un quinto dei
componenti del consiglio, può presentare una richiesta di referendum.
Il referendum ha una funzione oppositiva, nel senso che è proposto da chi ha interesse a
impedire l'entrata in vigore dello statuto, anche se formalmente esso è configurato come
referendum confermativo, visto che il quesito sollecita l'approvazione popolare della delibera
statutaria.
Per tale referendum l'art. 123.3 Cost. non prevede alcun quorum strutturale, vale a dire un
numero minimo di votanti richiesto per la validità del referendum. La norma costituzionale si
limita a disporre che lo statuto non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti
validi. Poiché questa disciplina è in sé compiuta, si deve ritenere che la regione non possa
introdurre un quorum strutturale e in tal senso pare orientata anche la Corte costituzionale
nella sentenza 149/2009.

Promulgare o non promulgare? Il caso della legge statutaria sarda


Lo statuto della regione Sardegna, come tutti gli statuti speciali dopo le modifiche introdotte dalla legge
cost. 2/2001, prevede che la regione si doti di una legge statutaria sulla forma di governo, approvata
secondo un procedimento parzialmente ricalcato su quello disegnato dall'art. 123.2 Cost. In particolare,
anche per tale fonte è previsto che la legge statutaria «sottoposta a referendum non è promulgata se
non è approvata dalla maggioranza dei voti validi».
La regione Sardegna ha disciplinato con legge reg. 21/2002 il referendum che interviene nel
procedimento di formazione della legge statutaria, prevedendo - in forza di un rinvio alla disciplina
dettata per il referendum abrogativo - che il referendum statutario non sia valido se non è stato
raggiunto un quorum di votanti pari ad almeno un terzo degli elettori. Successivamente il consiglio
regionale ha approvato la legge statutaria sulla forma di governo; una frazione di consiglieri regionali ha
chiesto il referendum, che ha visto la partecipazione di un numero di elettori inferiori al quorum
strutturale. La maggioranza dei votanti si è espressa contro la nuova legge statutaria. La Corte d'appello
di Cagliari dichiarava l'invalidità del referendum, in applicazione della legge regionale che prevedeva il
quorum, dopo aver tentato inutilmente di sollevare la questione di costituzionalità sulla stessa
(questione dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale con sent. 164/2008, in quanto sollevata
dalla Corte d'appello nell'ambito di un procedimento che non è un giudizio).
Il presidente della regione si è quindi trovato di fonte al dilemma se promulgare o meno la legge
statutaria; promulgare, considerando fallita l'opposizione referendaria, o non promulgare, considerando
non approvato l'atto sottoposto a referendum? Alla fine il presidente della regione ha promulgato la
legge statutaria.
L'atto di promulgazione, impugnato dal governo con il conflitto di attribuzione, è stato però annullato
dalla Corte costituzionale con la sent. 149/2009, sulla base del duplice rilievo che la condizione per la
promulgazione – vale a dire che la legge sia approvata dalla maggioranza dei voti validi - non si era
verificata, e che ciò a maggior ragione vale se si dovesse considerare il procedimento referendario
invalido per mancato raggiungimento del quorum, e quindi inidoneo a esprimere una maggioranza
favorevole.
Il quorum per il referendum statutario è stato poi eliminato dalla legge reg. 14/2013.

Mentre non vi è dubbio che il termine per la proposizione del referendum oppositivo decorre
dalla pubblicazione notiziale, visto che l'art. 123.3 Cost. chiarisce che non si procede alla
promulgazione (e quindi nemmeno alla pubblicazione necessaria) se lo statuto sottoposto a
referendum non è approvato dalla maggioranza dei voti validi, si è concretamente posto
l'interrogativo circa l'individuazione del dies a quo per il termine di trenta giorni entro il quale il
governo può impugnare lo statuto.
Il secondo comma dell'art. 123 Cost. si limita ad affermare che il ricorso deve essere proposto
entro trenta giorni dalla «pubblicazione», senza specificare se tale pubblicazione sia quella
notiziale o quella necessaria.
Qui il dubbio interpretativo non può essere risolto dalla legge regionale, giacché esso riguarda
la disciplina di un potere attribuito a un organo dello Stato. Ed è discutibile che potesse essere
la legge ordinaria statale a effettuare autoritativamente la scelta tra le due possibili
interpretazioni, visto che la norma costituzionale, per quanto di difficile lettura, appare per
questa parte completa e autoapplicativa (si tratta invero solo di capire qual è l'interpretazione
corretta tra due opzioni).
Le difficoltà esegetiche dipendono dal fatto che ci sono ottimi argomenti a sostegno sia
dell'interpretazione che intende la parola «pubblicazione» come riferita alla pubblicazione
notiziale, sia della tesi che colloca il ricorso governativo dopo la pubblicazione necessaria. La
Corte costituzionale ha tagliato definitivamente questo nodo, prendendo posizione a favore
della natura preventiva del ricorso nella prima sentenza che ha deciso un'impugnativa
governativa ex art. 123.2 Cost. (sent. 304/2002). Questa interpretazione è sostenuta con il dato
letterale (vale a dire con la presunzione che la parola «pubblicazione» nel secondo e nel terzo
comma descriva la stessa cosa); con il richiamo all'architettura della disposizione, che
rispecchierebbe la sequenza procedimentale in cui il ricorso governativo precede l'opposizione
referendaria; infine, con l'argomento logico-sistematico, in base al quale la posizione
gerarchicamente sovraordinata dello statuto rispetto alla legge regionale giustifica il controllo
preventivo, necessario per evitare che l'eventuale illegittimità costituzionale dello statuto si
riverberi, «a cascata», sulla successiva attività legislativa (e amministrativa) della regione.
Ciò su cui più importa fermare l'attenzione sono le diverse questioni irrisolte che sorgono in
conseguenza della decisione della Corte.
A) Il primo problema è quello di coordinare l'impugnazione governativa con la possibile
opposizione referendaria. Occorre quindi chiedersi se il ricorso governativo sospenda l'iter di
formazione dello statuto, bloccando le procedure referendarie e la promulgazione e
pubblicazione dell'atto. Per evitare che l'illegittimità dello statuto si rifletta «a cascata» sulla
successiva attività della regione sarebbe infatti necessario non solo che fosse preventivo il
ricorso del governo, ma anche che fosse preventivo il giudizio della Corte.
L'art. 123 Cost, non prevede che il ricorso del governo abbia effetto sospensivo e blocchi le fasi
successive del procedimento (per la tesi della sospensione necessaria vedi invece Cardone
(2007, 138 ss.]). In via di fatto, il comportamento di una regione speciale, la quale - pendente il
giudizio sulla legge statutaria impugnata dal governo dopo la pubblicazione notiziale – ha
proseguito l'iter arrivando alla promulgazione e alla pubblicazione dell'atto, non è stato
censurato dalla Corte costituzionale, che si è limitata a trasferire la questione dalla delibera
legislativa alla legge ormai perfezionata (sentt. 49/2003 e 25/2008). E se questa soluzione è
percorribile per le leggi statutarie delle regioni speciali, appare difficile negare che essa possa
essere estesa anche agli statuti delle regioni ordinarie, considerata la sostanziale
sovrapponibilità dei procedimenti previsti per la formazione di questi atti.
Tuttavia, dal punto di vista pratico, il problema è stato risolto in gran parte degli ordinamenti
regionali in seguito alla scelta, effettuata dalle regioni con legge, di prevedere la sospensione
delle operazioni referendarie e dei relativi termini in presenza dell'impugnazione governativa.
La scelta appare legittima, trattandosi della disciplina di una fase procedimentale la cui
regolazione è parzialmente disponibile da parte della regione, e la legittimità di tali previsioni
sembra confermata dalla Corte costituzionale, la quale, nella sent. 12/2006,
ha positivamente menzionato gli «accorgimenti validamente utilizzabili – e di fatto utilizzati da
molte regioni - per evitare la sovrapposizione di procedimenti nell'ipotesi di impugnazione dello
statuto da parte del Governo».
B) Il secondo problema - una volta ammesso che l'iter di formazione dello statuto è sospeso in
seguito al ricorso del governo - è quello dell'incidenza delle pronunce della Corte che
definiscono il giudizio di impugnazione dello statuto sul seguito del procedimento.
Se la sentenza della Corte annulla integralmente l'atto - ed è un'eventualità che potrebbe
verificarsi in presenza di vizi procedimentali che inficiano l'intero statuto (mancato
raggiungimento della maggioranza assoluta, mancato rispetto dell'intervallo dilatorio tra prima
e seconda approvazione ecc.) – il procedimento deve di necessità ripartire da capo. Nel caso
opposto, quando cioè la decisione dichiara inammissibile il ricorso o lo rigetta nel merito, il
procedimento deve riprendere da dove si era interrotto, e si pone il problema – variamente
risolto nella legislazione regionale - circa la precisa individuazione del termine in cui cessa la
sospensione delle operazioni e quello relativo alla validità delle attività referendarie già
compiute.
Più complesso è il caso di un accoglimento parziale. In tale evenienza si impongono delle
distinzioni, da operare sulla base del tipo di contenuto interessato dalla pronuncia.
a) Se la sentenza della Corte colpisce uno dei contenuti necessari (in senso stretto) dello
statuto, e per effetto dell'annullamento l'atto non copre più in modo sufficiente gli oggetti di
necessaria disciplina statutaria, si impone il ritorno dello statuto in consiglio regionale per
l'integrazione dell'atto. Il procedimento regredisce quindi alla fase della prima approvazione.
Questa ipotesi si è verificata nel caso deciso con la sent. 2/2004, che ha annullato la norma
sull'elezione del presidente della giunta contenuta nella delibera statutaria della Calabria, e nel
caso definito con la sent. 12/2006, in cui l'accoglimento ha riguardato importanti norme sulla
forma di governo (tra cui la norma sulla fiducia iniziale al presidente della giunta e quella sulla
sfiducia individuale ai singoli assessori) contenute nello statuto dell'Abruzzo.
b) Per contro, se l'annullamento riguarda una norma che sta fuori dal contenuto possibile dello
statuto - come è accaduto nel caso delle sentt. 378 e 379/2004, che hanno censurato per
incompetenza le norme sulle incompatibilità degli assessori introdotte dagli statuti dell'Umbria
e della Emilia-Romagna, norme che possono trovare posto solo nella legge elettorale ex art.
122.1 Cost. - il procedimento può, e anzi deve, continuare, in quanto non vi è nulla da
modificare o da integrare.
c) La terza ipotesi è quella della decisione della Corte che incide su una parte eventuale del
contenuto necessario: pensiamo al caso dell'annullamento delle norme sull'organo di garanzia
statutaria. In tal caso la scelta sul seguito è aperta, potendo la regione optare per l'integrazione
dello statuto, con la sostituzione della parte annullata, o per il mantenimento del testo
risultante dalla pronuncia della Corte,
A differenza del caso in cui l'iter prosegue dopo una sentenza di rigetto, nelle ipotesi in cui il
procedimento prosegue dopo una sentenza di annullamento parziale - e quindi nei casi sub b) e
c) - le operazioni referendarie eventualmente intraprese sono necessariamente azzerate e il
termine di tre mesi per la proposizione del referendum è interrotto, riprendendo a decorrere ex
novo. Tale conseguenza è imposta dalla circostanza che l'intervento della Corte, incidendo sul
testo della delibera statutaria, incide di riflesso anche sul quesito referendario: essendo mutato
parzialmente l'oggetto del referendum le operazioni già avviate perdono effetto e ai soggetti
legittimati deve essere dato un nuovo termine intero. Dovrebbe quindi essere prevista, in tale
caso, una nuova pubblicazione della delibera statutaria, nel testo risultante dalla
sentenza della Corte. Molte regioni, invece, prevedono che il nuovo termine di tre mesi decorre
dalla pubblicazione della sentenza della Corte o dalla pubblicazione di un avviso relativo alla
sentenza nel BUR.
Poiché il giudizio di sufficienza rispetto al contenuto necessario può essere opinabile e poiché è
discrezionale la valutazione in ordine alla rilevanza delle disposizioni colpite dalla Corte
nell'ambito del sistema delle norme statutarie, in ogni caso di annullamento parziale la scelta
circa la prosecuzione dell'iter andrebbe affidata congiuntamente al presidente della giunta,
responsabile della promulgazione, e al consiglio regionale, che è l'organo cui l'art. 123
Cost. affida la potestà statutaria.
Una volta superati positivamente il giudizio della Corte e l'opposizione referendaria o decorso il
termine di tre mesi senza che sia stata presentata la richiesta di referendum, lo statuto è
promulgato dal presidente della giunta e pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione ed
entra in vigore decorso il periodo di vacatio legis.
Quanto alla promulgazione, è interessante notare che gli statuti regionali sono stati promulgati
con un nomen iuris diverso a seconda della regione. Talune regioni hanno scelto di promulgare
lo statuto con il nome di «statuto», senza numerazione; altre hanno optato per la
denominazione «legge statutaria», e hanno attribuito a tale atto una numerazione autonoma
rispetto alle altre leggi regionali; altre regioni ancora hanno trattato lo statuto come una
comune legge regionale, attribuendo a esso una numerazione progressiva non distinta da
quella delle altre leggi.

Le ulteriori impugnazioni dello statuto


Una volta che lo statuto è promulgato e pubblicato va escluso che l'atto sia impugnabile in via
successiva come una comune legge regionale, ai sensi dell'art. 127.1 Cost., in quanto il meno favorevole
regime di impugnazione con ricorso preventivo assorbe l'altro regime che vale per tutte le leggi
regionali (sent. 469/2005).
Eventuali vizi di costituzionalità che siano intervenuti successivamente alla proposizione del ricorso del
governo possono essere fatti valere con un secondo ricorso ex art. 1233 Cost, entro
trenta giorni dall'ulteriore pubblicazione notiziale che si rende necessaria quando lo statuto è emendato
dopo un annullamento parziale, e che è prevista da molte regioni (in forme diverse, spesso limitate a un
comunicato) anche per l'ipotesi in cui il procedimento prosegua, senza regredire, dopo la pronuncia
della Corte costituzionale.
Qualora tale seconda pubblicazione notiziale sia illegittimamente mancata, ovvero si siano prodotti dei
vizi nuovi dopo la pubblicazione notiziale - pensiamo al caso in cui il presidente della giunta promulghi
senza attendere il termine previsto per la presentazione della richiesta di referendum oppure al caso in
cui le procedure referendarie siano invalide – al governo rimane la strada dell'impugnazione dell'atto di
promulgazione dello statuto per mezzo del conflitto di attribuzione e l'ipotesi che si è verificata con la
legge statutaria della Sardegna, la cui promulgazione è stata oggetto del conflitto deciso con la sent.
149/2009 (vedi S V.2).
Rimane sempre ferma, naturalmente, la possibilità di un giudizio in via incidentale sullo statuto (per un
caso si veda la sent. 104/2007, con la quale la Corte costituzionale ha annullato una disposizione dello
statuto del Lazio in materia di dirigenza regionale).

IL LIMITE DELL’ARMONIA CON LA COSTITUZIONE


Come detto sopra, nella disciplina dei contenuti affidati alla sua competenza, lo statuto deve
porsi «in armonia con la Costituzione». Con questa formula l'art. 123.1 Cost. descrive il limite
verticale dello statuto, vale a dire quel limite che ci dice come questa fonte può regolare i suoi
oggetti,
Anche il limite verticale degli statuti è stato interessato dalle modifiche introdotte con la legge
cost. 1/1999. Il testo originario dell'art. 123 Cost. prevedeva infatti che lo statuto fosse «in
armonia con la Costituzione e le leggi della Repubblica»; è dunque ora venuto meno il vincolo di
armonia con le leggi della Repubblica, vincolo che era sempre apparso di difficile decifrazione.
In via di fatto le difficoltà interpretative circa l'esatta portata della formula dell'armonia con le
leggi della Repubblica erano relativizzate dalla circostanza che il primo soggetto chiamato a
valutare il rispetto di tale limite fossero le camere in sede di approvazione dello statuto. Data
l'altissima politicità dell'organo, inevitabilmente il parametro - benché configurato dalla
Costituzione come parametro di legittimità e come tale utilizzabile dalla Corte in sede di
giudizio di costituzionalità sugli statuti - veniva assorbito da valutazioni di merito, come
dimostra la vicenda dell'approvazione dei primi statuti, le cui norme sono state spesso valutate
dal Parlamento anche in relazione alla loro opportunità (vedi S III.5). L'abolizione del controllo
parlamentare sugli statuti, più che l'abrogazione del riferimento alle «leggi della Repubblica,
ha inciso sul limite verticale degli statuti, perché oggi la verifica del rispetto del limite è affidata
non più a un organo politico, bensì in via esclusiva alla Corte costituzionale, e quindi il
parametro dell'armonia si è riconvertito in un parametro di legittimità.
L'eliminazione del vincolo di armonia con le leggi della Repubblica non ha però definitivamente
risolto i nodi interpretativi, che si sono spostati sull'esegesi della formula dell'«armonia con la
Costituzione» e che oggi non possono essere elusi, essendo giurisdizionale l'applicazione del
parametro.
La locuzione si presta a essere intesa alternativamente o come qualcosa di meno rispetto al
vincolo al rispetto della Costituzione, e dunque come vincolo ai principi ricavabili dalle singole
disposizioni costituzionali e non alle regole di dettaglio; o, al contrario, come qualcosa di più, e
dunque come formula diretta a rendere più penetrante il limite costituzionale.
La Corte costituzionale ha scelto con decisione la seconda interpretazione, avendo affermato
che «il riferimento all'armonia”, lungi dal depotenziarla, rinsalda l'esigenza di puntuale rispetto
di ogni disposizione della Costituzione, poiché mira non solo a evitare il contrasto con le singole
previsioni di questa, dal quale non può certo generarsi armonia, ma anche a scongiurare il
pericolo che lo statuto, pur rispettoso della lettera della Costituzione, ne eluda lo
spirito» (sent. 304/2002). Al contempo la Corte ha sottolineato come il riconoscimento
costituzionale dell'autonomia statutaria impedisca, in assenza di una disciplina costituzionale
chiaramente riconoscibile, di ritenere obbligate determinate soluzioni organizzative:
«l'autonomia è la regola; i limiti sono l'eccezione» (sent. 313/2003). Non è agevole trovare il
punto di equilibrio tra l'esigenza di rispetto dello spirito della Costituzione e quelli che i giudici
costituzionali hanno definito gli «eccessi di costruttivismo interpretativo» (vale a dire la
costruzione per astrazione di un modellino istituzionale, che lo statuto può solo portare a
esecuzione). La giurisprudenza costituzionale intervenuta sugli statuti offre però qualche
indicazione per orientarsi.
A) Anzitutto, il limite dell'armonia comporta, per gli statuti, l'obbligo del puntuale - e letterale –
rispetto di ogni disposizione costituzionale che abbia per destinatarie le regioni.

L'importanza della lettera


In applicazione di questo canone, la Corte ha annullato la norma contenuta nello statuto della regione
Abruzzo che prevedeva, quale conseguenza dell'approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del
presidente della giunta, la decadenza della giunta, quando l'art. 126.3 Cost. prevede, per tale ipotesi, le
dimissioni della giunta (sent. 12/2006).
Ancora, la Corte ha dichiarato illegittime le norme di una legge statutaria che mutavano il nome del
consiglio regionale e dei consiglieri regionali rispettivamente in «Parlamento regionale» e in «deputato
regionale»; la denominazione degli organi di vertice della regione, infatti, non è disponibile da parte
degli statuti perché sul punto non c'è un vuoto di disciplina costituzionale, visto che l'art. 122 Cost,
assegna un preciso nome ai diversi organi politici dell'ente (sent. 306/2002).
Il rigore dei giudici costituzionali traspare da un'ordinanza di correzione di errori materiali (ord.
115/2011) con cui la Corte ha rettificato un passaggio di una propria decisione (e precisamente dell'ord.
20/2011, dichiarativa dell'estinzione del processo) in cui il presidente della giunta regionale era
menzionato come «governatore», termine utilizzato da una delle parti negli atti difensivi. Con
l'ordinanza in parola la Corte ha sostituito l'espressione che le era scivolata dalla penna con la corretta
denominazione «presidente della giunta».

B) In secondo luogo, il limite dell'armonia importa che le norme costituzionali, pur rispettate
nella lettera, non siano eluse nella portata precettiva che risulta dalla loro ratio. Il tentativo di
una regione di aggirare il meccanismo
del simul stabunt, simul cadent tramite la previsione statutaria di un'elezione del presidente
della giunta formalmente consiliare, ma sostanzialmente diretta (perché la scelta, da parte del
consiglio regionale, di un presidente diverso da quello indicato dal corpo elettorale era
sanzionata con lo scioglimento dell'assemblea legislativa), è stato quindi censurato come
elusivo dell'art. 126.3 Cost. (sent. 2/2004; vedi S V.6).
C) Un terzo profilo del limite dell'armonia - enucleato dalla Corte costituzionale - consiste nella
soggezione dello statuto alle leggi di diretta attuazione del Titolo V, cui la Costituzione fa
specifico rinvio (artt. 117.5, 119, 120.2). I giudici costituzionali hanno evidenziato che il quadro
nel quale lo statuto regionale si colloca è costituito dal «sistema costituzionale complessivo,
che si articola nei principi contenuti nelle singole norme della Carta fondamentale e delle leggi
ordinarie di diretta attuazione» (sent. 12/2006) e hanno utilizzato, nel sindacare lo statuto
regionale, le norme della legge 131/2003 relativa agli obblighi europei come parametro di
costituzionalità interposto in riferimento all'art. 117.5 Cost. (sent. 63/2012). È interessante
notare come questa giurisprudenza finisca per recuperare nel nuovo limite dell'armonia con la
Costituzione anche il vecchio vincolo di armonia con le leggi della Repubblica, sia pure intese in
modo estremamente restrittivo.
A ben vedere, questi tre aspetti appena illustrati appaiono la descrizione dell'operare del
comune limite costituzionale secondo modalità consuete che valgono per l'interpretazione
delle disposizioni costituzionali (interpretazione letterale e secondo la ratio; divieto di elusione
dei precetti costituzionali; integrazione del parametro con norme interposte); in effetti, nella
giurisprudenza della Corte l'evocazione del concetto di armonia compare in funzione
prevalentemente rafforzativa.
D) Il limite in esame assume invece autonoma portata precettiva allorché esso condiziona
l'esplicazione dell'autonomia statutaria in ordine ad oggetti sui quali la Costituzione - con
riferimento agli ordinamenti regionali – non detta norme specifiche: l'esempio potrebbe essere
la disciplina del referendum ex art. 75 Cost, o quella del procedimento legislativo, che la
Costituzione regola solo in riferimento allo Stato. In tali ipotesi ciò che è vincolante sono
i principi sottesi alle norme costituzionali che regolano gli omologhi oggetti in relazione
all'organizzazione statale. Qui cogente non è il dettaglio delle disposizioni dettate per lo Stato;
vincolanti sono piuttosto le scelte di fondo che conformano e caratterizzano i diversi istituti. Se
ne vedranno le applicazioni concrete quando saranno esaminati i lineamenti dell'organizzazione
regionale, ma occorre fin da subito avvertire delle difficoltà che tale criterio presenta,
soprattutto in relazione alle ipotesi in cui l'istituto regolato nella parte della Costituzione
relativa allo Stato presenti differenze sostanziali rispetto a un analogo istituto regolabile a
livello regionale (pensiamo al rinvio delle leggi da parte del presidente della Repubblica in
rapporto a un ipotetico rinvio da parte del presidente della giunta) e alle ipotesi in cui difetti
ogni disciplina costituzionale (qual è il significato dell'armonia con il silenzio della
Costituzione?).
E) Più discutibile, invece, è l'integrazione del limite dell'armonia con la Costituzione con leggi
delle Repubblica dettate dallo Stato nell'esercizio di competenze molto generali, operazione
con cui la giurisprudenza costituzionale ha finito per recuperare il limite volutamente soppresso
dalla legge cost. n. 1/1999. È pur vero che può esservi interferenza tra titoli di competenza
statale trasversale e materia statutaria; ma tale interferenza dovrebbe essere risolta, secondo
un criterio di specialità, assicurando la prevalenza della riserva a favore della fonte regionale
specializzata, cioè dello statuto.

LA POSIZIONE DELLO STATUTO NEL SISTEMA DELLE FONTI


La Costituzione configura lo statuto come una fonte necessaria, come si ricava dal presente
imperativo che compare nell'art. 123.1 Cost. («ogni regione ha uno statuto» = «ogni regione
deve avere uno statuto»).
La qualificazione dello statuto regionale come fonte normativa necessaria ha come
conseguenza il divieto di abrogazione secca dell'atto, che può essere abrogato solo attraverso
la contestuale approvazione di un nuovo statuto che a esso si sostituisca. Tale principio, che è
esplicitato in molti statuti ma che discende direttamente dall'art. 123 Cost., porta con sé anche
l'inammissibilità del referendum abrogativo sullo statuto, inammissibilità che comunque è
espressamente prevista negli statuti e che si può motivare anche con ulteriori argomenti,
analoghi a quelli che si utilizzano per escludere l'abrogazione popolare delle leggi costituzionali
approvate ai sensi dell'art. 138 Cost.
Per effetto di un'oggettiva ambiguità del testo costituzionale, rimane incerta la natura dello
statuto regionale.
L'art. 123 Cost. definisce tale atto come «statuto», appunto, riprendendo un nomen utilizzato
anche nell'art. 114.2 Cost., ma afferma altresì che lo statuto è «approvato con legge» e
aggiunge che «per tale legge non è richiesto il visto del Commissario del Governo». Sorge quindi
il dubbio se lo statuto sia un atto-fonte a sé, distinto dal genus delle leggi [D'Atena 2017], o se
invece tale atto normativo appartenga alla categoria delle leggi regionali, atteggiandosi come
legge regionale rinforzata (Carli e Fusaro 2002, 212].
Il nomen degli statuti nella teoria e nella prassi
La prassi non offre elementi risolutivi. Talune regioni hanno promulgato il proprio statuto con il nomen
iuris di «statuto» (Toscana, Abruzzo); altre come «legge statutaria », con una numerazione autonoma
rispetto a quella delle leggi regionali (Lazio, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Basilicata); altre,
infine, non distinguono lo statuto dalle comuni leggi regionali né nel nomen, né nella numerazione, e
rendono identificabile lo statuto solo nel titolo della legge e nella formula di promulgazione, che
menziona la doppia deliberazione consiliare e l'assolvimento degli altri adempimenti di cui all'art. 123.2
e 3 Cost. (Emilia-Romagna, Umbria, Calabria, Campania, Molise). Le stesse divergenze si ritrovano
all'interno degli statuti, nelle sezioni dedicate all'individuazione delle fonti regionali: taluni statuti
distinguono lo statuto o le leggi statutarie dalle leggi regionali (St. Tosc., art. 39; St. Lomb., artt. 31-33),
altri non menzionano tale atto normativo, parlando solo della potestà legislativa e di quella
regolamentare (St. Um., artt. 34-40). Se però guardiamo al dato costituzionale complessivo, e quindi al
procedimento di formazione dello statuto, alla sua posizione rispetto alla legge regionale e al suo valore
(inteso come trattamento giuridico dell'atto), la soluzione più corretta sembra essere quella della
qualificazione dello statuto come una fonte del diritto a sé e non come legge regionale rinforzata,
nonostante la Costituzione ne parli – probabilmente in modo atecnico - come di un atto approvato con
legge regionale.

Sotto il profilo del procedimento, i rinforzi che caratterizzano l'iter di formazione dello statuto
rispetto a quello previsto per le ordinarie leggi regionali sono per numero e qualità tali da rendere
dubbia l'appartenenza delle due fonti a un'unica categoria, tanto più che gli aggravamenti
procedimentali previsti dall'art. 123 Cost. ricalcano quelli prescritti dall'art. 138 Cost. per la
formazione delle leggi costituzionali, che sono una fonte diversa dalle leggi ordinarie.
Quanto alla sua forza, lo statuto si pone (salve le precisazioni che si faranno subito) in posizione di
sovraordinazione gerarchica rispetto alla legge regionale, mentre normalmente il rapporto tra
legge rinforzata e legge ordinaria si configura come un rapporto di competenza.
Infine, se guardiamo al valore dell'atto, lo statuto si differenzia dalle leggi regionali per il
procedimento di controllo, che è introdotto da un ricorso preventivo e non da un ricorso
successivo, elemento, questo, sottolineato dalla Corte costituzionale nelle sentenze 304/2002 e
469/2005.
Se la questione dell'ascrizione dello statuto al genus della legge regionale o a una categoria a sé
può apparire essenzialmente nominalistica, sicuramente rilevante è la precisa collocazione dello
statuto all'interno del sistema delle fonti, e quindi l'individuazione delle relazioni con gli altri atti
normativi che costituiscono l'ordinamento giuridico.
A) Rispetto alla Costituzione, lo statuto si pone in posizione di sicura subordinazione gerarchica:
come si è ricordato sopra, il limite dell'armonia non si risolve in un'attenuazione, bensì in un
irrigidimento del vincolo al rispetto della Costituzione. Lo statuto, pertanto, non può derogare ad
alcuna norma costituzionale, salve naturalmente quelle norme che si dichiarino dispositive, come
ad esempio la norma che prescrive l'elezione diretta del presidente della giunta regionale.
B) Nei confronti della legge statale, lo statuto si trova in rapporto di tendenziale separazione di
competenza: di separazione di competenza, perché alla legge statale non è dato di condizionare in
un modo o nell'altro l'autonomia statutaria; solo tendenziale, perché si è visto che l'obbligo di
armonia con la Costituzione impegna lo statuto anche a rispettare quelle specifiche leggi cui le
disposizioni del Titolo V fanno puntuale rinvio, e che si pongono quindi come norme interposte
rispetto all'art. 123.1 Cost.
Già prima dell'eliminazione del vincolo di armonia con le leggi della Repubblica, la Corte
costituzionale aveva fatto valere in modo abbastanza rigoroso la riserva di competenza a favore
dello statuto in materia di organizzazione interna, annullando le norme statali che pretendevano
di individuare l'organo della regione competente a esercitare determinate funzioni (sentt.
407/1989; 353/1992; 74/2001). Successivamente alla novella dell'art. 123.1 Cost. questa
conclusione si impone con maggiore forza, se consideriamo che è venuto meno il vincolo di
armonia con le leggi della Repubblica e dunque lo specifico titolo che avrebbe potuto legittimare le
interferenze della legislazione statale con l'autonomia statutaria. E la giurisprudenza
costituzionale, in linea con l'indirizzo di cui si è dato conto, ha confermato che non spetta alla
legge statale assegnare funzioni a organi regionali da essa individuati, perché ciò viola l'autonomia
organizzativa della regione, garantita sia dall'art. 123 sia dall'art. 117.4. Cost., visto che tale
materia è di competenza residuale della regione (sentt. 387/2007; 192/2017).
La linearità di questa ricostruzione è però incrinata da ulteriori ipotesi in cui sono possibili
condizionamenti derivanti dalla legge statale a carico dello statuto e quindi la separazione di
competenza tra statuto e legge statale risulta ulteriormente relativizzata.
a) Anzitutto, la Corte costituzionale ammette che lo Stato, nell'esercizio di proprie competenze
legislative esclusive nelle materie dell'art. 117.2 Cost., possa imporre alla regione la forma del
provvedere, per esempio imponendo una riserva di atto amministrativo (Corte cost., sentt.
20/2012; 44/2010; 271 e 250/2008). Tale vincolo incide sull'organizzazione regionale, se si
considera che dietro gli atti ci sono organi. In verità, dove la legge statale impone alla regione di
esercitare una certa funzione con atto amministrativo, nulla impedirebbe alla regione di intestare
comunque la funzione in parola al consiglio, anziché a organi esecutivi come la giunta o il
presidente della giunta. Ma diverso è il caso di una legge statale che obbligasse la regione a
provvedere con legge, visto che in tale ipotesi alla forma della legge corrisponde necessariamente
una competenza inderogabile del consiglio regionale. Tale ipotesi potrebbe però trovare copertura
nell'art. 121.2 Cost., a mente del quale il consiglio regionale esercita le funzioni attribuitegli dalla
Costituzione e dalle leggi, se per «leggi» si intendono anche le leggi statali.
b) In secondo luogo, la giurisprudenza costituzionale ha fatto applicazione, senza sollevare rilievi
critici, di leggi statali che prescrivevano condizionamenti procedimentali per formazione di atti
legislativi della regione. Significativa è la sent. 237/2009, relativa alla norma che impone alla
regione di sentire il consiglio delle autonomie nell'ambito dei procedimenti legislativi per il
riordino delle comunità montane; qui la legge statale interferisce sia nella disciplina del
procedimento, sia nella disciplina delle funzioni del CAL, e dunque su due oggetti di competenza
statutaria (analogamente, la sent. 22/2014 ha fatto salva, in quanto principio di coordinamento
della finanza pubblica, la norma statale che prescriveva alle regioni la concertazione con gli enti
locali interessati, nell'ambito del CAL, per l'individuazione della dimensione territoriale ottimale e
omogenea per lo svolgimento associato di funzioni fondamentali dei comuni).
c) Infine, condizionamenti potrebbero venire da titoli di intervento trasversali dello Stato, capaci di
incidere anche in settori affidati all'autonomia statutaria della regione: pensiamo alla disciplina del
pubblico impiego privatizzato, attratta nell'ordinamento civile (sentt. 171/1999 e 63/2012), o
all'armonizzazione dei bilanci pubblici, titolo che potrebbe legittimare vincoli relativi alla disciplina
del bilancio regionale, tanto più ora che tale materia è passata nella competenza esclusiva dello
Stato (art. 3, legge cost. 1/2012).
d) Infine, non è escluso che siano imposte all'osservanza del legislatore statutario determinate
declinazioni dei principi costituzionali sull'amministrazione scolpiti nell'art. 97 Cost., come attuato
nella legislazione statale: pensiamo al principio della separazione tra politica e amministrazione o a
basilari principi sul procedimento amministrati
Si può allora parlare ancora di una riserva di statuto opponibile alla legge statale? La risposta
positiva alla domanda presuppone che si faccia valere la specialità della materia di cui all'art. 123
Cost, rispetto a titoli trasversali generalissimi. A sua volta, l'applicazione del criterio di specialità
presuppone che siano individuati e circoscritti con sufficiente precisione i macro-oggetti di
competenza dello statuto, operazione che non è agevole soprattutto in relazione ai principi di
organizzazione e funzionamento.
Coordinamento della finanza pubblica e numero dei consiglieri regionali
Nell'ambito di una manovra di riduzione della spesa pubblica il legislatore statale, con il decreto-legge
138/2011 convertito dalla legge 148/2011, è intervenuto anche sul costo degli apparati istituzionali,
disponendo direttamente la riduzione dei componenti degli organi politici di comuni e province (art. 13) e
«incentivando» la riduzione del numero dei consiglieri regionali e degli assessori (art. 14) attraverso misure
premiali di carattere finanziario riservate alle regioni che modifichino in tal senso gli statuti, in conformità ai
parametri previsti dalla legge stessa
(questo entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto-legge, tempo appena sufficiente per il
procedimento ex art. 123 Cost. e sempre che non intervengano le opposizioni, governativa o referendaria,
ivi previste). La legge 183/2011 (legge di stabilità 2012, art. 30.5) ha poi eliminato il meccanismo premiale,
così che l'obbligo di riduzione è stato prescritto in modo incondizionato.
Il titolo di competenza sul quale si fonda la norma statale è il «coordinamento della finanza pubblica»,
materia di competenza concorrente che consente quindi allo Stato di intervenire dettando principi
fondamentali. Prevale la competenza statale o l'autonomia statutaria?
Ragionando come si è detto sopra si dovrebbe negare che lo Stato, utilizzando un titolo competenziale
privo di confini materiali (essendo il coordinamento della finanza pubblica una funzione, più che una
materia), possa incidere su uno specifico oggetto che la Costituzione affida all'autonomia statutaria della
regione: ciò senza che rilevi il carattere cogente o soltanto incentivante della norma statale che pone il
condizionamento. La Corte costituzionale, con sent. 198/2012, ha invece ritenuto legittima la norma,
osservando che la determinazione del numero massimo dei consiglieri regionali (e degli assessori) sarebbe
funzionale a garantire l'eguaglianza del voto (art. 48 Cost.) e la parità di accesso alle cariche pubbliche (art.
51 Cost.), attraverso la prescrizione di criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati, dettati nel quadro
della finalità generale di contenimento della spesa pubblica.
Con la stessa sentenza 198/2012 la Corte costituzionale ha salvato anche le norme del d.l. 138/2011 che
fissano limiti alle indennità dei consiglieri regionali e che obbligano le regioni ad istituire un collegio di
revisori con compiti di vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica della gestione dell'ente,
norme incidenti anch'esse sull'autonomia statutaria ed organizzativa della regione.
Successivamente la Corte ha utilizzato la norma statale sul numero massimo di consiglieri e di assessori
regionali per una sentenza sostitutiva, che è intervenuta direttamente sul testo della delibera statutaria
della regione Calabria impugnata dal governo, correggendo l'indicazione del numero dei componenti del
consiglio regionale e il limite numerico dei componenti della giunta (sent. 35/2014; sulla vicenda Bin [2014,
287]).
La sostituzione diretta della disciplina statutaria ad opera di norme statali è stata prevista anche dall'art. 2.3
del d.-1. 174/2012 convertito dalla legge 213/2012, per cui se al momento delle elezioni la regione non
avesse ancora provveduto alla riduzione del numero dei consiglieri nei termini di cui all'articolo 14 del d.
1.138/2011 le elezioni avrebbero comunque dovuto essere indette per il numero massimo dei consiglieri
regionali previsto in rapporto alla popolazione dalla legislazione statale.

C) Anche il rapporto tra statuto e legge regionale è complesso: prevalentemente è un rapporto di


gerarchia, ma per taluni profili si declina come rapporto di separazione di competenze. In tal senso
la Corte costituzionale ha precisato che tale rapporto è «disegnato dalla Costituzione in termini sia
di gerarchia, sia di competenza» (sentt. 118/2015 e 188/2011).
Il rapporto di gerarchia esiste in relazione agli oggetti di competenza statutaria, che la legge
regionale può disciplinare soltanto in conformità allo statuto.
A prendere sul serio la giurisprudenza che nega effetti giuridici alle norme programmatiche degli
statuti, in relazione a tali contenuti eventuali non vi sarebbe soggezione della legge allo statuto,
con la conseguenza che la legge regionale potrebbe ignorare tali disposizioni e disporre in modo
difforme da ciò che esse dicono.
L'esistenza di un rapporto di gerarchia tra statuto e legge regionale è stata affermata a chiare
lettere dalla Corte costituzionale sia nella sent. 304/2002, che qualifica lo statuto come l'atto
normativo che si pone al vertice del sistema delle fonti regionali, e nelle successive sentenze che
hanno ragionato della «forza cogente e condizionante» di tale atto rispetto alla legge regionale
(sentt. 119/2006 e 130/2016); sia nelle decisioni che hanno annullato leggi regionali che
contrastavano con previsioni statutarie (sentt. 118/2015; 188/2011; 188/2007; 313/2003). Tale
rapporto è presupposto dalle stesse norme statutarie che istituiscono gli organi di garanzia
statutaria assegnando a essi anche il compito di verificare la compatibilità delle delibere legislative
con lo statuto.
Se l'esistenza del rapporto di gerarchia vieta alla legge regionale di regolare gli oggetti di cui all'art.
123.1 Cost. in difformità dello statuto, l'esistenza, sulle medesime materie, di una riserva (relativa)
di statuto, e quindi di una competenza riservata, impedisce alla legge regionale di intervenire in
assenza di ogni previsione statutaria.
In relazione alla legge regionale, l'art. 123 Cost. si pone quindi come parametro che può essere
violato sia in modo indiretto attraverso la violazione dello statuto quale norma interposta, sia in
modo diretto.

LA FORMA DI GOVERNO
Quando si parla di forma di governo con riferimento alle regioni si intende l’assetto dei rapporti
tra gli organi regionali.
L’art. 121 Cost. stabilisce che sono organi della Regione: il Consiglio regionale, la Giunta e il
suo Presidente.
La Costituzione del 1948 predeterminava in larga parte gli assetti della forma di governo regionale,
pur consentendo alle regioni alcune opzioni importanti.

La forma di governo regionale nella Costituzione del 1948


Nel testo originario, l'art. 121.1 Cost. individuava come organi della regione, il consiglio regionale, la giunta
e il suo presidente; l'art. 121.5 Cost. disponeva che il presidente e i membri della giunta fossero eletti dal
consiglio regionale tra i suoi componenti; l'art. 126.1 Cost., nel riferirsi alla sostituzione della giunta o del
suo presidente da parte del consiglio (per l'ipotesi che l'esecutivo si fosse reso responsabile di atti contrari
alla Costituzione o di gravi violazioni di legge), prevedeva implicitamente il potere dell'assemblea legislativa
di incidere sulla permanenza in carica della giunta. Quanto alle funzioni, l'art. 121.2 Cost. riservava al
consiglio regionale l'esercizio delle potestà legislative e regolamentari attribuite alla regione, e annunciava
la possibilità che tale organo fossero affidate anche altre funzioni (parlando delle «altre funzioni conferitegli
dalla Costituzione e dalle leggi»); sempre l'art. 121 Cost., al terzo comma, configurava la giunta regionale
come l'organo esecutivo delle regioni; al quarto comma, intestava al presidente della giunta la funzione di
rappresentanza istituzionale della regione, il potere di promulgazione delle leggi e dei regolamenti
regionali, nonché la funzione di direzione delle funzioni amministrative delegate dallo Stato alla regione, in
conformità alle istruzioni del governo centrale.
Nel quadro delimitato da questi vincoli costituzionali spettava alla regione, nell'esercizio della sua
autonomia statutaria in punto di «organizzazione interna della regione», imprimere alla propria forma di
governo un orientamento o in senso parlamentare o in senso assembleare.
Lo statuto poteva cioè articolare i rapporti tra consiglio e giunta sul modello che vale a livello nazionale nei
rapporti tra camere e governo, imponendo tra questi due organi una necessaria relazione fiduciaria che
sorge con l'approvazione da parte del consiglio del programma di governo predisposto dalla giunta e che
può essere interrotta con una mozione di sfiducia, la quale costringe la giunta alle dimissioni; o, per
converso, lo statuto poteva conferire alla forma di governo un'impronta assembleare, configurando la
giunta come strumento del consiglio, il quale avrebbe concentrato in sé la funzione di determinare
l'indirizzo politico e amministrativo, a partire dalla definizione del programma di governo, e avrebbe
mantenuto il potere di revocare direttamente la giunta.
Gli statuti del 1971 si erano orientati per una forma di governo tendenzialmente assembleare,
considerata – in base agli orientamenti culturali prevalenti all'epoca - maggiormente rispondente
al principio democratico, in quanto il modello assembleare concentrava i poteri di governo e di
direzione dell'ente nell'organo dotato di diretta legittimazione democratica e rappresentativo
anche delle minoranze politiche, lasciando all'organo esecutivo i soli compiti di attuazione delle
determinazioni del consiglio. In grande parte delle regioni, infatti, lo statuto attribuiva
direttamente al consiglio il potere di elaborare il programma di governo e intestava
all'assemblea legislativa anche svariati compiti amministrativi, spesso non limitati
all'approvazione di atti generali, o di indirizzo, o di pianificazione, bensì estesi anche
all'adozione di provvedimenti puntuali. Molti statuti arrivavano a prevedere una competenza
amministrativa residuale in capo agli stessi consigli regionali.

Crisi del modello assembleare


Nella prassi, il sistema assembleare è progressivamente andato in crisi per una serie di ragioni.
Anzitutto, la difficoltà per il consiglio di esercitare consapevolmente il grande numero di funzioni che
almeno sulla carta gli erano affidate ha finito per spostare sulla giunta i poteri sostanziali di decisione:
sintomatico è il caso del potere regolamentare, riservato per Costituzione al consiglio ma di fatto
surrogato da delibere di giunta con contenuto generale e astratto, quindi sostanzialmente
regolamentari. In secondo luogo, la frammentazione della composizione politica dei consigli regionali,
determinata da un sistema dei partiti contraddistinto da un accentuato pluripartitismo e da un sistema
elettorale rigorosamente proporzionale, rendeva più deboli le assemblee legislative e instabili le giunte
di coalizione. In terzo luogo, il legame diretto che veniva a crearsi tra partiti e giunte regionali
contribuiva a fare dell'esecutivo il vero luogo di decisione e l'interlocutore privilegiato degli interessi
organizzati. In ragione del controllo dei partiti sulle giunte regionali la stessa formazione degli esecutivi
e le crisi di giunta erano decise fuori dall'assemblea, e quindi il consiglio si trovava a non esercitare
nemmeno uno degli importanti poteri che avrebbero dovuto caratterizzare la forma di governo in senso
assembleare. Tra l'altro, la fondamentale anima unitaria dei partiti politici italiani faceva sì che le
questioni riguardanti gli accordi di coalizione venissero concordate nelle segreterie nazionali dei partiti;
sicché era frequente che un mutamento della maggioranza di governo a livello statale determinasse la
crisi di giunta nelle regioni rette da maggioranze improntate alla stessa formula politica del governo
nazionale dimissionario. Un'ulteriore ragione di rafforzamento dell'esecutivo - questa volta legata a un
dato istituzionale e non del sistema politico - era determinata dallo sviluppo di un sistema di
collegamento tra Stato e regioni incentrato sulle conferenze, e quindi articolato sui rapporti diretti tra
esecutivo nazionale ed esecutivi regionali.

In questo contesto, un primo tentativo di razionalizzazione della forma di governo è stato


tentato da alcune regioni con la modifica dei propri statuti, attraverso la previsione: a) di una
competenza amministrativa residuale a favore della giunta regionale; b) di un meccanismo di
formazione della giunta che affidava al presidente, già eletto dal consiglio, il compito di
proporre la lista degli assessori, che l'assemblea poteva approvare o respingere solo in blocco;
c) dell'istituto della fiducia costruttiva, in base al quale la mozione di sfiducia doveva
individuare i nuovi indirizzi politici e programmatici (legge 336/1990, che approva il nuovo
statuto dell'Emilia-Romagna; legge 44/1992 che approva il nuovo statuto dell'Umbria; l'istituto
era già presente sin dall'origine nello statuto del Piemonte, ma non aveva mai funzionato).
Ma le modifiche più incisive sono state introdotte dal legislatore statale in via generale per
tutte le regioni a statuto ordinario.
Inizialmente il Parlamento è intervenuto con la legge 43/1995, la quale ha modificato la
legislazione ordinaria: a) correggendo il sistema elettorale con un elemento maggioritario, in
coerenza con le riforme elettorali iniziate con la legge sull'elezione diretta del sindaco (leggi
81/1993) e proseguite, su impulso del referendum del 18 aprile 1993, con le leggi elettorali di
Camera e Senato (leggi 276 e 277/1993); b) dettando altre norme dirette a semplificare il
quadro politico in senso bipolare, tramite l'indicazione, sulla scheda elettorale, dei candidati
alla presidenza della giunta, l'introduzione di clausole di sbarramento e la riserva di un seggio in
consiglio regionale per il candidato alla carica di presidente della giunta arrivato secondo alle
elezioni;
c) prevedendo un meccanismo di stabilizzazione degli esecutivi regionali, che sanzionava con lo
scioglimento automatico del consiglio il venir meno, entro il biennio successivo alle elezioni, del
rapporto fiduciario tra assemblea e giunta.
Essendo contenute in una legge ordinaria, le norme di riforma non hanno potuto toccare
direttamente l'elezione del presidente della giunta e degli assessori, affidata dalla Costituzione
al consiglio regionale: tuttavia, l'indicazione sulla scheda elettorale del nome del candidato alla
carica di presidente della giunta è stata sufficiente per creare un vincolo- non giuridico, ma
politico-a carico dei consigli, che non si sono mai discostati, in sede di prima elezione del
presidente della giunta, dall'indicazione proveniente dal corpo elettorale.
Proprio i condizionamenti di fatto promananti da un vincolo politico hanno però fatto dubitare
della legittimità di questo intervento in riferimento alle prerogative costituzionali del consiglio,
così come è parsa problematica la costituzionalità della previsione, con legge ordinaria, di una
causa di scioglimento del consiglio regionale aggiuntiva rispetto a quelle individuate - con
indicazione ritenuta tassativa - dall'art. 126 Cost.
Il secondo intervento del legislatore statale sulla forma di governo delle regioni - questa volta in
forma costituzionale - è stato più incisivo.
La legge cost, 1/1999, infatti, oltre ad aver confermato il sistema elettorale di cui alla legge
43/1999: a) ha introdotto l'elezione a suffragio universale e diretto del presidente della giunta;
b) ha ulteriormente rafforzato la posizione del presidente della giunta conferendogli il potere di
nomina e di revoca degli assessori e quello di direzione della politica della giunta; c) ha esteso il
meccanismo di stabilizzazione degli esecutivi consistente nella regola per cui la perdita della
carica da parte del presidente della giunta - per dimissioni volontarie, rimozione, sfiducia,
impedimento permanente o morte – comporta lo scioglimento del consiglio regionale; d) ha
disciplinato, sempre nell'intento di rendere più stabile l'esecutivo, la mozione di sfiducia
imponendo la necessità della maggioranza assoluta per l'approvazione di tale atto.
Tali soluzioni sono state prescritte a tutte le regioni in via transitoria e – salva la disciplina della
mozione di sfiducia, che vale in ogni caso - imposte come vincoli per la forma di governo con
elezione diretta del presidente della giunta.
Nello stesso tempo, la legge cost. 1/1999 ha confermato l'autonomia statutaria in punto
di determinazione della «forma di governo» (esplicitando tale oggetto tra i contenuti necessari)
e anzi ha incrementato i margini di scelta per le regioni. Infatti, il nuovo art. 122.5 Cost.
riconosce agli statuti la possibilità di optare per una forma di governo con elezione diretta del
presidente della giunta o per un modello incentrato sull'elezione consiliare dell'esecutivo,
In tre, anche la disciplina del sistema elettorale è ora affidata alla regione e precisamente alla
legge regionale, nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalla legge statale. Infine, è
venuto meno il vincolo a conferire la potestà regolamentare al consiglio.
I vincoli costituzionali in tema di forma di governo possono essere suddivisi in vincoli di ordine
generale, che valgono cioè in tutti i casi, indipendentemente dall'opzione relativa alle modalità
di elezione del presidente della giunta, e in vincoli speciali, che valgono solo in caso di elezione
diretta del presidente della giunta.
A) Il primo vincolo comune a tutte le forme di governo è rappresentato dalla previsione
necessaria degli organi politici individuati dall'art. 121.1 Cost. nel consiglio regionale, nella
giunta regionale e nel presidente della giunta regionale. A tali organi l'art. 123.4 Cost, aggiunge
il consiglio delle autonomie locali, configurato come organo di consultazione e quindi non come
organo «costituzionale della regione.
Vincolanti, come si è visto, sono le stesse denominazioni degli organi regionali, anche se si è
diffusa negli statuti – senza che ciò abbia suscitato reazioni – la prassi di affiancare alla
denominazione di consiglio regionale il nomen di assemblea legislativa regionale.
L'enumerazione degli organi regionali non ha carattere tassativo, nel senso che gli statuti
possono istituire organi ulteriori. La legittimità di queste previsioni è stata espressamente
confermata dalla Corte costituzionale nelle decisioni che hanno riguardato le disposizioni
relative ai collegi di garanzia statutaria, organi con funzioni di garanzia e consulenza relative
all'applicazione e all'interpretazione delle norme dello statuto (si veda specialmente sent.
12/2006, secondo cui «l'introduzione di un organo di garanzia nell'ordinamento statutario
regionale non è, come tale, in contrasto con la Costituzione, ferma restando la necessità di
valutare, nei singoli specifici profili, la compatibilità delle norme attributive allo stesso di
competenze determinate»; vedi anche le sentt. 200/2008 e 378/2004).
Piuttosto, mutuando una distinzione in uso nella giurisprudenza costituzionale per la
classificazione degli organi dello Stato, si potrebbe dire che è tassativa l'indicazione degli organi
costituzionali della regione, mentre gli statuti sono liberi di istituire organi di rilevanza
statutaria. La tassatività degli organi politici indicati nell'art. 121.1 Cost. dipende non tanto
dalla loro enumerazione nella disposizione costituzionale, quanto dall'intestazione a tali organi,
da parte della stessa Costituzione, dei compiti di indirizzo politico: lo spazio che residua per
l'attribuzione di compiti politici ad altri organi è conseguentemente molto esiguo.
B) Il secondo vincolo consiste dunque nella caratterizzazione degli organi menzionati nell'art.
121.1 Cost. e nelle loro competenze necessarie.
Il consiglio regionale è configurato dalla Costituzione come assemblea legislativa, titolare della
funzione legislativa secondo il modello delle assemblee parlamentari, come si ricava anche dalla
previsione, per il consiglio, di norme parallele a quelle dettate dal Titolo II per le camere.
Nello stesso tempo la Costituzione attribuisce al consiglio altre funzioni che si spiegano con il
carattere direttamente rappresentativo dell'organo, quali l'iniziativa legislativa delle leggi
statali (art. 121.1, secondo periodo, Cost.); l'iniziativa, in concorso con altri quattro consigli
regionali, sia del referendum abrogativo di leggi statali (art. 75.1 Cost.), sia del referendum per
l'opposizione alle leggi costituzionali (art. 138.2 Cost.); l'elezione dei delegati di ciascuna
regione che integrano il Parlamento in seduta comune per l'elezione del presidente della
Repubblica; la competenza a esprimere i pareri per le variazioni territoriali delle regioni, ai sensi
dell'art. 132 Cost. (e per ragioni sistematiche si deve ritenere che spetti sempre al consiglio
regionale il compito di esprimere, per la regione, il parere previsto dall'art. 133.1 Cost. per il
mutamento di circoscrizioni provinciali e per l'istituzione di nuove province nell'ambito di una
stessa regione).
La giunta è definita dall'art. 121.3 Cost. come «l'organo esecutivo della regione». La
Costituzione non specifica di quali funzioni esecutive essa sia titolare, e sarà quindi lo statuto a
dover attribuire a tale organo, necessariamente, un nucleo di funzioni amministrative.
Quanto al presidente della giunta, a tale organo sono attribuiti dall'art. 121.4 Cost., anzitutto, le
funzioni di rappresentanza dell'ente, cui si connette anche il potere di promulgare le leggi e i
regolamenti; in secondo luogo, la direzione della politica della giunta e la connessa
responsabilità; infine, il compito di direzione, secondo le indicazioni del governo, delle funzioni
amministrative delegate dallo Stato alla regione (ipotesi in verità desueta, stante la difficile
configurabilità di una delega di funzioni amministrative dallo Stato alle regioni nel sistema del
nuovo Titolo V.
C) Un terzo vincolo, che riguarda le relazioni tra organi, consiste nella previsione necessaria
della mozione di sfiducia nei confronti del presidente della giunta, secondo la dettagliata
disciplina contenuta nell'art. 126.2 Cost. In base alla disposizione richiamata, il consiglio
regionale può esprimere la sfiducia nei confronti del presidente della giunta mediante mozione
motivata, sottoscritta da almeno un quinto dei suoi componenti, messa in discussione non
prima di tre giorni dalla presentazione, e approvata per appello nominale a maggioranza
assoluta dei componenti.
D) Un ulteriore vincolo è rappresentato dalla peculiare causa di scioglimento funzionale del
consiglio regionale contemplata dall'art. 126.3 Cost., consistente nelle dimissioni contestuali
della maggioranza dei componenti il consiglio.
Dal complesso di questi vincoli risulta ancor oggi l'esclusione delle forme di governo
riconducibili al modello presidenziale, a quello semipresidenziale e a quello direttoriale,
nonché le forme pure del modello parlamentare e di quello assembleare.

Le forme di governo escluse


La forma di governo presidenziale è caratterizzata, oltre che dalla diretta legittimazione democratica del
vertice dell'esecutivo, che assomma in sé anche i poteri di capo dello Stato, dalla rigida separazione tra
potere legislativo ed esecutivo e dall'assenza di un organo esecutivo collegiale assimilabile al Consiglio
dei ministri. A livello regionale, tale forma di governo è esclusa sia per la previsione, in termini di vincolo
costituzionale inderogabile, della possibilità per il consiglio regionale di sfiduciare il presidente della
giunta regionale, sia per la definizione, sempre in Costituzione, della giunta come organo esecutivo della
regione, il che impedisce di configurare gli assessori come meri collaboratori individuali del presidente
della giunta, come invece accade nei sistemi presidenziali ove i ministri sono meri fiduciari del
presidente.
Il modello semipresidenziale, che vede il vertice dell'esecutivo sdoppiato in un capo dello Stato eletto
direttamente dal corpo elettorale e in un capo del governo nominato da questi ma tenuto ad avere la
fiducia del Parlamento (e responsabile di fronte all'assemblea legislativa), non è adottabile da parte
dello statuto regionale, in quanto il presidente della giunta è titolare sia delle funzioni di capo della
giunta, sia di presidente dell'ente (art. 121.4 Cost.).
Quanto al modello direttoriale, incentrato sull'elezione da parte del consiglio di un esecutivo collegiale
destinato a durare per l'intera legislatura, senza possibilità di revoca o di sfiducia da parte
dell'assemblea, e presieduto a turno da uno dei componenti del collegio, si tratta di una forma di
governo che la regione non potrebbe scegliere nemmeno in caso di elezione consiliare dell'intero
esecutivo. Infatti, la Costituzione, in primo luogo, rende obbligatoria la previsione della sfiduciabilità del
presidente della giunta (art. 126.2 Cost.), in secondo luogo, configura il presidente della giunta non
come un primus inter pares, bensì come un soggetto in posizione di primazia rispetto agli altri
componenti della giunta, essendo il presidente - indipendentemente dalle modalità di preposizione alla
carica - titolare del potere di direzione della politica della giunta e della relativa responsabilità (art.
121.4 Cost.); nel sistema direttoriale, invece, la rotazione dell'incarico presidenziale fa sì che non possa
essere configurata una primazia del presidente rispetto agli altri componenti del collegio.

Rimangono quindi le forme di governo parlamentare e assembleare, che però non sono
praticabili dalle regioni nelle forme pure del modello.
La prima, infatti, è preclusa dall'assenza, a livello regionale, di una figura analoga a un capo
dello Stato in posizione di terzietà, figura-chiave per la risoluzione delle crisi di governo:
l'intestazione delle funzioni di rappresentanza istituzionale dell'ente in capo al presidente della
giunta impedirebbe allo statuto di istituire un capo della regione assimilabile al presidente della
Repubblica; ed è dubbio che funzioni arbitrali in caso di crisi di giunta possano essere attribuite
al presidente del consiglio regionale, come pure si è ipotizzato, visto che tale figura è
costituzionalmente prevista (art. 121.2 Cost.) come organo dell'assemblea, e quindi la soluzione
della crisi verrebbe comunque dall'interno del consiglio regionale e non attraverso il
coinvolgimento di un soggetto terzo.
La forma assembleare pura, di contro, è impossibile stante la perdurante configurazione della
giunta regionale come organo esecutivo della regione, cosa che esclude la concentrazione del
potere esecutivo in capo al consiglio e la riduzione della giunta a un comitato attraverso il quale
il consiglio dà attuazione alle proprie decisioni.
Pur in questa trama definita esternamente dall'esclusione pregiudiziale di determinate forme di
governo e intessuta di vincoli costituzionali puntuali, allo statuto regionale rimane aperta,
anzitutto, l'opzione circa un modello con elezione diretta del presidente - in buona parte
costituzionalmente determinato - e un modello con elezione consiliare, maggiormente aperto
alle sperimentazioni statutarie.
Invero, il legislatore costituzionale del 1999 ha espresso la preferenza per la forma di governo
con elezione diretta del presidente: a) prescrivendo tale modello come forma di governo
transitoria fino all'entrata in vigore dei nuovi statuti (art. 5), e b) indicandolo come forma di
governo standard, vale a dire come il modello che vale «salvo che lo statuto regionale disponga
diversamente» (art. 122.5 Cost.).
Tale preferenza, peraltro, parrebbe sorretta dagli orientamenti culturali ancora dominanti in
questo momento storico, i quali hanno reso politicamente impraticabile la scelta di modelli
alternativi. A conferma di ciò è valsa l'esperienza della prima legge statutaria della regione
Friuli-Venezia Giulia, approvata dall'assemblea legislativa nel marzo del 2002 nell'esercizio
dell'autonomia in materia di forma di governo conferita alle regioni speciali dalla legge
cost. 2/2001: il consiglio regionale aveva ripristinato l'elezione consiliare del presidente della
giunta, ma si è scontrato con la disapprovazione del corpo elettorale espressa tramite il
referendum oppositivo, che nel settembre 2002 ha bocciato la delibera legislativa statutaria.
L'unica regione che è riuscita a tenere ferma l'elezione consiliare è un'altra
regione speciale, la Valle d'Aosta, alla quale la legge cost. 2/2001 aveva peraltro conservato tale
modello in attesa della legge statutaria, senza imporre in via transitoria l'elezione diretta.
L'elezione consiliare del presidente della giunta è poi prescritta obbligatoriamente dalla legge
2/2001 per la regione
Trentino-Alto Adige (nell'ambito dei complessi meccanismi di tutela delle minoranze
linguistiche e dei loro gruppi), ed è tuttora prevista per la provincia autonoma di Bolzano, che
pure potrebbe scegliere l'elezione a suffragio universale e diretto con legge statutaria, se
approvata con una maggioranza pari ad almeno i due terzi dei componenti.
La forma di governo indicata dalla Costituzione come modello standard si caratterizza, oltre che
A) per l'elezione diretta del presidente della giunta, anche per due vincoli specifici: B) la regola
simul stabunt, simul cadent, che lega il destino del consiglio regionale a quello del presidente
della giunta, e viceversa, e C) il potere del presidente di nominare e revocare i componenti della
giunta.
A) L'elezione a suffragio universale e diretto del presidente della giunta regionale è nello stesso
tempo sia una scelta preliminare che determina l'applicazione degli altri limiti previsti in
Costituzione per il modello in parola, sia la caratteristica principale di questa forma di governo,
che porta con sé ulteriori corollari enucleati in via interpretativa dalla Corte costituzionale.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, l'elezione diretta del presidente della giunta è
configurata dall'art. 122.5 Cost. come elezione a suffragio universale e diretto del solo titolare
di tale organo: il che esclude l'ammissibilità di un'estensione dell'eleggibilità diretta ad altri
organi, quali ad esempio il vicepresidente della giunta (così sent, 2/2004).
Peraltro, l'ammissibilità di previsioni statutarie volte a prevedere l'elezione diretta di un ticket
presidente-vicepresidente si scontrerebbe con il puntuale vincolo di cui all'art. 122.5 Cost.,
secondo periodo, Cost., che affida alla responsabilità esclusiva del presidente della giunta la
scelta dei componenti della giunta e quindi anche del vicepresidente.
In secondo luogo, la Corte costituzionale ha negato la legittimità della norma, contenuta nello
statuto dell'Abruzzo, che imponeva al presidente della giunta neo-eletto di presentarsi al
consiglio regionale nella prima seduta per ottenerne l'approvazione del programma di governo
ed equiparava la mancata approvazione del programma presidenziale a un voto di sfiducia
(sent. 12/2006).
Secondo la Corte, infatti, la forma di governo con elezione popolare del presidente della giunta
è incentrata sulla simultanea investitura politica del consiglio regionale e del presidente da
parte del corpo elettorale, ed è intrinseca a questo modello «una iniziale presunzione di
consonanza politica, che può essere superata solo da un atto tipico quale la mozione di
sfiducia»; non è pertanto ammessa l'introduzione di una sorta di fiducia iniziale analoga a
quella prevista nella forma di governo parlamentare, che sarebbe incoerente «con un sistema
di rapporti tra poteri fondato sul conferimento da parte del popolo di un mandato a governare
a entrambi gli organi supremi della regione, ciascuno nei suoi distinti ruolis (sent. 12/2006).
B) Il vincolo che ha impensierito maggiormente i consigli regionali è rappresentato dalla regola -
riassunta con la locuzione simul stabunt, simul cadent - secondo la quale in caso di dimissioni
volontarie, rimozione, morte, impedimento permanente del presidente della giunta eletto
direttamente, o di approvazione della mozione di sfiducia nei confronti dello stesso, si hanno
anche le dimissioni della giunta e lo scioglimento del consiglio regionale. Analogamente, le
dimissioni contestuali di oltre la metà dei consiglieri determinano, oltre allo scioglimento del
consiglio, anche le dimissioni della giunta e del suo presidente.
Tale meccanismo è stato introdotto per stabilizzare l'esecutivo impedendo, in corso di
legislatura, i cambi di maggioranza conseguenti alla rottura degli accordi di coalizione tra i
partiti. Il mutamento della formula di maggioranza, infatti, dovendo passare per le dimissioni
della giunta - volontarie, in caso di crisi extraconsiliare, o dovute, nel caso di crisi consiliare
aperta dall'approvazione di una mozione di sfiducia - richiede necessariamente nuove elezioni,
in applicazione dell'art. 126.3 Cost., che impone in tale ipotesi lo scioglimento del consiglio. In
realtà, la regola del simul simul non impedisce come l'esperienza ha del resto confermato - quei
cambiamenti di coalizione che siano promossi o accettati dal presidente della giunta, in quanto
nulla esclude che il mutamento della maggioranza di governo trovi riscontro in una nuova
giunta, la cui composizione sia il risultato della revoca degli assessori in quota al partito uscente
e della nomina di nuovi assessori in quota al partito entrante: revoche e nomine che sono
appunto, come si dirà meglio, nella piena disponibilità del presidente eletto.
I consigli regionali hanno dimostrato insofferenza nei confronti del meccanismo simul stabunt,
simul cadent, in quanto si sono sentiti espropriati del potere di condizionare la permanenza in
carica della giunta e la sua composizione politica: tale potere, infatti, in questa forma di
governo è ridotto alla facoltà per l'assemblea legislativa di votare la sfiducia nei confronti del
presidente della giunta, sfiducia che però comporta anch'essa lo scioglimento del consiglio e
quindi è un'arma suicida alla quale l'assemblea ricorrerà solo in casi estremi.
Inoltre, la regola del simul simul incide nei rapporti tra consiglio regionale e presidente della
giunta sotto un altro rilevantissimo profilo: essa conferisce al presidente della giunta, oltre che
una potente legittimazione democratica che egli può giocare politicamente contro l'assemblea,
uno specifico potere giuridico, che è quello di determinare con le proprie dimissioni lo
scioglimento del consiglio, e tale potere si converte in uno strumento di pressione nei confronti
dell'assemblea. Il che comporta anche, sul piano del modello costituzionale di questa forma di
governo, che la decisione sulla questione di fiducia debba essere affidata al presidente della
giunta, e non alla giunta.
Nello stesso tempo, pur a fronte dei motivi di scontento da parte dei consigli per uno degli
elementi caratteristici della forma di governo con elezione popolare del presidente della giunta,
il ripristino dell'elezione consiliare dell'esecutivo tramite un'opzione statutaria in tale senso era
precluso dalla presumibile opposizione del corpo elettorale a una simile scelta: di qui i tentativi
di depotenziamento della regola del simul simul, che però sono stati bloccati dalla Corte
costituzionale.

I tentativi di elusione del simul simul: il «caso Marche» e il «caso Calabria»


Un primo tentativo di ridurre la portata applicativa del meccanismo simul stabunt, simul cadent è stato
intrapreso dalla regione Marche poco dopo l'entrata in vigore della legge cost. 1/1999, in regime di
forma di governo transitoria, attraverso una modifica parziale dello statuto del 1971 diretta a prevedere
il subentro del vicepresidente, anziché nuove elezioni, in caso di morte o di impedimento permanente
del presidente della giunta regionale, vale a dire nel caso di eventi naturalistici, e non politici, che
determinano la cessazione della carica. In tale ipotesi, infatti, lo scioglimento del consiglio regionale
potrebbe apparire una conseguenza eccessiva. In realtà, dietro l'impedimento permanente possono
agevolmente nascondersi dimissioni politicamente motivate (e quindi crisi extraconsiliari) e, in ogni
caso, appare problematico il trasferimento dei rilevanti poteri del presidente della giunta eletto a
suffragio universale a un soggetto – il vicepresidente - che non gode della stessa legittimazione
democratica.
La Corte con la sentenza 304/2002 ha ritenuto che tale revisione parziale dello statuto, contrastando il
dettato dell'art. 5 della legge cost. 1/1999, non fosse in armonia con la Costituzione,
Un secondo tentativo di elusione dell'art. 126.3 Cost. è stato effettuato dalla regione Calabria nello
statuto approvato nel 2003, che prevedeva un'elezione del presidente della giunta formalmente
consiliare ma sostanzialmente popolare. Infatti, il corpo elettorale era chiamato a indicare il presidente
della giunta e il vicepresidente, che però assumevano la carica non con la proclamazione dei risultati
elettorali bensì solo in seguito a un'«elezione» consiliare.
La regione qualificava questa modalità di preposizione alla carica di presidente della giunta come
un'elezione diversa dall'elezione «a suffragio universale e diretto» e conseguentemente aveva ritenuto
di poter sottrarsi al meccanismo simul stabunt, simul cadent, prevedendo invece, per il caso di
dimissioni volontarie, incompatibilità sopravvenuta, rimozione, impedimento permanente o morte del
presidente della giunta, il subentro del vicepresidente al presidente della giunta. La peculiarità del
sistema calabrese - che faceva dubitare del fatto che l'investitura consiliare del presidente della giunta
fosse una vera e propria elezione-era rappresentata dalla previsione che sanzionava con lo scioglimento
del consiglio la scelta da parte dell'assemblea di un presidente della giunta o di un vicepresidente
diversi da quelli indicati dal corpo elettorale.
Tale previsione dimostrava che il consiglio non era libero di eleggere un soggetto diverso da quello
individuato dal voto popolare, bensì giuridicamente vincolato a uniformarsi alla scelta compiuta dal
corpo elettorale. Valorizzando tale dato, la Corte costituzionale, nella sentenza 2/2004, ha ritenuto che
il sistema prefigurato dallo statuto calabrese fosșe «caratterizzato da un meccanismo di elezione diretta
del Presidente e del Vice Presidente della Giunta, del tutto analogo a quello disciplinato per il solo
Presidente dall'art. 5 della legge cost. 1/1999, salva la diversità che la preposizione alla carica consegue
non alla mera proclamazione dei risultati elettorali, ma alla 'nomina" da parte del Consiglio regionale».

C) Il terzo vincolo che si impone all'osservanza del legislatore statutario che opti per la forma di
governo con l'elezione popolare del presidente della giunta è rappresentato dal potere del
presidente della giunta di nominare e di revocare gli assessori.
Tale potere, previsto dall'art. 122.5, secondo periodo, Cost, come prerogativa del «presidente
eletto» (cioè del presidente eletto a suffragio universale e diretto), fa sì che il consiglio non
possa assegnarsi il potere di sfiduciare individualmente singoli assessori a mezzo di apposite
mozioni di sfiducia, in quanto ciò comporterebbe l'intestazione del potere di revoca anche in
capo all'assemblea, là dove la Costituzione lo vuole riservato al presidente (sent.
12/2006). Analogamente dovrebbero essere reputate incostituzionali eventuali previsioni che
subordinassero la nomina degli assessori al gradimento del consiglio
Per contro, appaiono del tutto legittime quelle norme che, ai fini di controllo politico
sull'esecutivo, impegnano il presidente ad illustrare preventivamente in consiglio le nomine
degli assessori oppure consentono al consiglio di votare una mozione di censura rivolta a singoli
componenti della giunta, dalla cui approvazione non derivi né un obbligo di dimissioni a carico
dell'assessore censurato, né un obbligo di revoca per il presidente della giunta, ma al più il
dovere del presidente di motivare le propri determinazioni consequenziali.
Ancora, sono legittime, pur condizionando il potere presidenziale di nomina, le norme
statutarie che impongono al presidente della giunta un limite numerico agli assessori, e
specificamente agli assessori cc.dd. «esterni» (vale a dire agli assessori che non ricoprano anche
la carica di consigliere regionale), o una composizione della giunta con determinati requisiti di
genere.

