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Nella sovranità di Roma e in quasi tutti i suoi territori italiani venne ristabilita l’autorità della
monarchia elettiva dello Stato della Chiesa di Pio VII. Con la “prima recupera” il pontefice
riebbe il Lazio e l’Umbria, con la “seconda recupera” le Marche, l’Emilia-Romagna e
Benevento. San Marino rimase una repubblica indipendente. La restaurazione nel Meridione
ebbe qualche problema in più a causa dell’attivismo di Gioacchino Murat che dopo aver
appoggiato il cognato durante i “cento giorni” propose la restaurazione di un regno d’Italia in
Meridione ma fu catturato e ucciso dai Borbone.
Il Meridione continentale ritornò ai Borbone e nel 1816 nacque il Regno delle Due Sicilie con
Ferdinando I (ex III) come re. La dinastia borbonica di Napoli era legata a doppio filo agli
Asburgo da una serie di trattati e alleanze: di fatto l’esercito delle Due Sicilie rispondeva ai
militari imperiali. Lo stretto controllo austriaci si alleviava solo nel Piemonte dei Savoia:
Vittorio Emanuele I possedeva la Savoia, la Liguria e la Sardegna. Anche se i Savoia in
realtà erano legati familiarmente con gli Asburgo, il regno sabaudo era una creatura
dell’intero consenso delle potenze del Congresso, in quanto stato cuscinetto tra Francia ed
Austria.
Torino volle mantenere la propria autonomia quando Von Metternich propose una Lega
Italica sul modello della Confederazione Germanica. A ulteriore garanzia c’erano le alleanze
internazionali: la Santa Alleanza proposta dallo zar che cessò di esistere con il cambio di
regime in Francia e la successiva Quadruplice alleanza tra Inghilterra, Russia, Austria e
Prussia per controllare la Francia.
Assolutismo e monarchie amministrative
La dominazione napoleonica aveva alterato lo stile e le pratiche di governo e trasformato le
relazioni tra Stato e società civile. Nessuno degli Stati italiani ebbe una forma di governo
costituzionale e in tutti fu instaurato un assolutismo rigido, tuttavia, tutti i sovrani, dovevano
tener conto della stagione illuminata e della burocratizzazione napoleonica.
Nella centralizzazione del potere statale operava anche l’accoglimento del sistema
amministrativo napoleonico. La burocrazia moderna fondata sulle competenze, la
ripartizione del territorio e il controllo di quest’ultimo tramite i prefetti furono mantenuti
durante la restaurazione. Anche la coscrizione militare venne mantenuta, ad esclusione
dello Stato della Chiesa e delle due isole maggiori. Il sistema di leva obbligatoria prevedeva
la compilazione di elenchi di maschi ventenni arruolabili; tra di essi veniva sorteggiato il
numero necessario, anche se gli individui più ricchi potevano pagarsi un sostituto. La ferma
durava dai 5 agli 8 anni e questo implicava una totale alienazione dalla famiglia e dal luogo
d’origine.
Veniva a formarsi un esercito fedele ed addestrato, che veniva usato quasi esclusivamente
al mantenimento dell’ordine interno. Il concetto di sicurezza (ambientale, igienica, pubblica,
sanitaria) si espanse in Europa già dalla fine del Settecento: la polizia era una delle
caratteristiche della modernità.
Nei primi decenni dell’Ottocento anche il controllo della beneficienza e della salute pubblica
entrarono nelle preoccupazioni dei governi. La beneficienza pubblica diveniva un’importante
cerniera tra potere centrale e comunità locali. La rete delle condotte mediche, che si
occupavano della cura e dell’assistenza dei poveri, costituiva una grande risorsa per i
governi centrali che in questo modo riuscivano a fondare delle politiche preventive e
contenitive. Gli oneri e le spese della salute pubblica erano a carico delle comunità
municipali ma il governo centrale operava per stabilire degli standard per la formazione dei
sanitari.
La maggior parte degli Stati italiani cerco di mantenere e rafforzare una “monarchia
amministrativa”, cioè una forma di gestione dello Stato che manteneva nelle mani del
sovrano il potere, pur vincolandolo all’osservanza di una normativa da lui stesso emanata,
mentre l’apparato burocratico centralizzato controllava e stimolava le periferie.
Istituzioni e amministrazioni fino al 1848
Non sottoposto all’influenza di Vienna il Regno di Sardegna si orientò verso una totale
abrogazione dell’assetto istituzionale del periodo napoleonico. Con l’editto del 21 maggio
1814 si impose il ritorno in vigenza delle “regie costituzioni” del 1770. Con i “regi biglietti”
Vittorio Emanuele I poteva modificare il contenuto o l’applicazione di leggi già esistenti. La
codificazione civile francese venne abolita a favore di disparate fonti normative locali.
Matrimonio civile e divorzio vennero soppressi, si tornò alle discriminazioni giudiziarie verso
ebrei e valdesi, si aggravò la posizione giuridica della donna, furono reintrodotte limitazioni
all’utilizzo della proprietà come i fedecommessi o i maggiorascati, tornarono alcune
immunità ecclesiastiche o aristocratiche e furono ristabilite le corporazioni dei mestieri.
Venne abolito il sistema prefettizio napoleonico e sostituito con uno simile gestito da
governatori militari nelle province e da intendenti civili nei territori minori che avevano il
compito di nominare gli amministratori e i consiglieri dei comuni tra i proprietari fondiari.
Il 13 marzo 1821 Vittorio Emanuele I, pressato dai moti rivoluzionari, abdicò in favore di
Carlo Felice che sconfessò immediatamente la costituzione concessa dal reggente Carlo
Alberto. A quest’ultimo toccò il compito di imprimere una svolta liberale al Regno di
Sardegna, dopo morte del predecessore. Un passo decisivo fu compiuto con dei
provvedimenti che cambiarono l’assetto delle amministrazioni locali e vennero introdotte
forme di rappresentanza della popolazione sulla base del censo con l’inclusione di individui
non aristocratici.
Il sistema carloalbertino istituiva le Intendenze generali, ovvero ritagli territoriali più ampi
delle province che avevano un bilancio autonomo, alla cui elaborazione concorrevano dei
Congressi di delegati dei sudditi, eletti con un sistema che temperava il principio elettivo con
la scelta dall’alto. I provvedimenti di Carlo Alberto precedenti allo statuto del 1848 erano
improntati ad una istituzionalizzazione omogenea del territorio, superando i particolarismi
locali.
Anche in questo caso l’influenza della Chiesa era chiara, ad esempio in relazione ad alcuni
comportamenti contro l’ordine familiare che divenivano reati contro lo Stato. Ci fu anche una
riforma carceraria ispirata ad un carcere vicino New York e detta “auburniana” che
consisteva nella rieducazione dei detenuti facendoli mangiare, lavorare e pregare tutti
insieme ma impedendogli di comunicare tra loro e isolandoli la notte.
Le istituzioni assistenziali e sanitarie si basavano sulle Congregazioni di carità. Il sistema
funzionava nei grandi centri ma in campagna e in montagna no. Durante l’epidemia colerica
del 1835 Carlo Alberto tentò di regolamentare uniformemente l’amministrazione delle opere
pie. In seguito al regio editto del 1847 la sanità e l’igiene pubblica divennero appannaggio
del ministero dell’Interno. Ulteriori interventi riguardarono anche l’istruzione, in direzione di
una laicizzazione.
La corona reale fu assunta dall’imperatore che delegava un viceré. Vennero istituiti due
Consigli di governo di nomina imperiale per le rivalità tra i due territori. Ogni governo si
articolava in un Senato politico, per la politica generale ed un Senato camerale per le
questioni finanziarie e fiscali. Dipendevano dai governi una serie di direzioni centrali che
costituivano il braccio esecutivo. A guidare i governi vicereali erano dei governatori, ma
l’ultima decisione spettava alla capitale imperiale.
L’amministrazione di questi ultimi dipendeva dal numero degli abitanti e si basava sulle
decisioni degli estimati, cioè dei possidenti terrieri. Nei piccoli comuni si riuniva
periodicamente il convocato, sotto controllo del commissario distrettuale, un’assemblea di
tutti gli estimati che approvava il bilancio e proponeva una deputazione comunale, ovvero
l’organo di governo del comune. I comuni maggiori avevano un ristretto consiglio comunale
la cui composizione spettava ai governi.
Dai comuni venivano le indicazioni dei rappresentanti per la congregazione provinciale che a
sua volta proponeva i rappresentanti per la congregazione centrale, organismo consultivo
che affiancava il governo. Le rappresentanze erano strettamente cetuali e servivano per
offrire alla nobiltà l’occasione di riacquistare un ruolo privilegiato di rappresentanza.
Nel Lombardo-Veneto i codici francesi vennero aboliti e sostituiti con quelli austriaci. La
legislazione reintroduceva deroghe al principio di uguaglianza ma mitigava la minorità
giuridica della donna e tutelava maggiormente i minori. Il divorzio era consentito ai non
cattolici. Relativamente ai diritti di proprietà la codificazione austriaca manteneva residui del
passato come i fedecommessi, uniti a istituti avanzati napoleonici.
Il processo civile si svolgeva in forma scritta e non prevedeva l’obbligo di motivazione delle
sentenze. In campo penale venne introdotto il codice dei delitti e delle pene austriaco del
1803, particolarmente dura era la disciplina carceraria. Il processo penale costituiva il più
grave ritorno al passato.
Era improntato sul rito inquisitorio, lasciava l’accusato senza diritto di difesa autonoma e
senza cognizione degli atti accusatori e con il magistrato che rivestiva il ruolo di accusatore,
difensore e giudice. Punto di forza del regime austriaco era la polizia, sulla quale si basava il
controllo capillare del regno. La mancanza di una rappresentanza popolare e la censura,
consegnavano alla polizia il ruolo di raccoglitrice di lamentele e problemi dei sudditi.
Nel settore delle opere pie venne abolita l’organizzazione centralizzata napoleonica ma i
singoli istituti erano sottoposti alle autorità locali e gestiti da amministratori scelti dal governo
su proposta dei comuni. Un settore particolarmente curato fu quello della pubblica istruzione,
finanziato dallo Stato e articolato in scuole elementari minori e maggiori, nelle quali i cittadini
potevano assolvere l’obbligo d’istruzione previsto dai 6 ai 12 anni.
L’annessione all’Impero del Trentino avvenne tramite il suo accorpamento nella Contea del
Tirolo, la quale godeva di una significativa autonomia da Vienna e aveva diritto ad una sua
dieta rappresentativa. Organizzati in base all’importanza demografica, i comuni prevedevano
la presenza tra gli amministratori di una componente eletta dai contribuenti e in alcune città
anche dei consigli eletti allo stesso modo.
Il duplice esecutivo di Parma e Piacenza trovava il suo coordinamento nel Consiglio di Stato,
che affiancava i sovrani con funzioni consultive, e i commissari svolgevano la funzione dei
prefetti. I comuni erano dotati di organismi rappresentativi, i consigli degli anziani, nei quali
erano inseriti i principali contribuenti, nominati dal duca sulla base di liste scelte dai consigli
stessi. Di nomina ducale erano anche i podestà con i loro assessori.
