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INTRODUZIONE

PROFILO COSTITUZIONALE
Per organi costituzionali romani si intende l'insieme delle istituzioni e dei principi tramandati
attraverso gli usi e costumi degli antenati (mos maiorum), anche se spesso non totalmente codificati.

Storia
La creazione di una costituzione romana non fu certamente un atto formale ed ufficiale. Si trattò
invece di un insieme di norme largamente non-scritte e costantemente in evoluzione. Rappresentò
un insieme di regole di controllo e di equilibrio tra le differenti funzioni e poteri, costruiti sulla base
di una loro separazione, attraverso l'esercizio del diritto di veto o la necessità dei requisiti
del quorum nelle assemblee cittadine, tenendo presente i termini di scadenza di ciascun mandato ed
il diritto di ottenere elezioni regolari. Molti concetti costituzionali moderni sono, quindi, derivati
dall'insieme delle istituzioni della costituzione romana.
Con il trascorrere del tempo, istituzioni e regole continuarono ad evolversi. Dal 573 a.C., le
istituzioni regie si trasformarono in quelle repubblicane, e dal 27 a.C. in quelle imperiali. Dal 300
d.C. evolsero dal modello alto imperiale a tardo imperiale. Tutti questi continui e graduali
cambiamenti determinarono, di fatto, quattro differenti modelli istituzionali, uno per ciascuno dei
periodi storici sopra elencati.
La costituzione romana fu una delle poche costituzioni esistenti prima del XVIII secolo. Nessun
altro fu a noi noto come quella romana. E nessun altro governò mai un così vasto impero per così
tanto tempo. La costituzione romana rappresentò, pertanto, un modello, spesso unico, per molte
delle costituzioni moderne, almeno nella loro fase di iniziale elaborazione. Per questo, molte
moderne costituzioni condividono una simile, se non identica, struttura di quella romana (ad
esempio la separazione dei poteri, di controllo e di bilanciamento delle cariche istituzionali).

Senato
Il Senato romano fu l'istituzione di maggior durata dell'intera storia romana. Fu creato
probabilmente prima dell'elezione al trono del primo Rex. Sopravvisse alla caduta
della monarchia nel 510 a.C., della repubblica nel 27 a.C. e dell'impero nel 476 d.C..
Rappresentava, in contrasto con molte moderne istituzioni denominate anch'esse "Senato", non un
corpo legislativo.
Il potere del Senato alternò periodi di alti e bassi. Durante il periodo regio, fu poco più di un organo
consultivo del Rex. L'ultimo re di Roma, il tiranno Tarquinio il Superbo, fu rovesciato grazie ad
un colpo di Stato progettato dal corpo dei senatori.
Durante la prima repubblica, il Senato fu politicamente debole. Durante questi primi anni,
i magistrati esecutivi erano abbastanza potenti. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica fu
probabilmente più graduale rispetto a quanto le leggende suggeriscano. E così ci volle parecchio
tempo perché questi magistrati esecutivi si indebolissero, prima che il senato fosse in grado di
imporre la sua autorità su tali magistrati. Verso il periodo medio repubblicano, il senato ha
raggiunto l'apice della sua potenza repubblicana. Ciò avvenne principalmente per la convergenza di
due fattori:
 i plebei avevano da poco raggiunto la piena emancipazione politica, risultando meno
aggressivi di come erano stati in passato, quando premevano per ottenere riforma radicali e
maggior considerazione da parte dell'aristocrazia senatoria (nobilitas);
 il periodo fu caratterizzato da guerre prolungate contro nemici stranieri (basti ricordare le
tre guerre puniche).
Il risultato fu che sia le assemblee popolari sia i magistrati esecutivi si appellarono sempre più
spesso alla saggezza collettiva del Senato. La tarda repubblica vide, invece, un nuovo calo di potere
dell'ordine senatorio. Questo declino iniziò con le riforme radicali dei tribuni della plebe Tiberio e
Gaio Gracco. Questo declino fu in gran parte causato dalle lotte di classe che avevano dominato la
repubblica del periodo. Il risultato finale fu il rovesciamento della repubblica, e la nascita
dell'Impero romano.
Il Senato dell'inizio del principato continuò a rimanere debole come lo era stato nell'ultima parte del
periodo repubblicano, quello delle guerre civili, dalla dittatura di Silla allo scontro, prima tra Cesare
e Pompeo, poi tra Ottaviano ed Antonio. Tuttavia, quando il passaggio dalla repubblica all'impero fu
completa, il Senato sembra tornò ad avere maggiori poteri, come mai prima d'ora aveva avuto. Tutti
i poteri costituzionali (legislativo, esecutivo e giudiziario) furono trasferiti al Senato. A differenza,
però, del Senato di epoca repubblicana, quello imperiale era sottomesso alla figura dell'imperatore,
il quale attraverso l'ordine senatorio esercitava i suoi poteri autocratici. Verso la fine del principato,
il potere del senato tornò a ridursi notevolmente, fino ad essere quasi irrilevante, e non riacquistò
più l'antico splendore dei primi tempi imperiali.
Gran parte della letteratura superstite del periodo imperiale venne scritta da senatori. In larga
misura, ciò dimostra la forte influenza culturale del Senato, anche durante il tardo periodo
imperiale. L'istituzione sopravvisse alla caduta dell'Impero romano d'Occidente(476 d.C.), e godette
di una modesta ripresa quando la potenza imperiale fu ridotta al governo della sola Italia. La classe
senatoriale venne infine danneggiata dalle guerre gotiche.

