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ANGELA DE BENEDICTIS

POLITICA, GOVERNO E ISTITUZIONI NELL’EUROPA MODERNA

1. Il Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca

All’epoca di Sigismondo di Lussemburgo (1410-1437) l’organizzazione istituzionale


dell’Impero era limitata ai sette principi elettori (Kurfursten), in base alla Bolla d’Oro
promulgata nel 1356 dall’imperatore Carlo IV, con la quale si assegnava il diritto di
eleggere l’imperatore esattamente a sette principi:
 Tre ecclesiastici (gli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri)
 Quattro secolari (il re di Boemia, il conte del Palatinato, il duca di Sassonia e il
margravio del Brandeburgo).
Questo atto aveva ridotto l’ambito di intervento del sovrano in diversi contesti, soprattutto
in quello giudiziario, dato che si riconosceva ai sette elettori il diritto di esercitare più o
meno liberamente la giustizia nei rispettivi territori. Tuttavia già a partire dall’inizio del XV
secolo, con Roberto di Wittelsbach, l’imperatore aveva provato ad accentrare nuovamente
su di sé maggiori poteri, costituendo il Reichksammergericht, un tribunale da lui guidato
che poteva intervenire su tutto il territorio dell’Impero senza limiti geografici.
Successivamente fu lo stesso Sigismondo a fare proprio il problema, identificando presso
il Concilio di Costanza (1414-18) la riforma della Chiesa con la riforma dell’Impero. La
restaurazione di un giusto ordine nella Chiesa, cioè, richiedeva un appoggio totale e saldo
di tutti gli ordini dell’Impero, che dunque doveva essere riformato in nome di una maggiore
centralità del sovrano. La svolta arrivò successivamente con Federico III (1440-93): alla
Dieta di Ratisbona (1442) dichiarò che il ricorso alla faida (mezzo giuridico di
composizione dei conflitti) sarebbe stato legittimo soltanto allorché le parti si fossero
invano già rivolte alla corte camerale dell’Imperatore. Questo tentativo di applicare un
omogeneo ordinamento giuridico su tutto il territorio però ben presto si rivelò fallimentare,
dato il forte radicamento sul territorio di particolari diritti consuetudinari che impedivano
una capillare estensione del diritto imposto dalla capitale.

La faida perciò rimase lo strumento più usato per la risoluzione dei conflitti, quantomeno
da parte dei principi (si veda quella tra l’arcivescovo di Magonza Diether von Isenburg e
papa Pio II, poi sfociata in una guerra). Resta il fatto dunque che gli stessi principi
rimanevano fedeli a una proposta di riorganizzazione del sistema dei tribunali nel territorio
dell’Impero, a favore di una loro maggiore partecipazione (nelle faide, in quel periodo, era
chiamato a giudicare il solo sovrano. La situazione si evolse successivamente quando,
complici l’amplificarsi della minaccia turca e la conseguente necessità di un nuovo
ordinamento imperiale delle tasse di guerra, da declinare in chiave difensiva, presso una
nuova Dieta a Ratisbona (1471, Christentag) si stabilì una nuova legge fiscale che poneva
gli stessi signori territoriali quali responsabili della riscossione delle tasse. Questa riforma
introduceva peraltro finalmente una distinzione tra ceti imperiali e ceti territoriali.

Nel 1486 l’Imperatore Federico III d’Asburgo, necessitando di aiuti per condurre la guerra
contro il re d’Ungheria Mattia Corvino, fece eleggere al trono di re di Germania il figlio
Massimiliano I. I principi elettori (il sistema era analogo a quello in uso per l’elezione
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imperiale) chiesero in cambio del loro voto la riforma dell’Impero, sia a livello giudiziario
che politico. Federico III dovette cedere, istituendo in forma istituzionalizzata una Dieta
Imperiale (Reichstag) composta dai principi elettori, dagli altri principi e dai rappresentanti
delle libere città imperiali. La Dieta era cioè costituita da tre Collegi:
 Il Consiglio dei principi elettori, composto inizialmente da 8 (ben presto poi da 9)
membri.
 Il Consiglio dei principi, composto da più di 200 dignitari ecclesiastici e religiosi.
 Il Consiglio delle città, i cui membri erano i rappresentanti delle poco meno di 50
città imperiali.
La Dieta, che rappresentava di fatto uno sviluppo della precedente Hoftag, era il punto di
incontro istituzionale tra il principio monocratico del sovrano (re o Imperatore) e quello
rappresentativo dei ceti dell’Impero. Per avere diritto di posto e voto presso la Dieta
bisognava poter vantare la cetualità imperiale (Reichstandschaft), che era assegnata a
tutti coloro che possedevano un territorio direttamente soggetto all’Impero. Per quanto alla
Dieta spettasse la funzione legislativa, essa si occupava principalmente di coordinare
all’interno dell’Impero le variegate politiche dei signori territoriali. La Dieta, infine, poteva
essere convocata soltanto dall’Imperatore, seppur con il necessario consenso dei principi
elettori, e solo costui aveva il diritto di presentare le proposte all’ordine del giorno. Nel
decennio successivo alla sua istituzione, la Dieta fu – come era inevitabile – il luogo dello
scontro tra Imperatore e ceti attorno al tema della giurisdizione (o giuridicizzazione):
mentre Federico III continuava ad amministrare la giustizia in senso del tutto personale
tramite il Tribunale della Camera imperiale, i principi chiedevano la creazione di una
Reichskammergericht che permettesse di amministrare la giustizia indipendentemente
dall’Imperatore su tutto il territorio, a favore quindi di un aumento del potere dei singoli
principi nei rispettivi territori di cui erano sovrani (la giurisprudenza cioè, non doveva
attivarsi soltanto in virtù del diritto imperiale, ma doveva obbedire a tutte le diverse leggi
particolari delle singole entità costituenti l’Impero).

Il fatto che il nuovo Imperatore Massimiliano I d’Asburgo necessitasse a tutti i costi di


denaro per condurre la propria campagna avvantaggiò i ceti nelle successive Diete
(Francoforte, Worms e Lindau, negli ultimi due decenni del XV secolo), disposti a cedere
le tasse da loro raccolte al sovrano in cambio del riconoscimento di maggior peso
nell’organizzazione politica e giudiziaria dell’Impero. Nel 1495 (Dieta di Worms) Imperatore
e ceti giunsero dunque a una Pace territoriale perpetua, concordando una riforma che
comportava: a) l’assoluto divieto di faida; b) l’istituzione di un Tribunale camerale
imperiale, con un giudice nobili e una giuria composta a metà da giuristi e a metà da nobili;
c) l’affidamento in primis alla Dieta Imperiale del compito di assicurare pace e diritto
nell’Impero; d) l’istituzione una tassa (gemeines Pfennig) volta sia a finanziare il Tribunale
contestualmente creato, sia a mantenere la sicurezza interna ed esterna all’Impero. I
membri del nuovo Tribunale (un giudice, sedici – poi diciotto – decidenti e due/quattro
presidenti) erano nominati congiuntamente da Imperatore e ceti, e operavano
indipendentemente sia dall’uno che dagli altri, in quanto “perpetui Romani Imperii ablegati
ad causas Iustitiae”. Essi erano per metà nobili e per metà giuristi, e di conseguenza fu
presto introdotto per necessità un titolo dottorale in diritto. L’istanza monarchica, però, non
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trovandosi ovviamente soddisfatta di questa riforma, nel 1498 riorganizzò il proprio
Consiglio di corte (che poi chiamerà Tribunale aulico), imponendo in molti contenziosi la
propria giurisdizione, denominata in questo caso iudicium aulicum: la competenza di tale
tribunale si estendeva su quasi tutti i territori dell’Impero (ad eccezione dell’Austria e
poche altre aree “privilegiate”) e riguardava principalmente gli affari facenti capo ai c.d.
iura reservata dell’Imperatore (validità, interpretazione e applicazioni dei privilegi imperiali,
innalzamento del ceto, concessione di lettere di protezione, …). Al contempo però,
all’Imperatore fu formalmente impedito di interferire sull’operato del Tribunale Camerale,
che dunque rimaneva indipendente. Restava, dunque, ancora molto ambigua la
competenza delle due istanze, quella monarchica e quella cetuale, dato che l’intervento
dell’una o dell’altra dipendeva spesso dai singoli casi. Durante il suo regno, infine,
Massimiliano I promosse altre riforme, tra le quali:
 L’utilizzo della matricola imperiale (Reichsmatrikel, già in realtà introdotta nel 1422),
un indice nel quale erano stabiliti nominalmente i titolari di potere obbligati all’aiuto
fiscale all’Impero e il numero di truppe che ciascuno di questi avrebbe dovuto
mettere a disposizione della corona in caso di guerra.
 L’istituzione dei circoli imperiali (Reichskreisen), cioè 10 ripartizioni territoriali di
tutto l’Impero per meglio attuare la c.d. “pace perpetua”.
 Nel 1512, l’Impero poi cambiò definitivamente denominazione, venendo a chiamarsi
Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca.

A Massimiliano I successe nel 1519 il nipote Carlo V, il quale al momento della sua
incoronazione era già re di Spagna. Siccome temevano che il nuovo sovrano imponesse
all’Impero lo stesso metro nel governare che adottava in Spagna, pur di fronte a un
contesto geopolitico e sociale ben differente, i ceti gli sottoposero una complessa
capitolazione elettorale (la prima, complessivamente, di dodici fino al 1792) che
comprendeva un elenco di diritti e libertà, e di fronte alla quale Carlo V prestò giuramento.
La capitolazione, che come appena accennato divenne ben presto una pratica diffusa,
rappresentava l’atto della determinazione in ambito di legislazione e giurisdizione delle
relazioni tra l’Imperatore e i territori dell’Impero, cioè tra il sovrano e i ceti, ai quali erano
riconosciuti particolari diritti (superiorità, regalie, autorità, libertà e altri privilegi). Lo
sviluppo di questa pratica arriverà definitivamente nel 1711 con la Capitulatio perpetua,
quando si riconoscerà che l’Imperatore in ogni suo atto politico avrebbe dovuto concordare
le sue azioni con i rappresentanti dei ceti. Fu proprio durante il regno di Carlo V che il
conflitto tra istanza monarchica e esigenze di libertà dei ceti si inasprì declinandosi in lotta
religiosa con l’avvento della Riforma luterana. Nel 1521, al termine dell’omonima Dieta, il
sovrano emanò l’Editto di Worms, condannando l’azione di Martin Lutero e dei suoi
seguaci e intendendo la propria dignità imperiale come protettrice della Chiesa e della
fede. La ferma politica dell’Imperatore si scontrò però ben presto con il rifiuto di alcuni
influenti ceti di dare esecuzione all’Editto: alla Dieta di Spira (1529) i ceti presentarono
formalmente una protesta, non accettando l’obbligo di celebrazione della messa cattolica
(e quindi imposizione di quel credo) nei territori dove prevalesse l’adesione ai principi
luterani. Dopo alcuni anni di lontananza (durante i quali era stato rappresentato dal fratello
Ferdinando I), Carlo V tornò nel 1530 in Germania e celebrò quello stesso anno la Dieta di
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Augusta, con l’intenzione di riproporre l’Editto di Worms. Di fronte anche all’inasprirsi delle
politiche giudiziarie del sovrano (che arriverà a una riforma del processo penale nel 1532)
e alla nomina a Rex romanorum di Ferdinando I, i principi protestanti formarono nel 1531
la Lega di Smalcalda, di fatto dichiarando guerra a Carlo V. Il conflitto vero e proprio fu in
verità rallentato dalla persistente minaccia turca (Tregua di Norimberga, 1532), e per un
certo periodo l’Imperatore sembrò riuscire a mantenere sotto controllo la situazione, anche
perché aveva dalla sua anche il Tribunale Camerale, che seppur nato come istituzione a
difesa dei ceti, era per lo più composto da nobili e giuristi cattolici, e quindi operava in
questo momento dalla parte del sovrano. A partire dal 1544 Carlo V mosse effettivamente
guerra alla Lega, vincendo e potendo dunque imporre il proprio credo: per evitare nuovi
conflitti propose una versione “leggera” del cattolicesimo tradizionale, accettando alcune
delle richieste protestanti (matrimonio tra sacerdoti e comunione sotto le due specie),
tuttavia finì per proporre una situazione che non accontentava nessuno.

Mentre la secolare disputa tra Imperatore e ceti si infiammava sempre di più, è necessario
notare come il territorio dell’Impero era estremamente composito, e di certo non riducibile
a queste due istanze. Soprattutto al Sud (ma non solo), agivano come piccoli “signori
territoriali” individui che non vantavano di alcun potere imperiale legittimamente conosciuto
(der gemeiner Mann, l’uomo comune). Costoro operavano nel contesto delle c.d.
Landschaften, istituzioni cetuali di città e giurisdizioni, cittadini e contadini, che operavano
come forma di risoluzione territoriale dei conflitti: lo stesso Tribunale aulico dell’imperatore
non decideva soltanto dei rapporti tra sovrano e ceti, ma anche – a un livello più basso –
tra gli stessi ceti e le Landschaften. Queste rappresentavano l’insieme dei rapporti
corporativi, ed esprimevano poteri tradizionali che – seppur subordinati ai rispettivi principi
territoriali – avevano comunque ricadute vincolanti su una certo numero di “sudditi” (modi
di comportamento nell’economia locale, giurisdizione civile, punizione della piccola
criminalità, ...). Per quanto sia una questione primariamente concettuale, è bene
distinguere come, anche di fronte a un’eventuale parità di consociazione (esistevano cioè
unioni di livello inferiore a quello dei ceti tra individui che non erano “uomini comuni”,
contadini):
 Il cavaliere godeva di una sorta di rappresentanza diretta con l’Impero, cioè era
obbligato nel suo servizio al signore con il corpo e la vita (Leib und Leben).
 Il contadino (der gemeiner Mann) era invece legato al principe attraverso il
pagamento delle tasse.

La Riforma protestante costrinse i principi, desiderosi di autonomia rispetto all’Imperatore


cattolico, a svolgere una nuova attività legislativa. Se già in precedenza era difficile
distinguere tra attività di governo spirituali e mondane, con la Dieta di Spira (1526)
l’attribuzione ai principi delle faccende religiose accentua – soprattutto nei territori
protestanti, ma anche in quelli cattolici – le responsabilità spirituali dei signori territoriali. La
riforma dei rispettivi ordinamenti religiosi esplose a partire dal 1555, quando il non ancora
Imperatore Ferdinando I (lo sarà dal 1558) stipulò con i principi di Smalcalda la Pace di
Augusta, che stabiliva il principio cuius regio, eius religio (ius reformandi), attribuendo ai
ceti imperiali il diritto di determinare la religione dei rispettivi sudditi, prevedendo dunque
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anche un mutamento di religione del principe. Oltre questo punto principale, la pace
stabiliva anche:
 L’obbligo di rinuncia di uffici religiosi da parte di quei principi che si fossero
confessati protestanti (questo punto fu aspramente osteggiato dai luterani, che
chiedevano non imporre tramite principio di maggioranza vincoli religiosi).
 L’obbligo di garantire entrambe le confessioni all’interno delle libere città, laddove
esse fossero parimenti praticate.
 La possibilità di emigrazione per chi rifiutasse di convertirsi alla religione del proprio
principe, a patto che rinunciasse completamente ai propri beni.
In una successiva Dieta (1559) si stabilì anche che, in caso di conflitto, la competenza
giurisdizionale sarebbe stata del Tribunale camerale. Complessivamente il Tribunale
camerale imperiale era arrivato ad avere competenza:
 Come corte di prima istanza su violazioni di pace territoriale, pace religiosa;
pignoramenti arbitrali; questione penali per mancata osservanza di leggi imperiali;
accuse contro sudditi immediati dell’Impero e lesione di privilegi imperiali.
 Come corte di seconda istanza (appello) nel caso di ricorsi contro le sentenze dei
tribunali arbitrali, dei tribunali dei cittadini e quelli territoriali (a meno di specifiche
esclusioni del diritto di appello).
 Più raramente, e in molti casi in conflitto con il Tribunale aulico, poteva intervenire
nella risoluzione delle c.d. questioni di stato, cioè nelle controverse tra Imperatore e
ceti, o ecclesiastici.
Questo equilibrio venne però ben presto a erodersi: nel 1563 si era chiuso il Concilio di
Trento, e con esso Roma avviò ufficialmente la controriforma, mentre nei territori
dell’Impero esplodeva l’attivismo calvinista. All’inizio del XVII secolo i principi protestanti e
quelli cattolici si confederarono in due opposte alleanze: rispettivamente l’Unione
protestante (1608) e la Lega cattolica (1609). L’unità dell’Impero tuttavia non era per ora
messa in discussione: la Pace di Augusta aveva permesso la confessionalizzazione dei
singoli territori, e ogni sovrano si occupava del proprio preoccupandosi che il suo credo
fosse omogeneamente assunto dalla popolazione (attraverso lo strumento della visita,
cioè un modello di disciplinamento sociale che permetteva specifici controlli in scuole,
parrocchie, …).

