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CAPITOLO II
FORME DI STATO
1. FORMA DI STATO
1.1 FORME DI STATO E FORME DI GOVERNO
Con l’espressione forma di Stato si intende il rapporto che corre tra le autorità di potestà
d’imperio e la società civile, nonché l’insieme dei principi e dei valori a cui lo Stato ispira
la sua azione.
Invece con l’espressione forma di Governo si intendono i modi in cui il potere è distribuito
tra gli organi di uno Stato e l’insieme dei rapporti che intercorrono tra essi.
La nozione di “forma di Stato” si riferisce, dunque, al modo in cui si strutturano i rapporti
tra Stato e società. Così, per esempio, nello ‘Stato liberale’ era preminente la finalità di
garantire l’autonomia e la libertà dell’individuo. Lo Stato doveva, tendenzialmente,
astenersi dall’intervenire nella società e nell’economia; quando lo Stato ha assunto tra i suoi
compiti quello di realizzare l’eguaglianza dei punti di partenza tra i cittadini (Stato sociale),
ne è derivata l’estensione dei suoi interventi nella sfera economica e sociale.
La nozione di forma di Stato risponde alla domanda “quale è la finalità dello Stato e che
tipo di rapporto esiste tra l’apparato statale e la società?”.
Invece, la nozione di forma di Governo risponde alla domanda “chi governa all’interno
dell’apparato statale?”.
Nell’ambito delle forme di Stato si distinguono lo “Stato assoluto”, lo “Stato liberale”, lo
“Stato di democrazia pluralista”, lo “Stato totalitario”, lo “Stato socialista”. Nell’ambito di
ciascuna forma di Stato esistono vari tipi di forme di Governo (per esempio nell’ambito
dello Stato di democrazia pluralista avremo le seguenti forme di Governo: parlamentare,
neoparlamentare, presidenziale, direttoriale, semipresidenziale).
1.2 L’EVOLUZIONE DELLE FORME DI STATO
1.2.1 Lo Stato assoluto
Lo Stato assoluto è la prima forma dello Stato moderno.
Nacque in Europa tra il ‘400 ed il ‘500 e si è affermato nei 2 secoli
successivi. Si caratterizzava per l’esistenza di un potere sovrano
attribuito alla Corona (intesa come organo dello Stato, dotata quindi
dei requisiti dell’impersonalità e della continuità di successione che
impedivano la vacanza del trono), cosa diversa dal Re (inteso come
persona fisica).
Nello Stato assoluto il potere sovrano era concentrato nelle mani
della Corona, titolare della funzione legislativa ed esecutiva, mentre il potere giudiziario
era esercitato da Corti e Tribunali formati da giudici nominati dal Re.
La volontà del Re era considerata la fonte primaria del diritto, il suo potere non
incontrava limiti né poteva essere condizionato dai desideri dei sudditi. Ciò perché il
potere regio era ritenuto di origine divina.
In Paesi come la Prussia e l’Austria si affermò invece il cosiddetto assolutismo illuminato,
secondo cui il sovrano aveva il compito di promuovere il benessere della popolazione. Al
riguardo si è parlato di Stato di polizia (dal greco politéia, da cui deriva anche politica) per
intendere uno Stato che ha tali finalità.
Pertanto lo Stato assoluto era uno Stato onnipresente, anche nella
sfera economica (per esempio in Francia durante il Regno di Luigi
XIV fiorì una forma di economia statale chiamata mercantilismo,
basata sull’idea che la grandezza del Re era direttamente proporzionale
alla prosperità dell’economia di uno Stato).
1.2.2 Lo Stato liberale
Lo Stato liberale è una forma di Stato che nasce tra la fine del ‘700 e la prima metà
dell’800, a seguito della crisi dello Stato assoluto1, dello sviluppo di produzione
capitalistico, dell’affermazione della borghesia.
I caratteri strutturali dello Stato liberale sono: la base sociale ristretta ad una sola classe
sociale; il principio di libertà; il principio rappresentativo; lo “Stato di diritto”.