Assemblee legislative
La prima tra le assemblee romane erano i Comitia curiata, che vennero istituiti durante la prima
monarchia. Il suo solo ruolo politico era di eleggere i nuovi re (Rex). Qualche volta il re poteva
chiedere che i suoi decreti venissero ratificati dall'assemblea. Durante la prima repubblica,
i Comitia curiata erano la sola assemblea legislativa dotata di potere. Poco dopo l'inizio della
repubblica, comunque, i Comitia centuriata ed i Comitia tributa divennero le principali assemblee
legislative.
La maggior parte delle assemblee legislative moderne sono organismi composti da rappresentanti
eletti. I loro membri in genere propongono e dibattono sulle proposte di legge. Queste moderne
assemblee usano una forma di democrazia rappresentativa. Al contrario, le assemblee
della Repubblica romana utilizzavano una forma di democrazia diretta, dove gli stessi cittadini
votavano direttamente, piuttosto che i rappresentanti eletti. A questo proposito, le proposte di legge
(chiamato plebiscito) erano molto simili ad un moderno referendum popolare.
A differenza delle moderne assemblee, non erano bicamerali. Vale a dire che le proposte di legge
non dovevano superare le assemblee più importanti per essere convertite in legge. Inoltre, nessun
altro ramo poteva ratificare un disegno di legge (rogatio) in modo che diventasse legge (lex). I
membri di queste assemblee non avevano alcuna autorità per introdurre nuove proposte di legge a
titolo personale; solo i magistrati esecutivi potevano proporre nuovi disegni di legge. Questa
disposizione era simile a quello che troviamo ancora in molti stati moderni. Di solito, i normali
cittadini non potevano fare proposte di legge senza una normale elezione popolare. A differenza di
molte assemblee moderne, quelle romane avevano anche funzioni giudiziarie.
Lo storico greco Polibio aggiunge che il popolo aveva importanti poteri secondo la costituzione
repubblicana, potendo conferire onori o infliggere punizioni, provvedimenti che costituivano i
mezzi attraverso i quali erano mantenuti i regni e gli Stati, ovvero ogni forma di vita sociale.
[2]
Spesso il popolo era giudice sulla consistenza di una multa, soprattutto nei casi in cui il
risarcimento del danno fosse considerevolmente elevato, in modo particolare quando si trattava
importanti ex-magistrati. E sempre il popolo poteva decidere sulle cause capitali. [3] Nel caso che
qualcuno venisse giudicato per un reato che comportava la pena capitale, poco prima della
condanna, era consuetudine presso i Romani concedere la possibilità di accettare un volontario
esilio, possibilità che era concessa prima della ratifica del verdetto, vale a dire prima del voto
dell'ultima tribus suffragiorum.[4] Il popolo poteva, inoltre, conferire le pubbliche cariche a coloro
che ne erano meritevoli; approvare o non approvare le leggi; confermare una dichiarazione di
guerra, ratificare un patto di alleanza, la fine di una guerra o un trattato di pace, rendendo ciascuno
di questi atti esecutivo o meno.[5] Polibio concludeva, dicendo:
«Al popolo è riservata una sfera di competenze molto ampia e il sistema di governo si può così
definire di tipo democratico.»
(Polibio, VI, 14.12.)
Con la nascita dell'Impero, i poteri delle assemblee vennero trasferiti al Senato. E quando
quest'ultimo eleggeva i magistrati, ciò sarebbe spettato alle antiche assemblee. Di tanto in tanto,
l'imperatore presentava alcune leggi ai Comitia tributa per chiederne una ratifica formale. Le
assemblee legislative continuarono invece a ratificare le leggi fino al principato di Domiziano. Da
questo momento in poi, le assemblee vennero utilizzate più semplicemente da parte dei cittadini,
come mezzo per riunirsi ed organizzarsi.

Magistrature
Durante il periodo regio, il re (rex) fu l'unico magistrato esecutivo dotato di ogni potere. Egli era
assistito da due questori, che lo stesso nominava. Egli poteva anche nominare altri suoi assistenti
per altre attività. Alla sua morte, un interré presiedeva in senato e nelle assemblee, fino a quando
non era nominato un nuovo re.
Sotto il periodo repubblicano, i magistrati del potere esecutivo erano composti
da ordinari e straordinari. Ogni magistrato ordinario veniva eletto da una delle due
maggiori assemblee romane. Il principale magistrato straordinario, il dittatore, era eletto previa
autorizzazione del Senato. La maggior parte dei magistrati erano eletti ogni anno e rimanevano in
carica normalmente un solo anno, oppure nel caso dei censori per diciotto mesi. L'inizio del
mandato cadeva nel giorno di Capodanno, la fine invece nell'ultimo giorno del mese di dicembre.
I due magistrati ordinari più alti in grado erano i consoli ed i pretori, che avevano un'autorità
chiamata imperium (dal latino, comando). L'imperium permetteva a questi magistrati di comandare
un esercito. I consoli avevano un grado di comando (imperium) più elevato di quello dei pretori.
Entrambi questi magistrati, così come i censori e gli edili curuli, erano considerati "magistrati
curuli", ovvero potevano sedersi sulla sedia curule, che rappresentava una condizione particolare e
più elevata di potere. Consoli e pretori erano poi assistiti da alcune guardie del corpo,
chiamate littori, le quali portavano i cosiddetti fasces (asta con un'ascia incorporata, simbolo del
potere coercitivo della res publica). I questori non erano invece magistrati curuli, ed avevano poco
potere reale.
In caso di estrema emergenza, veniva nominato un dittatore. Egli normalmente nominava come suo
collaboratore un Magister equitum(comandante della cavalleria). Sia il dittatore sia il magister
equitum erano magistrati straordinari, e detenevano entrambi il potere di comando
denominato imperium. In pratica, il dittatore aveva le funzioni del console ordinario, senza però
essere sottoposto a controlli costituzionali sul suo potere. Dopo il 202 a.C., la dittatura cadde in
disuso. Durante le emergenze successive, il Senato dichiarava tale stato di calamità, attraverso un
atto chiamato senatus consultum ultimum ("ultimo decreto del Senato"). Ciò sospendeva il normale
governo e dichiarava qualcosa di analogo alla legge marziale ed i consoli di fatto erano investiti dei
poteri di un dittatore.
Dopo la fine della repubblica, le vecchie magistrature straordinari (dittatore e magister militum)
vennero abbandonate, le altre (consoli, pretori, censori, questori, edili e tribuni) persero la maggior
parte dei loro poteri. L'imperatore (princeps) era diventato unico padrone della res publica.
L'instaurazione dell'Impero equivalse ad una restaurazione della vecchia monarchia. L'imperatore
ottenne un potere incontrastato nello Stato, il senato un consiglio consultivo impotente, mentre le
altre forme di assemblee romane erano totalmente irrilevanti.

