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Nella storia dei regimi autoritari fra le due guerre mondiali, il fascismo italiano occupa

un posto di grande rilievo, se non altro per una questione di priorità cronologica. Nella
seconda metà degli anni ’20, quando in Germania il nazismo era ancora una forza
marginale, in Italia lo Stato fascista era una realtà già consolidata nelle sue strutture
giuridiche e nelle sue manifestazioni esteriori: le adunate di cittadini in uniforme, le
campagne propagandistiche orchestrate dall’autorità, l’amplificazione dell’immagine e
della parola del capo, oggetto di un vero e proprio culto. Caratteristica essenziale del
regime era la sovrapposizione di due strutture e di due gerarchie parallele: quella dello
Stato, che aveva conservato l’impalcatura del vecchio Stato monarchico, e quella del
partito con le sue numerose ramificazioni. Al di sopra di tutti si esercitava il potere
incontrastato di Mussolini, che riuniva in sé la qualifica di capo del governo e quella di
“duce” del fascismo.
Ma, contrariamente a quanto sarebbe accaduto nei regimi più tipicamente totalitari,
nel fascismo italiano l’apparato dello Stato ebbe fin dall’inizio, per esplicita scelta di
Mussolini, una netta preponderanza sulla macchina del partito. Per trasmettere la sua
volontà dal centro alla periferia, Mussolini si servì del tradizionale strumento dei prefetti
assai più che degli organi locali del Partito fascista. A controllare l’ordine pubblico e
reprimere il dissenso provvedeva la Polizia di Stato, mentre la Milizia era confinata a
una funzione decorativa e “ausiliaria”, imparagonabile al ruolo svolto, per esempio, dalle
SS nella Germania nazista.
Dalla fine degli anni ’20 l’iscrizione al partito cessò di essere il segno dell’appartenenza
a un’élite e divenne una pratica di massa, necessaria fra l’altro per ottenere un posto
nell’amministrazione statale.
Faceva capo al partito anche una serie di organismi collaterali, come l'Opera nazionale
dopolavoro e le numerose organizzazioni giovanili: i Fasci giovanili, per i giovani dai
diciotto ai ventun anni, i Gruppi universitari fascisti (Guf) e soprattutto l'Opera nazionale
Balilla (Onb). Quest’ultima, nata nel 1926, inquadrava tutti i ragazzi fra gli otto e i
diciotto anni, divisi, secondo l’età, in “figli della lupa”, “balilla” e “avanguardisti”, forniva
loro, oltre a un supplemento di educazione fisica e a qualche forma di istruzione
premilitare, anche un indottrinamento ideologico di base. Dall’Onb dipendevano anche
i corpi femminili: figlie della lupa, piccole italiane, giovani italiane. Nel complesso,
queste strutture svolsero una funzione importante nella fascistizzazione del paese:
attraverso queste e altre organizzazioni di massa, dai sindacati di regime alla Milizia, il
fascismo cercava di “occupare”, insieme con lo Stato, anche la società, riplasmandola
dalle fondamenta.
Nel suo tentativo di permeare di sé la società il fascismo incontrava però alcuni ostacoli:
il maggiore era rappresentato dalla Chiesa. In un paese in cui oltre il 99% della
popolazione si dichiarava di fede cattolica, in cui la pratica religiosa era ovunque
diffusa, in cui le parrocchie rappresentavano spesso l’unico centro di aggregazione
sociale e culturale, non era facile governare contro la Chiesa o senza trovare con essa
un qualche accordo. Consapevole di ciò, Mussolini cercò un’intesa col Vaticano,
approfittando della disponibilità manifestata dalle gerarchie ecclesiastiche nei
confronti del regime, per comporre definitivamente lo storico contrasto tra Stato e
Chiesa che aveva segnato l’intera vita del Regno d’Italia.
