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LA COSTITUZIONE DELLO STATO NUOVO

Il discorso della corona

Il 18 febbraio 1861 si inaugura la vita politica dell'Italia.


Il discorso della corona toccava i punti essenziali, tratteggiando il compito
che spettava alla classe dirigente: mantenere intatta l'unità.

Nascita di un Regno

L'esito della lotta risorgimentale doveva essere ancora accuratamente


consolidato, questo era il parere del re e degli esponenti della Destra storica.
Doveva essere neutralizzato il progetto politico del Partito d'azione, che
prevedeva il completamento dell'unità con la liberazione di Roma e del Veneto e
la convocazione di un'assemblea costituzionale per disegnare l'architettura
istituzionale dello stato nuovo
Le prime decisioni del parlamento furono di un chiaro significato simbolico.
Il sovrano assunse il titolo di re d'Italia, con la numerazione ancorata alla
precedente successione sabauda, rimarcando in tal modo la saldissima continuità
che legava l'esperienza del Piemonte monarchico-costituzionale alla nuova
formazione politica.
Un altro disegno di legge governativo dispose che gli atti ufficiali fossero
firmati dal re, il cui nome doveva essere seguito dalla formula "per grazia di
Dio e per volontà della nazione re d'Italia".
La carta fondamentale dell'Italia unita divenne lo Statuto alberino. Rispetto
alla forma originaria del 1848, che aveva posto le fondamenta di una monarchia
costituzionale, vi erano state profonde mutazioni dei caratteri costituzionale.
In varie fasi, dal 1852 al 1855 (crisi calabiana), la regola che voleva il
governo responsabile nei confronti del monarca si era trasformata in una
soluzione, diventata abituale, per cui il governo veniva designato dal re sulla
base della maggioranza presente in parlamento, e in particolare della
maggioranza formatasi nella Camera elettiva.
L'ordinamento giudiziario, l'assetto delle amministrazioni locali, la
legge elettorale e tutti i codici delle leggi, andavano riorganizzati per
adattarli alle caratteristiche della nuova formazione politica che si andava
costruendo. Tutti questi provvedimenti vennero elaborati ed emanati non dal
parlamento, ma da due governi presieduti da La Marmora (1859 e 1865), che
operarono in regime di delega legislativa concessa loro dal parlamento
Tutta un'importantissima serie di leggi fondamentali, molte delle quali su
materie di rilievo costituzionale, venne prodotta dal governo in un regime di
delega, durante la quale il parlamento tacque. Leggi fondamentali approvate in
regime di delega, come quella sull'ordinamento giudiziario o
sull'amministrazione comunale e provinciale, fecero dell'esecutivo, e non certo
del legislativo, il vero punto di snodo e di equilibrio di tutto l'assetto
istituzionale.

Aspetti della sfera pubblica

Lo Statuto confermava a chiare lettere il principio dell'indipendenza


della magistratura. Questo principio era confermato dalle due leggi
sull'ordinamento giudiziario, nelle quali, però, era contenuta una disposizione
che permetteva al ministro di grazia e giustizia di trasferire in una sede
diversa i magistrati, per ragioni di servizio da lui discrezionalmente valutate.
Questa era una norma che capovolgeva, nei fatti, il principio stabilito dallo
Statuto.
D'altro canto la legge attribuiva al guardasigilli anche altri strumenti di
pressione sulla magistratura: sia il sistema di reclutamento che la progressione
in carriera dei magistrati erano nelle sue mani, ed egli disponeva di diversi
strumenti per svolgere azioni disciplinari.
Le leggi sull'ordinamento giudiziario negavano in maniera evidente ogni reale
indipendenza della magistratura. La cosa, per la verità, non era mai stata
nascosta dai leader liberali, i quali più volte avevano riaffermato il diritto
d'intervento dell'esecutivo sull'ordine giudiziario. Il giudiziario era solo un
ramo dell'esecutivo; pertanto era del tutto ovvio che fosse sotto il rigido
controllo del governo.
Il riassetto del sistema amministrativo si ebbe con la legge 20 marzo
1865. Erano previste due articolazioni territoriali, i comuni e le province.
Il governo aveva poteri di controllo sulle amministrazioni locali attraverso la
figura del prefetto: provvedeva alla pubblicazione e all'esecuzione delle leggi,
vegliava sull'andamento di tutte le pubbliche amministrazioni, soprintendeva
alla pubblica sicurezza, disponeva della forza pubblica e poteva richiedere la
forza armata; dipendeva dal ministro dell'interno e ne eseguiva le istruzioni.
Le deliberazioni di consigli e giunte dovevano essere approvate dal prefetto per
diventare esecutive, e a lui spettava approvare i bilanci e controllare gli atti
dei consigli provinciali.
Il governo, in pratica, si attribuiva il potere di tutela sugli atti di
organismi elettivi. Questo potere era tanto più forte se si considera che la
nomina alla funzione prefettizia era esclusivo appannaggio del ministro
dell'interno
Il processo di formazione dell'opinione pubblica aveva nella stampa e
nelle associazioni due strumenti fondamentali. I due temi erano toccati
dall'art.. 28 e 32 dello statuto. i quali istituivano un sistema di controllo
sulle pubblicazioni che aveva un carattere esclusivamente repressivo e non
censorio. Nel complesso la legge non era assolutamente autoritaria; lasciava
però alla magistratura ampi spazi di arbitrio nell'utilizzazione della soluzione
del sequestro.
Per quel che riguarda le associazioni la legge di riferimento rimaneva un
decreto del 26-10-1848 che sanciva la piena libertà di associazione. Nel 1862,
la costituzione dell'Associazione emancipatrice italiana costituì una svolta
nell'applicazione della normativa. Rattazzi riuscì a strappare al Consiglio di
stato un parere favorevole allo scioglimento dell'associazione. Da allora si
ritenne perfettamente lecito che il Ministero dell'interno procedesse d'ufficio
allo scioglimento di quelle associazioni le cui finalità e attività fossero
risultato in contrasto con i principi dello Statuto.

La tirannia della maggioranza

Nell'assetto costituzionale dell'Italia era chiaramente percepibile il


momento del comando, della decisione, dell'autorità. L'esecutivo era il cuore
del complesso istituzionale, l'organo da cui partivano solide reti di controllo
sulle articolazioni amministrative o sulle forme di espressione dell'opinione
pubblica.
Però era altresì vero che l'esecutivo era tanto più autorevole, quanto più
saldamente poggiava sulla maggioranza del corpo politico.
Fin dalle prime elezioni il governo cercò di condizionare i risultati elettorali
attraverso l'intervento in sede locale del prefetto. Questo non era visto da
molti esponenti liberali come un'invadenza in prerogative non proprie, ma veniva
vista come un'azione che traeva la propria ragion d'essere dalla legittimità che
al governo era conferita dalla maggioranza degli elettori.
La tirannia della maggioranza aveva le sue origini nel contesto socio-politico
nel quale fu vissuto il processo di unificazione: presenza di spinte
antiunitarie e arretratezza socio-economica del mezzogiorno. Da qui la necessità
di costruire uno stato capace di operare le riforme necessarie per riportare
l'Italia al passo con le nazioni più evolute.
Ombre minacciose provenivano dalle posizioni assunte da importanti settori
dell'opposizione: cattolici intransigenti e frammenti dell'ex partito d'azione,
i quali palesavano l'esistenza di fratture profonde che riguardavano i caratteri
fondamentali degli assetti costituzionali dello stato nuovo.
In definitiva, il contesto nel quale gli uomini della destra storica si
trovarono ad agire non era certo il più adatto a sviluppare un liberalismo
sensibile ai diritti delle minoranze o fondato su un sistema di pesi e
contrappesi.
Comunque fosse, lo stato unitario nasceva su fondamenta che facevano della
decisione, del comando, della sfera esecutiva il cardine del sistema esecutivo.
E nondimeno questa dimensione istituzionale traeva la sua forza dal consenso del
corpo elettorale mediato dal parlamento.
LA LOTTA POLITICA NELL'ITALIA UNITA

La politica nelle amni dei virtuosi e dei sapienti

Il corpo elettorale, determinato per censo, rappresentava solo un piccola


parte della popolazione, ma in tal modo si pensava di poter assicurare al paese
una guida autorevole e sicura, eletta da un elettorato alieno da pressioni e
corruzioni e dotato di una certa educazione e coltura

Precoci disillusioni

La nobile immagine del "regno dei savi" assunse ben presto i tratti di un
mondo scossa da conflitti aspri, da pratiche corrotte e illecite.
Tali pratiche aspramente criticate, nei fatti venivano accettate e tollerate,
spesso giustificate da una superiore "ragione di partito".
Tali pratiche spesso negavano uno dei fondamenti della rappresentanza liberale:
il mandato imperativo degli interessi locali si andava a sostituire al mandato
rappresentativo. Non c'erano principi nè idealità, ma solo appalti o posti da
far avere a una comunità o a un'altra, a un clan o all'altro.

