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CAP.

10 TRA RESTAURAZIONE E QUESTIONE NAZIONALE: I MOTI DEGLI ANNI


VENTI E TRENTA
LA RESTAURAZIONE
Il congresso di Vienna: la ridefinizione del profilo geopolitico europeo
Tra il 1° novembre e giugno 1815, dopo la sconfitta francese prima a Waterloo e dopo a Lipsia, le quattro
principali potenze che avevano battuto Napoleone (Inghilterra, Austria, Prussia, Russia), presiedettero il
Congresso di Vienna, a cui parteciparono quasi tutti gli stati europei, compresa la Francia.
Nel Congresso fu riplasmato il profilo geopolitico dell’Europa secondo il principio di legittimità, secondo il
quale sui dovevano tornare al potere i sovrani che detenevano legittimamente il potere prima
dell’usurpazione napoleonica.
Non fu preso in considerazione invece il principio di nazionalità, ossia l’aspirazione delle diverse popolazioni a
formare Stati nazionali unitari e indipendenti.
L’obiettivo era da un lato quello di riportare la Francia ai confini del 1792, dall’altro quello di costruire il
principio di equilibrio internazionale, ovvero un sistema in grado di assicurare una pace durevole.
Ciò che si desiderava era una suddivisione dell’Europa in aree controllate dalle potenze vincitrici in modo da
rendere più potenti le regioni che circondavano la Francia. Quest’ultima continuava ad essere occupata dagli
eserciti che l’avevano sconfitta, ma si riteneva importante non umiliarla per evitare delle nuove rivolte.
Il piano rappresenta un compromesso tra una restaurazione pura (il ritorno delle monarchia precedente alla
rivoluzione) e gli effetti dell’espansione napoleonica. Per questo motivo ad esempio si evitò la
frammentazione territoriale dell’Antico regime.
Questo risultò evidente in due regioni:
- Nell’area germanica = al posto di 360 staterelli del Sacro romano impero ne rimasero soltanto 39, di
cui la Prussia era il più importante. Questi si riunirono nella Confederazione germanica
- Nell’area italiana = le antiche repubbliche aristocratiche di Genova e Venezia non vennero ricostituite a
vantaggio rispettivamente del Regno di Sardegna e dell’Impero asburgico
- Regno dei Paesi Bassi = derivò dall’accorpamento dei Paesi Bassi austriaci e dell’Olanda

La difesa del nuovo ordine costituito


L’Europa “restaurata” dal Congresso di Vienna era assolutista e dispotica. Il governo si basava inoltre sul
rilancio dell’alleanza tra monarchia e Chiesa. Questa era caratteristica dell’Antico regima, e venne riproposta
da Russia, Austria e Prussia nel 1815 con la Santa Alleanza.
Venne firmato anche un patto militare, la Quadruplice Alleanza, al quale aderì anche la Gran Bretagna.
Venne proposto anche il principio della legittimità dell’intervento militare in qualsiasi altro paese al cui interno
venissero realizzate riforme illegali, ma la Gran Bretagna decise di non sottoscriverlo.
Nel 1818 la Francia borbonica venne accolta nell’alleanza

La compresenza di sistemi politici diversi


All’Europa gerarchica e reazionaria (conservatori rivoluzionari) che si richiamava all’assolutismo e aveva come
simbolo il ministro degli esteri austriaco von Metternich, se ne affiancava un’altra composta da paesi più
liberali.
All’interno di questi paesi liberali ristretti stati della popolazione esercitavano il diritto elettorale, le libertà
individuali erano tutelate e venivano applicati almeno parzialmente i principi di base del liberalismo, come la
libertà di stampa, di pensiero e di associazione. Era il caso soprattutto della Gran Bretagna dove vigeva un
sistema parlamentare costituzionale già dalla fine del 600
Anche in Francia, Svezia, Paesi Bassi e alcuni Stati tedeschi c’era maggiore libertà. In questi regni infatti i
sovrani avevano deciso di concedere una Carta costituzionale. Tale costituzioni erano dette legittimiste
perché derivavano da una limitazione del potere assoluto decisa volontariamente dai sovrani, senza
rivoluzioni popolari. Il prototipo per eccellenza era rappresentato dalla Carta emanata nel 1814
da Luigi XVIII di Borbone alla sua ascesa dopo la prima caduta di Napoleone.
Tuttavia essendo costituzioni legittimiste o ottriate cioè concesse dall’alto, contenevano anche norme che
consentivano al sovrano di intervenire in modo autoritario sull’attività del Parlamento

Un variegato fronte di opposizione contro il dispotismo


Contro il dispotismo si accese una battaglia che si espresse in vari modi:
- Nei paesi privi di costituzione, i cittadini tentarono di ottenere ex novo una Costituzione oppure di
attenuare i tratti autoritari delle Costituzioni legittimiste
- Dove esisteva già un sistema liberale si cercò di estendere a strati sociali più ampi i diritti politici
accordati dalla costituzione solo a un élite ristretta. In questo caso la lotta per l’affermazione piena del
liberalismo corrispondeva a una lotta per la democrazia, un sistema politico in cui il voto non fosse più
legato alla ricchezza posseduta

La questione nazionale
Le potenze del Congresso di Vienna non avevano tenuto conto del sentimento nazionale che si era sviluppato
in seguito alla Rivoluzione francese e alla dominazione napoleonica. Esso diventò uno degli elementi in grado
di mettere a rischio il nuovo ordine imposto dalla Restaurazione.
Il sentimento nazionale contribuì ad alimentare la questione nazionale, uno dei temi chiave della storia
politica del XIX secolo.
Nel corso dell’Ottocento, l’idea di “nazione” si caricò di uno spessore emotivo e divenne un progetto politico.
Un’intera generazione di giovani mise a repentaglio la propria vita per realizzare un sogno come una sorta di
missione religiosa: contribuire alla nascita di uno Stato nazionale indipendente.
Tutto ciò accade prima nell’America centrale e meridionale e poi in Europa. Questo perché all’inizio del’800 si
sgretolarono i domini coloniali spagnoli e portoghesi e cominciarono a formarsi le nuove nazioni.
Poco dopo in Europa successe la stessa cosa in Europa.