Le trattative, condotte in segreto, fra governo e Santa Sede si conclusero l’11 febbraio
1929 con la stipula dei patti che presero il nome dai palazzi del Laterano, cioè dal luogo
in cui Mussolini e il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Gasparri, si
incontrarono per la firma. I Patti lateranensi si articolavano in tre parti distinte: un
trattato internazionale, con cui la Santa Sede poneva ufficialmente fine alla “questione
romana” riconoscendo lo Stato italiano e la sua capitale e vedendosi riconosciuta la
sovranità sullo “Stato della Città del Vaticano”; una convenzione finanziaria, con cui lo
Stato si impegnava a corrispondere alla Santa Sede una forte somma, equivalente
all’importo delle annualità previste dalla “legge delle guarentigie” dopo la presa di
Roma; infine un concordato, che regolava i rapporti interni fra la Chiesa e il Regno
d’Italia, intaccando sensibilmente il carattere laico dello Stato. Il concordato stabiliva fra
l’altro che i sacerdoti fossero esonerati dal servizio militare, che i preti spretati fossero
esclusi dagli uffici pubblici, che il matrimonio religioso avesse effetti civili, che
l’insegnamento della dottrina cattolica fosse considerato “fondamento e coronamento”
dell’istruzione pubblica, che le organizzazioni dipendenti dall’Azione cattolica potessero
continuare a svolgere la propria attività, purché sotto il controllo delle gerarchie
ecclesiastiche e al di fuori di ogni partito politico.
Per il regime fascista i Patti lateranensi rappresentarono un notevole successo.
Presentandosi come l’artefice della “conciliazione”, Mussolini consolidò la sua area di
consenso e la estese anche a strati della popolazione rimasti fino ad allora ostili o
indifferenti. Le prime elezioni plebiscitarie e indette, non a caso, nel marzo 1929, a
poche settimane dalla firma dei Patti, registrarono un afflusso alle urne senza
precedenti (quasi il 90%) con un 98% di voti favorevoli. Un risultato da valutare con
cautela, ma comunque indicativo di un diffuso orientamento favorevole al regime.
Se il fascismo trasse dai Patti lateranensi immediati vantaggi politici, fu però il Vaticano
a cogliere i successi più significativi e duraturi. In cambio della rinuncia a qualcosa che
aveva irrevocabilmente perduto da quasi sessant’anni (il potere temporale), la Chiesa
acquistò una posizione di privilegio nei rapporti con lo Stato, anche in materie
importanti come la legislazione matrimoniale e l’istruzione. Non a caso, l’unico serio
contrasto emerso dopo il concordato fra il regime e la Santa Sede riguardò le
organizzazioni di Azione cattolica, che, nel 1931, furono oggetto di violenze
squadristiche per aver difeso la loro autonomia organizzativa nel settore giovanile. Il
contrasto fu presto superato: il Vaticano ribadì il carattere non politico di quelle
organizzazioni. E la Chiesa riuscì a mantenere intatta, seppur con un’operatività
limitata, la sua rete di associazioni e circoli, assicurandosi un margine di autonomia ed
entrando in oggettiva concorrenza col fascismo proprio nel settore delle organizzazioni
giovanili. Di questi spazi la Chiesa non si servì mai per fare opera di opposizione; li usò,
però, per educare ai suoi valori una parte non trascurabile della gioventù, per formare
una classe dirigente capace, all’occorrenza, di prendere il posto di quella fascista: cosa
che si sarebbe verificata nel secondo dopoguerra.
La Chiesa non costituì l’unico ostacolo per le aspirazioni totalitarie del fascismo. Un
altro limite insuperabile stava al vertice delle istituzioni statali ed era rappresentato
dalla monarchia. Per quanto fosse nei fatti regolarmente esautorato, fino ad apparire
come un ostaggio nelle mani di Mussolini, il re restava pur sempre la più alta autorità
dello Stato. A lui spettavano, secondo lo Statuto, il comando supremo delle forze
armate, la scelta dei senatori e il diritto di nomina e revoca del capo del governo. Si
trattava di poteri del tutto teorici, destinati a restare tali finché il regime fosse rimasto
forte e compatto attorno al suo capo. Ma, in caso di crisi o di spaccatura interna, le carte
migliori sarebbero fatalmente tornate in mano al re, punto di riferimento obbligato per
i militari e la borghesia conservatrice. Questa eventualità rappresenta per il fascismo un
motivo di sotterranea debolezza.
Se osserviamo l’Italia del ventennio fascista quale ci appare attraverso i materiali
prodotti durante il regime, vediamo emergere con evidenza l’immagine di un paese
largamente fascistizzato.