Peculiarità meridionali

Le èlites dell'Italia meridionale appaiono cercare legittimazione politica


attraverso un ambivalente rapporto con lo stato. Da un lato si esibiva una sorta
di rinnovato paradigma cortigiano, per cui si immaginava che tutto dovesse
venire dallo Stato. Al tempo stesso si manifestava una dichiarata ostilità al
governo dei "piemontesi

I gruppi anticostituzionali

La messa in discussione della legittimità dello Stato italiano da parte


del pontefice ebbe enormi conseguenze di carattere politico, spaccando
nettamente l'opinione pubblica di fede cattolica. Una parte ritenne che il
rispetto del magistero spirituale non comportava anche la fedeltà alle sue
direttive politiche. Un'altra parte non riconobbe la legittimità delle nuove
istituzioni rifiutandosi di partecipare alle elezioni politiche. Al tempo stesso
optò per la partecipazione alle amministrative, cominciando ad organizzarsi in
strutture associative di varia natura.
L'opposizione democratica continuò a lungo a coltivare progetti
insurrezionali, dotandosi, al tempo stesso, di associazioni stabili per la
raccolta del consenso
A partire dagli anni settanta, proprio il ricorso alla forma dell'organizzazione
politica permanente fu il tratto comune delle diverse opposizioni
anticostituzionali.
L'avvento della sinistra al governo (1876) non mutò per nulla i caratteri
principali dello stato liberale.
la riforma della legge per le elezioni politiche (1882), pose come criterio
dell'inclusione nelle liste elettorali il compimento del primo biennio delle
elementari elevando il numero degli elettori dal 2 oltre l'8% sul totale della
popolazione.
Proprio l'approvazione della legge spinse De Pretis a proporre una
trasformazione dei partiti che conducesse a una stabile collaborazione della
Sinistra e della Destra liberali. La motivazione retorica era il venir meno
delle storiche differenze programmatiche tra i due raggruppamenti. Accanto a
questa vi era una ragione strategica più impellente, ovvero la necessità di
meglio fronteggiare la minaccia costituita dai candidati dell'estrema, che
avrebbero potuto approfittare dell'allargamento del suffragio e della divisione
dei tradizionali raggruppamenti liberali. La proposta ottenne l'assenso della
maggioranza dell'opinione pubblica liberale. L'accordo sciolse ogni parvenza di
dinamica bipartitica. Le maggioranze venivano composte attraverso l'aggregazione
dei singoli parlamentari. La trasformazione dei partiti divenne "trasformismo",
l'apoteosi del tatticismo parlamentare, la prevalenza degli interessi locali o
privati sugli interessi nazionali, la contrattazione dell'ingresso nella
maggioranza in cambio del sostegno alle particolari esigenze del singolo
deputato.

NEL MONDO DELLA NOBILTÀ'

titoli e privilegi

Nello stato unitario il titolo nobiliare non significava nulla, se non il


prestigio sociale che poteva conferire. La normativa dello stato unitario
riassumeva e completava un processo di svalutazione dei privilegi nobiliari che
si era messo in moto fin dalla metà del settecento, e che aveva avuto dal
periodo rivoluzionario la definitiva spinta alla definizione di uno stato di
cittadini, dove non c'era più spazio per i ceti e le loro giurisdizioni
separate. Nello stato unitario tale tradizione era rafforzata dal desiderio di
liberarsi della collaborazione invadente di una nobiltà troppo potente.
Piuttosto che dar vita a qualcosa di simile a una Camera dei pari ereditaria, si
era preferita la soluzione del senato vitalizio e di nomina regia, che garantiva
al sovrano maggior libertà di movimento.

Il peso del passato

Il 10 ottobre 1869 venne istituita la Consulta araldica, con il compito


specifico di censire i nobili di tutta la penisola, vagliare la validità dei
titoli esibiti, e includerli nel corpo della nuova nobiltà d'Italia.
I titoli nobiliari, vuoti ormai di privilegi, apparivano egualmente attraenti
come strumenti di pura distinzione sociale.
esaminando le alleanze matrimoniali del periodo 1800-1859, si delinea un
articolato modello di solida endogamia geografica, che appare come lo specchio
di una più generale configurazione della società nobiliare del tardo ottocento.
Ogni città ha i suoi teatri, i suoi club, le sue associazioni. Le nobiltà
conservano i palazzi nelle città d'origine, le terre e le ville nei dintorni. E
i circuiti di sociabilità non si fondono che con difficoltà.
I gruppi nobiliari mantenevano un forte radicamento regionale.
L'attrazione esercitata dagli universi nobiliari aveva un'altra importante
manifestazione: il fascino della terra, della proprietà, degli investimenti
immobiliari. Molti non nobili si rivolsero a questa forma di investimento come a
una soluzione sicura, gratificante dal punto di vista dell'immagine e della
redditività. Questo era anche un modo per avvicinarsi al mondo della nobiltà
locale. I due processi andavano di pari passo: mentre settori vari della nobiltà
abbandonavano il loro esclusivismo per confondersi, nella vita sociale ed
economica, con la crema della società locale, ambiti sempre più vasti delle
élites non nobiliari acquistavano tratti comportamentali da sempre parte della
condotta nobiliare: la proprietà della terra, la villa in campagna, le carrozze
private.

POSSEDERE LA TERRA

Il fascino della proprietà

Il fascino della proprietà terriera dominava le élites italiane, mentre le


iniziative imprenditoriali non erano che patrimonio di pochi, e in
ristrettissime aree della penisola.
La propensione alla rendita era un dato che riguardava tutta la penisola:
dovunque si cercava di consolidare il proprio successo economico, acquistando
beni economicamente solidi e socialmente prestigiosi: tenute, ville di campagne,
o titoli di stato.
La vendita dei beni dell'asse ecclesiastico e demaniale ebbe in questi processi
un'importanza talvolta cruciale. Tra il 1862-67, data delle leggi che avviarono
i procedimenti di vendita, e i primi anni ottanta, lo Stato italiano, spinto da
necessità finanziarie, pose sul mercato all'incirca
1.000.000 di ettari di terra, pari al 4% della superficie agraria.
Contemporaneamente si ebbe una fase di affitti agrari crescenti: il risultato fu
che l'investimento terriero, oltreché prestigioso, divenne anche economicamente
vantaggioso. Grazie a queste dinamiche, dopo l'unità crebbe uno strato di
proprietari che non era fatto di agricoltori di nascita, ma di professionisti,
commercianti, imprenditori che consolidavano in beni fondiari parte delle loro
economie, sia per una forma di ambizione personale, sia per la fiducia di
procurarsi in tal modo e la soddisfazione della villeggiatura nel proprio
possesso, e la certezza di un solido collocamento del capitale impiegatovi.

Circuiti di mercato e scelte produttive

I circuiti del mercato agricolo erano quasi esclusivamente circuiti


locali.
Vi era un impulso a una concentrazione territoriale di carattere eminentemente
funzionale: creare economie di scala, assicurarsi proprietà facilmente
raggiungibili, tali da poter essere condotte o controllate direttamente.
Nel Mezzogiorno il legame tra proprietari e proprietà aveva da tempo assunto una
configurazione molto diversa. Era una gestione delle terre decisamente
assenteista. Le capitali rimanevano un centro d'attrazione irresistibile, mentre
si aveva una vasta dispersione territoriale delle giurisdizioni e dei latifondi
ad esse collegate.
Dopo l'unità la tendenza prevalente, però, fu quella di concentrare le terre in
aree vicine alla residenza dei proprietari. Si assistette alla progressiva
liquidazione di parti delle proprietà collocate in lontane province; la dinamica
prese avvio da una sostituzione della rendita terriera con quella immobiliare
urbana o mobiliare. Ci si liberava di terre lontane, difficili da raggiungere e
da amministrare. In cambio chi vendeva si muoveva sul mercato degli immobili
urbani, dei titoli di stato, dei crediti a privati.
Il consolidamento o la formazione di circuiti locali del mercato della terra
creava una dinamica agricola che alle cento Italie agricole faceva corrispondere
cento modi diversi di essere proprietari terrieri. Le differenze erano molto
marcate da zona a zona, nelle strutture e nei modi di conduzione, nella natura
dei rapporti di lavoro, nel tipo di beni agricoli prodotti e nel loro
inserimento sui mercati.

Accademie, associazioni, comizi agrari

Le cento Italie agricole erano mondi diversi, che intrattenevano un


dialogo frammentario e che, spesso, si ignoravano del tutto. Ciò si traduceva in
una grande frammentazione associativa. Le associazioni agrarie che spiccavano
per autorevolezza erano le accademie, le società agrarie, le società di
incoraggiamento, già dal settecento centri di aggregazione delle élites
terriere.
Il meccanismo di accesso era la cooptazione. Tra gli obiettivi vi era
l'organizzazione di conferenze, la messa a coltura di campi sperimentali, il
finanziamento di scuole per l'istruzione agraria, la pubblicazione di opuscoli e
riviste tecniche, e tutto ciò che poteva essere di stimolo all'attività
agricola. L'intento era in contraddizione con il carattere socialmente selettivo
e il forte localismo che segnava le associazioni.
Nel 1862 l'Associazione agraria subalpina di Torino cambiò il proprio nome in
Associazione agraria italiana, col progetto di diventare un organo di
collegamento nazionale. Il progetto trovò difficoltà a realizzarsi: furono molte
le resistenze di altre aree agricole i cui notabili non vollero subire una
piemontesizzazione delle associazioni esistenti.
Con un decreto legge del 23 dicembre 1863, il governo Ricasoli pose fine al
tentativo condotto informalmente dall'Associazione agraria italiana e istituì in
tutti i territori del Regno i comizi agrari ufficiali. Questi, che avevano la
forma di associazioni volontarie di proprietari, dipendevano dal Ministro
dell'Agricoltura e dal prefetto, e avevano il compito sia di diffondere le
migliori pratiche agricole che comunicare al ministero le informazioni utili per
una buona amministrazione dell'agricoltura nazionale.
Le vecchie associazioni agrarie rifiutarono di farsi assorbire nelle nuova rete
associativa promossa dallo stato, continuando a prosperare a fianco delle
associazioni di nuova istituzione.
I gruppi sociali che costituivano al classe dirigente dell'Italia nuova
evitavano di partecipare a delle istituzioni che avrebbero dovuto esprimere, sul
piano nazionale, i loro più diretti interessi economici.