IL SOGNO DELLA NAZIONE: LA LOTTA PER L’INDIPENDENZA IN AMERICA


L’America “spagnolo” all’inizio dell’Ottocento
Fu l’America centro-meridionale il primo centro operativo della questione nazionale grazie alla liberazione dal
colonialismo. Il modello per tutti i movimenti di emancipazione erano ovviamente gli Stati Uniti, che già alla
fine del 700 avevano guadagnato l’indipendenza.
Tra il 1810 e il 1825 i domini degli imperi coloniali spagnolo e portoghese fecero altrettanto tutta via a
differenza degli Stati Uniti, si divisero in una molteplicità di Stati.
All’inizio dell’Ottocento i possedimenti spagnoli in America risultavano divisi in quattro grandi vicereami
strettamente dipendenti dal governo di Madrid. I funzionari dei vicereami erano anch’essi spagnoli, mentre i
sudditi nati nelle colonie risultavano esclusi dai vertici dei governi anche se controllavano le amministrazioni
locali.
La popolazione era costituita da: indios, meticci (uno spagnolo e uno indio), neri e creoli (bianchi nati lì)
I creoli, pur non essendo il ceto più popoloso, aveva una posizione superiore rispetto agli altri, esercitando
uno sfruttamento della popolazione india e nera.
1811-1815 i primi tentativi indipendentisti
A partire dal 1808, quando Napoleone sottomise la Spagna e cacciò i Borboni, il mondo coloniale cominciò a
rimanere isolato dalla madrepatria. Il vecchio sovrano era stato deposto e quello nuovo, fratello di Napoleone,
era impegnato a reprimere il dissenso della penisola iberica.
Nel vuoto di potere, i consigli comunali gestiti dai creoli presero l’iniziativa e governarono autonomamente.
Guidate da condottieri come Simon Bolivar in Venezuela, le élite creole perseguivano due obiettivi:
- Emanciparsi dal controllo e dalla pressione fiscale imposti da Madrid ispirandosi agli Stati Uniti
Solo una minima parte dei tributi versati andava effettivamente nelle casse dei vicereami
- I creoli aspiravano a conquistare la libertà per esercitare uno sfruttamento maggiore degli altri strati
della popolazione

La nascita di nuove repubbliche indipendenti


Entro il 1825 gran parte dell’America del Sud risultava ormai liberata dal dominio spagnolo, tuttavia non sorse
uno Stato unitario latino-americano, ma molte nazioni costituite in forma repubblicana: Bolivia, Colombia,
Cile, Perù, Argentina, Paraguay.
Nel frattempo anche il Brasile si era reso autonomo dal Portogallo
Anche l’America centrale racchiusa nel vicereame della Nuova Spagna si rese indipendente. Le prime rivolte
furono quelle dei meticci e degli indios, ma i creoli si unirono agli spagnoli per reprimerli

Alle origini delle lotte per l’indipendenza


A spingere i creoli non c’erano motivi linguistici, culturali o religiosi, a differenza da tutti i movimenti
nazionalisti europei.
A svolgere un ruolo importante nella maturazione delle popolazioni creole fu la crescita delle pretese di
controllo di Madrid e Lisbona, separate da un oceano.
Ad alimentare il nazionalismo oltre all’esempio nord-americano fu anche l’influenza della cultura liberale e
costituzionale europea che si era diffusa in America Latina. Inoltre a sostenere economicamente la lotta per
l’indipendenza furono l’Inghilterra e gli Stati Uniti, i quali avevano interesse a diminuire l’influenza spagnola e
portoghese in America.

L’influenza degli Stati Uniti e dell’Inghilterra


Bolivar e i rivoluzionari avevano per un momento considerato il progetto di una nazione unitaria creola, ma
era stato accantonato perché difficile da realizzare per le caratteristiche del territorio e per la diversità di
interessi.
A tale progetto si opponevano l’Inghilterra e gli Stati Uniti, che avevano interesse ad aumentare la propria
influenza su quegli immensi territori che ora erano divisi in fragili Stati indipendenti.
Si tratta di un principio teorizzato dal presidente James Monroe, che verrà applicato nella conquista di vasti
territori appartenenti al Messico.

La dottrina Monroe
La dottrina Monroe fu formulata dal presidente James Monroe come monito agli Stati europei, invitandoli a
non interferire nelle questioni americane.
L’America non è determinata a intervenire nelle questioni europee e chiede all’Europa un atteggiamento
analogo. Il presidente richiama la Guerra di indipendenza americana da cui è nata la sicurezza di cui oggi
godono gli americani, un bene irrinunciabile da difendere.
Gli Stati Uniti hanno riconosciuto l’indipendenza delle ex colonie, quindi qualsiasi tentativo europeo di
riconquistarle sarà visto come un attacco ostile verso tutto il continente americano.
Dai governi liberali alle dittature
Gran parte delle nuove nazioni ebbero una forma repubblicana e inizialmente istituzioni liberali-censitarie.
Nell’arco di qualche anno quasi tutte le nazioni, pur mantenendo la forma repubblicana, rinunciarono alle
istituzioni liberali e nacquero delle dittature militari, con eccezione del Cile e del Brasile.
Le nazioni latino-americane nacquero sotto il segno dell’esclusivismo, rappresentarono solo una porzione
ristretta della società: quella dei creoli.

