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LA LEGGE RATTAZZI
La legge Rattazzi, ponendosi in linea di continuità con le riforme albertine, ripartiva il comune,
struttura locale fondamentale, in tre organi (consiglio elettivo, giunta e sindaco nominato dal re
tra i consiglieri); confermava la distinzione tra spese obbligatorie e spese facoltative, nel senso
che ogni comune era obbligato a finanziare quel minimo di servizi che nello Stato ottocentesco
erano ritenuti indispensabili e, una volta soddisfatte tali spese, poteva impegnare ulteriori
risorse locali per fini diversi da quelli imposti dalla legge; manteneva un autoritario sistema di
controlli sulle amministrazioni comunali, affidato (anche) a un organo della provincia,
conservata come unica struttura sovracomunale, «un'entità ambigua», più rappresentativa del
governo a livello locale che espressione di autoamministrazione.
Al momento dell'unificazione di gran parte del territorio nazionale, avvenuta tramite successive
annessioni al regno di Piemonte e Sardegna dei territori appartenenti ai vari Stati preunitari, la
realtà politica italiana si presentava dunque complessa e segnata da notevoli squilibri economici
e sociali dovuti essenzialmente alla particolare configurazione geografica della penisola e alle
variegate vicende storiche dei diversi Stati, sottoposti a frequenti dominazioni straniere.
IL PROGETTO MINGHETTI
L'idea di articolare il territorio in regioni prese forma nei progetti elaborati per iniziativa di
Cavour che, tornato al governo nel 1860, istituì in seno al Consiglio di Stato una commissione
per lo studio della riforma del sistema amministrativo del regno. A questa commissione, il 13
agosto 1860, l'allora ministro dell'Interno Farini presentò una nota in cui genericamente
indicava l'istituzione, accanto alle province e ai comuni, di «altri centri più vasti», privi però di
«rappresentanza elettiva». L'idea venne sviluppata dal suo successore Minghetti, il quale, il 13
marzo 1861, propose alla Camera dei deputati quattro schemi di legge:
1. sulla ripartizione del regno e sulle autorità governative;
2. sull'amministrazione comunale e provinciale;
3. sui consorzi;
4. sull'amministrazione regionale.
I progetti esprimevano un chiaro orientamento verso un modello di decentramento
burocratico-istituzionale che non lasciava alcuna concessione a forme di autonomia politica.
Alla domanda che egli stesso si poneva: «Ma l'unità politica importa essa necessariamente
l'unità amministrativa?», Minghetti rispondeva che «imporre subito e dovunque le identiche
forme ei medesimi regolamenti (avrebbe recato) gravi inconvenienti e (suscitato) gravi
ripugnanze, senza corrispondere profitto». La regione, che egli concepiva come «consorzio
permanente di province», avrebbe provveduto all'istruzione superiore, agli archivi storici, alle
accademie di belle arti e a certa parte di lavori pubblici tramite deliberazioni assunte da una
commissione eletta dai consigli provinciali nel loro seno ed eseguite da un rappresentante del
governo (il governatore).
LE RIFORME CRISPINE
Successivamente, le riforme crispine resero elettiva la carica del sindaco e quella del presidente
della deputazione provinciale: in base al testo unico della legge comunale e provinciale
5921/1889, art. 123, «Il sindaco, nei capoluoghi di provincia o di circondario, o che abbiano una
popolazione superiore a 10.000 abitanti, è eletto dal consiglio comunale nel proprio seno, a
scrutinio segreto. Negli altri comuni la nomina è fatta dal re fra i consiglieri comunali». Fu poi
con la legge 346 del 29 luglio 1896 che la nomina del sindaco da parte del consiglio comunale
venne estesa a tutti i comuni d'Italia. In base al medesimo testo unico 5921/1889, art. 200: «II
consiglio provinciale elegge nel proprio seno, a maggioranza assoluta di voti, una deputazione
incaricata di rappresentarlo nell'intervallo delle sessioni. Elegge ogni anno, nel proprio
seno, a maggioranza assoluta di voti, il presidente della deputazione provinciale». Tali riforme,
inoltre, attribuendo ad un nuovo organo periferico statale - la Giunta provinciale
amministrativa - il controllo politico delle amministrazioni locali, nel complesso
ridimensionarono il ruolo del prefetto, senza tuttavia modificare la struttura dello Stato. Il
dibattito sulla questione regionale, pur rimanendo sempre acceso nella letteratura politica (si
pensi al regionalismo «politico» propugnato dal Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo
innanzitutto come soluzione al grave problema meridionale), non produsse alcun esito
significativo in sede legislativa sino alle fasi conclusive della seconda guerra mondiale. Infatti,
l'unico testo normativo che concesse, nel 1921, particolari condizioni di autonomia (anche
legislativa) ai territori annessi al regno dopo la prima guerra mondiale (Trento, Bolzano e Friuli),
non ebbe il tempo di essere attuato per il capovolgimento della situazione politica nell'anno
successivo (marcia su Roma e avvento del fascismo).
«VIA IL PREFETTO!»
Il monito «Via il prefetto!», pronunciato nel 1944 da Luigi Einaudi, si scontrò, nella realtà, con
una generale incapacità politica di intervenire in un sistema giuridico in parte sopravvissuto
anche dopo la grande (e assai contrastata) innovazione istituzionale introdotta dalla
Costituente.
«Via tutti i suoi uffici e le sue ramificazioni. Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina
centralizzata. Il prefetto se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde. Per fortuna, di fatto
oggi in Italia l'amministrazione centralizzata è scomparsa. Non accadrà nessun male se non ricostruiremo
la macchina oramai guasta e marcia. L'Unità del Paese non è data da prefetti e da provveditorati agli
studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali e dalle circolari e istruzioni romane. L'unità del
Paese è fatta dagli italiani» (da L'Italia e il secondo risorgimento, supplemento alla «Gazzetta ticinese»,
17 luglio 1944).
L'organizzazione interna sarebbe stata ricalcata su quella tipica di uno Stato unitario
centralizzato di stampo napoleonico, imitato prima dallo Stato sabaudo e poi dal Regno d'Italia,
con la provincia, ente non democratico di decentramento statale, presieduta dal prefetto (fino
al 1951), il sindaco capo dell'amministrazione ma anche ufficiale del governo, il segretario
comunale assegnato dal ministero dell'Interno. In occasione del centenario delle leggi
amministrative di unificazione, Feliciano Benvenuti osservò che la legge 2248/1865 non andava
considerata soltanto come «un fatto di legislazione», bensì come «un fatto politico» che aveva
improntato di sé «lo sviluppo del modo di essere, cioè di pensare e di agire, di tutta la nazione».
LA C.D. BICAMERILINA
La Commissione parlamentare per le questioni regionali era destinata a diventare una delle
principali sedi di confronto istituzionale tra le regioni e il potere legislativo nazionale. Dopo un
primo periodo, con l'avvio della riforma regionale, di forte espansione delle sue funzioni – ad
opera della legislazione ordinaria e dei regolamenti parlamentari – la Commissione, in assenza
di una precisa regolamentazione dei rapporti di questa con le autonomie e con le stesse camere,
avrebbe conosciuto un progressivo declino. Il dibattito si è dunque successivamente incentrato
sulla rivisitazione del suo ruolo di garante dell'autonomia regionale, e ha condotto, in occasione
della riforma del Titolo V della Costituzione, alla previsione della facoltà delle camere, previa
modifica dei rispettivi regolamenti, di integrare la Commissione bicamerale per le questioni
regionali con rappresentanti delle regioni (e degli enti locali) e all'introduzione di un parere
della Commissione medesima sui progetti di legge relativi alle materie di potestà legislativa
concorrente e all'autonomia finanziaria, cui le commissioni referenti devono adeguarsi (sia che
si tratti di parere contrario che di parere favorevole condizionato però all'introduzione di
specifiche modificazioni), dovendo altrimenti l'assemblea deliberare a maggioranza assoluta dei
suoi componenti (art. 11, legge cost. 3/2001). La mancata attuazione di tale articolo – e quindi
la mancata trasformazione della Commissione in organo misto di raccordo tra centro e periferia
– è stata attribuita, in parte alle difficoltà sorte all'interno dello stesso organo bicamerale, in
parte all'attenzione che successivamente è stata orientata sulla riforma della «seconda camera»,
che richiama i lavori svolti da un comitato paritetico costituito dalle giunte per il regolamento di
Camera e Senato. Sta di fatto che le regioni sono rimaste “all'esterno” del procedimento
legislativo.
Insomma, non si realizzò certamente una figura federativa – considerato che la preminenza
della competenza dello Stato, in relazione alla quale quella regionale si poneva come particolare
(artt. 117 e 118 Cost.), la presenza di un controllo costituzionale sulle leggi (art. 127 Cost.) e
sull'attività degli organi regionali (art. 126 Cost.) e di un controllo di legittimità sugli atti
amministrativi delle regioni (art. 125 Cost.) – e tuttavia le regioni non furono nemmeno
concepite come semplici enti amministrativi di decentramento, poiché esse, costituite in enti
autonomi con propri poteri e funzioni (art. 115 Cost.), si videro attribuiti alcuni poteri normativi
propri, a riconoscimento della loro natura politica. La distinzione tra autonomia e
decentramento era evidente negli artt. 128 e 129 Cost. Il primo stabiliva che «Le provincie e i
comuni sono enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che
ne determinano le funzioni»; il successivo aggiungeva che «Le provincie e i comuni sono anche
circoscrizioni di decentramento statale e regionale. Le circoscrizioni provinciali possono essere
suddivise in circondari con funzioni esclusivamente amministrative per un ulteriore
decentramento».
Grazie alla XVII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che consentiva all'Assemblea
costituente di deliberare sugli statuti regionali speciali entro il 31 gennaio 1948, alla scadenza
del termine e dopo soli tre giorni di discussione, furono approvati (con successiva promulgazione
il 26 febbraio) gli statuti di Sicilia (l.c. 2), Sardegna (l.c. 3), Valle d'Aosta (l.c. 4) e Trentino-Alto
Adige (l.c. 5).
Si segnala la specificità della legge costituzionale di approvazione dello statuto della regione
siciliana che, a causa dei tempi strettissimi, recepì integralmente il regio decreto del 1946, senza
effettuare i necessari interventi di coordinamento con la Carta fondamentale nel frattempo
approvata. Rimase così, ad esempio, l'Alta Corte della regione siciliana – avente il compito di
giudicare la legittimità delle leggi emanate dall'assemblea regionale nonché delle leggi e dei
regolamenti statali ritenuti lesivi delle norme statutarie dell'isola – benché essa risultasse
incongrua nel nuovo assetto costituzionale ed è per ciò che non poté sopravvivere all'entrata in
funzione della Corte costituzionale, la quale con la sentenza 6/1970, invocando l'unitarietà dello
Stato, formalmente dichiarò illegittime le disposizioni che la prevedevano, nonostante il loro
rango di legge costituzionale votata dalla stessa Assemblea costituente.
Una particolarità dello statuto della regione Trentino-Alto Adige fu di non nascere sulla base di
dirette iniziative delle popolazioni interessate (i cui rappresentanti vennero comunque
consultati), bensì di un disegno di legge che recepiva alcuni punti dell'accordo De Gasperi-
Gruber del 1946. Esso ha introdotto meccanismi di privilegio giuridico delle popolazioni di lingua
tedesca della provincia di Bolzano e dei vicini comuni bilingui della provincia di Trento, e
concesso loro l'esercizio di un potere legislativo ed esecutivo autonomo. Successivamente, nel
1969, il c.d. Pacchetto concertato tra Italia e Austria, tradotto nella legge cost. 1/1971, avrebbe
significativamente modificato lo statuto, mantenendo e rafforzando l'autonomia delle due
province di Trento e di Bolzano (con più accentuate garanzie a favore delle minoranze tedesca e
ladina), nel contesto di una regione le cui competenze vennero per contro assai ridotte. Seguì da
ultimo il dpr 670/1972, di «Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo
statuto speciale per il Trentino-Alto Adige».
Infine, la peculiare e tormentata questione del territorio triestino - nel 1948 ancora diviso nella
zona A (Trieste e alcuni comuni circostanti) e zona B (Istria e Slovenia) – ritardò l'approvazione
dello statuto del Friuli-Venezia Giulia, che avvenne con la legge cost. 1/1963. Il regime militare
alleato governò infatti fino al Memorandum di intesa stipulato a Londra nel 1954 tra il nostro
governo e i governi inglese, statunitense e jugoslavo, con il quale la zona A passò
all'amministrazione (ma non alla sovranità) italiana - situazione che si prolungò fino alla ratifica
del Trattato di Osimo nel 1975 che definì gli attuali confini. Va notato che lo statuto lasciava il
problema della tutela delle minoranze sullo sfondo, limitandosi a prevedere «parità di diritti e di
trattamento a tutti i cittadini» a prescindere dal gruppo linguistico di appartenenza, «con la
salvaguardia delle rispettive caratteristiche etniche e culturali».
L'approvazione degli statuti speciali fu dunque condizionata da diverse vicende politiche e
internazionali, che si presentarono all'Assemblea costituente quasi come «fatti compiuti di cui
tener conto, senza che però venissero approfondite le vere «ragioni della specialità» che non in
tutti i casi, infatti, emersero con nettezza. Quindi, l'ampiezza dell'effettiva differenziazione di
queste regioni, tra di loro, andava misurata in base alle concrete scelte politiche espresse
esercitando le particolari competenze loro attribuite dagli statuti, più che alla mera lettera di
questi. In tale valutazione avrebbe pesato senza dubbio l'opera di omologazione intrapresa dalla
Corte costituzionale, nonché dal legislatore attraverso i decreti legislativi di attuazione degli
statuti.
Va considerato inoltre che, inizialmente (e prima dell'avvio delle regioni ordinarie), i rapporti tra
lo Stato e le regioni esistenti vennero improntati all'idea di «contrapposizione» più che di
coordinamento tra i vari centri di autorità e alle regioni fu affidato il mero compito di dare
attuazione alla politica generale statale. Anche i diversi moduli funzionali attraverso i quali i
decreti di attuazione degli statuti speciali avevano voluto garantire una compartecipazione (il
concerto, l'intesa, la codipendenza, la consultazione, il concorso ecc.) erano stati congegnati in
modo da riservare all'amministrazione centrale un indiretto ma efficace potere di controllo sulle
scelte locali, nella logica dello Stato centralizzato.
Ancora, il peculiare tipo di raccordo consistente nella partecipazione dei presidenti delle regioni
e delle province ad autonomia differenziata alle sedute del Consiglio dei ministri era stato
ritenuto necessario, dalla Corte costituzionale, solo in presenza di «un interesse differenziato e
dotato di una particolare rilevanza o intensità» e pertanto come interesse proprio e peculiare
della singola regione o provincia autonoma (vedi ad es. sentt. 544 e 545/1989; 85, 224, 343 e
381/1990; 37 e 191/1991). Del resto, la stessa Corte si mostrò orientata prevalentemente verso
il contenimento dell'autonomia regionale, in particolare avallando la tecnica del «ritaglio» delle
materie, utilizzata dallo Stato nella formulazione di norme suscettibili di investire competenze
appartenenti alle regioni, differenziate sulla base della distinzione tra interesse locale e interesse
nazionale. Solo sporadicamente, negli anni '50 e '60 essa fece chiari o impliciti riferimenti alla
collaborazione tra Stato e regioni, e anche in quei casi per lo più in nome di interessi generali
statali e a presidio dell'unità dello Stato.
La Costituzione aveva comunque introdotto un modello giuridico del tutto nuovo. I Costituenti
avevano sicuramente presenti esigenze (tecniche) di semplificazione e di efficienza dell'apparato
amministrativo e legislativo statale (le regioni «per la riforma dello Stato»), ma intendevano
soprattutto risolvere il problema della garanzia democratica e quindi avevano pensato alle
regioni come a organismi politici, con la funzione, cioè, di assumere decisioni politiche,
attraverso il potere legislativo, anche divergenti da quelle statali. Solo così sarebbe stato
possibile introdurre modelli di organizzazione amministrativa e di funzionamento diversi da
quelli decisi dalla maggioranza di governo, da adattare alle molteplici condizioni del Paese con
particolare riguardo al Meridione.
L'idea che aveva dominato il dibattito in seno all'Assemblea costituente era quella, teorizzata
dal filosofo francese Constant, della libertà come garanzia dei poteri locali, e quindi delle singole
collettività intese quali «società naturali», nei confronti dello Stato, e come difesa della
«diversità» territoriale. Laddove c'è autonomia «vi è sempre un principio di autogoverno sociale,
ovvero «lo svolgimento in senso positivo della libertà, la quale viene acquistata dall'individuo
passando per un gruppo sociale e quindi per la partecipazione al potere pubblico» (Berti 1975,
288, richiamandosi al pensiero di Tocqueville e, da noi, di Cattaneo). Tale connessione è infatti
ben presente nella Costituzione all'art. 5, sebbene la portata rivoluzionaria di tale norma, che
concilia unità e indivisibilità della Repubblica con il principio autonomistico (da collegarsi a
quello del pluralismo istituzionale di cui all'art. 114 Cost.), non fu colta immediatamente,
cosicché i principi di autonomia e di decentramento vennero applicati nell'ambito della
gerarchia statale.
Il nuovo, e inedito, modello giuridico, frutto del difficile processo di trasformazione di uno Stato
accentrato in un sistema di governo autonomo, imponeva inoltre una definizione da parte del
legislatore nazionale dei confini dei poteri della regione, nata come ente «specializzato» tipico
di uno Stato (sovrano e originario) che «concede» l'autorità alle sue articolazioni territoriali
interne (gli enti derivati) nella misura in cui essi si dimostrino «affidabili».
L'indeterminatezza del ruolo che le regioni avrebbero dovuto assumere si sarebbe rivelata un
vero elemento di debolezza progettuale e strutturale della Costituzione, in mancanza tra l'altro
di significativi strumenti di raccordo tra Stato e regioni ad autonomia ordinaria.
La tecnica di distribuzione delle funzioni e dei compiti residui, a favore della regione, aveva
portato a un ampliamento degli ambiti di competenza regionale.
Ma se da un punto di vista quantitativo tale espansione è indubitabile, dal punto di vista
qualitativo la disciplina regionale riuscì poco e con difficoltà a effettuare scelte davvero
indipendenti da quelle statali. Il vero nodo critico è sempre stato il rapporto tra legge regionale
e legge statale, che non si esaurisce in un mero riparto di competenze di stampo
dualista/separatista, ma implica un complesso sistema di rapporti giuridici e politici. La forte
centralizzazione dei partiti, cioè la mancanza di un ceto politico regionale distinto da quello
statale, avrebbe sicuramente reso «difficile ragionare dell'autonomia politica delle regioni» [Bin
2010, 134].
I RAPPORTI TRA LA REGIONE E GLI ENTI LOCALI E L’ESORDIO DEL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ
La legge delega 59/1997, unitamente alla disciplina attuativa (d.lgs. 112/1998), delinea dunque
i profili del rapporto devolutivo di competenze amministrative tra regioni ed enti locali.
In particolare, dispone all'art. 4 che le regioni «conferiscono alle province, ai comuni e agli altri
enti locali tutte le funzioni che non richiedono l'unitario esercizio a livello regionale», in ragione
dell'osservanza dei «principi fondamentali» individuati al 3° comma dell'art. 4, vale a dire del
principio di sussidiarietà, che impone «l'attribuzione della generalità dei compiti e delle
funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le
rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni
incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine
di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie,
associazioni e comunità, all'autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini
interessati». Conformemente a questo impianto, la disciplina attuativa, di cui all'art. 3.2 del
d.lgs. 112/1998, dispone che «La generalità dei compiti e delle funzioni amministrative è
attribuita ai comuni, alle province e alle comunità montane, in base ai principi di cui all'articolo
4, comma 3, della legge 15 marzo 1997,59, secondo le loro dimensioni territoriali, associative e
organizzative, con esclusione delle sole funzioni che richiedono l'unitario esercizio a livello
regionale».
LA RIFORMA COSTITUZIONALE DEL 1999: ELEZIONE DIRETTA DEI
PRESIDENTI E NUOVI STATUTI REGIONALI
Quanto alla forma di governo regionale, è da evidenziare che il percorso evolutivo che nella
prima metà degli anni ‘90 spinge nel senso della transizione da sistemi di democrazia
«mediata» a sistemi di democrazia «immediata», iniziato con l'elezione diretta dei sindaci (e
dei presidenti delle province: vedi non poteva non avere riflessi sulla forma di governo delle
regioni.
La forma di governo regionale originariamente disegnata dalla Costituzione si caratterizzava
per essere parlamentare a preminenza assembleare, con il consiglio regionale, unico organo
eletto a suffragio universale e diretto, che eleggeva il presidente e i membri della giunta
regionale tra i suoi componenti. Questo modello aveva determinato alti livelli di instabilità degli
esecutivi regionali, i quali, in un contesto politico caratterizzato da alta frammentazione
partitica, incentivata da una legislazione elettorale proporzionale pura, non erano altro che la
sostanziale emanazione dei consigli.
Il primo tentativo di razionalizzazione transita tuttavia per la semplice riforma del sistema
elettorale, tramite la legge 43/1995 (che novellava la legge elettorale 108/1968), con
l'introduzione di un sistema elettorale formalmente misto, ma i cui effetti erano decisamente
maggioritari. Erroneamente, con questa legge si intendeva influire sul funzionamento della
forma di governo senza tuttavia porre mano a quella per la cui riforma sarebbe stata necessaria
una revisione costituzionale. Si interveniva dunque secondo un complicato modello elettorale
che avrebbe dovuto assicurare stabili maggioranze in consiglio, mediante una sorta di premio di
maggioranza, a supporto di un esecutivo il cui vertice veniva sostanzialmente designato dal
corpo elettorale. Veniva infine contemplata una norma «antiribaltone», che si evidenziava, già
a prima lettura, incapace di assicurare il risultato al quale era preposta, per la sua formulazione
assai poco tassativa, e finanche di dubbia legittimità costituzionale, che determinò,
paradossalmente, i più alti livelli di instabilità degli esecutivi regionali forse
mai registrati.
La scarsa efficacia di questo meccanismo di razionalizzazione rese evidente la necessità di
introdurre un modello dalle maglie decisamente più strette, intervenendo direttamente sulla
forma di governo con un'adeguata revisione
costituzionale. Così, la legge cost. 1/1999 non fa altro che riprodurre, con taluni adattamenti,
la forma di governo neoparlamentare già operante a livello locale, con la previsione
dell'elezione a suffragio universale e diretto del presidente della giunta regionale,
contestualmente all'elezione del consiglio regionale, potere per il presidente «eletto» di
nominare e revocare i componenti della giunta, e previsione del c.d. simul stabunt simul
cadent.
Ferma restando la previsione da parte della legge cost. 1/1999 di una disciplina transitoria, in
attesa della definizione della forma di governo a opera delle singole regioni, che
costituzionalizzava sostanzialmente il meccanismo della legge 43/1995, con trasformazione del
capolista della lista regionale in autentico candidato alla presidenza della giunta, l'elemento
qualificante di questa riforma è sicuramente la possibilità per gli statuti regionali di scegliere la
specifica forma di governo, derogando, in ipotesi, la stessa previsione dell'elezione diretta del
presidente di regione, unitamente alla possibilità per i consigli regionali di legiferare sul
sistema di elezione, i casi di ineleggibilità e incompatibilità del Presidente, degli altri
componenti della giunta e dei consiglieri regionali, nel rispetto dei principi fondamentali posti
con legge statale (art. 122.1 Cost. ); legge 2 luglio 2004, n. 165, recante Disposizioni di
attuazione dell'articolo 122, primo comma, della Costituzione.
I TENTATIVI DI RECUPERARE SPAZI DI INFLUENZA POLITICA DA PARTE DEI CONSIGLI
REGIONALI
Pur avendo assicurato questo impianto di governo una definitiva stabilizzazione degli esecutivi
regionali e contribuito a valorizzare sensibilmente il ruolo del presidente della regione, era
inevitabile l'affermarsi di spinte se non proprio ostruzionistiche, sicuramente di tiepida
accoglienza da parte dei consigli regionali, incaricati di adottare i nuovi statuti. Sicura riprova si
trae dal fatto che la seconda stagione «statutaria» delle regioni di diritto comune tarda
decisamente a decollare, con i primi statuti che si avranno solo dopo le chiare prese di
posizione della Corte costituzionale in ordine ai limitati margini di derogabilità della disciplina
costituzionale. Infatti, apparve assai inopportuno scostarsi dall'opzione per l'elezione a
suffragio universale e diretto del presidente di regione; il che determinava tutta una serie di
corollari non derogabili dallo statuto. Ci aveva provato il Friuli-Venezia Giulia ad approvare nel
2002 una «legge statutaria» imperniata sull'elezione indiretta del presidente, ma il risultato del
referendum confermativo sul testo dello statuto fu disastroso per la maggioranza al governo
della regione: difficile spiegare ai cittadini che non devono essere loro, ma i consiglieri
regionali, a scegliere il presidente.
Vista l'esperienza, i legislatori statutari si rassegnano, ma tentano di recuperare in diverse
maniere spazi di incidenza politica: o attraverso tentativi, poi rivelatisi fallimentari, di
«ammorbidire» in qualche modo la regola del simul simul (sentt. 304/2002 e 2/2004), oppure,
questa volta con esiti positivi, introducendo negli statuti regionali voti di sostanziale investitura
iniziale della giunta e di approvazione del programma, mozioni di censura o addirittura di
sfiducia nei confronti dei singoli assessori approvate a maggioranza qualificata. Ipotesi di
incidenza politica consiliare che non determinano mai obblighi di dimissioni del presidente,
della giunta o del singolo assessore colpito da censura o sfiducia, non producono dunque
effetti giuridicamente vincolanti, secondo quanto specificato dalla Corte (sent. 12/2006), ma
determinano indubbi effetti politici nel condizionamento consiliare delle scelte del presidente,
contribuendo a ridimensionare il forte ruolo di preminenza che il dettato costituzionale
riconosce al presidente «eletto», che «nomina e revoca i componenti della giunta», si presume,
libero da ogni condizionamento non solo giuridico, ma anche politico. Soprattutto perché è il
solo nei cui confronti l'art. 126.2 Cost. delinea un legame fiduciario con il consiglio regionale –
un legame che consente al consiglio di votare la sfiducia al duro prezzo di «suicidare» se stesso,
provocando lo scioglimento anticipato, così da far emergere qualche dubbio di «armonia con la
Costituzione di previsioni del genere.
LE REGIONI AL CENTRO
Con la bocciatura referendaria della riforma organica della Parte II della Costituzione svaniva il
tentativo di creare una camera rappresentativa delle istanze territoriali, e in particolare di
coinvolgimento delle stesse nel procedimento di formazione delle leggi statali. Ma il problema
permaneva. La stessa facoltà – pervista dalla riforma del 2001 – che i regolamenti parlamentari
integrino la Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle
regioni e degli enti locali, e disegnino una procedura rinforzata di approvazione delle leggi per
superare il parere contrario o condizionato della Commissione in questione, era stata intesa
come una soluzione provvisoria, in attesa della revisione del Titolo I della Parte II della
Costituzione.
La mancata introduzione di una Camera delle regioni non ha tuttavia prodotto l'attuazione di
questo meccanismo, ma ha semplicemente confermato come l'unico momento di collegamento
tra Stato e regioni restasse il sistema delle conferenze, che si accreditava dunque come l'unica
sede istituzionale di emersione del principio di leale collaborazione. Stando alla Corte
costituzionale, infatti, «una delle sedi più qualificate per l'elaborazione di regole destinate a
integrare il parametro della leale collaborazione è attualmente il sistema delle conferenze
Stato-regioni e autonomie locali. Al suo interno si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi
ordinamentali della Repubblica, in esito al quale si individuano soluzioni concordate di
questioni controverse» (sent. 31/2006). Tuttavia, il sistema delle conferenze non risolve affatto
il problema della cooperazione tra Stato e sistema delle autonomie, perché non può incidere
sul procedimento di formazione della legge, proprio quello sul quale invece operano le seconde
camere, con l'unica eccezione individuata dalla Corte costituzionale per taluni procedimenti di
delega legislativa, con la previsione di una «collaborazione imposta» come limite ulteriore
all'esercizio della delega. In particolare, con la sentenza n. 251 del 2016, resa sulla c.d. riforma
«Madia», legge 7 agosto 2015, n. 124, recante Deleghe al Governo in materia di
riorganizzazione delle Amministrazioni pubbliche, la Corte costituzionale ha precisato che «è
pur vero che questa Corte ha più volte affermato che il principio di leale collaborazione non si
impone al procedimento legislativo. Là dove, tuttavia, il legislatore delegato si accinge a
riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse,
sorge la necessità del ricorso all'intesa». Sicché, fatta salva questa sola ipotesi che pare
comunque abbastanza circoscritta, il nodo della partecipazione delle regioni al procedimento
legislativo resta irrisolto.
Il principio di equiordinazione va però correttamente inteso: esso non esprime una totale
equiparazione degli enti indicati, che dispongono tra l'altro di poteri profondamente diversi tra
loro (Corte cost. 274/2003); e non intacca nemmeno la sovranità interna dello Stato, dal momento
che l'autonomia di cui godono gli enti territoriali non giunge a determinare una forma di Stato
di matrice federale o confederale (Corte cost. 365/2007). Il pluralismo istituzionale paritario,
affermato oggi dall'art. 114 Cost., accompagna piuttosto l'interpretazione del riparto di
competenze e delle relazioni tra potere centrale ed enti autonomi: viene così esclusa ogni
possibilità di intendere quelle relazioni come un rapporto di gerarchia tra il livello di governo
statale e quelli territoriali e i diversi soggetti istituzionali concorrono – appunto – con pari
dignità alla formazione dell'ordinamento repubblicano, del quale essi fanno parte.
Ciò precisato, le disposizioni costituzionali che seguono l'art. 114 Cost. provvedono poi a ripartire
le attribuzioni tra le diverse articolazioni della Repubblica: e così,
a) quanto alle funzioni normative può dirsi che la potestà di revisione costituzionale spetta
in via esclusiva allo Stato (art. 138 Cost.), quella legislativa ordinaria allo Stato e alle
regioni (art. 117.1 Cost., con l'integrazione dell'art. 118.1 quanto al principio di
sussidiarietà), quella regolamentare anche a comuni, province e città metropolitane (art.
117.6 Cost.), e quella statutaria a regioni ed enti locali (artt. 114.2 e 123 Cost.);
b) le funzioni amministrative sono ripartite tra i diversi livelli di governo in forza dei principi
di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza affermati dall'art. 118 Cost.;
c) infine, la funzione giudiziaria spetta in via esclusiva allo Stato.
Un discorso sull'articolazione della Repubblica deve però completarsi ricordando altri due profili:
la distinzione tra regioni ordinarie e autonomie speciali, da un lato, e il possibile «regionalismo
differenziato» di cui all'art. 116.3 Cost.
Si sono già ripercorse le vicende storiche che hanno condotto Friuli-Venezia Giulia, Sardegna,
Sicilia, Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, Trentino-Alto Adige/Südtirol e all'interno di quest'ultimo le
province autonome di Trento e di Bolzano a disporre di forme e condizioni particolari di
autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali. In questa sede possiamo limitarci a osservare
come convivano un ordinamento generale, dettato dal Titolo V della Parte II della Costituzione,
che contiene le regole sull'autonomia delle regioni ordinarie, e sette ordinamenti speciali, che
contengono le regole, di rango costituzionale, sull'autonomia di ciascuna regione o provincia
speciale.
Così, se mi chiedo quale competenza legislativa spetti a una regione ordinaria, cercherò la
risposta negli artt. 117 ss. della Costituzione; se mi chiedo invece quali siano le competenze
legislative – ad esempio – della regione Sicilia o della provincia autonoma di Trento, sarà ai
rispettivi statuti speciali che dovrò guardare, e in particolare alle singole disposizioni che
disciplinano l'autonomia normativa del singolo ente. Dopo la riforma costituzionale del 2001
l'ordinamento generale del Titolo V e quelli delle autonomie speciali non sono però rigidamente
separati: il legislatore costituzionale ha voluto infatti che il nuovo assetto di competenze previsto
dalla Carta costituzionale valesse anche per una regione speciale qualora più favorevole per essa
di quello contenuto nello statuto di autonomia (la c.d. clausola di maggior favore).
L'articolazione della Repubblica potrebbe poi trovare ulteriori sviluppi alla luce dell'ultimo comma
dell'art. 116 Cost., introdotto con la riforma costituzionale del 2001: disposizione che consente di
differenziare il regime giuridico delle competenze delle regioni ordinarie (ricalcando, almeno in
parte, il modello spagnolo). Partendo dai contenuti, le regioni ordinarie possono acquisire
maggiori competenze di quelle previste dal vigente Titolo V nelle materie di competenza
concorrente di cui all'art. 117.3 Cost. e nelle seguenti materie di competenza esclusiva statale:
organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull'istruzione; tutela dell'ambiente,
dell'ecosistema e dei beni culturali. Venendo al procedimento, le forme e le condizioni di maggiore
autonomia vengono disposte da una legge dello Stato approvata a maggioranza assoluta, sulla
base di un'intesa con la regione interessata (alla quale spetta pure l'iniziativa) e sentiti gli enti
locali. Quanto ai limiti di questa differenziazione, ve ne sono di espressi e di impliciti: il limite
espresso dettato dalla norma costituzionale è il rispetto dei principi di cui all'art. 119 Cost., a
temperare la maggiore autonomia finanziaria che le singole regioni dovessero vedersi riconoscere
a seguito delle accresciute competenze; quanto ai limiti impliciti, è evidente che le maggiori
competenze regionali dovrebbero comunque tenere conto degli interessi unitari che, soprattutto
in materie trasversali come la tutela dell'ambiente, sono riservati in maniera inderogabile alle
competenze statali.
La norma è rimasta a lungo inattuata e solo di recente tre regioni ordinarie Emilia Romagna,
Lombardia e Veneto – hanno avviato il procedimento previsto dall'art. 116 Cost.: le trattative con
lo Stato, avviate tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018, sono attualmente in corso.
La configurazione del potere sostitutivo ex art. 120.2 Cost. come extrema ratio, a tutela di
valori particolarmente significativi per la tenuta dell'ordinamento nazionale, ha trovato poi
accentuazione almeno sotto diversi profili.
In primo luogo, l'intervento statale sembra destinato a contrastare non solo inerzie regionali e
locali (la mancata adozione di un provvedimento), ma anche inadempimenti nella tutela degli
interessi menzionati dalla disposizione costituzionale (l'adozione cioè di provvedimenti i cui
contenuti sono però insufficienti): lo si desume tanto dal tenore della legge 131/2003
(disposizione attuativa della previsione costituzionale) – che regola l'intervento statale per le
«finalità» previste dall'art. 120 Cost. (art. 8.1) e nei casi di «violazione della normativa
comunitaria (art. 8.2) - quanto da alcune pronunce giurisprudenziali che hanno legittimato la
sostituzione nei casi sia di «mancato» che di «irregolare compimento di attività e relativa
compromissione degli interessi unitari (ad es. Corte cost. 227/2004, riferita a un'ipotesi di
sostituzione ordinaria: con riferimento alla sostituzione straordinaria, Corte cost. 152/2015).
In secondo luogo, l'intervento statale è rivolto a fronteggiare inerzie e inadempimenti non solo
amministrativi, ma anche normativi da parte delle regioni: lo afferma espressamente l'art. 8.1
della legge 131/2003, e la conclusione sembra avallata dalla giurisprudenza costituzionale (così,
seppure incidentalmente, Corte cost. 236/2004).
In terzo luogo, la giurisprudenza costituzionale, coerentemente con i propri assunti sulla natura
straordinaria del potere statale, ha annullato previsioni legislative che introducevano
sostituzioni ex art. 120 Cost. in assenza però di vere e proprie emergenze istituzionali in grado di
compromettere gli interessi tutelati dalla disposizione (Corte cost. 371/2008 e 165/2011).
In quarto luogo, vanno ricordati la prassi legislativa e gli orientamenti giurisprudenziali formatisi
in materia di commissariamento delle regioni per il rientro dai disavanzi sanitari, disposto
proprio in forza dell'art. 120.2 Cost. a tutela dell'unità economica. La giurisprudenza
costituzionale, per un verso, ha negato che gli atti adottati dai commissari ad acta abbiano
natura legislativa (Corte cost. 361/2010; 278/2014); per l'altro, però, ha ammesso che i predetti
atti costituiscano un limite di legittimità per le leggi regionali (ad es. Corte cost. 2/2010;
110/2014; 190/2017) anche solo potenzialmente lesive delle prerogative del commissario (ad
es. Corte cost. 117/2018), avallando inoltre una prassi di atti commissariali che abrogano
disposizioni legislative regionali e che «sostituiscono la legge come base legale per l'adozione di
successivi provvedimenti amministrativi.
Infine, nel quadro degli strumenti a disposizione dello Stato per fronteggiare la crisi economica,
il potere sostitutivo ex art. 120 Cost. è stato riconosciuto come il mezzo per rimediare al
mancato adeguamento delle regioni alle sentenze della Corte costituzionale in materia di
coordinamento della finanza pubblica - quasi una forma di esecuzione coattiva imposta dallo
Stato (Corte cost. 121/2012).
DAL GG ALLA COSTITUZIONE ITALIANA
La tutela dell'«unità giuridica» e dell'«unità economica» dell'ordinamento è una locuzione che il
legislatore costituzionale del 2001 ha copiato dall'art. 72 del GG, destinato alla disciplina della
konkurrierende Gesetzgebung (competenza legislativa concorrente). La Costituzione tedesca
individua però i predetti presupposti come clausola di riparto preventivo delle competenze
legislative tra Bund e Länder, mentre la Costituzione italiana li trasforma in condizioni di
esercizio del potere sostitutivo ai sensi dell'art. 120.2: il problema è che, a prescindere dai
contenuti che si vogliano attribuire all'espressione, tutelare l'unità giuridica o economica
dell'ordinamento costituisce una finalità da perseguire innanzitutto in via normativa e
preventiva, piuttosto che con interventi sostitutivi. E la conferma arriva proprio dalle vicende del
commissariamento di alcune regioni per il rientro dai disavanzi finanziari in materia sanitaria –
di cui si è appena accennato nel testo – per assicurare adeguatamente la tutela dell'«unità
economica» gli atti commissariali, formalmente amministrativi, hanno assunto contenuti
sostanzialmente normativi, abrogando norme di legge, inibendo l'attività legislativa regionale in
quel settore, regolando procedimenti amministrativi: un insieme di attività necessarie per
guidare l'ente regionale nella complessa procedura di riduzione strutturale del deficit nel campo
della sanità.
ACCORDI E INTESE
Il d.lgs. 281/1997 prevede, accanto al parere e all'intesa, anche l'accordo come strumento di
concretizzazione del principio di leale collaborazione (mentre una norma ancor più generale
sugli accordi tra pubbliche amministrazioni è contenuta nell'art. 15 della legge 241/2990).
Si tratta di un istituto che, secondo parte della dottrina, deve distinguersi dall'intesa poiché:
a) ha carattere facoltativo;
b) non necessita di previsioni legislative puntuali, ma è lasciato alla libera iniziativa delle parti;
c) introduce un vincolo meramente politico, e non vi sono regole giuridiche che disciplinino le
ipotesi di mancato consenso;
d) non ha un oggetto predeterminato, potendo variare dal coordinamento delle rispettive
normazioni all'adozione di politiche comuni tra Stato e regioni. Va detto però che, se è vero che
il d.lgs. 281/1997 riserva alle sole intese - e ai pareri – una disciplina giuridica del
procedimento, la legislazione statale successiva ricorre ai due termini in maniera del tutto
promiscua: qualificando talvolta come «intese» atti che paiono disciplinati come accordi e
riservando ad «accordi» le regole più stringenti previste per le intese. Sicché, in definitiva,
spetta all'interprete valutare, di volta in volta, la natura degli atti stipulati tra Stato e
regioni, e prima ancora i contenuti delle disposizioni di legge che eventualmente li disciplinano.