Nel 1821 Parma varò una sua codificazione completa civile e commerciale;
contemporaneamente stabilizzò l’ordinamento giudiziario, articolandolo in tre gradi di
giudizio, con un Tribunale supremo che fungeva anche da controllo sulla magistratura. A
capo dell’amministrazione sanitaria fu posto un Consiglio medico-chirurgico-farmaceutico
con funzioni giurisdizionali sulle professioni, mentre le opere pie erano coordinate dal
ministero dell’Interno.
Il piccolo Ducato di Lucca venne governato dai Borbone con un regime prettamente
assolutistico incentrato sulla figura del segretario di Stato. Nel Ducato di Modena il potere
era concentrato nelle mani del duca, senza corpi consultivi, né ministeri, né distinzione tra
finanze pubbliche e patrimonio del sovrano. I territori di Massa e Carrara non vennero mai
integrati istituzionalmente.
L’amministrazione locale era poco evoluta, i comuni erano ordinati sulla base di un consiglio
di proprietari fondiari, mancava uno snodo intermedio provinciale e i governatori, ex prefetti,
non avevano strumenti adatti. Venne ripristinata la codicistica estense del 1771, il sistema
giudiziario era arretrato e subiva le ingerenze del sovrano. Il duca Francesco IV era vicino
alle tendenze cattoliche più conservatrici.
Nel Granducato di Toscana la figura del sovrano era centrale e il grado di autonomia degli
organi esecutivi era ridottissimo. L’assolutismo granducale si fondava sul governo personale
che controllava tutti i pubblici affari senza l’intermediazione di ministri. Il carattere arretrato
era confermato dalla commistione tra apparato giudiziario e legislativo: venne reintrodotta la
reale Consulta civile e criminale, un organismo composto da giudici che fungeva da tribunale
supremo, controllava il sistema giudiziario e proponeva leggi.
Del diritto civile francese venne tenuta in vigore la maggior parte delle norme sulla proprietà
e sul commercio, la revisione riguardò specialmente i diritti della persona, in particolare le
donne che non ebbero più indipendenza giuridica. Leopoldo II nel 1838-41 razionalizzò il
sistema processuale e legislativo sulla base della separazione delle funzioni giudiziarie da
quelle amministrative e l’articolazione in tre gradi di giudizio oltre la pubblicità degli atti del
processo penale. L’istruzione primaria era appannaggio quasi esclusivo del clero.
Il territorio dello Stato fu ripartito in province dette legazioni rette da ecclesiastici affiancati da
congregazioni consultive. Ogni legazione era divisa in governi con governatori ecclesiastici
dotati di funzioni amministrative e giudiziarie. I comuni prevedevano un consiglio, un sindaco
e una giunta. Roma faceva storia a sé, non era organizzata come un comune, dipendeva
dalle finanze dello Stato ed era retta da una Camera capitolina affiancata da un Senato
vitalizio.
La riforma razionalizzava l’amministrazione statale ma reintroduceva una concentrazione di
poteri, i privilegi, le immunità, diversi ordini giudicanti. Con Leone XII fu ancor più
reazionario: operò una politica restrittiva nel campo dei comportamenti privati e pubblici e
ghettizzò gli ebrei. Gregorio XVI condannò il liberalismo politico, la libertà di stampa e ogni
libertà di coscienza religiosa.
Lo stretto intreccio tra sfera spirituale e temporale che caratterizzava lo Stato rese
irrealizzabile la separazione tra diritto canonico e civile, e a complicare il quadro vi era
un’infinità di fonti legislative. Questo portava ad una difficile gestione e piena disponibilità
della proprietà privata. Nel campo dei diritti personali vennero ridotti drasticamente quelli
delle donne. Nel diritto penale ci fu qualche innovazione: si abolì la tortura, si concesse
qualche garanzia agli imputati con il ricorso in appello ma la pubblicità del processo rimase
esclusa.
Al sistema carcerario disumano faceva riscontro la presenza di carceri minorili che avevano
il compito di rieducare i detenuti.
Nel 1826 si stabilì la concentrazione dei fondi e degli istituti di beneficienza in una
Commissione dei sussidi mentre nel 1834 una Congregazione speciale di sanità si sarebbe
dovuta occupare del controllo delle epidemie. L’elezione di Pio IX fu accolta con grandi
aspettative. Le scelte del nuovo pontefice furono prudenti ma vennero allargate le maglie
della censura e venne riformulato l’assetto del governo con la creazione di un vero e proprio
Consiglio dei ministri.
La base culturale illuminata non mancava, ciò che non era stata effettuata era una stagione
di riforme borboniche. Venne conservato l’apparato istituzionale e codicistico del decennio
francese, rifiutandone solo il principio rappresentativo. Nei ranghi della burocrazia e
dell’esercito rimasero la maggior parte dei funzionari che avevano servito con Murat che
collaboravano con esponenti della corte borbonica. Si trattava di amalgamare concezioni
politiche e burocratiche spesso opposte.
La struttura istituzionale del regno poneva al centro il monarca, che agiva tramite dei ministri
di sua scelta: sette in totale più un ottavo che rappresentava il re in Sicilia. I ministri
formavano il Consiglio di Stato che tuttavia non costituiva un reale contrappeso al potere
reale. Le funzioni giudicanti vennero assegnate alla Corte dei conti.
L’organo consultivo della funzione legislativa del sovrano fu creato nel Supremo consiglio di
cancelleria che si attivava solo su richiesta del re e non aveva potere deliberante. Le
province erano rette da intendenti, dipendenti dal ministero degli Interni e con funzioni di
controllo sulle amministrazioni comunali; al loro fianco si trovavano i consigli di intendenza
che avevano funzioni di consulenza e di giudice di prima istanza; esisteva poi un consiglio
rappresentativo dei proprietari provinciali che poteva occuparsi solo delle spese facoltative
della provincia.
I comuni erano amministrati da un decurionato, nominato dal re; anche il sindaco era
nominato dal centro sulla base di una lista scelta dal decurionato. A Napoli e a Palermo
vigeva un sistema diverso, il cui esecutivo era composto dagli eletti nei vari quartieri e da un
sindaco. Nel 1819 furono promulgati i nuovi codici che non si discostavano molto da quelli
napoleonici nel campo della civilistica e del diritto commerciale e concedevano moltissimo
alla chiesa.
La normativa penale si dimostrava più evoluta di quella francese per la distinzione tra delitto
commesso e tentato, il grado di complicità, la graduazione delle pene, l’abolizione della
morte civile. Maggiore severità verrà introdotta per i delitti religiosi. I procedimenti penali
prevedevano la pubblicità degli atti, il diritto alla difesa, il giudizio collegiale della corte, la
motivazione delle sentenze e il ricorso al grado superiore fino alla suprema corte. Le pene
erano basate sulla rieducazione del reo con il lavoro e l’isolamento notturno.
Tuttavia, il sistema carcerario non era al livello delle normative: spesso i detenuti non
ricevevano neanche il vitto. Il sistema giudiziario era orientato all’autonomia dei magistrati ed
era ben articolato. Il sistema francese di organizzazione e controllo delle opere pie venne
mantenuto, furono istituiti dei consigli degli ospizi. La sanità pubblica fu regolata da una
piramide che faceva capo ai Supremi magistrati di salute di Napoli e Palermo.
Tutte le costituzioni realizzate in seguito ai moti del 1820-21 e del 1848-49 furono effimere,
eccetto quella di Carlo Alberto. Le ondate rivoluzionarie avevano in comune una certa
indeterminatezza degli obiettivi, il che si rifletteva sul disegno costituzionale e sul problema
della sovranità. Il modello di costituzione era quella francese octroyée del 1814 di Luigi
XVIII.
Nel Regno di Sardegna fu proclamata una costituzione il 10 marzo del 1821, alla quale Carlo
Alberto, in vesti di reggente, giurò fedeltà quattro giorni dopo. Tuttavia, il legittimo re Carlo
Felice la sconfessò al suo ritorno. I moti del 1831 diedero luogo ad un esperimento
costituzionale solo nelle Legazioni pontificie, che nel febbraio dichiararono decaduto il potere
temporale del papa, formarono governi provvisori e costituirono un’assemblea costituente.
Quest’ultima promulgò la Costituzione delle Province unite italiane. Essa si fondava sulla
separazione dei poteri, con un esecutivo composto da un presidente e da un Consiglio dei
ministri, un legislativo formato da deputati provinciali e una magistratura indipendente. La
resa degli insorti pose fine all’esperimento il 26 marzo.
La stagione costituzionale del 48 ebbe come modello la Carta francese del 1830 di Filippo
d’Orleans, costituzione già superata in Francia in seguito alla rivoluzione parigina del 1848. Il
carattere fondamentale della carta orleanista era la centralità del parlamento bicamerale,
con una Camera bassa eletta a suffragio censitario e una Camera dei pari di nomina regia. Il
primo statuto del 1848 fu concesso da Ferdinando II delle Due Sicilie il 10 febbraio.
Nel Granducato di Toscana il Quarantotto si era aperto con la nomina di Leopoldo II che era
intenzionato a riformare l’assetto istituzionale. I moti però lo costrinsero ad un’apertura più
marcata, con la concessione una costituzione sul modello francese del 1830: il parlamento
bicamerale era costituito da un senato vitalizio e da un Consiglio generale elettivo composto
da uomini ricchi e over 50. Il sovrano era a capo dell’esecutivo e partecipava alla
legiferazione. Nel 1849 il granduca abbandonò lo Stato lasciandolo nelle mani di un governo
provvisorio che abbandonò il bicameralismo e assegnò poteri costituenti ad un’assemblea
toscana che venne sciolta dal ritorno del granduca aiutato dagli austriaci.
Pio IX nominò una commissione di ecclesiastici per la stesura dello Statuto fondamentale
pel governo temporale degli Stati della Chiesa, in seguito ai moti meridionali. Il sistema era
articolato in un parlamento bicamerale al quale si aggiungeva un senato cardinalizio. La
particolare situazione dello Stato Pontificio si rifletteva in quei divieti che impedivano ai
legislatori di legiferare contro il diritto canonico.
Dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi, capo del governo, e la conseguente fuga del papa, un
governo provvisorio nominò un’assemblea costituente che l’8 febbraio 1849 dichiarò
decaduto il potere temporale del papa. L’assemblea elaborò la costituzione della Repubblica
romana, promulgata il 3 luglio ma mai applicata a causa dell’intervento delle forze
reazionarie e francesi.
Il caso di Venezia fu differente perché in quel momento il governo provvisorio si era dato una
forma repubblicana e la decisione venne rimandata ad un’assemblea legislativa che
comunque si espresse per l’annessione. Importante sottolineare l’attrazione che il regno di
Sardegna di Carlo Alberto esercitava sui territori vicini.