Tuttavia la palese incompatibilità delle politiche promosse dai principi delle due leghe nei
diversi territori dell’Impero sarebbe di lì a poco stata fatale: nel 1618, infatti scoppio la
Guerra dei Trent’anni, conflitto religioso, ma anche politico-costituzionale. Dopo le prime
fasi del conflitto, che ben presto coinvolse tutti gli Stati europei, l’iniziativa imperiale e
quindi la ricattolicizzazione sembravano avere la meglio. A partire dal 1630 però le
condizioni del conflitto mutarono: l’Imperatore Ferdinando II (al trono dal 1619) sperava
infatti di sfruttare la guerra per ribadire definitivamente il proprio governo in senso
monocratico, e di conseguenza si attirò le antipatie anche di molti principi cattolici,
preoccupati dei propri privilegi e della propria sovranità. Dopo l’ingresso in guerra della
Svezia, tra il 1630 e il 1632 il conflitto si ribaltò e iniziò a produrre esiti positivi per la
coalizione anti-imperiale, tanto che Ferdinando II fu costretto a correre ai ripari con la Pace
di Praga (1635): le forze imperiali e cattoliche accettarono di ritirare l’Editto di Restituzione
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(1629) con il quale avevano provato a imporre ai protestanti la restituzione alla Chiesa di
Roma dei beni secolarizzati in seguito alla Pace di Augusta. Il conflitto, ad ogni modo, si
trascinò fino al 1648 quando i rappresentanti delle corone europee coinvolte e i ceti
imperiali (con ius suffragii) si riunirono al congresso che produsse la Pace di Westfalia:
 Quanto alle questioni religiose: lo ius reformandi fu riconosciuto ai principi territoriali
(riproponendo il principio di Augusta) e alle autorità di quelle libere città laddove vi
era una sola confessione praticata all’anno 1624, che fu comunemente riconosciuto
come anno “normale”. Per qual che concerne le altre clausole: il diritto di
emigrazione fu affrancato dall’obbligo di rinuncia ai beni personali; fu revocato
l’obbligo di rinuncia agli uffici per i protestanti; e la pace religiosa fu ugualmente
estesa anche ai calvinisti.
 Quanto alle questioni politico-costituzionali: i principi elettori riuscirono a far valere
la propria posizione, vedendo riconosciuta la signoria territoriale (ius territoriale) dei
ceti imperiali. Oltre alla sovranità interna, i principi si videro riconosciuta anche una
sorta di sovranità esterna, dato che fu loro concesso il diritto di fare accordi con
potenze straniere, a patto che queste non agissero contro l’Impero (ius faciendi
foedera). Più in dettaglio: nei rispettivi territori, la superioritas territorialis dei principi
fu definita maiestas analoga a quella dell’imperatore, quindi la sovranità dei ceti
imperiali era piena (e ciò era resto possibile anche dalla presenza già di una
complessa rete di istituzioni dipendente direttamente dal signore territoriale nelle
diverse suddivisioni dell’Impero), per quanto comunque essi dovevano anche
scontrarsi con le organizzazioni a loro sottoposte (i ceti territoriali, cioè le
Landschaften dove, come ad esempio in Baviera, erano particolarmente sviluppate,
indipendenti e influenti).
Le risoluzioni della Pace di Westfalia aprirono, inevitabilmente, un aspro scontro –
combattuto anche in campo ideologico e accademico – circa la giustificazione giuridica
della superioritas territorialis che si riconosceva ai ceti imperiali. L’interpretazione in questo
ambito che meglio riassumeva le intenzioni dei principi era quella che giustificava tale
sovranità in quanto summa potestas civilis, cioè in relazione a un potere da esercitarsi su
una popolazione di sudditi (cosa che giustificava il potere anche dei rappresentanti delle
libere città, e non solo dei signori territoriali strictu sensu). Da questa prospettiva, l’Impero
però cessava del tutto di essere un’entità politica omogeneamente diretta, e diventava una
lega di libere comunità (Gemeinwesen), che condividevano un comune diritto pubblico.
Questo sistema dunque, seppur di lontana derivazione feudale, non poteva che reggersi
sulle libertà dei principi, libertà che comprendevano: a) la proibizione di una monarchia
imperiale onnicomprensiva; b) il diritto “di vita” delle tre grandi confessioni (cattolica,
luterana e calvinista); c) il diritto di parola nelle questioni riguardanti l’Impero; d) la
protezione dei piccoli titolari di potere dalle ambizioni dei maggiori Stati tedeschi. Siccome
poi gli accordi di Westfalia certo non potevano definirsi del tutto risolutivi, e anzi
inevitabilmente avevano aperto qua e là altri contrasti, ben presto (dal 1663) prese vigore
la consuetudine della Dieta perpetua, cioè di regolari incontri dei ceti imperiali, che si
svolgevano nella città di Ratisbona; ugualmente, aumentò anche la frequenza delle Diete
minori, riservate ai ceti territoriali (e questa maggiore istituzionalizzazione delle Diete iniziò
a favorire la creazione di un corpo specializzato che si occupava, per conto dei

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rappresentanti dei ceti, di lavorare presso tali assemblee). Il rapporto tra ceti e Imperatore
rimaneva, ovviamente, del tutto complesso: a un primo periodo di perdurante ostilità – che
si enfatizzò nel 1658 con la costituzione della Lega Renana contro l’Imperatore Leopoldo I
(sul trono dal 1657 al 1705), ne seguì uno di maggiore solidarietà, soprattutto per
necessità, dato che si faceva concreta la minaccia di un invasione da parte della Francia
di Luigi XIV. Dopo un secolo di fondamentale immobilismo, dovuto principalmente al
congelarsi delle fratture precedentemente esposte, e pure a un mutamento di natura delle
stesse, ora – complice anche l’avvento dell’Illuminismo – declinate maggiormente su un
piano teorico (si veda il contributo di J. J. Moser, e una serie di accurate ricerche di
carattere storico-giuridico, circa la natura del potere imperiale e della composizione
dell’Impero), nel 1740, alla morte dell’imperatore Carlo VI, la situazione precipitò: la
dinastia degli Asburgo, che dal 1438 occupava il trono imperiale, aveva esaurito la sua
successione maschile. Ciò che ne scaturì, ovvero la Guerra di successione austriaca
(1740-1786) tra Maria Teresa d’Austria (Asburgo, ma donna, quindi impossibilitata a salire
al trono dalla legge salica) e Federico II Hohenzollern, sovrano di Prussia, dimostrò
evidentemente come, mentre l’Impero oramai stava morendo, due grandi Stati erano sul
punto di sorgere.

a. Austria

Così come la Prussia, l’Austria era un Land dell’Impero. Tra gli elementi fondamentali di
questa entità dell’Impero si sottolineano: l’unità giuridica, la presenza di un principe
territoriale e di una comunità territoriale (più tardi, di un ceto territoriale), di una precisa
coscienza territoriale e di un diritto territoriale. All’interno del Land il potere era gestito in
modo plurale, vi erano cioè diverse signorie, la più importante delle quali era quella
territoriale, titolari della quale erano i principi. Costoro partecipavano con diritto di parole
alle Diete territoriali (Landstandschaften). L’Austria era costituita da tre grandi “gruppi”
territoriali:
 Quelli ereditari, cioè della vecchia Austria (1), corrispondenti al tardo-medievale
dominio asburgico (1370-1490), successivamente annessi al vero e proprio ducato
d’Austria.
 I territori boemi (2) e quelli ungheresi (3) aggiunti da Ferdinando I nel 1526.
Nessuno di questi tre territori era sottoposto in origine a un governo estremamente
centralizzato, diversi signori locali cioè avevano vari poteri, privilegi e autonomie (gli
imperatori asburgici tentarono, seppur invano, di centralizzare e monarchicizzare Boemia
e Ungheria). Quando nel 1526 si parlava di Haus Oesterreich, dunque, si intendeva il
“vecchio” ducato asburgico d’Austria connesso con unione personale e reale al Regno di
Boemia e Ungheria. L’Austria era però anche un territorio dell’Impero, e quindi un ceto
della Dieta imperiale, ma non solo: come già più volte affermato, il trono imperiale dal
1438 era sempre stato occupato da un Asburgo, e così sarà fino alla fine dell’Impero (con
la sola breve eccezione di Carlo VII di Wittelsbach, 1742-45). Rispetto agli altri Circoli
imperiali, il Ducato d’Austria godeva di un maggior numero di privilegi che sono
riassumibili in due punti fondamentali: a) il c.d. privilegium minus (1156) che segnava la
divisione tra Austria e Baviera e aveva posto le fondamenta per la creazione della signoria
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asburgica in quel territorio; e b) il c.d. privilegium maius (1358-59) che favoriva
l’indipendenza, in molte competenze legislative e giuridiche, dei duchi d’Austria dall’Impero
(tra questi si segnalano i privilegia de non appellando e de non revocando, che vietavano
ogni possibilità di appello a tribunali imperiali contro le sentenze di qualsiasi corte
territoriale austriaca). Complessi erano anche i rapporti tra signori e ceti a livello
territoriale: i primi, ognuno nel proprio territorio di competenza, volevano infatti ridurre
l’obbligo di consiglio e aiuto verso i ceti a un più generico diritto non vincolante di consiglio,
tuttavia una “riforma” totale in questo senso era molto difficile da raggiungere in virtù della
diversa composizione e organizzazione dei singoli ceti nei diversi territori facenti capo al
duca d’Austria. I ceti, quantomeno fino al XVIII secolo, poterono comunque contare su una
discreta forza, in virtù di una propria effettiva organizzazione amministrativa che si
dispiegava in una serie di uffici e competenze. In molti territori il principe dipendeva dai
ceti in materia fiscale, in ragione dell’obbligo di determinazione delle imposte spettante alle
Diete territoriali; talvolta addirittura queste avevano un tale potere da riuscire a ostacolare
gli ordinamenti politico-burocratici e amministrativi del principe. Una tale anche
confusionaria pluralità di poteri e organizzazioni fu ridotta a un modello di gestione del
territorio decisamente di stampo unitario nel XVIII secolo, soprattutto durante il regno di
Maria Teresa. Siccome i ceti avevano, come appena detto, notevoli poteri in ambito
fiscale, la convocazione delle Diete era annuale e rappresentava un ingombro
all’autonomia dei principi. La risoluzione di questo problema, avvenuta con la promozione
di patti fiscali pluriennali, non segnò però definitivamente il trionfo dei signori territoriali sui
ceti: i privilegi posseduti dai ceti superiori – soprattutto dai nobili – infatti, permettevano
ancora a questi di operare con una certa indipendenza rispetto ai principi. La svolta arrivò
nel 1620: lo scontro tra ceti e principe si inasprì a tal punto da esprimersi anche nella
Guerra dei Trent’Anni: nella Battaglia della Montagna Bianca, nelle vicinanze di Praga,
Ferdinando II sconfisse l’esercito cetuale boemo, riuscendo a promuovere infine una
rinnovata ordinanza territoriale che imponeva il potere assoluto principesco, senza la
partecipazione dei ceti. Le misure fondamentali di questa ordinanza (promulgata nel 1627)
contemplavano:
 La messa da parte del governo collegiale cetuale.
 Il diritto di legislazione del solo re.
 Il diritto di decisione del solo re circa la nomina di funzionari cetuali e il
completamento di corpi cetuali.
 La rimozione di tutti quei privilegi e libertà cetuali che danneggiavano Ferdinando II
(fu svolto cioè un rigoroso esame di compatibilità tra i privilegi dei ceti e quelli del
principe).
 Il diritto di convocazione del soro re circa la convocazione delle Diete territoriali e di
eventuali riunioni cetuali.
 La proibizione alle Diete territoriali di inviare ambasciate e governare il territorio in
caso di interregno. Queste potevano ora soltanto decidere in materia fiscale, ma
anche in questo campo la competenza passava al principe in caso di emergenza o
necessità.
A partire dal XVII dunque si può parlare del Ducato d’Austria come di una monarchia, per
quanto si debba aspettare l’inizio del secolo successivo per trovare, nel testamento di
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Carlo VI (1711), la prima attestazione formale di questo termine. Il passo successivo è
segnato dalla Prammatica Sanzione (1713), promulgata dallo stesso Carlo VI, che
conteneva l’indivisibilità dei domini asburgici e l’introduzione dell’ordine di successione alla
corona d’Austria. Seppur adottato da tutti i ceti territoriali dopo un decennale percorso di
riconoscimento, questo documento segnava un passo fondamentale per l’unificazione tra il
governo e la casa Asburgica in tutti i territori del Ducato d’Austria. Per poter parlare di
“Stato” austriaco bisognerà invece attendere qualche altro anno: fondamentali in questo
senso sono infatti le riforme attuate durante il regno di Maria Teresa (1740-80). Nel 1749
fu infatti promossa una serie di riforme costituzionali e amministrative volte
all’accentramento definitivo del potere statale nelle mani del monarca. L’amministrazione
statale, di conseguenza, subì radicali mutamenti: rimase il Consiglio aulico di guerra, ma
per gli affari di politica estera e della casa governante fu istituito un nuovo organo, la
Cancelleria di Casa, Corte e Stato; furono eliminate le singole cancellerie austriache e
boeme, a favore di una maggiore concentrazione del potere; l’amministrazione della
giustizia fu resa indipendente da quella “generale”. I signori e i ceti territoriali videro i loro
poteri e le loro autonomie scomparire, mentre in tutto il territorio fu istituita una legge
generale comune che andava a sostituire le varie e diverse legislazioni territoriali. Il
governo di Maria Teresa, e ancor di più quello del suo successore Giuseppe II (1780-90)
fu improntato ai cardini dell’assolutismo illuminato e quindi generalmente la creazione di
un nuovo sistema amministrativo e di diritto fu compiuta nel tentativo di perseguire il “bene
comune” del Ducato, quindi anche mantenendo quelle consuetudini precedenti che non
presentavano conflitti con il nuovo ed erano giudicate “buone”. Fu comunque tolta ai ceti la
competenza fiscale (Steuerpatent, 1789), che venne del tutto “statalizzata”, nonostante
questa fosse storicamente legata alle Diete territoriali (queste rimasero, ma furono
sostanzialmente private di poteri e autonomia, così come accadde con i governi delle città
e dei comuni). Nel 1782 Giuseppe II promosse una nuova costituzione territoriale
(Landesverfassung) abolendo l’autonomia di autorità e funzionari dei ceti e sottraendo a
questi il patrimonio territoriale; ugualmente fece l’anno seguente con le città e i comuni
(Magistratverfassung). Il governo di Giuseppe II fu comunque improntato alla creazione di
uno Stato del benessere, un’amministrazione cioè che favorisse l’uguaglianza giuridica e
lottasse contro interessi particolari e privilegi, in nome della generale felicità dei sudditi.
Dopo la sua morte, i ceti tornarono all’attacco con il suo successore, Leopoldo II (1790-92)
chiedendo quantomeno un ritorno allo status stabilito da Maria Teresa, tuttavia ad essi
furono fatte soltanto limitate concessioni, e l’autonomia del sovrano rimase assoluta, così
come il governo centralizzato. La creazione di un sistema di giustizia unico per tutto il
territorio del Ducato permise inevitabilmente la creazione di un Codice civile austriaco, la
cui genesi è da individuarsi anche nella contrapposizione tra giustizia e politica: Maria
Teresa e Leopoldo II invano tentarono infatti di promuovere una Carta costituzionale che
contenesse le leggi fondamentali dello Stato, tuttavia entrambi fallirono per diverse ragioni,
e il posto della legge costituzionale fu occupato dalla legislazione privata. Nel 1804
Francesco II (1792-1806) dichiarò la creazione dell’Impero austriaco, mantenendo
contemporaneamente anche la corona imperiale romano-germanica e subordinando la
prima dignità imperiale alla seconda. Tale ambiguità ebbe comunque una breve durata:
nel 1806 egli depose il titolo di Imperatore romano-germanico, mantenendo la corona
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imperiale austriaca e dichiarando tutti gli altri territori dell’Impero liberi da ogni legame
feudale con lo stesso. Nel 1816, infine, un singolo Land austriaco, il Tirolo, riuscì a
ottenere maggiore autonomia dalla corona, ricevendo una specifica costituzione cetuale
che riconosceva ai ceti (e non alla popolazione generalmente intesa) limitati diritti,
principalmente di consiglio rispetto al potere statale o di presentare, in determinate
competenze, petizioni non vincolanti.

b. Brandeburgo-Prussia

L’amministrazione assolutistica dello Stato si concretizzò in maniera ancora maggiore


rispetto a quanto accaduto in Austria nella Prussia sette-ottocentesca. Questa innanzitutto
derivava originariamente da due territori:
 La Marca di Brandeburgo, governata da un principe elettore (il margravio del
Brandeburgo, appunto) che era vassallo imperiale.
 La Prussia, che nasceva come feudo polacco e che fu unita al Brandeburgo nel
1618.
Un anno importante per la storia di questa vasta regione è il 1657, quando cioè il re
polacco rinuncia alla signoria feudale e riconosce il margravio del Brandeburgo Federico
Guglielmo come duca di Prussia. Le successive acquisizioni territoriali furono governate
dal principe elettore “soltanto” attraverso unione personale, di conseguenza egli
governava con titoli diversi su territori diversi, ognuno con le proprie strutture organizzative
e pure religiose particolari. La complessità della realtà cetuale di questi territori fu via via
ridotta e semplificata, su spinta centralizzatrice, a partire dalla metà del XVII secolo:
mentre però nelle aree centrali del Ducato era possibile fin da subito fortemente limitare
(se non del tutto rimuovere) le Diete e i privilegi territoriali, nelle periferie prussiane questi
servivano ancora proprio come strumento nelle mani del principe elettore per attuare
l’inserimento tecnico-amministrativo della sua istanza in tutto il territorio. Una svolta
importante fu quella del 1701: il margravio Federico III di Brandeburgo si autoincoronò a
Koenigsberg come Federico I con il titolo di “re in Prussia”, secondo una chiara
intenzione non solo di accentramento del potere di governo, ma soprattutto di
indipendenza rispetto all’Impero a guida asburgica (e, d’altro canto, pure rispetto alla
Chiesa di Roma). Tale auto-incoronazione presentava però anche un secondo aspetto
notevole, in quanto identificava i territori sotto la guida di Federico I con il nome
complessivo di “Prussia”, completando quindi – quantomeno idealmente – la
trasformazione della Marca di Brandeburgo in Stato. All’atto pratico, la creazione di uno
Stato unitario era invece un fatto molto più complesso: la diversità nell’insieme dei diritti e
delle legislazioni di ogni territorio era tale che fosse necessario implementare in primis un
efficiente sistema amministrativo e giudiziario, e poi costruire gli organi legislativi. La
strada intrapresa fu dunque quella di un integrazione dettata da un rigido ed esteso corpo
burocratico, da un apparto militare forte e pervasivo e da una aspra lotta ai residui feudali,
che ostacolavano l’ampliamento del potere centrale sulle periferie.

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2. La Spagna

Nel 1458 il sovrano dei territori facenti capo alla Corona d’Aragona (Aragona, Catalogna,
Valenza) era Giovanni II, che aveva già governato precedentemente, come Luogotenente
Generale, mentre il fratello Alfonso il Magnanimo si era trasferito in Italia in seguito alla
conquista, nel 1442, del Regno di Napoli. Giovanni II, volendo trasferire il diritto di
primogenitura (e quindi la sovranità ereditaria) da figlio maggiore Carlo di Viana al minore
Ferdinando, arrivò a scontrarsi nel 1461 con la nobiltà di Barcellona, guidata da tale
Guerau Alemany de Cervellò, che difendeva le pretese di Carlo in base alle leggi del
Principato di Catalogna, le quali per giuramento il sovrano doveva rispettare. Tale prassi,
vincolante, era stata introdotta nel 1348 da Pietro IV e consisteva, contestualmente alla –
poi rimossa – cerimonia di incoronazione, un reciproco giuramento tra Re e Cortes sulle
leggi del Regno. Giovanni II di fronte alla protesta, accusò la nobiltà Catalana di
tradimento, arrivando a generare una rivolta. Nell’estate di quello stesso anno, tuttavia, la
morte di Carlo di Viana indirizzò il conflitto verso una soluzione: Giovanni II riuscì – di
fronte all’assenza di ulteriori eredi – a far riconoscere alle Cortes Ferdinando come
primogenito, “congelando” però la primogenitura fino al raggiungimento della maggiore età
dello stesso Ferdinando (aveva dieci anni) e al suo giuramento giurisdizionale nelle mani
del Justicia a Saragozza.