Accordi a monte del procedimento legislativo e intese stipulate nel corso del procedimento
legislativo
Stato e autonomie territoriali (regioni ed enti locali) raggiungono un accordo per il finanziamento di un
fondo, con risorse da ripartire in favore delle regioni, in materia di protezione civile: la legge finanziaria
statale disattende però l'impegno assunto; le regioni lamentano la rottura dell'intesa e, di conseguenza, la
violazione del principio di leale collaborazione, ricorrendo perciò alla Corte costituzionale. Ma il giudice
delle leggi è ancora una volta fermo nel ribadire il proprio indirizzo giurisprudenziale: «il principio di leale
collaborazione fra Stato e regioni non può essere dilatato fino a trarne condizionamenti, non altrimenti
riconducibili alla Costituzione, rispetto alla formazione e al contenuto delle leggi» (Corte cost. 437/2001;
nella giurisprudenza successiva, vedi ad es. Corte cost. 1/2008 e 88/2009). La posizione del giudice
costituzionale è chiara: in assenza di una modifica della Costituzione, che preveda vincoli di procedimento e
di contenuto in nome della leale collaborazione, gli accordi raggiunti tra Stato e regioni a monte della
stesura di un provvedimento legislativo assumono un valore meramente politico, e non giuridico.
Invece, nel caso di delega legislativa ex art. 76 Cost. e «intreccio inestricabile» di competenze statali e
regionali, il Governo deve, in nome della leale collaborazione, acquisire l'intesa con la Conferenza Stato-
regioni prima di adottare i decreti legislativi delegati (Corte cost. n. 251/2016). È evidente però come in
questa ipotesi l'accordo intervenga all'interno del procedimento legislativo, e ricalchi uno schema già
conosciuto nel nostro sistema delle fonti (si ammette infatti, in generale, che l'adozione del decreto
legislativo delegato ex art. 76 possa venire condizionata, a pena di illegittimità, da particolari oneri
procedurali).
d) Esistono davvero le intese forti? «Il mancato raggiungimento dell'intesa costituisce ostacolo
insuperabile alla conclusione del procedimento» (Corte cost. 6/2004): le intese in senso forte (o
paritarie) sembrano dunque configurare un potere di reale codecisione in capo alle parti. Se così
fosse, però, il mancato accordo determinerebbe una situazione di stallo, con pregiudizio degli
interessi in gioco: ad esempio, se Stato e regione devono localizzare di comune accordo
un'infrastruttura strategica sul territorio regionale e non raggiungono un'intesa, la mancata
realizzazione dell'opera pregiudica l'interesse unitario allo sviluppo economico del paese. Il
problema è ben presente allo stesso giudice costituzionale, che infatti ha «invitato» spesso il
legislatore a configurare meccanismi legislativi che, pur ispirandosi anch'essi a principi
collaborativi, consentano di superare la paralisi decisionale (ad esempio, se si deve nominare
d'intesa l'organo di vertice di un'autorità amministrativa e non si raggiunge un accordo, lo Stato
può proporre una terna di nomi alla regione e, in caso di mancata scelta, procedere alla nomina di
uno dei tre candidati proposti; oppure, invitare la regione a formulare una terna di nomi, nella
quale poi individuare il prescelto). Se così è, la distinzione tra intese deboli e intese forti finisce
inevitabilmente con lo sfumare: il dissenso regionale, in entrambe le ipotesi, non può mai
costituire un ostacolo insormontabile all'esercizio di una competenza ma, al contempo, non può
venire ignorato dallo Stato. Diverse sono piuttosto le conseguenze giuridiche di una mancata
intesa: un obbligo di motivazione in capo allo Stato nel caso di intese deboli, per spiegare le
ragioni del mancato accordo (ad es. Corte cost. n. 1/2016); un ulteriore meccanismo ispirato alla
leale collaborazione per evitare una situazione di stallo, nell'ipotesi invece di intese forti.
Inoltre, a conferma della difficoltà di ricostruire in maniera sistematica la giurisprudenza della
Corte, non vanno dimenticate quelle pronunce che anche in presenza di una intesa in senso forte
ammettono comunque, qualora le ulteriori procedure cooperative siano risultate infruttuose, una
decisione unilaterale da parte dello Stato: si tratta di un'ipotesi che lo stesso giudice costituzionale
valuta come «estrema», ma che contribuisce ulteriormente a sfumare le differenze tra tipologie di
intesa (ad es., Corte cost. 179/2012; 7/2016).
Divide et impera? La collaborazione «a strappi» dello Stato con regioni e comuni
Lo Stato, la regione e un comune trovano un'intesa per la realizzazione di un'opera pubblica una
metropolitana «leggera» - considerata di interesse strategico nazionale, tanto da comportare un'attrazione
in sussidiarietà delle competenze regionali in favore del potere centrale; assunti, anche da parte statale,
tutti gli atti amministrativi necessari alla realizzazione dell'infrastruttura, il comune cambia idea e spinge il
governo ad adottare un decreto legge che revoca i finanziamenti; la regione non ritiene legittima questa
rottura unilaterale dei patti assunti, e impugna il provvedimento legislativo. La Corte costituzionale
respinge però le censure regionali osservando, per quanto qui interessa, che il governo può tornare sui
propri passi senza la necessità di un'intesa «uguale e contraria» con la regione, tanto più che la decisione
statale è stata assunta in accordo con l'ente locale interessato (Corte cost. 79/2011). Si tratta però di una
visione della leale collaborazione che lascia perplessi, poiché consente allo Stato di stipulare o disattendere
gli impegni assunti, giocando oltretutto sulla contrapposizione politica, in questo caso, tra regione e
comune (non più) interessato all'opera pubblica.
Ciò che invece ha concretizzato il principio di leale collaborazione a livello istituzionale sono stati
l'introduzione e il progressivo consolidamento del c.d. sistema delle conferenze, ovvero la
previsione della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province
autonome. Si tratta di organismi a composizione mista, formati cioè da rappresentanti dello Stato
e delle autonomie territoriali, titolari di svariati poteri di intervento nella formazione degli atti
normativi e nei processi decisionali che riguardano interessi comuni.
Ma al di là delle attribuzioni formali che la legge assegna loro, le conferenze sono oggi la sede del
confronto politico tra lo Stato, le regioni e gli enti locali benché non menzionate in Costituzione -
e ciò nemmeno dopo la riforma del 2001 – e disciplinate da semplici fonti primarie, hanno visto
crescere nel tempo e consolidarsi il loro ruolo politico di «organi» di rappresentanza degli interessi
territoriali, supplendo così all'assenza di soluzioni istituzionali di rango costituzionale (spesso
annunciate, ma mai realizzate nel corso di tutti questi anni).
CONFERENZA STATO-REGIONI
Composizione, attribuzione e procedure della Conferenza Stato-regioni sono disciplinate in via
generale dal d.lgs. 281/1997, al quale però si affiancano svariate fonti legislative che attribuiscono
alla Conferenza ulteriori competenze (si pensi, ad es., all'art. 5 della legge 11/2005, in materia di
formazione del diritto comunitario) o che prevedono, in relazione a puntuali fattispecie normative,
l'obbligo di consultazione o di intesa con lo Stato.
Per quanto riguarda la composizione, ne fanno parte di diritto da un lato i presidenti di tutte le
regioni nonché delle due province autonome di Trento e di Bolzano; dall'altro il presidente dBel
Consiglio dei ministri (oppure un ministro su sua delega), al quale spetta anche la presidenza
dell'organo. Ai lavori della Conferenza possono poi essere invitati, di volta in volta, ministri o
rappresentanti
di pubbliche amministrazioni interessati agli argomenti affrontati.
Per quanto riguarda le attribuzioni, la tipologia delle competenze spettante alla Conferenza può
essere così specificata:
1) poteri di intervento nei processi normativi statali (promozione e conclusione di accordi
e intese; formulazione di pareri sui disegni di legge o di decreto legislativo o di
regolamento del governo nelle materie di competenza regionale; elaborazione di
proposte normative al governo);
2) poteri di partecipazione ad altri processi decisionali (coordinamento della
programmazione statale e regionale; determinazione dei criteri di riparto delle risorse
finanziarie; definizione di indirizzi; ancora la stipula di accordi e intese);
3) poteri di nomina (indicazione di rappresentanti regionali in organismi a composizione
mista Stato-regioni, e di responsabili di enti o organismi).
Per quanto riguarda infine le procedure di funzionamento, va ricordato in primo luogo che la
Conferenza Stato-regioni deve riunirsi almeno una volta ogni sei mesi; ma in realtà la
convocazione è molto più frequente, e avviene tutte le volte che sia necessario, anche su
richiesta dei presidenti delle regioni. Inoltre, il d.lgs. 281/1997 detta regole precise nelle ipotesi
di intese e pareri obbligatori su atti normativi dello Stato. E così, quanto alle intese, esse
debbono raggiungersi entro trenta giorni dalla prima riunione della Conferenza che abbia
all'ordine del giorno la proposta statale; in difetto e anche nei casi di urgenza (che va peraltro
giustificata), il governo può procedere unilateralmente ma motivando congruamente le ragioni
del mancato accordo e con l'obbligo di sottoporre i provvedimenti adottati alla Conferenza per
eventuali osservazioni delle quali l'esecutivo deve tenere conto (il che significa che quanto
meno il governo dovrà motivare le ragioni che lo portano a ignorare le osservazioni formulate
dalle regioni). Quanto ai pareri, la procedura è simile: la Conferenza deve produrli entro venti
giorni dalla richiesta, e in difetto lo Stato può procedere; in caso di urgenza scatta l'obbligo di
sottoporre i provvedimenti già adottati alla Conferenza, e il governo deve tenere conto delle
eventuali osservazioni.
Un'analisi delle regole giuridiche che presiedono al funzionamento della Conferenza Stato-
regioni deve però accompagnarsi anche a un'indagine sulla prassi (estesa anche alle altre due
conferenze): poiché è guardando alle dinamiche reali dei rapporti tra Stato e regioni che può
comprendersi appieno natura e ruolo del sistema delle conferenze nell'assetto costituzionale
italiano. E così, un primo dato da evidenziare è quello relativo agli ambiti materiali sui quali le
conferenze sono chiamate a esprimersi, in sede di elaborazione degli atti normativi. Le materie
oggetto di «negoziato» vanno infatti ben al di là di quelle di competenza concorrente di cui
all'art. 117.2 Cost. , risultando frequente che Stato e regioni concorrano nell'elaborare
provvedimenti in materie esclusive statali (come ad es. l'immigrazione), oppure residuali
regionali (ad es. il turismo). Un secondo dato dimostra la crescita quantitativa dell'attività delle
conferenze, chiamate a esprimere con grande frequenza pareri, intese o accordi sulle politiche
pubbliche. Un terzo elemento evidenzia l'attivismo delle conferenze che, nelle ipotesi di
mancato accordo con il governo, si rivolgono al Parlamento, destinatario di proposte informali
o richieste di audizione nelle commissioni competenti.
Un quarto elemento testimonia invece la capacità di contrapposizione politica delle conferenze
nei confronti del potere centrale, e ciò al di là delle appartenenze politiche dei singoli
presidenti di regione, di provincia o dei sindaci: tanto nell'approvazione delle leggi finanziarie
annuali quanto nell'adozione di altri provvedimenti particolarmente significativi per l'azione del
governo centrale (si pensi, ad es., al c.d. «piano casa» nel 2009 o alla legge sul nucleare nel
2010) le autonomie territoriali hanno rallentato o disertato i lavori delle conferenze,
contestando – a volte con successo, altre meno – le decisioni statali.
Tale situazione è tuttavia mutata nel tempo: la grave crisi finanziaria ed economica nella quale
è caduto il Paese ha determinato, in generale, un ridimensionamento del ruolo politico delle
regioni a scapito del potere centrale, chiamato a governare una situazione di «emergenza»
protrattasi per lunghi anni - a partire dal 2011. Anche il sistema delle conferenze ne ha in
parte risentito: non, forse, dal punto di vista delle concrete attività che sono proseguite, ma
certamente con riferimento al «peso» politico delle conferenze nelle dinamiche del governo
nazionale.
In conclusione, è diffusa la convinzione che il sistema delle conferenze sia venuto conquistando
un ruolo politico e istituzionale che va ben oltre le competenze formali assegnate dalla legge -
seppure tale ruolo risulti in parte ridimensionato negli anni della emergenza economica. Si
tratta comunque di una vicenda che presenta luci e ombre: in positivo, può rimarcarsi
l'individuazione di sedi di confronto tra Stato e autonomie territoriali che favoriscono
l'elaborazione di politiche comuni la cui attuazione, in un ordinamento policentrico, deve
inevitabilmente contare sulla volontà condivisa dei diversi livelli di governo. In negativo, si
possono sottolineare almeno tre profili: in primo luogo l'informalità delle regole che governano
questi processi collaborativi conduce a svalutare la precettività degli enunciati costituzionali in
ordine al riparto delle competenze (basti pensare che gli ordini del giorno delle conferenze e gli
accordi raggiunti sembrano talvolta ignorare l'intervenuta riforma del Titolo V e le nuove
attribuzioni legislative previste in capo allo Stato e alle regioni); in secondo luogo è innegabile
che, pur registrando un accresciuto peso politico del sistema delle autonomie territoriali, la
collaborazione in sede di conferenze non introduce, in linea di massima, vincoli giuridici nella
formulazione della legislazione statale (con la conseguenza, già rimarcata, di un elevato tasso di
contenzioso); in terzo luogo, al di là delle intese raggiunte o degli accordi sfumati, è diffusa la
tendenza a una continua rinegoziazione da parte delle autonomie territoriali delle politiche
assunte dal potere centrale, con procedure non sempre accompagnate dal necessario grado di
pubblicità: il che non giova alla stabilità degli indirizzi politici assunti dal governo, e rende
difficile per l'opinione pubblica una corretta imputazione della responsabilità politica.
Tutto ciò ripropone la questione di una risposta più soddisfacente al problema della
rappresentanza al centro degli interessi territoriali. Le proposte, però, sono molteplici e
divergenti tra loro; ciò non deve sorprendere, poiché non esistono soluzioni di ingegneria
costituzionale valide in ogni tempo e in ogni luogo, ma ciascuna va calata nel contesto politico,
economico e sociale di un determinato ordinamento. E così vi è chi propone di
costituzionalizzare il sistema delle conferenze, razionalizzandone le procedure e aumentando
semmai il potere delle autonomie territoriali di condizionare i processi normativi statali: e
l'assunto muove dalla considerazione per cui una seconda camera legislativa di rappresentanza
dei territori è soluzione che, in altri ordinamenti, non ha dato sempre risposte soddisfacenti.
Di contro si sostiene l'opportunità di prevedere una vera e propria Camera di rappresentanza
delle autonomie, salvo poi dividersi tra chi vorrebbe limitarla alle sole regioni e chi vorrebbe
estenderla, invece, anche agli enti locali. Infine, non mancano i fautori del c.d. modello
Bundesrat, sulla falsariga dell'ordinamento federale tedesco.
La riforma costituzionale del 2016, bocciata dal referendum ex art. 138 Cost.,
ridisegnava tra l'altro il ruolo e le competenze del Senato prevedendolo, almeno nelle
intenzioni, come la sede istituzionale del confronto tra potere centrale e autonomie territoriali
in ordine all'esercizio dei poteri legislativi. E il fallimento di quel tentativo riformatore lascia sul
tavolo tutte le questioni e i dubbi che abbiamo sino a qui evidenziato.
Sussidiarietà e proporzionalità
La sussidiarietà si avvicina, nei contenuti, a un altro principio assai rilevante nei rapporti tra
potere centrale e autonomie territoriali: il principio di proporzionalità. Teorizzato dalla dottrina
tedesca come strumento di garanzia dei diritti individuali nei confronti del potere pubblico, nel nostro
ordinamento la proporzionalità è parametro di giudizio anche dei rapporti tra Stato e
regioni (ad es. Corte cost. 303/2003). Il principio esprime, in generale, la necessità che i mezzi
siano adeguati ai fini: se allo Stato è affidata la cura di un determinato interesse, i provvedimenti
normativi e amministrativi dovranno limitarsi alla tutela di quell'interesse senza comprimere
ulteriormente - e inutilmente - le competenze regionali. Anche la proporzionalità non ha contenuti
predeterminati, ma ciò che rileva è la sua giustiziabilità; e la giurisprudenza amministrativa – seppure
con riferimento ad ambiti diversi da quello dei rapporti Stato-regioni – si è sforzata di elaborare un test
di giudizio strutturato in tre tappe (verifica dell'idoneità del mezzo prescelto nel perseguire il fine
annunciato; della necessarietà, ovvero l'inesistenza di altre soluzioni che a parità di tutela per l'interesse
perseguito penalizzino meno quello sacrificato; infine, del ragionevole bilanciamento tra l'interesse
tutelato e quello compresso). Un test di giudizio seguito talvolta anche dalla Corte costituzionale,
sebbene con minore rigore (ad es. Corte cost. 6/2004), e che potrebbe essere riproposto, con gli
opportuni cambiamenti, anche nello scrutinio delle leggi chiamate ad attuare il principio di sussidiarietà
enunciato nell'art. 118 Cost. al fine di non limitare la decisione del giudice a una mera asserzione sul
rispetto o meno del principio.
La questione della validità ed efficacia di disposizioni di questo tipo si era già posta in
riferimento ai vecchi statuti: la giurisprudenza costituzionale ne aveva affermato la legittimità,
osservando anzi che i principi dettati negli statuti legittimano la «presenza politica della
regione, in rapporto allo Stato o anche ad altre regioni, riguardo a tutte le questioni di
interesse della comunità regionale, anche se queste sorgono in settori estranei alle singole
materie indicate nell'art. 117 Cost. e si proiettano al di là dei confini territoriali della regione
medesima (sent. 829/1988).
La Corte pareva aver letto tali disposizioni – già contenute in statuti che erano, secondo
l'opinione prevalente, leggi statali atipiche - come norme attributive o ricognitive di una
qualche competenza regionale (in tal senso si veda anche la sent. 921/1988), attivabili quanto
meno con strumenti non autoritativi - «attraverso atti di proposta, di stimolo, di iniziative o,
anche, attraverso intese, accordi o altre forme di cooperazione», precisa la sentenza 829/1988 -
a loro volta suscettibili di trovare copertura nella legge regionale. A ben vedere, però, l'attività
non pubblicistica della regione extra materias poteva reperire una sufficiente legittimazione già
nel carattere della regione quale ente politico esponenziale della collettività regionale (sent.
51/1990), senza necessità di appello alle disposizioni programmatiche degli statuti.
Dopo la riforma dell'art. 123 Cost., i giudici costituzionali si sono posti in un primo tempo in
linea di continuità con questo indirizzo e hanno confermato che «la riflessione dottrinale e la
stessa giurisprudenza di questa Corte [...] riconoscono da tempo la legittimità dell'esistenza,
accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri possibili contenuti, sia che risultino
ricognitivi delle funzioni e dei compiti della regione, sia che indichino aree di prioritario
intervento politico o legislativo», pur avvertendo che rimaneva «opinabile la misura
dell'efficacia giuridica di tali contenuti ulteriori (sent. 2/2004).
In un secondo tempo, però, la Corte costituzionale, pur ribadendo che tali disposizioni
costituiscono un contenuto possibile dei nuovi statuti regionali, ha negato ogni valenza
normativa agli enunciati in parola, arrivando a sostenere che essi rimangano mere
proclamazioni culturali o politiche incapaci di esprimere norme giuridiche e quindi insuscettibili
di essere assunte a oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale (in applicazione di tale
premessa, la Corte ha dichiarato inammissibili le impugnazioni proposte dal governo ai sensi
dell'art. 123.2 Cost. contro disposizioni programmatiche contenute negli statuti della Toscana,
dell'Umbria e dell'Emilia-Romagna: sentt. 372, 378 e 379/2004).
La soluzione data dalla Corte al problema delle norme programmatiche dà però luogo ad altre
difficili questioni. La principale è che viene addossato all'interprete il compito di distinguere,
nell'ambito delle disposizioni dello statuto, tra quelle produttive di effetti e quelle prive di
contenuto normativo. Tale distinzione va condotta necessariamente guardando agli oggetti di
competenza dello statuto, tra i quali l'art. 123.1 Cost. indica anche i principi di organizzazione e
di funzionamento: è quindi fisiologico che lo statuto detti anche norme strutturate come
principi, e si tratterà allora di verificare se esse appartengano o meno al contenuto necessario.
I titolari dell'iniziativa legislativa statutaria sono individuati dallo statuto stesso e, nel silenzio di
questo, troveranno applicazione le norme dettate per l'iniziativa delle leggi regionali. Taluni dei
nuovi statuti escludono l'iniziativa popolare per le leggi statutarie, sulla base di una scelta che
postula l'incompetenza del corpo elettorale nella materia statutaria: scelta poco comprensibile
a fronte della disciplina costituzionale che nell'art. 123.3 Cost. espressamente prevede il
coinvolgimento diretto degli elettori, sia pure in funzione oppositiva.
La fase dell'esame e dell'approvazione si articola nell'esame in commissione - che nel caso
dell'approvazione dei nuovi statuti dopo il 1999 è stata quasi sempre deferita a commissioni
con funzioni referenti appositamente istituite - e nelle due deliberazioni in aula, che la
Costituzione impone di adottare a maggioranza assoluta dei componenti del consiglio regionale
e con un intervallo non inferiore a due mesi.
Il testo costituzionale è chiaro nel prescrivere la maggioranza assoluta per entrambe le
approvazioni dello statuto, e dunque già per la prima votazione.
L'art. 123 Cost, non specifica invece se detta maggioranza qualificata sia necessaria, oltre che
per la votazione finale del testo, anche per l'approvazione dei singoli articoli e dei loro
emendamenti, o se invece per tali votazioni sia sufficiente la maggioranza semplice. Anche
questa scelta deve ritenersi disponibile da parte della regione.
Nella prassi le singole regioni, in sede di approvazione dei nuovi statuti, si sono orientate in
modo differente. Alcuni consigli regionali hanno preteso la maggioranza assoluta anche nel
voto sui singoli articoli, altri si sono accontentati della maggioranza semplice [Carlotto 2007, 58
ss.).
Quanto alla seconda approvazione, l'art. 123 Cost. si limita a prescrivere a) che essa intervenga
non prima che siano trascorsi due mesi dalla prima approvazione, e b) che avvenga anch'essa a
maggioranza assoluta dei componenti del consiglio. La disposizione costituzionale non regola le
ulteriori modalità della seconda approvazione, e in particolare non dice se la votazione debba
svolgersi articolo per articolo o invece sul solo testo complessivo, né se in tale sede siano
proponibili emendamenti ai singoli articoli.
L'esperienza dell'approvazione dei nuovi statuti ha visto la preferenza, da parte dei consigli
regionali, per l'opzione favorevole alla possibilità di emendare la delibera statutaria in sede di
seconda votazione, ma non sono mancate soluzioni diverse, poi codificate nello stesso statuto
(si veda l'art. 64.2 St. Lomb.).
Ci si è chiesti se lo statuto possa prevedere ulteriori aggravamenti del procedimento di
formazione dello statuto stesso [Tosi 2001, 98 ss.]. Una volta riconosciuta la competenza di
questa fonte in ordine alla disciplina dei procedimenti normativi in generale, e di quello di
formazione dello statuto in particolare, la risposta varia a seconda del tipo di aggravamento
previsto. Infatti, ove lo statuto pretenda di incidere su profili già direttamente regolati dall'art.
123 Cost. – pensiamo alla maggioranza necessaria o al termine dilatorio ivi previsti - le
regole difformi rispetto a quelle dettate dalla Costituzione dovrebbero essere considerate
illegittime, anche se in ipotesi più garantiste (pensiamo ad esempio all'innalzamento della
maggioranza richiesta per la seconda approvazione).
Per contro, se lo statuto introducesse oneri procedimentali ulteriori - quali il parere
obbligatorio di un organo consultivo, come ad esempio il parere del CAL (vedi S V.11) - rispetto
alle fasi regolate in Costituzione, tali previsioni non si porrebbero di per sé in contrasto con
l'art. 123 Cost., che non è una norma a fattispecie chiusa.
La revoca dell'approvazione della delibera statutaria
Si è posto il problema della possibile revoca delle deliberazioni consiliari di approvazione dello statuto,
prima della promulgazione. Taluni consigli regionali, di fronte all'impugnazione governativa, hanno
ritenuto di modificare la delibera statutaria, sostituendola con un nuovo testo conforme ai rilievi di
governo: ciò è quanto accaduto con lo statuto della Liguria (vedi ord. 353/2005) ed è quanto ha provato
a fare il consiglio regionale dell'Abruzzo, che però non è giunto in tempo.
Tale prassi non appare di per sé censurabile, purché la revoca avvenga con le forme previste dall'art.
123 Cost. La deliberazione, una volta definitivamente approvata, può essere rimossa soltanto con un
contrarius actus, approvato con il procedimento richiesto per l'atto oggetto della revoca (in base al
principio secondo cui i provvedimenti di secondo grado sono soggetti alla disciplina del provvedimento
base).
Nel caso dello statuto molisano impugnato dal governo, la revoca della seconda delibera di
approvazione dello statuto è invece stata disposta con una comune legge regionale (legge reg. 4/2012,
che è entrata in vigore dopo l'udienza di discussione dell'impugnazione governativa e che non ha avuto
alcun effetto sul giudizio, dato che la Corte costituzionale ha comunque deciso nel merito (sent.
63/2012).
Dopo la pubblicazione della sentenza della Corte, che ha dichiarato infondate tutte le censure sollevate
dal governo, il legislatore molisano (art. 3, legge reg. 7/2012) ha disposto l'abrogazione della legge reg.
4/2012 e la «reviviscenza della deliberazione legislativa avente ad oggetto la seconda approvazione
dello statuto.
Una volta che la delibera statutaria è stata approvata in due testi identici, essa è oggetto di una
prima pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione, pubblicazione che è detta notiziale
perché ha la funzione di far conoscere la delibera ai fini della possibile opposizione referendaria
e - come vedremo anche dell'impugnazione governativa. Dalla pubblicazione notiziale, infatti,
decorre il termine di tre mesi entro il quale una frazione del corpo elettorale della regione, pari
a un quinto degli elettori, ovvero una frazione di consiglieri regionali, pari a un quinto dei
componenti del consiglio, può presentare una richiesta di referendum.
Il referendum ha una funzione oppositiva, nel senso che è proposto da chi ha interesse a
impedire l'entrata in vigore dello statuto, anche se formalmente esso è configurato come
referendum confermativo, visto che il quesito sollecita l'approvazione popolare della delibera
statutaria.
Per tale referendum l'art. 123.3 Cost. non prevede alcun quorum strutturale, vale a dire un
numero minimo di votanti richiesto per la validità del referendum. La norma costituzionale si
limita a disporre che lo statuto non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti
validi. Poiché questa disciplina è in sé compiuta, si deve ritenere che la regione non possa
introdurre un quorum strutturale e in tal senso pare orientata anche la Corte costituzionale
nella sentenza 149/2009.
Mentre non vi è dubbio che il termine per la proposizione del referendum oppositivo decorre
dalla pubblicazione notiziale, visto che l'art. 123.3 Cost. chiarisce che non si procede alla
promulgazione (e quindi nemmeno alla pubblicazione necessaria) se lo statuto sottoposto a
referendum non è approvato dalla maggioranza dei voti validi, si è concretamente posto
l'interrogativo circa l'individuazione del dies a quo per il termine di trenta giorni entro il quale il
governo può impugnare lo statuto.
Il secondo comma dell'art. 123 Cost. si limita ad affermare che il ricorso deve essere proposto
entro trenta giorni dalla «pubblicazione», senza specificare se tale pubblicazione sia quella
notiziale o quella necessaria.
Qui il dubbio interpretativo non può essere risolto dalla legge regionale, giacché esso riguarda
la disciplina di un potere attribuito a un organo dello Stato. Ed è discutibile che potesse essere
la legge ordinaria statale a effettuare autoritativamente la scelta tra le due possibili
interpretazioni, visto che la norma costituzionale, per quanto di difficile lettura, appare per
questa parte completa e autoapplicativa (si tratta invero solo di capire qual è l'interpretazione
corretta tra due opzioni).
Le difficoltà esegetiche dipendono dal fatto che ci sono ottimi argomenti a sostegno sia
dell'interpretazione che intende la parola «pubblicazione» come riferita alla pubblicazione
notiziale, sia della tesi che colloca il ricorso governativo dopo la pubblicazione necessaria. La
Corte costituzionale ha tagliato definitivamente questo nodo, prendendo posizione a favore
della natura preventiva del ricorso nella prima sentenza che ha deciso un'impugnativa
governativa ex art. 123.2 Cost. (sent. 304/2002). Questa interpretazione è sostenuta con il dato
letterale (vale a dire con la presunzione che la parola «pubblicazione» nel secondo e nel terzo
comma descriva la stessa cosa); con il richiamo all'architettura della disposizione, che
rispecchierebbe la sequenza procedimentale in cui il ricorso governativo precede l'opposizione
referendaria; infine, con l'argomento logico-sistematico, in base al quale la posizione
gerarchicamente sovraordinata dello statuto rispetto alla legge regionale giustifica il controllo
preventivo, necessario per evitare che l'eventuale illegittimità costituzionale dello statuto si
riverberi, «a cascata», sulla successiva attività legislativa (e amministrativa) della regione.
Ciò su cui più importa fermare l'attenzione sono le diverse questioni irrisolte che sorgono in
conseguenza della decisione della Corte.
A) Il primo problema è quello di coordinare l'impugnazione governativa con la possibile
opposizione referendaria. Occorre quindi chiedersi se il ricorso governativo sospenda l'iter di
formazione dello statuto, bloccando le procedure referendarie e la promulgazione e
pubblicazione dell'atto. Per evitare che l'illegittimità dello statuto si rifletta «a cascata» sulla
successiva attività della regione sarebbe infatti necessario non solo che fosse preventivo il
ricorso del governo, ma anche che fosse preventivo il giudizio della Corte.
L'art. 123 Cost, non prevede che il ricorso del governo abbia effetto sospensivo e blocchi le fasi
successive del procedimento (per la tesi della sospensione necessaria vedi invece Cardone
(2007, 138 ss.]). In via di fatto, il comportamento di una regione speciale, la quale - pendente il
giudizio sulla legge statutaria impugnata dal governo dopo la pubblicazione notiziale – ha
proseguito l'iter arrivando alla promulgazione e alla pubblicazione dell'atto, non è stato
censurato dalla Corte costituzionale, che si è limitata a trasferire la questione dalla delibera
legislativa alla legge ormai perfezionata (sentt. 49/2003 e 25/2008). E se questa soluzione è
percorribile per le leggi statutarie delle regioni speciali, appare difficile negare che essa possa
essere estesa anche agli statuti delle regioni ordinarie, considerata la sostanziale
sovrapponibilità dei procedimenti previsti per la formazione di questi atti.
Tuttavia, dal punto di vista pratico, il problema è stato risolto in gran parte degli ordinamenti
regionali in seguito alla scelta, effettuata dalle regioni con legge, di prevedere la sospensione
delle operazioni referendarie e dei relativi termini in presenza dell'impugnazione governativa.
La scelta appare legittima, trattandosi della disciplina di una fase procedimentale la cui
regolazione è parzialmente disponibile da parte della regione, e la legittimità di tali previsioni
sembra confermata dalla Corte costituzionale, la quale, nella sent. 12/2006,
ha positivamente menzionato gli «accorgimenti validamente utilizzabili – e di fatto utilizzati da
molte regioni - per evitare la sovrapposizione di procedimenti nell'ipotesi di impugnazione dello
statuto da parte del Governo».
B) Il secondo problema - una volta ammesso che l'iter di formazione dello statuto è sospeso in
seguito al ricorso del governo - è quello dell'incidenza delle pronunce della Corte che
definiscono il giudizio di impugnazione dello statuto sul seguito del procedimento.
Se la sentenza della Corte annulla integralmente l'atto - ed è un'eventualità che potrebbe
verificarsi in presenza di vizi procedimentali che inficiano l'intero statuto (mancato
raggiungimento della maggioranza assoluta, mancato rispetto dell'intervallo dilatorio tra prima
e seconda approvazione ecc.) – il procedimento deve di necessità ripartire da capo. Nel caso
opposto, quando cioè la decisione dichiara inammissibile il ricorso o lo rigetta nel merito, il
procedimento deve riprendere da dove si era interrotto, e si pone il problema – variamente
risolto nella legislazione regionale - circa la precisa individuazione del termine in cui cessa la
sospensione delle operazioni e quello relativo alla validità delle attività referendarie già
compiute.
Più complesso è il caso di un accoglimento parziale. In tale evenienza si impongono delle
distinzioni, da operare sulla base del tipo di contenuto interessato dalla pronuncia.
a) Se la sentenza della Corte colpisce uno dei contenuti necessari (in senso stretto) dello
statuto, e per effetto dell'annullamento l'atto non copre più in modo sufficiente gli oggetti di
necessaria disciplina statutaria, si impone il ritorno dello statuto in consiglio regionale per
l'integrazione dell'atto. Il procedimento regredisce quindi alla fase della prima approvazione.
Questa ipotesi si è verificata nel caso deciso con la sent. 2/2004, che ha annullato la norma
sull'elezione del presidente della giunta contenuta nella delibera statutaria della Calabria, e nel
caso definito con la sent. 12/2006, in cui l'accoglimento ha riguardato importanti norme sulla
forma di governo (tra cui la norma sulla fiducia iniziale al presidente della giunta e quella sulla
sfiducia individuale ai singoli assessori) contenute nello statuto dell'Abruzzo.
b) Per contro, se l'annullamento riguarda una norma che sta fuori dal contenuto possibile dello
statuto - come è accaduto nel caso delle sentt. 378 e 379/2004, che hanno censurato per
incompetenza le norme sulle incompatibilità degli assessori introdotte dagli statuti dell'Umbria
e della Emilia-Romagna, norme che possono trovare posto solo nella legge elettorale ex art.
122.1 Cost. - il procedimento può, e anzi deve, continuare, in quanto non vi è nulla da
modificare o da integrare.
c) La terza ipotesi è quella della decisione della Corte che incide su una parte eventuale del
contenuto necessario: pensiamo al caso dell'annullamento delle norme sull'organo di garanzia
statutaria. In tal caso la scelta sul seguito è aperta, potendo la regione optare per l'integrazione
dello statuto, con la sostituzione della parte annullata, o per il mantenimento del testo
risultante dalla pronuncia della Corte,
A differenza del caso in cui l'iter prosegue dopo una sentenza di rigetto, nelle ipotesi in cui il
procedimento prosegue dopo una sentenza di annullamento parziale - e quindi nei casi sub b) e
c) - le operazioni referendarie eventualmente intraprese sono necessariamente azzerate e il
termine di tre mesi per la proposizione del referendum è interrotto, riprendendo a decorrere ex
novo. Tale conseguenza è imposta dalla circostanza che l'intervento della Corte, incidendo sul
testo della delibera statutaria, incide di riflesso anche sul quesito referendario: essendo mutato
parzialmente l'oggetto del referendum le operazioni già avviate perdono effetto e ai soggetti
legittimati deve essere dato un nuovo termine intero. Dovrebbe quindi essere prevista, in tale
caso, una nuova pubblicazione della delibera statutaria, nel testo risultante dalla
sentenza della Corte. Molte regioni, invece, prevedono che il nuovo termine di tre mesi decorre
dalla pubblicazione della sentenza della Corte o dalla pubblicazione di un avviso relativo alla
sentenza nel BUR.
Poiché il giudizio di sufficienza rispetto al contenuto necessario può essere opinabile e poiché è
discrezionale la valutazione in ordine alla rilevanza delle disposizioni colpite dalla Corte
nell'ambito del sistema delle norme statutarie, in ogni caso di annullamento parziale la scelta
circa la prosecuzione dell'iter andrebbe affidata congiuntamente al presidente della giunta,
responsabile della promulgazione, e al consiglio regionale, che è l'organo cui l'art. 123
Cost. affida la potestà statutaria.
Una volta superati positivamente il giudizio della Corte e l'opposizione referendaria o decorso il
termine di tre mesi senza che sia stata presentata la richiesta di referendum, lo statuto è
promulgato dal presidente della giunta e pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione ed
entra in vigore decorso il periodo di vacatio legis.
Quanto alla promulgazione, è interessante notare che gli statuti regionali sono stati promulgati
con un nomen iuris diverso a seconda della regione. Talune regioni hanno scelto di promulgare
lo statuto con il nome di «statuto», senza numerazione; altre hanno optato per la
denominazione «legge statutaria», e hanno attribuito a tale atto una numerazione autonoma
rispetto alle altre leggi regionali; altre regioni ancora hanno trattato lo statuto come una
comune legge regionale, attribuendo a esso una numerazione progressiva non distinta da
quella delle altre leggi.
B) In secondo luogo, il limite dell'armonia importa che le norme costituzionali, pur rispettate
nella lettera, non siano eluse nella portata precettiva che risulta dalla loro ratio. Il tentativo di
una regione di aggirare il meccanismo
del simul stabunt, simul cadent tramite la previsione statutaria di un'elezione del presidente
della giunta formalmente consiliare, ma sostanzialmente diretta (perché la scelta, da parte del
consiglio regionale, di un presidente diverso da quello indicato dal corpo elettorale era
sanzionata con lo scioglimento dell'assemblea legislativa), è stato quindi censurato come
elusivo dell'art. 126.3 Cost. (sent. 2/2004; vedi S V.6).
C) Un terzo profilo del limite dell'armonia - enucleato dalla Corte costituzionale - consiste nella
soggezione dello statuto alle leggi di diretta attuazione del Titolo V, cui la Costituzione fa
specifico rinvio (artt. 117.5, 119, 120.2). I giudici costituzionali hanno evidenziato che il quadro
nel quale lo statuto regionale si colloca è costituito dal «sistema costituzionale complessivo,
che si articola nei principi contenuti nelle singole norme della Carta fondamentale e delle leggi
ordinarie di diretta attuazione» (sent. 12/2006) e hanno utilizzato, nel sindacare lo statuto
regionale, le norme della legge 131/2003 relativa agli obblighi europei come parametro di
costituzionalità interposto in riferimento all'art. 117.5 Cost. (sent. 63/2012). È interessante
notare come questa giurisprudenza finisca per recuperare nel nuovo limite dell'armonia con la
Costituzione anche il vecchio vincolo di armonia con le leggi della Repubblica, sia pure intese in
modo estremamente restrittivo.
A ben vedere, questi tre aspetti appena illustrati appaiono la descrizione dell'operare del
comune limite costituzionale secondo modalità consuete che valgono per l'interpretazione
delle disposizioni costituzionali (interpretazione letterale e secondo la ratio; divieto di elusione
dei precetti costituzionali; integrazione del parametro con norme interposte); in effetti, nella
giurisprudenza della Corte l'evocazione del concetto di armonia compare in funzione
prevalentemente rafforzativa.
D) Il limite in esame assume invece autonoma portata precettiva allorché esso condiziona
l'esplicazione dell'autonomia statutaria in ordine ad oggetti sui quali la Costituzione - con
riferimento agli ordinamenti regionali – non detta norme specifiche: l'esempio potrebbe essere
la disciplina del referendum ex art. 75 Cost, o quella del procedimento legislativo, che la
Costituzione regola solo in riferimento allo Stato. In tali ipotesi ciò che è vincolante sono
i principi sottesi alle norme costituzionali che regolano gli omologhi oggetti in relazione
all'organizzazione statale. Qui cogente non è il dettaglio delle disposizioni dettate per lo Stato;
vincolanti sono piuttosto le scelte di fondo che conformano e caratterizzano i diversi istituti. Se
ne vedranno le applicazioni concrete quando saranno esaminati i lineamenti dell'organizzazione
regionale, ma occorre fin da subito avvertire delle difficoltà che tale criterio presenta,
soprattutto in relazione alle ipotesi in cui l'istituto regolato nella parte della Costituzione
relativa allo Stato presenti differenze sostanziali rispetto a un analogo istituto regolabile a
livello regionale (pensiamo al rinvio delle leggi da parte del presidente della Repubblica in
rapporto a un ipotetico rinvio da parte del presidente della giunta) e alle ipotesi in cui difetti
ogni disciplina costituzionale (qual è il significato dell'armonia con il silenzio della
Costituzione?).
E) Più discutibile, invece, è l'integrazione del limite dell'armonia con la Costituzione con leggi
delle Repubblica dettate dallo Stato nell'esercizio di competenze molto generali, operazione
con cui la giurisprudenza costituzionale ha finito per recuperare il limite volutamente soppresso
dalla legge cost. n. 1/1999. È pur vero che può esservi interferenza tra titoli di competenza
statale trasversale e materia statutaria; ma tale interferenza dovrebbe essere risolta, secondo
un criterio di specialità, assicurando la prevalenza della riserva a favore della fonte regionale
specializzata, cioè dello statuto.