LE ISTITUZIONI DI GAIO
Le Istituzioni sono un'opera didattica in quattro libri composta dal giurista romanoGaio tra il 168 e
il 180 d.C..
Il carattere di assoluta eccezionalità dell'opera consiste nel fatto di essere l'unica opera della
giurisprudenza romana classica ad essere pervenuta fino ai nostri giorni direttamente, senza il
tramite di compilazioni che ne abbiano potuto alterare il significato.

Le Istituzioni sono divise in quattro libri, detti commentarii. La materia trattata è articolata in tre
parti: personae (primo commentario), res (secondo e terzo commentario) e actiones (quarto
commentario). Per res si intendono i rapporti patrimoniali, compresi quelli di natura relativa, come
le obligationes. Sempre nella parte dedicata alle res si parla anche delle successioni. Nella parte
dedicata alle actiones Gaio si occupa del processo formulare, benché per spiegare le formulae quae
ad legis actiones exprimuntur, egli tratti anche delle antiche legis actiones.

Gaio inizia ognuna delle tre parti in cui la sua opera è divisa (personae, res, actiones) con
una summa divisio. Tramite questo processo schematico, che, partendo da un singolo concetto, fa
sviluppare in varie direzioni il discorso del giurista (è il procedimento diairetico greco, tipico dei
giuristi romani, che amavano esporre per distinctiones), Gaio riesce a ottenere un'esposizione
precisa e semplice, facilmente comprensibile a tutti. Questa tecnica espositiva, insieme alla struttura
dell'opera in tre grandi filoni, è probabilmente la ragione principale del successo ottenuto dalle
Istituzioni. Entrambi questi aspetti infatti verranno anche ripresi nelle ben più aggiornate Istituzioni
di Giustiniano.

Brevemente, la prima summa divisio, riguardante le personae, è riportata in Gai I, 9-12:

Da qui Gaio prosegue scendendo nei particolari e scindendo i liberi in "ingenui" (nati liberi) e
"libertini" (manomessi) e questi ultimi in "cives Romani" (cittadini), "Latini" e "dediticii", dei quali
si occupa successivamente.
La summa divisio riguardante le res si trova in Gai. II, 1-2 e seguenti:

La discussione prosegue quindi dividendo le res divini iuris in sacrae, religiosae e sanctae, e le res
humani iuris in privatae e publicae.
La summa divisio riguardante le obligationes, piuttosto particolare in quanto Gaio commette qui un
piccolo errore, confondendo species e genus, si legge in Gai. III, 88:

Qui Gaio definisce contratto e delitto due species e successivamente descrive i contratti produttivi
di obbligazioni in quattro genera, invertendo così il rapporto tra genus e species.

I quattro tipi di contratto sono i contratti reali (re, si perfezionano col trasferimento della cosa, come
mutuo, deposito e comodato), i contratti verbali (verbis, si perfezionano con l'uso di parole solenni,
come la sponsio e la stipulatio), i contratti letterali (litteris, si perfezionano tramite la redazione
scritta su un registro, il codex accepti et expensi) e i contratti consensuali (consensu, si perfezionano
con il semplice consenso delle parti, sono quattro: "emptio-venditio", la compravendita, "locatio-
condutio", la locazione-conduzione, "mandatus", il mandato, "societas", la società).

Questa divisione basata sulle fonti delle obbligazioni subirà molte revisioni e molte interpretazioni e
verrà presto ampliata, prima nelle res cottidianae (nelle quali verranno aggiunti le variae causarum
figurae) e poi nelle Istituzioni di Giustiniano (dove si distinguerà fra "quasi contratti", ossia atti
leciti produttivi di obbligazione, ma senza una base consensuale, e i "quasi delitti", ossia atti illeciti
produttivi di obbligazione, ma caratterizzati dall'assenza di dolo).
RIFLESSIONI SUL POSSESSO – DISPENSA
CAPIRTOLO UNO – Il possesso nel diritto romano tra corpus e animus: dall’antichità alla
modernità

A detta di Bonfante “la nozione di possesso è la più controversa del diritto”.


Ogni mutamento di uno stato di possesso è interpretato come turbamento dell’ordine vigente che
va necessariamente ristabilito, nell’ottica di una società giuridicamente organizzata.

Dunque, il possesso assolve ad una funzione di garanzia dell'ordine pubblico consentendo di


risolvere i conflitti relativi alla materiale disponibilità delle cose e all'esercizio di poteri di fatto su
queste.
Quindi la tutela del possesso nasce per tutelare la pace sociale contro la violenza privata.

Il recente processo di dematerializzazione della ricchezza e il venir meno della fisicità quale
requisito indispensabile del bene, rendono necessaria una revisione dell’istituto del possesso, che
regola l’appartenenza delle cose agli individui, e dei suoi elementi costitutivi: corpus e animus.
L’esigenza di nuovi studi è strettamente collegata alle problematiche connesse alla sua circolazione.

Lo stesso Savigny dice che il fondamento del rapporto sta nel fatto stesso del possesso e la
persona del possessore: si dà rilievo quindi al senso soggettivo (visione volontaristica), ed è tale
rapporto che nella società moderna rileva ai fini della semplificazione della circolazione dei beni.

Nel BGB e ZGB, Codice civile tedesco e svizzero, ai paragrafi 854 e 920, il possesso compare,
come univoco concetto, quale potere di fatto esercitato su una cosa, diversamente fa invece il
diritto romano superando lo storico e tradizionale dualismo possesso/detenzione.
Nel Codice civile tedesco, la detenzione per conto di altri è riportata al possesso, inteso quale
istituto destinato a proteggere l’utilizzazione economica della cosa attraverso la tutela dell’attività di
colui che è in contatto con essa.