Un altro fattore importante che ha contribuito all’organizzazione del potere politico dello
Stato liberale è stato l’avvento dell’economia di mercato, basata sul libero incontro tra
domanda ed offerta di un determinato bene, in cui gli interessi tra l’offerente e l’acquirente
sono divergenti perché l’uno vuole vendere al prezzo più alto e l’altro vuole acquistare al
prezzo più basso.
Storicamente l’economia di mercato si è accoppiata al modo di produzione capitalistico
basata sulla distinzione tra i soggetti proprietari dei mezzi di produzione ed i soggetti che
vendono ai primi la loro forza lavoro (i c.d. salariati).
Lo Stato assoluto ostacolava la nuova economia. L’economia di mercato e capitalistica
presupponeva la certezza del diritto di proprietà sia dei venditori che dei compratori, la
libertà contrattuale, l’eguaglianza formale dei contraenti le cui volontà incontrandosi
dovevano determinare le condizioni dello scambio economico, l’abolizione dei privilegi, dei
monopoli pubblici e di tutte le restrizioni alla libera circolazione delle merci.
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Dovuto soprattutto a ragioni finanziarie che portarono ad un peso fiscale ritenuto insopportabile dalla classe
borghese. A tal proposito si pensi:
1) alla Rivoluzione francese del 1789 che portò all’approvazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino;
2) al Parlamento inglese che negava che il Re potesse imporre nuovi tributi senza il suo consenso e riteneva illegittimi
gli arresti arbitrari e l’alloggio forzato delle truppe presso i privati;
3) ed infine, al caso americano che giunse alla Dichiarazione di indipendenza del 1776 in seguito al fatto che
l’Inghilterra si era rivolta alle Colonie americane, imponendo loro tasse senza il consenso delle assemblee locali, per
rimpinguare le casse. Gli americani risposero invocando il principio secondo cui era illegittima qualsiasi tassazione che
non fosse approvata dai loro rappresentanti eletti.
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Nel modello di sistema a economia mista lo Stato assume un nuovo ruolo: non si limita più a produrre i servizi
pubblici essenziali e a garantire l'osservanza delle leggi, ma:
‐ interviene anche a sostegno della produzione;
‐ realizza interventi per garantire la piena occupazione dei lavoratori;
‐ garantisce migliori condizioni di vita alle classi più deboli;
‐ cerca di armonizzare lo sviluppo fra le zone più ricche e quelle più arretrate del Paese.
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Termine usato negli Stati Uniti d’America, e poi diffuso anche altrove, per definire quei gruppi di persone che, senza
appartenere a un corpo legislativo e senza incarichi di governo, si propongono di esercitare la loro influenza su chi ha
facoltà di decisioni politiche, per ottenere l’emanazione di provvedimenti normativi, in proprio favore o dei loro
clienti, riguardo a determinati problemi o interessi: le lobby degli ordini professionali, del petrolio.
moderati mantenendo una “dominanza privatistica” nei rapporti economici; mentre, altri
Paesi (soprattutto dell’Europa occidentale e in particolare l’Italia) hanno avuto una
“dominanza pubblicistica “per il prevalere di finalità sociali. Comunque sia, a partire
dagli anni ’90 del 20° sec., tali differenze si sono attenuate, stante l’affermazione di
un’economia di mercato concorrenziale e la privatizzazione delle imprese pubbliche.
In seguito al crollo dei regimi sovietici vi è stata una seconda ondata di
“democratizzazione” che ha riguardato, in particolare, l’Europa dell’Est ma anche vaste
zone dell’Asia e dell’Africa.
Democrazia ovunque?
Tuttavia affermare di una generale affermazione della democrazia pluralista sarebbe errato,
e ciò per diverse ragioni:
• In primo luogo lo Stato socialista mantiene la sua continuità in diversi Paesi (tra cui la
Cina, Corea del Nord, Cuba ed altre nazioni del Sud-est asiatico).