L’ordinamento dello Stato recepiva la distinzione del costituzionalismo liberale tra legislativo,
esecutivo e giudiziario ma manteneva il sovrano nel ruolo di supremo coordinatore delle tre
funzioni. Il re dichiarava guerra e concludeva la pace; a lui spettava il potere esecutivo,
esercitato tramite ministri da lui scelti; il sovrano aveva anche il diritto di proporre leggi al
parlamento. La funzione giudiziaria risultava un organo dell’esecutivo, un ordine di funzionari
pubblici. Il parlamento era composto da una Camera di deputati elettiva e da un Senato a
vita scelto. I membri della Camera venivano eletti ogni 5 anni e lo Statuto vietava il mandato
imperativo. Lo svolgimento dell’attività parlamentare era pubblico. Al re era assegnato il
diritto di convocare il parlamento, di sciogliere la camera (con obbligo di convocarne le
elezioni in quattro mesi). La costituzione taceva sui requisiti del corpo elettorale, questione di
grande rilevanza poiché la definizione dell’elettorato precisava la natura del regno. La
brevità dello Statuto lo rendeva una costituzione flessibile, cosa che gli permise di durare, di
fatto, fino alla Costituzione italiana del 1946.
Le norme elettorali prevedevano la pienezza dei diritti politici all’1,7% della popolazione,
ovvero i maschi con più di 25 anni che: pagavano almeno 40 lire di imposte dirette annue,
erano impiegati dello Stato con una pensione di almeno 1200 lire annue, erano membri delle
accademie o Camere di commercio, erano professori o magistrati. Nessuna limitazione per
valdesi e, più avanti, ebrei. La combinazione tra criteri censitari e capacitari aveva l’intento di
consolidare un corpo elettorale con interessi proprietari, di impresa o professionali. Il sistema
elettorale era quello dei collegi uninominali a doppio turno.
Il regime costituzionale della Sardegna resse alla sconfitta contro l’Austria che però causò
l’abdicazione di Carlo Alberto in favore di Vittorio Emanuele II e la prima tensione tra
governo e parlamento. Il nodo principale era il pagamento delle spese di guerra al nemico
(l’esistenza stessa dello stato cuscinetto del Piemonte non era mai stata messa in
discussione dall’Austria). Vittorio Emanuele II decise di muoversi all’interno dello Statuto, per
non minare l’integrità della corona, quindi, cercò di formare una Camera che accettasse le
condizioni di pace, cosa che riuscì a fare dopo la minaccia di abolizione della costituzione. Il
regno si muoveva verso la parlamentarizzazione dello stato, con la politica che assumeva un
ruolo più ampio.
Il rafforzamento del regime in senso liberale implicava una riduzione del potere della Chiesa
nella vita civile. Le leggi Siccardi del 1850 soppressero il foro ecclesiastico e le residue
immunità del clero. La riforma delle opere pie si mosse nella stessa direzione: vennero
aboliti i privilegi per gli enti religiosi e venne tolta la personalità giuridica alle congregazioni. Il
sovrano non era d’accordo con tali leggi ma non riuscì a formare una Camera favorevole e
quindi Cavour, richiamato dopo le dimissioni, approvò tutti i provvedimenti a costa di una
scomunica.
In Europa c’era diffidenza nei confronti dello stato sabaudo e della sua libertà di
espressione; infatti, i maggiori sovrani pressarono Vittorio Emanuele a diminuire tali libertà.
Napoleone III mirava ad un ruolo egemone in Europa mentre lo zar intendeva approfittare
della debolezza dell’impero ottomano, fatto che preoccupava Inghilterra, Francia e Austria. Il
regno sabaudo rispose con moderazione alle minacce, stringendo le maglie della censura.
Nel 1854 le tensioni internazionali si erano acuite: inglesi e francesi attaccarono la Russia
dopo l’invasione di Moldavia e Valacchia, spedizione al quale parteciparono anche i
piemontesi. Ciò gli permise di avere un peso nel concerto europeo e quindi di firmare un
trattato con la Francia a Plombiéres che prevedeva l’intervento di Napoleone III a fianco dei
savoia in caso di attacco austriaco e in caso di vittoria l’annessione al Regno di Sardegna
del resto del nord Italia in cambio della cessione alla Francia della savoia e di parte di Nizza.
Le due parti convenivano anche alla totale risistemazione del resto della penisola: un grande
regno centrale composto dal Granducato e le Legazioni Pontificie, lo Stato della Chiesa
ridotto all’attuale Lazio e il regno dei Borbone nelle mani di Napoleone- Luciano Murat.
I quattro stati italiani si sarebbero uniti in una confederazione presieduta dal papa ma sulla
quale Napoleone III avrebbe avuto una certa influenza. I preparativi bellici del Regno di
Sardegna erano evidenti dal 1857 e nello stesso anno si interruppero le relazioni
diplomatiche con gli austriaci. Guglielmo I con i britannici concertò azioni militari per frenare
la mobilitazione sabauda, ed in effetti la rallentarono. Tuttavia, la promessa di neutralità dello
zar nei confronti della Francia è un esempio delle posizioni delle grandi potenze europee. Il
23 aprile l’Austria mandò un ultimatum alla Sardegna e due giorni dopo la Camera conferì
poteri dittatoriali al re che sospese il parlamento e respinse l’ultimatum il 26.
Negli altri Stati italiani la seconda restaurazione successiva ai moti del 1848-49 fu
caratterizzata dal ritorno degli antichi sovrani, che abolirono o non tennero in considerazione
le costituzioni concesse. L’Austria si reinsediò come potenza anche militarmente egemone
mantenendo truppe nello Stato pontificio e nel Granducato. In questa fase anche gli Stati
che si erano caratterizzati per una laicizzazione della vita civile, mutarono la loro posizione.
Il Granducato siglò un accordo con la Santa Sede che concedeva grossi privilegi al clero.
L’Austria firmò un concordato in seguito al quale la Chiesa ottenne una posizione di rilievo in
tutti i territori imperiali rispetto alle altre religioni.
Il Lombardo-Veneto restò sotto un regime militare capeggiato dal maresciallo Radetzky fino
a quando venne incaricato anche del governatorato civile dello stato. Radetzky si concentrò
sul controllo poliziesco del territorio grazie anche all’utilizzo del processo statario, un istituto
previsto per arginare la criminalità con processi sommari, senza diritto di difesa o di appello
e con la sola pena capitale come punizione. A rendere maggiormente inviso il regime
austriaco contribuì anche la sua politica finanziaria che comportò un forte aggravio fiscale.
Vienne decide di avviare un tentativo di distensione sostituendo a Radetzky l’arciduca
Massimiliano d’Asburgo.
Sul litorale adriatico il Regno d’Illiria venne abolito e le province imperiali passarono sotto un
luogotenente risiedente a Trieste, città che fu oggetto di un decentramento amministrativo
con la costituzione di un consiglio elettivo con funzioni di dieta.
Pio IX abrogò ogni provvedimento emanato eccetto il Consiglio di Stato che tuttavia aveva
solo compiti amministrativi. Il capo del governo Antonelli riorganizzò l’articolazione
amministrativa del regno perfezionando il rapporto tra legazioni e delegazioni: le prime erano
Romagne, Marche, Umbria e Marittima e Campagna, le seconde ne costituivano i distretti.
Nel 1851 il politico inglese William Gladstone, dopo una visita di qualche mese nel Regno
delle Due Sicilie denunciò all’opinione pubblica le condizioni di vita del regno borbonico. Si
era nel pieno della reazione di Ferdinando II che aveva instaurato un dominio personale e
una lunga e capillare repressione. A suscitare lo sdegno di Gladstone era soprattutto la
discrezionalità delle pratiche repressive. Non era previsto un inasprimento delle leggi ma
delle misure di polizie come l’empara, che permetteva la reclusione senza condanna per i
deputati assolti e per i soggetti pericolosi, o le liste degli attendibili, ovvero dei sorvegliati
speciali. La pervasività ferdinandea fagocitava anche il governo che aveva difficoltà a
muoversi in autonomia. La Sicilia era retta da Filangieri e in seguito da Ruffo, che rafforzò il
controllo poliziesco. L’isola restava amministrativamente separata dal continente ma
strettamente dipendente dal re. Fu intrapresa una politica di riconciliazione con gli
aristocratici.
La debolezza del regime borbonico era accresciuta dal suo progressivo isolamento dalla
politica internazionale, specialmente quando Ferdinando II rifiutò di intervenire in Crimea.
Allo scoppiò della guerra austro-piemontese il regno borbonico dichiarò la neutralità. Il figlio
e successore di Ferdinando, detto Franceschiello addolcì il regime ma il crollo del regno era
inevitabile.
Tra la fine di aprile e il luglio 1859 il Lombardo-Veneto, i ducati dell’Italia centrale e un’ampia
porzione dello Stato Pontificio vennero travolti dalle conseguenze della guerra
franco-piemontese contro l’Austria. La Restaurazione aveva cessato di dominare le relazioni
europee e si era diffusa la consapevolezza dell’inadeguatezza delle decine di piccoli Stati in
Italia e in Germania. Fu questa congiuntura internazionale a facilitare risoluzioni ben diverse
da quelle del 1848, modificando anche gli accordi di Plombiéres. I crolli degli Stati dell’Italia
centrale furono repentini e simultanei, caratterizzati dalla delegittimazione delle autorità
incapaci di interpretare l’evoluzione del quadro diplomatico europeo.
Nel ducato di Modena l’insurrezione della provincia di Massa scoppiò tra il 27 e il 28 aprile;
le truppe ducali abbandonarono la provincia e Torino la annesse. Anche a Reggio e Modena
le insurrezioni instaurarono nuovi municipi, in particolare Modena ribadì la validità del
plebiscito che chiedeva l’annessione al Regno di Sardegna. Torino inviò a Modena come
governatore Luigi Carlo Farini, ma quando la diplomazia internazionale rifiutò l’annessione e
Farini fu richiamato, Modena acclamò il governatore come dittatore e promosse l’elezione di
un’assemblea che votò l’annessione al regno sabaudo.
Fu una petizione di ufficiali favorevoli all’ingresso in guerra a fianco dei sardi a indurre la
reggente Luisa Maria ad abbandonare il ducato di Parma. Nella città emerse una giunta
provvisoria che si insediò a nome di Vittorio Emanuele II, ma venne deposta dai militari che
richiamarono Luisa Maria per un passaggio formale dei poteri.
Il 15 giugno Torino insediò il governatore Pallieri nelle province parmensi, che fu richiamato
allo stesso modo di Farini. I parmigiani indissero un plebiscito per l’annessione e
consegnarono il paese a Farini. La sollevazione antidinastica del Granducato si manifestò
prima del conflitto. Dopo l’ennesimo rifiuto di Leopoldo II all’ingresso in guerra seguirono
manifestazioni popolari democratiche che indussero il duca a partecipare al conflitto e a
concedere una costituzione. Ne seguì la fuga del sovrano e anche in questo caso furono le
amministrazioni comunali ad assumere responsabilità di governo.
A rendere possibile l’insurrezione nello Stato Pontificio fu il ritiro delle truppe austriache. A
Bologna una manifestazione costrinse il legato alla fuga e indusse la Magistratura a
nominare una giunta di governo al quale si unirono le altre città emiliane e romagnole. Le
insurrezioni a Rimini, nelle Marche e in Umbria furono represse dai mercenari svizzeri. A
Bologna il governo offrì la dittatura a Vittorio Emanuele II, ottenendone solo il protettorato. Il
28 agosto fu eletta un’assemblea rappresentativa con a capo Marco Minghetti. L’assemblea
dichiarò decaduto il potere temporale del papa e chiese l’annessione al Regno di Sardegna.