L’Italia continuò a svilupparsi secondo le linee di tendenza comuni a tutti i paesi
dell’Europa occidentale, benché con un ritmo più lento di quello tenuto nel ventennio
precedente. Nonostante segni di sviluppo, alla vigilia della seconda guerra mondiale
l’Italia era ancora un paese fortemente arretrato rispetto alle maggiori potenze
europee. Alla fine degli anni ’30, il reddito medio di un italiano era poco più della metà
di quello di un francese, un terzo di quello di un britannico. Malgrado spendesse più
della metà del suo reddito in consumi alimentari, l’italiano medio si nutriva
essenzialmente di farinacei, mangiava carne e beveva latte in quantità tre volte
inferiore a quella di un cittadino britannico o statunitense e considerava generi di lusso
il caffè, il tè e lo zucchero. Nel 1938 c’era in Italia un’automobile ogni 100 abitanti, un
telefono ogni 70 abitanti, un apparecchio radio ogni 40.
L’arretratezza economica e civile della società italiana fu per certi aspetti funzionale al
regime e all’ideologia fascista. Il fascismo, come il nazismo, predicò il “ritorno alla
campagna”, lanciando a più riprese la parola d’ordine della ruralizzazione, e tentò di
scoraggiare, senza peraltro riuscirvi, l’afflusso dei lavoratori verso i centri urbani. Il
regime inoltre, d’accordo in questo con la Chiesa, difese ed esaltò la funzione del
matrimonio e della famiglia, come garanzia di stabilità e come base per lo sviluppo
demografico. Ispirandosi alla dottrina che identificava la potenza con la forza del
numero, il fascismo cercò di incoraggiare con ogni mezzo l’incremento della
popolazione: furono aumentati gli assegni familiari dei lavoratori, vennero favorite le
assunzioni dei padri di famiglia, furono istituiti premi per le coppie più prolifiche, venne
addirittura imposta una tassa sui celibi. In coerenza con questa linea, il regime ostacolò
il lavoro delle donne e, più in generale, si oppose al processo di emancipazione
femminile. In realtà anche le donne ebbero, durante il fascismo, le loro strutture
organizzative, ma si trattava di organismi poco vitali, la cui funzione principale stava nel
ribadire la centralità delle virtù domestiche, l’immagine tradizionale della donna come
“angelo del focolare”.
Il fascismo, però, non era solo un regime conservatore e immobilista. Se da un lato
voleva mantenere in vita strutture sociali e tradizioni del passato, dall’altro era in
qualche modo proiettato verso il futuro, verso la creazione dell’“uomo nuovo”, verso un
sistema totalitario moderno, in cui l’intera popolazione fosse inquadrata nelle strutture
del regime e pronta a combattere per la grandezza nazionale. Per la realizzazione di
questa utopia il ritardo economico e culturale del paese rappresentava però un
ostacolo insormontabile. Non era facile far giungere il messaggio fascista nei piccoli
paesi dove non arrivavano le strade carrozzabili, non c’erano scuole e non si sapeva che
cosa fossero la radio e il cinema.
Ma era soprattutto la scarsezza delle risorse che impediva al regime di praticare una
politica economica e sociale capace di conquistare il consenso delle classi lavoratrici.
Nel 1927 venne varata con grande solennità la "Carta del lavoro”. Ma le generiche
enunciazioni della Carta non erano certo sufficienti a ripagare i lavoratori della
scomparsa dei sindacati liberi e dunque della perdita di qualsiasi autonomia
organizzativa e capacità contrattuale. I vantaggi offerti dall’organizzazione del
dopolavoro e i miglioramenti nel campo della previdenza sociale non bastarono a
compensare il calo dei salari reali.
Non a caso, i maggiori successi, in termini di partecipazione e di consenso, il regime li
ottenne presso la media e piccola borghesia. I ceti medi, infatti, non solo furono
complessivamente favoriti dalle scelte economiche del regime e si videro aprire nuovi
canali di ascesa sociale dalla moltiplicazione degli apparati burocratici, ma erano anche
i più sensibili ai valori esaltati dal fascismo, i più disposti a recepire i messaggi e a farne
proprie le parole d’ordine.
In sintesi, il fenomeno della fascistizzazione fu ampio, ma riguardò essenzialmente gli
strati intermedi della società, toccando solo parzialmente le classi popolari. Il regime
riuscì a cambiare, in maniera anche vistosa, i comportamenti pubblici e le forme di
partecipazione collettiva, ma non a trasformare nel profondo mentalità e strutture
sociali.
In coerenza con la sua aspirazione al controllo totale della società, il fascismo dedicò
un’attenzione particolare alla scuola, già profondamente ristrutturata nel 1923 con la
riforma Gentile che mirava ad accentuare la severità degli studi e sanciva il primato
delle discipline umanistiche, considerate il principale strumento di formazione della
classe dirigente. Una volta consolidato, il regime si preoccupò di fascistizzare
l’istruzione sia con una più stretta sorveglianza sugli insegnanti, sia attraverso il
controllo dei libri scolastici e l’imposizione, dal 1930, di testi unici per le elementari.