Sotto il profilo del procedimento, i rinforzi che caratterizzano l'iter di formazione dello statuto
rispetto a quello previsto per le ordinarie leggi regionali sono per numero e qualità tali da rendere
dubbia l'appartenenza delle due fonti a un'unica categoria, tanto più che gli aggravamenti
procedimentali previsti dall'art. 123 Cost. ricalcano quelli prescritti dall'art. 138 Cost. per la
formazione delle leggi costituzionali, che sono una fonte diversa dalle leggi ordinarie.
Quanto alla sua forza, lo statuto si pone (salve le precisazioni che si faranno subito) in posizione di
sovraordinazione gerarchica rispetto alla legge regionale, mentre normalmente il rapporto tra
legge rinforzata e legge ordinaria si configura come un rapporto di competenza.
Infine, se guardiamo al valore dell'atto, lo statuto si differenzia dalle leggi regionali per il
procedimento di controllo, che è introdotto da un ricorso preventivo e non da un ricorso
successivo, elemento, questo, sottolineato dalla Corte costituzionale nelle sentenze 304/2002 e
469/2005.
Se la questione dell'ascrizione dello statuto al genus della legge regionale o a una categoria a sé
può apparire essenzialmente nominalistica, sicuramente rilevante è la precisa collocazione dello
statuto all'interno del sistema delle fonti, e quindi l'individuazione delle relazioni con gli altri atti
normativi che costituiscono l'ordinamento giuridico.
A) Rispetto alla Costituzione, lo statuto si pone in posizione di sicura subordinazione gerarchica:
come si è ricordato sopra, il limite dell'armonia non si risolve in un'attenuazione, bensì in un
irrigidimento del vincolo al rispetto della Costituzione. Lo statuto, pertanto, non può derogare ad
alcuna norma costituzionale, salve naturalmente quelle norme che si dichiarino dispositive, come
ad esempio la norma che prescrive l'elezione diretta del presidente della giunta regionale.
B) Nei confronti della legge statale, lo statuto si trova in rapporto di tendenziale separazione di
competenza: di separazione di competenza, perché alla legge statale non è dato di condizionare in
un modo o nell'altro l'autonomia statutaria; solo tendenziale, perché si è visto che l'obbligo di
armonia con la Costituzione impegna lo statuto anche a rispettare quelle specifiche leggi cui le
disposizioni del Titolo V fanno puntuale rinvio, e che si pongono quindi come norme interposte
rispetto all'art. 123.1 Cost.
Già prima dell'eliminazione del vincolo di armonia con le leggi della Repubblica, la Corte
costituzionale aveva fatto valere in modo abbastanza rigoroso la riserva di competenza a favore
dello statuto in materia di organizzazione interna, annullando le norme statali che pretendevano
di individuare l'organo della regione competente a esercitare determinate funzioni (sentt.
407/1989; 353/1992; 74/2001). Successivamente alla novella dell'art. 123.1 Cost. questa
conclusione si impone con maggiore forza, se consideriamo che è venuto meno il vincolo di
armonia con le leggi della Repubblica e dunque lo specifico titolo che avrebbe potuto legittimare le
interferenze della legislazione statale con l'autonomia statutaria. E la giurisprudenza
costituzionale, in linea con l'indirizzo di cui si è dato conto, ha confermato che non spetta alla
legge statale assegnare funzioni a organi regionali da essa individuati, perché ciò viola l'autonomia
organizzativa della regione, garantita sia dall'art. 123 sia dall'art. 117.4. Cost., visto che tale
materia è di competenza residuale della regione (sentt. 387/2007; 192/2017).
La linearità di questa ricostruzione è però incrinata da ulteriori ipotesi in cui sono possibili
condizionamenti derivanti dalla legge statale a carico dello statuto e quindi la separazione di
competenza tra statuto e legge statale risulta ulteriormente relativizzata.
a) Anzitutto, la Corte costituzionale ammette che lo Stato, nell'esercizio di proprie competenze
legislative esclusive nelle materie dell'art. 117.2 Cost., possa imporre alla regione la forma del
provvedere, per esempio imponendo una riserva di atto amministrativo (Corte cost., sentt.
20/2012; 44/2010; 271 e 250/2008). Tale vincolo incide sull'organizzazione regionale, se si
considera che dietro gli atti ci sono organi. In verità, dove la legge statale impone alla regione di
esercitare una certa funzione con atto amministrativo, nulla impedirebbe alla regione di intestare
comunque la funzione in parola al consiglio, anziché a organi esecutivi come la giunta o il
presidente della giunta. Ma diverso è il caso di una legge statale che obbligasse la regione a
provvedere con legge, visto che in tale ipotesi alla forma della legge corrisponde necessariamente
una competenza inderogabile del consiglio regionale. Tale ipotesi potrebbe però trovare copertura
nell'art. 121.2 Cost., a mente del quale il consiglio regionale esercita le funzioni attribuitegli dalla
Costituzione e dalle leggi, se per «leggi» si intendono anche le leggi statali.
b) In secondo luogo, la giurisprudenza costituzionale ha fatto applicazione, senza sollevare rilievi
critici, di leggi statali che prescrivevano condizionamenti procedimentali per formazione di atti
legislativi della regione. Significativa è la sent. 237/2009, relativa alla norma che impone alla
regione di sentire il consiglio delle autonomie nell'ambito dei procedimenti legislativi per il
riordino delle comunità montane; qui la legge statale interferisce sia nella disciplina del
procedimento, sia nella disciplina delle funzioni del CAL, e dunque su due oggetti di competenza
statutaria (analogamente, la sent. 22/2014 ha fatto salva, in quanto principio di coordinamento
della finanza pubblica, la norma statale che prescriveva alle regioni la concertazione con gli enti
locali interessati, nell'ambito del CAL, per l'individuazione della dimensione territoriale ottimale e
omogenea per lo svolgimento associato di funzioni fondamentali dei comuni).
c) Infine, condizionamenti potrebbero venire da titoli di intervento trasversali dello Stato, capaci di
incidere anche in settori affidati all'autonomia statutaria della regione: pensiamo alla disciplina del
pubblico impiego privatizzato, attratta nell'ordinamento civile (sentt. 171/1999 e 63/2012), o
all'armonizzazione dei bilanci pubblici, titolo che potrebbe legittimare vincoli relativi alla disciplina
del bilancio regionale, tanto più ora che tale materia è passata nella competenza esclusiva dello
Stato (art. 3, legge cost. 1/2012).
d) Infine, non è escluso che siano imposte all'osservanza del legislatore statutario determinate
declinazioni dei principi costituzionali sull'amministrazione scolpiti nell'art. 97 Cost., come attuato
nella legislazione statale: pensiamo al principio della separazione tra politica e amministrazione o a
basilari principi sul procedimento amministrati
Si può allora parlare ancora di una riserva di statuto opponibile alla legge statale? La risposta
positiva alla domanda presuppone che si faccia valere la specialità della materia di cui all'art. 123
Cost, rispetto a titoli trasversali generalissimi. A sua volta, l'applicazione del criterio di specialità
presuppone che siano individuati e circoscritti con sufficiente precisione i macro-oggetti di
competenza dello statuto, operazione che non è agevole soprattutto in relazione ai principi di
organizzazione e funzionamento.
Coordinamento della finanza pubblica e numero dei consiglieri regionali
Nell'ambito di una manovra di riduzione della spesa pubblica il legislatore statale, con il decreto-legge
138/2011 convertito dalla legge 148/2011, è intervenuto anche sul costo degli apparati istituzionali,
disponendo direttamente la riduzione dei componenti degli organi politici di comuni e province (art. 13) e
«incentivando» la riduzione del numero dei consiglieri regionali e degli assessori (art. 14) attraverso misure
premiali di carattere finanziario riservate alle regioni che modifichino in tal senso gli statuti, in conformità ai
parametri previsti dalla legge stessa
(questo entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto-legge, tempo appena sufficiente per il
procedimento ex art. 123 Cost. e sempre che non intervengano le opposizioni, governativa o referendaria,
ivi previste). La legge 183/2011 (legge di stabilità 2012, art. 30.5) ha poi eliminato il meccanismo premiale,
così che l'obbligo di riduzione è stato prescritto in modo incondizionato.
Il titolo di competenza sul quale si fonda la norma statale è il «coordinamento della finanza pubblica»,
materia di competenza concorrente che consente quindi allo Stato di intervenire dettando principi
fondamentali. Prevale la competenza statale o l'autonomia statutaria?
Ragionando come si è detto sopra si dovrebbe negare che lo Stato, utilizzando un titolo competenziale
privo di confini materiali (essendo il coordinamento della finanza pubblica una funzione, più che una
materia), possa incidere su uno specifico oggetto che la Costituzione affida all'autonomia statutaria della
regione: ciò senza che rilevi il carattere cogente o soltanto incentivante della norma statale che pone il
condizionamento. La Corte costituzionale, con sent. 198/2012, ha invece ritenuto legittima la norma,
osservando che la determinazione del numero massimo dei consiglieri regionali (e degli assessori) sarebbe
funzionale a garantire l'eguaglianza del voto (art. 48 Cost.) e la parità di accesso alle cariche pubbliche (art.
51 Cost.), attraverso la prescrizione di criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati, dettati nel quadro
della finalità generale di contenimento della spesa pubblica.
Con la stessa sentenza 198/2012 la Corte costituzionale ha salvato anche le norme del d.l. 138/2011 che
fissano limiti alle indennità dei consiglieri regionali e che obbligano le regioni ad istituire un collegio di
revisori con compiti di vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica della gestione dell'ente,
norme incidenti anch'esse sull'autonomia statutaria ed organizzativa della regione.
Successivamente la Corte ha utilizzato la norma statale sul numero massimo di consiglieri e di assessori
regionali per una sentenza sostitutiva, che è intervenuta direttamente sul testo della delibera statutaria
della regione Calabria impugnata dal governo, correggendo l'indicazione del numero dei componenti del
consiglio regionale e il limite numerico dei componenti della giunta (sent. 35/2014; sulla vicenda Bin [2014,
287]).
La sostituzione diretta della disciplina statutaria ad opera di norme statali è stata prevista anche dall'art. 2.3
del d.-1. 174/2012 convertito dalla legge 213/2012, per cui se al momento delle elezioni la regione non
avesse ancora provveduto alla riduzione del numero dei consiglieri nei termini di cui all'articolo 14 del d.
1.138/2011 le elezioni avrebbero comunque dovuto essere indette per il numero massimo dei consiglieri
regionali previsto in rapporto alla popolazione dalla legislazione statale.
LA FORMA DI GOVERNO
Quando si parla di forma di governo con riferimento alle regioni si intende l’assetto dei rapporti
tra gli organi regionali.
L’art. 121 Cost. stabilisce che sono organi della Regione: il Consiglio regionale, la Giunta e il
suo Presidente.
La Costituzione del 1948 predeterminava in larga parte gli assetti della forma di governo regionale,
pur consentendo alle regioni alcune opzioni importanti.
Rimangono quindi le forme di governo parlamentare e assembleare, che però non sono
praticabili dalle regioni nelle forme pure del modello.
La prima, infatti, è preclusa dall'assenza, a livello regionale, di una figura analoga a un capo
dello Stato in posizione di terzietà, figura-chiave per la risoluzione delle crisi di governo:
l'intestazione delle funzioni di rappresentanza istituzionale dell'ente in capo al presidente della
giunta impedirebbe allo statuto di istituire un capo della regione assimilabile al presidente della
Repubblica; ed è dubbio che funzioni arbitrali in caso di crisi di giunta possano essere attribuite
al presidente del consiglio regionale, come pure si è ipotizzato, visto che tale figura è
costituzionalmente prevista (art. 121.2 Cost.) come organo dell'assemblea, e quindi la soluzione
della crisi verrebbe comunque dall'interno del consiglio regionale e non attraverso il
coinvolgimento di un soggetto terzo.
La forma assembleare pura, di contro, è impossibile stante la perdurante configurazione della
giunta regionale come organo esecutivo della regione, cosa che esclude la concentrazione del
potere esecutivo in capo al consiglio e la riduzione della giunta a un comitato attraverso il quale
il consiglio dà attuazione alle proprie decisioni.
Pur in questa trama definita esternamente dall'esclusione pregiudiziale di determinate forme di
governo e intessuta di vincoli costituzionali puntuali, allo statuto regionale rimane aperta,
anzitutto, l'opzione circa un modello con elezione diretta del presidente - in buona parte
costituzionalmente determinato - e un modello con elezione consiliare, maggiormente aperto
alle sperimentazioni statutarie.
Invero, il legislatore costituzionale del 1999 ha espresso la preferenza per la forma di governo
con elezione diretta del presidente: a) prescrivendo tale modello come forma di governo
transitoria fino all'entrata in vigore dei nuovi statuti (art. 5), e b) indicandolo come forma di
governo standard, vale a dire come il modello che vale «salvo che lo statuto regionale disponga
diversamente» (art. 122.5 Cost.).
Tale preferenza, peraltro, parrebbe sorretta dagli orientamenti culturali ancora dominanti in
questo momento storico, i quali hanno reso politicamente impraticabile la scelta di modelli
alternativi. A conferma di ciò è valsa l'esperienza della prima legge statutaria della regione
Friuli-Venezia Giulia, approvata dall'assemblea legislativa nel marzo del 2002 nell'esercizio
dell'autonomia in materia di forma di governo conferita alle regioni speciali dalla legge
cost. 2/2001: il consiglio regionale aveva ripristinato l'elezione consiliare del presidente della
giunta, ma si è scontrato con la disapprovazione del corpo elettorale espressa tramite il
referendum oppositivo, che nel settembre 2002 ha bocciato la delibera legislativa statutaria.
L'unica regione che è riuscita a tenere ferma l'elezione consiliare è un'altra
regione speciale, la Valle d'Aosta, alla quale la legge cost. 2/2001 aveva peraltro conservato tale
modello in attesa della legge statutaria, senza imporre in via transitoria l'elezione diretta.
L'elezione consiliare del presidente della giunta è poi prescritta obbligatoriamente dalla legge
2/2001 per la regione
Trentino-Alto Adige (nell'ambito dei complessi meccanismi di tutela delle minoranze
linguistiche e dei loro gruppi), ed è tuttora prevista per la provincia autonoma di Bolzano, che
pure potrebbe scegliere l'elezione a suffragio universale e diretto con legge statutaria, se
approvata con una maggioranza pari ad almeno i due terzi dei componenti.
La forma di governo indicata dalla Costituzione come modello standard si caratterizza, oltre che
A) per l'elezione diretta del presidente della giunta, anche per due vincoli specifici: B) la regola
simul stabunt, simul cadent, che lega il destino del consiglio regionale a quello del presidente
della giunta, e viceversa, e C) il potere del presidente di nominare e revocare i componenti della
giunta.
A) L'elezione a suffragio universale e diretto del presidente della giunta regionale è nello stesso
tempo sia una scelta preliminare che determina l'applicazione degli altri limiti previsti in
Costituzione per il modello in parola, sia la caratteristica principale di questa forma di governo,
che porta con sé ulteriori corollari enucleati in via interpretativa dalla Corte costituzionale.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, l'elezione diretta del presidente della giunta è
configurata dall'art. 122.5 Cost. come elezione a suffragio universale e diretto del solo titolare
di tale organo: il che esclude l'ammissibilità di un'estensione dell'eleggibilità diretta ad altri
organi, quali ad esempio il vicepresidente della giunta (così sent, 2/2004).
Peraltro, l'ammissibilità di previsioni statutarie volte a prevedere l'elezione diretta di un ticket
presidente-vicepresidente si scontrerebbe con il puntuale vincolo di cui all'art. 122.5 Cost.,
secondo periodo, Cost., che affida alla responsabilità esclusiva del presidente della giunta la
scelta dei componenti della giunta e quindi anche del vicepresidente.
In secondo luogo, la Corte costituzionale ha negato la legittimità della norma, contenuta nello
statuto dell'Abruzzo, che imponeva al presidente della giunta neo-eletto di presentarsi al
consiglio regionale nella prima seduta per ottenerne l'approvazione del programma di governo
ed equiparava la mancata approvazione del programma presidenziale a un voto di sfiducia
(sent. 12/2006).
Secondo la Corte, infatti, la forma di governo con elezione popolare del presidente della giunta
è incentrata sulla simultanea investitura politica del consiglio regionale e del presidente da
parte del corpo elettorale, ed è intrinseca a questo modello «una iniziale presunzione di
consonanza politica, che può essere superata solo da un atto tipico quale la mozione di
sfiducia»; non è pertanto ammessa l'introduzione di una sorta di fiducia iniziale analoga a
quella prevista nella forma di governo parlamentare, che sarebbe incoerente «con un sistema
di rapporti tra poteri fondato sul conferimento da parte del popolo di un mandato a governare
a entrambi gli organi supremi della regione, ciascuno nei suoi distinti ruolis (sent. 12/2006).
B) Il vincolo che ha impensierito maggiormente i consigli regionali è rappresentato dalla regola -
riassunta con la locuzione simul stabunt, simul cadent - secondo la quale in caso di dimissioni
volontarie, rimozione, morte, impedimento permanente del presidente della giunta eletto
direttamente, o di approvazione della mozione di sfiducia nei confronti dello stesso, si hanno
anche le dimissioni della giunta e lo scioglimento del consiglio regionale. Analogamente, le
dimissioni contestuali di oltre la metà dei consiglieri determinano, oltre allo scioglimento del
consiglio, anche le dimissioni della giunta e del suo presidente.
Tale meccanismo è stato introdotto per stabilizzare l'esecutivo impedendo, in corso di
legislatura, i cambi di maggioranza conseguenti alla rottura degli accordi di coalizione tra i
partiti. Il mutamento della formula di maggioranza, infatti, dovendo passare per le dimissioni
della giunta - volontarie, in caso di crisi extraconsiliare, o dovute, nel caso di crisi consiliare
aperta dall'approvazione di una mozione di sfiducia - richiede necessariamente nuove elezioni,
in applicazione dell'art. 126.3 Cost., che impone in tale ipotesi lo scioglimento del consiglio. In
realtà, la regola del simul simul non impedisce come l'esperienza ha del resto confermato - quei
cambiamenti di coalizione che siano promossi o accettati dal presidente della giunta, in quanto
nulla esclude che il mutamento della maggioranza di governo trovi riscontro in una nuova
giunta, la cui composizione sia il risultato della revoca degli assessori in quota al partito uscente
e della nomina di nuovi assessori in quota al partito entrante: revoche e nomine che sono
appunto, come si dirà meglio, nella piena disponibilità del presidente eletto.
I consigli regionali hanno dimostrato insofferenza nei confronti del meccanismo simul stabunt,
simul cadent, in quanto si sono sentiti espropriati del potere di condizionare la permanenza in
carica della giunta e la sua composizione politica: tale potere, infatti, in questa forma di
governo è ridotto alla facoltà per l'assemblea legislativa di votare la sfiducia nei confronti del
presidente della giunta, sfiducia che però comporta anch'essa lo scioglimento del consiglio e
quindi è un'arma suicida alla quale l'assemblea ricorrerà solo in casi estremi.
Inoltre, la regola del simul simul incide nei rapporti tra consiglio regionale e presidente della
giunta sotto un altro rilevantissimo profilo: essa conferisce al presidente della giunta, oltre che
una potente legittimazione democratica che egli può giocare politicamente contro l'assemblea,
uno specifico potere giuridico, che è quello di determinare con le proprie dimissioni lo
scioglimento del consiglio, e tale potere si converte in uno strumento di pressione nei confronti
dell'assemblea. Il che comporta anche, sul piano del modello costituzionale di questa forma di
governo, che la decisione sulla questione di fiducia debba essere affidata al presidente della
giunta, e non alla giunta.
Nello stesso tempo, pur a fronte dei motivi di scontento da parte dei consigli per uno degli
elementi caratteristici della forma di governo con elezione popolare del presidente della giunta,
il ripristino dell'elezione consiliare dell'esecutivo tramite un'opzione statutaria in tale senso era
precluso dalla presumibile opposizione del corpo elettorale a una simile scelta: di qui i tentativi
di depotenziamento della regola del simul simul, che però sono stati bloccati dalla Corte
costituzionale.
C) Il terzo vincolo che si impone all'osservanza del legislatore statutario che opti per la forma di
governo con l'elezione popolare del presidente della giunta è rappresentato dal potere del
presidente della giunta di nominare e di revocare gli assessori.
Tale potere, previsto dall'art. 122.5, secondo periodo, Cost, come prerogativa del «presidente
eletto» (cioè del presidente eletto a suffragio universale e diretto), fa sì che il consiglio non
possa assegnarsi il potere di sfiduciare individualmente singoli assessori a mezzo di apposite
mozioni di sfiducia, in quanto ciò comporterebbe l'intestazione del potere di revoca anche in
capo all'assemblea, là dove la Costituzione lo vuole riservato al presidente (sent.
12/2006). Analogamente dovrebbero essere reputate incostituzionali eventuali previsioni che
subordinassero la nomina degli assessori al gradimento del consiglio
Per contro, appaiono del tutto legittime quelle norme che, ai fini di controllo politico
sull'esecutivo, impegnano il presidente ad illustrare preventivamente in consiglio le nomine
degli assessori oppure consentono al consiglio di votare una mozione di censura rivolta a singoli
componenti della giunta, dalla cui approvazione non derivi né un obbligo di dimissioni a carico
dell'assessore censurato, né un obbligo di revoca per il presidente della giunta, ma al più il
dovere del presidente di motivare le propri determinazioni consequenziali.
Ancora, sono legittime, pur condizionando il potere presidenziale di nomina, le norme
statutarie che impongono al presidente della giunta un limite numerico agli assessori, e
specificamente agli assessori cc.dd. «esterni» (vale a dire agli assessori che non ricoprano anche
la carica di consigliere regionale), o una composizione della giunta con determinati requisiti di
genere.
Se, come si è visto, i vincoli costituzionali che strutturano il modello con elezione diretta del
presidente della giunta sono incisivi, all'interno di questi limiti non mancano spazi per
un'autonoma conformazione della forma di governo standard da parte della regione.
Nella modellistica delle forme di governo, l'assetto caratterizzato dall'elezione diretta di un
vertice dell'esecutivo che rimane responsabile nei confronti dell'assemblea legislativa - non
frequente nell'esperienza del diritto comparato - è noto come «forma neoparlamentare»,
ovvero come «premierato». Ma naturalmente i modelli astratti hanno funzione descrittiva e
non prescrittiva, e quindi le caratteristiche o le regolarità della forma di governo
neoparlamentare non possono tradursi in ulteriori condizionamenti a carico dell'autonomia
statutaria.
Pur avendo tutte le regioni optato nei nuovi statuti per la forma di governo con elezione diretta
del presidente della giunta, gli assetti di governo possono diversificarsi su molti punti e
potrebbero dare luogo - ove le singole scelte fossero tra loro coerenti - a modelli incentrati sul
ruolo dell'uno o dell'altro organo di vertice (consiglio o presidente della giunta).
Seguendo un'utile ricostruzione recente proposta in letteratura per l'analisi della forma di
governo regionale, conviene distinguere tra compiti di determinazione dell'indirizzo politico, di
attuazione dell'indirizzo politico e di controllo sull'indirizzo politico.
Quanto alla determinazione dell'indirizzo politico, tale compito, nella forma di governo con
elezione popolare del presidente della giunta, compete sia al consiglio regionale sia al
presidente, stante la legittimazione democratica che entrambi gli organi politici ricevono
direttamente dal »
Il consiglio concorre alla fissazione dell'indirizzo politico essenzialmente tramite la legislazione,
ma anche tramite l'adozione degli atti di programmazione e di pianificazione che lo statuto
riserva sovente a tale organo. Il presidente della giunta, invece, concorre tramite la
predisposizione del programma di governo, che non a caso tutti gli statuti affidano a tale
organo e non alla giunta (la cui formazione è spesso contestuale, quando non successiva, alla
presentazione del programma). Peraltro, anche sul programma di governo è spesso previsto un
intervento dell'assemblea legislativa: molti statuti non si limitano, infatti, a chiedere che tale
programma sia illustrato dal presidente davanti al consiglio, ma prevedono anche un voto sul
programma (voto che come si è visto ha solo conseguenze politiche) o consentono
all'assemblea di indicare, nell'ambito del programma presentato dal presidente, gli indirizzi
e gli obiettivi ritenuti prioritari.
Quanto all'attuazione dell'indirizzo politico, essa dovrebbe spettare in linea di principio
all'organo esecutivo della regione e quindi alla giunta, come è del resto espressamente
confermato da gran parte degli statuti, che attribuiscono a tale organo anche le competenze
amministrative residuali.
La maggior parte dei legislatori statutari ha però confermato l'intestazione di determinate
funzioni amministrative in capo al consiglio, come ad esempio le nomine, secondo il modello
diffuso negli statuti del 1971.
I principali strumenti con cui l'esecutivo dà attuazione all'indirizzo politico stabilito nel raccordo
consiglio-presidente della giunta sono la programmazione dei lavori, la questione di fiducia e la
potestà regolamentare.
Taluni statuti, per garantire all'esecutivo un'adeguata strumentazione per dare attuazione
all'indirizzo politico, dispongono che nella formazione del calendario dei lavori dell'assemblea
una parte delle sedute sia riservata alla discussione dei provvedimenti e delle leggi di iniziativa
dell'esecutivo,
Molto varia è la disciplina della questione di fiducia. Solo pochi statuti riconoscono tale
prerogativa del presidente della giunta, solitamente limitando la possibilità di porre la
questione di fiducia esclusivamente in ordine a determinati provvedimenti indicati nello
statuto. La gran parte degli statuti non menziona invece la questione di fiducia, e qui il silenzio
dovrebbe significare esclusione: infatti, in questa forma di governo la richiesta di fiducia da
parte del presidente della giunta non può essere considerata un elemento naturale, visto che
tale organo non necessita della fiducia del consiglio. Per quanto riguarda la potestà
regolamentare, soltanto una regione la ha affidata alla giunta, mentre nella gran parte delle
regioni tale funzione è condivisa tra consiglio e giunta.
Il controllo sull'indirizzo politico spetta invece invariabilmente all'assemblea elettiva, in cui sono
rappresentate anche le minoranze. Accanto ai consueti strumenti di controllo già noti al diritto
parlamentare – quali le interrogazioni, le interpellanze, le mozioni – e accanto allo strumento
estremo della mozione di sfiducia, gli statuti hanno previsto ulteriori meccanismi di controllo:
dagli obblighi di comunicazione preventiva a carico dell'esecutivo alla previsione della mozione
di censura individuale contro i singoli assessori, fino all'obbligo del presidente di riferire
annualmente in assemblea sull'attuazione del programma, cui si associa talvolta il potere del
consiglio di verificare l'attuazione dell'indirizzo politico e di approvarne le modifiche.
Una caratterizzazione sintetica dei modelli adottati dalle diverse regioni in senso
«presidenziale» o in senso «parlamentare» risulta difficile, perché negli statuti approvati dopo il
1999 regole o istituti a caratterizzazione parlamentare convivono con altre regole o istituti a
caratterizzazione presidenziale, senza che sia dato riscontrare una prevalenza sistematica delle
une o delle altre. Al più, si può osservare la tendenza, più marcata in certe regioni, a
riequilibrare i rapporti in favore del consiglio, riconoscendogli un ruolo preminente nella fase
della determinazione dell'indirizzo politico e attribuendogli compiti di gestione anche in
relazione all'attuazione dell'indirizzo politico. Tale tendenza a rafforzare la posizione del
consiglio si coglie anche in regioni, come la Lombardia, che per altri versi potenziano il ruolo del
presidente della giunta, visto che tale potenziamento si manifesta nella valorizzazione
dell'organo esecutivo monocratico rispetto alla giunta e non rispetto all'assemblea legislativa.
Se tuttavia si considera che le leggi elettorali - garantiscono alla lista collegata con il presidente
una sicura maggioranza in consiglio, la forma di governo della regione a elezione diretta del
presidente risulta caratterizzata da una netta preminenza politica del presidente della giunta,
praticamente persino maggiore di quella che caratterizza i sistemi presidenziali puri, fondati
sulla separazione tra legislativo ed esecutivo. Né il potere del consiglio di sfiduciare il
presidente forma un reale contrappeso, dato che così facendo il consiglio determina anche la
propria dissoluzione.
Non senza fondamento perciò tale preminenza è stata tradotta nel linguaggio comune
mediante l'uso del termine governatore per indicare il presidente,
Per la forma di governo con elezione del presidente diversa dall'elezione popolare della giunta
la Costituzione non detta vincoli specifici: valgono soltanto quelli generali.
Optando per tale modello, lo statuto si trova a dover risolvere anzitutto due problemi: quello
relativo alle modalità di elezione del presidente della giunta e quello relativo alla risoluzione
delle crisi di giunta.
La prima questione trova soluzione con la previsione dell'elezione consiliare del presidente
della giunta, in quanto non appaiono credibili scelte diverse: i poteri di direzione della politica
della giunta e la conseguente responsabilità (anche sotto il profilo sanzionatorio, ai sensi
dell'art. 126.1 Cost., che contempla un controllo statale su questo organo), nonché la possibilità
di sfiducia diretta contro il presidente della giunta, sono tratti - costituzionalmente
inderogabili - scarsamente compatibili con l'ipotesi di un presidente scelto dalla giunta stessa al
proprio interno, che sarebbe la soluzione meno bizzarra tra le alternative astrattamente
pensabili rispetto all'elezione consiliare.
Lo statuto rimane invece libero di affidare la scelta degli assessori al consiglio
regionale, secondo il modello vigente prima della legge cost. 1/1999, o invece di
attribuire al presidente della giunta il potere di nominare e revocare gli assessori,
come succede invece nella forma di governo con elezione diretta. Peraltro, l'elezione consiliare
degli assessori si armonizza solo con qualche difficoltà con la responsabilità della direzione della
politica della giunta che la Costituzione affida in ogni caso al presidente; tale modalità di
formazione della giunta è comunque prefigurata come possibile - per quello che vale
l'indicazione proveniente da una fonte non competente su questo punto - dalla legge 165/2004,
che ragiona di «elezione», oltre che di «nominas, dei componenti della giunta.
Quanto alle crisi di giunta, si possono ipotizzare diverse soluzioni, più o meno realistiche: a) la
fissazione di un termine entro il quale il consiglio deve esprimere un nuovo presidente della
giunta o una nuova giunta, pena lo scioglimento (secondo il modello che vale per le leggi
statutarie delle regioni speciali nell'ipotesi che esse prevedano l'elezione consiliare
dell'esecutivo e come vorrebbe imporre, nella veste di principio fondamentale che vale per
l'elezione del presidente della giunta e degli assessori, la legge 165/2004); b) l'applicazione
della regola simul simul anche a questa forma di governo; c) l'introduzione della mozione di
sfiducia costruttiva, con previsione che però potrebbe soltanto affiancarsi e non sostituirsi alla
mozione di sfiducia semplice regolata con norma inderogabile dall'art. 126.2 Cost.
IL SISTEMA ELETTORALE
Anche la legislazione elettorale per le regioni è stata interessata nel corso del tempo da radicali
trasformazioni, che hanno toccato sia il sistema delle fonti, sia il sistema elettorale.
Secondo il testo originario della Costituzione il sistema d'elezione, il numero e i casi di
ineleggibilità e di incompatibilità dei consiglieri regionali dovevano essere stabiliti «con legge
della Repubblica», vale dire con legge dello Stato (mentre spettava al consiglio l'elezione del
presidente della giunta e degli assessori).
Meccanismi di incentivo della parità di accesso alle cariche elettive sono stati successivamente
previsti come obbligatori anche dalla legislazione statale di principio, prima in termini molto
generali – attraverso la necessaria «predisposizione di misure che permettano di incentivare
l'accesso del genere sottorappresentato alle cariche elettive» (art. 3 della legge 212/2015, che
ha inserito la lett. c-bis nell'art. 3.1. della legge n. 165/2004) - e poi con la specificazione, ad
opera dell'art. 1 della legge 20/2016, che ha ulteriormente novellato l'art. 3.1 lett.c-bis) della
legge 165/2004, dei meccanismi, in parte già anticipati dalla legislazione regionale, consistenti:
(i) nella prescrizione per cui i candidati dello stesso sesso non possono superare il 60 per cento
del totale e nella previsione della seconda preferenza «di genere», se la legge elettorale
consente l'espressione di preferenza; (ii) nella alternanza tra candidati di sesso diverso, in modo
tale che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del totale, se le liste sono bloccate
e non è possibile il voto di preferenza; (iii) nell'equilibrio tra candidature presentate col
medesimo simbolo, in modo tale che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del
totale, se la legge elettorale prevede seggi uninominali.
La legge 165/2004 ha dettato principi fondamentali molto generali anche in materia di
ineleggibilità e di incompatibilità, mantenendo invece ferme le ipotesi di incandidabilità
previste dalla legge statale per coloro che hanno riportato sentenze di condanna o nei cui
confronti sono state applicate misure di prevenzione.
In tema di ineleggibilità il principio sostanziale stabilito dalla legge 165/2004 è quello che
prescrive la sussistenza di una causa di ineleggibilità «qualora le attività o le funzioni svolte dal
candidato, anche in relazione a peculiari situazioni delle regioni, possano turbare o
condizionare in modo diretto la libera decisione di voto degli elettori ovvero possano violare la
parità di accesso alle cariche elettive rispetto agli altri candidati» (art. 2.1, lett. a).
Un altro principio statuito dal legislatore statale consente poi alla legge regionale di
differenziare la disciplina dell'ineleggibilità in relazione al presidente della giunta regionale e ai
consiglieri regionali.
IL CONSIGLIO REGIONALE
Il consiglio regionale è l'organo deliberativo e rappresentativo della regione.
Il consiglio regionale ha il compito di fissare l'indirizzo politico amministrativo della regione
rappresentando tutti gli interessi generali della collettività di riferimento.
Questo ruolo si sostanzia, in primo luogo, nell’esercizio della funzione legislativa di cui il
consiglio regionale è, per Costituzione, l'organo titolare (art. 121 Cost.: «il Consiglio regionale
esercita le potestà legislative attribuite alla regione»).
Pur nel silenzio della Costituzione, analogamente ai parlamentari nazionali, i consiglieri
regionali operano senza alcun VINCOLO DI MANDATO (cioè parlamentari e consiglieri regionali
svolgono il loro incarico senza obblighi nei confronti di partiti, programmi elettorali o dei cittadini stessi.
L’eletto, quindi, non ha nessun vincolo giuridico nei confronti degli elettori, ma solo una responsabilità
politica).
Si ritiene, infatti, che l'art. 67 Cost., il quale stabilisce che ogni membro del Parlamento esercita
le sue funzioni senza vincolo di mandato, sia applicabile anche ai consiglieri regionali.
Il consiglio regionale è il titolare esclusivo della potestà legislativa. Questo significa che le leggi
regionali devono essere approvate dal consiglio regionale e non potrebbe essere
diversamente.
In quanto organo rappresentativo e deliberativo della regione eletto dal popolo, spetta al
consiglio regionale l’iniziativa legislativa per le leggi statali. Infatti, in base all’art. 121 Cost. il
consiglio regionale può fare proposte di legge alle Camere. Quindi, può provenire dai consigli
regionali la presentazione di un disegno di legge statale.
Inoltre, a norma dell’art. 75 Cost. è indetto referendum abrogativo di una legge o di un atto
avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli
regionali. Quindi, in concorso con altri quattro Consigli regionali, un Consiglio regionale ha il
potere di iniziativa del referendum abrogativo, così come, a norma dell’art. 138 Cost. , del
referendum costituzionale.