I MOTI LIBERALI DEGLI ANNI 20 e 30 IN EUROPA


La Costituzione: un’aspirazione diffusa
Negli stessi anni, in diverse parti d’Europa si verificano sollevazioni che misero in discussione l’ordine istituito
dal Congresso di Vienna. Tra gli anni 20 e 30 cominciò a diffondersi il sentimento nazionale che portò alla
costituzione di nuovi Stati indipendenti.
A differenza di quello centro e sud-americano, il nazionalismo europeo si basò su tra elementi
- Lingua
- Tradizione culturale
- Religione
Non sempre questi fattori furono presenti simultaneamente, tuttavia almeno uno di essi giocò un ruolo
decisivo.
In Spagna una rivolta portò all’emanazione di una Costituzione nel 1820, ispirata a quella emanata durante la
lotta antinapoleonica: era una costituzione democratica
Poco più tardi anche il re di Portogallo concesse una Costituzione
Lo stesso di verificò in Russia, dove alla morte dello zar Alessandro I, si sviluppò un moto “decabrista” di
giovani liberali che chiedevano l’introduzione della costituzione spagnola, represso dallo zar Nicola I
Anche in Italia si verificarono delle sollevazioni liberali nel Regno delle Due Sicilie, in Lombardia e in Piemonte,
ma vennero represse.
L’unico paese in cui la rivolta ebbe successo fu la Grecia

L’indipendenza della Grecia


Con una lotta iniziata nel 1821 e promossa dalla società segreta Eteria, una parte della popolazione di lingua
greca e di religione cristiano-ortodossa riuscì a sottrarsi al potere degli ottomani.
Nel 1829 con il trattato di Adrianopoli, l’Impero ottomano riconobbe l’indipendenza della Grecia; tre anni più
tardi di greci diedero vita a un regno affidando la corona a un principe tedesco, Ottone I.
Una delle ragioni del successo fu l’interesse delle potenze del Congresso di Vienna alla disgregazione
dell’Impero ottomano.
La tradizione millenaria classica della civiltà greca contribuì a sviluppare il sentimento nazionale e la differenza
culturale tra i greci (europei e cristiani) e i turchi ottomani di fede musulmana fu un altro motivo che portò la
Grecia alla lotta per l’indipendenza.

La rivoluzione del 1830 a Parigi


Negli anni 30 la lotta contro il dispotismo si riaccese.
La rivoluzione partì da Parigi con una nuova cacciata dei Borbone, che durante il regno di Carlo X avevano
rafforzato la linea autoritaria e conservatrice.
Carlo X facendo leva sulla maggioranza reazionaria del Parlamento aveva imposto una politica di parziale
restaurazione dell’Antico regime, minacciando le libertà costituzionali.
Successivamente le elezioni registrarono la vittoria di un fronte liberale-moderato ostile alla linea di Carlo X.
Egli emanò allora quattro ordinanze che sancivano
- Restrizione del diritto di voto
- Soppressione delle libertà di stampa
- Scioglimento del Parlamento
- Convocazione di nuove elezioni
Davanti a questo attacco, la cittadinanza di Parigi a luglio rispose con l’insurrezione e vinse.

La monarchia di Luglio e la Costituzione “figlia del selciato”


La rivoluzione del 1830 culminò nella monarchia di luglio e nell’emanazione di una nuova Costituzione, non
più legittimista, ma imposta dalla popolazione al nuovo monarca Luigi Filippo d’Orléans, una costituzione
definita “figlia del selciato”, cioè le pietre scagliate dai manifestanti.
Grazie a questa costituzione la monarchia francese si trasformò da puramente costituzionale a pienamente
parlamentare. I ministri dovevano rispondere del proprio operato al Parlamento e non al re.
Venne inoltre allargato il corpo elettorale, che rimase però comunque appena l’1% della popolazione.
La monarchia di luglio promosse gli interessi dell’alta borghesia, causando un diffuso malcontento tra la
vecchia aristocrazia e tra i gruppi democratici e repubblicani protagonisti dell’insurrezione.

I MOTI CARBONARI IN ITALIA


Dopo il 1815 in Italia si erano reinsediate le monarchie regnanti prima dell’età napoleonica.
L’Austria controllava direttamente il Lombardo-Veneto, ma vigliava sull’intera penisola per garantire il rispetto
dell’ordine della Restaurazione. Perciò in Italia il liberalismo e il nazionalismo furono strettamente intrecciati.
Nel 1820-1821 scoppiarono moti costituzionali animati dalla società segreta della Carboneria. Il primo si
verificò a Napoli a opera di un gruppo di militari, ma il re delle Due Sicilie, Ferdinando I chiese e ottenne
l’intervento repressivo dell’Austria.
I carbonari chiedevano fondamentalmente una liberalizzazione politica nei vari Stati, senza immaginare
un’istituzione diversa dalla monarchia
Al Nord una cospirazione costituzionale mirava a liberare il Lombardo-Veneto con l’intervento dei Savoia.
L’insurrezione scoppiò in Piemonte nel marzo 1821, insorsero i Ducati di Modena e Parma e poi le Legazioni
pontificie, ma anche in questo caso i moti furono repressi dall’Austria

NAZIONALISMO E ROMANTICISMO
L’idea di nazione tra Rivoluzione francese e dominazione napoleonica
Nell’Europa occidentale, la moderna idea di nazione aveva radici nell’età napoleonica, ma attingeva a due
sorgenti di ispirazione differenti
- La Francia rivoluzionaria, dove “nazione” significava “comunità libera e sovrana di cittadini dotati di
eguali diritti”
- Nel momenti in cui gli eserciti napoleonici invasero l’Europa, il nazionalismo si caricò dei motivi di
liberazione dall’occupazione straniera e della valorizzazione delle tradizioni locali
La Francia era una nazione già prima del 1789, un territorio in cui i sudditi facevano uso della stessa lingua e
venivano governati da uno stesso sovrano. Con la Rivoluzione il concetto di nazione assunse un altro
significato: dalla nazione dinastica si era passati a quella popolare basata sulla collettività e l’uguaglianza