La giustiziabilità delle norme statutarie sulla «presenza rosa» in giunta


Diversi statuti prevedono che la composizione della giunta sia garantita dalla presenza di rappresentanti
di entrambi i generi (per es. art. 53.2 St. Ve.), o che le nomine degli assessori siano ispirate anche al
principio di pari opportunità (art. 67.4 St. Umbria), o che la composizione della giunta regionale debba
garantire una posizione equilibrata di uomini e donne (art. 45.1 St. Laz.; art. 46.3 St. Camp.), o, ancora,
impegnano la regione a promuovere il riequilibrio tra entrambi i generi negli organi di governo della
regione (così l'art. 11.3 St. Lomb.).
La pretesa di vedere rispettati tali principi prescritti dallo statuto è stata azionata di fronte ai giudici
amministrativi attraverso l'impugnazione dei decreti del presidente della giunta che disponevano la
nomina di assessori quasi esclusivamente di sesso maschile: si è dunque posto il problema della
precettività e della giustiziabilità delle disposizioni in parola. Il TAR Lombardia - Milano, con sentenza 4
febbraio 2001, n. 354, ha ritenuto che la disposizione dell'art. 11.3 dello statuto della Lombardia avesse
carattere «meramente promozionale», in asserita applicazione di quella giurisprudenza della Corte
costituzionale (sentt. 378 e 379/2004) che aveva negato efficacia giuridica alle disposizioni
programmatiche degli statuti regionali: e ha quindi negato che la disposizione potesse determinare
l'invalidità delle nomine effettuate dal presidente della giunta lombarda, che aveva scelto solo assessori
di sesso maschile, tranne uno.
Diversa è stata invece la soluzione al problema offerta dal TAR Campania – Napoli, nella sentenza 7
aprile 2011, n. 1985, con cui i giudici amministrativi hanno osservato che gli atti di nomina della giunta
regionale sono soggetti al rispetto di parametri di legittimità procedimentale e sostanziale che
delimitano l'esercizio del potere presidenziale e che, nel caso concreto, non erano stati osservati in
relazione al vincolo concernente la composizione per sesso della compagine assessorile (nella giunta,
infatti, era presente un solo assessore di sesso femminile).
Come parametro il TAR campano utilizza sia l'art. 46.3 dello statuto regionale, il quale stabilisce che «il
Presidente della Giunta regionale [...] nomina, nel pieno rispetto del principio di una equilibrata
presenza di donne e uomini, i componenti la Giuntas; sia - a fini interpretativi – le disposizioni
programmatiche che impegnano la regione Campania a garantire i diritti di uguaglianza previsti dalla
Costituzione concorrendo a rimuovere gli ostacoli di ordine anche sessuale che li limitano (art. 4) e a
riconoscere il valore della differenza di genere, adottando «programmi, azioni e ogni altra iniziativa tesi
ad assicurare il pieno rispetto dei principi di parità, di pari opportunità e di non discriminazione e il
riequilibrio della rappresentanza tra donne e uomini nelle cariche elettive nonché a promuovere
condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali e la presenza equilibrata dei due generi in
tutti gli uffici e le cariche pubbliche» (art. 5).
La giuridicità delle norme sulla presenza di genere nelle giunte è stata poi confermata dal Consiglio di
Stato (sent. 27 luglio 2011, 4502, che ha confermato la sentenza del TAR per la Campania; sent. 21
giugno 2012, n. 3670, che ha riformato la sentenza del TAR per la Lombardia) e successivamente
ribadita anche dai giudici costituzionali (sent. 81/2012). La Corte costituzionale era stata adita dalla
Campania a mezzo di un conflitto di attribuzione proposto contro lo Stato in riferimento alle decisioni
del TAR Campania e del Consiglio di Stato, conflitto con cui la regione lamentava, facendo valere la
norma processuale secondo cui non c'è giurisdizione in ordine ai cc.dd. «atti politici», lo sconfinamento
dei giudici amministrativi nell'area riservata alle libere determinazioni di un organo politico regionale.
Ma i giudici costituzionali, dichiarando inammissibile il conflitto, hanno osservato che «gli spazi della
discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall'ordinamento, tanto
a livello costituzionale quanto a livello legislativo» e che nel caso in esame «il legislatore regionale della
Campania, nell'esercizio dell'autonomia politica a esso accordata dall'art. 123 della Costituzione, ha
ritenuto di dover delimitare il libero apprezzamento del Presidente della Giunta regionale nella scelta
degli assessori, stabilendo alcuni vincoli di carattere generale, in sede di elaborazione dello statuto»,
conseguentemente, l'atto di nomina degli assessori è sindacabile in sede giurisdizionale, «se e in quanto
abbia violato una norma giuridica».

Se, come si è visto, i vincoli costituzionali che strutturano il modello con elezione diretta del
presidente della giunta sono incisivi, all'interno di questi limiti non mancano spazi per
un'autonoma conformazione della forma di governo standard da parte della regione.
Nella modellistica delle forme di governo, l'assetto caratterizzato dall'elezione diretta di un
vertice dell'esecutivo che rimane responsabile nei confronti dell'assemblea legislativa - non
frequente nell'esperienza del diritto comparato - è noto come «forma neoparlamentare»,
ovvero come «premierato». Ma naturalmente i modelli astratti hanno funzione descrittiva e
non prescrittiva, e quindi le caratteristiche o le regolarità della forma di governo
neoparlamentare non possono tradursi in ulteriori condizionamenti a carico dell'autonomia
statutaria.
Pur avendo tutte le regioni optato nei nuovi statuti per la forma di governo con elezione diretta
del presidente della giunta, gli assetti di governo possono diversificarsi su molti punti e
potrebbero dare luogo - ove le singole scelte fossero tra loro coerenti - a modelli incentrati sul
ruolo dell'uno o dell'altro organo di vertice (consiglio o presidente della giunta).
Seguendo un'utile ricostruzione recente proposta in letteratura per l'analisi della forma di
governo regionale, conviene distinguere tra compiti di determinazione dell'indirizzo politico, di
attuazione dell'indirizzo politico e di controllo sull'indirizzo politico.
Quanto alla determinazione dell'indirizzo politico, tale compito, nella forma di governo con
elezione popolare del presidente della giunta, compete sia al consiglio regionale sia al
presidente, stante la legittimazione democratica che entrambi gli organi politici ricevono
direttamente dal »
Il consiglio concorre alla fissazione dell'indirizzo politico essenzialmente tramite la legislazione,
ma anche tramite l'adozione degli atti di programmazione e di pianificazione che lo statuto
riserva sovente a tale organo. Il presidente della giunta, invece, concorre tramite la
predisposizione del programma di governo, che non a caso tutti gli statuti affidano a tale
organo e non alla giunta (la cui formazione è spesso contestuale, quando non successiva, alla
presentazione del programma). Peraltro, anche sul programma di governo è spesso previsto un
intervento dell'assemblea legislativa: molti statuti non si limitano, infatti, a chiedere che tale
programma sia illustrato dal presidente davanti al consiglio, ma prevedono anche un voto sul
programma (voto che come si è visto ha solo conseguenze politiche) o consentono
all'assemblea di indicare, nell'ambito del programma presentato dal presidente, gli indirizzi
e gli obiettivi ritenuti prioritari.
Quanto all'attuazione dell'indirizzo politico, essa dovrebbe spettare in linea di principio
all'organo esecutivo della regione e quindi alla giunta, come è del resto espressamente
confermato da gran parte degli statuti, che attribuiscono a tale organo anche le competenze
amministrative residuali.
La maggior parte dei legislatori statutari ha però confermato l'intestazione di determinate
funzioni amministrative in capo al consiglio, come ad esempio le nomine, secondo il modello
diffuso negli statuti del 1971.
I principali strumenti con cui l'esecutivo dà attuazione all'indirizzo politico stabilito nel raccordo
consiglio-presidente della giunta sono la programmazione dei lavori, la questione di fiducia e la
potestà regolamentare.
Taluni statuti, per garantire all'esecutivo un'adeguata strumentazione per dare attuazione
all'indirizzo politico, dispongono che nella formazione del calendario dei lavori dell'assemblea
una parte delle sedute sia riservata alla discussione dei provvedimenti e delle leggi di iniziativa
dell'esecutivo,
Molto varia è la disciplina della questione di fiducia. Solo pochi statuti riconoscono tale
prerogativa del presidente della giunta, solitamente limitando la possibilità di porre la
questione di fiducia esclusivamente in ordine a determinati provvedimenti indicati nello
statuto. La gran parte degli statuti non menziona invece la questione di fiducia, e qui il silenzio
dovrebbe significare esclusione: infatti, in questa forma di governo la richiesta di fiducia da
parte del presidente della giunta non può essere considerata un elemento naturale, visto che
tale organo non necessita della fiducia del consiglio. Per quanto riguarda la potestà
regolamentare, soltanto una regione la ha affidata alla giunta, mentre nella gran parte delle
regioni tale funzione è condivisa tra consiglio e giunta.
Il controllo sull'indirizzo politico spetta invece invariabilmente all'assemblea elettiva, in cui sono
rappresentate anche le minoranze. Accanto ai consueti strumenti di controllo già noti al diritto
parlamentare – quali le interrogazioni, le interpellanze, le mozioni – e accanto allo strumento
estremo della mozione di sfiducia, gli statuti hanno previsto ulteriori meccanismi di controllo:
dagli obblighi di comunicazione preventiva a carico dell'esecutivo alla previsione della mozione
di censura individuale contro i singoli assessori, fino all'obbligo del presidente di riferire
annualmente in assemblea sull'attuazione del programma, cui si associa talvolta il potere del
consiglio di verificare l'attuazione dell'indirizzo politico e di approvarne le modifiche.
Una caratterizzazione sintetica dei modelli adottati dalle diverse regioni in senso
«presidenziale» o in senso «parlamentare» risulta difficile, perché negli statuti approvati dopo il
1999 regole o istituti a caratterizzazione parlamentare convivono con altre regole o istituti a
caratterizzazione presidenziale, senza che sia dato riscontrare una prevalenza sistematica delle
une o delle altre. Al più, si può osservare la tendenza, più marcata in certe regioni, a
riequilibrare i rapporti in favore del consiglio, riconoscendogli un ruolo preminente nella fase
della determinazione dell'indirizzo politico e attribuendogli compiti di gestione anche in
relazione all'attuazione dell'indirizzo politico. Tale tendenza a rafforzare la posizione del
consiglio si coglie anche in regioni, come la Lombardia, che per altri versi potenziano il ruolo del
presidente della giunta, visto che tale potenziamento si manifesta nella valorizzazione
dell'organo esecutivo monocratico rispetto alla giunta e non rispetto all'assemblea legislativa.
Se tuttavia si considera che le leggi elettorali - garantiscono alla lista collegata con il presidente
una sicura maggioranza in consiglio, la forma di governo della regione a elezione diretta del
presidente risulta caratterizzata da una netta preminenza politica del presidente della giunta,
praticamente persino maggiore di quella che caratterizza i sistemi presidenziali puri, fondati
sulla separazione tra legislativo ed esecutivo. Né il potere del consiglio di sfiduciare il
presidente forma un reale contrappeso, dato che così facendo il consiglio determina anche la
propria dissoluzione.
Non senza fondamento perciò tale preminenza è stata tradotta nel linguaggio comune
mediante l'uso del termine governatore per indicare il presidente,
Per la forma di governo con elezione del presidente diversa dall'elezione popolare della giunta
la Costituzione non detta vincoli specifici: valgono soltanto quelli generali.
Optando per tale modello, lo statuto si trova a dover risolvere anzitutto due problemi: quello
relativo alle modalità di elezione del presidente della giunta e quello relativo alla risoluzione
delle crisi di giunta.
La prima questione trova soluzione con la previsione dell'elezione consiliare del presidente
della giunta, in quanto non appaiono credibili scelte diverse: i poteri di direzione della politica
della giunta e la conseguente responsabilità (anche sotto il profilo sanzionatorio, ai sensi
dell'art. 126.1 Cost., che contempla un controllo statale su questo organo), nonché la possibilità
di sfiducia diretta contro il presidente della giunta, sono tratti - costituzionalmente
inderogabili - scarsamente compatibili con l'ipotesi di un presidente scelto dalla giunta stessa al
proprio interno, che sarebbe la soluzione meno bizzarra tra le alternative astrattamente
pensabili rispetto all'elezione consiliare.
Lo statuto rimane invece libero di affidare la scelta degli assessori al consiglio
regionale, secondo il modello vigente prima della legge cost. 1/1999, o invece di
attribuire al presidente della giunta il potere di nominare e revocare gli assessori,
come succede invece nella forma di governo con elezione diretta. Peraltro, l'elezione consiliare
degli assessori si armonizza solo con qualche difficoltà con la responsabilità della direzione della
politica della giunta che la Costituzione affida in ogni caso al presidente; tale modalità di
formazione della giunta è comunque prefigurata come possibile - per quello che vale
l'indicazione proveniente da una fonte non competente su questo punto - dalla legge 165/2004,
che ragiona di «elezione», oltre che di «nominas, dei componenti della giunta.
Quanto alle crisi di giunta, si possono ipotizzare diverse soluzioni, più o meno realistiche: a) la
fissazione di un termine entro il quale il consiglio deve esprimere un nuovo presidente della
giunta o una nuova giunta, pena lo scioglimento (secondo il modello che vale per le leggi
statutarie delle regioni speciali nell'ipotesi che esse prevedano l'elezione consiliare
dell'esecutivo e come vorrebbe imporre, nella veste di principio fondamentale che vale per
l'elezione del presidente della giunta e degli assessori, la legge 165/2004); b) l'applicazione
della regola simul simul anche a questa forma di governo; c) l'introduzione della mozione di
sfiducia costruttiva, con previsione che però potrebbe soltanto affiancarsi e non sostituirsi alla
mozione di sfiducia semplice regolata con norma inderogabile dall'art. 126.2 Cost.

IL SISTEMA ELETTORALE
Anche la legislazione elettorale per le regioni è stata interessata nel corso del tempo da radicali
trasformazioni, che hanno toccato sia il sistema delle fonti, sia il sistema elettorale.
Secondo il testo originario della Costituzione il sistema d'elezione, il numero e i casi di
ineleggibilità e di incompatibilità dei consiglieri regionali dovevano essere stabiliti «con legge
della Repubblica», vale dire con legge dello Stato (mentre spettava al consiglio l'elezione del
presidente della giunta e degli assessori).

La legge elettorale del 1968


La legge in questione, approvata solo nel 1968 (legge 108/1968), prevedeva che l'elezione del
consiglio regionale avvenisse con sistema proporzionale.
Il sistema elettorale disponeva che i seggi consiliari - quantificati in ragione della popolazione regionale,
secondo scaglioni che andavano dagli 80 consiglieri per le regioni più popolose ai 30 delle regioni con
meno di 1 milione di abitanti - fossero assegnati in collegi plurinominali di dimensione provinciale. Tali
seggi erano quindi ripartiti tra le liste provinciali concorrenti sulla base dei quozienti interi risultanti
dalla divisione della cifra elettorale delle singole liste (cioè della somma dei voti totali riportati dalla
lista) per il numero di seggi aumentato di una unità, con recupero dei seggi non assegnati in un collegio
unico regionale. I seggi del collegio unico regionale venivano quindi ripartiti con lo stesso meccanismo
sulla base della somma dei resti delle liste provinciali secondo i quozienti interi ei resti più alti, e
riassegnati su base provinciale.
Come si è ricordato sopra, il rendimento di tale sistema spiccatamente proporzionale è stato valutato
negativamente per la frammentazione della composizione politica dei consigli regionali cui dava luogo, e
per i connessi problemi di governabilità determinati dalla necessità di formare esecutivi di coalizione,
poco stabili dato l'alto numero di partiti che vi partecipavano.

Con la legge 43/1995 il legislatore ha innovato il sistema elettorale introducendo un sistema


misto, che si fonda sull'assegnazione di quattro quinti dei seggi con il sistema proporzionale di
cui alla legge 108/1968 e di un quinto dei seggi con sistema maggioritario. I seggi della quota
maggioritaria erano assegnati alla lista regionale - collegata con liste provinciali e concorrente
con altre liste regionali -- che avesse riportato il maggior numero dei voti: la lista regionale,
denominata «listino del presidente» nel lessico politico, era una lista bloccata, nel senso che
non era possibile esprimere un voto di preferenza, e i candidati erano quindi eletti secondo la
loro posizione in lista. Il sistema previsto dalla legge 43/1995 garantiva alla lista regionale
vittoriosa, insieme con le liste provinciali collegate, l'assegnazione di almeno il 55% dei seggi.
Come si è ricordato sopra, la legge 43/1995 introduceva poi l'indicazione sulla scheda elettorale
del capolista della lista regionale, il quale politicamente veniva ad assumere la veste di
candidato alla carica di presidente della giunta; ed era prevista la possibilità del voto disgiunto a
favore di una lista regionale e di una lista provinciale collegata con una diversa lista regionale.
La legge fissava inoltre una soglia di sbarramento al 3% per le liste provinciali, salvo che queste
fossero collegate con una lista regionale che avesse ottenuto almeno il 5% dei voti.
La legge cost. 1/1999 ha sostanzialmente mantenuto, in via transitoria, la disciplina elettorale
dettata dalla legge cost. 43/1995, convertendo però l'indicazione del presidente della giunta
sulla scheda in un'elezione diretta.
Nello stesso tempo la legge cost. 1/1999 ha modificato l'art. 122.1 Cost., stabilendo che il
sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del presidente e degli altri
componenti della giunta regionale nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge
della regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che
stabilisce anche la durata degli organi elettivi.
L'attribuzione alla regione di una potestà concorrente in materia elettorale ha aperto la
possibilità di una diversificazione dei sistemi elettorali regionali, tanto maggiore quanto meno
dettagliati sono i principi fondamentali della legge statale che circoscrivono tale competenza.
Tali principi fondamentali sono stati dettati con la legge 165/2004, che li determina, ai sensi
dell'art. 1, «in via esclusiva» (e tale locuzione dovrebbe impedire di reperire in altre leggi,
anteriori alla legge 165/2004, ulteriori principi per la materia elettorale).
I principi riguardanti il sistema di elezione (art. 4, legge 165/2004) sono estremamente elastici,
perché essi si esauriscono in tre precetti: a) nella direttiva per cui la regione deve individuare
un sistema elettorale che agevoli la formazione di stabili maggioranze nel consiglio regionale e
che assicuri la rappresentanza delle minoranze; b) nella regola della contestualità dell'elezione
del presidente della giunta regionale e del consiglio regionale, se il presidente è eletto a
suffragio universale e diretto e, per il caso in cui la regione adotti l'ipotesi di elezione del
presidente della giunta regionale secondo modalità diverse dal suffragio universale e diretto, la
previsione di termini temporali tassativi, comunque non superiori a novanta giorni, per
l'elezione del presidente e per l'elezione o la nomina degli altri componenti della giunta; c) nel
divieto di mandato imperativo.
A ben vedere, il divieto di mandato imperativo non riguarda il sistema elettorale in senso
stretto, ma piuttosto le caratteristiche del rapporto rappresentativo, ed è comunque un
principio che s'impone al legislatore – e segnatamente, ratione materiae, al legislatore
statutario - già in forza del limite dell'armonia con la Costituzione, in riferimento al precetto
dettato per i parlamentari dall'art. 67 Cost. Quanto al principio relativo ai termini tassativi, non
superiori a novanta giorni, per la formazione dell'esecutivo in caso di elezione indiretta del
presidente della giunta, anche tale direttiva appare fuori posto nella legge-cornice in materia di
elezioni, attenendo alla forma di governo, se si considera che le modalità diverse dal suffragio
universale e diretto si esauriscono nell'elezione consiliare del presidente, e che quindi la
disciplina di tale elezione e della formazione della giunta è riservata allo statuto.
La legge elettorale regionale ha quindi margini di scelta molto ampi, essendo chiamata a
bilanciare due direttive che sono molto generali e che vanno in direzione opposta, vale a dire
l'esigenza di promuovere la formazione di maggioranze stabili nell'assemblea e quella di
garantire una rappresentanza alle minoranze.
La legge elettorale è condizionata anche dallo statuto, nonostante la già ricordata ricostruzione,
a opera della giurisprudenza costituzionale, dei rapporti tra la materia elettorale ex art. 122.1
Cost. e la materia statutaria ex art. 123.1 Cost, in termini di specialità della prima, con
conseguente esclusione dello statuto dall'ambito riservato alla legge statale di principio e a
quella regionale di dettaglio.
Lo statuto, infatti, incide sulla legge elettorale sotto diversi aspetti.
Anzitutto, il venir meno della disciplina transitoria dettata dalla legge 43/1995, alla quale la
legge cost. 1/1999 fa rinvio, è subordinato all'entrata in vigore dei nuovi statuti, che secondo la
giurisprudenza costituzionale deve quindi precedere l'entrata in vigore della nuova legislazione
regionale, in modo da evitare che il rapporto tra forma di governo e legge elettorale possa
presentare aspetti di incoerenza dovuti all'inversione, temporale e logica, tra la prima e la
seconda (così sentt. 4/2010 e 45/2011). Prima dell'entrata in vigore dei nuovi statuti gli spazi di
intervento della legge elettorale regionale sono quindi esigui e circoscritti alla possibilità di
modificare la disciplina delle leggi statali vigenti soltanto in aspetti di mero dettaglio (Corte
cost., sentt. 196/2003 e 45/2011).
In secondo luogo, siccome spetta allo statuto la fissazione del numero dei consiglieri (sia pure
nel rispetto dei limiti massimi stabiliti dall'art. 14.1 del d. 1. 138/2011, con norma che la Corte
costituzionale ha ritenuto legittima con la sent. 198/2012), la legge elettorale è tenuta a
introdurre un meccanismo che trasformi i voti in quel determinato numero di seggi. Alla legge
elettorale non è permesso di prevedere consiglieri aggiuntivi per integrare il premio di
maggioranza, a meno che ciò non sia espressamente consentito dallo statuto stesso (Corte cost.
188/2011). Inoltre, il rendimento di una stessa formula elettorale - in senso più o meno
proporzionale – è ovviamente correlato al numero di seggi assegnati all'organo e quindi anche
sotto questo profilo la decisione contenuta nello statuto influenza le scelte del legislatore
regionale sulla conformazione del sistema elettorale.
In terzo luogo, in molti statuti – ad esempio nello statuto della Calabria, della Toscana e della
Lombardia -- sono contenute norme che impongono alla legge elettorale di assicurare la
rappresentanza di tutti i territori provinciali. Queste disposizioni non sono mai state censurate
né dal governo, né dalla Corte costituzionale, la quale nella sentenza 2/2004 avrebbe potuto
agevolmente colpire in via consequenziale la norma dello statuto calabrese che prevedeva la
rappresentanza di tutte le circoscrizioni provinciali. Invero, nella sentenza 2/2004 la Corte ha
ricordato che la competenza statale sui principi ex art. 122.1 Cost. «riduce la stessa possibilità
della fonte statutaria di indirizzare l'esercizio della potestà legislativa regionale in queste stesse
materie»; ma è stato notato che «possibilità ridotta» non equivale a «impossibilità»; non è
escluso, quindi, che principi di secondo livello in materia elettorale, purché compatibili con
quelli della legge 165/2004, possano essere legittimamente dettati dagli statuti. Guardando alla
legislazione elettorale approvata dalle regioni si osserva che tutte le regioni che si sono dotate
di una nuova legge elettorale hanno mantenuto fermo l'impianto della legge 43/1995, e quindi
il sistema imperniato sul riparto proporzionale dei seggi tra liste circoscrizionali concorrenti con
un premio di maggioranza che consenta alle liste collegate con il presidente della giunta
risultato eletto di avere il 55 o il 60% dei seggi, a seconda dei casi.
Sono state confermate, anche se adattate, le soglie di sbarramento,
La principale novità, con riferimento alla formula elettorale, riguarda l'eliminazione del «listino
regionale del presidente» a opera delle leggi elettorali di diverse regioni (Campania, Calabria,
Marche, Puglia, Veneto e Toscana).
La legge elettorale toscana, in realtà, ha sostituito il listino regionale con candidature regionali
(in numero da uno a cinque), identiche per tutte le liste provinciali che si presentano con lo
stesso contrassegno o per i gruppi di liste collegati allo stesso candidato alla presidenza della
giunta: tali candidati regionali sono dichiarati eletti con precedenza sui candidati
circoscrizionali.
Diverse regioni, tra cui le Marche (legge reg. 27/2004), la Lombardia (legge reg. 4/2009) e il
Veneto (legge reg. 5/2012), hanno adottato una formula elettorale che impone di conservare,
in sede di riparto dei seggi consiliari, i seggi assegnati alla circoscrizione (provinciale) in ragione
della popolazione.
Tale meccanismo impedisce il fenomeno dello slittamento dei seggi da una, circoscrizione
all'altra; le conseguenti distorsioni in termini di rappresentatività politica che possono
verificarsi sono state considerate dalla giurisprudenza amministrativa un costo giustificato
dall'esigenza di garantire una corretta rappresentanza territoriale.
Un'altra innovazione significativa è rappresentata dall'eliminazione - da parte della legge
elettorale toscana - del voto di preferenza, che la legge statale limitava a uno. Tale previsione,
peraltro, è stata accompagnata da una disciplina pubblicistica delle cc.dd. elezioni primarie per
la formazione delle liste dei candidati. Peraltro, il ricorso alle primarie è rimesso alla libera
volontà dei partiti, né potrebbe essere diversamente, stanti le garanzie dell'art. 49 Cost.
Sempre in tema di preferenze, va segnalata l'interessante soluzione pensata dal legislatore
della Campania - e passata indenne al vaglio della Corte costituzionale nella sentenza 4/2010 -
per dare esecuzione al mandato di cui all'art. 117.7 Cost., che impone alle leggi regionali di
promuovere «la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive». La legislazione
elettorale della Campania ha istituito la «preferenza di genere», vale a dire la facoltà di
esprimere una seconda preferenza a condizione che l'elettore attribuisca tale preferenza a un
candidato di sesso diverso da quello al quale egli ha dato la prima.
Altre regioni, invece, hanno inteso promuovere la parità di accesso alle cariche elettive
ponendo requisiti di genere nella formazione delle liste. La legislazione della Calabria richiede,
con sanzione di inammissibilità, che le liste siano composte da candidati di entrambi i sessi; più
incisiva è la disciplina vigente in altre regioni, ove è previsto, sempre come requisito di
ammissibilità, che nelle liste provinciali i candidati di ciascun sesso non siano superiori ai due
terzi dei candidati della lista (così, ad esempio, in Campania, Marche e Toscana). In Lazio e
Puglia, invece, il limite dei due terzi è riferito al gruppo di liste e la violazione di tale limite è
disincentivata con una sanzione pecuniaria proporzionale al numero di candidati
sovrarappresentati nella lista. Per il listino regionale la regione Lazio richiede addirittura che
entrambi i sessi siano rappresentati in modo paritetico.

Quote rosa: i precedenti della Corte costituzionale


La previsione di «quote rosa» nelle candidature, a pena di inammissibilità, era stata censurata dalla
Corte costituzionale nella sentenza 422/1995 come lesiva del principio di eguaglianza senza distinzione
di sesso, con l'argomento che tale requisito incideva sul godimento del diritto di elettorato passivo
garantito dall'art. 51 Cost. Successivamente, tuttavia, la Corte costituzionale ha ritenuto non
incostituzionale la previsione - minimale - contenuta nella legge elettorale della Valle d'Aosta che
imponeva la presenza di candidati di entrambi i sessi nelle liste: secondo la
sentenza 49/2003, infatti, tale norma non rappresenta un vincolo all'esercizio del voto o ai diritti dei
cittadini eleggibili, bensì configura soltanto una limitazione alla libertà dei partiti e dei gruppi nella
formazione delle liste. Tale limitazione, per la Corte, è legittima tanto più alla luce del mutato quadro
costituzionale che fa obbligo alle regioni, ai sensi del nuovo art. 117.1 Cost., di promuovere la parità di
accesso tra donne e uomini alle cariche elettive (per quanto riguarda specificamente la Valle d'Aosta,
l'art. 15.2 dello statuto speciale, modificato con legge cost. 2/2001, impegna la regione a promuovere
condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali, e ciò «al fine di conseguire l'equilibrio
della rappresentanza dei sessi»). Pertanto, l'introduzione da parte della legge regionale di quote di
genere nelle liste elettorali deve ritenersi oggi consentita.

Meccanismi di incentivo della parità di accesso alle cariche elettive sono stati successivamente
previsti come obbligatori anche dalla legislazione statale di principio, prima in termini molto
generali – attraverso la necessaria «predisposizione di misure che permettano di incentivare
l'accesso del genere sottorappresentato alle cariche elettive» (art. 3 della legge 212/2015, che
ha inserito la lett. c-bis nell'art. 3.1. della legge n. 165/2004) - e poi con la specificazione, ad
opera dell'art. 1 della legge 20/2016, che ha ulteriormente novellato l'art. 3.1 lett.c-bis) della
legge 165/2004, dei meccanismi, in parte già anticipati dalla legislazione regionale, consistenti:
(i) nella prescrizione per cui i candidati dello stesso sesso non possono superare il 60 per cento
del totale e nella previsione della seconda preferenza «di genere», se la legge elettorale
consente l'espressione di preferenza; (ii) nella alternanza tra candidati di sesso diverso, in modo
tale che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del totale, se le liste sono bloccate
e non è possibile il voto di preferenza; (iii) nell'equilibrio tra candidature presentate col
medesimo simbolo, in modo tale che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del
totale, se la legge elettorale prevede seggi uninominali.
La legge 165/2004 ha dettato principi fondamentali molto generali anche in materia di
ineleggibilità e di incompatibilità, mantenendo invece ferme le ipotesi di incandidabilità
previste dalla legge statale per coloro che hanno riportato sentenze di condanna o nei cui
confronti sono state applicate misure di prevenzione.
In tema di ineleggibilità il principio sostanziale stabilito dalla legge 165/2004 è quello che
prescrive la sussistenza di una causa di ineleggibilità «qualora le attività o le funzioni svolte dal
candidato, anche in relazione a peculiari situazioni delle regioni, possano turbare o
condizionare in modo diretto la libera decisione di voto degli elettori ovvero possano violare la
parità di accesso alle cariche elettive rispetto agli altri candidati» (art. 2.1, lett. a).
Un altro principio statuito dal legislatore statale consente poi alla legge regionale di
differenziare la disciplina dell'ineleggibilità in relazione al presidente della giunta regionale e ai
consiglieri regionali.

Il terzo mandato del presidente della giunta regionale


Una rilevante causa di ineleggibilità del presidente della giunta è stata introdotta dall'art. 2.1, lett.f),
della legge 165/2004 fissando il seguente principio: «previsione della non immediata rieleggibilità allo
scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio
universale e diretto, sulla base della normativa regionale adottata in materia».
L'introduzione, a opera del legislatore statale, del divieto di terzo mandato per il presidente della giunta
eletto dal corpo elettorale ha dato luogo a diverse questioni (Castelli 2009,489 ss.].
La prima, cui si è già fatto cenno, investe la competenza del legislatore statale a dettare una norma che
sembra toccare più la forma di governo che l'ineleggibilità, riguardando una caratteristica dell'organo e
la sua «forza» nei confronti degli altri organi.
La seconda questione tocca la natura di questa incapacità elettorale, classificata da qualcuno come una
causa di incandidabilità, sulla base dell'assunto che - a differenza delle normali cause di ineleggibilità -
qui l'impedimento all'elezione non verrebbe meno neanche qualora l'interessato cessasse dalle attività
o dalle funzioni che determinano l'ineleggibilità entro il termine fissato per la presentazione delle
candidature.
Il terzo problema riguarda quella che impropriamente viene descritta come la retroattività della norma,
vale a dire la computabilità o meno dei mandati già ricoperti al momento di entrata in vigore della legge
165/2004 ai fini dell'integrazione del divieto.
L'interrogativo più interessante si è però posto in occasione delle elezioni regionali del 2010, in
relazione all'eleggibilità alla presidenza della giunta, in Lombardia e in Emilia-Romagna, di candidati i
quali avevano già completato due mandati da presidenti eletti a suffragio diretto, ma si presentavano
egualmente alla competizione elettorale, risultando poi vincitori: il dubbio riguardava il carattere
autoapplicativo o non autoapplicativo del principio fondamentale del divieto del terzo mandato in
assenza di una legislazione elettorale sulle ineleggibilità,
Sul piano della struttura, la regola della non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato
consecutivo contenuta nella legge statale è una regola suscettibile di applicazione immediata, non
necessitando di alcuna specificazione o concretizzazione da parte del legislatore regionale (il che non
esclude, naturalmente, la possibilità di una disciplina regionale di attuazione o di adattamento del
principio). Il dubbio sull'applicabilità diretta del principio sorge piuttosto in relazione alla specificazione
«sulla base della normativa regionale adottata in materia», che parrebbe esigere - per scelta normativa
- un recepimento da parte del legislatore regionale.
È appunto valorizzando tale inciso - oltre che facendo leva su considerazioni attinenti alla
«irretroattività» della norma - che i giudici civili investiti delle azioni popolari dirette ad accertare
l'ineleggibilità dei presidenti di giunta della Lombardia e dell'Emilia-Romagna hanno rigettato i ricorsi
(Corte d'appello di Milano, sent. 1404/2011; Corte d'appello di Bologna, sent. 453/2011). Secondo i
giudici, infatti, la norma si sarebbe rivolta soltanto al legislatore regionale, senza statuire
immediatamente una causa di ineleggibilità. Questa impostazione apre al problema dell'omesso
adeguamento della legislazione regionale in potestà concorrente a un principio che la legge statale ha
prescritto in forma non autoapplicativa. In tale ipotesi, in presenza cioè di un mancato adeguamento, il
giudice avrebbe dovuto sollevare l'eccezione di incostituzionalità sulla legge regionale nella parte in cui
non prevede il divieto del terzo mandato, ma - nel caso di specie - né la regione Lombardia, né la
regione Emilia-Romagna avevano legiferato in materia di incompatibilità, e quindi apparentemente
mancava il mezzo attraverso il quale veicolare una censura di incostituzionalità per omissione.

Quanto alle cause di incompatibilità, la Costituzione prescrive direttamente l'incompatibilità tra


l'ufficio di consigliere regionale (e di componente della giunta regionale) e quello di
parlamentare nazionale o europeo e di consigliere regionale o di componente della giunta in
altra regione (art. 122.2 Cost.).
La legge 165/2004, all'art. 3, ha prescritto una serie di principi fondamentali che devono
guidare il legislatore regionale nella conformazione delle cause di incompatibilità e che sono
comunque suscettibili di concretizzazione anche ad opera della Corte costituzionale (vedi sent.
310/2011).
a) Il primo principio è quello che afferma la sussistenza di cause di incompatibilità in caso di
conflitto tra le funzioni svolte dal presidente o dagli altri componenti della giunta regionale o
dai consiglieri regionali e altre situazioni o cariche, comprese quelle elettive, suscettibile, anche
in relazione a peculiari condizioni delle regioni, di compromettere il buon andamento e
l'imparzialità dell'amministrazione ovvero il libero espletamento della carica elettiva;
b) il secondo principio prevede un'incompatibilità in caso di conflitto tra le funzioni svolte dai
componenti dell'esecutivo o dai consiglieri regionali e le funzioni svolte dai medesimi presso
organismi internazionali o sovranazionali;
c) un terzo principio prevede un'incompatibilità in caso di lite pendente con la regione (se il
soggetto è parte attiva della causa; in caso di lite passiva, solo se la causa medesima sia
conseguente o sia promossa in seguito ad altro giudizio definito con sentenza passata in
giudicato).
In termini di mera possibilità è invece configurata l'incompatibilità tra la carica di assessore
regionale e quella di consigliere regionale, e questa incompatibilità era stata prevista negli
statuti dell'Umbria e dell'Emilia-Romagna, con disposizioni che però, come si è già ricordato,
sono state annullate dalla Corte costituzionale in quanto di competenza delle legge elettorale e
non dello statuto (sentt. 378 e 379/2004). Non è invece stata impugnata la norma dello statuto
toscano (art. 35.2), secondo cui la nomina di un consigliere regionale ad assessore comporta la
sospensione di diritto dall'incarico di consigliere regionale e la sostituzione con un supplente,
norma che ha l'effetto equivalente alla previsione di un'incompatibilità. La legge quadro
consente poi di differenziare la disciplina dell'incompatibilità nei confronti del presidente della
giunta regionale, degli altri componenti della stessa giunta e dei consiglieri regionali.
Come si è detto, la legge statale continua a regolare i casi di incandidabilità, che per quanto
costituiscano ipotesi particolarissime di ineleggibilità sono stati ascritti, secondo un criterio
teleologico e in forza di un giudizio di prevalenza, alla competenza esclusiva in materia di ordine
pubblico e sicurezza, di cui all'art. 117.2, lett. h), Cost., in ragione del collegamento tra tale
istituto e la prevenzione dei reati (sent. 118/2013).
In tale ambito assumono particolare rilievo le previsioni di incandidabilità contenute nel capo III
d.lgs. 235/2012, le quali stabiliscono che i soggetti condannati per i delitti elencati nell'art. 7
(delitti associativi, reati contro la pubblica amministrazione, ma anche reati comuni non
colposi), oppure assoggettati a determinate misure di prevenzione, non possono ricoprire le
cariche di presidente della giunta regionale, di assessore e di consigliere regionale,
La legge prevede che in caso di condanna non definitiva operi la sospensione dalla carica,
mentre quando la condanna è coperta da giudicato scatta la sanzione della decadenza.
La Corte costituzionale con le sentt. 276/2016 e 214/2017 ha ritenuto infondate le questioni
che prospettavano una disparità di trattamento rispetto alla disciplina valevole per i
parlamentari, per i quali l'incandidabilità opera solo per una fascia più ristretta di reati e per i
quali non è prevista la sospensione cautelare in caso di condanna non definitiva: il diverso
livello istituzionale e funzionale delle camere e dei consigli regionali rende di per sé non
comparabili la posizione dei titolari di cariche elettive nelle regioni e negli enti locali e quella
dei membri del parlamento, e un trattamento di maggiore severità nella valutazione delle
condanne per reati contro la pubblica amministrazione può essere giustificato dal fatto che i
consigli regionali esercitano anche funzioni di natura amministrativa, oltre che con il fatto che
la commissione di reati contro la p.a. rischia di minare l'immagine e la credibilità
dell'amministrazione e di inquinarne l'azione in modo particolarmente incisivo al livello degli
enti regionali e locali, per la prossimità dei cittadini a tali enti per la diffusività del fenomeno in
tale ambito.
In assenza della legge regionale che regoli le ipotesi di incompatibilità e di ineleggibilità in modo
conforme ai nuovi principi, continua ad applicarsi, in forza del principio di continuità, la
disciplina di dettaglio contenuta nella legge 154/1981, che prevede in modo analitico i casi di
ineleggibilità e di incompatibilità dei consiglieri regionali.
Secondo la giurisprudenza costituzionale la competenza concorrente prevista dall'art. 122.1
Cost. non è circoscritta al sistema elettorale in senso stretto (vale a dire al meccanismo di
traduzione dei voti in seggi) e alle cause di ineleggibilità e di incompatibilità, bensì si estende
anche alla legislazione di contorno del fenomeno elettorale, includendo quindi la disciplina del
procedimento elettorale e la normativa concernente le campagne elettorali (sent. 151/2012,
relativa alla disciplina delle spese elettorali sostenute dai movimenti e partiti politici).
Conseguentemente, tali oggetti non sono riservati alla potestà residuale della regione,
contrariamente a quanto si era ritenuto in letteratura e a quanto aveva implicitamente
riconosciuto lo stesso legislatore statale nella legge quadro 165/2004; su di essi può invece
legittimamente intervenire anche la legge statale, purché con norme che siano principi
fondamentali.

IL CONSIGLIO REGIONALE
Il consiglio regionale è l'organo deliberativo e rappresentativo della regione.
Il consiglio regionale ha il compito di fissare l'indirizzo politico amministrativo della regione
rappresentando tutti gli interessi generali della collettività di riferimento.
Questo ruolo si sostanzia, in primo luogo, nell’esercizio della funzione legislativa di cui il
consiglio regionale è, per Costituzione, l'organo titolare (art. 121 Cost.: «il Consiglio regionale
esercita le potestà legislative attribuite alla regione»).
Pur nel silenzio della Costituzione, analogamente ai parlamentari nazionali, i consiglieri
regionali operano senza alcun VINCOLO DI MANDATO (cioè parlamentari e consiglieri regionali
svolgono il loro incarico senza obblighi nei confronti di partiti, programmi elettorali o dei cittadini stessi.
L’eletto, quindi, non ha nessun vincolo giuridico nei confronti degli elettori, ma solo una responsabilità
politica).
Si ritiene, infatti, che l'art. 67 Cost., il quale stabilisce che ogni membro del Parlamento esercita
le sue funzioni senza vincolo di mandato, sia applicabile anche ai consiglieri regionali.
Il consiglio regionale è il titolare esclusivo della potestà legislativa. Questo significa che le leggi
regionali devono essere approvate dal consiglio regionale e non potrebbe essere
diversamente.
In quanto organo rappresentativo e deliberativo della regione eletto dal popolo, spetta al
consiglio regionale l’iniziativa legislativa per le leggi statali. Infatti, in base all’art. 121 Cost. il
consiglio regionale può fare proposte di legge alle Camere. Quindi, può provenire dai consigli
regionali la presentazione di un disegno di legge statale.
Inoltre, a norma dell’art. 75 Cost. è indetto referendum abrogativo di una legge o di un atto
avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli
regionali. Quindi, in concorso con altri quattro Consigli regionali, un Consiglio regionale ha il
potere di iniziativa del referendum abrogativo, così come, a norma dell’art. 138 Cost. , del
referendum costituzionale.
I consigli regionali partecipano attraverso dei propri delegati alla elezione del presidente della
Repubblica quindi vanno a sedere integrando il Parlamento in seduta comune per la elezione
del presidente della Repubblica e infine l'articolo 132 della costituzione riconosce al consiglio
regionale il compito di esprimere un parere per le eventuali variazioni territoriali delle regioni
questa la procedura speciale prevista dall articolo 132 della costituzione a dalla dagli statuti nel
caso delle regioni a statuto speciale quindi nelle uno speciale gli stalli sono anche quanti sono i
componenti del consiglio regionale e per esempio in Sicilia non avanzare degli anni 80 in
Trentino Alto Adige sono 70 per quanto riguarda invece le regioni a statuto ordinario prima era
una legge dello Stato ok del 68 del 1968 che stabiliva che fossero 80 i componenti nelle regioni
con più di sei miliardi tanti 66 abitanti erano da sei a 4.000.050 nel caso di popolazione della
regione 40 fino e 30 il numero dei componenti dei consigli regionali nel 1995 quindi in
coincidenza con tutta quella serie di riforme che hanno guardato al riconoscimento di garantire
il riconoscimento di una maggiore autonomia statali alle regioni nel 1995 venne la possibilità
per le regioni di aumentare il numero dei seggi in base a dei meccanismi premiali dell'epoca la
legge della leva e ovviamente l'atto con cui la regione fissa il conto il numero del dei
componenti dei consigli regionali era lo statuto e questa disposizione del 1995 venne poi
confermata quando vi fu la revisione costituzionale del 2001 per cui venne confermata dagli
statuti il numero dei consiglieri e così fu per una decina d'anni più o meno fino a quando non ci
fu il no più vero esattamente fino a quando non vi fu il governo monti se ve lo ricordate il il
governo Monti se ricordate bene e fu un governo appoggiato da una maggioranza parlamentare
il governo squisitamente tecnico appoggiato rabbia parlamentare che ebbe il lo sgradito
compito di introdurre misure molto restrittive sacrifi canti per il popolo perché per consentire
una fuoriuscita da una condizione economica non facile addirittura per la uscita dello dell'Italia
dall'unione europea vi ricordate sono fatti di 10 anni fa sembrano per molti versi anche molto
lontana ma insomma nel 2011 la l'Italia versava in una situazione economica per niente facile
crisi economica per niente per niente semplice e probabilmente legata anche alla gestione del
denaro pubblico forse troppo allegra negli anni precedenti che indusse questo governo di
tecnici che quindi insomma potevano operare senza latte il timore di deludere le gli elettori
industria questo governo nel produrre tutta una serie di misure di spending review cosiddetta
cioè di risparmio di tagli alla spesa pubblica e tra questi tagli ovviamente ci sono le indennità di
carica no evitare cioè organi istituzionali e pletorici cioè composti da il numero eccessivo di
persone che comportano anche un aumento incontrollato dei costi di gestione e allora venne
reintrodotto in un certo senso il numero fisso di componenti dei consigli regionali per le regioni
a statuto ordinario e in particolare l'articolo 14 del decreto legge 138 del 2011 poi convertito in
legge numero 148 del 2011 ha stabilito una riduzione del numero massimo di consiglieri
regionali anche una riduzione del numero dei possibili assessori in giunta nonché una riduzione
degli emolumenti che si possono pagare ai consiglieri regionali che la durata del mandato il
dato creare è uguale per tutti dura 5 anni una delle questioni più dibattute riguarda la possibile
applicazione di un istituto che è quello della proroga o che è un istituto abbastanza diffuso nella
disciplina di molti organi collegiali soprattutto di organi collegiali piano questo questo base
della rappresentatività cioè che sono dunque eletti dal corpo elettorale e per i quali magari i
tempi di insediamento del nuovo del nuovo collegio non sono esattamente certi e allora
soluzioni di continuità soluzioni interruzioni nella continuità dell' operato della istituzione
consiglio regionale nel 1975 circolare del presidente del Consiglio dei ministri successivamente
confermata da lentamente costante della Corte costituzionale nelle stabilito che potesse
applicarsi la proroga e cioè che il consigli regionali da anche oltre il quinquennio fino
all'insediamento del nuovo consiglio regionale eletto e è così infatti delle stabilito che i poteri
venissero prorogati per un periodo che intercorreva tra il quarantacinquesimo giorno
antecedente elezioni e l'insediamento dei nuovi eletti c'è da dire però che durante il periodo di
prorogatio i consiglieri prorogati non possono anzi devono scusate limitano ad adottaresolo.at
necessari urgenti e indifferibili quindi limitarsi alla ordinaria amministrazione e solo per quella
che non può essere rinviata quindi sono atti necessari urgenti e indifferibili va bene per le
regioni a statuto speciale la proroga e ovviamente l'applicazione dei meccanismi di prorogatio e
appannaggio degli statuti jul negli anni più recenti anche gli statuti delle regioni ordinarie
hanno provveduto a introdurre discipline della proroga io e tutte queste disposizioni statutarie
sulla proroga o introdotte dagli statuti ordinari sono state tutte giudicate legittime dalla Corte
costituzionale salvo per un caso anche abbastanza ovvio cioè il caso in cui il consiglio regionale
de cata anche se l'articolo 126 della costituzione cioè decada per l'effetto di un decreto del
presidente della Repubblica che scioglie anticipatamente il consiglio regionale perché ha
compiuto atti contrari e ha compiuto atti contrari alla costituzione o gravi violazioni di legge
evidente che se questo il caso della fine del mandato del consiglio regionale cioè per che il
consiglio regionale ha commesso atti contrari alla costituzione addirittura da spingere il
presidente della Repubblica scioglierlo anticipatamente dai beltrano che gli consenta di
proseguire l'attività sia pure in regime di proroga Lazio fino all'insediamento del nuovo consiglio
ci siamo ragazzi professore idente in quest'ultimo caso di cui ha parlato si è effettivamente mai
verificato si si in questi casi viene nominato un commissario cioè un commissario temporaneo
dire nominato per sostituirsi alla generalmente vari commissario è vale quindi anche per le per i
consiglieri regionali perché lo stabilisce l'articolo 122 al comma quarto si tratta di una forma di
insindacabilità che comporta irresponsabilità sia civile che penale che amministrativa ok quindi
non possono i consiglieri regionali subire i processi che siano civili che stiamo per anch'essi ad
amministrativi per le opinioni espresse EI giudizi dati nell'esercizio delle proprie funzioni e
questo perché altrimenti sarebbero condizionati nell'esercizio del proprio mandato no
condizionati dal timo e di essere sottoposti a processi e contratto nella anche ai a nell applicare
questa disposizione è prevalso l'orientamento della Corte costituzionale che si era diciamo
formato con riguardo all'articolo scusate all'articolo 68 primo comma se ve lo ricordate cosa se
lo ricorda qual era la questione che si pose e che poi fare col quale anche per i consigli regionali
circa la applicazione dell'articolo 68 sulla insindacabilità delle ordine alle spese dei parlamentari
nazionale qual è il problema interrogativo pratico applicativo no lo dico io e capire cosa si
intende per opinare espresse nell'esercizio delle proprie funzioni cioè se il il parlamentare
rimaniamo sulle balle ma ripeto vale anche per i consiglieri regionali se il consigliere regionale
di parlamentare va in una trasmissione televisiva o più banalmente anche forse meglio proprio
attuale fa un post su Facebook EE sì prima esprimere le mie opinioni cosa dobbiamo pensare
che si applica la insindacabilità o dobbiamo pensare che l'attività di posso fare posto su
Facebook con intervista rilasciata in televisione non sia non possa considerarsi esercizio delle
proprie funzioni non ricordate questa questione secondo me si considera esercizio delle proprie
funzioni Roberto e l'attività che io svolgo in aula per esempio durante una seduta del consiglio
regionale quella della camera del Senato cui io partecipo ma esercizio delle proprie funzioni e
anche l'attività che da parlamentare e da consigliere regionale svolgo fuori dall' aula perché
invitato a una trasmissione televisiva o perché esprimo delle idee sulla mia pagina personale di
Facebook piuttosto che di un altro social network ok bene quindi fin qua del tutta a una totale
analogia tra il parlamentare e il consigliere regionale le cose invece differiscono con riferimento
a gli altri due commi dell'articolo 68 68 riguarda il Parlamento nazionale se ricordate cosa
stabiliva per i parlamentari l'articolo 68 ricorderete che il primo comma riguarda la sindacabilità
fermati il secondo il terzo gomma invece riguarda quella che più tecnicamente viene chiamata
la immunità parlamentare cioè la possibilità di non essere sottoposti a perquisizione personale
e domiciliare non essere arrestati non essere privati della libertà personale non essere
mantenuti in detenzione e e non essere intercettati telefonicamente no telefonicamente ormai
anche insomma qualsiasi tipo di intercettazione elettronica e tutte queste sono cose che di cui
gode il parlamentare come immunità e vi ricordate la costituzione cosa dice a riguardo il
parlamentare può essere arrestato si o no bisogna siamo Caterina Caterina può essere arrestato
soltanto in alcuni casi e in caso di flagranza del reato pium uhm non si paga il caso se non se
non la ricorda sei stato condannato in via definitiva c'è una sentenza irrevocabile ok però e tolti
questi due casi proprio gravissimi in tutti gli altri casi per tutti i reati cioè flagranza di reato
oppure tu sai perfettamente che anche se non c'è una sentenza definitiva è possibile essere
oggetto di misure cautelari di detenzione o di arresti domiciliari beh questo è possibile quindi
perico parlamentari o no no e vai o no però precisando qualcosa zoom non non cioè non non
non ricordo ecco se c'è Andrea no in realtà non ricordo no non è possibile procedere alla alla
all' arresto piuttosto che ad altro se ci vuole l'autorizzazione da parte delle camere prima di se
vuoi la Gori azione della commissione parlamentare di riferimento un bene quindi in un certo
senso c'è questa garanzia di tutela che presidente il Parlamento deve autorizzare l'arresto no e
lo stesso vale per le intercettazioni telefoniche o elettroniche queste garanzie che sono articolo
68 secondo e terzo comma non si non ci sono per il consigliere regionale quindi c'è il consigliere
regionale se ne va solo col primo comma dell'articolo 68 che poi espressamente prevista regola
l'articolo 122 che stiamo esaminando non si applica invece nella la uno non ho capito bene
quindi l'immunità parlamentare per il consigliere regionale non si applica ma questo no perché
l'immunità e parlamentare hai capito nel senso non mi dai sempre per la insindacabilità delle
opinioni l'articolo 122 della costituzione sui consiglieri regionali ti fa una regola tale e quale alla
68 primo comma di parlamentari per quanto riguarda la immunità articolo 68 secondo e terzo
comma per i parlamentari non c'è una norma di questo tipo per i consiglieri regionali sono stato
chiaro no anche qui ci viene in aiuto il parallelismo con il Parlamento perché penso che
ricorderete che quando abbiamo studiato diritto pubblico abbiamo studiato la peculiarità delle
fonti regolamenti parlamentari ricordate chi mi sa dire qualcosa sui regolamenti parlamentari
cosa sono e come si inquadrano nel contesto delle fonti del diritto ragazzi debolucci sul diritto
pubblico vedo e non va bene perché io parlando veramente della delle basi per un studente di
Scienze le pubbliche amministrazioni cioè la soluzione in pratica i regolamenti parlamentari
sono approvati da ciascuna camera autonomamente quindi mentre le leggi dello Stato come
sapete sono frutto della lettura condivisa delle due non il Parlamento solo nel caso dei
regolamenti parlamentari abbiamo un testo normativo che ha valore di fonte di rango primario
siamo del Parlamento Ue ok bene sto ricordando quello che dovreste ricordare voi dal pubblico
e sono approvati ciascuno naturalmente dalla camera quindi di riferimento quindi la Camera dei
deputati approva il regolamento del deputati il Senato della Repubblica approva il regolamento
del Senato cosa c'è scritto nei regolamenti i regolamenti servono a disciplinare l'organizzazione
dei lavori il funzionamento delle camere ciascuna camera col proprio regolamento per esempio
nei regolamenti troviamo parlamentari sempre stiamo parlando troviamo la disciplina puntuale
del varie forme di procedimento legislativo vi ricordate il procedimento con commissione in
sede redigente in sede referente in sede deliberante ve le ricordate queste cose ecco la
disciplina la troviamo nel e nei regolamenti parlamentari analogamente quindi ora ricordato
quanto avevamo studiato in pubblico per quanto riguarda il Parlamento andiamo al consiglio il
consiglio regionale analogamente a quanto accade per i parlamentari Parlamento nazionale ha
il potere di approvare un proprio regolamento interno volto a disciplinare l'organizzazione del
dei lavori del consiglio le diverse procedure i rapporti con gli altri organi regionali Paul i primi
statuti addirittura prevedevano che tali regolamenti dovessero trovare l'approvazione a
maggioranza assoluta tu tei i regolamenti sono consiliari sono espressione della autonomia
organizzativa del consiglio regionale e quindi non possono essere modificati con una legge
regionale diciamo che il rapporto tra tra fonti regolamento consiliare e legge regionale è un
rapporto di competenza il regolamento ha una specifica competenza che lo rende l'unica fonte
di riferimento su quelle tematiche ok il criterio per cogliere i rapporti tra i regolamenti consiliari
e le leggi regionali e il criterio della competenza non il criterio della gerarchia e allora
concludiamo con con questa slide che mette in evidenza una riflessione che la Corte
costituzionale ha più volte affrontato cioè il famoso parallelismo tra il consiglio regionale il
Parlamento no perché fino a ora sembrerebbe che il consiglio regionale sia una sorta di mini
Parlamento nella regione anche per tutte le regole che abbiamo enucleato che abbiamo
commentato fino a ora regolamenti guarentigie proroga joueur altro cielo fanno molto
assomigliare al Parlamento ecco però la Corte costituzionale in più occasioni ci ha messo in
guardia dalla creare un automatico parallelismo tra consiglio regionale e Parlamento perché e
quindi ho messo il virgolettato delle sentenze diversamente dalle camere le attribuzioni dei
consigli regionali costituiscono una esplicazione di una autonomia tutelata dalla costituzione
ma non una sovranità che quindi più le camere del Parlamento rimangono essenzialmente delle
assemblee legislative e quelle poche funzioni amministrative che svolgono sono una eccezione
perché vige invece il principio della separazione dei poteri che pretende l'affidamento dei
potere esecutivo al governo il potere legislativo alle camere in maniera rigida con una profonda
e netta separazione invece come sapete il consiglio regionale al netto ovviamente del potere
legislativo ha e può avere questo dipende dai singoli statuti un ampio ventaglio di funzioni
amministrative ok EE questo è confermato appunto dalla genericità la formula altre funzioni
che troviamo all'articolo 121 comma

Il chiare abbiamo detto che un ipotesi fisiologica è che dopo 5 anni dall' insediamento il
consiglio regionale esaurisca il proprio mandato e dunque scada come si suol dire in maniera
naturale cioè dopo 5 anni dalla mediamente va bene però è possibile anche che si verifichi no
due casi di scioglimento anticipato cioè prima dei 5 anni va bene prima dei 5 anni uno
scioglimento anticipato rispetto alla scadenza naturale queste due ipotesi di scioglimento
anticipato sono riconducibile allo scioglimento sanzionatorio e allo scioglimento funzionale
parliamo del primo caso di scioglimento sanzionatorio è disciplinato dall articolo della nostra
costituzione numero 126 l'ho già citato poc anzi quando parlato della proroga io ora ci
soffermiamo in maniera più precisa su questa casistica questo caso riguarda l'ipotesi in cui il
presidente della Repubblica con un proprio decreto un decreto motivato ecco attenzione
decreto motivato quindi è bene che questo decreto spieghi le ragioni di questo scioglimento
anticipato bene il presidente della Repubblica può disporre lo scioglimento del consiglio
regionale e quindi anche la consegna contestuale rimozione del presidente della giunta quando
quando essi abbiano compiuto atti contrari alla costituzione o gravi violazioni di legge questo è
il primo comma dell'articolo 126 il primo periodo la prima frase perché poi il primo comma di
questa norma prosegue e stabilisce che lo scioglimento della rimozione possono altresì quindi
altre ragioni essere disposti per ragioni di sicurezza nazionale quindi la sicurezza nazionale è un
elemento che può indurre il le ragioni di sicurezza nazionale sono elementi che possono indurre
il presidente della Repubblica a ricorrere allo scioglimento anticipato di un consiglio regionale
anche se non non vi sono e non vengono accertati atti contrari alla costituzione o gravi
violazioni di legge comunque entrambi i casi siamo in presenza di una palese e ipotesi di
supremazia statale sul sulle regioni più lo stato attraverso il ruolo terzo e di garanzia della più
del rispetto della costruzione del presidente della Repubblica ha il potere di anticipare lo
scioglimento di un consiglio regionale in nome dell' esigenza di sanzionare atti contrari alla
costituzione o gravi violazioni di legge imputabile al consiglio regionale o in nome delle esigenze
di tutela della unità dello Stato vi ricordate che quando ho parlato dei principi che regolano il
diritto regionale ho citato il principio di unità e indivisibilità della Repubblica che va poi però
conciliato con il principio della autonomia no delle regioni e anche degli enti locali ecco questa
è una tipizzazione se vogliamo una in quei casi in cui la costituzione che trova l'equilibrio tra
questi due principi individuando nell ipotesi di contrarietà alla posti di atti contrari alla
costituzione o gravi violazioni di legge nonché in esigenze di tutela dell'unità e della sicurezza
nazionale dei casi in cui la esigenza di unità prevale sulla tutela dell autonomia ok ma proprio
perché si tratta di situazioni eccezionali situazioni diciamo che comportano un sacrificio
evidente della dell'autonomia regionale tra l'altro con scioglimento anticipato di un organo
eletto dal Popolo della regione proprio per questo motivo la la Corte costituzionale ha più volte
ribadito che la disposizione dell'articolo 122 che stiamo esaminando 126 chiedo scusa ri stiamo
esaminando e delle trovare un applicazione restrittiva rigida ecco non si può andare oltre la
lettera della della della norma costituzionale male aggiungo anche che recentemente e faccio
riferimento sempre al periodo del governo Monti la legislazione nazionale quindi non la
costituzione ma la legge dello Stato ha tipizzato cioè ha individuato qualificato specificato
alcune ipotesi di gravi violazioni di legge ai sensi dell'articolo 126 cioè ha individuato alcuni casi
che rientrano pacificamente per espressa previsione legislativa nelle gravi violazioni di legge e
su questo la Corte costituzionale non ha battuto ciglio va bene quando sono in particolare mi
riferisco a due ipotesi una è prevista e se ci fate caso fanno riferimento entrambi alle esigenze
di contenimento della spesa pubblica perché una è disciplinata da quel decreto legislativo 149
del 2011 che ho già citato e cioè l'ipotesi di grave il sesto finanziario causato dal disavanzo
sanitario praticamente le regioni come penso sappiate anche per esperienza diciamo personale
da cittadini le regioni hanno tra le principali funzioni che tutto tra le funzioni che implicano
diciamo che impegnano per lo per la grossa parte il bilancio regionale la gestione della salute
pubblica la gestione della sanità non della salute della sanità cioè l'organizzazione dei servizi
sanitari ecco questo è uno di quegli anni sui quali più che in altri si sono determinati anche degli
sprechi delle cattive gestioni dal punto di vista economico in quel periodo in cui il governo
Monti ha dovuto farsi promotore di riforme tutte approvate dal Parlamento e non è che fossero
misure governative si trattava di misure proposte dal governo ma che hanno trovato
ovviamente consenso in aula nelle aule parlamentari perché era un momento delicatissimo per
il nostro paese bene è stato introdotto questa norma che appunto di riconduce alle gravi
violazioni di legge l'ipotesi di un grane dissesto finanziario nella regione imputabile a al
disavanzo sanitario molto spesso le regioni per garantire il finanziamento dell organizzazione
della sanità hanno fatto un ricorso al debito ecco quando si è verificato un si verifica un'ipotesi
di dissesto finanziario per eccessivi debiti imputabile alla gestione sanitaria e il ricorre una di
quelle ipotesi tipizzate per legge in cui il presidente della Repubblica può sciogliere
anticipatamente il consiglio regionale un'altra ipotesi invece la perdurante inerzia nel
recepimento delle regole dei principi di coordinamento della finanza pubblica finalizzata a
ridurre i costi della politica anche questo questo la norma del 2012 anche questa norma è
diciamo strettamente connessa alle esigenze di contenimento della spesa pubblica quindi si
sono introdotte in quegli anni delle misure che si inseriscono nella canale diciamo del istituto
dello scioglimento scioglimento sanzionatorio disciplinato dalla costituzione però con queste
leggi si sono specificati meglio dei casi in cui queste gravi violazioni di legge ricorrono e si è data
loro una copertura legislativa ok posso andare avanti bene andiamo avanti e parliamo hotel
della procedura con cui il presidente della della Repubblica può disporre questo scioglimento
sanzionatorio è importante perché come avete studiato in diritto amministrativo ogni qual volta
una amministrazione pubblica o addirittura un potere dello Stato come in questo caso il
presidente della Repubblica esercita un potere sanzionatorio assume grande rilevanza la tutela
no procedimentale che deve essere assicurata al destinatario della misura sanzionatoria in
questo caso il consiglio regionale a tal fine la costituzione nel rispetto proprio di questi principi
generali che riguardano tutte le i casi di esercizio di potestà sanzionatoria stabilisce che il
decreto del presidente della Repubblica deve essere adottato dopo aver dato deve essere
motivato ecco questo è ben precisato e poi deve essere adottato dopo avere sentito la
commissione bicamerale cioè una commissione che mette insieme membri dell'una e dell'altra
camera del Parlamento della Repubblica italiana una commissione bicamerale che si occupa di
questioni regionali ok quindi un espressa procedimentalizzazione della della della della del
decreto del del del processo attraverso il quale viene non sono scioglimento e andiamo all'altra
ipotesi di scioglimento anticipato del consiglio regionale che fa riferimento a un ipotesi diversa
da quelle che abbiamo realizzato finora cioè non un ipotesi di sanzionatoria ma semplicemente
uno scioglimento anticipato come funziona dire funzionale anche questo in un certo senso
fisiologico che è strettamente legato alla alle ipotesi della operatività della clausola simul
stabunt simul cadent di cui parlavo alla scorsa lezione cioè l'idea di garantire e di legare il
destino del consiglio al destino del presidente e della giunta regionale dal tè che andiamo a
guardare la norma di riferimento che è sempre il 126 al secondo comma dice cioè il consiglio
regionale può sfiduciare prendo il presidente della giunta con una mozione motivata
sottoscritta almeno 1/5 dei conti dei componenti e approvata per appello nominale con la
maggioranza assoluta la colazione può essere messa in discussione non prima dei tre giorni
dalla sua presentazione ma la norma che ci interessa in questo momento è l'articolo successivo
perché finora abbiamo parlato di scioglimento del consiglio anzi abbiamo parlato di sfiducia del
Consiglio dei confronti del presidente bene la il terzo comma dell'articolo 126 stabilisce sella a
approvazione e se la sfiducia chiedo scusa e approvata non che non tutti i casi di rimozione
impedimento permanente morte e dimissioni volontarie del presidente in tutti questi casi non
solo si determinò e di dimissioni della giunta e fin qua diciamo è abbastanza ovvio lo vedremo
la giunta è nominata dal presidente se viene meno il presidente vengono meno anche i suoi
assessori della giunta ma si verifica anche lo scioglimento del consiglio altra ipotesi sempre di
scioglimento anticipato del consiglio sia se a prescindere quindi dalle sfiducie cioè la
maggioranza dei componenti del consiglio contestualmente insieme decidono di dimettersi il
consiglio se ne va a casa per intero scusate mi scusi il telefono ed è un numero privato non
vorrei che sia una cosa importante perdonatemi pronto sì ma Dora dunque stavo dicendo dello
scioglimento funzionale disposto dunque in caso di dimissioni volontarie morte impedimento
del presidente o anche in caso di sfiducia oppure dimissioni contestuali della maggioranza dei
consiglieri tra l'altro queste cause di cedimento funzionale possono anche essere arricchite
integrate a livello di statuto regionale ma cioè statisticamente non succede già questi sono
sufficientemente anche e difficilmente gli statuti ne prevedono ulteriori ok avanti vediamo
come è organizzato il lavoro del consiglio regionale perché il consiglio regionale al suo interno
ha degli altri organi che consentono al consiglio regionale di svolgere le proprie attività anche
qui chi di voi ha memoria migliore diciamo del diritto pubblico studiato a primo anno si troverà
maggiormente a suo agio perché vedrete gli organi interni del consiglio ricalcano
fondamentalmente gli organi interni delle camere nazionali al Parlamento e infatti abbiamo i
gruppi consiliari mentre voi sarete al Parlamento abbiano i gruppi parlamentari il presidente del
consiglio regionale l'ufficio di presidenza la commissioni e per volta anche le giunte andiamo
per ordine e poi direi che ci fermiamo qua gruppi consiliari allora i gruppi consiliari tutti consigli
regionali sono articolati in generalmente due o più gruppi che aggregati che aggregano scusate i
componenti facenti parte della stessa area politica degli lo stesso partito dello stesso della
stessa coalizione se per esempio sono stati eletti tramite una coalizione questo che cosa serve il
gruppo se in fondo abbiamo detto che una volta che entri in consiglio non hai il vincolo di
mandato se il consigliere di tutta la regione non è che sei il consigliere per quell area politica
per quei cittadini che afferiscono a quell area politica servono per garantire l'espressione dei
valori a insiti nel programma elettorale scusatemi pronto non risponde allora dicevamo la i
gruppi consiliari quindi servono a dar voce alle posizioni dei programmi elettorali alle posizioni
ideologiche dei partiti rappresentati all'interno del consiglio d le consiglio regionale dare questa
voce portare questa voce nell ambito del consiglio regionale EE ora infatti vediamo che ruolo
assumono i gruppi allora i gruppi hanno un grande rilievo nella composizione delle commissioni
le commissioni ora poi vedremo che cosa sono però le commissioni sono composte garantendo
al proprio interno un equilibrata distribuzione e un equilibrata rappresentanza di tutti i gruppi
quindi cioè scura non missione che come vedremo sono degli organi operativi all'interno della
consiglio regionale esprime al proprio interno i gruppi parlamentari cioè si cerca di mantenere
anche all'interno delle commissioni quel gioco maggioranza opposizione e proprio dell'aula
generale consiglio regionale e questo è possibile solo se esistono dei gruppi cioè EI consiglieri
regionali sono aggregati nei diversi gruppi e si pesca da ciascun gruppo uno più componenti per
comporre le commissioni ha inoltre c'è un problema legato anche alla organizzazione dei lavori
del consiglio regionale cioè che ne so di che cosa ci occupiamo prima di che cosa ci occupiamo
dopo cose più urgenti e cose meno urgenti lo stabilisce lo vedremo il presidente del consiglio
regionale con l'ufficio di presidenza stabiliscono un po l'ordine dei lavori ma nel ballo e si
devono sentire quindi ascoltare la posizione della cosiddetta conferenza dei capigruppo cioè
non tutti i gruppi perché significherebbe ovviamente e perdersi a parlare con tutti ma ascoltare
la conferenza dei capigruppo la conferenza che Harry gruppo mette insieme un esponente di
ciascun gruppo quindi ragionevolmente 4 5 persone risiede allora anzi bisogna parlare di questo
ma sull ente no e questo è più importante se tutti i gruppi spingono per una determinata
questione come una questione prioritaria rispetto alle altre il presidente l'ufficio di presidenza
nell organizzare i lavori del consiglio ovviamente dentro la tener conto giusto i gruppi
parlamentari devono vivere che vuol dire devono avere del personale a loro dedicato devono
occupano uso del telefono usano internet spendono quindi devono avere delle piccole o grandi
risorse economiche per sopravvivere la storia della politica soprattutto regionale ma anche
locale ci insegna La storia recente ci insegna che anche nella gestione dei gruppi all'interno dei
consigli regionali si è fatto non serve un buon lavoro cioè non si è sempre ecco fatto una buona
economia a man contrario si sono maturati dei grossi spero freghi anche qui mi appello a chi di
voi segue un po il dibattito pubblico telegiornali notizie insomma penso che tutti ricorderete le
spese di certi gruppi dei certi gruppi consiliari spese anche difficilmente riconducibili all'attività
istituzionale spese folli per cene per pranzi per feste per regali regali e di ogni genere tipo
quando è arrivato sempre lui il collega direttore Monti che ha dovuto in quattro e 4 8 farà
trovare i vari norma norme di legge per tagliare le spese e limitare fortemente spese anche
inutili o poco riconducibili alle attività istituzionali ha puntato anche alla introdurre una serie di
limiti alle spese dei gruppi consiliari delle regioni e infatti ha stabilito che pur nel rispetto dell
autonomia dei gruppi perché capite bene che se io introduco dall'alto molte regole che vanno a
limitare l'azione dei gruppi praticamente sti gruppi tanto vale che manco ci sono cioè in gruppi
se lavorano bene devono essere liberi di operare se io gli impongo molti limiti alla fine gli tolgo
la loro funzione che è quella di portare dentro le istituzioni i valori della politica quindi come si
è trovato una o diciamo un compromesso si è riconosciuta per un verso confermato l'
autonomia di azione dei gruppi all'interno delle istituzioni e consiliari ma è stato introdotto per
la prima volta nel 2012 l'obbligo de di una contabilità più precisa e quindi soprattutto l'obbligo
del rendiconto per cui ogni anno devono rendicontare puntualmente le spese svolte e anche il
controllo della Corte dei conti va bene controlla Corte dei Conti come avete studiato in diritto
amministrativo controllo esercitato su tutti gli atti adottati dalle amministrazioni dello Stato va
bene ecco questo controllo è stato esteso anche alla tutti gli atti di scuse che comportano una
spesa ok ecco questo a Este controllo della Corte dei conti è stato esteso anche alle azioni alle
attività rendicontate dai gruppi dei consigli regionali va bene e allora io direi che ci vediamo
mercoledì per completare senz'altro la parte sulla sul consiglio regionale desidererei anche di
iniziare EA la A parlare di giunta e presidente della giunta diciamo che l' inquadramento del
consiglio aiuta poi a inserire il discorso sulla giunta sul presidente della giunta quindi questa è la
parte più pesante relativa agli organi delle regioni ci sono domande ragazzi dubbi io ti chiedo
scusa di questa fine anticipata ma appunto il direttore ha convocati per una commissione alle
12:45 e io entro un po di fretta per davanti e non ha fatto menzione tra le cose discernimento
senatore e stanziamento funzionale di un infezione mafiose questo perché non è un
motivazione motivazione valida oppure si è una motivazione valida e rientra comunque nella
macro casistica sei la violazione per delle gravi violazioni di leggi degli atti contrari alla
costituzione quella della per infiltrazioni mafiose anche lei va bene a mercoledì arrivederci

Nell'organizzazione costituzionale della regione il ruolo centrale è occupato dal consiglio


regionale. Tale organo è configurato dalla Costituzione anzitutto come assemblea legislativa, ed
è assimilato, nella collocazione e nella strutturazione, alle assemblee parlamentari.
Il parallelismo con le camere risulta non soltanto dall'intestazione al consiglio della funzione
legislativa (art. 121.2 Cost., con disposizione simmetrica a quella che a livello statale attribuisce
tale funzione collettivamente alle camere: art. 70.1 Cost.), ma anche dal carattere
necessariamente rappresentativo dell'organo (art. 122.1 Cost.), dal riconoscimento al consiglio
della prerogativa dell'insindacabilità per le opinioni espresse e i voti dati dai suoi membri
nell'esercizio delle loro funzioni (art. 122.4 Cost.), prerogativa analoga a quella di cui godono le
camere (art. 68.1 Cost.), dalla norma organizzatoria, identica per il consiglio e per Camera e
Senato, per cui l'assemblea «elegge tra i suoi componenti un Presidente e un ufficio di
presidenza» (artt. 122.3 e 63.1 Cost.), nonché dall'estensione, in via interpretativa, di
determinati principi valevoli per il Parlamento e per i suoi componenti anche al consiglio
regionale e ai suoi membri (pensiamo al divieto di mandato imperativo, previsto dall'art. 67
Cost. per i parlamentari, ma sicuramente valevole anche per i consiglieri regionali, pur se
mancassero norme statutarie in tal senso).
Tuttavia, la posizione del consiglio si differenzia sotto molteplici profili da quella delle
assemblee parlamentari.
Anzitutto, la Corte costituzionale ha costantemente mantenuto fermo il principio della
differente posizione dei consigli regionali e delle assemblee parlamentari nel sistema
costituzionale, in quanto, «diversamente dalle funzioni assegnate alle Camere, le attribuzioni
dei Consigli si inquadrano nell'esplicazione di autonomie costituzionalmente garantite, ma non
si esprimono a livello di sovranità» (sentt. 301/2007;279/2008; 292/2001).
In secondo luogo, mentre le camere del Parlamento rimangono essenzialmente assemblee
legislative e l'intestazione ad esse di funzioni amministrative deve fare i conti con il principio di
separazione dei poteri, e quindi richiede una giustificazione costituzionale, l'attribuzione di
compiti amministrativi al consiglio regionale è prefigurata come normale dalla stessa
Costituzione nell'art. 121.2, nella parte in cui la disposizione allude alle «altre funzioni» –
evidentemente anche funzioni amministrative - conferite al consiglio «dalle leggi»: il limite
costituzionale è rappresentato qui non già dal principio orientativo di separazione dei poteri,
bensì dal vincolo di risultato consistente dalla configurazione della giunta come «organo
esecutivo della regione».
Pertanto, occorre fare molta attenzione nel momento in cui si intende procedere a
un'applicazione analogica di norme dettate per le camere ai consigli regionali, perché gli stessi
principi che informano l'attività del Parlamento, vale a dire i principi di continuità, di autonomia
e di indipendenza, possono essere declinati in modo diverso con riferimento alle assemblee
legislative regionali.
L'art. 121.1 Cost. affida alla legge statale la fissazione della durata dei consigli regionali, che
l'art. 5 della legge 165/2004 stabilisce in cinque anni, decorrenti dalla data dell'elezione,
È invece di competenza dello statuto la disciplina della prorogatio del consiglio (Corte cost.
196/2003), vale a dire dell'istituto secondo il quale l'assemblea scaduta continua a esercitare i
propri poteri sino alla proclamazione dei nuovi eletti o fino alla prima riunione dell'organo
rinnovato.
La Corte costituzionale ha ricostruito dogmaticamente la prorogatio come un istituto
costituzionalmente tipizzato che si imporrebbe con i suoi tratti caratteristici a tutte le regioni,
con conseguente riduzione dei margini per una conformazione autonoma dell'istituto. Secondo
la Corte, infatti, la prorogatio è un istituto di applicazione necessaria, che risponde all'esigenza
costituzionale di continuità dell'azione degli organi politici. In applicazione di tale dogmatica il
giudice costituzionale ha ritenuto che ai consigli regionali fosse consentito di esercitare
fino alla loro cessazione i poteri attenuati «confacenti alla loro situazione di organi in scadenza,
analoga a quella degli organi legislativi in prorogatio» (sentt. 468/1991 e 415/1995), e ciò
benché l'art. 3.2 della legge 108/1968 disponesse che i consigli «esercitano le loro funzioni fino
al 46° giorno antecedente alla data delle elezioni per la loro rinnovazione». Ma poiché a fronte
dell'interesse alla continuità stanno sia il principio della rappresentatività politica del consiglio
regionale, sia l'esigenza di evitare che in prossimità del rinnovo dell'assemblea elettiva i
consiglieri orientino la propria azione al solo scopo di guadagnare consenso elettorale, i poteri
del consiglio regionale risultano corrispondentemente limitati all'adozione degli atti necessari e
urgenti, dovuti o costituzionalmente indifferibili, sulla base di un bilanciamento il cui esito è un
punto di equilibrio rigidamente individuato (sent. 68/2010). Tale limite ai poteri del consiglio in
prorogatio è un limite giuridico e non solo politico; pertanto, la sua violazione da parte
dell'assemblea comporta incostituzionalità dell'atto approvato.