I consigli regionali partecipano attraverso dei propri delegati alla elezione del presidente della
Repubblica quindi vanno a sedere integrando il Parlamento in seduta comune per la elezione
del presidente della Repubblica e infine l'articolo 132 della costituzione riconosce al consiglio
regionale il compito di esprimere un parere per le eventuali variazioni territoriali delle regioni
questa la procedura speciale prevista dall articolo 132 della costituzione a dalla dagli statuti nel
caso delle regioni a statuto speciale quindi nelle uno speciale gli stalli sono anche quanti sono i
componenti del consiglio regionale e per esempio in Sicilia non avanzare degli anni 80 in
Trentino Alto Adige sono 70 per quanto riguarda invece le regioni a statuto ordinario prima era
una legge dello Stato ok del 68 del 1968 che stabiliva che fossero 80 i componenti nelle regioni
con più di sei miliardi tanti 66 abitanti erano da sei a 4.000.050 nel caso di popolazione della
regione 40 fino e 30 il numero dei componenti dei consigli regionali nel 1995 quindi in
coincidenza con tutta quella serie di riforme che hanno guardato al riconoscimento di garantire
il riconoscimento di una maggiore autonomia statali alle regioni nel 1995 venne la possibilità
per le regioni di aumentare il numero dei seggi in base a dei meccanismi premiali dell'epoca la
legge della leva e ovviamente l'atto con cui la regione fissa il conto il numero del dei
componenti dei consigli regionali era lo statuto e questa disposizione del 1995 venne poi
confermata quando vi fu la revisione costituzionale del 2001 per cui venne confermata dagli
statuti il numero dei consiglieri e così fu per una decina d'anni più o meno fino a quando non ci
fu il no più vero esattamente fino a quando non vi fu il governo monti se ve lo ricordate il il
governo Monti se ricordate bene e fu un governo appoggiato da una maggioranza parlamentare
il governo squisitamente tecnico appoggiato rabbia parlamentare che ebbe il lo sgradito
compito di introdurre misure molto restrittive sacrifi canti per il popolo perché per consentire
una fuoriuscita da una condizione economica non facile addirittura per la uscita dello dell'Italia
dall'unione europea vi ricordate sono fatti di 10 anni fa sembrano per molti versi anche molto
lontana ma insomma nel 2011 la l'Italia versava in una situazione economica per niente facile
crisi economica per niente per niente semplice e probabilmente legata anche alla gestione del
denaro pubblico forse troppo allegra negli anni precedenti che indusse questo governo di
tecnici che quindi insomma potevano operare senza latte il timore di deludere le gli elettori
industria questo governo nel produrre tutta una serie di misure di spending review cosiddetta
cioè di risparmio di tagli alla spesa pubblica e tra questi tagli ovviamente ci sono le indennità di
carica no evitare cioè organi istituzionali e pletorici cioè composti da il numero eccessivo di
persone che comportano anche un aumento incontrollato dei costi di gestione e allora venne
reintrodotto in un certo senso il numero fisso di componenti dei consigli regionali per le regioni
a statuto ordinario e in particolare l'articolo 14 del decreto legge 138 del 2011 poi convertito in
legge numero 148 del 2011 ha stabilito una riduzione del numero massimo di consiglieri
regionali anche una riduzione del numero dei possibili assessori in giunta nonché una riduzione
degli emolumenti che si possono pagare ai consiglieri regionali che la durata del mandato il
dato creare è uguale per tutti dura 5 anni una delle questioni più dibattute riguarda la possibile
applicazione di un istituto che è quello della proroga o che è un istituto abbastanza diffuso nella
disciplina di molti organi collegiali soprattutto di organi collegiali piano questo questo base
della rappresentatività cioè che sono dunque eletti dal corpo elettorale e per i quali magari i
tempi di insediamento del nuovo del nuovo collegio non sono esattamente certi e allora
soluzioni di continuità soluzioni interruzioni nella continuità dell' operato della istituzione
consiglio regionale nel 1975 circolare del presidente del Consiglio dei ministri successivamente
confermata da lentamente costante della Corte costituzionale nelle stabilito che potesse
applicarsi la proroga e cioè che il consigli regionali da anche oltre il quinquennio fino
all'insediamento del nuovo consiglio regionale eletto e è così infatti delle stabilito che i poteri
venissero prorogati per un periodo che intercorreva tra il quarantacinquesimo giorno
antecedente elezioni e l'insediamento dei nuovi eletti c'è da dire però che durante il periodo di
prorogatio i consiglieri prorogati non possono anzi devono scusate limitano ad adottaresolo.at
necessari urgenti e indifferibili quindi limitarsi alla ordinaria amministrazione e solo per quella
che non può essere rinviata quindi sono atti necessari urgenti e indifferibili va bene per le
regioni a statuto speciale la proroga e ovviamente l'applicazione dei meccanismi di prorogatio e
appannaggio degli statuti jul negli anni più recenti anche gli statuti delle regioni ordinarie
hanno provveduto a introdurre discipline della proroga io e tutte queste disposizioni statutarie
sulla proroga o introdotte dagli statuti ordinari sono state tutte giudicate legittime dalla Corte
costituzionale salvo per un caso anche abbastanza ovvio cioè il caso in cui il consiglio regionale
de cata anche se l'articolo 126 della costituzione cioè decada per l'effetto di un decreto del
presidente della Repubblica che scioglie anticipatamente il consiglio regionale perché ha
compiuto atti contrari e ha compiuto atti contrari alla costituzione o gravi violazioni di legge
evidente che se questo il caso della fine del mandato del consiglio regionale cioè per che il
consiglio regionale ha commesso atti contrari alla costituzione addirittura da spingere il
presidente della Repubblica scioglierlo anticipatamente dai beltrano che gli consenta di
proseguire l'attività sia pure in regime di proroga Lazio fino all'insediamento del nuovo consiglio
ci siamo ragazzi professore idente in quest'ultimo caso di cui ha parlato si è effettivamente mai
verificato si si in questi casi viene nominato un commissario cioè un commissario temporaneo
dire nominato per sostituirsi alla generalmente vari commissario è vale quindi anche per le per i
consiglieri regionali perché lo stabilisce l'articolo 122 al comma quarto si tratta di una forma di
insindacabilità che comporta irresponsabilità sia civile che penale che amministrativa ok quindi
non possono i consiglieri regionali subire i processi che siano civili che stiamo per anch'essi ad
amministrativi per le opinioni espresse EI giudizi dati nell'esercizio delle proprie funzioni e
questo perché altrimenti sarebbero condizionati nell'esercizio del proprio mandato no
condizionati dal timo e di essere sottoposti a processi e contratto nella anche ai a nell applicare
questa disposizione è prevalso l'orientamento della Corte costituzionale che si era diciamo
formato con riguardo all'articolo scusate all'articolo 68 primo comma se ve lo ricordate cosa se
lo ricorda qual era la questione che si pose e che poi fare col quale anche per i consigli regionali
circa la applicazione dell'articolo 68 sulla insindacabilità delle ordine alle spese dei parlamentari
nazionale qual è il problema interrogativo pratico applicativo no lo dico io e capire cosa si
intende per opinare espresse nell'esercizio delle proprie funzioni cioè se il il parlamentare
rimaniamo sulle balle ma ripeto vale anche per i consiglieri regionali se il consigliere regionale
di parlamentare va in una trasmissione televisiva o più banalmente anche forse meglio proprio
attuale fa un post su Facebook EE sì prima esprimere le mie opinioni cosa dobbiamo pensare
che si applica la insindacabilità o dobbiamo pensare che l'attività di posso fare posto su
Facebook con intervista rilasciata in televisione non sia non possa considerarsi esercizio delle
proprie funzioni non ricordate questa questione secondo me si considera esercizio delle proprie
funzioni Roberto e l'attività che io svolgo in aula per esempio durante una seduta del consiglio
regionale quella della camera del Senato cui io partecipo ma esercizio delle proprie funzioni e
anche l'attività che da parlamentare e da consigliere regionale svolgo fuori dall' aula perché
invitato a una trasmissione televisiva o perché esprimo delle idee sulla mia pagina personale di
Facebook piuttosto che di un altro social network ok bene quindi fin qua del tutta a una totale
analogia tra il parlamentare e il consigliere regionale le cose invece differiscono con riferimento
a gli altri due commi dell'articolo 68 68 riguarda il Parlamento nazionale se ricordate cosa
stabiliva per i parlamentari l'articolo 68 ricorderete che il primo comma riguarda la sindacabilità
fermati il secondo il terzo gomma invece riguarda quella che più tecnicamente viene chiamata
la immunità parlamentare cioè la possibilità di non essere sottoposti a perquisizione personale
e domiciliare non essere arrestati non essere privati della libertà personale non essere
mantenuti in detenzione e e non essere intercettati telefonicamente no telefonicamente ormai
anche insomma qualsiasi tipo di intercettazione elettronica e tutte queste sono cose che di cui
gode il parlamentare come immunità e vi ricordate la costituzione cosa dice a riguardo il
parlamentare può essere arrestato si o no bisogna siamo Caterina Caterina può essere arrestato
soltanto in alcuni casi e in caso di flagranza del reato pium uhm non si paga il caso se non se
non la ricorda sei stato condannato in via definitiva c'è una sentenza irrevocabile ok però e tolti
questi due casi proprio gravissimi in tutti gli altri casi per tutti i reati cioè flagranza di reato
oppure tu sai perfettamente che anche se non c'è una sentenza definitiva è possibile essere
oggetto di misure cautelari di detenzione o di arresti domiciliari beh questo è possibile quindi
perico parlamentari o no no e vai o no però precisando qualcosa zoom non non cioè non non
non ricordo ecco se c'è Andrea no in realtà non ricordo no non è possibile procedere alla alla
all' arresto piuttosto che ad altro se ci vuole l'autorizzazione da parte delle camere prima di se
vuoi la Gori azione della commissione parlamentare di riferimento un bene quindi in un certo
senso c'è questa garanzia di tutela che presidente il Parlamento deve autorizzare l'arresto no e
lo stesso vale per le intercettazioni telefoniche o elettroniche queste garanzie che sono articolo
68 secondo e terzo comma non si non ci sono per il consigliere regionale quindi c'è il consigliere
regionale se ne va solo col primo comma dell'articolo 68 che poi espressamente prevista regola
l'articolo 122 che stiamo esaminando non si applica invece nella la uno non ho capito bene
quindi l'immunità parlamentare per il consigliere regionale non si applica ma questo no perché
l'immunità e parlamentare hai capito nel senso non mi dai sempre per la insindacabilità delle
opinioni l'articolo 122 della costituzione sui consiglieri regionali ti fa una regola tale e quale alla
68 primo comma di parlamentari per quanto riguarda la immunità articolo 68 secondo e terzo
comma per i parlamentari non c'è una norma di questo tipo per i consiglieri regionali sono stato
chiaro no anche qui ci viene in aiuto il parallelismo con il Parlamento perché penso che
ricorderete che quando abbiamo studiato diritto pubblico abbiamo studiato la peculiarità delle
fonti regolamenti parlamentari ricordate chi mi sa dire qualcosa sui regolamenti parlamentari
cosa sono e come si inquadrano nel contesto delle fonti del diritto ragazzi debolucci sul diritto
pubblico vedo e non va bene perché io parlando veramente della delle basi per un studente di
Scienze le pubbliche amministrazioni cioè la soluzione in pratica i regolamenti parlamentari
sono approvati da ciascuna camera autonomamente quindi mentre le leggi dello Stato come
sapete sono frutto della lettura condivisa delle due non il Parlamento solo nel caso dei
regolamenti parlamentari abbiamo un testo normativo che ha valore di fonte di rango primario
siamo del Parlamento Ue ok bene sto ricordando quello che dovreste ricordare voi dal pubblico
e sono approvati ciascuno naturalmente dalla camera quindi di riferimento quindi la Camera dei
deputati approva il regolamento del deputati il Senato della Repubblica approva il regolamento
del Senato cosa c'è scritto nei regolamenti i regolamenti servono a disciplinare l'organizzazione
dei lavori il funzionamento delle camere ciascuna camera col proprio regolamento per esempio
nei regolamenti troviamo parlamentari sempre stiamo parlando troviamo la disciplina puntuale
del varie forme di procedimento legislativo vi ricordate il procedimento con commissione in
sede redigente in sede referente in sede deliberante ve le ricordate queste cose ecco la
disciplina la troviamo nel e nei regolamenti parlamentari analogamente quindi ora ricordato
quanto avevamo studiato in pubblico per quanto riguarda il Parlamento andiamo al consiglio il
consiglio regionale analogamente a quanto accade per i parlamentari Parlamento nazionale ha
il potere di approvare un proprio regolamento interno volto a disciplinare l'organizzazione del
dei lavori del consiglio le diverse procedure i rapporti con gli altri organi regionali Paul i primi
statuti addirittura prevedevano che tali regolamenti dovessero trovare l'approvazione a
maggioranza assoluta tu tei i regolamenti sono consiliari sono espressione della autonomia
organizzativa del consiglio regionale e quindi non possono essere modificati con una legge
regionale diciamo che il rapporto tra tra fonti regolamento consiliare e legge regionale è un
rapporto di competenza il regolamento ha una specifica competenza che lo rende l'unica fonte
di riferimento su quelle tematiche ok il criterio per cogliere i rapporti tra i regolamenti consiliari
e le leggi regionali e il criterio della competenza non il criterio della gerarchia e allora
concludiamo con con questa slide che mette in evidenza una riflessione che la Corte
costituzionale ha più volte affrontato cioè il famoso parallelismo tra il consiglio regionale il
Parlamento no perché fino a ora sembrerebbe che il consiglio regionale sia una sorta di mini
Parlamento nella regione anche per tutte le regole che abbiamo enucleato che abbiamo
commentato fino a ora regolamenti guarentigie proroga joueur altro cielo fanno molto
assomigliare al Parlamento ecco però la Corte costituzionale in più occasioni ci ha messo in
guardia dalla creare un automatico parallelismo tra consiglio regionale e Parlamento perché e
quindi ho messo il virgolettato delle sentenze diversamente dalle camere le attribuzioni dei
consigli regionali costituiscono una esplicazione di una autonomia tutelata dalla costituzione
ma non una sovranità che quindi più le camere del Parlamento rimangono essenzialmente delle
assemblee legislative e quelle poche funzioni amministrative che svolgono sono una eccezione
perché vige invece il principio della separazione dei poteri che pretende l'affidamento dei
potere esecutivo al governo il potere legislativo alle camere in maniera rigida con una profonda
e netta separazione invece come sapete il consiglio regionale al netto ovviamente del potere
legislativo ha e può avere questo dipende dai singoli statuti un ampio ventaglio di funzioni
amministrative ok EE questo è confermato appunto dalla genericità la formula altre funzioni
che troviamo all'articolo 121 comma
Il chiare abbiamo detto che un ipotesi fisiologica è che dopo 5 anni dall' insediamento il
consiglio regionale esaurisca il proprio mandato e dunque scada come si suol dire in maniera
naturale cioè dopo 5 anni dalla mediamente va bene però è possibile anche che si verifichi no
due casi di scioglimento anticipato cioè prima dei 5 anni va bene prima dei 5 anni uno
scioglimento anticipato rispetto alla scadenza naturale queste due ipotesi di scioglimento
anticipato sono riconducibile allo scioglimento sanzionatorio e allo scioglimento funzionale
parliamo del primo caso di scioglimento sanzionatorio è disciplinato dall articolo della nostra
costituzione numero 126 l'ho già citato poc anzi quando parlato della proroga io ora ci
soffermiamo in maniera più precisa su questa casistica questo caso riguarda l'ipotesi in cui il
presidente della Repubblica con un proprio decreto un decreto motivato ecco attenzione
decreto motivato quindi è bene che questo decreto spieghi le ragioni di questo scioglimento
anticipato bene il presidente della Repubblica può disporre lo scioglimento del consiglio
regionale e quindi anche la consegna contestuale rimozione del presidente della giunta quando
quando essi abbiano compiuto atti contrari alla costituzione o gravi violazioni di legge questo è
il primo comma dell'articolo 126 il primo periodo la prima frase perché poi il primo comma di
questa norma prosegue e stabilisce che lo scioglimento della rimozione possono altresì quindi
altre ragioni essere disposti per ragioni di sicurezza nazionale quindi la sicurezza nazionale è un
elemento che può indurre il le ragioni di sicurezza nazionale sono elementi che possono indurre
il presidente della Repubblica a ricorrere allo scioglimento anticipato di un consiglio regionale
anche se non non vi sono e non vengono accertati atti contrari alla costituzione o gravi
violazioni di legge comunque entrambi i casi siamo in presenza di una palese e ipotesi di
supremazia statale sul sulle regioni più lo stato attraverso il ruolo terzo e di garanzia della più
del rispetto della costruzione del presidente della Repubblica ha il potere di anticipare lo
scioglimento di un consiglio regionale in nome dell' esigenza di sanzionare atti contrari alla
costituzione o gravi violazioni di legge imputabile al consiglio regionale o in nome delle esigenze
di tutela della unità dello Stato vi ricordate che quando ho parlato dei principi che regolano il
diritto regionale ho citato il principio di unità e indivisibilità della Repubblica che va poi però
conciliato con il principio della autonomia no delle regioni e anche degli enti locali ecco questa
è una tipizzazione se vogliamo una in quei casi in cui la costituzione che trova l'equilibrio tra
questi due principi individuando nell ipotesi di contrarietà alla posti di atti contrari alla
costituzione o gravi violazioni di legge nonché in esigenze di tutela dell'unità e della sicurezza
nazionale dei casi in cui la esigenza di unità prevale sulla tutela dell autonomia ok ma proprio
perché si tratta di situazioni eccezionali situazioni diciamo che comportano un sacrificio
evidente della dell'autonomia regionale tra l'altro con scioglimento anticipato di un organo
eletto dal Popolo della regione proprio per questo motivo la la Corte costituzionale ha più volte
ribadito che la disposizione dell'articolo 122 che stiamo esaminando 126 chiedo scusa ri stiamo
esaminando e delle trovare un applicazione restrittiva rigida ecco non si può andare oltre la
lettera della della della norma costituzionale male aggiungo anche che recentemente e faccio
riferimento sempre al periodo del governo Monti la legislazione nazionale quindi non la
costituzione ma la legge dello Stato ha tipizzato cioè ha individuato qualificato specificato
alcune ipotesi di gravi violazioni di legge ai sensi dell'articolo 126 cioè ha individuato alcuni casi
che rientrano pacificamente per espressa previsione legislativa nelle gravi violazioni di legge e
su questo la Corte costituzionale non ha battuto ciglio va bene quando sono in particolare mi
riferisco a due ipotesi una è prevista e se ci fate caso fanno riferimento entrambi alle esigenze
di contenimento della spesa pubblica perché una è disciplinata da quel decreto legislativo 149
del 2011 che ho già citato e cioè l'ipotesi di grave il sesto finanziario causato dal disavanzo
sanitario praticamente le regioni come penso sappiate anche per esperienza diciamo personale
da cittadini le regioni hanno tra le principali funzioni che tutto tra le funzioni che implicano
diciamo che impegnano per lo per la grossa parte il bilancio regionale la gestione della salute
pubblica la gestione della sanità non della salute della sanità cioè l'organizzazione dei servizi
sanitari ecco questo è uno di quegli anni sui quali più che in altri si sono determinati anche degli
sprechi delle cattive gestioni dal punto di vista economico in quel periodo in cui il governo
Monti ha dovuto farsi promotore di riforme tutte approvate dal Parlamento e non è che fossero
misure governative si trattava di misure proposte dal governo ma che hanno trovato
ovviamente consenso in aula nelle aule parlamentari perché era un momento delicatissimo per
il nostro paese bene è stato introdotto questa norma che appunto di riconduce alle gravi
violazioni di legge l'ipotesi di un grane dissesto finanziario nella regione imputabile a al
disavanzo sanitario molto spesso le regioni per garantire il finanziamento dell organizzazione
della sanità hanno fatto un ricorso al debito ecco quando si è verificato un si verifica un'ipotesi
di dissesto finanziario per eccessivi debiti imputabile alla gestione sanitaria e il ricorre una di
quelle ipotesi tipizzate per legge in cui il presidente della Repubblica può sciogliere
anticipatamente il consiglio regionale un'altra ipotesi invece la perdurante inerzia nel
recepimento delle regole dei principi di coordinamento della finanza pubblica finalizzata a
ridurre i costi della politica anche questo questo la norma del 2012 anche questa norma è
diciamo strettamente connessa alle esigenze di contenimento della spesa pubblica quindi si
sono introdotte in quegli anni delle misure che si inseriscono nella canale diciamo del istituto
dello scioglimento scioglimento sanzionatorio disciplinato dalla costituzione però con queste
leggi si sono specificati meglio dei casi in cui queste gravi violazioni di legge ricorrono e si è data
loro una copertura legislativa ok posso andare avanti bene andiamo avanti e parliamo hotel
della procedura con cui il presidente della della Repubblica può disporre questo scioglimento
sanzionatorio è importante perché come avete studiato in diritto amministrativo ogni qual volta
una amministrazione pubblica o addirittura un potere dello Stato come in questo caso il
presidente della Repubblica esercita un potere sanzionatorio assume grande rilevanza la tutela
no procedimentale che deve essere assicurata al destinatario della misura sanzionatoria in
questo caso il consiglio regionale a tal fine la costituzione nel rispetto proprio di questi principi
generali che riguardano tutte le i casi di esercizio di potestà sanzionatoria stabilisce che il
decreto del presidente della Repubblica deve essere adottato dopo aver dato deve essere
motivato ecco questo è ben precisato e poi deve essere adottato dopo avere sentito la
commissione bicamerale cioè una commissione che mette insieme membri dell'una e dell'altra
camera del Parlamento della Repubblica italiana una commissione bicamerale che si occupa di
questioni regionali ok quindi un espressa procedimentalizzazione della della della della del
decreto del del del processo attraverso il quale viene non sono scioglimento e andiamo all'altra
ipotesi di scioglimento anticipato del consiglio regionale che fa riferimento a un ipotesi diversa
da quelle che abbiamo realizzato finora cioè non un ipotesi di sanzionatoria ma semplicemente
uno scioglimento anticipato come funziona dire funzionale anche questo in un certo senso
fisiologico che è strettamente legato alla alle ipotesi della operatività della clausola simul
stabunt simul cadent di cui parlavo alla scorsa lezione cioè l'idea di garantire e di legare il
destino del consiglio al destino del presidente e della giunta regionale dal tè che andiamo a
guardare la norma di riferimento che è sempre il 126 al secondo comma dice cioè il consiglio
regionale può sfiduciare prendo il presidente della giunta con una mozione motivata
sottoscritta almeno 1/5 dei conti dei componenti e approvata per appello nominale con la
maggioranza assoluta la colazione può essere messa in discussione non prima dei tre giorni
dalla sua presentazione ma la norma che ci interessa in questo momento è l'articolo successivo
perché finora abbiamo parlato di scioglimento del consiglio anzi abbiamo parlato di sfiducia del
Consiglio dei confronti del presidente bene la il terzo comma dell'articolo 126 stabilisce sella a
approvazione e se la sfiducia chiedo scusa e approvata non che non tutti i casi di rimozione
impedimento permanente morte e dimissioni volontarie del presidente in tutti questi casi non
solo si determinò e di dimissioni della giunta e fin qua diciamo è abbastanza ovvio lo vedremo
la giunta è nominata dal presidente se viene meno il presidente vengono meno anche i suoi
assessori della giunta ma si verifica anche lo scioglimento del consiglio altra ipotesi sempre di
scioglimento anticipato del consiglio sia se a prescindere quindi dalle sfiducie cioè la
maggioranza dei componenti del consiglio contestualmente insieme decidono di dimettersi il
consiglio se ne va a casa per intero scusate mi scusi il telefono ed è un numero privato non
vorrei che sia una cosa importante perdonatemi pronto sì ma Dora dunque stavo dicendo dello
scioglimento funzionale disposto dunque in caso di dimissioni volontarie morte impedimento
del presidente o anche in caso di sfiducia oppure dimissioni contestuali della maggioranza dei
consiglieri tra l'altro queste cause di cedimento funzionale possono anche essere arricchite
integrate a livello di statuto regionale ma cioè statisticamente non succede già questi sono
sufficientemente anche e difficilmente gli statuti ne prevedono ulteriori ok avanti vediamo
come è organizzato il lavoro del consiglio regionale perché il consiglio regionale al suo interno
ha degli altri organi che consentono al consiglio regionale di svolgere le proprie attività anche
qui chi di voi ha memoria migliore diciamo del diritto pubblico studiato a primo anno si troverà
maggiormente a suo agio perché vedrete gli organi interni del consiglio ricalcano
fondamentalmente gli organi interni delle camere nazionali al Parlamento e infatti abbiamo i
gruppi consiliari mentre voi sarete al Parlamento abbiano i gruppi parlamentari il presidente del
consiglio regionale l'ufficio di presidenza la commissioni e per volta anche le giunte andiamo
per ordine e poi direi che ci fermiamo qua gruppi consiliari allora i gruppi consiliari tutti consigli
regionali sono articolati in generalmente due o più gruppi che aggregati che aggregano scusate i
componenti facenti parte della stessa area politica degli lo stesso partito dello stesso della
stessa coalizione se per esempio sono stati eletti tramite una coalizione questo che cosa serve il
gruppo se in fondo abbiamo detto che una volta che entri in consiglio non hai il vincolo di
mandato se il consigliere di tutta la regione non è che sei il consigliere per quell area politica
per quei cittadini che afferiscono a quell area politica servono per garantire l'espressione dei
valori a insiti nel programma elettorale scusatemi pronto non risponde allora dicevamo la i
gruppi consiliari quindi servono a dar voce alle posizioni dei programmi elettorali alle posizioni
ideologiche dei partiti rappresentati all'interno del consiglio d le consiglio regionale dare questa
voce portare questa voce nell ambito del consiglio regionale EE ora infatti vediamo che ruolo
assumono i gruppi allora i gruppi hanno un grande rilievo nella composizione delle commissioni
le commissioni ora poi vedremo che cosa sono però le commissioni sono composte garantendo
al proprio interno un equilibrata distribuzione e un equilibrata rappresentanza di tutti i gruppi
quindi cioè scura non missione che come vedremo sono degli organi operativi all'interno della
consiglio regionale esprime al proprio interno i gruppi parlamentari cioè si cerca di mantenere
anche all'interno delle commissioni quel gioco maggioranza opposizione e proprio dell'aula
generale consiglio regionale e questo è possibile solo se esistono dei gruppi cioè EI consiglieri
regionali sono aggregati nei diversi gruppi e si pesca da ciascun gruppo uno più componenti per
comporre le commissioni ha inoltre c'è un problema legato anche alla organizzazione dei lavori
del consiglio regionale cioè che ne so di che cosa ci occupiamo prima di che cosa ci occupiamo
dopo cose più urgenti e cose meno urgenti lo stabilisce lo vedremo il presidente del consiglio
regionale con l'ufficio di presidenza stabiliscono un po l'ordine dei lavori ma nel ballo e si
devono sentire quindi ascoltare la posizione della cosiddetta conferenza dei capigruppo cioè
non tutti i gruppi perché significherebbe ovviamente e perdersi a parlare con tutti ma ascoltare
la conferenza dei capigruppo la conferenza che Harry gruppo mette insieme un esponente di
ciascun gruppo quindi ragionevolmente 4 5 persone risiede allora anzi bisogna parlare di questo
ma sull ente no e questo è più importante se tutti i gruppi spingono per una determinata
questione come una questione prioritaria rispetto alle altre il presidente l'ufficio di presidenza
nell organizzare i lavori del consiglio ovviamente dentro la tener conto giusto i gruppi
parlamentari devono vivere che vuol dire devono avere del personale a loro dedicato devono
occupano uso del telefono usano internet spendono quindi devono avere delle piccole o grandi
risorse economiche per sopravvivere la storia della politica soprattutto regionale ma anche
locale ci insegna La storia recente ci insegna che anche nella gestione dei gruppi all'interno dei
consigli regionali si è fatto non serve un buon lavoro cioè non si è sempre ecco fatto una buona
economia a man contrario si sono maturati dei grossi spero freghi anche qui mi appello a chi di
voi segue un po il dibattito pubblico telegiornali notizie insomma penso che tutti ricorderete le
spese di certi gruppi dei certi gruppi consiliari spese anche difficilmente riconducibili all'attività
istituzionale spese folli per cene per pranzi per feste per regali regali e di ogni genere tipo
quando è arrivato sempre lui il collega direttore Monti che ha dovuto in quattro e 4 8 farà
trovare i vari norma norme di legge per tagliare le spese e limitare fortemente spese anche
inutili o poco riconducibili alle attività istituzionali ha puntato anche alla introdurre una serie di
limiti alle spese dei gruppi consiliari delle regioni e infatti ha stabilito che pur nel rispetto dell
autonomia dei gruppi perché capite bene che se io introduco dall'alto molte regole che vanno a
limitare l'azione dei gruppi praticamente sti gruppi tanto vale che manco ci sono cioè in gruppi
se lavorano bene devono essere liberi di operare se io gli impongo molti limiti alla fine gli tolgo
la loro funzione che è quella di portare dentro le istituzioni i valori della politica quindi come si
è trovato una o diciamo un compromesso si è riconosciuta per un verso confermato l'
autonomia di azione dei gruppi all'interno delle istituzioni e consiliari ma è stato introdotto per
la prima volta nel 2012 l'obbligo de di una contabilità più precisa e quindi soprattutto l'obbligo
del rendiconto per cui ogni anno devono rendicontare puntualmente le spese svolte e anche il
controllo della Corte dei conti va bene controlla Corte dei Conti come avete studiato in diritto
amministrativo controllo esercitato su tutti gli atti adottati dalle amministrazioni dello Stato va
bene ecco questo controllo è stato esteso anche alla tutti gli atti di scuse che comportano una
spesa ok ecco questo a Este controllo della Corte dei conti è stato esteso anche alle azioni alle
attività rendicontate dai gruppi dei consigli regionali va bene e allora io direi che ci vediamo
mercoledì per completare senz'altro la parte sulla sul consiglio regionale desidererei anche di
iniziare EA la A parlare di giunta e presidente della giunta diciamo che l' inquadramento del
consiglio aiuta poi a inserire il discorso sulla giunta sul presidente della giunta quindi questa è la
parte più pesante relativa agli organi delle regioni ci sono domande ragazzi dubbi io ti chiedo
scusa di questa fine anticipata ma appunto il direttore ha convocati per una commissione alle
12:45 e io entro un po di fretta per davanti e non ha fatto menzione tra le cose discernimento
senatore e stanziamento funzionale di un infezione mafiose questo perché non è un
motivazione motivazione valida oppure si è una motivazione valida e rientra comunque nella
macro casistica sei la violazione per delle gravi violazioni di leggi degli atti contrari alla
costituzione quella della per infiltrazioni mafiose anche lei va bene a mercoledì arrivederci
La giurisprudenza costituzionale ha altresì sottolineato l'esigenza che lo statuto ponga limiti alla
attività dell'assemblea legislativa nel periodo elettorale, dopo la convocazione dei comizi,
sempre in vista dell'esigenza di assicurare una competizione elettorale libera e trasparente, non
alterata da interventi legislativi che possano essere interpretati come captatio benevolentiae
nei confronti degli elettori (sent. 184/2014). La Corte ha affermato anche che per le regioni
ordinarie, in assenza di regole statutarie, continua ad applicarsi sussidiariamente la
regola della prescadenza, fissata dall'art. 3.2 della legge 106/1968 al 46° giorno antecedente
alla data delle elezioni, con la connessa attenuazione dei poteri.
La legislatura consiliare può cessare, oltre che in modo fisiologico per scadenza naturale
decorso il quinquennio di durata fissato dalla legge statale, anche in modo patologico, in
seguito a uno scioglimento anticipato.
La Costituzione regola due tipologie di scioglimento del consiglio regionale: lo scioglimento
sanzionatorio e lo scioglimento funzionale.
Lo scioglimento sanzionatorio rappresenta, insieme alla rimozione sanzionatoria del presidente
della giunta regionale, una forma di controllo statale sugli organi della regione, ed è previsto o
per l'ipotesi in cui il consiglio si renda responsabile di atti contrari alla Costituzione o di gravi
violazioni di legge (art. 126.1, primo periodo Cost.); oppure per ragioni di sicurezza nazionale
(art. 126.1, secondo periodo Cost.), le quali possono essere oggettive e prescindere da
comportamenti imputabili agli organi regionali.
Trattasi di uno strumento straordinario che nella prassi non è mai stato utilizzato, né mai
seriamente preso in considerazione. Ciononostante, esso rappresenta uno degli istituti di
supremazia dello Stato e di garanzia dell'unità dell'ordinamento, che potrebbe essere attivato
in situazioni eccezionali. Proprio la straordinarietà dello strumento, unitamente al fatto che
esso incide dall'esterno su un organo dotato di legittimazione democratica diretta, induce a
leggere in termini molto restrittivi le fattispecie di scioglimento, che devono tutte essere
qualificate in termini di speciale gravità.
La legislazione recente ha tipizzato determinate fattispecie qualificate come «gravi violazioni di
legge», quali il grave dissesto finanziario causato dal disavanzo sanitario (art. 2 del d.lgs.
149/2011) o la perdurante inerzia nel recepimento dei principi di coordinamento della finanza
pubblica sulla riduzione dei costi della politica (art. 2.5 d.-1. 174/2012).
La Corte ha ritenuto che questa specificazione rappresentasse una ipotesi di attuazione della
Costituzione per mezzo della legge ordinaria e fosse coerente con il principio di legalità; ma ha
precisato che tale concretizzazione non giustifica di per sé l'automatico esercizio dei poteri di
scioglimento o di rimozione sanzionatori dello Stato, dovendo tale sanzione passare
necessariamente per una valutazione in concreto, caso per caso, circa la gravità degli effetti
della violazione (sent. 219/2013).
L'art. 126 Cost. prevede che il provvedimento di scioglimento sia adottato con decreto motivato
del presidente della Repubblica, sentita la Commissione bicamerale per le questioni regionali.
La sent. 219/2017 ha dichiarato illegittime le norme dell'art. 2.2 del d.lgs. 149/2011, le quali
richiedevano che tale parere fosse espresso con maggioranza dei due terzi dei componenti della
Commissione, che attribuivano a tale parere efficacia vincolante, e che affidavano alla Corte dei
conti la funzione di accertare la responsabilità dolosa o gravemente colposa del presidente
della giunta regionale in vista della rimozione sanzionatoria determinata dalla ipotesi di grave
dissesto finanziario in relazione al disavanzo sanitario.
Mentre dovrebbe essere ormai pacifico che l'atto di scioglimento sanzionatorio (o di rimozione
sanzionatoria) non è un atto di iniziativa presidenziale - come è confermato anche dall'art. 51
della legge 627/1953 e dall'art. 2 della legge 400/1988 che ne affida l'iniziativa al Consiglio dei
ministri - si discute se l'intervento del capo dello Stato sia paritetico - e quindi se sia in presenza
di un atto complesso uguale - o se invece sia limitato al consueto controllo di legittimità sugli
atti di iniziativa governativa. Le ragioni a sostegno della prima tesi si fondano essenzialmente
sulle esigenze di garanzia dell'autonomia regionale, in ipotesi meglio tutelate dalla necessità
che l'atto di scioglimento dell'assemblea sia sorretto anche dalla volontà del presidente della
Repubblica; a supporto della seconda tesi si richiama la regola generale che vuole gli atti del
presidente della Repubblica decisi dall'organo dell'esecutivo che ne assume la responsabilità,
tanto più che l'autonomia regionale pare sufficientemente tutelata dal coinvolgimento
della Commissione bicamerale per le questioni regionali e, soprattutto, dalla possibilità del
controllo della Corte costituzionale sull'atto, impugnabile dalla regione con il conflitto di
attribuzione. Inoltre, stanti l'alta politicità dell'atto di scioglimento sanzionatorio (e dell'analoga
rimozione sanzionatoria prevista nelle stesse ipotesi nei confronti del presidente della giunta) e
il rilievo degli interessi che tali misure vanno a tutelare, l'idea che un organo irresponsabile
potesse paralizzare l'esercizio di questo potere poteva apparire poco congruente con i principi
costituzionali in materia di forma di governo.
Nemmeno dalla giurisprudenza costituzionale possono ricavarsi indicazioni dirimenti, giacché la
sent. 219/2013 da un lato ha ribadito il carattere determinante del ruolo del governo, già
sottolineato in precedenza dalla sent. 101/1966 [nel senso dell'atto sostanzialmente
governativo propende ancora Albanesi 2013, 1160); dall'altro, ha enfatizzato il significato della
partecipazione non formale del capo dello Stato, che interviene nella propria veste di
rappresentante e garante dell'unità nazionale, intesa non solo come unità territoriale dello
Stato, ma anche come coesione e armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che
compongono l'assetto costituzionale della Repubblica, e che «attraverso la motivazione del
decreto di scioglimento e rimozione, si risolve a ritenere soccombente l'istanza territoriale, che
di tale unità è parte costitutiva, a fronte delle esigenze della Repubblica compromesse dalle
azioni, od omissioni, illegittime degli organi di governo regionali».
Quanto allo scioglimento funzionale, vale a dire allo scioglimento dell'assemblea legislativa
disposto per riattivare tramite nuove elezioni il circuito dell'indirizzo politico, si sono già
ricordate le due ipotesi contemplate dall'art. 126.3 Cost.: la prima, innescata dalle dimissioni
volontarie, dalla morte, dall'impedimento permanente del presidente della giunta o dalla
sfiducia nei confronti dello stesso, vale obbligatoriamente solo nella forma di governo
con elezione popolare del presidente; la seconda, di applicazione necessaria in tutte le forme di
governo, consiste nelle dimissioni contestuali (vale a dire dimissioni rese, se non
simultaneamente, almeno in un contesto unificato da una concordanza di intenti) della
maggioranza dei consiglieri assegnati all'organo.
Nel vigore del vecchio art. 126 Cost. si riteneva che pure le cause di scioglimento funzionale
fossero tassative, anche perché lo scioglimento del consiglio era procedimentalizzato in
maniera unitaria e il relativo provvedimento attribuito alla competenza di organi statali.
Oggi le cause di scioglimento funzionale possono invece essere arricchite dallo statuto
regionale, il quale potrebbe - per fare un esempio - reintrodurre l'impossibilità di
funzionamento per incapacità del consiglio di formare una maggioranza (così disponeva l'art.
126.2 Cost.) come causa di scioglimento in una forma di governo con elezione consiliare del
presidente della giunta: e si è già visto che l'art. 4.1, lett. c), della legge 165/2004
pretenderebbe di imporre alle regioni, in tale forma di governo, la fissazione di un termine
temporale tassativo non superiore a novanta giorni per l’elezione del presidente e per
l'elezione o la nomina degli altri componenti della giunta (il che potrebbe significare previsione
implicita di una causa di scioglimento funzionale per il consiglio che entro il predetto termine
non riesca a esprimere una giunta).
In assenza di previsioni espresse (quali l'art. 13.2 St. Tosc., per cui la cessazione degli organi
regionali, nei casi previsti dalla Costituzione e dallo statuto, è proclamata dal presidente del
consiglio regionale), la competenza a dichiarare lo scioglimento funzionale spetta all'organo
competente a convocare i comizi elettorali: e quindi al presidente della giunta regionale, nelle
regioni che hanno attribuito a tale organo questa competenza; nelle altre regioni, al
rappresentante del governo per i rapporti con il sistema delle autonomie, cui l'art. 10.2, lett. A),
della legge 131/2003 affida l'indizione delle elezioni regionali «fino alla data di entrata in vigore
di diversa previsione contenuta negli statuti e nelle leggi regionali».
Al pari delle assemblee parlamentari, il consiglio regionale gode di un'autonomia
costituzionalmente garantita, la quale si esplica, anzitutto, attraverso l'organizzazione dei
propri lavori sulla base di un regolamento interno.
Il regolamento consiliare è previsto da tutti gli statuti regionali che normalmente richiedono,
per la sua approvazione, almeno la maggioranza assoluta.
Tale atto, che va a integrare la disciplina contenuta nello statuto regionale, a differenza dei
regolamenti interni delle camere un diretto fondamento nella Costituzione, la quale si
disinteressa dell'organizzazione interna del consiglio regionale salvo che per la previsione
dell'art. 122.3 Cost., ai sensi della quale l'assemblea elegge al suo interno un presidente e un
ufficio di presidenza.
La mancata menzione in Costituzione fa sì che al regolamento interno debba negarsi sia una
competenza riservata opponibile allo statuto, che sarebbe libero di disciplinare anche il
dettaglio dell'organizzazione interna del consiglio, sia la natura di atto con forza di legge, punto
sul quale la Corte costituzionale aveva mostrato qualche incertezza (vedi la sent. 18/1970, che
aveva ipotizzato l'impugnazione del regolamento interno del consiglio nei termini di una
comune legge regionale nel caso in cui il consiglio avesse utilizzato la forma regolamentare allo
scopo di sottrarre la delibera ai controlli costituzionalmente stabiliti per le leggi regionali) ma
che oggi pare definitivamente acquisito sia nella giurisprudenza costituzionale (sent. 288/1987,
che dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal governo contro
il regolamento interno del consiglio provinciale di Trento, regolamento che pure è menzionato
dallo statuto speciale), sia nella giurisprudenza amministrativa, che ritiene sindacabili i
regolamenti interni trattandoli come atti formalmente amministrativi (TAR Lazio - Roma, sent.
10132/2002; Consiglio di Stato, dec. 6770/2003).
Tuttavia, la posizione del regolamento interno del consiglio regionale è peculiare, perché esso è
immediatamente subordinato allo statuto regionale e, rispetto alla legge regionale ordinaria, si
trova in posizione di separazione di competenza per effetto di una scelta statutaria in tal senso.
Concettualmente è difficile comprendere come il regolamento consiliare possa godere di una
competenza riservata rispetto alla legge regionale, se è vero che in linea di principio lo statuto
non può istituire riserve di regolamento (vedi poi). La spiegazione di questa apparente
contraddizione si trova nella constatazione che il regolamento interno, a ben vedere, va a
disciplinare oggetti che sono affidati non alla legge regionale ordinaria, ma allo statuto; e
poiché tali oggetti sono riservati allo statuto solo in via relativa, il legislatore statutario può
disporne almeno in parte, e può quindi sottrarre la disciplina integrativa di questi oggetti al
dominio delle leggi per lasciarla ad altra fonte, quale il regolamento interno (dovendosi però
tenere conto anche della riserva di cui all'art. 97 Cost., per quanto riguarda l'organizzazione
degli uffici, riserva che è comunque solo relativa e consente quindi una normazione a carattere
integrativo dettata dal regolamento interno: così Corte cost. 88/1989).
Questa giustificazione teorica è integrata da altri due argomenti. In primo luogo, sul piano
sostanziale va rimarcato che comunque il consiglio, rimettendo al regolamento interno parte
della disciplina riferita alla propria organizzazione, non viene a spogliarsi di competenze
normative, come invece accadrebbe se lo statuto prevedesse riserve a favore dei regolamenti
dell'esecutivo. In secondo luogo, la potestà di autorganizzazione, esercitata mediante
regolamenti interni, è una potestà tradizionalmente implicita nell'autonomia di cui godono le
assemblee legislative e costituzionalmente riconosciuta, alle camere, dall'art. 64.1 Cost.: quindi
la configurazione di una riserva di regolamento interno è conforme a un principio costituzionale
generale.
Peraltro, va anche detto che nel caso del consiglio regionale nessuna ragione logica si
opporrebbe a una disciplina con legge dei profili attinenti all'organizzazione interna, visto che a
differenza del Parlamento siamo in presenza di un organo legislativo monocamerale, e quindi la
legge regionale soddisferebbe egualmente l'esigenza di garantire l'autonomia dell'assemblea.
Non a caso ci sono regioni, quali ad esempio l'Umbria, in cui il regolamento consiliare è
stato in passato approvato con legge regionale (e in un'occasione tale legge è stata impugnata
dal governo con l'argomento - implicitamente disapprovato da Corte cost., sent. 87/1998 - che
l'autonomia del consiglio imporrebbe di rivestire nella forma di regolamento consiliare le
norme relative all'organizzazione interna).
La preferenza per lo strumento del regolamento interno è verosimilmente motivata, oltre che
dal parallelo con la tradizione parlamentare, anche con la volontà di affidare la disciplina dei
lavori del consiglio a un atto concepito - anche qui in coerenza con le prassi parlamentari –
come espressivo di regole meramente interne.
L'ultima osservazione conduce direttamente al problema circa la natura del regolamento quale
fonte del diritto, questione che pare risolta dalla giurisprudenza in senso positivo.