Rispetto alla scuola elementare e media, l’università godette di una maggiore
autonomia. Ma non la usò per contestare le scelte culturali del fascismo. Quando, nel
1931, fu imposto a tutti i docenti il giuramento di fedeltà al regime, su 1200 professori
titolari solo una dozzina, per lo più anziani e prossimi alla pensione, rifiutarono di
giurare e persero così le cattedre. Vi furono insegnanti non fascisti, o notoriamente
antifascisti, che si piegarono all’imposizione solo per poter continuare la loro attività.
Ma, nella maggior parte dei casi, il giuramento non suscitò particolari problemi di
coscienza.
In generale, gli ambienti dell’alta cultura si allinearono su una posizione di sostanziale
adesione al regime. Alcuni fra i nomi più illustri della cultura italiana fecero esplicita
professione di fede fascista. Molti accettarono di inserirsi nelle istituzioni culturali
pubbliche, godendo delle gratificazioni materiali e dei riconoscimenti di cui il fascismo
fu prodigo nei loro confronti.
Ancor più diretto e capillare fu il controllo esercitato dal regime sull’informazione e sui
mezzi di comunicazione di massa. Tutto il settore della stampa politica fu sottoposto a
un controllo sempre più stretto e soffocante da parte del potere centrale, che non si
limitava alla semplice censura, ma interveniva con precise direttive sul merito degli
articoli. Affidata istituzionalmente a un apposito ufficio la sorveglianza sulla stampa era
in realtà esercitata personalmente da Mussolini: il quale, non dimentico del suo passato
di giornalista, dedicava alla lettura dei quotidiani una parte notevole del suo tempo.
Al controllo sulla carta stampata il regime univa quello sulle trasmissioni radiofoniche,
affidate, dal 1927, a un ente di Stato denominato Eiar (progenitore dell’attuale Rai).
Come mezzo d’ascolto privato, la radio ebbe però una diffusione abbastanza lenta, in
confronto a quella dei paesi più sviluppati. Solo dopo il 1935 si affermò come essenziale
canale di propaganda, grazie anche alla decisione del governo di installare apparecchi
nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle sedi delle organizzazioni di partito. E solo negli
ultimi anni ’30 entrò stabilmente nelle case della classe media, influenzando non poco i
gusti e le abitudini.
Come la radio, anche il cinema fu oggetto privilegiato delle attenzioni del regime e ne
ricevette generose sovvenzioni, che avevano lo scopo di favorire la produzione
nazionale e di limitare la massiccia penetrazione dei film statunitensi. Sulla normale
produzione cinematografica il regime esercitò però un controllo abbastanza elastico,
volto più a bandire dalle pellicole qualsiasi argomento politicamente e socialmente
scabroso che non a introdurvi temi di esplicita propaganda. Per questo bastavano i
cinegiornali d’attualità, prodotti da un apposito ente statale, l'Istituto Luce, e proiettati
obbligatoriamente nelle sale cinematografiche. I cinegiornali furono uno dei più
importanti strumenti di propaganda di massa di cui disponesse il fascismo: sia perché
raggiungevano un pubblico valutabile in parecchi milioni di persone, sia perché
fornivano immagini capaci di attirare l’attenzione popolare e scelte accuratamente per
meglio illustrare i trionfi del fascismo e del suo capo.
Fin dai suoi esordi, il fascismo italiano ebbe l’ambizione di presentarsi come portatore
di nuove soluzioni nel campo dell’economia. La formula fatta propria ufficialmente dal
regime fu quella del corporativismo: un’idea che affondava le sue radici addirittura nel
Medioevo, nell’esperienza delle corporazioni di arti e mestieri, e aveva già ispirato
nell’800 il pensiero sociale cattolico. In sostanza il corporativismo avrebbe dovuto
significare gestione diretta dell’economia da parte delle categorie produttive,
organizzate appunto in “corporazioni” distinte per settori di attività e comprendenti sia
gli imprenditori sia i lavoratori dipendenti. Le istituzioni corporative avrebbero dovuto
incarnare una “terza via” tra capitalismo e socialismo e contemporaneamente risolvere
il problema della rappresentanza politica secondo criteri diversi da quelli
“individualistici” della democrazia.