• In secondo luogo in molti Stati ex-socialisti c’è una forte incongruenza tra le
dichiarazioni costituzionali, che si rifanno a principi liberali e democratici, e residui del
precedente regime. Ciò si spiega con la loro inesperienza di regimi pluralisti e democratici
e una lunga tradizione autoritaria.
• Inoltre in molti Paesi vige un regime politico che non può essere ricondotto in nessuno dei
modelli studiati; regimi che si caratterizzano per un forte carattere autoritario e per la
negazione del pluralismo. Pertanto si assiste da una parte ad una generale diffusione
dell’economia di mercato, mentre dall’altra i principi della democrazia pluralista trovano
applicazione in un numero limitato di Stati.
• Infine anche nei Paesi in cui sono sorti, tali principi stanno affrontando le sfide poste
dalle trasformazioni economiche e sociali del 21 ° sec.
Tuttavia negli ultimi decenni del XX sec. la complessità sociale è aumentata notevolmente,
a causa soprattutto dello sviluppo tecnologico, del mutamento dei metodi di produzione e
del tramonto delle grandi fabbriche. L’appartenenza di classe, quindi, non assume più un
valore assorbente come in passato, si è così determinata una moltiplicazione degli interessi
presenti nella società (molti dei quali divergenti tra loro). Ciò, insieme alla crisi delle
ideologie, causata dal crollo degli Stati socialisti, ha aumentato la difficoltà dei partiti a
tenere unite milioni di persone entro un’identità collettiva e ha diminuito la loro capacità
di compiere una sintesi politica tra i diversi interessi sociali.
Perciò le richieste particolaristiche si sono riversate in modo disordinato sulle istituzioni e
lo Stato, più che a ridistribuire la ricchezza nazionale, si è limitato a distribuire le risorse ai
vari gruppi, cedendo alla loro pressione.
Questo, naturalmente, ha provocato un notevole incremento di costi per la pubblica
amministrazione. Infatti a partire dagli anni ’70 si è parlato di crisi fiscale dello Stato, per
indicare appunto la tendenza di aumento della spesa pubblica, per coprire la quale la
pressione fiscale ha raggiunto livelli molto alti. Ne è scaturita una prima spinta al riordino
dello Stato sociale, per ridurne i costi, a cui ben presto si è affiancata una 2° spinta in tal
senso dovuta dagli effetti della globalizzazione.
Globalizzazione, ricordiamo, che comporta un’estrema facilità di spostamento per i
capitali e le imprese, alla ricerca delle condizioni più remunerative.
Perciò per non far perdere competitività al sistema economico, si rende necessario:
1. che la pressione fiscale non raggiunga determinati livelli, al fine di evitare la fuga dei
capitali e delle imprese;
2. lo Stato dovrebbe, poi, cercare di avere una finanza pubblica sana, evitando disavanzi
di bilancio, poiché eccessi di liquidità generano una crescita dell’inflazione, mentre un
aumento dell’indebitamento toglie risorse al settore privato.
3. infine le imprese, necessitano di una maggiore flessibilità, ossia meno vincoli legali sul
terreno della disciplina del rapporto di lavoro e dei costi sociali dei lavoratori.
Tutte queste spinte hanno come esito comune una riduzione della spesa pubblica.
Con l’avvio dell’Unione Europea, poi, gli Stati aderenti, tra cui l’Italia, hanno accettato
vincoli predefiniti al rapporto tra debito pubblico/PIL e il disavanzo e il PIL. Ciò comporta
una riduzione della spesa pubblica. Infatti il rapporto tra entrate e uscite non può
superare una certa quota del PIL, mentre la spesa può essere coperta con l’indebitamento
solamente in percentuale ridotta.