La distinzione tra possesso e detenzione fondata sull’animus rem sibi hadendi (intenzione di tenere
una cosa come fosse propria) accolta nel diritto romano classico ritorna nel paragrafo 309
dell’ABGB ove si distingua tra:
-- possessore che detiene la cosa con l’intento di averla per sé,
-- detentore che ha a disposizione la cosa ma ne riconosce la signorìa altrui.
(detenzione come possessio naturalis a cui non si poteva applicare la tutela interdittale)

Nel nostro ordinamento il possesso quale proprietà in fieri (di fatto) è disciplinato nel CC alla fine
del libro III dedicato a beni, proprietà e altri diritti reali, all’art 1140 cc: il possesso è il potere
sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro
diritto reale. Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della
cosa.

Si instaura quindi la possibilità di modificare la propria situazione possessoria.


Recependo la detenzione, che pure non si definisce, e capendo ciò dal secondo comma del 1140,
acquisiamo quindi la visione soggettiva.

Il concetto di possesso fu già accolto nel cc del 1865 che collocava l’istituto nel libro II dedicato
alla proprietà e affermava, all’art. 690: il possesso era privo di effetto giuridico se possesso delle
cose di cui non si può acquistare proprietà.

L’istituto sopravvive dal diritto romano quale res facti produttiva di effetti giuridici ma subisce
anche influenza da diritto germanico e canonico.
 L’istituto nel diritto italiano, ispirandosi al diritto romano, si fonda su corpus e animus.

 Invece l’acquisto dei diritti dei beni mobili a non domino (da chi non è proprietario) deriva
dal diritto germanico.
Nel diritto germanico l’istituto corrispondente al possesso era la Gewere, si sostanziava in un
potere di fatto sulla cosa, legato all’atto di vestire la mano con un guanto quale segno di
riconoscimento della potestà sulla cosa.
Istituto che comprendeva indifferentemente i concetti di proprietà, possesso e usufrutto.
Esso si sostanziava in un rapporto materiale ed esteriore tra soggetto e cosa ed indicava la volontà,
tutelata dalla legge, di tenere la cosa in proprio potere.
Si tratta quindi dell’esercizio del relativo diritto finché di questo non si provava l’esistenza.
Il rapporto materiale era esteriormente identico, sia che la cosa fosse in proprietà, sia che fosse in
possesso. Diverso era l’animus, ma questo per il diritto germanico non era rilevante.
Sopra il medesimo oggetto potevano coesistere più Gewere a diverso titolo e tutte ugualmente
protette dall’ordinamento.

 Il principio in base al quale nell’azione di reintegrazione la difesa si applica anche alla


detenzione e allo spoglio non violento deriva dal diritto canonico. Il diritto canonico, invece,
ampliò la difesa del possesso estendendo l’actio spolii alla detenzione. Si concesse l’actio spoli a
chi era stato ingiustamente spogliato delle sue cose e veniva accusato da chi aveva commesso lo
spoglio o da altri. L’actio spolii divenne istituto di tutela processuale del possesso.

Del diritto canonico l’influenza è chiara nell’art 1168 co.2 cc che attribuisce al detentore l’azione di
reintegrazione quando questi agisce a difesa della posizione del possessore e non della propria.
Nel diritto romano la tutela possessoria non si estendeva alla detenzione. L’art 1145 cc stabilisce
che il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto, ma “nei rapporti
tra privati è concessa l’azione di spoglio rispetto ai beni appartenenti al demanio pubblico, ai beni
delle province e dei comuni soggetti al regime proprio del demanio pubblico”.
La relazione tra possesso e proprietà è forte perché si riconosce una collocazione alla possessio
grazie ad aver trovato quei requisiti che dal possesso mi fanno passare alla proprietà.

L’art 1140 cc sulle orme dell’esperienza romana definisce il possesso quale: potere di fatto sulla
cosa che si manifesta in un attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto
reale.

Il codice vigente definisce il possesso come l’esteriorizzarsi di proprietà o altro diritto reale.
La proprietà è il diritto, il possesso il potere.
Nella proprietà il diritto è la causa e il potere l’effetto.
Nel possesso il potere è la causa e il diritto l’effetto.
Il potere del possessore è rilevante giuridicamente nella misura in cui si esplichi sulla cosa in
termini corrispondenti a proprietà o altro diritto reale. Il potere sulla cosa rappresenta così la
manifestazione della situazione di fatto.

L’art 1140 co.2 postula l’esigente dell’animus quale elemento costitutivo autonomo rispetto al
corpus stabilisce che “si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona che ha la
detenzione della cosa”. I romani ci stavano arrivando quando hanno parlato dei soggetti limitati,
concependo il soggetto non subito per estranea persona, ma primariamente tramite membri della
famiglia( concependo le figure del procurator)
Si esprime così l’adesione del nostro ordinamento alla teoria soggettiva di Savigny, egli fonda il
possesso su corpus e animus e distingue possesso da detenzione (teoria soggettiva), per von
Jhering non è l’animus domini (intenzione di essere il proprietario) ma la causa possessinis a
distinguere possesso da detenzione (visione oggettiva, prospettiva non dell’animus, di non fare di
ciò la giustificazione, ma è nella causa che si ha: visione molto più tecnica del concetto di possesso,
liberandosi quindi del concetto di detenzione che provoca problemi, perché è complesso giustificare
la circolazione di un bene quando non parliamo di un bene ma di una situazione di fatto.

L’animus nel nostro ordinamento non è solo la volontà di esercitare il potere ma la volontà di
esercitare un diritto reale. Nell’art 1141 c.c. si deduce che il potere di fatto non basta a costituire
il possesso ove sia configurabile l’animus.

Il possesso non si esaurisce nel corpus (materiale disponibilità della cosa) che può anche mancare
temporaneamente senza venir meno del possesso. La conservazione del possesso, infatti, non
richiede atti continui di esercizio essendo sufficiente che il bene si trovi nella disponibilità
IDEALE del possessore: qualora il possessore eserciti un controllo totale sulla cosa, il potere su
essa può manifestarsi anche senza una relazione fisica immediata.