Nel 1465 nel Regno di Castiglia alcune importanti figure politiche, riunitesi ad Avila
(Farsa di Avila), deposero il re Enrico IV proclamando nuovo sovrano il fratellastro, con il
nome di Alfonso XII. Ad Enrico IV si rivolgevano accuse di tirannia, ma anche gli si
rinfacciava di essere un “re inutile”: la nobiltà di sentiva cioè legalmente legittimata a
deporre il proprio sovrano, in base ad antiche autorità che ricercavano nell’elezione da
parte dei nobili la legittimità dei sovrani di Castiglia e León. In realtà la deposizione non
ebbe del tutto successo: Alfonso XII morì nel 1468, mentre nel Regno imperversava una
guerra civile per decidere chi avrebbe dovuto governare, e di conseguenza – in assenza di
altri pretendenti – Enrico IV riacquistò il quasi universale riconoscimento della propria
legittimità fino alla sua morte avvenuta nel 1474. In assenza di una chiara discendenza, i
“nobili di Avila”, pur senza organizzare un’elezione vera e propria, preferirono alla figlia di
Enrico IV – Giovanna - la sorella di Alfonso: Isabella – conosciuta come la Cattolica – fu
acclamata regina e, contestualmente, si inneggiò anche al marito, Ferdinando d’Aragona.
L’ascesa al trono di Isabella e Ferdinando, confermata definitivamente dopo qualche anno
di guerra civile, aprì la strada, nel 1747, all’unificazione delle Corone di Castiglia e
Aragona.

L’unione delle due Corone avvenne come una riunione di eguali: ogni parte cioè
conservava proprie istituzioni e costumi, formalmente il regno si presentava ancora come
un’entità composita di più realtà (Castiglia e Aragona, ma anche Valenza). Nonostante ciò
Ferdinando e Isabella operarono chiaramente con l’intenzione di creare un unitario e
monarchico Regno di Spagna; perseguendo questo obiettivo diedero una nuova spinta
alla Reconquista dei regni arabi, legittimando ancor di più questa azione dopo la caduta di
Costantinopoli: nel 1492 la corona spagnola compì in questo senso un passo in avanti
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fondamentale sottomettendo il Regno di Granada, prima controllato dai mori. Di primaria
importanza, in senso anche strumentale, fu durante il regno di Ferdinando e Isabella il
ruolo della fede cristiana: già nel 1478 si era avviato il processo per l’istituzione di un
Tribunale dell’Inquisizione, che sarà poi definitivamente cinque anni più tardi posto sotto il
controllo del reale Consejo de la Suprema y General Inquisicion. Tale tribunale operava
nel giudicare i conversos (ebrei e musulmani forzati alla conversione dopo la Reconquista)
che erano sospettati di tornare alla “antica” religione. Nel 1492 poi tramite un apposito
editto regio tutti gli ebrei furono espulsi dai territori del Regno. Con queste azioni la
monarchia castigliano-aragonese era riuscita a creare un Regno di Spagna
sostanzialmente spagnolo e cattolico, quindi unitario. Fin dal basso medioevo il governo
regio in Castiglia si era distinto per una insolita, e particolare, attività legislativa, espressa
quasi del tutto attraverso lo strumento della prammatica: si tratta cioè di disposizioni
unilaterali del sovrano, che avevano validità su tutto il regno senza necessitare
dell’approvazione (e nemmeno dell’intervento in generale) delle Cortes. Le stesse Cortes,
a dire il vero, conseguentemente a una lunga protesta dei nobili che non vedevano i loro
interessi rappresentati dall’azione del sovrano, erano state del tutto svuotate delle
presenza aristocratica, tanto da essere quasi del tutto composte dai rappresentanti delle
città, che erano dunque lo Stato (estamento) con il quale il sovrano più spesso si
relazionava. Soprattutto dopo i violenti pogrom antiebraici del 1391, che avevano costretto
di fatto alla conversione l’aristocrazia ebraica delle città, queste erano dominate da un’élite
di caballeros, signori del territorio (cattolici o, appunto, potenti conversos), che in seguito a
una serie di costituzioni municipali promulgate all’inizio del XV secolo avevano
formalizzato e istituzionalizzato il loro potere nella forma del regimiento. Contro il
regimiento, a dire il vero, spesso si poneva – anch’essa organizzata nella forma della
comunidad – la plebe, creando situazioni di tensione che non raramente sfociavano anche
in rivolte popolari. L’affrancamento definitivo – quantomeno in termini formali - delle élite
cittadine dalle grandi famiglie nobiliari avvenne proprio durante il regno di Ferdinando e
Isabella: l’Ordinamiento del 1480 (prodotto nelle Cortes di Toledo) vietava qualsiasi
accostamento di tipo politico e istituzionale tra le città e i membri della nobiltà, a cui era
soprattutto impedito di occupare cariche cittadine. I patriziati urbani ricambiarono il
supporto ricevuto in questo contesto dalla corona organizzando, o meglio ri-organizzando,
le hermandades, fratellanze che offrivano prestazioni militari, di polizia e di
amministrazione della giustizia, e che si rivelarono estremamente importanti durante la
conquista di Granada (1492). Poco dopo fu anche formalizzata la partecipazione delle città
alle Cortes, fissando a diciotto il numero di municipi urbani che aveva diritto di accedervi;
mentre fu istituita la figura dei corregidores, ufficiali di nomina regia che assicuravano la
presenza della corona nelle città. Ben presto però, l’entusiasmo scaturito dalle disposizioni
di Toledo iniziò a scemare: il patriziato urbano si accorse infatti che, nonostante le
disposizioni formali imposte dall’Ordamiento del 1480, l’influenza della nobiltà fondiaria
sulle città era tutt’altro che scomparsa e accusò, non a torto, la Corona di non interessarsi
effettivamente dei diritti e delle libertà cittadine. La Corona però, aveva ben altri problemi:
nel 1504 Isabella morì, Ferdinando continuava a governare a pieno diritto sull’Aragona,
ma la legittimità della sua sovranità in Castiglia era poco chiara. Nonostante l’avversione
suscitata dall’imposizione di una serie di peones in Castiglia per tenere saldo il controllo

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del territorio, in un primo momento l’unità del Regno fu assicurata da alcune disposizioni
prodotte pochi anni prima da Isabella, che riconosceva il governo di Ferdinando sulla
Castiglia in assenza della figlia Giovanna (che in quel momento, effettivamente, si trovava
nelle Fiandre). Le Cortes nel 1505, a Toro, accordarono dunque a Ferdinando la legittima
sovranità anche sulla Castiglia: il sovrano ne approfitto per promulgare un nuovo
pacchetto legislativo che depotenziava ancora di più la nobiltà (maggiorascato, …), ma
questa situazione non era destinata a durare a lungo. Nello stesso anno, infatti, il re firmò
con il sovrano francese Luigi XII il Trattato di Blois, che inseriva entro i domini della
Corona anche il Regno di Napoli; più o meno contemporaneamente veniva
definitivamente istituito il Tribunale dell’Inquisizione, destinato ben presto a essere diviso
in due sezioni tra Castiglia e Aragona. Per qualche anno il Regno piombò nuovamente
nell’instabilità, complici anche le reiterate assenze del sovrano, impegnato a Napoli.
Quando tornò nel 1507 in patria, Ferdinando riprese saldamente le redini del Regno,
riuscendo – nei suoi ultimi anni di vita – a consolidare definitivamente il potere
monarchico:
 Con la prammatica del 1507 istituì un nuovo tribunale, la Real Audencia, che fu
definito “tribunale supremo del regno”: si trattava di un’istanza permanente ed era
composto da togati indipendenti. Anche questa misura veniva presa nell’ottica di
limitare l’influenza dei nobili sulla Corona.
 Nel 1510 le Cortes di Madrid formalizzarono definitivamente la sovranità di
Ferdinando sulla Castiglia, accettando anche la designazione di Carlo – nipote di
Massimiliano I d’Asburgo – come suo erede.
 Sempre nel 1510, ricevette l’incoronazione da papa Giulio II come re di Napoli.
 In quegli stessi anni Ferdinando guidò il proprio esercito vittorioso nella campagna
d’Africa, progettata come atto di difesa della Cristianità (1508-11), che si concluse
con la conquista spagnola di parte delle coste marocchine, tunisine e libiche.
 Nel 1511 condusse con successo una guerra contro il re francese Luigi XII,
ottenendo infine la conquista del Regno di Navarra, che incluse entro i
possedimenti castigliani. In cambio della partecipazione militare a questa guerra, le
Cortes aragonesi chiesero, e ottennero, la riduzione delle cause di Inquisizione alle
sole questioni di fede.

Ferdinando il Cattolico morì nel 1516 la questione della sua successione non era così
semplice: il sovrano aveva infatti lasciato in eredità cinque testamenti che presentavano
differenti disposizioni. Furono tuttavia rispettate le ultime disposizioni testamentarie del
sovrano, e Carlo d’Asburgo ricevette la Corona come Carlo I (poi Carlo V, quando salirà
anche al trono imperiale). Già proclamato re due anni prima, nel 1518 Carlo ottenne la
fedeltà dei rappresentanti delle città, imponendo in cambio però il riconoscimento alla
madre – Giovanna la Pazza (figlia di Ferdinando e Isabella) – come regina. Se in un primo
momento questa clausola sembrò essere accettata, poco dopo le Cortes aragonesi,
riunitesi a Saragozza, e già scettiche nei confronti del nuovo sovrano (non vedevano di
buon occhio il fatto che intendesse governare con funzionari di fiducia fiamminghi,
depotenziando l’apparato locale) rinunciarono a riconoscergli la legittima sovranità
fintantoché non fosse riconosciuta l’incapacità della madre e il sovrano non avesse giurato
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i fueros (un insieme di consuetudini scritte). Pur di non rinunciare alla sovranità, Carlo fu
costretto ad elargire ampie concessioni alle Cortes, ma riuscì infine a ricevere il
riconoscimento. Le Cortes accettarono la sovranità di Carlo e gli concessero un ingente
servicio (sussidio di denaro), tuttavia mantennero il diritto di autorizzare l’esercizio della
giurisdizione regale entro i propri confini, la riduzione delle competenze del Tribunale
dell’Inquisizione e altri privilegi (il Principato di Catalogna ne ottenne ulteriormente, con le
Cortes di Barcellona del 1519). Nel 1519 però, alla morte di Massimiliano I d’Asburgo,
Carlo ricevette l’elezione al trono imperiale, e necessariamente dovette per un certo
periodo di tempo allontanarsi dalla Spagna. I malumori suscitati da questo fatto, furono
amplificati dalle decisioni che il sovrano prese al suo ritorno: da un lato il clero locale non
accettò il fatto che Carlo avesse concordato un sussidio direttamente con Roma, senza
cioè passare dall’approvazione dei prelati spagnoli; dall’altro – nonostante la soppressione
degli encabezamientos della alcabala (tasse sulle vendite che le città dovevano pagare
alla Corona) – il patriziato urbano non gradì l’istituzionalizzazione del servicio, che
imponeva ora una imposta regolare ai grandi centri urbani. Quando nel 1520 il sovrano
progettò di chiedere Cortes castigliane – che si sarebbero riunite a Santiago - il
pagamento di un ulteriore servicio per coprire i debiti contratti per l’elezione imperiale, i
rappresentanti delle città e gli ecclesiastici si allearono rifiutando di pagare una nuova
ingente tassa che non era nemmeno indirizzata al bene del regno. Ne scaturirono anni di
tensioni e rivolte (1520-23) in diverse aree del regno, che arrivarono al culmine quando le
hermandades cittadine si organizzarono in difesa del regno e contro il sovrano. Messo
all’angolo, Carlo dovette rivedere la propria politica: nel 1525 autorizzò l’istituzione della
Diputacion in Castiglia, un comitato permanente e indipendente che vegliava sul rispetto di
quanto deciso dalle Cortes (soprattutto in materia fiscale), e che ben presto venne istituito
anche in Aragona, Catalogna e Valenza.

Nella monarchia spagnola il governo del monarca si concretizzava principalmente


nell’attività di segretari e Consigli, che rafforzavano il campo d’azione della Corona.
Durante il suo regno Carlo V istituì questi uffici in gran quantità, così da poter meglio
organizzare e gestire il suo potere su un vasto territorio e in ambiti differenti. Dovendo
anche gestire contemporaneamente il titolo imperiale, Carlo affidò a Mercurino di Gattinara
la carica di Gran Cancelliere di tutte le terre e i regni del re, che si esprimeva nel compito
di coordinare complessivamente i territori del Regno. Gattinara operava con l’intenzione di
centralizzare il più possibile il potere: non praticò alcuna separazione dei poteri e mise in
strettissima relazione – quasi in sovrapposizione – la Cancelleria e il Consiglio Privato del
re, che ben presto ricostituì in Consiglio di Stato. Tuttavia, alla morte di Gattinara questo
progetto di monopolizzazione del potere fallì: i segretari – funzionari tendenzialmente dotti
ma non di estrazione aristocratica, a differenza dei membri dei Consigli – aumentarono il
loro peso politico, andando in certi casi (Francisco de los Cobos, Granivelle) anche a
sovrastare per potere e influenza sul sovrano gli stessi Consigli.

Nel 1561 il nuovo sovrano Filippo II istituì definitivamente presso Madrid la sede della
Corona, dove si trasferirono anche i Consigli, andando così a rendere anche
materialmente quella metafora che li descriveva come parti del “corpo” del re. Sotto il

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regno di Filippo II aumentò, in un certo senso anche inevitabilmente (dato l’assetto
estremamente composito del Regno) il numero degli stessi Consigli, tanto che si parla di
polisinodia in riferimento a tale organizzazione amministrativa. Nonostante il lavoro del
sovrano come “cerniera” tra i diversi enti a lui sottoposti, questo assetto non poteva che
presentare degli inconvenienti: alcuni Consigli avevano un carico di lavoro decisamente
squilibrato rispetto ad altri, eccessivo a tal punto da rendere molto difficile il disbrigo delle
pratiche, conseguentemente questi consiglieri vantavano anche grandi poteri, e finivano
per operare senza l’imparzialità che il loro ruolo invece avrebbe richiesto. Ne conseguirono
alcuni scontri tra opposte fazioni, che misero a dura prova la stabilità del regno: nel 1579 –
di fronte all’aspro scontro tra il Duca d’Alba, Fernando Alvarez de Toledo, e il segretario
Antonio Pérez, che aveva diviso la corte – Filippo II si circondò di un gruppo ristretto di
fedelissimi, non appartenenti all’aristocrazia, guidato dal cardinale di Granevelle, al quale
soltanto il sovrano si riferiva quando aveva bisogno di consigli riguardo al suo operato.
Sette anni più tardi, conscio dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, il sovrano
approvò l’istituzione di una Giunta di Stato, composta da soli tre membri; di una Giunta
Grande (poi detta di Governo, che coordinava l’operato di altre giunte minori) e infine di
una Giunta di Notte, che si occupava delle questioni di maggiore rilevanza e in pratica
governava sul Regno al posto dell’ormai morente sovrano. L’istituzione di questo nuovo
sistema di governo, conosciuto come valimiento, permetteva al re di controllare il regno
non più attraverso il precedente apparato di segretari e Consigli, difficilmente
ammaestrabili, ma mediante comitati ristretti (giunte) composte solamente da individui
legati da uno strettissimo rapporto di fedeltà al sovrano stresso. Durante il suo regno,
Filippo II si servì notevolmente anche dell’Inquisizione come instrumentum regni, nella
speranza di poter imporre la collaborazione dei regni alla prosecuzione di una politica
universale. L’Inquisizione perseguì primariamente i moriscos ancora rimanenti nel
territorio, attirandosi però non pochi rifiuti, data l’importanza strategica che spesso
quest’ultimi ricoprivano rispetto al potere dei signori locali (in Aragona, specialmente). Per
altre ragioni, anche il Regno di Napoli non accettava l’imposizione del Tribunale
dell’Inquisizione, motivo per cui il sovrano dovette rinforzare la presenza delle proprie
forze sul territorio servendosi anche del servizio della visita, sempre con l’obiettivo di
consolidare una monarchia che in primo luogo doveva essere cattolica.

Il rapporto di Filippo II con l’amministrazione di Carlo V fu in realtà sostanzialmente


ambiguo: se per esempio a Milano e in Aragona continuò a mantenere valide le ordinanze
prodotte dal suo predecessore, il nuovo sovrano in Navarra e Valenza prese un’iniziativa
maggiore sul piano delle riforme, promulgando durante il suo regno nuove Ordenanzas
favorevole alle proprie istanze giurisdizionali, in contrasto ai tentativi di autonomizzazione
locale (analogo fu quanto accadde a Napoli). In questi territori era presente ancora un
diritto consuetudinario e pattizio, che fondava principalmente sull’istituzione dei fueros,
realizzazione del patto di fondazione tra re e signori: erano cioè previsti diritti come la
legittima deposizione del sovrano in caso di malgoverno, e in generale la convinzione che
comunque il re dovesse sottostare alle leggi. Certo, l’ordinamento giuridico aragonese
disponeva anche di un organo centrale, il Justicia, che si occupava di mediare tra i fueros
e di garantire una omogenea applicazione del diritto su tutto il territorio; a quest’organo,

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inoltre, competeva anche la cura dei diritti particolari dei regnicoli. L’equilibrio era però
alquanto instabile e, infatti, quando tra il 1591 e il 1592 Filippo II si servì dell’Inquisizione
aragonese per provare ad arrestare il suo ex segretario (e ora acerrimo rivale) Antonio
Pérez, senza passare per i fueros locali, la popolazione del Regno si ribellò, schierandosi
con Pérez (che in realtà puntava a fare dell’Aragona una Repubblica indipendente) e
assaltando il palazzo del viceré, oltretutto non aragonese e imposto dalla Corona. Data la
fallimentare mediazione del Justicia, per risolvere il tumulto il sovrano fu addirittura
costretto a intervenire militarmente. Da questo momento, quantomeno ove possibile (in
Sicilia, per esempio, permase la vecchia concezione “pattizia” della politica e della
giustizia), Filippo II impose unilateralmente il proprio controllo sull’amministrazione locale
dei territori della Corona. Tale controllo si realizzava particolarmente nella figura del
viceré, una sorta di alter ego del monarca, del quale esercitava pressoché le piene
funzioni sul territorio che gli era assegnato. A dire il vero, anche su quest’ultimo punto la
situazione non era così chiara: l’istituzione del viceré, infatti, doveva essere
originariamente concepita come potestas ordinaria, quindi sottoposta alle leggi particolari
del territorio in cui operava, tuttavia la nomina regia che questi governatori ricevevano
faceva propendere verso una maggiore pienezza di poteri. La conseguenza è una
situazione ancora una volta confusa, alla quale si aggiungeva spesso la presenza dei
Consigli territoriali (Aragona, Italia, Portogallo, …) che erano a Corte e che comunque da
Madrid volevano imporre la propria istanza sui rispettivi territori; e del Tribunale
dell’Inquisizione, che disponeva di una rete territoriale e soprattutto di una giurisdizione
autonome. Gli Asburgo intendevano, dunque, riuscire a controllare fermamente tutto il
vastissimo territorio di cui disponevano, senza però ledere eccessivamente gli ordinamenti
originari, cosa che avrebbe causato instabilità nel Regno. Un esempio può essere il modo
in cui la Corona aveva organizzato l’attività legislativa:
 In Castiglia la legislazione avveniva principalmente tramite atti unilaterali prodotti
esternamente rispetto alle Cortes (ex certa scientia; motu proprio). Il regno poteva
soltanto usare la formula, più formale che altro, “obedèzcase, pero no se cumlpa”
per manifestare la contrarietà a disposizioni in conflitto con l’ordinamento locale.
 In Aragona la legislazione doveva forzatamente passare dalle Cortes (e per questo
motivo qui l’attività legislativa era molto più lenta, dato che il sovrano era
abbastanza riluttante a convocare le Cortes), le quali potevano decidere di adottare
contro l’iniziativa monarchica i contrafueros.
 In Navarra e nei Paesi Baschi si usavano invece la sobrecarta e la pase foral, cioè
le istituzioni dei due territori dovevano produrre un “nulla osta” a riguardo
dell’azione del sovrano.
Ciò per cui era ovunque necessario il passaggio per le Cortes era invece la legislazione
fiscale: in realtà Filippo II in un primo momento aveva provato a dribblare le assemblee
cercando prima di trarre le imposte da quelle categorie per cui era possibile anche un atto
legislativo diretto (saline, dazi doganali, …) e poi ricorrendo alla pratica dell’asiento
(contratto tra sovrano e privato cittadino) con i banchieri genovesi. La seconda bancarotta
nel 1575, i costi esorbitanti per mantenere le colonie e quelli bellici, soprattutto per il
finanziamento dell’Armada Invencible, lo costrinsero però a ricorrere alle Cortes. I patriziati
urbani – per primo quello di Valladolid – iniziarono a chiedere al sovrano il riconoscimento
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di determinate condizioni in cambio del pagamento del millones, la nuova tassa imposta
da Filippo II. Le città, infatti – a ragione – continuavano a ritenere le Cortes l’unico luogo
dove si potevano concedere determinate prestazioni fiscali (a partire dalla più comune, il
servicio), e certo il sovrano certo non poteva – per questa ragione come per altre –
considerarsi a tutti gli effetti legibus solutus: la formula monarchica recitava, di fatti, Rey
con su Consejo, dove il termine “consejo” non include soltanto i Consigli “veri e propri”,
ma anche tutte le altre istituzioni, tra le quali, appunto, le Cortes. Durante il regno di
Filippo III, nel 1619 le città con voto alle Cortes riuscirono ad ottenere vantaggiose
condizioni circa il servicio, mantenendo il diritto di amministrazione e distribuzione dello
stesso, e organizzando specifici tribunali per tutte le cause che avevano a che fare con il
pagamento dello stesso.