La prorogatio è sempre la prorogatio


La Corte ha fatto applicazione del principio per cui i poteri del consiglio dopo l'indizione delle nuove
elezioni sono circoscritti all'adozione degli atti urgenti e indifferibili nella sentenza 68/2010, che ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale di due leggi della regione Abruzzo approvate dal consiglio dopo la
pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi elettorali e prive della caratteristica
dell'indifferibilità.
La pronuncia è significativa, perché l'art. 86.3 dello statuto della regione Abruzzo, nel testo vigente
all'epoca, disponeva semplicemente che in caso di scioglimento anticipato e di scadenza della legislatura
il consiglio è prorogato sino alla proclamazione dei nuovi eletti, e non recava alcuna espressa limitazione
ai poteri esercitabili dall'assemblea nel periodo successivo all'indizione delle elezioni, a differenza di
altri statuti regionali, nei quali i poteri dell'organo in prorogatio sono espressamente limitati ai soli
adempimenti urgenti e indifferibili. Tuttavia, secondo i giudici costituzionali, il disposto dello statuto
abruzzese deve comunque essere interpretato come facoltizzante il solo esercizio dei poteri relativi ad
atti necessari e urgenti, e non come una proroga di tutti gli ordinari poteri del consiglio regionale. I limiti
immanenti alla prorogatio, infatti, si impongono tramite il vincolo di armonia con la Costituzione anche
al legislatore statutario, e pertanto pur in presenza di una disposizione in statuto che non preveda
limitazioni ai poteri del consiglio in scadenza tali limitazioni devono ritenersi implicite nella nozione di
prorogatio. In modo analogo la Corte ha ragionato nella sent. 157/2016, leggendo nell'art. 17 dello
statuto della Calabria dei limiti alla funzione legislativa del consiglio regionale in prorogatio che la
disposizione statutaria non prevedeva.

La giurisprudenza costituzionale ha altresì sottolineato l'esigenza che lo statuto ponga limiti alla
attività dell'assemblea legislativa nel periodo elettorale, dopo la convocazione dei comizi,
sempre in vista dell'esigenza di assicurare una competizione elettorale libera e trasparente, non
alterata da interventi legislativi che possano essere interpretati come captatio benevolentiae
nei confronti degli elettori (sent. 184/2014). La Corte ha affermato anche che per le regioni
ordinarie, in assenza di regole statutarie, continua ad applicarsi sussidiariamente la
regola della prescadenza, fissata dall'art. 3.2 della legge 106/1968 al 46° giorno antecedente
alla data delle elezioni, con la connessa attenuazione dei poteri.
La legislatura consiliare può cessare, oltre che in modo fisiologico per scadenza naturale
decorso il quinquennio di durata fissato dalla legge statale, anche in modo patologico, in
seguito a uno scioglimento anticipato.
La Costituzione regola due tipologie di scioglimento del consiglio regionale: lo scioglimento
sanzionatorio e lo scioglimento funzionale.
Lo scioglimento sanzionatorio rappresenta, insieme alla rimozione sanzionatoria del presidente
della giunta regionale, una forma di controllo statale sugli organi della regione, ed è previsto o
per l'ipotesi in cui il consiglio si renda responsabile di atti contrari alla Costituzione o di gravi
violazioni di legge (art. 126.1, primo periodo Cost.); oppure per ragioni di sicurezza nazionale
(art. 126.1, secondo periodo Cost.), le quali possono essere oggettive e prescindere da
comportamenti imputabili agli organi regionali.
Trattasi di uno strumento straordinario che nella prassi non è mai stato utilizzato, né mai
seriamente preso in considerazione. Ciononostante, esso rappresenta uno degli istituti di
supremazia dello Stato e di garanzia dell'unità dell'ordinamento, che potrebbe essere attivato
in situazioni eccezionali. Proprio la straordinarietà dello strumento, unitamente al fatto che
esso incide dall'esterno su un organo dotato di legittimazione democratica diretta, induce a
leggere in termini molto restrittivi le fattispecie di scioglimento, che devono tutte essere
qualificate in termini di speciale gravità.
La legislazione recente ha tipizzato determinate fattispecie qualificate come «gravi violazioni di
legge», quali il grave dissesto finanziario causato dal disavanzo sanitario (art. 2 del d.lgs.
149/2011) o la perdurante inerzia nel recepimento dei principi di coordinamento della finanza
pubblica sulla riduzione dei costi della politica (art. 2.5 d.-1. 174/2012).
La Corte ha ritenuto che questa specificazione rappresentasse una ipotesi di attuazione della
Costituzione per mezzo della legge ordinaria e fosse coerente con il principio di legalità; ma ha
precisato che tale concretizzazione non giustifica di per sé l'automatico esercizio dei poteri di
scioglimento o di rimozione sanzionatori dello Stato, dovendo tale sanzione passare
necessariamente per una valutazione in concreto, caso per caso, circa la gravità degli effetti
della violazione (sent. 219/2013).
L'art. 126 Cost. prevede che il provvedimento di scioglimento sia adottato con decreto motivato
del presidente della Repubblica, sentita la Commissione bicamerale per le questioni regionali.
La sent. 219/2017 ha dichiarato illegittime le norme dell'art. 2.2 del d.lgs. 149/2011, le quali
richiedevano che tale parere fosse espresso con maggioranza dei due terzi dei componenti della
Commissione, che attribuivano a tale parere efficacia vincolante, e che affidavano alla Corte dei
conti la funzione di accertare la responsabilità dolosa o gravemente colposa del presidente
della giunta regionale in vista della rimozione sanzionatoria determinata dalla ipotesi di grave
dissesto finanziario in relazione al disavanzo sanitario.
Mentre dovrebbe essere ormai pacifico che l'atto di scioglimento sanzionatorio (o di rimozione
sanzionatoria) non è un atto di iniziativa presidenziale - come è confermato anche dall'art. 51
della legge 627/1953 e dall'art. 2 della legge 400/1988 che ne affida l'iniziativa al Consiglio dei
ministri - si discute se l'intervento del capo dello Stato sia paritetico - e quindi se sia in presenza
di un atto complesso uguale - o se invece sia limitato al consueto controllo di legittimità sugli
atti di iniziativa governativa. Le ragioni a sostegno della prima tesi si fondano essenzialmente
sulle esigenze di garanzia dell'autonomia regionale, in ipotesi meglio tutelate dalla necessità
che l'atto di scioglimento dell'assemblea sia sorretto anche dalla volontà del presidente della
Repubblica; a supporto della seconda tesi si richiama la regola generale che vuole gli atti del
presidente della Repubblica decisi dall'organo dell'esecutivo che ne assume la responsabilità,
tanto più che l'autonomia regionale pare sufficientemente tutelata dal coinvolgimento
della Commissione bicamerale per le questioni regionali e, soprattutto, dalla possibilità del
controllo della Corte costituzionale sull'atto, impugnabile dalla regione con il conflitto di
attribuzione. Inoltre, stanti l'alta politicità dell'atto di scioglimento sanzionatorio (e dell'analoga
rimozione sanzionatoria prevista nelle stesse ipotesi nei confronti del presidente della giunta) e
il rilievo degli interessi che tali misure vanno a tutelare, l'idea che un organo irresponsabile
potesse paralizzare l'esercizio di questo potere poteva apparire poco congruente con i principi
costituzionali in materia di forma di governo.
Nemmeno dalla giurisprudenza costituzionale possono ricavarsi indicazioni dirimenti, giacché la
sent. 219/2013 da un lato ha ribadito il carattere determinante del ruolo del governo, già
sottolineato in precedenza dalla sent. 101/1966 [nel senso dell'atto sostanzialmente
governativo propende ancora Albanesi 2013, 1160); dall'altro, ha enfatizzato il significato della
partecipazione non formale del capo dello Stato, che interviene nella propria veste di
rappresentante e garante dell'unità nazionale, intesa non solo come unità territoriale dello
Stato, ma anche come coesione e armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che
compongono l'assetto costituzionale della Repubblica, e che «attraverso la motivazione del
decreto di scioglimento e rimozione, si risolve a ritenere soccombente l'istanza territoriale, che
di tale unità è parte costitutiva, a fronte delle esigenze della Repubblica compromesse dalle
azioni, od omissioni, illegittime degli organi di governo regionali».
Quanto allo scioglimento funzionale, vale a dire allo scioglimento dell'assemblea legislativa
disposto per riattivare tramite nuove elezioni il circuito dell'indirizzo politico, si sono già
ricordate le due ipotesi contemplate dall'art. 126.3 Cost.: la prima, innescata dalle dimissioni
volontarie, dalla morte, dall'impedimento permanente del presidente della giunta o dalla
sfiducia nei confronti dello stesso, vale obbligatoriamente solo nella forma di governo
con elezione popolare del presidente; la seconda, di applicazione necessaria in tutte le forme di
governo, consiste nelle dimissioni contestuali (vale a dire dimissioni rese, se non
simultaneamente, almeno in un contesto unificato da una concordanza di intenti) della
maggioranza dei consiglieri assegnati all'organo.
Nel vigore del vecchio art. 126 Cost. si riteneva che pure le cause di scioglimento funzionale
fossero tassative, anche perché lo scioglimento del consiglio era procedimentalizzato in
maniera unitaria e il relativo provvedimento attribuito alla competenza di organi statali.
Oggi le cause di scioglimento funzionale possono invece essere arricchite dallo statuto
regionale, il quale potrebbe - per fare un esempio - reintrodurre l'impossibilità di
funzionamento per incapacità del consiglio di formare una maggioranza (così disponeva l'art.
126.2 Cost.) come causa di scioglimento in una forma di governo con elezione consiliare del
presidente della giunta: e si è già visto che l'art. 4.1, lett. c), della legge 165/2004
pretenderebbe di imporre alle regioni, in tale forma di governo, la fissazione di un termine
temporale tassativo non superiore a novanta giorni per l’elezione del presidente e per
l'elezione o la nomina degli altri componenti della giunta (il che potrebbe significare previsione
implicita di una causa di scioglimento funzionale per il consiglio che entro il predetto termine
non riesca a esprimere una giunta).
In assenza di previsioni espresse (quali l'art. 13.2 St. Tosc., per cui la cessazione degli organi
regionali, nei casi previsti dalla Costituzione e dallo statuto, è proclamata dal presidente del
consiglio regionale), la competenza a dichiarare lo scioglimento funzionale spetta all'organo
competente a convocare i comizi elettorali: e quindi al presidente della giunta regionale, nelle
regioni che hanno attribuito a tale organo questa competenza; nelle altre regioni, al
rappresentante del governo per i rapporti con il sistema delle autonomie, cui l'art. 10.2, lett. A),
della legge 131/2003 affida l'indizione delle elezioni regionali «fino alla data di entrata in vigore
di diversa previsione contenuta negli statuti e nelle leggi regionali».
Al pari delle assemblee parlamentari, il consiglio regionale gode di un'autonomia
costituzionalmente garantita, la quale si esplica, anzitutto, attraverso l'organizzazione dei
propri lavori sulla base di un regolamento interno.
Il regolamento consiliare è previsto da tutti gli statuti regionali che normalmente richiedono,
per la sua approvazione, almeno la maggioranza assoluta.
Tale atto, che va a integrare la disciplina contenuta nello statuto regionale, a differenza dei
regolamenti interni delle camere un diretto fondamento nella Costituzione, la quale si
disinteressa dell'organizzazione interna del consiglio regionale salvo che per la previsione
dell'art. 122.3 Cost., ai sensi della quale l'assemblea elegge al suo interno un presidente e un
ufficio di presidenza.
La mancata menzione in Costituzione fa sì che al regolamento interno debba negarsi sia una
competenza riservata opponibile allo statuto, che sarebbe libero di disciplinare anche il
dettaglio dell'organizzazione interna del consiglio, sia la natura di atto con forza di legge, punto
sul quale la Corte costituzionale aveva mostrato qualche incertezza (vedi la sent. 18/1970, che
aveva ipotizzato l'impugnazione del regolamento interno del consiglio nei termini di una
comune legge regionale nel caso in cui il consiglio avesse utilizzato la forma regolamentare allo
scopo di sottrarre la delibera ai controlli costituzionalmente stabiliti per le leggi regionali) ma
che oggi pare definitivamente acquisito sia nella giurisprudenza costituzionale (sent. 288/1987,
che dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal governo contro
il regolamento interno del consiglio provinciale di Trento, regolamento che pure è menzionato
dallo statuto speciale), sia nella giurisprudenza amministrativa, che ritiene sindacabili i
regolamenti interni trattandoli come atti formalmente amministrativi (TAR Lazio - Roma, sent.
10132/2002; Consiglio di Stato, dec. 6770/2003).
Tuttavia, la posizione del regolamento interno del consiglio regionale è peculiare, perché esso è
immediatamente subordinato allo statuto regionale e, rispetto alla legge regionale ordinaria, si
trova in posizione di separazione di competenza per effetto di una scelta statutaria in tal senso.
Concettualmente è difficile comprendere come il regolamento consiliare possa godere di una
competenza riservata rispetto alla legge regionale, se è vero che in linea di principio lo statuto
non può istituire riserve di regolamento (vedi poi). La spiegazione di questa apparente
contraddizione si trova nella constatazione che il regolamento interno, a ben vedere, va a
disciplinare oggetti che sono affidati non alla legge regionale ordinaria, ma allo statuto; e
poiché tali oggetti sono riservati allo statuto solo in via relativa, il legislatore statutario può
disporne almeno in parte, e può quindi sottrarre la disciplina integrativa di questi oggetti al
dominio delle leggi per lasciarla ad altra fonte, quale il regolamento interno (dovendosi però
tenere conto anche della riserva di cui all'art. 97 Cost., per quanto riguarda l'organizzazione
degli uffici, riserva che è comunque solo relativa e consente quindi una normazione a carattere
integrativo dettata dal regolamento interno: così Corte cost. 88/1989).
Questa giustificazione teorica è integrata da altri due argomenti. In primo luogo, sul piano
sostanziale va rimarcato che comunque il consiglio, rimettendo al regolamento interno parte
della disciplina riferita alla propria organizzazione, non viene a spogliarsi di competenze
normative, come invece accadrebbe se lo statuto prevedesse riserve a favore dei regolamenti
dell'esecutivo. In secondo luogo, la potestà di autorganizzazione, esercitata mediante
regolamenti interni, è una potestà tradizionalmente implicita nell'autonomia di cui godono le
assemblee legislative e costituzionalmente riconosciuta, alle camere, dall'art. 64.1 Cost.: quindi
la configurazione di una riserva di regolamento interno è conforme a un principio costituzionale
generale.
Peraltro, va anche detto che nel caso del consiglio regionale nessuna ragione logica si
opporrebbe a una disciplina con legge dei profili attinenti all'organizzazione interna, visto che a
differenza del Parlamento siamo in presenza di un organo legislativo monocamerale, e quindi la
legge regionale soddisferebbe egualmente l'esigenza di garantire l'autonomia dell'assemblea.
Non a caso ci sono regioni, quali ad esempio l'Umbria, in cui il regolamento consiliare è
stato in passato approvato con legge regionale (e in un'occasione tale legge è stata impugnata
dal governo con l'argomento - implicitamente disapprovato da Corte cost., sent. 87/1998 - che
l'autonomia del consiglio imporrebbe di rivestire nella forma di regolamento consiliare le
norme relative all'organizzazione interna).
La preferenza per lo strumento del regolamento interno è verosimilmente motivata, oltre che
dal parallelo con la tradizione parlamentare, anche con la volontà di affidare la disciplina dei
lavori del consiglio a un atto concepito - anche qui in coerenza con le prassi parlamentari –
come espressivo di regole meramente interne.
L'ultima osservazione conduce direttamente al problema circa la natura del regolamento quale
fonte del diritto, questione che pare risolta dalla giurisprudenza in senso positivo.
Gli orientamenti più recenti e accreditati, infatti, riconoscono ai regolamenti interni del
consiglio regionale l'attitudine a essere fonte con rilevanza esterna, sulla scorta della
giurisprudenza costituzionale che ne ha ammesso l'impugnabilità, da parte dello Stato, almeno
con il conflitto di attribuzione (sent. 14/1965): ma non mancano tuttora prese di posizione in
senso diverso.

Il regolamento interno del consiglio regionale tra norma interna e fonte del diritto
In una controversia relativa al diritto di accesso ai documenti amministrativi, il TAR Marche ha
evidenziato come il diritto di informazione dei consiglieri regionali fosse riconosciuto e disciplinato nel
regolamento interno del consiglio regionale (oltre che nello statuto regionale), e ha conseguentemente
fatto applicazione della norma regolamentare.
Ancora, il TRGA Bolzano, nella sent. 1/2011, ha fondato sull'art. 109 del regolamento interno del
consiglio provinciale di Bolzano il riconoscimento di diritto all'accesso agli atti necessari per lo
svolgimento del mandato.
Meno chiara è la posizione assunta dal Consiglio di Stato nella stessa vicenda decisa in primo grado dal
TRGA di Bolzano. Infatti, il Consiglio di Stato, pur confermando la decisione, ha fatto leva sul fatto che
un regolamento di attuazione della legge provinciale sull'accesso agli atti rinviasse al regolamento
interno del consiglio provinciale. «Tale recepimento della disciplina interna del diritto di
informativa/accesso dei consiglieri provinciali in un atto normativo di rilevanza generale esterna al
consesso legislativo - ha osservato il Consiglio di Stato - vale a fondare una situazione giuridica
soggettiva ancorata nell'ordinamento giuridico generale, e non relegata esclusivamente all'ambito dei
poteri di autarchia e autonomia organizzativa dell'organo legislativo e alla sfera delle relazioni politico-
istituzionali intercorrenti tra detto organo e l'organo esecutivo della Provincia autonoma» (sent.
2434/2011): quasi a dire che in assenza del rinvio effettuato dalla «fonte esterna» il regolamento
interno rimanesse «norma interna».
Ancor più netta nel negare carattere di fonte del diritto al regolamento consiliare è una sentenza della
Corte di cassazione, che considera tardiva la produzione - nel giudizio di cassazione - del regolamento
interno del consiglio regionale della Campania, e afferma seccamente che non si tratta «di norma
giuridica che il giudice è tenuto a conoscere» (Cass. civ., sent. 21942/2004).

Tuttavia, la forza normativa del regolamento interno risulta attenuata proprio per quanto
riguarda un rilevantissimo profilo dell'organizzazione interna, vale a dire la disciplina del
procedimento legislativo.
In proposito, la giurisprudenza amministrativa tende a negare che la violazione del regolamento
interno al quale lo statuto rinvia sia assimilabile a una violazione dello statuto, e
conseguentemente esclude che tale violazione possa ridondare in un vizio di costituzionalità
(Consiglio di Stato, dec. 1559/2004; TAR Puglia - Bari, sent. 1362/2006). In questa
giurisprudenza è evidente il parallelo con la dottrina degli interna corporis del Parlamento,
dottrina che ha indotto la Corte costituzionale a negare rilievo, sotto il profilo dei vizi di
costituzionalità procedurali, all'inosservanza delle regole dettate dai regolamenti parlamentari
che non fossero di stretta esecuzione delle norme costituzionali.
Nel caso della violazione dei regolamenti consiliari, tuttavia, il disconoscimento di un'efficacia
viziante sul piano costituzionale alle violazioni dei precetti regolamentari può essere più
agevolmente sostenuto sia sulla base dell'argomento che in questa ipotesi il contrasto con la
Costituzione sarebbe doppiamente mediato, passando per due livelli di fonti interposte rispetto
all'art.123 Cost. (statuto e regolamento), sia con il rilievo che la scelta di inserire nel
regolamento, anziché codificare nello statuto, determinate regole di dettaglio circa i lavori del
consiglio potrebbe essere legittimamente sorretta dalla volontà di non condizionare la validità
del prodotto legislativo all'osservanza di queste stesse regole.
Secondo le norme dello statuto e del regolamento interno, e in analogia con il modello delle
assemblee parlamentari, il consiglio regionale si articola in organi interni, quali i gruppi
consiliari, il presidente del consiglio regionale, l'ufficio di presidenza, le commissioni, e talvolta
le giunte.
All'interno dell'assemblea i consiglieri confluiscono nei gruppi consiliari, che raccolgono i
membri dell'assemblea eletti nella stessa lista o aderenti allo stesso partito e che quindi
fungono da raccordo tra partiti e consiglio regionale. Taluni statuti fanno obbligo a tutti i
consiglieri di aderire - generalmente entro la prima seduta della legislatura - a un gruppo, e
prevedono l'istituzione di un gruppo misto, nel quale sono iscritti i consiglieri che non si
riconoscano in alcun gruppo o che non raggiungano il numero sufficiente per dar vita al gruppo.
Peraltro, in molte regioni è consentita la formazione di gruppi composti da un unico consigliere,
se sono soddisfatti determinati indici di rappresentatività (come ad esempio l'esistenza di un
gruppo omologo alle camere - così l'art. 27.2 St. Cal. - oppure il collegamento con una
lista di candidati che abbia partecipato alle elezioni – così l'art. 42.2 St. Ven.) ed è diffusa la
prassi dei «gruppi autorizzatis in deroga ai requisiti numerici previsti in via generale per i gruppi
consiliari.
La Corte costituzionale ha definito i gruppi come «organi del Consiglio regionale, caratterizzati
da una peculiare autonomia in quanto espressione, nell'ambito del Consiglio stesso, dei partiti o
delle correnti politiche che hanno presentato liste di candidati al corpo elettorale, ottenendone
i suffragi necessari alla elezione dei consiglieri» (sent. 187/1990; vedi anche la sent. 39/2014). I
gruppi godono quindi sia di autonomia nei confronti dell'assemblea, in quanto proiezione del
partito politico, sia di autonomia nei confronti del partito, in quanto espressione di consiglieri
che agiscono senza vincolo di mandato (Falcon e Padula 2008, 273].
Nell'organizzazione del consiglio i gruppi hanno un grande rilievo sia per la composizione delle
commissioni, che deve avvenire proporzionalmente alla composizione numerica dei gruppi,
sulla falsariga di quanto dispone l'art. 72.3 Cost, per le commissioni parlamentari, sia per la
programmazione dei lavori consiliari, che è normalmente decisa dalla Conferenza dei
capigruppo.
Sebbene l'organizzazione dei gruppi consiliari costituisca manifestazione della autonomia
organizzativa del consiglio regionale, la recente legislazione statale, e in particolare il d. 1.
174/2012, convertito dalla legge 213/2012, ha introdotto una serie di vincoli e di controlli,
giustificati a titolo di coordinamento della finanza pubblica.
L'art. 1.9 del decreto legge impone a ciascun gruppo consiliare di approvare un rendiconto di
esercizio annuale, articolato secondo linee guida deliberate dalla Conferenza Stato-regioni e
recepite con il d.P.C.m. 21 dicembre 2012.
Su tale rendiconto la Corte dei conti esercita un controllo diretto a verificare la conformità alle
predette linee guida, controllo che la Corte costituzionale ritiene non lesivo se esso rimane
esterno e documentale. Tale verifica non può addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali
rimesse all'autonomia politica dei gruppi, dovendo piuttosto limitarsi ad accertare la veridicità e
correttezza delle spese e la loro riconducibilità all'attività istituzionale del gruppo (sent.
130/2014 e sentt. 10/2017;260/2016; 104/2016;263/2014; vedi anche Corte dei conti, sez.
autonomie, sent. 29/2014).
La Corte costituzionale ha invece ritenuto illegittima la previsione, contenuta nell'art. 1.11 del
decreto-legge, secondo cui la mancata regolarizzazione, da parte del gruppo, del rendiconto
ritenuto non conforme dalla Corte dei conti avrebbe determinato la decadenza dal diritto
all'erogazione di risorse da parte del consiglio regionale per l'anno in corso. Tale sanzione,
rigida e non graduata, precludendo qualsiasi finanziamento al gruppo, poteva compromettere
le funzioni pubbliche affidate ai gruppi consiliari e pregiudicare l'ordinato funzionamento
dell'assemblea regionale, anche in presenza di irregolarità contabili solo marginali (sent.
39/2014).
Permane invece l'obbligo, sancito dalla stessa disposizione, di restituire le somme ricevute a
carico del bilancio del consiglio regionale e non rendicontate.
Il presidente dell'assemblea e l'ufficio di presidenza sono, ai sensi dell'art. 122.3 Cost., organi
necessari del consiglio, eletti dall'assemblea al proprio interno.
Gli statuti richiedono quasi sempre voto segreto e maggioranze qualificate per l'elezione del
presidente del consiglio regionale; sempre allo scopo di garantire le minoranze, dispongono
inoltre che l'elezione dei componenti dell'ufficio di presidenza (i due vicepresidenti e i segretari,
in numero variabile da regione a regione, solitamente due, ma tre in Lazio e in Piemonte,
quattro in Toscana, di cui uno con funzione di questore) avvenga con voto limitato o con altri
meccanismi che assicurino la presenza nell'ufficio di consiglieri di minoranza.
Il presidente del consiglio regionale ha il ruolo di convocare e di presiedere l'assemblea,
dirigendo i lavori e assicurando l'applicazione del regolamento interno, coadiuvato, in questi
compiti, dall'ufficio di presidenza. Anche la fissazione dell'ordine del giorno spetta al presidente
del consiglio regionale, sia pure in collaborazione con la Conferenza dei presidenti dei gruppi
consiliari (come talvolta è esplicitato dagli statuti: così, ad esempio, l'art. 21.2 St. Laz.).
Taluni statuti accentuano il ruolo arbitrale del presidente del consiglio regionale, attribuendo a
questa figura anche il compito di garantire i diritti delle minoranze (vedi ad esempio l'art. 20.1
St. Lig.)
Risolvendo una lacuna che era rimasta aperta negli statuti del 1971, qualche statuto prevede la
possibilità di revocare il presidente e gli altri componenti dell'ufficio di presidenza tramite una
mozione di decadenza, approvata dal consiglio. Lo statuto della Campania rinvia la disciplina
della revoca al regolamento consiliare, mentre lo statuto della Puglia stabilisce che la rimozione
di uno dei componenti dell'ufficio di presidenza possa avvenire per gravi motivi con mozione
approvata a scrutinio segreto dai due terzi dei componenti del consiglio; analogamente lo
statuto del Veneto stabilisce che la revoca avvenga in seguito all'approvazione, sempre con
maggioranza dei due terzi dei componenti del consiglio, di una mozione di decadenza, ma
specifica che ciò può avvenire in caso di «reiterata violazione degli obblighi e degli adempimenti
a essi attribuiti in base allo Statuto, alla legge o al Regolamento, con particolare
riferimento al rispetto del principio di imparzialità nell'adempimento delle funzioni
istituzionali» (art. 36.6 St. Ven.). La previsione di una maggioranza così qualificata dovrebbe
impedire che il potere del consiglio di revocare il suo presidente possa farne un fiduciario della
maggioranza, con snaturamento del ruolo arbitrale che la figura dovrebbe tendenzialmente
avere.
Quanto all'ufficio di presidenza, gli sono attribuiti, oltre a compiti ausiliari nei confronti del
presidente dell'assemblea, funzioni di amministrazione del bilancio autonomo dell'assemblea e
di raccordo con i gruppi consiliari.
Il consiglio si articola poi in commissioni permanenti, distinte per settori organici di materie. Le
commissioni svolgono, anzitutto, un ruolo essenziale nel procedimento di formazione della
legge, ma esercitano anche rilevanti funzioni consultive, esprimendo pareri nei casi previsti
dallo statuto (per esempio sui regolamenti della giunta), e di controllo sull'attività
dell'esecutivo.
Gli statuti possono prevedere anche l'istituzione di commissioni speciali con funzioni di
inchiesta e di studio. Tuttavia, in assenza di una norma costituzionale analoga a quella prevista
dall'art. 83.2 Cost., che riconosce alle commissioni parlamentari di inchiesta gli stessi poteri di
indagine e di esame che ha l'autorità giudiziaria, le commissioni consiliari speciali non
dispongono di poteri coercitivi.
La Corte costituzionale ha però precisato che le commissioni consiliari possono «appellarsi agli
ordinari vincoli di responsabilità politica e amministrativa che legano gli amministratori ei
dipendenti regionali all'ente di appartenenza» (sent. 4/1991). Più recentemente, la Corte ha
ritenuto legittima la previsione – contenuta nello statuto del Molise impugnato dal governo –
che esonera dal segreto d'ufficio i funzionari dell'amministrazione regionale e degli enti
dipendenti convocati, in seduta non pubblica, dalle commissioni permanenti nell'esercizio della
loro funzione di vigilanza sull'attività regionale (sent. 63/2012). Egualmente legittime devono
ritenersi le norme, ricorrenti negli statuti, che dichiarano non opponibile alle commissioni
regionali d'inchiesta il segreto d'ufficio, almeno con riferimento alle audizioni di funzionari e
amministratori regionali.
Verso l'esterno l'autonomia del consiglio e la sua indipendenza sono presidiate attraverso il
riconoscimento della prerogativa dell'insindacabilità dei consiglieri regionali.
L'art. 122.4 Cost., con enunciato che ripete quello dettato nell'art. 68.1 Cost. per i membri del
Parlamento, dispone che «i consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere per
le opinioni espresse ei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni». Per le regioni speciali e le due
province autonome la medesima tutela è prevista dagli statuti di autonomia.
Al pari dell'analoga prerogativa riconosciuta ai parlamentari, l'insindacabilità dei consiglieri
regionali è una garanzia che la Costituzione concede non già come privilegio personale
nell'interesse del singolo, bensì come guarentigia a presidio dell'autonomia del corpo
legislativo, in funzione della libertà di discussione e di determinazione dell'organo
politicamente rappresentativo delle comunità territoriali e legittimato democraticamente
all'esercizio delle funzioni preordinate alla cura degli interessi della comunità (Corte cost.,
sentt. 301/2007 e 332/2011).
Tale tutela si sostanzia però in un esonero da responsabilità - da tutti i tipi di responsabilità:
penale, civile, amministrativa ed erariale, salva solo una possibile responsabilità disciplinare
interna all'organo per le opinioni espresse – che è riconosciuto in capo ai singoli componenti
dell'organo. Trattandosi di una prerogativa che tutela immediatamente il singolo consigliere,
l'interessato può avvalersene personalmente nei giudizi comuni; siccome si tratta però anche
di una garanzia che tutela l'autonomia di un organo regionale da interferenze esterne, la
regione potrà farla valere per mezzo del conflitto di attribuzione promosso contro lo Stato in
riferimento ai provvedimenti giudiziari che abbiano omesso di fare applicazione della
prerogativa in esame, perché il disconoscimento dell'insindacabilità implica una menomazione
dell'autonomia costituzionalmente garantita all'ente.
Permane molta incertezza in ordine sia alla qualificazione giuridica delle prerogative di
insindacabilità, sia agli effetti che discendono da tali garanzie.
Secondo il prevalente indirizzo della Cassazione penale, formato sull'art. 68 Cost.,
l'insindacabilità implica una causa personale di esclusione della pena, che lascia intatta
l'oggettiva antigiuridicità del fatto e che quindi non si comunica ai concorrenti nel reato (Cass.
pen., sez. V, sent. 5 marzo 2010, n. 13198; Cass. pen., sez. V, sent. 26 novembre 2010, n. 2384;
Cass. pen., sent. 15 febbraio 2008, n. 15323; nel senso che l'insindacabilità sia invece una causa
di giustificazione che elimina l'illiceità della condotta si è espressa Cass. pen., sez. V, sent. 27
ottobre 2006, n. 38944). Tale inquadramento, peraltro, male si armonizza con la negazione –
sicura sulla base dell'interpretazione della norma - della responsabilità civile risarcitoria del
membro dell'assemblea legislativa autore del voto o dell'opinione produttivi di danno.
Sul piano degli effetti, l'interpretazione del disposto costituzionale si trova stretta tra l'esigenza
di non convertire la prerogativa in un'immunità dalla giurisdizione, analoga a quella
distintamente prevista dall'art. 68.2 Cost, nel testo originario (secondo cui per procedere
penalmente contro un parlamentare era necessaria un'apposita autorizzazione della camera di
appartenenza), e la necessità di assicurare una tutela anticipata, in osservanza alla lettera del
testo costituzionale che impedisce di «chiamare a rispondere» i consiglieri, lettera alla base del
quale sta la consapevolezza che già l'avvio di un procedimento diretto a far valere la
responsabilità di un soggetto ha un effetto intimidatorio a carico della persona stessa.
Il punto di equilibrio è stato trovato in modo pragmatico - ma non sempre coerente - dalle
decisioni della Corte costituzionale rese nei conflitti promossi dalle regioni in relazione alla
mancata applicazione dell'art. 122.4 Cost, da parte di organi giurisdizionali: il giudice
costituzionale ritiene lesivi tutti quegli atti che secondo il modello legale o per il loro contenuto
in concreto affermano o presuppongono, anche per implícito, una responsabilità del
consigliere; reputa invece privi di lesività quegli atti in cui il magistrato si sia limitato a svolgere
un'attività dovuta o meramente prodromica e priva di ogni contenuto valutativo.
Con riferimento alla prerogativa dell'insindacabilità sorge anche il problema di individuare a
quali funzioni consiliari si riferisca la disposizione costituzionale, visto l'ampio spettro di compiti
esercitati dai consigli regionali.

L'insindacabilità nei processi


Nell'ambito dei procedimenti diretti a far valere la responsabilità penale la Corte costituzionale ha
ravvisato un'idoneità lesiva - oltre che nelle sentenze di condanna e nelle misure cautelari - nell'avviso
di conclusione delle indagini inviato dal PM all'indagato (sentt. 276/2001 e 221/2006), nel decreto del
GIP che dispone il giudizio (sentt. 392/1999; 76/2001 e 279/2008), ma anche nell'invito del PM a
presentarsi come persona sottoposta a indagini (sent. 382/1998).
La Corte ha invece ritenuto non lesivo l'atto di appello del PM contro la sentenza di proscioglimento
pronunciata dal giudice in udienza preliminare (sent. 163/2001), con l'argomento che l'appello ha come
termine oggettivo di riferimento non la posizione delle parti in quanto tali, ma unicamente la
statuizione giurisdizionale avverso la quale si reclama, sicché è solo la statuizione in sé - e non già l'atto
di gravame - che è potenzialmente suscettibile di assumere una rilevanza esterna al processo, idonea a
perturbare la sfera delle attribuzioni costituzionalmente riservate alla regione.
In diverse occasioni la questione dell'insindacabilità di opinioni espresse si è posta nei processi civili
promossi nei confronti di consiglieri regionali da persone che si ritenevano danneggiate nella propria
onorabilità o reputazione dalle dichiarazioni rese dal consigliere. In tali ipotesi
chi «chiama il consigliere a rispondere» è ovviamente un soggetto privato e non un potere dello Stato;
ma si pone egualmente il problema di valutare se gli atti con cui il giudice istruttore gestisce il processo
civile siano idonei a comprimere la garanzia dell'insindacabilità e quindi a ledere l'autonomia
costituzionalmente garantita a un organo della regione.
La Corte costituzionale ha ritenuto non lesivi i provvedimenti di semplice rinvio delle udienze per la
produzione di scritti difensivi (sent. 235/2007), ovvero l'ordinanza di fissazione dell'udienza di
trattazione (sent. 173/2007). Per contro, ha giudicato potenzialmente lesiva l'ordinanza con cui il
giudice ammette i mezzi istruttori, perché tale provvedimento non è «un mero atto di impulso
processuale, imposto dalla legge senza margini di discrezionalità in presenza di determinate condizioni,
o comunque privo di ogni contenuto decisorio": ma, al contrario, di un provvedimento con il quale il
giudice si è pronunciato - con valutazione discrezionale e sia pure in funzione preparatoria della
pronuncia volta a definire il giudizio - sulle istanze istruttorie delle parti» (sent. 332/2011). A tale rilievo
la sentenza 332/2011 aggiunge un controllo sul contenuto dell'atto in concreto: la Corte ha infatti
sottolineato come i mezzi istruttori ammessi dal giudice fossero finalizzati non già alla mera verifica
della sussistenza dei presupposti di operatività della garanzia dell'insindacabilità, quanto
piuttosto allo scrutinio della fondatezza nel merito della domanda risarcitoria promossa dal soggetto
danneggiato.
Quanto al giudizio per responsabilità da danno erariale, la Corte costituzionale ha considerato
inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato nei confronti degli inviti a dedurre rivolti ad alcuni
consiglieri regionali dalla procura regionale presso la Corte dei conti, in quanto tali inviti - per quanto
siano una preliminare contestazione di fatti specifici a un soggetto già indagato, finalizzata a mettere
questi in condizione di rappresentare anche elementi a sua difesa - si inseriscono in una fase che
precede l'accertamento delle responsabilità e che è suscettibile, alternativamente, di portare
all'instaurazione del giudizio ovvero all'archiviazione (sentt. 163/1997;235/2015). Di contro, sono
sempre stati considerati potenzialmente lesivi gli atti di citazione con cui il procuratore presso la Corte
dei conti conveniva i consiglieri regionali in giudizio per responsabilità erariale (sentt. 289/1997;
392/1999; 235/2015).

Sicuramente coperti dalle prerogative di cui all'art. 122.4 Cost. sono gli atti compiuti
nell'esercizio della funzione legislativa. La garanzia si estende anche, pacificamente, alle
opinioni espresse dal consigliere nell'ambito della funzione ispettiva e di controllo - che si
manifesta in atti tipici quali le interrogazioni e le interpellanze (vedi da ultimo Corte cost., sent.
322/2011).
Ancora, rientra nella tutela apprestata dall'art. 122.4 Cost, anche la funzione di
autorganizzazione interna del consiglio, che riguarda sia l'organizzazione degli uffici e dei servizi
(con riferimento alle strutture, alla dotazione dei mezzi, al personale), sia le modalità di
svolgimento dell'attività consiliare.
Tale attività, infatti, è strettamente funzionale ai compiti primari (legislativi, di indirizzo politico
e di controllo) dei quali il consiglio è investito. Tuttavia, proprio questo collegamento esistente
tra l'attività di autorganizzazione e le altre funzioni consiliari, ha indotto la giurisprudenza
costituzionale e comune a negare che in questo caso l'immunità fosse assoluta, essendo invece
coperti da insindacabilità soltanto quegli atti di organizzazione che possano dirsi
ragionevolmente correlati all'esercizio di altri compiti consiliari (Corte cost.
289/1997 e 392/1999).
Le funzioni alle quali si dubita che l'art. 122.4 offra una tutela integrale sono quelle
amministrative. In proposito la Corte costituzionale ha ricondotto all'area dell'insindacabilità
soltanto le funzioni amministrative attribuite al consiglio regionale in via immediata ed
esclusiva dalla Costituzione e da leggi dello Stato e ha ritenuto, invece, non coperte
dall'immunità eventuali altre funzioni amministrative, attribuite al consiglio dalla normativa
regionale, forse nel timore che l'intestazione di compiti amministrativi all'assemblea legislativa
possa tradursi in un modo per aggirare le comuni regole sulla responsabilità (sentt. 69/1985;
289/1997 e 392/1999).
Ma tale restrizione non ha ragione di essere, anche in considerazione del fatto che
l'attribuzione di altre funzioni» al consiglio regionale spetta strutturalmente non alla legge
statale, bensì allo statuto o, sulla base dello statuto alla legge regionale, stanti la riserva di cui
all'art. 123.1 Cost. e la configurazione dell'organizzazione regionale quale materia residuale ai
sensi dell'art. 117.4 Cost. Maggiormente in linea con questa impostazione risulta la sent.
337/2009, con cui la Corte pare ammettere che anche la legge statutaria possa configurare
funzioni amministrative coperte dalla guarentigia ex art. 122.4 Cost., sulla base di una
distinzione di «quanto sia effettivamente riconducibile alle tipiche funzioni dell'Assemblea,
quali definite dallo statuto regionale ed eventualmente dalla legge statutaria, da quanto non
possa che restare soggetto, in virtù di una "copertura" dovuta alla sola legislazione regionale, al
regime giuridico proprio dell'ordinaria attività amministrativa».
Per quanto riguarda le opinioni espresse extra moenia, esse sono coperte dall'insindacabilità
quando presentano un nesso funzionale con le attività consiliari, il che significa che tra l'atto
tipico e la sua diffusione all'esterno dell'aula devono esistere un rapporto di contestualità
(rapporto che è spezzato quando sussiste uno iato temporale significativo tra l'atto típico e
l'esternazione) e una sostanziale corrispondenza sul piano dei contenuti (tra le molte, Corte
cost. 221/2006), secondo lo schema che vale per l'analoga prerogativa dei parlamentari.

Prerogative parlamentari non applicabili ai consigli regionali


Non sono invece suscettibili di applicazione analogica altre prerogative riconosciute da altre norme
costituzionali - espresse o implicite - in favore dei membri del Parlamento o delle camere in quanto tali.
Si oppongono a una tale estensione due argomenti: il carattere derogatorio delle norme in materia di
immunità, che facendo eccezione alle regole comuni non sono passibili di analogia, e il topos -
ricorrente nella giurisprudenza costituzionale - della diversa posizione costituzionale del Parlamento
rispetto ai consigli regionali (Giupponi 2010).
Così, nonostante l'eguale tenore letterale delle due disposizioni costituzionali di cui agli artt. 68.1 e
122.4 Cost., non opera per i consiglieri regionali, anzitutto, quella peculiare garanzia che la Corte
costituzionale ha ritenuto implicita nella guarentigia ex art. 68 Cost. (sent. 1150/1988) e che ora è
codificata nella legge 140/2003, vale a dire l'effetto inibente che scaturisce dalla delibera con cui
l'assemblea riconosce la sussistenza del nesso funzionale tra le opinioni espresse dal membro delle
camere e le funzioni parlamentari. I giudici costituzionali hanno escluso sia l'applicabilità in via analogica
ai consiglieri regionali del meccanismo previsto dall'art. 3 della legge 140/2003 (sent. 195/2007), sia il
riconoscimento di un effetto inibitorio alle delibere del consiglio regionale sulla base delle leggi
regionali che disciplinavano la delibera consiliare di insindacabilità (sentt. 301/2007 e 279/2008). Ed è
altresì dubbio che dette delibere consiliari, unitamente al principio di leale collaborazione, possano
obbligare il giudice a una presa in considerazione del punto di vista dell'assemblea legislativa più di
quanto ciò non sia già imposto dalle comuni regole processuali.
È poi pacifico che a favore dei consiglieri regionali non operano le immunità previste dall'art. 68.2 e 3
Cost. per le restrizioni della libertà personale, domiciliare o di comunicazione del parlamentare; così
come è fuori da ogni dubbio che vi sia piena giurisdizione sul rapporto d'impiego dei dipendenti del
consiglio regionale (e l'autonomia del consiglio è tutelata, piuttosto, con la previsione di un ruolo
apposito distinto da quello del resto degli impiegati regionali).
Non opera poi nemmeno la norma sulla verifica dei poteri prevista dall'art. 66 Cost., per cui ciascuna
camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità
e di incompatibilità. Infatti, benché gli artt. 2 e 3 della legge 165/2004 riconoscano ai consigli regionali la
competenza a decidere sulle cause di ineleggibilità e di incompatibilità dei propri componenti, la stessa
legge fa salva la competenza dell'autorità giudiziaria a decidere sui relativi ricorsi, in conformità, del
resto, alla posizione assunta dalla
Corte costituzionale (la quale, nella sent. 29/2003, aveva respinto la pretesa del consiglio regionale della
regione Sardegna di decidere in via esclusiva sulle cause sopravvenute di incompatibilità con la carica di
membro del consiglio regionale sardo e sulla conseguente decadenza del consigliere). E analogo
principio vale per la convalida degli eletti, che non esclude l'impugnazione dei risultati elettorali e degli
atti del procedimento elettorale di fronte al giudice competente.
Non opera, infine, nemmeno la sottrazione dell'assemblea legislativa alla giurisdizione contabile della
Corte dei conti (mentre, come si è visto, la garanzia di cui all'art. 122.4 Cost. protegge i consiglieri nel
giudizio di responsabilità per danno erariale e il riconoscimento dell'autonomia funzionale al consiglio
comporta sottrazione delle spese consiliari al controllo preventivo della stessa Corte dei conti: sent.
143/1968).

L'intestazione delle potestà legislative regionali in via esclusiva al consiglio regionale ha diverse
conseguenze, oltre che sul piano della forma di governo e in particolare dei rapporti tra
assemblea ed esecutivo, anche sul piano delle fonti.
A) Anzitutto, la previsione per cui la funzione legislativa è esercitata dal consiglio comporta
l'impossibilità per lo statuto di configurare atti regionali con forza di legge, in assenza di norme
costituzionali che prevedano deroghe alla titolarità esclusiva della funzione in capo
all'assemblea legislativa. In particolare, ciò determina l'inammissibilità di atti della giunta
regionale con forza di legge, assimilabili al decreto-legge o al decreto legislativo.
Su questo punto la giurisprudenza costituzionale aveva assunto una posizione netta fin
dall'inizio e si è consolidata in un indirizzo costante (così qualificato, ad esempio, dalla sent.
166/1990).
La Corte ha escluso la possibilità per la giunta regionale di fare ricorso alla decretazione
d'urgenza, e ha osservato incidentalmente che le clausole degli statuti speciali che consentono,
in caso di urgenza, la sostituzione della giunta al consiglio regionale si riferiscono soltanto alle
competenze amministrative dei consigli (sent. 50/1957). La Corte ha poi fatto valere il
principio generale di inderogabilità delle competenze costituzionali per negare in via generale
la possibilità di una delegazione legislativa alla giunta regionale, con il rilievo che «le ipotesi
nelle quali la Costituzione ammette l'esercizio della potestà legislativa da parte del Governo
(artt. 76 e 77) sono da ritenere eccezionali; e nulla di simile si ritrova negli ordinamenti
regionali, anche perché l'organo legislativo unicamerale e la minore complessità dell'esercizio
della funzione legislativa rendono più spedito il procedimento formativo delle leggi» (sent.
32/1961) - argomenti, questi, che rimangono ancor oggi pienamente attuali.
Dopo le riforme costituzionali del 1999-2001, il problema dell'ammissibilità di atti giuntali con
forza di legge è stato ritematizzato e la soluzione positiva è stata difesa: a) richiamando la
competenza dello statuto a disciplinare, nell'ambito della forma di governo, anche il sistema
delle fonti;
b) sottolineando come l'incremento delle competenze legislative regionali in seguito all'entrata
in vigore della legge cost. 3/2001 rendesse opportuna la previsione di atti normativi che
consentono interventi d'urgenza (il decreto-legge) o il riordino della legislazione (a mezzo di
decreti legislativi delegati);
c) rilevando che l'eliminazione del controllo preventivo sulla legge regionale aveva fatto cadere
uno dei motivi che si opponevano alla configurazione di atti giuntali con forza di legge, per i
quali il procedimento di controllo di cui all'art. 127 Cost, nel vecchio testo non era applicabile.
Ma questi argomenti non sono sufficienti per superare la preclusione derivante dalla norma
costituzionale che attribuisce in via esclusiva la funzione legislativa al consiglio regionale (art.
121.2 Cost.).

La chiusura della Corte permane anche dopo la riforma


La posizione della Corte, in linea con l'opinione prevalente, è stata di chiusura. Ciò risulta, anzitutto,
dalla sentenza 378/2004, nella parte relativa alla disposizione dello statuto dell'Umbria sui testi unici di
leggi regionali. Il disposto, impugnato dal governo che lo leggeva come norma che consente deleghe
legislative alla giunta, affida la formazione dei testi unici di riordino e semplificazione alla giunta
regionale, la quale deve essere a ciò autorizzata dal consiglio regionale con legge; tale legge determina
l'ambito del riordino e della semplificazione e fissa i criteri direttivi, gli adempimenti procedurali e il
termine entro il quale la giunta deve presentare il progetto. La legittimità della disposizione statuaria è
stata affermata dalla Corte sul presupposto che essa non costituisse il fondamento per possibili
delegazioni legislative, visto che comunque il testo predisposto dalla giunta è sempre sottoposto
all'approvazione finale del consiglio, sia pure con sole dichiarazioni di voto, e che le eventuali modifiche
degli atti legislativi oggetto di riordino e di semplificazione presentate nel periodo prefissato per la
predisposizione del progetto di testo unico devono sempre essere approvate dal consiglio, sia pure nella
forma della modifica della legge di autorizzazione.
Più recentemente, la sentenza 361/2010 ha ritenuto addirittura inesistente l'atto - che si definiva «legge
regionale» – approvato e promulgato dal presidente della giunta regionale della regione Calabria in
qualità di commissario straordinario nominato dal governo nell'esercizio del potere sostitutivo ex art.
120.2 Cost.: secondo la Corte il governo non avrebbe mai potuto attribuire a tale organo il potere di
adottare una legge regionale, che è «un potere proprio del solo organo rappresentativo della regione».
Per far fronte alle esigenze pratiche alle quali a livello statale si provvede con il decreto-legge e
con il decreto legislativo la regione può utilizzare procedimenti legislativi speciali, prevedendoli
a tal fine nello statuto: così, nel caso in cui sia necessario intervenire con urgenza con un
provvedimento legislativo, il consiglio regionale - che è organo legislativo monocamerale - può
attivare i procedimenti d'urgenza, caratterizzati dalla contrazione dei termini o dallo
snellimento delle fasi; per la formulazione dei testi legislativi complessi che codificano o
consolidano la disciplina di settore (testi unici, codici) l'assemblea legislativa può avvalersi dei
procedimenti semplificati che riservano al plenum la sola approvazione dell'atto finale, come
riconosciuto dalla Corte costituzionale nella citata sentenza 378/2004.
Per effetto dell'esclusione degli atti con forza di legge dell'esecutivo gli atti regionali con forza
di legge - menzionati negli artt. 134.1 e 123.1 Cost. – si riducono allo statuto regionale (per chi
lo considera non appartenente al genus legge regionale); al referendum abrogativo; nonché,
ove previsto, al referendum approvativo di leggi regionali.
B) In secondo luogo, l'art. 121.2 Cost. impedisce allo statuto di prevedere riserve di
regolamento. Infatti, una riserva di competenza a favore di fonti secondarie significa
sottrazione di materie o di oggetti alla potestà normativa del consiglio ed elevazione, in quegli
stessi ambiti, della fonte regolamentare al rango di una fonte materialmente primaria, in
quanto non subordinata alla legge.
C) Sul piano della tipizzazione della legge regionale, la riserva della potestà legislativa al
consiglio significa che le eventuali leggi rinforzate, che lo statuto può prevedere, non possono
essere subordinate ad aggravi procedimentali che vedano poteri di co-decisone affidati ad altri
organi o enti, perché ciò significherebbe che la funzione legislativa non è più esercitata dal
consiglio, ma congiuntamente dal consiglio e dall'organo o ente che si vede riconosciuta
la prerogativa di co-determinare il contenuto della legge.
La Costituzione si limita a individuare l'organo titolare della funzione legislativa, senza dettare
la disciplina del procedimento di formazione della legge, che è integralmente rimessa agli
statuti regionali, nel rispetto del limite dell'armonia, e ai regolamenti consiliari cui lo statuto fa
rinvio. È dunque negli statuti che si trovano indicati, anzitutto, i soggetti titolari dell'iniziativa
legislativa.
L'iniziativa è attribuita in primo luogo ai singoli consiglieri regionali. Tale previsione, che ricorre
immancabilmente negli statuti, è costituzionalmente dovuta, perché è implicita nell'attribuzione
della funzione legislativa al consiglio la possibilità che l'atto di iniziativa provenga dall'interno
dell'assemblea stessa. Secondo tutti gli statuti regionali, tranne che per lo statuto della
Lombardia, il potere di iniziativa spetta poi anche alla giunta regionale: tale iniziativa è quella che
ha maggior rilievo sia dal punto di vista pratico, visto che l'esecutivo da un lato dispone degli
apparati tecnici e delle informazioni necessarie per la produzione dei disegni di legge, dall'altro è
normalmente sorretto da una maggioranza politica consiliare; sia dal punto di vista giuri-
dico, in considerazione delle diverse ipotesi di iniziativa riservata (a partire dalla legge di bilancio).
In Lombardia l'organo esecutivo titolare dell'iniziativa legislativa è il presidente della giunta,
mentre, in coerenza con l'impostazione diretta a valorizzare la figura e i poteri del presidente che
caratterizza lo statuto lombardo, non è prevista un'iniziativa dell'organo collegiale (salvo che per la
predisposizione del bilancio, la cui presentazione in consiglio è comunque affidata al presi-
dente della giunta).
Gli statuti disciplinano obbligatoriamente l'iniziativa popolare e, sulla base di scelte
costituzionalmente libere, attribuiscono poi il potere di iniziativa anche a organi quali il consiglio
delle autonomie locali oppure il consiglio regionale dell'economia e del lavoro. L'iniziativa del CAL
è però molto spesso un'iniziativa circoscritta per materia agli ambiti di competenza di tale organo,
mentre tale limitazione vale invariabilmente per quella del consiglio regionale dell'economia e del
lavoro.
Una volta presentato al consiglio regionale il progetto di legge è assegnato a una delle commissioni
permanenti del consiglio stesso, che svolge la funzione di commissione referente (vale a dire che
ha il compito di effettuare un primo esame e una prima approvazione del testo, e di riferire
all'assemblea). Una volta esaminato e approvato dalla commissione il progetto passa
all'aula, dove è nuovamente discusso e approvato articolo per articolo e con votazione finale.
Accanto al procedimento per commissione referente, gli statuti conoscono procedimenti
semplificati.
Anzitutto, gli statuti o regolamenti consiliari regolano un procedimento di urgenza, che si distingue
dal procedimento ordinario per l'abbreviazione dei termini o per la semplificazione delle fasi, per
cui è talvolta prevista la diretta rimessione del testo del progetto di legge dalla commissione
all'aula.
Sicura è poi l'ammissibilità del procedimento per commissione redigente, in cui l'approvazione
articolo per articolo e la connessa possibilità di emendare il testo sono riservate alla commissione,
mentre all'assemblea è lasciata la sola approvazione finale del progetto di legge nel suo
complesso, secondo il modello previsto dal regolamento interno del Senato, oppure anche articolo
per articolo, ma senza la possibilità di presentare emendamenti, secondo quanto disposto dal
regolamento della Camera.
Tale procedimento è previsto, per esempio, per l'approvazione dei testi unici di leggi regionali.
L'assenza di strumenti di delegazione legislativa, infatti, rende opportuno il ricorso a procedimenti
semplificati per l'approvazione dei testi di consolidazione normativa, e tale esigenza è stata
positivamente apprezzata dalla Corte costituzionale (sent. 378/2004).
Discussa invece è la costituzionalità del procedimento per commissione deliberante, caratterizzato
da un'approvazione della delibera legislativa all'interno della commissione che sostituisce
l'approvazione da parte del plenum: in tale procedimento, pertanto, l'assemblea non è coinvolta
nemmeno nel voto finale.
Il procedimento in commissione deliberante è espressamente previsto per le leggi statali dall'art.
72.3 Cost., che tuttavia dispone una serie di limitazioni, escludendo il ricorso alla commissione
deliberante per particolari materie e prescrivendo il ritorno al procedimento ordinario su richiesta
del governo di una frazione dell'assemblea o di una frazione della commissione stessa.
Muovendo dall'assenza in Costituzione di un'analoga previsione autorizzatoria riferita al
procedimento legislativo regionale si è sostenuto che l'intestazione della potestà legislativa al
consiglio escluda la legittimità del conferimento di funzioni deliberanti alle commissioni
permanenti in sede legislativa.
Se si volesse fare salva la legittimità costituzionale delle disposizioni statutarie che prevedono
procedimenti legislativi in sede deliberante occorrerebbe fare leva sul dato formale della
mancanza, nella Costituzione, di una norma corrispondente a quella dell'art. 72,1 Cost., per cui
ogni disegno di legge è «esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l'approva
articolo per articolo e con votazione finale», e sul dato sostanziale per cui le garanzie, anche a
favore delle minoranze consiliari, che circondano tale procedimento - come è conformato dagli
statuti che espressamente lo regolano (ad es. art. 46 St. Piem., art. 42 St. Camp.) e dalle norme
contenute nei regolamenti interni dei consigli regionali in attuazione delle disposizioni statutarie -
sono tali da far sì che la delibera legislativa approvata da un'articolazione dell'assemblea sia
comunque imputabile alla volontà dell'intero consiglio regionale.
Non è prevista né in Costituzione né dai vigenti statuti la possibilità di un rinvio della delibera
legislativa da parte del presidente della giunta regionale modellato sul rinvio delle leggi alle
camere da parte del presidente della Repubblica ai sensi dell'art. 74.1 Cost.
Lo statuto della Basilicata consente al presidente della giunta di assumere il parere dell'organo di
garanzia statutaria circa la conformità della delibera legislativa allo statuto e dispone che ove sia
presentata tale richiesta (da parte del presidente, ma anche da parte di altro soggetto legittimato)
i termini per la promulgazione, fissati in dieci giorni dalla trasmissione della delibera legislativa
approvata dal consiglio regionale, sono sospesi fino alla emissione del parere da parte del collegio
di garanzia statutaria, che deve pronunciarsi entro trenta giorni dalla richiesta (art. 42.3). In caso di
parere negativo il consiglio regionale può deliberare in senso contrario al parere solo a
maggioranza assoluta.
Ma questo potere del presidente della giunta di sollecitare il controllo sulla delibera legislativa, pur
avendo effetti sospensivi sulla promulgazione, non può essere assimilato al controllo che il
presidente della Repubblica compie in proprio e che si estende anche al «merito costituzionale»
della delibera legislativa delle camere.

L'istruttoria pubblica e l'obbligo di motivazione delle leggi


Significative innovazioni in materia di procedimento legislativo sono rappresentate dall'istruttoria pubblica
che può intervenire nel procedimento di formazione della legge e che impone al consiglio regionale di
motivare il provvedimento finale con riferimento alle risultanze istruttorie (art. 17 St. Em.-Rom.) e, più in
generale, dall'obbligo di motivazione delle leggi - dei regolamenti – nei modi previsti dalla legge (art. 39.2
St. Tosc.).
La previsione dell'istruttoria pubblica è inserita dallo statuto dell'Emilia-Romagna nell'ambito degli istituti di
partecipazione popolare, in quanto l'istruttoria vede la partecipazione di associazioni, comitati e gruppi di
cittadini portatori di un interesse a carattere non individuale. La Corte costituzionale ha ritenuto legittima la
norma, osservando che essa non è finalizzata «a espropriare dei loro poteri gli organi legislativi», bensì mira
a migliorare e a rendere più trasparenti le procedure di raccordo degli organi rappresentativi con i soggetti
più interessati dalle diverse politiche pubbliche» (sent. 379/2004). Quanto all'obbligo di motivazione per gli
atti normativi, il giudice costituzionale nella stessa sentenza ha rilevato che la motivazione degli atti
legislativi è la regola nell'ordinamento comunitario e che «sembra pertanto evidente che la fonte statutaria
di una regione possa operare proprie scelte in questa direzione».
Meno chiaro è invece un passaggio della successiva sentenza 12/2006 relativo alla previsione dello statuto
abruzzese che grava il consiglio regionale dell'onere di motivare la decisione di procedere in difformità dei
pareri e delle valutazioni del collegio di garanzia resi sulla delibera legislativa, in quanto la Corte sottolinea
che la motivazione richiesta al consiglio regionale non inerisce agli atti legislativi, ma alla decisione di non
tener conto del parere negativo, che è atto consiliare distinto dalla deliberazione legislativa e non fa corpo
con essa.

Prima della revisione dell'art. 127 Cost. a opera della legge cost. 3/2001 l'eventualità di un rinvio
delle leggi regionali da parte del presidente della giunta era esclusa dalla previsione di uno
specifico procedimento di controllo sulla legge regionale, che passava per la possibile richiesta del
governo al consiglio regionale di riesame della delibera legislativa. Caduto questo argomento con
l'eliminazione del controllo preventivo del governo sulle leggi regionali e positivamente affermata
una competenza statutaria in punto di procedimento di formazione della legge, l'idea di affidare al
presidente della giunta il potere di rinviare le leggi – affacciata in sede di progettazione dei nuovi
statuti - deve fare i conti con il limite dell'armonia con la Costituzione. È certo che l'eventuale
potere di rinvio non potrebbe spingersi fino a diventare una prerogativa di veto, perché un tale
potere appare incompatibile con l'intestazione della funzione legislativa al consiglio
regionale operata dall'art. 121.1 Cost.
Dubbia è però anche la possibilità di prevedere un rinvio con effetti meramente sospensivi, che
determini l'onere per il consiglio regionale di riapprovare la delibera legislativa. La legittimità di
una simile previsione, che non può certo essere ritenuta un corollario del potere di
promulgazione, può essere contestata con l'osservazione che il presidente della giunta regionale è
un organo che partecipa attivamente alla definizione dell'indirizzo politico, a differenza del
presidente della Repubblica, che è organo in posizione di terzietà. Conseguentemente, il rinvio del
presidente della giunta costituisce necessariamente un rinvio politicamente orientato e non un
rinvio di garanzia: e appare non in armonia con la Costituzione - e segnatamente in conflitto con
l'art. 121.1 Cost. – la possibilità di un'opposizione politica alla legge regionale; tale rinvio
diventerebbe, infatti, una seconda chance data a una maggioranza sconfitta nella sede propria in
cui si decide il conflitto politico, vale a dire l'assemblea.
In tale prospettiva appare meno problematica dal punto di vista costituzionale - e maggiormente
accettabile per gli stessi consigli regionali, certo poco inclini a incrementare i già ampi poteri del
presidente della giunta - l'idea di affidare poteri di verifica sulle delibere legislative a organi terzi,
quali i collegi di garanzia statutaria [Panzeri 2005, 131 ss.].
Tali previsioni sono state ritenute compatibili con la Costituzione a condizione che: a) gli organi di
garanzia statutaria intervengano prima della conclusione del procedimento legislativo, e cioè
prima della promulgazione della legge, così da non invadere le competenze di controllo della Corte
costituzionale;
b) il parere negativo dell'organo di garanzia statutaria non abbia effetti di blocco sul procedimento
legislativo, ma determini soltanto un onere di riesame per il consiglio.
La Corte costituzionale ha ammesso che la decisione dell'organo di garanzia che dichiari la non
compatibilità della delibera legislativa con lo statuto possa obbligare il consiglio, che intenda
insistere nell'approvazione della legge, a motivare la sua determinazione (sent. 12/2006, con le
precisazioni viste sopra) oppure a deliberare a maggioranza assoluta (sent. 200/2008).
All'approvazione della delibera legislativa, e all'eventuale controllo dell'organo di garanzia
statutaria, segue la promulgazione della legge regionale a opera del presidente della giunta. Tale
funzione è attribuita direttamente dalla Costituzione a tale organo ed è quindi un potere
presidenziale indefettibile.
Considerata l'assenza di poteri di controllo in capo al presidente della giunta la promulgazione
deve però considerarsi un atto dovuto, per il quale lo statuto solitamente fissa un termine
acceleratorio.
L'art. 41.2 dello statuto della Toscana prevede che il termine per la promulgazione rimanga
sospeso in caso di pregiudizialità europea, vale a dire quando la legge regionale reca una misura
che richiede l'assenso della Commissione europea. In tal caso il presidente della giunta sospende
la promulgazione fino a quando non è pervenuto tale assenso, e ove la risposta da parte della
Commissione sia negativa la delibera legislativa è riassegnata alla commissione dal presidente del
consiglio regionale, su comunicazione del presidente della giunta.
Quanto alla pubblicazione, gli statuti talvolta prevedono, sempre con finalità acceleratoria, un
termine entro il quale la legge promulgata deve essere pubblicata. In talune regioni sono previsti
dallo statuto strumenti di comunicazione istituzionale diretti a rendere conoscibile e consultabile
la legislazione regionale tramite mezzi informatici e altri canali di diffusione.
Di competenza statutaria è anche la disciplina della vacatio, che è fissata in quindici giorni,
secondo la tradizione costituzionale (art. 73 Cost.; art. 127.2 Cost. nel testo vigente prima
dell'entrata in vigore della legge cost. 3/2001), salvo diverso termine previsto dalla legge stessa.
Gli ordinamenti regionali conoscono anche ipotesi di leggi rinforzate, vale a dire quelle leggi che, in
ragione della loro particolare competenza, devono essere approvate con procedimenti più gravosi
rispetto a quello ordinario.
L'aggravio procedimentale può consistere nella previsione di maggioranze qualificate oppure nel
coinvolgimento di organi diversi. Perché si dia legge rinforzata non è sufficiente che la legge sia
stata approvata con maggioranze speciali o che nell'iter sia intervenuto un organo consultivo; e
non è nemmeno sufficiente che tali maggioranze qualificate o il parere fossero occasionalmente
necessari per l'approvazione di quel determinato atto, come accade, ad esempio, quando vi è
stato un parere negativo dell'organo di garanzia statutaria che imponga la riapprovazione dell'atto
a maggioranza assoluta oppure quando il parere dell'organo consultivo, essendo stato liberamente
chiesto, deve purtuttavia essere acquisito; occorre invece che questi o analoghi aggravi
procedimentali siano sempre richiesti per tutte le leggi che disciplinano una speciale materia o un
particolare oggetto.
Questa nozione chiarisce altresì che il rapporto tra legge rinforzata e legge ordinaria non si
atteggia a rapporto di gerarchia, bensì a rapporto di separazione della competenza, perché sugli
oggetti riservati alla legge rinforzata la legge ordinaria non può intervenire.
Un'ipotesi di legge regionale rinforzata è rappresentata dallo statuto, se si accoglie la tesi – che
però è dubbia, anche in ragione del rapporto di gerarchia esistente tra statuto e legge regionale -
secondo cui lo statuto avrebbe natura di legge regionale.
Un caso invece sicuro di legge regionale rinforzata, costituzionalmente previsto, è rappresentato
dalla legge che dispone la creazione di nuovi comuni o il mutamento delle circoscrizioni o delle
denominazioni comunali, Ai sensi dell'art. 133.2 Cost, a tali variazioni la regione procede con legge
«sentite le popolazioni interessate». Il rinforzo procedimentale consiste nella necessità di
consultare le popolazioni interessate dalla variazione, cosa che, secondo la giurisprudenza
costituzionale, avviene tramite un referendum, non surrogabile dalla volontà degli enti
esponenziali della collettività locale (sent. 36/2011, riferita all'ipotesi di mutamento di
circoscrizione che vedeva concordi i comuni interessati, vedi anche la sent. 21/2018).
Quanto alla nozione di «popolazioni interessate», la Corte costituzionale ha chiarito che con tale
locuzione si intende, anzitutto, la popolazione insediata nel territorio destinato a passare da un
comune all'altro, la cui volontà deve anzi avere autonoma evidenza nel procedimento (il che
significa che gli esiti della consultazione vanno scrutinati separatamente). Secondo la
giurisprudenza costituzionale, però, anche le popolazioni della restante parte del comune
che subisce la decurtazione territoriale possono essere interessate alla variazione, così che il
legislatore regionale, nello stabilire i criteri per individuare l'ambito della consultazione, non può
escludere tali ulteriori popolazioni se non sulla base di elementi idonei a fondare ragionevolmente
una valutazione di insussistenza di un loro interesse qualificato in rapporto alla variazione
territoriale proposta (sent. 47/2003).
Accanto a questa (o queste) ipotesi di rinforzi procedimentali costituzionalmente previste ve ne
sono altre autonomamente regolate dagli statuti.
In particolare, nei nuovi statuti sono stabiliti due tipi di aggravamenti: la necessità di maggioranze
qualificate richieste per l'approvazione di determinate leggi (di solito per la legge elettorale, per la
quale in Liguria è prevista la maggioranza dei due terzi, in Piemonte dei tre quinti e in molte
regioni la maggioranza assoluta) o il parere obbligatorio del consiglio delle autonomie
locali, che deve essere acquisito nell'ambito del procedimento di formazione di leggi che in vario
modo coinvolgono gli enti locali. Solitamente, quando è previsto il parere obbligatorio del CAL, il
consiglio regionale incontra ulteriori oneri procedimentali qualora intenda discostarsi dal parere
reso dall'organo consultivo, essendo tenuto o a deliberare a maggioranza assoluta (così gli artt.
67.4 St. Laz., 235 St. Em.-Rom., 38.2 St. Mar.) oppure a motivare in modo espresso (art. 66.4 St.
Tosc.)
La legittimità di questo tipo di aggravamenti non pare contestabile, in quanto essi mantengono
radicata in capo al consiglio regionale la funzione legislativa e non incidono in alcun modo sulla
capacità regolativa della legge.
In particolare, quanto alle maggioranze, la Corte costituzionale - pur senza tematizzare il punto -
non ha sollevato rilievi sulle previsioni dello statuto calabrese e di quello umbro, ove è previsto,
rispettivamente, che l'approvazione della legge elettorale e della legge sull'organo di garanzia
avvenga a maggioranza assoluta (sentt. 2 e 378/2004). Se in questi casi l'elevazione della
maggioranza rispetto alla regola della maggioranza semplice si giustifica con l'esigenza di sottrarre
alla maggioranza politica la disciplina di istituti rilevanti per il funzionamento complessivo del
sistema (quali il sistema elettorale o gli istituti di garanzia), appare invece incongrua la previsione
di maggioranze qualificate per l'approvazione di leggi quali quelle tributarie o di bilancio (come
stabilisce, ad esempio, l'art. 35.4 St. Pugl.), che sono espressive dell'indirizzo politico di
maggioranza e per le quali non si prospettano quelle esigenze di tutela della minoranza. Peraltro, il
problema è stemperato dalla presenza di sistemi elettorali che assicurano comunque alla
coalizione vincente la maggioranza assoluta dei seggi, e questo dato, per converso, riduce la
garanzia per le minoranze legata alla previsione di maggioranze qualificate per l'approvazione di
determinate leggi, ove la maggioranza richiesta non debba comunque essere superiore a quella
assoluta.
Quanto alla partecipazione obbligatoria del consiglio delle autonomie al procedimento legislativo
in relazione a determinate leggi, tale aggravamento trova piena copertura nella previsione di cui
all'art. 123.4 Cost., copertura che comunque non appare indispensabile per giustificare la
legittimità di disposizioni di questo tipo, se si considera che la Corte costituzionale aveva
affermato la validità dell'aggravamento, disposto dallo statuto del Veneto del 1971, consistente
nella consultazione necessaria degli enti locali per le leggi di delega di funzioni amministrative
(sent. 993/1988).
In seguito alla revisione costituzionale del 1999, che ha eliminato dall'art. 121.1 Cost. il riferimento
alla potestà regolamentare, l'assemblea legislativa non ha più il monopolio della funzione
normativa, in quanto il potere regolamentare può essere affidato dal legislatore statutario, in tutto
o in parte, ad altri organi regionali, e segnatamente alla giunta, così come potrebbe essere
conservato dallo statuto in capo al consiglio.
Pur in assenza di una norma espressa spettano indefettibilmente al consiglio le funzioni di
controllo sull'esecutivo, in ragione del carattere rappresentativo dell'organo e della presenza, al
suo interno, delle minoranze politiche.
Invero, la Costituzione si limita a prevedere, quale strumento di controllo, la possibilità della
mozione di sfiducia diretta contro il presidente della giunta regionale, ma gli statuti regolano
invariabilmente l'ampia gamma degli istituti tipici del controllo parlamentare, quali le mozioni, le
interpellanze, le interrogazioni. Si è inoltre già ricordato che molti statuti prevedono un dibattito o
anche un voto consiliare sul programma del presidente della giunta e verifiche periodiche sullo
stesso, che talvolta possono tradursi in indicazioni di indirizzi e obiettivi prioritari all'esecutivo.
Uno dei principali strumenti di controllo rimane poi l'approvazione del bilancio e del rendiconto
consultivo, che spetta necessariamente al consiglio dovendo avvenire con legge, visto che l'art.
81.1 Cost, ha efficacia direttiva anche per le regioni.
Il consiglio regionale è titolare, in base a una scelta in tal senso di tutti gli statuti, anche di funzioni
amministrative. Infatti, le nuove carte statutarie confermano, sia pure attenuandola in misura
maggiore o minore, la tendenza,
già riscontrata negli statuti del 1971, a fare dei consigli anche un centro di potere amministrativo.
In particolare, è frequente l'attribuzione al consiglio regionale, oltre che del compito di approvare
gli atti di indirizzo, di programmazione e di pianificazione, anche di competenze ad adottare atti
con contenuto provvedimentale o comunque puntuale e concreto, quali ad esempio le nomine dei
vertici degli enti dipendenti dalla regione e delle agenzie regionali oppure le delibere sulla
partecipazione a consorzi, società o fondazioni. Lo statuto del Veneto, curiosamente, mantiene
una competenza residuale in capo al consiglio regionale in ordine ad «ogni altro provvedimento
per il quale la Costituzione, lo Statuto o la legge stabiliscono la generica attribuzione alla regione»
(art. 34.3, lett. q).
Sempre in forza della Costituzione il consiglio regionale è titolare di una serie di competenze che
attengono alla partecipazione a funzioni statali.