Invero lo Stato potrebbe alimentare la spesa con l’aumento dei tributi, ma ciò, si è visto,
intaccherebbe la competitività del sistema produttivo nazionale. Perciò è costretto a
ridurre la spesa pubblica e quindi a ridurre le prestazioni oggetto dei diritti sociali, poiché
richiedono la presenza di complesse e costose organizzazioni pubbliche. Si scopre, così, che
i diritti sociali sono “diritti finanziariamente condizionati” e la Corte Costituzionale
italiana afferma che la loro attuazione da parte del legislatore è il frutto di un
bilanciamento tra l’interesse tutelato ed altri interessi costituzionali, tra cui l’equilibrio di
bilancio.
Il maggior rigore finanziaria ha condotto, quindi, a una razionalizzazione e riordino dello
Stato sociale. Si assiste pertanto, ad un suo adeguamento alle esigenze della competitività
internazionale, garantendo però almeno pari opportunità ai cittadini, trasformandolo in Stato
sociale competitivo.
In tal senso le possibili strade da seguire sono diverse:
• in primo luogo si tende a superare il carattere universalistico di alcuni servizi; ad
esempio servizi come la sanità non vengono erogati gratuitamente a tutti i cittadini, ma
solo ai soggetti meno abbienti, mentre gli altri devono concorrere alla spesa in relazione al
loro reddito (c.d. ticket)
• in secondo luogo, si fa leva sul principio di responsabilità individuale, per cui il singolo
s’impegna a mettere da parte con il risparmio, risorse per affrontare i rischi della vita,
mentre lo Stato incentiva tali comportamenti. Per esempio, accanto al regime
pensionistico, si creano fondi pensioni gestiti da strutture finanziarie private.
• In terzo luogo, c’è il ricorso al principio di sussidiarietà, che si sviluppa lungo due
direttrici:
a) la prima consiste nel trasferire la gestione di certi servizi agli enti locali: i quali
essendo più vicini ai cittadini sono in grado di controllare la qualità dei servizi e i relativi
costi (sussidiarietà verticale4);
b) la seconda consiste (c.d. sussidiarietà orizzontale5), ovvero nell’attribuire certi
compiti tradizionalmente dello Stato sociale (come l’assistenza agli anziani) ad alcune
formazioni sociali che non hanno fine di lucro e che formano il c.d. terzo settore6.
• Infine, c’è il tentativo di attrarre taluni compiti dello Stato sociale ad un livello
sovrannazionale. Ciò perché la politica sociale degli Stati è limitata da diversi fattori che
derivano dalla globalizzazione, perciò si vorrebbe trasferire una quota delle politiche
sociale verso unità politiche più grandi in grado di compensare per mezzo di politiche
economiche adeguato gli effetti indesiderati della globalizzazione. In tale prospettiva può
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La sussidiarietà verticale si esplica nell’ambito di distribuzione di competenze amministrative tra diversi livelli di
governo territoriali (livello sovranazionale: Unione Europea‐Stati membri; livello nazionale: Stato nazionale‐regioni;
livello subnazionale: Stato‐regioni‐autonomie locali) ed esprime la modalità d’intervento – sussidiario – degli enti
territoriali superiori rispetto a quelli minori, ossia gli organismi superiori intervengono solo se l’esercizio delle funzioni
da parte dell’organismo inferiore sia inadeguato per il raggiungimento degli obiettivi.
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La sussidiarietà orizzontale si svolge nell’ambito del rapporto tra autorità e libertà e si basa sul presupposto secondo
cui alla cura dei bisogni collettivi e alle attività di interesse generale provvedono direttamente i privati cittadini (sia
come singoli, sia come associati) e i pubblici poteri intervengono in funzione ‘sussidiaria’, di programmazione, di
coordinamento ed eventualmente di gestione.
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All'art. 1 comma 1 della Legge 106 del 6 giugno 2016 ("Delega al Governo per la riforma del Terzo settore,
dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale"), si legge: "Per Terzo settore si intende il
complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di
utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi,
promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o
di produzione e scambio di beni e servizi". Il decreto legislativo n. 117/2017 ha fissato le regole comuni per gli enti del
terzo settore.
collocarsi il Trattato Ue, che inserisce tra gli scopi dell’UE l’economia sociale di mercato e
la promozione della “coesione economica e sociale” (art. 2).