L’esecutivo La Marmora-Rattazzi approfittò dei pieni poteri del governo per legiferare intorno
a diverse questioni da tempo oggetto di dibattito. Conosciuto come “legge Rattazzi” era il
provvedimento sull’amministrazione periferica dello Stato.
Il territorio fu diviso in province, circondari e comuni, le prime e gli ultimi dotati di personalità
giuridica e consigli rappresentativi, i circondari erano una divisione amministrativa per
facilitare il compito dei prefetti con i loro sottoprefetti ovvero gli ex governatori e
vicegovernatori provinciali.
Alla provincia erano delegate questioni importanti come le strade, l’istruzione secondaria, la
manutenzione dei boschi, la gestione dei manicomi, oltre il controllo di merito sugli atti
amministrativi dei comuni, in relazione soprattutto alle spese e ai bilanci. Le province, così
come i comuni, erano aiutati da consigli elettivi, i sindaci erano di nomina regia. L’elettorato
attivo e passivo per i consigli comunali era di tipo censitario.
Spettò a Gabrio Casati firmare la lege 13 novembre 1859 che avrebbe gettato le basi e
governato la scuola italiana per quasi un secolo. La legge sanciva il dovere dello Stato di
occuparsi dell’istruzione dei cittadini. L’ispirazione pedagogica di fondo si basava
sull’obbligatorietà e gratuità dell’istruzione elementare per i bambini di ambo i sessi e sulla
prevalenza dell’istruzione umanistica nella scuola secondaria e nelle università.
La criticità nel governo della pubblica istruzione erano i finanziamenti. Lo Stato faceva
gravare sugli enti locali il grosso delle spese per concentrare il proprio impegno
nell’istruzione classica che avrebbe formato la nuova classe dirigente. Ne conseguiva la
cronica difficoltà dei comuni di attivare le scuole elementari.
Il tour de force legislativo del governo subalpino si occupò anche della contabilità dello
Stato, l’organizzazione dell’amministrazione centrale, la legge elettorale politica,
l’ordinamento della pubblica sicurezza, il codice di procedure penale e penale militare.
In tutti i casi vennero leggermente modificate leggi già in vigore, adattandole ai nuovi confini.
Il codice penale era sostanzialmente un aggiornamento di quello vigente, del quale
manteneva una scala delle pene che prevedeva la morte, i lavori forzati e una grande varietà
di forme detentive.
Le innovazioni più importanti riguardavano la mitigazione delle pene per reati politici e contro
la proprietà, l’abolizione delle sanzioni per reati religiosi e l’introduzione di attenuanti per
ogni reato.
La legge sanitaria affidava la tutela della salute e igiene pubblica, la vigilanza sulle
professioni e la farmacia al ministero degli Interni coadiuvato da un Consiglio superiore della
sanità. La sanità pubblica veniva rivendicata come competenza dello Stato, che
centralizzava le decisioni ma non provvedeva ad articolare nel territorio organi esecutivi e
osservatori competenti.
Le annessioni: 1859-1860
Nel caso della Lombardia Cavour istituì la “Commissione per l’ordinamento temporaneo
della Lombardia”, presieduta da Cesare Giulini della Porta. Le conclusioni della
Commissione Giulini stabilirono l’amministrazione provvisoria lombarda che comprendeva il
riconoscimento del plebiscito per l’annessione al Piemonte, l’immediata applicazione delle
garanzie costituzionali sabaude e la creazione di un governatorato autonomo col
mantenimento delle istituzioni locali. Questo ordinamento diversificato ed autonomistico
cessò dopo Villafranca e la Lombardia passò sotto il controllo di Torino.
L’annessione dei territori del centro Italia prevedeva l’elezione di parlamenti locali basati sul
ritorno in vigore delle leggi elettorali stabilite nel 1848. Tra luglio e settembre del 1859 la
Toscana, i ducati di Modena- Reggio, di Parma-Piacenza e le Legazioni elessero i loro
parlamenti, che costituivano la garanzia di uno Stato autonomo.
Diversamente, nel Meridione conquistato dai garibaldini non ci furono elezioni per la
costituzione di assemblee; lo stato di guerra imponeva il mantenimento della dittatura di
Garibaldi. Il Regno delle Due Sicilie divenne sabaudo per conquista militare ed espressione
diretta della volontà popolare tramite plebiscito a suffragio universale maschile.
La causa italiana era appoggiata dalle potenze europee, specialmente dalla Francia che
premeva per le ricompense del trattato di Plombiéres, e dall’Inghilterra. Dopo il via libera
dall’estero, con i decreti del 18 e del 22 marzo 1859 Torino annesse l’Emilia e la Toscana.
Nel frattempo, dei plebisciti stabilivano il passaggio di Nizza e della Savoia alla Francia. A
seguito degli altri plebisciti tenuti nella penisola, quattro regi decreti stabilirono l’annessione
delle province napoletane continentali, della Sicilia, delle Marche e dell’Umbria.
Il 24 giugno 1860 fu istituita presso il Consiglio di stato una commissione temporanea di
legislazione con il compito di vagliare i progetti che il parlamento stava discutendo.
L’orientamento era quello di sviluppare le autonomie locali fino all’istituzione delle regioni.
Alcuni le concepivano come divisioni amministrative intermedie tra province e Stato,
governate da un membro scelto e non elettivo, altri le intendevano come personalità
giuridiche ed elettive.
Le elezioni per l’VIII legislatura del Regno di Sardegna si tennero il 27 febbraio e 1861. La
nuova Camera approvò all’unanimità il 14 marzo la mozione di conferimento a Vittorio
Emanuele II il titolo di re d’Italia.
L’organizzazione settaria più importante era la Carboneria, diffusa soprattutto nel Regno
delle Due Sicilie, nelle Marche, in Romagna e nei ducati padani. La struttura era rigidamente
compartimentata, si articolava in sezioni dette vendite al cui interno la partecipazione e la
conoscenza programma erano fortemente gerarchizzati.
Nei primi anni della restaurazione vennero costituiti i Sublimi maestri perfetti, su ispirazione
di Filippo Buonarroti. Il loro programma prevedeva più gradi di evoluzione politica, a partire
da un regime costituzionale, per arrivare alla creazione di un regime repubblicano e alla fine
all’instaurazione del comunismo.
Solo i gradi più elevati dell’organizzazione conoscevano il vero fine, Buonarroti intendeva
inizialmente promuovere altre associazioni cospirative e spingerle ad agire. Tra queste vi era
la Federazione italiana; essa aveva un programma costituzionale moderato, in grado di
attrarre elementi borghesi, esponenti dell’aristocrazia, ufficiali sabaudi, nell’ambito di
un’organizzazione che non prevedeva riti di iniziazione. Assai più debole era la presenza
settaria nel Granducato di Toscana.
Sarebbe una forzatura inscrivere la rivoluzione del Regno delle Due Sicilie tra le tappe dei
moti nazionalisti italiani, era piuttosto una ribellione contro le élites dello stato borbonico.
In Piemonte alcuni esponenti del mondo settario elaboravano programmi volti alla
concessione di una costituzione e tennero contatti con Carlo Alberto di Savoia-Carignano,
probabile erede al trono. Nel programma dei cospiratori sardi era presente anche una guerra
all’Austria per sottrarle il Lombardo-Veneto ma anche in questo caso non si può parlare di un
programma nazionale italiano.
Il moto fece abdicare il re e giurare fedeltà alla costituzione al reggente Carlo Alberto. La
rivoluzione piemontese intendeva porsi risolutamente nell’ambito della fedeltà alla corona,
ma la sconfessione del re Carlo Felice facilità la repressione del moto.
La sconfitta delle rivoluzioni produsse una recrudescenza dalla repressione del movimento
cospirativo, da tutti gli stati italiani migliaia di rivoluzionari espatriarono continuando la loro
lotta in Spagna, in Grecia o addirittura in Messico. Molti esuli si stabilirono in Inghilterra, in
Francia o in Svizzera dove ebbero modo di riflettere sugli esiti dei movimenti carbonari e di
riorganizzare programmi futuri.
I moti del 1831, tuttavia, ebbero caratteristiche essenzialmente municipaliste, senza obiettivi
unitari. La loro importanza deriva dal fatto che misero in luce la debolezza degli stati coinvolti
e l’inconcludenza del settarismo carbonaro.
La rischiosa scommessa politica dei rivoluzionari del ’31 era basata sulla speranza che la
nuova Francia di Luigi Filippo d’Orleans, che aveva appena concesso una nuova
Costituzione, imponesse alle potenze europee il principio di non intervento, come già
successo nel caso del Belgio nel 1830, ma una nuova tolleranza avrebbe ribaltato gli
equilibri del Congresso di Vienna.
Nel dicembre del 1830 un colpo di mano venne progettato dalla carboneria romana con
l’aiuto di Luigi Napoleone Bonaparte. Nel gennaio del 1831 fu scoperta una congiura in
Toscana. Tra febbraio e marzo insorsero i ducati padani e le Legazioni.
La rivoluzione italiana che scoppiò a Modena il 3 e il 4 febbraio 1831 era stata in un certo
senso annunciata da una cospirazione in corso da almeno tre anni che nei progetti del
conduttore Enrico Misley doveva portare alla costituzione di un unico stato italiano. Il
sovrano di Modena
Francesco IV era stato coinvolto, non si sa in cambio di cosa, ma venne meno all’accordo di
tolleranza. La rivoluzione ebbe un momento di stallo e il duca fuggì. Insurrezioni incruente
determinarono il crollo dei governi delle città, nelle quali si costituirono governi provvisori
moderati.
Le ipotesi unitarie erano ostacolate dai forti contrasti campanilistici trai vari governi. Modena
e Reggio unificarono i loro governi e affidarono le milizie a Zucchi, in seguito si unì anche
Parma. A Bologna i moti costrinsero le autorità pontificie a cedere il potere ad un governo
provvisorio.
Le città delle Legazioni cercarono di creare un governo unitario delle Province Unite. Le
forze degli insorti non sarebbero riuscite a contrastare la potenza dell’Austria e speravano
solo nel principio di non intervento. Agli inizi di marzo infatti gli austriaci mossero verso
Modena sconfiggendo Zucchi, poi risalirono verso Parma riprendendo il controllo dei ducati.
A marzo presero il controllo di Ferrara e Comacchio per muoversi intorno al 20 verso
Bologna.
Le tornate rivoluzionarie del 1820 e 1831 avevano appannato gli orizzonti e consumato i
metodi di un ceto rivoluzionario formatosi nel periodo napoleonico. “Liberali vecchi”, fiduciosi
nelle sette di stampo carbonaro e speranzosi negli aiuti internazionali. l la frazione più
avanzata politicamente del movimento settario, impersonata da Filippo Buonarroti,
continuava a subordinare ogni progresso nella penisola ad una rivoluzione democratica in
Francia.
Era comunque da queste correnti di pensiero che adesso chiamiamo della democrazia
risorgimentale, che nacquero nuovi indirizzi strategici e tattici per il superamento della
restaurazione nella penisola.