La reazione alla crisi

Negli anni ottanta l'arrivo di quantità imponenti di grano e riso a prezzi


sensibilmente più bassi dalla Russia e dall'America provocò una sensibile
contrazione dei profitti. Nondimeno, fino al 1884 prevalsero le voci ostili a
soluzioni della crisi fondate su un incremento delle tariffe doganali sui
prodotti agricoli di importazione.
Nel frattempo la situazione padana rischiava di precipitare per l'intrecciarsi
della protesta degli affittuari e dei braccianti. Le due questioni erano
strettamente collegate e trovavano origine dall'andamento contrario dei prezzi e
delle rendite. Affittuari legati a lunghi contratti stipulati quando i prezzi
agricoli erano alti, si trovarono a far fronte a tali canoni anche quando la
discesa dei prezzi tagliava drasticamente le loro entrate. A ciò si sovrappose
il brusone, che diminuì la produzione del riso, senza che vi fosse alcun aumento
del prezzo visto le importazioni dall'estero. Gli affittuari fronteggiarono la
situazione facendo, per lo più, ricorso alla via più breve, la riduzione del
compenso dei lavoratori. Scoppiarono una serie di scioperi condotti dai
braccianti; Anche gli affittuari si orientarono verso l'organizzazione e il
conflitto sindacale. Il 15 febbraio 1883 gli affittuari lombardi costituirono
l'Associazione italiana dei conduttori di fondi. Obiettivo immediato era la
riduzione dei canoni, ma l'ipotesi massima era quella di conquistarsi una
maggiore autonomia nella gestione dei fondi.
La crisi comportò la riduzione dei canoni, riversando anche sulle spalle dei
proprietari i suoi effetti. Spinti dalla crisi e dai conflitti sindacali, anche
i proprietari si organizzarono nella Lega di difesa agraria, fondata il 16
aprile 1885.
Tre gli obiettivi programmatici: sgravi fiscali per la proprietà terriera,
raddoppio del dazio sui grani importati, perequazione fondiaria, ovvero riordino
del catasto e delle valutazioni della proprietà a fini fiscali.
Nel febbraio 1885 si aprì alla camera il dibattito sulla questione delle
modifiche alle tariffe doganali. Esponenti della Lega si pronunciarono a favore
del protezionismo, le cui istanze incontrarono però una notevole opposizione,
specie tra chi produceva prodotti non destinati all'esportazione o non aveva
colture di grano.
Il dibattito si concluse con sconfitta delle istanze protezionistiche. In questa
circostanza le varie identità proprietarie avevano provocato numerose spaccature
tra i vari gruppi territoriali. La costruzione di un unico fronte protezionista
era stata ostacolata anche dall'intrecciarsi della discussione sulle tariffe con
quella sulla perequazione fondiaria. Tale problema nasceva dalle diverse
valutazioni fiscali delle terre determinate dai vari catasti, tutti compiuti in
epoca preunitaria, e quindi diversi da zona a zona. In questo caso le
deputazioni settentrionali (protezionisti), si trovarono contro quelle toscane
(non protezioniste) e meridionali (per lo più protezioniste)
Il disegno di legge sui nuovi catasti venne votato e approvato nel febbraio
1886. Un potente motivo di contrasto che indeboliva il fronte protezionista
venne meno. La continua discesa dei prezzi convinse molti della necessità di
arrivare alla protezione doganale. Il disegno di legge che conteneva le nuove
tariffe venne approvato con facilità nel 1887.

Effetti della battaglia protezionista


La vittoria del 1887 fu un trionfo per Lega di difesa agraria. Intorno
alle sue ramificate strutture organizzative si era costruito un reticolo di
adesioni che attraversava gran parte della penisola. L'isolamento proprietario,
alla fine di questa vicenda, sembrava sconfitto per sempre. E invece, una volta
conseguito il risultato, la lega di difesa agraria cessò di esistere, senza che
si formassero altri organismi di organizzazione di politica comune. Si crearono
organismi tecnici orientati alla diffusione dei migliori sistemi produttivi, il
più importante dei quali fu la federazione dei consorzi agrari, fondata nel 1892
a Piacenza, con finalità puramente tecniche.
A partire dagli anni novanta le strutture agricole di molte aree della
penisola attraversarono un processi di travolgente cambiamento. Crebbe la
produttività dei cereali per ettaro, si introdussero nuove colture; si
praticarono nuove rotazioni che consentirono di aumentare le produzioni per il
mercato a prezzi relativamente più bassi. Nell'immediato, le differenze tra le
varie zone agricole sembrarono accentuarsi ancor di più per effetto della crisi.
Sia dal punto di vista organizzativo che da quello economico, le identità
proprietarie sembravano di nuovo attratte dalla forza centrifuga degli interessi
locali. L'esperienza della lotta tariffaria sembrava passata invano. I gruppi
proprietari stavano ricominciando a muoversi ciascuno per proprio conto, anche
se esisteva una maggiore circolazione delle informazioni sulle innovazioni
tecniche.

Via della terra

Mentre, dopo la battaglia protezionista, le differenze tra gli ambiti


proprietari si palesavano di nuovo, mutava anche il rapporto che essi
intrattenevano con le loro terre. Dopo gli anni ottanta, chi poteva, chi aveva a
portata di mano soluzioni alternative: lasciare le proprietà rurali, per
cercare altre strade per gli investimenti; oppure si creavano dei fronti di
famiglia: a un figlio la gestione della terra; agli altri il compito di farsi
una posizione in altri ambiti del mercato del lavoro.

LAUREE, PROFESSIONI, IMPIEGHI

La difficile strada dello studio universitario

Arrivare a iscrivere un figlio all'università non era una scelta alla


portata di tutte le famiglie. Un solido sbarramento economico faceva si che gli
studi universitari fossero un'esperienza riservata ai figli di famiglie che
potevano vantare situazioni patrimoniali o professionali quanto meno solide.
Lo sbarramento sociale produssero una notevole selezione sociale. Essa non
impedì che nei decenni post-unitari il numero degli studenti aumentasse
significativamente. L'incremento coincise con la crisi economica.
Ben presto si verificò lo squilibrio sul mercato delle professioni colte tra
un'offerta sovrabbondante e una domanda comparativamente del tutto modesta.
Per molti laureati l'ingresso sul mercato del lavoro non fu fonte di processi di
ascesa economica e sociale, ma fu fonte di difficoltà, disillusioni, dolorosi
sentimenti di profonda frustrazione.

Avvocati, procuratori, notai e magistrati

Per quel che riguarda la magistratura erano previste varie forme di


reclutamento, di cui le principali erano il concorso per uditore oppure la
nomina diretta a pretore affidata alla discrezione del guardasigilli.
Per diventare notaio, fino al 1913 era sufficiente la frequenza a un
concorso universitario biennale. Dopodiché era necessario un biennio di
tirocinio pratico e un esame di abilitazione, con il quale si otteneva il titolo
di notaio. Per ottenere un posto bisognava vincere un concorso bandito mano a
mani che i posti di notaio, stabiliti per legge, venivano lasciati liberi.
Spesso i professionisti, che avevano alle spalle una solida origine socio-
economica, si trovavano ad affrontare un'esperienza di quasi declassamento
sociale.

I medici

La riforma sanitaria del 1888 stabilì un chiaro monopolio dell'esercizio


professionale a favore di coloro che avessero posseduto un diploma di laurea in
medicina
Divergenze di carriera e di riuscita professionale erano notevoli
all'interno dei contesti urbani, che diventavano ancora maggiori tra città e
campagne.

Gli ingegneri

Il prestigio della professione, e un notevole aumento della richiesta di


professionisti nel settore, fecero sì che il numero degli iscritti fosse in
costante aumento.
Le dinamiche di trasformazione economica che attraversarono l'Italia
postunitaria richiesero, in molte e diverse forme, le competenze degli
ingegneri. I principali rami di impiego erano tre: nei ruoli dello stato, nelle
aziende private e nella libera professione.

Funzionari e impiegati

Molti laureati nelle diverse discipline trovarono impiego, oltre che sul
mercato libero o nelle imprese private, anche nei ruoli dello stato
Tratto generale dell'esperienza del pubblico impiego era la struttura
rigidamente gerarchizzata dei rapporti di ufficio, che si tradusse in una
consolidata cultura dell'autorità e della gerarchia, profondamente radicata nei
modi di pensare e di sentire il rapporto gerarchico, implicita nell'accettazione
dei valori-guida dell'obbedienza, della subordinazione, dell'irresponsabilità,
della preminenza dell'ufficio-organo come soggetto dell'azione amministrativa.
L'unità culturale del mondo dell'impiego pubblico risultava spezzata da
innumerevoli differenze di mansioni, da relazioni di subordinazione gerarchica,
da una dilatata varietà di distribuzioni, di stili di vita, di percezioni di sè.

L'associazionismo professionale

Diverse sono le associazioni che si costituiscono all'interno dei singoli


campi professionali; tuttavia questi tentativi si infrangono ripetutamente
contro resistenze che ne spezzano la coesione e il coordinamento organizzativo.
tali fratture sono di tre tipi: sociali, territoriali e tecnico-professionali.
L'Associazione medica italiana viene fondata nel 1862, con l'obiettivo
della valorizzazione della professione e di una rigorosa difesa dei suoi
interessi economico-professionali.
Da un lato l'associazione scontò l'incapacità mostrata dalla sua leadership nel
coordinare un'efficace azione di difesa degli interessi della professione sul
piano nazionale, dall'altro subì l'effetto disgregante di tre processi
centrifughi: i comitati locali che incominciarono ad operare in forme totalmente
autonome dalla direzione centrale, la costituzione, nel 1874, dell'Associazione
nazionale medici comunali, che traduceva la profonda frattura che attraversava
la professione medica in termini di status e reddito; terzo fattore, il
formarsi, dagli anni settanta, di organizzazioni nazionali di medici
specialisti.
Nel settore dell'ingegneria incominciarono a formarsi, associazioni
volontarie a base territoriale, in parte dedite alla discussione di questioni
scientifiche di interesse generale, in parte impegnate nella valorizzazione
dell'attività della professione e della difesa degli interessi. Su quali
fossero, tuttavia, gli interessi da difendere c'era grande incertezza.