Gli orientamenti più recenti e accreditati, infatti, riconoscono ai regolamenti interni del
consiglio regionale l'attitudine a essere fonte con rilevanza esterna, sulla scorta della
giurisprudenza costituzionale che ne ha ammesso l'impugnabilità, da parte dello Stato, almeno
con il conflitto di attribuzione (sent. 14/1965): ma non mancano tuttora prese di posizione in
senso diverso.
Il regolamento interno del consiglio regionale tra norma interna e fonte del diritto
In una controversia relativa al diritto di accesso ai documenti amministrativi, il TAR Marche ha
evidenziato come il diritto di informazione dei consiglieri regionali fosse riconosciuto e disciplinato nel
regolamento interno del consiglio regionale (oltre che nello statuto regionale), e ha conseguentemente
fatto applicazione della norma regolamentare.
Ancora, il TRGA Bolzano, nella sent. 1/2011, ha fondato sull'art. 109 del regolamento interno del
consiglio provinciale di Bolzano il riconoscimento di diritto all'accesso agli atti necessari per lo
svolgimento del mandato.
Meno chiara è la posizione assunta dal Consiglio di Stato nella stessa vicenda decisa in primo grado dal
TRGA di Bolzano. Infatti, il Consiglio di Stato, pur confermando la decisione, ha fatto leva sul fatto che
un regolamento di attuazione della legge provinciale sull'accesso agli atti rinviasse al regolamento
interno del consiglio provinciale. «Tale recepimento della disciplina interna del diritto di
informativa/accesso dei consiglieri provinciali in un atto normativo di rilevanza generale esterna al
consesso legislativo - ha osservato il Consiglio di Stato - vale a fondare una situazione giuridica
soggettiva ancorata nell'ordinamento giuridico generale, e non relegata esclusivamente all'ambito dei
poteri di autarchia e autonomia organizzativa dell'organo legislativo e alla sfera delle relazioni politico-
istituzionali intercorrenti tra detto organo e l'organo esecutivo della Provincia autonoma» (sent.
2434/2011): quasi a dire che in assenza del rinvio effettuato dalla «fonte esterna» il regolamento
interno rimanesse «norma interna».
Ancor più netta nel negare carattere di fonte del diritto al regolamento consiliare è una sentenza della
Corte di cassazione, che considera tardiva la produzione - nel giudizio di cassazione - del regolamento
interno del consiglio regionale della Campania, e afferma seccamente che non si tratta «di norma
giuridica che il giudice è tenuto a conoscere» (Cass. civ., sent. 21942/2004).
Tuttavia, la forza normativa del regolamento interno risulta attenuata proprio per quanto
riguarda un rilevantissimo profilo dell'organizzazione interna, vale a dire la disciplina del
procedimento legislativo.
In proposito, la giurisprudenza amministrativa tende a negare che la violazione del regolamento
interno al quale lo statuto rinvia sia assimilabile a una violazione dello statuto, e
conseguentemente esclude che tale violazione possa ridondare in un vizio di costituzionalità
(Consiglio di Stato, dec. 1559/2004; TAR Puglia - Bari, sent. 1362/2006). In questa
giurisprudenza è evidente il parallelo con la dottrina degli interna corporis del Parlamento,
dottrina che ha indotto la Corte costituzionale a negare rilievo, sotto il profilo dei vizi di
costituzionalità procedurali, all'inosservanza delle regole dettate dai regolamenti parlamentari
che non fossero di stretta esecuzione delle norme costituzionali.
Nel caso della violazione dei regolamenti consiliari, tuttavia, il disconoscimento di un'efficacia
viziante sul piano costituzionale alle violazioni dei precetti regolamentari può essere più
agevolmente sostenuto sia sulla base dell'argomento che in questa ipotesi il contrasto con la
Costituzione sarebbe doppiamente mediato, passando per due livelli di fonti interposte rispetto
all'art.123 Cost. (statuto e regolamento), sia con il rilievo che la scelta di inserire nel
regolamento, anziché codificare nello statuto, determinate regole di dettaglio circa i lavori del
consiglio potrebbe essere legittimamente sorretta dalla volontà di non condizionare la validità
del prodotto legislativo all'osservanza di queste stesse regole.
Secondo le norme dello statuto e del regolamento interno, e in analogia con il modello delle
assemblee parlamentari, il consiglio regionale si articola in organi interni, quali i gruppi
consiliari, il presidente del consiglio regionale, l'ufficio di presidenza, le commissioni, e talvolta
le giunte.
All'interno dell'assemblea i consiglieri confluiscono nei gruppi consiliari, che raccolgono i
membri dell'assemblea eletti nella stessa lista o aderenti allo stesso partito e che quindi
fungono da raccordo tra partiti e consiglio regionale. Taluni statuti fanno obbligo a tutti i
consiglieri di aderire - generalmente entro la prima seduta della legislatura - a un gruppo, e
prevedono l'istituzione di un gruppo misto, nel quale sono iscritti i consiglieri che non si
riconoscano in alcun gruppo o che non raggiungano il numero sufficiente per dar vita al gruppo.
Peraltro, in molte regioni è consentita la formazione di gruppi composti da un unico consigliere,
se sono soddisfatti determinati indici di rappresentatività (come ad esempio l'esistenza di un
gruppo omologo alle camere - così l'art. 27.2 St. Cal. - oppure il collegamento con una
lista di candidati che abbia partecipato alle elezioni – così l'art. 42.2 St. Ven.) ed è diffusa la
prassi dei «gruppi autorizzatis in deroga ai requisiti numerici previsti in via generale per i gruppi
consiliari.
La Corte costituzionale ha definito i gruppi come «organi del Consiglio regionale, caratterizzati
da una peculiare autonomia in quanto espressione, nell'ambito del Consiglio stesso, dei partiti o
delle correnti politiche che hanno presentato liste di candidati al corpo elettorale, ottenendone
i suffragi necessari alla elezione dei consiglieri» (sent. 187/1990; vedi anche la sent. 39/2014). I
gruppi godono quindi sia di autonomia nei confronti dell'assemblea, in quanto proiezione del
partito politico, sia di autonomia nei confronti del partito, in quanto espressione di consiglieri
che agiscono senza vincolo di mandato (Falcon e Padula 2008, 273].
Nell'organizzazione del consiglio i gruppi hanno un grande rilievo sia per la composizione delle
commissioni, che deve avvenire proporzionalmente alla composizione numerica dei gruppi,
sulla falsariga di quanto dispone l'art. 72.3 Cost, per le commissioni parlamentari, sia per la
programmazione dei lavori consiliari, che è normalmente decisa dalla Conferenza dei
capigruppo.
Sebbene l'organizzazione dei gruppi consiliari costituisca manifestazione della autonomia
organizzativa del consiglio regionale, la recente legislazione statale, e in particolare il d. 1.
174/2012, convertito dalla legge 213/2012, ha introdotto una serie di vincoli e di controlli,
giustificati a titolo di coordinamento della finanza pubblica.
L'art. 1.9 del decreto legge impone a ciascun gruppo consiliare di approvare un rendiconto di
esercizio annuale, articolato secondo linee guida deliberate dalla Conferenza Stato-regioni e
recepite con il d.P.C.m. 21 dicembre 2012.
Su tale rendiconto la Corte dei conti esercita un controllo diretto a verificare la conformità alle
predette linee guida, controllo che la Corte costituzionale ritiene non lesivo se esso rimane
esterno e documentale. Tale verifica non può addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali
rimesse all'autonomia politica dei gruppi, dovendo piuttosto limitarsi ad accertare la veridicità e
correttezza delle spese e la loro riconducibilità all'attività istituzionale del gruppo (sent.
130/2014 e sentt. 10/2017;260/2016; 104/2016;263/2014; vedi anche Corte dei conti, sez.
autonomie, sent. 29/2014).
La Corte costituzionale ha invece ritenuto illegittima la previsione, contenuta nell'art. 1.11 del
decreto-legge, secondo cui la mancata regolarizzazione, da parte del gruppo, del rendiconto
ritenuto non conforme dalla Corte dei conti avrebbe determinato la decadenza dal diritto
all'erogazione di risorse da parte del consiglio regionale per l'anno in corso. Tale sanzione,
rigida e non graduata, precludendo qualsiasi finanziamento al gruppo, poteva compromettere
le funzioni pubbliche affidate ai gruppi consiliari e pregiudicare l'ordinato funzionamento
dell'assemblea regionale, anche in presenza di irregolarità contabili solo marginali (sent.
39/2014).
Permane invece l'obbligo, sancito dalla stessa disposizione, di restituire le somme ricevute a
carico del bilancio del consiglio regionale e non rendicontate.
Il presidente dell'assemblea e l'ufficio di presidenza sono, ai sensi dell'art. 122.3 Cost., organi
necessari del consiglio, eletti dall'assemblea al proprio interno.
Gli statuti richiedono quasi sempre voto segreto e maggioranze qualificate per l'elezione del
presidente del consiglio regionale; sempre allo scopo di garantire le minoranze, dispongono
inoltre che l'elezione dei componenti dell'ufficio di presidenza (i due vicepresidenti e i segretari,
in numero variabile da regione a regione, solitamente due, ma tre in Lazio e in Piemonte,
quattro in Toscana, di cui uno con funzione di questore) avvenga con voto limitato o con altri
meccanismi che assicurino la presenza nell'ufficio di consiglieri di minoranza.
Il presidente del consiglio regionale ha il ruolo di convocare e di presiedere l'assemblea,
dirigendo i lavori e assicurando l'applicazione del regolamento interno, coadiuvato, in questi
compiti, dall'ufficio di presidenza. Anche la fissazione dell'ordine del giorno spetta al presidente
del consiglio regionale, sia pure in collaborazione con la Conferenza dei presidenti dei gruppi
consiliari (come talvolta è esplicitato dagli statuti: così, ad esempio, l'art. 21.2 St. Laz.).
Taluni statuti accentuano il ruolo arbitrale del presidente del consiglio regionale, attribuendo a
questa figura anche il compito di garantire i diritti delle minoranze (vedi ad esempio l'art. 20.1
St. Lig.)
Risolvendo una lacuna che era rimasta aperta negli statuti del 1971, qualche statuto prevede la
possibilità di revocare il presidente e gli altri componenti dell'ufficio di presidenza tramite una
mozione di decadenza, approvata dal consiglio. Lo statuto della Campania rinvia la disciplina
della revoca al regolamento consiliare, mentre lo statuto della Puglia stabilisce che la rimozione
di uno dei componenti dell'ufficio di presidenza possa avvenire per gravi motivi con mozione
approvata a scrutinio segreto dai due terzi dei componenti del consiglio; analogamente lo
statuto del Veneto stabilisce che la revoca avvenga in seguito all'approvazione, sempre con
maggioranza dei due terzi dei componenti del consiglio, di una mozione di decadenza, ma
specifica che ciò può avvenire in caso di «reiterata violazione degli obblighi e degli adempimenti
a essi attribuiti in base allo Statuto, alla legge o al Regolamento, con particolare
riferimento al rispetto del principio di imparzialità nell'adempimento delle funzioni
istituzionali» (art. 36.6 St. Ven.). La previsione di una maggioranza così qualificata dovrebbe
impedire che il potere del consiglio di revocare il suo presidente possa farne un fiduciario della
maggioranza, con snaturamento del ruolo arbitrale che la figura dovrebbe tendenzialmente
avere.
Quanto all'ufficio di presidenza, gli sono attribuiti, oltre a compiti ausiliari nei confronti del
presidente dell'assemblea, funzioni di amministrazione del bilancio autonomo dell'assemblea e
di raccordo con i gruppi consiliari.
Il consiglio si articola poi in commissioni permanenti, distinte per settori organici di materie. Le
commissioni svolgono, anzitutto, un ruolo essenziale nel procedimento di formazione della
legge, ma esercitano anche rilevanti funzioni consultive, esprimendo pareri nei casi previsti
dallo statuto (per esempio sui regolamenti della giunta), e di controllo sull'attività
dell'esecutivo.
Gli statuti possono prevedere anche l'istituzione di commissioni speciali con funzioni di
inchiesta e di studio. Tuttavia, in assenza di una norma costituzionale analoga a quella prevista
dall'art. 83.2 Cost., che riconosce alle commissioni parlamentari di inchiesta gli stessi poteri di
indagine e di esame che ha l'autorità giudiziaria, le commissioni consiliari speciali non
dispongono di poteri coercitivi.
La Corte costituzionale ha però precisato che le commissioni consiliari possono «appellarsi agli
ordinari vincoli di responsabilità politica e amministrativa che legano gli amministratori ei
dipendenti regionali all'ente di appartenenza» (sent. 4/1991). Più recentemente, la Corte ha
ritenuto legittima la previsione – contenuta nello statuto del Molise impugnato dal governo –
che esonera dal segreto d'ufficio i funzionari dell'amministrazione regionale e degli enti
dipendenti convocati, in seduta non pubblica, dalle commissioni permanenti nell'esercizio della
loro funzione di vigilanza sull'attività regionale (sent. 63/2012). Egualmente legittime devono
ritenersi le norme, ricorrenti negli statuti, che dichiarano non opponibile alle commissioni
regionali d'inchiesta il segreto d'ufficio, almeno con riferimento alle audizioni di funzionari e
amministratori regionali.
Verso l'esterno l'autonomia del consiglio e la sua indipendenza sono presidiate attraverso il
riconoscimento della prerogativa dell'insindacabilità dei consiglieri regionali.
L'art. 122.4 Cost., con enunciato che ripete quello dettato nell'art. 68.1 Cost. per i membri del
Parlamento, dispone che «i consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere per
le opinioni espresse ei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni». Per le regioni speciali e le due
province autonome la medesima tutela è prevista dagli statuti di autonomia.
Al pari dell'analoga prerogativa riconosciuta ai parlamentari, l'insindacabilità dei consiglieri
regionali è una garanzia che la Costituzione concede non già come privilegio personale
nell'interesse del singolo, bensì come guarentigia a presidio dell'autonomia del corpo
legislativo, in funzione della libertà di discussione e di determinazione dell'organo
politicamente rappresentativo delle comunità territoriali e legittimato democraticamente
all'esercizio delle funzioni preordinate alla cura degli interessi della comunità (Corte cost.,
sentt. 301/2007 e 332/2011).
Tale tutela si sostanzia però in un esonero da responsabilità - da tutti i tipi di responsabilità:
penale, civile, amministrativa ed erariale, salva solo una possibile responsabilità disciplinare
interna all'organo per le opinioni espresse – che è riconosciuto in capo ai singoli componenti
dell'organo. Trattandosi di una prerogativa che tutela immediatamente il singolo consigliere,
l'interessato può avvalersene personalmente nei giudizi comuni; siccome si tratta però anche
di una garanzia che tutela l'autonomia di un organo regionale da interferenze esterne, la
regione potrà farla valere per mezzo del conflitto di attribuzione promosso contro lo Stato in
riferimento ai provvedimenti giudiziari che abbiano omesso di fare applicazione della
prerogativa in esame, perché il disconoscimento dell'insindacabilità implica una menomazione
dell'autonomia costituzionalmente garantita all'ente.
Permane molta incertezza in ordine sia alla qualificazione giuridica delle prerogative di
insindacabilità, sia agli effetti che discendono da tali garanzie.
Secondo il prevalente indirizzo della Cassazione penale, formato sull'art. 68 Cost.,
l'insindacabilità implica una causa personale di esclusione della pena, che lascia intatta
l'oggettiva antigiuridicità del fatto e che quindi non si comunica ai concorrenti nel reato (Cass.
pen., sez. V, sent. 5 marzo 2010, n. 13198; Cass. pen., sez. V, sent. 26 novembre 2010, n. 2384;
Cass. pen., sent. 15 febbraio 2008, n. 15323; nel senso che l'insindacabilità sia invece una causa
di giustificazione che elimina l'illiceità della condotta si è espressa Cass. pen., sez. V, sent. 27
ottobre 2006, n. 38944). Tale inquadramento, peraltro, male si armonizza con la negazione –
sicura sulla base dell'interpretazione della norma - della responsabilità civile risarcitoria del
membro dell'assemblea legislativa autore del voto o dell'opinione produttivi di danno.
Sul piano degli effetti, l'interpretazione del disposto costituzionale si trova stretta tra l'esigenza
di non convertire la prerogativa in un'immunità dalla giurisdizione, analoga a quella
distintamente prevista dall'art. 68.2 Cost, nel testo originario (secondo cui per procedere
penalmente contro un parlamentare era necessaria un'apposita autorizzazione della camera di
appartenenza), e la necessità di assicurare una tutela anticipata, in osservanza alla lettera del
testo costituzionale che impedisce di «chiamare a rispondere» i consiglieri, lettera alla base del
quale sta la consapevolezza che già l'avvio di un procedimento diretto a far valere la
responsabilità di un soggetto ha un effetto intimidatorio a carico della persona stessa.
Il punto di equilibrio è stato trovato in modo pragmatico - ma non sempre coerente - dalle
decisioni della Corte costituzionale rese nei conflitti promossi dalle regioni in relazione alla
mancata applicazione dell'art. 122.4 Cost, da parte di organi giurisdizionali: il giudice
costituzionale ritiene lesivi tutti quegli atti che secondo il modello legale o per il loro contenuto
in concreto affermano o presuppongono, anche per implícito, una responsabilità del
consigliere; reputa invece privi di lesività quegli atti in cui il magistrato si sia limitato a svolgere
un'attività dovuta o meramente prodromica e priva di ogni contenuto valutativo.
Con riferimento alla prerogativa dell'insindacabilità sorge anche il problema di individuare a
quali funzioni consiliari si riferisca la disposizione costituzionale, visto l'ampio spettro di compiti
esercitati dai consigli regionali.
Sicuramente coperti dalle prerogative di cui all'art. 122.4 Cost. sono gli atti compiuti
nell'esercizio della funzione legislativa. La garanzia si estende anche, pacificamente, alle
opinioni espresse dal consigliere nell'ambito della funzione ispettiva e di controllo - che si
manifesta in atti tipici quali le interrogazioni e le interpellanze (vedi da ultimo Corte cost., sent.
322/2011).
Ancora, rientra nella tutela apprestata dall'art. 122.4 Cost, anche la funzione di
autorganizzazione interna del consiglio, che riguarda sia l'organizzazione degli uffici e dei servizi
(con riferimento alle strutture, alla dotazione dei mezzi, al personale), sia le modalità di
svolgimento dell'attività consiliare.
Tale attività, infatti, è strettamente funzionale ai compiti primari (legislativi, di indirizzo politico
e di controllo) dei quali il consiglio è investito. Tuttavia, proprio questo collegamento esistente
tra l'attività di autorganizzazione e le altre funzioni consiliari, ha indotto la giurisprudenza
costituzionale e comune a negare che in questo caso l'immunità fosse assoluta, essendo invece
coperti da insindacabilità soltanto quegli atti di organizzazione che possano dirsi
ragionevolmente correlati all'esercizio di altri compiti consiliari (Corte cost.
289/1997 e 392/1999).
Le funzioni alle quali si dubita che l'art. 122.4 offra una tutela integrale sono quelle
amministrative. In proposito la Corte costituzionale ha ricondotto all'area dell'insindacabilità
soltanto le funzioni amministrative attribuite al consiglio regionale in via immediata ed
esclusiva dalla Costituzione e da leggi dello Stato e ha ritenuto, invece, non coperte
dall'immunità eventuali altre funzioni amministrative, attribuite al consiglio dalla normativa
regionale, forse nel timore che l'intestazione di compiti amministrativi all'assemblea legislativa
possa tradursi in un modo per aggirare le comuni regole sulla responsabilità (sentt. 69/1985;
289/1997 e 392/1999).
Ma tale restrizione non ha ragione di essere, anche in considerazione del fatto che
l'attribuzione di altre funzioni» al consiglio regionale spetta strutturalmente non alla legge
statale, bensì allo statuto o, sulla base dello statuto alla legge regionale, stanti la riserva di cui
all'art. 123.1 Cost. e la configurazione dell'organizzazione regionale quale materia residuale ai
sensi dell'art. 117.4 Cost. Maggiormente in linea con questa impostazione risulta la sent.
337/2009, con cui la Corte pare ammettere che anche la legge statutaria possa configurare
funzioni amministrative coperte dalla guarentigia ex art. 122.4 Cost., sulla base di una
distinzione di «quanto sia effettivamente riconducibile alle tipiche funzioni dell'Assemblea,
quali definite dallo statuto regionale ed eventualmente dalla legge statutaria, da quanto non
possa che restare soggetto, in virtù di una "copertura" dovuta alla sola legislazione regionale, al
regime giuridico proprio dell'ordinaria attività amministrativa».
Per quanto riguarda le opinioni espresse extra moenia, esse sono coperte dall'insindacabilità
quando presentano un nesso funzionale con le attività consiliari, il che significa che tra l'atto
tipico e la sua diffusione all'esterno dell'aula devono esistere un rapporto di contestualità
(rapporto che è spezzato quando sussiste uno iato temporale significativo tra l'atto típico e
l'esternazione) e una sostanziale corrispondenza sul piano dei contenuti (tra le molte, Corte
cost. 221/2006), secondo lo schema che vale per l'analoga prerogativa dei parlamentari.
L'intestazione delle potestà legislative regionali in via esclusiva al consiglio regionale ha diverse
conseguenze, oltre che sul piano della forma di governo e in particolare dei rapporti tra
assemblea ed esecutivo, anche sul piano delle fonti.
A) Anzitutto, la previsione per cui la funzione legislativa è esercitata dal consiglio comporta
l'impossibilità per lo statuto di configurare atti regionali con forza di legge, in assenza di norme
costituzionali che prevedano deroghe alla titolarità esclusiva della funzione in capo
all'assemblea legislativa. In particolare, ciò determina l'inammissibilità di atti della giunta
regionale con forza di legge, assimilabili al decreto-legge o al decreto legislativo.
Su questo punto la giurisprudenza costituzionale aveva assunto una posizione netta fin
dall'inizio e si è consolidata in un indirizzo costante (così qualificato, ad esempio, dalla sent.
166/1990).
La Corte ha escluso la possibilità per la giunta regionale di fare ricorso alla decretazione
d'urgenza, e ha osservato incidentalmente che le clausole degli statuti speciali che consentono,
in caso di urgenza, la sostituzione della giunta al consiglio regionale si riferiscono soltanto alle
competenze amministrative dei consigli (sent. 50/1957). La Corte ha poi fatto valere il
principio generale di inderogabilità delle competenze costituzionali per negare in via generale
la possibilità di una delegazione legislativa alla giunta regionale, con il rilievo che «le ipotesi
nelle quali la Costituzione ammette l'esercizio della potestà legislativa da parte del Governo
(artt. 76 e 77) sono da ritenere eccezionali; e nulla di simile si ritrova negli ordinamenti
regionali, anche perché l'organo legislativo unicamerale e la minore complessità dell'esercizio
della funzione legislativa rendono più spedito il procedimento formativo delle leggi» (sent.
32/1961) - argomenti, questi, che rimangono ancor oggi pienamente attuali.
Dopo le riforme costituzionali del 1999-2001, il problema dell'ammissibilità di atti giuntali con
forza di legge è stato ritematizzato e la soluzione positiva è stata difesa: a) richiamando la
competenza dello statuto a disciplinare, nell'ambito della forma di governo, anche il sistema
delle fonti;
b) sottolineando come l'incremento delle competenze legislative regionali in seguito all'entrata
in vigore della legge cost. 3/2001 rendesse opportuna la previsione di atti normativi che
consentono interventi d'urgenza (il decreto-legge) o il riordino della legislazione (a mezzo di
decreti legislativi delegati);
c) rilevando che l'eliminazione del controllo preventivo sulla legge regionale aveva fatto cadere
uno dei motivi che si opponevano alla configurazione di atti giuntali con forza di legge, per i
quali il procedimento di controllo di cui all'art. 127 Cost, nel vecchio testo non era applicabile.
Ma questi argomenti non sono sufficienti per superare la preclusione derivante dalla norma
costituzionale che attribuisce in via esclusiva la funzione legislativa al consiglio regionale (art.
121.2 Cost.).
Prima della revisione dell'art. 127 Cost. a opera della legge cost. 3/2001 l'eventualità di un rinvio
delle leggi regionali da parte del presidente della giunta era esclusa dalla previsione di uno
specifico procedimento di controllo sulla legge regionale, che passava per la possibile richiesta del
governo al consiglio regionale di riesame della delibera legislativa. Caduto questo argomento con
l'eliminazione del controllo preventivo del governo sulle leggi regionali e positivamente affermata
una competenza statutaria in punto di procedimento di formazione della legge, l'idea di affidare al
presidente della giunta il potere di rinviare le leggi – affacciata in sede di progettazione dei nuovi
statuti - deve fare i conti con il limite dell'armonia con la Costituzione. È certo che l'eventuale
potere di rinvio non potrebbe spingersi fino a diventare una prerogativa di veto, perché un tale
potere appare incompatibile con l'intestazione della funzione legislativa al consiglio
regionale operata dall'art. 121.1 Cost.
Dubbia è però anche la possibilità di prevedere un rinvio con effetti meramente sospensivi, che
determini l'onere per il consiglio regionale di riapprovare la delibera legislativa. La legittimità di
una simile previsione, che non può certo essere ritenuta un corollario del potere di
promulgazione, può essere contestata con l'osservazione che il presidente della giunta regionale è
un organo che partecipa attivamente alla definizione dell'indirizzo politico, a differenza del
presidente della Repubblica, che è organo in posizione di terzietà. Conseguentemente, il rinvio del
presidente della giunta costituisce necessariamente un rinvio politicamente orientato e non un
rinvio di garanzia: e appare non in armonia con la Costituzione - e segnatamente in conflitto con
l'art. 121.1 Cost. – la possibilità di un'opposizione politica alla legge regionale; tale rinvio
diventerebbe, infatti, una seconda chance data a una maggioranza sconfitta nella sede propria in
cui si decide il conflitto politico, vale a dire l'assemblea.
In tale prospettiva appare meno problematica dal punto di vista costituzionale - e maggiormente
accettabile per gli stessi consigli regionali, certo poco inclini a incrementare i già ampi poteri del
presidente della giunta - l'idea di affidare poteri di verifica sulle delibere legislative a organi terzi,
quali i collegi di garanzia statutaria [Panzeri 2005, 131 ss.].
Tali previsioni sono state ritenute compatibili con la Costituzione a condizione che: a) gli organi di
garanzia statutaria intervengano prima della conclusione del procedimento legislativo, e cioè
prima della promulgazione della legge, così da non invadere le competenze di controllo della Corte
costituzionale;
b) il parere negativo dell'organo di garanzia statutaria non abbia effetti di blocco sul procedimento
legislativo, ma determini soltanto un onere di riesame per il consiglio.
La Corte costituzionale ha ammesso che la decisione dell'organo di garanzia che dichiari la non
compatibilità della delibera legislativa con lo statuto possa obbligare il consiglio, che intenda
insistere nell'approvazione della legge, a motivare la sua determinazione (sent. 12/2006, con le
precisazioni viste sopra) oppure a deliberare a maggioranza assoluta (sent. 200/2008).
All'approvazione della delibera legislativa, e all'eventuale controllo dell'organo di garanzia
statutaria, segue la promulgazione della legge regionale a opera del presidente della giunta. Tale
funzione è attribuita direttamente dalla Costituzione a tale organo ed è quindi un potere
presidenziale indefettibile.
Considerata l'assenza di poteri di controllo in capo al presidente della giunta la promulgazione
deve però considerarsi un atto dovuto, per il quale lo statuto solitamente fissa un termine
acceleratorio.
L'art. 41.2 dello statuto della Toscana prevede che il termine per la promulgazione rimanga
sospeso in caso di pregiudizialità europea, vale a dire quando la legge regionale reca una misura
che richiede l'assenso della Commissione europea. In tal caso il presidente della giunta sospende
la promulgazione fino a quando non è pervenuto tale assenso, e ove la risposta da parte della
Commissione sia negativa la delibera legislativa è riassegnata alla commissione dal presidente del
consiglio regionale, su comunicazione del presidente della giunta.
Quanto alla pubblicazione, gli statuti talvolta prevedono, sempre con finalità acceleratoria, un
termine entro il quale la legge promulgata deve essere pubblicata. In talune regioni sono previsti
dallo statuto strumenti di comunicazione istituzionale diretti a rendere conoscibile e consultabile
la legislazione regionale tramite mezzi informatici e altri canali di diffusione.
Di competenza statutaria è anche la disciplina della vacatio, che è fissata in quindici giorni,
secondo la tradizione costituzionale (art. 73 Cost.; art. 127.2 Cost. nel testo vigente prima
dell'entrata in vigore della legge cost. 3/2001), salvo diverso termine previsto dalla legge stessa.
Gli ordinamenti regionali conoscono anche ipotesi di leggi rinforzate, vale a dire quelle leggi che, in
ragione della loro particolare competenza, devono essere approvate con procedimenti più gravosi
rispetto a quello ordinario.
L'aggravio procedimentale può consistere nella previsione di maggioranze qualificate oppure nel
coinvolgimento di organi diversi. Perché si dia legge rinforzata non è sufficiente che la legge sia
stata approvata con maggioranze speciali o che nell'iter sia intervenuto un organo consultivo; e
non è nemmeno sufficiente che tali maggioranze qualificate o il parere fossero occasionalmente
necessari per l'approvazione di quel determinato atto, come accade, ad esempio, quando vi è
stato un parere negativo dell'organo di garanzia statutaria che imponga la riapprovazione dell'atto
a maggioranza assoluta oppure quando il parere dell'organo consultivo, essendo stato liberamente
chiesto, deve purtuttavia essere acquisito; occorre invece che questi o analoghi aggravi
procedimentali siano sempre richiesti per tutte le leggi che disciplinano una speciale materia o un
particolare oggetto.
Questa nozione chiarisce altresì che il rapporto tra legge rinforzata e legge ordinaria non si
atteggia a rapporto di gerarchia, bensì a rapporto di separazione della competenza, perché sugli
oggetti riservati alla legge rinforzata la legge ordinaria non può intervenire.
Un'ipotesi di legge regionale rinforzata è rappresentata dallo statuto, se si accoglie la tesi – che
però è dubbia, anche in ragione del rapporto di gerarchia esistente tra statuto e legge regionale -
secondo cui lo statuto avrebbe natura di legge regionale.
Un caso invece sicuro di legge regionale rinforzata, costituzionalmente previsto, è rappresentato
dalla legge che dispone la creazione di nuovi comuni o il mutamento delle circoscrizioni o delle
denominazioni comunali, Ai sensi dell'art. 133.2 Cost, a tali variazioni la regione procede con legge
«sentite le popolazioni interessate». Il rinforzo procedimentale consiste nella necessità di
consultare le popolazioni interessate dalla variazione, cosa che, secondo la giurisprudenza
costituzionale, avviene tramite un referendum, non surrogabile dalla volontà degli enti
esponenziali della collettività locale (sent. 36/2011, riferita all'ipotesi di mutamento di
circoscrizione che vedeva concordi i comuni interessati, vedi anche la sent. 21/2018).
Quanto alla nozione di «popolazioni interessate», la Corte costituzionale ha chiarito che con tale
locuzione si intende, anzitutto, la popolazione insediata nel territorio destinato a passare da un
comune all'altro, la cui volontà deve anzi avere autonoma evidenza nel procedimento (il che
significa che gli esiti della consultazione vanno scrutinati separatamente). Secondo la
giurisprudenza costituzionale, però, anche le popolazioni della restante parte del comune
che subisce la decurtazione territoriale possono essere interessate alla variazione, così che il
legislatore regionale, nello stabilire i criteri per individuare l'ambito della consultazione, non può
escludere tali ulteriori popolazioni se non sulla base di elementi idonei a fondare ragionevolmente
una valutazione di insussistenza di un loro interesse qualificato in rapporto alla variazione
territoriale proposta (sent. 47/2003).
Accanto a questa (o queste) ipotesi di rinforzi procedimentali costituzionalmente previste ve ne
sono altre autonomamente regolate dagli statuti.
In particolare, nei nuovi statuti sono stabiliti due tipi di aggravamenti: la necessità di maggioranze
qualificate richieste per l'approvazione di determinate leggi (di solito per la legge elettorale, per la
quale in Liguria è prevista la maggioranza dei due terzi, in Piemonte dei tre quinti e in molte
regioni la maggioranza assoluta) o il parere obbligatorio del consiglio delle autonomie
locali, che deve essere acquisito nell'ambito del procedimento di formazione di leggi che in vario
modo coinvolgono gli enti locali. Solitamente, quando è previsto il parere obbligatorio del CAL, il
consiglio regionale incontra ulteriori oneri procedimentali qualora intenda discostarsi dal parere
reso dall'organo consultivo, essendo tenuto o a deliberare a maggioranza assoluta (così gli artt.
67.4 St. Laz., 235 St. Em.-Rom., 38.2 St. Mar.) oppure a motivare in modo espresso (art. 66.4 St.
Tosc.)
La legittimità di questo tipo di aggravamenti non pare contestabile, in quanto essi mantengono
radicata in capo al consiglio regionale la funzione legislativa e non incidono in alcun modo sulla
capacità regolativa della legge.
In particolare, quanto alle maggioranze, la Corte costituzionale - pur senza tematizzare il punto -
non ha sollevato rilievi sulle previsioni dello statuto calabrese e di quello umbro, ove è previsto,
rispettivamente, che l'approvazione della legge elettorale e della legge sull'organo di garanzia
avvenga a maggioranza assoluta (sentt. 2 e 378/2004). Se in questi casi l'elevazione della
maggioranza rispetto alla regola della maggioranza semplice si giustifica con l'esigenza di sottrarre
alla maggioranza politica la disciplina di istituti rilevanti per il funzionamento complessivo del
sistema (quali il sistema elettorale o gli istituti di garanzia), appare invece incongrua la previsione
di maggioranze qualificate per l'approvazione di leggi quali quelle tributarie o di bilancio (come
stabilisce, ad esempio, l'art. 35.4 St. Pugl.), che sono espressive dell'indirizzo politico di
maggioranza e per le quali non si prospettano quelle esigenze di tutela della minoranza. Peraltro, il
problema è stemperato dalla presenza di sistemi elettorali che assicurano comunque alla
coalizione vincente la maggioranza assoluta dei seggi, e questo dato, per converso, riduce la
garanzia per le minoranze legata alla previsione di maggioranze qualificate per l'approvazione di
determinate leggi, ove la maggioranza richiesta non debba comunque essere superiore a quella
assoluta.
Quanto alla partecipazione obbligatoria del consiglio delle autonomie al procedimento legislativo
in relazione a determinate leggi, tale aggravamento trova piena copertura nella previsione di cui
all'art. 123.4 Cost., copertura che comunque non appare indispensabile per giustificare la
legittimità di disposizioni di questo tipo, se si considera che la Corte costituzionale aveva
affermato la validità dell'aggravamento, disposto dallo statuto del Veneto del 1971, consistente
nella consultazione necessaria degli enti locali per le leggi di delega di funzioni amministrative
(sent. 993/1988).
In seguito alla revisione costituzionale del 1999, che ha eliminato dall'art. 121.1 Cost. il riferimento
alla potestà regolamentare, l'assemblea legislativa non ha più il monopolio della funzione
normativa, in quanto il potere regolamentare può essere affidato dal legislatore statutario, in tutto
o in parte, ad altri organi regionali, e segnatamente alla giunta, così come potrebbe essere
conservato dallo statuto in capo al consiglio.
Pur in assenza di una norma espressa spettano indefettibilmente al consiglio le funzioni di
controllo sull'esecutivo, in ragione del carattere rappresentativo dell'organo e della presenza, al
suo interno, delle minoranze politiche.
Invero, la Costituzione si limita a prevedere, quale strumento di controllo, la possibilità della
mozione di sfiducia diretta contro il presidente della giunta regionale, ma gli statuti regolano
invariabilmente l'ampia gamma degli istituti tipici del controllo parlamentare, quali le mozioni, le
interpellanze, le interrogazioni. Si è inoltre già ricordato che molti statuti prevedono un dibattito o
anche un voto consiliare sul programma del presidente della giunta e verifiche periodiche sullo
stesso, che talvolta possono tradursi in indicazioni di indirizzi e obiettivi prioritari all'esecutivo.
Uno dei principali strumenti di controllo rimane poi l'approvazione del bilancio e del rendiconto
consultivo, che spetta necessariamente al consiglio dovendo avvenire con legge, visto che l'art.
81.1 Cost, ha efficacia direttiva anche per le regioni.
Il consiglio regionale è titolare, in base a una scelta in tal senso di tutti gli statuti, anche di funzioni
amministrative. Infatti, le nuove carte statutarie confermano, sia pure attenuandola in misura
maggiore o minore, la tendenza,
già riscontrata negli statuti del 1971, a fare dei consigli anche un centro di potere amministrativo.
In particolare, è frequente l'attribuzione al consiglio regionale, oltre che del compito di approvare
gli atti di indirizzo, di programmazione e di pianificazione, anche di competenze ad adottare atti
con contenuto provvedimentale o comunque puntuale e concreto, quali ad esempio le nomine dei
vertici degli enti dipendenti dalla regione e delle agenzie regionali oppure le delibere sulla
partecipazione a consorzi, società o fondazioni. Lo statuto del Veneto, curiosamente, mantiene
una competenza residuale in capo al consiglio regionale in ordine ad «ogni altro provvedimento
per il quale la Costituzione, lo Statuto o la legge stabiliscono la generica attribuzione alla regione»
(art. 34.3, lett. q).
Sempre in forza della Costituzione il consiglio regionale è titolare di una serie di competenze che
attengono alla partecipazione a funzioni statali.
Anzitutto, spetta al consiglio regionale il potere di iniziativa legislativa delle leggi statali, ai sensi
dell'art. 121.2 Cost., nonché il potere di presentare petizioni alle camere (art. 51 Cost.). In
proposito, la questione controversa riguarda l'esistenza di limiti materiali alle proposte di legge
presentate dai consigli regionali alle camere, in analogia con quanto dispongono gli statuti
speciali, che circoscrivono tale iniziativa alle materie che presentano «particolare interesse per la
regione.
Sul piano pratico l'iniziativa legislativa regionale non ha però avuto grande importanza per diverse
ragioni, la prima delle quali è rappresentata dalla conformazione unitaria, sul piano nazionale, del
sistema dei partiti (e dall'insufficiente forza parlamentare dei partiti localistici); la seconda, dalla
tendenza che le regioni hanno sempre manifestato a preferire come proprio interlocutore il
governo e non le camere.
Quanto al potere di proporre il referendum abrogativo (art. 75.1 Cost.) e il referendum oppositivo
(art. 138 Cost.) - potere esercitabile solo congiuntamente con altri quattro consigli e talvolta
attivato con successo - non pare invece che possa essere richiesto alle regioni di dimostrare uno
specifico interesse regionale, né un requisito di questo genere è richiesto dalla legge
352/1970.
Infine, i consigli regionali hanno il potere-dovere di nominare i delegati della regione che integrano
il Parlamento in seduta comune per l'elezione del presidente della Repubblica, in numero di tre
per regione (salvo la Valle d'Aosta che concorre con un unico delegato) eletti in modo tale che sia
assicurata la rappresentanza delle minoranze. Stante il ridotto numero di delegati regionali
rapportato al numero di deputati e senatori, la componente regionale non appare in grado di
incidere in modo rilevante sull'elezione del presidente della Repubblica (anche per la prevedibile
tendenza dei delegati a dividersi secondo linee di appartenenza partitica), ma è tuttavia
significativa dal punto di vista simbolico, come manifestazione del carattere del presidente della
Repubblica quale rappresentante dell'unità nazionale (art. 87.1 Cost.).
IL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE E LA GIUNTA
REGIONALE
La riforma del 1999, introducendo l'elezione diretta del presidente della giunta, poi confermata da
tutti i nuovi statuti, ha mutato la fisionomia di questo organo regionale, facendone un organo che
concorre a definire l'indirizzo politico.
Seguendo un'impostazione tradizionale [Paladin 2000, 348 ss.), che rimane tuttavia valida, le
diverse funzioni del presidente della giunta si prestano a essere tripartite in:
funzioni che gli sono intestate come rappresentante dell'ente;
funzioni che gli spettano come presidente dell'organo esecutivo collegiale;
funzioni che esercita in quanto vertice dell'amministrazione regionale.
1. In quanto presidente della regione, spettano al presidente della giunta regionale, anzitutto,
la funzione di rappresentanza dell'ente e il potere di promulgazione delle leggi e
l'emanazione dei regolamenti regionali, competenze che gli sono attribuite dall'art. 121.4
Cost.