Le due anime del nazionalismo ottocentesco


L’idea di una nazione dal basso, come luogo di libertà, derivava dalla Francia rivoluzionaria e venne fatta
propria dal nazionalismo di ispirazione democratica della prima metà dell’Ottocento.
Tra i principali punti di riferimento ci fu Giuseppe Mazzini.
La lotta per la nazione significò allo stesso tempo battaglia per l’indipendenza dallo straniero e fondazione di
una comunità di cittadini liberi e uguali.
In Germania il sentimento nazionale si nutrì prevalentemente di una forte ostilità alle idee francesi e aveva
preso corpo in seguito all’occupazione napoleonica, nel momento in cui i vari Stati dell’area germanica,
sconfitti, avevano dovuto adeguarsi alle nuove leggi. Da allora una parte dei tedeschi aveva cominciato a
sognare una nazione unitaria capaci di contrapporsi alla Francia, ma basata sulla conservazione delle tradizioni

Il nazionalismo: perché nell’Ottocento?


Perché il sentimento nazionale si diffuse nell’Ottocento e non prima?
Perché la dipendenza da un sovrano straniero o l’appartenenza a un impero multietnico iniziarono allora ad
essere avvertiti come opprimenti e intollerabili e non prima?
Come in America anche in Europa i legami tra il centro e le periferia si erano fatti più stretti: i controlli erano
diventati più rigidi, le tasse più pesanti.
Spesso ciascuna delle unità territoriali presenti nei grandi imperi era tanto grande da corrispondere a una
nazione intera, cioè a un’intera comunità di lingue e tradizioni. Fu così che quei grandi imperi entrarono in
crisi nel momento in cui cercarono di limitare le autonomie di quei territori
Gran parte dei movimenti nazionalisti si sviluppò negli spazi multinazionali. Accadde prima in America dove le
popolazioni parlavano la stessa lingua di chi li dominava, si ripeté più tardi in Europa, dove la lingua gei greci
era diversa da quella dei governanti turchi, così come per valeva per l’impero austriaco e russo
Talvolta si aggiunse anche il fattore religioso:
- I greci erano ortodossi e i turchi musulmani
- I polacchi erano cattolici e i russi ortodossi
- Gli irlandesi erano cattolici e parlavano gaelico, gli inglesi erano anglicani
- I belgi erano cattolici, in parte di lingua francese, gli olandesi di lingua fiamminga e protestanti
L’importanza della lingua e della religione come fattori di identità e differenziazione fu decisiva

Sentimento nazionale e modernizzazione


Il sentimento nazionale non crebbe ovunque con la stessa intensità, per esempio gli imperi austro ungarico,
russo e ottomano non si frammentarono fino al tardo Ottocento o 900
Questo perché il nazionalismo prese piede soprattutto presso popoli che vantavano un’importante tradizione
letteraria scritta ed erano già urbanizzati.
L’Est e il Sud-Est europeo erano essenzialmente agricoli e non si diffuse il nazionalismo, il quale fu un
fenomeno essenzialmente urbano.
Coinvolse come protagonisti principalmente intellettuali o persone scolarizzate come studenti o appartenenti
a classi elevate

Il Romanticismo e le sue ricadute politiche


La diffusione del sentimento di nazionalità fu accompagnato da quello del Romanticismo, una corrente
culturale che tendeva a contrapporsi al cosmopolitismo del 700, rivalutando l’importanza delle tradizioni
proprie di ciascun popolo.
Il Romanticismo andava alla ricerca di quelle tradizioni nel Medioevo, un’epoca di oppressione da cui
emanciparsi.
L’orientamento verso il passato e la ricerca di tradizioni autoctone consentì ai popoli di rivendicare il diritto a
costituirsi in comunità nazionali indipendenti.
Tuttavia gli stessi fattori ebbero come conseguenza il rifiuto delle innovazioni illuministe. La riscoperta del
Medioevo per esempio causò il rifiuto della democrazia e del laicismo con il culto del sistema politico
gerarchico e autoritario con un forte stampo religioso

(SOCIETA SEGRETE)
CAP 11. LA “PRIMAVERA DEI POPOLI”: IL QUARANTOTTO EUROPEO
Le rivolte costituzionali della “primavera dei popoli”
Nei primi mesi del 1848 l’Europa fu investita da quella che gli storici chiamano “primavera dei popoli”: le
popolazioni (a Parigi, Vienna, Berlino, Venezia, Milano, Praga, Budapest) si ribellarono ai governanti chiedendo
la Costituzione e la trasformazione da sudditi in cittadini.
Il processo rivoluzionario ebbe una spinta decisiva dalla Francia, guidata da repubblicani e socialisti, i parigini
abbatterono la monarchia e proclamarono la Seconda repubblica. Già in aprile prevalsero le forze moderate,
che ritirarono le norme sociali più avanzate: l’insurrezione operaia scoppiata in giugno contro tale politica fu
repressa nel sangue. A dicembre fu eletto presidente della Repubblica Luigi Napoleone Bonaparte, che avviò
una svolta autoritaria e nel 1852 si proclamò imperatore con il nome di Napoleone III.
Mentre il Quarantotto in Francia si caratterizzò per lo scontro fra forze liberali e quelle democratiche e
socialiste, nel resto d’Europa le rivolte unirono al tema costituzionale il problema della nazionalità: così
avvenne nell’Impero asburgico, nella Confederazione germaniche e nella penisola italiana

Alle origini del Quarantotto italiano: le idee del Risorgimento


Nel 1831 Giuseppe Mazzini fondò la Giovine Italia, un’organizzazione clandestina che aspirava alla creazione di
un’Italia unita, repubblicana, democratica e indipendente, e che puntava sul popolo per realizzare il proprio
progetto rivoluzionario. I suoi ripetuti tentativi insurrezionali vennero facilmente repressi, come nel caso della
spedizione dei fratello Bandiera in Calabria.
Punto debole del programma mazziniani si rivelò il suo scarso radicamento presso gli strato popolari, in
particolare i contadini, che avrebbe voluto coinvolgere. Specialmente gli strati medio-alti della popolazione
mal sopportavano il controllo austriaco, ma si riconoscevano in un programma liberale e moderato, che
prevedeva l’indipendenza e non l’unità d’Italia e a cui diedero corpo
- Vincenzo Gioberti, che sognava una confederazione di Stati sotto la guida del papa (neoguelfismo), --
- Cesare Balbo, anch’egli favorevole a una confederazione ma imperniata sui Savoia,
- Massimo d’Azeglio, che auspicava moderate riforme in senso liberale.
C’erano però anche i federalisti repubblicani, come Cattaneo e Ferrari.