AVAMPOSTI DELLA TRASFORMAZIONE TERRITORIALE


Imprenditori di successo

Gli ambiti del commercio e dell'industria sembravano essere mondi a parte


rispetto ai milieux dei proprietari, dei professionisti, dei funzionari. Una
sorta di cauto sospetto teneva lontani questi gruppi sociali dai protagonisti
delle prime iniziative imprenditoriali.
L'opinione pubblica era convinta che l'Italia fosse un paese agricolo; non aveva
le risorse tecnologiche per poter competere sul campo della produzione
industriale, e dunque prospettavano un futuro di fornitrice di prodotti agricoli
ai mercati di consumo dei paesi in via di industrializzazione. Per questo si
imponeva una politica liberista, migliore garanzia della crescita complementare
delle diverse economie nazionali.
Inoltre si pensava che la società rurale fosse il territorio della pace sociale,
della tradizionale deferenza contadina, della mancanza di conflitto, laddove la
città, la fabbrica, gli operai sono fonti di pericoloso scontro sociale.
D'altro canto, la sensazione che il mondo dell'industria fosse una specie di
cosmo parallelo, poteva essere alimentata anche dalla constatazione che i
protagonisti di quelle attività venivano da famiglie che nulla avevano a che
fare con gli ambienti canonici del prestigio e del potere.
Le storie di vita degli imprenditori possono essere racchiusi in cinque
classificazioni:
un primo percorso era quello segnato dall'eredità della gestione di aziende già
costituite da padri.
Altri industriali venivano da famiglie originariamente impegnate in attività di
piccolo commercio.
Altre volte le origini erano modeste, con biografie dai tratti affascinanti e
picareschi..
C'erano poi gli imprenditori stranieri e infine, in qualche caso, un tracciato
di vita che conduce dalle libere professioni o dalla proprietà terriera fino
all'attività imprenditoriale.

Concentrazione territoriale e dispersione associativa

Nella padania pedemontana con l'appendice ligure si trovano concentrate


quasi tutte le principali iniziative imprenditoriali che hanno qualche rilievo
nell'Italia di metà ottocento; nelle altre zone della penisola le attività
imprenditoriali spiccano come oasi incongrue in scenari solidamente rurali.
Vari i motivi di questa concentrazione, ma fra i principali vanno ricordati i
vantaggi offerti dall'ambiente fisico e dall'economia agricola della Padania
pedemontana. La povertà dell'agricoltura collinare, a nord della pianura,
offriva agli imprenditori una manodopera abbondante a buon mercato. Vi erano i
corsi d'acqua che fornivano un costante rifornimento di energia idrica. Inoltre
la capacità di innovazione degli imprenditori, favoriti dal contatto diretto con
imprenditori stranieri che arrivavano dall'estero, il ricorso costante a tecnici
ed operai stranieri, i viaggi di istruzione in nord europa.
Tutte queste erano fondamentali occasioni per conoscere tecniche, metodi,
prodotti. Viceversa nell'Italia meridionale questi elementi non erano presenti.
I contatti con le esperienze imprenditoriali estere mancavano, vuoi per le
difficoltà di viaggio, vuoi per la chiusura degli imprenditori stranieri, poco
inclini a entrare stabilmente in contatto con i loro pari di diversa etnia,
lingua e religione. Inoltre le regioni meridionali sembravano offrire pochi
vantaggi geo-ambientali per l'impianto di nuove industrie, mentre le relazioni
di mercato erano difficoltose, intralciate dal sommarsi di una quantità
sorprendente di costi aggiuntivi provocati dalla mancanza di strade o
dall'insicurezza negli spostamenti o negli stessi rapporti commerciali.
L'Italia che muoveva i primi incerti passi verso l'industrializzazione era
quella padana. E nella Padania ottocentesca gli imprenditori sembravano avere
molto in comune: venivano da ambiti socialmente bassi; avevano esperienze
educative eccentriche rispetti ai loro coetanei di buona famiglia; lavoravano in
ambienti geografici relativamente ristretti e ad alta densità produttiva. Tutti
gli aspetti che potrebbero farci supporre una notevole coesione socio-culturale.
E invece le divisioni che segmentavano anche questo campo erano molte. Intanto
ve n'erano di natura specificatamente economica. I settori che si svilupparono
tra anni cinquanta e ottanta furono caratterizzati da scarse o nulle
interdipendenze settoriali; le reti di credito che sorreggevano le iniziative
imprenditoriali non facevano che accentuare questa segmentazione; molte aziende
si autofinanziavano; altre si servivano del sostegno di banchieri privati
operanti a breve raggio, nella sede dell'attività della ditta; le strutture
istituzionali del credito avevano una notevole dispersione territoriale e un
raggio d'azione piuttosto circoscritto. Anche l'assetto delle banche d'emissione
accentuava il policentrismo finanziario.
Queste segmentazioni territoriali e produttive trovarono un singolare
rispecchiamento nelle forme associative che gli imprenditori cercarono di darsi.

In difesa dell'industria nazionale

A partire dal 1866 in molti osservatori cominciò a farsi strada l'idea che
la politica doganale rigorosamente liberista fosse troppo inutilmente
penalizzante nei confronti delle attività imprenditoriali, che scontavano un
ritardo nello sviluppo industriale.
Nel 1878 la nuova tariffa doganale introdusse protezioni di carattere non
proibitivo, ma nemmeno di impatto trascurabile, a favore del settore cotoniero,
laniero e metallurgico.
Per il settore metallurgico la scelta nasceva da un'esigenza di carattere
strategico-militare, piuttosto che strettamente economico: disporre di una
significativa autosufficienza produttiva nei settori cruciali per il
rifornimento di esercito e marina.
Nel paese montava una diffusa aspirazione al potenziamento militare. In breve,
oltre al sostegno alle industrie belliche, si ampliò l'esercito, ci si mosse in
direzione di un'espansione coloniale, si rafforzò la posizione internazionale
dell'Italia con il suo inserimento nella costellazione diplomatica austro-
tedesca. A partire dal 1881-82 vi fu un significativo aumento delle spese
militari, con relativo aumento di commesse per le industrie produttrici di
materiale bellico. Nel 1884 si posero le basi per la costruzione di un impianto
siderurgico che costituisse il cuore della potenza militare italiana. Nel 1885
vennero approvate due leggi che offrirono una buona opportunità di espansione
alle imprese siderurgiche e meccaniche.
L'atto finale di questo crescendo di misure favorevoli allo sviluppo
dell'industria nazionale si ebbe nel 1887, quando il parlamento approvò una
nuova tariffa doganale ben più radicalmente protezionista di quella del 1878.
Anche questa nuova tariffa generale prevedeva un trattamento differenziato per i
vari settori produttivi. Erano favoriti i cotoni. Favorita la lana. Nuovamente
ignorate le richieste dei setaioli. Potentemente protetta la siderurgia, e
soprattutto le produzioni di ghisa, fin allora non protetta e totalmente
importata. Assolutamente trascurata l'industria meccanica. La tariffa era il
frutto di un gioco a incastro tra interessi diversi, e dal sacrificio di alcuni
settori lobbysticamente più deboli, o strategicamente meno rilevanti.

Effetti della battaglia protezionista

La tariffa del 1887 non rappresentò che una temporanea convergenza dei
diversi gruppi verso una transitoria posizione comune. Già negli anni
successivi , divisioni e conflitti si sarebbero palesati con una certa evidenza,
assumendo al duplice forma di contrasti intralocali o intersettoriali.
Vi erano generali insofferenze antipolitiche che caratterizzavano la concezione
della sfera pubblica delle élites milanesi di questi anni. Al centro di questa
cultura vi era una disaffezione per lo stato centrale che prese le forme della
contrapposizione simbolica tra Roma e Milano.
Il dissenso nei confronti di Crispi era l'espressione del conflitto tra gli
imprenditori del settore siderurgico-cantieristico, che sostenevano con
entusiasmo la politica di espansione coloniale e di aumento alle spese militari
voluta da Crispi, e i più variegati ambienti imprenditoriali milanesi, che si
opponevano per l'ostilità nei confronti della maggiore pressione fiscale che
l'impresa coloniale sembrava imporre.

Dalle stelle alle stalle


Negli anni ottanta e novanta, le esigenze produttive, gli obiettivi di
mercato, le strategie politico-economiche dei vari gruppi industriali
continuavano ad essere diversi, mentre le interdipendenze settoriali erano
ancora non molto più che modeste. Le convergenze non potevano che essere
occasionali e temporanee

LOCALISMI, PARTICOLARISMI, CLIENTELE

Lo spirito d'associazione

I decenni successivi all'unificazione fecero registrare una vera e propria


esplosione associativa. Molte delle associazioni avevano finalità puramente
ricreative
Buona parte dei club costruivano la loro autorevolezza sociale proprio sul
rigoroso esclusivismo che ne informava l'esistenza. Attorno ad esse si andarono
creando associazioni meno esclusive, o diverse nell'impostazione: associazioni
di programma, con finalità specifiche diverse dalla pura sociabilità ricreativa.
Nel suo insieme, e nei diversi contesti locali, tutta questa complessa
costellazione di associazioni, andò disegnando delle frastagliatissime geografie
sociali, estremamente mutevoli nello spazio e nel tempo.
Le nuove forme di associazionismo, così intensamente giocate sul filo di
ostentate strategie della distinzione, così strutturate sull'obiettivo di
differenziarsi da altri gruppi, da tracciare linee di demarcazione sociale,
distrussero la vecchia pratica socievole che riuniva tutta intera la "Società".
Circoli e ritrovi strutturavano il campo delle élites secondo una grammatica
della distinzione, della differenziazione, dell'esclusività, della separazione
sociale.

Caratteri dell'opinione pubblica

Queste reti associative, segmentate socialmente all'interno di un medesimo


contesto, erano anche prive di connessioni di carattere intercittadino. D'altro
canto il localismo apparteneva alle ragioni più profonde che spingevano alla
formazione di queste rete associative: la costruzione di strategie della
distinzione; tali pratiche non potevano che aver luogo e senso in un contesto
locale.
Anche la stampa aveva caratteri molto simili a quelli propri del fenomeno
associativo. Anche i quotidiani erano un fenomeno d'élite.
La stampa quotidiana era caratterizzata dalla presenza di un numero estremamente
ridotto di fogli di orientamento politico e di diffusione nazionale,
generalmente organi ufficiosi dei diversi gruppi politici, affiancati da
numerosi quotidiani di impianto e diffusione più specificatamente locale.
In generale notevole era il localismo dei circuiti informativi.