Il possesso può essere conservato solo animo purchè il possessore sia in grado di ripristinare AD
LIBITUM (senza limiti) il contatto materiale con la cosa (Cass 2016, n.1723).

Dalla divisione tra possesso e disponibilità materiale del bene ha origine la seguente definizione.
La DETENZIONE è la materiale relazione con la cosa e il possesso in nome altrui in cui si
presuppone l’animus detinendi e il riconoscimento che altri siano i possessori della cosa su cui si
esercita il potere.

Il Codice civile recepisce la distinzione possesso/detenzione dal diritto romano, ma non definisce
la detenzione limitandosi a stabilire la funzione in rapporto al possesso.
L’art 1141 cc disciplina il mutamento della detenzione in possesso: “Si presume il possesso in
colui che esercita il potere di fatto, quando non si prova che ha cominciato a esercitarlo
semplicemente come detenzione.”

In tale articolo l’elemento spirituale è più evidente. Il potere di fatto è sufficeinte a dar vita alla
detenzione senza corrispondenza all’esercizio di proprietà o altro diritto reale. Quindi, dimostrato il
fatto del possesso si presume l’animus rem sibi habendi.

La detenzione è definita quindi come mero potere di fatto esercitato sulla cosa, che non ha
corrispondenza nella proprietà o in altro diritto reale. Non è altro che la disponibilità di fatto della
cosa in nome altrui che prescinde dall’elemento psicologico del soggetto e non produce effetti
giuridici. Nel nostro ordinamento quindi l’elemento psicologico è fondamentale.
La dottrina dell’animus è collegata alla distinzione tra detenzione e possesso che rispecchia
l’antitesi tra possessio e possessio naturalis. Noi abbiamo colto il rapporto con la proprietà ma non
la subordinazione ad essa: il peso dato agli elementi è stato rilevante, dando rilievo all’indipendenza
dell’animus, avendo quindi sottolineato la detenzione.

Nelle società moderne il superamento della distinzione tra possesso e detenzione fondata sulla
natura del diritto a immagine del quale è esercitato il potere può condurre a ipotesi più opportune
laddove, ad esempio, il godimento del bene è destinato a evolversi in proprietà per volere delle
parti. Si pensi al rent to buy, contratto introdotto dal decreto “Sblocca Italia”, D.L. 133/2014
convertito in legge 164/2014 che fonde un contratto di locazione e un preliminare di vendita
immobiliare e consente a un sogg. di essere conduttore di un immobile e diventarne proprietario alla
scadenza prestabilita pagando un canone in rate mensile assimilabile a un affitto.

Seppure il nostro ordinamento si ponga in una condizione di continuità con la tradizione giuridica
antica oggi si sente la necessità di valorizzare la definizione del possesso non solo in termini di
potere ma anche in termini di autonomia concettuale collegata al valore d’uso dei beni. Il bene
assume valore in base alla sua finalità, alla sua prospettiva pragmatica (ciò che hanno colto i
tedeschi, mentre noi italiani abbiamo sottolineato l’elemento soggettivo).

Solo in tale ottica, infatti, si potrebbe esprimere la relazione di materiale disponibilità tra un
soggetto e la res, oggetto di cessione, nei termini di un'attribuzione patrimoniale, evidenziando il
collegamento tra passato e presente che va identificato nei modelli diversi di emersione della
negozialità di una situazione possessoria.

Tale prospettiva consentirebbe di teorizzare che anche una situazione possessoria – situazione di
fatto e perciò non idonea a circolare inter vivos - possa circolare, semplificando quindi la relazione
soggetto/res agevolando la circolazione dei beni, nel rispetto della certezza del diritto.

Come soluzione, si potrebbe immaginare un contratto atipico di immissione nel possesso del
diritto moderno, ma la giurisprudenza è contraria in quanto oggetto del contratto non possono essere
mere situazioni di fatto.

Un'attenta e approfondita analisi delle fonti condotta in tale nuova prospettiva potrebbe, tra l'altro,
indurre a credere in una componente giuridica del possesso che permetterebbe di arrivare ad
individuare nel possesso una sorta di diritto soggettivo attraverso l’espressione del potere della
volontà contenuto nel possesso.

Ciò nella propsettiva di avviare un processo di liberalizzazione dei rapporti qualificando anche
un valore economico e quindi anche nella necessità di allontanare il possesso dalla configurazione
di una situazione di fatto. Se il possesso viene interpretato come bene patrimoniale e quindi
commerciabile, esso può essere oggetto di un contratto traslativo che trasferirebbe non una
situazione di fatto ma il bene possesso con rilievo patrimoniale, semplificando le dinamiche
relative alla circolazione (anche in merito alla teorizzazione della circolazione del solo possesso).

 All’origine dell’istituto quindi i giuristi riconoscevano nel possesso una situazione di


disponibilità di fatto in cui si trovava un soggetto in relazione ad una cosa verso cui questo di
comportava come signore.

I mezzi di trasferimento del possesso sono la traditio brevi manu e il costitutum possessorium.

Con il costitutum possessorium c’è il trasferimento del possesso senza consegna della cosa. È
un modo di acquisto del possesso a titolo derivativo che si delinea quando il precedente
possessore diventa detentore e il nuovo diventa tale senza consegna della cosa (da possesso a
detenzione).
Vi è mutamento dello stato soggettivo, così come nella traditio brevi manu in cui però il precedente
detentore diviene proprietario per effetto di un titolo che cambia la natura del potere di fatto sulla
cosa (da detenzione a possesso).

Tali istituti non sono chiari nelle fonti. Bisogna valutare caso per caso nei contratti ad effetti reali in
cui la consegna del bene è successiva per stabilire se l’alienante rimane possessore fino alla
consegna o è detentore rispetto all’acquirente che è possessore indipendentemente dalla consegna.
In tale contesto rileva il titolo, il contenuto del contratto e l’animus.