Il Quarantotto italiano
Il nuovo papa Pio IX nel 1846 avviò alcune riforme liberali suscitando l’entusiasmo dei moderati di tutta Italia e
ponendosi a modello per gli altri sovrani della penisola: il progetto neoguelfo sembrava realizzarsi.
All’inizio del 1848 insorse Palermo: Ferdinando II, re delle Due Sicilie, concesse una Costituzione, seguito dalla
Toscana, dal re di Sardegna Carlo Alberto e dallo stesso papa.
In marzo insorsero Milano e Venezia: in loro sostegno intervenne Carlo Alberto, dichiarando guerra all’Austria
e dando così inizio alla Prima guerra di indipendenza. All’esercito piemontese si unirono inoltre le truppe
inviate dagli altri sovrani della penisola, che però in seguito ritirarono.
Dopo i primi successi, Carlo Alberto fu sconfitto a Custoza e costretto a firmare l’armistizio con l’Austria.
Nel 1849 i democratici presero il sopravvento e proclamarono la repubblica a Roma e in Toscana.
Carlo Alberto riprese la guerra all’Austria ma, nuovamente sconfitto a Novara, abdicò in favore del figlio
Vittorio Emanuele II. Anche i governi rivoluzionari vennero repressi e tutti i sovrani, tranne il re di Sardegna,
abrogarono le costituzioni
MAZZINI
Mazzini aveva militato nella Carboneria e aveva già conosciuto il carcere.
Da esule in Francia nel 1831 aveva fondato la Giovine Italia, che non era una società segreta, ma
un’associazione politica, i cui obiettivi erano dichiarati dallo stesso nome: attraverso l’educazione politica
delle masse, mirava infatti a rendere l’Italia una “nazione di liberi e uguali, una, indipendente e sovrana” e a
darle l’ordinamento di una Repubblica democratica.
La proposta di Mazzini si riallacciava quindi all’idea di Nazione.
Diversamente da altri Paesi che i quegli anni combattevano per la propria indipendenza e autonomia, l’Italia
non si era mai costituita come stato unitario. Tuttavia, almeno fin dall’epoca dei Comuni, si era andata
delineando, secondo Mazzini, una nazione italiana: una comunità linguistica, culturale, religiosa, dotata di
valori e lineamenti propri, che meritava di trovare la propria espressione politica comunitaria.
In questo, il nazionalismo mazziniano si inscriveva perfettamente nella tradizione romantica, che predicava il
principio di autodeterminazione dei popoli, principio in base al quale tutti i popoli hanno il diritto di scegliere il
proprio sistema di governo e devono essere liberi dalla dominazione di altri Stati.
Questo principio è divenuto uno dei fondamenti del diritto internazionale dopo l’inserimento nella
Carta Atlantica (1941) e nello Statuto delle Nazioni Unite (1945).
In più il pensiero di Mazzini aveva una forte caratterizzazione etico-religiosa, tanto da essere spesso riassunto
nella formula “Dio e popolo”: la rivoluzione nazionale da lui predicata era intesa come una missione da
perseguire con profonda fede; non si trattava però della fede in una particolare confessione religiosa, ma di
quella “laica in un Dio” che si poteva indentificare con lo spirito di progresso insito nella storia dell’umanità e
con la libertà e i valori universali che accomunano tutti gli individui, aldilà della loro appartenenza di classe e
sia delle appartenenze nazionali.
L’internazionalismo della proposta di Mazzini convinse anche patrioti stranieri: nel 1834 in Francia, grazie a un
suo progetto, vide infatti la luce la “Giovine Europa”, un’associazione internazionale che riuniva repubblicani
italiani, polacchi e tedeschi. Il pensiero politico di Mazzini esercitò grande fascino su molti giovani italiani e
europei imbevuti di ideali romantici, nonostante fosse complesso, ambizioso e rischiasse di apparire poco
concreto.
Il programma era invece molto chiaro: la rivoluzione nazionale andava condotta attraverso la creazione di una
rete di gruppi di attivisti e di insurrezioni per bande; coordinando azioni di guerriglia. Il presupposto su cui si
basava questo piano era che l’insurrezione del popolo sarebbe venuta in un secondo tempo, come naturale
conseguenza. Previsione che, dalla prova dei fatti, si sarebbe dimostrata errata.

STATUTO ALBERTINO
Lo Statuto concesso da Carlo Alberto di Savoia ebbe vita dal 1848 fino al 1948, quando venne sostituito dalla
Costituzione repubblicana.
Si tratta di una Costituzione concessa (ottriata), non è dunque il frutto di una scelta popolare, ma un dono del
sovrano ai sudditi
La forma dello stato è la monarchia e la religione di Stato è quella cattolica
Nello Statuto è prevista una parziale separazione dei poteri, ma resta evidente la centralità del sovrano.
Il potere esecutivo è detenuto dal re. Il sovrano nomina i ministri che devono rispondere solo a lui e non al
Parlamento.
Il potere legislativo è esercitato congiuntamente dal re e dal Parlamento, a sua volta costituito da un Senato,
di nomina regia e vitalizia, e da una Camera dei deputati, elettiva. Ad avere il diritto erano, però solo coloro
che pagavano un’imposta
Il potere giudiziario è esercitato dai giudici nominati dal sovrano
Lo Statuto è l’espressione evidente di un compromesso fra tre principi costituzionali: quello monarchico,
quello aristocratico e quello liberale. Ai tre principi corrispondono, infatti, i tre organi istituzionali della
monarchia, del Senato e della Camera.
Lo Statuto esprime dunque un “governo misto”, a cui partecipano le varie componenti sociali con l’esclusione
delle masse popolari.
Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e godono delle libertà individuali. In questo senso lo Statuto è
ispirato ai modelli liberali di Costituzione, che garantiscono esclusivamente l’eguaglianza civile e giuridica