Elettori e deputati

Le forme dell'opinione pubblica ricalcavano caratteri propri delle élites,


un mosaico frammentato di gruppi, per i quali valeva il radicamento nello
specifico contesto territoriale. Questo fa meglio comprendere l'implosione
clientelare che caratterizzava il campo politico liberal-costituzionale. La
mediazione notabilare che stringeva una catena tra parlamento, deputato e
collegio, aderiva perfettamente alla straordinaria molteplicità degli interessi,
funzionando da meccanico sistema di coesione, da indiretto circuito
comunicativo, capace di colmare i vuoti di relazione prodotti dai cleavages che
attraversavano le élites.
Le componenti del conflitto ideologico, della contrapposizione netta dei
programmi si fecero sempre più modeste. Lo scontro avveniva tra candidati che
appartenevano alla stessa cultura politica, che si riferivano allo stesso
universo di valori.
L'essenza del sistema politico risiedeva nell'efficacia attraverso la quale le
mediazioni politiche riuscivano a soddisfare il caleidoscopio degli interessi
particolari.
Il candidato dell'area liberal-costituzionale doveva cercare di arrivare alle
elezioni su posizioni filogovernative: ciò avrebbe significato poter contare
sull'aiuto dei prefetti e di altri funzionari, ed eventualmente anche del
sostegno finanziario del presidente del consiglio o di qualche ministro.
Nelle relazioni con l'elettorato ciò che contava era la capacità di attivare
relazioni di supporto politico, contattando il maggior numero di elettori.
Poteva cercare di trasformare le relazioni economiche che nascevano dalle
proprie attività in altrettante relazioni di sostegno politico, arrivando al
limite del ricatto.
Se non era possibile ciò il sistema migliore era quello di garantire un qualche
tipo di vantaggio in cambio del voto.
Un sistema poteva essere quello di contare sull'aiuto dei grandi elettori. Il
candidato doveva riuscire, quindi, sia a soddisfare le esigenze degli elettori,
sia quelle del mediatore che attivava le proprie relazioni in favore del
candidato.
Una mobilitazione che passava così capillarmente attraverso l'attivazione di
relazioni personali, dava vita a casi di manipolazione piuttosto palesi:
acquisto del voto, espediente per controllare il voto degli elettori
controllati, manipolazione di liste elettorali.
Una campagna elettorale costava: i finanziamenti si cercavano tra chi poteva
sborsare cifre cospicue in un solo colpo; e che avevano buoni motivi per pagare
il politico di turno: banche e grossi gruppi imprenditoriali erano interlocutori
privilegiati.
Una volta che il candidato veniva eletto doveva preoccuparsi di tenere vivo il
rapporto con i propri elettori. Fondamentale era la richieste di opere e
infrastrutture di vario genere.
Altro modo d'azione era quello delle raccomandazioni ad personam.
Dopo il 1883 le modalità di aggregazione all'interno del parlamento andavano
nella direzione di un rafforzamento del diretto contatto dei singoli deputati
col governo e i ministri: da questi dipendeva la possibilità di ottenere quanto
richiesto. Questo è l'aspetto della pratica parlamentare noto come
"trasformismo".
Fino al 1900, tutti i governi uscirono confermati dalle competizioni elettorali.
Quando si verificarono crisi di governo, esse erano dovute a vicende sfavorevoli
al governo ma, in origine, estranee alle tattiche parlamentari, o derivava dal
lento modificarsi delle relazioni tra governo e singoli parlamentari, o dai
conflitti interni tra ministri e i loro seguaci.
Il sistema rappresentativo era una grande camera di compensazione nazionale, e
all'interno della quale si incontravano i rappresentanti dei vari segmenti
relazionali.
L'opinione pubblica liberale si oppose sempre all'idea del partito politico. Si
pensava che la forma partito avrebbe distorto la rappresentanza liberale,
limitando i movimenti e l'indipendenza del singolo individuo.
La convinzione che la rappresentanza dovesse spettare alle élites portava a non
riconoscere necessaria una ricerca del consenso che facesse ricorso a costante
strumenti di mobilitazione di coloro che erano privi della cittadinanza
politica.
L'opinione pubblica liberale aveva l'idea che l'ambito della sovranità fosse uno
soltanto, quello del popolo-nazione, interpretato dal governo eletto attraverso
la mediazione della rappresentanza parlamentare. Quindi non era facile ammettere
la strutturale spaccatura che i partiti avrebbero necessariamente provocato.
Nella negazione del partito si intendeva esaltare la figura ideale del deputato,
individuo libero da ogni condizionamento. Ma nella concreta prassi politica,
questa posizione ideale finiva per diventare difesa della legittimità degli
innumerevoli interessi particolari. E così la segmentazione socio-territoriale
rafforzava l'interpretazione individualistico-notabilare della mediazione
politica, finendo per deformare i presupposti etici e le originarie aspirazioni
locali.

LA BORGHESIA E' IL VERO NERBO DELLA NAZIONE?

Amor di patria

Se c'è un codice comunicativo che fin dai primissimi momenti post-unitari


accomuna i più diversi segmenti sociali delle élites liberal-costituzionali,
questo è proprio il codice nazional-patriottico.
Celebrazioni funebri di personaggi importanti contengono sempre la
sottolineazione del patriottismo del defunto. Le sintesi biografiche si
trasformano in exampla di valori condivisi e ricordati come orizzonte normativo
da seguire, in un insieme di azione pedagogica e di esibita condivisione di
valori etico-politici.
Forte è l'insistenza degli scrittori liberal-costituzionali sul valore della
patria, della nazione, dell'unità. Interessante è notare come questa non sia una
caratteristica esclusiva della pubblicistica alta. Anzi, sorprende proprio
l'enorme massa di pubblicazioni in qualche misura spontanee, comunque al di
fuori di una sistematica pianificazione votata all'invenzione o alla costruzione
dell'identità nazionale.

Semantiche nazional-patriottiche

Il senso di appartenenza alla nazione poteva esser carico di valori e


significati diversi..
Generale era l'esaltazione del monarca e della casa regnante, simboli più alti
dell'unità della nazione costruita nelle lotte del Risorgimento. Non meno
frequente era l'enfasi sul valor militare del re e di Garibaldi: l'unità aveva
voluto dire atti eroici, combattimenti, sangue versato, e i due nomi sacri
compendiavano le virtù del coraggio e dell'amore per la patria. Ricorrente, ma
ritualmente superficiale, era la dichiarata lealtà allo statuto, mentre si
invocava anche la concordia politica, che doveva tradurre il senso di
appartenenza alla comunità nazionale.
Il tentativo di fondare la coesione sociale sul senso di comune appartenenza a
un'unica collettività nazionale si scontrò con una serie di problemi che rese
poco efficace quest'opera di costruzione di identità.
Col passare del tempo si fece strada il crescente e insistente richiamo agli
interessi economici nazionali, alla difesa della produzione nazionale e del
lavoro nazionale.
Gli insuccessi militari che fin dal 1866 si ripeterono frustrarono l'appeal
dell'identità nazionale, perchè sollevarono dubbi su uno dei fondamenti
materiali costitutivi, l'idea che la nazione fosse una comunità di eroi; la
mancanza di organizzazioni politiche permanenti rendeva episodica e casuale
l'azione pedagogica; il solidarismo sociale e politico sembrava contraddetto
dall'esperienza politica e sociale di un numero enorme di cittadini italiani.

Nazione e borghesia

L'universo della nazione, lo slancio patriottico, la lealtà al monarca e


al suo Statuto scandiva potentemente l'orizzonte etico-politico dell'opinione
liberal-costituzionale.
Termini come borghesia o ceto medio, usati come termini di identificazione
comunitaria, si incontrano pochissime volte nei discorsi pubblici. E quando
capita che qualcuno ne faccia uso, è per attribuire loro un valore risolutamente
negativo. Pensare la società in termini di classi era opera antipatriottica. Il
linguaggio patriottico, con l'esigenza di concordi per tutti, cancellava
l'opportunità stessa del linguaggio di classe e di una possibile identità
borghese. Se esisteva la borghesia era perchè c'era un proletariato e ciò
spezzava irrimediabilmente il corpo della nazione.
Termini classe media e borghesia non hanno un valore descrittivo, sociologico,
ma coprono un campo semantico dichiaratamente etico-politico. Borghese era chi
di "civile condizione", senza nessun accenno a caratterizzazioni e qualità
distintive. La dimensione nazionale postulava unità, coesione, comunanza di
sentire; e in definitiva, se lessico sociale bisognava usare, era meglio parlare
d popolo, termine inclusivo per natura, che non ricorrere a qualificazioni
selettive, come erano quelle di classe.

INQUIETUDINI E CRISI

Contro il parlamento

L'identità patriottica faceva aggio sull'identità sociale. Gli idealo di


patria, nazione, popolo, scandivano l'orientamento collettivo, costruivano una
cornice di simboli e di significati nei quali proiettare l'esperienza
quotidiana.
Fin dai primi anni dopo l'unità, era andato crescendo un brontolio di dissenso,
di insoddisfazione, che non veniva solo dall'opposizione anticostituzionale, ma
che trovava interpreti sempre più numerosi tra gli stessi liberali.
Se ideale e reale non collimavano, la colpa andava trovata soprattutto nelle
modalità di funzionamento delle istituzioni, e tra di esse in particolare di
quella che aveva il compito di interpretare i voleri della nazione: la Camera
elettiva.
In breve il dissenso si espanse a macchia d'olio, accompagnando l'esplosione di
una sorta di antiparlamentarismo narrativo e giornalistico. Il tratto comune di
queste critiche era l'accordo unanime sull'impossibilità di riformare il
sistema, in quanto gli effetti negativi della rappresentanza era un tratto
connaturato alle modalità di funzionamento proprie del sistema.