Queste argomentazioni presuppongono un analisi delle origini storiche della formulazione dei
concetti di animus e corpus nell’esperienza giuridica romana e della loro funzione relativamente
alle dinamiche inerenti al possesso.
Nel diritto romano la corrispondenza tra potere sulla cosa e contenuto del diritto reale identificava il
tipo di possesso.
Principale tipo era il possesso che corrispondeva al contenuto della proprietà: il possesso di chi
disponeva della cosa come proprietario.

Nel tempo si distinsero poi i possessi minori, corrispondenti al contenuto della superficie,
dell’enfiteusi, dell’usufrutto, della servitù e del pegno, figure meritevoli di tutela analoga a quella
del possessore uti dominus, ma estranee alla nozione propria di possesso.

L’identificazione del possesso con l’esplicazione di un potere corrispondente all’esercizio di un


diritto reale non è concezione del possesso originaria, ma tarda. In base ad essa in età giustinianea
il possesso era una situazione interinale riconosciuta e tutelata dal diritto in quanto sfociasse
nell'acquisto della proprietà. Soltanto in sede interpretativa poi la dottrina del diritto romano
comune distinguerà il possesso dalla detenzione quali situazioni di disposizione di fatto in ordine
ad una cosa, ma accompagnata solo la prima dall’intenzione di tenere la cosa stessa come propria,
con animus.

L’essenza propria del possesso storicamente appare un’attività esercitata su una cosa materiale
che produce il sorgere di una posizione giuridica soggettiva che ha come contenuto la facoltà
di continuare nell’esercizio dell’attività a meno che non si profili una situazione di illegittimità
dovuta al contrasto con una preminente posizione giuridica altrui.

Nell’esperienza giuridica romana sorsero gli interdicta retinendae e recuperandae possessionis e


con essi la possessio ad interdicta in quanto nei casi incerti, possibili focolai di tensioni, si ritenne
necessario non solo stabilire chi fra i due aspiranti fosse possessore della cosa ma anche mantenere
nel possesso chi vi fosse disturbato da ingerenze esterne e rimettere in possesso, indipendentemente
dalla proprietà, chi ne fosse stato privato.

L’animus rem sibi habendi era l’elemento che distingueva il possesso, tutelato dagli interdicta,
dalla situazione di chi teneva la res in forza di un contratto vincolante verso chi aveva
consegnato il bene e di chi era titolare di uno ius in re aliena, ipotesi in cui il soggetto aveva una
semplice possessio naturalis in quanto teneva la cosa ma per conto di un altro al quale doveva
restituire la cosa.

Il diritto romano distingueva tra possessio animo rem sibi habendi e possessio naturalis.
Possessore sotto il profilo della tutela era colui che disponeva della cosa nel proprio interesse e ai
fini di tale qualifica non rilevava la buona fede.
La possessio civilis era la relazione di fatto con un bene fondata su un titolo giuridico. Essa era
tutelata dagli interdetti e poteva portare all’acquisto della proprietà delle res nec mancipi per
usucapio. Tale possessio doveva essere animo domini e doveva fondarsi su iusta causa.
Tale possessio civilis corrisponde al possessio ad usucapionem ex art 1158 cc e al possesso
legittimo ex art 686 del cod. previgente.
Nell’età giustinianea si guarda a se il possesso fosse idoneo o meno a portare all’acquisto del diritto
corrispondente. In tale periodo, pertanto, il possesso in senso proprio è idoneo a evolversi
nell’acquisto del diritto corrispondente mentre la detenzione no. In età giustinianea si esalta
l’animus e si riduce la valenza del corpus, ponendosi le basi per il moderno concetto di possesso
mediato o indiretto in cui il possessore ha l’animus possidendi e la disponibilità della cosa è in
capo al detentore. Tale modo di concepire il possesso riconosce la qualità di possessore anche a
colui che fisicamente non dispone del bene.

I mutamenti socioeconomici attuali impongono una rivalutazione delle categorie giuridiche


relative al rapporto soggetto/cosa al fine di velocizzare la circolazione dei beni.
La dematerializzazione del bene spinge sempre più verso un processo di spiritualizzazione del
corpus. Di interesse, quindi, è in primis una riconsiderazione del concetto giuridico di bene e delle
forme giuridiche di appartenenza, ma anche una valutazione critica del problema della circolazione
negoziale del possesso. La sistemazione delle varie relazioni fattuali di appartenenza, quindi, si
ritiene porterebbe a distinguere:
- possesso animo domino,
- possesso precario o per conto altrui (nel quale confluiscono la detenzione qualificata e il
possesso a titolo di diritto reale minore)
- detenzione non qualificata priva di conseguenze giuridiche in quanto al soggetto non è
riconosciuta autonomia decisionale nella relazione con il bene.

La funzione sociale della proprietà rappresenterebbe una base fondamentale per promuovere il
possesso come posizione giuridica soggettiva trasmissibile per via negoziale.

Il problema della trasmissione delle situazioni possessorie deriva dalla concezione del possesso
quale quid facti, differente rispetto alla natura di quid iuris propria del diritto dominicale.
Se si considera il possesso una posizione giuridica la cui essenza è un potere in atto su di un bene,
infatti, tale istituto può essere oggetto di un acquisto derivativo nel senso di pressuponente il
possesso di chi vende che viene a cessare con il funzionamento dell’acquisto l’effettivo esercizio
del potere da parte del nuovo possessore. In tal senso si configura il possesso come res facti, e
quindi derivato dalla posizione possessoria di colui che effettua la consgena del bene.

Nell'attuale tendenza alla spiritualizzazione del corpus possessionis, quest'ultimo deve intendersi
quale possibilità di agire sulla cosa e, quindi, perdere la relazione materiale con il bene non
significherebbe rinunciare al concetto di corpus possessionis. L’art 1140cc, infatti, definisce il
possesso quale potere sulla cosa.