In realtà un vero sistema corporativo non vide mai la luce. Per molti anni le corporazioni
restarono un puro progetto. Quando infine vennero istituite, nel 1934, tutto si risolse
nella creazione di una nuova burocrazia sovrapposta a quelle già esistenti e priva di
qualsiasi rappresentatività in quanto designata dall’alto. Il fascismo riuscì ugualmente a
realizzare interventi importanti nell’economia, ma non inventò un nuovo sistema. E
non mantenne nemmeno, nel corso del ventennio, una linea di politica economica
coerente.
Nei suoi primi anni di governo il fascismo aveva adottato una linea liberista, di forte
incoraggiamento all’iniziativa privata. Questa politica però aveva provocato, oltre a un
consistente incremento produttivo, un riaccendersi dell’inflazione, un crescente deficit
negli scambi con l’estero e un deterioramento del valore della lira. Nell'estate del 1925 si
ebbe una brusca svolta e venne inaugurato un nuovo corso fondato sul protezionismo,
sulla deflazione, sulla stabilizzazione monetaria e su un più accentuato intervento
statale nell’economia.
Prima importante misura fu l’aumento del dazio sui cereali: una misura che si inseriva
in una tendenza di lungo periodo volta a favorire la produzione cerealicola nazionale,
ma che questa volta fu accompagnata da una rumorosa campagna propagandistica
detta “battaglia del grano”. L’obiettivo era il raggiungimento dell’autosufficienza nella
produzione dei cereali, da conseguire sia attraverso l’aumento della superficie coltivata
a frumento, sia mediante l’impiego di tecniche più avanzate: il che avrebbe favorito
anche le industrie produttrici di concimi e macchine agricole. Lo scopo fu in buona
parte raggiunto: alla fine degli anni ’30 la produzione di grano era aumentata del 50%.
Ma il prezzo fu il sacrificio di altri settori, come l’allevamento, e delle colture rivolte
all’esportazione.
La seconda “battaglia” fu quella per la rivalutazione della lira. Nell’agosto 1926 il duce
annunciò di voler riportare il cambio internazionale della moneta ai livelli precedenti il
conflitto mondiale, e fissò l’obiettivo di “quota novanta”, ossia 90 lire per una sterlina.
Alla base di questa scelta c’era soprattutto il desiderio di dare al mondo un’immagine
di stabilità monetaria oltre che politica, rassicurando i risparmiatori. Anche questo
obiettivo fu raggiunto, grazie a una forte restrizione del credito e con l’aiuto di un
cospicuo prestito concesso da grandi banche statunitensi. I prezzi diminuirono e la lira
recuperò il potere d’acquisto perduto. Ma a goderne non furono i lavoratori, che si
videro tagliare i salari in misura più che proporzionale. Molte piccole e medie aziende
agricole entrarono in crisi perché strozzate dal calo dei prezzi dei loro prodotti e dalla
restrizione del credito. Nel settore industriale, furono colpite soprattutto le imprese che
lavoravano per l’esportazione, danneggiate dalla rivalutazione della moneta; al
contrario, quelle che operavano sul mercato interno poterono giovarsi della
contrazione del costo del lavoro e di un forte aumento delle commesse pubbliche.
Tutto questo avvantaggiò le grandi industrie e favorì i processi di concentrazione
aziendale.
L’economia italiana non si era ancora ripresa dalla cura deflazionistica, quando
cominciarono a farsi sentire le conseguenze della crisi mondiale: conseguenze meno
drammatiche che in altri paesi europei, anche perché la politica economica adottata
dopo il 1925 aveva in qualche modo anticipato gli effetti negativi della crisi. Ma la
recessione si fece ugualmente sentire: il commercio con l’estero si ridusse
drasticamente, l’agricoltura subì un nuovo colpo a causa del calo delle esportazioni e
dell’ulteriore tracollo dei prezzi; le imprese industriali accusarono gravi difficoltà e la
disoccupazione aumentò bruscamente.
La risposta del regime si attuò su due direttrici principali: lo sviluppo dei lavori pubblici
come strumento per rilanciare la produzione e l’intervento diretto dello Stato a
sostegno dei settori in crisi.
La politica dei lavori pubblici ebbe il suo maggiore sviluppo nella prima metà degli anni
’30. Furono realizzate nuove strade e costruiti nuovi edifici pubblici dove il regime poté
appagare il suo gusto per il monumentale. Fu varato il “risanamento” del centro storico
della capitale, che provocò la distruzione di interi antichi quartieri. E fu avviato un
ambizioso programma di bonifica integrale che avrebbe dovuto portare al recupero e
alla valorizzazione delle terre incolte. Il progetto, ostacolato sia dalle difficoltà della
finanza pubblica sia dalle resistenze dei grandi proprietari, fu attuato solo parzialmente.