In un momento estremamente difficile per la vita del Regno, con il rinnovato inasprirsi della
guerra contro le Province Unite (dichiaratesi indipendenti ancora nel 1580) e le solite
difficoltà economiche, alla morte di Filippo III nel 1621 salì al trono il primogenito Filippo
IV. Durante il suo regno Filippo IV si servì molto dei suoi consiglieri, e soprattutto del Duca
di Olivares, ridando sfoggio al fenomeno del valimiento, che già si era visto negli ultimi
anni di Filippo II. Il progetto di Olivares è riassumibile nella formula di conservazione
della monarchia: si trattava di ambiziosi programmi di riforma economica e politica nel
tentativo di rafforzare il potere della Corona attraverso l’aumento della sua rispettabilità
esterna. Olivares proponeva, in pratica:
 L’estensione del diritto castigliano (che favoriva l’autorità regale) a tutto il Regno,
così da contemporaneamente omogeneizzare l’ordinamento giuridico e rafforzare la
posizione del sovrano.
 Una ripartizione dei carichi e degli oneri soprattutto fiscali più equa, che
alleggerisse il peso che in quel momento gravava sulla Castiglia, facendo
partecipare anche i signori degli altri territori alle spese del Regno.
 La c.d. Unione delle Armi, cioè la creazione di una forza militare comune da
mobilizzare immediatamente nel caso di aggressione a una qualunque porzione del
territorio.
Il problema principale di questo progetto di riforma era, ovviamente, il fatto di dover
passare dalle Cortes: tra il 1621 e il 1623 Olivares cercò il dialogo con le assemblee
castigliane, ottenendo però la richiesta – per lui inaccettabile – di un percorso di riforma
condiviso tra Corona e patriziati urbani. Il passo più complicato fu chiaramente
l’approvazione dell’Unione delle Armi: se, quasi inaspettatamente, le Cortes aragonesi e
valenzane accettarono l’imposizione di carichi fiscali maggiori rispetto al consueto, quelle
catalane si opposero, generando – insieme al contraccolpo della sconfitta ispano-
asburgica nella Guerra di Mantova (1628-31), che segnò il passaggio del Ducato nella
sfera d’influenza franco-veneziana - un’empasse dalla quale Olivares non sapeva uscire.
Nel 1640, mentre poche milizie spagnole sostavano – compiendo anche qualche abuso –
nelle campagne per fronteggiare le pretese francesi sul Rossiglione, scoppiò una violenta
rivolta in Catalogna, che culminò nell’assassinio del viceré. La Generalitat catalana,
guidata da Pau Claris, riunì le Cortes locali senza la presenza del re, le quali offrirono –
per necessità, poiché l’indipendenza non era concretamente praticabile – la Catalogna alla
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corona francese, proclamando nel 1641 Luigi XIII sovrano. Complice anche la
contemporanea Guerra dei Trent’anni, Filippo IV riuscì a re-impossessarsi di Barcellona
soltanto nel 1652, ma nello stesso anno in cui era scoppiata la rivolta catalana, la Corona
spagnola dovette assistere impotente alla nuova indipendenza del Portogallo, che dopo
sessant’anni di dominazione straniera tornò padrone del proprio destino sotto la guida del
casato di Braganza. Gli ultimi anni di Filippo IV, dopo la morte di Olivares, manifestarono
in tutta chiarezza l’evidente fallimento delle sue politiche assolutistiche: nel 1647 la Corona
andò nuovamente in bancarotta, mentre in quegli stessi anni numerose rivolte, più o meno
sanguinose, esplosero in Sicilia, in Andalusia e a Napoli.

A Filippo IV successe il figlio Carlo II, il cui regno – poiché inizialmente era minorenne – fu
nei primi anni gestito dalla madre Maria Anna d’Austria. Il problema principale,
quantomeno inizialmente, con cui si dovette scontrare la reggente fu il notevole potere che
avevano oramai raggiunto i patriziati urbani: per il rinnovo dei millones non era infatti più
nemmeno “sufficiente” convocare le Cortes, ma si doveva contrattare singolarmente con
ogni città. L’estrema necessità di denaro che aveva la Corona, costrinse Maria Anna e poi
Carlo II a concedere notevoli autonomie alle città – attraverso le Cortes – anche nella
gestione del territorio; nonché a concedere giurisdizioni vassallatiche a privati e nuovi titoli
municipali a città che non ne godevano in precedenza. La concessione di autonomie
locali fu dunque il tratto distintivo del regno di Carlo II, al netto della comune convinzione
– presso la Corte – che queste rischiassero in ultima istanza di essere lesive per l’autorità
regia.

Tra il 1685 e il 1691 Carlo II affidò al Conte di Oropesa il compito di trovare una soluzione
per la riduzione del carico fiscale e il taglio delle spese del governo. In chiave di
semplificazione amministrativa si provò, con esiti tuttavia fallimentari, a ridisegnare la
mappa del Regno, dividendolo in tre macro-regioni; questo però non fece altro che agitare
ulteriormente i rapporti tra la Corona e i signori del territorio. Gli ultimi anni del regno di
Carlo II furono tuttavia segnati dal palesarsi di una pesante crisi dinastica: il sovrano non
aveva alcun erede diretto e quindi la sua successione era contesa tra:
 Giuseppe Ferdinando di Baviera, sostenuto dalle corone di Inghilterra e Olanda.
 L’arciduca Carlo d’Asburgo, sostenuto dal casato originario, austriaco, degli
Asburgo (e quindi dall’Impero).
 Filippo d’Angiò, appartenente al casato dei Borbone, e sostenuto dalla Corona di
Francia.
Il Consiglio di Stato spagnolo si schierò a favore di quest’ultimo e nello stesso senso si era
espresso nelle sue disposizioni testamentarie Carlo II, così nel 1700 Filippo d’Angiò salì al
trono di Madrid con il nome di Filippo V. La questione non si chiuse però nell’immediato: lo
scontento degli sponsor dei pretendenti delusi, così come il timore che la Francia, ora che
più o meno indirettamente controllava anche la Spagna, potesse conquistare un potere
eccessivo, generò la decennale Guerra di successione spagnola (1702-13). Nel suo
testamento Carlo II aveva raccomandato al suo erede di non modificare la planta
dell’organizzazione di governo, e soprattutto di mantenere intatti l’assetto dei tribunali e i
diritti dei fueros; finché la sua legittimità non era messa in dubbio, Filippo V, rispettò tali
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disposizioni, convocando regolarmente le Cortes in tutti i regnicoli, la situazione però mutò
allo scoppiare della Guerra di successione. Il primo problema scaturì, ancora una volta,
dalla Catalogna: il popolo catalano, che non vedeva di buon occhio la corona francese
dall’occupazione del periodo 1640-52 (per quanto tale occupazione fu inizialmente
acclamata, quasi richiesta dai Catalani in chiave anti-castigliana), non riconobbe Filippo V
come sovrano, e al suo posto proclamò re di Spagna l’arciduca Carlo d’Asburgo, con il
nome di Carlo III. Intanto, sfruttando le aspre contestazioni ricevute in Aragona e Valenza,
Filippo V abolì i fueros in questi territori, iniziando la sua riforma della planta di governo
orientata all’uniformità di leggi, usi, consuetudini e tribunali. Quasi sorprendentemente,
nel 1707 il sovrano riuscì a far riconoscere questa sua nueva planta dalle Cortes
aragonesi, promettendo in cambio nuovi privilegi ed esenzioni ai vassalli e alle città che gli
avrebbero giurato fedeltà. La riforma sostituiva definitivamente l’assetto corporativo del
Regno, ampliando di fatto il potere della Castiglia su tutti gli altri territori, e creando
finalmente una monarchia centralizzata. Quelli che prima erano definiti regni,
prendevano ora il nome di province, e contestualmente vedevano scomparire i Consejos
ad essi dedicati e i viceré sui rispettivi territori: ogni organo rappresentativo dei territori
doveva essere soppresso, eliminato. Risolta nel 1713 la Guerra di Successione, attraverso
la formale rinuncia al trono di Francia (che “bastò” per placare le pretese di Inghilterra e
Olanda), Filippo V poté proseguire liberamente nella sua opera di smantellamento della
planta asburgica:
 Il complesso sistema dei Consejos fu completamente smantellato, e al loro posto fu
introdotto un organizzazione di governo per ministeri, sulla falsa riga del modello
del funzionariato francese.
 La questione Catalana fu risolta definitivamente nel 1714 dopo un lungo assedio
militare: occupato anche il più riluttante dei territori e smantellate tutte le istituzioni
locali, Filippo V poté assumere finalmente il titolo di Re di Spagna.
 La figura del viceré fu abolita, e al suo posto il sovrano introdusse un comandante
generale che rappresentava la Corona in Aragona nel governo politico, economico
e militare.
 Ugualmente, l’amministrazione del regno fu organizzata su un impianto militaristico:
il territorio fu diviso in distretti (partidos) governati ognuno da una figura militare,
che oltretutto godeva anche di facoltà giudiziarie.
 Anche il ruolo dei corregidores, rappresentanti del sovrano nelle città, fu appaltato
all’esercito, tanto che nel corso del XVIII secolo ben il 96% di coloro che hanno
ricoperto questa carica provenivano dai ranghi militari.
 Nei territori della Corona d’Aragona – soprattutto in Catalogna - fu abolito il sistema
elettivo (insaculaciòn) che prevedeva l’elezione dal basso di alcune cariche, ora
tutte invece di nomina regia.
Sul piano fiscale Filippo V dovette scontrarsi con le leggi della Corona aragonese, che
rendevano alquanto difficile il prelevamento di fondi da parte del sovrano: la Real
Hacienda (il tesoro) aragonese, infatti, era di natura patrimoniale, cioè patrimonio della
Corona in quanto tale, e non del re come individuo, il quale per ottenere mezzi patrimoniali
doveva sempre passare dalle Cortes. La riforma di Filippo V consistette dunque
nell’abolizione dei foral (statuti contenti i diritti e le libertà di un territorio) aragonesi, e
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dunque anche di tutti gli impedimenti al fatto che il re potesse disporre unilateralmente e in
ogni momento dei beni della Real Hacienda.

A Filippo V, morto nel 1746 successero prima Ferdinando VI e poi, a partire dal 1759,
Carlo III. Alle Cortes riunitesi a Madrid nel 1460 per confermare la legittimità del nuovo
sovrano, veniva presenta la richiesta di revisione di alcuni dei punti della nueva planta di
Filippo V: la contestazione – per quanto moderata – verteva soprattutto sull’espropriazione
delle competenze dei municipi e sulla nomina regia di tutte le cariche civili, militari ed
ecclesiastiche sul territorio. Trattò la questione per conto del re il fedele ministro Leopoldo
de Gregorio, marchese di Squillace, definito da molti un politico dai modi “dispotici”: pur di
fronte a una realtà quasi di carestia – che altro non faceva se non accentuare la miseria
delle genti – egli impose una riforma che puntava alla liberalizzazione del mercato del
grano, ancora una volta sul modello francese. Tale riforma, promulgata tramite una
prammatica nel 1765 non dopo essere stata criticata anche nella fedelissima Castiglia,
generò forti moti di protesta in tutte le città, ma soprattutto a Madrid. Le motivazioni della
protesta, nel 1766 raggiunse il suo culmine, erano molto più ampie della semplice
imposizione del libero mercato del grano: i tumulti, che coinvolgevano le masse ma anche
i patriziati, i nobili e il clero, chiedevano la fine del dispotismo che caratterizzava il governo
di Squillace, oramai concepito come tirannico, e quindi il ritorno al “buon governo”. Carlo
III, costretto a intervenire, identificò soltanto il “volgo” come responsabile delle sommosse,
ma dovette scendere a trattative con gli altri, più qualificati e potenti, protagonisti della
protesta, che chiedevano la rivalutazione del ruolo delle Cortes e l’organizzazione del
regno secondo un assetto corporativo.

Un modello valido per risolvere questa delicata questione era quello offerto da un piuttosto
recente precedente storico: nel 1717, durante il regno di Filippo V, le province basche di
Guipùzcoa, Vizcaya e Alava avevano ricevuto, tramite determinate capitolazioni, una serie
di privilegi e libertà, riassunte nella denominazione di “province esenti”. Questi diritti si
esprimevano nell’esenzione da alcune delle novità amministrative introdotte dal Filippo V,
soprattutto in materia di controllo fiscale: i fueros locali, indipendenti, avevano ricevuto
pieno riconoscimento dalla Corona e a partire da questi si erano sviluppati dei corpi di
provincia di aspetto corporativo (e quindi non propriamente municipali) coordinati da una
locale Deputazione. Questo assetto, sviluppatosi spontaneamente a partire dal 1717, fu
riconosciuto come legittimo dallo stesso Carlo III nel 1780, ma rimase alla stregua di
un’eccezione e non fu preso in considerazione come modello per una nuova riforma del
Regno. Contestualmente, la Guerra anglo-spagnola (1779-83), combattuta dalla Spagna
nella speranza di scalfire i possedimenti coloniali britannici dopo l’Indipendenza
americana, richiese l’adozione di una serie di misure particolarmente gravose sul piano
finanziario, le cui conseguenze emersero violentemente dopo la morte del sovrano. Nel
1788, infatti, Carlo III morì e gli successe il figlio Carlo IV, il quale si trovò di fronte alla
necessità di compiere una scelta decisiva in un momento complesso per il Regno. La
monarchia aveva infatti bisogno di superare definitivamente l’ordinamento feudal-
corporativo in cui si era formata, magari adottando un assetto costituzionale “moderno”;
Carlo IV, come il suo predecessore, tuttavia decise di non abbandonare, pur di fronte ad

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evidenti problematiche e contraddizioni (che manifestamente si presentavano, per
esempio, ogni qualvolta la Corona doveva mettere mano alla Hacienda), l’istanza dispotica
rafforzando un atteggiamento “governativo” e, ancora meglio, “esecutivo”.