La traditio brevi manu (vendita a favore del conduttore del bene) produce l’evoluzione da
detenzione a possesso, cui corrisponde la cessazione del possesso mediato del terzo (venditore).
Con tale istituto nulla sembra mutare quanto al corpus ma in realtà il detentore che diventa
possessore esercita un potere di fatto nuovo sulla cosa (corpus) mentre l’ex possessore rinuncia al
potere che aveva sulla res. Dunque, anche con la traditio brevi manu il possesso si acquista corpore.
Con la costituto possessorio si ha la degradazione da possesso a detenzione con la nascita di una
situazione possessoria a favore di un altro soggetto. Anche qui il possesso non è acquistato solo
animo. Si riconferma il quid fisico.
Ma dobbiamo intendere, per entrambi gli istituti, il corpus in una concezione elastica, intendendo
con quest’ultimo una disponibilità del bene anche ideale, virtuale. In tema di spoglio e di turbativa
di terzi, di conseguenza, conviene respingere per il possesso i caratteri della immediatezza e
esclusività tipici dei diritti reali.

Nelle fonti romane l’animus si rapportava con difficoltà alle figure del precarista, del creditore
pignotarizio e del sequestratario. La dottrina ha tentato di risolvere il problema:
- ora vedendo queste come ipotesi eccezionali di possesso, prive di animus domini,
- ora indivuando nell’evoluzione storica la possibile causa dei possessi derivati,
- ora ampliando la nozione di animus e attribuendo ad esso il significato di volere stare in una
situazione di dominio sulla res al punto da cancellare la diversità possesso/detenzione e
riconducendola al dato oggettivo delle causae previste dall' ordinamento.

Si arrivò addirittura a delineare un indirizzo che non individuava nell’animus un elemento del
possesso. Corpus e animus venivano visti come elementi alternativi per poi definire l’animus come
elemento accessorio del possesso che ne consentiva conservazione e acquisto.

Si individua da un lato la teoria ortodossa del possesso basato sulla ricostruzione soggettiva di
Savigny, dall’altro la teroria eterodossa che nega l’essere costitutivi del possesso il corpus e
l’animus.

Nel DAS RECHT DES BESITZES di Savigny il possesso è caratterizzato da disponibilità materiale
del bene associata all’intenzione di comportarsi come proprietario del bene.

La nozione di animus domini, però, si mostrò inidonea a comprendere le figure del precarista, del
creditore pignotarizio e del sequestratari e per questo furono avanzati numerosi indirizzi
interpretativi. Bonfante confermò la costruzione binaria di Savigny apportando variazioni
terminologiche: parlò di possessio corpore o corporalis, mentre rispetto all’elemento spirituale
parlò di animus possidendi e non di animus domini, per distaccarlo dalla proprietà.

 La teoria eterodossa è sostenuta da Silvio Perozzi e Bruno Fabi la cui intenzione fu di non
vedere nell’animus un elemento del possesso, ma di configurarlo in contrapposizione al corpus o
all’esterno del possesso.

 Per Cannata e Lambrini corpus e animus erano elementi alternativi attraverso i quali si
possiede.

 Per Zamorani l’animus è elemento esterno al possesso che ne può consentire conservazione o
acquisto. L’animus non veniva visto quale elemento psicologico ma un elemento integrativo della
situa possessoria, che viene in rilievo in ipotesi specifiche, quando la disposizione materiale non sia
attuabile.

Solo in età postclassica, con Paolo, l’animus fu visto quale elemento cotitutivo del possesso
insieme al corpus. L’animo possideri era elemento soggettivo essenziale che si affiancava a quello
oggettivo del corpore possidere, quando non assumesse addirittura, in casi particolari, autonoma
rilevanza.
Per il sorgere del possesso era necessaria la convergenza dei due.
Per il periodo antecedente a Paolo i riferimenti più rilevanti sono Labeone, Proculo e Nerazio che
scrivono dell’animus nell’ambito dell’acquisto e della conservazione del possesso.
 Labeone sostiene la possibilità di acquistare animo il possesso di ogg. di non facile
trasportabilità.

 Proculo e Nerazio subordinavano l’acquisto solo animo del possesso alla naturalis possessio.

 Per Paniniano l’acquisto del possesso non poteva essere animo.

 Gaio escludeva che la possessio potesse essere ottenuta animo senza la relazione fisica con il
bene, ma sosteneva la conservazione animo del possesso, anche se il bene non era più nella
disponibilità materiale del soggetto. Difficoltà sono presenti per stabile il momento in cui si verifica
la perdita di una possessio conservata animo. Se si ammette che il titolare perda il possesso quando
decide di non fare ritorno nel fondo, ne deriva che è l’intenzione di rientrare nel fondo a permettere
la conservazione del possesso. Se dopo l’allontanamento del proprietario questa intenzioni persiste,
il possesso è mantenuto. Se l’intenzione viene meno, il possesso è perso.

 Ulpiano contrappose esplicitamente l’elemento corpo e animo nella conservazione del possesso.
In Ulpiano animus continua ad essere utilizzato nell’ambito degli immobili e come intento di non
abbandonare il fondo dal quale ci si è allontanati.

 Paolo attribuisce all’animus una accezione più ampia, nulla ostando ad un utilizzo congiunto
di corpus e animus, elemento materiale e spirituale.

1.2 – LE ORIGINI DEL POSSESSO TRA SITUAZIONI DI FATTO E SITUAZIONI DI DIRITTO

Nel primo capitolo si affronta non soltanto l’orientamento della dottrina ma anche l’origine nelle
fonti del concetto. Il concetto di proprietà individuale e quello di possesso che è res facti sono
principi che noi abbiamo recepito nella nostra codificazione; ancor di più la visione della proprietà
individuale l’abbiamo recepita, condizionati sicuramente dalle vicende storiche.
È complesso parlare di proprietà collettiva e anzi godimento garantito alla collettività in modo
gratuito, non si riesce ad individuare in ambito romano. La dottrina poi ha messo in discussione la
prospettiva, affermando che il corrispettivo non è sempre individuabile e una visione collettiva del
diritto può essere individuato nell’esperienza giuridica romana, soprattutto in età postclassica,
quando il riordino ci porterà poi alla società feudale con l’affermazione del concetto di proprietà.