La legge 87/1953 affida al presidente della giunta il potere di promuovere la questione di
legittimità costituzionale nei confronti delle leggi statali o di altre regioni ei conflitti di
attribuzione, sempre su delibera della giunta regionale.
In base alla legislazione statale il presidente della giunta concorre a comporre organi
collegiali misti quali la Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e regioni e la
Conferenza unificata (vedi S IV.5) e rappresenta la regione nell'attività internazionale, ai
sensi dell'art. 6 della legge 131/2003.
Inoltre, gli statuti attribuiscono al presidente della giunta il potere di indire le elezioni e i
referendum e di sottoscrivere le intese con altre regioni previste dall'art. 117.8 Cost.
Anche se talune di queste competenze - e in particolare quelle di esternazione degli atti –
sono analoghe a quelle esercitate, a livello statale, dal capo dello Stato, ogni parallelismo
tra i due organi è escluso dall'assenza, nella figura del presidente della giunta, di quelle
caratteristiche di imparzialità e di estraneità al circuito dell'indirizzo politico che
contraddistinguono il presidente della Repubblica.
2. Il presidente della giunta è poi organo di direzione politica della giunta regionale.
In quanto presidente di un organo collegiale, egli dispone anzitutto dei poteri di
convocazione del collegio e di fissazione dell'ordine del giorno, come riconosciuto da
gran parte degli statuti.
Ma i poteri del presidente della giunta vanno ben al di là di quelli riconosciuti al
presidente di un collegio, in quanto - indipendentemente dalla forma di governo scelta
dalla regione - la Costituzione attribuisce al presidente della giunta il compito di
direzione della politica (non solo della politica generale) della giunta e la corrispondente
responsabilità, che può essere fatta valere mediante la mozione di sfiducia, ai sensi
dell'art. 126.2 Cost., la quale è appunto rivolta contro il presidente della giunta e non
contro la giunta. Conseguentemente, lo statuto è tenuto a mettere a disposizione del
presidente della giunta appositi strumenti perché egli possa esercitare tale potere di
direzione. Nella forma di governo con elezione diretta, peraltro, il presidente dispone già
per Costituzione del potere di nomina e di revoca dei singoli assessori, che di per sé è
sufficiente perché il presidente possa orientare l'azione della giunta.
Gli statuti riconoscono generalmente al presidente della giunta, e non alla giunta, il
potere di predisporre il programma di governo, che non a caso viene presentato in
consiglio contestualmente alla nomina dei componenti della giunta (in Lombardia,
addirittura prima della nomina degli assessori, che deve intervenire entro dieci giorni
dalla presentazione del programma).
3. In quanto vertice dell'amministrazione regionale, la Costituzione attribuisce al
presidente della giunta il potere di dirigere le funzioni amministrative delegate dallo
Stato alla regione, conformandosi alle istruzioni del governo della Repubblica, ma
l'operatività di tale norma presuppone che sia tuttora operante il meccanismo della
delega di funzioni amministrative dallo Stato alle regioni.
Vari statuti riconoscono poi al presidente della giunta la funzione di sovrintendere agli
uffici regionali (art. 26.1 lett. f), St. Mar.; art. 42.2 lett. b) St. Pugl.) o all'amministrazione
regionale (art. 47.1, lett. ), St. Cam.) o di dirigere le funzioni amministrative (art. 43.1,
lett. b), St. Em.-Rom.), mentre in altre regioni tale potere spetta alla giunta regionale
collegialmente. In certe regioni è attribuito al presidente della giunta il potere di
adottare ordinanze contingibili e urgenti e i provvedimenti sostitutivi di competenza
della regione (art. 34.1, lett. m), St. Cal.).
Talvolta lo statuto attribuisce al presidente della giunta la competenza residuale
relativamente a ogni altra funzione non espressamente riservata dallo statuto al
consiglio regionale o alla giunta (così gli artt. 44.1 St. Abr. e 41.10 St. Laz.).
La giunta regionale è composta dal presidente e dagli assessori, tra cui un vicepresidente
che ha il compito di sostituire il presidente nei casi di assenza o di impedimento
temporaneo. Il numero degli assessori è fissato dallo statuto, che quasi sempre indica un
numero minimo e un numero massimo o fissa soltanto il limite numerico massimo (ma
oggi il numero massimo di assessori è prescritto dall'art. 14.1 del d.l. 138/2011, che lo
determina in un numero pari ad un quinto dei consiglieri regionali, arrotondato all'unità
superiore), spettando poi al presidente della giunta - in regime di elezione diretta – sia
l'individuazione degli assessori, sia il riparto degli incarico tra di essi per settori di
organici di materie. Come si è visto, gli statuti possono legittimamente fissare anche
requisiti relativi alla composizione di genere della giunta o determinare il numero
massimo di assessori esterni.
In talune regioni è previsto che il presidente della giunta possa nominare uno
o più sottosegretari alla presidenza della giunta (uno in Emilia-Romagna,
fino a quattro in Lombardia), che coadiuvano il presidente della giunta e
partecipano alle sedute della giunta, pur non facendone parte.
In base alla norma costituzionale dettata dall'art. 121.3 Cost. il potere esecutivo spetta
alla giunta collegialmente intesa: il che, come non esclude che determinate funzioni
esecutive siano intestate al presidente della giunta, così non esclude che compiti
amministrativi siano affidati agli assessori, nonostante la Costituzione non li configuri
come organi esterni (per questa possibilità si veda la sent. 48/1983).
Ciò che lo statuto deve assicurare, piuttosto, è la conservazione della fisionomia della
giunta come organo esecutivo della regione e quindi come organo titolare di funzioni
amministrative e anche di poteri di governo, senza che sia possibile identificare a priori il
nucleo di funzioni che sono costituzionalmente riservate alla giunta regionale. Infatti, la
mera caratterizzazione costituzionale della giunta come «organo esecutivo», non
accompagnata dalla previsione di compiti specifici o di una riserva di determinate
funzioni, lascia ampio spazio al potere conformativo degli statuti. La stessa iniziativa
legislativa difficilmente può essere reputata una competenza necessaria della giunta,
così come non può essere considerata un potere intrinsecamente spettante a tale
organo la potestà regolamentare (sent. 313/2003). Una delle poche funzioni
indefettibilmente spettanti alla giunta è probabilmente la predisposizione del bilancio,
perché in tale attività si riassume il complesso dell'attività esecutiva. Per il resto, occorre
guardare alle scelte statutarie che, in ogni caso, riconoscono alla giunta, oltre al compito
di attuare il programma di governo, una pluralità di funzioni, distinguibili in A) funzioni
di governo e B) funzioni amministrative.
1. Tra le competenze di governo, o di indirizzo politico, rientrano: la deliberazione dei
disegni di legge; la predisposizione dei bilanci e dei rendiconti consultivi e del
documento di programmazione economica e finanziaria; la potestà regolamentare, nelle
regioni in cui essa spetta in tutto o in parte a tale organo; la predisposizione di piani e
programmi.
Sempre all'interno di queste categorie di competenze va poi menzionato il potere di
deliberare l'impugnazione delle leggi statali o di altre regioni invasive della sfera di
competenza assegnata alla regione, potere che è riservato alla giunta dall'art. 2 della
legge cost. 1/1948.
2. Le competenze propriamente amministrative della giunta comprendono, a titolo di
esempio: l'amministrazione del patrimonio e del demanio regionale; la deliberazione dei
contratti; l'approvazione degli atti di macro-organizzazione; le deliberazioni in materia d
liti attive e passive.
Diversi statuti riconoscono poi alla giunta una competenza residuale, nel senso che
spetta a tale organo di adottare ogni altro provvedimento che lo statuto e le leggi non
affidino alla competenza del presidente della giunta o dell'assemblea legislativa.
Stando a una decisione della Corte costituzionale (sent. 567/1988) resa in relazione a un vecchio
statuto regionale, la competenza amministrativa generale della giunta, «implicitamente estesa a
ogni provvedimento che la legge regionale non affidi al Presidente stesso o a singoli assessori
oppure non deleghi a enti autonomi minori», si radicherebbe direttamente nell'art. 121.3 Cost.
Tale impostazione (così come quella del TAR Abruzzo nella sent. 542/2009) appare tuttavia
eccessiva, in quanto non sembra che la disposizione costituzionale impedisca soluzioni diverse,
purché dal complesso delle altre funzioni attribuite alla giunta si possa ricavare che la quota più
significativa di potere esecutivo è riservata a tale organo.
LE POTESTÀ NORMATIVE
LA POTESTÀ LEGISLATIVA DELLE REGIONI
Il conferimento della potestà legislativa alle regioni è un elemento decisivo per l'autonomia. Nel
dibattito giuspubblicistico tardo-ottocentesco fino al periodo fascista, in effetti, si era lontani
dall'idea di creare enti autonomi che avrebbero potuto minare il centralismo statale: per lo più si
propendeva per la formazione di enti autarchici e, dunque, per un decentramento
fondamentalmente amministrativo. In Assemblea costituente, la questione cominciò a delinearsi
in modo più deciso e, non senza accese discussioni, si optò per l'attribuzione alle regioni di una
competenza legislativa.
La riforma costituzionale del 2001 non solo ha confermato questa scelta di fondo ma ha cercato,
almeno nelle intenzioni originarie, di ampliare la competenza delle regioni: con una tecnica tipica
degli ordinamenti federali, ha rovesciato il riparto delle potestà normative, attribuendo allo Stato
delle competenze enumerate e riconoscendo alle regioni una competenza residuale.
La disciplina di riferimento sul riparto delle competenze normative è sempre contenuta
nell'articolo 117, in particolare nei commi 2, 3 e 4. Il comma 1 dell'art. 117, invece, si occupa della
previsione di limiti comuni alle leggi statali e regionali: sia lo Stato che le regioni, infatti, esercitano
la loro potestà legislativa «nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
Il riparto delle competenze normative avviene in base alle materie, ossia degli ambiti, dei settori,
degli oggetti entro cui le potestà legislative vanno esercitate.
Il testo costituzionale le suddivide in tre tipi: materie di competenza esclusiva statale (art. 117.2),
materie di competenza concorrente (art. 117.3), materie di competenza residuale (comprendenti
tutto ciò che non è stato indicato nei commi precedenti, secondo quanto dispone l'art. 117.4).
Il testo costituzionale
L'art. 117.2 individua le materie nelle quali lo Stato esercita competenza legislativa esclusiva:
«Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:
a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di
asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;
b) immigrazione;
c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema
tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie;
f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
h) ordine pubblico e sicurezza, a esclusione della polizia amministrativa locale;
i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale;
n) norme generali sull'istruzione;
o) previdenza sociale;
p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane;
q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati
dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno;
s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali».
Il terzo comma determina le materie di potestà concorrente tra Stato e regioni:
«Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l'Unione europea
delle regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle
istituzioni scolastiche e con esclusione dell'istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca
scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute;
alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili;
grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci
pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e
ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali, casse di risparmio, casse rurali, aziende di
credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di
legislazione concorrente spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei
principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
Infine, il quarto comma dispone che «spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento a ogni materia
non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».
È utile partire dal testo dell'art. 117 per una disamina delle questioni sottese alle disposizioni
costituzionali.
La tecnica adoperata dal legislatore costituzionale anche dopo la riforma del Titolo V è analoga
a quella adoperata nel 1947: la materia indica, infatti, quale sia il legislatore competente in
base al settore di riferimento. Così, astrattamente e a titolo di esempio, competente a dettare
norme in materia di politica estera, ordinamento civile e penale sarà lo Stato ai sensi,
rispettivamente, dell'art. 117.2, lett. a) e 1); analogamente, in materia di protezione civile
dovranno intervenire sia lo Stato che le regioni, trattandosi di competenza concorrente; se una
materia, infine, non rientra in nessuna di quelle indicate, bisognerà capire se la regione potrà
disciplinarla in forza della clausola di residualità, contenuta nell'art. 117.4.
A turbare la chiarezza di questo schema, però, interviene una serie di problemi di non agevole
soluzione: primo tra questi è dato dalla necessità di capire come, in concreto, riempire di
contenuti le materie individuate in via di principio nell'art. 117. Ad esempio, quali sono le
materie coinvolte dovendo legiferare nell'ambito dei rifiuti? Si potrebbe pensare, infatti, non
solo alla competenza statale esclusiva sulla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema (art. 117.2,
lett. s) ma anche alla competenza concorrente relativa al governo del territorio o alla tutela
della salute. Nei paragrafi che seguono si tratterà più estesamente del problema riguardante i
contenuti delle materie e di come il legislatore e soprattutto la giurisprudenza costituzionale se
ne sono occupati.
Prima ancora che i contenuti delle materie, è, però, utile affrontare un'altra questione di
importanza cruciale, ossia la delimitazione delle competenze normative ad opera dei vincoli
imposti nell'art. 117.1. Si tratta di limiti comuni sia alla legge statale che alla legge regionale
come emerge dal testo della disposizione: «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali».
La presenza degli obblighi comunitari implica che la violazione di norme UE, anche quando non
si tratti di norme self-executing, significhi violazione della Costituzione stessa e dell'art. 117.1. A
titolo di esempio: se una legge regionale contrasta con una direttiva comunitaria, quest'ultima
può essere adoperata come elemento che concorre a determinare il parametro di cui all'art.
117.1 al fine di valutare l'incostituzionalità della legge regionale.
In alcuni casi (sentt. 7 e 166/2004; 406/2005; 129/2006), la Corte ha affermato a chiare lettere
che «le direttive comunitarie fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la
valutazione di conformità della normativa regionale all'art. 117, primo comma, Cost.».
È, inoltre, possibile che la Corte costituzionale italiana si rivolga alla Corte di giustizia
proponendo un rinvio pregiudiziale quando dubiti della compatibilità con gli obblighi comunitari
di un atto sottoposto al suo giudizio. Per la prima volta, la Corte ha proposto rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia nel corso di un giudizio in via principale concernente
l'imposta su aeromobili a unità di diporto a carico dei non residenti prevista dalla Regione
Sardegna con 1. r. 2/2007 (ord. 103/2008). Dopo che la Corte di giustizia, con sentenza del 17
novembre 2009, in causa C-169/08, ha accertato il contrasto della norma regionale sarda con
l'art. 49 CE, la Corte costituzionale ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale in via definitiva
per contrasto con l'art. 117.1 con sent. 216/2010. Successivamente a questa decisione, la Corte
ha riconosciuto in capo a sé stessa la possibilità di proporre rinvio pregiudiziale anche nel corso
di giudizi in via incidentale (ord. 207/2013).
Va da sé che la Corte propone un rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia solo laddove
dubiti della consistenza e dell'estensione dell'obbligo comunitario: in caso contrario, essa stessa
decide di dichiarare l'illegittimità delle leggi per violazione degli obblighi comunitari e, dunque,
dell'art. 117.1 Cost. (sentt. 439/2008; 191 e 217/2012; 93/2013; 117/2015).
Si è detto che l'art. 117 Cost., specialmente nei commi 2 e 3, continua a disegnare lo schema di
riparto delle competenze normative imperniato sul criterio delle materie. Tuttavia questo
criterio non sempre aiuta a capire a chi spetti, in concreto, la competenza all'esercizio della
potestà legislativa. Ciò accade perché le materie sono indicate attraverso delle «etichette»
(«professioni», «governo del territorio», ecc.) ma non si sa bene quali siano l'estensione, il
contenuto delle stesse. Se ne ha un'idea vaga se si pensa che le materie di cui all'art. 117.2
sono state dettate per consentire una disciplina uniforme in ambiti cruciali volti alla tutela di
interessi infrazionabili ma non è assolutamente facile determinarne il contenuto preciso.
Talvolta, tra il secondo e il terzo comma dell'art. 117, la formulazione delle etichette è similare
ed è difficile trovare un discrimen tra un tipo di competenza e un altro: si pensi alla linea di con-
fine tra le «norme generali sull'istruzione», di competenza esclusiva ai sensi dell'art. 117.2, lett.
n) e la competenza concorrente in materia di «istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni
scolastiche di cui al successivo comma 3.
Nell'esperienza italiana del primo regionalismo, un'opera di sostanziale ricostruzione dei
contenuti delle materie fu fatta, come si è detto attraverso i decreti di trasferimento delle
funzioni amministrative, specialmente con il dpr 616/1977: in forza del parallelismo tra
funzione amministrativa e legislativa, l'individuazione dei contenuti delle funzioni
amministrative ha finito, giocoforza, per incidere sulle materie legislative.
Con la riforma del 2001, è mancata una attività di studio e di sistematizzazione del nuovo
impianto delle materie ad opera del legislatore. La conseguenza più vistosa di questa lacuna è
stata che la Corte costituzionale si è dovuta fare carico di un lavoro titanico per cercare di
ricostruire i contenuti delle materie: operazione, peraltro, non sempre lineare, nella misura in
cui la Corte decide i casi singoli e li salda a un preciso contesto.
Uno degli elementi (ma non l'unico) a cui la Corte ha dovuto fare appello per individuare i
contenuti delle materie è stato certamente quello degli interessi sottesi alle medesime. La
Corte ha chiarito, infatti, che «l'ambito materiale [...] va ricercato [...] attraverso la valutazione
dell'elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo
svolgimento di quelle attività» (sent. 383/2005).
In cosa consiste questo «elemento funzionale», come si raccorda con la dimensione territoriale
degli interessi, in che modo le materie interagiscono tra di loro e come la Corte ha valutato i
casi di interferenza tra una materia e l'altra sarà spiegato nelle pagine che seguono, attraverso
la disamina specifica delle singole potestà legislative dell'art. 117 Cost.
In conclusione, può dirsi che l'art. 117.2 formula un elenco dei titoli di competenza esclusiva
statale decisamente eterogeneo: accanto a materie delle quali si riesce intuitivamente a
comprendere l'estensione si trovano materie che perseguono dei fini, dei valori difficili da
delimitare aprioristicamente.
Ne consegue che anche il criterio che la Corte dovrà adoperare per interpretarle, e per capire in
quale titolo di intervento rientri una determinata disciplina, sarà necessariamente variabile,
talora addivenendo a esiti ricostruttivi opinabili: questo inciderà notevolmente sul
procedimento di individuazione del titolo di competenza coinvolto.
Non è affatto agevole, in definitiva, comprendere l'estensione effettiva di una materia, specie
quando essa sia connotata in senso finalistico. L'assenza di criteri certi e sempre validi implica,
allora, una notevole incertezza nelle decisioni della Corte: in esse, infatti, prevale una logica
casistica – piegata alle esigenze delle fattispecie concrete - piuttosto che sistematica -
universalmente valida a prescindere dalle specifiche congiunture. In questo stato di cose,
l'inasprimento del contenzioso tra lo Stato e le regioni è, invece, l'unica conseguenza
prevedibile.
LA COMPETENZA CONCORRENTE
L'art. 117.3 elenca le materie di competenza concorrente per le quali «spetta alle regioni la
potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla
legislazione dello Stato».
Si tratta dell'unico tipo di competenza normativa già previsto nella Costituzione del 1948 e
rimasto anche dopo l'intervento della l. cost. 3/2001: tuttavia, comunemente si ritiene che la
riforma del Titolo V abbia inciso in senso migliorativo e ampliativo dell'autonomia regionale
rispetto all'omologa potestà concorrente contemplata nell'originario art. 117.1 Cost., in
conformità con la ratio e lo spirito complessivo che ha animato il legislatore di revisione. In
queste materie, dunque, la distinzione della competenza normativa fra Stato e regioni riguarda
esclusivamente il modo di disciplina poiché, sul medesimo oggetto, intervengono tanto il
legislatore statale, attraverso l'individuazione dei principi fondamentali della materia, quanto il
legislatore regionale, che implementa questi principi attraverso le norme di dettaglio che
meglio si adattano alle peculiarità del territorio regionale. Pertanto, i principi rappresentano
una sorta di perimetro comune a tutte le regioni entro il quale le stesse sono chiamate a
legiferare eventualmente differenziandosi tra loro. La competenza statale in materia di principi
fondamentali assolve a una funzione unificante che impone una sorta di comune denominatore
alle regioni: a proposito della legge statale se ne discorre, in gergo, anche come di una legge-
cornice.
Nella misura in cui le leggi cornice, attraverso la fissazione dei principi fondamentali,
condizionano il contenuto delle norme regionali di dettaglio in quella stessa materia, sulla scia
delle più accreditate teorizzazioni sulle fonti del diritto (Crisafulli 1960), si parla di un concorso
vincolato tra fonti: una sorta di rapporto gerarchico articolato, però, non sul grado, sul livello
formale della fonte (trattandosi, in entrambi i casi, di fonti di rango legislativo) bensì sul
contenuto prescrittivo delle norme. La legge statale e la legge regionale sono entrambe
competenti a disciplinare la stessa materia ma in modo diverso:
questa diversità, tuttavia, implica un condizionamento logico, imposto dalla stessa Costituzione
all'art. 117.3, dei principi fondamentali rispetto alle norme di dettaglio.
La questione centrale che riguarda la competenza concorrente è, di conseguenza, cosa sia un
principio fondamentale: la Costituzione si limita a enunciare il concetto ma non a delimitarne
l'ambito in maniera articolata.
In assenza di definizioni, è stata la Corte costituzionale a chiarire la portata e l'estensione dei
principi fondamentali: ma la giurisprudenza costituzionale non ha avuto sempre uno sviluppo
coerente, contribuendo, così, a complicare lo statuto complessivo della potestà concorrente e a
considerarla uno dei «piedi d'argilla su cui il costituente del '48 ha edificato il sistema regionale
italiano».
Sulle norme principio, la Corte costituzionale ha fornito numerose indicazioni. Innanzitutto, non
un intero testo legislativo statale, per il solo fatto di intervenire in una materia di competenza
concorrente è, di per sé, una norma principio; pertanto la legge regionale di dettaglio ha
l'obbligo di implementare soltanto quei «criteri generali ai quali si ispira la disciplina statale in
una determinata materia e che di questa e dei relativi istituti sono espressione caratteristica»
(sent. 83/1982).
Va, poi, disatteso il criterio della «autoqualificazione di una qualunque norma statale come
principio fondamentale: «la qualificazione di una legge o di alcune sue disposizioni come
principi fondamentali della legislazione statale o come norme fondamentali di riforma
economico-sociale non può discendere soltanto da apodittiche affermazioni del legislatore
stesso, ma deve avere una puntuale rispondenza nella natura effettiva delle disposizioni
interessate, quale si desume dal loro contenuto normativo, dal loro oggetto, dal loro scopo e
dalla loro incidenza nei confronti di altre norme dell'ordinamento o dei rapporti sociali
disciplinati» (sent. 85/1990).
Al di là di queste affermazioni relative a problemi piuttosto circoscritti, è utile ricordare quella
giurisprudenza della Corte, già prima della revisione del 2001, che ha individuato alcuni criteri
sostanziali e strutturali di cui le norme principio devono dotarsi; decisione emblematica di
questa giurisprudenza è la sent. n. 177/1988. Sotto il profilo contenutistico-sostanziale, si
considerano principi fondamentali quelle «norme espressive di scelte politico-legislative
fondamentali o, quantomeno, di criteri o di modalità generali tali da costituire un saldo punto
di riferimento in grado di orientare l'esercizio del potere legislativo regionale». Dal punto di
vista strutturale, la Corte enuncia, in negativo, cosa non è principio fondamentale: «statuizioni
al più basso grado di astrattezza, che, per il loro carattere di estremo dettaglio, non solo sono
insuscettibili di sviluppi o di svolgimenti ulteriori, ma richiedono, ai fini della loro concreta
applicazione, soltanto un'attività di materiale esecuzione». Se ne deduce, e contrario, che i
principi fondamentali sono norme dotate di astrattezza e suscettibili di ulteriori svolgimenti da
parte della regione. In altre decisioni, la struttura dei principi riguarda per lo più l'idea secondo
cui essi debbono fissare criteri e obiettivi che, poi, il legislatore regionale deve tradurre in
strumenti concreti attraverso le norme di dettaglio (sentt. 390/2004 e 181/2006).
Tuttavia, la Corte stessa ha, di frequente, relativizzato queste affermazioni. A volte, ha
sostenuto che il concetto di principio fondamentale «...non ha e non può avere caratteri di
rigidità e di universalità, perché le "materie" hanno diversi livelli di definizione che possono
mutare nel tempo» (sent. 50/2005). Dunque, il legislatore statale può modulare il grado di
generalità dei principi fondamentali. Inoltre, alcune materie, per la loro intrinseca complessità e
delicatezza, richiedono una disciplina unitaria e compatta che, pertanto, induce il legislatore
statale a dettare principi più analitici: queste affermazioni della Corte si riferiscono a materie
come la «tutela della salute» o la «ricerca scientifica» (sent. 270/2005) o, ancora,
all'«ordinamento della comunicazione» (sent. 336/2005).
In definitiva, si può dire che la Corte ha enucleato solo criteri di massima per identificare i
caratteri di una norma principio: criteri che possono piegarsi alle esigenze dei casi concreti.
Un problema ulteriore relativo alla potestà concorrente riguarda la fonte nella quale si trovano
consacrati i principi fondamentali. Astrattamente è possibile che: a) i principi fondamentali
siano previsti in leggi cornice approvate espressamente per una specifica materia concorrente;
b) i principi fondamentali si possano dedurre in via interpretativa da qualunque legge statale
anche non pertinente una particolare materia di potestà concorrente.
Soprattutto la prima opzione implica conseguenze piuttosto rilevanti: infatti, qualora mancasse
una legge cornice ad hoc e questa fosse ritenuta necessaria per approvare le norme di
dettaglio, le regioni potrebbero vedere paralizzata la propria competenza legislativa,
indefinitamente. In un primo momento, in effetti, la legge n. 62/1953 (nota anche come legge
Scelba), all'art. 9, aveva subordinato l'esercizio della potestà legislativa regionale di dettaglio
all'approvazione delle leggi cornice statali; tuttavia, la disposizione è stata modificata dall'art.
17, comma 3, della l. n. 271/1970 che ha disposto: «l'emanazione di norme legislative da parte
delle regioni nelle materie stabilite dall'articolo 117 della Costituzione si svolge nei limiti dei
principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole
materie o quali si desumono dalle leggi vigenti». La disposizione è leggermente cambiata, ma
senza significativi mutamenti sostanziali, per effetto dell'art. 1, comma 3, della l. n. 131 del
2003: prescrivendo che le regioni esercitino la potestà legislativa «nell'ambito dei principi
fondamentali espressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi
statali vigenti», la norma in esame sembra solo esprimere una sorta di favor per le leggi cornice
ad hoc e la determinazione espressa dei principi. Quindi, le due tecniche (legge cornice
espressa o enucleazione in via interpretativa dei principi) sono state considerate fungibili:
anche la giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma del 2001 ha continuato ad
adottare questa soluzione (sentt. 282/2002; 196/2003) facendo leva sulla necessità, soprattutto
in fase transitoria, che la legislazione regionale si svolga coerentemente con i principi. C'è da
dire che, diversamente, la Corte avrebbe dovuto ammettere la cosiddetta cedevolezza
rovesciata, ossia la possibilità che le regioni potessero porre ex se i principi fondamentali in
attesa della disciplina statale: soluzione improponibile poiché avrebbe sconfessato il ruolo
unificante dei principi fondamentali e snaturato la funzione della competenza concorrente.
LE MATERIE RESIDUALI
L'art. 117.4 Cost. è stato a lungo considerato una delle più innovative disposizioni introdotte
dalla legge cost: 3/2001) Infatti, attraverso un capovolgimento radicale di prospettiva, il
legislatore di revisione ha invertito la tecnica di riparto delle competenze rispetto a quella del
precedente art. 117 Cost., attribuendo alle regioni «ogni materia non espressamente riservata
alla legislazione dello Stato».
Anche se questa formula – che ricorda analoghe disposizioni presenti in alcuni sistemi federali –
lascia apparentemente uno spazio molto ampio alla competenza regionale, tuttavia un'attenta
considerazione delle riserve statali, come sopra esposte, porta a conclusioni alquanto diverse.
In primo luogo, infatti, sono riservati allo Stato l'intero ordinamento civile e penale, l'intero
sistema dei rimedi giurisdizionali e le connesse regole processuali, nonché l'ordinamento di
tutte le magistrature. Inoltre, la presenza delle materie trasversali e la possibilità che, a certe
condizioni, operi il principio di sussidiarietà rappresentano altre due modalità di intervento
dello Stato in qualunque materia. Da ciò emerge non solo la scarsità «numerica» delle materie
residuali, ma anche la difficoltà di definirle in modo rigido.
Proprio per questa ragione, sin da quando è apparsa, la competenza di cui all'art. 117.4 Cost. è
stata qualificata con l'aggettivo «residuale» e non «esclusiva» al pari di quella statale prevista
nell'art. 117.2: la sua estensione è il frutto di un'operazione di sottrazione rispetto a quanto
previsto negli elenchi dei commi precedenti, al punto tale che si è parlato di «tecnica del
carciofo». Inoltre, per individuare le materie di competenza residuale, è indispensabile tenere
conto di tutte le altre riserve previste in Costituzione, non solo di quelle contemplate nell'art.
117: si pensi, ad esempio, alle riserve che l'art. 123 Cost. riconosce in capo agli statuti regionali
ordinari in tema di «forma di governo» e di «principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento», che non possono essere disciplinati con legge ordinaria della regione.
Dunque, le materie di competenza residuale regionale sono difficilmente definibili. Ci sono, in
verità, due materie - ossia la polizia amministrativa locale e l'istruzione e formazione
professionale - che il testo costituzionale espressamente esclude dal novero delle competenze,
rispettivamente, esclusive: art. 117.2, lett. b) e concorrenti: art. 117.3, laddove attribuisce alla
competenza concorrente la materia «istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e
con esclusione dell'istruzione e della formazione professionale»): si tratta, pertanto, delle
uniche due etichette materiali «nominate», appartenenti alla competenza residuale. Tuttavia,
poiché manca un elenco che enumeri le materie, bisogna dotarsi di adeguati strumenti
interpretativi per individuarle.
Il consueto ruolo decisivo e delicato è stato svolto, in tal senso, dalla Corte
costituzionale che, giudicando le controversie relative alle competenze legisla-
tive, non solo ha avuto il compito di identificare le singole etichette materiali
ma anche di «riempirle» di contenuti, tracciando i confini tra i diversi ambiti competenziali. La
Corte si è servita, per far ciò, di vari criteri, ma un ruolo di primo piano spetta al criterio storico-
normativo, ossia quel
criterio che si fonda sull'attribuzione di funzioni da parte della legislazione
ordinaria, anche precedente alla riforma: l'uso di una disciplina preesistente
è indispensabile anche per dar vita a quella «non regressione» rispetto alle
funzioni precedentemente attribuite alle regioni.
Nella pregressa esperienza regionalista, infatti, le funzioni erano state trasferite tramite decreti
legislativi: l'ultimo, in ordine di tempo, trovava il proprio fondamento nella legge 59/1997 (c.d.
legge Bassanini). Pertanto, di questi decreti e delle «etichettes materiali in essi previste ha
fatto largo uso la Corte nell'individuazione degli ambiti di competenza residuale. Ovviamente,
questo criterio non può essere adoperato per tutto: ci sono delle formule nel nuovo testo
dell'art. 117 – come «governo del territorio» – che non trovano un riscontro nella pregressa
tradizione normativa, mentre alcune materie storiche – si pensi ai «lavori pubblici» – sono
scomparse dagli elenchi: in questi casi, lo sforzo ricostruttivo della Corte è stato maggiore.
La Corte, inoltre, sin dai primordi della sua giurisprudenza post-riforma ha tenuto a sottolineare
che non necessariamente tutto ciò che non è scritto negli elenchi dell'art. 117 Cost. sia, per ciò
solo, di competenza residuale: si veda la sentenza 370/2003, in cui si chiarisce che «in via
generale, occorre inoltre affermare l'impossibilità di ricondurre un determinato oggetto di
disciplina normativa all'ambito di applicazione affidato alla legislazione residuale delle regioni ai
sensi del comma quarto del medesimo art. 117, per il solo fatto che tale oggetto non sia
immediatamente riferibile a una delle materie elencate nei commi secondo e terzo dell'art. 117
della Costituzione». Questo equivale, in sostanza, a dire che le regioni non possono creare dal
nulla una materia e riempirla di contenuti (si vedano, ad esempio, le sentt. 166 e 255/2004, che
disconoscono l'esistenza delle materie qualificate, rispettivamente, come rapporto tra uomo e
specie animali e spettacoli).
Ma allora in che modo la Corte decide i casi, individua gli ambiti materiali soprattutto, specifica
i contenuti degli stessi? Alcuni esempi possono aiutare alla comprensione del problema.
La materia della caccia è stata da molti additata come un possibile ambito di competenza
regionale residuale, dato che era annoverata tra le materie di competenza concorrente nella
precedente formulazione dell'art. 117.1 Cost.
Ma quali funzioni, in concreto, possono essere esercitate in virtù di questa competenza?
Questo è stato deciso di volta in volta dalla Corte in relazione ai singoli casi. Per cui si è detto
che rientra nella materia della caccia la possibilità per la regione di disporre che l'annotazione
dei capi abbattuti sul tesserino venatorio avvenga al termine della giornata di caccia anziché
dopo ogni abbattimento (sent. 332/2006); però, la competenza residuale in materia di caccia
cede il passo di fronte alla competenza statale in materia di tutela dell'ambiente, quando si
tratta di delimitare l'arco temporale del prelievo venatorio. In numerose decisioni, infatti, la
Corte ha detto che il lasso di tempo entro cui è possibile effettuare la caccia non rientra nella
competenza residuale delle regioni in materia - appunto - di caccia ma nella competenza
esclusiva statale in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema (art. 117.2, lett. s) poiché
lo Stato realizza il compito, attraverso questa funzione, di individuare degli standard minimi di
tutela della fauna (si vedano le sentt. 311/2003; 391/2005; 441/2006 o 20/2012). È ben
possibile che le norme statali riguardanti il prelievo venatorio siano integrate da norme
regionali: ma la Corte ha chiarito che questa integrazione può andare «esclusivamente nella
direzione dell'innalzamento del livello di tutela» (sentt. 278 e 116/2012; 139/2017).
Altro esempio si può trarre dalla materia del commercio, anch'essa considerata ambito di
competenza residuale, in linea di massima. In virtù di questo titolo competenziale è possibile
che la regione, ad esempio, disciplini l'orario degli esercizi commerciali (sentt. 288 e 247/2010;
sent. 350/2008; ord. 199/2006): tuttavia, in materia di orari degli esercizi commerciali, l'art. 31,
comma 1, del d.l. n. 201 del 2011 (convertito nella 1. 214/2011) ha stabilito che le attività
commerciali si svolgano senza limiti e prescrizioni come il rispetto degli orari di apertura e di
chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva e quello della mezza giornata di chiusura
infrasettimanale dell'esercizio. Quindi le regioni, in forza di questa disciplina statale posta a
tutela della concorrenza, hanno subito un ridimensionamento ulteriore della propria potestà
normativa: lo confermano alcune decisioni come le sentt. 299/2012; 239/2016 e 98/2017 che
sottolineano come, attraverso l'esonero degli esercizi commerciali dall'obbligo di rispettare gli
orari e i giorni di chiusura, la disciplina statale abbia valorizzato il principio di liberalizzazione.
In talune decisioni, la Corte ha ammesso la possibilità che la regione, in forza della competenza
residuale in materia di commercio, possa dettare delle discipline che sortiscano effetti a favore
della concorrenza, ma «sempre che tali effetti siano marginali o indiretti e non siano in
contrasto con gli obiettivi delle norme statali che disciplinano il mercato, tutelano e
promuovono la concorrenza» (secondo quanto stabilito dalla Corte, con sent. 430/2007):
infatti, le regioni non possono far valere la propria competenza in materia di commercio per
dettare una disciplina che «produca, in concreto, effetti che ostacolino la concorrenza,
introducendo nuovi o ulteriori limiti o barriere all'accesso al mercato e alla libera esplicazione
della capacità imprenditoriale» (sent. 150/2011), ambito che, dunque, resta affidato allo Stato
in forza della competenza in materia di tutela della concorrenza.
Un simile ragionamento non riguarda solo le materie residuali «dedotte dalla Corte: esso si
riscontra anche per le materie residuali «nominate», cioè quelle già in qualche modo attribuite,
in Costituzione, alla competenza residuale. È il caso della formazione professionale: la Corte ha
specificato che rientra nella competenza residuale la disciplina della formazione esterna alle
aziende, mentre quella interna ricade sicuramente nella competenza concorrente in materia di
professioni (affermazione contenuta in varie sentenze, ad esempio nelle sentt. 406 e 425/2006;
250/2009 e 269/2010).
Molte altre sono le competenze riconosciute in via residuale alle regioni: esse rientrano in
materie come quella denominata fiere e mercati (sent. 1/2004), turismo (sent. 90/2006),
agricoltura e foreste (sent. 12/2004), pesca (sent. 81/2007), trasporti pubblici locali (sent.
222/2005), politiche sociali (sent. 116/2008). Interessante è l'insieme di competenze ricadenti
nella materia che la Corte qualifica come organizzazione amministrativa della regione: vi
rientrano, infatti, la disciplina riguardante l'accesso agli impieghi presso le regioni e gli altri enti
regionali (sent. 380/2004), la possibilità di prevedere la decadenza automatica delle nomine
regionali di dirigenti «apicali» al momento dell'insediamento dei nuovi organi rappresentativi
della regione (sent. 233/2006), la disciplina delle comunità montane (sent. 244/2005).
Tuttavia, queste competenze hanno pur sempre natura «residuale» e non esclusiva. La
residualità delle materie di competenza regionale è tale non solo perché la sua individuazione
richiede un'operazione di sottrazione, ma anche perché essa non configura una vera e propria
riserva di competenza in senso forte, tale da salvaguardarla da possibili interventi normativi
statali.
Come si vedrà a breve, infatti, da un lato, è sempre possibile che una competenza residuale sia
sottoposta al meccanismo dell'attrazione in sussidiarietà da parte dello Stato, come previsto sin
dalla fondamentale sentenza 303/2003: questa possibilità è stata riconosciuta esplicitamente
dalla Corte nella sentenza 242/2005, ma si intravvedeva già nella sentenza 6/2004.
Dall'altro, come si è detto poc'anzi, lo Stato può sempre interferire nelle materie di competenza
regionale poiché vanta, in forza dell'art. 117.2 Cost., numerosi titoli di intervento «trasversali»,
mediante i quali può disciplinare materie che, almeno in parte, presentano punti di contatto
con ambiti di competenza regionale. Si tratta di competenze caratterizzate da una particolare
struttura «teleologica»: esse, infatti, tendono alla realizzazione di un fine, di uno scopo che,
come tale, va perseguito a prescindere dal riparto di competenza. Così facendo, però, la
legislazione statale esclude la possibilità di un intervento regionale in materia, vanificando
l'eventuale competenza residuale che pure la regione avrebbe potuto far valere. Ad esempio, in
virtù del titolo trasversale rappresentato dalla tutela della concorrenza, la disciplina legislativa
statale può incidere (e prevalere) sulla materia di competenza residuale dei trasporti pubblici
locali (sentt. 29 e 80/2006; 452/2007), sulla materia dell'agricoltura e del commercio (sent.
106/2006) e su un fascio complessivo di materie nell'ambito della disciplina di impianti
alimentati da fonti rinnovabili (sent. 88/2009). Analogo discorso può ripersi, tuttavia, in
relazione ad altre materie qualificate come «trasversali» (come ad esempio i «livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali di cui all'art. 117.2, lett. m). Ci sono poi,
come si è visto, i fenomeni di concorrenza e interferenza di competenze che la Corte spesso
risolve col criterio della prevalenza, avvantaggiando competenze statali e rendendo recessive
competenze residuali.
Anche se l'assegnazione alle regioni della competenza residuale non ha determinato un
ampliamento delle competenze regionali così rilevante come emergeva dalle intenzioni che
avevano ispirato la revisione e dagli auspici di una parte della dottrina, va invece osservato che
essa ha prodotto un notevole cambiamento sotto un diverso profilo. Prima della riforma del
2001 le regioni avevano competenza solo per specifiche materie, e lo Stato competenza
generale. Nel contenzioso, le regioni dovevano o (nel difendere le loro leggi) dimostrare di
essere rimaste nelle loro materie o (nel censurare le leggi statali) dimostrare l'invasione della
propria competenza, mentre ora esse devono - negli stessi casi – dimostrare di non avere
invaso la competenza statale o dimostrare che non vi è un legittimo titolo di intervento statale.