LIBERALI E DEMOCRATICI
I LIBERALI
Il liberalismo moderato era caratterizzato dal rifiuto della Rivoluzione francese, che aveva portato alla
violenza, allo sradicamento della tradizione religiosa, all’egualitarismo e al Terrore. Il suo progetto politico
escludeva rotture rivoluzionarie e moti insurrezionali.
La soluzione del problema nazionale doveva giungere attraverso l’iniziativa dei sovrani grazie a graduali
riforme.
Sul piano politico si proponeva una federazione degli Stati italiani, liberalizzazione dei commerci.
Per quanto riguarda la partecipazione alla vita politica e il diritto di voto, si riteneva che solo un élite di nobili e
alto-borghesi potesse avere la competenza per gestire la cosa pubblica.
A questi orientamenti liberali moderati si accostarono molti cattolici non allineati con la Restaurazione, la
quale riteneva che i valori religiosi non potessero concordare con i principi di libertà e di progresso.
Su posizione moderate fu Alessandro Manzoni, ma anche Camillo Benso di Cavour che auspicava una divisione
tra Chiesa e Stato, un’economia fondata sul liberismo e propose un controllo dall’alto del processo di
unificazione al, contrario delle tendenze insurrezionali mazziniane e garibaldine
I DEMOCRATICI
Le tendenze democratiche, che in Italia facevano capo a Giuseppe Mazzini, puntavano sull’iniziativa popolare
e sui movimenti insurrezionali basati sull’appoggio del popolo.
Proponevano anche radicali cambiamenti di regime politico. La forma propugnata era quella repubblicana ed
unitaria, contro le idee di federazione dei moderati.
Un’altra corrente di democrazia radicali faceva capo a Carlo Cattaneo proponeva un assetto repubblicano che
avesse come modello gli Stati Uniti d’America e salvaguardasse le autonomie delle varie regioni
Al suffragio censitario i democratici contrapponevano il suffragio universale
Le posizioni liberali e democratiche, così lontane tra loro, si avvicinavano nelle questiono sociali. Avevano
l’idea di una progressiva elevazione dei ceti popolari attraverso un’educazione guidata che escludesse i
conflitti tra classi

12. IL PROCESSO DI UNIFICAZIONE ITALIANA


LE PREMESSE DELL’UNIFICAZIONE
Il Regno sabaudo: una patria per i liberali
Nei primi mesi del 1848 quasi tutti i sovrani al potere in Italia avevano concesso una Costituzione, tuttavia
entro il 1849 erano tornati a governare in modo autoritario, revocando le Costituzioni.
A Torino, invece, non soltanto le concessioni liberali dello Statuto Albertino non erano state revocate, ma
addirittura la dinastia si era impegnata a riprendere la guerra contro l’Austria. Tutto ciò contribuì ad
accrescere il prestigio di casa Savoia presso i liberali italiani, così che negli anni Cinquanta affluirono in
Piemonte esuli provenienti da tutta Italia, i quali parteciparono a pieno titolo alla vita politica.
Il Parlamento torinese cominciò a proporsi come una sorte di assemblea rappresentativa dell’Italia intera, o
meglio di quanti volevano liberarsi dal dominio austriaco e liberarsi dei sovrani attraverso il conferimento del
ruolo di dinastia egemone nella penisola ai “liberali” Savoia.

La crisi del movimento repubblicano


I repubblicani erano stati i protagonisti delle giornate rivoluzionarie del 48-49: a Milano con carlo Cattaneo, a
Roma con Mazzini. Tuttavia, proprio a seguito delle sconfitte subite, negli anni 50 il movimento repubblicano
si indebolì e si divise tra:
- Un’ala unitarista guidata da Mazzini, che riunì i propri seguaci nel Partito d’azione
- Un’ala federalista, il cui maggior esponente era Cattaneo. “Federalismo” significava libero autogoverno
delle popolazioni dei singoli Stati e loro unione in un patto nazionale che andava inserito nello scenario
di un’Europa formata da nazioni libere e alleate: gli Stati Uniti d’Europa.
Il suo progetto federalista prese forma dopo il 1848 e non aveva niente a che vedere con quelli di
Gioberti, Balbo e d’Azeglio che avrebbero comportato il mantenimento dei sovrani in carica.
Ad aggravare la crisi dei repubblicani contribuì il fallimento dei nuovi tentativi insurrezionali: a Milano nel
1853 e nel Regno delle Due Sicilie nel 1857, guidato da Carlo Pisacane esponente repubblicano sbarcato a
Sapri con l’obiettivo di suscitare una rivolte, fu invece ucciso dalla popolazione