2 RAPPRESENTANZA POLITICA
2.1. Definizioni
Nella nozione di rappresentanza politica confluiscono due significati:
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Principio affermato dalla costituzione francese, poi recepito da tutte le Cost. liberali ed infine trapassato anche nelle
Costituzioni dello Stato di democrazia pluralistica. Il divieto di mandato imperativo era sancito anche dallo Statuto
albertino, che all'art. 41 recitava "I Deputati rappresentano la Nazione in generale, e non le sole provincie in cui
furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli Elettori", ed è stato confermato dall'art. 67 della
Costituzione italiana: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo
di mandato".
L’art. 67 Cost. recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita
le sue funzioni senza vincolo di mandato”. È una disposizione che recepisce il principio
del vincolo di mandato imperativo tipico della tradizione costituzionale liberale.
L’ art. 67 Cost. deve essere interpretato sistematicamente insieme con gli artt. 49, 1 e 94
Cost. Il primo riconosce che i cittadini riuniti nei partiti concorrono a determinare la
politica nazionale, dando così un fondamento costituzionale al ruolo dei partiti. Il
collegamento tra l’art.1 ed il 49 permette di qualificare i partititi come i principali
strumenti di esercizio della sovranità popolare. L’art. 94 impone che la votazione della
mozione di fiducia e quella di sfiducia avvenga per appello nominale, un modo di
votazione che facilita il controllo dei partiti sui comportamenti dei propri parlamentari. Da
tale quadro complessivo la costituzione italiana prevede come riconosciuto dalla Corte
Costituzionale “il divieto del mandato imperativo [il quale determina che] il parlamentare è
libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito, ma è anche libero di sottrarsene;
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In politica il termine inglese whip designa il membro di un gruppo parlamentare incaricato di tenere i collegamenti
tra il leader del partito e il gruppo stesso, assicurando, in particolare, che i suoi componenti siano presenti quando ci
sono le votazioni alla camera e votino secondo le direttive del partito (cosiddetta disciplina di partito).
In inglese whip significa 'frusta': l'uso nel linguaggio politico deriva dalla tradizione della caccia alla volpe, dove un
assistente del cacciatore ha il compito di tenere insieme la muta dei cani usando il frustino. Apparso per la prima volta
nel Regno Unito, il termine è attualmente usato, oltre che nel parlamento britannico, in quelli dei paesi che lo hanno
preso a modello, quali il Canada, gli Stati Uniti d'America, la Malesia, l'Irlanda, l'Australia e la Nuova Zelanda.
nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del
parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”. Pertanto la
disciplina di partito non contrasta con la disciplina costituzionale; tuttavia l’art. 67 è una
norma di garanzia che assicura al parlamentare la possibilità di sottrarsi alla disciplina
descritta.
Un altro aspetto da considerare è quello della rappresentatività dei partiti, ovvero: in una
società con una precisa divisione tra poche categorie sociali (capitale/lavoro –
borghesia/proletariato) è facile che ciascun individuo si rispecchi nel partito di riferimento
della classe sociale cui appartiene. Con un legame di identificazione così forte nella
piramide della burocrazia del partito diventa anche realistico pensare che il parlamento,
ovvero l’insieme di tutti i partiti rappresentativi, sia lo specchio dell’intera società.
Con l’andare del tempo, però, le società contemporanee sono divenute sempre più
complesse ed è divenuta impossibile la loro distinzione in pochi e facilmente identificabili
settori, mentre, anche per effetto delle crisi delle tradizionali ideologie del Novecento, nella
maggior parte dei casi è cessato il legame di stabile appartenenza che legava gli individui
ai partiti.