Radici dell'antiparlamentarismo

Inquietante era il fatto che le critiche radicali al sistema della


rappresentanza - uno dei capisaldi del pensiero liberale - erano avanzate da
liberali di primo piano.
Il disgusto nei confronti della camera elettiva prese forza con la pressione
esercitata dalla Sinistra per l'allargamento del corpo elettorale. In molti si
ebbe la sensazione che si stesse avviando un pericoloso moto di
democratizzazione della vita pubblica e di predominio del potere legislativo
sull'esecutivo. D'altro canto non va dimenticato il carattere reale di
degenerazione del sistema politico. I due temi erano confusi nelle
argomentazioni antiparlamentari.
La critica al parlamentarismo si arricchiva di letture giuridico formali.
L'architettura costituzionale faceva dell'esecutivo il vero punto di snodo e di
equilibrio di tutto l'assetto costituzionale. Il potere di condizionamento della
Camera elettiva nel processo di formazione del governo nasceva da
un'interpretazione del tutto impropria della legge costituzionale.
Anche nella mitologia patriottica il ruolo del parlamento, sia figurale che
quantitativo, era del tutto subalterno rispetto al ruolo dell'esercito, dei
condottieri, degli atti eroici. L'istituzione che era circondata da un alone di
prestigio e di autorità era quella del sovrano, che incarnava l'azione,
l'autorità decisionale, il comando, non certo il parlamento, luogo della
discussione e del compromesso.

Torniamo allo Statuto

Nella pubblicistica, l'acme di questo climax antiparlamentare si raggiunge


nel 1897 col Torniamo allo statuto di Sonnino. Tesi centrale era il problema del
parlamento, profondamente malato; malato perché gli interessi particolari si
ostacolavano a vicenda, invece di fondersi nella determinazione di un interesse
generale. Anche il governo non era che espressione di interessi particolari. La
soluzione, per tornare alla politica nobile, era quella di restituire al
principe al disopra delle parti, l'autorità che gli era stata sottratta e che
gli spettava a norma di statuto.

I neri e i rossi

Il mondo cattolico intransigente si era raccolta attorno all'Opera dei


congressi , costituita nel 1875 con dichiarati intenti antiliberali.
L'opinione repubblicana si era coordinata attraverso la soluzione associativa
del Patto di fratellanza
Gli ambienti della I internazionale abbandonarono ben presto l'ipotesi
insurrezionali per rifarsi a modelli vicini a quelli della socialdemocrazia
tedesca. Le prime esperienze organizzative ebbero base regionale, per poi
trovare un difficile coordinamento nel convegno di Genova del 1892, con la
costituzione di un'unica forma partito (il Partito dei lavoratori italiani, dal
1895 Psi). Ben presto il Psi costituì proprie strutture organizzative
centralizzate, collegandosi strettamente alle forme di organizzazione sindacale
che stavano nascendo alla fine del secolo.
Le encicliche Quod apostolici numeris del 1878 e la rerum novarum del
1891, le direttive di Leone XIII ai fedeli erano andate nella direzione della
lotta contro lo stato liberale e contro le pretese socialiste. Ed era anche con
l'obiettivo di contrastare il movimento socialista che il movimento cattolico
aveva dato un particolare sviluppo alle organizzazione cooperative e di mutuo
soccorso.
I cattolici ricorsero alla retorica neoguelfa che voleva il loro movimento come
il vero e più autentico interprete dell'identità nazionale italiana, la cui
storia e memoria era scandita, più di ogni altra cosa, da secoli di comune
confessione religiosa: le memorie medievali, il ruolo del papato nella storia
d'Italia, l'idea di una missione civilizzatrice che avrebbe dovuto
caratterizzare le esperienze coloniali italiane portatrici non solo di
progresso, ma anche della vera fede.
Molti liberali avevano la sensazione di esser sotto l'assedio concentrico
di rossi e neri.
E almeno tre elementi comuni alle galassie anticostituzionali preoccupavano non
poco.
Le strutture organizzative, seppur dotate di una forte connotazione
territoriale, erano inserite in ambiti più ampi, di carattere nazionale, avevano
inoltre un esplicito intento esclusivo: cercavano cioè il consenso dei ceti
popolari esclusi dalla cittadinanza politica; si fondavano su mitologie
politiche caratterizzate da diffidenza e ostilità nei confronti delle
istituzioni dello stato unitario. Il che significava che i gruppi che negavano
legittimità allo stato liberale erano proprio quelli che riuscivano a costruire
una trama organizzativa nazionale. La socializzazione alla politica di una parte
significativa della società italiana avveniva all'insegna della diffidenza e del
rifiuto delle istituzioni liberali.
La maggior diffusione dei tre movimenti si concentrava nelle aree
territoriali nella quale si stavano addensando le maggiori tensioni sociali.
Questo era l'effetto delle trasformazioni socio-economiche in corso nell'area
padana, ma anche del fatto che in quelle zone erano meno efficaci le reti
clientelari e i reticoli relazionali dei notabili liberali, molto forti, invece,
nelle grosse agro-towns.
Il terzo elemento era che i leader dei movimenti anticostituzionali
appartenevano agli stessi ambiti sociali dai quali venivano coloro che si
identificavano con le idealità e le istituzioni liberali.

Tentativi di reazione autoritaria.


La soluzione più congeniale sembrò essere una riforma dello stato e di un
suo rafforzamento istituzionale. Questo progetto fu messo in atto, in due
diversi atti, da Crispi. Nella prima fase, corrispondente ai suoi primi due
governi (7 agosto 1887 - 6 febbraio 1891), egli compì una serie di riforme
istituzionali che, laddove sembravano concedere elementi di autogoverno,
democratizzazione della vita pubblica, decentramento, in effetti li annullavano
in una cornice di controlli che davano al presidente del Consiglio, al governo,
ai rappresentanti dell'esecutivo nelle articolazioni periferiche dello Stato
poteri ancor più efficaci di quanto era previsto nell'originaria architettura
costituzionale, Crispi si preoccupò di proiettare la sua concreta azione di
riorganizzazione degli apparati dello stato su di un orizzonte simbolico ricco
di risonanze e di attrattiva per un opinione pubblica sensibile ai richiami
delle idealità patriottiche: in questa prospettiva incoraggiò l'esperienza
coloniale e svolse un'intensa azione di nazionalizzazione delle masse, con
monumenti e feste che dessero voce e anima all'identità nazionale. Per due
diversi motivi la sua azione ebbe esiti fallimentari. Da un lato, l'ipotesi di
diffusione dell'identità patriottica si scontrò con la conflittualità sociale.
Dall'altro, l'obiettivo di coronare la sua azione coloniale con l'impresa
coloniale si infranse nel massacro di Adua (1 marzo 1896) che chiuse
definitivamente la sua esperienza di governo.
Con il fallimento del progetto crispino si aprì un secondo ciclo politico nel
quale si tentò un rafforzamento delle istituzioni dello stato. Prima Di Rudinì e
poi Pelloux cercarono di introdurre riforme che limitassero radicalmente le
libertà politiche, in risposta a una situazione sociale che continuava a essere
percepita come estremamente minacciosa. A più riprese presentarono alla camera
un disegno di legge sulla pubblica sicurezza e sulla stampa di carattere
estremamente repressivo. L'ostruzionismo dell'Estrema, cui in questa fase
aderirono anche i gruppi di Zanardelli e di Giolitti, bloccò l'iter del
progetto, finchè il 18 maggio 1900 Umberto I sciolse la camera e indisse nuove
elezioni. In esse Pelloux non ebbe il risultato che si aspettava. Il 18 giugno
1900 diede le dimissioni. Una parte dell'opinione pubblica aveva mostrato di non
gradire soluzioni troppo brutali per risolvere l'instabilità politico-sociale
degli ultimi anni, in una certa misura contraddicendo il favore decretato da
tempo a ipotesi e umori antiparlamentari e autoritari.

ALBA DI TEMPI NUOVI

Il capitalismo si organizza

Tutti gli indici della produzione agricola e industriale mostrarono che


dagli ultimi decenni dell'Ottocento fino al 1907 la crescita economica fu
uniforme e di proporzioni talora rilevanti.
L'aumento della domanda aggregata e delle disponibilità di capitali fu
accentuato da una dinamica favorevole della bilancia dei pagamenti, alimentata
dalle rimesse degli emigranti e dai flussi turistici., mentre le imprese
poterono continuare a disporre di un'offerta sovrabbondante di manodopera sul
mercato del lavoro, che tese a deprimerne il costo. Effetti favorevoli
esercitarono anche le politiche doganali protezioniste, i nuovi trattati
commerciali stipulati tra 1898 e 1906 con Francia, Germania, Austria e Svizzera
e l'incremento della spesa pubblica. Un impatto non meno rilevante ebbe la
complessiva riorganizzazione del sistema bancario, avvenuta dopo i fallimenti
del 1893-94.
Inoltre proprietari e affittuari, imprenditori e manager, in questo periodo
cominciarono a dotarsi di organizzazioni che potessero realmente coordinare la
loro azione sui mercati.