Fu però portata a termine, nel giro di soli tre anni, la bonifica dell’Agro Pontino, un
vasto territorio paludoso e malarico a sud della capitale. Nel complesso furono
recuperati alle colture circa 60 mila ettari. Furono creati 3 mila nuovi poderi dove
vennero trasferiti contadini provenienti dalle zone più depresse del Centro-Nord,
furono costruiti villaggi rurali e vere e proprie “città nuove” come Sabaudia e Littoria:
per il regime, un indubbio successo propagandistico.
Fu comunque nel settore dell’industria e del credito che l’intervento dello Stato
assunse le forme più incisive. In difficoltà erano soprattutto le grandi banche che erano
state create alla fine dell’800 allo scopo di sostenere gli investimenti nell’industria e
che, nel dopoguerra, avevano assunto il controllo di importanti gruppi industriali,
soprattutto nel settore siderurgico. Per evitare che la crisi di questi gruppi trascinasse
con sé quella delle banche, il governo intervenne creando nel 1931 un nuovo istituto di
credito, l’Istituto mobiliare italiano (Imi), col compito di sostituire le banche in difficoltà
nel sostegno alle industrie in crisi, e dando vita nel 1933 all’Istituto per la ricostruzione
industriale (Iri). Valendosi di fondi forniti in gran parte dallo Stato, l’Iri rilevò le
partecipazioni industriali delle banche, assumendo così il controllo di alcune fra le
maggiori imprese italiane, fra cui l’Ansaldo, l’Ilva e la Terni.
Nei progetti originari, il compito dell’Istituto avrebbe dovuto essere transitorio,
limitandosi al risanamento delle imprese in crisi in vista di una loro riprivatizzazione.
Accadde invece che la vendita ai privati risultò impraticabile e l’Iri diventò, nel 1937, un
ente permanente. In questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare una quota
dell’apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro paese, diventò
cioè Stato imprenditore oltre che Stato banchiere, senza con ciò minacciare
l’autonomia delle grandi imprese. Al contrario, i maggiori gruppi privati furono aiutati a
rafforzarsi e a ingrandirsi e accolsero con favore l’intervento statale, che accollava alla
collettività i costi della crisi industriale e bancaria.
Queste scelte non si tradussero comunque in una fascistizzazione dell’economia: per
gli interventi più importanti Mussolini non si servì di personale proveniente dal partito o
dalla nascente burocrazia “corporativa”, ma si affidò piuttosto a tecnici. Nei nuovi enti
che furono detti “parastatali” e nella stessa Banca d’Italia si formò così una “burocrazia
parallela” destinata a svolgere un ruolo di primo piano nell’Italia postfascista.
Intorno alla metà degli anni ’30 l’Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi, sia pure
a prezzo di sacrifici non lievi. A questo punto, però, mancarono al regime la capacità e
la volontà di profittare della ripresa per mettere in moto un processo di sviluppo che si
riflettesse sulle condizioni di vita della popolazione. Al contrario, il regime si lanciò in
una politica di dispendiose imprese militari. Alla fine del 1935, traendo spunto dalle
sanzioni economiche imposte all’Italia per l’aggressione all’Etiopia, Mussolini decise di
insistere con la politica “autarchica” già inaugurata con la “battaglia del grano” e
consistente nella ricerca di una sempre maggiore autosufficienza economica,
soprattutto nel campo dei prodotti e delle materie prime utili in caso di guerra. In
pratica l’autarchia si tradusse in una ulteriore stretta protezionistica, in un più intenso
sfruttamento del sottosuolo e in un incoraggiamento alla ricerca applicata, soprattutto
nel campo delle fibre artificiali e dei combustibili sintetici. L’autosufficienza rimase un
traguardo irraggiungibile e la produzione industriale crebbe piuttosto lentamente. Le
spese militari sottrassero risorse ai consumi e agli investimenti produttivi accentuando
l’isolamento economico del paese, senza nemmeno ottenere quegli effetti positivi che
il riarmo produsse sulla ben più forte struttura industriale della Germania nazista.
Cominciava per l’Italia una lunga stagione di economia di guerra destinata a
prolungarsi senza interruzioni fino al secondo conflitto mondiale.

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