Il termine possedere deriva dalla radice pot, che esprime un concetto di potere nelle parole potis,
posse, potestas, e dal verbo sedere che indica una insistenza materiale (in senso fisico) uno ‘stare’
sulla cosa, giuridicamente riconosciuto e tutelato.

Il possesso è strettamente collegato alla proprietà. Il rapporto con la proprietà che noi abbiamo
ereditato nel nostro sistema, da Jhering, ci ha portato ad individuare per ogni istituto una
collocazione. Questo rapportare è un atteggiamento tipico dei giuristi, nel tentativo di giustificare la
res facti, che nasce dall’esigenza di tutelare una situazione che non trovava collocazione nel diritto
pur essendo riconosciuta dalla società. Il riconoscimento di Res Facti ci provoca problemi
nell’ambito dei fenomeni complessi di circolazione dei beni.

CITAZIONI GIURISTI. Alcuni giuristi attribuivano al possesso un fattore fisico: prospettiva


pragmatica anche condivisa da giuristi come Paolo, anche se qui si stressa la parte soggettiva,
perché ad un certo punto non si può collegare più il possesso con la posizione essendoci
problematiche della gestione dei fondi in stagioni alternate (es. quando viene meno la ‘positio’).
Si stressa dunque l’origine nel fatto del possesso.
Paolo stesso non si sottrae all’elemento locus: la positio qui è una posizione giuridicamente
rilevante, con riferimento ai beni immobili. Secondo la capacità interpretativa della giurisprudenza,
si scardina la positio nel concetto di locus, e quindi si ha una collocazione a livello giuridico
(possesso come fatto collocato nelle fonti ed inviduato giuridicamente nel locus).

La possessio sorgerebbe dal possesso delle terre (possessiones sono i terreni pubblici) sulle quali al
pater familias si riconosceva un potere derivato, ma non la piena proprietà. Tali terre
appartenevano al popolus Romanus. Il ruolo del pater familias che nasce per esprimere il
dominium ingloba il concetto di situazione di fatto del possesso, rivolto quindi ai soggetti di diritto
(e solo poi ai soggeti limitati). Come si giustifica il possesso di un bene del pater familias a cui
viene concesso un diritto di godimento ed uso del bene, del terreno (parte delle proprietà gentilizie,
ovvero un bene della comunità), che non era di proprietà propria? Non si poteva trovare situazione
più brillante quale quella della nascita del concetto di possesso che nasce dalla difesa, dalla tutela.

Ai singoli era riconosciuta una possessio sull’ager publicus che era oggetto di dominium del
popolo romano. Si tratta di una concessione di terreni che potevano essere pubblici o privati: ciò ci
collega alla proprietà collettiva, problema convergente (poi). C’era una disponibilità del bene,
venivano usate queste terre, quindi si sta configurando un diritto. È l’usus che configura la
possessio a divenire requisito di acquisto della proprietà. Le origini del dominium erano origini
formali, sancite dallo Ius Civile, e quindi è difficile rapporta il dominium con il possesso. Oggi
questo problema è più lieve: abbiamo elasticità di superare certi principi che ci pongono limiti, non
c’è il problema del coordinamento di diverse partizioni del diritto (visione trasversale della capacità
di contrarre, es. contratti e trattati internazionali).
Tra l’altro, nasce La Lex Licinia Sextia de modo agrorum regolò l’ampiezza delle occupazioni.
Interviene dunque la legge su una situazione di fatto che necessita di una disciplina e la trova nei
termini di regolamentazione nella legge pubblica.

La nostra prospettiva di intervento è stata in ambito giudiziario, ciò a cui noi dobbiamo arrivare è la
concettualizzazione della possessio: nel tentativo quindi di dare una configurazione civile
all’istituto. Il criterio di appartenenza dei beni al soggetto si baserà sul dominium, quindi il
collegamento è immediato: il possesso è visto come immagine della proprietà (Jhering).
La tutela delle possessiones fu attuata attravreso gli interdicta fin dal III secolo a.c. e fu estesa dalla
possessio di agri publici a quelli di agri privati a favore di chi li possedesse in proprio e a favore dei
clientes che avessero ottenuto dai proprietari patrizi a titolo di precarium il possesso revocabile di
loro fondi, e alla possessio di cose mobili.
Possesso come impossessamento di fatto che prescindeva dal titolo di acquisto e destinata a venir
meno con la definitiva perdita della situazione medesima. l’elaborazione giurisprudenziale di tale
nozione trovava il suo fondamento anche in situazioni di potere di fatto rilevanti per lo ius civile
oltre che nella tutela magistratuale della possessio dell’ager pubblicus.

Si trattava di potere esteso a tutto ciò che poteva essere oggetto di vindicatio, quindi non solo a
singole res ma anche al complesso ereditario, perdurando per un certo periodo conduceva alla
usucapio, modo di acquisto di situazioni giuridiche privatistiche riconosciute dallo ius civile, e
quindi quale valida ragione di difesa avverso il precedente titolare del diritto che lo rivendicasse.

Abbiamo quindi la possessio come situazione di fatto veniva contrapposta a quella di diritto.
Ciò non toglie che il pretore facesse del possesso che conduceva all’usucapione una situazione di
per sé tutelata tramite actio in rem (actio Publiciana) verso i terzi e, in presenza di titolo di acquisto
da lui ritenuto idoneo seppur non riconosciuto valido dallo ius civile, anche verso lo stesso dominus
ex iure Quiritium con conseguente trasformazione di tale situazione in una sorta di proprietà
pretoria.

Gli elementi del corpus e dell’animus sono i requisiti concessi per strutturare l’istituto che non può
essere priva di uno sceletro strutturale così come si faceva per qualsiasi istituto dello Ius Civile. La
connotazione di diritto è quindi necessaria per recepire il possesso (Papiniano).

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