3. La Francia

Con la fine della Guerra dei Cent’Anni (1337-1453), la definitiva acquisizione della
Borgogna e il recupero completo della monarchia da parte dei Valois, il re di Francia Carlo
VII ritenne che non fosse più necessario il passaggio dagli Stati Generali per la proroga
delle imposte di guerra. Di conseguenza, quella del 1439 fu l’ultima convocazione
dell’assemblea, e successivamente il governo prese l’iniziativa di rinnovare annualmente
la taille (imposta regia che pesava principalmente sui contadini) senza ricorrere
all’approvazione degli stati. Tuttavia all’interno della stessa Corte del sovrano (una voce
importante è quella di Jean Juvénal des Ursins, poi arcivescovo di Reims) si levavano
malumori di fronte a questa scelta assolutistica di Carlo VII, e si chiedeva una maggior
consultazione delle assemblee in materia fiscale e militare. Il pensiero di Ursins, così
come quello di altri, era imperniato attorno alla difesa della proprietà privata degli
individui: riconosceva cioè la totale sovranità e assolutezza del princeps in termini
legislativi e giurisdizionali, ma non in quelli economici-fiscali: egli pensava – in altre parole
– che per quanto legibus solutus il sovrano avrebbe dovuto sottoporsi ad alcune
determinate leggi, così da poter dire di comportarsi non da tiranno, ma da legittimo re. La
politica assolutistica tuttavia non fu abbandonata da Carlo VII, e fu anzi resa ancora più
solida dal suo successore Luigi XI, che attuò una serie di riforme orientati alla
soppressione del feudalesimo e all’ampliamento del domaine royal (attraverso
l’inclusione nello stesso di Provenza, Angiò, Borgogna e Bretagna). Sostenuta da un
solido apparato dottrinale e resa ancor più forte dalla vittoria nella Guerra dei Cent’Anni, la
monarchia assoluta dei Valois aveva bisogno per affermarsi definitivamente di un
efficiente pacchetto di riforme amministrative. I primi atti di Luigi XI si configurarono come
contrari rispetto al regno del suo predecessore: abolì alcuni privilegi nobiliari (le pensioni),
soppresse la Cour des Aides (un tribunale fiscale) e abrogò la Prammatica sanzione
(1438) che aveva affermato l’indipendenza della Chiesa francese rispetto a Roma. Le
prime proposte fiscali di Luigi XI ebbero tuttavia effetti indesiderati, suscitando
malcontento sia negli strati più alti e qualificati della popolazione sia tra la folla: nel 1465 si
creò un movimento solido e autonomo, la Lega del Bene Pubblico, creata
originariamente da un gruppo di nobili ma poi aperta anche ad altre figure. Questi
chiedevano al sovrano di abdicare in favore del fratello e, successivamente, la
promulgazione di una riforma che puntasse al decentramento del potere, e quindi
all’aumento di libertà e competenze degli stessi principi in ambito militare, amministrativo e
finanziario nei rispettivi territori. I membri della Lega denunciavano l’illegittimità delle
esazioni fiscali imposte unilateralmente dal sovrano, chiedevano la convocazione degli
Stati Generali e complessivamente il ritorno a una gestione più partecipata del regno. Non
volendo scendere ad alcun patto con i suoi avversari, Luigi XI preferì la mobilitazione
dell’esercito, arrivando allo scontro diretto nella Battaglia di Montlhéry – nei pressi di Parigi
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-, che al netto del suo esito incerto segnò in realtà la sconfitta del sovrano, presto costretto
a cedere a molte delle richieste recapitategli. Il conflitto terminò infatti con la stipulazione di
due trattati (Conflans e Saint-Maur) con i quali:
 Il sovrano riprestava notevoli autonomie a diversi territori (Normandia, Charolais,
Bretagna), di fatto smantellando il regno unitario e centralizzato che da poco aveva
costruito.
 La Lega era riconosciuta e pure istituzionalizzata, tramite la creazione di
un’apposita commissione composta da 36 membri tra prelati, cavalieri e giuristi
(complessivamente chiamati “riformatori del Bene pubblico”) che doveva occuparsi
della riforma del regno.
Luigi XI capì che ciò che primariamente doveva fare per riconquistare i pieni poteri era
ritrovare l’appoggio delle élite parigine: la seconda parte del suo regno fu dunque orientata
al tentativo di riacquisire l’assolutezza del proprio potere tramite qualche minore
concessione ai suoi avversari, come la proposta di reintrodurre la Prammatica sanzione o
la ricostituzione di parte della corte del suo predecessore. Ad ogni modo, l’unico passo in
avanti, dal suo punto di vista, che fece Luigi XI fu la proclamazione della perpetuità degli
uffici regi, che gli permetteva di garantire l’inamovibilità dei propri funzionari. Poco dopo la
sua morte, nel 1484 gli Stati Generali vennero finalmente convocati: il pretesto era la
necessità dell’approvazione della reggenza di Anna di Beaujeu, siccome l’erede – il fratello
Carlo VIII era ancora minorenne -, tuttavia gli Stati ne approfittarono per ribadire
nuovamente la richiesta di una formalizzazione circa l’obbligo di approvazione
dell’assemblea per ogni imposta; e della convocazione periodica dei medesimi Stati
Generali.

La situazione rimase immutata per decenni. Quando nel 1519 Claude de Seyssel
nell’opera Monarchie de France sosteneva che il monarca dovesse sapere di essere
limitato nell’esercizio dei suoi poteri da tre elementi: religione, jurisdictio (cioè la presenza
di diversi parlamenti e organi amministrativi locali) e police (cioè le leggi fondamentali);
facilmente si sarebbe potuto affermare che di quei tre elementi quello meno divisivo era,
senza dubbio, la religione. In pochi anni tuttavia le cose mutarono in maniera più che
evidente: le tensioni tra calvinisti e gallicani esplosero repentinamente, anche perché
connesse a una pesante disputa tra le due maggiore dinastie di Francia: i Borbone e i
Guisa. Nel 1557 Enrico II ordinò la repressione dell’eresia calvinista: il Regno si trovava
in una situazione estremamente delicata, in quanto il lungo conflitto in Italia contro gli
Asburgo aveva sì da un lato favorito l’affermazione dell’assolutismo monarchico, ma
dall’altro la situazione fiscale del paese era notevolmente peggiorata, e questo aveva
costretto la Corona ad alzare notevolmente il prezzo della taille, generando ovviamente
nuovo malcontento popolare. Enrico II morì nel 1559, poco dopo la fine delle Guerre
d’Italia e quindi la Pace di Cateau-Cambresis, che segnò la sconfitta francese e l’inizio
della dominazione spagnola sulla penisola, e gli successe il giovane e debole figlio
Francesco II. Il regno di questi fu estremamente breve (stette al trono soltanto per due
anni, a causa della prematura morte) ma altrettanto travagliato: data la sua immaturità la
nobiltà di sangue francese ritenne che fosse giunto il momento per tornare a far valere
prepotentemente i propri interessi presso la Corona. La Corte di Francesco II era
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densamente popolata dai membri del cattolicissimo casato dei Guisa (con i quali
Francesco era imparentato attraverso la moglie Maria Stuart, la cui madre era appunto
Maria di Guisa, reggente di Scozia) e ad essa si contrapponeva invece la nobiltà
ugonotta – della quale uno dei più importanti esponenti era Luigi di Condé, il cui fratello,
Antonio di Borbone, era comunque consigliere presso il sovrano – che, anche sfruttando
una “lettura politica” dell’opera di Calvino difendeva l’importanza degli Stati Generali come
magisteri di protezione, tutela e difesa degli interessi del Regno, e cioè del popolo, contro
l’eccessiva cupidigia della Corona. Ancora più radicalmente, secondo i principi ugonotti
l’unico freno possibile alla tirannide dei Guisa era da rintracciarsi nella volontà degli Stati, i
quali avevano anche diritto di imbracciare le armi per ricacciare la violenza del sovrano e
della sua Corte. Questione centrale ora è il sistema legislativo e di approvazione degli
editti che era in vigore in Francia al tempo: tutti gli editti dovevano passare per la
registrazione (enregistrement) presso i Parlamenti, che avevano dunque anche il diritto di
opporsi, attraverso la presentazione delle c.d. umili rimostranze, alle istanze della Corona.
Certo, il re aveva sempre l’ultima parola e, in caso di necessità, poteva unilateralmente far
approvare i propri editti recandosi personalmente in Parlamento per tenere un letto di
giustizia (che rendeva obbligatorio l’enregistrement), tuttavia tali organi assembleari
mantenevano, se non un vero e proprio potere legislativo, una certa facoltà di rallentare e
ostacolare la legislazione del sovrano. Il problema principale per i principi ugonotti era
dunque legato a questo punto: puntare sugli Stati Generali – storicamente a loro favorevoli
– era di fatto inutile, in virtù della scarsa regolarità della convocazione degli stessi e anche
dell’effettivamente limitato potere di cui disponevano in quegli ambiti; mentre centrali nel
contesto delle relazioni tra la Corona (quindi il Regno) e la religione calvinista erano i
Parlamenti, i quali – soprattutto a Parigi – erano fortemente cattolici e repressivi verso la
confessione calvinista. Nel 1560 Francesco II morì prematuramente e gli successe
l’ancora minorenne Carlo IX, le cui veci furono fatte per i primi anni dalla madre e
reggente Caterina de’ Medici: a lei, invano, il Terzo Stato presentò la richiesta di una più
regolare convocazione degli Stati Generali, e di una sua maggiore importanza in ambito
amministrativo. Nel 1562 la situazione si aggravò: mentre il Parlamento di Parigi, guidato
dalle élite cittadine e al quale erano allineate anche altre assemblee locali, per due mesi
resisteva strenuamente a un editto regio (Editto di Saint Germain) che permetteva
l’istituzione di assemblee di culto protestante fuori dalle città, i seguaci armati del duca di
Guisa consumavano a Vassy – nella Marna – una strage di ugonotti, era l’inizio delle
Guerre di religione (1562-98). Già nel 1563 si raggiunse una prima tregua con la
promulgazione dell’Editto di Amboise (comunque aspramente criticato dal Parlamento
cattolico, che lo interpretava come uno strumento per dividere non solo la religione ma
anche la stessa Francia): agli ugonotti furono concesse alcune libertà di culto, pur limitate
rispetto a quelle fissate dal precedente Editto di Saint Germain. Tale politica di tolleranza,
portata avanti dalla Corona in questa prima fase, si deve soprattutto all’opera del
Cancelliere Michel de L’Hospital (in carica fino al 1568): egli riteneva infatti che, al netto
dell’indiscutibile assolutezza del potere regio, il suddito avesse in talune circostanze una
sorta di diritto alla disobbedienza, qualora esso fosse volto alla restaurazione della
giustizia nel regno e quindi al Bene comune. Sull’importanza dei parlamenti nel sistema
politico francese si erano esposti molti studiosi dell’epoca (Carondas le Caron; Etienne

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Pasquier), in questi termini un contributo fondamentale è quello offerto dal giurista e
magistrato Jean Bodin (Methodus ad facilem historiarum cognitionem, 1566): pur
muovendo dalla convinzione che l’attività legislativa era da dirsi sovrana nel senso di
“appartenente al re”, Bodin sosteneva che lo stesso monarca – formalmente nel corso del
giuramento effettuato al momento dell’incoronazione (sacre) – si sottoponeva a due limiti
tradizionali, quello di rendere giustizia a tutti e quello di non violare le leggi fondamentali
del regno (la justice e la polite). Su quest’ultimo punto è bene sottolineare come queste
leggi erano quelle che limitavano sostanzialmente l’assolutezza del potere monarchico, e
cioè si trattava della Legge Salica e di quella sull’alienazione dei domini della corona. Il re
era dunque sottoposto alla legge, e per ciò stesso i suoi editti potevano anche essere
annullabili in quanto non conformi a giustizia: in questo “campo” si inserivano – per Bodin
– i parlamenti, che avevano il compio di verificare l’aderenza dell’azione del sovrano
all’ordinamento giuridico in vigore (di conseguenza egli sosteneva anche che nessun
membro del Parlamento potesse essere deposto per ragioni che non avessero a che fare
con un delitto o una condanna presso un tribunale pubblico). L’importanza che i calvinisti
riservavano agli Stati Generali – la cui convocazione era continuamente richiesta dai
principi ugonotti – era del tutto negata dalla fazione cattolica anche in virtù di una
considerazione di natura religiosa: i sudditi non potevano infatti reclamare diritti di fronte al
sovrano in virtù dell’istituzione divina che egli stesso ricopriva, la quale escludeva ogni
possibile patteggiamento tra la Corona e il regno. Raggiunta la maggiore età e dunque la
pienezza dei suoi poteri, nel 1568 Carlo IX emanò l’Editto di Saint-Maur, abolendo tutti i
precedenti editti di tolleranza che la madre aveva promulgato e proibendo l’esercizio della
religione riformata: ai ministri di culto calvinisti era imposta l’espulsione dal Paese entro
quindici giorni; mentre qualsiasi protestante occupasse una carica pubblica doveva
convertirsi, o abbandonarla.

Il massacro della notte di S. Bartolomeo (1572) amplificò la voce della corrente


antimonarchica entro la fazione ugonotta; mentre alcuni degli stessi cattolici – i più
moderati – iniziavano a criticare il machiavellismo dell’azione del sovrano, chiedendogli di
licenziare la sua Corte “italiana” e di governare in modo più rispettoso verso i sudditi. Nel
1574 però ascese al trono Enrico III e il progetto di mutamento e rafforzamento della
monarchia durante il suo regno non poté che nuovamente evolversi: crebbe infatti
l’importanza dei segretari di Stato, giuristi – formalmente indipendenti, ma fedelissimi al re
– che garantivano la legittimità di ogni atto di Stato, assicurando l’amministrazione del
territorio e il rispetto delle leggi a Parigi come nelle province. Il sovrano decise anche di
vendere, rendendoli dunque patrimoniali ed ereditari, alcuni uffici di giustizia e finanza,
rafforzando così l’immagine della legislazione e della giurisdizione regia come atti
necessari, imprescindibili e in un certo senso “divini” (cioè dati dal diritto di Dio). Certo,
l’istituzione di un sistema di venalità delle cariche fu aspramente criticata soprattutto da
coloro che non riuscirono ad impossessarsene, dovendo accontentarsi di qualche minore
ufficio municipale, con la conseguenza di un aumento delle richieste di autonomie e
privilegi per le città. Mentre Enrico III insisteva in quest’opera di consolidamento del
proprio potere, le lotte religiose non si erano sopite, e anzi esse si infiammarono
nuovamente quando, nel 1584, l’unico erede diretto del sovrano – il fratello Francesco di

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Valois – morì: temendo che salisse al trono l’ugonotto Enrico di Borbone, re di Navarra e
cugino di Enrico III, i principi cattolici si unirono in una nuova Lega sotto la guida di Enrico
di Lorena, duca di Guisa.

Nel 1588 il conflitto esplose: re Enrico III iniziò a temere più la Lega Cattolica che la
fazione ugonotta e, dopo essere stato costretto a fuggire da Parigi in seguito a una rivolta
popolare inneggiante al duca di Guisa, ordinò l’assassinio dello stesso Enrico di Lorena,
sperando che una simile decisione potesse mettere fine al conflitto. Si sbagliava: l’anno
seguente il sovrano fu anch’egli ucciso e, nella confusione generale, il cugino gli successe
con il nome di Enrico IV. L’ascesa al trono di un principe ugonotto, in una situazione così
complessa, avrebbe potuto far implodere il Regno, invece il conflitto entrò nella sua fase
calante: sostenuto dal moderato – seppur cattolico – Parlamento parigino, Enrico IV
mantenne saldamente il potere, convertendosi anche al cattolicesimo nel 1593. La
pacificazione politica e religiosa arrivò definitivamente nel 1598 con la promulgazione
dell’Editto di Nantes, il quale assicurava in tutto il regno la la libertà di coscienza; mentre
per quanto riguarda la libertà di culto si divise in tre aree: essa fu decretata dove le due
religioni erano equamente presenti (ante-1597), fu invece dichiarato il cattolicesimo come
unico credo in alcune città (Parigi, Lione, Digione, …), in altre si riconobbe solo il culto
calvinista (Montpellier, La Rochelle); l’Editto distribuiva alle due fazioni anche alcune
piazzeforti. Poi, Enrico IV proseguì nel rafforzamento del suo potere: sostituì ai
Governatori delle province – che avevano notevoli poteri e libertà anche in ambito
giurisdizionale e finanziario – la figura dell’intendente, specifici commissari a lui fedeli che
rappresentavano il governo della Corona sul territorio, dipendendo direttamente dal
Consiglio del re (la connessione tra governo centrale e amministrazione territoriale fu
amplificata anche tramite il potenziamento dei maitres de requetes). Nel 1604, poi,
emanando l’Editto di Paulet il sovrano istituzionalizzo il possesso patrimoniale delle
cariche degli uffici. L’impronta fortemente esecutiva del regno di Enrico IV è dovuta in gran
parte all’azione dell’ugonotto duca di Sully, potente ministro del sovrano, che operò con la
ferma intenzione di modellare il governo francese sull’impianto di una solida monarchia
amministrativa, in cui ricopriva un ruolo fondamentale l’alta borghesia del Terzo Stato,
capace di acquistare le cariche ufficiali e quindi di detenere importanti porzioni del potere
pubblico.

La ristrutturazione istituzionale di Enrico IV si fermò improvvisamente nel 1610, quando il


sovrano fu assassinato da un fanatico cattolico. Poiché l’erede, il futuro Luigi XIII, era
ancora minorenne, la reggenza fu affidata a Maria de’ Medici, la quale rinnovò la Corte
preferendo nuovamente attorniarsi di consiglieri italiani, e di conseguenza riaprendo il
conflitto con la nobiltà francese. Nel 1614, in un clima tutto sommato tranquillo, furono
convocati gli Stati Generali, per l’ultima volta fino all’alba della Rivoluzione:
 Pressoché tutti i deputati del Terzo Stato chiedevano l’abolizione della venalità (e
pure dell’ereditarietà ad essa connessa) degli uffici pubblici.
 I magistrati, ufficiali regi del Terzo Stato, e i nobili consiglieri del sovrano
chiedevano unanimemente la proclamazione dell’inviolabilità della persona del re

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(richiesta influenzata dall’aver dovuto assistere a due regicidi in poco più di
vent’anni).
 Connesso al punto precedente, si chiedeva una totale indipendenza del potere
regio dalla Chiesa di Roma, in conflitto aperto con i rappresentanti del Clero, che
invece volevano il pieno riconoscimento dei canoni emessi dal Concilio di Trento.
 Il Terzo Stato, tramite i cahiers de doléances, chiedeva l’abolizione delle pensioni di
cui godeva una gran parte dei nobili; nonché la convocazione regolare (su base
decennale) degli Stati Generali.
Alla chiusura dei lavori, il re – convinto da molte delle proposte dell’assemblea – decretò
per l’abolizione della venalità delle cariche pubbliche; la riduzione delle pensioni dei nobili;
e l’introduzione di una Camera straordinaria di giustizia contro i finanzieri prevaricatori. Il
buon esito della riunione degli Stati Generali fu però rovinato dal tempestivo intervento del
Parlamento di Parigi, che volle avere l’ultima parola in merito alle riforme promosse
dall’assemblea degli Stati e dal sovrano. Luigi XIII, inizialmente intenzionato a non farsi
mettere sotto dai robins parigini, vietò la riunione del Parlamento rivendicando la propria
supremazia; tuttavia ben presto, per evitare l’accendersi di nuovi scontri, dovette
accordare all’assemblea della capitale il rinvio delle riforme per almeno due anni.

Nel 1617, trascorsi i due anni di “tregua” offerti al Parlamento, Luigi XIII convocò
un’Assemblea dei notabili per riavviare il proprio percorso di riforma: ancora una volta però
i progetti del sovrano dovettero interrompersi a causa dell’opposizione parlamentare e
dell’emergere di nuovi conflitti religiosi. Nel mentre il re si occupava anche della
riorganizzazione della propria Corte: eliminò (pure fisicamente) la “componente italiana”
voluta dalla madre e reggente e si affidò prima al duca di Luynes, e poi – a partire dal
1624 – al cardinale Richelieu. La religione protestante, riconosciuta dall’Editto di Nantes
come una sorta di comunità indipendente che godeva anche di un diritto particolare e di un
certo autogoverno, costituiva ora nuovamente un problema per la monarchia francese, che
desiderava affermarsi tramite la fedeltà personale al sovrano. Agli ugonotti, infatti, si
riconosceva il diritto di riunirsi ogni tre anni in sinodi nazionali alla presenza di delegati del
sovrano, che coordinavano un vasto e complesso universo di assemblee provinciali;
inoltre a tale comunità era state concesse circa 200 piazzeforti, disposte in modo non
eguale nelle regioni, che potevano mobilitare in poco tempo un esercito di 25.000 uomini
(chiaramente molto meno delle guarnigioni permanenti a disposizione della Corona); tanto
che si può parlare anche di “Stato ugonotto”. Dopo l’avvicinamento politico della Francia
alla cattolicissima Spagna, e un’ondata più o meno spontanea di conversioni al
cattolicesimo, a partire dal 1620 si riaccese il conflitto tra ugonotti e cattolici, con una
nuova guerra che si concluse nel 1628, quando l’esercito della corona strinse d’assedio e
quindi conquistò la città calvinista di La Rochelle. L’anno seguente Luigi XIII promulgò
l’Editto di Alès (1629): alla minoranza protestante si continuava a riconoscere le libertà di
culto e qualche diritto in termini giuridici, ma tutti i privilegi politici furono soppressi,
annullando così l’influenza ugonotta sulla politica della Corona.