Associazioni tecniche, trust, cartelli, oligopoli

Mentre la rendita in coincidenza con la crisi agraria aveva mostrato una


prevedibile inclinazione alla discesa, il valore delle terre si era invece
mantenuto su livelli assai ancora elevati, segno di una sostenuta tensione della
domanda sul mercato.
Il 10 aprile 1892 si costituì la federconsorzi, con un obiettivo principalmente
tecnico, ovvero offrire agli agricoltori gli strumenti migliori per fronteggiare
la caduta dei prezzi. La forma organizzativa scelta fu quella della società per
azioni con finalità cooperative. L'opera della federazione si concretizzò
nell'acquisto di semi selezionati, fertilizzanti artificiali o macchine agricole
per conto dei soci, riuscendo anche a stipulare buoni accordi con le banche
locali per la concessione di crediti agevolati ai soci.
Nel settore industriale in breve tempo la concentrazione smise di essere
un carattere solamente territoriale per riguardare anche gli assetti proprietari
e le modalità di azione sul mercato.
Sino al 1907 la crescita aveva riguardato soprattutto i settori elettrico,
meccanico, metallurgico, alimentare, chimico e tessile, mentre dopo quella data
i settori più dinamici furono l'alimentare, il chimico, il metallurgico e
l'elettrico.
Nel processo di riorganizzazione del settore industriale di inizio
novecento il ruolo delle banche fu assolutamente cruciale. Tra il 1889 e il 1894
il sistema bancario italiano aveva attraversato una fase di profondissima crisi,
provocata dall'esaurirsi del boom edilizio degli anni precedenti, nel quale
molti istituti di credito avevano investito cospicue risorse, e da una serie di
irregolarità gestionali in alcune banche di emissione. La crisi fu risolta con
la legge 10 agosto 1893, che istituiva la Banca d'Italia. Pochi medi dopo il
Credito mobiliare e la Banca generale fallirono. Tale vuoto fu colmato dalla
costituzione di due banche nate col cospicuo apporto di capitali stranieri,
soprattutto tedeschi: La Banca commerciale italiana e il credito italiano. A
queste si aggiunsero la Società bancaria italiana e il Banco di Roma. La novità
di queste banche fu la cura maggiore che dedicavano all'espansione territoriale
degli sportelli - per poter aver un ampio bacino di raccolta del risparmio - e
alla normale attività di credito: ciò consentiva di muoversi nel settore
dell'investimento industriale avendo alle spalle una solida rete di attività
creditizie per il pubblico.
L'intervento delle banche miste fu determinante per lo sviluppo industriale
giolittiano. I principali interventi di sostegno alle imprese furono:
collocazione di emissioni azionarie delle imprese giudicate meritevoli di
sostegno; accordi per la gestione dei conti correnti delle aziende, e
svolgimento di operazioni dirette di finanziamento.
Fra i principali ambiti di azione vi furono il settore dell'energia elettrica,
quello siderurgico, chimico, zuccheriero, meccanico e le compagnie di
navigazione.
Le tre grosse imprese siderurgiche - Terni, Alti forni, Elba - operavano
in un mercato relativamente ristretto, con costi di produzione resi elevati
dalla necessità di importare gran parte delle materie prime. Non minori erano i
problemi delle aziende produttrici di semilavorati metallici o di prodotti
finiti. Perciò sin dai primi anni del novecento si cercarono accordi di vario
tipo con la prospettiva di integrare produttori di ghisa e di acciaio,
produttori di semilavorati e aziende meccaniche. la prima serie di importanti
iniziative in tal senso si ebbe tra il 1903 e il 1905.
Tuttavia la costruzione di un vero e proprio reticolo di coordinamento si ebbe
solo nel 1911. In questo caso la spinta decisiva derivò impatto negativo che la
crisi del 1907 aveva esercitato su tutte le imprese del settore. La soluzione fu
la combinazione di tre accordi distinti.
Nel giugno 1911 si costituì la Società ferro e acciaio, a cui aderì la maggior
parte delle aziende che producevano ferro, acciaio e semilavorati e funzionò
come un cartello di vendita.
Sempre nel 1911, attraverso una serie di accordi incrociati, le tre aziende
produttrici di ghisa - Elba, Ilva e Alti Forni - e le tre imprese produttrici
di semilavorati e lavorati - Ferriere italiane, Società siderurgica di Savona e
Società ligure metallurgica - decisero di concentrare la gestione economica e le
funzioni amministrative in una sola delle società del gruppo, la Ilva.
Infine si procedette al piano di risanamento finanziario, sotto la regia del
direttore generale della Banca d'Italia, che concesse al gruppo siderurgico
crediti per 96 milioni.
Il senso di questa operazione era: accordo sul controllo dei prezzi, e
razionalizzazione dei costi di organizzazione e di amministrazione; intervento
di salvataggio operato preventivamente a beneficio di Comit e Credit che avevano
già notevoli immobilizzi con le varie società del trust.
La tendenza alla concentrazione procedette speditamente anche in altri settori,
per esempi in quello elettrico. In questo caso il modello di aggregazione fu
quello della costellazione finanziario-aziendale: i gruppi maggior venivano
finanziati dalle principali banche miste o dalle ex società ferroviarie
trasformatesi in finanziarie o da holding a capitale straniero; per parte loro
le aziende partecipavano al capitale sociale di altre più piccole imprese
elettriche, talora controllandole solo finanziariamente, talora dirigendole
anche dal punto di vista tecnico.

Sindacati

La crescita della conflittualità nelle fabbriche e la nuova di linea di


neutralità nei conflitti di lavoro del governo Zanardelli favorirono la
diffusione e il consolidamento del modello associativo del sindacato operaio.

La conflittualità contadina si concentrò in Padania, Emilia e Puglia.


Inizialmente i proprietari risposero con l'introduzione di innovazioni tecniche
che facevano diminuire l'impiego di mano d'opera. Tuttavia già tra 1901 e 1902
nacquero diverse organizzazioni padronali di difesa, le agrarie, le quali però
non furono mai organismi stabili e solidi. Solo qualche anno più tardi, dopo i
poderosi scioperi del 1907-08, l'attività organizzativa riprese con vigore, per
avere come esito la costituzione della prima organizzazione sindacale di
carattere non locale: la federazione interprovinciale agraria, la quale nel 1910
andò a costituire la Confederazione nazionale agraria, con lo stesso obiettivo
di organizzare gli strumenti di reazione contro i sindacati bracciantili
(sanzioni, liste di licenziati, crumiraggio, mutua scioperi) che lottavano per
l'introduzione dell'imponibile di manodopera, cioè il controllo pianificato
delle assunzioni.
Lo sforzo per la costruzione di un'associazione sindacale nazionale urtò contro
resistenza antiche: proprietari di zone tranquille pensavano di potersi
disinteressare del problema della conflittualità; molti ritenevano restrittiva
l'azione della Cna modellata sui bisogni degli interessi dei colleghi emiliani e
pugliesi
Anche nel campo industriale all'inizio del secolo avevano visto il
moltiplicarsi di iniziative associative con esplicite funzioni sindacali. Ma
solo nel 1910 si costituì il primo organismo sindacale degli industriali attivo
su scala nazionale, la Confederazione italiana dell'industria, e sempre nel
solito anno si costituì la Associazione nazionale fra le società per azioni.
Nel 1987 si costituì la Federazione nazionale degli ordini sanitari.
Nel 1903 si era costituita la Confederazione nazionale delle federazioni ed
associazioni professionali di impiegati delle amministrazioni pubbliche e
private.
Nel 1908 la Federazione nazionali fra i sodalizi degli ingegneri e architetti
italiani
Nel 1909 l'associazione generale fra i magistrati italiani.
Nel 1911 la federazione nazionale tra gli avvocati e procuratori d'Italia

La politica al tempo di Giolitti.

Il movimento verso l'organizzazione non cancellava affatto le vecchie


segmentazioni. Permanevano ancora rivalità, fratture, contrasti interni.
La definizione di nuove strutture associative nazionali sembrava ridisegnare lo
spazio delle élites in una forma organizzativa chiaramente corporativa.
Le esigenze organizzative del mondo economico-sindacale non sembravano in grado
di modificare le forme della vita politica umana: ciò per la presenza dei
conflitti interni alle élites; preferenza per le aggregazioni politiche
notabilari; efficacia del sistema di mediazione notabilare.
Sin dal suo insediamento (3 novembre 1903) Giolitti costituì una
maggioranza conservatrice ma reclutata sulla base di un programma unitario,
coagulatesi attorno alla figura di un uomo. Le tecniche usate erano le solite.
L'organizzazione di trust e cartelli rese ancor più diretto il legame fra
l'esecutivo e i centri di potere, con una fitta trama di specifici scambi di
favori.
L'azione di Giolitti, pure tutta interna a una logica politica notabilare, era
ispirata a un progetto politico di grande ambizione e di grande lungimiranza:
accelerare il processo di integrazione delle masse popolari e degli organismi
politici che le rappresentavano, all'interno della cornice dello stato liberal-
costituzionale.
Il progetto di integrazione delle masse popolari nel quadro delle istituzioni
liberali fu perseguito attraverso operazione di avvicinamento tattico dei leader
ora socialisti ora cattolici, anche se con risultati modesti se non
controproducenti.

IDENTITÀ' BORGHESI, ARDORI PATRIOTTICI

Un nuovo linguaggio nazional-patriottico

Il disegno politico giolittiano finì per suscitare più malumori che


consensi.
L'attacco alla degenerazione prodotta dal tatticismo parlamentare di Giolitti si
univa a un dissenso profondo nei confronti dell'idea di un accordo con il Psi
Il dissenso antigiolittiano produsse un forte di movimento di critica da parte
di un'ampia costellazione intellettuale che animò l'esperienza di una fitta
serie di periodici: Leonardo, Hermes; Il regno, La Voce, Lacerba. Sopratutto su
Il Regno si posero le fondamenta del nazionalismo, che assunse forme
organizzative permanenti nel 1910, con la costituzione dell'ANI.
Questo universo intellettuale, "il vario nazionalismo", aveva un fondo comune
fatto di polemica antiparlamentare, necessità di difesa delle industrie
nazionali, spinta all'espansione coloniale. Infine idea di un'armonia sociale
che collegasse tutti i produttori nel perseguimento degli interessi della
nazione. L'identità nazionale veniva fissata in un campo semantico nuovo: era il
convinto trasporto verso un particolare assetto istituzionale, era l'opzione
protezionista-colonialista, era aggressiva rivendicazione di un profondo
rinnovamento.
Infine si enfatizzò il lato emotivo, precisandone il fondamento etnico-razziale.
Si sottolineava l'importanza della solidarietà tra le generazioni, di un
rapporto organico di solidarietà fra imprenditori e lavoratori, disciplinati
negli organismo corporativi di un nuovo sindacalismo nazionale
Prese a farsi strada un'accezione positiva del termine borghesia, borghesia
risvegliata della coscienza di sè, borghesia quale cardine delle nuova nazione
da costruire.
La borghesia, conscia del proprio ruolo, doveva affrontare la lotta di classe,
dotandosi degli stessi strumenti delle leghe socialiste.
Ma in realtà, per molti, la borghesia aveva due caratteri opposti: una parte
politicante, corrotta e chiacchierona, un'altra lavoratrice.
Un solco verticale divideva due Italie, ciascuna con il suo proletariato e la
sua borghesia, una metà nazionale, l'altra antinazionale.