I partiti non riescono più ad assicurare la completa rappresentanza della società, e,
soprattutto, non sempre riescono a comporre i diversi interessi sociali in una sintesi
politica. Hanno perduto il monopolio della rappresentanza. Fino ai casi estremi in cui essi
diventano come delle “scatole vuote”, dove gli interessi sociali più disparati riescono a
trovare posto, ciascuno premendo per avere risposte particolaristiche alle proprie esigenze.
“Partiti ridotti a scatole vuote”, articolo di Francesca Schianchi (La Stampa 15/03/17)
“Quando la discriminazione aumenta consensi per un partito”, articolo di Luciano Violante (C. Sera 10/11/17)
b) il rafforzamento del Governo e l’investitura popolare diretta del suo capo. I fenomeni
richiamati spingono alcuni sistemi costituzionali a realizzare un equilibrio tra le due
componenti della rappresentanza politica democratica, che fa leva sul rafforzamento del
potere esecutivo e sull’investitura popolare diretta del suo capo, di cui l’esempio più
importante è offerto dal presidenzialismo degli Stati Uniti (cioè da un Paese con partiti
“deboli” che funzionano essenzialmente come “macchine elettorali”). In questa maniera
l’esecutivo è posto al riparo da pressioni particolari ed è legittimato a governare
nell’interesse generale. Il parlamento quindi diventa cinghia di trasmissione delle istanze
dal basso verso l’alto e delle scelte dall’alto verso il basso;
In questa ampia ed eterogena categoria, che ha poco da spartire con la sua origine storica
che risale alle vicende russe dell’800, sono ricompresi molti nuovi partiti che si sono
affermati in Europa dopo la crisi economica del 2008-20119, quali:
Front National, guidato da Marine Le Pen (in Francia);
Podemos, guidato da Pablo Iglesias (In Spagna);
Movimento 5 Stelle, guidato da Beppe Grillo (In Italia);
Syriza, guidato da Alexīs Tsipras (In Grecia).
Tutti questi partiti sono accumunati dalla critica nei confronti delle élites che hanno
governato i rispettivi paesi, dal rifiuto della collaborazione con i partiti “tradizionali”, che
vengono radicalmente delegittimati, dall’opposizione all’integrazione europea e alla
globalizzazione, sostenute invece dalle élites che hanno guidato nel passato i rispettivi
Paesi, dalla consequenziale richiesta di recupero della sovranità statale.
Il fenomeno non riguarda solamente l’Europa ma si estende agli Stati Uniti, il cui
presidente eletto nel 2016, Donald Trump, ha basato la sua campagna elettorale proprio
sull’opposizione alle élites e alla globalizzazione all’insegna degli interessi americani
(America first!).
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La crisi economica del 2008‐2011, originata negli Stati Uniti, ha avuto luogo dai primi mesi del 2008 in tutto il mondo.
Tra i principali fattori della crisi figurano gli alti prezzi delle materie prime, una crisi alimentare mondiale, un'elevata
inflazione globale, la minaccia di una recessione in tutto il mondo, così come una crisi creditizia ed una conseguente
crisi di fiducia dei mercati borsistici.
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Articolo 138, Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera
con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei
componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione [cfr. art. 72 c.4]. Le leggi stesse sono sottoposte a
referendum popolare [cfr. art. 87 c.6] quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto
dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum
non è promulgata [cfr. artt. 73 c.1, 87 c.5 ], se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a
referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi
dei suoi componenti.
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Articolo 132, Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti o la
creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione d'abitanti, quando ne facciano richiesta tanti Consigli
comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con
referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse [cfr. XI]. Si può, con l'approvazione della maggioranza delle
popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante
referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Provincie e Comuni, che ne
facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un'altra.
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Articolo 133, Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Provincie nell'ambito d'una
Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione. La Regione, sentite
le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro
circoscrizioni e denominazioni.
Fondamenti concettuali di queste teorie sulla separazione dei poteri nello Stato liberale
sono:
La preminenza della legge;
La separazione dello Stato dalla società.