La carestia che vessò l’Europa a partire dagli anni ’20 del XVII secolo e il contemporaneo
ingresso della Francia nella Guerra dei Trent’Anni, fortemente sostenuto da Richelieu,

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costrinsero le comunità locali a un forte indebitamento, per rimediare al quale dovettero
aumentare notevolmente la propria dipendenza dalla Corona. Questa in pochi anni impose
un pesante aumento del carico fiscale, arrivando anche a triplicare il prezzo della taille,
che – come già detto – gravava di fatto soltanto sulle spalle dei contadini; la stessa
riscossione dell’imposta fu nel 1634 tolta agli ufficiali locali e affidata gli intendenti, i quali
erano una figura istituzionale molto più vicina al re. Per finanziare la Corona furono anche
imposte altre tasse sui generi di prima necessità (Aides), sulle città e sui possidenti; e si
riprese la vendita delle cariche pubbliche. Fu proprio in questo periodo che aumentarono
notevolmente l’importanza e il peso politico degli intendenti: essi erano responsabili della
riscossione della taille (competenza finanziaria) e del giudizio circa qualsiasi contenzioso
sorto in quell’ambito (competenza giuridica), inoltre si occupavano anche di vegliare sulla
buona amministrazione del territorio a cui erano assegnati (competenza politica) e
disponevano di truppe a cavallo per costringere gli abitanti delle rispettive province a
pagare il dovuto alla Corona, ove necessario (competenza militare). Come prevedibile,
questo ingente carico fiscale imposto da Luigi XIII principalmente a scopi militari non fu
ben accettato dalla popolazione, e generò lo scoppiare di numerose rivolte urbane e
contadine tra il 1635 e il 1639 (rivolte dei Croquants). Ciò che chiedevano tali comunità
ruotava fondamentalmente attorno al concetto di libertà: libertà di amministrarsi, di
controllare le finanze e di trasmettere in via diretta – attraverso propri rappresentanti – le
imposte riscosse a Parigi. Si accusava Richelieu di aver stravolto il secolare ordine
istituzionale francese per il profitto suo e di chi gli stava attorno, e si chiedeva il ritorno a
uno Stato composto dalle realtà provinciali e aristocratiche, uniche istituzioni capaci di
sovvertire la tirannide del governante. Richelieu morì nel 1642 e l’anno successivo la
stessa sorte toccò a Luigi XIII, al quale successe il figlio Luigi XIV, ancora infante. La
reggenza, dunque, fu affidata dal Parlamento come di consueto alla madre dell’erede,
Anna d’Austria, la quale scelse come proprio consigliere personale il cardinale Mazzarino
(come per altro aveva disposto lo stesso Richelieu in letto di morte). Sfruttando il momento
di transizione, alcuni dei parlamenti locali (Tolosa, Parigi, …) proposero una serie di
riforme in senso antifiscali, che furono però tutte prontamente bloccate da Mazzarino, il
quale in risposta costrinse, tramite il mezzo del lit de justice, le assemblee alla
registrazione dei propri editti.

Nel 1648 il Parlamento di Parigi deliberò l’arret d’union, con il quale si univa alla Cour des
Aides, alla chambre des comptes e al Grand Conseil per creare un unico organo (che
prendendo il nome dalla sala dove si riunivano, diventò la Chambre de Saint-Louis) in
grado di emanare deliberazioni comuni in ambito di giustizia. La reggente Anna dichiarò
immediatamente nullo tale atto, in quanto trasformare quattro corti – pur legittime – in una
quinta che non avrebbe ricevuto il riconoscimento della Corona non era ammissibile. La
risposta dei magistrati fu dichiarare illegittimi i lits de justice del 1645 e del 1648,
accusando la reggente e la sua corte di sfruttare la minore età del legittimo sovrano per
imporre le proprie istanze e i propri interessi sul Regno. Fallito ogni tentativo di sciogliere
unilateralmente la Chambre, il Consiglio del re si vide costretto a intraprendere la via del
compromesso: riconobbe la nuova assemblea e le consentì di redigere un documento per
indicare le proposte di riforma dei magistrati. La richiesta di sottomere l’autorità regia al

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consenso delle corti sovrani in materia di giustizia e imposizione fu – pur controvoglia –
accolta da Mazzarino, il quale si vide dunque costretto, quantomeno in un primo momento,
a smantellare l’ordinamento autoritario creato da Richelieu per permettere un governo di
impostazione maggiormente assembleare. Perso questo primo scontro, il fido consigliere
della regina reggente era però già pronto a tornare all’attacco contro la fazione
parlamentare, che si era organizzata nella c.d. Fronda: nel 1648 cercò di far arrestare
alcuni parlamentari, ma dovette arrendersi di fronte alle barricate erette dalla popolazione
parigina; l’anno seguente – usufruendo delle truppe del principe Luigi II di Borbone-Condé
– strinse d’assedio la città di Parigi per due mesi, ma anche in questo caso dovette
arrendersi di fronte a una pace che non fu per nulla risolutiva. Nel 1650 Mazzarino mise in
pratica l’estremo tentativo: fece arrestare tre importanti principi, tra cui lo stesso Luigi di
Condé che fino a poco prima era suo alleato (ma che nel mentre, complice anche il vano
assedio di Parigi che pesò molto sulle sue spalle, aveva assunto posizioni molto critiche
nei confronti della reggente Anna), nella speranza che questo suo gesto fosse letto dai
magistrati e dalla popolazione come un atto di forza incontrastabile. Dopo poco meno di
un anno di reclusione, accortosi che ancora una volta le sue mosse si stavano rivelando
vane, Mazzarino decise di liberare i tre prigionieri e, ammettendo la propria sconfitta, di
lasciare lui stesso la Francia. Il compito di risolvere la situazione passò dunque alla
reggente Anna, la quale decise di convocare gli Stati Generali per il 1651: le doglianze
presentate dai tre ordini, e soprattutto dal Terzo Stato, davano per acquisita la
soppressione degli intendenti, e chiedeva l’abbassamento del prezzo della taille (nonché
una certa misura di decentramento nella gestione della stessa), un maggior rigore della
giustizia reale e una maggio chiarezza e regolamentazione riguardo agli alloggiamenti dei
soldati, oltre alla solita richiesta di formalizzare e rendere periodica la convocazione degli
Stati Generali. Tale processo consultivo voluto da Anna si interruppe però ancora prima di
entrare nel vivo: Luigi XIV, raggiunta la maggiore età, decise di bloccare la convocazione
degli Stati e di richiamare Mazzarino in Francia. Il Regno era diviso in tre fazioni: il re e
Mazzarino controllavano il Centro-Ovest; il Sud-Ovest era in mano a Luigi di Condé,
alleato al movimento comunitario (favorevole in un certo senso alla supremazia del re sul
parlamento, ma anche a un aumento delle libertà cittadine, e decisamente contro
Mazzarino) degli Ormée, nato a Bordeaux; mentre Parigi era ovviamente controllata dal
Parlamento. Tra il 1652 e il 1653, questa volta senza esitazioni, l’esercito regio riuscì a
sottomettere definitivamente la Fronda, riprendendo così il controllo del Paese. La
restaurazione del potere regio fu totale, d’altronde in un colpo solo Luigi XIV, senza
dover passare per gli Stati Generali, aveva sconfitto sia il Parlamento che i difensori delle
autonomie locali. L’identificazione della monarchia con lo Stato francese fu definitivamente
attuata tramite una serie di “riforme-lampo”:
 Al Parlamento era negato il diritto di rimostranza, i magistrati cioè non potevano in
alcun modo criticare l’operato dei ministri. Allo stesso modo, essi perdevano
qualsiasi possibilità di interferenza sugli affari di Stato e di finanza.
 Le libertà provinciali, alcune anche secolari, furono tutte smantellate, a favore
dell’amministrazione pressoché diretta della Corona sul territorio.
 Nelle periferie del Regno furono nuovamente inviati, con ampi poteri soprattutto in
ambito finanziario, gli intendenti.
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L’assenza di un’ulteriore risposta della Fronda parlamentare è da ritrovarsi non solo
nell’efficacia della politica di Luigi XIV e Mazzarino, ma anche nella contemporanea
Rivoluzione inglese, che aveva portato alla condanna a morte di Carlo I, gesto dal quale i
magistrati francesi prendevano in ogni modo le distanze.

Con l’adesione francese alla Guerra anglo-spagnola (1655-1660) a fianco dell’Inghilterra e


la conseguente campagna in Fiandra, il carico fiscale imposto dalla Corona tornò a pesare
insopportabilmente sulle spalle della popolazione: i nobili, così come le masse, tornarono
a chiedere a Luigi XIV, da poco consacrato re, una maggiore attenzione nei rispettivi
confronti. Tuttavia, la fine del conflitto e contestualmente il matrimonio tra il sovrano e
l’infanta di Spagna Maria Teresa (nonché la morte di Mazzarino, considerato il vero
artefice della politica fiscale del re) accesero nuovamente la speranza di una riforma più
equa. L’amministrazione delle finanze del regno fu dunque affidata a Jean Baptiste
Colbert, il quale – comprendendo il desidero di giustizia ed equità espresso dall’opinione
pubblica, accontentò le richieste “popolari”, istituendo anche una Camera di Giustizia
apposita per perseguire i reati e i soprusi commessi dai finanzieri nella riscossione delle
imposte. Ciò che però ancor di più caratterizza l’avvio del regno di Luigi XIV è l’estremo, e
infine riuscito, tentativo di fondazione del potere assoluto della monarchia, così come da
lungo tempo il Terzo Stato – reso esausto da secoli di guerre intestine e confusione
istituzionale – chiedeva. Nel 1673 tramite un apposito Atto di maestà il sovrano arrivò a
limitare fortemente il diritto di rimostranza dei parlamentari, e a rendere la pratica
dell’enregistrement (già fortemente minata dall’abuso dei lits de justice) un mero atto
formale. Di fronte al secolare conflitto tra monarchia e aristocrazia, Luigi XIV da un lato
depotenziò i parlamenti – centri del potere aristocratico – ritenendoli corpi indipendenti che
osavano agire contro l’interesse del sovrano (cfr. Chastelet), dall’altro si impegnò ad
allargare la propria personale Corte – che era stabilmente sotto il suo controllo –
includendovi anche molti esponenti della magistratura parlamentare.

Nel 1715 Luigi XIV morì, ed essendo il suo successore, Luigi XV, ancora in minore età, la
reggenza fu affidata a Filippo d’Orléans, il quale tra i suoi primi atti restituì ai parlamenti il
diritto di rimostranza che il precedente sovrano aveva revocato. Al centro della reggenza
di Filippo vi è, comunque, la lotta al giansenismo: nel 1713 papa Clemente XI aveva,
emanando la bolla Unigenitus Dei Filius, condannato definitivamente il giansenismo, credo
che da ben più di un secolo aveva riscosso grande popolarità in Francia; già Luigi XIV nei
suoi ultimi anni di regno si era impegnato nella repressione di tale eresia, tuttavia il fatto di
aver rimesso in ballo nella vita politica della Francia i Parlamenti causò a Filippo d’Orléans
l’emergere di nuove e pesanti polemiche in questo ambito. Il Parlamento chiedeva infatti al
reggente di prevenire l’influenza diretta della potenza ecclesiastica sugli affari del Regno,
insieme alle altre “solite” richieste di carattere politico (soprattutto legate a un nuovo
riconoscimento dell’enregistrement come atto dotato di effettivo valore giuridico). Se
Filippo non riuscì, nonostante qualche tentativo di depotenziare i magistrati, a liberarsi
della presenza di quel Parlamento al quale egli stesso aveva poco prima permesso di
tornare in scena; quando nel 1723 prese pieni poteri, Luigi XV fu molto più efficace nel
ricondurre i pieni poteri sotto la Corona. I Parlamenti, anche se non soprattutto per

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convenienza politica, risposero prendendo le parti dei giansenisti e accusando il sovrano
di non fare l’interesse della nazione, essendo guidato nella sua azione del papa e dai
gesuiti. Chi in questo momento prendeva le difese dell’istanza parlamentare (cfr.
d’Argenson) negava anche il riconoscimento della legittimità politica degli Stati Generali,
ritenendo che soltanto l’istituzione parlamentare, in quanto espressione di un’aristocrazia
colta, preparata e con a cuore l’interesse nazionale, potesse garantire il buon governo
della Francia. Nell’aprile del 1752 il Parlamento di Parigi pubblicò un extrait des registres
(versione ridotta di un atto parlamentare disponibile alle masse) in cui accusava il
Consiglio del Re di voler, depotenziando il potere dei magistrati, indebolire la “immagine
della Giustizia” in tutto il Regno; la Corona rispose subito con un proprio arret, con il quale
ribadiva la ferma intenzione di far rispettare la bolla Unigenitus Dei Filius, in quanto essa
era contemporaneamente legge della Chiesa e dello Stato (e che per altro, i magistrati, in
quanto giudici secolari, non potessero intervenire in tale circostanza). Il sovrano introdusse
anche formalmente lo strumento dell’avocazione: il Conseil privé – composto da ministri
da egli stesso delegati – poteva sottrarre dal giudizio della magistratura parlamentare
qualsiasi causa avesse potenzialmente avuto effetti rivelanti in termini politici.

Ben presto divenne leader della protesta parlamentare e – di conseguenza – della


resistenza giansenista il giurista Louis Adrien Le Paige: egli, come altri in quel tempo
(Hénault, …) si propose di formulare una personale interpretazione del concetto di
sovranità, declinandolo nei termini dell’aspro dibattito istituzionale in corso. Sovranità per
Le Paige significava la contemporanea presenza, fianco a fianco, del potere regio e di un
potere giudiziario indipendente, esercitato appunto dai magistrati dei Parlamenti. In altre
parole, tra sovrano e popolo sussisteva una sorta di contratto, il quale presumeva due
obblighi di obbedienza: quello del popolo verso il sovrano, ma anche quello del sovrano
verso la legge. Egli lamentava non soltanto l’illegittimità della bolla Unigenitus Dei Filius,
ma soprattutto il fatto che questa fosse stata usata come pretesto dalla Corona per –
mutando ogni causa rilevante in causa religiosa – togliere il potere ai magistrati e mutare
la monarchia in un regime dispotico e tirannico. Quasi a riprova di questa tesi, nel 1753
Luigi XV aveva inviato in Bretagna – territorio che, anche in quanto pays d’états, godeva
di amplissimi privilegi e libertà, soprattutto in materia fiscale – un uomo a lui fedele, il duca
d’Aiguillon, con la carica di comandante in capo (massimo rappresentante del potere regio
nelle province). Ben presto, a causa delle sue azioni in linea con la politica assolutistica
del sovrano, d’Aiguillon entrò in forte contrasto tanto con il Parlamento di Rennes
(rappresentato dal suo procuratore generale, Louis René de La Chalotais) che con i locali
Stati Generali. Nella speranza di risolvere a proprio favore lo scontro, d’Aiguillon fece
arrestare nel 1765 La Chalotais, insieme al figlio e ad altri magistrati, con l’accusa di aver
offeso il sovrano e sobillato la rivolta parlamentare: l’union des classes che la Corona
voleva imporre era, di fatto, la creazione di un sistema politico in cui chiunque non
partecipasse alla Corte del sovrano fosse, semplicemente, suddito esentato da ogni tipo di
partecipazione alla cosa pubblica. Di fronte a questa ennesima vigorosa protesta dei
Parlamenti, Luigi XV convocò il lit de justice per costringere gli stessi a cedere: in quella
poi divenuta nota come seduta della flagellazione (1766) il sovrano ribadì che il potere

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legislativo spettava a lui e lui solo, chiudendo almeno per un primo momento la sua
querelle con i magistrati e, di conseguenza, anche l’affare di Bretagna.

Tra il 1770 e il 1771 Luigi XV tornò all’offensiva contro i Parlamenti, affidando al suo
cancelliere René Nicolas de Maupeou il compito di produrre un nuovo regolamento di
disciplina: egli accusava i Parlamenti di voler abbattere la costituzione monarchica della
Francia, intendendo gettare l’amministrazione del Regno nel caos e nell’anarchia,
sacrificando al proprio interesse gli interessi del popolo. Il provvedimento di Maupeou, che
impediva ai Parlamenti ogni anche vaga forma di autonomia e indipendenza rispetto alla
Corona (divieto di usare formule quali “unità”, “indivisibilità”, …; di rinviare una pratica da
un Parlamento all’altro; di sospendere le funzioni giudiziarie; di riaprire la discussione su
editti già registrati od ostacolarne l’applicazione) fu imposto da Luigi XV tramite un
apposito lit de justice nel 1770, relegando di fatto i magistrati a un’accessoria funzione di
amministrazione della giustizia. Per questo motivo il Parlamento di Parigi decise in
risposta di riunirsi permanentemente sospendendo le proprie funzioni giudiziarie: dopo il
rifiuto di due tentativi di accordo, nei primi mesi del 1771 la Corona andò violentemente
all’attacco. Si arrivava così al c.d. colpo di Stato Maupeou: il governo esiliò i “ribelli” e
confiscò loro le cariche; poi con un apposito editto lo stesso Maupeou in prima persona
istituì al posto del Parlamento di Parigi sei Consigli superiori composti da membri
revocabili dalla Corona e, contestualmente, annunciò l’intenzione di abolire la venalità e
l’ereditarietà degli uffici, segnando definitivamente la rottura con l’aristocrazia. La
aristocrazie cittadine, quella di Parigi in primis, denunciarono la deriva dispotica del
governo di Luigi XV, nonché le dubbie competenze e moralità dei magistrati scelti dal
governo al posto dei membri del Parlamento di Parigi. Anche i vari Parlamenti delle
province furono ben presto destituiti, e spesso rimpiazzati con le Cours des Aides dei
rispettivi territori. Anche ciò che di positivo Maupeou aveva introdotto con la sua riforma, e
cioè la soppressione della venalità delle cariche e l’introduzione di uno stipendio regio al
posto dei privilegi personali per i magistrati, passarono in secondo piano presso
un’opinione pubblica che senza esitazione si schierò dalla parte dei Parlamenti,
riconoscendoli come l’unica forza politica che storicamente era stata in grado – soprattutto
in ambito fiscale – a contrastare i soprusi della Corona. La richiesta principale dei
Parlamenti, in questo momento, era la convocazione degli Stati Generali: essi cioè
ponevano come priorità la necessità di “interrogare la Nazione”, puntando nell’intervento
dei corpi intermedi come ultimo strumento utile per limitare il potere del monarca.