Limiti all'iniziativa regionale di leggi statali


Nonostante la latitudine della formula di cui all'art. 121.1 Cost.- rispetto alle corrispondenti disposizioni
degli statuti speciali - e nonostante il carattere della regione quale ente politico, esponenziale della
collettività regionale, la giurisprudenza costituzionale ha affermato (nel vigore del vecchio Titolo V) che la
«sussistenza di un interesse unitario [...] impedisce di affermare la spettanza alla regione del potere di
promuovere proposte di leggi dello Stato dalle quali esulano del tutto interessi di carattere regionale»
(sent. 256/1989, relativa a una regione speciale, ma con richiamo anche all'art. 121.1 Cost.).
Successivamente, tuttavia, la Corte - intervenendo per lo più in relazione ai referendum consultivi regionali
- ha inteso in modo largo l'interesse delle popolazioni regionali che giustifica l'attivazione dei poteri di
proposta della regione: tale interesse «oltre a investire l'intera gamma delle competenze proprie della
regione, può assumere anche connotazioni più late, che superano gli stretti confini delle materie e del
territorio regionale, fino a intrecciarsi, in certi casi, con la dimensione nazionale», e ciò «in relazione alla
soggettività politica e costituzionale che, nel contesto della nostra forma di Stato, delineata dall'art. 5 Cost.,
va riconosciuta alla regione "riguardo a tutte le questioni di interesse della comunità regionale, anche se
queste sorgono in settori estranei alle singole materie indicate nell'art. 117 Cost. e si proiettano al di là dei
confini territoriali della regione medesima"» (sent. 829/1988).
Non è dubbio, in ogni caso, che le proposte di legge di iniziativa regionale possano riguardare anche leggi
costituzionali (sentt. 496/2000 e 470/1992).

Anzitutto, spetta al consiglio regionale il potere di iniziativa legislativa delle leggi statali, ai sensi
dell'art. 121.2 Cost., nonché il potere di presentare petizioni alle camere (art. 51 Cost.). In
proposito, la questione controversa riguarda l'esistenza di limiti materiali alle proposte di legge
presentate dai consigli regionali alle camere, in analogia con quanto dispongono gli statuti
speciali, che circoscrivono tale iniziativa alle materie che presentano «particolare interesse per la
regione.
Sul piano pratico l'iniziativa legislativa regionale non ha però avuto grande importanza per diverse
ragioni, la prima delle quali è rappresentata dalla conformazione unitaria, sul piano nazionale, del
sistema dei partiti (e dall'insufficiente forza parlamentare dei partiti localistici); la seconda, dalla
tendenza che le regioni hanno sempre manifestato a preferire come proprio interlocutore il
governo e non le camere.
Quanto al potere di proporre il referendum abrogativo (art. 75.1 Cost.) e il referendum oppositivo
(art. 138 Cost.) - potere esercitabile solo congiuntamente con altri quattro consigli e talvolta
attivato con successo - non pare invece che possa essere richiesto alle regioni di dimostrare uno
specifico interesse regionale, né un requisito di questo genere è richiesto dalla legge
352/1970.
Infine, i consigli regionali hanno il potere-dovere di nominare i delegati della regione che integrano
il Parlamento in seduta comune per l'elezione del presidente della Repubblica, in numero di tre
per regione (salvo la Valle d'Aosta che concorre con un unico delegato) eletti in modo tale che sia
assicurata la rappresentanza delle minoranze. Stante il ridotto numero di delegati regionali
rapportato al numero di deputati e senatori, la componente regionale non appare in grado di
incidere in modo rilevante sull'elezione del presidente della Repubblica (anche per la prevedibile
tendenza dei delegati a dividersi secondo linee di appartenenza partitica), ma è tuttavia
significativa dal punto di vista simbolico, come manifestazione del carattere del presidente della
Repubblica quale rappresentante dell'unità nazionale (art. 87.1 Cost.).
IL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE E LA GIUNTA
REGIONALE
La riforma del 1999, introducendo l'elezione diretta del presidente della giunta, poi confermata da
tutti i nuovi statuti, ha mutato la fisionomia di questo organo regionale, facendone un organo che
concorre a definire l'indirizzo politico.
Seguendo un'impostazione tradizionale [Paladin 2000, 348 ss.), che rimane tuttavia valida, le
diverse funzioni del presidente della giunta si prestano a essere tripartite in:
 funzioni che gli sono intestate come rappresentante dell'ente;
 funzioni che gli spettano come presidente dell'organo esecutivo collegiale;
 funzioni che esercita in quanto vertice dell'amministrazione regionale.
1. In quanto presidente della regione, spettano al presidente della giunta regionale, anzitutto,
la funzione di rappresentanza dell'ente e il potere di promulgazione delle leggi e
l'emanazione dei regolamenti regionali, competenze che gli sono attribuite dall'art. 121.4
Cost.
La legge 87/1953 affida al presidente della giunta il potere di promuovere la questione di
legittimità costituzionale nei confronti delle leggi statali o di altre regioni ei conflitti di
attribuzione, sempre su delibera della giunta regionale.
In base alla legislazione statale il presidente della giunta concorre a comporre organi
collegiali misti quali la Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e regioni e la
Conferenza unificata (vedi S IV.5) e rappresenta la regione nell'attività internazionale, ai
sensi dell'art. 6 della legge 131/2003.
Inoltre, gli statuti attribuiscono al presidente della giunta il potere di indire le elezioni e i
referendum e di sottoscrivere le intese con altre regioni previste dall'art. 117.8 Cost.
Anche se talune di queste competenze - e in particolare quelle di esternazione degli atti –
sono analoghe a quelle esercitate, a livello statale, dal capo dello Stato, ogni parallelismo
tra i due organi è escluso dall'assenza, nella figura del presidente della giunta, di quelle
caratteristiche di imparzialità e di estraneità al circuito dell'indirizzo politico che
contraddistinguono il presidente della Repubblica.
2. Il presidente della giunta è poi organo di direzione politica della giunta regionale.
In quanto presidente di un organo collegiale, egli dispone anzitutto dei poteri di
convocazione del collegio e di fissazione dell'ordine del giorno, come riconosciuto da
gran parte degli statuti.
Ma i poteri del presidente della giunta vanno ben al di là di quelli riconosciuti al
presidente di un collegio, in quanto - indipendentemente dalla forma di governo scelta
dalla regione - la Costituzione attribuisce al presidente della giunta il compito di
direzione della politica (non solo della politica generale) della giunta e la corrispondente
responsabilità, che può essere fatta valere mediante la mozione di sfiducia, ai sensi
dell'art. 126.2 Cost., la quale è appunto rivolta contro il presidente della giunta e non
contro la giunta. Conseguentemente, lo statuto è tenuto a mettere a disposizione del
presidente della giunta appositi strumenti perché egli possa esercitare tale potere di
direzione. Nella forma di governo con elezione diretta, peraltro, il presidente dispone già
per Costituzione del potere di nomina e di revoca dei singoli assessori, che di per sé è
sufficiente perché il presidente possa orientare l'azione della giunta.
Gli statuti riconoscono generalmente al presidente della giunta, e non alla giunta, il
potere di predisporre il programma di governo, che non a caso viene presentato in
consiglio contestualmente alla nomina dei componenti della giunta (in Lombardia,
addirittura prima della nomina degli assessori, che deve intervenire entro dieci giorni
dalla presentazione del programma).
3. In quanto vertice dell'amministrazione regionale, la Costituzione attribuisce al
presidente della giunta il potere di dirigere le funzioni amministrative delegate dallo
Stato alla regione, conformandosi alle istruzioni del governo della Repubblica, ma
l'operatività di tale norma presuppone che sia tuttora operante il meccanismo della
delega di funzioni amministrative dallo Stato alle regioni.
Vari statuti riconoscono poi al presidente della giunta la funzione di sovrintendere agli
uffici regionali (art. 26.1 lett. f), St. Mar.; art. 42.2 lett. b) St. Pugl.) o all'amministrazione
regionale (art. 47.1, lett. ), St. Cam.) o di dirigere le funzioni amministrative (art. 43.1,
lett. b), St. Em.-Rom.), mentre in altre regioni tale potere spetta alla giunta regionale
collegialmente. In certe regioni è attribuito al presidente della giunta il potere di
adottare ordinanze contingibili e urgenti e i provvedimenti sostitutivi di competenza
della regione (art. 34.1, lett. m), St. Cal.).
Talvolta lo statuto attribuisce al presidente della giunta la competenza residuale
relativamente a ogni altra funzione non espressamente riservata dallo statuto al
consiglio regionale o alla giunta (così gli artt. 44.1 St. Abr. e 41.10 St. Laz.).
La giunta regionale è composta dal presidente e dagli assessori, tra cui un vicepresidente
che ha il compito di sostituire il presidente nei casi di assenza o di impedimento
temporaneo. Il numero degli assessori è fissato dallo statuto, che quasi sempre indica un
numero minimo e un numero massimo o fissa soltanto il limite numerico massimo (ma
oggi il numero massimo di assessori è prescritto dall'art. 14.1 del d.l. 138/2011, che lo
determina in un numero pari ad un quinto dei consiglieri regionali, arrotondato all'unità
superiore), spettando poi al presidente della giunta - in regime di elezione diretta – sia
l'individuazione degli assessori, sia il riparto degli incarico tra di essi per settori di
organici di materie. Come si è visto, gli statuti possono legittimamente fissare anche
requisiti relativi alla composizione di genere della giunta o determinare il numero
massimo di assessori esterni.
In talune regioni è previsto che il presidente della giunta possa nominare uno
o più sottosegretari alla presidenza della giunta (uno in Emilia-Romagna,
fino a quattro in Lombardia), che coadiuvano il presidente della giunta e
partecipano alle sedute della giunta, pur non facendone parte.
In base alla norma costituzionale dettata dall'art. 121.3 Cost. il potere esecutivo spetta
alla giunta collegialmente intesa: il che, come non esclude che determinate funzioni
esecutive siano intestate al presidente della giunta, così non esclude che compiti
amministrativi siano affidati agli assessori, nonostante la Costituzione non li configuri
come organi esterni (per questa possibilità si veda la sent. 48/1983).
Ciò che lo statuto deve assicurare, piuttosto, è la conservazione della fisionomia della
giunta come organo esecutivo della regione e quindi come organo titolare di funzioni
amministrative e anche di poteri di governo, senza che sia possibile identificare a priori il
nucleo di funzioni che sono costituzionalmente riservate alla giunta regionale. Infatti, la
mera caratterizzazione costituzionale della giunta come «organo esecutivo», non
accompagnata dalla previsione di compiti specifici o di una riserva di determinate
funzioni, lascia ampio spazio al potere conformativo degli statuti. La stessa iniziativa
legislativa difficilmente può essere reputata una competenza necessaria della giunta,
così come non può essere considerata un potere intrinsecamente spettante a tale
organo la potestà regolamentare (sent. 313/2003). Una delle poche funzioni
indefettibilmente spettanti alla giunta è probabilmente la predisposizione del bilancio,
perché in tale attività si riassume il complesso dell'attività esecutiva. Per il resto, occorre
guardare alle scelte statutarie che, in ogni caso, riconoscono alla giunta, oltre al compito
di attuare il programma di governo, una pluralità di funzioni, distinguibili in A) funzioni
di governo e B) funzioni amministrative.
1. Tra le competenze di governo, o di indirizzo politico, rientrano: la deliberazione dei
disegni di legge; la predisposizione dei bilanci e dei rendiconti consultivi e del
documento di programmazione economica e finanziaria; la potestà regolamentare, nelle
regioni in cui essa spetta in tutto o in parte a tale organo; la predisposizione di piani e
programmi.
Sempre all'interno di queste categorie di competenze va poi menzionato il potere di
deliberare l'impugnazione delle leggi statali o di altre regioni invasive della sfera di
competenza assegnata alla regione, potere che è riservato alla giunta dall'art. 2 della
legge cost. 1/1948.
2. Le competenze propriamente amministrative della giunta comprendono, a titolo di
esempio: l'amministrazione del patrimonio e del demanio regionale; la deliberazione dei
contratti; l'approvazione degli atti di macro-organizzazione; le deliberazioni in materia d
liti attive e passive.
Diversi statuti riconoscono poi alla giunta una competenza residuale, nel senso che
spetta a tale organo di adottare ogni altro provvedimento che lo statuto e le leggi non
affidino alla competenza del presidente della giunta o dell'assemblea legislativa.

La giunta come organo esecutivo e le competenze amministrative residuali


Il riconoscimento costituzionale della giunta come organo esecutivo della regione può influire anche
sull'interpretazione delle disposizioni statutarie che ripartiscono le competenze amministrative tra i vari
organi, concorrendo a una lettura estensiva dei poteri amministrativi dell'organo collegiale e
corrispondentemente a una riduzione delle funzioni esecutive attribuite ad altri organi.
Interessante - nonostante la soluzione forzante che ne ha dato il giudice amministrativo – è il caso che ha
riguardato, in Abruzzo, la competenza a determinare i tetti di spesa per le prestazioni sanitarie. Tale
determinazione, effettuata con delibera di giunta, era stata impugnata di fronte al giudice amministrativo
per vizio di incompetenza prospettato sotto due profili alternativi: nell'ipotesi che l'atto avesse natura di
regolamento regionale, si affermava la competenza del consiglio regionale, titolare in Abruzzo del potere
regolamentare ai sensi dell'art. 13 St.; nel caso che lo stesso fosse qualificato come atto non normativo, si
faceva valere la competenza residuale del presidente della giunta ai sensi dell'art. 44.1 St., secondo cui tale
organo «esercita ogni funzione non espressamente riservata dallo Statuto al consiglio o alla giunta», e,
dunque, in mancanza di espressa attribuzione all'organo collegiale, anche le competenze di tipo
amministrativo.
Nella sent. 542/2009 il TAR Abruzzo-L'Aquila, esclusa la natura regolamentare delle determinazioni
(trattandosi di atti che si rivolgono a una pluralità di destinatari determinati e che sono privi del carattere di
astrattezza, in ragione della concretezza e attualità dell'interesse pubblico curato), ha confermato la
competenza della giunta sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata dello statuto, che
imporrebbe di leggere la competenza residuale del presidente della giunta ex art. 441. St. Abr. alla luce
della definizione della giunta come organo esecutivo della regione, escludendo quindi dall'applicazione
della clausola quelle funzioni che integrano competenze amministrative «esecutive», le quali sarebbero
affidate – pur nel silenzio di norme specifiche – alla giunta.

Stando a una decisione della Corte costituzionale (sent. 567/1988) resa in relazione a un vecchio
statuto regionale, la competenza amministrativa generale della giunta, «implicitamente estesa a
ogni provvedimento che la legge regionale non affidi al Presidente stesso o a singoli assessori
oppure non deleghi a enti autonomi minori», si radicherebbe direttamente nell'art. 121.3 Cost.
Tale impostazione (così come quella del TAR Abruzzo nella sent. 542/2009) appare tuttavia
eccessiva, in quanto non sembra che la disposizione costituzionale impedisca soluzioni diverse,
purché dal complesso delle altre funzioni attribuite alla giunta si possa ricavare che la quota più
significativa di potere esecutivo è riservata a tale organo.

IL REFERENDUM REGIONALE E ALTRI ISTITUTI DI


PARTECIPAZIONE
La Costituzione dà al referendum regionale un particolare riconoscimento, menzionandolo insieme
con il diritto d'iniziativa legislativa tra gli oggetti necessari dello statuto.
Proprio valorizzando tale indicazione costituzionale, durante la prima stagione statutaria si era
posta grande enfasi sulla partecipazione popolare e sui suoi istituti, a partire dal referendum,
anche se i timori di un'eventuale bocciatura dello statuto da parte delle camere avevano
trattenuto i consigli da sperimentazioni innovative che andassero al di là della previsione del
referendum abrogativo, disciplinato sulla falsariga dell'art. 75 Cost., e dei referendum meramente
consultivi.
Nonostante il favor costituzionale per il referendum regionale il ruolo pratico giocato da questo
istituto è stato però limitatissimo, se non nullo.
Il fatto trova spiegazione, in primo luogo, nello scarso rilievo politico della legislazione regionale,
intorno alla quale difficilmente poteva formarsi quella polarizzazione di interessi che è necessaria
perché l'opposizione referendaria si attivi con successo; in secondo luogo nella configurazione
unitaria su base nazionale del sistema dei partiti, la quale rendeva improbabile lo sviluppo di
un'alta conflittualità politica su questioni di mero interesse regionale; ancora, nella chiusura,
manifestata dalla Corte, nei confronti di referendum regionali di indirizzo suscettibili di influenzare
determinazioni riservate a organi dello Stato; infine, in una serie di ragioni tecniche, e in
particolare nella previsione di un controllo di ammissibilità troppo selettivo, perché affidato a
organi non imparziali, e nel quorum strutturale - fissato dagli statuti in misura identica a quello di
cui all'art. 75.2 Cost., pari alla metà più uno degli elettori -, tanto più difficile da raggiungere
quanto meno di richiamo per gli elettori erano i problemi oggetto della legislazione regionale, e
quindi oggetto delle possibili richieste di referendum.
Dopo la revisione del 2001, la legislazione regionale - pur con i noti condizionamenti derivanti dalla
legge statale - potrebbe assumere quella qualità politica che rende più appetibile il ricorso al
referendum. Inoltre, i nuovi statuti hanno introdotto qualche novità sul piano del procedimento,
che potrebbe dare rimedio agli inconvenienti evidenziati dall'esperienza. Infine, il legislatore
statutario ha previsto innovazioni significative anche in relazione alla tipologia dei referendum,
rendendo più ricco lo strumentario della democrazia diretta,
In tutte le regioni lo statuto disciplina il referendum abrogativo. Secondo l'opinione prevalente tale
forma è quella necessaria ai sensi dell'art. 123.1 Cost.
Il disposto costituzionale, parlando del «referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della
regione», sembrerebbe imporre allo statuto di regolare un referendum che interviene su atti già
perfezionati, e che ha quindi valenza oppositiva ed effetti abrogativi. Questa conclusione, in ogni
caso, è confermata dal parallelismo - rilevante sotto il profilo dell'armonia - con la disciplina
costituzionale del referendum statale, che conosce appunto soltanto il referendum abrogativo (se
si eccettuano il referendum confermativo di cui all'art. 138 Cost., che però trova il suo omologo a
livello regionale nel referendum statutario specificamente regolato nell'art. 123.3 Cost., e i
referendum per la consultazione delle popolazioni interessate previsti dagli artt. 132 e 133.1 Cost.,
che riguardano soltanto le variazioni territoriali di regioni e province).
La riserva di statuto si estende quanto meno all'individuazione dell'oggetto (già parzialmente
descritto dalla norma costituzionale); dei soggetti titolari dell'iniziativa; dei limiti di ammissibilità;
del quorum strutturale.
Quanto all'oggetto del referendum abrogativo, benché l'art. 123.1 Cost, ragioni di un referendum
che interviene anche sui provvedimenti amministrativi della regione, taluni statuti hanno limitato
l'abrogazione popolare a «leggi e regolamenti regionali», mentre la maggior parte delle regioni
ammette il referendum soltanto su atti amministrativi generali o sugli atti di programmazione
(oltre che sugli atti normativi, quali leggi e regolamenti).
I soggetti legittimati a proporre il referendum abrogativo sono individuati dagli statuti, in
applicazione analogica del modello previsto a livello statale, in una frazione qualificata del corpo
elettorale, in uno o più consigli provinciali o in un certo numero di consigli comunali che
rappresentino una determinata frazione di popolazione. Qualche problema suscita la previsione
contenuta nello statuto della Lombardia, che fissa in 300.000 il numero di elettori necessario per
introdurre la richiesta referendaria. Tale numero appare eccessivamente aIto - e quindi in
potenziale disarmonia con la Costituzione - se rapportato a quello (500.000 cittadini) richiesto
dall'art. 75 Cost. per il referendum abrogativo di leggi statali.
In tema di quorum strutturale una novità apprezzabile è prevista dallo statuto della Toscana e da
quello della Lombardia. Anziché riprodurre la norma dell'art. 75 Cost., come fanno le altre regioni,
in Toscana si è previsto che per la validità del referendum sia sufficiente che prenda parte alla
votazione un numero di elettori pari alla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni regionali; in
Lombardia si è abbassato il quorum di partecipazione a due quinti del corpo elettorale (e tale
agevolazione potrebbe bilanciare l'innalzamento del numero di elettori necessario per proporre il
referendum: si è reso più difficile chiedere il referendum ma più facile raggiungere il quorum – il
che mostra come sia difficile un giudizio di armonia se si considerano, come pare necessario, gli
istituti nella loro conformazione complessiva). La previsione contenuta nello statuto toscano ha
passato indenne il controllo di costituzionalità: con la sentenza 372/2004, infatti, la Corte
costituzionale ha osservato, da un lato, che la regola di cui all'art. 75.4 Cost. non si impone di per
sé al legislatore statutario, il quale rimane libero di innovare sotto diversi aspetti; rispetto alla
disciplina dettata dalla Costituzione per il referendum statale; dall'altro, che in un contesto di
rilevante astensionismo elettorale non è irragionevole l'introduzione di un quorum flessibile che
abbia come parametro la partecipazione del corpo elettorale alle ultime votazioni del consiglio
regionale, i cui atti sono oggetto della consultazione popolare. La norma, tuttavia, potrebbe
ingenerare problemi in presenza di fenomeni di astensionismo abnorme, come quello che si è
verificato in Toscana in occasione delle elezioni regionali del 2015, allorché ha votato soltanto il
48,28% degli elettori,
In tal caso, infatti, il quorum per l'abrogazione popolare potrebbe scendere al di sotto di una ideale
soglia minima, necessaria perché l'atto abrogativo disponga di una sufficiente legittimazione
democratica.
I limiti di ammissibilità del referendum abrogativo prescritti negli statuti ricalcano in parte quelli
elencati nell'art. 75.2 Cost.; in parte codificano taluni dei limiti ulteriori enucleati in via
interpretativa dalla giurisprudenza costituzionale; in parte si spingono oltre, prevedendo esclusioni
ignote all'ordinamento statale, ma non per questo di per sé precluse al legislatore statutario.
Trovano così riscontro puntuale o analogico nell'art. 75 Cost. le norme che sottraggono
all'abrogazione popolare le leggi regionali tributarie e di bilancio; le leggi di autorizzazione alla
ratifica di accordi con Stati esteri, delle intese con enti territoriali interni ad altro Stato, o di intese
interregionali; le leggi che danno esecuzione a obblighi internazionali o europei.
Risponde invece alla ricostruzione del referendum nei termini di un atto con forza di legge
regionale ordinaria l'esclusione delle leggi statutarie – approvate secondo il procedimento di cui
all'art. 123 Cost. - dall'abrogazione referendaria, mentre la regola per cui lo statuto non può essere
abrogato con referendum trova fondamento anche nel carattere dello statuto quale fonte
necessaria, ed è dunque precetto che vale anche nei confronti del legislatore rappresentativo.
Sempre con ragioni sistematiche-e con la tendenza a sottrarre all'abrogazione popolare tutte le
leggi costituzionalmente necessarie - si spiegano i limiti di ammissibilità che sottraggono a
referendum anche le leggi di esecuzione di obblighi costituzionali o «di adempimento di obblighi
legislativi necessari» (così l'art. 76.1 St. Abr.), le leggi elettorali e quelle che regolano il
funzionamento di istituti e organi di rilevanza costituzionale o statutaria (così l'art. 20.2, lett. c), f),
h), St. Em.-Rom.).
L'esclusione del regolamento interno del consiglio regionale dall'abrogazione popolare, esclusione
prevista da quasi tutti gli statuti, trova invece giustificazione nella scelta di riservare all'assemblea
le decisioni circa la propria organizzazione interna, e quindi è pienamente coerente con il
riconoscimento costituzionale di una sfera di autonomia al consiglio. A una logica analoga risponde
la sottrazione a referendum del regolamento interno della giunta (art. 18.2 St. Pugl.) o degli altri
organi regionali (art. 20.2, lett. b), St. Em.-Rom.), per quanto la posizione di tali organi non sia
assimilabile - in termini di autonomia costituzionalmente garantita - a quella dei consigli regionali.
È invece frutto di una mera scelta politica l'esclusione dal referendum delle leggi urbanistiche e di
tutela dell'ambiente (art. 11.2, lett. e), St. Cal.) ovvero delle leggi sui vincoli paesaggistici e
ambientali (art. 10.1 St. Lig.) o quelle sul governo del territorio o sulla valorizzazione dei beni
culturali e ambientali (art. 24.2 St. Umb.); così come risponde all'esigenza di tutela di un valore
costituzionale, come interpretato dal legislatore statutario, il particolare limite di risultato che
impedisce i referendum il cui esito positivo «determina una riduzione del principio di pari
opportunità» (art. 13.5 St. Camp.).
Altre limitazioni che talvolta ricorrono negli statuti riguardano la formulazione del quesito, che
deve possedere il requisito di omogeneità e di univocità: ma tali caratteristiche sono comunque
imposte al quesito referendario per l'esigenza di rispetto della libertà di voto dell'elettore (art.
48.2 Cost.).
Gli statuti prevedono poi limiti di ordine temporale, che impediscono la presentazione di una
richiesta referendaria nell'anno (o nei sei mesi) prima della scadenza della legislatura e nei sei mesi
successivi alle elezioni, evidentemente nella presupposizione che il rinnovo imminente o
recentissimo dell'assemblea legislativa sia sufficiente a garantire una consonanza tra
l'orientamento del corpo elettorale e quello del legislatore rappresentativo.
Frequente è la statuizione della preclusione per il referendum che non abbia avuto esito
favorevole prima che sia decorso un certo periodo normalmente fissato in cinque anni (tre anni,
invece, secondo l'art. 75.5 St. Tosc.), a volte con la specificazione che il divieto di riproposizione
opera anche qualora non sia stato conseguito il quorum strutturale (art. 75.5 St. Tosc.).
Singolare, e problematica quanto meno nel rinvio in bianco alla legge, è la previsione secondo cui
la legge regionale può limitare il numero delle richieste da presentare in ciascun anno (così l'art.
63.3 St. Laz.).
Sul piano del procedimento una novità rispetto agli statuti di prima generazione è rappresentata
dalla scelta di affidare il controllo sulle richieste referendarie a organi terzi, quali i collegi di
garanzia statutaria, controllo che non è limitato ai profili di ammissibilità ma che si estende anche
alla legittimità e alla regolarità della richiesta.
In precedenza, la decisione sull'ammissibilità del referendum (che rappresenta l'aspetto più
problematico, stanti le questioni valutative implicate da previsioni di limiti formulati con clausole
molto elastiche e comunque arricchibili in via interpretativa) era rimessa allo stesso consiglio
regionale o ad articolazioni interne dell'assemblea legislativa, e dunque a organi che non potevano
dirsi imparziali ma che piuttosto si ponevano come possibili controinteressati rispetto alla richiesta
di abrogazione popolare. In passato, il tentativo delle regioni di affidare tale compito a organi
giurisdizionali, quali la Corte d'appello, era stato bocciato dalla Corte costituzionale, che aveva
rilevato l'invasione delle competenze statali in materia di giurisdizione (sent. 43/1982; per contro
nella sent. 285/1999 la Corte aveva ritenuto legittimo l'utilizzo di magistrati nell'organo
amministrativo chiamato a valutare l'ammissibilità del referendum, se tale utilizzo avveniva nella
forma dell'incarico estraneo ai compiti funzionali dei magistrati ed era conferito o autorizzato
secondo la normativa statale di status); peraltro, anche qualificando la competenza in parola come
una competenza non giurisdizionale ma amministrativa - come pare più corretto – la strada del
coinvolgimento degli organi giudiziari è comunque preclusa alla regione, alla quale è inibito di
affidare unilateralmente funzioni a organi dello Stato. In questo quadro l'intestazione della
competenza al collegio di garanzia statutaria appare la soluzione costituzionalmente più
appropriata.
Quanto agli effetti del referendum, raramente gli statuti si occupano della questione.
Fermo rimanendo che l'effetto primario di questo tipo di referendum - in caso di esito favorevole –
non può che essere l'abrogazione della legge o dell'altro atto oggetto del quesito, si segnala la
previsione dello statuto emiliano secondo cui l'abrogazione della legge si estende alle norme
regolamentari a essa collegate (art. 20.3 St. Em.-Rom.). Sono poi talvolta presenti negli statuti –
ma più spesso nelle leggi attuative - norme che prevedono un termine massimo entro il quale
l'abrogazione deve essere dichiarata dal presidente della giunta, o che consentono un differimento
dell'effetto abrogativo non superiore a un certo tempo (ad esempio, l'art. 82.4 St. Piem, dispone
che il presidente, sentita la giunta regionale, possa ritardare l'entrata in vigore dell'abrogazione
per un termine non superiore a sessanta giorni dalla data della pubblicazione del
decreto presidenziale).
Non si trova invece formulato il divieto, a carico del legislatore rappresentativo, di riprodurre la
normativa oggetto dell'abrogazione popolare. Anche in assenza di un'espressa previsione, tuttavia,
il divieto (contenuto entro un termine che andrà individuato in via interpretativa) di formale o
sostanziale riproduzione della normativa abrogata dal corpo elettorale deve ritenersi secondo
l'insegnamento della Corte costituzionale (sent. 199/2012) – un effetto naturale del referendum,
non essendo consentito all'assemblea legislativa porre immediatamente nel nulla un esito imposto
dal corpo elettorale attraverso le procedure referendarie.
Accanto al referendum abrogativo, gli ordinamenti regionali prevedono altre forme di referendum.
Si ritiene, del resto, che l'esigenza di armonia con la Costituzione non si traduca in un divieto
aprioristico per lo statuto di prevedere forme di consultazione popolare diverse dal referendum
abrogativo regolato dall'art. 75 Cost., sempre che la concreta disciplina delle altre tipologie di
referendum risulti essa stessa rispettosa dei singoli parametri costituzionali e del limite
dell'armonia. Anzi, la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto espressamente che lo statuto
«può introdurre tipologie di referendum anche nuove rispetto a quelle previste nella Costituzione»
(sent. 118/2015; vedi anche sent. 372/2004).
Vengono in rilievo, anzitutto, i referendum consultivi, già previsti in gran parte dagli statuti
regionali del 1971.
I referendum consultivi sono di due tipi. C'è, anzitutto, il referendum consultivo - talvolta
denominato referendum territoriale - che coinvolge le popolazioni interessate dalle variazioni
territoriali dei comuni o dai mutamenti delle denominazioni di detti enti. Tale referendum è
obbligatorio per Costituzione e quindi deve trovare disciplina nello statuto o nella legge regionale.
Ci sono poi altri referendum consultivi, che sono invece facoltativi, nel senso che la regione è
libera di istituirli o meno. I referendum consultivi non obbligatori dovrebbero sempre trovare un
principio di disciplina nello statuto, e ciò anche nell'ipotesi in cui essi non si svolgano su proposte
di legge o di atto amministrativo, in quanto la diretta consultazione del corpo elettorale incide
sulla formazione dell'indirizzo politico e quindi la previsione di tale istituto concorre a definire la
forma di governo (in altre parole, anche quando i referendum consultivi non rientrano nel micro-
oggetto «referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione» essi rientrano nel
macro-oggetto «forma di governo»).
Dalla giurisprudenza costituzionale si traggono indicazioni relative ai limiti entro i quali la regione
può attivare referendum consultivi.
Anzitutto, la Corte costituzionale ha ritenuto che i referendum consultivi regionali incontrassero
un limite nella dimensione dell'interesse coinvolto.
Tale principio è formulato nella sentenza 256/1989, relativa a tre referendum indetti dalla regione
Sardegna su questioni che riguardavano la presenza di basi militari sul territorio regionale e più in
generale la politica estera. La Corte, nel ritenere l'indizione di tali referendum lesiva di attribuzioni
statali, osserva che difesa e politica estera sono interessi curati dallo Stato e che le relative scelte,
affidate all'esclusiva competenza degli organi centrali dello Stato, «non possono essere
assolutamente condizionate o, comunque, influenzate dall'esito di detti referendum consultivi».
In realtà, la giurisprudenza successiva, valorizzando il carattere della regione quale ente
esponenziale della collettività regionale, ha inteso in modo più ampio l'interesse delle popolazioni
regionali idoneo a giustificarne la consultazione: tale interesse, oltre a investire l'intera gamma
delle competenze proprie della regione, «può assumere anche connotazioni più late, che superano
gli stretti confini delle materie e del territorio regionale, fino a intrecciarsi, in certi casi, con la
dimensione nazionale» (Corte cost. 470/1992).
Tuttavia - e qui si viene a un secondo limite enucleato dalla giurisprudenza costituzionale - la Corte
ha più volte negato l'ammissibilità di referendum consultivi diretti a rafforzare politicamente
l'iniziativa regionale di leggi costituzionali. L'incostituzionalità di iniziative di questo tipo è
motivata: a) sia con il fatto che tali consultazioni, anche se prive di efficacia vincolante, esercitano
un'«influenza di indirizzo e di orientamento, oltre che nei confronti del potere di iniziativa
spettante al consiglio regionale, anche nei confronti delle successive fasi del procedimento di
formazione della legge statale, fino a condizionare scelte discrezionali affidate alla esclusiva
competenza di organi centrali dello Stato» (sent. 470/1992); b) sia con l'argomento che la tipicità
del procedimento di formazione delle leggi costituzionali «non consente di introdurre, nella fase
della iniziativa affidata al Consiglio regionale, elementi aggiuntivi non previsti dal testo
costituzionale» (sent. 470/1992); c) sia, da ultimo, con il rilievo che l'intervento del popolo nel
procedimento di revisione non può collocarsi nella fase propulsiva e non è «a schema libero,
poiché l'espressione della sua volontà deve avvenire secondo forme tipiche e all'interno di un
procedimento che, grazie ai tempi, alle modalità e alle fasi in cui è articolato, carica la scelta
politica del massimo di razionalità di cui, per parte sua, è capace, e tende a ridurre il rischio che
tale scelta sia legata a situazioni contingenti» (sent. 496/2000).
Se si eccettua la previsione contenuta nello statuto del Lazio che inspiegabilmente consente
referendum consultivi sulle iniziative regionali di proposizione di leggi statali «anche
costituzionali», le scelte statutarie appaiono rispettose dei limiti enucleati dalla Corte,
Infatti, l'oggetto del referendum consultivo è sempre circoscritto a «materie o leggi di competenza
della Regione» (art. 21.1 St. Em.-Rom.) o a «proposte di legge, regolamenti regionali e atti di
programmazione generale e settoriale» (art. 19.2 St. Pugl.) o anche a «determinati provvedimenti
di competenza consiliare» (art. 9.1 St. Lig.) o a «provvedimenti o proposte di provvedimenti di
competenza del Consiglio» (art. 27.1 St. Ven.), ovvero, più in generale, a «questioni di interesse
regionale» (art. 12.1 St. Cal.), o a «proposte di particolare interesse per la popolazione» (art. 76.1
St. Tosc.), ovvero a «specifici temi che interessano l'iniziativa politica e amministrativa della
Regione».
Almeno nei casi in cui l'oggetto è formulato in termini sufficientemente lati, è consentita dunque
anche l'indizione di referendum di indirizzo, vale a dire consultazioni dirette a conoscere
l'orientamento della popolazione in ordine a un problema generale.
In certe regioni è prevista anche la possibilità di consultazioni referendarie che interessano
soltanto una parte della popolazione o determinati settori o categorie (si vedano l'art. 19.2 St.
Pugl., che parla di referendum consultivi per «conoscere l'opinione della popolazione regionale, o
di parte di essa»; o l'art. 23.1 St. Umb., per cui «il referendum consultivo è diretto a conoscere gli
orientamenti della comunità regionale e di comunità locali»; o l'art. 78.2 St. Abr., che consente il
referendum consultivo «per materie che interessano particolari categorie e settori della
popolazione regionale»).
Quanto ai soggetti legittimati a proporre i referendum consultivi si osserva che la massima parte
degli statuti affida l'iniziativa al consiglio regionale (a maggioranza assoluta o dei due terzi, a
seconda delle regioni), mentre solo in rari casi è prevista l'iniziativa popolare di una frazione del
corpo elettorale, oppure l'iniziativa degli enti locali.
Almeno nei casi in cui la consultazione referendaria promossa dalla maggioranza del consiglio è
prevista su specifici progetti di legge (o su provvedimenti di competenza dell'assemblea) e non su
questioni di indirizzo generale, il referendum consultivo potrebbe apparire come un modo per
l'assemblea di sottrarsi al proprio mandato rappresentativo. In ogni caso da apprezzare è stata la
scelta di non attribuire mai l'iniziativa al presidente della giunta (soltanto lo statuto dell'Umbria
prevede il coinvolgimento del presidente della giunta, che però ha solo un potere di proposta,
spettando la deliberazione al consiglio regionale): infatti, l'appello al corpo elettorale da parte di
un organo monocratico dotato di diretta legittimazione democratica rischierebbe di rafforzare
eccessivamente la figura del presidente della giunta.
Innovativa è la norma che estende il diritto di voto per questa tipologia di referendum agli stranieri
regolarmente residenti (art. 15.1 St. Em.-Rom). La norma ha positivamente superato il controllo
della Corte, sia pure sulla base di un'interpretazione restrittiva del disposto, diretta a escludere la
partecipazione dello straniero ai referendum abrogativi (sent. 379/2004).
Quanto agli effetti dei referendum consultivi, solo pochi statuti se ne occupano, e in tal caso è
previsto che l'esito positivo obbliga il consiglio regionale a pronunciarsi sull'oggetto del
referendum (art. 12.3 St. Cal.) ovvero che il consiglio - nel caso in cui abbia partecipato al voto
almeno la metà degli aventi diritto - è tenuto «a esaminare l'argomento e a motivare le decisioni
eventualmente adottate in difformità» (art. 27.2 St. Ven.). Lo statuto del Piemonte fa obbligo al
presidente della giunta, se l'esito del referendum è stato favorevole, di proporre al consiglio un
disegno di legge sull'oggetto del quesito sottoposto a referendum.
Un peculiare referendum - denominato referendum propositivo - è disciplinato dallo statuto del
Lazio, ma si tratta di una forma di iniziativa popolare rafforzata. Infatti, esso consiste in
un'iniziativa legislativa proveniente da almeno 50.000 elettori (vale a dire la medesima frazione
qualificata del corpo elettorale che è legittimata a proporre il referendum abrogativo): l'iniziativa è
sottoposta al consiglio regionale e se questi non la esamina entro un anno da quando la proposta è
stata dichiarata ammissibile è indetto un referendum sulla proposta; se il referendum ha esito
favorevole - vale a dire se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto ed è
stata raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi – il consiglio è tenuto a esaminare la
proposta entro sessanta giorni.
La più significativa novità in tema di referendum, e l'innovazione la cui legittimità costituzionale è
maggiormente discussa, è rappresentata dall'introduzione di un referendum approvativo di leggi
regionali, che prende avvio da un progetto di legge di iniziativa popolare: tale proposta, ove non
sia stata approvata dal consiglio regionale, è sottoposta direttamente al voto del corpo elettorale,
che sostituisce il voto del legislatore rappresentativo.
Un referendum approvativo così strutturato è previsto, nelle regioni ordinarie, dallo statuto della
Campania e da quello della Basilicata.

Quando è il corpo elettorale ad approvare la legge


L'art. 15 dello statuto della Campania, entrato in vigore senza che il governo sollevasse alcun rilievo in
proposito, attribuisce a 50.000 elettori il potere di presentare una proposta di legge o di regolamento
affinché sia sottoposta per l'approvazione al referendum popolare.
La proposta - esclusa dalle materie per cui non è possibile il referendum abrogativo - è previamente
presentata al consiglio (o anche alla giunta, se si tratta di un regolamento di competenza giuntale). Se entro
sei mesi la proposta non è approvata, o è approvata ma con modifiche sostanziali, essa è sottoposta al voto
popolare, secondo modalità ulteriormente definite dalla legge regionale.
La proposta oggetto del referendum è approvata se alla votazione referendaria partecipa la maggioranza
degli aventi diritto ed è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. In tal caso - benché lo
statuto non precisi questo punto - si deve ritenere che la delibera legislativa approvata dal corpo elettorale
debba essere promulgata dal presidente della giunta come legge regionale.
L'art. 20 dello statuto della Basilicata è invece chiaro nel precisare che «la legge validamente approvata dal
corpo elettorale è promulgata dal Presidente della Giunta».
Rimangono aperte diverse questioni, tra cui quella della forza passiva della legge approvata dal corpo
elettorale. Potrebbe il consiglio regionale abrogarla o modificarla subito dopo l'entrata in vigore? In caso
negativo, come si articola - in termini temporali e sostanziali – il vincolo a rispettare la volontà del corpo
elettorale?
Invero, tale istituto era stato inizialmente introdotto dalla regione Valle d'Aosta e dalle province autonome
di Trento e di Bolzano tramite legge statutaria, fonte alla quale gli statuti speciali, dopo le modifiche
introdotte dalla legge cost. 2/2001, affidano la disciplina del referendum «abrogativo, consultivo e
propositivo».
Poiché il legislatore costituzionale non ha chiarito che cosa s'intenda per referendum propositivo, il
consiglio regionale della Valle d'Aosta e il consiglio della provincia autonoma di Bolzano hanno ritenuto -
anche sulla scorta di indicazioni provenienti dai lavori parlamentari e dal pregresso uso in letteratura del
concetto in parola - che la locuzione descrivesse un referendum (che in realtà ha valenza approvativa)
introdotto da un'iniziativa legislativa proposta al consiglio, e da questi non approvata.
Anche qualora fosse confermata questa in sé plausibile interpretazione dei pertinenti disposti degli statuti
speciali, mancherebbe, con riferimento alle regioni ordinarie, un analogo appiglio che possa giustificare la
deroga alla norma costituzionale che attribuisce al consiglio la potestà legislativa (art. 121.2 Cost.).
Tale appiglio potrebbe essere reperito in un'interpretazione aperta e innovativa della locuzione
«referendum su leggi [...] della regione» di cui all'art. 123.1 Cost., sorretta dall'integrazione del limite
dell'armonia anche con le disposizioni – riferite agli enti ad autonomia differenziata – di cui alla legge
2/2001, che sarebbero utilizzate con valenza autorizzativa (in altre parole si potrebbe utilizzare questo
argomento: non può essere in disarmonia con la Costituzione un istituto regolato da una legge
costituzionale con riferimento a tutti gli enti ad autonomia differenziata e certo non giustificato, per questi
enti, dalle esigenze della specialità). Oppure, più decisamente, potrebbe affermarsi che la riserva della
potestà legislativa al consiglio è opponibile ad altri organi, ma non al corpo elettorale. Questa seconda
impostazione appare però poco compatibile con il principio costituzionale che vuole la stessa sovranità
popolare esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione (art. 1.2 Cost.).
La questione rimane quanto mai aperta, anche perché le poche indicazioni in tema di referendum regionali
provenienti dalla Corte costituzionale appaiono difficili da decifrare in un senso o nell'altro. Se è vero,
infatti, che la Corte ha chiarito che «alle regioni è consentito di articolare variamente la propria disciplina
relativa alla tipologia dei referendum previsti in Costituzione, anche innovando a essi sotto diversi profilis, è
altresì vero che l'affermazione è completata con l'aggiunta secondo cui «a regione può liberamente
prescegliere forme, modi e criteri della partecipazione popolare ai processi di controllo democratico sugli
atti regionali» (sent. 372/2004); e il referendum approvativo non è facilmente configurabile come una
formadi controllo su atti.

Un altro istituto di partecipazione regolato dagli statuti è l'iniziativa legislativa popolare.


Tale istituto è costituzionalmente obbligatorio, in quanto l'art. 123.1 Cost. indica il «diritto di
iniziativa» tra i contenuti necessari dello statuto e menziona tale potere congiuntamente con un
altro strumento di partecipazione, il referendum. Nonostante tale tutela costituzionale anche
questo strumento di partecipazione è rimasto in larga parte ineffettivo, come del resto è accaduto
– a differenza del referendum - anche a livello statale.
L'iniziativa popolare è esercitata mediante la presentazione di un progetto di legge redatto in
articoli e sottoscritto da una frazione di elettori variamente individuata dagli statuti.
In molte regioni sono assoggettati alla disciplina dell'iniziativa popolare anche i progetti di legge
che, stando agli statuti, possono essere presentati dai consigli provinciali o comunali oppure anche
dal consiglio delle autonomie locali (così l'art. 74 St. Tosc.).
Generalmente gli statuti prevedono limitazioni materiali all'iniziativa popolare, in parte ricalcate
sulle esclusioni previste per il referendum abrogativo, e un giudizio di ammissibilità affidato
all'organo di garanzia statutaria o all'ufficio di presidenza del consiglio regionale.
Regole di favore dettate dallo statuto per l'iniziativa popolare - e quindi per le iniziative assimilate
a quella avviata dagli elettori – consistono, ad esempio: a) nella facoltà per i promotori di avvalersi
dell'assistenza tecnica degli uffici legislativi del consiglio regionale per la redazione dell'articolato e
della relazione accompagnatoria; b) nella possibilità, riconosciuta sempre ai promotori, di illustrare
il progetto di legge nella seduta consiliare dedicata all'esame della proposta; c) nella riserva,
all'interno del calendario dei lavori, di apposite sedute destinate all'esame dei progetti di iniziativa
popolare; d) nell'obbligo per l'assemblea - peraltro privo di sanzione – di arrivare a una decisione
di merito, o di deliberare in via definitiva sul progetto, entro un certo termine; e) nella previsione
per cui tali progetti di legge non decadono con la fine della legislatura, a differenza dei progetti di
legge di iniziativa consiliare o giuntale, ma possono essere ricalendarizzati nella nuova legislatura
(repêchage).
Gran parte degli statuti disciplina, forse in omaggio alla tradizione costituzionale, anche il meno
efficace degli istituti di partecipazione, il diritto di petizione, consistente nel diritto riconosciuto a
tutti i cittadini di richiedere agli organi regionali l'adozione di provvedimenti o di esporre comuni
necessità.
Tale diritto è talvolta esteso agli enti locali o enti, organizzazioni e associazioni rappresentative
(così l'art. 16.2 St. Camp., secondo cui tali soggetti collettivi possono presentare al consiglio
regionale «voti, istanze e richieste di intervento su questioni di interesse generale o collettivo»,
secondo le modalità previste nel regolamento consiliare).
Lo statuto della Campania, inoltre, obbliga gli organi regionali a prendere in esame le petizioni e a
fornire risposta scritta, ma si tratta di un obbligo non sanzionato (art. 16.3 St. Cam.).
Nell'ambito degli istituti di partecipazione vanno menzionate anche le norme statutarie che
prevedono le interrogazioni alla regione, proposte dai comuni o dalle province su questioni di loro
interesse e disciplinate dal regolamento interno del consiglio regionale (art. 10.2 St. Cal.), ovvero
affidate all'iniziativa dei consigli degli enti locali, dei sindacati o delle organizzazioni di categoria
(art. 85.2 St. Piem.).
Rientra poi a pieno titolo tra gli strumenti di partecipazione sia l'istruttoria pubblica prefigurata
dall'art. 17 dello statuto emiliano per i procedimenti riguardanti la formazione di atti normativi o
amministrativi di carattere generale, che si svolge in forma di pubblico contraddittorio, cui
possono partecipare «associazioni, comitati e gruppi di cittadini portatori di un interesse a
carattere non individuale», e che obbliga l'organo a motivare il provvedimento finale con
riferimento alle risultanze istruttorie; sia la partecipazione delle associazioni con finalità
d'interesse generale al procedimento legislativo e alla definizione degli indirizzi politico
programmatici più generali, prevista dall'art. 19 dello stesso statuto regionale.
IL CONSIGLIO DELLE AUTONOMIE LOCALI
Il consiglio delle autonomie locali (CAL) è stato previsto come organo necessario della regione
dall'art. 7 della legge cost. 3/2001, che ha aggiunto l'ultimo comma dell'art. 123 Cost., ma in gran
parte delle regioni la creazione di un organo di raccordo tra la regione e gli enti locali è avvenuta
con legge regionale ordinaria ben prima della riforma costituzionale.
I modelli cui si ispirava la legislazione regionale erano due: il «modello conferenza», vale a dire un
organo a composizione mista, integrato da rappresentanti regionali e da rappresentanti degli enti
locali e istituito presso l'esecutivo regionale; e il «modello consiglio», vale a dire un organismo
costituito solo da rappresentanti degli enti locali, istituito presso il consiglio regionale e
caratterizzato da competenze di intervento nel procedimento legislativo.
La laconica disposizione costituzionale dell'art. 123.4 Cost., che si limita a esigere una disciplina
statutaria del consiglio delle autonomie locali quale organo di consultazione tra la regione e gli enti
locali, non può essere intesa come recezione di uno dei due modelli, bensì va intesa come norma
che esige-più genericamente - l'istituzione del CAL come «nuova forma di organizzativa stabile di
raccordo tra le regioni e il sistema delle autonomie locali al fine di attuare il principio di leale
collaborazione nei rapporti infraregionali» (Corte cost. 370/2006). In altri termini, dall'art. 123.4
Cost. discende, a carico dello statuto, soltanto l'obbligo, oltre che di istituire il CAL e di regolarlo
nelle sue linee fondamentali, di prevedere la rappresentanza degli enti locali di cui all'art. 114.1
Cost. (comuni, province e città metropolitane, ove istituite) e l'attribuzione all'organo di
competenze consultive.
Il resto delle scelte, relative alla composizione dell'organo, alle sue funzioni, fino alla collocazione
istituzionale presso il consiglio regionale o presso la giunta, è affidato al legislatore statutario.
Quanto alla composizione, gli statuti prevedono che ne facciano parte rappresentanti degli enti
locali quali i comuni e le province, di solito rinviando i dettagli alla legge regionale. Talvolta lo
statuto detta principi generali ai quali la legge di attuazione deve attenersi, quali il rispetto
dell'equilibrata rappresentanza dei territori e delle tipologie degli enti oppure la partecipazione di
diritto dei sindaci dei comuni capoluogo e dei presidenti delle province, o, ancora, il vincolo ad
assicurare un'adeguata rappresentanza dei consigli degli enti locali (così l'art. 28.2 St. Umb.).
Dubbia è invece la legittimità dell'integrazione del consiglio con rappresentanti delle autonomie
funzionali, quali le camere di commercio o le università, che non possono essere definite enti
locali. Una previsione in tal senso è però contenuta nello statuto della Lombardia, che all'art. 54.8
dispone che il CAL, composto ordinariamente da quaranta membri, si riunisca in composizione
integrata da un massimo di quindici rappresentanti delle autonomie funzionali e sociali per
rendere i pareri sulle revisioni dello statuto, sul programma regionale di sviluppo e i suoi
aggiornamenti, sui piani e programmi relativi all'innovazione economica e tecnologica,
all'internazionalizzazione e alla competitività. In Lazio e in Veneto la legge regionale ha previsto, in
attuazione delle norme statutarie (artt. 66.4 St. Laz. e 16.3 St. Ven.) la partecipazione – senza
diritto di voto - di rappresentanti delle autonomie funzionali e, in particolare, delle camere di
commercio e delle università con sede in regione (in Veneto, solo quando il CAL tratti argomenti di
rilevanza per le autonomie funzionali).
Quanto alle funzioni, i compiti principali del CAL sono consultivi, conformemente a quanto dispone
l'art. 123.4 Cost.
L'organo, stando alle previsioni degli statuti, è chiamato a rendere pareri obbligatori in relazione
alle modifiche dello statuto; alle leggi che dispongono il conferimento di funzioni alle autonomie
locali e che dettano la relativa disciplina; ai piani e ai programmi che coinvolgono l'attività degli
enti locali; ai documenti di programmazione economica e finanziaria e di bilancio.
Quasi sempre è previsto che il parere negativo del CAL comporti un aggravamento del
procedimento, consistente nella necessità di approvazione dell'atto a maggioranza assoluta
oppure con motivazione espressa, anche se si tratta di delibera legislativa.
Nulla esclude che al consiglio delle autonomie siano attribuiti anche altri poteri, quali l'iniziativa
legislativa - riconosciuta da gran parte degli statuti, talvolta con limitazione alle materie di
competenza degli enti locali - o funzioni di amministrazione attiva, anche se il complesso di tali
compiti non deve snaturare la caratterizzazione costituzionale del CAL quale «organo di
consultazione».
Al CAL sono attribuite funzioni anche dalla legislazione statale. In particolare, l'art. 9.2 della legge
131/2003 affida al consiglio delle autonomie locali il potere di proporre alla giunta regionale
l'impugnazione di leggi statali, potere che è evidentemente finalizzato alla tutela - mediata dalla
competenza esclusiva della giunta regionale a deliberare i ricorsi ex art. 127.2 Cost. - della sfera di
competenza delle autonomie locali.
Quasi tutti gli statuti danno al CAL una collocazione istituzionale presso il consiglio regionale, senza
con ciò escludere che l'attività consultiva dell'organo possa essere esercitata anche nei confronti
della giunta regionale, del suo presidente o di altri organi della regione.

LE POTESTÀ NORMATIVE
LA POTESTÀ LEGISLATIVA DELLE REGIONI
Il conferimento della potestà legislativa alle regioni è un elemento decisivo per l'autonomia. Nel
dibattito giuspubblicistico tardo-ottocentesco fino al periodo fascista, in effetti, si era lontani
dall'idea di creare enti autonomi che avrebbero potuto minare il centralismo statale: per lo più si
propendeva per la formazione di enti autarchici e, dunque, per un decentramento
fondamentalmente amministrativo. In Assemblea costituente, la questione cominciò a delinearsi
in modo più deciso e, non senza accese discussioni, si optò per l'attribuzione alle regioni di una
competenza legislativa.
La riforma costituzionale del 2001 non solo ha confermato questa scelta di fondo ma ha cercato,
almeno nelle intenzioni originarie, di ampliare la competenza delle regioni: con una tecnica tipica
degli ordinamenti federali, ha rovesciato il riparto delle potestà normative, attribuendo allo Stato
delle competenze enumerate e riconoscendo alle regioni una competenza residuale.
La disciplina di riferimento sul riparto delle competenze normative è sempre contenuta
nell'articolo 117, in particolare nei commi 2, 3 e 4. Il comma 1 dell'art. 117, invece, si occupa della
previsione di limiti comuni alle leggi statali e regionali: sia lo Stato che le regioni, infatti, esercitano
la loro potestà legislativa «nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
Il riparto delle competenze normative avviene in base alle materie, ossia degli ambiti, dei settori,
degli oggetti entro cui le potestà legislative vanno esercitate.
Il testo costituzionale le suddivide in tre tipi: materie di competenza esclusiva statale (art. 117.2),
materie di competenza concorrente (art. 117.3), materie di competenza residuale (comprendenti
tutto ciò che non è stato indicato nei commi precedenti, secondo quanto dispone l'art. 117.4).

Il testo costituzionale
L'art. 117.2 individua le materie nelle quali lo Stato esercita competenza legislativa esclusiva:
«Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:
a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di
asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;
b) immigrazione;
c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema
tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie;
f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
h) ordine pubblico e sicurezza, a esclusione della polizia amministrativa locale;
i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale;
n) norme generali sull'istruzione;
o) previdenza sociale;
p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane;
q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati
dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno;
s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali».
Il terzo comma determina le materie di potestà concorrente tra Stato e regioni:
«Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l'Unione europea
delle regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle
istituzioni scolastiche e con esclusione dell'istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca
scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute;
alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili;
grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci
pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e
ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali, casse di risparmio, casse rurali, aziende di
credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di
legislazione concorrente spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei
principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
Infine, il quarto comma dispone che «spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento a ogni materia
non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».

È utile partire dal testo dell'art. 117 per una disamina delle questioni sottese alle disposizioni
costituzionali.
La tecnica adoperata dal legislatore costituzionale anche dopo la riforma del Titolo V è analoga
a quella adoperata nel 1947: la materia indica, infatti, quale sia il legislatore competente in
base al settore di riferimento. Così, astrattamente e a titolo di esempio, competente a dettare
norme in materia di politica estera, ordinamento civile e penale sarà lo Stato ai sensi,
rispettivamente, dell'art. 117.2, lett. a) e 1); analogamente, in materia di protezione civile
dovranno intervenire sia lo Stato che le regioni, trattandosi di competenza concorrente; se una
materia, infine, non rientra in nessuna di quelle indicate, bisognerà capire se la regione potrà
disciplinarla in forza della clausola di residualità, contenuta nell'art. 117.4.
A turbare la chiarezza di questo schema, però, interviene una serie di problemi di non agevole
soluzione: primo tra questi è dato dalla necessità di capire come, in concreto, riempire di
contenuti le materie individuate in via di principio nell'art. 117. Ad esempio, quali sono le
materie coinvolte dovendo legiferare nell'ambito dei rifiuti? Si potrebbe pensare, infatti, non
solo alla competenza statale esclusiva sulla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema (art. 117.2,
lett. s) ma anche alla competenza concorrente relativa al governo del territorio o alla tutela
della salute. Nei paragrafi che seguono si tratterà più estesamente del problema riguardante i
contenuti delle materie e di come il legislatore e soprattutto la giurisprudenza costituzionale se
ne sono occupati.
Prima ancora che i contenuti delle materie, è, però, utile affrontare un'altra questione di
importanza cruciale, ossia la delimitazione delle competenze normative ad opera dei vincoli
imposti nell'art. 117.1. Si tratta di limiti comuni sia alla legge statale che alla legge regionale
come emerge dal testo della disposizione: «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali».

Il limite degli obblighi comunitari prima della sua costituzionalizzazione


Poiché l'Italia partecipa all'Unione europea, si pone da sempre un problema di rapporti tra ordinamento
interno e comunitario e, dunque, di possibili antinomie, di contrasti tra gli obblighi europei previsti nelle
fonti dell'Unione e la legislazione nazionale. Al rischio di antinomie sono, ovviamente, esposte anche le
Regioni, essendo dotate di competenza normativa.
Prima del 2001 mancava una norma in Costituzione esplicitamente rivolta a disciplinare i rapporti tra
l'ordinamento interno e ordinamento dell'Unione ma pacificamente si riteneva di poter colmare questa
lacuna attraverso l'interpretazione estensiva dell'art. 11 Cost., che consente limitazioni di sovranità ai
fini della partecipazione dell'Italia a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni. Le
antinomie tra le fonti interne e quelle europee sono state invece risolte dalla giurisprudenza
costituzionale italiana che, nella storica sentenza 170/1984, ha chiuso il c.d. caso Granital e ha stabilito
che i contrasti tra una legge italiana e una norma europea self-executing andranno risolti facendo uso
del criterio della competenza, adoperato direttamente da qualunque giudice senza radicare una
questione di legittimità costituzionale. L'inserimento degli obblighi comunitari tra i limiti comuni alle
potestà legislative assume, pertanto, carattere meramente ricognitivo dell'esistente.

La presenza degli obblighi comunitari implica che la violazione di norme UE, anche quando non
si tratti di norme self-executing, significhi violazione della Costituzione stessa e dell'art. 117.1. A
titolo di esempio: se una legge regionale contrasta con una direttiva comunitaria, quest'ultima
può essere adoperata come elemento che concorre a determinare il parametro di cui all'art.
117.1 al fine di valutare l'incostituzionalità della legge regionale.
In alcuni casi (sentt. 7 e 166/2004; 406/2005; 129/2006), la Corte ha affermato a chiare lettere
che «le direttive comunitarie fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la
valutazione di conformità della normativa regionale all'art. 117, primo comma, Cost.».
È, inoltre, possibile che la Corte costituzionale italiana si rivolga alla Corte di giustizia
proponendo un rinvio pregiudiziale quando dubiti della compatibilità con gli obblighi comunitari
di un atto sottoposto al suo giudizio. Per la prima volta, la Corte ha proposto rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia nel corso di un giudizio in via principale concernente
l'imposta su aeromobili a unità di diporto a carico dei non residenti prevista dalla Regione
Sardegna con 1. r. 2/2007 (ord. 103/2008). Dopo che la Corte di giustizia, con sentenza del 17
novembre 2009, in causa C-169/08, ha accertato il contrasto della norma regionale sarda con
l'art. 49 CE, la Corte costituzionale ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale in via definitiva
per contrasto con l'art. 117.1 con sent. 216/2010. Successivamente a questa decisione, la Corte
ha riconosciuto in capo a sé stessa la possibilità di proporre rinvio pregiudiziale anche nel corso
di giudizi in via incidentale (ord. 207/2013).
Va da sé che la Corte propone un rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia solo laddove
dubiti della consistenza e dell'estensione dell'obbligo comunitario: in caso contrario, essa stessa
decide di dichiarare l'illegittimità delle leggi per violazione degli obblighi comunitari e, dunque,
dell'art. 117.1 Cost. (sentt. 439/2008; 191 e 217/2012; 93/2013; 117/2015).

Gli obblighi internazionali e la CEDU


A differenza di quanto accaduto per gli obblighi comunitari, il limite delle norme internazionali
rappresenta una importante novità dell'art. 117.1 Cost. In forza di questa disposizione la legge statale e
regionale sono vincolate non solo agli obblighi internazionali di origine consuetudinaria, al cui rispetto
erano già tenute in forza dell'art. 10, comma 1, Cost. («l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle
norme del diritto internazionale generalmente riconosciute»), ma anche a quelli di origine pattizia, ossia
derivanti da accordi internazionali.
A questo proposito va esaminato il ruolo assunto nell'architettura dei limiti costituzionali dalle norme
della CEDU (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali),
la cui posizione nel sistema delle fonti italiane, proprio forza dell'art. 117.1 Cost., è stata chiarita dalla
Corte con due fondamentali decisioni: 348 e 349 del 2007. In seguito, la Corte ha avuto modo di tornare
sul tema con le sentt. 39/2008;311 en. 317/2009; 80/2011 chiarendo, in sostanza, che: a) «le norme
della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente
istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) -
integrino, quali "norme interposte”, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma,
Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli
“obblighi internazionali"»;
b) nel caso di contrasto tra norma interna e norma CEDU, il giudice comune, deve preliminarmente
verificare se è praticabile una interpretazione della norma interna conforme alla Convenzione; c) se non
è possibile l'interpretazione della norma interna conforme alla CEDU, non essendo possibile procedere
alla non applicazione della norma interna contrastante come accade per le norme comunitarie, il giudice
ha l'obbligo di sollevare la questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 117.1 Cost.; d) la
Corte costituzionale verifica la fondatezza della questione e si pronuncia di conseguenza. È possibile che
si verifichi l'«ipotesi eccezionale nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale
a integrare il parametro considerato»: questo accade se la Corte ritiene che la norma della Convenzione,
nell'interpretazione datane dalla Corte EDU si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della
Costituzione, poiché la CEDU «si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale» (i virgolettati sono
tratti da Corte cost., sent. 80/2011).

Si è detto che l'art. 117 Cost., specialmente nei commi 2 e 3, continua a disegnare lo schema di
riparto delle competenze normative imperniato sul criterio delle materie. Tuttavia questo
criterio non sempre aiuta a capire a chi spetti, in concreto, la competenza all'esercizio della
potestà legislativa. Ciò accade perché le materie sono indicate attraverso delle «etichette»
(«professioni», «governo del territorio», ecc.) ma non si sa bene quali siano l'estensione, il
contenuto delle stesse. Se ne ha un'idea vaga se si pensa che le materie di cui all'art. 117.2
sono state dettate per consentire una disciplina uniforme in ambiti cruciali volti alla tutela di
interessi infrazionabili ma non è assolutamente facile determinarne il contenuto preciso.
Talvolta, tra il secondo e il terzo comma dell'art. 117, la formulazione delle etichette è similare
ed è difficile trovare un discrimen tra un tipo di competenza e un altro: si pensi alla linea di con-
fine tra le «norme generali sull'istruzione», di competenza esclusiva ai sensi dell'art. 117.2, lett.
n) e la competenza concorrente in materia di «istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni
scolastiche di cui al successivo comma 3.
Nell'esperienza italiana del primo regionalismo, un'opera di sostanziale ricostruzione dei
contenuti delle materie fu fatta, come si è detto attraverso i decreti di trasferimento delle
funzioni amministrative, specialmente con il dpr 616/1977: in forza del parallelismo tra
funzione amministrativa e legislativa, l'individuazione dei contenuti delle funzioni
amministrative ha finito, giocoforza, per incidere sulle materie legislative.
Con la riforma del 2001, è mancata una attività di studio e di sistematizzazione del nuovo
impianto delle materie ad opera del legislatore. La conseguenza più vistosa di questa lacuna è
stata che la Corte costituzionale si è dovuta fare carico di un lavoro titanico per cercare di
ricostruire i contenuti delle materie: operazione, peraltro, non sempre lineare, nella misura in
cui la Corte decide i casi singoli e li salda a un preciso contesto.
Uno degli elementi (ma non l'unico) a cui la Corte ha dovuto fare appello per individuare i
contenuti delle materie è stato certamente quello degli interessi sottesi alle medesime. La
Corte ha chiarito, infatti, che «l'ambito materiale [...] va ricercato [...] attraverso la valutazione
dell'elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo
svolgimento di quelle attività» (sent. 383/2005).
In cosa consiste questo «elemento funzionale», come si raccorda con la dimensione territoriale
degli interessi, in che modo le materie interagiscono tra di loro e come la Corte ha valutato i
casi di interferenza tra una materia e l'altra sarà spiegato nelle pagine che seguono, attraverso
la disamina specifica delle singole potestà legislative dell'art. 117 Cost.

LE MATERIE DI COMPETENZA ESCLUSIVA STATALE


L'art. 117.2 elenca le materie nelle quali lo Stato ha competenza esclusiva.
Si tratta di ambiti materiali piuttosto eterogenei che, tuttavia, sono accomunati dal fatto che
necessitano di una disciplina unitaria e omogenea perché esprimono interessi infrazionabili. Per
classificarli, una parte della dottrina ha suddiviso le materie di competenza statale esclusiva in
cinque gruppi:
1) competenze collegate ai poteri sovrani e all'identità nazionale;
2) competenze relative a organismi statali e competenze relative agli enti locali;
3) competenze relative alle fondamentali materie costitutive dell'ordinamento giuridico;
4) competenze collegate a compiti di garanzia del sistema economico e dello Stato sociale;
5) figurano, poi, le competenze collegate all'esercizio del potere sostitutivo statale che, però,
non si trovano consacrate nell'art. 117.2 ma nell'art. 120.
1) Numerose sono le materie connesse all'esercizio di poteri sovrani dello Stato; sono
tradizionalmente incluse in questa categoria la politica estera e dei rapporti internazionali dello
Stato; il diritto di asilo e della condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti
all'Unione europea, la profilassi internazionale, la cittadinanza e l'immigrazione: lett. a), b) e q).
Ancora, sono riconducibili a questo primo gruppo di competenze quelle concernenti le politiche
di difesa e tutela del territorio: la difesa, le forze armate, la sicurezza dello Stato, le armi, le
munizioni, gli esplosivi, la protezione dei confini nazionali e le dogane: lett. d) e q); quelle
relative alla moneta e al sistema valutario, così come i mercati finanziari (lett. e); le competenze
riguardanti i tributi e le regole di contabilità generale (lett. e); l'ordine pubblico e la sicurezza
(lett. b). Da quest'ultimo ambito materiale, tuttavia, è stata testualmente espunta la polizia
amministrativa locale che, pertanto, si ritiene sia una delle due materie (l'altra è quella
dell'istruzione e della formazione professionale, stante la previsione dell'art. 117.3) che la
Costituzione attribuisce, per esclusione testuale, alla competenza residuale regionale. La
distinzione tra la competenza (residuale) in materia di polizia amministrativa locale e quella
concernente l'ordine pubblico e sicurezza è, peraltro, ben delimitata dalla stessa giurisprudenza
costituzionale (cfr. ad esempio sentt. 407/2002; 141/2012). Da ultimo, sono riconducibili
all'esercizio dei poteri sovrani le competenze esclusive riguardanti i rapporti tra la Repubblica e
le confessioni religiose: art. 117.2, lett. c), i cui principi sono individuati dagli artt. 7 e 8 Cost.
2) Alle materie espressione dei poteri sovrani si affiancano le competenze relative
all'organizzazione dello Stato e degli enti locali: dunque, non solo la legislazione elettorale degli
organi dello Stato e dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo: lett. f), ma anche
l'ordinamento e l'organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali: lett.
g); nella medesima categoria va inclusa anche la competenza in materia di legislazione
elettorale, di organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città
metropolitane: lett. p).
3) Se la ratio della previsione di competenze esclusive è quella di individuare materie rilevanti
che necessitano di una disciplina unitaria, è giusto che lo Stato possa disciplinare le materie che
costituiscono l'ordinamento giuridico: in tal senso, l'ordinamento civile (inclusi il diritto
commerciale, societario, ecc.), l'ordinamento penale e l'individuazione delle norme di
giurisdizione, processuali e di giustizia amministrativa: art. 117.2, lett.) sono inclusi in questa
categoria, cui probabilmente si affianca anche la disciplina delle opere dell'ingegno (ad es. la
proprietà industriale) che, pur essendo menzionate nell'art. 117.2, lett. r), rappresentano, a ben
vedere, una branca dell'ordinamento civile.
4) Ai compiti di garanzia del sistema economico e dello Stato sociale sono riconducibili diversi
titoli di intervento: di certo, in primo luogo, la materia dei pesi, delle misure e della
determinazione del tempo (lett. r); la tutela della concorrenza, del risparmio e la perequazione
delle risorse finanziarie (lett. e); la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale
(lett. m) e la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema: lett. s). In forza della legge cost. 20 aprile
2012, n. 1 rubricata Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale
nel novero della lett. e) è stata inclusa la materia dell'armonizzazione dei bilanci pubblici,
precedentemente indicata tra le materie di competenza concorrente assieme al coordinamento
della finanza pubblica. Tuttavia, nonostante le due materie siano state separate e collocate
in due potestà legislative differenti, spesso la giurisprudenza costituzionale ha esteso
oltremodo il concetto di «principio» nella materia del coordinamento della finanza pubblica,
finendo per fagocitare la corrispondente normazione di dettaglio regionale, al punto tale che la
dottrina ne discorre come di una materia «onnivora».
Già da una rapida lettura all'elenco contenuto nell'art. 117.2 emerge un dato di grande rilievo.
Mentre il contenuto di alcune materie è immediatamente intuibile, attesa la loro natura
oggettiva (si pensi alla materia dei pesi e misure o alla determinazione del tempo), il perimetro
di alcuni ambiti di competenza è più complesso da definire. Più che di materie, infatti, si parla di
obiettivi, di scopi, di valori. A proposito di queste materie, infatti, la dottrina discorre di
materie-non materie (o, secondo altre locuzioni, materie-obiettivo, materie-scopo, materie
smaterializzate). A titolo di esempio, si pensi all'ambiente o ai livelli essenziali concernenti i
diritti civili e sociali: il contenuto di queste materie, pertanto, è di problematica definizione e
anche in questo caso il ruolo della Corte costituzionale nella loro interpretazione si è rivelato
decisivo.