Il ruolo del conte di Cavour


Delusi dall’assenza di prospettive, molti militanti repubblicani iniziarono a considerare l’ipotesi di unificazione
nazionale che cominciava a delinearsi nel Regno di Sardegna. Alla sua origine vi era il ministro Camillo Benso
conte di Cavour, che condusse una spregiudicata politica estera tesa a rendere accettabile l’idea di un
ingrandimento territoriale dei domini sabaudi all’interno della penisola italiana, mostrando a esse che ciò
avrebbe potuto tornare a loro vantaggio perché avrebbe indebolito l’Austria.
Cavour si era affermato sulla scena politica durante gli eventi del 48, quando si era schierato con i sostenitori
di un regno d’Italia a guida sabauda (Cesare Balbo)
In seguito, divenne il capo della maggioranza liberal-moderata, distinguendosi nel governo di Massimo
d’Azeglio, prima come ministro dell’Agricoltura, poi come ministro delle Finanze.
Fu ammiratore dello spirito progressista della società inglese e rivoluzionò l’economia usando le finanze statali
per favorire la modernizzazione delle strutture produttive. Istituì la Banca nazionale degli Stati sardi e potenziò
le infrastrutture, soprattutto in campo ferroviario, favorendo lo sviluppo dell’industria meccanica

L’azione di Cavour in politica interna


Alla tendenza progressista in campo economico, Cavour coniugò una fede politica monarchico-liberale di
orientamento laico, una caratteristica che lo distingueva da gran parte dei moderati.
Cavour fu un conservatore sul punto di vista sociale, ma si batté per il potenziamento delle prerogative del
Parlamento, ossia per la piena attuazione dello Statuto albertino.
Nel 1852 divenne Primo ministro e promosse il connubio tra la sua formazione, il “centro destro”, e il “centro-
sinistra”. Assunse quindi un governo che voleva isolare sia la sinistra democratica che l’estrema destra
conservatrice.
La destra si rivoltò contro la limitazione dei privilegi ecclesiastici, con il supporto del re, ma Cavour ne uscì
vittorioso e rafforzò il regime parlamentare a scapito dell’invadenza del sovrano.
Nella seconda metà degli anni 50 nasce la Società nazionale, un movimento che mirava all’unificazione della
penisola sotto il dominio sabaudo; aderirono i mazziniani e i repubblicani di altro orientamento come
Giuseppe Garibaldi, i quali pur di unificare la nazione erano pronti ad abbandonare l’ideale repubblicano e
attenuare il proprio radicalismo democratico.
L’INIZIATIVA SABAUDA DALLA DIPLOMAZIA ALLA GUERRA
Il quadro composito delle spinta unitarie
Il processo di unificazione fu il risultato di due percorsi paralleli
- L’ascesa del prestigio della monarchia sabauda
- La crisi del repubblicanesimo
Per decenni aveva prevalso la spinta rivoluzionaria per l’affermazione di una repubblica democratica.
Influì anche la spinta della generazione di patrioti romantici che guardavano allo Stato nazionale come il
coronamento di un sogno democratico.
In parte il processo di unificazione fu anche involontariamente frutto delle aspirazioni dei liberali, interessati
all’indipendenza di ciascuno stato regionale, che ora erano stati indotti a considerare l’unificazione come
l’unica soluzione per liberarsi dalla minaccia austriaca.

La strategia diplomatica del Regno di Sardegna


Un primo momento importante per i Savoia fu la Guerra di Crimea, che tra il 1854-1856 vide schierate Francia,
Gran Bretagna e Impero ottomano contro la Russia, al fine di arginare le mire espansionistiche russe sui
Balcani e sul mar Nero. Alleandosi con Francia e Gran Bretagna, per iniziativa di Cavour, il Regno di Sardegna
prese parte al conflitto, in modo da poter sedere poi al tavolo della pace di Parigi nel 1856 e di porre
all’attenzione europea la questione italiana.
Un secondo passo decisivo furono gli accordi diplomatici del 1858 tra Cavour e Napoleone III.
I due si incontrarono a Plombières e crearono un’alleanza contro l’Austria: in caso di vittoria,
- Il Nord Italia sarebbe andato alla dinastia sabauda che avrebbe ceduto alla Francia la Savoia e Nizza
- Il Centro sarebbe stato affidato a Girolamo Bonaparte
- Il Sud sarebbe stat0o tolto ai Borbone e assegnato alla Francia
- Il papa avrebbe conservato Roma e il Lazio

La seconda guerra di indipendenza


Nel 1859 Cavour proseguì l’obiettivo di costringere l’Austria a dichiarare guerra, in modo da far scattare
l’alleanza con la Francia. Cominciò quindi a mobilitare l’esercito lungo i confini della Lombardia e assegnò a
Garibaldi il compito di formare gruppi di volontari, i Cacciatori delle Alpi, che provocassero gli austriaci.
L’Austria cadde nella trappola ed ebbe inizio la seconda guerra di indipendenza.
Vittorio Emanuele di Savoia fece allora varcare il Ticino dalle sue truppe. Grazie al contributo della Francia e
dei volontari di Garibaldi, le forze austriache vennero sconfitte.
La vittoria decisiva fu quella di Magenta che aprì la via per la liberazione di Milano. In seguito furono
importanti le vittorie in Veneto di Solferino e San Martino
Nel Granducato di Toscana, nel Ducato di Modena e nelle legazioni pontificie, la Società nazionale era riuscita
ad organizzare delle sollevazioni che avevano portato i regnati alla fuga e i rivoltosi manifestavano la volontà
di essere annessi al Regno di Sardegna
Così però si contravveniva ai patti di Plombières, perché il controllo dei Savoia non si sarebbe limitato all’Italia
del Nord, ma si sarebbe formato un regno centro-settentrionale.
Napoleone decise perciò di sospendere le ostilità e all’insaputa di Cavour firmò con l’Austria l’armistizio di
Villafranca che sancì la cessione della Lombardia alla Francia che l’avrebbe poi girata al Regno di Sardegna, ma
che confermò il controllo dell’Austria sul Veneto
Cavour si dimise per protesta contro l’iniziativa di Napoleone III, malgrado ciò i governi provvisori filosabaudi
nell’Italia centrale resistettero grazie all’appoggio della Gran Bretagna, interessata a limitare l’influenza
francese.
Nel marzo 1860 in quelle aree si tennero dei plebisciti, dai quali venne accolta la proposta di aggregarsi al
Regno di Sardegna, il quale estese il proprio dominio sui Ducati di Modena e Parma, sulla Romagna e la
Toscana; in cambio cedette Nizza e la Savoia alla Francia