Nel 1774, alla morte di Luigi XV, divenne re di Francia il figlio Luigi XVI, il quale subito
liquidò Maupeou e rimise in funzione il Parlamento di Parigi. Il regno di Luigi XVI non iniziò
però nel migliore dei modi: 1775 esplose in Borgogna nell’Ile de France la guerre de
farines, una sommossa contro il rincaro del prezzo del pane che costringerà il sovrano a
spodestare il suo cancelliere Turgot. La politica fiscale tornò ad essere centrale negli
affari del regno: la Cour des Aides presentò alla Corona un esposto dove affermava
l’iniquità della politica fiscale vigente, che non rispettava il fondamentale diritto del cittadino
di consentire volta per volta il pagamento dell’imposta (al contrario, era previsto un
prelievo di una parte del reddito la quale non era però in origine precisamente esplicitata).

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Si chiedeva cioè a Luigi XVI di adottare il diverso metodo della ripartizione, e cioè di
indicare all’inizio di ogni anno un bilancio che comprendesse il totale da ricavare dalle
imposte, e poi di dividere tale quota tra i vari enti locali (riforma che avrebbe previsto la re-
istituzione di organizzazioni di potere a livello locale, che i predecessori dell’attuale re
avevano smantellato). Nella visione di Turgot questo progetto non era più di tanto
realizzabile: egli intendeva infatti la Francia secondo una costituzione piramidale, ove le
amministrazioni locali potevano al massimo essere usate per la ripartizione delle entrate
fiscali, ma certo non avere voce in capitolo o addirittura potersi opporre agli editti del
sovrano. Egli comunque, come già detto, non poté mettere in atto la propria riforma perché
fu destituito da Luigi XVI, che gli preferì il banchiere protestante Jacques Necker, la cui
visione a riguardo era completamente differente rispetto a quella del suo predecessore.
Necker richiamava le particolarità storiche e giurisdizionali dei diversi territori del Regno
per motivare l’impossibilità di produrre una politica unitaria e omogenea realmente efficace
in ambio fiscale; s’impegnò in altre parole a promuovere una politica di decentramento e
differenziazione amministrativa. Egli, iniziando dalle province marginali del Berry e
dell’Haute Guyenne, istituì delle amministrazioni – istituzioni amministrative locali –
composte sulla falsa riga degli Stati Generali (pur con meno membri), ma con una
rappresentazione sbilanciata a favore del Terzo Stato (il c.d. Raddoppio del Terzo) e con
un terzo dei componenti di ciascun ordine che erano di nomina regia. Confortato da
questo esperimento, Necker provò a testare la sua riforma su una realtà più ricca e
importante: il Delfinato, ma finì per scontrarsi con le richieste dell’aristocrazia locale, che –
sfruttando le pur limitate libertà che ora il governo gli offriva – iniziarono a chiedere la re-
istituzione dei locali Stati Generali, soppressi da Richelieu nel 1628 (il Delfinato era un
pays d’états). Nel 1781 anche Necker fu licenziato: dopo i brevi – e fondamentalmente
ininfluenti – governi di de Fleury (1781-83) e Calonne (1783-87), nel 1787 divenne
cancelliere del re l’arcivescovo di Tolosa Loménie de Brienne. Questi proponeva un
progetto di decentramento su base rappresentativa, tramite l’istituzione – sulla falsa riga
della politica di Necker – di Assemblee provinciali incaricate della ripartizione delle tasse e
della determinazione dell’imponibile. De Brienne finì per generare lo stesso conflitto che
aveva messo in crisi la riforma di Necker: nel gennaio del 1788 il Parlamento di Grenoble,
nel Delfinato, sciolse l’assemblea provinciale, chiedendo il riconoscimento dei locali Stati
Generali. La risposta della Corona fu veemente: Luigi XVI cassò la delibera, mentre De
Brienne istituì una Cour plénière di nomina regia con la funzione di registrare le leggi al
posto dei Parlamenti, esautorando ancora una volta i magistrati. Nuovamente l’opinione
pubblica non tardò a schierarsi contro la monarchia, e quando a giugno i parlamentari di
Grenoble furono esiliati, la città rispose con una violenta manifestazione (giornata delle
tegole) che costrinse il Comandante in capo della provincia a revocare l’ordine di partenza
dato ai magistrati. Di fronte a una tale situazione Brienne fu costretto a cedere e a
riconoscere la convocazione di un’apposita assemblea per il ripristino degli Stati provinciali
nel Delfinato. Poiché analoghe situazioni si stavano verificando anche in Bretagna e in
Normandia, Brienne finì per ammettere la propria sconfitta su ogni fronte: ripristinò i poteri
dei Parlamenti e, soprattutto, convocò gli Stati Generali per il 1789; quindi rassegnò le
dimissioni. Il governo tornò, nel 1788, nelle mani di Necker, il quale nel riproporre le
proprie politiche di decentramento doveva fare i conti con l’avvicinarsi degli Stati Generali.

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Nei cahiers de doléances il regno chiedeva, ovviamente, il riconoscimento di un maggior
grado di autogoverno locale, tanto a livello di Stati provinciali quanto, anche, di
municipalità. Si chiedeva una regolamentazione su base locale, e sotto il controllo di
rappresentanti democraticamente eletti, del carico fiscale. L’amministrazione della
provincia doveva essere affidata agli Stati provinciali, e non agli intendenti di nomina regia,
che dovevano essere rimossi. In ultimo, gli ordini chiedevano di dare al Paese una chiara
Costituzione, in contrasto con la confusione legislativa, giudiziaria e amministrativa che
aveva caratterizzato gli ultimi decenni.

4. L’Inghilterra

Durante la Guerra delle due rose tra York e Lancaster, il consigliere reale John Fortescue
scriveva per la formazione del principe del Galles Edoardo l’opera De Laudibus Legum
Angliae, ove elogiava il sistema politico inglese confrontandolo con la dissolutezza e il
dispotismo di quello francese. Il punto focale, per Fortescue, ruota attorno alla
legislazione: i sovrani francesi governano imponendo al regno il proprio volere
unilateralmente, mentre la Corona inglese applica le “leggi del paese” un preciso tipo di
statuti che non derivano soltanto dal mero volere del sovrano, ma anche
dall’imprescindibile consenso del regno, espresso dall’accondiscendenza dei suoi
rappresentanti riuniti nel Parlamento. L’origine di questa fondamentale pratica politica e
costituzionale è tra ritrovarsi nei primi anni del XIII secolo: la monarchia inglese era in quel
momento fortemente accentrata, ma il regno di Giovanni Senza Terra era già contestato
dai baroni e dall’aristocrazia urbana di Londra. Nel 1214, in seguito alla sconfitta Battaglia
di Bouvines – condotta insieme all’Imperatore Ottone IV di Brunswick – contro il re
francese Filippo II Augusto, la Corona inglese perse il controllo sulla Normandia e i
contestatori di Giovanni aumentarono le loro proteste riuscendo, l’anno seguente, a
ottenere la promulgazione di un documento costituzionale, la Magna Charta libertatum
(1215), ove il sovrano giurava di rispettare il diritto feudale vigente e di sottostare a una
serie di condizioni nella sua azione di governo. La Magna Charta – che tra le altre cose
prevedeva l’istituzione di un apposito Consiglio regio (composto da altri prelati e nobili) che
avrebbe dovuto approvare ogni riforma fiscale del sovrano; l’introduzione del principio
dell’Habeas corpus (diritto al giusto processo) e del diritto di resistenza a un sovrano
oppressore – aprì le porte alla nascita del Parlamento inglese, che si avrà formalmente
alla fine del secolo, quando sarà istituzionalizzata un’assemblea di vescovi, nobili, abati,
ma anche cavalieri e rappresentanti di borghi e contee. Nel corso del XIV secolo,
soprattutto durante i regni di Edoardo III (1327-77) ed Enrico IV (1399-1413), il Parlamento
aveva raggiunto un potere molto vasto e un’importante influenza nella politica del sovrano,
successivamente però la sua presenza nella conduzione dell’Inghilterra iniziò a diminuire.

Edoardo IV, sul trono tra il 1461 e il 1483, convocò il Parlamento soltanto sei volte. Nel
1471 il sovrano era riuscito a volgere a suo favore la Guerra delle due rose sconfiggendo
le truppe fedeli ai Lancaster nella Battaglia di Barnet e a prendere dunque il pieno
controllo su tutto il territorio della Corona. Questo gli permetteva di accedere a fonti di

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tassazione “alternative”, e quindi di non essere costretto a passare forzatamente dal
Parlamento, che fu di conseguenza messo relativamente in disparte. L’attenzione alle
finanze era in quel periodo un tema centrale nella gestione del Regno: il successore di
Edoardo IV, Riccardo III (1483-85), nel suo breve regno produsse un memorandum in cui
raccomandava che lo Scacchiere (il ministro del Tesoro) presentasse annualmente una
sorta di bilancio a dei commissari appositamente incaricati di valutarla. Il riaccendersi della
Guerra delle due rose – oramai delineata a un conflitto tra York e Tudor, potenti alleati dei
Lancaster – portò alla morte sul campo del sovrano nella Battaglia di Bosworth e
all’ascesa al trono di Enrico VII Tudor (1485-1509), il quale si distinse per essere un
grande riformatore. Già nel 1471 erano state infatti istituite delle specifiche Commissioni
d’inchiesta incaricate di accertare i confini dei territori della Corona e assicurarne le
obbligazioni feudali, nel 1503 Enrico VII – interessato ad aumentare e consolidare il
proprio patrimonio – affidò a una figura da lui appositamente creata, il master of the wards,
l’esercitazione del diritto di wardship (una sorta di tutela per cui la Corona prendeva il
controllo di diretto di quei feudi il cui legittimo signore, vassallo del sovrano, non aveva
ancora raggiunto la maggiore età). Contestualmente, pur con molto meno successo, il
sovrano istituì anche un sovrintendente che si doveva occupare delle politiche più
“oppressive” della Corona (diritti del re sulle terre possedute da traditori, fuorilegge, …); e
un corpo di consiglieri, presieduto dal duca di Lancaster in quanto cancelliere, che
operava nell’ambito della legislazione penale. Ciò che comunque è centrale
dell’amministrazione di Enrico VII è il ritorno di un’amministrazione monocratica del
Regno, espressa attraverso il predominio della Real Casa sul Parlamento, che –
soprattutto rispetto al precedente periodo della Guerra dei Cent’Anni, quando era un
partner quasi di pari livello del sovrano – ora tornava a ricoprire un ruolo secondario nella
politica inglese. La gestione politica e amministrativa del regno messa in atto da Edoardo
IV ed Enrico VII avvicinava, di fatto, l’assetto di governo inglese a quello francese. Su
questa falsa riga intese governare anche Enrico VIII (1509-47); nel 1521 – dopo un breve
periodo di tregua durato un solo anno – il sovrano strinse un’alleanza con l’Imperatore
Carlo V e mosse nuovamente guerra alla Francia, intraprendendo un conflitto i cui costi
per la corona inglese ammontavano a sei volte le entrate. Per evitare la bancarotta, tra il
1522 e il 1524 il sovrano progettò una nuova tassa, chiamata Amicable Grant, per la cui
introduzione ritenne di non dover passare dall’approvazione parlamentare: la risposta del
regno fu ferma e violenta, ed Enrico dovette abbandonare il progetto. Incapace a
proseguire la guerra, Enrico VIII ruppe l’alleanza con Carlo V e con essa anche il
matrimonio progettato tra l’Imperatore e la figlia Maria, che avrebbe aperto a un’unione
dinastica.

Le conseguenze della rottura tra Inghilterra e Impero ebbero pesanti ripercussioni sulle
politiche matrimoniali dei due regnanti: quando Carlo V convolò a nozze con Isabella di
Portogallo, Enrico VIII ripudiò la moglie Caterina d’Aragona, chiedendo al pontefice, papa
Clemente VII, l’annullamento del matrimonio. Il rifiuto di questi determinò l’evolversi della
Riforma anglicana, che portò – sul versante istituzionale – a un riavvicinamento tra
Corona e Parlamento. Già prima della Riforma, nel 1525 si era diffusa la concezione del
Parlamento come corpo di tutto il regno, con il cui consenso erano emanati gli atti regali: le

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letti emanate dal Parlamento (come lo statute) tuttavia, fino al 1528 dovevano essere – in
quanto leggi degli uomini – rispettose delle leggi di natura e, anche, delle leggi di Dio. La
Riforma (pur non essendo in prima istanza un atto parlamentare, perché il sovrano si
riteneva a capo della Chiesa anglicana per investitura divina), nell’abolire completamente
la giurisdizione autonoma della Chiesa di Roma in Inghilterra, richiese una stretta
collaborazione tra Enrico VIII e il Parlamento, il quale partecipò attivamente emanando
sanzioni penali contro qualsiasi azione ritenuta contraria al nuovo ordine e regolando, tra
le altre cose, le conseguenze economiche della Riforma. Un atto del 1534 confermò la
superiorità della legge positiva sulla legge canonica, sostenendo che quest’ultima non
aveva alcun valore se non era stata accettata dallo statute emanato dal Parlamento. Le
conseguenze del Reformation Parliament (1529-36) furono però molte e soprattutto si
espressero in termini fortemente politici:
 Le competenze del Parlamento aumentarono notevolmente, tanto che questo
divenne definitivamente istituzione imprescindibile nel sistema di governo inglese.
Contestualmente, crebbe l’importanza della House of Commons, fino a divenire il
ramo prioritario dell’assemblea.
 Nell’attività di governo, pur con riluttanza, la Corona fu costretta ad ammettere che
il proprio ruolo – e quindi anche quello del Consiglio – non derivava dal diritto
divino, ma era al contrario regolato dalla common law. Di conseguenza, circa
l’entità delle prerogative di governo della Corona poteva esprimersi anche il
Parlamento.
 Nell’attività legislativa il principio base era quello dell’azione comune di Re e
Parlamento: le leggi ordinarie dovevano essere prodotte insieme dalle due
istituzioni; al sovrano spettava il diritto di ricorrere a proclami regi che potevano
però essere annullati dall’assemblea parlamentare. Sulla base del principio del
King in Parliament, è bene ricordare come il monarca sedesse – come più alta
autorità – in Parlamento, e quindi di fatto durante l’attività legislativa ordinaria i due
corpi si tramutassero in un entità unitaria.
 Il diritto ecclesiastico della riformata Chiesa anglicana doveva essere approvato
congiuntamente tanto dal Re quanto dal Parlamento.
 Il Parlamento rappresentava anche la più alta istanza giudiziaria dello Stato: la sua
attività non era la creazione della legge, ma veniva al contrario intesa come
dichiarazione di diritto (law-declaring). I giudici potevano, nell’applicazione del
diritto, differire dalle intenzioni dell’assemblea non più tanto per ragioni
interpretative, quanto piuttosto respingendo l’atto parlamentare per ragioni di
incongruenza con il diritto naturale o con la giustizia così come prevista dalla
common law (che rimaneva dunque, idealmente, superiore al singolo atto
parlamentare).

Dopo il breve regno di Maria Tudor (1553-58), la quale intraprese una politica di ripresa
del cattolicesimo, salì al trono d’Inghilterra Elisabetta I (1558-1603). La nuova regnante
promosse nei primi anni del suo regno una politica di stampo isolazionista e conservatore,
dovendo però fronteggiare – ancora una volta soprattutto in campo religioso – diversi
conflitti. Tra le varie questioni quella più delicata si manifestò nella ferma richiesta di una
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nuova e ben organizzata fazione del clero, i puritani, di evolvere la Riforma avviata da
Enrico VIII e poi interrottasi con Maria Tudor, in senso ancora più anti-papale: la regina
non ascoltò queste richieste di purificazione del credo anglicano, nonostante ormai il
movimento puritano si stesse fortemente radicando nel regno. Nel 1568, intanto, in Scozia
la ribellione dei protestanti Lord della Congregazione costrinse la regina cattolica Maria
Stuart ad abdicare in favore del figlio Giacomo e a fuggire in Inghilterra. L’arrivo di una
regnante fermamente cattolica sul suolo inglese suggerì alla Chiesa di Roma di sfruttare
l’occasione per promuovere la restaurazione del cattolicesimo: papa Pio V nel 1570
emanò una bolla con qui deponeva Elisabetta I, liberandone i sudditi dall’obbedienza.
Temendo fortemente (e a ragione) il palesarsi di una congiura ai suoi danni, la regina si
vide costretta a inasprire le proprie politiche contro i cattolici, costringendo anche al
confino Maria Stuart. L’inevitabile conseguenza della politica anticattolica di Elisabetta
condusse l’Inghilterra a un conflitto con la Spagna, che ebbe il suo apice
nell’affondamento dell’Armada Invencible spagnola nel 1588, vittoria decisiva della flotta
inglese che permise alla regina di rafforzare la propria posizione in campo religioso, pur
dovendo rivedere le proprie politiche militari ed economiche, così come i propri rapporti
con il Parlamento a causa degli alti costi richiesti dalla guerra con la Spagna. Nonostante
l’emergere di importanti frizioni tra la Corona e il Parlamento - sia perché questo fu
relegato di fatto al solo compito di approvare le molte tasse imposte dalla regina, sia
perché la sovrana spesso non accordò piena libertà di parola ai suoi membri, arrivando
anche a imprigionare alcuni deputati della House of Commons per discorsi sediziosi –
Elisabetta I riuscì ad evitare ulteriori pesanti conflitti con i propri sudditi, promuovendo una
politica che combaciava con gli interessi della gentry (la nuova rampante classe di piccoli
proprietari terrieri, che si configurava come il gruppo più numeroso nei Comuni) e della
borghesia commerciale e artigianale, che rappresentava i governi locali e anch’essa
componeva la stessa House of Commons.