La Corte costituzionale e l'interpretazione delle materie


Fin dalle sue prime decisioni successive alla riforma costituzionale del 2001, la Corte si è molto
impegnata sul fronte dell'interpretazione dei contenuti delle materie. Specialmente a proposito delle
materie finalistiche, di cui si è appena detto, vanno ricordate alcune importanti affermazioni tuttora
valide.
Sin dalla sentenza 282/2002 la Corte, a proposito dei «livelli essenziali» di cui alla lett. m) dell'art. 117.2,
ha sostenuto che non si tratta di «una "materia" in senso stretto»: piuttosto è «una competenza del
legislatore statale idonea a investire tutte le materie», quindi una «materia trasversale».
Una simile affermazione viene ripetuta a proposito della tutela dell'ambiente, sin dalla sent. 407/2002:
anche in questo caso non siamo di fronte a una competenza in senso oggettivo «dal momento che non
sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché,
al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze». Se, però, in
una prima fase della giurisprudenza costituzionale, una simile affermazione era stata letta nel senso di
permettere un intervento delle Regioni in questi ambiti materiali, col tempo la Corte ha assunto
posizioni sempre più centraliste, arrivando a sostenere che la disciplina statale relativa alla tutela
dell'ambiente «viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome
dettano in altre materie di loro competenza» e che «non può certo dirsi [...] che la materia ambientale
non sarebbe una materia in senso tecnico» (sent. 104/2008).
Accanto a questi, vi sono poi altri esempi, in giurisprudenza, di materie connotate in senso finalistico
come la tutela della concorrenza intesa nella sua «accezione dinamica», che attribuisce allo Stato il
titolo per disporre tutti gli interventi che abbiano «rilevanza macroeconomica» (sent. 14/2004), la tutela
dei beni culturali» (sent. 232/2005), il «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati
dell'amministrazione statale, regionale e locale» (sent. 414/2004).

La giurisprudenza costituzionale, dunque, ha ampiamente riconosciuto l'esistenza e lo statuto


concettuale di queste materie connotate in senso finalistico, denominandole materie-valore,
materie-funzione o con accezioni simili: in pratica, per individuare l'ambito materiale si fa
riferimento al fine, allo scopo che quella disciplina intende perseguire.
La caratterizzazione in senso finalistico rende queste materie molto peculiari: l'esercizio della
competenza legislativa statale volta a disciplinarle è, infatti, contraddistinto dal fatto di essere
trasversale. La trasversalità è l'attitudine tipica delle materie connotate in senso finalistico di
incidere su oggetti differenti, a prescindere dalla distribuzione costituzionale delle competenze:
può, cioè, darsi il caso che, per esercitare una competenza trasversale - e, quindi, per
disciplinare una materia connotata in senso finalistico - il legislatore statale incida anche su
ambiti materiali di competenza residuale regionale. Questo significa che, da un lato, il
legislatore regionale può intervenire, in base alla propria competenza, perseguendo i medesimi
fini del legislatore statale; dall'altro, però, che il legislatore statale ha un ampio margine di
intervento normativo in virtù dell'intrinseca elasticità delle materie trasversali: ciò gli consente
di spingersi in una disciplina anche molto dettagliata della materia, se il fine lo richiede.
Un esempio tratto dalla giurisprudenza costituzionale può giovare alla comprensione del
fenomeno. Si prenda un caso in cui è stata coinvolta una competenza indicata come finalistica:
la tutela della concorrenza. Nella sent, 93/2017, la Corte decide su un ricorso governativo in cui
si denuncia la violazione, da parte di una legge regionale, della disciplina statale del servizio
idrico integrato. Innanzitutto, la Corte ricorda che «la disciplina concernente le modalità
dell'affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica è riferibile alla
competenza legislativa statale in tema di “tutela della concorrenza”»; poi, dichiara l'illegittimità
della disciplina regionale con essa contrastante ricordando che «le materie di competenza
esclusiva e nel contempo "trasversali" dello Stato, come la tutela della concorrenza e la tutela
dell'ambiente di cui all'art. 117, secondo comma, lettere e) es), Cost., in virtù del loro carattere
"finalistico", “possono influire su altre materie attribuite alla competenza legislativa
concorrente o residuale delle regioni fino ad incidere sulla totalità degli ambiti materiali entro i
quali si applicano" (sentenza n. 2 del 2014; nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 291, n.
150 del 2011, n. 288 del 2010, n. 249 del 2009 e n. 80 del 2006), come appunto accade nel caso
della disciplina del servizio idrico integrato» (così, sent. 93/2017).
Si è detto che è possibile un intervento del legislatore regionale in queste materie, ma in che
forma? La Corte dice chiaramente che nelle materie trasversali allo Stato sarebbe riservato «il
potere di fissare standards di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, senza peraltro
escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente
collegati con quelli propriamente ambientali» (sent. 407/2002). Tuttavia, il perseguimento degli
interessi funzionalmente collegati con quelli della materia obiettivo non consente alle regioni di
apportare deroghe in peius: lo chiarisce anche la Corte quando ricorda, a proposito della tutela
dell'ambiente che «lo Stato detta [...] una disciplina inderogabile in pejus, che si impone
all'autonomia delle regioni e le vincola, anche quando esse esercitino la potestà legislativa loro
riconosciuta dalla Costituzione in altre materie>> (sent. 235/2009).
La connotazione in senso finalistico di una materia e la sua conseguente trasversalità saldano la
legittimità della legge statale allo scopo che essa intende perseguire e le consentono di
espugnare finanche le competenze regionali residuali. Ma ci sono garanzie per le regioni oppure
questa invasione di competenze si consuma senza possibilità di limiti? In realtà, la Corte
costituzionale ha spesso ribadito che la legge statale deve rispondere ai giudizi di
ragionevolezza, congruità e proporzionalità. Il principio è affermato in diverse decisioni rese
nell'ambito di materie trasversali: ad esempio, in materia di «tutela della concorrenza» (sentt.
14, 272 e 345/2004), in cui il criterio di proporzionalità e adeguatezza diviene il fattore
«essenziale per definire l'ambito di operatività della competenza legislativa statale» e, quindi,
la legittimità dei relativi interventi statali che comprimono competenze regionali; ma si vedano
anche la sent. 285/2005, relativa alla promozione delle attività culturali, la sent. 401/2007, sul
codice degli appalti, e la sent. 430/2007, in merito alla vendita dei farmaci. Molto fitta è la
giurisprudenza sulla materia trasversale del «coordinamento della finanza pubblica», dove,
però, si enuncia chiaramente il principio secondo cui «come messo in rilievo in molteplici
occasioni da questa Corte (tra le tante, sentenze n. 236 del 2013, n. 193 del 2012, n. 151 del
2012, n. 182 del 2011, n. 207 del 2010, n. 297 del 2009), il legislatore statale può, con una
disciplina di principio, legittimamente imporre alle regioni e agli enti locali, per ragioni di
coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi
comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in
limitazioni indirette all'autonomia di spesa degli enti territoriali. Vincoli che possono
considerarsi rispettosi dell'autonomia delle regioni e degli enti locali quando stabiliscano un
"limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i
diversi ambiti e obiettivi di spesa"; e siano rispettosi del canone generale della ragionevolezza e
proporzionalità dell'intervento normativo rispetto all'obiettivo prefissato» (sent. 22/2014; più
di recente, si vedano sentt. 192/2017; 64/2016; 250/2015).

Quali sono le MATERIE TRASVERSALI?


Le materie considerate trasversali sono quantitativamente numerose e qualitativamente onnipervasive,
nel senso che manifestano un elevato grado di espansione nell'ambito delle competenze regionali. Già
da quanto è emerso finora, la Corte ha riconosciuto natura trasversale a molte materie di competenza
esclusive ma anche concorrente. Si pensi ai livelli essenziali delle prestazioni (sentt. 282/2002 e 88/2003
tra le prime, cui adde 207, 203 e 164/2012; 111/2014; 125/2015; 192 e 231/2017); alla tutela della
concorrenza (sentt. 14, 272, 320 e 345/2004 o, più recentemente, sentt. 30/2016 e 109/2018); alla
tutela dell'ambiente (sentt. 407, 536/2002; 96, 222, 226, 307, 311, 331 e 378/2003; 259/2004; 62/2005;
247/2006; ma la giurisprudenza in materia è alluvionale; per quella più recente si vedano sentt.
210/2016; 212/2017; 66 e 121/2018); al coordinamento della finanza pubblica (sent. 414/2004 ma
anche qui la giurisprudenza conta più di 300 decisioni; da ultimo sent. 101/2018); alla tutela dei beni
culturali (sent. 232/2005); allo sviluppo della cultura (sent. 307/2004); alla ricerca scientifica
(sentt. 423/2004 e 31/2005); al coordinamento informativo statistico e informatico dei dati
dell'amministrazione statale, regionale e locale (implicitamente nella sent. 271/2005); alla difesa (sent.
431/2005); all'ordinamento penale (sent. 185/2004).

In conclusione, può dirsi che l'art. 117.2 formula un elenco dei titoli di competenza esclusiva
statale decisamente eterogeneo: accanto a materie delle quali si riesce intuitivamente a
comprendere l'estensione si trovano materie che perseguono dei fini, dei valori difficili da
delimitare aprioristicamente.
Ne consegue che anche il criterio che la Corte dovrà adoperare per interpretarle, e per capire in
quale titolo di intervento rientri una determinata disciplina, sarà necessariamente variabile,
talora addivenendo a esiti ricostruttivi opinabili: questo inciderà notevolmente sul
procedimento di individuazione del titolo di competenza coinvolto.
Non è affatto agevole, in definitiva, comprendere l'estensione effettiva di una materia, specie
quando essa sia connotata in senso finalistico. L'assenza di criteri certi e sempre validi implica,
allora, una notevole incertezza nelle decisioni della Corte: in esse, infatti, prevale una logica
casistica – piegata alle esigenze delle fattispecie concrete - piuttosto che sistematica -
universalmente valida a prescindere dalle specifiche congiunture. In questo stato di cose,
l'inasprimento del contenzioso tra lo Stato e le regioni è, invece, l'unica conseguenza
prevedibile.

LE INTERFERENZE E GLI INTRECCI TRA AMBITI


MATERIALI
L'elenco di materie dell'art. 117.2 Cost. integrato dalle definizioni della giurisprudenza
costituzionale non può, ovviamente, esaurire l'intero spettro di tutte le possibili competenze
legislative: che una disciplina legislativa sia riconducibile a una o a un'altra materia è questione
di interpretazione. E, si è detto, l'interpretazione varia a seconda del tipo di materia, per cui
varrà un criterio interpretativo oggettivo o finalistico a seconda della sua struttura.
Quindi, per capire a quale legislatore appartiene la competenza, l'interprete (ossia il giudice, e
soprattutto la Corte costituzionale) dovrà esaminare la disciplina legislativa e cercare di
ricondurla alle materie, alle «etichette» previste dall'art. 117, commi 2 e 3. Così, ad esempio, è
chiaro che se lo Stato detta una disciplina che introduce una nuova figura di reato starà
esercitando una sua competenza esclusiva, poiché questa disciplina rientra, in virtù del suo
specifico oggetto, nella materia dell'«ordinamento penale»: 117.2, lett 1); analogamente,
qualora lo Stato disciplini con legge la protezione di alcuni endemismi e determinate specie
vegetali, poiché il fine, lo scopo della legge è quello di proteggere l'ambiente e l'ecosistema,
questa disciplina sarà ancora di competenza statale perché rientrerà nella «tutela dell'ambiente
e dell'ecosistema»: art. 117.2, lett. s).
Purtroppo, però, non è sempre così semplice capire di chi è la competenza normativa
riconducendo una disciplina legislativa alle etichette materiali dell'art. 117: per quanto possa
essere esaustivo e analitico, un elenco non potrà mai contenere l'indicazione di tutte le materie
su cui è possibile dettare una disciplina. Non solo: la questione è più complicata degli esempi
appena fatti perché è molto più frequente che una disciplina normativa sia riconducibile più di
una materia, magari assoggettata a diversi regimi di competenza legislativa. Accade, infatti, che
l'oggetto di una disciplina possa intercettare contemporaneamente più materie tra quelle
elencate nell'art. 117, dando luogo a intrecci e interferenze che rendono particolarmente arduo
il compito della Corte di individuare il «legislatore competente». Poco sopra si è fatto già un
cenno al problema parlando delle criticità di una disciplina normativa in tema di rifiuti che
ricade tanto nella competenza in materia di tutela dell'ambiente (di competenza esclusiva
statale) quanto nella materia del governo del territorio (di potestà concorrente): anzi, la Corte,
nella sent. 62/2008 ha aggiunto a queste anche la tutela del paesaggio e della salute, Analoghe
considerazioni possono svolgersi per la disciplina in tema di asili nido, ricondotta dalla Corte
alle materie della tutela del lavoro e alla materia dell'istruzione (sent. 370/2003); o per la
disciplina del mobbing che intercetta la competenza sull'ordinamento civile e quella sulla
sicurezza del lavoro (sent. 228/2004); o, ancora, per la disciplina dell'inquinamento
elettromagnetico che riguarda la tutela dell'ambiente ma anche la materia concorrente della
tutela della salute (sent. 307/2003).
In questi casi, allora, la domanda da porsi è: come si individua la competenza legislativa? In
assenza di una espressa previsione costituzionale o legislativa, in che modo la Corte
costituzionale ha sciolto l'intreccio di competenze sovrapposte?
Invero, un primo esempio di interferenza materiale è stato già analizzato poc'anzi, a proposito
delle cc.dd. materie trasversali. Poiché queste materie hanno una struttura finalistica, esse
sono naturalmente portate a incidere su altri titoli di competenza anche residuale regionale
perché lo scopo che esse perseguono rende flessibili (quando non abbatte) i confini tra le
materie. La Corte, come si è visto, ha tentato di non estromettere del tutto la competenza del
legislatore regionale, ammettendo un suo intervento per le cc.dd. deroghe in melius. Ma ciò ha
fatto soprattutto in una prima fase della propria giurisprudenza: in seguito, infatti, ha assunto
posizioni sempre più sbilanciate a favore dell'intervento dello Stato. Il criterio interpretativo
che ha usato più di frequente per giustificare il ruolo e la posizione della legge statale nelle
materie di competenza esclusiva «trasversale» e risolvere l'interferenza ha raggiunto una sua
compiutezza attraverso l'elaborazione della teoria dei punti di equilibrio. Di cosa si tratta?
In sostanza, nelle materie trasversali, lo Stato individua con la propria disciplina legislativa il
«punto di equilibrio degli interessi coinvolti, sia statali che regionali. Le regioni possono
disciplinare la materia rientrante nelle proprie competenze (interferenti con quelle statali)
purché non sbilancino l'equilibrio rintracciato dalla legge statale. Ovviamente, l'individuazione
del punto di equilibrio è mutevole e strettamente legata ai casi concreti. Laddove
gli interessi siano unitari e infrazionabili, la competenza regionale sarà inevitabilmente
recessiva; viceversa - anche se si tratta di una eventualità molto rara in giurisprudenza – è
possibile che la competenza regionale acquisti spazi normativi meno angusti.
Alcuni esempi possono servire a comprendere il fenomeno. Si è detto innanzi che la tutela della
concorrenza è considerata una materia trasversale. Come tale, essa è in grado di interferire con
numerose materie di competenza regionale: si pensi solo alla competenza residuale in materia
di commercio oppure di trasporti pubblici locali. Un caso relativo a questa materia, deciso dalla
Corte con sent. 30/2016, riguardava la legge regionale del Piemonte 22/2006 relativa al
noleggio autobus con conducente; all'art. 12, la legge prevedeva che, per ragioni legate alla
sicurezza del territorio, il parco autobus delle imprese operanti nel settore non potesse essere
incrementato con autobus usati e che l'impresa avesse bisogno di una autorizzazione rilasciata
dalla Regione Piemonte, La Corte rileva che in tal modo la regione ha previsto un limite alla
libertà di iniziativa economica privata e che, con la legge statale n. 218/2003, specificamente
dedicata alla materia, «il legislatore statale ha dunque inteso definire il punto di equilibrio fra il
libero esercizio dell'attività di trasporto e gli interessi pubblici interferenti con tale libertà (art.
1, comma 4, della legge n. 218 del 2003)»; ne consegue che «il bilanciamento così operato – fra
la libertà di iniziativa economica e gli altri interessi costituzionali –, costituendo espressione
della potestà legislativa statale nella materia della “tutela della concorrenza", definisce un
assetto degli interessi che il legislatore regionale non è legittimato ad alterare». Quindi, la legge
regionale è competente in materia di trasporto pubblico locale; ma questa disposizione «non
solo comporta maggiori oneri in capo alle imprese di trasporto aventi sede in Piemonte rispetto
a quelle situate in altre regioni, ma è altresì idonea a produrre l'effetto (nel caso in cui l'impresa
non abbia le maggiori risorse necessarie per comprare un autobus nuovo) di impedire
irragionevolmente l'espansione dell'attività delle imprese stesse e, dunque, di limitare la
concorrenza e con essa le possibilità di scelta da parte dei committenti», alterando il punto di
equilibrio della norma statale competente per la tutela della concorrenza (ma si vedano anche
sent. 125/2014 e 265/2016).
Interessante è, poi, la giurisprudenza costituzionale relativamente alla disciplina della distanza
tra gli edifici: si tratta di ambito ascrivibile alla materia dell'ordinamento civile nella misura in
cui è dettata all'interno del codice civile, agli articoli 873 e 875. Tuttavia è naturale che essa
incida anche sulla materia del governo del territorio, di potestà concorrente; la Corte allora,
ferma restando la competenza statale, ha ribadito che «nella delimitazione dei rispettivi ambiti
di competenza - statale in materia di "ordinamento civile" e concorrente in materia di “governo
del territorio" -, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n.
1444 del 1968, [...] più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile (sentenze n.
114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette distanze
inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni
planovolumetriche”.
In definitiva, le deroghe all'ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio (sentenza n. 6 del 2013)». L'affermazione, tratta dalla sent.
134/2014, è ripetuta con toni simili in numerose decisioni più o meno recenti (sentt. 50 e
41/2017; 178, 185, 231/2016; 114/2012; 232/2005) e affida l'individuazione del punto di
equilibrio addirittura a un decreto ministeriale.
Tra gli esempi giurisprudenziali di interferenze dovute all'intervento di materie trasversali sono
immancabili le decisioni in tema di «tutela dell'ambiente»: la teoria dei punti di equilibrio e
della loro fissazione da parte della disciplina statale assume qui una compattezza irriducibile.
La sent. 307/2003 e, di li a poco, la 331/2003 si riferiscono alla legge statale quadro n. 36/2001
in materia di campi elettromagnetici come a una disciplina che «persegue un equilibrio tra
esigenze plurime, necessariamente correlate le une alle altre, attinenti alla protezione
ambientale, alla tutela della salute, al governo del territorio e alla diffusione sull'intero
territorio nazionale della rete per le telecomunicazioni». Ne consegue l'illegittimità della
disciplina regionale anche quando essa apporti delle deroghe in melius, ossia innalzando gli
standard di tutela ambientale posti con legge statale: difatti, in questi casi, «l'aggiunta si
traduce in una alterazione, quindi in una violazione, dell'equilibrio tracciato dalla legge statale
di principio».
Molto fitta è la giurisprudenza della Corte sul Codice dell'ambiente, richiamato come parametro
interposto in numerosi giudizi; le sue disposizioni, come tutte quelle adottate in forza della
competenza in materia di tutela dell'ambiente, «fungono da limite alla disciplina che le regioni,
anche a statuto speciale, dettano nei settori di loro competenza, essendo ad esse consentito
soltanto eventualmente di incrementare i livelli di tutela ambientale, senza però
compromettere il punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato
dalla norma dello Stato» (sent. 300/2013, ma affermazioni simili sono in sentt. 77/2017; 145 e
58/2013; 66/2012; 225/2009). In tal modo, le norme con cui le regioni incidono sul sistema
autorizzatorio e di valutazione di impatto ambientale violando il punto di equilibrio fissato dal
Codice dell'ambiente sono contrarie all'art. 117.2, lett. s.
Di frequente, poi, la tutela dell'ambiente interferisce con la materia della caccia, di competenza
residuale regionale. La individuazione delle specie cacciabili, l'arco temporale in cui si svolge
questa pratica, gli strumenti di recupero della fauna abbattuta sono tutti ambiti rientranti nella
competenza trasversale in materia di tutela dell'ambiente: per questo le regioni sono tenute al
rispetto della legge n. 157 del 1992, poiché essa è «posta a salvaguardia dell'ambiente e
dell'ecosistema, “stabilisce il punto di equilibrio tra il primario obiettivo dell'adeguata
salvaguardia del patrimonio faunistico nazionale" e "l'interesse [...] all'esercizio dell'attività
venatoria (sentenza n. 4 del 2000)", con la conseguenza che i livelli di tutela da essa fissati non
sono derogabili in peius dalla legislazione regionale» (sent. 174/2017, ma analogamente anche
sentt. 139, 74 del 2017, per non citarne che alcune).
Anche la materia penale ha una sua intrinseca trasversalità che si traduce, di fatto,
nell'estromissione della competenza regionale; ciò è evidente nelle affermazioni della Corte
come quella contenuta nella sent. 185/2004, laddove si dice che questa materia «non è di
regola determinabile a priori», poiché «si tratta per definizione di una competenza dello Stato
strumentale, potenzialmente incidente nei più diversi ambiti materiali e anche in quelli
compresi nelle potestà legislative esclusive, concorrenti o residuali delle regioni».
Per riassumere, in definitiva: un primo esempio di interferenza è quello che riguarda le materie
finalistico-trasversali; la Corte, in questi casi, afferma che lo Stato, con la propria disciplina,
individua il punto di equilibrio tra interessi confliggenti in grado di incidere su competenze
regionali; le regioni possono intervenire negli ambiti di propria competenza purché ciò non
alteri il punto di equilibrio dettato dalla norma statale; da ciò discende che la derogabilità in
melius della disciplina statale da parte del legislatore regionale non può essere trattata come
un principio sempre valido.

PREVALENZA E LEALE COOPERAZIONE


Un caso di interferenza è, dunque, connaturato al carattere finalistico delle materie trasversali
e, spesso, la Corte lo risolve facendo appello alla necessaria previsione di punti di equilibrio, da
parte di una disciplina statale che sola può bilanciare vari interessi in gioco, pur incidenti in
ambiti di competenza regionale. La materia trasversale, insomma, è quella materia che «per sua
natura si spinge nel campo dell'altra»: è una sua connotazione strutturale che la rende
corrosiva di altri ambiti materiali. Dal punto di vista astratto, si tratta di un fenomeno
parzialmente diverso dall'intreccio di materie vero e proprio, anche se la Corte, di fatto,
adopera le stesse tecniche risolutive dell'interferenza: ad esempio, in materia di rifiuti o di
bonifica di siti inquinati, la Corte chiama in causa l'ambiente talora come materia trasversale,
talaltra come materia prevalente (si veda sent. 126/2018).
Ci sono, cioè, dei casi in cui una disciplina sia astrattamente riconducibile a più titoli di
competenza nell'elenco: magari, si tratta anche di diverse competenze esclusive statali. In
questo, i casi di vero e proprio intreccio, di concorrenza di competenze si distinguono, almeno
concettualmente, dalla interferenza dovuta alle materie trasversali.
La concorrenza di competenze e l'intreccio che ne consegue si realizzano quando una disciplina
coinvolge più materie di diversa natura e, talora, differente regime competenziale: questa
interferenza viene risolta dalla Corte facendo appello al criterio della prevalenza che,
attualmente, è il criterio più usato in giurisprudenza.
L'applicazione di questo criterio impone che, allorquando una disciplina sia imputabile a più
materie diverse, si applichi il regime della materia risultante prevalente o per una sua
consistenza oggettivo-quantitativa o per il fine che la disciplina persegue. Quasi sempre, va
detto, il criterio della prevalenza è stato adoperato dalla Corte per rafforzare la competenza
dello Stato.
Ancora una volta, qualche esempio potrà chiarire la questione. Si pensi alla disciplina dei
derivati finanziari; è evidente che essa implichi un intreccio di materie diverse. La Corte sul
punto ha precisato che «la disciplina dei derivati finanziari si colloca alla confluenza di un
insieme di materie, vale a dire quelle relative “ai mercati finanziari”, all’ordinamento civile e al
"coordinamento della finanza pubblica”: le prime due di competenza esclusiva dello Stato e
l'ultima di competenza concorrente. In applicazione del “criterio della prevalenza” deve
rilevarsi che la finalità principale della normativa statale in esame sia rappresentata dalla tutela
del risparmio e dei mercati finanziari, nonché dalla disciplina dei rapporti privatistici e dei
connessi rimedi azionabili in caso di violazione delle disposizioni disciplinatrici del settore. La
peculiarità del contenuto della tipologia contrattuale in esame impone, in questo caso, di
risolvere il concorso tra le plurime competenze legislative riconducibili alle elencazioni
contenute nel secondo e terzo comma dell'art. 117 Cost. mediante l'inquadramento della
normativa censurata in via prevalente nelle materie dei mercati finanziari e dell'ordinamento
civile, di esclusiva spettanza del potere legislativo statale» (sent. 52/2010).
A dimostrazione del fatto che, per definire la materia prevalente, la Corte guarda alla finalità
sottesa alla disciplina legislativa coinvolta, si può citare il caso deciso con sent. 114/2017
concernente le attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi in mare. Mentre
in altre occasioni, la Corte si è pronunciata nel senso di ascrivere questo oggetto alla
competenza concorrente in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell'energia» (sentt. 39/2017 e 117/2013), nella sent. 114/2017, si ritiene che le finalità
prevalenti dell'art. 1, comma 239, della legge n. 208/2015, fossero quelle della tutela
ambientale. È a questa materia, quindi, che viene ricondotta la competenza legislativa esclusiva
statale.
Raramente - si è detto - il criterio della prevalenza favorisce competenze regionali; a volte
capita che siano ritenute prevalenti competenze concorrenti ma poi la nozione di «principio
fondamentale» viene estesa a dismisura, di fatto ampliando il margine di manovra dello Stato:
ciò avviene sistematica- mente nella materia del coordinamento della finanza pubblica. Si veda
il caso deciso con l'ord. 243/2017: la disciplina statale relativa all'incremento dell'addizionale
regionale all'IRPEF per il mancato raggiungimento degli obiettivi del piano di rientro si colloca in
«un'ampia serie di misure, le quali dipendono da una situazione oggettiva di rilevante e
perdurante disavanzo nel principale comparto di spesa regionale e mirano a risanare la
gestione del servizio per assicurare, contemporaneamente, la tutela della salute e il
coordinamento della finanza pubblica e, in ultima analisi, per garantire i livelli essenziali di
assistenza» (sentenze nn. 192, 190, 106 e 14 del 2017, 266 del 2016, 278, 110 e 85 del 2014,
219 e 51 del 2013). Nonostante vi siano più ambiti coinvolti in una disciplina, dunque, il
coordinamento della finanza pubblica risulta spesso la materia prevalente.
Da un certo punto di vista, risolvere l'intreccio di competenze facendo appello al criterio della
prevalenza rappresenta una semplificazione notevole per l'interprete. Tuttavia, è evidente il
sacrificio per le competenze regionali che risultano spesso recessive. Inoltre, non è sempre
agevole capire quale sia il fine o l'oggetto prevalente di una disciplina. Per evitare di
comprimere in modo eccessivo le competenze regionali e per risolvere i casi residui di
interferenze, non risolvibili col criterio della prevalenza se non a costo di forzature
interpretative, la Corte fa ricorso al principio di leale cooperazione. Si tratta di un principio
contemplato nel testo costituzionale solo in riferimento all'esercizio dei poteri sostitutivi statali
ma che ormai la Corte ritiene debba «permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle
autonomie» (sentt. 128/2018; 251, 21 e 1/2016; 44/2014; 273/2013; 50/2008).
Invero, però, il suo utilizzo per comporre le interferenze è solo sussidiario e si realizza solo
quando vi siano competenze inestricabilmente connesse. Si veda, in proposito, quanto afferma
la sent. 140/2015 sulla disciplina della l. statale 112/2013: la legge in questione, impugnata da
diverse regioni, conteneva disposizioni di varia natura tutte volte alla valorizzazione dei beni
culturali e del paesaggio ma incidenti su una serie di competenze regionali, concorrenti e
residuali, senza prevedere adeguati meccanismi di coinvolgimento delle regioni, come il parere
o l'intesa in Conferenza Stato-regioni. La Corte constata che «le norme censurate si prestano ad
incidere contestualmente su una pluralità di materie, ponendosi all'incrocio di diverse
competenze (“tutela dei beni culturali", "valorizzazione dei beni culturali”, commercio,
"artigianato") attribuite dalla Costituzione rispettivamente, o alla potestà legislativa esclusiva
dello Stato ovvero a quella concorrente dello Stato e delle regioni, ovvero infine a quella
residuale delle regioni, senza che (in termini “qualitativi" o "quantitativi”) sia individuabile un
ambito materiale che possa considerarsi prevalente sugli altri»; ne consegue che
«l'impossibilità di comporre il concorso di competenze statali e regionali mediante
l'applicazione del principio di prevalenza, in assenza di criteri contemplati in Costituzione e
avendo riguardo alla natura unitaria delle esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio
culturale, giustifica l'applicazione del principio di leale cooperazione». Ma della leale
cooperazione la Corte fa uso in numerose decisioni (61/2018; 21/2016; 166 e 168/2009;
133/2006; 50 e 219/2005),
Il ricorso al principio di leale collaborazione va modulato per intensità; secondo la Corte ciò
comporta l'impiego di «diversi strumenti di coinvolgimento della Regione interessata [...) in
relazione al tipo di interessi coinvolti e alla natura e all'intensità delle esigenze unitarie che
devono essere soddisfatte» (sent. 182/2017, ma l'affermazione si legge anche in 62 e
50/2005;308/2003).
Purtroppo, quando le regioni hanno chiesto un coinvolgimento più intenso nei confronti della
legge statale «interferente» con ambiti di propria competenza, si sono viste rispondere dalla
Corte che è «...escluso che nel principio di leale collaborazione possa essere rinvenuto un
fondamento costituzionale all'applicazione dei meccanismi collaborativi nel procedimento
legislativo (sent. 237/2017 e tutte le decisioni ivi citate).
Come a dire che la presenza di una Camera delle regioni o di un sistema che renda effettivo il
meccanismo delle conferenze (magari costituzionalizzandolo) potrebbe rivelarsi la formula
vincente per evitare che la sussistenza di interferenze e intrecci si traduca in una estromissione
totale delle regioni da un determinato ambito materiale.

LA COMPETENZA CONCORRENTE
L'art. 117.3 elenca le materie di competenza concorrente per le quali «spetta alle regioni la
potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla
legislazione dello Stato».
Si tratta dell'unico tipo di competenza normativa già previsto nella Costituzione del 1948 e
rimasto anche dopo l'intervento della l. cost. 3/2001: tuttavia, comunemente si ritiene che la
riforma del Titolo V abbia inciso in senso migliorativo e ampliativo dell'autonomia regionale
rispetto all'omologa potestà concorrente contemplata nell'originario art. 117.1 Cost., in
conformità con la ratio e lo spirito complessivo che ha animato il legislatore di revisione. In
queste materie, dunque, la distinzione della competenza normativa fra Stato e regioni riguarda
esclusivamente il modo di disciplina poiché, sul medesimo oggetto, intervengono tanto il
legislatore statale, attraverso l'individuazione dei principi fondamentali della materia, quanto il
legislatore regionale, che implementa questi principi attraverso le norme di dettaglio che
meglio si adattano alle peculiarità del territorio regionale. Pertanto, i principi rappresentano
una sorta di perimetro comune a tutte le regioni entro il quale le stesse sono chiamate a
legiferare eventualmente differenziandosi tra loro. La competenza statale in materia di principi
fondamentali assolve a una funzione unificante che impone una sorta di comune denominatore
alle regioni: a proposito della legge statale se ne discorre, in gergo, anche come di una legge-
cornice.
Nella misura in cui le leggi cornice, attraverso la fissazione dei principi fondamentali,
condizionano il contenuto delle norme regionali di dettaglio in quella stessa materia, sulla scia
delle più accreditate teorizzazioni sulle fonti del diritto (Crisafulli 1960), si parla di un concorso
vincolato tra fonti: una sorta di rapporto gerarchico articolato, però, non sul grado, sul livello
formale della fonte (trattandosi, in entrambi i casi, di fonti di rango legislativo) bensì sul
contenuto prescrittivo delle norme. La legge statale e la legge regionale sono entrambe
competenti a disciplinare la stessa materia ma in modo diverso:
questa diversità, tuttavia, implica un condizionamento logico, imposto dalla stessa Costituzione
all'art. 117.3, dei principi fondamentali rispetto alle norme di dettaglio.
La questione centrale che riguarda la competenza concorrente è, di conseguenza, cosa sia un
principio fondamentale: la Costituzione si limita a enunciare il concetto ma non a delimitarne
l'ambito in maniera articolata.
In assenza di definizioni, è stata la Corte costituzionale a chiarire la portata e l'estensione dei
principi fondamentali: ma la giurisprudenza costituzionale non ha avuto sempre uno sviluppo
coerente, contribuendo, così, a complicare lo statuto complessivo della potestà concorrente e a
considerarla uno dei «piedi d'argilla su cui il costituente del '48 ha edificato il sistema regionale
italiano».
Sulle norme principio, la Corte costituzionale ha fornito numerose indicazioni. Innanzitutto, non
un intero testo legislativo statale, per il solo fatto di intervenire in una materia di competenza
concorrente è, di per sé, una norma principio; pertanto la legge regionale di dettaglio ha
l'obbligo di implementare soltanto quei «criteri generali ai quali si ispira la disciplina statale in
una determinata materia e che di questa e dei relativi istituti sono espressione caratteristica»
(sent. 83/1982).
Va, poi, disatteso il criterio della «autoqualificazione di una qualunque norma statale come
principio fondamentale: «la qualificazione di una legge o di alcune sue disposizioni come
principi fondamentali della legislazione statale o come norme fondamentali di riforma
economico-sociale non può discendere soltanto da apodittiche affermazioni del legislatore
stesso, ma deve avere una puntuale rispondenza nella natura effettiva delle disposizioni
interessate, quale si desume dal loro contenuto normativo, dal loro oggetto, dal loro scopo e
dalla loro incidenza nei confronti di altre norme dell'ordinamento o dei rapporti sociali
disciplinati» (sent. 85/1990).
Al di là di queste affermazioni relative a problemi piuttosto circoscritti, è utile ricordare quella
giurisprudenza della Corte, già prima della revisione del 2001, che ha individuato alcuni criteri
sostanziali e strutturali di cui le norme principio devono dotarsi; decisione emblematica di
questa giurisprudenza è la sent. n. 177/1988. Sotto il profilo contenutistico-sostanziale, si
considerano principi fondamentali quelle «norme espressive di scelte politico-legislative
fondamentali o, quantomeno, di criteri o di modalità generali tali da costituire un saldo punto
di riferimento in grado di orientare l'esercizio del potere legislativo regionale». Dal punto di
vista strutturale, la Corte enuncia, in negativo, cosa non è principio fondamentale: «statuizioni
al più basso grado di astrattezza, che, per il loro carattere di estremo dettaglio, non solo sono
insuscettibili di sviluppi o di svolgimenti ulteriori, ma richiedono, ai fini della loro concreta
applicazione, soltanto un'attività di materiale esecuzione». Se ne deduce, e contrario, che i
principi fondamentali sono norme dotate di astrattezza e suscettibili di ulteriori svolgimenti da
parte della regione. In altre decisioni, la struttura dei principi riguarda per lo più l'idea secondo
cui essi debbono fissare criteri e obiettivi che, poi, il legislatore regionale deve tradurre in
strumenti concreti attraverso le norme di dettaglio (sentt. 390/2004 e 181/2006).
Tuttavia, la Corte stessa ha, di frequente, relativizzato queste affermazioni. A volte, ha
sostenuto che il concetto di principio fondamentale «...non ha e non può avere caratteri di
rigidità e di universalità, perché le "materie" hanno diversi livelli di definizione che possono
mutare nel tempo» (sent. 50/2005). Dunque, il legislatore statale può modulare il grado di
generalità dei principi fondamentali. Inoltre, alcune materie, per la loro intrinseca complessità e
delicatezza, richiedono una disciplina unitaria e compatta che, pertanto, induce il legislatore
statale a dettare principi più analitici: queste affermazioni della Corte si riferiscono a materie
come la «tutela della salute» o la «ricerca scientifica» (sent. 270/2005) o, ancora,
all'«ordinamento della comunicazione» (sent. 336/2005).
In definitiva, si può dire che la Corte ha enucleato solo criteri di massima per identificare i
caratteri di una norma principio: criteri che possono piegarsi alle esigenze dei casi concreti.
Un problema ulteriore relativo alla potestà concorrente riguarda la fonte nella quale si trovano
consacrati i principi fondamentali. Astrattamente è possibile che: a) i principi fondamentali
siano previsti in leggi cornice approvate espressamente per una specifica materia concorrente;
b) i principi fondamentali si possano dedurre in via interpretativa da qualunque legge statale
anche non pertinente una particolare materia di potestà concorrente.
Soprattutto la prima opzione implica conseguenze piuttosto rilevanti: infatti, qualora mancasse
una legge cornice ad hoc e questa fosse ritenuta necessaria per approvare le norme di
dettaglio, le regioni potrebbero vedere paralizzata la propria competenza legislativa,
indefinitamente. In un primo momento, in effetti, la legge n. 62/1953 (nota anche come legge
Scelba), all'art. 9, aveva subordinato l'esercizio della potestà legislativa regionale di dettaglio
all'approvazione delle leggi cornice statali; tuttavia, la disposizione è stata modificata dall'art.
17, comma 3, della l. n. 271/1970 che ha disposto: «l'emanazione di norme legislative da parte
delle regioni nelle materie stabilite dall'articolo 117 della Costituzione si svolge nei limiti dei
principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole
materie o quali si desumono dalle leggi vigenti». La disposizione è leggermente cambiata, ma
senza significativi mutamenti sostanziali, per effetto dell'art. 1, comma 3, della l. n. 131 del
2003: prescrivendo che le regioni esercitino la potestà legislativa «nell'ambito dei principi
fondamentali espressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi
statali vigenti», la norma in esame sembra solo esprimere una sorta di favor per le leggi cornice
ad hoc e la determinazione espressa dei principi. Quindi, le due tecniche (legge cornice
espressa o enucleazione in via interpretativa dei principi) sono state considerate fungibili:
anche la giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma del 2001 ha continuato ad
adottare questa soluzione (sentt. 282/2002; 196/2003) facendo leva sulla necessità, soprattutto
in fase transitoria, che la legislazione regionale si svolga coerentemente con i principi. C'è da
dire che, diversamente, la Corte avrebbe dovuto ammettere la cosiddetta cedevolezza
rovesciata, ossia la possibilità che le regioni potessero porre ex se i principi fondamentali in
attesa della disciplina statale: soluzione improponibile poiché avrebbe sconfessato il ruolo
unificante dei principi fondamentali e snaturato la funzione della competenza concorrente.

Le norme statali di dettaglio cedevoli


Si è detto innanzi che, attraverso la determinazione dei principi fondamentali, lo Stato assolve a una
funzione molto importante: quella di dettare, per le materie di potestà concorrente, una disciplina
minima uniforme per le regioni che, poi, avranno il compito di implementarla attraverso le norme di
dettaglio. Quando, allora, lo Stato approva delle norme di principio in una materia concorrente ha
interesse a che queste norme siano attuate dalle regioni: il rischio, infatti, è che dei principi
fondamentali, dotati di un certo grado di genericità e astrattezza, siano esposti alla concreta
ineffettività a causa dell'inerzia regionale. Il problema è il medesimo anche nel caso in cui intervengano
nuovi principi fondamentali in materie di potestà concorrente già disciplinate, anche in dettaglio, dalle
regioni.
Per evitare questo problema o tentare di arginarne le conseguenze, la già citata l. 62/53, all'art. 10, ha
previsto che «le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali (...) abrogano le norme
regionali che siano in contrasto con esse». Di conseguenza, quando i principi fondamentali presentano
un tale grado di determinatezza da contrastare in modo puntuale con la pregressa disciplina regionale
essi dispiegano una capacità abrogativa diretta.
Ma cosa accade quando i principi non sono sufficientemente determinati da risultare autoapplicativi?
Sempre l'art. 10 1. n. 62/1953, al comma 2, ha disposto: «i Consigli regionali dovranno portare alle leggi
regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni». Di fatto, però, l'assenza di
sanzioni in caso di mancato rispetto del termine di 90 giorni ha reso ineffettiva la disposizione. Per
questa ragione, lo Stato, per evitare che l'inerzia regionale per l'approvazione delle norme di dettaglio
vanificasse la propria potestà di principio, ha dato vita a una prassi: quella di corredare la legislazione di
principio con norme di dettaglio. È evidente che questa è una prassi distorsiva dell'ordine delle
competenze, nella misura in cui invade la competenza regionale. Tuttavia, quando, molto prima della
riforma del 2001 , le regioni si sono lamentate per l'illegittima compressione della propria competenza
normativa di dettaglio, la Corte ha risposto attraverso la creazione della categoria delle norme statali
cedevoli di dettaglio. La decisione in cui questa impostazione (palesemente centralista) emerge
nitidamente è la n. 214/1985. In essa si afferma, in sostanza, che il legislatore statale, nell'esercizio della
propria competenza legislativa, può adottare anche norme di dettaglio che, però, «sono efficaci soltanto
per il tempo in cui la regione non abbia provveduto ad adeguare la normativa di sua competenza ai
nuovi principi dettati dal Parlamento». Quindi, l'unico
rimedio che la regione conserva per ovviare alla temporanea compressione della sua competenza
normativa è dettare al più presto una disciplina sostitutiva di quella statale, rispetto alla quale
quest'ultima risulterà cedevole (ovviamente solo per la parte di dettaglio). Se allo Stato non fosse
consentito normare anche in dettaglio, secondo la Corte «si perverrebbe all'assurdo risultato che la
preesistente legislazione regionale, in difetto del necessario adeguamento a quella statale successiva,
vanificherebbe in realtà quest'ultima, i cui (nuovi) principi resterebbero senza effettiva applicazione,
sicché risulterebbe compromessa l'intera regolamentazione della materia alla quale essi si riferiscono».
Dopo la riforma del Titolo V , molto si è discusso della perdurante legittimità delle norme statali
cedevoli. In dottrina, due interpretazioni si sono fronteggiate: quella che sottolinea la cesura che la
riforma del 2001 ha inteso creare col sistema preesistente e quella “continuista”. La prima delle due fa
leva sulla circostanza che la potestà legislativa statale non è più generale: essendo stato invertito lo
schema di riparto delle competenze normative, in forza della clausola di residualità di cui al comma 4
dell'art. 117, la legge statale necessiterebbe di un preciso titolo di intervento. Inoltre, l'art. 117, comma
3, appare oggi formulato in modo da prevedere un riparto di competenze reciprocamente esclusivo, che
impedirebbe "straripamenti” di competenza, in un senso e nell'altro. Di contro, la lettura continuista,
che ha ritenuto plausibile la prassi delle norme statali cedevoli, ha sostenuto due argomenti decisivi:
a) l'assenza di strumenti volti a obbligare le regioni ad adeguare la propria legislazione ai principi
fondamentali espressi nelle leggi cornice; b) il silenzio della legge costituzionale 3/2001 che, dunque,
varrebbe come implicita conferma della prassi normativa precedentemente sviluppatasi e avallata dalla
giurisprudenza costituzionale.
La giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma del Titolo V si è mostrata ambivalente. Accanto
ad affermazioni che sembravano chiudere alla possibilità della cedevolezza, come quelle formulate nella
sentenza 282/2002 («la nuova formulazione dell'art. 117, terzo comma, rispetto a quella previgente
dell'art. 117, primo comma, esprime l'intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a
legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi
fondamentali della disciplina») o nella sentenza 303/2003 (nella quale si legge che «l'inversione della
tecnica di riparto delle potestà legislative e l'enumerazione tassativa delle competenze dello Stato
dovrebbe portare a escludere la possibilità di dettare norme suppletive statali in materie di legislazione
concorrente»), la Corte sembra, oggi, abbastanza attestata su posizioni continuiste. Già nella appena
citata sent. 303/2003, ad esempio, la Corte ritiene legittime le norme statali volte a rendere operative le
funzioni amministrative attratte in sussidiarietà sostenendo che una disciplina suppletiva «determina
una temporanea compressione della competenza legislativa regionale», la quale però «deve ritenersi
non irragionevole, finalizzata com'è ad assicurare l'immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo
Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della
ineffettività».
Così la Corte ha legittimato le norme statali cedevoli volte a garantire la continuità di funzioni e di
servizi pubblici strumentali alla soddisfazione di posizioni soggettive e interessi rilevanti che non
possono essere sacrificati (sentt. 50 e 384/2005); quelle che intervengono su oggetti caratterizzati da
inestricabili intrecci di competenze concorrenti ed esclusive statali (sent. 196/2004, sul condono edilizio
straordinario); quelle che si dimostrano funzionali alla garanzia dei diritti fondamentali della persona
(sent. 13/2004). Inoltre, talvolta la Corte, anziché annullare norme statali in materie regionali, le ha
dichiarate illegittime soltanto nella parte in cui non avevano «carattere suppletivo e cedevole rispetto
ad una divergente normativa regionale che abbia già diversamente disposto o che disponga per
l'avvenire» (sent. 401/2007, relativa a disposizioni del Codice dei contratti pubblici interferenti che
toccavano la materia residuale della organizzazione amministrativa della regione); oppure le ha
giustificate in quanto funzionali allo scopo di «ovviare all'inattività regionale» e non preclusive di una
diversa regolazione locale (sent. 275/2012, in materia di formazione professionale).
A questa giurisprudenza va aggiunto quanto contemplato dal legislatore nella I. n. 11 del 2005 così come
modificata dalla l. n. 234/2012 che, in forza dell'art. 117.5 Cost., consente l'adozione di norme
suppletive e cedevoli in esecuzione di diritto europeo non autoapplicativo, con efficacia differita allo
scadere dell'obbligo comunitario.
Pertanto, se da un lato è lecito affermare che, in giurisprudenza, sussiste una regola di fondo volta a
preservare un più netto riparto di competenze in materia concorrente dopo la riforma del Titolo V, non
si può tacere della posizione ambivalente della Corte che, appena può, evita di affrontare «la complessa
tematica della generale ammissibilità, dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, delle
norme statali "cedevoli” in ambiti devoluti alla potestà legislativa regionale» (sent. 205/2011). In
definitiva, la Corte decide i casi: è questa la ragione per cui a una regola tendenziale corrisponde una
certa quantità di eccezioni e di relativizzazioni che, di fatto, ne neutralizzano la portata.

LE MATERIE RESIDUALI
L'art. 117.4 Cost. è stato a lungo considerato una delle più innovative disposizioni introdotte
dalla legge cost: 3/2001) Infatti, attraverso un capovolgimento radicale di prospettiva, il
legislatore di revisione ha invertito la tecnica di riparto delle competenze rispetto a quella del
precedente art. 117 Cost., attribuendo alle regioni «ogni materia non espressamente riservata
alla legislazione dello Stato».
Anche se questa formula – che ricorda analoghe disposizioni presenti in alcuni sistemi federali –
lascia apparentemente uno spazio molto ampio alla competenza regionale, tuttavia un'attenta
considerazione delle riserve statali, come sopra esposte, porta a conclusioni alquanto diverse.
In primo luogo, infatti, sono riservati allo Stato l'intero ordinamento civile e penale, l'intero
sistema dei rimedi giurisdizionali e le connesse regole processuali, nonché l'ordinamento di
tutte le magistrature. Inoltre, la presenza delle materie trasversali e la possibilità che, a certe
condizioni, operi il principio di sussidiarietà rappresentano altre due modalità di intervento
dello Stato in qualunque materia. Da ciò emerge non solo la scarsità «numerica» delle materie
residuali, ma anche la difficoltà di definirle in modo rigido.
Proprio per questa ragione, sin da quando è apparsa, la competenza di cui all'art. 117.4 Cost. è
stata qualificata con l'aggettivo «residuale» e non «esclusiva» al pari di quella statale prevista
nell'art. 117.2: la sua estensione è il frutto di un'operazione di sottrazione rispetto a quanto
previsto negli elenchi dei commi precedenti, al punto tale che si è parlato di «tecnica del
carciofo». Inoltre, per individuare le materie di competenza residuale, è indispensabile tenere
conto di tutte le altre riserve previste in Costituzione, non solo di quelle contemplate nell'art.
117: si pensi, ad esempio, alle riserve che l'art. 123 Cost. riconosce in capo agli statuti regionali
ordinari in tema di «forma di governo» e di «principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento», che non possono essere disciplinati con legge ordinaria della regione.
Dunque, le materie di competenza residuale regionale sono difficilmente definibili. Ci sono, in
verità, due materie - ossia la polizia amministrativa locale e l'istruzione e formazione
professionale - che il testo costituzionale espressamente esclude dal novero delle competenze,
rispettivamente, esclusive: art. 117.2, lett. b) e concorrenti: art. 117.3, laddove attribuisce alla
competenza concorrente la materia «istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e
con esclusione dell'istruzione e della formazione professionale»): si tratta, pertanto, delle
uniche due etichette materiali «nominate», appartenenti alla competenza residuale. Tuttavia,
poiché manca un elenco che enumeri le materie, bisogna dotarsi di adeguati strumenti
interpretativi per individuarle.
Il consueto ruolo decisivo e delicato è stato svolto, in tal senso, dalla Corte
costituzionale che, giudicando le controversie relative alle competenze legisla-
tive, non solo ha avuto il compito di identificare le singole etichette materiali
ma anche di «riempirle» di contenuti, tracciando i confini tra i diversi ambiti competenziali. La
Corte si è servita, per far ciò, di vari criteri, ma un ruolo di primo piano spetta al criterio storico-
normativo, ossia quel
criterio che si fonda sull'attribuzione di funzioni da parte della legislazione
ordinaria, anche precedente alla riforma: l'uso di una disciplina preesistente
è indispensabile anche per dar vita a quella «non regressione» rispetto alle
funzioni precedentemente attribuite alle regioni.
Nella pregressa esperienza regionalista, infatti, le funzioni erano state trasferite tramite decreti
legislativi: l'ultimo, in ordine di tempo, trovava il proprio fondamento nella legge 59/1997 (c.d.
legge Bassanini). Pertanto, di questi decreti e delle «etichettes materiali in essi previste ha
fatto largo uso la Corte nell'individuazione degli ambiti di competenza residuale. Ovviamente,
questo criterio non può essere adoperato per tutto: ci sono delle formule nel nuovo testo
dell'art. 117 – come «governo del territorio» – che non trovano un riscontro nella pregressa
tradizione normativa, mentre alcune materie storiche – si pensi ai «lavori pubblici» – sono
scomparse dagli elenchi: in questi casi, lo sforzo ricostruttivo della Corte è stato maggiore.
La Corte, inoltre, sin dai primordi della sua giurisprudenza post-riforma ha tenuto a sottolineare
che non necessariamente tutto ciò che non è scritto negli elenchi dell'art. 117 Cost. sia, per ciò
solo, di competenza residuale: si veda la sentenza 370/2003, in cui si chiarisce che «in via
generale, occorre inoltre affermare l'impossibilità di ricondurre un determinato oggetto di
disciplina normativa all'ambito di applicazione affidato alla legislazione residuale delle regioni ai
sensi del comma quarto del medesimo art. 117, per il solo fatto che tale oggetto non sia
immediatamente riferibile a una delle materie elencate nei commi secondo e terzo dell'art. 117
della Costituzione». Questo equivale, in sostanza, a dire che le regioni non possono creare dal
nulla una materia e riempirla di contenuti (si vedano, ad esempio, le sentt. 166 e 255/2004, che
disconoscono l'esistenza delle materie qualificate, rispettivamente, come rapporto tra uomo e
specie animali e spettacoli).
Ma allora in che modo la Corte decide i casi, individua gli ambiti materiali soprattutto, specifica
i contenuti degli stessi? Alcuni esempi possono aiutare alla comprensione del problema.
La materia della caccia è stata da molti additata come un possibile ambito di competenza
regionale residuale, dato che era annoverata tra le materie di competenza concorrente nella
precedente formulazione dell'art. 117.1 Cost.
Ma quali funzioni, in concreto, possono essere esercitate in virtù di questa competenza?
Questo è stato deciso di volta in volta dalla Corte in relazione ai singoli casi. Per cui si è detto
che rientra nella materia della caccia la possibilità per la regione di disporre che l'annotazione
dei capi abbattuti sul tesserino venatorio avvenga al termine della giornata di caccia anziché
dopo ogni abbattimento (sent. 332/2006); però, la competenza residuale in materia di caccia
cede il passo di fronte alla competenza statale in materia di tutela dell'ambiente, quando si
tratta di delimitare l'arco temporale del prelievo venatorio. In numerose decisioni, infatti, la
Corte ha detto che il lasso di tempo entro cui è possibile effettuare la caccia non rientra nella
competenza residuale delle regioni in materia - appunto - di caccia ma nella competenza
esclusiva statale in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema (art. 117.2, lett. s) poiché
lo Stato realizza il compito, attraverso questa funzione, di individuare degli standard minimi di
tutela della fauna (si vedano le sentt. 311/2003; 391/2005; 441/2006 o 20/2012). È ben
possibile che le norme statali riguardanti il prelievo venatorio siano integrate da norme
regionali: ma la Corte ha chiarito che questa integrazione può andare «esclusivamente nella
direzione dell'innalzamento del livello di tutela» (sentt. 278 e 116/2012; 139/2017).
Altro esempio si può trarre dalla materia del commercio, anch'essa considerata ambito di
competenza residuale, in linea di massima. In virtù di questo titolo competenziale è possibile
che la regione, ad esempio, disciplini l'orario degli esercizi commerciali (sentt. 288 e 247/2010;
sent. 350/2008; ord. 199/2006): tuttavia, in materia di orari degli esercizi commerciali, l'art. 31,
comma 1, del d.l. n. 201 del 2011 (convertito nella 1. 214/2011) ha stabilito che le attività
commerciali si svolgano senza limiti e prescrizioni come il rispetto degli orari di apertura e di
chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva e quello della mezza giornata di chiusura
infrasettimanale dell'esercizio. Quindi le regioni, in forza di questa disciplina statale posta a
tutela della concorrenza, hanno subito un ridimensionamento ulteriore della propria potestà
normativa: lo confermano alcune decisioni come le sentt. 299/2012; 239/2016 e 98/2017 che
sottolineano come, attraverso l'esonero degli esercizi commerciali dall'obbligo di rispettare gli
orari e i giorni di chiusura, la disciplina statale abbia valorizzato il principio di liberalizzazione.
In talune decisioni, la Corte ha ammesso la possibilità che la regione, in forza della competenza
residuale in materia di commercio, possa dettare delle discipline che sortiscano effetti a favore
della concorrenza, ma «sempre che tali effetti siano marginali o indiretti e non siano in
contrasto con gli obiettivi delle norme statali che disciplinano il mercato, tutelano e
promuovono la concorrenza» (secondo quanto stabilito dalla Corte, con sent. 430/2007):
infatti, le regioni non possono far valere la propria competenza in materia di commercio per
dettare una disciplina che «produca, in concreto, effetti che ostacolino la concorrenza,
introducendo nuovi o ulteriori limiti o barriere all'accesso al mercato e alla libera esplicazione
della capacità imprenditoriale» (sent. 150/2011), ambito che, dunque, resta affidato allo Stato
in forza della competenza in materia di tutela della concorrenza.
Un simile ragionamento non riguarda solo le materie residuali «dedotte dalla Corte: esso si
riscontra anche per le materie residuali «nominate», cioè quelle già in qualche modo attribuite,
in Costituzione, alla competenza residuale. È il caso della formazione professionale: la Corte ha
specificato che rientra nella competenza residuale la disciplina della formazione esterna alle
aziende, mentre quella interna ricade sicuramente nella competenza concorrente in materia di
professioni (affermazione contenuta in varie sentenze, ad esempio nelle sentt. 406 e 425/2006;
250/2009 e 269/2010).
Molte altre sono le competenze riconosciute in via residuale alle regioni: esse rientrano in
materie come quella denominata fiere e mercati (sent. 1/2004), turismo (sent. 90/2006),
agricoltura e foreste (sent. 12/2004), pesca (sent. 81/2007), trasporti pubblici locali (sent.
222/2005), politiche sociali (sent. 116/2008). Interessante è l'insieme di competenze ricadenti
nella materia che la Corte qualifica come organizzazione amministrativa della regione: vi
rientrano, infatti, la disciplina riguardante l'accesso agli impieghi presso le regioni e gli altri enti
regionali (sent. 380/2004), la possibilità di prevedere la decadenza automatica delle nomine
regionali di dirigenti «apicali» al momento dell'insediamento dei nuovi organi rappresentativi
della regione (sent. 233/2006), la disciplina delle comunità montane (sent. 244/2005).
Tuttavia, queste competenze hanno pur sempre natura «residuale» e non esclusiva. La
residualità delle materie di competenza regionale è tale non solo perché la sua individuazione
richiede un'operazione di sottrazione, ma anche perché essa non configura una vera e propria
riserva di competenza in senso forte, tale da salvaguardarla da possibili interventi normativi
statali.
Come si vedrà a breve, infatti, da un lato, è sempre possibile che una competenza residuale sia
sottoposta al meccanismo dell'attrazione in sussidiarietà da parte dello Stato, come previsto sin
dalla fondamentale sentenza 303/2003: questa possibilità è stata riconosciuta esplicitamente
dalla Corte nella sentenza 242/2005, ma si intravvedeva già nella sentenza 6/2004.
Dall'altro, come si è detto poc'anzi, lo Stato può sempre interferire nelle materie di competenza
regionale poiché vanta, in forza dell'art. 117.2 Cost., numerosi titoli di intervento «trasversali»,
mediante i quali può disciplinare materie che, almeno in parte, presentano punti di contatto
con ambiti di competenza regionale. Si tratta di competenze caratterizzate da una particolare
struttura «teleologica»: esse, infatti, tendono alla realizzazione di un fine, di uno scopo che,
come tale, va perseguito a prescindere dal riparto di competenza. Così facendo, però, la
legislazione statale esclude la possibilità di un intervento regionale in materia, vanificando
l'eventuale competenza residuale che pure la regione avrebbe potuto far valere. Ad esempio, in
virtù del titolo trasversale rappresentato dalla tutela della concorrenza, la disciplina legislativa
statale può incidere (e prevalere) sulla materia di competenza residuale dei trasporti pubblici
locali (sentt. 29 e 80/2006; 452/2007), sulla materia dell'agricoltura e del commercio (sent.
106/2006) e su un fascio complessivo di materie nell'ambito della disciplina di impianti
alimentati da fonti rinnovabili (sent. 88/2009). Analogo discorso può ripersi, tuttavia, in
relazione ad altre materie qualificate come «trasversali» (come ad esempio i «livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali di cui all'art. 117.2, lett. m). Ci sono poi,
come si è visto, i fenomeni di concorrenza e interferenza di competenze che la Corte spesso
risolve col criterio della prevalenza, avvantaggiando competenze statali e rendendo recessive
competenze residuali.
Anche se l'assegnazione alle regioni della competenza residuale non ha determinato un
ampliamento delle competenze regionali così rilevante come emergeva dalle intenzioni che
avevano ispirato la revisione e dagli auspici di una parte della dottrina, va invece osservato che
essa ha prodotto un notevole cambiamento sotto un diverso profilo. Prima della riforma del
2001 le regioni avevano competenza solo per specifiche materie, e lo Stato competenza
generale. Nel contenzioso, le regioni dovevano o (nel difendere le loro leggi) dimostrare di
essere rimaste nelle loro materie o (nel censurare le leggi statali) dimostrare l'invasione della
propria competenza, mentre ora esse devono - negli stessi casi – dimostrare di non avere
invaso la competenza statale o dimostrare che non vi è un legittimo titolo di intervento statale.
È cioè mutata la tecnica argomentativa dei rispettivi sconfinamenti di competenza, attraverso
una significativa inversione dell'«onere della prova».

L’ASSUNZIONE STATALE DEL POTERE LEGISLATIVO IN


SUSSIDIARIETÀ
La c.d. CHIAMATA IN SUSSIDIARIETÀ è un istituto di elaborazione giurisprudenziale che
concorre a definire il riparto delle competenze legislative e amministrative tra Stato e regioni,
affiancandosi alle regole contenute negli artt. 117 e 118 Cost. È stata infatti la Corte
costituzionale a teorizzare l'istituto e a precisarne i presupposti, il contenuto e i limiti di
applicazione a partire dalla sentenza fondante 303/2003, alla quale è seguita una
giurisprudenza cospicua nei numeri ma non sempre lineare negli sviluppi.
Quali sono le regole che governano la chiamata in sussidiarietà? L'istituto consente che,
nell'ipotesi di esigenze unitarie non frazionabili, le funzioni amministrative deputate alla loro
cura vengano conferite al livello di governo statale, poiché ritenuto idoneo a tutelare gli
interessi di dimensione nazionale; ma, in forza del principio di legalità (il quale impone che ogni
funzione amministrativa trovi fondamento nella legge), spetta allo Stato anche la competenza
legislativa a disciplinare quelle funzioni amministrative così attratte al potere centrale,
dettandone dunque organizzazione e regole di esercizio. Infine, l'attrazione delle funzioni in
favore del potere centrale è legittima al ricorrere di due condizioni: un apprezzamento
dell'interesse unitario ragionevole e proporzionato; inoltre, un accordo stipulato con la regione
interessata che, in nome del principio di leale collaborazione, coinvolga l'autonomia territoriale
nelle decisioni sulle funzioni da attrarre al centro (ad es., sentt. 303/2003; 6/2004;285/2005;
214/2006; 374/2007; 166/2008; 76/2009; 215/2010 e 79/2011; 163/2012; 179/2012; 7/2016;
61/2018; 74/2018).
Riassumendo, la regola sul riparto di competenza dettata dalla chiamata in sussidiarietà può
essere così riassunta e schematizzata:
a) primo passaggio: esigenze unitarie infrazionabili – funzione amministrativa conferita al livello
statale;
b) secondo passaggio: principio di legalità - competenza legislativa di disciplina della predetta
funzione amministrativa assegnata anch'essa allo Stato (la funzione amministrativa chiama con
sé, al livello statale, quella legislativa);
c) terzo passaggio: condizioni di legittimità, ovvero apprezzamento delle esigenze unitarie
ragionevole e proporzionato, nonché accordo con la regione interessata.
La giurisprudenza successiva alla sentenza 303/2003 ha precisato ulteriormente i contenuti
della chiamata in sussidiarietà, modificandone in parte le regole. In particolare: a) quanto
all'ambito di applicazione, l'attrazione al centro di funzioni amministrative e legislative può
incidere su materie di competenza tanto concorrente che residuale (ad es., sent. 6/2004;
163/2012); b) quanto alla controparte dello Stato nelle procedure collaborative, essa sarà la
Conferenza Stato-regioni nell'ipotesi di interventi statali che limitino l'autonomia di tutte le
regioni (si pensi, ad esempio, all'avocazione di poteri di indirizzo o programmazione, di riparto
di risorse finanziarie: ad es., sentt. 213/2006 e 166/2008; 61/2018); oppure la singola regione,
nell'ipotesi di interventi di amministrazione attiva che tocchino interessi circoscrivibili a una o
più regioni (si pensi, ad es., proprio alla localizzazione di un'infrastruttura: sentt. 6/2004 e
165/2007; oppure alla approvazione del relativo progetto: 7/2016); c) quanto agli strumenti
con cui si concretizza la leale collaborazione, potrà trovare legittima previsione a seconda del
concreto rapporto fra interesse nazionale e interessi locali – non solo l'intesa (come pareva
affermare la sent. 303/2003) ma anche il parere o la semplice consultazione (ad es., sentt.
285/2005 e 214/2006); d) quanto ai presupposti di attivazione, mentre la sentenza 303/2003
demandava al confronto tra Stato e regioni l'individuazione degli interessi unitari
necessariamente assegnati alla cura dello Stato (nel caso concreto: determinare le
infrastrutture considerate strategiche per il paese), le pronunce successive riconoscono al
legislatore statale il potere di selezionare direttamente le esigenze unitarie non frazionabili e le
relative funzioni amministrative da avocare, salvo un controllo di ragionevolezza e
proporzionalità da parte dello stesso giudice costituzionale (a partire da sent. 6/2004) (Chessa
2004); e) quanto alla reversibilità della chiamata in sussidiarietà, il giudice costituzionale ha
stabilito che ciò è possibile con decisione unilaterale da parte dello Stato (sent. 79/2011); f) in
nome della chiamata in sussidiarietà, la Corte costituzionale ha ammesso poi interventi statali
che non attraggono funzioni amministrative al centro, ma dettano regole rivolte direttamente
all'amministrazione regionale (sentt: 88 e 165/2007); g) infine, mentre nella sentenza 303/2003
si imponeva un intervento statale con legge o atto legislativo, escludendo dunque le fonti
regolamentari in seguito si è ammesso, in nome della chiamata in sussidiarietà , che fonti
secondarie statali intervengano in materie altrimenti di competenza regionale (ancora sentt. 88
e 165/2007).
In conclusione, con la chiamata in sussidiarietà la Corte costituzionale ha teorizzato
espressamente una deroga al riparto delle attribuzioni fissato in Costituzione: l'intento
dichiarato dal giudice costituzionale era quello di assicurare la tutela di esigenze unitarie anche
al di là dei titoli di competenza statale fissati dall'art. 117.2 e 3 Cost. (non a caso, la sentenza
303/2003 muoveva dalla necessità di individuare il riparto di competenze in un settore come
quello dei lavori pubblici - e delle infrastrutture strategiche in particolare - non ricompreso tra
le materie testualmente previste in Costituzione); lo strumento individuato è un meccanismo
dinamico di riparto delle attribuzioni che, muovendo dal principio di sussidiarietà delle funzioni
amministrative ex art. 118.1 Cost., giunge a riconoscere, in capo allo Stato, competenze
legislative non previste nel testo dell'art. 117 Cost.; i principi originariamente valorizzati erano
quelli di sussidiarietà e leale collaborazione, strumentali a un dialogo procedimentale tra Stato
e regioni per giungere alla tutela delle esigenze unitarie in gioco (sentenza 303/2003; il
risultato, alla luce della giurisprudenza successiva alla sentenza 303/2003, è tuttavia
un'obiettiva compressione dell'autonomia regionale, sia sul versante amministrativo che
legislativo; dal momento che la legge statale, in nome della chiamata in sussidiarietà, può
variamente incunearsi nella sfera di competenza regionale, non solo per attrarre al centro
determinare funzioni, ma anche per condizionare direttamente l'attività normativa e
amministrativa della regione.

Come opera la chiamata in sussidiarietà: il caso della «legge obiettivo» (sent. 303/2003)
Questo schema teorico può essere compreso con un esempio, e analizziamo proprio il caso affrontato
nella sentenza 303/2003: oggetto dello scrutinio di costituzionalità era una legge statale di disciplina dei
procedimenti amministrativi necessari alla realizzazione di grandi infrastrutture (c.d. «legge obiettivo»
443/2001 e provvedimenti collegati); a fronte dell'impugnazione da parte di diverse regioni, che
lamentavano una violazione delle proprie competenze nella materia considerata residuale dei «avori
pubblici», ecco i passaggi argomentativi compiuti dal giudice costituzionale nell'applicare la chiamata in
sussidiarietà: a) in primo luogo, la mancata menzione dei «lavori pubblici» tra le materie di competenza
esclusiva (art. 117.2 Cost.) o concorrente (art. 117.3 Cost.) non consente di dedurre automaticamente la
sussistenza di una materia di competenza residuale: al contrario, a seconda della rilevanza dell'opera
pubblica in gioco potrà individuarsi il livello degli interessi coinvolti e, di conseguenza, il livello di
governo competente (comunale, provinciale regionale, statale) nel rispetto del principio di sussidiarietà
verticale enunciato dall'art. 118.1 Cost.; b) ma se l'infrastruttura da realizzare soddisfa interessi di
dimensione nazionale, e le relative funzioni amministrative devono dunque spettare allo Stato, al potere
centrale deve essere parimenti riconosciuta la competenza legislativa - esclusa quella meramente
regolamentare - a regolare quelle specifiche funzioni (essendo assurdo ipotizzare, di contro, un
intervento della legge regionale nella disciplina di funzioni statali); c) questa competenza legislativa
spetta allo Stato a prescindere dalle materie sulle quali essa incide, quand'anche siano di competenza
regionale ai sensi dell'art. 117 Cost. (nel caso specifico, ad esempio, la legge statale riguardava la
materia concorrente del «governo del territorio» senza limitarsi a dettare «principi fondamentali» per la
legislazione regionale);
d) la tutela degli interessi unitari deve però prevedere un apprezzamento, da parte del legislatore
statale, ragionevole e proporzionato: ciò significa che, nel caso, deve essere valutata con particolare
rigore la dimensione nazionale dell'infrastruttura da realizzare (soddisfa davvero interessi che
travalicano la dimensione regionale?); inoltre, le funzioni amministrative attratte al centro devono
limitarsi allo stretto indispensabile in vista della realizzazione dell'opera (e quindi, ad esempio,
approvazione del progetto, definizione delle modalità di finanziamento, aggiudicazione); e) infine, in
nome del principio di leale collaborazione, lo Stato e le regioni interessate devono trovare un accordo in
ordine all'individuazione delle opere considerate di interesse nazionale e alla loro localizzazione sul
territorio.

Chiamata in sussidiarietà, konkurrierende Gesetzgebung, Supremacy Clause: ordinamenti


diversi, problemi comuni, risposte simili
La Corte costituzionale, nel «creare» la chiamata in sussidiarietà, ha giustificato la propria decisione
richiamando assetti istituzionali e meccanismi di riparto delle competenze propri di due Stati federali
come la Germania e gli USA. Si legge infatti nella sentenza 303/2003 che «pure in assetti costituzionali
fortemente pervasi da pluralismo istituzionale» come quello tedesco e americano vi sono istituti
giuridici che, a tutela delle istanze unitarie, rendono flessibile il riparto delle competenze: ovvero,
rispettivamente, la konkurrierende Gesetzgebung e la Supremacy Clause. Ma la Corte «lavorava» con il
testo costituzionale riscritto dalla riforma del 2001: da qui l'esigenza di valorizzare il principale
elemento di flessibilità nel riparto delle attribuzioni, ovvero il principio di sussidiarietà ex art. 118.1
Cost. riferito però alla sola sfera amministrativa, ecco allora gli ulteriori passaggi, richiamati nel testo,
per giungere a un'attrazione in favore del potere centrale anche delle correlate competenze legislative,
e ciò a prescindere da puntuali titoli di competenza menzionati nell'art. 117.2 e 3 Cost.

IL RIPARTO DELLA POTESTÀ REGOLAMENTARE TRA


STATO E REGIONI
Un'altra novità interessante della riforma costituzionale del 2001 è la previsione espressa della
potestà regolamentare statale e regionale, nel comma 6 dell'art. 117.
Fino al 2001, infatti, nessuna disposizione costituzionale prevedeva espressamente il fenomeno
regolamentare, tranne l'art. 87 Cost, che, al quinto comma, si limita a presupporne l'esistenza
laddove annovera, tra i poteri del presidente della Repubblica, quello di emanare zi decreti
aventi valore di legge e i regolamenti».
Attualmente, invece, l'art. 117.6 Cost. stabilisce: «La potestà regolamentare spetta allo Stato
nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle regioni.
La potestà regolamentare spetta alle regioni in ogni altra materia. I Comuni, le province e le
Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e
dello svolgimento delle funzioni loro attribuite».
Affrontiamo, per ora, la questione del riparto della potestà regolamentare tra Stato e regioni. In
apparenza, l'art. 117.6 è molto chiaro: lo Stato emana regolamenti nelle materie di cui all'art.
117.2 e le regioni li emanano nelle altre materie. In tal modo, la norma costituzionale
«codifica» il principio del parallelismo tra funzione legislativa di dettaglio e funzione
regolamentare, che la Corte costituzionale aveva già ricavato dal Titolo V originario (che non lo
sanciva espressamente) e che era stato poi recepito dall'art. 17.1, legge 400/1988 (che
contempla i regolamenti governativi «per disciplinare [...] b) l'attuazione e l'integrazione delle
leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate
alla competenza regionale»). Il divieto di regolamenti statali nelle materie regionali aveva (e ha)
solide basi logiche: nelle materie concorrenti lo Stato è abilitato a dettare solo «principi
fondamentali» e questi non si prestano a essere contenuti in regolamenti.
Purtroppo, la situazione non è così semplice come potrebbe sembrare. Un primo fattore di
complicazione deriva dalla stessa Costituzione, cioè dal fatto che l'art. 117.6, da un lato, chiude
espressamente la porta ai regolamenti statali nelle materie regionali, ma dall'altro la riapre
ammettendo – stando alla lettera – i regolamenti statali in tutte le materie del comma 2,
comprese quelle trasversali, e dunque ammettendoli anche nelle materie regionali. Per la
Corte, in effetti, è stato pacifico sin dall'inizio che lo Stato può adottare fonti secondarie anche
nelle materie trasversali (come i «livelli essenziali delle prestazioni», la «tutela dell'ambiente»,
la «tutela della concorrenza»: vedi, ad es., le sentt. 88/2003; 134/2006; 401/2007; 249 e
316/2009 e 127/2010).
Un secondo fattore di complicazione deriva dalla giurisprudenza costituzionale, che in vari casi
ha ammesso che, nelle materie concorrenti, i principi fondamentali consistessero anche nel
necessario rispetto - da parte del legislatore regionale - di fonti secondarie statali (vedi le sentt.
307/2003; 50 e 232/2005; 249/2009; 328/2010 e 275/2012) o anche di ordinanze (vedi le sentt.
277/2008 e 32/2012) o di atti sublegislativi a contenuto specialistico (sentt. 125/2017 e
284/2016).
In tal modo, i regolamenti statali arrivano a condizionare anche la legittimità delle leggi
regionali (ad es., la sent. 316/2009 ha annullato una legge del Veneto per violazione di un
decreto ministeriale in materia di habitat naturali; vedi anche la sent. 201/2012), determinando
delicate questioni teoriche, che la Corte tende a eludere. Si tratta di problemi sia politici (i limiti
all'autonomia regionale non sono fissati dal Parlamento ma dall'esecutivo nazionale) sia
giuridici, perché l'illegittimità della legge regionale per contrasto con un regolamento statale
inverte la gerarchia delle fonti nella misura in cui consente alla fonte secondaria statale di
condizionare il contenuto della fonte primaria regionale.
L'art. 117.6, dunque, afferma un principio (la separazione tra regolamenti statali e competenze
regionali) che la Corte costituzionale periodicamente ribadisce (vedi, ad es., la sent. 200/2009)
ma che non raramente viene smentito in fattispecie particolari.