Le declinazioni del concetto unitario erano molte e disparate. Per Buonarroti, ad esempio, la
repubblica unitaria era uno strumento di governo per consentire alla rivoluzione di compiere
il suo corso, preparando la nazione all’esercizio della sovranità per darsi in seguito nuove
forme istituzionali. Per Mazzini invece l’unità era lo scopo fondamentale a cui l’Italia doveva
mirare per realizzare la sua missione di civilizzazione.
Dal 1831 Mazzini era esule, in Francia era entrato in contatto con Buonarroti che divenne
per Mazzini un punto di riferimento politico. Per Buonarroti l’organizzazione cospirativa era
un valore in sé, era la scintila della rivoluzione e la forma di governo della liberazione,
ovvero la dittatura dei rivoluzionari. Per Mazzini l’organizzazione era invece lo strumento per
il superamento dei movimenti settari e del localismo.
Nel luglio del 1831, a Marsiglia, Mazzini fondò la Giovine Italia, restando comunque membro
di altre organizzazioni. La Giovine Italia si distingueva per la pubblicità del suo programma
politico, pubblicato sulla rivista omonima.
I punti chiave erano: la cacciata dello straniero e l’unità d’Italia con forma repubblicana; i
mezzi erano l’educazione e l’insurrezione. Nonostante l’assenza di un programma
economico, il mazzinianesimo seppe farsi anche carico di questioni sociali, con la creazione
di associazioni in ambito operaio.
La fede illuministica nel progresso si coniugava con questa visione, perché la realizzazione
di un’Europa delle nazioni era compresa nel progetto complessivo di Mazzini. Uno dei primi
tentativi di scatenare un’insurrezione della Giovine Italia si consumò nel 1834 quando un
gruppo di volontari avevano cercato di penetrare in Savoia per provocare un’insurrezione,
ma i più furono bloccati dalla polizia svizzera.
L’invasione avrebbe dovuto coordinarsi con un’insurrezione da promuovere a Genova, dove
il movimento neanche cominciò. Il fallimento mandò in crisi l’organizzazione mazziniana, egli
cercò di rinsaldare i legami con gli altri movimenti nazionali europei fondando a Berna la
Giovine Europa che tuttavia verrà sciolta dalle autorità elvetiche nel 1837. Mazzini si trasferì
dunque in Inghilterra.
L’orientamento di Fabrizi appariva alternativo a quello di Mazzini che riteneva i contadini del
sud non pronti ad una rivoluzione e spingeva piuttosto per un’educazione delle masse. Le
idee di Fabrizi innescarono una serie di movimenti insurrezionali che non ebbero fortuna,
come l’episodio dei fratelli Bandiera.
Nonostante i fallimenti dei moti non si placava l’opposizione alla restaurazione: nei 1845
degli insorti nelle Legazioni riuscirono a prendere Rimini. La novità era il “Manifesto di
Rimini”, redatto da Luigi Carlo Farini. Il programma si differenziava per il suo stampo
moderato, perché proclamava il rispetto dell’autorità del Papa come capo della Chiesa ma
rivendicava la secolarizzazione dell’amministrazione.
Il moto del 45 faceva emergere quello che la storiografia chiama moderatismo. Tra i
moderati, Vincenzo Gioberti pubblicò “Del Primato morale e civile degli italiani” nel quale
proponeva la conciliabilità della libertà e del progresso con il cattolicesimo. Gioberti rilanciò
le vecchie idee guelfe del papato come protettore della libertà d’Italia e immaginò una
confederazione di Stati liberi sotto l’egida del pontefice.
Dal canto suo, Cesare Balbo con “Delle speranze d’Italia” spostava l’asse del rinascimento
italiano dal papato ai Savoia, che per virtù diplomatica, dinastica e militare sarebbero stati
garanti del nuovo ordine della penisola.
Nel discorso generale dei moderati il modello istituzionale e i diritti civili non erano ben
definiti. Giacomo Durando con il suo “Della nazionalità italiana” dichiarava insolubile il
legame tra libertà, indipendenza e istituzioni rappresentative. Egli suggeriva di
ridimensionare l’autorità politica del papa concedendogli solo Roma e le isole e ipotizzava
una sistemazione della penisola con due monarchie confederate l’Eridania a nord e
l’Appennino a sud.
Anche Luigi Torelli tornò sull’ipotesi confederale dell’Italia, partendo dalla cacciata degli
austriaci e dividendo la penisola in tre regni: a Nord i Savoia, al Centro i Lorena e a Sud i
Borbone; Roma città libera e residenza del Papa, indipendente rispetto a chiunque ma
senza territorio.
Alcune soluzioni erano ancora figlie del Congresso di Vienna e speranzose in congiunture
internazionali favorevoli. A questo si aggiungeva la sfiducia nei confronti delle iniziative
popolari ritenute esclusivamente eversive dell’ordine sociale. In ogni caso il progetto unitario
si andava articolando, così come ci si rendeva conto che la cacciata degli Asburgo era
propedeutica.
Qualcosa si muove
I piemontesi avevano quindi intrapreso rapporti commerciali con gli svizzeri e gli austriaci
risposero con pesanti dazi per i vini piemontesi esportati in Lombardia. L’opinione pubblica di
Torino moderata fu attenta ad approfittare di questo momento per diffondere l’ostilità verso
gli Asburgo. Nella stessa ottica si deve leggere lo sviluppo ferroviario subalpino.
Le aperture papali e il consenso popolare indussero anche altri stati a delle aperture, specie
in ambito giornalistico: nacquero molti periodici esplicitamente favorevoli all’unità. Le
concessioni di libertà di espressione però non interessarono il Lombardo-Veneto e il Regno
delle Due Sicilie.
La crisi agricola non fu da sola la causa delle rivoluzioni del 1848, ma il deteriorarsi delle
condizioni di vita aveva già fatto scendere in piazza decine di migliaia di persone in Italia.
L’obiettivo comune di quelle mobilitazioni era la protesta contro l’incapacità dei governi a
porre rimedio alla crisi. L’idea di nazione si presentava come seducente contro l’inefficienza
dei sovrani e una forte molla in grado di mobilitare le masse.
Quando l’ondata rivoluzionaria toccò anche Vienna, l’imperatore promise una costituzione,
ma i fermenti continuarono tra tutte le nazionalità dell’impero. In veneto la situazione si
evolveva in posizioni più radicali, che ritenevano impossibile ogni compromesso con Vienna
e intendevano preparare una insurrezione antiaustriaca con l’obiettivo di proclamare una
repubblica legata federalmente ad altri stati italiani.
A preparare questa soluzione era soprattutto Daniele Manin. Il 22 marzo la pressione degli
insorti indusse le autorità austriache a cedere il potere alla municipalità e a ritirare le truppe.
Il 23 marzo si giunse alla fondazione della Repubblica di San Marco ed entro la fine del
mese i comitati alla testa delle varie province, eccetto Verona, aderirono all’esperimento.
La reazione militare fu molto decisa e Radetzky spinse i milanesi alla rivolta: è l’inizio delle
celebri Cinque Giornate di Milano. Dopo due giorni di combattimenti sanguinosi venne
costituito un Consiglio di Guerra ispirato da Carlo Cattaneo e di indirizzo democratico.
Tale obiettivo era ostacolato da Casati che temeva per una eccessiva invadenza dei
piemontesi. La mattina del 23 marzo le truppe austriache abbandonarono la città, nel
frattempo gli altri capoluoghi lombardi erano insorti, eccetto Mantova.
L’8 aprile al governo provvisorio milanese furono aggregati rappresentanti delle altre
province e fu costituito un governo provvisorio lombardo. Anche nei ducati padani le
insurrezioni fecero fuggire Francesco V da Modena e Carlo II da Parma, sostituiti da governi
municipali che entrarono in orbita piemontese.
Intanto era iniziata la guerra austro-sarda, a cui Carlo Alberto si era risoluto per le pressioni
della stampa e delle manifestazioni dei democratici, sia per allargare i confini ad est sia per il
timore che i repubblicani lombardi avessero la meglio. Il conflitto che per la memoria storica
italiana prese il nome di Prima guerra d’indipendenza iniziò in ritardo dal punto di vista tattico
e con molte incertezze strategiche.
I primi reparti piemontesi attraversarono il Ticino solo il 25 marzo, quando gli austriaci erano
già al sicuro nel quadrilatero delle fortezze (Peschiera, Verona, Mantova e Legnago).
L’obiettivo più realistico era quello di sottrarre la Lombardia agli Asburgo. Le principali
battaglie che portarono alla presa di Peschiera furono quelle di Goito, di Pastrengo e di
Santa Lucia.
Inizialmente, al conflitto parteciparono contingenti provenienti da quasi tutti gli Stati italiani,
ma il coordinamento tra di essi era scarso e inoltre i piemontesi non riponevano molta
fiducia. Il 29 aprile Pio IX ritirò le truppe perché non era possibile schierarsi contro un impero
cattolico, e di conseguenza anche Leopoldo II e Ferdinando II abbandonarono il conflitto.
Veniva meno la prospettiva federalista italiana e si accentuava l’impresa dinastica dei
Savoia.
L’Austria, nonostante l’aggravarsi della situazione interna, aveva rafforzato la sua presenza
sul fronte italiano. Gli Asburgo ebbero contatti con Torino e con i governi di Miliano, ai quali
proposero la cessione della Lombardia ma non del Veneto. Le trattative non ebbero esito,
finché gli austriaci non ripresero il controllo delle azioni militari e ripresero gran parte del
Veneto.
L’esercito sabaudo iniziò la ritirata che finì per arrestarsi alle porte di Milano, dove ci fu una
nuova battaglia che indusse il sovrano a patteggiare un nuovo armistizio il 5 agosto. Il giorno
dopo Radetzky entrò in città mentre i piemontesi riparavano oltre il Ticino. Carlo Canera di
Salasco e Heinrich H. Heiss firmarono l’armistizio che imponeva ai piemontesi il ritiro di ogni
truppa dal Lombardo-Veneto.
Dopo l’armistizio, nel Regno di Sardegna si susseguirono una serie di governi moderati di
destra, accomunati dalla speranza che la ritirata sabauda rendesse più morbide le condizioni
di pace. Una nuova insurrezione a Vienna intanto veniva repressa cono ferocia, cosa che si
propagò anche in periferia.
Il nuovo capo del governo piemontese Vincenzo Gioberti intendeva rilanciare l’iniziativa
piemontese cercando un accordo con gli altri sovrani italiani per la costituzione di una
confederazione per riprendere la guerra con l’Austria.
I sovrani di Roma e Napoli erano usciti dal conflitto ed erano alle prese con lotte interne. I
democratici della penisola erano piuttosto orientati alla creazione di un’assemblea
costituente a suffragio universale, idea proposta da Mazzini e da Montanelli. Il progetto di
una costituente era seducente perché richiamava il concetto della sovranità popolare e
proponeva una soluzione democratica all’indipendenza italiana.
Nel Regno delle Due Sicilie Ferdinando II aveva iniziato la reazione già dal 15 maggio, la
costituzione non venne revocata ma i suoi principi violati. Il problema del sovrano borbonico
era la sottomissione della Sicilia, la quale aveva offerto il trono al figlio di Carlo Alberto che
lo rifiutò. Il fatto accelerò la crisi dell’isola, guidata da Ruggero Settimo. Ai primi di settembre
le truppe borboniche guidate da Filangieri cominciarono la conquista della Sicilia.