È cioè mutata la tecnica argomentativa dei rispettivi sconfinamenti di competenza, attraverso
una significativa inversione dell'«onere della prova».
Come opera la chiamata in sussidiarietà: il caso della «legge obiettivo» (sent. 303/2003)
Questo schema teorico può essere compreso con un esempio, e analizziamo proprio il caso affrontato
nella sentenza 303/2003: oggetto dello scrutinio di costituzionalità era una legge statale di disciplina dei
procedimenti amministrativi necessari alla realizzazione di grandi infrastrutture (c.d. «legge obiettivo»
443/2001 e provvedimenti collegati); a fronte dell'impugnazione da parte di diverse regioni, che
lamentavano una violazione delle proprie competenze nella materia considerata residuale dei «avori
pubblici», ecco i passaggi argomentativi compiuti dal giudice costituzionale nell'applicare la chiamata in
sussidiarietà: a) in primo luogo, la mancata menzione dei «lavori pubblici» tra le materie di competenza
esclusiva (art. 117.2 Cost.) o concorrente (art. 117.3 Cost.) non consente di dedurre automaticamente la
sussistenza di una materia di competenza residuale: al contrario, a seconda della rilevanza dell'opera
pubblica in gioco potrà individuarsi il livello degli interessi coinvolti e, di conseguenza, il livello di
governo competente (comunale, provinciale regionale, statale) nel rispetto del principio di sussidiarietà
verticale enunciato dall'art. 118.1 Cost.; b) ma se l'infrastruttura da realizzare soddisfa interessi di
dimensione nazionale, e le relative funzioni amministrative devono dunque spettare allo Stato, al potere
centrale deve essere parimenti riconosciuta la competenza legislativa - esclusa quella meramente
regolamentare - a regolare quelle specifiche funzioni (essendo assurdo ipotizzare, di contro, un
intervento della legge regionale nella disciplina di funzioni statali); c) questa competenza legislativa
spetta allo Stato a prescindere dalle materie sulle quali essa incide, quand'anche siano di competenza
regionale ai sensi dell'art. 117 Cost. (nel caso specifico, ad esempio, la legge statale riguardava la
materia concorrente del «governo del territorio» senza limitarsi a dettare «principi fondamentali» per la
legislazione regionale);
d) la tutela degli interessi unitari deve però prevedere un apprezzamento, da parte del legislatore
statale, ragionevole e proporzionato: ciò significa che, nel caso, deve essere valutata con particolare
rigore la dimensione nazionale dell'infrastruttura da realizzare (soddisfa davvero interessi che
travalicano la dimensione regionale?); inoltre, le funzioni amministrative attratte al centro devono
limitarsi allo stretto indispensabile in vista della realizzazione dell'opera (e quindi, ad esempio,
approvazione del progetto, definizione delle modalità di finanziamento, aggiudicazione); e) infine, in
nome del principio di leale collaborazione, lo Stato e le regioni interessate devono trovare un accordo in
ordine all'individuazione delle opere considerate di interesse nazionale e alla loro localizzazione sul
territorio.
La stessa logica dell'art. 117.6, invece, conduce a giustificare i regolamenti statali in caso di
«chiamata in sussidiarietà »: se lo Stato può amministrare e legiferare in certi casi, perché non
deve poter adottare un regolamento? E, in effetti, la Corte costituzionale ha più volte ammesso
regolamenti statali volti a disciplinare funzioni amministrative che, pur in materie regionali,
spettano allo Stato.
Infine, occorre soffermarsi sulla possibilità, risultante dal primo periodo dell'art. 117.6, di
delega del potere regolamentare statale alle regioni. Data la limitazione (almeno teorica) del
potere regolamentare statale e data la possibilità che la legge statale preveda anche - nelle
materie di cui all'art. 117.2 - norme legislative regionali integrative, l'utilizzo di tale istituto è
stato (e si prospetta) assai sporadico. È comunque necessario che lo Stato deleghi con legge il
potere regolamentare alle regioni e che i regolamenti da queste adottati rispettino i limiti e i
principi posti dalla legge statale.
Quanto all'organo regionale titolare del potere regolamentare delegato, la scelta spetta agli
statuti regionali, che spesso hanno conferito tale potere al consiglio, in deroga al criterio
generale secondo cui il potere regolamentare spetta alla giunta. Tale scelta è stata giudicata
ragionevole dalla Corte costituzionale (sent. 2/2004), data la maggior rilevanza di tali
regolamenti delegati, che rappresentano l'unica manifestazione di potestà normativa della
regione nella materia in questione.
Mentre, come visto, la separazione tra regolamenti statali e competenze regionali trova non
rare smentite nella prassi, la Corte si è mostrata più rigida nel difendere l'autonomia
regolamentare che l'art. 117.6 riconosce agli enti locali «in ordine alla disciplina
dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite». Con la sentenza
246/2006 la Corte ha annullato una disposizione legislativa regionale che prevedeva
l'applicazione in via cedevole di regolamenti regionali a procedimenti autorizzativi di
competenza degli enti locali, in attesa dei regolamenti locali.
In terzo luogo, per tutte le materie regionali occorre ricordare il possibile intreccio con le
competenze statali «trasversali»: e benché il loro esercizio di norma non comporti un'interferenza
con l'assegnazione della titolarità delle funzioni, anche tale evenienza non può essere del tutto
esclusa (per un esempio, giustificato dalla «tutela della concorrenza», sent. 452/2007, punto 4).
Per l'una o per l'altra di queste ragioni è talora possibile che l'ossatura organizzativa fondamentale
del sistema amministrativo sia determinata dalla legge statale, come nel caso del servizio sanitario
detto, appunto, «nazionale» (su cui vedi anche § VII.8) e per altre politiche di competenza in tutto
o in parte regionale, ma organizzate nel quadro di un complessivo sistema nazionale (su tale
situazione di «intreccio» e sulle connesse conseguenze cfr. sent. 251/2016). Nelle «vere» materie
statali spetta ovviamente allo Stato anche decidere dell'allocazione delle funzioni amministrative.
La condizione delle regioni speciali è mutata in modo significativo con l’approvazione della legge
cost. 2/2001. Questa legge è intervenuta su due fronti: da un lato, ha inciso sul procedimento di
revisione degli statuti speciali; dall'altro (in analogia con quanto previsto dalla legge cost. 1/1999
per le regioni ordinarie) ha sottratto allo statuto speciale la disciplina della forma di governo,
rinviandola a una legge regionale rinforzata, il cui procedimento di formazione è molto simile a
quello degli statuti ordinari di cui all'art. 123 Cost.: questa fonte è nota come legge statutaria. Il
procedimento di revisione di ogni singolo statuto speciale ha, dunque, subito una variazione nel
2001: per modificare lo statuto speciale occorre sempre una legge costituzionale, ma essa
presenta delle peculiarità procedimentali che la «aggravano» — imponendo la partecipazione
della regione interessata — e la discostano leggermente dal «tipo» di riferimento (quello proprio
dalla legge costituzionale, ex art. 138 Cost.). Per effetto di queste modifiche, gli statuti speciali
presentano sotto questo profilo — una sostanziale omogeneità di con-tenuti. Anche altre
disposizioni della legge cost. 2/2001 presentano interessanti novità. In particolare: a) l'iniziativa
per la revisione statutaria appartiene anche al consiglio regionale; b) sui progetti di modifica dello
statuto di iniziativa governativa o parlamentare il consiglio regionale esprime il suo parere entro
due mesi; c) le modifiche approvate sono sottratte al referendum nazionale. Le prime due
modifiche generalizzano per tutte le regioni speciali tasselli procedimentali già previsti da alcuni
statuti speciali; ad esempio, lo statuto della regione Sardegna contemplava, già prima della legge
cost. 2/2001, l'istituto del parere obbligatorio del consiglio regionale su progetti di modifica dello
statuto di iniziativa governativa o parlamentare: la legge cost. 2/2001 si è limitata, in questo caso,
a estendere il termine entro cui il consiglio regionale deve esprimere il parere (due mesi anziché
uno, come prevedeva originaria-mente l'art. 54 St. Sar.). Quanto alla sottrazione del procedimento
di revisione statutaria al referendum nazionale previsto dall'art. 138 Cost., invece, si è sviluppato
un dibattito molto acceso in dottrina, volto a valutare la ratio di tale disposizione e la collocazione
che, a seguito di questa modifica, lo statuto speciale assume nel sistema delle fonti. In particolare,
l'assenza del referendum nazionale ex art. 138 Cost. consente ancora di qualificare lo statuto
speciale come legge costituzionale (seppure atipica) o impone di considerarla come legge che si
colloca al di sotto della Costituzione ma al di sopra delle leggi ordinarie? La risposta a questa
domanda è decisiva perché condiziona la collocazione dello statuto nel sistema delle fonti e
permette di comprendere i limiti cui lo statuto speciale è soggetto. C'è chi sostiene che l'esclusione
dello statuto speciale dal referendum nazionale condurrebbe a configurarlo quale fonte
gerarchicamente subordinata alla legge costituzionale, anche se pur sempre sovraordinata rispetto
alla legge ordinario: lo statuto mancherebbe di un elemento procedimentale — il referendum,
appunto — che ne depotenzierebbe la forza rispetto alle leggi di revisione costituzionale ex art.
138 Cost, Accogliendo una simile prospettazione, le conseguenze sarebbero di particolare rilievo:
una qualunque legge di revisione costituzionale adottata con il procedimento di cui all'art, 138
Cost, potrebbe, infatti, modificare lo statuto speciale a prescindere dalla partecipazione regionale
al procedimento stesso, frustrando, così, la ratio stessa della legge cost. 2/2001, che aveva
modificato il procedimento di revisione degli statuti speciali proprio per rendere necessaria la
partecipa-zione regionale. Inoltre, non sarebbe molto chiaro il sistema dei limiti cui lo statuto
dovrebbe essere assoggettato: gli stessi delle leggi ordinarie oppure quelli relativi alle leggi di
revisione costituzionale? Parallelamente, c'è chi afferma che l'assenza del referendum nazionale
non costituisce un depotenziamento dello statuto speciale (e, quindi, un abbassa-mento del livello
della fonte) ma, al contrario, un elemento che aggrava il procedimento di formazione dello statuto
medesimo dando vita a una fonte «legge costituzionale» atipica, titolare di una riserva di
competenza. Questa diversa ricostruzione eviterebbe l'inconveniente segnalato poc'anzi (ossia, la
modificabilità degli statuti speciali da parte di leggi costituzionali ex art. 138 Cost. senza il
coinvolgimento regionale) e inoltre implicherebbe un più chiaro regime dei limiti incontrati dagli
statuti speciali: questi ultimi sarebbero soggetti solo ai principi supremi dell'ordinamento
costituzionale, secondo la giurisprudenza costituzionale inaugurata con sentenza 1146/1988.
Ovviamente, a seguire questa tesi, le modifiche allo statuto sarebbero «patteggiate» tra lo Stato e
la regione interessata senza la possibilità per il popolo di esprimersi: proprio l'inconveniente —
l'impossibilità che la comunità nazionale esprima la sua voce — che la tesi opposta intendeva
scongiurare.
Un coinvolgimento ancora più intenso delle Regioni speciali nella revisione dei propri Statuti?
Le due modifiche innanzi segnalate (ossia, parere obbligatorio del consiglio regionale e sottrazione a
referendum nazionale) sono state decisive per consentire un più deciso coinvolgimento delle Regioni
speciali nel procedimento di revisione dei propri Statuti. Tuttavia, vanno almeno menzionati altri due
tentativi, poi naufragati, volti a prevedere una partecipazione paritaria delle regioni speciali nel
procedimento di revisione statutaria: entrambi i tentativi, con alcune differenze procedimentali,
convertivano il parere obbligatorio dei Consigli in intesa. Il primo atto che contemplava l'intesa è il disegno
di legge costituzionale recante "Modifiche alla Parte II della Costituzione", approvato a maggioranza
assoluta in seconda deliberazione al Senato il 16 novembre 2005 e pubblicato in G.U. 18 novembre 2005, il.
269. L'articolo 38 del progetto di riforma, rubricato "Approvazione degli statuti delle Regioni speciali",
disponeva testualmente «1. All'articolo 116, primo comma, della Costituzione, sono aggiunte, in fine, le
seguenti parole: "previa intesa con la Regione o Provincia autonoma interessata sul testo approvato dalle
due camere in prima deliberazione. Il diniego alla proposta di intesa può essere manifestato entro tre mesi
dalla trasmissione del testo, con deliberazione a maggioranza dei due terzi dei componenti del Consiglio o
Assemblea regionale o del Consiglio della Provincia autonoma interessata. Decorso tale termine senza che
sia stato deliberato il diniego, le camere possono adottare la legge costituzionale"» L'intesa era fase
procedimentale collocantesi tra la prima e la seconda deliberazione e il suo eventuale diniego, nei modi e
nelle forme prescritte, avrebbe arrestato il procedimento di revisione statutaria. Il progetto è naufragato a
causa della sua mancata approvazione referendaria del 25 e 26 giugno 2006 (esito pubblicato sulla G.U. n.
171 del 25 luglio 2006). Stessa sorte è toccata alla riforma Renzi-Boschi: il referendum del 4 dicembre 2016
(esiti pubblicati G.U. n. 31 del 7 febbraio 2017) non ha confermato la revisione costituzionale ad ampio
spettro che incideva robustamente anche sul sistema regionale italiano. Invero, la norma di modifica del
procedimento di revisione degli statuti, più discreta e laconica, era collocata, nella topografia della riforma,
solo tra le disposizioni transitorie. L'art. 39, comma 13, del testo finale della riforma (pubblicato in G.U. n.
88 del 15 aprile 2016) prevedeva: «le disposizioni di cui al capo IV della presente legge costituzionale non si
applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione
dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome».
Quanto ai contenuti degli statuti speciali, essi sono rappresentati da quelle «forme e condizioni
particolari di autonomia» di cui parla l'art. 116 Cost. Non si possono, qui, analizzare partitamente
le caratteristiche dei singoli statuti speciali: tuttavia, si può tracciare un quadro complessivo delle
discipline normative contenute negli statuti speciali che presentano delle peculiarità rispetto a
quanto disposto dal Titolo V, parte II, della Costituzione per le regioni ordinarie. Per ciò che attiene
alla natura stessa dell'istituzione, la particolarità più accentuata è quella della regione Trentino-
Alto Adige, suddivisa nelle due province autonome di Trento e di Bolzano dotate di funzioni
legislative e amministrative. Le province autonome sono il vero fulcro attorno al quale ruota
l'ordinamento regionale del Trentino-Alto Adige: si pensi, ad esempio, che il consiglio regionale, ai
sensi dell'art. 25 dello statuto del Trentino-Alto Adige (modificato dall'art. 4, comma 1, lett. A,
della legge cost. 2/2001), «è composto dai membri dei Consigli provinciali di Trento e di Bolzano»:
anche la Corte costituzionale ha riconosciuto il carattere derivativo dell'Assemblea regionale
rispetto ai consigli delle due province autonome (sent. 232/2006). Una particolarità della regione
Sicilia, non più in vigore, riguardava il profilo dei controlli: il riferimento è all'istituto del controllo
preventivo sulle leggi regionali siciliane. Si trattava di un controllo sulle delibere legislative
dell'assemblea regionale siciliana attivabile a opera del commissario dello Stato presso la regione
tramite un ricorso diretto alla Corte costituzionale (vedi § X1.5): una differenza davvero vistosa
rispetto alle disposizioni vigenti per le regioni ordinarie che, ai sensi dell'art. 127 Cost., possono
vedere impugnatele proprie leggi dinanzi alla Corte solo dopo la pubblicazione. La differenza di
regime era, peraltro, consacrata anche nella legge n. 87 del 1953 che, a proposito del sistema
impugnatorio delle leggi regionali, prima della modifica dell'art. 127 ad opera della riforma del
2001, premetteva la formula «ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista
dallo statuto speciale della Regione siciliana...». L'istituto del controllo preventivo è sopravvissuto
per diverso tempo nell'ordinamento, nonostante l'introduzione, attraverso l'art. 10 della legge
cost. 3/2001, della c.d. «clausola di adeguamento automatico» (di questa disposizione e delle
conseguenze a essa collegate si parlerà diffusamente nel § D(.5). Ma nel 2014, prima con
l'ordinanza n. 114 e poi con la sentenza n. 255, la Corte costituzionale è intervenuta sul punto,
parificando la condizione della regione siciliana con quella delle altre regioni. In partico-lare, con la
prima decisione (ord. 114/2014), la Corte ha sospeso un giudizio promosso dal Commissario dello
Stato per la Regione siciliana avverso una disposizione contenuta in una delibera legislativa
approvata dall'Assemblea regionale, sollevando dinanzi a sé stessa la questione di legittimità
concernente l'art. 31, comma 2, della legge n. 87/1953, per violazione degli articoli 127 Cost. e 10
della legge cost. 3/2001, nella parte in cui la disposizione fa salva la particolare forma di controllo
delle leggi per la Regione siciliana. Con la seconda decisione (sent. 255/2014), la Corte, realizzando
un deciso revirement rispetto ai propri precedenti (sent. 314/2003), dichiara l'incostituzionalità in
parte qua dell'art. 31, comma 2, legge 87/1953 e rimuove, in tal modo, l'anomalia del regime
impugnatorio delle leggi siciliane, parificandolo, ai sensi dell'art. 127 Cost. in forza della clausola di
adeguamento automatico, a quello delle altre regioni.
Di certo, in ogni modo, gli aspetti che maggiormente valgono a qualificare le «forme e condizioni
particolari di autonomia» delle regioni speciali sono costituiti dalle speciali competenze legislative
e amministrative, dal modo di attuazione degli statuti attraverso una fonte peculiare (appunto le
norme di attuazione) e dal regime finanziario: aspetti che formano oggetto dei paragrafi successivi
e ai quali, dunque, si rinvia integralmente. Si è detto che la legge cost, 2/2001 è intervenuta su due
fronti: uno, appena esaminato, relativo al procedimento di revisione degli statuti speciali e l'altro
relativo all'introduzione della cd. legge statutaria. È opportuno, adesso, soffermarsi su questo
secondo aspetto. Bisogna ricordare che la legge cost. 1/1999 ha introdotto importanti modifiche
dell'art. 123 Cost. relativamente al procedimento di formazione e al contenuto necessario degli
statuti delle regioni ordinarie: non solo ne ha interamente regionalizzato il procedimento di
formazione, ma ha, altresì, riservato a queste fonti la disciplina della «forma di governo» e dei
«principi fondamentali di organizzazione e funzionamento della regione». Per evitare che la
condizione delle regioni speciali risultasse deteriore rispetto a quelle ordinarie e per consentire,
dunque, che anch'esse potessero, in completa autonomia, determinare la propria farina di
governo (sottraendone la disciplina allo statuto speciale), la legge cost. 2/2001 ha introdotto
questa nuova fonte, entrata nel linguaggio comune con il nome di «legge statutaria», Le leggi
statutarie sono leggi regionali peculiari sia per alcuni profili relativi al procedimento di formazione,
sia per lo specifico oggetto a esse riservato. procedimento di formazione delle leggi statutarie
ricalca solo in parte quello previsto nell'art. 123 Cost, per gli statuti delle regioni ordinarie, pur
presentando con esso indubbie analogie (sulla sostanziale incomparabilità tra statuto ordinario e
legge statutaria, vedi Corte cost. 370/2006).
Ciascuna legge statutaria deve essere approvata con un'unica deliberazione del consiglio regionale
a maggioranza assoluta dei suoi componenti (a differenza dello statuto ordinario, per il quale si
prevede una doppia deliberazione, sempre a maggioranza assoluta); la deliberazione viene
pubblicata prima della promulgazione per consentire che, entro tre mesi, un cinquantesimo del
corpo elettorale regionale o un quinto dei membri del consiglio facciano richiesta di referendum
confermativo. Nonostante la legge cost. 2/2001 non ne faccia menzione, si deve
ritenere che anche per la legge statutaria sussistano due pubblicazioni, analogamente al regime
degli statuti ordinari: una (detta «notiziale», cioè effettuata al puro scopo di dare notizia
dell'approvazione) costituente il dies a quo per la proposizione del referendum confermativo o del
ricorso governativo dinanzi alla Corte; un'altra, invece, successiva alla promulgazione da parte del
presidente della regione e rientrante, dunque, nella fase integrativa dell'efficacia. Se la delibera
legislativa statutaria avviene a maggioranza di due terzi dei consiglieri (e non, dunque, a
maggioranza assoluta), aumenta la frazione del corpo elettorale regionale che è abilitato a
chiedere il referendum confermativo — un trentesimo, anziché un cinquantesimo — ma la
possibilità di avviare la consultazione referendaria scompare per i membri del consiglio: anche
questa è una differenza rispetto al procedimento di cui all'art. 123 Cost. Entro trenta giorni dalla
pubblicazione notiziale è possibile, infine, che il governo presenti ricorso dinanzi alla Corte
costituzionale: quindi, un controllo preventivo di legittimità costituzionale, simile a quello per gli
statuti ordinari. Il particolare procedimento di formazione della legge statutaria vale a qualificarla
come legge «rinforzata»: essa non può essere modificata dalla regione se non nei modi appena
descritti. Inoltre, la legge statutaria è destinataria di una riserva di competenza, in quanto la legge
cost. 2/2001 attribuisce a essa un contenuto necessario che non può essere disciplinato da altra
fonte. Quanto al contenuto, infatti, la legge statutaria deve disciplinare: a) la forma di governo,
ossia i rapporti intercorrenti tra gli organi di vertice li della regione; b) l'elezione del consiglio
regionale, inclusa la disciplina dei casi di incompatibilità e ineleggibilità dei suoi membri (per le
regioni ordinarie, invece, l'art. 122 Cost. affida la materia in questione alla legge regionale nei limiti
dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica; c) l'iniziativa legislativa, ma solo
quella popolare, mentre le altre forme di iniziativa legislativa sono ancora disciplinate dagli statuti
speciali; d) il referendum abrogativo, propositivo, consultivo (l'art. 123 Cost. adopera, invece, una
formula più stringata, limitandosi a riconoscere allo statuto ordina-rio il potere di regolare il
referendum «su leggi e provvedimenti amministrativi della regione». Nulla si dice a proposito della
possibilità, per le regioni speciali, di istituire con legge statutaria il consiglio delle autonomie locali-
CAL (per le regioni ordinarie questa possibilità è espressamente contemplata nell'art. 123 Cost.:
vedi § V.11). Tuttavia, l'assenza di un'espressa previsione in tal senso nella legge cost. 2/2001 non
impedisce alle regioni speciali di dotarsi del CAL, come pure afferma la sentenza 370/2006. Alcuni
di questi ambiti materiali erano prima disciplinati direttamente dagli statuti speciali e sono
transitati, a opera della legge cost. 2/2001, nel contenuto necessario della legge statutaria, fonte
pur sempre rinforzata ma comunque sub-costituzionale: per descrivere questo fenomeno — il
passaggio della disciplina di una materia dalla legge costituzionale (in questo caso, lo statuto,
speciale) a una fonte di rango inferiore, si usa fare riferimento al concetto di
“decostituzionalizzazione”. Più significativo, tuttavia, è notare che si è passati da una fonte statale
a una completamente autonoma. I limiti che la legge statutaria incontra nel disciplinare gli oggetti
a essa affidati sono dati dall'armonia con la Costituzione, dai principi dell'ordinamento giuridico
della Repubblica e dalle specifiche disposizioni relative alla forma di governo, Quanto al primo e al
terzo limite se ne è già parlato diffusamente sopra (vedi § V.4), poiché questi limiti ricalcano quelli
omologhi previsti per gli statuti ordinari. Più problematica è l'individuazione del limite relativo ai
principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica. L'espressione richiama i principi generali
dell'ordinamento che costituiscono il limite alle potestà legislative delle regioni speciali, secondo i
rispettivi statuti: ma se il limite fosse lo stesso, la legge statutaria sarebbe assimilabile a una
qualunque legge regionale. È stato suggerito che questa formula — apposta in relazione alla forma
di governo — assolva alla medesima funzione dei principi fondamentali stabiliti con legge della
Repubblica, che l'art. 122 Cost, indica come limiti subiti dalle leggi regionali (per le regioni
ordinarie) nella disciplina del sistema di elezione e dei casi di incompatibilità dei componenti degli
organi regionali. Numerose sono, ad oggi, le leggi statutarie approvate dalle regioni speciali: ciò è,
probabilmente, il segnale che le regioni ritengono decisiva la competenza a esse attribuita dalla
legge cost. 2/2001 per delineare la propria fisionomia e la propria forma di governo, a integrazione
di quanto già disposto dallo statuto.
LE NORME DI ATTUAZIONE
Tra gli strumenti che consentono di individuare le «forme e condizioni particolari di autonomia»
delle regioni speciali, un ruolo di primo piano è ricoperto dalle norme di attuazione, La norma di
attuazione, denominata anche «decreto legislativo di attuazione degli statuti speciali», è un
decreto legislativo che a) traferisce funzioni amministrative, uffici e personale dallo Stato alla
regione speciale e b) serve a specificare, a dare attuazione appunto, a qualunque altra disposizione
dello statuto e, in particolare, a concretizzare le competenze legislative statutarie. Si tratta di uno
strumento esistente soltanto nelle regioni speciali, i cui statuti prevedono tale meccanismo in
deroga all'VIII disposizione transitoria e finale della Costituzione (che prevede che nelle regioni
ordinarie il trasferimento di funzioni amministrative, uffici e personale avvenga a opera di «leggi
della Repubblica»). Le norme di attuazione sono fonti atipiche che, pur avendo la forma del
decreto legislativo adottato dal governo (prima della legge 400/1988 la forma era il decreto del
presidente della Repubblica) e quindi appartenendo al tipo decreto legislativo, divergono rispetto
a esso sia per procedimento di formazione sia per forza e per posizione occupata nel sistema delle
fonti.
La fonte sulla produzione delle norme di attuazione è lo statuto speciale: ciò significa che ciascuno
statuto speciale detta il procedimento di formazione delle norme di attuazione. In particolare,
disciplinano le norme di attuazione: l'art. 43 statuto Sicilia; l'art. 56 statuto Sardegna; l'art. 107
statuto Trentino-Alto Adige; l'art. 65 statuto Friuli-Venezia Giulia. Gli statuti di queste regioni
avevano previsto le norme di attuazione sin dal 1948. Nello statuto della Valle d'Aosta, invece, tale
strumento fu introdotto successivamente, tramite la legge cost. 2/1993 che inserì l'art. 48-bis. Fino
al 1993 alla Valle d'Aosta si applicava, dunque, la disciplina comune per le regioni ordinarie (I'VIII
trans, e fin. Cost.: vedi Corte cost. 76/1963). Sono due le differenze che i decreti legislativi di
attuazione degli statuti speciali presentano rispetto al decreto legislativo disciplinato all'art. 76
Cost. In primo luogo, per emanare una norma di attuazione non è necessaria una legge delega,
sussistendo una «delega permanente» contenuta una tantum nello statuto [Chieppa 2008] (vedi
sent. 212/1984 Corte cost.). Le norme di attuazione, pertanto, non sono soggette ai tre limiti di
oggetto, tempo, principi e criteri direttivi previsti dall'art. 76 Cost. (tuttavia, i limiti di oggetto e
principi direttivi sono sostituiti dalla funzione stessa delle norme di attuazione). In secondo luogo,
per approvare una norma di attuazione serve che la proposta di decreto legislativo sia redatta da
una Commissione paritetica Stato-regioni. Tale organo è composto in modo paritario da
rappresentanti della regione e dello Stato, nominati con decreto ministeriale, che normalmente
vengono rinnovati a ogni legislatura nazionale. Le commissioni paritetiche siciliana e sarda hanno
due componenti statali e due regionali; quelle della Valle d'Aosta e del Friuli-Venezia Giulia hanno
tre componenti statali e tre regionali; la commissione paritetica del Trentino-Alto Adige ha sei
componenti statali e sei regionali. La Commissione paritetica di ciascuna regione elabora un parere
con cui accompagna la proposta di norma di attuazione da presentare al governo. In Sardegna e in
Valle d'Aosta, prima della presentazione al governo sullo schema di norma di attuazione dovrà
esprimersi con un parere, obbligatorio, ma non vincolante, anche il consiglio regionale. Una volta
redatta la proposta dalla Commissione paritetica, lo schema di decreto legislativo di attuazione è
deliberato dal governo centrale che potrà apportarvi modifiche; il decreto legislativo è quindi
emanato dal presidente della Repubblica e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. In virtù del
procedimento descritto, che prevede una concertazione e una partecipazione dei due livelli di
governo statale e regionale nella elaborazione delle norme di attuazione, queste sono considerate
strumenti di raccordo tra Stato e regione, classificabili tra le forme di collaborazione per atti di tipo
bilaterale, in quanto coinvolgono lo Stato e la sin' gola regione speciale interessata. L'atipicità del
procedimento di adozione si riflette sulla forza che le norme di attuazione assumono nel sistema
delle fonti. Esse possono essere qualificate quali fonti sub-costituzionali, dotate di una forza
superiore rispetto alle normali fonti primarie, capaci anche di definire competenze praeter
statutum — cioè al di là, oltre lo statuto. Decisiva nel chiarire la posizione che le norme di
attuazione rivestono nel sistema delle fonti è stata la Corte costituzionale, che ha riconosciuto la
possibilità di utilizzare le norme di attuazione come parametro per sindacare la legittimità di leggi
statali che violassero, appunto, la competenza stabilita in tali norme. Nate principalmente per
operare il trasferimento delle funzioni amministrative, le norme di attuazione sono divenute nel
tempo elementi centrali della specialità tanto che i poteri reali di una regione speciale spesso
dipendono proprio dall'uso di tale strumento. Questo perché attraverso le norme di attuazione,
oltre che operare trasferimenti di funzioni amministrative, si possono specificare e integrare i
contenuti, spesso generici, delle materie legislative statutarie. La storia dello sviluppo della
specialità coincide, dunque, in gran parte con la storia dell'uso delle norme di attuazione.
Un'altra forma di collaborazione tra Stato e regioni speciali: la partecipazione dei presidenti
delle regioni speciali al Consiglio dei ministri
Come visto le norme di attuazione possono essere considerate delle forme di collaborazione bilaterale tra
Stato e regioni speciali. Queste ultime, inoltre, dialogano con lo Stato, affianco alle regioni ordinarie, per il
tramite delle conferenze. Ma vi è anche un ulteriore meccanismo che consente alle regioni speciali di
interloquire con lo Stato. I presidenti delle regioni speciali, infatti, hanno diritto a partecipare alle sedute
del Consiglio dei ministri in cui si trattano questioni di interesse della regione speciale secondo quando
previsto agli art. 47 St. Sardegna, art. 44 St. Friuli-Venezia Giulia, art. 44 St. Valle d'Aosta, art. 40 St.
Trentino-Alto Adige e art. 21 St. Sicilia. Tale partecipazione ha una natura consultiva, tranne che per la
Sicilia il cui statuto assegna al presidente il rango di ministro — ponendo, peraltro, un'antinomia con l'art.
92 Cost. — e un diritto di voto deliberativo. Le norme degli statuti citate non sono chiare per quanto
riguarda le condizioni alle quali tale partecipa-zione è obbligatoria, parlando in generale di questioni di
interesse regionale. In diversi conflitti di attribuzione sollevati dalle regioni escluse dalla partecipazione, la
Corte costituzionale ha ritenuto che la partecipazione sia limitata ai casi in cui venga in questione un
interesse rilevante e differenziato ossia specifico della o delle regioni speciali coinvolte, escludendosi,
dunque, la partecipazione su questioni di impatto generale su tutte le regioni (sentt. 527/1988 e 92/1999).
Per lungo tempo la Corte aveva escluso la partecipazione in sede di adozione di atti con forza di legge, ma
dalla fine degli anni '80 ha mutato giurisprudenza (sentt. 627/1988 e 37/1991).
Possiamo distinguere due diversi usi di tali strumenti: da un lato norme di attuazione «fotocopia»
dei decreti di trasferimento di funzioni per le regioni ordinarie, spia di quel fenomeno di
«inseguimento» delle regioni speciali nei confronti delle regioni ordinarie. I momenti salienti di
tale uso sono le norme di attuazione emanate dopo l'istituzione delle regioni ordinarie e quindi
dopo i decreti del 1972 e il dpr 616/1977 (i due gruppi di decreti legislativi che ai sensi dell'VIII
disposizione trasferivano alle regioni ordinarie funzioni e servizi). Le regioni speciali produssero
norme di attuazione tendenzialmente riproduttive del contenuto di tali decreti.
Analogamente, anche dopo l'entrata in vigore delle riforme Bassanini, e in particolare della legge
59/1997 e del d.lgs. 112/1998, le norme di attuazione tendevano a essere «fotocopie» dei
trasferimenti effettuati a favore delle regioni ordinarie. Un secondo uso delle norme di attuazione
si ricollega all'estensione e specificazione di materie statutarie. Su questo profilo si registra, in
tutta la storia del regionalismo speciale, un approccio diverso da parte delle regioni speciali allo
strumento delle norme di attuazione. Alcune regioni (Sardegna, Sicilia) ne hanno fatto un uso
quantitativamente e qualitativamente poco incisivo, mentre altre regioni (in particolare il
Trentino-Alto Adige) ne hanno fatto un vero e proprio strumento di «riscrittura dello statuto».
Il «maggior favore» può tradursi, sostanzialmente, in due modalità: talora può comportare
l'aggiunta, a favore delle regioni speciali, di «parti», ossia «materie» o, più genericamente,
«istituti», non previsti negli statuti speciali ma previsti nel Titolo V; talaltra esso può implicare la
comparazione tra le materie o gli istituti previsti sia nello statuto speciale sia nel Titolo V, e la
scelta di quella comportante un maggior favore, sul presupposto che si tratti di elementi
effettivamente raffrontabili. Dunque, o un'estensione di qualcosa che manca o l'applicazione di un
regime invece di un altro (meno favorevole). Finora l'applicazione della clausola nella
giurisprudenza costituzionale ha interessato sia profili procedimentali e processuali, legati
prevalentemente al controllo di legittimità delle leggi, sia profili sostanziali, connessi alle
competenze legislative e amministrative regionali. Per quanto concerne il primo aspetto, ad
esempio, la clausola ha funzionato nel senso di estendere il regime d'impugnazione delle leggi
previsto dal novellato art. 127 Cost. anche alle regioni speciali. Sia la precedente formulazione
dell'art. 127 Cost, sia numerose disposizioni degli statuti speciali prevedevano, infatti, un
meccanismo di controllo preventivo sulla legislazione regionale ordinaria. Come ha affermato la
Corte costituzionale (ord. 377/2002), «la soppressione del meccanismo di controllo preventivo
delle leggi regionali, in quanto consente la promulgazione e l'entrata in vigore della legge
regionale, anche in pendenza di un giudizio di legittimità costituzionale in via principale promosso
prima della citata riforma costituzionale, si traduce in un ampliamento delle garanzie di
autonomia» rispetto alle norme degli statuti speciali che ancora ne prevedono la sussistenza:
questo ha comportato la rimozione del controllo preventivo e l'estensione dell'art. 127 Cost. alle
regioni speciali, in quanto individuava un regime di maggior favore per l'autonomia regionale. Le
decisioni della Corte hanno applicato ormai a tutte le regioni speciali il meccanismo di
impugnazione preventiva (al Friuli-Venezia Giulia: ord. 65/2002; alla Valle d'Aosta: ord. 377/2002;
al Trentino-Alto Adige: sent. 408/2002; alle due province autonome: ord. 533/2002). Inizialmente,
il meccanismo non era stato esteso al controllo delle leggi regionali siciliane, per il quale ha
prevalso a lungo il regime statutario previsto dagli artt. 28 e 29 St. Sic.: difatti, presupposto
indispensabile per l'applicazione della clausola è che si possa svolgere una comparazione tra le
parti, per poi scegliere quella di «maggior favore» per l'autonomia. E, a proposito del raffronto tra
il regime dell'art, 127 Cost. e quello statutario per l'impugnativa delle leggi siciliane, la Corte
costituzionale aveva, inizialmente, ritenuto: «si tratta di sistemi essenzialmente diversi che non si
prestano a essere graduati alla stregua del criterio di prevalenza adottato dal menzionato art. 10»
(sent. 314/2003: vedi § XI.5), Come si è detto (vedi § IX.1), la Corte cambia radicalmente indirizzo
con la sent. 255/2014 (peraltro sollevando essa stessa la questione di legittimità costituzionale
nell'orci. 114/2014): in tal modo, la vistosa anomalia siciliana è stata sanata, in forza della clausola
di adeguamento automatico. In relazione ai profili sostanziali concernenti la clausola di
adeguamento automatico, ossia alle competenze legislative attribuite alle regioni, bisogna
considerare due ordini di conseguenze: quantitative e/o qualitative. Infatti, può darsi il caso che il
maggior favore per le autonomie si concreti in un aumento in senso quantitativo delle
competenze. In tal modo, materie non contemplate dagli statuti speciali sono state estese alle
regioni in forza dell'art. 10, perché l'art, 117 le attribuiva alla competenza concorrente o,
addirittura, a quella residuale: così, ad esempio, le materie concorrenti dell'ordinamento della
comunicazione (sen t. 312/2003) e del trasporto e distribuzione dell'energia (sent. 303/2007)
oppure la materia residuale delle politiche sociali e di edilizia residenziale pubblica (sent.
118/2006) sono state attribuite alle regioni speciali perché non previste dallo statuto (sent.
167/2010). Talora, invece, il maggior favore ha comportato una valutazione più delicata, che si
potrebbe definire di tipo qualitativo. Ad esempio, se lo statuto speciale prevede che una
determinata materia sia di competenza integrativo-attuativa, ma l'art. 117 la attribuisce alla
competenza concorrente, questa seconda è la competenza concretante il «maggior favore»: nel
caso deciso con la sentenza 235/2010, la Corte costituzionale ha ritenuto che la materia
dell'istruzione — rientrante fra le materie di potestà legislativa di integrazione-attuazione, ai sensi
dell'art. 5, lett. a), St. Sar. — deve ora essere considerata di competenza concorrente, come
dispone l'art. 117.3 Cost. letto alla luce dell'art. 10, legge cost. 3/2001, 0, ancora, nel caso deciso
con sentenza 167/2010, la Corte attribuisce alla regione Friuli-Venezia Giulia la competenza
residuale in materia di polizia amministrativa e locale, laddove lo statuto speciale la annovera tra
le materie di competenza concorrente (art. 5, n. 13, St. F.-VG.). A parità di tipologia di competenza,
la valutazione diventa ancora più delicata: in ambito sanitario, la Corte ha ritenuto, in più
decisioni, che la competenza legislativa concorrente concernente la «tutela della salute»,
assegnata alle regioni ordinarie dall'art. 117, terzo comma, Cost., fosse «assai più ampia» di
quella, attribuita alle province autonome dallo statuto speciale, in materia di «assistenza
ospedaliera» (sentt. 270/2005; 134/2006; 162/2007; 126/2017). Di conseguenza: deve, in questo
ambito, trovare applicazione la competenza concorrente in materia di «tutela della salute»
anziché quella corrispondente, prevista dallo statuto, in materia di «assistenza ospedaliera».
Naturalmente, la clausola di maggior favore va letta anche in direzione opposta: se, cioè, lo statuto
prevede una competenza in capo alle regioni speciali che l'art. 117 alloca in capo allo Stato in via
esclusiva, si applicherà la disciplina statutaria: un esempio in tal senso è rappresentato dalla
competenza in materia di ordinamento degli enti locali. Quest'ultima è una competenza primaria
riconosciuta alle regioni speciali sin dalla legge cost. 2/1993: dunque, in forza di tale titolo
competenziale, le regioni speciali possono, sin dal 1993, disciplinare la materia dell'ordinamento
degli enti locali. La Corte, nella sentenza 48/2003, ha specificato che «tale competenza non è
intaccata dalla riforma del Titolo V, Parte 1-1, della Costituzione, ma sopravvive, quanto meno,
nello stesso ambito e negli stessi limiti definiti dagli Statuti». Più in generale, il riparto degli statuti
speciali non vede contrapposte le materie regionali ad altre «materie» riservate allo Stato, e si
fonda invece sull'attribuzione alla regione delle specifiche materie elencate, a fronte delle quali sta
la generale potestà legislativa statale, che nelle materie regionali opera nei limiti previsti dagli
statuti, quali sopra illustrati.