Come qualificare un decreto ministeriale che ha contenuto sostanzialmente


normativo ma forma non regolamentare?
Capita non raramente che i ministri adottino atti dal contenuto sostanzialmente normativo (in base ai
consueti criteri della generalità, astrattezza e novità), ma dalla forma non regolamentare, nel senso che
non sono denominati «regolamento e non sono stati adottati in base alla procedura di cui all'art. 17,
legge 400/1988. Come bisogna inquadrare tali atti? Occorre guardare alla forma, e quindi considerarli
non normativi, oppure alla sostanza, e dunque considerarli regolamenti, verificandone la conformità
rispetto all'art. 117.6? La Corte costituzionale segue il criterio sostanziale: «Attesa la ripartizione
operata dall'art. 117 Cost. di tale potestà (regolamentare) tra Stato e regioni, secondo un criterio
obiettivo di corrispondenza delle norme prodotte alle materie ivi indicate, non possono essere requisiti
di carattere formale, quali il nomen iuris e la difformità procedimentale rispetto ai modelli di
regolamento disciplinati in via generale dall'ordinamento, a determinare di per sé l'esclusione dell'atto
dalla tipologia regolamentare, giacché, in tal caso, sarebbe agevole eludere la suddivisione
costituzionale delle competenze, introducendo nel tessuto ordinamentale norme secondarie,
surrettiziamente rivestite di altra forma, laddove ciò non sarebbe consentito» (sent. 278/2010, punto
16; vedi anche le sentt. 141/2016; 274/2010 e 275/2011).

La stessa logica dell'art. 117.6, invece, conduce a giustificare i regolamenti statali in caso di
«chiamata in sussidiarietà »: se lo Stato può amministrare e legiferare in certi casi, perché non
deve poter adottare un regolamento? E, in effetti, la Corte costituzionale ha più volte ammesso
regolamenti statali volti a disciplinare funzioni amministrative che, pur in materie regionali,
spettano allo Stato.
Infine, occorre soffermarsi sulla possibilità, risultante dal primo periodo dell'art. 117.6, di
delega del potere regolamentare statale alle regioni. Data la limitazione (almeno teorica) del
potere regolamentare statale e data la possibilità che la legge statale preveda anche - nelle
materie di cui all'art. 117.2 - norme legislative regionali integrative, l'utilizzo di tale istituto è
stato (e si prospetta) assai sporadico. È comunque necessario che lo Stato deleghi con legge il
potere regolamentare alle regioni e che i regolamenti da queste adottati rispettino i limiti e i
principi posti dalla legge statale.
Quanto all'organo regionale titolare del potere regolamentare delegato, la scelta spetta agli
statuti regionali, che spesso hanno conferito tale potere al consiglio, in deroga al criterio
generale secondo cui il potere regolamentare spetta alla giunta. Tale scelta è stata giudicata
ragionevole dalla Corte costituzionale (sent. 2/2004), data la maggior rilevanza di tali
regolamenti delegati, che rappresentano l'unica manifestazione di potestà normativa della
regione nella materia in questione.
Mentre, come visto, la separazione tra regolamenti statali e competenze regionali trova non
rare smentite nella prassi, la Corte si è mostrata più rigida nel difendere l'autonomia
regolamentare che l'art. 117.6 riconosce agli enti locali «in ordine alla disciplina
dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite». Con la sentenza
246/2006 la Corte ha annullato una disposizione legislativa regionale che prevedeva
l'applicazione in via cedevole di regolamenti regionali a procedimenti autorizzativi di
competenza degli enti locali, in attesa dei regolamenti locali.

LE FONTI DELLE AUTONOMIE NEL SISTEMA DELLE FONTI ITALIANO


LE FUNZIONI AMMINISTRATIVE
I POTERI AMMINISTRATIVI E POTERI NORMATIVI
La distribuzione dei poteri amministrativi è disciplinata dall'art. 118 Cost. che utilizza l'espressione
«funzioni amministrative», per riferirsi a «compiti» o «poteri» amministrativi: poteri che hanno
come scopo il soddisfacimento in concreto dei pubblici interessi della comunità.
Le funzioni amministrative comprendono anche attività normative di tipo regolamentare, per le
quali però la Costituzione pone distinti principi e criteri distributivi fra gli enti che costituiscono la
Repubblica, all'art. 117 comma 6 della Costituzione.
Ma la concreta consistenza dei poteri regolamentari di ciascun livello non è indipendente
dall'applicazione dell'art. 118 della Costituzione.
La potestà legislativa (statale e regionale) può mutare dimensioni anche in funzione della
distribuzione delle funzioni amministrative, in applicazione del principio di sussidiarietà stabilito
dall’art. 118 della Costituzione (secondo cui se un ente inferiore è capace di svolgere un compito,
l’ente superiore non deve intervenire, ma può sostenerne l’azione), che assume un ruolo centrale.
In via ordinaria, il compito di istituire e disciplinare le funzioni amministrative, cioè il potere di
individuare gli interessi che le amministrazioni devono perseguire come pubblici e di stabilire gli
speciali poteri assegnati alle autorità amministrative per la migliore cura di tali interessi, spetta al
legislatore competente ai sensi dell'art. 117. La disciplina delle funzioni amministrative è l'oggetto
fondamentale della legislazione regionale.
Uno degli aspetti fondamentali della disciplina delle funzioni amministrative è l’assegnazione delle
titolarità delle funzioni, cioè l'individuazione del soggetto pubblico responsabile del loro esercizio.
La Costituzione non lascia liberi il legislatore statale e i legislatori regionali, ma detta alcune regole
di tipo metodologico, che non assegnano direttamente competenza, ma stabiliscono i criteri
secondo i quali vanno conferite le titolarità. L’art. 114 enuncia il principio secondo il quale i
comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi dotati, oltre che di
propri statuti, di propri «poteri e funzioni»: e oltre alle funzioni normative, vi sono anche poteri e
funzioni amministrative. L’art. 118 che stabilisce i principi secondo i quali i legislatori devono
assegnare le funzioni amministrative.
Nelle materie regionali, la distribuzione delle funzioni amministrative spetta alle regioni (Corte
cost. 50/2005) ma in base alla all’art. 117 comma 2 spetta alla legge statale la determinazione
delle «funzioni fondamentali» degli enti locali (comuni, province e città metropolitane, istituiti
ora dalla l. n. 56 del 2014). Le funzioni fondamentali degli enti locali vi possono essere sia nelle
materie soggette alla legislazione statale, sia nelle materie di legislazione concorrente, sia nelle
materie di competenza legislativa regionale residuale. Con la sentenza n. 22 del 2014 la Corte
costituzionale ha precisato che «la legge statale è soltanto attributiva di funzioni fondamentali,
dalla stessa individuate, mentre l'organizzazione della funzione rimane competenza materiale
dell'ente che ne può disporre in via regolativa».

Le funzioni fondamentali: come si individuano?


Nei primi anni dopo la riforma costituzionale del 2001, la Corte costituzionale ha identificato come
«fondamentale» una funzione degli enti locali utilizzando sia un criterio «storico-normativo», sia una
valutazione sull'essenzialità della funzione per la vita associata delle comunità stabilite nei territori
comunali. In seguito la legislazione statale ha individuato le funzioni fondamentali di ciascun tipo di enti
locali.
Le funzioni fondamentali dei comuni sono individuate dall'art, 14, comma 27, del dl. n. 78 del 2010, che
individua:
a) organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo;
b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, compresi i servizi di
trasporto pubblico comunale;
c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente;
d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione
territoriale di livello sovracomunale;
e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi;
f) l'organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la
riscossione dei relativi tributi;
g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai
cittadini;
h) edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione
dei servizi scolastici;
i) polizia municipale e polizia amministrativa locale;
l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in
materia di servizi elettorali, nell'esercizio delle funzioni di competenza statale;
l-bis) i servizi in materia statistica.
Le funzioni fondamentali delle province, che la legge n. 56 del 2014 ha trasformato in enti «di area vasta» i
cui organi rappresentano i comuni che ne fanno parte, e non direttamente la popolazione, sono individuate
dall'art. 1, comma 85:
a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell'ambiente,
per gli aspetti di competenza;
b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di
trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché costruzione e gestione delle strade
provinciali e regolazione della circolazione stradale;
c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale;
d) raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali;
e) gestione dell'edilizia scolastica;
f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul
territorio provinciale.
Alle province montane spettano inoltre, secondo il comma 86, le funzioni:
a) cura dello sviluppo strategico del territorio e gestione di servizi in forma associata in base alle specificità
del territorio;
b) cura delle relazioni istituzionali con province, province autonome, regioni, regioni a statuto speciale ed
enti territoriali di altri Stati, con esse confinanti e il cui territorio abbia caratteristiche montane, anche
stipulando accordi e convenzioni con tali enti.
Le città metropolitane sono istituite dalla 1. n. 56 del 2014 come enti di secondo grado, rappresentativi dei
comuni e non direttamente dei cittadini. Ad esse spettano, secondo l'art. 1, comma 44, le funzioni
fondamentali delle province, e inoltre:
a) adozione e aggiornamento annuale di un piano strategico triennale del territorio metropolitano;
b) pianificazione territoriale generale, ivi comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle
infrastrutture appartenenti alla competenza della comunità metropolitana, anche fissando vincoli e
obiettivi all'attività e all'esercizio delle funzioni dei comuni compresi nel territorio metropolitano;
c) strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, organizzazione dei servizi pubblici di
interesse generale di ambito metropolitano;
d) mobilità e viabilità;
e) promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale;
f) promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione in ambito
metropolitano.
Nelle materie di potestà legislativa concorrente, in cui allo Stato spetta di porre i principi fondamentali
della materia, la distribuzione delle funzioni amministrative non spetta allo Stato ma, tali principi possono
riguardare anche la distribuzione delle funzioni.
Il principio di sussidiarietà vale anche per le funzioni amministrative nelle materie statali
esclusive?
Già si è visto come la Corte costituzionale abbia applicato il principio di sussidiarietà previsto dall'art. 118.1
anche al riparto delle funzioni legislative, ammettendo in nome di questo che lo Stato legiferi anche al di
fuori delle materie attribuite a esso dall'art. 117. Sembra dunque ovvio che anche lo Stato debba rispettarlo
in quanto disciplina la titolarità delle funzioni amministrative nelle proprie materie esclusive: e, sul piano
generale, la stessa legislazione statale lo ha confermato (art. 7.1, lett. a), della legge 42/2009). Anche la
Corte costituzionale — che in due occasioni aveva affermato il contrario (sentt. 384/2005 e 12/2009) — ha
poi confermato che l'art. 118, «nel vincolare naturalmente anche le scelte allocative compiute in sede di
esercizio della potestà legislativa esclusiva dello Stato, esprime un criterio di preferenza a favore del livello
amministrativo più vicino ai cittadini, al quale può derogarsi solo in presenza di esigenze di esercizio
unitario, che giustifichino l'attribuzione della competenza all'amministrazione statale» (sent. 235/2009).

In terzo luogo, per tutte le materie regionali occorre ricordare il possibile intreccio con le
competenze statali «trasversali»: e benché il loro esercizio di norma non comporti un'interferenza
con l'assegnazione della titolarità delle funzioni, anche tale evenienza non può essere del tutto
esclusa (per un esempio, giustificato dalla «tutela della concorrenza», sent. 452/2007, punto 4).
Per l'una o per l'altra di queste ragioni è talora possibile che l'ossatura organizzativa fondamentale
del sistema amministrativo sia determinata dalla legge statale, come nel caso del servizio sanitario
detto, appunto, «nazionale» (su cui vedi anche § VII.8) e per altre politiche di competenza in tutto
o in parte regionale, ma organizzate nel quadro di un complessivo sistema nazionale (su tale
situazione di «intreccio» e sulle connesse conseguenze cfr. sent. 251/2016). Nelle «vere» materie
statali spetta ovviamente allo Stato anche decidere dell'allocazione delle funzioni amministrative.

LA PREFERENZA PER IL LIVELLO COMUNALE


Secondo l'art. 118.1 «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per
assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a province, Città metropolitane, regioni e Stato,
sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza».
La disposizione esprime il principio di preferenza per il livello comunale. Tale principio vale — si
noti bene — in generale, sia per le materie di competenza legislativa solo statale sia per quelle di
competenza legislativa concorrente o regionale residuale. Non si tratta ovviamente di un principio
assoluto, e infatti la stessa disposizione ammette che «per assicurarne l'esercizio unitario» le
funzioni possano essere «conferite» a province, città metropolitane, regioni e Stato, quando lo
richiedano i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Inoltre, la disposizione va
coordinata con altre disposizioni costituzionali o deducibili dalla Costituzione, le quali possono
portare a escludere una possibile titolarità comunale: sembra evidente, ad esempio, che le
funzioni amministrative inerenti alla difesa appartengono allo Stato quale responsabile
dell'integrità del territorio e della sovranità nazionale, e non perché lo impongano ragioni (pure
innegabili) di «esercizio unitario». D'altronde, lo stesso art. 118 prevede che la legge statale
disciplini «forme di coordinamento fra Stato e regioni» nelle materie di cui alle lettere b) e h)
dell'art. 117.2 (cioè rispettivamente le materie dell'immigrazione e dell'ordine pubblico e
sicurezza), oltre che «forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni
culturali». In questi termini, la disposizione dell'art.118.1 deve essere necessariamente intesa non
come una diretta attribuzione di competenza ai comuni, ma come come statuizione di un criterio
regolatore dell'attribuzione delle competenze amministrative da parte del legislatore, sia statale
sia regionale: nel senso so che ogni legislazione sulla titolarità delle funzioni amministrative
dovrebbe considerare come prima ipotesi la titolarità comunale, e accedere a una diversa
collocazione soltanto ove risulti negativo per i comuni il test condotto sulla base dei criteri
enunciati dalla norma. In diverse sentenze la Corte costituzionale ha sottolineato che l'art. 118.1
stabilisce «un peculiare elemento di flessibilità, il quale — nel prevedere che le funzioni
amministrative, generalmente attribuite ai Comuni, possano essere allocate ad un livello di
governo diverso per assicurarne l'esercizio unitario, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza — introduce un meccanismo dinamico (incidente anche sulla
stessa distribuzione delle competenze legislative) diretto appunto a superare l'equazione tra
titolarità delle funzioni legislative e titolarità delle funzioni amministrative» (così nella sent. n.
232/2011, con richiamo ai precedenti a partire dalla 303/2003). In questi termini, la consistenza e
la rilevanza del dovere di considerare per prima la possibile titolarità comunale rimangono incerte.
È difficile intenderlo quale specifico onere di motivazione delle allocazioni di funzioni
amministrative, sia per la gravosità di tale onere sia — in difetto di un'espressa regola contraria —
per la regola costituzionale generale che esclude oneri motivazionali per gli atti legislativi; ed è
pure difficile ritenere che la considerazione dell'ipotesi della titolarità comunale debba risultare in
modo esplicito dai lavori preparatori, o almeno essere menzionata nelle relazioni ai disegni di
legge. In questi termini, si tratterebbe di un dovere generico, la cui violazione potrebbe generare
una questione di legittimità costituzionale - e dunque divenire per questa via «giustiziabile» - solo
quando fosse manifesta la sproporzione tra il carattere accentrato (rispetto alla dimensione
comunale) della titolarità assegnata e l'esigenza unitaria - dedotta dagli stessi disposti legislativi -
che possa giustificare tale carattere. Una simile sproporzione è stata per esempio riscontrata dalla
Corte costituzionale in tema di «asili nido», laddove una legge statale (448/2001) qualificava la
loro azione come parte delle competenze fondamentali dello Stato (oltre che delle regioni e degli
enti locali): la disposizione è stata annullata per contrasto (oltre che con l'art. 117 Cost.) con il
principio di sussidiarietà individuato dall'art. 118.1 Cost. «quale normale criterio di allocazione
delle funzioni amministrative, che ne impone la ordinaria spettanza agli enti territoriali minori»
(sent. 370/2003).

I PRINCIPI REGOLATIVI DELLA TITOLARITÀ DELLE


FUNZIONI
Come ora detto, secondo l'art. 118.1 Cost., l'assegnazione della titolarità di funzioni
amministrative a enti territoriali diversi dal comune deve trovare giustificazione in esigenze di
esercizio unitario e guida nei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Il principio di sussidiarietà - considerato nei suoi termini generali pone come obiettivo la massima
vicinanza tra i destinatari delle funzioni pubbliche e le organizzazioni che ne sono titolari, nel senso
che le istituzioni di livello via via più elevato (e dunque più lontano) hanno un ruolo sussidiario,
limitato a ciò che al livello meno elevato (e dunque più vicino) non può essere efficacemente
svolto. In questo senso, il principio di preferenza per il livello comunale è esso stesso applicazione
del principio di sussidiarietà.
Gli altri due principi non sono principi autonomi, ma criteri applicativi del principio di sussidiarietà.
L'affermazione del principio di differenziazione ha la sua origine nella grande varietà delle
situazioni in cui si trovano, in particolare, i diversi comuni italiani, la cui consistenza demografica
varia da poche decine a diversi milioni di persone, e la cui organizzazione amministrativa varia di
conseguenza.
Esso consente dunque di attribuire certe funzioni ai soli comuni in grado di svolgerle, sia da soli sia
- eventualmente in associazione con altri, mantenendo la competenza a un livello più elevato (ad
esempio, al livello provinciale) là dove i comuni non ne siano in grado. In ciò e anche già implicito il
principio di adeguatezza. Esso include l'idea che la titolarità delle funzioni amministrative sia
strumentale rispetto a un valore più elevato, che consiste nella produzione di risultati
soddisfacenti per le persone che di tali funzioni sono destinatarie.
Come si vede, l’insieme di questi principi esige che ogni funzione amministrativa sia assegnata al
livello più vicino possibile ai destinatari, compatibilmente però con la possibilità che tale livello
svolga la funzione in modo adeguato.
In mancanze di questa possibilità, deve necessariamente scattare il ruolo sussidiario dell’ente
maggiore: sicché in concreto il criterio opera, a seconda dei casi, nell'una o nell'altra direzione.
L’art. 118.4 aggiunge il principio di sussidiarietà in senso cosiddetto orizzontale. Parte della
dottrina suggerisce una lettura dell'art. 118 Cost. che porta ad anteporre la sussidiarietà
orizzontale alla sussidiarietà verticale, nel senso che l'azione amministrativa pubblica sarebbe
legittimata solo se risultasse inadeguata l'azione a opera dei privati. Ma il tenore e la collocazione
della disposizione (comma finale dell'art. 118) sembrano confermare la tradizionale appartenenza
agli enti costitutivi della Repubblica del compito di garantire il conseguimento degli interessi
pubblici, sia pure tenendo conto dell'opportunità di consentirne il diretto soddisfacimento da
parte della stessa società civile, ove possibile.
Nella legislazione più recente il principio di sussidiarietà orizzontale si è tradotto non solo
nell'affidamento di compiti (soprattutto nell'ambito dei servizi sociali) al cosiddetto terzo settore,
ma anche nella sostituzione di segmenti più o meno importanti di attività amministrativa con
attività svolte da privati in regime professionale (si pensi alle certificazioni rese in sede di
segnalazione certificata di inizio attività) o di impresa (si pensi alle certificazioni di capacità tecnica
necessarie per partecipare agli appalti pubblici, o alla stessa revisione degli autoveicoli).

FUNZIONI FONDAMENTALI, PROPRIE, ATTRIBUITE,


CONFERITE
Ai termini dell'art. 114.2, i comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono «enti
autonomi con propri statuti, poteri e funzioni»; l'art. 117.2, lett. p), affida allo Stato competenza
esclusiva in materia di funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane; l'art. 118.1
parla di funzioni attribuite ai comuni salvo il caso in cui siano conferite ad altri enti territoriali. E di
«funzioni attribuite» agli enti locali parla altresì l'art. 117.6, in riferimento al relativo potere
regolamentare. In aggiunta, lo stesso art. 118.2 afferma che «i comuni, le province e le città
metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge
statale o regionale, secondo le rispettive competenze», quasi contrapponendo presunte
attribuzioni originarie di tali enti alle funzioni affidate agli enti stessi dai soggetti titolari della
potestà legislativa. Ne risulta così un guazzabuglio terminologico che ha indotto la dottrina a
formulare le ipotesi interpretative più diverse, al fine di pervenire ad assegnare un significato
preciso a ciascuno dei termini utilizzati in Costituzione. In questo contesto letterale non certo
felice, i dati certi paiono i seguenti. In primo luogo, la nozione di «funzioni fondamentali» ha una
propria ragione d'essere e una notevole rilevanza, dal momento che individua un compito
legislativo esclusivo dello Stato; e in quanto dotata di tale specificità, questa nozione non si
identifica necessariamente con alcuna delle altre sopra indicate, anche se appare naturale una
certa convergenza «materiale» tra le funzioni fondamentali e le funzioni proprie (sent. 238/2007).
In secondo luogo, al di là del generico compito di operare per il benessere della propria collettività
territoriale e del possibile uso della propria capacità di diritto comune a tale scopo, tutte le
funzioni amministrative richiedono una disciplina legislativa di base che ne determini i caratteri e
ne intesti la titolarità, senza che sia possibile una distinzione, da questo punto di vista, tra funzioni
«proprie» e funzioni «conferite». Anche le funzioni proprie non possono che essere conferite da
un legislatore (statale o regionale: Corte cost. 43/2004), né esiste una ragione precisa per la quale
le funzioni «conferite» non debbano essere conferite appunto come proprie. Si potrebbe pensare
(ed è stato sostenuto) che proprie siano le funzioni «fondamentali» assegnate dalla legge dello
Stato: ma in realtà non si vede la ragione per la quale la legge regionale non potrebbe anch'essa
attribuire agli enti locali funzioni come proprie. Al più si potrà dunque dire che le funzioni
fondamentali siano necessariamente proprie, ma non che solo esse lo siano. D'altronde, nel
momento in cui l'art. 118.1 indica la preferenziale titolarità comunale delle funzioni e sottopone ai
principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza l'eventuale individuazione dei livelli
superiori di amministrazione, si direbbe che ogni funzione assegnata a ogni ente locale in
applicazione di tali principi finisce per essergli «propria», in quanto individuazione del «giusto»
livello di amministrazione. In questo senso, la garanzia di un nucleo minimo di funzioni proprie
(quel «nucleo fondamentale delle libertà locali che emerge da una lunga tradizione e dallo
svolgimento che esso ebbe durante il regime democratico», di cui già alla sentenza 52/1969)
sembra essa stessa in qualche modo superata dalla statuizione del più ampio e comprensivo
principio di sussidiarietà. Così, attraverso il principio di sussidiarietà appare anche superata la
tradizionale distinzione (dell'art. 118 Cost., nella sua originaria versione) fra «attribuzione» e
«delega» di funzioni amministrative: la delega — fondata sulla scissione di principio tra titolarità
ed esercizio del potere — non sembra coerente con il nuovo quadro costituzionale, che ammette il
conferimento dei diversi poteri ai vari livelli secondo le potenzialità di ciascun livello. Si noti, in
ogni modo, che talora la Corte costituzionale (sent. 379/2004) ha invece sottolineato la distinzione
tra le funzioni proprie degli enti locali e quelle conferite («ben distinte dal secondo comma dell'art.
118 della Costituzione») proprio per tutelare l'autonomia delle regioni nelle decisioni relative al
conferimento delle funzioni non fondamentali (sul punto vedi sent. 150/2017).

FUNZIONI ATTRIBUITE AD ALTRI ENTI PUBBLICI E ALLE


AUTONOMIE FUNZIONALI
L'art. 118 Cost. prevede, come detto, che titolari delle funzioni amministrative siano i comuni e,
secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, le città metropolitane, le
province, le regioni e lo stesso Stato.
Tradizionalmente, invece, nell'ordinamento italiano funzioni amministrative sono state e sono
tuttora affidate anche ad altri enti pubblici di vario tipo, È logico perciò che ci si chieda se le
disposizioni dell'art. 118 implichino che tali enti debbano venire meno, dato che sono
necessariamente assegnatari di funzioni amministrative. Si può dire con certezza che una simile
risposta radicale — nel senso che non ci possano essere altri enti titolari di funzioni amministrative
sarebbe fuori di misura e contrarla all'intenzione della Costituzione, In primo luogo, infatti, lo
stesso art. 117.2 elenca tra le materie di competenza statale esclusiva (lett. g) l'ordinamento e
l'organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali: rendendo dunque
evidente che non è precluso di attribuire la personalità giuridica ad apparati di livello statale cui
vengono affidate funzioni amministrative. Ed è logico supporre, in virtù del riparto delle funzioni
legislative, che analogamente possano procedere ove occorra le regioni, in relazione a enti
pubblici del corrispondente livello. Questa risposta, tuttavia, non esaurisce il problema. Sin qui,
infatti, si può dire che le funzioni amministrative affidate agli enti pubblici rimangano
rispettivamente statali o regionali, e che gli enti cui sono affidate abbiano un ruolo di carattere
strumentale. Essi svolgeranno í loro compiti sulla base delle regole dettate dallo Stato o dalle
regioni interessate, e per quanto superi la pura applicazione delle regole, saranno soggetti a un
potere di indirizzo statale o regionale. Più delicato è il problema quando gli enti non territoriali
chiamati a svolgere compiti amministrativi godono a propria volta di uno statuto di autonomia: si
pensi alle università, alle scuole, alle camere di commercio, agli ordini professionali, ai consorzi di
bonifica, ad altre associazioni titolari di funzioni pubbliche quali l'Automobile Club (ACI). Talvolta la
questione è risolta da norme specifiche, poste dalla Costituzione. Così l'autonomia delle università
(insieme a quella delle istituzioni di alta cultura e delle accademie) è protetta dall'art. 33.6, mentre
quella delle «istituzioni scolastiche» è fatta salva dall'art. 117.3, Le camere di commercio
(riconosciute quali enti autonomi dalla legge 590/1993 (modificate da ultimo con d. lgs. n.
219/2016)) sono invece espressamente menzionate (come oggetto di potestà legislativa) negli
statuti speciali di alcune Regioni, ma non nella Costituzione. Per le istituzioni che non hanno
diretta copertura costituzionale, uno spunto per giustificarne l'esistenza potrebbe trarsi dal
principio di sussidiarietà orizzontale di cui all'art, 118.4, illustrato sopra, almeno quando una
misura di autonomia «pubblica» sia data a enti di tipo associativo, in relazione ai quali l'esercizio
delle funzioni rappresenti un modo di riduzione dell'estraneità fra amministrati e strutture
amministrative Per le camere di commercio, ad esempio, la sent. n. 282 del 2017 ha ritenuto che si
tratti di enti diversi dagli enti locali comunque «retti dal principio di sussidiarietà», ai quali sono
attribuiti compiti che, se necessario, possono essere disciplinati in maniera omogenea in ambito
nazionale.

IL POTERE SOSTITUTIVO DELLO STATO E DELLE REGIONI


L'art. 120.2 Cost. stabilisce che «il governo può sostituirsi a organi delle regioni, delle città
metropolitane, delle province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati
internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l'incolumità e la
sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità
economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali». Esso precisa poi che «la legge
definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del
principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione». La disciplina legislativa del potere
sostitutivo così previsto è stata posta dalla legge 131/2003. L'art. 8.1 dispone, tra l'altro, che il
potere possa essere esercitato anche su iniziativa delle regioni o degli enti locali; che sia assegnato
all'ente interessato un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari; che,
decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei ministri, sentito l'organo interessato, adotti i
provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nomini un apposito commissario; che alla
riunione del Consiglio dei ministri partecipi il presidente della giunta regionale della regione
interessata al provvedimento. L'art. 8.4 prevede una speciale procedura per i «casi di assoluta
urgenza, qualora l'intervento sostitutivo non sia procrastinabile senza mettere in pericolo le
finalità tutelate dell'art. 120 della Costituzione». In questi casi il Consiglio dei ministri adotta i
provvedimenti necessari, comunicandoli poi immediatamente alla Conferenza Stato-regioni o alla
Conferenza Stato-città e autonomie locali, che possono chiederne il riesame. Ci sí limita qui a
osservare che la disposizione dell'art. 120.2 Cost. opera quale fondamento costituzionale del
potere sostitutivo, ma che al tempo stesso essa ne definisce anche i limiti, e dunque la norma
opera quale parametro per la valutazione della legittimità dei non pochi specifici poteri sostitutivi
che la legislazione ordinaria prevedeva e spesso continua a prevedere. La Corte costituzionale ha
ribadito che questo non è di per sé illegittimo, e che il legislatore può seguire diversi modelli,
fermo restando che i poteri sostitutivi: a) devono essere previsti e disciplinati dalla legge, che ne
deve definire i presupposti sostanziali e procedurali, in ossequio al principio di legalità; b) devono
essere attivati solo in caso di accertata inerzia della regione o dell'ente locale sostituito; c) devono
riguardare solo atti o attività privi di discrezionalità nell'an; d) devono essere affidati ad organi di
governo; e) devono rispettare il principio di leale collaborazione all'interno di un procedimento nel
quale l'ente sostituito possa far valere le proprie ragioni; f) devono conformarsi al principio di
sussidiarietà (per queste condizioni vedi, in particolare, la sent. 171 del 2015). Di fronte al tenore
dell'art. 120, che affida allo Stato il potere sostitutivo sia sulle regioni sia sugli enti locali, ci si è
chiesti se, in relazione agli enti locali, si tratti di un potere esclusivamente statale o se a loro volta
le leggi regionali possano, nell'affidare loro le funzioni, prevedere un potere sostitutivo esercitato
dalla regione stessa. La Corte costituzionale (nella già ricordata sent. 43/2004) ha stabilito che,
nelle rispettive materie, le leggi statali e le leggi regionali possono prevedere «eccezionali
sostituzioni di un livello a un altro di governo per il compimento di specifici atti o attività,
considerati dalla legge necessari per il perseguimento degli interessi unitari coinvolti, e non
compiuti tempestivamente dall'ente competente»: anche perché, diversamente, si avrebbe
«l'assurda conseguenza che, per evitare la compromissione di interessi unitari che richiedono il
compimento di determinati atti o attività, derivante dall'inerzia anche solo di uno degli enti
competenti, il legislatore (statale o regionale) non avrebbe altro mezzo se non collocare la
funzione a un livello di governo più comprensivo», in contrasto con il principio di sussidiarietà. Al
tempo stesso, la Corte ha sottoposto la legittimità di tali poteri sostitutivi a quattro condizioni: che
essi siano previsti dalla legge; che si riferiscano ad atti dovuti (anche se eventualmente
discrezionali sotto altri profili); che essi siano affidati a organi di governo della regione (e non, ad
esempio, al difensore civico); che la legge contenga congrue garanzie procedimentali per
l'esercizio del potere sostitutivo, e che in particolare l'ente sostituito sia comunque messo in grado
di evitare la sostituzione attraverso l'autonomo adempimento, e di interloquire nello stesso
procedimento. Tali principi sono stati in genere ripresi dalle regioni, anche attraverso l'inserimento
di apposite disposizioni negli statuti elaborati dopo la riforma costituzionale del 2001.

LE FUNZIONI AMMINISTRATIVE NELLE REGIONI A


STATUTO SPECIALE
La situazione della titolarità delle funzioni amministrative nelle regioni a statuto speciale presenta
essenzialmente due profili di particolarità rispetto a quanto detto in relazione alle regioni
ordinarie. In primo luogo, gli statuti speciali seguono ancora quel «principio del parallelismo» tra
funzioni legislative e funzioni amministrative che il precedente testo dell'art. 118 Cost. prevedeva
come regola generale anche per le regioni ordinarie. Secondo la regola del parallelismo, a tali
regioni spettano le funzioni amministrative inerenti alle materie nelle quali esse hanno la potestà
legislativa. E la regola, contenuta in ciascuno degli statuti speciali, dovrebbe valere anche in
relazione alle nuove materie acquisite alla potestà legislativa in virtù della clausola di estensione
posta dall'art. 10 della legge cost. 3/2001. Quando le stesse funzioni siano oggi esercitate dallo
Stato, il trasferimento delle funzioni amministrative alle regioni speciali dovrebbe in linea di
principio avvenire con le procedure delle norme di attuazione. In secondo luogo, le regioni speciali,
a seguito della riforma operata con la legge cost. 2/1993, godono di potestà legislativa primaria in
materia di ordinamento degli enti locali, materia che tradizionalmente comprende anche la
materia elettorale (come la Corte costituzionale ha confermato con la sent. 173/2005) e le regole
generali sulla titolarità delle funzioni amministrative. Si deve quindi escludere che valga per esse la
riserva di competenza statale esclusiva in materia di legislazione elettorale, organi di governo e
funzioni fondamentali dei comuni e delle province. Le relative funzioni legislative saranno invece
esercitate dalle regioni speciali (e dalle province autonome di Trento e di Bolzano: vedi cap. IX), nei
limiti propri della potestà primaria. Ne consegue che per l'effetto combinato delle due specificità
ora illustrate le regioni speciali godono di una libertà assai maggiore rispetto a quella delle regioni
ordinarie sia nell'organizzare il sistema degli enti territoriali interni alla regione, sia nel distribuire i
compiti di amministrazione tra la regione stessa e gli enti locali.

LA DIMENSIONE DELL'AMMINISTRAZIONE REGIONALE E IL


DISEGNO COMPLESSIVO DELL'ART. 118 COST.
Nella vigenza del testo dell'art. 118 Cost. precedente la riforma costituzionale del 2001, il comma 4
disponeva che le funzioni amministrative regionali fossero normalmente esercitate attraverso gli
enti locali. La disposizione costituzionale corrispondeva alla preoccupazione di evitare la creazione
di rilevanti apparati amministrativi regionali ben più di quanto intendesse proteggere l'autonomia
degli enti locali: al punto che essa considerava normale non solo la delega intersoggettiva di
funzioni amministrative, ma addirittura l'avvalimento degli uffici degli enti locali, che avrebbero
così operato come uffici regionali. Al tempo stesso, l'art. 128 proclamava che «le province e i
comuni sono enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che
ne determinano le funzioni». In dottrina, si cercò di razionalizzare le diverse previsioni
costituzionali in tema di rapporti tra regioni ed enti locali prospettando per le regioni un ruolo
essenzialmente di programmazione, pianificazione, coordinamento e indirizzo, e una
corrispondente organizzazione amministrativa regionale «snella». La realtà ha mostrato il
carattere sostanzialmente irrealistico di tale costruzione, e la difficoltà di un effettivo governo di
sfere che rimanevano del tutto autonome, o attraverso di esse, e in molti casi le regioni dovettero
scegliere tra una delega di funzioni senza che rimanesse loro alcun effettivo potere e il
mantenimento di competenze accentrate. Altri accentramenti vennero nel tempo imposti dalla
stessa legislazione statale per non meno cogenti esigenze di responsabilizzazione e di controllo
finanziario: come nel caso della gestione del servizio sanitario che pure in un primo tempo (1978)
era stato affidato ad «unità locali» concepite come istituzioni comunali, per essere poi (1993)
affidato a un sistema di aziende sanitarie e ospedaliere nel quadro di un sistema regionale. E tale
accentramento è rimasto pienamente confermato anche dopo la riforma del Titolo V (e anzi le
difficoltà di mantenere in molti casi l'equilibrio finanziario del sistema hanno portato a un sempre
più ampio coinvolgimento del livello statale), Il nuovo testo dell'art. 118 Cost., nell'assegnare in
primo luogo alle istituzioni amministrative locali la responsabilità delle funzioni amministrative,
appare — a sua volta — implicitamente orientato a prescrivere un'organizzazione amministrativa
regionale «essenziale». Tuttavia, il principio di sussidiarietà, con i suoi corollari, consente soluzioni
flessibili e adeguate a bisogni potenzialmente mutevoli. E naturalmente molto degli sviluppi futuri
dipenderà anche dalle decisioni assunte o da assumere sulla consistenza della provincia come
istituzione locale (vedi § VII.9), In altre parole, l'amministrazione regionale può anche dilatarsi
legittimamente, se, in applicazione del principio di adeguatezza, sia ritenuta più opportuna
l'allocazione di un determinato compito a livello regionale, nel quadro dell'assetto complessivo
dell'amministrazione locale.

LE DIVERSE AMMINISTRAZIONI INFRAREGIONALI


È opportuno aggiungere qualche considerazione sui diversi enti e amministrazioni che svolgono
funzioni amministrative a livello infraregionale, cioè sotto il livello della regione. Si tratta, in primo
luogo, dei comuni, delle province e delle città metropoli-tane, cioè degli enti che, insieme alla
regione e allo Stato «costituiscono» la Repubblica secondo l'art. 114 Cost. Su di essi basterà qui
qualche cenno rivolto ad illustrare le linee di tendenza, mentre che la loro illustrazione completa è
riservata ad apposite trattazioni. I Comuni rimangono, come detto, il livello generale di
amministrazione. Il consiglio comunale e il sindaco sono eletti direttamente dal corpo elettorale
—. con sistemi diversi a seconda che superino o non superino i quindicimila abitanti (o la diversa
soglia prevista in alcune regioni speciali), mentre la giunta è scelta dal sindaco, con il quale divide
la responsabilità di governo. Il sindaco esercita anche diverse funzioni statali come «ufficiale del
governo», tra l'altro emanando ordinanze in caso di gravi pericoli che minaccino l'incolumità
pubblica o la sicurezza urbana (ordinanze cosiddette «contingibili e urgenti»). Un problema storico
è la grande varietà delle dimensioni dei comuni, che variano dai ventinove abitanti di Moncenisio
ai quasi tre milioni di Roma (non si tratta di un problema solo italiano, se è vero che il comune
francese di Rochefourchat ha un solo abitante, ed altri pochi di più). Per rendere possibile
l'esercizio delle funzioni fondamentali anche ai piccoli comuni è previsto che i comuni con
popolazione fino a cinquemila abitanti (tremila per i territori montani) le esercitino
obbligatoriamente in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione (vedi art. 14, del
dl n. 78 del 2010). Inoltre, in alcune regioni i processi di fusione tra piccoli comuni hanno registrato
un discreto successo, sicché il numero complessivo dei comuni italiani per la prima volta è sceso di
qualche decina sotto il numero di ottomila. Il secondo gradino dell'amministrazione locale è
costituito dalle province, Nate dalla costola delle prefetture, dalla fine dell'800 sono divenute
compiutamente rappresentative della popolazione, salva, come per i comuni, la parentesi del
periodo fascista. In Assemblea costituente se ne propose la soppressione, in concomitanza con
l'istituzione delle regioni, per evitare un'eccessiva pluralità di enti e di indirizzi politici: tuttavia la
proposta non fu accolta, ed esse hanno continuato ad essere disciplinate in modo corrispondente
e parallelo a quello dei comuni, seguendone i maggiori mutamenti (come, nel 1993, quello relativo
all'elezione diretta del vertice, sindaco o presidente di provincia). Tuttavia, la legge n. 56 del 2014
ha ora radicalmente differenziato la struttura istituzionale delle province da quella dei comuni. Le
province, Infatti, non hanno più organi direttamente rappresentativi della popolazione, e sono
divenute invece rappresentative dei comuni che ne fanno parte. I loro organi sono il presidente
della provincia, il consiglio provinciale e l'assemblea dei sindaci. L'assemblea, costituita dai sindaci
dei comuni appartenenti alla provincia, adotta lo statuto, su proposta del consiglio. Sia il
presidente della provincia che i membri del consiglio sono sindaci, eletti dai sindaci e dai consiglieri
dei comuni della provincia. Il presidente dura in carica quattro anni, i membri del consiglio due, ma
l'uno e gli altri cessano dalla carica ove perdano la qualità di sindaco. Quanto alle funzioni delle
province, esse sono caratterizzate in generale come funzioni di area vasta. Le funzioni
fondamentali sono quelle già ricordate sopra [vedi quadro 7.1]. In relazione alle province, va
ricordato che il progetto di riforma costituzionale votato dal Parlamento nel 2016 non le
prevedeva più come enti di rilievo costituzionali e costitutivi della Repubblica, ma che tale
modifica — come le altre contenute nella riforma costituzionale — non è mai entrata in vigore a
causa della mancata approvazione popolare nel referendum del 4 dicembre 2016. Parallelamente
alla riforma delle province la 1. n, 56 del 2014 ha provveduto a trasformare le province di Torino,
Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria in città metropolitane,
dando così attuazione sotto questo profilo all'art. 114 della Costituzione. La loro struttura
istituzionale è simile a quella delle province, tuttavia con significative differenze, che ne fanno
un'entità particolare, caratterizzata dalla preminenza del comune capoluogo, il cui sindaco è dí
diritto sindaco metropolitano (lo statuto potrebbe però prevedere l'elezione diretta da parte dei
cittadini, previa scissione del capoluogo in più comuni). Inoltre, il rinnovo dell'amministrazione del
capoluogo determina il rinnovo del consiglio metropolitano. Anche le funzioni fondamentali
previste per le città metropolitane tengono conto del carattere maggiormente urbano del
territorio, anche se la coincidenza geografica — almeno iniziale — e la diretta successione alla
precedente provincia conservano loro un carattere marcatamente composito. La legittimità
costituzionale della legge n. 56 del 2014 è stata contestata da-vanti alla Corte costituzionale con
ricorso diretto di alcune regioni, sia sotto il profilo della rappresentatività dei comuni anziché della
popolazione, sia sotto il profilo della titolarità statale della competenza legislativa in materia di
associazioni di enti locali. Tuttavia, con la sentenza n. 50 del 2015 la Corte ha respinto tutte le
censure.

Il consiglio delle autonomie: rinvio


Il bisogno di rendere più coordinato ed efficiente il sistema amministrativo «regionale e locale» ha già
condotto, in aderenza al principio di leale collaborazione, a prevedere, con la riforma costituzionale del
2001, l'istituzione in ciascuna regione del «Consiglio delle autonomie locali (CAL), quale organo di
consultazione fra la regione e gli enti locali» (art. 123.4 Cost.), disciplinato dallo statuto e dalla legge
regionale.
In ambito territoriale regionale hanno sede e sono competenti anche molteplici apparati
amministrativi statali. Tradizionalmente, nei capoluoghi di provincia sono collocate le prefetture,
riqualificate come uffici territoriali del governo, allo scopo (peraltro sin qui scarsamente raggiunto)
di assicurare «l'esercizio coordinato dell'attività amministrativa degli uffici periferici dello Stato» e
di garantire «la leale collaborazione di detti uffici con gli enti locali» (art. 11, d.lgs. 300/1999). Il
prefetto preposto all'Ufficio territoriale del governo con sede nel capoluogo della regione è
chiamato a svolgere «le funzioni di rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle
autonomie» (art. 10, legge 131/2003). Al fine di esercitare l'azione amministrava in modo
coordinato, è prevista la conferenza provinciale permanente, presieduta dal prefetto e composta
dai responsabili delle strutture amministrative periferiche statali a livello provinciale, dal
presidente della provincia e da altri rappresentanti degli enti locali. La conferenza permanente
presso la prefettura con sede nel capoluogo della regione assume rilievo regionale, con i
responsabili delle strutture periferiche statali a livello regionale e con la partecipazione dello
stesso presidente della regione (o suo delegato) (art. 11, d.lgs. 300/1999 e reg. attuativo
180/2006). Fra i compiti esercitati da apparati statali, articolati sul territorio, sono del tutto
evidenti quelli in materia di ordine pubblico e sicurezza (mediante le questure e i corpi statali di
polizia) e in materia di istruzione (con il sistema scolastico che comprende gli uffici scolastici
regionali, strutture ministeriali decentrate, con funzioni di coordinamento, di vigilanza e di
ripartizione delle risorse finanziare e del personale tra le istituzioni scolastiche dell'area di
competenza: vedi art. 8, reg. 319/2003). Si segnalano, inoltre, i compiti in materia di tutela e
valorizzazione dei beni culturali e ambientali, esercitati da organi e strutture di decentramento del
ministero per i Beni e le Attività culturali (soprintendenze per i beni paesaggistici, artistici,
archeologici; archivi, biblioteche e musei statali; nonché, le direzioni regionali per i beni culturali e
paesaggistici: vedi artt. 16 ss. del reg. 223/2007).
Se in alcune materie la presenza e la competenza di apparati decentrati dell'amministrazione
statale appaiono naturali, come in materia di difesa (con le molteplici articolazioni operative delle
forze amiate, dipendenti dal ministero della Difesa), in altre materie la riserva di compiti in capo ad
amministrazioni periferiche dello Stato può suscitare dubbi di coerenza rispetto al disegno
costituzionale (art. 118 Cost.), teso ad accreditare gli enti più prossimi alla comunità, riguardo alla
responsabilità (e all'esercizio) delle funzioni amministrative. E si aggiunga che, in alcune materie, í
compiti trattenuti dagli apparati statali decentrati rischiano dI mischiarsi e di sovrapporsi, in modo
inefficiente, a compiti esercitati da strutture amministrative degli enti territoriali, nelle stesse o
contigue materie (rischio che, in realtà, sussiste anche rispetto a compiti trattenuti da apparati
statali «centrali», ministeriali).

SOVRAPPOSIZIONI AMMINISTRATIVE E CONFLITTUALITÀ: un caso


Fra i vari casi che hanno generato un contenzioso costituzionale, può essere indicato quello della procedura
di accertamento di compatibilità paesaggistica di interventi abusivi &modesta entità. La norma statale (art.
181, d.lgs. 42/2004) prevede che al riguardo si pronunci l'autorità competente (regionale o locale, in base a
quanto stabilito dalla legge regionale), ma previo parere vincolante della soprintendenza statale (e si
osservi che il provvedimento favorevole — di compatibilità — esclude l'applicazione delle sanzioni penali,
per illecito paesaggistico). L'autorità competente è quindi vincolata al parere della soprintendenza. La
regione Toscana impugna la norma legislativa statale nell'osservare che, «con la previsione del parere
vincolante della soprintendenza nella procedura di accertamento di conformità, che si conclude con un atto
di competenza della regione o dell'ente locale delegato, si finisce per attribuire la decisione a un organo
statale»; si lamenta così la violazione dell'art. 118 Cost., in quanto da funzione viene trattenuta in
mancanza di esigenze unitarie, e senza la previsione di adeguate procedure d'intesa». La Corte ritiene
infondata la questione di legittimità costituzionale, in quanto la riserva di competenza in capo all'organo
statale (soprintendenza) è motivata dall'esigenza di «uniformità di metodi di valutazione sul territorio
nazionale, che è inerente al trattamento penale degli abusi» «tale da giustificare la "chiamata in
sussidiarietà" dello Stato nelle funzioni amministrative» (seni. 183/2006). Ma la pronuncia della Corte
suscita perplessità nel paventare — implicitamente — arbitrarie difformità di metodi di valutazione laddove
questa fosse lasciata alle autorità locali; difformità che, invece, si presume non si verifichino affidando il
compito alle diverse soprintendenze competenti per territorio.

LE REGIONI A STATUTO SPECIALE


GLI STATUTI SPECIALI E LE LEGGI STATUTARIE
L'art. 116.1 Cost. riconosce a cinque regioni italiane (il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il
Trentino-Alto Adige/Sudtirol e la Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste) «forme e condizioni particolari di
autonomia secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale». Pertanto,
l'ordinamento regionale italiano si presenta disomogeneo, per ragioni di ordine storico-culturale,
geografico, economico o per la presenza di mino azze linguistiche: tale disomogeneità si manifesta
all'interno degli statuti speciali che, a differenza di quelli adottati dalle regioni ordinarie, sono leggi
costituzionali. A loro volta, poi, gli statuti speciali sono diversi tra loro.

L'avvio dell'esperienza statutaria delle regioni speciali (rinvio)


I primi statuti speciali, in realtà, non sono stati adottati tramite il procedimento di cui all'art. 138 Cost.
Infatti, in forza della XVII disposizione transitoria e finale della Costituzione, già l'Assemblea costituente ha
avuto il compito di «deliberare, entro i131 gennaio 1948, sulla legge per l'elezione del Senato della
Repubblica, sugli statuti regionali speciali e sulla legge per la stampa». Gli statuti speciali di Sicilia,
Sardegna, Valle d'Aosta e Trentino-Alto Adige sono stati approvati con leggi costituzionali promulgate tutte
il 26 febbraio 1948 (rispettivamente, nn. 2, 3, 4,5). Lo statuto siciliano, addirittura, era stato emanato (per
contrastare le spinte separatistiche) con regio decreto-legge 455/1946, e la legge costituzionale del 1948 sì
limitò a convertirlo in legge, creando problemi di compatibilità con la Costituzione che ben presto
sarebbero emersi L'unico statuto per il quale si è proceduto seguendo l'iter descritto nell'art. 138 Cost. è
quello del Friuli-Venezia Giulia, approvato solo nel 1963 con legge cost. 1.

La condizione delle regioni speciali è mutata in modo significativo con l’approvazione della legge
cost. 2/2001. Questa legge è intervenuta su due fronti: da un lato, ha inciso sul procedimento di
revisione degli statuti speciali; dall'altro (in analogia con quanto previsto dalla legge cost. 1/1999
per le regioni ordinarie) ha sottratto allo statuto speciale la disciplina della forma di governo,
rinviandola a una legge regionale rinforzata, il cui procedimento di formazione è molto simile a
quello degli statuti ordinari di cui all'art. 123 Cost.: questa fonte è nota come legge statutaria. Il
procedimento di revisione di ogni singolo statuto speciale ha, dunque, subito una variazione nel
2001: per modificare lo statuto speciale occorre sempre una legge costituzionale, ma essa
presenta delle peculiarità procedimentali che la «aggravano» — imponendo la partecipazione
della regione interessata — e la discostano leggermente dal «tipo» di riferimento (quello proprio
dalla legge costituzionale, ex art. 138 Cost.). Per effetto di queste modifiche, gli statuti speciali
presentano sotto questo profilo — una sostanziale omogeneità di con-tenuti. Anche altre
disposizioni della legge cost. 2/2001 presentano interessanti novità. In particolare: a) l'iniziativa
per la revisione statutaria appartiene anche al consiglio regionale; b) sui progetti di modifica dello
statuto di iniziativa governativa o parlamentare il consiglio regionale esprime il suo parere entro
due mesi; c) le modifiche approvate sono sottratte al referendum nazionale. Le prime due
modifiche generalizzano per tutte le regioni speciali tasselli procedimentali già previsti da alcuni
statuti speciali; ad esempio, lo statuto della regione Sardegna contemplava, già prima della legge
cost. 2/2001, l'istituto del parere obbligatorio del consiglio regionale su progetti di modifica dello
statuto di iniziativa governativa o parlamentare: la legge cost. 2/2001 si è limitata, in questo caso,
a estendere il termine entro cui il consiglio regionale deve esprimere il parere (due mesi anziché
uno, come prevedeva originaria-mente l'art. 54 St. Sar.). Quanto alla sottrazione del procedimento
di revisione statutaria al referendum nazionale previsto dall'art. 138 Cost., invece, si è sviluppato
un dibattito molto acceso in dottrina, volto a valutare la ratio di tale disposizione e la collocazione
che, a seguito di questa modifica, lo statuto speciale assume nel sistema delle fonti. In particolare,
l'assenza del referendum nazionale ex art. 138 Cost. consente ancora di qualificare lo statuto
speciale come legge costituzionale (seppure atipica) o impone di considerarla come legge che si
colloca al di sotto della Costituzione ma al di sopra delle leggi ordinarie? La risposta a questa
domanda è decisiva perché condiziona la collocazione dello statuto nel sistema delle fonti e
permette di comprendere i limiti cui lo statuto speciale è soggetto. C'è chi sostiene che l'esclusione
dello statuto speciale dal referendum nazionale condurrebbe a configurarlo quale fonte
gerarchicamente subordinata alla legge costituzionale, anche se pur sempre sovraordinata rispetto
alla legge ordinario: lo statuto mancherebbe di un elemento procedimentale — il referendum,
appunto — che ne depotenzierebbe la forza rispetto alle leggi di revisione costituzionale ex art.
138 Cost, Accogliendo una simile prospettazione, le conseguenze sarebbero di particolare rilievo:
una qualunque legge di revisione costituzionale adottata con il procedimento di cui all'art, 138
Cost, potrebbe, infatti, modificare lo statuto speciale a prescindere dalla partecipazione regionale
al procedimento stesso, frustrando, così, la ratio stessa della legge cost. 2/2001, che aveva
modificato il procedimento di revisione degli statuti speciali proprio per rendere necessaria la
partecipa-zione regionale. Inoltre, non sarebbe molto chiaro il sistema dei limiti cui lo statuto
dovrebbe essere assoggettato: gli stessi delle leggi ordinarie oppure quelli relativi alle leggi di
revisione costituzionale? Parallelamente, c'è chi afferma che l'assenza del referendum nazionale
non costituisce un depotenziamento dello statuto speciale (e, quindi, un abbassa-mento del livello
della fonte) ma, al contrario, un elemento che aggrava il procedimento di formazione dello statuto
medesimo dando vita a una fonte «legge costituzionale» atipica, titolare di una riserva di
competenza. Questa diversa ricostruzione eviterebbe l'inconveniente segnalato poc'anzi (ossia, la
modificabilità degli statuti speciali da parte di leggi costituzionali ex art. 138 Cost. senza il
coinvolgimento regionale) e inoltre implicherebbe un più chiaro regime dei limiti incontrati dagli
statuti speciali: questi ultimi sarebbero soggetti solo ai principi supremi dell'ordinamento
costituzionale, secondo la giurisprudenza costituzionale inaugurata con sentenza 1146/1988.
Ovviamente, a seguire questa tesi, le modifiche allo statuto sarebbero «patteggiate» tra lo Stato e
la regione interessata senza la possibilità per il popolo di esprimersi: proprio l'inconveniente —
l'impossibilità che la comunità nazionale esprima la sua voce — che la tesi opposta intendeva
scongiurare.

Un coinvolgimento ancora più intenso delle Regioni speciali nella revisione dei propri Statuti?
Le due modifiche innanzi segnalate (ossia, parere obbligatorio del consiglio regionale e sottrazione a
referendum nazionale) sono state decisive per consentire un più deciso coinvolgimento delle Regioni
speciali nel procedimento di revisione dei propri Statuti. Tuttavia, vanno almeno menzionati altri due
tentativi, poi naufragati, volti a prevedere una partecipazione paritaria delle regioni speciali nel
procedimento di revisione statutaria: entrambi i tentativi, con alcune differenze procedimentali,
convertivano il parere obbligatorio dei Consigli in intesa. Il primo atto che contemplava l'intesa è il disegno
di legge costituzionale recante "Modifiche alla Parte II della Costituzione", approvato a maggioranza
assoluta in seconda deliberazione al Senato il 16 novembre 2005 e pubblicato in G.U. 18 novembre 2005, il.
269. L'articolo 38 del progetto di riforma, rubricato "Approvazione degli statuti delle Regioni speciali",
disponeva testualmente «1. All'articolo 116, primo comma, della Costituzione, sono aggiunte, in fine, le
seguenti parole: "previa intesa con la Regione o Provincia autonoma interessata sul testo approvato dalle
due camere in prima deliberazione. Il diniego alla proposta di intesa può essere manifestato entro tre mesi
dalla trasmissione del testo, con deliberazione a maggioranza dei due terzi dei componenti del Consiglio o
Assemblea regionale o del Consiglio della Provincia autonoma interessata. Decorso tale termine senza che
sia stato deliberato il diniego, le camere possono adottare la legge costituzionale"» L'intesa era fase
procedimentale collocantesi tra la prima e la seconda deliberazione e il suo eventuale diniego, nei modi e
nelle forme prescritte, avrebbe arrestato il procedimento di revisione statutaria. Il progetto è naufragato a
causa della sua mancata approvazione referendaria del 25 e 26 giugno 2006 (esito pubblicato sulla G.U. n.
171 del 25 luglio 2006). Stessa sorte è toccata alla riforma Renzi-Boschi: il referendum del 4 dicembre 2016
(esiti pubblicati G.U. n. 31 del 7 febbraio 2017) non ha confermato la revisione costituzionale ad ampio
spettro che incideva robustamente anche sul sistema regionale italiano. Invero, la norma di modifica del
procedimento di revisione degli statuti, più discreta e laconica, era collocata, nella topografia della riforma,
solo tra le disposizioni transitorie. L'art. 39, comma 13, del testo finale della riforma (pubblicato in G.U. n.
88 del 15 aprile 2016) prevedeva: «le disposizioni di cui al capo IV della presente legge costituzionale non si
applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione
dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome».

Tentativi di riforma degli statuti


Alcune regioni si sono attivate per la revisione dei propri statuti speciali o di alcune parti degli stessi. Nei
primi anni immediatamente successivi alla 1. cost. 2/2001 era invalsa la prassi di nominare delle
Commissioni per la revisione organica degli statuti. Ad esempio, la Sicilia, con la legge reg. 13/2001, aveva
istituito una Commissione speciale per la revisione dello statuto che, a sua volta, aveva dato vita a una
proposta di legge costituzionale di modifica dello statuto inviata al Parlamento affinché prosegua l'iter, così
come previsto nell'art. 138 Cost. Anche il Friuli-Venezia Giulia aveva istituito un organo analogo, con legge
reg. 12/2004, denominato Convenzione regionale, con il compito di redigere la proposta di statuto. Con
legge regionale 29 dicembre 2006, n. 35, la Valle d'Aosta ha istituito e disciplinato una "Convenzione per
l'autonomia e lo Statuto speciale della Regione autonoma", con il compito di promuovere riforme dello
Statuto. Ancora, la Sardegna aveva previsto, nella legge 7/2006, la Consulta per il nuovo statuto di
autonomia e sovranità del popolo sardo con il compito di elaborare una proposta di statuto da trasmettere
al consiglio regionale (peraltro, il riferimento della legge regionale al concetto di «sovranità del popolo
sardo» ha indotto il governo a ricorrere alla Corte costituzionale che, con sentenza 365/2007, lo ha
dichiarato illegittimo). Un progetto di revisione dello statuto sardo (legge cost. 26 febbraio 1948, n. 3),
limitatamente agli articoli 18 e 43 concernenti la materia elettorale e l'ordinamento degli enti locali è stato
intrapreso nel 2015 (AS 1895); tuttavia, pur essendo stato assegnato alla I Commissione permanente (Affari
Costituzionali) in sede referente il 25 gennaio 2017, non ne è ancora iniziato l'esame. Nel corso della XVII
legislatura si sono conclusi due itinera di modifica di statuti di regioni ad autonomia speciale: nel 2016 per il
Friuli-Venezia Giulia e nel 2017 per il Trentino-Alto Adige. Con la legge costituzionale 28 luglio 2016, n. 1
sono state apportate modifiche allo statuto speciale della regione Friuli-Venezia Giulia (legge cost. 31
gennaio 1963, n. 1): le modifiche hanno delineato un assetto istituzionale che contempla solo due livelli di
governo: la regione ed i comuni, anche nella forma di città metropolitane. Con legge costituzionale n. 1 del
4 dicembre 2017 è stato modificato lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige con la finalità di rafforzare
la tutela della minoranza linguistica ladina della provincia di Bolzano.

Quanto ai contenuti degli statuti speciali, essi sono rappresentati da quelle «forme e condizioni
particolari di autonomia» di cui parla l'art. 116 Cost. Non si possono, qui, analizzare partitamente
le caratteristiche dei singoli statuti speciali: tuttavia, si può tracciare un quadro complessivo delle
discipline normative contenute negli statuti speciali che presentano delle peculiarità rispetto a
quanto disposto dal Titolo V, parte II, della Costituzione per le regioni ordinarie. Per ciò che attiene
alla natura stessa dell'istituzione, la particolarità più accentuata è quella della regione Trentino-
Alto Adige, suddivisa nelle due province autonome di Trento e di Bolzano dotate di funzioni
legislative e amministrative. Le province autonome sono il vero fulcro attorno al quale ruota
l'ordinamento regionale del Trentino-Alto Adige: si pensi, ad esempio, che il consiglio regionale, ai
sensi dell'art. 25 dello statuto del Trentino-Alto Adige (modificato dall'art. 4, comma 1, lett. A,
della legge cost. 2/2001), «è composto dai membri dei Consigli provinciali di Trento e di Bolzano»:
anche la Corte costituzionale ha riconosciuto il carattere derivativo dell'Assemblea regionale
rispetto ai consigli delle due province autonome (sent. 232/2006). Una particolarità della regione
Sicilia, non più in vigore, riguardava il profilo dei controlli: il riferimento è all'istituto del controllo
preventivo sulle leggi regionali siciliane. Si trattava di un controllo sulle delibere legislative
dell'assemblea regionale siciliana attivabile a opera del commissario dello Stato presso la regione
tramite un ricorso diretto alla Corte costituzionale (vedi § X1.5): una differenza davvero vistosa
rispetto alle disposizioni vigenti per le regioni ordinarie che, ai sensi dell'art. 127 Cost., possono
vedere impugnatele proprie leggi dinanzi alla Corte solo dopo la pubblicazione. La differenza di
regime era, peraltro, consacrata anche nella legge n. 87 del 1953 che, a proposito del sistema
impugnatorio delle leggi regionali, prima della modifica dell'art. 127 ad opera della riforma del
2001, premetteva la formula «ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista
dallo statuto speciale della Regione siciliana...». L'istituto del controllo preventivo è sopravvissuto
per diverso tempo nell'ordinamento, nonostante l'introduzione, attraverso l'art. 10 della legge
cost. 3/2001, della c.d. «clausola di adeguamento automatico» (di questa disposizione e delle
conseguenze a essa collegate si parlerà diffusamente nel § D(.5). Ma nel 2014, prima con
l'ordinanza n. 114 e poi con la sentenza n. 255, la Corte costituzionale è intervenuta sul punto,
parificando la condizione della regione siciliana con quella delle altre regioni. In partico-lare, con la
prima decisione (ord. 114/2014), la Corte ha sospeso un giudizio promosso dal Commissario dello
Stato per la Regione siciliana avverso una disposizione contenuta in una delibera legislativa
approvata dall'Assemblea regionale, sollevando dinanzi a sé stessa la questione di legittimità
concernente l'art. 31, comma 2, della legge n. 87/1953, per violazione degli articoli 127 Cost. e 10
della legge cost. 3/2001, nella parte in cui la disposizione fa salva la particolare forma di controllo
delle leggi per la Regione siciliana. Con la seconda decisione (sent. 255/2014), la Corte, realizzando
un deciso revirement rispetto ai propri precedenti (sent. 314/2003), dichiara l'incostituzionalità in
parte qua dell'art. 31, comma 2, legge 87/1953 e rimuove, in tal modo, l'anomalia del regime
impugnatorio delle leggi siciliane, parificandolo, ai sensi dell'art. 127 Cost. in forza della clausola di
adeguamento automatico, a quello delle altre regioni.

Una peculiarità estinta: l'Alta Corte per la regione siciliana


Dal punto di vista istituzionale, la Sicilia presentava una particolarità: lo statuto (che, come detto sopra,
precedeva la Costituzione) prevedeva un organo di giustizia costituzionale — l'Alta Corte per la regione -
che aveva la competenza di sindacare la conformità delle leggi statali e regionali allo statuto speciale. Con
l'avvento della Costituzione, quest'organo divenne incompatibile con l'art. 134 Cost., perché violava il
principio di unità del controllo di legittimità costituzionale delle leggi affidato alla Corte costituzionale:
quest'ultima, pertanto, ne ha dichiarato l'illegittimità con due decisioni (sent. 38/1957 e 6/1970).

Di certo, in ogni modo, gli aspetti che maggiormente valgono a qualificare le «forme e condizioni
particolari di autonomia» delle regioni speciali sono costituiti dalle speciali competenze legislative
e amministrative, dal modo di attuazione degli statuti attraverso una fonte peculiare (appunto le
norme di attuazione) e dal regime finanziario: aspetti che formano oggetto dei paragrafi successivi
e ai quali, dunque, si rinvia integralmente. Si è detto che la legge cost, 2/2001 è intervenuta su due
fronti: uno, appena esaminato, relativo al procedimento di revisione degli statuti speciali e l'altro
relativo all'introduzione della cd. legge statutaria. È opportuno, adesso, soffermarsi su questo
secondo aspetto. Bisogna ricordare che la legge cost. 1/1999 ha introdotto importanti modifiche
dell'art. 123 Cost. relativamente al procedimento di formazione e al contenuto necessario degli
statuti delle regioni ordinarie: non solo ne ha interamente regionalizzato il procedimento di
formazione, ma ha, altresì, riservato a queste fonti la disciplina della «forma di governo» e dei
«principi fondamentali di organizzazione e funzionamento della regione». Per evitare che la
condizione delle regioni speciali risultasse deteriore rispetto a quelle ordinarie e per consentire,
dunque, che anch'esse potessero, in completa autonomia, determinare la propria farina di
governo (sottraendone la disciplina allo statuto speciale), la legge cost. 2/2001 ha introdotto
questa nuova fonte, entrata nel linguaggio comune con il nome di «legge statutaria», Le leggi
statutarie sono leggi regionali peculiari sia per alcuni profili relativi al procedimento di formazione,
sia per lo specifico oggetto a esse riservato. procedimento di formazione delle leggi statutarie
ricalca solo in parte quello previsto nell'art. 123 Cost, per gli statuti delle regioni ordinarie, pur
presentando con esso indubbie analogie (sulla sostanziale incomparabilità tra statuto ordinario e
legge statutaria, vedi Corte cost. 370/2006).
Ciascuna legge statutaria deve essere approvata con un'unica deliberazione del consiglio regionale
a maggioranza assoluta dei suoi componenti (a differenza dello statuto ordinario, per il quale si
prevede una doppia deliberazione, sempre a maggioranza assoluta); la deliberazione viene
pubblicata prima della promulgazione per consentire che, entro tre mesi, un cinquantesimo del
corpo elettorale regionale o un quinto dei membri del consiglio facciano richiesta di referendum
confermativo. Nonostante la legge cost. 2/2001 non ne faccia menzione, si deve
ritenere che anche per la legge statutaria sussistano due pubblicazioni, analogamente al regime
degli statuti ordinari: una (detta «notiziale», cioè effettuata al puro scopo di dare notizia
dell'approvazione) costituente il dies a quo per la proposizione del referendum confermativo o del
ricorso governativo dinanzi alla Corte; un'altra, invece, successiva alla promulgazione da parte del
presidente della regione e rientrante, dunque, nella fase integrativa dell'efficacia. Se la delibera
legislativa statutaria avviene a maggioranza di due terzi dei consiglieri (e non, dunque, a
maggioranza assoluta), aumenta la frazione del corpo elettorale regionale che è abilitato a
chiedere il referendum confermativo — un trentesimo, anziché un cinquantesimo — ma la
possibilità di avviare la consultazione referendaria scompare per i membri del consiglio: anche
questa è una differenza rispetto al procedimento di cui all'art. 123 Cost. Entro trenta giorni dalla
pubblicazione notiziale è possibile, infine, che il governo presenti ricorso dinanzi alla Corte
costituzionale: quindi, un controllo preventivo di legittimità costituzionale, simile a quello per gli
statuti ordinari. Il particolare procedimento di formazione della legge statutaria vale a qualificarla
come legge «rinforzata»: essa non può essere modificata dalla regione se non nei modi appena
descritti. Inoltre, la legge statutaria è destinataria di una riserva di competenza, in quanto la legge
cost. 2/2001 attribuisce a essa un contenuto necessario che non può essere disciplinato da altra
fonte. Quanto al contenuto, infatti, la legge statutaria deve disciplinare: a) la forma di governo,
ossia i rapporti intercorrenti tra gli organi di vertice li della regione; b) l'elezione del consiglio
regionale, inclusa la disciplina dei casi di incompatibilità e ineleggibilità dei suoi membri (per le
regioni ordinarie, invece, l'art. 122 Cost. affida la materia in questione alla legge regionale nei limiti
dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica; c) l'iniziativa legislativa, ma solo
quella popolare, mentre le altre forme di iniziativa legislativa sono ancora disciplinate dagli statuti
speciali; d) il referendum abrogativo, propositivo, consultivo (l'art. 123 Cost. adopera, invece, una
formula più stringata, limitandosi a riconoscere allo statuto ordina-rio il potere di regolare il
referendum «su leggi e provvedimenti amministrativi della regione». Nulla si dice a proposito della
possibilità, per le regioni speciali, di istituire con legge statutaria il consiglio delle autonomie locali-
CAL (per le regioni ordinarie questa possibilità è espressamente contemplata nell'art. 123 Cost.:
vedi § V.11). Tuttavia, l'assenza di un'espressa previsione in tal senso nella legge cost. 2/2001 non
impedisce alle regioni speciali di dotarsi del CAL, come pure afferma la sentenza 370/2006. Alcuni
di questi ambiti materiali erano prima disciplinati direttamente dagli statuti speciali e sono
transitati, a opera della legge cost. 2/2001, nel contenuto necessario della legge statutaria, fonte
pur sempre rinforzata ma comunque sub-costituzionale: per descrivere questo fenomeno — il
passaggio della disciplina di una materia dalla legge costituzionale (in questo caso, lo statuto,
speciale) a una fonte di rango inferiore, si usa fare riferimento al concetto di
“decostituzionalizzazione”. Più significativo, tuttavia, è notare che si è passati da una fonte statale
a una completamente autonoma. I limiti che la legge statutaria incontra nel disciplinare gli oggetti
a essa affidati sono dati dall'armonia con la Costituzione, dai principi dell'ordinamento giuridico
della Repubblica e dalle specifiche disposizioni relative alla forma di governo, Quanto al primo e al
terzo limite se ne è già parlato diffusamente sopra (vedi § V.4), poiché questi limiti ricalcano quelli
omologhi previsti per gli statuti ordinari. Più problematica è l'individuazione del limite relativo ai
principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica. L'espressione richiama i principi generali
dell'ordinamento che costituiscono il limite alle potestà legislative delle regioni speciali, secondo i
rispettivi statuti: ma se il limite fosse lo stesso, la legge statutaria sarebbe assimilabile a una
qualunque legge regionale. È stato suggerito che questa formula — apposta in relazione alla forma
di governo — assolva alla medesima funzione dei principi fondamentali stabiliti con legge della
Repubblica, che l'art. 122 Cost, indica come limiti subiti dalle leggi regionali (per le regioni
ordinarie) nella disciplina del sistema di elezione e dei casi di incompatibilità dei componenti degli
organi regionali. Numerose sono, ad oggi, le leggi statutarie approvate dalle regioni speciali: ciò è,
probabilmente, il segnale che le regioni ritengono decisiva la competenza a esse attribuita dalla
legge cost. 2/2001 per delineare la propria fisionomia e la propria forma di governo, a integrazione
di quanto già disposto dallo statuto.