Riscossa borghese

Diversi gruppi di imprenditori e agrari si avvicinarono al lessico del


nazionalismo, sopratutto riappropriandosi del termine borghese. Per loro tale
parola esprimeva un senso di orgoglio per le conquiste raggiunte. Ma c'era anche
un significato retorico-evocativo. Accettandosi di chiamarsi borghesi c'era
l'intenzione di non evitare la lotta di classe, di identificare un nemico
preciso nello scontro sociale.

Di fronte alla guerra


La simpatia crescente con le quali la borghesia guardava alle posizioni
interventiste fu incoraggiata dagli orientamenti di molte testate
giornalistiche. Quest'azione fu favorita dal convergere di considerevoli
finanziamenti forniti da un gruppo di influenti industriali - sensibili agli
ideali nazionalisti e/o interessati alle produzioni belliche - a giornali
interventisti (L'idea nazionale e il Popolo d'Italia)
In quel periodo tutti i quotidiani schierati su posizioni interventiste
incrementarono le vendite

Ardori patriottici

Nel 1915 si assistette a un recupero dell'idioma patriottico, su cui si


innestarono nuovi elementi che ne mutarono i caratteri costitutivi.
Le opinioni interventiste erano alimentate da un complesso di memorie e di miti
patriottici, che conducevano a identificare inequivocabilmente nell'Austria il
mito da combattere.
Il tema dell'intervento come difesa e esaltazione della nazione italiana fu
posto in connessione con una polemica selvaggia contro il parlamento e contro il
suo simbolo, Giolitti.
Nella primavera del 1915, mentre il governo si muoveva in direzione
dell'intervento (26 aprile, Patto di Londra - 3 maggio, denuncia della Triplice)
il parlamento era a maggioranza neutralista, tanto da costringere Salandra a
dimettersi (13 maggio)
Il dibattito politico assunse una violenza sino ad allora sconosciuta
Dopo vari rifiuti, il 16 maggio il re riaffidò l'incarico a Salandra. Alla
riapertura del parlamento (20 maggio) l'ingresso in guerra fu votato a
larghissima maggioranza (24 maggio entrata in guerra).
Tale decisione venne presa in un clima di assoluta ostilità nei confronti del
parlamento, sull'onda di una serie di violente manifestazioni extraparlamentari.
La camera si piegò alla volontà della piazza. Il massimo impegno patriottico era
tenuto a battesimo da una manifestazione di assoluta impotenza dell'istituto
della rappresentanza.

BORGHESIE NAZIONALFASCISTE

Sette anni

Due elementi caratterizzarono l'unità di quel periodo: la morte,


patriottica o politica, l'illegalità sovversiva, l'offesa alle prerogative del
parlamento.

Il successo del movimento fascista

La violenza fascista iniziò in modo sistematico a partire dall'eccidio d


Palazzo d'Accursio (21 novembre 1920). La violenza fu incoraggiata dalla
particolare atmosfera psicologica che la guerra aveva lasciato dietro di sè.
L'impiego della violenza era apertamente teorizzato e rivendicato dal movimento
fascista come tratto identitario profondo, il riassunto delle virtù etiche del
militante: coraggio, forza, sprezzo del pericolo, intollerante superiorità nei
confronti del nemico.
L'atteggiamento di molti liberali nei confronti del fascismo era paterno.
Il fascismo seppe sfruttare alla perfezione alcuni contesti politici:
l'ostilità e la paura nei confronti del Psi, ravvivata dal neutralismo e dal
massimalismo. Il neutralismo fissò intorno al Psi un alone di disfattismo e di
antipatriottismo.
Con la scelta massimalista compiuta nel congresso del 1919 i socialisti
accettavano l'idea della loro totale estraneità alle istituzioni parlamentari,
che dovevano essere abbattute e sostituite da organismi nuovi.
L'incapacità di azione della costellazione liberale, convinta di riorganizzare
la propria azione allo stesso modi di prima della guerra, alla quale venne meno
anche l'appoggio dei cattolici, organizzatisi nel partito popolare (18 gennaio
1919)
il risultato delle elezioni (16 novembre 1919) fu disastroso per le forze ex
liberali.
L'area liberale e patriottica era completamente disorientata: dominavano ancora
il personalismo, il localismo, si scontava la mancanza di una struttura
organizzativa forte. Nelle zone dove il conflitto sociale era più forte nacquero
numerose associazioni patriottiche-antibolsceviche, le quali cominciarono a
rilanciare il termine borghesia come codice di autoidentificazione socio-
politica.
Ma dall'inverno 1920 vi fu un profondo cambiamento del programma dei fasci, che
si orientarono verso un programma liberista. Nell'autunno iniziò la sistematica
diffusione delle azioni squadriste. Il fascismo sembrò offrire garanzie
organizzative più di qualunque altra organizzazione antisocialista e
patriottica.
Nel marzo 1920 si costituì la confederazione generale dell'agricoltura con
l'obiettivo di assumere la tutela e incrementare il progresso dell'industria
agricola.
Un poderoso sostegno al fascismo venne dai proprietari terrieri che avevano
acquistato la loro proprietà negli anni della guerra e del primo dopoguerra, in
seguito a un processo di maestosa redistribuzione delle terre.
A questa dinamica influirono tre processi:
il fortissimo processo inflazionistico, avviatosi dal 1915 in seguito alle
modalità di finanziamento dell'impresa bellica (aumento della circolazione
cartacea, emissioni di titoli)
movimento migratorio e rientro di emigrati che incrementò la domanda di terra.
motivazioni extraeconomiche: sogno della terra, o la spinta a vendere che molti
proprietari
ebbero a causa dei danni economici seguiti alla congiuntura bellica, oltre che
dalla paura di fronte alla forza del movimento rivendicativo.
Nel periodo bellico il settore industriale aveva vissuto un periodo di
grande espansione in tutti i settori: il coordinamento delle commesse pubbliche,
l'aumento della quota non tassabile degli utili destinati a reinvestimento
spinse molte imprese a ampliare impianti e produzioni. La metalmeccanica
costituì una delle aree produttive in cui l'espansione fu più imponente.
La fine del conflitto impose la necessità di riconvertire gli impianti per tipi
di produzioni diverse da quelle belliche.
Il 29 marzo 1919 la nuova confederazione generale dell'industria venne fondata a
Roma.
In questo periodo le questioni che suscitarono la massima preoccupazione negli
ambienti imprenditoriali furono la linea di politica economica e fiscale del
governo Nitti e la vigorosissima ripresa della conflittualità operaia.
La linea di neutralità sostenuta dal governo Giolitti anche in occasione
dell'occupazione delle fabbriche (settembre 1920) venne percepita come un
tradimento. Da qui ebbe forte spinta l'avvicinamento, in forme varie e diverse,
al movimento fascista, anche in virtù di convergenze di programma economico.
Le élites professionali e intellettuali furono in molti casi spinte verso il
fascismo da un senso di privazione di status nei confronti delle altre categorie
sociali.
Le difficoltà economiche del dopoguerra rese inquiete molte categorie (reduci e
laureati) , rendendole disponibili ad accettare soluzioni politiche radicali.

Mussolini e la borghesia

Il fascismo non si presentò mai come il partito della borghesia. Vi sono


varie oscillazioni sull'utilizzo che il movimento fa del termine borghesia:
A volte è sinonimo di nemici del fascismo; in tali situazioni si presenta il
fascismo come movimento che intende dare alle classi lavoratrici una guida
diversa dalla rappresentanza antinazionale e bolscevica del Psi.
Rifiuto della patente di braccio armato della borghesia, rivoltando l'accusa
verso il Psi, accusato di essere il vero partito popolato di borghesi
La terza variante rifiuta ogni distinzione tra proletariato e borghesia,
operando la distinzione tra borghesia e proletariato che lavoravano per fare più
grande la nazione e borghesia improduttiva e proletariato ubriacato dalle teorie
del socialismo asiatico
In questa costruzione retorico-ideologica si ripresenta il cleavage tra Italia
buona e Italia cattiva, tra nazione e antinazione, tra l'Italia dell'intervento
e l'Italia del tradimento.
Questo permetteva di toccare uno dei topos della retorica fascista: il tema del
rinnovamento nazionale, della rivoluzione nazionale, di uno stato espressione
delle forze autenticamente nazionali.
Il fascismo non era un movimento borghese ma un movimento nazionale: sosteneva
la coesione fra i produttori, le rivendicazioni espansioniste, la necessità di
uno stato che facesse a meno di politici e parlamenti, il mito della guerra,
l'odio per le forze che l'avevano osteggiata

Epilogo

Mussolini seppe impossessarsi di un idioma politico, quello nazional-


patriottico, che dall'unità alimentava profondamente le identità politiche delle
disperse borghesie italiane. Il fascismo prometteva molte soluzioni agli
specifici problemi che l'uno o l'altro reticolo sociale borghese avevano di
fronte a sè in quel turbolento dopoguerra. Il fascismo seppe toccare corde
ideali profonde. In effetti era anche uno dei movimenti più spiritualistici, più
idealistici e più religiosi che si fossero visti, un movimento che traduceva in
identità politica la mistica della nazione, l'emozione oscura per la patria.
Anche se era una spiritualità violenta e intollerante

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