Nello Stato della Chiesa in agosto cadde il governo guidato da Terenzio Mamiani, moderato
ma in dissidio con il pontefice perché favorevole al rientro in guerra. Il papa nominò
Pellegrino Rossi che tentò di conciliare le posizioni conservatrici della curia e quelle più
moderate. Il suo governò durò poco poiché venne assassinato circa un mese dopo da ex
volontari della guerra d’indipendenza.
Roma cadde nel caos, il Quirinale venne assalito dai popolani e venne imposta la
formazione di un governo più avanzato, affidato di nuovo al Mamiani. Pio IX si rifugiò a
Gaeta. Il 29 dicembre si attuò la svolta che diede inizio alla rivoluzione romana. Il
parlamento, la giunta di Stato e il governo entrato in carica pochi giorni prima, si costituirono
in una commissione di governo provvisorio e convocarono un’assemblea costituente a
suffragio universale.
Decretata la decadenza del governo temporale del pontefice, l’assemblea costituente elesse
come guida suprema un triumvirato di orientamento democratico, al quale partecipò anche
Mazzini.
Carlo Alberto formò un nuovo governo a febbraio guidato da Chiodo e Rattazzi e il 20 marzo
ruppe l’armistizio con l’Austria. Le operazioni militari furono male organizzate e disastrose.
Carlo Alberto, dopo la sconfitta di Mantova, trattò un armistizio e abdicò, sperando che il
cambio di sovrano avrebbe concesso condizioni più vantaggiose.
A Firenze i moderati con l’appoggio delle comunità rurali invitarono Leopoldo II a rientrare in
Toscana, ma il sovrano rifiutò su consiglio degli Asburgo che cominciarono l’invasione della
regione, conquistata nel giro di un mese. Anche nel regno meridionale riprese l’opera di
riconquista borbonica della Sicilia: Filangieri riuscì a riprendere tutta l’isola.
Pio IX si era rivolto alle potenze cattoliche e aveva trovato appoggio dalla Spagna, dai
Borbone e dalla nuova Francia di Luigi Napoleone Bonaparte. Mentre il generale Oudinot
entrava a Roma, gli austriaci irrompevano nelle Legazioni.
Venezia tentava di proseguire la sua vita costituzionale, fino a quando gli austriaci non
presero a bombardare la città assiduamente e un’epidemia di colera non colpì i veneziani: la
situazione insostenibile fece arrendere Manin.
Regno di Sardegna e Austria avevano concluso la pace con il trattato di Milano del 6 agosto
1849 che riportava i confini al 1815 ma comportava il pagamento di 75 milioni di franchi agli
Asburgo.
Il Piemonte costituzionale rimase l’unico punto di riferimento nel quadro della nuova
restaurazione antiliberale e antinazionale. Rifugiati politici risiedevano in molte città italiane e
all’estero e l’immaginario politico dei rivoluzionari doveva fare i conti con il protagonismo dei
Savoia in ottica unitaria.
Se le rivoluzioni del 1848-49 avevano fatto emergere la dimensione corale e popolare della
nazione italiana, l’evoluzione politica del Regno di Sardegna faceva emergere un attore del
processo di costruzione nazionale concepito per crescere anche attraverso le mediazioni
della politica.
Dopo l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele II e sino alla creazione del Regno d’Italia, si
ebbero nel Regno di Sardegna 5 elezioni generali e 7 governi. Principalmente erano guidati
da uomini di destra ma già dalla pace con l’Austria ci fu una convergenza verso il centro di
elementi democratici.
Ci fu una confluenza della nuova maggioranza attorno alla figura di Cavour, che dopo la
guerra di Crimea fu accolto in parlamento in maniera entusiasta. Cavour presentò l’impresa
come un prima passo per far assumere al Piemonte il ruolo di protagonista nella
risistemazione della penisola, ma in realtà il regno sabaudo era stato quasi costretto a
partecipare alla coalizione antirussa per non cadere nell’isolamento internazionale.
Nell’estate del 1857 fu costituita in Piemonte la Società nazionale per opera di Manin,
Pallavicino Trivulzio e La Farina. Ad essi si riunirono altre personalità democratiche, tra cui
Garibaldi. Il loro obiettivo era di unificare le correnti politiche che volevano l’unità e
rinunciavano alla pregiudiziale repubblicana per accettare piuttosto il ruolo guida dei Savoia.
Tramite la Società il governo piemontese riusciva anche ad infiltrarsi nella rete cospirativa
italiana.
Il movimento democratico non si era esaurito in seguito al fallimento delle rivoluzioni del
1848, una parte degli esponenti aveva colto la debolezza del Quarantotto nell’insufficiente
azioni dei governi rivoluzionari per le aspirazioni degli strati popolari.
Tra i precursori di questa visione vi era Giuseppe Ferrari, la sua era una proposta di un
modello di rivoluzione alternativo a quello di Mazzini, che operasse anche per eliminare
alcune storture della gerarchia sociale, soprattutto la tirannia del capitale sul lavoro, che
avrebbe dovuto essere superata con la limitazione della proprietà privata, cominciando
dall’abolizione dell’eredità.
Una critica radicale del mazzinianesimo venne da Carlo Pisacane. Egli preconizzava una
società libertaria, fondata sull’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. La
critica che egli svolgeva verteva contro la borghesia che voleva liberarsi dall’Austria ma
voleva mantenere i correnti rapporti di produzione con le masse.
In Italia Mazzini creò un Comitato nazionale italiano che causò la nascita di diverse cellule
insurrezionali presenti quasi ovunque tranne nel territorio borbonico.
La rete clandestina mazziniana non era ignota alle polizie dei vari stati, e la repressione fu
davvero dura ma nonostante questo Mazzini sosteneva che il luogo ideale per far partire la
rivoluzione italiana. Furono soprattutto i popolani milanesi che scesero in piazza il 6 febbraio
1853 e assalirono i presidi dei soldati austriaci, senza mobilitare gli altri cittadini. Nel giro di
poche ore il moto fu soffocato.
L’insuccesso minò il prestigio di Mazzini ma non incrinò la sua fede sul fatto che fosse il
momento propizio per la rivoluzione. Annunciò la nascita del Partito d’azione che si
concentrava sull’organizzazione di azioni insurrezionali. Mazzini, Bertani, Cosenz e
Pisacane cercarono di accendere una rivolta che fosse in grado di mobilitare i contadini e in
generale tutta la popolazione.
La tattica era quella di Mazzini e Pisacane era convinto della disponibilità delle masse
meridionali. Dopo una laboriosa organizzazione si decise di partire per la Sicilia, ma alla fine
si scelse una località continentale poiché la rete cospirativa napoletana pensava fosse
possibile far insorgere la capitale. Gli uomini di Pisacane raggiunsero Ponza, liberarono i
detenuti e sbarcarono a Sapri dove venne completamente a mancare l’appoggio dei
contadini che anzi si schierarono dal lato dei borbonici.
Una conseguenza del fallimento del movimento mazziniano furono anche i tre attentati alla
vita di Napoleone III. Questi fatti però mossero l’opinione pubblica francese e contribuirono a
orientare l’imperatore a contenere quel focolaio di instabilità e instaurare un rapporto con i
Savoia.
L’alleanza franco- piemontese divenne l’obiettivo della critica di Mazzini che sosteneva che
Napoleone III avesse preso accordi con i sardi solo per aumentare la propria egemonia sulla
penisola senza nessun interesse per la causa italiana. Tuttavia, quando la guerra scoppiò
Mazzini non la rifiutò.
Con il discorso di Vittorio Emanuele II all’apertura del parlamento subalpino, il sovrano lascia
intendere che la guerra di conquista può convivere con la guerra di liberazione. Le forze
armate sabaude arrivavano a circa 63.000 uomini, la bassa forza era di leva, ma la ferma
lunghissima ne faceva quasi dei professionisti.
In aggiunta c’erano numerose forze volontarie. La Francia schierò per conflitto circa
165.000 uomini e dall’altro lato del Ticino sotto il comando del generale Ferencz Gyulai, gli
austriaci disponevano di circa 200.000 uomini.
Le forze sarde passarono il confine il 29 aprile 1859 e gli austriaci risposero occupando
Biella e Vercelli. Dal Lago Maggiore Garibaldi penetrò il 23 maggio nell’alta Lombardia,
occupando Varese, Como e Bergamo. A fine maggio, aiutati dalle forze francesi, gli alleati
sconfissero gli austriaci nella battaglia principale di Magenta il 4 giugno.
La ritirata austriaca aprì le porte di Milano l’8 giugno. L’apice della guerra si ebbe il l24
giugno nelle battaglie di Solferino e San Martino. A capo degli schieramenti vi erano i due
imperatori: Francesco Giuseppe e Napoleone III, con Vittorio Emanuele II in un ruolo
subordinato. Sull’esperienza della sanguinosa battaglia di Solferino, vinta dai
franco-piemontesi, Jean-Henry Dunant scrisse un libretto che avrebbe poi ispirato la
fondazione della Croce Rossa Internazionale.
Dopo la vittoria, gli alleati non disturbarono la ritirata degli Asburgo che riuscirono a
mantenere Mantova e Peschiera. Napoleone III non continuò la guerra per la conquista del
Veneto e firmò l’armistizio di Villafranca.
La situazione nell’Italia centrale era pressoché stabile dopo i crolli dei regimi, ma i
democratici, e Garibaldi specialmente, intendevano proseguire la guerra e conquistare lo
Stato Pontificio, impresa bloccata dalle pressioni di Carlo Farini. Lo scenario mutò nella
primavera del 1860 quando i plebisciti e le congiunture internazionali favorevoli resero
possibile la politica di annessione del Piemonte.
Gli uomini di Garibaldi si impadronirono di due vascelli e partirono da Quarto il 6 maggio per
sbarcare a Marsala l’11. Il 14 Garibaldi assunse la dittatura dell’isola a nome di Vittorio
Emanuele II e iniziò la marcia verso l’entroterra, rinforzando le sue file con gli insorti per
puntare verso Palermo.
Il progetto nazionale dei garibaldini poteva essere seducente per le popolazioni rurali solo
per un brevissimo periodo, altre erano le aspirazioni dei contadini isolani senza terra. Il 2
giugno Garibaldi stabilì la quotizzazione delle terre demaniali ai contadini poveri, ma il
decreto scatenò una serie di rivolte per l’appropriazione di queste terre. L’episodio più grave
avvenne il 4 agosto a Bronte.
Dopo la conquista di Palermo, tre colonne garibaldine percossero l’isola lungo la costa
settentrionale, meridionale e attraverso il centro, convergendo verso lo stretto. Il 20 luglio
sconfissero le truppe napoletane a Milazzo.
Intanto Cavour si mosse tramite la Società nazionale. A giugno era stato inviato La Farina in
Sicilia con il compito di premere sulle classi dirigenti locali per una veloce annessione al
Piemonte. Garibaldi però lo fece arrestare ed espellere dall’isola. Nelle intenzioni di Cavour,
a Napoli sarebbe dovuta scoppiare un’insurrezione scatenata da cospiratori moderati e
filosabaudi che avrebbero indotto il governo a chiedere aiuto al Piemonte. Tale progetto fallì
perché non si trovò nessun accordo con i dirigenti borbonici né successe nulla nella capitale.