4 LA REGOLA DI MAGGIORANZA
4.1 Definizioni
La regola di maggioranza che caratterizza il funzionamento dello Stato liberale e della
democrazia pluralistica assume significati e funzioni diverse:
a) Principio funzionale, la tecnica cui un collegio può decidere;
b) Principio di rappresentanza, il mezzo attraverso cui si eleggono le assemblee;
c) Principio di organizzazione politica, il criterio attraverso cui si strutturano i rapporti
tra i partiti politici nel Parlamento;
b) la regola di maggioranza come tecnica per deliberare ed i limiti che essa incontra
presuppongono comunque che una maggioranza e delle minoranze politiche si siano
già formate ed esistano all’interno delle aule parlamentari. Nella seconda accezione,
intesa come principio di rappresentanza, la regola di maggioranza diventa lo
strumento utilizzato per eleggere il Parlamento: in ciascun collegio è eletto il
candidato che ottiene più voti;
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vedi pagina 37
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La secolarizzazione (il cui significato si riconduce al termine latino saeculum, con il significato di mondo) è un
termine entrato nel linguaggio giuridico durante le trattative per la pace di Vestfalia (1648) allo scopo di indicare il
passaggio di beni e territori dalla Chiesa a possessori civili, e adottato in seguito dal diritto canonico per indicare il
ritorno alla vita laica da parte di membri del clero. Nel XIX secolo è passato a indicare il processo di progressiva
autonomia delle istituzioni politico‐sociali e della vita culturale dal controllo e/o dall'influenza della religione e della
Chiesa. In questa accezione, che fa della secolarizzazione uno dei tratti salienti della modernità, il termine ha perso la
sua originaria neutralità e si è caricato di connotazioni di valori di segno opposto, designando per alcuni un positivo
processo di emancipazione, per altri un processo degenerativo di desacralizzazione che apre la strada al nichilismo.
Durante il secolo XIX in Europa, fu forte la tendenza a sottrarsi al compimento del processo
di secolarizzazione della politica. Alla separazione dello Stato dalla religione venne
contrapposta, all’insegna della restaurazione, l’idea di “Stato cristiano”.
I rapporti tra la politica e la religione, da quel momento, oscilleranno tra due poli opposti:
1) Regime confessionale, secondo cui la Chiesa è depositaria di un patrimonio di verità
ultime sull’essere umano, sia come singolo individuo che come soggetto sociale,
verità la cui pretesa di validità va oltre la cerchia dei fedeli per estendersi all’intera
società. Da tale premessa deriva il rapporto diretto tra autorità civili e autorità
religiose, la necessità che l’etica pubblica e le leggi si conformino alla morale della
Chiesa, il vincolo all’obbedienza all’istituzione ecclesiastica non solo dei credenti
quando professano la loro fede ma anche quando agiscono come cittadini titolari di
uffici pubblici.
2) Regime della separazione tra Stato e Chiesa, ciascuno costituente un’istituzione
autonoma nel proprio campo d’azione. L’esigenza di prevenire il conflitto tra le due
istituzioni può portare all’instaurazione di un regime concordatario, per cui lo Stato e
la Chiesa regolano i loro rapporti con uno speciale trattato che si chiama, appunto,
concordato. In particolare, quest’ultimo disciplina alcune materie di interesse comune
(per esempio il regime civile del matrimonio religioso) e prevede alcune discipline
differenziate rispetto a quelle comunemente applicabili per le istituzioni
ecclesiastiche.