Una simile eterogeneità di discipline comporta indubbiamente qualche difficoltà interpretativa e
possibili incertezze; tuttavia, essa permette di individuare e conservare dei tratti di specialità,
evitando l’appiattimento e l’omologazione dei regimi normativi regionali.
Con il Trattato di Maastricht del 1992, che segna la nascita dell'Unione europea (la quale ingloba,
senza sostituirle, le tre preesistenti Comunità; la più importante delle quali, la CEE, viene
ridenominata Comunità europea, CE), la valorizzazione del ruolo degli enti territoriali segna una
tappa importante: viene infatti istituito il Comitato delle regioni e delle autonomie locali, quale
organo che svolge funzioni consultive in favore del Consiglio e della Commissione, in posizione di
piena indipendenza. Si deve al Trattato di Maastricht anche l'enunciazione del principio di
sussidiarietà (art. 3B TUE), il quale, nel favorire l'assunzione delle decisioni «il più vicino possibile
ai cittadini», rafforza la posizione dei legislatori degli enti territoriali; e nel medesimo Trattato si
ritrova una previsione relativa alla composizione del Consiglio, che potrà essere formato da
rappresentanti di ciascuno Stato membro «a livello ministeriale», abilitati a impegnare il governo
di detto Stato membro: la relativa previsione non esclude che il rango ministeriale, e dunque il
ruolo di rappresentanza in Consiglio, possa essere riconosciuto anche a componenti degli organi
esecutivi di enti territoriali (scelta compiuta, ad esempio, dalla Germania, non dall'Italia). Il
Trattato di Amsterdam del 1997 non apporta modificazioni significative con riguardo al ruolo delle
regioni nel processo decisionale europeo, ma si contraddistingue comunque per un rafforzamento
del Comitato delle regioni, relativamente al quale vengono aumentati i settori per i quali ne è
prevista l'obbligatoria consultazione. Più significative le innovazioni introdotte dal Trattato di Nizza
del 2000, che interviene quanto ai requisiti di nomina dei membri del Comitato, specificando che
essi debbono essere scelti tra soggetti titolari di mandato elettivo a livello regionale o locale, o tra
soggetti nei confronti dei quali possa essere fatta valere una responsabilità di tipo politico davanti
a un'assemblea elettiva. Grazie alle modificazioni introdotte dal Trattato di Lisbona — in vigore dal
l' dicembre 2009, approvato dopo il fallimento del processo di ratifica del «Trattato che istituisce
una Costituzione per l'Europa», di cui recepisce in larga parte il contenuto — gli enti territoriali
hanno nel sistema dell'Unione europea (che per effetto del Trattato si sostituisce in toto alla
Comunità europea; di qui 11 progressivo abbandono dell'aggettivo «comunitario», ormai quasi
sempre sostituito da «europeo») una posizione di rilievo, pur rimanendo ferma l'insopprimibile
centralità degli Stati nell'architettura dell'Unione. Alle importanti enunciazioni di principio,
contenute nell'art. 4 del Trattato sull'Unione Europea (TUE) — ai sensi del quale il sistema delle
autonomie locali e regionali viene incluso nella struttura fondamentale degli Stati membri, nella
quale si esprime la loro identità nazionale — si affiancano importanti previsioni relative al principio
di sussidiarietà, contenute nell'art. 5 del TUE e nel Protocollo sull'applicazione dei principi di
sussidiarietà e proporzionalità. Il principio è destinato in primo luogo a salvaguardare, di fronte
all'Unione, gli stessi Stati membri, ma riguarda anche le istituzioni regionali. In particolare, esso si
traduce nell'obbligo per la Commissione di tenere conto della dimensione locale e regionale nella
fase delle consultazioni che precedono l'iniziativa legislativa, nonché — e in questo caso l'obbligo è
imposto a tutti i soggetti ai quali è riconosciuta l'iniziativa legislativa a livello europeo — in sede di
motivazione degli atti legislativi. È inoltre previsto che i parlamenti nazionali, nell'esercizio
dell'attività di verifica del rispetto del principio di sussidiarietà, consultino «all'occorrenza» i
parlamenti regionali muniti di poteri legislativi.
L'accordo di cooperazione
L'accordo di cooperazione, previsto dall'art. 5, legge 131/2003, è stato approvato dalla Conferenza Stato-
regioni il 16 marzo 2006, e disciplina la composizione della delegazione che partecipa alle attività del
Consiglio, dei gruppi di lavoro e dei comitati del Consiglio e della Commissione. Nella delegazione, in
materie di competenza legislativa regionale, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano sono
rappresentate da un presidente di regione o da un suo delegato, designato dalle regioni a statuto ordinario
e da un presidente delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, o da un delegato da loro
designato (salvo che le disposizioni comunitarie non prevedano limiti numerici inferiori, nel qual caso deve
comunque essere assicurata la compresenza di un rappresentante dello Stato e di uno delle regioni). Nelle
delegazioni governative che partecipano alle attività dei gruppi di lavoro e dei comitati del Consiglio e della
Commissione, le regioni e le province autonome sono rappresentate da due esperti, nominati uno ciascuno
dalle regioni a statuto ordinario, e dalle regioni a statuto speciale e dalle province autonome (salvi, anche in
questo caso, limiti numerici richiesti dalle disposizioni comunitarie); è anche ammessa, qualora le
condizioni lo consentano, l'eventualità di una rappresentanza più ampia da determinarsi in sede di
Conferenza Stato-regioni, su istanza di una regione o provincia autonoma. Il capodelegazione, nelle materie
di cui all'art. 117.4 Cost., è il rappresentante del governo, rispettivamente a livello politico o a livello
tecnico, salva diversa determinazione assunta, su istanza delle regioni o delle province autonome,
mediante apposita intesa con il governo da raggiungersi in sede di Conferenza Stato-regioni. Per quanto
concerne regioni e province autonome, i criteri di composizione sopra enunciati valgono anche con
riguardo a materie per le quali è riconosciuta dai rispettivi statuti speciali potestà legislativa primaria o
concorrente.
Viene inoltre prevista, per la prima volta, una forma di tutela giurisdizionale degli enti territoriali,
in via mediata, nei confronti degli atti comunitari ritenuti illegittimi: in questa evenienza, infatti, il
governo può proporre ricorso dinanzi alla Corte di giustizia delle comunità europee anche su
richiesta di una delle regioni o delle province autonome, ed è tenuto a proporre tale ricorso
qualora esso sia richiesto dalla Conferenza Stato-regioni a maggioranza assoluta delle regioni e
delle province autonome. La soluzione della legge 131/2003 realizza per gli enti territoriali un
migliora-mento rispetto alla pregressa disciplina, per quanto il procedimento previsto dal
legislatore del 2003 possa rivelarsi non sempre agevole, e pur sempre considerando che il dettato
costituzionale non avrebbe impedito soluzioni ancor più innovative. È da ricordare, in proposito,
che la disciplina della partecipazione delle regioni alla fase ascendente è ascrivibile alla potestà
legislativa esclusiva statale, benché non inclusa nell'elenco di cui all'art. 117.2 Cost.: lo ha
precisato la Corte costituzionale nella sentenza 239/2004, nella quale tale competenza è stata
differenziata rispetto al settore, ritenuto più ampio, dei «rapporti con l'Unione europea delle
regioni», incluso tra le materie devolute alla potestà legislativa concorrente delle regioni. Il
rafforzamento della posizione regionale nella fase ascendente, dopo la riforma costituzionale del
2001, è stato confermato anche dalla legge 11/2005 (che ha integralmente abrogato la legge
86/1989), e dalla legge 234/2012, che oggi regola la materia, Per quanto attiene alle prerogative
regionali, la legge estende alle regioni alcune garanzie già previste nei confronti delle camere.
Nell'art. 5 della legge 11/2015 si potevano riscontrare i maggiori segni di discontinuità rispetto alla
previgente disciplina. Anzitutto, veniva estesa alle regioni la possibilità di conoscere per tempo
non soltanto í progetti di atti normativi, ma anche i documenti di consultazione quali i c.d. libri
verdi e libri bianchi; inoltre, i pronunciamenti (ancora denominati «osservazioni») delle regioni e
delle province autonome sui progetti esaminati venivano esplicitamente finalizzati dal legislatore
alla «formazione della posizione italiana», così valorizzandone il ruolo nel contesto della fase
ascendente. Dette previsioni trovano parziale conferma nel vigente art. 24 della legge 234/2012,
che (al primo comma) dispone la trasmissione dei soli progetti di atti normativi europei e degli atti
preordinati alla formulazione degli stessi (non necessariamente dei documenti di consultazione)
alla Conferenza delle regioni e delle province autonome e alla Conferenza dei presidenti delle
assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, per l'inoltro a giunte e consigli
regionali. A maggiore tutela della facoltà di procedere a un esame dei progetti di atti europei, è
inoltre prevista la possibilità di richiedere al governo di apporre la c.d. riserva di esame in sede di
Consiglio dei ministri dell'Unione europea: formulando tale riserva il governo si impegna a non
procedere, per un termine massimo di trenta giorni, alle attività dirette alla formazione degli atti a
cui i progetti si riferiscono, formalizzando tale impegno in sede di Consiglio. La riserva di esame è
soprattutto preordinata a facilitare la trasmissione di osservazioni sui progetti di atti europei ad
opera di regioni e province autonome (art, 24.3); le osservazioni possono provenire dai consigli o
dalle giunte regionali, in base alla disciplina generale adottata dai vari enti, Competente a
formulare la richiesta di apposizione della riserva è la Conferenza Stato-regioni, che può essere
convocata su iniziativa anche di una sola regione o provincia autonoma. Anche a prescindere
dall'apposizione della riserva, qualora la Conferenza venga convocata per discutere su progetti di
atti normativi comunitari che riguardino materie di competenza legislativa regionale, si prevede
che entro il termine di trenta giorni debba essere raggiunta l'intesa tra Stato ed enti territoriali in
ordine alla posizione italiana nella fase di discussione e approvazione di tali progetti. Decorso
inutilmente il predetto termine, il governo potrà comunque procedere agli adempimenti di
competenza; fatta salva, in ogni caso, la possibilità per il governo di procedere senza la previa
intesa in caso di urgenza «motivata sopravvenuta». È evidente che l'osservanza e l'efficacia di
queste disposizioni sono rimesse alla correttezza del governo, che da un lato potrebbe
semplicemente far decorrere il termine di trenta giorni rifiutando di concludere un'intesa in
Conferenza, e dall'altro potrebbe interpretare estensivamente il concetto di urgenza sopravvenuta
(non essendo chiaro a quale periodo di tempo debba farsi riferimento al fine di qualificare come
sopravvenuto, e non «originario», Io stato di urgenza). In entrambi i casi, tuttavia, una condotta
puramente ostruzionistica da parte del governo determinerebbe la violazione del principio di leale
collaborazione.
La concertazione tra Stato, regioni e province autonome viene ulteriormente rafforzata attraverso
la previsione di «gruppi di lavoro» (art. 24.7, legge 234/2012), ai quali vengono convocati
rappresentanti delle regioni e delle province auto-nome, ai fini della successiva definizione della
posizione italiana da sostenere in sede di Unione europea. Vengono estesi a beneficio delle regioni
gli obblighi di informativa del governo nei confronti del Parlamento in occasione delle riunioni del
Consiglio dell'Unione europea (che riunisce i ministri dei governi dei paesi membri della UE
competenti per la materia in discussione) e del Consiglio europeo (che riunisce i capi di Stato o di
governo dei paesi membri, oltre al presidente della Commissione europea e al presidente del
Consiglio medesimo). Con riguardo alle riunioni del Consiglio dell'Unione europea, fermo l'obbligo
di informazione sulle proposte e materie di competenza degli enti territoriali in discussione, la
Conferenza Stato-regioni può chiedere all'esecutivo di illustrare la posizione che esso intende
assumere; facoltà che, nel caso delle riunioni del Consiglio europeo, si tramuta in obbligo, sempre
per quanto attiene a proposte riguardanti materie di competenza delle regioni e province
autonome, I doveri informativi in capo al governo riguardano anche gli esiti delle riunioni degli
organi dell'Unione appena menzionati (peraltro, non è prevista alcuna sanzione in caso di
inadempimento a tali doveri). Il Protocollo n. 2 allegato ai trattati europei consente ai parlamenti
nazionali di esprimere pareri motivati sui progetti di atti normativi europei in relazione al rispetto
del principio di sussidiarietà, secondo il quale (art, 5.3 Trattato sull'Unione europea) «nei settori
che non sono di sua competenza esclusiva l'Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi
dell'azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a
livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti
dell'azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione». Il Protocollo n. 2 abilita i
parlamenti nazionali a consultare i consigli e le assemblee delle regioni e delle province autonome
al fine di esprimere un parere motivato, e tale previsione è richiamata dall'art. 8.3 legge 234/2012;
la legge, peraltro, consente (art. 25) a consigli ed assemblee legislative di attivarsi anche a
prescindere dalla richiesta delle Camere, trasmettendo loro le osservazioni sul rispetto del
principio di sussidiarietà in tempo utile per l'esame parlamentare. Infine, delle osservazioni e delle
proposte di regioni e province autonome, o delle assemblee legislative di queste, le camere
devono tener conto (art. 9.2 legge 234/2012) nell'ambito del c.d., dialogo politico, che rappresenta
una forma di interlocuzione tra i parlamenti nazionali e le istituzioni europee (soprattutto la
Commissione, che lo ha avviato a partire dal 2006) che prescinde dalle procedure e dalla
tempistica di cui al Protocollo sul principio di sussidiarietà. La prassi dell'intervento delle regioni e
province autonome nella fase ascendente evidenzia prevedibili differenze, in ordine alla quantità e
qualità degli interventi. Quasi tutti gli enti territoriali sono dotati di leggi regionali che disciplinano
la procedura di partecipazione alla formazione ed attuazione del diritto europeo, e tali leggi
normalmente prevedono una sessione europea annuale delle assemblee legislative regionali. Il
ruolo della giunta e dell'assemblea elettiva è variamente disciplinato nelle diverse regioni e
province autonome: ad esempio, per quanto attiene alla formulazione di osservazioni sui progetti
di atti normativi europei, si riscontrano previsioni legislative che favoriscono il raggiungimento di
un'intesa fra giunta e consiglio regionale sul contenuto delle osservazioni, assegnando tuttavia una
prevalenza alla giunta in caso di mancata intesa; accanto a soluzioni diverse, che viceversa
assegnano tale competenza al consiglio regionale (riconoscendo alla giunta la sola facoltà di
proporre le osservazioni).
I primi passi
Citando le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza 142/1972, «ogni distribuzione dei
poteri di applicazione delle norme comunitarie che si effettui a favore di enti minori diversi dallo Stato
contraente (che assume la responsabilità del buon adempimento di fronte alla Comunità) presuppone il
possesso da parte del medesimo degli strumenti idonei a realizzare tale adempimento anche di fronte
all'inerzia della regione che fosse investita della competenza dell'attuazione. Strumenti di tal genere fanno
difetto nel nostro ordinamento, e a essi non potrebbe supplirsi con il potere di indirizzo [..1 poiché alla
inottemperanza a esso non si potrebbe in alcun modo porre riparo, non riuscendo allo Stato sostituirsi
nell'esercizio della competenza una volta effettuato il suo trasferimento». Nel caso considerato dalla Corte
(legittimità costituzionale del decreto legislativo recante trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle
funzioni amministrative statali in materia d'agricoltura e foreste), l'unico strumento utilizzabile per fare
concorrere le regioni all'attuazione dei regolamenti comunitari era la delegazione di poteri, che offriva il
rimedio della sostituibilità del delegante in caso d'inadempimento del delegato. Solo con legge 153/1975, in
occasione dell'attuazione di alcune direttive comunitarie per la riforma dell'agricoltura, fu prevista la
possibilità per le regioni di dare attuazione alle direttive, con due tipologie di vincoli diversi per le regioni
ordinarie e a statuto speciale: per le prime, l'osservanza dei principi fondamentali stabiliti dalla citata legge;
per le seconde, il rispetto delle norme fondamentali delle riforme agrarie ed economico-sociali della
Repubblica. Il legislatore prese in considerazione l'ipotesi di eventuali omissioni da parte delle regioni: in
caso di mancato esercizio della potestà legislativa avrebbero trovato applicazione la stessa legge e le leggi
regionali già vigenti e non contrastanti con i vincoli sopra menzionati; in caso di inadempimento nello
svolgimento delle attività amministrative di attuazione delle direttive, il Consiglio dei ministri avrebbe
autorizzato il ministro per l'Agricoltura a disporre il compi-mento degli atti relativi in sostituzione
dell'amministrazione regionale. Si veniva così a configurare un sistema di adeguamento, che sarebbe stato
esteso, già con legge 382/1975 (legge delega) e con il dpr 616/1977 (adottato in esecuzione della delega),
all'attuazione di qualunque direttiva comunitaria da parte delle regioni, ai quali vennero trasferite anche le
funzioni amministrative relative all'applicazione dei regolamenti comunitari; il dpr 616/1977 (art. 6)
confermava l'esercizio del potere sostitutivo statale in caso di inadempienza amministrativa delle regioni,
previa concessione a queste di un «congruo termine» per provvedere.
La legge 86/1989 (c.d. LEGGE LA PERGOLA), disciplinando per intero la problematica della
partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e delle procedure di esecuzione degli
obblighi comunitari, consentì alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di dare
immediata attuazione alle direttive comunitarie nelle materie di competenza esclusiva (art, 6); per
quanto concerne le regioni a statuto ordinario, e le regioni e province autonome nelle sole materie
di competenza concorrente, era ammessa la possibilità di dare attuazione alle direttive solo dopo
l'entrata in vigore della prima legge comunitaria (cioè una legge dello Stato a cadenza annuale,
recante un elenco di direttive alle quali è necessario dare attuazione) successiva alla notifica della
direttiva. Rimaneva confermata l'applicazione della disciplina statale, in via suppletiva, in
mancanza di atti normativi della regione. Per quanto concerne le attività amministrative, il
procedimento previsto dal dpr 616/1977 (vedi quadro 10.5) veniva ribadito, con l'aggiunta della
facoltà, per il governo, di attribuire l'esercizio dei poteri necessari (alla sostituzione) a una
commissione partecipata anche da un esponente dell'ente inadempiente. Il modello perfezionato
dal legislatore (possibilità di attuazione del diritto comunitario da parte delle regioni e potere
sostitutivo statale) ha trovato consacrazione, a livello di principio, nell'art. 117.5 Cost., ai sensi del
quale «Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza
provvedono all'attuazione e all'esecuzione [...] degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle
norme di procedura stabilite dalle leggi dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del
potere sostitutivo in caso di inadempienza». La disposizione costituzionale non consente al
legislatore statale di escludere l'intervento delle regioni nell'attuazione del diritto dell'Unione, ma
riconosce allo Stato ampia discrezionalità in ordine alle modalità di intervento regionale. Le norme
di procedura sono dettate prima dalla legge 11/2005, ed ora dalla legge 234/2012, la quale
configura come «tempestiva» (art. 29) l'attuazione delle direttive europee da parte dello Stato,
delle regioni e delle province autonome nelle materie di propria competenza legislativa: è così
superato — lo conferma anche l'art. 49, legge 234/2012 — l'obbligo di attendere l'approva-zione
della prima legge statale per l'attuazione di norme comunitarie relative a materie di competenza
legislativa concorrente, introdotto dall'abrogata legge 86/1989. La legge 234/2012 impone (art.
29.2) al governo di dare informazione — tramite la Conferenza delle regioni e delle province
autonome e la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province
autonome —sugli atti normativi e di indirizzo emanati dagli organi dell'Unione europea e delle
comunità europee, e prevede inoltre una reciproca informazione tra Stato e regioni sullo stato di
conformità dell'ordinamento interno ai medesimi atti (art. 29,3). Viene inoltre previsto che i
principi fondamentali che dovranno essere osservati nelle materie di competenza concorrente
debbano trovare collocazione nella c.d. legge di delegazione europea (art. 30.2), che dovrebbe
avere cadenza annuale e sulla quale, assieme alla annuale legge europea, dovrebbe concentrarsi
l'adempimento, da parte dello Stato, degli obblighi derivanti dalla partecipazione dell'Italia
all'Unione europea. Ricompare, sotto altra denominazione, la funzione di indirizzo e coordina-
mento delle attività amministrative regionali, di cui peraltro era stata posta in dubbio la
permanenza nell'ordinamento all'esito della riforma del Titolo V della Costituzione: essa, tuttavia
(art. 40.4), è limitata alle materie di competenza esclusiva statale, e assolve allo scopo di
soddisfare le esigenze di carattere unitario, nonché il perseguimento degli obiettivi della
programmazione economica e del rispetto degli obblighi internazionali. Può essere esercitata con
leggi, con regolamenti o con deliberazioni del Consiglio dei ministri. In difetto di attuazione da
parte del legislatore regionale, la disciplina statale si applica nella sua interezza (norme di principio
e di dettaglio) a decorrere dalla scadenza del termine stabilito per l'attuazione della rispettiva
normativa dell'Unione europea (art. 41.1, legge 234/2012); essa tuttavia deve recare l'esplicita
indicazione della natura sostitutiva del potere esercitato e del carattere cedevole delle disposizioni
in essa contenute, e perde efficacia dalla data di entrata in vigore della normativa di attuazione di
ciascuna regione e provincia autonoma. È ammessa la possibilità, per lo Stato, di adottare
regolamenti in tutte le mate-rie riservate alla potestà legislativa regionale ai soli fini della
sostituzione degli enti territoriali inadempienti, con le caratteristiche sopra accennate (efficacia
fino all'intervento degli enti sostituiti, natura cedevole ecc.). Apparentemente, questa previsione si
pone in contraddizione con quanto previsto dall'art. 117.6 Cost., che consente allo Stato di
esercitare il potere regolamentare solo con riguardo a materie attribuite alla sua potestà
legislativa esclusiva; si ritiene, però, che l'attribuzione alla legge, con l'art. 117.5 Cost., del compito
di disciplinare le «modalità» di esercizio del potere sostitutivo, renda legittimo l'utilizzo della fonte
regolamentare, ove dalla legge previsto. Un ulteriore potere sostitutivo è previsto (art. 37, legge
234/2012) qualora atti normativi o di sentenze della Corte di giustizia dell'Unione europea
comportino obblighi regionali di adeguamento, e tali obblighi debbano essere adempiuti prima
della data di presunta entrata in vigore della legge di delegazione europea e della legge europea
relativa all'anno di riferimento: in tali evenienze il presidente del Consiglio dei ministri o il ministro
per gli Affari europei, prima di esercitare i poteri sostitutivi, informano gli enti interessati
assegnando un termine per provvedere e, ove necessario, chiedono che la questione venga
sottoposta all'esame della Conferenza Stato-regioni per concordare le iniziative da assumere. In
caso di mancato tempestivo adeguamento da parte degli enti territoriali, il presidente del
Consiglio o il ministro per gli Affari europei propongono al Consiglio dei ministri le opportune
iniziative ai fini dell'esercizio dei poteri sostitutivi ex artt. 117.5 e 120.2 Cost. Le regioni, in sede di
attuazione del diritto dell'Unione europea, hanno la facoltà di scegliere le modalità di intervento,
nonché i tempi (purché entro i limiti di volta in volta previsti dalle singole direttive). Numerose
regioni hanno adottato leggi di disciplina generale della procedura di partecipazione alla
formazione e attuazione delle norme europee. Inoltre, dall'esame delle previsioni contenute in
alcuni statuti regionali, dedicate alla «fase discendente», si ricava una comune tendenza degli enti
territoriali a procedere in analogia con le scelte adottate dal legislatore statale, che aveva
introdotto, con legge 86/1989, lo strumento della legge comunitaria annuale, e che del resto aveva
«suggerito» alle regioni di fare altrettanto, inserendo nell'art. 8.5, lett. e), legge 11/2005 un
riferimento a «leggi annuali di recepimento eventualmente approvate dalle regioni e dalle
province autonome»; detta previsione, del resto, trova oggi conferma nell'art. 29.7, lett, f) della
legge 234/2012. L'impressione è rafforzata dall'analisi delle leggi regionali, le quali talvolta, in
attuazione di norme contenute negli statuti regionali, disciplinano la partecipazione dell'ente
territoriale alla formazione e attuazione del diritto europeo: quasi tutti i provvedimenti in
questione prevedono la presentazione ogni anno, da parte della giunta regionale, di un disegno di
legge europea regionale. Il contenuto tipico delle leggi europee regionali non si discosta
particolarmente dall'omologa legge statale, indicando una serie di atti normativi europei di cui è
necessario il recepimento; specificando a quali di essi la regione possa dare attuazione con atti non
aventi natura legislativa (regolamenti della giunta o del consiglio, a seconda di quanto previsto
negli statuti, o atti amministrativi), e nel contempo individuando principi e criteri direttivi ai quali si
dovrà attenere l'organo che provvederà all'attuazione; prevedendo disposizioni attuative di
sentenze della Corte di giustizia e di decisioni della Commissione europea; disponendo modifiche o
abrogazioni di norme regionali, conseguenti a procedure di infrazione. Quanto alla responsabilità
per mancata attuazione del diritto europeo, già con l'art. 16-bis, legge 11/2005, introdotto con
legge 34/2008, si consentiva allo Stato di rivalersi sugli enti territoriali responsabili di violazione di
obblighi comunitari. La problematica è oggi disciplinata dall'art. 43 della legge 234/2012. La rivalsa
può essere anzitutto esercitata con riguardo alle regolazioni finanziarie operate a carico dell'Italia
a valere sulle risorse del Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA), del Fondo europeo agricolo
per lo sviluppo rurale (FEASR) e degli altri fondi aventi finalità strutturali, oltre che in riferimento
agli oneri finanziari derivanti dalle sentenze di condanna rese dalla Corte di giustizia delle
comunità europee a danno dell'Italia. Gli importi dovuti a titolo di rivalsa sono stabiliti con decreto
del ministro dell'Economia, emanato, qualora l'obbligato sia un ente territoriale, previa intesa sulle
modalità di recupero con l'ente interessato, da perfezionarsi entro quattro mesi dalla data di
notifica, all'ente territoriale obbligato, della sentenza esecutiva di condanna della Repubblica
italiana. In caso di mancato raggiungimento dell'intesa, all'adozione del provvedimento (che
costituisce titolo esecutivo) provvede il presidente del Consiglio dei ministri, nei successivi quattro
mesi, sentita la Conferenza unificata Stato-regioni-città e autonomie locali.
L'art. 117 Cost., come riformato nel 2001, ha indotto aspettative di sensibile ampliamento delle
prerogative regionali in tema di rapporti internazionali: pur riservando allo Stato la potestà
legislativa esclusiva in materia di «politica estera» e di relazioni internazionali, la norma riconosce
alle regioni una potestà legislativa concorrente in materia di «rapporti internazionali e con
l'Unione europea delle regioni», e soprattutto attribuisce agli enti territoriali, nelle materie di loro
competenza, la facoltà di concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro
Stato «nei casi e con le forme disciplinate dalle leggi dello Stato». Non ci si troverebbe, dunque,
soltanto in presenza di una novazione della fonte (oggi costituzionale) della disciplina del potere
estero, ma si verrebbe a configurare un treaty-making power regionale, rafforzato dall'obbligo per
il legislatore statale dí rispettare, ai sensi dell'art.117.1, gli accordi e le intese internazionali
sottoscritti dalle regioni. Sennonché, i principi costituzionali menzionati sono stati declinati nella
legge di attuazione 131/2003 in modi e e forme ampiamente riduttivi degli spazi di autonomia
degli enti territoriali. Anzitutto, l'art. I attribuisce solo ai «trattati» (conclusi dallo Stato) e non. agli
«accordi» o «intese» (conclusi dalle regioni) l'effetto di vincolare la potestà legislativa statale e
regionale. L'art. 6 della legge stabilisce che regioni e province autonome, in materie di propria
competenza legislativa, possono concludere intese con enti territoriali interni ad altro Stato,
dirette a favorire il loro sviluppo economico, sociale e culturale, nonché a realizzare attività di
mero rilievo internazionale; è imposta la previa comunicazione alla presidenza del Consiglio dei
ministri e al ministero degli Affari esteri, ai fini delle eventuali osservazioni di questi ultimi e dei
ministeri competenti, da far pervenire entro trenta giorni, decorsi i quali le regioni e le province
autonome possono sottoscrivere l'intesa. Regioni e province autonome non possono esprimere
valutazioni relative alla politica estera dello Stato, né possono assumere impegni dai quali derivino
obblighi o oneri finanziari per lo Stato o che ledano gli interessi degli altri soggetti di cui all'art.
114.1 Cost. Ancora più stringente è la disciplina degli accordi: essi possono avere natura esecutiva
e applicativa di accordi internazionali regolarmente entrati in vigore, o natura tecnico-
amministrativa, o programmatica, nel rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario, dagli obblighi internazionali e dalle linee e dagli indirizzi di politica
estera italiana; nonché, nelle materie di cui all'art. 117.3 Cost., dei principi fondamentali dettati
dalle leggi dello Stato. È richiesta la preventiva comunicazione delle trattative al governo e il
ministero degli Affari esteri può indicare principi e criteri da seguire nella conduzione dei
negoziati. La regione o la provincia autonoma, prima di sottoscrivere l'accordo, comunicano il
relativo progetto al ministero degli Affari esteri, il quale conferisce i pieni poteri di firma
(mancando i quali gli accordi sono nulli) previsti dalle norme del diritto internazionale generale e
dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. A completare la disciplina, il ministro degli
Affari esteri può, in qualsiasi momento, presentare alla regione o alla provincia autonoma
questioni di opportunità inerenti alle attività di cui sopra e derivanti dalle scelte e dagli indirizzi di
politica estera dello Stato. In caso di dissenso, il ministro può chiedere che la questione sia portata
in Consiglio dei ministri che, con l'intervento del presidente della giunta regionale o provinciale
interessato, delibera sulla questione. A regioni e province autonome, nelle materie di propria
competenza legislativa, spettano l'attuazione e l'esecuzione degli accordi internazionali ratificati, di
cui danno preventiva comunicazione al governo, per l'eventuale formulazione di criteri e
osservazioni. In caso di mancata attuazione, ferma la responsabilità delle regioni verso lo Stato, si
applicano le disposizioni di cui all'art. 8, legge 13 1/2 003, che disciplina il potere sostitutivo
statale. Quello prefigurato dal legislatore è dunque un sistema di condizionamenti e controlli
statali piuttosto rigido, tale da ridimensionare in modo notevole la portata innovativa dell'art.
117.5 Cost.; non sorprende, allora, che le attività internazionali delle regioni siano ancora oggi
molto contenute quanto a frequenza e rilevanza politico-giuridica, e che anche la casistica
giurisprudenziale sia molto limitata.
Un settore di attività internazionale nel quale si esplica, sia pure con i limiti di cui si è detto, il
potere estero regionale, è la cooperazione transfrontaliera, che interessa enti territoriali — di Stati
confinanti — tra loro contigui. La cooperazione transfrontaliera trova la sua disciplina nella legge
948/1984, approvata in esecuzione della Convenzione quadro europea di Madrid, promossa dal
Consiglio d'Europa. La Convenzione vede quali protagonisti gli Stati, che devono individuare quali
enti siano abilitati a concludere accordi di cooperazione transfrontaliera, e dunque non attribuisce
agli enti territoriali alcuna competenza in via diretta; lo strumento suggerito agli Stati è la stipula di
accordi bilaterali interstatuali, in applicazione dei quali gli enti territoriali potrebbero avviare
iniziative di cooperazione. È questa la strada seguita dal legislatore italiano, che con la legge
948/1984 ha appunto subordinato gli accordi transfrontalieri degli enti abilitati — regioni,
province, comuni, comunità montane, consorzi comunali e provinciali — alla previa stipula da
parte dello Stato italiano di accordi bilaterali («di copertura») con gli Stati confinanti. La disciplina
statale non è stata modificata all'esito dell'entrata in vigore del nuovo art. 117 Cost., né in seguito
alla legge 131/2003; sorge pertanto il dubbio se gli enti territoriali possano oggi stipulare accordi
di cooperazione transfrontaliera anche in mancanza di accordi statali di copertura, qualora gli
accordi rientrino tra le tipologie contemplate dall'art. 6, legge 131/2003.
Non è soggetta all'applicazione della legge 948/.1984 l'attività di cooperazione transfrontaliera
posta in essere in esecuzione di appositi programmi approvati dalle istituzioni dell'Unione
europea: lo ha affermato la Corte costituzionale (sent. 258/2004), respingendo un conflitto di
attribuzioni promosso dal governo in relazione a un accordo sottoscritto dalla provincia di Bolzano
e dalle regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto con i Lànder austriaci Carinzia, Salisburgo, Tirolo, in
esecuzione del programma comunitario Int.erreg III A Italia-Austria. In quanto previsti dal diritto
dell'Unione, i rapporti tra gli enti territoriali di Stati diversi si configurano quali rapporti «interni»
dell'ordina-mento ordinamento comunitario e non come rapporti internazionali. Un'evoluzione, in
ambito comunitario, del sistema di cooperazione transfrontaliera è stata segnata
dall'approvazione del regolamento CE 1082/2006, recante la disciplina del Gruppo europeo di
cooperazione territoriale (GECT). Tale organismo — dotato di personalità giuridica contrariamente
agli organismi transfrontalieri istituiti ai sensi della Convenzione di Madrid — non presuppone una
necessaria contiguità territoriale tra gli enti che lo istituiscono; può coinvolgere Stati, autorità
regionali, autorità locali, imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, che si trovino sul
territorio di almeno due Stati membri, sempre nel rispetto delle norme co-stituzionali di ciascuno
Stato. Il GECT è stato ideato per riunire enti situati nel territorio di almeno due Stati membri
dell'Unione, ma il regolamento UE 1302/2013, parzialmente modificando il regolamento
1082/2006, ha ammesso l'adesione di enti di paesi terzi, e consente la costituzione di GECT che
coinvolgano anche enti di un solo Stato membro e di uno o più paesi terzi. Le competenze del
GECT sono stabilite tramite una convenzione di cooperazione, approvata dai suoi membri
all'unanimità. Il GECT può essere incaricato di attuare programmi cofinanziati dalla Comunità,
ovvero azioni di cooperazione transfrontaliera con o senza intervento finanziario comunitario.
Organi necessari del GECT sono un'assemblea e un direttore; la convenzione elenca gli organi del
GECT e le rispettive competenze, ed individua il diritto applicabile a tale organismo. Ad uno
statuto, approvato all'unanimità dai membri, è demandata la disciplina di ulteriori aspetti relativi
al funzionamento del GECT e dei suoi organi. Con legge 88/2009 sono state dettate disposizioni di
attuazione del citato Regolamento CE; ai GECT è attribuita personalità giuridica di diritto pubblico,
ed è previsto un registro dei GECT presso la presidenza del Consiglio dei ministri. Risolvendo un
possibile dubbio interpretativo, la legge abilita gli enti locali a essere membri di GECT (la legge
131/2003 consentirebbe, infatti, a tali enti soltanto di esercitare attività di mero rilievo
internazionale). La costituzione del GECT deve essere autorizzata dalla presidenza del Consiglio, e
può essere revocata qualora il GECT svolga attività contrarie alle disposizioni dello Stato in materia
di ordine pubblico, pubblica sicurezza, salute pubblica o moralità pubblica, o contrarie all'interesse
pubblico. Questo istituto può assolvere alla finalità di rendere più stabili e strutturate talune
iniziative di cooperazione transfrontaliera dapprima disciplinate da intese ai sensi della legge
948/1984: ne è testimonianza, ad esempio, la cooperazione tra le province di Trento e di Bolzano e
il Land austriaco Tirolo, laddove si è passati da un'intesa di cooperazione transfrontaliera
nell'ambito di una «Euroregione» (nel 1988) all'istituzione di un ufficio di rappresentanza comune
a Bruxelles presso la UE (1995), alla sottoscrizione della convenzione istitutiva di un GECT (2011).
LE CONTROVERSIE TRA STATO E REGIONI
L'ordinamento italiano contempla due tipi di controversie costituzionali tra Stato e regioni: il
giudizio di legittimità costituzionale in via principale (art. 127 Cost.) e il conflitto di attribuzioni tra
Stato e regioni (art. 134 Cost.). In sostanza, il fattore di distinzione sta nella forma dell'atto da
impugnare: se si tratta di un atto legislativo, occorre promuovere un giudizio di costituzionalità in
via diretta, mentre se si tratta di un atto non legislativo, la via da percorrere è quella del conflitto
di attribuzioni. Entrambi i giudizi trovano la propria disciplina, oltre che nelle sintetiche disposi-
zioni costituzionali (artt. 127 e 134-137), nella legge 87/1953 (artt. 31-35 e 39-41) e nelle Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (Ni), adottate dalla stessa Corte il 7
ottobre 2008 (in sostituzione di quelle del 1956). Le controversie costituzionali in materia federale
e regionale rappresentano una competenza tipica delle corti costituzionali o supreme (come si è
visto —§ II.4 — proprio in tale materia si sono realizzate le prime forme di giustizia costituzionale):
ciò dimostra che, nel momento in cui un ordinamento si dà una struttura federale o regionale, gli
attori di quell'ordinamento ritengono indispensabile completamento del sistema la disponibilità di
uno strumento giurisdizionale idoneo a garantire il rispetto del riparto costituzionale di
competenza (anche e soprattutto contro le leggi). Anche il fatto che l'impugnazione governativa
delle leggi regionali fosse l'unico giudizio di costituzionalità disciplinato nella Costituzione del
1948, mentre per gli altri giudizi essa rinviava a fonti successive, conferma, da un lato, lo stretto
collegamento tra forma regionale di Stato e giustizia costituzionale, dall'altro il timore che ha
circondato la creazione delle regioni in Assemblea costituente. Si trattava, infatti, di un ricorso
preventivo, cioè che precedeva l'entrata in vigore delle leggi regionali e ne bloccava la
promulgazione fino alla sentenza della Corte.
La legge cost. 3/2001, modificando l'art. 127 Cost., ha trasformato il ricorso statale da preventivo a
successivo. Ciò ha prodotto una vera «esplosione» delle controversie fra Stato e regioni. Da
queste controversie costituzionali sono sempre stati esclusi gli enti locali (comuni e province), sia
prima del 2001 (quando l'esclusione poteva giustificarsi, dato che le competenze degli enti locali si
fondavano sulla legge, non sulla Costituzione), sia dopo il 2001, nonostante la riforma del Titolo V
abbia attribuito rango costituzionale all'autonomia degli enti locali (statutaria, regolamentare,
amministrativa, finanziaria). Dunque, se la legge statale o la legge regionale violano le prerogative
costituzionali degli enti locali (ad es., non attribuendo ad essi una funzione amministrativa in
contrasto con il principio di sussidiarietà), essi non possono impugnare direttamente la legge. A
questo «vuoto di tutela» ha cercato di porre parziale rimedio la legge 13 1/2003, che ha
modificato la legge 87/1953 prevedendo che gli enti locali (attraverso i propri organismi di
raccordo con lo Stato e con le singole regioni) possano chiedere allo Stato l'impugnazione di una
legge regionale e alla regione l'impugnazione di una legge statale: dopo questa modifica, l'art. 31,
legge 87/1953 fa riferimento alla eventuale proposta della Conferenza Stato-città e l'art. 32 a
quella del consiglio delle autonomie locali. Si tratta, però, di un rimedio la cui utilità viene
sminuita dall'assenza di un vincolo a carico dell'organo politico. Inoltre, anche prima della legge
131/2003 nulla precludeva alla Conferenza Stato-città e ai consigli delle autonomie locali di
avanzare le proposte in questione al governo e alle giunte. D'altro canto, è da notare che la
legittimazione ristretta delle regioni non le limita nell'accoglimento della proposta degli enti locali:
infatti, secondo la Corte costituzionale, le regioni possono impugnare leggi statali lesive delle
prerogative costituzionali degli enti locali, senza necessità di prospettare anche la lesione delle
competenze regionali.
Titolo V