Alla morte di Elisabetta I, nel 1603 salì al trono inglese Giacomo I Stuart, che dal 1567 era
già sovrano di Scozia con il nome di Giacomo VI. La concentrazione dei due titoli regi in
una stessa persona non comportò però in alcun modo l’unificazione delle due Corone,
dato che tanto la Scozia quanto l’Inghilterra continuarono ad avere proprie rispettive
istituzioni indipendenti (soprattutto a livello parlamentare). Nel 1598 Giacomo VI – ancora
soltanto regnante di Scozia – aveva teorizzato il diritto divino dei re (The Trew Law of
Free Monarchies): la legittimazione al monarca a governare proviene direttamente da Dio,
e di conseguenza tutte le teorie concernenti qualsivoglia sorta di diritto del popolo a
governare o quantomeno a ribellarsi al proprio sovrano erano da rifiutare categoricamente.
Nata in termini sostanzialmente politico-giuridici per esprimere i rapporti tra sovrano e
sudditi, in Inghilterra la teoria prese rapidamente i contorni di uno scontro religioso: vi si
oppose la fazione cattolica, difendendo tanto il regno dalla sua esclusione dalla sfera
politica, tanto se stessa, dato che il sovrano predicava la totale estraneità del potere
ecclesiastico rispetto all’ambito secolare. Giacomo I, dunque, riteneva proprie in
conseguenza della derivazione divina del suo potere alcune particolari prerogative
(mistery of state) che gli permettevano in dati ambiti di imporre i propri poteri senza il
necessario passaggio dal Parlamento, e questo ovviamente non fece causare

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l’opposizione della House of Commons. In politica fiscale, sfruttando a suo favore
un’importante sentenza giuridica del tempo, Giacomo I si arrogava il diritto di imporre
tasse senza l’approvazione parlamentare qualora queste non ricadessero direttamente su
un cittadino, ma fossero parte di un progetto di regolamentazione del commercio
internazionale: in termini più ampi, questa situazione fu interpretata dalla Corona come la
prova dell’esclusiva competenza regia in politica estera e commercio internazionale. Lo
scontro con il Parlamento, ovviamente, non tardò ad arrivare: il sovrano riteneva infatti di
poter imporre qualsiasi dazio sulle importazioni, riscuotendolo anche direttamente, in
quanto strumento di politica estera; l’assemblea rispondeva che il re poteva disporre
soltanto delle entrate che riceveva per consuetudine e che in ogni altro caso doveva
passare per l’approvazione parlamentare (si tratta, ancora una volta, del cruciale scontro
tra il principio del King in Parliament tipico dell’assetto costituzionale inglese e quello
“assolutistico” del quod principi placuit legis habet vigorem).

A Giacomo I successe Carlo I (1625-49) i cui primi anni di regno furono caratterizzati da
una pericolante situazione finanziaria, conseguenza delle fallimentari spedizioni belliche
contro Spagna e Francia, nonché dell’alto tenore di vita di cui si caratterizzava la Corte.
Per venire incontro alla crescente necessità di liquidità e contemporaneamente rimanere
indipendente dal Parlamento, Carlo I potenziò una pratica già avviata dal suo
predecessore, quella degli affittuari: i dazi imposti dalla Corona venivano cioè dati in
affitto a privati, in cambio di credito a breve termine. Anche le nuove evoluzioni del diritto
divino del re, del tutto strumentali alla politica, mutarono forma per adattarsi alla necessità
di affermare la facoltà del sovrano di tassare i propri sudditi. Il Parlamento rispose
duramente, per esempio allontanando tramite impeachment il chierico e deputato nella
House of Commons Roger Manwaring, accusato di voler, professando una forma deviata
e tirannica del diritto divino, minare il ruolo della common law. La situazione si spostò
ulteriormente verso un aspro dibattito costituzionale: mentre i membri del Parlamento
formulavano una teoria detta di ancient constitution, ritenendo l’esistenza di una
costituzione originaria del regno, in cui era preminente la rule of law e che dunque
giustificava la presenza della common law indipendentemente dal comportamento degli
ultimi sovrani; lo stesso monarca usava le corti giurisdizionali come strumento personale
per affermare il proprio singolare potere oltre la common law, soprattutto in materia di
imposizione fiscale.

Nel 1627 la Corona imprigionò cinque cavalieri sottoponendoli a processo per essersi
rifiutati di pagare il forced loan, cioè la tassa direttamente imposta dal sovrano senza
approvazione parlamentare (Darnel’s Case). Quando il King’s Brench, cioè la suprema
corte di diritto comune, presentò al Consiglio Privato del sovrano un mandato procedurale
in cui chiedeva, a tutela degli imputati, le ragioni della detenzione, questo rispose
richiamando la ragion di Stato e quindi, l’inappellabile volontà del monarca. L’anno
seguente il Parlamento, fortemente preoccupato per il futuro del regno, reagì su impulso
della House of Commons (che riuscì ad arginare i Lords, favorevoli alle istanze
monarchiche) producendo la Petition of Rights (1628), che includeva una lista di diritti di
libertà e proprietà dei sudditi, tra i quali: il divieto per il sovrano di tassare il regno senza il

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consenso del Parlamento; di imprigionare senza giusto processo; di procedere
all’acquartieramento coatto dei soldati; di estendere il diritto di guerra ai civili.
L’approvazione da parte di Carlo I della Petition non fu di fatto altro che un mero atto
formale: il sovrano ufficialmente si riservava il diritto di esercitare pieni poteri soltanto in
stato di necessità, ma in realtà continuava a lavorare, attraverso i suoi fidati consiglieri e in
Parlamento tramite la House of Lords, per affermare la propria istanza in termini assoluti,
ritenendo palese disobbedienza la mancanza di fiducia dei sudditi nei suoi confronti.

Dopo un decennio di sostanziale tregua, in cui la House of Commons si rassegnò alla


propria marginalità, il conflitto riesplose a partire dal 1635: Carlo I decise infatti di
espandere anche alle città dell’entroterra la Ship-money, una particolare tassa per il
mantenimento della flotta che pesava prima soltanto sui centri costieri. John Hampden,
rifiutatosi di pagare l’imposta poiché non approvata dal Parlamento, fu processato sulla
base del principio che la common law fosse pressoché impotente nel proteggere i diritti dei
sudditi. Nonostante le proteste di molti giuristi, l’esito favorevole al sovrano del processo
dimostrò come la common law non fosse più una barriera abbastanza forte per limitare e
incanalare la volontà del monarca. Contestualmente Carlo era però impegnato anche su
un altro, estremamente delicato, fronte: nel 1637 l’introduzione di una nuova e potenziata
liturgia anglicana in Scozia fu accolta a Edimburgo e Glasgow dalla protesta della locale
Chiesa presbiteriana e da dimostrazioni popolari. Nonostante questo il sovrano rifiutò di
scendere a compromessi e l’aristocrazia scozzese, forte dell’appoggio popolare, si
formalizzò nella stesura di un national covenant. Il sovrano provò correre ai ripari
convocando un’assemblea generale della Chiesa locale l’anno successivo, ma questa non
fece altro che compattare il fronte dei suoi oppositori, i quali decisero per l’abolizione delle
sue riforme. Nel 1640 la crisi aveva raggiunto dimensioni più che critiche, in quanto i
coventanters si erano organizzati militarmente, mentre il Parlamento di Edimburgo si
riuniva autonomamente senza l’autorizzazione del sovrano: la rivolta scozzese esplose in
tutta la sua violenza quando l’esercito varcò i confini e riuscì a infliggere una sconfitta a
quello inglese.

Costretto dalla guerra contro la Scozia a richiedere fondi e supporto politico, nella
primavera del 1640 Carlo I si decise a convocare il Parlamento, nella seduta ribattezzata
poi come Short Parliament: la riscoperta di un sermone predicato a Cambridge
sull’incoronazione del re, che rivendicava l’assolutezza dei poteri del sovrano rianimò
infatti l’opposizione parlamentare, costringendo il monarca – per evitare di essere messo
all’angolo – di sciogliere l’assemblea. Poiché il conflitto però non volgeva a suo favore,
anzi le sue sorti pendevano sempre più verso la Scozia, Carlo si decise a novembre a
riconvocare il Parlamento, in una nuova seduta nota come Long Parliament: la fazione
avversa al sovrano, guidata da John Pym, prese le redini dei lavori e mosse pesanti
accuse contro William Beale e soprattutto William Laud, potente arcivescovo di Canterbury
e consigliere del sovrano, conservatore e filo cattolico, nonché ovviamente difensore della
politica assolutistica di Carlo. Gli attacchi del Parlamento, che erano sempre rivolti al
governo del re, ai suoi consiglieri, ma mai alla persona del sovrano, raggiunsero
un’intensità notevole e trovarono soprattutto l’appoggio della popolazione; mentre il

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monarca si trovava, oltre alla questione scozzese, a confrontarsi anche con
l’indipendentismo irlandese. In realtà già dal secolo precedente la Corona provava a
imporre forzatamente il protestantesimo in Irlanda, confiscando la terra ai cattolici e
ripopolandola con sudditi protestanti, prevalentemente provenienti dalla Scozia. Tuttavia
questo processo era lungi dal terminare, e anzi si poteva dire realizzato solo nell’Ulster, e
il successo – quantomeno fino a quel momento – dell’esercito scozzese offrì ai cattolici
d’Irlanda l’occasione per reclamare la propria indipendenza. Messo alle strette da questo
nuovo conflitto e dalle crescenti proteste popolari, Carlo fu costretto a sottoscrivere il Bill of
Attainder, che prevedeva la possibilità del Parlamento di procedere a una condanna per
tradimento senza un processo giudiziario e la cui prima vittima fu il consigliere del sovrano
Conte di Stafford, giustiziato nel 1641. Successivamente il Parlamento riuscì a far passare
anche il Triennal Act, che prevedeva una convocazione “minima” dell’assemblea ogni tre
anni per cinquanta giorni indipendentemente dalla volontà del sovrano. Se in un primo
momento l’assemblea riuscì ad agire in modo concorde nell’abolizione di alcun dei cardini
della prerogativa regia (High Commission, Ship-money, …), l’esplosione della rivolta
irlandese rese la situazione più delicata: i deputati vedevano nelle pretese dell’Irlanda un
tentativo di restaurazione cattolica nel regno, da fermare al più presto, ma allo stesso
tempo non volevano consegnare un esercito nelle mani del sovrano, con il rischio che
questo fosse usato contro di loro. Una ristretta maggioranza della House of Commons
approvò una Grand Remostrance in cui, tra le altre cose, subordinava la creazione di un
esercito all’introduzione di un rapporto di fiducia tra gli organi di governo e il Parlamento; i
deputati – quasi centocinquanta – che si erano opposti a questa riforma decisero di
rispondere tornando a manifestare il proprio appoggio al sovrano.

La rottura in seno alla House of Commons condusse inevitabilmente il Paese alla guerra
civile (1642-49): nell’agosto del 1642 le due Camere produssero una dichiarazione che
sottolineava la necessità di impugnare le armi per difendersi dal sovrano, rimarcando il
fatto che oramai le leggi – cioè la common law – non fossero più sufficienti a difendere il
popolo. Il Parlamento agiva principalmente per la realizzazione di due grandi fini: la libertà
dei sudditi e la vera religione, cioè la difesa del culto anglicano dalle crescenti nostalgie
cattoliche. Tra la fine del 1648 e l’inizio del 1649 una fazione radicale della coalizione
antagonista a Carlo I espulse i propri nemici dalla House of Commons e condannò a morte
il sovrano, giustiziato nel 1649. La monarchia fu abolita, così come la House of Lords, e fu
imposto un regime repubblicano, di ispirazione puritana, il Commonwealth of England
(Protettorato), che in realtà si tradusse ben presto nella dittatura militare del Lord Protector
Oliver Cromwell. Nel 1645, intanto, l’Inghilterra aveva creato il New Model Army, un
esercito stabile e direttamente amministrato che veniva finanziato attraverso una
particolare accisa sulle domestic commodities, di ispirazione olandese. In termini
amministrativi la politica di Cromwell ebbe buoni risultati: l’eliminazione degli uffici a vita e
la limitazione della loro vendita, così come il reclutamento aperto di amministratori tra i
sudditi più portati portarono a un notevole aumento in efficienza dell’apparato burocratico
dello Stato. Il Parlamento – quantomeno formalmente, poiché in realtà fu sempre meno
consultato – guadagnava una serie di competenze che prima erano istanza
esclusivamente regia, soprattutto in politica estera. Pur riuscendo a sconfiggere sia i

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confederati irlandesi sia i covenanters scozzesi, il costo di queste e altre operazioni militari
iniziò a creare problemi che il Lord Protector ebbe difficoltà ad affrontare: la sua popolarità
nelle contee e nei borghi infatti stentava a consolidarsi, e questo gli impediva di mantenere
un efficace carico fiscale. Nel 1653, emanando un testo costituzionale chiamato
Instrument of Government, Crowmell convocava anche un singolo Parlamento per
Inghilterra, Scozia e Irlanda, ma l’unione tra i tre territori che intendeva consolidare faticò a
crearsi.

La morte senza una definita eredità politica di Cromwell nel 1657 portò due anni più tardi
al collasso del Commonwealth: nel 1660 con nuove elezioni si riformò un Parlamento
inglese che scelse la via della restaurazione, riconsegnando il trono alla dinastia Stuart
nella figura di Carlo II. Guidato dal suo personale consigliere, il Conte di Clarendon, il
nuovo monarca riportò l’assetto del regno alla situazione precedente alla guerra civile,
restaurando i propri poteri e le proprie prerogative e riportando la Corona e la Corte al
centro dell’attività politica dell’Inghilterra, con il Parlamento che tornava dunque ad
assumere un ruolo di secondo piano. Ciò che però destava più preoccupazione per il
regno di Carlo II era il contesto internazionale in cui si trovava il suo regno: l’inefficace
Navigation Act, promulgato in tempi di Commonwealth dal Parlamento nel 1651 nella
speranza di ostacolare la crescita dell’Olanda, non aveva sortito gli effetti sperati, e anzi
aveva indebolito le capacità dell’Inghilterra in quel contesto; contemporaneamente,
l’aggressiva politica estera e commerciale di Luigi XIV in Francia riapriva il conflittuale
rapporto tra Londra e le potenze cattoliche continentali. Mentre il Parlamento, guidato dalla
gentry, chiedeva al sovrano l’attuazione di una politica estera fortemente anti-cattolica,
Carlo II intraprese una via diametralmente opposta: con il Trattato di Dover (1670) si alleò
alla Francia cattolica, intraprendendo di conseguenza una Guerra all’Olanda protestante,
senza però ottenere per quest’ultima l’approvazione parlamentare. Il tentativo del monarca
fallì, e nel 1673 egli si trovò costretto a sospendere l’indulgenza verso i cattolici accettando
l’approvazione del Test Act che obbligava gli ufficiali regi a giurare fedeltà alla Chiesa
anglicana. La svolta decisiva avvenne sotto la guida del Lord Tesoriere Thomas Osborne:
nel 1674 l’Inghilterra strinse un accordo di pace con l’Olanda, che qualche anno più tardi
confermò con il matrimonio tra Maria, figlia dell’erede al trono d’Inghilterra e fratello del
sovrano – Giacomo – e Guglielmo III d’Orange. Osborne appoggiò anche la richiesta di
finanziamento presentata dalla House of Commons per potenziare la flotta in chiave anti-
francese, tuttavia non riuscì pienamente a convincere il Parlamento della sincerità delle
sue azioni e di quelle del governo. Il Parlamento infatti iniziò a operare per cercare di
eliminare dalla successione al trono Giacomo – primo nella linea dinastica in quanto
fratello del sovrano privo di prole – in quanto cattolico. Tale opposizione parlamentare, che
prese il nome di whigs (in opposizione ai tories, cioè la fazione filo-monarchica) puntava
non soltanto all’esclusione degli eredi cattolici dalla successione, ma anche a una
maggiore tolleranza verso i dissidenti protestanti e a una drastica riduzione delle
prerogative della corona. Carlo II rispose sciogliendo il Parlamento e non convocandolo
più fino alla sua morte, avvenuta nel 1685.

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Gli successe dunque il fratello Giacomo II, apertamente cattolico, il quale avviò subito una
serie di politiche di supporto alla componente cattolica del regno, tornando anche a
stringere una stretta alleanza con la Francia di Luigi XIV. Questa spregiudicata azione del
nuovo sovrano non fece altro che compattare tanto i whigs quanto i tories contro lo stesso
monarca, al punto che questi chiesero allo stathouder d’Olanda, Guglielmo d’Orange –
marito della figlia di Giacomo, Maria – di assumere il governo del regno. Nel 1688
Giacomo II fu costretto ad abbandonare Londra, dove fu prontamente sostituito da
Guglielmo, che prese il nome di Guglielmo I e convocò immediatamente il Parlamento
(Convention Parliament). La House of Commons dichiarò che la fuga di Giacomo II –
resosi durante il suo regno colpevole di aver sovvertito la costituzione – era da
interpretarsi come abdicazione e aggiunsero che non era opportuno che un regno
protestante fosse governato da un monarca cattolico; i Lords appoggiarono quest’ultima
posizione, mentre accettarono loro malgrado la prima – poiché, in virtù del diritto divino,
ritenevano inaccettabile l’elezione del monarca, quale era stata la scelta di Guglielmo. La
corona fu concessa al nuovo sovrano in cambio dell’approvazione di un Bill of Rights
(definitivamente promulgato nel 1689): i sovrani perdevano il diritto di sospendere
l’osservanza di un legge, proclamare la legge marziale o mantenere un esercito
permanente in tempo di pace senza il consenso del Parlamento; il common law era
dichiarato in posizione di supremazia rispetto alle particolari prerogative regie; gli eredi
cattolici furono esclusi dalla successione. Contestualmente fu promulgato un Atto di
tolleranza che liberava coloro i quali non frequentavano il servizio anglicano da una serie
di pene precedentemente previste. L’Inghilterra si organizzava dunque sul modello di una
monarchia costituzionale, e il processo – del tutto pacifico – con cui lo stava facendo
prese il nome di Gloriosa Rivoluzione. I conflitti perpetrati contro la Francia di Luigi XIV
pesarono sulle casse del regno ma non crearono, come invece era accaduto nei casi
precedenti, situazioni di crisi: Guglielmo operò congiuntamente al Parlamento aumentando
il controllo di quest’ultimo sulle entrate fiscali e sulla gestione del conflitto, soprattutto
tramite la creazione di una Commission of Public Accounts che effettuava un costante
monitoraggio sulle attività dell’amministrazione centrale (oltre, per esempio,
all’introduzione dell’obbligo di approvazione annuale dei fondi per le campagne dell’anno
successivo). Questi sforzi del Parlamento per rimediare alla cattiva gestione dei fondi
pubblici, spesso derivante da corruzione e inefficienza, trovarono l’appoggio della stampa,
rispetto alla quale i deputati nel 1695 eliminarono il Licensing Act, togliendo ogni tipo di
censura sulle pubblicazioni di stampo politico. Nel 1694, per fare fronte alla comunque
costante necessità di denaro per la sopravvivenza del Regno, il Parlamento autorizzò alla
creazione di una Banca d’Inghilterra e tre anni dopo fu ufficializzata anche l’East India
Company per meglio amministrare i possedimenti coloniali in Asia. Nel 1698 la vecchia
imposta basata sulla ricchezza fu sostituita da una nuova, fondata sulla terra che, pur
rischiando di presentarsi iniqua nella sua incidenza, permetteva allo Scacchiere di ricevere
una determinata entità di denaro; la gestione e il controllo sulla riscossione di questa
efficace imposta fu affidato direttamente ai rappresentati più importanti della gentry. Alla
morte di Guglielmo salì al trono la seconda figlia di Giacomo II, Anna Stuart (1702-14):
durante il suo regno, nel 1707, è promulgato l’Act of Union: Scozia e Inghilterra vengono

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unite nella Gran Bretagna, che mantiene un singolo Parlamento, quello di Londra al quale
si aggiunge una rappresentanza scozzese.

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