LA NASCITA DEL REGNO D’ITALIA


Garibaldi e l’impresa dei Mille
Nel 1860, ormai con quasi metà della penisola sotto il dominio sabaudo, iniziò la seconda fase del processo di
unificazione nazionale che mirò alla conquista dello Stato della Chiesa e del Regno delle due Sicilie.
A guidarla fu Giuseppe Garibaldi, un democratico di Nizza che si era formato come comandante militare in Sud
America. Garibaldi negli anni 50 si era avvicinato alla Società nazionale, pur continuando a coltivare l’ideale
repubblicano.
Nel maggio 1860 dopo aver raccolto alcune centinaia di patrioti, i cosiddetti “Mille”, li condusse in Sicilia con
lo scopo di liberare le terre meridionali dalla tirannia borbonica. I Mille salparono da Quarto (in Liguria) e
sbarcarono a Marsala. In meno di due mesi conquistarono l’isola godendo dell’appoggio di buona parte della
popolazione locale
Quest’ultima infatti aveva già mostrato l’insofferenza nei confronti del governo borbonico

La repressione delle aspirazioni sociali dei contadini


Fu con il sostegno dei contadini armati, i “picciotti”, che Garibaldi poté realizzare il suo trionfo.
Non esitò a emanare una serie di provvedimenti che venivano incontro alle aspirazioni economico-sociali degli
strati popolari delle campagne: l’abolizione della tassa sul macinato e la promessa di assegnare parte delle
terre demaniali (appartenenti allo Stato) agli isolani che avrebbero combattuto a fianco di Garibaldi.
Queste iniziative tuttavia suscitarono aspettative radicali: illudendosi di poter contare sul consenso di
Garibaldi, in alcune aree, i contadini (i berretti) si impadronirono delle terre demaniali e di quelle usurpate dai
grandi proprietari.
Alcuni di questi vennero massacrati e, Garibaldi per stroncare i disordini organizzò una repressione culminata
nella spedizione a Bronte, dove il 2 agosto era scoppiata una rivolta: Nino Bixio, inviato da Garibaldi, attaccò i
rivoltosi.
Il sogno di un legame tra rivoluzione nazionale e rivoluzione sociale, viene stroncato.
Il “terrore” patito dai maggiorenti siciliani durante il passaggio garibaldino, contribuì a spingerli verso
l’annessione ai domini della Corona sarda, come garanzia di tutela di un ordine sociale minacciato

La marcia dei garibaldini dalla Sicilia verso Roma


A Napoli, nel frattempo il sovrano Francesco II aveva tentato di aumentare il suo consenso concedendo una
Costituzione liberale, ma l’iniziativa fu inutile.
Mentre in Sicilia si formò un governo provvisorio sotto la guida di Francesco Crispi e Garibaldi.
Garibaldi e i volontari cominciarono a risalire verso la capitale, a settembre entrarono a Napoli, dove non
incontrarono resistenza, ma una popolazione neutrale.
Poco dopo l’arrivo di Garibaldi a Napoli, accorsero anche Mazzini e Cattaneo.
Adesso la penisola italiana risultava divisa in due parti:
- Al Centro-Nord il controllo era in mano alla dinastia sabauda e al fronte liberale-moderato
- Il Sud era retto da Garibaldi, una delle figure del repubblicanesimo democratico più importante
A proiettare Garibaldi in quella situazione aveva contribuito la vicinanza con la Corona Sarda, tuttavia i
volontari erano repubblicani convinti.

La discesa dell’esercito sabaudo verso Sud


Venuto meno il controllo austriaco, si sviluppò uno scontro tra due visioni diverse dell’unificazione nazionale.
- Quella sabauda, di impronta dinastico-monarchica e prevedeva un quadro politico liberale, nel quale la
partecipazione politica era limitata alle classi abbienti
- Quella repubblicana risaliva a una tradizione di matrice rivoluzionaria e che all’idea di nazione
abbinava quella di popolo e di democrazia
Nell’arco di poche settimane fu la prima ad affermarsi secondo un modello di unificazione all’alto che si
concretizzò grazie a una manovra di Cavour che impedì il successo delle iniziative di Garibaldi
Dopo aver ottenuto il consenso delle potenze europee, Vittorio Emanuele II schierò l’esercito, lo fece
discendere lungo la penisola e conquistò l’Umbria e le Marche, stabilendo il dominio sul Centro Italia.
Ora i repubblicani trovavano l’esercito sabaudo nel cammino verso Roma e furono costretti a fermarsi.
Il 26 ottobre si tené l’incontro tra Vittorio Emanuele e Garibaldi a Teano presso Caserta: il comandante dei
Mille soddisfatto del risultato e avendo sperimentato quanto fosse difficile il governo del Mezzogiorno, ordinò
ai suoi uomini di sciogliersi e rimise al re i propri poteri.
Qualche mese più tardi un’altra serie di plebisciti aveva ratificato l’annessione delle Marche, dell’Umbria e del
Mezzogiorno alla casa Savoia, Vittorio Emanuele II assunse il titolo di re d’Italia nel 17 marzo 1861.
Non cambiò nome per mantenere la continuità tra il Regno di Sardegna e il neonato Regno d’Italia e la
capitale fu Torino.

La Terza guerra di indipendenza e la “questione di Roma”


Negli anni 60 si assistette al completamento dell’unificazione nazionale
Nel 1866, con la Terza guerra di indipendenza, grazie alla sconfitta infitta dalla Prussia all’Austria, l’Italia
ottenne il Veneto.
Dopo i falliti tentativi di Garibaldi, i cui volontari furono fermati più volte, nel 1870 si risolse la questione di
Roma: sconfitta la Francia, le truppe italiane conquistarono il Lazio e Roma, dove fu trasferita la capitale

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