LE NORME DI ATTUAZIONE
Tra gli strumenti che consentono di individuare le «forme e condizioni particolari di autonomia»
delle regioni speciali, un ruolo di primo piano è ricoperto dalle norme di attuazione, La norma di
attuazione, denominata anche «decreto legislativo di attuazione degli statuti speciali», è un
decreto legislativo che a) traferisce funzioni amministrative, uffici e personale dallo Stato alla
regione speciale e b) serve a specificare, a dare attuazione appunto, a qualunque altra disposizione
dello statuto e, in particolare, a concretizzare le competenze legislative statutarie. Si tratta di uno
strumento esistente soltanto nelle regioni speciali, i cui statuti prevedono tale meccanismo in
deroga all'VIII disposizione transitoria e finale della Costituzione (che prevede che nelle regioni
ordinarie il trasferimento di funzioni amministrative, uffici e personale avvenga a opera di «leggi
della Repubblica»). Le norme di attuazione sono fonti atipiche che, pur avendo la forma del
decreto legislativo adottato dal governo (prima della legge 400/1988 la forma era il decreto del
presidente della Repubblica) e quindi appartenendo al tipo decreto legislativo, divergono rispetto
a esso sia per procedimento di formazione sia per forza e per posizione occupata nel sistema delle
fonti.
La fonte sulla produzione delle norme di attuazione è lo statuto speciale: ciò significa che ciascuno
statuto speciale detta il procedimento di formazione delle norme di attuazione. In particolare,
disciplinano le norme di attuazione: l'art. 43 statuto Sicilia; l'art. 56 statuto Sardegna; l'art. 107
statuto Trentino-Alto Adige; l'art. 65 statuto Friuli-Venezia Giulia. Gli statuti di queste regioni
avevano previsto le norme di attuazione sin dal 1948. Nello statuto della Valle d'Aosta, invece, tale
strumento fu introdotto successivamente, tramite la legge cost. 2/1993 che inserì l'art. 48-bis. Fino
al 1993 alla Valle d'Aosta si applicava, dunque, la disciplina comune per le regioni ordinarie (I'VIII
trans, e fin. Cost.: vedi Corte cost. 76/1963). Sono due le differenze che i decreti legislativi di
attuazione degli statuti speciali presentano rispetto al decreto legislativo disciplinato all'art. 76
Cost. In primo luogo, per emanare una norma di attuazione non è necessaria una legge delega,
sussistendo una «delega permanente» contenuta una tantum nello statuto [Chieppa 2008] (vedi
sent. 212/1984 Corte cost.). Le norme di attuazione, pertanto, non sono soggette ai tre limiti di
oggetto, tempo, principi e criteri direttivi previsti dall'art. 76 Cost. (tuttavia, i limiti di oggetto e
principi direttivi sono sostituiti dalla funzione stessa delle norme di attuazione). In secondo luogo,
per approvare una norma di attuazione serve che la proposta di decreto legislativo sia redatta da
una Commissione paritetica Stato-regioni. Tale organo è composto in modo paritario da
rappresentanti della regione e dello Stato, nominati con decreto ministeriale, che normalmente
vengono rinnovati a ogni legislatura nazionale. Le commissioni paritetiche siciliana e sarda hanno
due componenti statali e due regionali; quelle della Valle d'Aosta e del Friuli-Venezia Giulia hanno
tre componenti statali e tre regionali; la commissione paritetica del Trentino-Alto Adige ha sei
componenti statali e sei regionali. La Commissione paritetica di ciascuna regione elabora un parere
con cui accompagna la proposta di norma di attuazione da presentare al governo. In Sardegna e in
Valle d'Aosta, prima della presentazione al governo sullo schema di norma di attuazione dovrà
esprimersi con un parere, obbligatorio, ma non vincolante, anche il consiglio regionale. Una volta
redatta la proposta dalla Commissione paritetica, lo schema di decreto legislativo di attuazione è
deliberato dal governo centrale che potrà apportarvi modifiche; il decreto legislativo è quindi
emanato dal presidente della Repubblica e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. In virtù del
procedimento descritto, che prevede una concertazione e una partecipazione dei due livelli di
governo statale e regionale nella elaborazione delle norme di attuazione, queste sono considerate
strumenti di raccordo tra Stato e regione, classificabili tra le forme di collaborazione per atti di tipo
bilaterale, in quanto coinvolgono lo Stato e la sin' gola regione speciale interessata. L'atipicità del
procedimento di adozione si riflette sulla forza che le norme di attuazione assumono nel sistema
delle fonti. Esse possono essere qualificate quali fonti sub-costituzionali, dotate di una forza
superiore rispetto alle normali fonti primarie, capaci anche di definire competenze praeter
statutum — cioè al di là, oltre lo statuto. Decisiva nel chiarire la posizione che le norme di
attuazione rivestono nel sistema delle fonti è stata la Corte costituzionale, che ha riconosciuto la
possibilità di utilizzare le norme di attuazione come parametro per sindacare la legittimità di leggi
statali che violassero, appunto, la competenza stabilita in tali norme. Nate principalmente per
operare il trasferimento delle funzioni amministrative, le norme di attuazione sono divenute nel
tempo elementi centrali della specialità tanto che i poteri reali di una regione speciale spesso
dipendono proprio dall'uso di tale strumento. Questo perché attraverso le norme di attuazione,
oltre che operare trasferimenti di funzioni amministrative, si possono specificare e integrare i
contenuti, spesso generici, delle materie legislative statutarie. La storia dello sviluppo della
specialità coincide, dunque, in gran parte con la storia dell'uso delle norme di attuazione.

Un'altra forma di collaborazione tra Stato e regioni speciali: la partecipazione dei presidenti
delle regioni speciali al Consiglio dei ministri
Come visto le norme di attuazione possono essere considerate delle forme di collaborazione bilaterale tra
Stato e regioni speciali. Queste ultime, inoltre, dialogano con lo Stato, affianco alle regioni ordinarie, per il
tramite delle conferenze. Ma vi è anche un ulteriore meccanismo che consente alle regioni speciali di
interloquire con lo Stato. I presidenti delle regioni speciali, infatti, hanno diritto a partecipare alle sedute
del Consiglio dei ministri in cui si trattano questioni di interesse della regione speciale secondo quando
previsto agli art. 47 St. Sardegna, art. 44 St. Friuli-Venezia Giulia, art. 44 St. Valle d'Aosta, art. 40 St.
Trentino-Alto Adige e art. 21 St. Sicilia. Tale partecipazione ha una natura consultiva, tranne che per la
Sicilia il cui statuto assegna al presidente il rango di ministro — ponendo, peraltro, un'antinomia con l'art.
92 Cost. — e un diritto di voto deliberativo. Le norme degli statuti citate non sono chiare per quanto
riguarda le condizioni alle quali tale partecipa-zione è obbligatoria, parlando in generale di questioni di
interesse regionale. In diversi conflitti di attribuzione sollevati dalle regioni escluse dalla partecipazione, la
Corte costituzionale ha ritenuto che la partecipazione sia limitata ai casi in cui venga in questione un
interesse rilevante e differenziato ossia specifico della o delle regioni speciali coinvolte, escludendosi,
dunque, la partecipazione su questioni di impatto generale su tutte le regioni (sentt. 527/1988 e 92/1999).
Per lungo tempo la Corte aveva escluso la partecipazione in sede di adozione di atti con forza di legge, ma
dalla fine degli anni '80 ha mutato giurisprudenza (sentt. 627/1988 e 37/1991).

Possiamo distinguere due diversi usi di tali strumenti: da un lato norme di attuazione «fotocopia»
dei decreti di trasferimento di funzioni per le regioni ordinarie, spia di quel fenomeno di
«inseguimento» delle regioni speciali nei confronti delle regioni ordinarie. I momenti salienti di
tale uso sono le norme di attuazione emanate dopo l'istituzione delle regioni ordinarie e quindi
dopo i decreti del 1972 e il dpr 616/1977 (i due gruppi di decreti legislativi che ai sensi dell'VIII
disposizione trasferivano alle regioni ordinarie funzioni e servizi). Le regioni speciali produssero
norme di attuazione tendenzialmente riproduttive del contenuto di tali decreti.
Analogamente, anche dopo l'entrata in vigore delle riforme Bassanini, e in particolare della legge
59/1997 e del d.lgs. 112/1998, le norme di attuazione tendevano a essere «fotocopie» dei
trasferimenti effettuati a favore delle regioni ordinarie. Un secondo uso delle norme di attuazione
si ricollega all'estensione e specificazione di materie statutarie. Su questo profilo si registra, in
tutta la storia del regionalismo speciale, un approccio diverso da parte delle regioni speciali allo
strumento delle norme di attuazione. Alcune regioni (Sardegna, Sicilia) ne hanno fatto un uso
quantitativamente e qualitativamente poco incisivo, mentre altre regioni (in particolare il
Trentino-Alto Adige) ne hanno fatto un vero e proprio strumento di «riscrittura dello statuto».

Qualche esempio di norma di attuazione


Per capire come in concreto funzionano le norme di attuazione possiamo prenderne ad esempio una che
opera trasferimenti di uffici e personale e una che dettaglia il contenuto di una disposizione dello statuto.
Alla prima tipologia appartiene il d.lgs. 23 dicembre 2010, n. 274, Norme di attuazione dello statuto
speciale della regione Friuli-Venezia Giulia in materia di sanità penitenziaria. Questa norma attua la
competenza prevista all'art. 5.1, n. 16 dello statuto del Friuli-Venezia Giulia, ossia: «igiene e sanità,
assistenza sanitaria e ospedaliera, nonché il recupero dei minorati fisici e mentali». In effetti, la materia
indicata in tale disposizione necessita di essere concretizzata: chi gestisce la sanità penitenziaria? A quale
struttura in concreto il cittadino deve rivolgersi? L'art. 2 della norma di attuazione in esame ci dice che
<dono trasferite al Servizio sanitario della regione tutte le funzioni sanitarie svolte nell'ambito del territorio
regionale dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento per la Giustizia Minorile
del Ministero della Giustizia, comprese quelle concernenti il rimborso alle comunità terapeutiche, sia per i
tossicodipendenti che per i minori affetti da disturbi psichici, delle spese sostenute per il mantenimento, la
cura e l'assistenza medica dei detenuti». Come detto, le norme di attuazione non servono soltanto a
trasferire risorse e personale dallo Stato alla regione, ma servono a concretizzare qualsiasi articolo dello
statuto. Ad esempio, l'art. 2 dello statuto del Trentino-Alto Adige stabilisce che «Nella regione è
riconosciuta parità di diritti ai cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico al quale appartengono, e sono
salvaguardate le rispettive caratteristiche etniche e culturali». Questa disposizione è stata attuata con il
d.lgs. 592/1993, Norme di attuazione dello Statuto speciale della regione Trentino Alto Adige concernenti
disposizioni di tutela delle popolazioni ladina, mochena e timbra della Provincia di Trento. Tale norma di
attuazione ha dettagliato in modo accurato quali sono le minoranze linguistiche protette. L'art. 2 stabilisce
che «Le finalità di tutela e di promozione della lingua e della cultura sono perseguite anche in favore delle
popolazioni mochena e cimbra residenti, rispettivamente, nei comuni di Fierozzo-Vlarotz, Frassilongo-
Garait, Palù del Fersina-Palae en Bersntol e nel comune di Luserna-Lusern». La norma ha, inoltre,
concretizzato i diritti menzionati dallo statuto stabilendo all'art. 1 che «I cittadini appartenenti alle
popolazioni ladine della Provincia di Trento hanno facoltà di usare la propria lingua nelle comunicazioni
verbali e scritte con le istituzioni scolastiche e con gli uffici, siti nelle località ladine, dello Stato, della
regione, della provincia e degli enti locali» e, nei successivi articoli, il diritto all'uso innanzi al giudice di pace,
nella scuola e via enumerando.
Lo strumento delle norme di attuazione è stato confermato dal legislatore anche per l'attuazione
delle materie spettanti alle regioni speciali in virtù dell'art. 117 Cost., modificato con la riforma del
Titolo V del 2001, Infatti la legge 131/2003 (art. 11.2 e 3) dispone che: «Le Commissioni
paritetiche previste dagli statuti delle regioni a statuto speciale, in relazione alle ulteriori materie
spettanti alla loro potestà legislativa ai sensi dell'articolo 10 della citata legge costituzionale n. 3
del 2001, possono proporre l'adozione delle norme di attuazione per il trasferimento dei beni e
delle risorse strumentali,' finanziarie, umane e organizzative, occorrenti all'esercizio delle ulteriori
funzioni amministrative, Le norme di attuazione di cui al comma 2 possono prevedere altresì
disposizioni specifiche per la disciplina delle attività regionali di competenza in materia di rapporti
internazionali e comunitari».

LE POTESTÀ LEGISLATIVE E AMMINISTRATTVE NEL


SISTEMA DEGLI STATUTI
Le leggi delle regioni speciali, analogamente a quelle delle regioni ordinarie, sono approvate dai
rispettivi consigli regionali e sono fonti primarie. La potestà legislativa è riconosciuta a tutte le
regioni speciali, nonché alle due province autonome di Trento e di Bolzano, che possono emanare
leggi provinciali. La potestà legislativa delle regioni speciali e delle province autonome presenta
diverse peculiarità rispetto a quella riconosciuta alle regioni ordinarie. Storica-mente, sino al 2001,
le regioni ordinarie godevano esclusivamente di una potestà legislativa concorrente, di attuazione,
di integrazione o di delega, mentre le regioni speciali hanno goduto, sin dalla loro istituzione, di
una competenza più piena, chiamata talvolta — anche se non del tutto propriamente — esclusiva.
Ma anche dopo il 2001 persistono notevoli differenze tra regioni ordinarie e speciali, Una
differenza fondamentale consiste nella fonte che individua la lista delle materie in cui le regioni
possono legiferare; per le regioni ordinarie, come visto (vedi § VI.1), tale fonte è l'art. 117 Cost.,
mentre per le regioni speciali è lo statuto e, a partire dal 2001, anche l'art. 117, ma soltanto nella
misura in cui contenga competenze più favorevoli rispetto a quelle indicate nello statuto, in base a
quanto stabilito all'art. 10 della legge cost. 3/2001 (di cui si parlerà nel § IX.5) che contiene la
cosiddetta clausola di favore per le regioni speciali. Le competenze delle autonomie speciali,
dunque, sono attualmente previste da clausole attributive contenute in due fonti distinte. La prima
è l'elenco di materie contenuto nei rispettivi statuti. Questi indicano tre tipi di potestà legislativa:
primaria, concorrente e integrativo-attuativa. La distinzione è importante perché a ciascun tipo si
accompagna un diverso regime di limiti che la regione speciale incontra nell'esercizio della sua
potestà legislativa. Ciascuna delle tre tipologie descritte si articola in elenchi di materie che variano
da statuto a statuto e non sono, quindi, esattamente sovrapponibili esistendo materie peculiari di
una sola regione (ad es, i masi chiusi o l'alpicoltura compaiono soltanto nello statuto del Trentino-
Alto Adige) o diversità terminologiche (ad es. lo statuto sardo parla di «assistenza e beneficienza
pubblica», quello friulano parla di «istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza»). Ci sono,
comunque, anche materie presenti in modo omogeneo in tutti gli statuti, Ad esempio, la materia
«ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni» è stata riconosciuta in capo a tutte le
regioni speciali dalla legge cost. 2/1993 (prima di allora ne godeva soltanto la Sicilia), che ha
modificato contestualmente tutti gli statuti. La seconda clausola attributiva di competenza
legislativa è costituita dalla clausola di adeguamento automatico dell'art. 10, legge cost. 3/2001,
che consente un aggiornamento immediato degli statuti alle eventuali competenze più ampie
riconosciute dall'art. 117. I due sistemi competenziali (quello elencato nello statuto e quello
ricostruibile dalla Costituzione novellata nel 2001) coesistono, si sommano e sono soggetti al
«principio di non frammentazione» [Parisi 2012], per cui ognuno dei due sistemi competenziali è
sottoposto al regime dei limiti suoi propri e, una volta scelto — in base a un giudizio di «maggior
favore» — il sistema competenziale di riferimento, questo si applica nella sua interezza. In questo
paragrafo analizzeremo il sistema di competenze legislative previsto negli statuti, mentre nel
successivo paragrafo 5 l'attenzione si sposterà sul sistema di nuove competenze legislative
spettanti in base all'art. 117 Cost. Gli statuti, come detto, contengono le liste di materie nelle quali
le regioni speciali e le due province di Trento e di Bolzano possono legiferare. Queste liste sono
articolate in tre tipi di potestà legislativa che si differenziano per i limiti che ciascuna incontra.
La potestà legislativa primaria, denominata in alcuni statuti anche piena o esclusiva (i tre termini
sostanzialmente si equivalgono) è quella esercitabile dalle regioni a prescindere da una legge di
principio o cornice statale. Essa è soggetta ai seguenti limiti: i principi generali dell'ordinamento
giuridico della Repubblica; le norme fondamentali di grande riforma economico-sociale; gli
obblighi internazionali dello Stato; l'interesse nazionale (il limite di merito).
I principi generali dell'ordinamento della Repubblica (da non confondere con il limite dei «principi
fondamentali» che grava sulla potestà legislativa concorrente, molto più incisivo e penetrante
sull'autonomia regionale) sono stati definiti dalla Corte costituzionale come «quegli orientamenti e
quelle direttive di carattere generale e fondamentale che si possono desumere dalla connessione
sistematica, dal coordinamento e dall'intima razionalità delle norme che concorrono a formare, in
un dato momento storico, il tessuto dell'ordinamento vigente» (sent. 6/1956). In alcuni casi sono
state le stesse leggi statali ad autoqualificare alcune norme in esse contenute come principi
generali dell'ordinamento. Si vedano per esempio la legge 241/1990 sul procedimento
amministrativo o la legge 59/1997 (cosiddetta «legge Bassanini»: vedi § 111.9): si noti però che le
autoqualificazioni non sono vincolanti, se non corrispondono alla realtà, e sono dunque soggette al
sindacato della Corte costituzionale.
Il limite delle norme fondamentali di riforma economico-sociale comporta che le leggi delle
regioni speciali non possono contrastare con quelle leggi nazionali che intendono realizzare grandi
processi riformatori. Come si accerta se una legge statale ha tale natura? In passato accadeva che
lo Stato autoqualificasse, nel titolo, la legge come «di grande riforma», ma, come sopra detto, ciò
non è vincolante: di volta in volta bisognerà andare a verificare il contenuto della legge e, in caso
di contrasto, sarà la Corte costituzionale a decidere,
Il limite degli obblighi internazionali dello Stato si riferisce alle norme internazionali pattizie
(quelle consuetudinarie hanno forza costituzionale ex art. 10.1 e la legge regionale le deve.
rispettare perché sono gerarchicamente sovraordinate) e trova la sua ratio nel fatto che la
violazione di una norma internazionale da parte della regione implicherebbe la responsabilità dello
Stato a livello internazionale. Ma che cosa accadrebbe se lo Stato iniziasse a siglare accordi
internazionali indiscriminatamente su tutte le materie che sono di competenza regionale?
Qualcosa di simile accade con la sottoscrizione da parte dello Stato dei trattati con l'Unione
europea che riconoscono a quest'ultima competenze in materie primarie delle regioni speciali e
anche delle altre regioni (ad es. agricoltura). Per evitare il paradosso che la presenza di un accordo
internazionale inibisca la potestà legislativa regionale, sono stati previsti meccanismi di
coinvolgimento delle regioni: il più noto è il loro coinvolgimento nella fase discendente — cioè
nella fase dell'attuazione — del diritto europeo.
Il limite dell'interesse nazionale, che prima del 2001 vigeva anche per le regioni ordinarie, è un
limite di merito che persiste per le materie delle regioni speciali. Questo limite è venuto meno con
la riforma del Titolo V, ma in base al principio di non frammentazione, esso vale ancora per le
regioni speciali nell'ipotesi in cui, in via interpretativa, si deduca che la competenza statutaria è più
favorevole di quella che deriva per «adeguamento automatico» dall'art. 117 Cost.
La potestà legislativa concorrente aggiunge ai limiti generali previsti per la competenza piena o
esclusiva quello specifico dei «principi fondamentali fissali in una legge dello Stato» (cosiddetta
legge-cornice). Si tratta di un tipo di competenza analoga a quella di cui godono le regioni
ordinarie ai sensi dall'art. 117.3 Cost. Dobbiamo ricordare che la lista di materie in cui le regioni
speciali hanno competenza concorrente va ricavata prima di tutto dall'elenco statutario e solo
dopo quello dell'art. 117.3, che può integrare quello statutario se più favorevole in base all'art. 10
della legge cost. 3/2001.
La potestà legislativa di integrazione e attuazione consente alla regione di legiferare sia per
riempire gli interstizi lasciati liberi dal legislatore (potestà integrativa), sia per dare attuazione a
leggi statali nel particolare contesto regionale (potestà attuativa). Nelle materie ricomprese in tale
potestà lo Stato può intervenire legiferando anche in modo dettagliato, non essendo tenuto a
limitarsi a fissare principi fondamentali tramite legge-cornice; tuttavia, l'intervento statale non è
esclusivo residuando spazi decisionali alla regione. L'essenza di tale potestà è ben riassunta nella
definizione che ne dà lo statuto sardo descrivendola come la «facoltà di adattare alle sue
particolari esigenze (della regione) le disposizioni delle leggi della Repubblica». A differenza
dell'analoga potestà legislativa attuativa prevista in capo alle regioni ordinarie prima del 2001 (oggi
soppressa), per le regioni speciali tale potestà prescinde da una delega statale di volta in volta
conferita. Essa, infatti, è prevista negli statuti come potestà esercitabile su un numero prefissato di
materie ivi indicate. Questa potestà soggiace a tutti i limiti vigenti per le altre tipologie e deve
anche rispettare i contenuti delle leggi statali che incidono su quelle materie. Non a caso essa è
considerata la «minore» delle potestà legislative regionali. L'art. 118 Cost., novellato dalla riforma
del Titolo V, prevede che le funzioni amministrative spettino ai comuni e individua nella
sussidiarietà il principio preposto a governare il riparto di tali funzioni (vedi § VIL3). Questa regola
di attribuzione delle funzioni amministrative vale anche nelle regioni speciali? Per rispondere
dobbiamo chiederci se questa disposizione prevede un'espansione dell'autonomia speciale. Da un
punto di vista formale, la risposta è in senso negativo: l'art. 118 non si applica alle regioni speciali
perché, a differenza delle regioni ordinarie, queste hanno la competenza esclusiva in tema di
ordinamento locale e hanno, quindi, la facoltà di decidere la titolarità delle funzioni amministrative
in capo a province e comuni o di conservarla in capo alla regione senza dover osservare il principio
di sussidiarietà. Ciò ovviamente non significa che nelle regioni speciali tutte le funzioni
amministrative siano esercitate dalla regione, né che le regioni speciali non debbano rispettare il
nucleo essenziale dell'autonomia locale (sui rapporti tra regioni speciali e autonomia locale vedi le
sentt. 238 e 286/2007). Ad esempio, le funzioni amministrative in materia di urbanistica (ad es.
rilascio di una concessione edilizia) sono esercitate dai comuni e molte altre (ad es. i servizi sociali,
la raccolta dei rifiuti). Ma a differenza delle regioni ordinarie, dove il comune dovrebbe essere il
naturale destinatario di tutte le funzioni, nelle regioni speciali è la regione stessa che decide del
loro riparto. Nelle regioni speciali, dunque, continua ad applicarsi il principio contenuto negli
statuti che è quello del parallelismo tra funzioni legislative e amministrative e non quello di
sussidiarietà per cui le funzioni amministrative spettano naturalmente ai comuni. In base al
principio del parallelismo, le regioni speciali sono titolari delle funzioni amministrative in cui hanno
anche potestà legislativa (di qualsiasi tipologia essa sia). L'esercizio di tali funzioni è reso possibile,
sin da quando le autonomie speciali hanno iniziato a operare, in virtù delle norme di attuazione
che hanno trasferito uffici e servizi alle regioni speciali. La vita degli enti locali nelle regioni speciali,
dunque, rischia di essere sottoposta a forme di centralismo regionale [Chessa 2008]. Il problema di
tale disparità tra enti locali delle regioni ordinarie e speciali è stato avvertito dal momento stesso
in cui il nuovo Titolo V è entrato in vigore, tanto che le regioni speciali hanno siglato un'intesa (il
20 marzo 2003, a Cagliari), in cui si impegnavano a garantire ai propri enti locali forme di
autonomia vicine a quelle di cui avrebbero goduto gli stessi se fossero stati nelle regioni ordinarie.
Questa forma di collaborazione per atti, di tipo orizzontale, ha in effetti dato qualche risultato in
termini di trasferimenti di funzioni amministrative ai comuni. Per quanto concerne la
collaborazione tra regioni speciali ed enti locali, questa prima del Titolo V avveniva per il tramite di
conferenze regione-enti locali. Dopo il Titolo V quasi tutte le regioni speciali hanno istituito dei
consigli delle autonomie locali. La vicenda della loro istituzione ha posto un problema per quanto
riguarda la fonte che doveva istituire tali organi. Come si è già visto, l'art. 123 Cost. impone alle
regioni ordinarie l'obbligo di prevedere tale organo nei rispettivi statuti. Quando la Sardegna e la
provincia di Trento hanno istituito i consigli delle autonomie locali tramite legge, Io Stato ha
impugnato la scelta invocando che anche le regioni speciali fossero soggette all'art. 123 e quindi
dovessero ricorrere alla fonte statuto. Ma la Corte costituzionale ha ribadito che tale disposizione
non è applicabile alle regioni speciali, le quali sono libere di istituire o meno il CAL (vedi S V.11) e di
individuare la fonte più idonea a farlo (sentt. 175 e 370/2006). L'attuale situazione della
collaborazione tra enti locali e regione appare diversificata. In Sicilia non è ancora stato istituito un
CAL e la collaborazione ha luogo con una Conferenza regione-enti locali ritenuta insoddisfacente
dagli stessi enti locali. Nelle restanti regioni speciali il CAL trova la sua fonte in leggi regionali.

LE REGIONI SPECIALI E LA RIFORMA COSTITUZIONALE


DEL 2001
La fisionomia del regionalismo italiano appare ancora oggi caratterizzata da una forte
disomogeneità. E questa disomogeneità è stata accentuata ancor di più dalla riforma del Titolo V,
Parte II della Costituzione — intervenuta a seguito della legge cost. 3/2001 - che ha indotto a un
ripensamento radicale i- delle categorie del diritto regionale. li Si pensi ad esempio al mutamento
di criterio nel riparto delle funzioni legislative, e in particolare all'introduzione della competenza
residuale regionale da parte dell'art. 117.4 Cost., che ha innovato la vecchia tecnica di attribuzione
costruita sul sistema degli elenchi di materie, peraltro accolta non solo nel precedente Titolo V, ma
anche negli stessi statuti speciali. O si pensi, ancora, al rapporto tra la funzione legislativa e
amministrativa: come sopra detto, negli statuti speciali tale rapporto è tuttora retto dal principio
del parallelismo tra le funzioni, in base al quale l'allocazione della funzione amministrativa dipende
dalla titolarità della funzione legislativa. Il riformato art. 118 Cost. ha abbandonato anche questa
logica, introducendo, per le regioni ordinarie, quella imperniata sul principio di sussidiarietà, in
virtù del quale la funzione amministrativa deve essere allocata dalla legge in capo all'ente più
vicino al destinatario della funzione medesima, ossia il comune: dunque, si tratta di un favore per il
livello di governo più prossimo al cittadino non per quello titolare della funzione legislativa (vedi §
IV6). Pertanto, nonostante lo jus commune— ossia la disciplina generale del Titolo V, Parte II, Cost.
destinata alle regioni ordinarie sia stato fortemente innovato dalla riforma costituzionale, sono
stati parallelamente conservati la specialità regionale e molti dei suoi istituti. Ritenendo di avere
ampliato in modo rilevantissimo l'autonomia delle regioni, e temendo che le regioni speciali
subissero intanto un trattamento deteriore rispetto a quelle ordinarie, il legislatore di revisione ha
previsto, nell'art. 10,1egge cost. 3/2001, la c.d. clausola di adeguamento automatico (anche detta
clausola di maggior favore). La disposizione recita: «sino all'adeguamento dei rispettivi statuti, le
disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle regioni a statuto speciale e
alle province autonome di Trento e Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più
ampie rispetto a quelle già attribuite». Attraverso l'art. 10, molti istituti del Titolo V hanno fatto il
loro ingresso nelle regioni speciali, anche se, talora, con qualche difficoltà interpretativa generata
dal fatto che bisognava capire in cosa si sostanziassero, di volta in volta, queste «forme di
autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite». Ad ogni modo, attraverso tale disposizione si
realizza, come ha affermato la Corte, «un rapporto di preferenza, nel momento della loro
applicazione, in favore delle disposizioni costituzionali che prevedono, appunto, forme di
autonomia più ampie di quelle risultanti dalle disposizioni statutarie» (sent. 370/2006). Per
valutare il «maggior favore» che una disposizione concreterebbe, bisogna compiere, dunque, un
giudizio di tipo comparativo. Il primo problema riguarda proprio questo: quali elementi vanno
considerati ai fini della comparazione? Bisogna considerare interi istituti o anche singole norme?
Poiché t'art. 10 richiama il concetto di «parti in cui si prevedono forme di autonomia pù ampie», si
potrebbe pensare che anche singole norme potrebbero essere /aiutate ai fini del «maggior
favore», considerando le disposizioni anche n modo frazionato [Padula 2004]. Tuttavia, la
giurisprudenza della Corte, sembra, piuttosto, orientata a garantire la coerenza della disciplina che
deve essere applicata e ha specificato che le forme di autonomia da valutare ai sensi dell'art. 10
vanno considerate «in modo unitario nella materia o funzione amministrativa presa in
considerazione» (sent. 103/2003).

Quale rapporto tra le norme statutarie e le norme del Titolo V?


Un problema teorico molto importante, che in questa sede si può solo accennare, riguarda il rapporto che
si instaurerebbe tra le norme statutarie e le «parti» che prevedono forme di maggiore autonomia.
La dottrina è divisa essenzialmente in tre filoni [Bendi 2008]. Secondo alcuni, le norme più favorevoli del
Titolo V avrebbero operato un'abrogazione implicita della precedente disciplina statutaria.
Secondo altri, si ricorre genericamente alla figura della non applicazione, analogamente a quanto accade
nel diritto europeo. Per altri ancora, le norme statutarie sarebbero sospese fino all'adeguamento degli
statuti speciali. Tuttavia, qualunque sia la figura teorica di riferimento (abrogazione, non applicazione,
sospensione) è chiaro che l'individuazione della norma più favorevole alle regioni speciali implica
un'operazione interpretativa decisamente delicata, che la Corte è chiamata a svolgere con grande
accuratezza.

Il «maggior favore» può tradursi, sostanzialmente, in due modalità: talora può comportare
l'aggiunta, a favore delle regioni speciali, di «parti», ossia «materie» o, più genericamente,
«istituti», non previsti negli statuti speciali ma previsti nel Titolo V; talaltra esso può implicare la
comparazione tra le materie o gli istituti previsti sia nello statuto speciale sia nel Titolo V, e la
scelta di quella comportante un maggior favore, sul presupposto che si tratti di elementi
effettivamente raffrontabili. Dunque, o un'estensione di qualcosa che manca o l'applicazione di un
regime invece di un altro (meno favorevole). Finora l'applicazione della clausola nella
giurisprudenza costituzionale ha interessato sia profili procedimentali e processuali, legati
prevalentemente al controllo di legittimità delle leggi, sia profili sostanziali, connessi alle
competenze legislative e amministrative regionali. Per quanto concerne il primo aspetto, ad
esempio, la clausola ha funzionato nel senso di estendere il regime d'impugnazione delle leggi
previsto dal novellato art. 127 Cost. anche alle regioni speciali. Sia la precedente formulazione
dell'art. 127 Cost, sia numerose disposizioni degli statuti speciali prevedevano, infatti, un
meccanismo di controllo preventivo sulla legislazione regionale ordinaria. Come ha affermato la
Corte costituzionale (ord. 377/2002), «la soppressione del meccanismo di controllo preventivo
delle leggi regionali, in quanto consente la promulgazione e l'entrata in vigore della legge
regionale, anche in pendenza di un giudizio di legittimità costituzionale in via principale promosso
prima della citata riforma costituzionale, si traduce in un ampliamento delle garanzie di
autonomia» rispetto alle norme degli statuti speciali che ancora ne prevedono la sussistenza:
questo ha comportato la rimozione del controllo preventivo e l'estensione dell'art. 127 Cost. alle
regioni speciali, in quanto individuava un regime di maggior favore per l'autonomia regionale. Le
decisioni della Corte hanno applicato ormai a tutte le regioni speciali il meccanismo di
impugnazione preventiva (al Friuli-Venezia Giulia: ord. 65/2002; alla Valle d'Aosta: ord. 377/2002;
al Trentino-Alto Adige: sent. 408/2002; alle due province autonome: ord. 533/2002). Inizialmente,
il meccanismo non era stato esteso al controllo delle leggi regionali siciliane, per il quale ha
prevalso a lungo il regime statutario previsto dagli artt. 28 e 29 St. Sic.: difatti, presupposto
indispensabile per l'applicazione della clausola è che si possa svolgere una comparazione tra le
parti, per poi scegliere quella di «maggior favore» per l'autonomia. E, a proposito del raffronto tra
il regime dell'art, 127 Cost. e quello statutario per l'impugnativa delle leggi siciliane, la Corte
costituzionale aveva, inizialmente, ritenuto: «si tratta di sistemi essenzialmente diversi che non si
prestano a essere graduati alla stregua del criterio di prevalenza adottato dal menzionato art. 10»
(sent. 314/2003: vedi § XI.5), Come si è detto (vedi § IX.1), la Corte cambia radicalmente indirizzo
con la sent. 255/2014 (peraltro sollevando essa stessa la questione di legittimità costituzionale
nell'orci. 114/2014): in tal modo, la vistosa anomalia siciliana è stata sanata, in forza della clausola
di adeguamento automatico. In relazione ai profili sostanziali concernenti la clausola di
adeguamento automatico, ossia alle competenze legislative attribuite alle regioni, bisogna
considerare due ordini di conseguenze: quantitative e/o qualitative. Infatti, può darsi il caso che il
maggior favore per le autonomie si concreti in un aumento in senso quantitativo delle
competenze. In tal modo, materie non contemplate dagli statuti speciali sono state estese alle
regioni in forza dell'art. 10, perché l'art, 117 le attribuiva alla competenza concorrente o,
addirittura, a quella residuale: così, ad esempio, le materie concorrenti dell'ordinamento della
comunicazione (sen t. 312/2003) e del trasporto e distribuzione dell'energia (sent. 303/2007)
oppure la materia residuale delle politiche sociali e di edilizia residenziale pubblica (sent.
118/2006) sono state attribuite alle regioni speciali perché non previste dallo statuto (sent.
167/2010). Talora, invece, il maggior favore ha comportato una valutazione più delicata, che si
potrebbe definire di tipo qualitativo. Ad esempio, se lo statuto speciale prevede che una
determinata materia sia di competenza integrativo-attuativa, ma l'art. 117 la attribuisce alla
competenza concorrente, questa seconda è la competenza concretante il «maggior favore»: nel
caso deciso con la sentenza 235/2010, la Corte costituzionale ha ritenuto che la materia
dell'istruzione — rientrante fra le materie di potestà legislativa di integrazione-attuazione, ai sensi
dell'art. 5, lett. a), St. Sar. — deve ora essere considerata di competenza concorrente, come
dispone l'art. 117.3 Cost. letto alla luce dell'art. 10, legge cost. 3/2001, 0, ancora, nel caso deciso
con sentenza 167/2010, la Corte attribuisce alla regione Friuli-Venezia Giulia la competenza
residuale in materia di polizia amministrativa e locale, laddove lo statuto speciale la annovera tra
le materie di competenza concorrente (art. 5, n. 13, St. F.-VG.). A parità di tipologia di competenza,
la valutazione diventa ancora più delicata: in ambito sanitario, la Corte ha ritenuto, in più
decisioni, che la competenza legislativa concorrente concernente la «tutela della salute»,
assegnata alle regioni ordinarie dall'art. 117, terzo comma, Cost., fosse «assai più ampia» di
quella, attribuita alle province autonome dallo statuto speciale, in materia di «assistenza
ospedaliera» (sentt. 270/2005; 134/2006; 162/2007; 126/2017). Di conseguenza: deve, in questo
ambito, trovare applicazione la competenza concorrente in materia di «tutela della salute»
anziché quella corrispondente, prevista dallo statuto, in materia di «assistenza ospedaliera».

Il divieto di disarticolazione delle discipline e il sistema del «doppio binario»


Una precisazione importante quanto all'applicazione della clausola di adeguamento automatico proviene
dalla giurisprudenza della Corte costituzionale: l'istituto che trova applicazione ai sensi della clausola di
maggior favore non va «frammentato». In che senso? Serviamoci di un esempio. Se si ritiene che alla
regione speciale spetti una competenza primaria ai sensi dello statuto, non si può far valere,
corrispondentemente, il sistema di limiti «di maggior favore» previsto dal Titolo V, ma si dovrà
necessariamente tener conto dei limiti dei principi generali dell'ordinamento, delle norme fondamentali di
riforma economico-sociale e dell'interesse nazionale, previsti dagli statuti speciali: ormai la giurisprudenza
della Corte è costante nell'affermare questo principio (si vedano, ad esempio, sentt. 274/2003; 236/2004;
383/2005 e 51/2006). Analogamente, la regione speciale non potrà sottrarsi all'esercizio dei poteri
sostitutivi statali, ai sensi dell'art. 120.2 Cost., in relazione alle competenze acquisite in forza della clausola
di maggior favore, adducendo la circostanza per cui tali poteri non sono previsti dallo statuto. Emblematica
resta la posizione della Corte costituzionale espressa, sul punto, nella sentenza 236/2004, secondo cui «la
previsione del potere sostitutivo fa dunque sistema con le norme costituzionali di allocazione delle
competenze, assicurando, comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi centrali a tutela di
interessi unitari». E la Corte ha precisato che «tale sistema non potrebbe essere disarticolato in
applicazione della «clausola di favore", nei confronti delle regioni ad autonomia differenziata, dissociando il
titolo di competenza dai meccanismi in esso immanenti». Questo divieto di «disarticolazione», conseguenza
della clausola di adeguamento automatico, produce effetti anche in relazione alle funzioni amministrative.
Si è detto, infatti, che gli statuti speciali conservano il principio del parallelismo tra funzione amministrativa
e funzione legislazione dell'art. 118 Cost. prevede la diversa logica del principio tiva, laddove la nuova
formulazione di sussidiarietà. Ebbene, grazie all'art. 10, legge cost. 3/2001, si realizzerà il c.d. «doppio bina-
rio». Come la Corte costituzionale ha affermato, sempre nella sentenza 236/2004, «per tutte le competenze
legislative aventi un fondamento nello statuto speciale, il principio del parallelismo tra frazioni legislative e
funzioni amministrative conserva la sua validità». Va da sé che il principio di sussidiarietà troverà invece
piena applicazione laddove la regione speciale avrà acquisito nuove competenze traendole dal Titolo V, a
seguito della mediazione della clausola di maggior favore (vedi sopra): in questo si sostanzia il regime del
“doppio binario”, appunto.

Naturalmente, la clausola di maggior favore va letta anche in direzione opposta: se, cioè, lo statuto
prevede una competenza in capo alle regioni speciali che l'art. 117 alloca in capo allo Stato in via
esclusiva, si applicherà la disciplina statutaria: un esempio in tal senso è rappresentato dalla
competenza in materia di ordinamento degli enti locali. Quest'ultima è una competenza primaria
riconosciuta alle regioni speciali sin dalla legge cost. 2/1993: dunque, in forza di tale titolo
competenziale, le regioni speciali possono, sin dal 1993, disciplinare la materia dell'ordinamento
degli enti locali. La Corte, nella sentenza 48/2003, ha specificato che «tale competenza non è
intaccata dalla riforma del Titolo V, Parte 1-1, della Costituzione, ma sopravvive, quanto meno,
nello stesso ambito e negli stessi limiti definiti dagli Statuti». Più in generale, il riparto degli statuti
speciali non vede contrapposte le materie regionali ad altre «materie» riservate allo Stato, e si
fonda invece sull'attribuzione alla regione delle specifiche materie elencate, a fronte delle quali sta
la generale potestà legislativa statale, che nelle materie regionali opera nei limiti previsti dagli
statuti, quali sopra illustrati.
Una simile eterogeneità di discipline comporta indubbiamente qualche difficoltà interpretativa e
possibili incertezze; tuttavia, essa permette di individuare e conservare dei tratti di specialità,
evitando l’appiattimento e l’omologazione dei regimi normativi regionali.

I RAPPORTI CON L’UNIONE EUROPEA E I RAPPORTI


INTERNAZIONALI DELLE REGIONI
L’INTEGRAZIONE EUROPEA E IL RUOLO DELLE REGIONI
Il processo d'integrazione europea, nella sua fase di avvio e per molto tempo a seguire, ha avuto
quali protagonisti pressoché esclusivi gli Stati nazionali; nessun rilievo è stato attribuito al ruolo
degli enti territoriali, che pure già godevano, in alcuni Stati membri delle tre comunità europee
(CEE, CECA, EURATOM), di forme di autonomia più o meno ampie (si pensi alla Germania). I trattati
comunitari, nella loro versione originaria, non prevedevano l'esistenza di organi rappresentativi
degli enti territoriali, né alcun margine d'intervento veniva riconosciuto a essi nella fase di
elaborazione e approva-zione degli atti comunitari. A partire dalla metà degli anni '80 del secolo
scorso questo assetto ha cominciato a mutare, sia in conseguenza dell'adesione alle comunità di
alcuni Stati a connotazione federale o regionale (Spagna e Portogallo nel 1986; Austria nel 1995),
sia in ragione della graduale evoluzione, in senso parimenti federale o regionale,
dell'organizzazione costituzionale di altri Stati membri (Belgio e Italia già a partire dal 1968-1970;
Francia dal 1982; Gran Bretagna dal 1998).

La lenta emersione della dimensione regionale


Per avere un primo ufficiale riconoscimento della necessità di coinvolgere le autonomie territoriali nel
processo di integrazione europea si è dovuto attendere la risoluzione del Parlamento europeo sul «Ruolo
delle regioni nella costruzione di un'Europa democratica» (13 aprile 1984), alla quale è seguita una
Dichiarazione congiunta (18 giugno 1984), votata da Consiglio, Commissione e Parlamento, avente a
oggetto il coinvolgimento delle regioni nel processo decisionale comunitario; si può anche ricordare che
una bozza di Trattato sull'Unione europea, elaborata nel febbraio 1984, prevedeva un preambolo nel quale,
tra l'altro, si evidenziava la necessità che gli enti territoriali e locali partecipassero al processo di
integrazione europea. Nel 1988 è stato istituito un Consiglio consultivo degli enti regionali e locali, allo
scopo di associare maggiormente tali enti all'elaborazione e all'attuazione della politica regionale della
Comunità; politica regionale che aveva trovato una prima esplicita configurazione con l'Atto Unico Europeo
del 1986. Sempre nel 1988, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione sulla politica comunitaria
regionale e sul ruolo delle regioni, con allegata una Carta comunitaria della regionalizzazione, nella quale la
regione è definita come «territorio che costituisce, sotto il profilo geografico, una entità ben distinta, o un
raggruppamento di territori nei quali vi una continuità e la cui popolazione possiede caratteristiche comuni,
condividendo la volontà di salvaguardare la specifica identità territoriale e di sviluppare la medesima con
l'obiettivo di stimolare il progresso culturale, sociale e economico».

Con il Trattato di Maastricht del 1992, che segna la nascita dell'Unione europea (la quale ingloba,
senza sostituirle, le tre preesistenti Comunità; la più importante delle quali, la CEE, viene
ridenominata Comunità europea, CE), la valorizzazione del ruolo degli enti territoriali segna una
tappa importante: viene infatti istituito il Comitato delle regioni e delle autonomie locali, quale
organo che svolge funzioni consultive in favore del Consiglio e della Commissione, in posizione di
piena indipendenza. Si deve al Trattato di Maastricht anche l'enunciazione del principio di
sussidiarietà (art. 3B TUE), il quale, nel favorire l'assunzione delle decisioni «il più vicino possibile
ai cittadini», rafforza la posizione dei legislatori degli enti territoriali; e nel medesimo Trattato si
ritrova una previsione relativa alla composizione del Consiglio, che potrà essere formato da
rappresentanti di ciascuno Stato membro «a livello ministeriale», abilitati a impegnare il governo
di detto Stato membro: la relativa previsione non esclude che il rango ministeriale, e dunque il
ruolo di rappresentanza in Consiglio, possa essere riconosciuto anche a componenti degli organi
esecutivi di enti territoriali (scelta compiuta, ad esempio, dalla Germania, non dall'Italia). Il
Trattato di Amsterdam del 1997 non apporta modificazioni significative con riguardo al ruolo delle
regioni nel processo decisionale europeo, ma si contraddistingue comunque per un rafforzamento
del Comitato delle regioni, relativamente al quale vengono aumentati i settori per i quali ne è
prevista l'obbligatoria consultazione. Più significative le innovazioni introdotte dal Trattato di Nizza
del 2000, che interviene quanto ai requisiti di nomina dei membri del Comitato, specificando che
essi debbono essere scelti tra soggetti titolari di mandato elettivo a livello regionale o locale, o tra
soggetti nei confronti dei quali possa essere fatta valere una responsabilità di tipo politico davanti
a un'assemblea elettiva. Grazie alle modificazioni introdotte dal Trattato di Lisbona — in vigore dal
l' dicembre 2009, approvato dopo il fallimento del processo di ratifica del «Trattato che istituisce
una Costituzione per l'Europa», di cui recepisce in larga parte il contenuto — gli enti territoriali
hanno nel sistema dell'Unione europea (che per effetto del Trattato si sostituisce in toto alla
Comunità europea; di qui 11 progressivo abbandono dell'aggettivo «comunitario», ormai quasi
sempre sostituito da «europeo») una posizione di rilievo, pur rimanendo ferma l'insopprimibile
centralità degli Stati nell'architettura dell'Unione. Alle importanti enunciazioni di principio,
contenute nell'art. 4 del Trattato sull'Unione Europea (TUE) — ai sensi del quale il sistema delle
autonomie locali e regionali viene incluso nella struttura fondamentale degli Stati membri, nella
quale si esprime la loro identità nazionale — si affiancano importanti previsioni relative al principio
di sussidiarietà, contenute nell'art. 5 del TUE e nel Protocollo sull'applicazione dei principi di
sussidiarietà e proporzionalità. Il principio è destinato in primo luogo a salvaguardare, di fronte
all'Unione, gli stessi Stati membri, ma riguarda anche le istituzioni regionali. In particolare, esso si
traduce nell'obbligo per la Commissione di tenere conto della dimensione locale e regionale nella
fase delle consultazioni che precedono l'iniziativa legislativa, nonché — e in questo caso l'obbligo è
imposto a tutti i soggetti ai quali è riconosciuta l'iniziativa legislativa a livello europeo — in sede di
motivazione degli atti legislativi. È inoltre previsto che i parlamenti nazionali, nell'esercizio
dell'attività di verifica del rispetto del principio di sussidiarietà, consultino «all'occorrenza» i
parlamenti regionali muniti di poteri legislativi.

Composizione e funzioni del Comitato delle regioni


Il Trattato di Lisbona, oltre alle innovazioni già accennate, rafforza le prerogative del Comitato delle regioni,
attribuendo allo stesso il potere di ricorrere alla Corte di giustizia in presenza di atti normativi adottati in
violazione del principio di sussidiarietà, qualora si tratti di atti rientranti fra le categorie per le quali è
richiesta la consultazione del Comitato. Dalla sua istituzione con il Trattato di Maastricht, questo organo ha
oggi assunto una precisa fisionomia e una collocazione non semplicemente simbolica nel novero delle
istituzioni dell'Unione. Il Comitato è composto da un numero di 350 membri titolari e altrettanti supplenti,
rappresentanti le collettività regionali ma anche locali, nominati dal Consiglio dell'Unione europea ogni
cinque anni, su proposta degli Stati membri; i componenti, il cui mandato è rinnovabile, non possono essere
contemporaneamente membri del Parlamento europeo. Il Comitato approva un proprio regolamento
interno, e può riunirsi di propria iniziativa o su richiesta del Parlamento europeo, del Consiglio o della
Commissione. L'attuale composizione del Comitato, come deliberata (all'unanimità) dal Consiglio
dell'Unione europea, assegna all'Italia ventiquattro membri titolari e altrettanti supplenti. Le modalità di
proposta dei candidati al Consiglio sono disciplinate dalla legge 234/2012 (art. 27): vi provvede il presidente
del Consiglio dei ministri con proprio decreto; attualmente, il dpcm 9 gennaio 2015, assegna 14 titolari e 10
supplenti alle regioni e alle province autonome, 3 titolari e 3 supplenti alle province, 7 titolari e 11 supplenti
ai comuni; un raffronto con le scelte adottate da altri Stati suggerisce che il legislatore italiano, quanto
all'individuazione dei membri del Comitato, ha prestato grande attenzione agli enti locali, e ciò a svantaggio
delle regioni (che pure, a differenza dei primi, sono titolari di potestà legislativa). Grazie alle innovazioni
introdotte dal Trattato di Amsterdam, e confermate dal Trattato di Lisbona, oggi il Comitato delle regioni
deve essere consultato obbligatoriamente — da Consiglio, Commissione o Parlamento europeo — ai fini
dell'adozione di atti normativi riguardanti un considerevole numero di materie (dall'istruzione alla cultura,
ai trasporti, all'occupazione, alla protezione ambientale, per citarne solo alcune), salva la possibilità di una
libera consulta-zione del Comitato anche in ipotesi diverse, in particolare quelle concernenti la
cooperazione transfrontaliera. Il Comitato può rendere pareri anche su autonoma iniziativa, per quanto, in
ogni caso, i pareri non siano vincolanti.

LE REGIONI NELLA «FASE ASCENDENTE» DELLE


POLITICHE EUROPEE
Senza sottovalutare l'importanza delle previsioni contenute nei trattati europei, è innegabile che la
partecipazione delle regioni alla fase di elaborazione del diritto europeo (c.d. fase ascendente) sia
questione rimessa in misura prevalente al diritto dei singoli Stati membri, e prima di tutto alle
rispettive carte costituzionali. L'incidenza della normativa comunitaria negli ordinamenti interni,
soprattutto con riferimento a determinati settori e attività; la prevalenza delle norme comunitarie
sul diritto interno; la loro potenziale incidenza persino sul sistema costituzionale di riparto di
competenze legislative tra Stato e regioni (confermata da Corte cost. 399/1987; 224/1994 e
126/1996): sono solo alcuni tra i fattori che indurrebbero a collocare già a livello di disciplina
costituzionale la tutela della posizione degli enti territoriali nella fase ascendente. In Italia si è però
dovuto attendere la legge cost. 3/2001 affinché l'Unione europea e gli obblighi che discendono
dall'appartenenza a essa trovassero menzione nel testo costituzionale. La copertura fornita
dall'art. 11 Cost. ha consentito, prima del 2001, di risolvere in senso positivo il dubbio sul
fondamento costituzionale della limitazione di sovranità derivante dall'appartenenza all'Unione
europea, ma la tutela delle prerogative regionali nella fase ascendente era esclusivamente rimessa
alla legge ordinaria. Per molto tempo l'attenzione del legislatore al «ruolo europeo» delle regioni è
stata pressoché inesistente. All'inizio, gli stessi enti territoriali hanno preferito concentrare i loro
sforzi per assicurare la presenza, presso le sedi europee, di uffici di rappresentanza, allo scopo di
instaurare contatti e relazioni, trascurando il versante interno e la dialettica con governo e
Parlamento (fatta eccezione per iniziative puramente episodiche, cioè occasionali scambi di pareri
fra governo e regioni e sporadici contatti con le commissioni parlamentari competenti). La legge
183/1987 (c.d, legge Fabbri) aveva imposto, per la prima volta (art. 9), l'obbligo di comunicazione
dei progetti di atti normativi comunitari alle regioni e alle province autonome da parte del
governo, con la possibilità di formulare osservazioni al riguardo. La previsione è sopravvissuta alla
legge 86/1989 (c.d. legge La Pergola), ed è stata ribadita dall'art. 14.2, legge 128/1998, che ha
esteso la comunicazione anche agli atti di indirizzo di competenza degli organi dell'Unione europea
o delle comunità europee, nonché agli atti preordinati alla formulazione degli stessi (atti normativi
e di indirizzo); non si può sostenere, tuttavia, che lo strumento contemplato dal legislatore (le
«osservazioni») sia stato sovente utilizzato nella prassi. Per quanto concerne la fase ascendente,
merita maggiore considerazione — e un giudizio più positivo sul suo rendimento (vedi § IV.5) —
l'istituzionalizzazione della Conferenza Stato-regioni, della quale la legge 400/1988 (art. 12.5, lett.
b) ha previsto la consultazione «sugli indirizzi generali relativi alla elaborazione e attuazione degli
atti comunitari che riguardano le competenze regionali»: la Conferenza è stata, nel tempo, elevata
a sede privilegiata di espressione delle istanze degli enti territoriali nella dialettica con lo Stato
centrale, al punto da prevederne l'obbligatoria convocazione, a cadenza quadrimestrale (oggi in
base all'art. 22.1, legge 234/2012) ín una apposita «sessione europea», per la trattazione degli
aspetti delle politiche europee di interesse regionale. In particolare, la Conferenza esprime parere
sugli indirizzi generali relativi alla elaborazione ed attuazione degli atti dell'Unione che riguardano
competenze di regioni e province autonome, su criteri e modalità per conformare l'esercizio delle
funzioni degli enti territoriali agli obblighi europei, e sugli schemi dei disegni di legge europea e di
delegazione europea. Per quanto concerne la disciplina costituzionale, già nel 19971a
Commissione bicamerale per le riforme costituzionali (istituita con legge cost. 1/1997) aveva
previsto (art. 118 del progetto di riforma costituzionale licenziato dalla Commissione, non
approvato dalle camere) la partecipazione delle regioni alla formazione della volontà dello Stato in
riferimento agli atti dell'Unione europea, qualora essi riguardassero materie di loro competenza.
Oggi, in termini sostanzialmente identici, si esprime il nuovo art. 117.5 Cost., che peraltro, con
maggiore precisione, riferisce la partecipazione delle regioni e delle province autonome, nelle
materie di loro competenza, «alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi
comunitari». Tanto nel progetto di riforma del 1997, quanto nell'attuale art. 117.5 Cost., la
concreta attuazione di questo principio «partecipativo» era ed è rimessa al legislatore, al quale
l'art. 117.5 affida il compito di definire le «norme di procedura» a cui dovranno in concreto
attenersi le regioni, La legge 131/2003 (c.d. legge La Loggia) prevede (art. 5) il concorso diretto
delle regioni e delle province autonome, nelle materie di loro competenza legislativa, alla
formazione degli atti comunitari; ma la partecipazione ha anche un luogo privilegiato di
espressione, rappresentato dalla delegazione del governo presso le sedi e gli organi comunitari
(Consiglio, gruppi di lavoro, comitati del Consiglio e della Commissione). La concreta
determinazione delle modalità di partecipazione viene affidata alla Conferenza Stato-regioni,
salvaguardando l'unitarietà della rappresentazione da parte del capodelegazione designato dal
governo e la partecipazione, nella delegazione, di almeno un rappresentante delle regioni a
statuto speciale e delle province autonome. Nelle materie attratte dalla competenza residuale
delle regioni di cui all'art. 117.4 Cost., il capodelegazione, che potrebbe anche essere un
presidente di giunta regionale o di provincia autonoma, verrà designato dall'esecutivo d'intesa con
le regioni, all'esito di un accordo di cooperazione, in attesa o in mancanza del quale la
designazione sarà effettuata dal governo.

L'accordo di cooperazione
L'accordo di cooperazione, previsto dall'art. 5, legge 131/2003, è stato approvato dalla Conferenza Stato-
regioni il 16 marzo 2006, e disciplina la composizione della delegazione che partecipa alle attività del
Consiglio, dei gruppi di lavoro e dei comitati del Consiglio e della Commissione. Nella delegazione, in
materie di competenza legislativa regionale, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano sono
rappresentate da un presidente di regione o da un suo delegato, designato dalle regioni a statuto ordinario
e da un presidente delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, o da un delegato da loro
designato (salvo che le disposizioni comunitarie non prevedano limiti numerici inferiori, nel qual caso deve
comunque essere assicurata la compresenza di un rappresentante dello Stato e di uno delle regioni). Nelle
delegazioni governative che partecipano alle attività dei gruppi di lavoro e dei comitati del Consiglio e della
Commissione, le regioni e le province autonome sono rappresentate da due esperti, nominati uno ciascuno
dalle regioni a statuto ordinario, e dalle regioni a statuto speciale e dalle province autonome (salvi, anche in
questo caso, limiti numerici richiesti dalle disposizioni comunitarie); è anche ammessa, qualora le
condizioni lo consentano, l'eventualità di una rappresentanza più ampia da determinarsi in sede di
Conferenza Stato-regioni, su istanza di una regione o provincia autonoma. Il capodelegazione, nelle materie
di cui all'art. 117.4 Cost., è il rappresentante del governo, rispettivamente a livello politico o a livello
tecnico, salva diversa determinazione assunta, su istanza delle regioni o delle province autonome,
mediante apposita intesa con il governo da raggiungersi in sede di Conferenza Stato-regioni. Per quanto
concerne regioni e province autonome, i criteri di composizione sopra enunciati valgono anche con
riguardo a materie per le quali è riconosciuta dai rispettivi statuti speciali potestà legislativa primaria o
concorrente.

Viene inoltre prevista, per la prima volta, una forma di tutela giurisdizionale degli enti territoriali,
in via mediata, nei confronti degli atti comunitari ritenuti illegittimi: in questa evenienza, infatti, il
governo può proporre ricorso dinanzi alla Corte di giustizia delle comunità europee anche su
richiesta di una delle regioni o delle province autonome, ed è tenuto a proporre tale ricorso
qualora esso sia richiesto dalla Conferenza Stato-regioni a maggioranza assoluta delle regioni e
delle province autonome. La soluzione della legge 131/2003 realizza per gli enti territoriali un
migliora-mento rispetto alla pregressa disciplina, per quanto il procedimento previsto dal
legislatore del 2003 possa rivelarsi non sempre agevole, e pur sempre considerando che il dettato
costituzionale non avrebbe impedito soluzioni ancor più innovative. È da ricordare, in proposito,
che la disciplina della partecipazione delle regioni alla fase ascendente è ascrivibile alla potestà
legislativa esclusiva statale, benché non inclusa nell'elenco di cui all'art. 117.2 Cost.: lo ha
precisato la Corte costituzionale nella sentenza 239/2004, nella quale tale competenza è stata
differenziata rispetto al settore, ritenuto più ampio, dei «rapporti con l'Unione europea delle
regioni», incluso tra le materie devolute alla potestà legislativa concorrente delle regioni. Il
rafforzamento della posizione regionale nella fase ascendente, dopo la riforma costituzionale del
2001, è stato confermato anche dalla legge 11/2005 (che ha integralmente abrogato la legge
86/1989), e dalla legge 234/2012, che oggi regola la materia, Per quanto attiene alle prerogative
regionali, la legge estende alle regioni alcune garanzie già previste nei confronti delle camere.
Nell'art. 5 della legge 11/2015 si potevano riscontrare i maggiori segni di discontinuità rispetto alla
previgente disciplina. Anzitutto, veniva estesa alle regioni la possibilità di conoscere per tempo
non soltanto í progetti di atti normativi, ma anche i documenti di consultazione quali i c.d. libri
verdi e libri bianchi; inoltre, i pronunciamenti (ancora denominati «osservazioni») delle regioni e
delle province autonome sui progetti esaminati venivano esplicitamente finalizzati dal legislatore
alla «formazione della posizione italiana», così valorizzandone il ruolo nel contesto della fase
ascendente. Dette previsioni trovano parziale conferma nel vigente art. 24 della legge 234/2012,
che (al primo comma) dispone la trasmissione dei soli progetti di atti normativi europei e degli atti
preordinati alla formulazione degli stessi (non necessariamente dei documenti di consultazione)
alla Conferenza delle regioni e delle province autonome e alla Conferenza dei presidenti delle
assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, per l'inoltro a giunte e consigli
regionali. A maggiore tutela della facoltà di procedere a un esame dei progetti di atti europei, è
inoltre prevista la possibilità di richiedere al governo di apporre la c.d. riserva di esame in sede di
Consiglio dei ministri dell'Unione europea: formulando tale riserva il governo si impegna a non
procedere, per un termine massimo di trenta giorni, alle attività dirette alla formazione degli atti a
cui i progetti si riferiscono, formalizzando tale impegno in sede di Consiglio. La riserva di esame è
soprattutto preordinata a facilitare la trasmissione di osservazioni sui progetti di atti europei ad
opera di regioni e province autonome (art, 24.3); le osservazioni possono provenire dai consigli o
dalle giunte regionali, in base alla disciplina generale adottata dai vari enti, Competente a
formulare la richiesta di apposizione della riserva è la Conferenza Stato-regioni, che può essere
convocata su iniziativa anche di una sola regione o provincia autonoma. Anche a prescindere
dall'apposizione della riserva, qualora la Conferenza venga convocata per discutere su progetti di
atti normativi comunitari che riguardino materie di competenza legislativa regionale, si prevede
che entro il termine di trenta giorni debba essere raggiunta l'intesa tra Stato ed enti territoriali in
ordine alla posizione italiana nella fase di discussione e approvazione di tali progetti. Decorso
inutilmente il predetto termine, il governo potrà comunque procedere agli adempimenti di
competenza; fatta salva, in ogni caso, la possibilità per il governo di procedere senza la previa
intesa in caso di urgenza «motivata sopravvenuta». È evidente che l'osservanza e l'efficacia di
queste disposizioni sono rimesse alla correttezza del governo, che da un lato potrebbe
semplicemente far decorrere il termine di trenta giorni rifiutando di concludere un'intesa in
Conferenza, e dall'altro potrebbe interpretare estensivamente il concetto di urgenza sopravvenuta
(non essendo chiaro a quale periodo di tempo debba farsi riferimento al fine di qualificare come
sopravvenuto, e non «originario», Io stato di urgenza). In entrambi i casi, tuttavia, una condotta
puramente ostruzionistica da parte del governo determinerebbe la violazione del principio di leale
collaborazione.

Il Comitato interministeriale per gli affari europei (CIAE)


Il legislatore ha optato per un coinvolgimento degli enti territoriali anche in riferimento alle attività
dell'organo, costituito dalla legge 11/2005 e ridisciplinato, con nuova denominazione, dalla legge 234/2012,
al fine di concordare le linee politiche del governo nel processo di forma-zione della posizione italiana nella
fase di predisposizione degli atti comunitari e dell'Unione europea e di consentire il puntuale adempimento
dei compiti di cui alla menzionata legge: è il Comitato interministeriale per gli affini europei (CIAE),
presieduto dal presidente del Consiglio o dal ministro per gli Affari europei, e formato da altri ministri
individuati dall'art. 2, legge 234/2012. Alle riunioni del CIAE, quando si trattano questioni che interessano
anche e regioni e le province autonome, partecipano il presidente della Conferenza dei presidenti delle
regioni e province autonome o un presidente di regione o di provincia autonoma da lui delegato. Per la
preparazione delle proprie riunioni il CIAE si avvale di un comitato tecnico i valutazione istituito presso il
Dipartimento per le politiche europee, ma quando si trattano gestioni che interessano anche le regioni e le
province autonome, il comitato tecnico è in-grato da un rappresentante per ogni regione o provincia
autonoma indicato dal rispettivo presidente, e viene convocato presso la Conferenza Stato-regioni.

La concertazione tra Stato, regioni e province autonome viene ulteriormente rafforzata attraverso
la previsione di «gruppi di lavoro» (art. 24.7, legge 234/2012), ai quali vengono convocati
rappresentanti delle regioni e delle province auto-nome, ai fini della successiva definizione della
posizione italiana da sostenere in sede di Unione europea. Vengono estesi a beneficio delle regioni
gli obblighi di informativa del governo nei confronti del Parlamento in occasione delle riunioni del
Consiglio dell'Unione europea (che riunisce i ministri dei governi dei paesi membri della UE
competenti per la materia in discussione) e del Consiglio europeo (che riunisce i capi di Stato o di
governo dei paesi membri, oltre al presidente della Commissione europea e al presidente del
Consiglio medesimo). Con riguardo alle riunioni del Consiglio dell'Unione europea, fermo l'obbligo
di informazione sulle proposte e materie di competenza degli enti territoriali in discussione, la
Conferenza Stato-regioni può chiedere all'esecutivo di illustrare la posizione che esso intende
assumere; facoltà che, nel caso delle riunioni del Consiglio europeo, si tramuta in obbligo, sempre
per quanto attiene a proposte riguardanti materie di competenza delle regioni e province
autonome, I doveri informativi in capo al governo riguardano anche gli esiti delle riunioni degli
organi dell'Unione appena menzionati (peraltro, non è prevista alcuna sanzione in caso di
inadempimento a tali doveri). Il Protocollo n. 2 allegato ai trattati europei consente ai parlamenti
nazionali di esprimere pareri motivati sui progetti di atti normativi europei in relazione al rispetto
del principio di sussidiarietà, secondo il quale (art, 5.3 Trattato sull'Unione europea) «nei settori
che non sono di sua competenza esclusiva l'Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi
dell'azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a
livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti
dell'azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione». Il Protocollo n. 2 abilita i
parlamenti nazionali a consultare i consigli e le assemblee delle regioni e delle province autonome
al fine di esprimere un parere motivato, e tale previsione è richiamata dall'art. 8.3 legge 234/2012;
la legge, peraltro, consente (art. 25) a consigli ed assemblee legislative di attivarsi anche a
prescindere dalla richiesta delle Camere, trasmettendo loro le osservazioni sul rispetto del
principio di sussidiarietà in tempo utile per l'esame parlamentare. Infine, delle osservazioni e delle
proposte di regioni e province autonome, o delle assemblee legislative di queste, le camere
devono tener conto (art. 9.2 legge 234/2012) nell'ambito del c.d., dialogo politico, che rappresenta
una forma di interlocuzione tra i parlamenti nazionali e le istituzioni europee (soprattutto la
Commissione, che lo ha avviato a partire dal 2006) che prescinde dalle procedure e dalla
tempistica di cui al Protocollo sul principio di sussidiarietà. La prassi dell'intervento delle regioni e
province autonome nella fase ascendente evidenzia prevedibili differenze, in ordine alla quantità e
qualità degli interventi. Quasi tutti gli enti territoriali sono dotati di leggi regionali che disciplinano
la procedura di partecipazione alla formazione ed attuazione del diritto europeo, e tali leggi
normalmente prevedono una sessione europea annuale delle assemblee legislative regionali. Il
ruolo della giunta e dell'assemblea elettiva è variamente disciplinato nelle diverse regioni e
province autonome: ad esempio, per quanto attiene alla formulazione di osservazioni sui progetti
di atti normativi europei, si riscontrano previsioni legislative che favoriscono il raggiungimento di
un'intesa fra giunta e consiglio regionale sul contenuto delle osservazioni, assegnando tuttavia una
prevalenza alla giunta in caso di mancata intesa; accanto a soluzioni diverse, che viceversa
assegnano tale competenza al consiglio regionale (riconoscendo alla giunta la sola facoltà di
proporre le osservazioni).

L'ATTUAZIONE REGIONALE DELLE NORME EUROPEE


Premesso che le regioni sono tenute all'osservanza degli obblighi derivanti dall'appartenenza
all'Unione europea, al pari dello Stato (come oggi è espressamente stabilito dall'art. 117.1 Cost.),
sono due i principali nodi problematici che vengono in rilievo quando si discute sulla possibilità,
per le regioni, di dare attuazione alle norme dell'Unione: la tutela della loro sfera di autonomia,
che verrebbe ovviamente in gioco qualora le norme riguardassero materie attribuite alla potestà
legislativa regionale, e la responsabilità per mancata attuazione, che nel diritto dell'Unione è da
sempre imputata in via esclusiva allo Stato. È infatti necessario coniugare l'esigenza di non
espropriare le regioni delle loro competenze con la necessità, per lo Stato, di garantire
l'esecuzione delle norme europee, per non risultare inadempiente ai trattati. Per molto tempo il
legislatore ha considerato assolutamente prevalente questa seconda esigenza, e ne è derivata
l'esclusione, per le regioni, di ogni possibilità di dare attuazione al diritto delle (allora) comunità
europee.

I primi passi
Citando le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza 142/1972, «ogni distribuzione dei
poteri di applicazione delle norme comunitarie che si effettui a favore di enti minori diversi dallo Stato
contraente (che assume la responsabilità del buon adempimento di fronte alla Comunità) presuppone il
possesso da parte del medesimo degli strumenti idonei a realizzare tale adempimento anche di fronte
all'inerzia della regione che fosse investita della competenza dell'attuazione. Strumenti di tal genere fanno
difetto nel nostro ordinamento, e a essi non potrebbe supplirsi con il potere di indirizzo [..1 poiché alla
inottemperanza a esso non si potrebbe in alcun modo porre riparo, non riuscendo allo Stato sostituirsi
nell'esercizio della competenza una volta effettuato il suo trasferimento». Nel caso considerato dalla Corte
(legittimità costituzionale del decreto legislativo recante trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle
funzioni amministrative statali in materia d'agricoltura e foreste), l'unico strumento utilizzabile per fare
concorrere le regioni all'attuazione dei regolamenti comunitari era la delegazione di poteri, che offriva il
rimedio della sostituibilità del delegante in caso d'inadempimento del delegato. Solo con legge 153/1975, in
occasione dell'attuazione di alcune direttive comunitarie per la riforma dell'agricoltura, fu prevista la
possibilità per le regioni di dare attuazione alle direttive, con due tipologie di vincoli diversi per le regioni
ordinarie e a statuto speciale: per le prime, l'osservanza dei principi fondamentali stabiliti dalla citata legge;
per le seconde, il rispetto delle norme fondamentali delle riforme agrarie ed economico-sociali della
Repubblica. Il legislatore prese in considerazione l'ipotesi di eventuali omissioni da parte delle regioni: in
caso di mancato esercizio della potestà legislativa avrebbero trovato applicazione la stessa legge e le leggi
regionali già vigenti e non contrastanti con i vincoli sopra menzionati; in caso di inadempimento nello
svolgimento delle attività amministrative di attuazione delle direttive, il Consiglio dei ministri avrebbe
autorizzato il ministro per l'Agricoltura a disporre il compi-mento degli atti relativi in sostituzione
dell'amministrazione regionale. Si veniva così a configurare un sistema di adeguamento, che sarebbe stato
esteso, già con legge 382/1975 (legge delega) e con il dpr 616/1977 (adottato in esecuzione della delega),
all'attuazione di qualunque direttiva comunitaria da parte delle regioni, ai quali vennero trasferite anche le
funzioni amministrative relative all'applicazione dei regolamenti comunitari; il dpr 616/1977 (art. 6)
confermava l'esercizio del potere sostitutivo statale in caso di inadempienza amministrativa delle regioni,
previa concessione a queste di un «congruo termine» per provvedere.