L’esercito borbonico, del resto, non si era sciolto e lungo il fiume Volturno attaccò, con
scarsa perizia strategica, Garibaldi. La vittoria che ne seguì fu l’ultima importante per il
comandante delle camicie rosse; intanto, iniziava ad emergere l’impossibilità di proseguire
verso Roma dato che sulla strada c’erano ancora le fortezze di Gaeta e Capua.
Il 25 ottobre Garibaldi attraversò il Volturno per congiungersi con l’esercito sabaudo, il giorno
dopo presso Vairano, salutò Vittorio Emanuele II come re d’Italia, mantenendo fede ai
plebisciti del regno meridionale.
L’Italia, nella metà del 700, fu coinvolta nel processo di espansione demografica che
interessò l’Europa, dando un taglio dalle epoche precedenti. Le caratteristiche di quel
fenomeno, chiamato “il modello demografico della modernità”, segnano la fine della mortalità
e di conseguenza l’inizio della natalità, essa continuò a crescere fino agli ultimi decenni del
21° secolo.
Questa crescita demografica fu data dalle varie innovazioni, come l’aumentare della
disponibilità delle risorse alimentari e di lavoro grazie anche agli sviluppi economici e dei
trasporti avuti tra la fine del 700 fino agli inizi del 900. Questo portò anche ad una
predisposizione al matrimonio in età più giovane. Tutti questi sviluppi evitavano anche la
diffusione di epidemie, cosa che aveva devastato la popolazione negli anni precedenti.
Tutti questi mutamenti produssero un aumento della popolazione, per esempio la crisi dei
raccolti del 1816/1817 bloccarono questo sviluppo poichè vi era minore disponibilità
alimentare, un’altro esempio fu l’epidemia del vaiolo o del colera, essi erano tutti
avvenimenti che rovinavano la popolazione e di conseguenza la mortalità cresceva.
Altro motivo di arretratezza dello sviluppo demografico era la mortalità infantile, per esempio
la “strage degli innocenti” dove le cause furono di ordine climatico e ambientale, esse
andavano ad intaccare proprio la salute dei neonati. Vediamo che nel primitivismo non vi era
alcun tipo di igiene o anche per quanto riguarda la medicina.
Buona parte degli italiani viveva gia in insediamenti agglomerati, pochi dei quali avevano
caratteristiche urbane, quindi funzioni amministrative, produttive ecc.., era dunque la
campagna che si era urbanizzata. Quindi all’italia mancava quel rapporto diretto tra sviluppo
dell’economia industriale e crescita dell’urbanesimo.
Le italie agricole
Gli stati italiani come abbiamo visto erano, quindi, società agricole. Il mondo urbano, in lento
incremento e quello rurale, in lenta decrescita non erano 2 realtà separate ma bensì
inerdipendenti. La proprietà terriera era fonte di reddito per i proprietari urbanizzati mentre
per tutto l’800 chi possedeva beni fondiari era simbolo di status che alimentava il mercato
della terra, legava la campagna alla città. Sviluppo demografico e dinamismo dei rapporti tra
città e campagna determinarono una crescita della produzione agricola. Ciò a lungo andare
però creò un aumento dei prezzi, nota soprattutto negli anni 40. Andando avanti nel tempo vi
era l’aumento di terre coltivabili, ottenute con i disboscamenti, bonifiche ecc..Le zone agrarie
dell’italia sono 5:
- montagna alpina e dell’Appennino settentrionale
- la zona collinare e delle pianure asciutte dell’Italia settentrionale
- la bassa Valle Padana
- l’area collinare dell’italia centrale
- il Meridione
Raramente i grandi proprietari assumevano la gestione diretta di vasti appezzamenti e la
terra era affidata a coltivatori secondo 3 sistemi agrari fondamentali:
1. affitto capitalistico,
2. latifondo
3. compartecipazione
1) comportava la cessione del diritto d’uso e sfruttamento con contratti di lunga durata a
imprenditori agrari, in cambio di un canone fisso.
2) Grande estensione di terreno lasciata incolta
3)
I contratti di partecipazione, di cui la mezzadria era la forma più tipica, davano ad una
grande famiglia un contratto pluriennale di poderi di piccola/media dimensione che
comprendevano la casa colonica e la terra.
Nella fascia subalpina vi erano maturazioni nell’età della restaurazione in campo di coltura.
La viticoltura era diffusa anche nel Veneto dove però le aziende agrarie erano di proprietà
nobiliare o borghese.in Lombardia si stava completando la suddivisione di grandi affitti a
compartecipazione, dette masserie, costituite da un gruppo di famiglie che assumevano il
compito dell’affitto e della coltivazione.
Un’altra grande trasformazione fu l’incremento della coltura dei gelsi, le foglie del gelso sono
il nutrimento dei bachi, produttori dei bozzoli da seta e ciò interessava ad ogni famiglia
contadina dell’area subalpina ma anche delle pianure emiliane. Ciò poneva riparo ad un
peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro agricolo. Le trasformazioni agricole più
incisive nel panorama italiano avvennero nelle aree, fornita di irrigazione, della pianura
padana.
I due poli dello sviluppo furono soprattutto il Piemonte e sud orientale e la parte centrale
della piana padana.nella Padania centrale la rotazione annuale delle colture granarie con
quelle di erbe foraggere, consentire una maggiore resa di grani. la disponibilità di foraggio
permetteva l’allevamento del bestiame bovino, indispensabile forza motrice per i lavori
agricoli su grandi terreni.
Dal punto di vista economico il patto mezzadrile non incentivava gli investimenti.lo
sfruttamento della terra dell’Italia centrale era quindi basato su poderi di piccole i dimensioni,
nel quale i fondi erano forniti dal proprietario, in cambio del lavoro della famiglia mezzadrile,
dell’impegno a mantenere e migliorare il fondo.
Per esempio vite e olio necessitavano di cure assidue, quali potevano essere dispensati solo
dalla presenza costante del mezzadro e della sua famiglia, di conseguenza per queste
coltivazioni il patto agrario mezzadrile era il più adatto è il meno costoso per il proprietario
terriero. In generale però il sistema mezzadrile, l’Italia centrale come nel Veneto, si adattava
in modo efficiente e flessibile alle condizioni dei territori, garantiva inoltre una stabilità
sociale.
Il paesaggio del latifondo era dominato da una cerealicoltura vasta, Dove vi era necessario
la pratica del maggese, terre a riposo. I proprietari latifondisti ottenevano la rendita fondiaria
dai loro territori affittandoli in grandi appezzamenti ha un ceto di intermediari, detti massari
nella parte continentale e gabellotti in Sicilia.
I contratti di miglioria servivano ad impiantare colture specializzate sui terreni incolti con
l’obbligo di impiantarvi la coltura arborea pregiata e avvalendosi di anticipazioni di denaro da
parte del proprietario. Ancora più diffuso è il contratto di godimento, che prevedeva una
cessione di terreni da migliorare con colture arboree e specializzate.
La materia più importante presente in Italia era lo zolfo, esso impiegava circa 15.000 operai
e di conseguenza vi era anche molto sfruttamento come per esempio vediamo tra gli inglesi
e i francesi. Destinata all’esportazione era l’estrazione del ferro dalle miniere toscane o di
piombo e zinco. Essendo l’Italia quasi priva di carbone fossile, indispensabile nella
lavorazione dei metalli e dello zolfo estratti, era costretta quindi ad importarlo.
di conseguenza il prezzo del carbone giungeva ad essere molto elevato. A rendere più
costosa l’industrializzazione italiana contribuiva anche la geografia poiché per esempio da
Milano a Torino, le merci su carri impiegavano anche una decina di giorni a giungere a
destinazione.
Gli altri fattori principali della produzione industriale sono il lavoro e il capitale. I capitali
erano legati alla terra di conseguenza poco interessati all’investimento industriale. Un ruolo
importante ce l’avevano gli investitori stranieri, che nel periodo della restaurazione molti
erano svizzeri e tedeschi.
In Toscana il mercato del credito era molto attivo e legato al commercio; il portofranco di
Livorno, grazie i suoi privilegi fiscali costituiva un importante piazza di scambi commerciali
tra paesi diversi di investimenti. Un’eccezione all’inefficienza finanziaria nell’area italofona
era Trieste, essa ha visto dare vita a operazioni di grande campo, la creazione delle
assicurazioni generali nel 1831, seguita nel 1833 dalla fusione di alcune agenzie di
assicuratori marittime nel Lloyd austriaco e quindi dalla riunione Adriatica di Sicurtà nel
1838. Anche il ramo tessile non è da escludere.
Nelle aree subalpine e Lombardia specialmente, quella della seta era un’industria
particolare, diffusa sul territorio piuttosto che concentrata in grandi opifici. La seta
attorcigliata era voce di esportazione più rilevante e la fonte più significativa di
accumulazione di capitale.
Vi è inoltre l’industria della laniera, Che inizialmente era in declino ma poi si riprese.anche il
comparto cotoniero era in quegli anni meno rilevante di quello della seta ma era il più
dinamico del settore tessile e in generale di tutti settori della nascente industrializzazione
italiana.il polo più importante del cotonificio era l’altopiano lombardo, dove imprenditori come
i borghi, i cantoni, i ponti e molti altri impiantarono filatura organizzate come fabbriche
moderne.
Meno sviluppata di quella lombarda era la situazione del cotonificio nel mezzogiorno. Il
comparto metallurgico e meccanico era ovunque molto debole per consistenza finanziaria,
poiché vi era una prevalenza delle piccole aziende.il tessuto delle piccole officine
meccaniche era fitto e articolato.
A partire dagli anni 40 le iniziative di sviluppo ferroviario e navale che furono promosse nel
regno di Sardegna, nel lombardo veneto e nel regno delle 2 Sicilie stimolarono le prime
concentrazioni industriali nella metalmeccanica.si trattava di industrie che avrebbero avuto
un ruolo importante nell’industrializzazione italiana ma che in quei decenni si dedicavano ad
una produzione diversificata, organizzata artigianalmente.
Negli stati italiani non ci furono molte ferrovie.le prime realizzazioni furono pensati come
prestigiosi simboli del potere Reggio: la Napoli-Portici fu la prima ferrovia italiana nel 1839 e
collegava la capitale meridionale con la reggia estiva del sovrano e anche nella Lombardia
austriaca la Milano-Monza (1840).
Nel regno di Sardegna sin dal periodo di Carlo Alberto, lo Stato si era fatto promotore degli
studi ferroviari, e si erano programmati gli interventi secondo un’ottica volta a valorizzare il
territorio sabaudo come snodo dei commerci tra l’Italia asburgica e la Francia, il Mar Tirreno
e i paesi transalpini, possibilmente rilanciando Genova come porto commerciale a scapito
della francese Marsiglia e dell’austriaca Trieste.
Per quanto riguarda i trasporti marittimi anche gli stati italiani parteciparono allo sviluppo che
interessò la marina mercantile mondiale a partire dalla fine degli anni 30.i maggiori
incrementi di tonnellaggio si riscontrarono nei porti e negli arsenale di Venezia Trieste.