La legge 86/1989 (c.d. LEGGE LA PERGOLA), disciplinando per intero la problematica della
partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e delle procedure di esecuzione degli
obblighi comunitari, consentì alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di dare
immediata attuazione alle direttive comunitarie nelle materie di competenza esclusiva (art, 6); per
quanto concerne le regioni a statuto ordinario, e le regioni e province autonome nelle sole materie
di competenza concorrente, era ammessa la possibilità di dare attuazione alle direttive solo dopo
l'entrata in vigore della prima legge comunitaria (cioè una legge dello Stato a cadenza annuale,
recante un elenco di direttive alle quali è necessario dare attuazione) successiva alla notifica della
direttiva. Rimaneva confermata l'applicazione della disciplina statale, in via suppletiva, in
mancanza di atti normativi della regione. Per quanto concerne le attività amministrative, il
procedimento previsto dal dpr 616/1977 (vedi quadro 10.5) veniva ribadito, con l'aggiunta della
facoltà, per il governo, di attribuire l'esercizio dei poteri necessari (alla sostituzione) a una
commissione partecipata anche da un esponente dell'ente inadempiente. Il modello perfezionato
dal legislatore (possibilità di attuazione del diritto comunitario da parte delle regioni e potere
sostitutivo statale) ha trovato consacrazione, a livello di principio, nell'art. 117.5 Cost., ai sensi del
quale «Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza
provvedono all'attuazione e all'esecuzione [...] degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle
norme di procedura stabilite dalle leggi dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del
potere sostitutivo in caso di inadempienza». La disposizione costituzionale non consente al
legislatore statale di escludere l'intervento delle regioni nell'attuazione del diritto dell'Unione, ma
riconosce allo Stato ampia discrezionalità in ordine alle modalità di intervento regionale. Le norme
di procedura sono dettate prima dalla legge 11/2005, ed ora dalla legge 234/2012, la quale
configura come «tempestiva» (art. 29) l'attuazione delle direttive europee da parte dello Stato,
delle regioni e delle province autonome nelle materie di propria competenza legislativa: è così
superato — lo conferma anche l'art. 49, legge 234/2012 — l'obbligo di attendere l'approva-zione
della prima legge statale per l'attuazione di norme comunitarie relative a materie di competenza
legislativa concorrente, introdotto dall'abrogata legge 86/1989. La legge 234/2012 impone (art.
29.2) al governo di dare informazione — tramite la Conferenza delle regioni e delle province
autonome e la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province
autonome —sugli atti normativi e di indirizzo emanati dagli organi dell'Unione europea e delle
comunità europee, e prevede inoltre una reciproca informazione tra Stato e regioni sullo stato di
conformità dell'ordinamento interno ai medesimi atti (art. 29,3). Viene inoltre previsto che i
principi fondamentali che dovranno essere osservati nelle materie di competenza concorrente
debbano trovare collocazione nella c.d. legge di delegazione europea (art. 30.2), che dovrebbe
avere cadenza annuale e sulla quale, assieme alla annuale legge europea, dovrebbe concentrarsi
l'adempimento, da parte dello Stato, degli obblighi derivanti dalla partecipazione dell'Italia
all'Unione europea. Ricompare, sotto altra denominazione, la funzione di indirizzo e coordina-
mento delle attività amministrative regionali, di cui peraltro era stata posta in dubbio la
permanenza nell'ordinamento all'esito della riforma del Titolo V della Costituzione: essa, tuttavia
(art. 40.4), è limitata alle materie di competenza esclusiva statale, e assolve allo scopo di
soddisfare le esigenze di carattere unitario, nonché il perseguimento degli obiettivi della
programmazione economica e del rispetto degli obblighi internazionali. Può essere esercitata con
leggi, con regolamenti o con deliberazioni del Consiglio dei ministri. In difetto di attuazione da
parte del legislatore regionale, la disciplina statale si applica nella sua interezza (norme di principio
e di dettaglio) a decorrere dalla scadenza del termine stabilito per l'attuazione della rispettiva
normativa dell'Unione europea (art. 41.1, legge 234/2012); essa tuttavia deve recare l'esplicita
indicazione della natura sostitutiva del potere esercitato e del carattere cedevole delle disposizioni
in essa contenute, e perde efficacia dalla data di entrata in vigore della normativa di attuazione di
ciascuna regione e provincia autonoma. È ammessa la possibilità, per lo Stato, di adottare
regolamenti in tutte le mate-rie riservate alla potestà legislativa regionale ai soli fini della
sostituzione degli enti territoriali inadempienti, con le caratteristiche sopra accennate (efficacia
fino all'intervento degli enti sostituiti, natura cedevole ecc.). Apparentemente, questa previsione si
pone in contraddizione con quanto previsto dall'art. 117.6 Cost., che consente allo Stato di
esercitare il potere regolamentare solo con riguardo a materie attribuite alla sua potestà
legislativa esclusiva; si ritiene, però, che l'attribuzione alla legge, con l'art. 117.5 Cost., del compito
di disciplinare le «modalità» di esercizio del potere sostitutivo, renda legittimo l'utilizzo della fonte
regolamentare, ove dalla legge previsto. Un ulteriore potere sostitutivo è previsto (art. 37, legge
234/2012) qualora atti normativi o di sentenze della Corte di giustizia dell'Unione europea
comportino obblighi regionali di adeguamento, e tali obblighi debbano essere adempiuti prima
della data di presunta entrata in vigore della legge di delegazione europea e della legge europea
relativa all'anno di riferimento: in tali evenienze il presidente del Consiglio dei ministri o il ministro
per gli Affari europei, prima di esercitare i poteri sostitutivi, informano gli enti interessati
assegnando un termine per provvedere e, ove necessario, chiedono che la questione venga
sottoposta all'esame della Conferenza Stato-regioni per concordare le iniziative da assumere. In
caso di mancato tempestivo adeguamento da parte degli enti territoriali, il presidente del
Consiglio o il ministro per gli Affari europei propongono al Consiglio dei ministri le opportune
iniziative ai fini dell'esercizio dei poteri sostitutivi ex artt. 117.5 e 120.2 Cost. Le regioni, in sede di
attuazione del diritto dell'Unione europea, hanno la facoltà di scegliere le modalità di intervento,
nonché i tempi (purché entro i limiti di volta in volta previsti dalle singole direttive). Numerose
regioni hanno adottato leggi di disciplina generale della procedura di partecipazione alla
formazione e attuazione delle norme europee. Inoltre, dall'esame delle previsioni contenute in
alcuni statuti regionali, dedicate alla «fase discendente», si ricava una comune tendenza degli enti
territoriali a procedere in analogia con le scelte adottate dal legislatore statale, che aveva
introdotto, con legge 86/1989, lo strumento della legge comunitaria annuale, e che del resto aveva
«suggerito» alle regioni di fare altrettanto, inserendo nell'art. 8.5, lett. e), legge 11/2005 un
riferimento a «leggi annuali di recepimento eventualmente approvate dalle regioni e dalle
province autonome»; detta previsione, del resto, trova oggi conferma nell'art. 29.7, lett, f) della
legge 234/2012. L'impressione è rafforzata dall'analisi delle leggi regionali, le quali talvolta, in
attuazione di norme contenute negli statuti regionali, disciplinano la partecipazione dell'ente
territoriale alla formazione e attuazione del diritto europeo: quasi tutti i provvedimenti in
questione prevedono la presentazione ogni anno, da parte della giunta regionale, di un disegno di
legge europea regionale. Il contenuto tipico delle leggi europee regionali non si discosta
particolarmente dall'omologa legge statale, indicando una serie di atti normativi europei di cui è
necessario il recepimento; specificando a quali di essi la regione possa dare attuazione con atti non
aventi natura legislativa (regolamenti della giunta o del consiglio, a seconda di quanto previsto
negli statuti, o atti amministrativi), e nel contempo individuando principi e criteri direttivi ai quali si
dovrà attenere l'organo che provvederà all'attuazione; prevedendo disposizioni attuative di
sentenze della Corte di giustizia e di decisioni della Commissione europea; disponendo modifiche o
abrogazioni di norme regionali, conseguenti a procedure di infrazione. Quanto alla responsabilità
per mancata attuazione del diritto europeo, già con l'art. 16-bis, legge 11/2005, introdotto con
legge 34/2008, si consentiva allo Stato di rivalersi sugli enti territoriali responsabili di violazione di
obblighi comunitari. La problematica è oggi disciplinata dall'art. 43 della legge 234/2012. La rivalsa
può essere anzitutto esercitata con riguardo alle regolazioni finanziarie operate a carico dell'Italia
a valere sulle risorse del Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA), del Fondo europeo agricolo
per lo sviluppo rurale (FEASR) e degli altri fondi aventi finalità strutturali, oltre che in riferimento
agli oneri finanziari derivanti dalle sentenze di condanna rese dalla Corte di giustizia delle
comunità europee a danno dell'Italia. Gli importi dovuti a titolo di rivalsa sono stabiliti con decreto
del ministro dell'Economia, emanato, qualora l'obbligato sia un ente territoriale, previa intesa sulle
modalità di recupero con l'ente interessato, da perfezionarsi entro quattro mesi dalla data di
notifica, all'ente territoriale obbligato, della sentenza esecutiva di condanna della Repubblica
italiana. In caso di mancato raggiungimento dell'intesa, all'adozione del provvedimento (che
costituisce titolo esecutivo) provvede il presidente del Consiglio dei ministri, nei successivi quattro
mesi, sentita la Conferenza unificata Stato-regioni-città e autonomie locali.

I RAPPORTI INTERNAZIONALI DELLE REGIONI


Le attività di diritto internazionale degli enti territoriali sono condizionate e – in passato furono
sostanzialmente precluse – dalla c.d. riserva esclusiva statale in materia di politica estera.

Prima della riforma del Titolo V


In termini generali, il principio della indivisibilità della Repubblica, affermato dall'art. 5 Cost., postula
l'esclusiva soggettività internazionale dello Stato; tale principio, a giudizio della Corte costituzionale (seni.
187/1985) risulta ribadito anche dalle altre norme costituzionali che direttamente o indirettamente si
riferiscono ai rapporti internazionali (artt. 10, 11, 35.3 e 4, 72.4, 75.2, 78, 80, 87.1 e 8 Cost.). Da ciò
discendeva, ben prima dell'introduzione della espressa riserva di cui all'attuale art. 117.2, la spettanza allo
Stato del c.d. «potere estero» (vedi anche Corte cost 21/1968), e ne derivava che, 'in tema di rapporti
internazionali, i margini di manovra per le regioni fossero notevolmente ristretti, non potendo esse in alcun
modo operare su temi e decisioni riconducibili alla gestione della «politica estera» dello Stato. Si deve
all'art. 6, dpr 616/1977, una prima attenuazione della riserva statale in questione, mediante la previsione
della possibilità, per le regioni, di intraprendere attività promozionali all'estero, previa intesa con il governo.
Un importante riconoscimento di autonomia per gli enti territoriali è tuttavia da ascrivere a una pronuncia
della Corte costituzionale (sent. 179/1987), nella quale, oltre alle attività promozionali, venivano ritenute
ammissibili: a) la stipulazione di accordi di cooperazione transfrontaliera, subordinati all'esistenza di una
previa convenzione bilaterale «di copertura», stipulata dallo Stato (ai sensi della legge 948/1984); b) le
attività consentite nell'ambito delle organizzazioni europee; c) le attività di mero rilievo internazionale, cioè
le attività di studio, o di scambio di informa-zioni con enti esteri ovvero interstatali, di partecipazione a
manifestazioni dirette ad agevolare il progresso culturale o economico in ambito locale; d) le dichiarazioni
unilaterali di intenti non comportanti obblighi in capo allo Stato.

L'art. 117 Cost., come riformato nel 2001, ha indotto aspettative di sensibile ampliamento delle
prerogative regionali in tema di rapporti internazionali: pur riservando allo Stato la potestà
legislativa esclusiva in materia di «politica estera» e di relazioni internazionali, la norma riconosce
alle regioni una potestà legislativa concorrente in materia di «rapporti internazionali e con
l'Unione europea delle regioni», e soprattutto attribuisce agli enti territoriali, nelle materie di loro
competenza, la facoltà di concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro
Stato «nei casi e con le forme disciplinate dalle leggi dello Stato». Non ci si troverebbe, dunque,
soltanto in presenza di una novazione della fonte (oggi costituzionale) della disciplina del potere
estero, ma si verrebbe a configurare un treaty-making power regionale, rafforzato dall'obbligo per
il legislatore statale dí rispettare, ai sensi dell'art.117.1, gli accordi e le intese internazionali
sottoscritti dalle regioni. Sennonché, i principi costituzionali menzionati sono stati declinati nella
legge di attuazione 131/2003 in modi e e forme ampiamente riduttivi degli spazi di autonomia
degli enti territoriali. Anzitutto, l'art. I attribuisce solo ai «trattati» (conclusi dallo Stato) e non. agli
«accordi» o «intese» (conclusi dalle regioni) l'effetto di vincolare la potestà legislativa statale e
regionale. L'art. 6 della legge stabilisce che regioni e province autonome, in materie di propria
competenza legislativa, possono concludere intese con enti territoriali interni ad altro Stato,
dirette a favorire il loro sviluppo economico, sociale e culturale, nonché a realizzare attività di
mero rilievo internazionale; è imposta la previa comunicazione alla presidenza del Consiglio dei
ministri e al ministero degli Affari esteri, ai fini delle eventuali osservazioni di questi ultimi e dei
ministeri competenti, da far pervenire entro trenta giorni, decorsi i quali le regioni e le province
autonome possono sottoscrivere l'intesa. Regioni e province autonome non possono esprimere
valutazioni relative alla politica estera dello Stato, né possono assumere impegni dai quali derivino
obblighi o oneri finanziari per lo Stato o che ledano gli interessi degli altri soggetti di cui all'art.
114.1 Cost. Ancora più stringente è la disciplina degli accordi: essi possono avere natura esecutiva
e applicativa di accordi internazionali regolarmente entrati in vigore, o natura tecnico-
amministrativa, o programmatica, nel rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario, dagli obblighi internazionali e dalle linee e dagli indirizzi di politica
estera italiana; nonché, nelle materie di cui all'art. 117.3 Cost., dei principi fondamentali dettati
dalle leggi dello Stato. È richiesta la preventiva comunicazione delle trattative al governo e il
ministero degli Affari esteri può indicare principi e criteri da seguire nella conduzione dei
negoziati. La regione o la provincia autonoma, prima di sottoscrivere l'accordo, comunicano il
relativo progetto al ministero degli Affari esteri, il quale conferisce i pieni poteri di firma
(mancando i quali gli accordi sono nulli) previsti dalle norme del diritto internazionale generale e
dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. A completare la disciplina, il ministro degli
Affari esteri può, in qualsiasi momento, presentare alla regione o alla provincia autonoma
questioni di opportunità inerenti alle attività di cui sopra e derivanti dalle scelte e dagli indirizzi di
politica estera dello Stato. In caso di dissenso, il ministro può chiedere che la questione sia portata
in Consiglio dei ministri che, con l'intervento del presidente della giunta regionale o provinciale
interessato, delibera sulla questione. A regioni e province autonome, nelle materie di propria
competenza legislativa, spettano l'attuazione e l'esecuzione degli accordi internazionali ratificati, di
cui danno preventiva comunicazione al governo, per l'eventuale formulazione di criteri e
osservazioni. In caso di mancata attuazione, ferma la responsabilità delle regioni verso lo Stato, si
applicano le disposizioni di cui all'art. 8, legge 13 1/2 003, che disciplina il potere sostitutivo
statale. Quello prefigurato dal legislatore è dunque un sistema di condizionamenti e controlli
statali piuttosto rigido, tale da ridimensionare in modo notevole la portata innovativa dell'art.
117.5 Cost.; non sorprende, allora, che le attività internazionali delle regioni siano ancora oggi
molto contenute quanto a frequenza e rilevanza politico-giuridica, e che anche la casistica
giurisprudenziale sia molto limitata.

La giurisprudenza della Corte sul potere estero


L'art. 6 della legge 131/2003 ha superato il vaglio della Corte costituzionale, che ha rigettato l'impugnazione
promossa dalla provincia autonoma di Bolzano (sent. 238/2004). Nella decisione la Corte richiama
integralmente la sentenza 179/1987, nonostante il riconoscimento a livello costituzionale di un «potere
estero» delle regioni. Precisa la Corte che «tale potere estero deve peraltro essere coordinato con
l'esclusiva competenza statale in tema di politica estera, donde la competenza statale a determinare í "casi"
e a disciplinare le "forme" di que-sta attività regionale, così da salvaguardare gli interessi unitari che
trovano espressione nella politica estera nazionale». Nel contempo, la Corte osserva che i «criteri» e le
«osservazioni» che l'organo governativo può formulare in relazione alle attività della regione «sono sempre
e soltanto relativi alle esigenze di salvaguardia delle linee della politica estera nazionale e di corretta
esecuzione degli obblighi di cui lo Stato è responsabile nell'ordinamento internazionale; né potrebbero
travalicare in strumenti di ingerenza immotivata nelle autonome scelte delle regioni». In altre pronunce la
Corte ha avuto modo di precisare che la facoltà di stipulare intese e accordi, riconosciuta alle regioni, non
esclude che lo Stato eserciti il potere estero nelle medesime materie (sent. 285/2005); che una regione
possa stipulare accordi con uno Stato allo scopo di prevedere prestazioni socioassistenziali in caso di
calamità naturali, a favore dei cittadini ivi emigrati in quello Stato, ma nati o già residenti nel territorio della
regione (sent. 387/2005); che una regione possa promuovere intese ad azioni congiunte con istituzioni
europee e agenzie delle Nazioni Unite competenti in materia di migrazione (sent. 269/2010). È quasi
precluso, invece, l'intervento del legislatore regionale in tema di cooperazione allo sviluppo: la Corte (senti.
211/2006 e 131/2008) ha circoscritto l'ambito della materia «rapporti internazionali», assegnata alla
potestà legislativa concorrente, rispetto alla «politica estera», di esclusiva spettanza statale, sostenendo
che «mentre i rapporti internazionali sono astrattamente riferibili a singole relazioni, dotate di elementi di
estraneità rispetto al nostro ordinamento, la politica estera concerne l'attività internazionale dello Stato
unitariamente considerata in rapporto alle sue finalità e al suo indirizzo»; in questo senso, «le attività di
cooperazione internazionale [...] sono destinate a incidere nella politica estera nazionale, che è prerogativa
esclusiva dello Stato», in ragione di quanto previsto dall'art. 1, legge 49/1987, laddove si dispone che la
«cooperazione allo sviluppo è parte integrante della politica estera dell'Italia».

Un settore di attività internazionale nel quale si esplica, sia pure con i limiti di cui si è detto, il
potere estero regionale, è la cooperazione transfrontaliera, che interessa enti territoriali — di Stati
confinanti — tra loro contigui. La cooperazione transfrontaliera trova la sua disciplina nella legge
948/1984, approvata in esecuzione della Convenzione quadro europea di Madrid, promossa dal
Consiglio d'Europa. La Convenzione vede quali protagonisti gli Stati, che devono individuare quali
enti siano abilitati a concludere accordi di cooperazione transfrontaliera, e dunque non attribuisce
agli enti territoriali alcuna competenza in via diretta; lo strumento suggerito agli Stati è la stipula di
accordi bilaterali interstatuali, in applicazione dei quali gli enti territoriali potrebbero avviare
iniziative di cooperazione. È questa la strada seguita dal legislatore italiano, che con la legge
948/1984 ha appunto subordinato gli accordi transfrontalieri degli enti abilitati — regioni,
province, comuni, comunità montane, consorzi comunali e provinciali — alla previa stipula da
parte dello Stato italiano di accordi bilaterali («di copertura») con gli Stati confinanti. La disciplina
statale non è stata modificata all'esito dell'entrata in vigore del nuovo art. 117 Cost., né in seguito
alla legge 131/2003; sorge pertanto il dubbio se gli enti territoriali possano oggi stipulare accordi
di cooperazione transfrontaliera anche in mancanza di accordi statali di copertura, qualora gli
accordi rientrino tra le tipologie contemplate dall'art. 6, legge 131/2003.
Non è soggetta all'applicazione della legge 948/.1984 l'attività di cooperazione transfrontaliera
posta in essere in esecuzione di appositi programmi approvati dalle istituzioni dell'Unione
europea: lo ha affermato la Corte costituzionale (sent. 258/2004), respingendo un conflitto di
attribuzioni promosso dal governo in relazione a un accordo sottoscritto dalla provincia di Bolzano
e dalle regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto con i Lànder austriaci Carinzia, Salisburgo, Tirolo, in
esecuzione del programma comunitario Int.erreg III A Italia-Austria. In quanto previsti dal diritto
dell'Unione, i rapporti tra gli enti territoriali di Stati diversi si configurano quali rapporti «interni»
dell'ordina-mento ordinamento comunitario e non come rapporti internazionali. Un'evoluzione, in
ambito comunitario, del sistema di cooperazione transfrontaliera è stata segnata
dall'approvazione del regolamento CE 1082/2006, recante la disciplina del Gruppo europeo di
cooperazione territoriale (GECT). Tale organismo — dotato di personalità giuridica contrariamente
agli organismi transfrontalieri istituiti ai sensi della Convenzione di Madrid — non presuppone una
necessaria contiguità territoriale tra gli enti che lo istituiscono; può coinvolgere Stati, autorità
regionali, autorità locali, imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, che si trovino sul
territorio di almeno due Stati membri, sempre nel rispetto delle norme co-stituzionali di ciascuno
Stato. Il GECT è stato ideato per riunire enti situati nel territorio di almeno due Stati membri
dell'Unione, ma il regolamento UE 1302/2013, parzialmente modificando il regolamento
1082/2006, ha ammesso l'adesione di enti di paesi terzi, e consente la costituzione di GECT che
coinvolgano anche enti di un solo Stato membro e di uno o più paesi terzi. Le competenze del
GECT sono stabilite tramite una convenzione di cooperazione, approvata dai suoi membri
all'unanimità. Il GECT può essere incaricato di attuare programmi cofinanziati dalla Comunità,
ovvero azioni di cooperazione transfrontaliera con o senza intervento finanziario comunitario.
Organi necessari del GECT sono un'assemblea e un direttore; la convenzione elenca gli organi del
GECT e le rispettive competenze, ed individua il diritto applicabile a tale organismo. Ad uno
statuto, approvato all'unanimità dai membri, è demandata la disciplina di ulteriori aspetti relativi
al funzionamento del GECT e dei suoi organi. Con legge 88/2009 sono state dettate disposizioni di
attuazione del citato Regolamento CE; ai GECT è attribuita personalità giuridica di diritto pubblico,
ed è previsto un registro dei GECT presso la presidenza del Consiglio dei ministri. Risolvendo un
possibile dubbio interpretativo, la legge abilita gli enti locali a essere membri di GECT (la legge
131/2003 consentirebbe, infatti, a tali enti soltanto di esercitare attività di mero rilievo
internazionale). La costituzione del GECT deve essere autorizzata dalla presidenza del Consiglio, e
può essere revocata qualora il GECT svolga attività contrarie alle disposizioni dello Stato in materia
di ordine pubblico, pubblica sicurezza, salute pubblica o moralità pubblica, o contrarie all'interesse
pubblico. Questo istituto può assolvere alla finalità di rendere più stabili e strutturate talune
iniziative di cooperazione transfrontaliera dapprima disciplinate da intese ai sensi della legge
948/1984: ne è testimonianza, ad esempio, la cooperazione tra le province di Trento e di Bolzano e
il Land austriaco Tirolo, laddove si è passati da un'intesa di cooperazione transfrontaliera
nell'ambito di una «Euroregione» (nel 1988) all'istituzione di un ufficio di rappresentanza comune
a Bruxelles presso la UE (1995), alla sottoscrizione della convenzione istitutiva di un GECT (2011).
LE CONTROVERSIE TRA STATO E REGIONI
L'ordinamento italiano contempla due tipi di controversie costituzionali tra Stato e regioni: il
giudizio di legittimità costituzionale in via principale (art. 127 Cost.) e il conflitto di attribuzioni tra
Stato e regioni (art. 134 Cost.). In sostanza, il fattore di distinzione sta nella forma dell'atto da
impugnare: se si tratta di un atto legislativo, occorre promuovere un giudizio di costituzionalità in
via diretta, mentre se si tratta di un atto non legislativo, la via da percorrere è quella del conflitto
di attribuzioni. Entrambi i giudizi trovano la propria disciplina, oltre che nelle sintetiche disposi-
zioni costituzionali (artt. 127 e 134-137), nella legge 87/1953 (artt. 31-35 e 39-41) e nelle Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (Ni), adottate dalla stessa Corte il 7
ottobre 2008 (in sostituzione di quelle del 1956). Le controversie costituzionali in materia federale
e regionale rappresentano una competenza tipica delle corti costituzionali o supreme (come si è
visto —§ II.4 — proprio in tale materia si sono realizzate le prime forme di giustizia costituzionale):
ciò dimostra che, nel momento in cui un ordinamento si dà una struttura federale o regionale, gli
attori di quell'ordinamento ritengono indispensabile completamento del sistema la disponibilità di
uno strumento giurisdizionale idoneo a garantire il rispetto del riparto costituzionale di
competenza (anche e soprattutto contro le leggi). Anche il fatto che l'impugnazione governativa
delle leggi regionali fosse l'unico giudizio di costituzionalità disciplinato nella Costituzione del
1948, mentre per gli altri giudizi essa rinviava a fonti successive, conferma, da un lato, lo stretto
collegamento tra forma regionale di Stato e giustizia costituzionale, dall'altro il timore che ha
circondato la creazione delle regioni in Assemblea costituente. Si trattava, infatti, di un ricorso
preventivo, cioè che precedeva l'entrata in vigore delle leggi regionali e ne bloccava la
promulgazione fino alla sentenza della Corte.

L'IMPUGNAZIONE PREVENTIVA delle leggi regionali prima del 2001


Prima del 2001, l'art. 127 Cost. prevedeva che la delibera legislativa regionale approvata dal consiglio
regionale (non è corretto parlare di legge perché fino alla promulgazione l'atto legislativo non si perfeziona)
fosse inoltrata al governo, che poteva rinviarla al consiglio o per ragioni di legittimità (cioè quando riteneva
che eccedesse la competenza della regione) o per ragioni di merito «qualificato» (per contrasto con gli
interessi nazionali o con quelli di altre regioni). Se il consiglio regionale l'approvava nuovamente a
maggioranza assoluta, il governo poteva — entro 15 giorni — promuovere la questione di legittimità
davanti alla Corte costituzionale o quella di merito per contrasto di interessi davanti alle camere (questo
giudizio non fu mai attivato: vedi §S 111.7 e 11). Dunque, l'impugnazione governativa e tutto il giudizio di
legittimità costituzionale avevano carattere preventivo, cioè precedevano l'entrata in vigore della legge
regionale, in quanto il ricorso statale bloccava la promulgazione della delibera legislativa regionale. Questo
fattore penalizzante per l'autonomia regionale si era rivelato, nella prassi, più grave di quanto si potesse
immaginare a causa del concorso di diversi elementi: infatti, dati i tempi lunghi del giudizio della Corte e il
carattere spesso «provvedimentale» delle leggi regionali, la proposizione del ricorso statale rendeva non di
rado inutile l'approvazione della legge. Ciò conferiva grande potere «contrattuale» al governo nella fase del
rinvio, ragion per cui le regioni spesso si adeguavano anche a rinvii esorbitanti dalla funzione assegnata a
tale strumento dal vecchio art. 127 (cioè, fondati su motivi di merito non «qualificato»): dunque, i tempi del
giudizio e il contenuto dei rinvii hanno funzionato come «moltiplicatori» della supremazia statale.

La legge cost. 3/2001, modificando l'art. 127 Cost., ha trasformato il ricorso statale da preventivo a
successivo. Ciò ha prodotto una vera «esplosione» delle controversie fra Stato e regioni. Da
queste controversie costituzionali sono sempre stati esclusi gli enti locali (comuni e province), sia
prima del 2001 (quando l'esclusione poteva giustificarsi, dato che le competenze degli enti locali si
fondavano sulla legge, non sulla Costituzione), sia dopo il 2001, nonostante la riforma del Titolo V
abbia attribuito rango costituzionale all'autonomia degli enti locali (statutaria, regolamentare,
amministrativa, finanziaria). Dunque, se la legge statale o la legge regionale violano le prerogative
costituzionali degli enti locali (ad es., non attribuendo ad essi una funzione amministrativa in
contrasto con il principio di sussidiarietà), essi non possono impugnare direttamente la legge. A
questo «vuoto di tutela» ha cercato di porre parziale rimedio la legge 13 1/2003, che ha
modificato la legge 87/1953 prevedendo che gli enti locali (attraverso i propri organismi di
raccordo con lo Stato e con le singole regioni) possano chiedere allo Stato l'impugnazione di una
legge regionale e alla regione l'impugnazione di una legge statale: dopo questa modifica, l'art. 31,
legge 87/1953 fa riferimento alla eventuale proposta della Conferenza Stato-città e l'art. 32 a
quella del consiglio delle autonomie locali. Si tratta, però, di un rimedio la cui utilità viene
sminuita dall'assenza di un vincolo a carico dell'organo politico. Inoltre, anche prima della legge
131/2003 nulla precludeva alla Conferenza Stato-città e ai consigli delle autonomie locali di
avanzare le proposte in questione al governo e alle giunte. D'altro canto, è da notare che la
legittimazione ristretta delle regioni non le limita nell'accoglimento della proposta degli enti locali:
infatti, secondo la Corte costituzionale, le regioni possono impugnare leggi statali lesive delle
prerogative costituzionali degli enti locali, senza necessità di prospettare anche la lesione delle
competenze regionali.

Fra Stato e regioni un ricorso ogni tre giorni, feste comprese


Per dare un'idea dell'aumento della «litigiosità» fra Stato e regioni, può essere utile riferire che, nel
decennio 2002-2011, ci sono stati in media 108,3 ricorsi in via principale e 16,7 conflitti all'anno. Fra i primi,
67,6 sono stati proposti dallo Stato e 40,7 dalle regioni: ciò può stupire perché, se è vero che le leggi
regionali sono complessivamente molto più numerose di quelle statali, è anche vero che dal lato regionale i
possibili ricorrenti sono 22 (le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano). Inoltre, mentre non sí
può certo dire che il legislatore statale abbia «brillato» nell'adeguarsi alla riforma del Titolo V, bisogna
anche prendere atto del fatto che le regioni sono state, di regola, abbastanza caute nell'esercitare le nuove
competenze (e, dunque, sotto questo profilo, non hanno «incentivato» i ricorsi statali). Nel periodo 2012-
17 ci sono stati in media 111,1 ricorsi in via principale e 11,5 conflitti intersoggettivi all'anno. È anche da
segnalare che nel 2004, per la prima volta nella sua storia, la Corte ha emesso più sentenze nei giudizi in via
principale che nei giudizi in via incidentale (ciò si è ripetuto nel 2005, nel 2006, nel 2010, nel 2011, nel 2012
e nel 2013). La riforma dell'art. 127 Cost. ha aumentato il contenzioso perché prima del 2001 la minaccia
del «blocco» della legge induceva le regioni a cedere di fronte ai rilievi governativi, soprattutto nel periodo
(anni '80) in cui i processi costituzionali erano molto lunghi, a causa dell'arretrato accumulato dalla Corte
dopo il processo Lockheed. Altri fattori che hanno incrementato la litigiosità fra Stato e regioni sono
l'ampliamento delle competenze regionali ex art. 117 Cost., le incertezze interpretative relative al nuovo
Titolo V, la scarsa prevedibilità delle decisioni della Corte e la disomogeneità politica fra governo centrale
(di centro-destra) e molti governi regionali nella legislatura 2001-06 (è significativo che la media annuale
dei giudizi in via principale sia di 102 negli anni 2002-05 e scenda a 59 nel biennio 15.6.2006-15.6.2008, in
cui il governo centrale è di centro-sinistra). Infine, è da ricordare che la funzione legislativa statale non è
soggetta a procedure di leale collaborazione: la presenza di raccordi al momento di esercizio di una
funzione diminuisce la probabilità di controversie successive.

IL GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE INVIA


PRINCIPALE
Come si è visto, a seguito della riforma del Titolo V Stato e regioni si trovano su un piano di
perfetta parità quanto al momento di instaurazione del giudizio e le regioni possono ora compiere
liberamente le proprie scelte legislative, senza interferenze, salvo il ricorso statale e il giudizio
della Corte costituzionale. La novità introdotta è una delle più importanti di tutta la riforma del
Titolo V in quanto ha rafforzato notevolmente l'autonomia legislativa regionale (forse in misura
persino maggiore rispetto al nuovo art. 117 Cost.). g Oltre al già visto aumento del contenzioso, la
trasformazione del ricorso sta-tale da preventivo a successivo ha prodotto altre conseguenze. La
prima è la possibilità effettiva, perle regioni, di reagire a un'invasione da parte di una legge statale
usando l'«arma legislativa» (cioè, adottando una propria legge nella medesima materia) invece che
(o in aggiunta a) l'«arma giurisdizionale» (cioè, impugnando la legge statale). Prima l'ipotesi di
reagire in via legislativa era impraticabile, dato il potere statale di controllo preventivo. Però le
regioni devono adottare una «vera» legge, che detta una disciplina sostanziale della materia, e non
una legge di «mera reazione», che si limita a bloccare l'applicazione della legge statale (vedi Corte
cost. 198/2004, in materia di condono edilizio, e 331/2010, in materia di centrali nucleari). In
sostanza, le regioni non possono utilizzare la potestà legislativa al solo scopo di rendere
inapplicabile nel proprio territorio una legge dello Stato: facendosi «giustizia da sé», le regioni
violerebbero gli artt. 5 (principio di unità) e 127 Cost. Altra conseguenza è che, essendo venuta
meno la fase di «trattativa» conseguente al rinvio governativo, può accadere ora che le
«trattative» si svolgano dopo il ricorso: in questo caso, se la regione modifica o abroga la legge, la
Corte dichiara la cessazione della materia del contendere o il sopravvenuto difetto di interesse
(salva la formale rinuncia da parte dello Stato). L'art. 127.1 Cost, prevede che «il Governo, quando
ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della regione, può promuovere la questione
di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla sua
pubblicazione». L'art. 127.2 regola il ricorso regionale, stabilendo che «la regione, quando ritenga
che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un'altra regione leda la sua sfera di
competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell'atto avente valore di
legge». Tale disciplina è integrata, per il ricorso statale, dall'art. 31 e, per il ricorso regionale,
dall'art. 32, legge 87/1953. Entrambe le disposizioni prevedono che la questione di legittimità
costituzionale sia sollevata dall'organo di vertice del potere esecutivo (presidente del Consiglio dei
ministri per lo Stato e presidente della giunta per la regione), previa delibera dell'organo esecutivo
collegiale (Consiglio dei ministri per lo Stato e giunta per la regione), mediante ricorso diretto alla
Corte costituzionale e notificato al presidente della giunta regionale (in caso di ricorso statale) o al
presidente del Consiglio dei ministri (in caso di ricorso considera regionale). Il termine e di 60
giorni (posto a pena di inammissibilità) si considera rispettato quando entro la sua scadenza il
ricorso è notificato (ma in realtà entro il termine basta la consegna dell'atto all' ufficiale
giudiziario). Nel caso in cui sia impugnata una legge regionale, il termine decorre dalla
pubblicazione di essa nel BUR. Il ricorso deve essere poi «depositato nella cancelleria della Corte
costituzionale entro il termine di dieci giorni dalla notificazione» (art. 31.4, cui rinvia l'art, 32).
Dunque, lo Stato è rappresentato processualmente dal presidente del Consiglio, ma per la
proposizione del ricorso è necessaria anche la previa delibera del Consiglio dei ministri. Nella
prassi, un ruolo rilevante nella decisione spetta al Dipartimento per gli affari regionali presso la
presidenza del Consiglio, che analizza le leggi regionali e formula le proposte di impugnazione. Tali
proposte sono poi allegate alla delibera del Consiglio dei ministri e sono non raramente
«trasfuse» nei ricorsi, materialmente redatti e sottoscritti dall'Avvocatura generale dello Stato, Le
regioni, invece, sono rappresentate processualmente dal proprio presidente (che dev'essere
autorizzato da una delibera giuntale) e tecnicamente dai propri legali o da avvocati del libero foro.
Secondo l'orientamento prevalente (vedi, ad es., Corte cost. 3/2006), la delibera di impugnazione
è un atto politico, che il Consiglio dei ministri e la giunta regionale non sono tenuti ad adottare
qualora ritengano esistenti i presupposti del ricorso, Tale tesi è confortata dalla facoltatività del
ricorso, quale risulta dall'art. 127 Cost., e dalla sua rinunciabilità (introdotta dall'art. 23 N.i. In base
all'art. 19 N.i. l'ente resistente «può costituirsi in cancelleria entro il termine perentorio di trenta
giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso». La perentorietà di tale
termine non ha una reale giustificazione, non essendo necessaria per una sollecita definizione del
giudizio (questo va avanti anche se il resistente non si costituisce). Il ricorso in via d'azione deve
definire l'oggetto del giudizio (dato dal raccordo tra petitum e causa petendi), cioè deve indicare le
disposizioni censurate e le disposizioni costituzionali violate e deve contenere un'adeguata
motivazione a sostegno della questione, altrimenti il ricorso è dichiarato inammissibile per
genericità. Il ricorso non può sollevare questioni non individuate nella delibera dell'organo politico:
la corrispondenza tra delibera e ricorso è intesa in modo rigoroso dalla Corte per quel che riguarda
le disposizioni impugnate, mentre la giurisprudenza costituzionale risulta meno lineare con
riferimento ai parametri invocati, consentendosi talora una certa autonomia alla difesa tecnica per
quel che riguarda i motivi del ricorso. Con il ricorso in via principale si possono proporre questioni
interpretative, a differenza di quanto accade nel giudizio in via incidentale, ove la necessità di
valutare la rilevanza della questione implica la previa risoluzione dei dubbi interpretativi da parte
del giudice a quo. È anche da rilevare che, nel giudizio invia principale, la legge viene impugnata
subito dopo la pubblicazione, in un momento in cui il suo significato può essere ancora incerto
perché essa non ha avuto ancora occasione (o ha avuto scarsissime occasioni) di essere applicata
dai giudici e dalla pubblica amministrazione. Non di rado le regioni sollevano una questione
interpretativa in via prudenziale, per evitare il rischio che si consolidi un significato lesivo di una
legge (ad es. una legge statale detta vincoli alla pubblica amministrazione e dovrebbe applicarsi
solo alle amministrazioni statali, ma c'è il rischio che venga applicata anche alle regioni). Qualora la
Corte respinga il ricorso con una sentenza interpretativa di rigetto (ritenendo, dunque, che la legge
vada intesa in senso non lesivo per la regione), la regione potrà far valere questa decisione
(sollevando conflitto di attribuzioni) contro eventuali atti amministrativi che applichino la legge in
modo lesivo (si parla di «doppia pronuncia» o «strategia in due tempi»), La legittimazione è la
possibilità giuridica di agire davanti alla Corte: essa, dunque, attiene ai motivi che abilitano lo Stato
e le regioni a impugnare una legge in via diretta. Dall'art. 127 Cost. risulta che lo Stato può
impugnare una legge regionale che «ecceda la competenza della regione», mentre la regione può
impugnare una legge statale «quando ritenga che [...] leda la sua sfera di competenza», Come si
vede, le due formule sono simili ma non uguali: sia per questo dato testuale sia per ragioni
sistematiche (che concernono la «posizione peculiare» che spetta allo Stato nel nostro
ordinamento), la Corte costituzionale ha inteso l'«eccesso di competenza», di cui all'art. 127,
come comprensivo di qualsiasi vizio di costituzionalità, anche formale (vedi la sent. 274/2003, che
nega l'equiparazione tra gli enti di cui all'art, 114 Cost., sottolineando che «solo allo Stato spetta il
potere di revisione costituzionale»). Dunque, per lo Stato non si pone un problema di
legittimazione, Invece, le regioni non possono denunciare qualsiasi vizio di costituzionalità ma solo
la lesione della propria sfera costituzionale di competenza. Esse, però, sono legittimate a
impugnare «non soltanto tutte le leggi che disciplinano materie riservate alla [loro] competenza
statutaria o legislativa [...], ma altresì quelle che pongano all'esercizio di tali competenze [...] limiti
ulteriori rispetto a quelli costituzionalmente previsti o che, comunque, impediscano, ostacolino e
indebitamente limitino l'esercizio da parte della regione delle sue competenze di qualsiasi tipo»
(Corte cost. 39/1971). La necessità, per la regione, di lamentare una lesione della propria
competenza non significa che i parametri evocabili siano soltanto le norme del Titolo V: la regione
può denunciare anche la violazione di norme poste al di fuori del Titolo V, se essa si riflette in una
lesione dell'autonomia costituzionale regionale. Si tratta della c.d. «ridondanza», che deve essere
evidenziata dalla regione ricorrente, a pena di inammissibilità. Ad es., le senti. 235 e 231 del 2017
hanno annullato disposizioni legislative statali per violazione, rispettivamente, di una riserva di
legge rinforzata e del giudicato costituzionale; la Corte ha poi giudicato diverse volte nel merito
censure avanzate contro decreti legislativi per violazione dell'art. 76 Cost. e con la sentenza
22/2012 ha annullato per la prima volta, su ricorso regionale, una legge di conversione per
l'eterogeneità degli emendamenti rispetto al decreto-legge. Le regioni possono impugnare leggi
statali lesive delle prerogative costituzionali degli enti locali (ad es., sentt. 205/2016 e 236/2013):
sotto questo profilo, dunque, la legittimazione regionale è stata ampliata dalla Corte
costituzionale. È da segnalare, infine, che la regione non può impugnare una legge statale per
mera invasione della propria materia, ma solo quando la legge statale si sovrappone a una
disciplina regionale previgente: altrimenti la Corte dichiara l'inammissibilità del ricorso per difetto
di interesse, perché la regione può porre fine all'«invasione» semplicemente esercitando la
propria competenza. In effetti, pur nel silenzio delle fonti sulla giustizia costituzionale (e, anzi, pur
in presenza dell'art. 137 Cost., che pone una riserva di legge costituzionale in materia di
«condizioni [1 dei giudizi di legittimità costituzionale» — tra i quali rientra anche l'interesse ad
agire), la Corte costituzionale ha «trapiantato» l'istituto dell'interesse a ricorrere dai processi
amministrativo e civili al processo costituzionale. Talora, la Corte ha applicato questo istituto in
modo improprio: ad esempio in alcune sentenze si legge che l'interesse a ricorrere sarebbe
«qualificata dalla finalità di ripristinare l'integrità di una propria competenza», ma, cos:
argomentando, la Corte confonde l'interesse con il motivo per cui le regioni possono ricorrere
(cioè, con la legittimazione). In altre ipotesi, però, si riscontrano applicazioni giurisprudenziali
dell'interesse a ricorrere effettivamente riconducibili al modo in cui l'istituto è inteso nel proprio
ambito d'origine, cioè nei processi civile e amministrativo (dunque, come concretezza e attualità
della lesione, come utilità giuridica della sentenza, come necessità della sentenza, come utilità
pratica della sentenza). La Corte non ha mai escluso espressamente l'utilizzabilità dell'interesse al
ricorso nei giudizi promossi dallo Stato e, negli ultimi anni, ha anche dichiarato inammissibili ricorsi
statali per difetto di interesse, ma — di fatto — tale istituto è stato applicato soprattutto a danno
delle regioni, cioè come fondamento di pronunce di inammissibilità di ricorsi regionali. Peraltro,
secondo la più recente giurisprudenza, per la sussistenza dell'interesse non è necessario che la
legge sia giuridicamente efficace o applicabile, purché essa sia destinata ad avere applicazione: ciò
in virtù della necessità di impugnare la legge entro il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione.
La parità fra Stato e regioni (in relazione al profilo cronologico del ricorso) è stata mantenuta dalla
legge 131/2003, che ha attribuito alla Corte costituzionale il potere di sospendere, anche d'ufficio,
l'esecuzione della legge impugnata (vedi il nuovo art. 35, legge 87/1953). Benché la norma tragga
chiaramente origine dall'eliminazione del controllo statale preventivo, essa assoggetta alla
possibilità della sospensione anche la legge statale. La Corte può esercitare questo potere quando
ritenga che l'esecuzione della legge possa comportare «il rischio di un irreparabile pregiudizio
all'interesse pubblico o all'ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un
pregiudizio grave e irreparabile per i diritti dei cittadini». Il nuovo art. 35 ha suscitato dubbi di
legittimità costituzionale, perché una legge ordinaria incide sull'efficacia della legge, regolata in
Costituzione. Nella prassi, la sospensione della legge è stata chiesta raramente e di solito la Corte
non si è pronunciata sull'istanza, dichiarandola «assorbita» nella decisione di merito; solo in un
caso la Corte ha giudicato nel merito dell'istanza cautelare, respingendola (sent. 107/2010). Nel
giudizio in via principale il ricorrente può invocare come parametro norme di rango costituzionale
e altre fonti che siano rese vincolanti dalle prime (si tratta delle cc.dd. norme interposte: ad es, le
leggi statali che recano principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente). Sono poi
spesso in-vocate quelle fonti che, pur non essendo giuridicamente vincolanti per gli atti legislativi,
hanno una funzione interpretativa della Costituzione, soprattutto ai fini della definizione delle
materie (si parla di norme «di fatto» interposte: vedi, ad es., i decreti legislativi di trasferimento
delle funzioni amministrative alle regioni ordinarie). Come parametro può essere invocato anche il
principio di leale collaborazione, ma solo in riferimento alla mancata previsione di forme di
raccordo nello svolgimento dell'attività amministrativa: infatti, secondo la Corte, non può «essere
rinvenuto un fondamento costituzionale all'applicazione dei meccanismi collaborativi nel
procedimento legislativo» (così Corte cost. 237/2017; la Corte ha invece censurato la mancata
previsione di un'intesa in sede di adozione di decreti legislativi: sent. 251/2016). L'oggetto del
giudizio è dato dalla legge regionale (per il ricorso statale) e dalla legge o dall'atto avente valore di
legge dello Stato (per il ricorso regionale): la differenza si spiega per l'inesistenza, a livello
regionale, di decreti-legge e di decreti legislativi (e l'art. 127 Cost, dà conto di tale differenza).
Secondo la giurisprudenza costituzionale consolidata, «la regione che ritenga lese le proprie
competenze da norme contenute in un decreto-legge può sollevare la relativa questione di
legittimità costituzionale anche in relazione a questo atto, con effetto estensivo alla legge di
conversione, ovvero può riservare l'impugnazione a dopo l'entrata in vigore di quest'ultima» (sent.
430/2007). Il «trasferimento» del giudizio dal decreto-legge alla legge di conversione, qualora la
norma censurata non venga modificata, rappresenta un'applicazione del principio di effettività
della tutela delle parti nel giudizio in via di azione, in base al quale «s'impone il trasferimento della
questione alla norma che, sebbene portata da un atto legislativo diverso da quello oggetto di
impugnazione, sopravvive immutata nel suo contenuto precettivo» (così Corte cost. 162/2007). Se,
invece, la nuova legge «modifica sostanzialmente, ancorché in modo non satisfattivo, il contenuto
del testo originario», non ci può essere il trasferimento della questione perché esso, «lungi dal
garantire il richiamato principio di effettività, supplirebbe impropriamente all'onere dí
impugnazione gravante sulle parti» (vedi sempre sent. 162/2007; in generale, sul punto vedi sent.
44/2018). Infine, quanto all'oggetto del giudizio, è da rilevare che nel giudizio in via principale
(come in quello incidentale) vale il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 27,
legge 87/1953), secondo il quale la Corte è vincolata al thema decidendum posto dall'atto
introduttivo, in ordine alle disposizioni impugnate e al parametro invocato: la Corte «non ha il
potere di dichiarare che la norma censurata è illegittima per la violazione di parametri
costituzionali diversi da quelli indicati nell'atto introduttivo» e «tale limitazione opera anche per le
disposizioni integrative del parametro costituzionale», cioè per le norme interposte invocate nel
ricorso (Corte cost. 102/2008). Come nel giudizio in via incidentale, in quello in via principale la
Corte adotta o decisioni di merito (sulla fondatezza della domanda) o di rito (che chiudono giudizio
senza pronunciarsi sulla sussistenza del vizio denunciato). Le prime sono o di rigetto o di
accoglimento. Queste ultime producono l'annullamento della legge, che viene meno ex tutte. Una
particolarità riguarda efficacia della sentenza di accoglimento del ricorso regionale: di regola, essa i
effetti generali, per tutte le regioni, dato che l'ambito soggettivo dell'annullamento coincide con
quello dell'atto annullato. Però, se la legge statale è viziata solo in relazione alla regione ricorrente
(o ad alcune regioni), la Corte può e deve limitare l'ambito soggettivo della propria sentenza di
accoglimento alla regione in questione. Ciò capita usualmente in caso di ricorso proposto da una
regione speciale, data la specialità del parametro. Un problema si pone quando una regione
speciale invoca il proprio statuto ma fa valere una competenza spettante anche ad altre regioni
speciali e, eventualmente, alle regioni ordinarie. In questi casi (e ciò può capitare anche in conflitti
di attribuzioni fra Stato e regioni), la Corte ha annullato tout court l'atto impugnato, senza limitare
la sentenza alla regione ricorrente. Così nella sent. 134/2006 la Corte, dopo aver detto che la
competenza della regione speciale ricorrente in materia sanitaria si fondava sull'art. 117.3 Cost.,
ha concluso: «va da sé che, muovendosi entro tali coordinate costituzionali, l'esito del presente
giudizio non potrà che avere effetto per l'intero territorio nazionale». Quanto alle decisioni di rito,
con esse la Corte dichiara l'inammissibilità, l'improcedibilità o l'estinzione del giudizio per
rinuncia (nel caso in cui il resistente si sia costituito è necessaria anche la sua accettazione della
rinuncia). In base alla giurisprudenza costituzionale, nel giudizio in via principale non è applicabile,
come causa di inammissibilità, l'acquiescenza, per l'inderogabilità delle competenze costituzionali.
Discussa è la classificazione della cessazione della materia del contendere, che per alcuni è istituto
processuale, mentre per altri attiene al merito del giudizio perché riguarda l'oggetto di esso.
L'IMPUGNAZIONE DEGLI STATUTI REGIONALI
L'impugnazione degli statuti delle regioni ordinarie e delle leggi statutarie delle regioni speciali è
un tipo particolare di giudizio di legittimità costituzionale in via principale, regolato dall'art. 123.2
Cost. e dagli statuti speciali (per semplicità, qui si farà riferimento solo al primo caso). L'art. 123.2
dispone che «il governo [...] può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti
regionali dinanzi alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione» (negli stessi
termini vedi l'art. 31.1, legge 87/1953). Dunque, anche in sede di ricorso contro gli statuti così
come in sede di ricorso contro le leggi regionali ordinarie — il governo può denunciare qualsiasi
vizio di legittimità costituzionale. È invece diverso s il momento in cui il ricorso può essere
proposto, poiché l'impugnazione degli statuti ha carattere preventivo. Infatti, la sentenza
304/2002 della Corte costituzionale ha ritenuto che la «pubblicazione» di cui all'art. 123.2 sia la
prima pubblicazione prevista nel procedimento statutario (quella notiziale, che serve ai fini della
richiesta di referendum), per cui il ricorso statale viene proposto prima dell'entrata in vigore dello
statuto. Peraltro, se la regione non prevede (nello statuto o in una legge regionale ordinaria) il
blocco del procedimento statutario in caso di ricorso statale, esso prosegue e il giudizio può
trasformarsi in successivo, cioè concludersi dopo che lo statuto ha cominciato a produrre í propri
effetti. In quest'ultimo caso è concepibile l'applicazione dell'art. 35, legge 87/1953, che prevede la
possibilità della sospensione — da parte della Corte — dell'esecuzione della legge impugnata ed è
applicabile anche agli statuti regionali. L'art. 123.2 rappresenta una norma speciale rispetto all'art.
127 Cost, e lo statuto regionale può essere impugnato solo ai sensi della prima disposizione, non
della seconda. Dunque, esso non può essere contestato dal governo dopo la pubblicazione legale
(vedi Corte cost. 469/2005), però gli atti di promulgazione e pubblicazione di un testo statutario in
ipotesi incostituzionale per vizi non rilevabili tramite il procedimento di cui all'art., 123.2 Cost.
(cioè, in via preventiva) possono essere censurati dal governo utilizzandolo strumento del conflitto
di attribuzione (l'ipotesi si è verificata nel caso oggetto della sera. 149/2009).

Come lo Stato può reagire di fronte a uno statuto regionale?


Un caso interessante si è verificato in relazione agli statuti dell'Emilia-Romagna e dell'Umbria, che sono
stati impugnati in via preventiva dal governo. Le sentenze 378 e 379/2004 hanno annullato le disposizioni
statutarie che stabilivano un'incompatibilità tra la carica di consigliere e quella di assessore, in quanto la
materia dell'incompatibilità è assegnata dall'art. 122 Cost. alla competenza concorrente della legge statale
e della legge regionale ordinaria. A quel punto le regioni sí sono rivolte al Consiglio di Stato, chiedendo se il
termine di tre mesi di cui all'art. 123.3 doveva riprendere a decorrere dall'inizio oppure no a seguito delle
sentenze della Corte. Nei pareri 12036 e 12054/2004 della I sezione, il Consiglio di Stato ha sostenuto la tesi
del necessario «ritorno in Consiglio», cioè che le regioni dovevano riapprovare gli statuti seguendo tutta la
procedura di cui all'art. 123 Cost., anche se non avevano intenzione di modificare gli statuti dopo la
«mutilazione» operata dalla Corte. Le regioni, però, hanno disatteso il parere (che non era vincolante) e,
non dovendo rideliberare nulla dopo la sentenza della Corte (le norme statutarie erano state annullate per
incompetenza della fonte statutaria), si sono limitate a «prendere atto» della sentenza della Corte,
procedendo alla pubblicazione notiziale del nuovo testo dello statuto (l'Emilia-Romagna) o della sentenza
della Corte (l'Umbria) e poi promulgando gli statuti. A quel punto, il governo ha impugnato in via successiva
gli statuti, ai sensi dell'art. 127 Cost., contestando l'avvenuta promulgazione degli stessi, in parte annullati
dalla Corte, senza che le regioni li avessero riapprovati ex art. 123 Cost. La Corte ha dichiarato inammissibili
i ricorsi in quanto «l'esplicita previsione di uno speciale e meno favorevole (perché preventivo) sistema di
controllo sulla legge statutaria comporta che a questa legge, una volta promulgata e pubblicata nel
Bollettino Ufficiale, non possa applicarsi anche il controllo successivo previsto per le altre leggi regionali
dall'art. 127.1 Cost.» (sent. 469/2005). Cosa avrebbe dovuto fare, allora, il governo per opporsi alla
mancata riapprovazione degli statuti? Avrebbe dovuto proporre un secondo ricorso preventivo contro gli
statuti, entro 30 giorni dalla seconda pubblicazione notiziale: la Corte, infatti, precisa nella sentenza
469/2005 che «Il controllo preventivo di cui al secondo comma dell'art. 123 Cost, è senz'altro reiterabile»,
in relazione o alle nuove norme che la regione abbia introdotto dopo la sentenza della Corte o agli
«eventuali vizi formali relativi al procedimento di adozione dello statuto e successivi al primo giudizio di
questa Corte» (e la semplice presa d'atto della sentenza della Corte, senza riapprovazione dello statuto ex
art. 123 Cost., era — nella prospettiva del governo — appunto un vizio formale successivo alla sentenza). E
se nel procedimento si verificassero vizi non rilevabili neppure con un secondo ricorso preventivo? La Corte
contempla anche questa ipotesi osservando che «la tipicità dell'azione prevista dall'art. 123.2 Cost. e la
conseguente inutilizzabilità del ricorso ex 127.1 Cost., per le deliberazioni di adozione delle leggi statutarie
non esclude che possa impugnarsi la promulgazione e la successiva vera e propria pubblicazione di un
testo statutario in ipotesi incostituzionale per vizi non rilevabili tramite il procedimento di cui all’art. 123.2
Cost.; in simili casi (peraltro senza dubbio marginali) al Governo resta comunque la eventuale possibilità di
utilizzare lo strumento del conflitto di attribuzione». La sentenza 469/2005, dunque, non si è pronunciata
sul merito delle doglianze governative, ma la di poco precedente sentenza 445/2005 aveva affrontato,
incidentalmente (in un giudizio relativo a una legge ligure disciplinare il referendum approvativo dello
statuto), la questione del “seguito” delle sentenze della Corte che annullano in parte uno statuto, rilevando
che si può verificare l’”ipotesi che successivamente si proceda a una nuova deliberazione statutaria da
parte del Consiglio regionale” oppure “l’ipotesi che si debba semplicemente prendere atto di un effetto
meramente demolitorio di parte della deliberazione statutaria prodotto dalla sentenza di questa Corte”.

I CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE TRA STATO E REGIONI


I conflitti di attribuzione tra Stato e regioni sono solo menzionati nell'art. 134 Cost. e trovano la
propria disciplina negli artt. 39-41, legge 87/1953 e negli artt. 25-27 delle Norme integrative. Essi
sono anche detti «intersoggettivi» perché hanno luogo tra diversi soggetti giuridici, tra diversi enti
pubblici, a differenza dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato (che sono interorganici).
Come già accennato, il criterio distintivo tra giudizio di legittimità costituzionale in via principale e
conflitto di attribuzioni tra enti sta nella forma dell'atto che ne è oggetto: atto legislativo per il
primo giudizio, atto non legislativo per il conflitto. Oltre a questa, altre differenze distinguono il
giudizio di costituzionalità in via principale e il conflitto di attribuzioni. La prima è che il motivo che
legittima a promuovere il conflitto è uguale per lo Stato e per le regioni: si tratta dell'invasione
della propria sfera di competenza costituzionale (art. 39, legge 87/1953). Ciò significa che lo Stato
non può lamentare una qualsiasi illegittimità (o anche incostituzionalità) dell'atto regionale.
Comune al giudizio in via principale (promosso dalle regioni) è, invece, il modo in cui è intesa
l'invasione della sfera di competenza: il conflitto può sorgere non solo quando lo Stato o una
regione invadono una materia altrui, ma anche quando, esercitando un potere a esso/a spettante,
ledono le competenze dell'altro ente. Nel primo caso il ricorrente contesta il difetto del potere
(rivendicato come proprio: conflitto da invasione, vindicatio potestatis), nel secondo caso
contesta il suo cattivo esercizio (conflitto da lesione).
Un'altra differenza tra giudizio in via principale e conflitto di attribuzioni attiene al petitum. Con il
ricorso in via principale si chiede l'annullamento della legge, mentre con il conflitto si chiede, in
prima battuta, un regolamento di competenza (vedi art. 39, legge 87/1953), cioè si chiede alla
Corte di dichiarare se spetta o no all'ente resistente adottare l'atto o tenere il comportamento
contestato (infatti, non è necessario che la lesione derivi da un atto vero e proprio) in quella
particolare circostanza. Il primo, dunque, è un giudizio impugnatorio-costitutivo, mentre il
secondo è un giudizio di accertamento della competenza in concreto (cioè, non della competenza
ad adottare, in generale, quel tipo di atto, ma della competenza in quel particolare caso). Peraltro,
si può osservare che anche il giudizio di costituzionalità richiede un accertamento (della
costituzionalità della legge) prima di pervenire alla pronuncia costitutiva e, d'altra parte, se la
lesione deriva da un atto, il conflitto ha anche un contenuto impugnatorio dell'atto, di cui si chiede
l'annullamento se si accerta la non spettanza del relativo potere all'ente resistente. Infine, comune
al giudizio in via principale è l'esclusione degli enti locali dai soggetti legittimati ad adire la Corte
costituzionale. Nel caso del conflitto, però, la legge 131/2003 non ha previsto la possibilità per gli
enti locali di sollecitare lo Stato o le regioni ad agire in loro difesa. In base all'art. 39, legge
87/1953, «il termine per produrre ricorso è di sessanta giorni a decorrere dalla notificazione o
pubblicazione ovvero dall'avvenuta conoscenza dell'atto impugnato». Il termine, dunque, è uguale
per lo Stato e le regioni ed è uguale a quello fissato per impugnare le leggi. Poiché oggetto del
conflitto è una categoria «residuale» di atti (tutti quelli non legislativi), la legge prevede che l'atto
possa non essere oggetto di pubblicazione o notificazione e, dunque, pone come dies a quo anche
la generica «conoscenza» dell'atto impugnato (che dev'essere provata da chi eccepisce la tardività
del ricorso e che deve avvenire non in capo a un qualsiasi organo dell'ente, ma a quello legittimato
a ricorrere). Il termine è perentorio ma, se l'atto non è stato portato in modo ufficiale a
conoscenza del potenziale ricorrente, può capitare che il conflitto sia sollevato dopo molto tempo.
Entro il termine il ricorso dev'essere notificato; entro 20 giorni dalla notifica esso deve essere
depositato da parte del ricorrente e nei successivi 20 giorni può avvenire la costituzione in giudizio
del resistente (vedi l'art. 25), che qualifica entrambi i termini come perentori). Sempre l'art. 39
stabilisce che «il ricorso è proposto per lo Stato dal Presidente del Consiglio dei ministri o da un
Ministro da lui delegato e per la regione dal Presidente della Giunta regionale in seguito a
deliberazione della Giunta stessa». Dall'art. 2, legge 400/1988 risulta poi che la delibera
dell'organo collegiale (Consiglio dei ministri) è necessaria anche per il ricorso statale (e per la
costituzione nel conflitto promosso da una regione). Anche nel caso del conflitto, la decisione di
promuovere il giudizio e di costituirsi ha, secondo l'opinione prevalente, carattere politico, e anche
il conflitto si estingue qualora vi sia la rinuncia del ricorrente (accettata dal resistente, se si è
costituito; art. 25.5 N.i.). Nel conflitto di attribuzioni lo Stato è sempre rappresentato dal
presidente del Consiglio, ma oggetto del conflitto — come detto — possono. essere atti di qualsiasi
tipo (tranne quelli legislativi), compresi atti giurisdizionali o atti di altri organi indipendenti dal
governo (come la Corte dei conti in sede di controllo). Mentre la difesa di un atto amministrativo
statale o di un regolamento può essere ben svolta dal presidente del Consiglio, nel caso in cui una
regione impugni un atto di un giudice (ipotesi non rara, soprattutto in relazione all'insindacabilità
di cui all'art. 122.4 Cost.) o di altro organo indi-pendente, non è congruo che la loro difesa sia
assunta dal governo (che ha interessi disomogenei). L'incongruità della situazione è confermata
dal fatto che spesso il presidente del Consiglio non si costituisce, abbandonando il giudice al
proprio destino (il che implica una violazione del diritto di difesa e del principio del
contraddittorio). Per risolvere questo problema, nel 2004 la Corte ha modificato le N.i., stabilendo
che il ricorso regionale deve essere notificato — oltre che al presidente del Consiglio — «altresì
all'organo che ha emanato l'atto, quando si tratti di autorità diverse da quelle di Governo e da
quelle dipendenti dal Governo» (art. 25.2 N.i.): il che consente all'organo non governativo di
interloquire nel processo (sent. 252/2013). È stato subito risolto, invece, un altro problema
attinente al profilo soggettivo. Poiché le fonti parlano di «Stato» e «regioni», ci si è chiesti se si
poteva promuovere il conflitto contro gli atti adottati da enti collegati allo Stato o alle regioni
(ovviamente, è più frequente la prima ipotesi). La Corte ha chiarito che, poiché le funzioni in
questione sono di competenza statale, gli atti degli enti parastatali (ad es., le agenzie fiscali) vanno
imputati al «sistema ordinamentale statale»: anche perché — altrimenti — sarebbe facile per lo
Stato e le regioni eludere lo strumento del conflitto (basterebbe affidare alcune funzioni a enti
collegati). In base all'art. 40, legge 87/1953 e all'art. 26 N.i., il ricorrente può chiedere «in qualsiasi
momento» (cioè, in sede di ricorso o anche con successiva istanza) la sospensione dell'esecuzione
dell'atto impugnato. Si tratta del tipico provvedimento cautelare, che serve a evitare che l'atto
produca danni gravi e irreparabili in pendenza del giudizio (l'art. 40 parla di «gravi ragioni»). Oltre
al periculum in mora, però, per la sospensione dell'atto è necessario anche il fronza boni juris,
cioè che ci siano elementi tali da far pensare a un possibile accoglimento del ricorso. La
sospensione è disposta dalla Corte con ordinanza. In base all'art, 39.4, legge 87/1953, «il ricorso
per regolamento di competenza deve indicare come sorge il conflitto di attribuzione e specificare
l'atto dal quale sarebbe stata invasa la sfera di competenza, nonché le disposizioni della
Costituzione e delle leggi costituzionali che si ritengono violate». Come detto, l'ambito oggettivo
del conflitto comprende qualsiasi possibile attività, esclusi gli atti legislativi. È da precisare che non
sarebbe corretto dire che il giudizio in via principale serve a tutelare le competenze legislative di
Stato e regioni e il conflitto le competenze di altro tipo. Le competenze tutelabili sono le stesse: la
differenza non sta nel parametro ma, appunto, nell'atto che si contesta. Con il conflitto si reagisce
di fronte ad atti lesivi non legislativi, ma la lesione può riguardare anche l'autonomia legislativa.
L'ambito oggettivo del conflitto è ben riassunto nelle parole della Corte costituzionale: «qualsiasi
comportamento significante, imputabile allo Stato o a una regione, è idoneo a produrre un
conflitto attuale di attribuzione fra enti, purché sia dotato di efficacia o di rilevanza esterna e sia
diretto a esprimere in modo chiaro e inequivoco la pretesa di esercitare una data competenza: il
cui svolgimento possa determinare un'invasione attuale dell'altrui sfera di attribuzioni o
comunque una menomazione altrettanto attuale delle possibilità di esercizio della medesima»
(sent. 382/2006). In concreto, a far sorgere il conflitto saranno spesso atti amministrativi, ma
anche regolamenti, atti giurisdizionali (vedi, ad es., sent. 2/2018), atti non giuridici (come una
lettera), comportamenti omissivi. La Corte considera inammissibili í conflitti sollevati contro atti
meramente esecutivi dileggi non impugnate perché, altrimenti, ci sarebbe un aggiramento del
termine per impugnare la legge, dalla quale, in realtà, deriva la lesione (ad es., sent. 36/2018).
Quanto al parametro, vale quanto detto per il giudizio in via principale. Esso è rappresentato dalle
disposizioni costituzionali, per l'interpretazione delle quali assumono importanza fonti quali le
leggi cornice e i decreti legislativi di trasferimento delle funzioni. Importante è anche il principio di
leale collaborazione, che dev'essere rispettato nell'esercizio della funzione amministrativa
(mentre, come già accennato, la Corte nega che ad esso sia soggetto il procedimento legislativo).
Per l'ammissibilità del conflitto è sempre necessario che esso abbia «tono costituzionale», cioè che
vena sulla lesione di competenze costituzionali e non sulla mera illegittimità dell'atto. È
inammissibile, dunque, il conflitto che si risolve in una vindicatio rerum, cioè in una controversia
circa la titolarità di beni (ancorché la pretesa patrimoniale possa essere talora fondata su norme
costituzionali) invece che in un «regolamento di competenza» in ordine alla delimitazione delle
attribuzioni costituzionali degli enti in conflitto. Nel dubbio sul «tono costituzionale» del conflitto,
al ricorrente conviene impugnare l'atto sia davanti alla Corte sia davanti al giudice amministrativo.
È opportuno seguire la doppia via anche qualora l'atto possa essere considerato dalla Corte
meramente esecutivo di una legge non impugnata (con conseguente inammissibilità del conflitto):
davanti al TAR, infatti, è possibile sollevare questione in via incidentale sulla legge non impugnata.
Nella prassi, qualora un atto sia impugnato sia davanti alla Corte sia davanti al TAR, il giudice
amministrativo sospende il proprio giudizio fino alla sentenza della Corte, alla quale poi si adegua.

IL CONTENZIOSO FRA STATO E REGIONI SPECIALI


L'art. 127,1 è applicabile anche alle regioni speciali, là dove trasforma il ricorso statale da
preventivo in successivo, in virtù dell'art. 10, legge cost. 3/2001 (vedi § IX.5): è infatti indubbio che
l'impugnazione preventiva delle leggi regionali, che era prevista dagli statuti speciali sulla falsariga
del vecchio art. 127 Cost., fosse meno favorevole di quella successiva introdotta per le regioni
ordinarie dalla legge cost. 3/2001. Ciò è stato chiarito dalla Corte costituzionale nel 2002, con
diverse pronunce relative alle differenti autonomie speciali. Similmente, l'art. 127.2 si applica
anche ai ricorsi proposti dalle regioni speciali contro atti legislativi statali. In Sicilia permaneva,
però, fino a pochi anni fa, una situazione peculiare. Infatti, l'art. 31.2, legge 87/1953, come
modificato dalla legge 131/2003, nel disciplinare l'impugnazione governativa delle leggi regionali,
teneva ferma «la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della
Regione siciliana». Si trattava di un ricorso preventivo, proponibile entro un breve termine dal
commissario dello Stato davanti alla Corte costituzionale (vedi art. 28 St. Sic. e Corte cost.
38/1957); decorsi trenta giorni dall'impugnazione, senza che fosse pronunciata sentenza di
annullamento, il presidente della regione poteva promulgare la legge impugnata (art. 29), nel qual
caso il giudizio si sarebbe trasformato da preventivo in successivo. La permanenza di tale peculiare
sistema di controllo, prevista dalla legge 131/2003, è stata avallata dalla Corte costituzionale nella
sentenza 314/2003, ma la Corte ha poi mutato avviso nella cent. 255/2014, dichiarando
l'illegittimità costituzionale dell'art. 31.2, legge 87/1953, limitatamente alle parole «Ferma
restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione
siciliana», per violazione della clausola di maggior favore di cui all'art. 10, legge cost. 3/2001,
Dunque, anche le leggi siciliane sono ormai soggette all'impugnazione successiva prevista per le
regioni ordinarie e le altre regioni speciali. In relazione al Trentino-Alto Adige sono da evidenziare
tre particolarità. In primo luogo, le leggi regionali possono essere impugnate non solo dallo Stato
ma anche dalle province autonome e le leggi provinciali possono essere impugnate anche dalla
regione e dall'altra provincia; in tutti i casi, il motivo è la «violazione della Costituzione o del
presente statuto o del principio di parità tra i gruppi linguistici» (art. 97 St. T.-A.A.), In secondo
luogo, in base all'art, 56 dello statuto, la maggioranza dei consiglieri di un gruppo linguistico nel
consiglio regionale o in quello provinciale di Bolzano può impugnare la legge, rispettivamente,
regionale o provinciale per lesione della parità dei diritti fra i cittadini dei diversi gruppi linguistici o
delle caratteristiche etniche e culturali dei gruppi stessi, in presenza di certi presupposti ed entro íl
termine di trenta giorni dalla pubblicazione. Tale previsione configura un caso speciale di giudizio
in via principale, instaura-bile anche da una singola persona (vedi Corte cost, 356/1998, che ha
accolto il ricorso proposto dall'unico consigliere regionale del Trentino-Alto Adige appartenente al
gruppo linguistico ladino). L'ultima particolarità riguarda l'impugnazione statale. Accanto agli
«ordinari» ricorsi che lo Stato può proporre entro sessanta giorni dalla pubblicazione delle leggi
regionali e provinciali, esiste la possibilità, per lo Stato, di promuovere il giudizio «per mancato
adeguamento» previsto dall'art. 2, d.lgs. 266/1992: in base a questa disposizione, “la legislazione
regionale e provinciale deve essere adeguata ai principi e norme costituenti limiti indicati dagli
articoli 4 e 5 dello statuto speciale e recati da atto legislativo dello Stato entro i sei mesi successivi
alla pubblicazione dell'atto medesimo nella Gazzetta Ufficiale»; decorso tale termine, le
disposizioni legislative regionali e provinciali non adeguate possono essere impugnate entro
novanta giorni davanti alla Corte costituzionale. In dottrina sì è osservato che il giudizio per
mancato adeguamento dovrebbe sopravvivere alla legge cost. 3/2001, in quanto maggiormente
garantistico per l'autonomia regionale; in realtà, il giudizio per mancato adeguamento, dì per sé,
costituisce una garanzia per lo Stato, non per la regione e per le province, in quanto dà allo Stato
la possibilità di contestare le leggi «locali» non adeguate, che, altrimenti, potrebbero essere
impugnate solo in via incidentale (come avviene per le leggi delle regioni ordinarie contrastanti
con ì nuovi principi e non abrogate da questi). Il fatto è che questo giudizio è strettamente
connesso al particolare regime di separazione fra leggi statali e leggi «locali» istituito dallo stesso
d.lgs. 266/1992: dunque, l'assenza, nel nuovo Titolo V, di un ricorso statale per «mancato
adeguamento» non può determinare il venir meno dell'istituto relativo alla regione Trentino-Alto
Adige, perché, altrimenti, risulterebbe «sbilanciata» la disciplina sostanziale dettata dall'art. 2,
d.lgs. 266/1992: la «minore autonomia» su questo punto specifico non è che il riflesso di una ben
maggiore autonomia in relazione al rapporto tra legislazione statale e legislazione locale.

LE CONTROVERSIE FRA REGIONI


Sia il giudizio di costituzionalità in via principale, sia il conflitto di attribuzioni possono essere
instaurati anche tra regioni, sempre per lesione della sfera di competenza regionale ed entro 60
giorni dalla pubblicazione dell'atto: la prima ipotesi è regolata dall'art. 127 Cost. e dall'art. 33,
legge 87/1953, men-tre il conflitto tra regioni — oltre a essere menzionato nell'art. 134 Cost. — è
disciplinato dall'art. 39, legge 87/1953. Peraltro, queste norme hanno avuto applicazione in
pochissimi casi. Si possono ricordare un ricorso della regione Veneto contro una legge della
provincia di Bolzano (sent. 533/2002), un conflitto sollevato dal Veneto contro la provincia di
Trento (sent. 133/2005), un conflitto promosso dalla provincia di Trento contro la provincia di
Bolzano (sent. 443/2008) e un ricorso della provincia di Trento contro una legge della provincia di
Bolzano (sent. 296/2009). Interessante è anche il conflitto tra le regioni Piemonte e Valle d'Aosta,
deciso con la sentenza 51/1991. In effetti, non è facile che una regione vada a interferire con la
sfera di competenza di un'altra regione, dato il limite territoriale che caratterizza intrinsecamente
l'attività regionale. In dottrina si è immaginato che i contrasti possano sorgere quando le regioni si
trovino a concludere accordi, in base a norme costituzionali (vedi l'art. 117.8 Cost.) o a leggi statali,
e una delle regioni adotti poi una legge che non rispetta l'accordo (reso vincolante dalla fonte
superiore).

LA CORTE COSTITUZIONALE E I RAPPORTI FRA LO STATO


E LE REGIONI
La giurisprudenza costituzionale ha svolto un ruolo rilevante nella configura-zione del regionalismo
italiano, soprattutto dopo la riforma del Titolo V. Essa, infatti, è dovuta intervenire per colmare le
«lacune» del testo costituzionale (ad es., in relazione ai meccanismi di raccordo) o le «lacune»
nell'attuazione della riforma stessa (ad es., il grande ritardo nell'attuazione dell'art. 119 Cost. ha
imposto alla Corte di giustificare il mantenimento a livello centrale di molte decisioni rilevanti dal
punto di vista economico). Si è trattato, peraltro, di un ruolo non «trainante», nel senso che la
Corte ha per lo più «razionalizzato» le tendenze che emergevano in sede legislativa, soprattutto
nella legislazione statale. La giurisprudenza costituzionale sui rapporti Stato-regioni, inoltre, si
caratterizza per essere non facilmente prevedibile (il che incentiva i ricorsi). Questo è dovuto a due
circostanze concomitanti, In primo luogo, i giudizi sul rispetto delle competenze spesso implicano
valutazioni molto «discrezionali», come quelle sul carattere «fondamentale» o meno delle norme,
sul livello nazionale o meno degli interessi, sull'attinenza di una norma a una materia o a un'altra,
o sulla «prevalenza» di una materia sull'altra: ciò implica decisioni «caso per caso» della Corte. In
secondo luogo, come ha notato un ex presidente della Corte costituzionale, «le norme sulla
competenza finiscono per apparire meno vincolanti di altre norme costituzionali» (cioè di quelle
relative ai diritti fondamentali), perché «esprimono scelte meno essenziali e più contingenti, meno
gravide di conseguenze per l'intero ordinamento». Ciò porta la Corte, talora, a valutare la
«sostanza» della disciplina e a sfruttare l'elasticità delle clausole costituzionali sulle competenze
per giustificare norme che potrebbero essere ritenute eccedenti le competenze dell'ente che le ha
adottate. Queste valutazioni «iperdiscrezionali» e questi apprezzamenti «di merito» conducono
spesso la Corte ad avallare le scelte legislative statali; anche per questo si spiega íl grande uso che
la Corte fa del principio di leale collabora-zione, per imporre allo Stato meccanismi di raccordo con
le regioni, al fine di «compensare» una definizione del riparto di competenze favorevole allo Stato.

Titolo V

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