Alla fine degli anni 50 per numero di bastimenti la marina più grande era quello del regno
delle due Sicilie.oltre che politicamente la penisola era dunque frammentata dal punto di
vista economico, forse in misura ancora maggiore.
Le politiche economiche e fiscali
Nessun sovrano ebbe mai una politica industrialista, volta allo sviluppo economico
attraverso la crescita industriale; sarebbe stata una scelta che sarebbe apparsa visionaria
con le risorse disponibili agli stati italiani. Tuttavia, alcuni sistemi giuridici, governi, milieu
sociali seppero confrontarsi con il tema dello sviluppo meglio di altri. Chi lo fece, scelse
prospettive sull’agricoltura 1 o sul mercantilismo 2.
La costante salita dei prezzi agricoli a partire dalla seconda metà degli anni 40 provocava
scelte liberiste su importazione e esportazione di alimenti, con la volontà di approfittare delle
agricolture locali durante la fase di espansione del mercato internazionale.
Le politiche doganali avevano varie specifiche a seconda degli stati. Vi era una gerarchia
secondo la quale il regno delle due Sicilie era più protezionista, soprattutto con le leggi
doganali del 23-24, che erano accompagnate da provvedimenti di modernizzazione interna,
come l’abolizione delle corporazioni artigiane in Sicilia (1822) e la liberalizzazione del
commercio tra l’isola e il resto del regno (1824).
Dagli anni 40, durante una fase di crescita dei prezzi agricoli, i sovrani italiani cambiano la
loro politica doganale in senso più liberista. I principali stati italiani stipularono prima trattati
bilaterali di commercio con le maggiori potenze economiche europee, poi dagli anni 50
anche con gli stati americani, i cui contatti erano più semplici grazie alla navigazione a
vapore, che abbassava il costo dei trasporti.
Nel regno di Sardegna, in particolare, la politica dei trattati si accompagna, con l’influenza di
Cavour, verso un liberismo più esplicito, a partire dalla legge doganale del 1851, che
stabiliva ribassi per l’importazione agricola e di manufatti industriali, l’esenzione per le
materie prime, e finalmente l’unificazione tariffaria tra la Sardegna e la terraferma sabauda.
Ci saranno altre riduzioni tariffarie con revisioni della legge doganale negli anni precedenti
all’unità.
Tra il 1852 e il 57, il regno lombardo-veneto e i ducati padani, per influenza austriaca,
diedero vita a un’unione doganale che ebbe qualche ricaduta per le manifatture lombarde,
ma comportò un peggioramento delle finanze dei ducati, che non confermarono l’accordo.
Per quanto riguarda la realizzazione e manutenzione delle infrastrutture per l’aumento di
produzione e scambi, le politiche di spesa pubblica furono deboli in tutti gli stati italiani,
erano orientate infatti da ragioni politiche e militari.
La Toscana rafforzò i collegamenti delle principali Città con il porto di Livorno. Tra il 28 e il 38
realizzò la prima bonifica della maremma settentrionale e completò quella della Val di
Chiana, grazie ad accordi con lo stato pontificio.
Gli sforzi del regno meridionale si indirizzarono a cercare di risolvere il disordine idraulico
che interessava grandi porzioni delle aree pianeggianti. Le bonifiche del governo borbonico
furono sotto finanziate, non furono in grado di muovere i capitali dei latifondisti e furono
insufficienti rispetto agli enormi problemi del territorio.
Tuttavia le opere di bonifica, specie dopo la legge del 1855, che istituiva un
un’amministrazione speciale al ministero dei lavori pubblici, furono condotte con concezioni
assai moderne; un intervento che prevedeva, oltre al prosciugamento dei terreni, la
costruzione di infrastrutture per consentire l’insediamento dei coloni, e che affrontava anche
il problema del consolidamento dei bacini e il rimboschimento di molte aree montane da cui
il disordine idrologico aveva origine.
Il tema delle opere pubbliche si collega ai sistemi tributari e agli obiettivi prioritari che gli
attribuivano i sovrani: il finanziamento della creazione e potenziamento delle infrastrutture e
la promozione dello sviluppo economico, oppure la conservazione degli equilibri sociali
esistenti per evitare malcontenti e rivendicazioni politiche che potevano minare la stabilità
dei regimi.
Durante la restaurazione in Italia, i ceti dominanti erano ancora le aristocrazie, a cui faceva
capo la maggior parte della proprietà terriera.. Da li venivano scelti i governanti, gli
amministratori e le principali gerarchie militari.
Qualcosa tuttavia era cambiato alla fine dell’ancien regime. Anzitutto era tramontato ogni
privilegio di sangue e di diritti di giurisdizione per le aristocrazie, tranne qualche temporanea
restaurazione, ad esempio nel regno di Sardegna di Vittorio Emanuele I, e della preminenza
dell’elite ecclesiastica nello stato della chiesa.
Inoltre, nei pubblici uffici erano richiesti funzionari di adeguata formazione con specifiche
conseguenze. Era quindi la nobiltà che stava cambiando, affiancando ai privilegi di nascita l’
acquisizione di competenze politiche e amministrative e assumendo una mentalità più
consona ai doveri della pubblica amministrazione come servizio per lo stato e non solo come
riconoscimento della loro condizione privilegiata.
Sul modello dell’amministrazione introdotta nel periodo napoleonico, si stava formando in
tutta la penisola un notabilato basato sulla competenza, a cui potevano accedere anche
uomini borghesi, che avevano investito nella formazione. Questo ceto medio impiegatizio,
costituisce la base della nascente opinione pubblica, sia moderati che progressisti.
L’ascesa della borghesia avrà poi opportunità crescenti nell’economia agraria e mercantile e
nell’industria, poichè i regimi che garantivano la proprietà privata diventano sempre più
liberali nella concessione e nella tutela della libera iniziativa imprenditoriale.
La tendenza della borghesia più elevata era quello di avvicinarsi all’aristocrazia e arrivare a
gestire il potere; in tal modo, l’acquisto di possedimenti fondiari divenne una pratica di
status per la borghesia più abbiente, dove molti per questo ambito ottennero anche un titolo
nobiliare.
La maggior parte della popolazione degli stati italiani faceva però parte dei ceti popolari,
accomunati da condizioni di povertà. I regimi alimentari erano carenti e comportavano una
diffusa malnutrizione e una maggiore predisposizione alle malattie.
Nelle campagne non si consumava quasi mai carne. L’alimentazione si basava sui cereali,
con la tendenza a riservare per il mercato i nutrienti più completi, e cibarsi prevalentemente
di cereali inferiori. Nell’italia settentrionale la diffusione del mais rappresentava un buon aiuto
per l’alimentazione contadina, per il suo apporto nutritivo.
Tuttavia, dove per l’estrema povertà la polenta di granoturco costituiva l’unico alimento,
soprattutto nel regno lombardo-veneto, si diffuse la pellagra, causata dalla mancanza di
vitamine B.
Se la pellagra era una malattia nuova, la malaria era endemica fin dall’antichità presso il Po,
nel sud e nelle isole, e diffusa un po’ in tutta la penisola, dove erano presenti acque
stagnanti dove si diffondeva la zanzara che la trasmetteva.
Ne erano colpiti soprattutto i contadini che vivevano negli stabilimenti rurali più poveri, o
senza vetri né protezioni alle finestre, i braccianti che dormivano all’aperto, o i lavoratori
delle risaie. Le specie di malaria presenti in Italia non erano mortali, ma debilitano i
lavoratori.
Le condizioni delle classi popolari nelle città erano ancora peggiori, tutte colpite dai pochi
scoli fognari e dalla poca disponibilità di acqua potabile, soprattutto nei quartieri più poveri.
L’estensione della cittadinanza, cioè la partecipazione alla vita dello stato che si forma nel
1861, non può mai dirsi conclusa, come l’altro tema connesso nella condivisione di
un’identità nazionale per gli abitanti della penisola.
La questione della lingua aveva interessato il mondo intellettuale italiano già dal primo 800 e
sarebbe continuata per tutto il secolo. Il fatto che una nazione non avesse una lingua
uniformemente diffusa non era un dato anomalo nella metà del secolo, e in certa misura
accadeva anche nel resto d’Europa. Il dato più rilevante era invece il diffuso analfabetismo,
paragonabile alle aree più arretrate d’Europa. Era un analfabetismo che interessava
soprattutto le donne.
Il quadro generale aveva queste caratteristiche per tutta la penisola, con però qualche
distinzione che si ripercuoteva a lungo termine sull’alfabetizzazione.
Nel regno delle due Sicilie, dopo pochi anni dalla restaurazione, ilgli alunni complessivi delle
scuole primarie si dimezzano, segno di decadimento che portò alla chiusura di gran parte
delle scuole rurali e allo smantellamento dell’istruzione primaria pubblica. Tuttavia questo
contrastava con la buona efficienza dell’istruzione privata, spesso gestita da professori molto
preparati.
Nello stato della chiesa non esisteva un’istruzione finanziata pubblicamente, e a questo
supplivano gli ordini religiosi maschili e femminili, anch’essi concentrati nelle città mentre le
campagne erano trascurate.
Nel regno di Sardegna, dal 1822, lo stato almeno formalmente promuoveva l’istruzione
popolare anche nelle periferie, comunque basata sul catechismo.
L’esperienza del regno lombardo-veneto era la più avanzata, che pure non escludeva la
collaborazione del clero, soprattutto con i provvedimenti che dal 1818 sancirono
l’obbligatorietà e la gradualità dell’istruzione fino a 12 anni. Le criticità di quel sistema
comunque erano analoghe al resto d’Italia: scarsità di aule e di maestri nelle campagne,
abbandono stagionale degli allievi che si dedicavano al lavoro nei campi, retribuzioni
modestissime per gli insegnanti-soprattutto se donne- che si ripercuoteva sulla loro
preparazione e sulla qualità dell’insegnamento.
La condizione della donna era di minorità giuridica. Negli stati italiani della restaurazione
l’inferiorità della donna era sancita sia nei rapporti patrimoniali tra coniugi, sia
nell’educazione dei figli, e sia nei diritti di successione.
Erano ristrette dentro la famiglia e sotto tutela. Le donne però non erano assenti né dalla
cultura né dalla politica, né dal mondo produttivo. La formazione e la partecipazione politica
si coltivava nei salotti presso una famiglia aristocratica.
Nelle rivoluzioni del 1848-49, la partecipazione femminile divenne più visibile e massiccia.
Migliaia di donne furono coinvolte, soprattutto nell’insurrezione di Palermo, e tra i
combattimenti a Milano nella difesa di Brescia nelle 10 giornate del 49, e nella repubblica
romana.
Nazione e Risorgimento
La storia del risorgimento non coincide con la storia degli stati italiani tra il congresso di
Vienna e la formazione del regno d’Italia sabaudo. Il termine risorgimento si diffuse solo
nella seconda metà dell’800, ma il suo tema era già diffuso nella prima metà del secolo, e
spronava ad una rinascita, dell’Italia.
A coltivare la diffusione di quest’idea politica era anche il mito dell’antichità della nazione
italiana, raccontata da scrittori e storici. Per questo si accosta, con una certa riluttanza, alla
nazione il termine nazionalismo.