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Per Patti lateranensi si intendono gli accordi stipulati nel 1929 (e resi esecutivi con la l. n. 810/1929) tra lo Stato
italiano e la Chiesa cattolica, con i quali si è posta fine alla c.d. questione romana. A seguito di essi, la Chiesa cattolica
ha riconosciuto l’esistenza di uno Stato italiano ed ha accantonato definitivamente ogni pretesa giuridica sul territorio
di Roma. I Patti lateranensi si componevano di un Trattato, con il quale si definivano i reciproci rapporti sul piano del
diritto internazionale tra lo Stato italiano e la Santa Sede, e di un Concordato, riguardante la disciplina dei rapporti tra
lo Stato e la confessione cattolica; tuttavia, occorre sottolineare che anche il Trattato aveva al suo interno disposizioni
di carattere concordatario e non solo disposizioni di diritto internazionale. La Costituzione repubblicana, accanto
all’affermazione per cui «lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» (art.
7, co. 1, Cost.; Laicità dello Stato) ha nondimeno espressamente richiamato i Patti lateranensi all’art. 7, co. 2, Cost.,
prevedendo, inoltre, che una loro modificazione, accettata da entrambe le parti, non avrebbe necessitato del ricorso
al procedimento di revisione costituzionale. A questo proposito, gli studiosi si sono divisi sul fatto se la loro menzione
abbia comportato una pura e semplice costituzionalizzazione dei Patti lateranensi del 1929, ovvero del c.d. principio
concordatario o di quello c.d. pattizio. In ogni caso, la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto che le norme di
esecuzione dei Patti lateranensi, in virtù della loro peculiare copertura costituzionale, possano derogare alle stesse
disposizioni costituzionali, ma non ai c.d. principi supremi dell’ordinamento costituzionale, tra cui è stato
successivamente fatto rientrare anche il principio di laicità dello Stato. La sostanziale incompatibilità di numerose
disposizioni dei Patti lateranensi con i principi fondamentali della Costituzione repubblicana ha così comportato la
necessità di una loro revisione e l’avvio di una lunga trattativa con la Santa Sede, sfociata nella stipulazione di un
nuovo Concordato nel 1984 (reso esecutivo con la l. n. 121/1985) e di un successivo Protocollo del 1984 (reso
esecutivo con la l. n. 206/1985 come «sola religione dello Stato
modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di
revisione costituzionale [cfr. art. 138]”.
Il Concordato16 attuale presenta degli aspetti di novità rispetto a quello del 1929 nei
seguenti campi:
a) neutralità dello Stato: estato abrogato il principio della religione cattolica come
religione di Stato e ciò conferma la neutralità dello Stato in materia religiosa;
b) enti ecclesiastici: è venuta a cadere tutta una serie di esenzioni e di privilegi
accumulati dagli enti ecclesiastici dal 1929 ad oggi;
c) matrimonio: non si riconosce più il carattere sacralmente ed indissolubile del
matrimonio canonico, ma ci si limita a riconoscere effetti civili al matrimonio
contrato secondo le norme del diritto canonico;
d) istruzione religiosa: il nuovo Concordato, pur tenendo conto che i principi del
cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, assicura
l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, ma non considera
più tale insegnamento come “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”
come invece stabiliva l’art.39 del Concordato del 1929.
La garanzia costituzionale del regime concordatario non significa escludere la garanzia del
pluralismo religioso e la laicità dello Stato italiano. La Costituzione, infatti, prevede che
tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge senza distinzioni basate sulla religione (art.3)
e che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge (art 8.1). Tutte
le confessioni religiose hanno diritto di organizzarsi con propri statuti, purché non
contrastino con l’ordinamento giuridico italiano (art.8.1).
16
Si chiama “Concordato” lo strumento con cui uno Stato e la Chiesa regolano i loro rapporti reciproci, dando luogo ad
una disciplina particolare.
Tali autonomia ed indipendenza attengono alla sfera interna dell’attività dei culti acattolici,
in quanto l’attività esterna, ed in particolare i rapporti con lo Stato, sono oggetto di intese
(principio pattizio17).
L’art.13 della Costituzione, inoltre, garantisce a tutti il “diritto di professare liberamente la
propria fede”: tutela quindi l’aspetto individuale della libertà religiosa, mentre l’art.8 tutela
l’aspetto istituzionale (la “confessione”).
17
È il principio in base al quale la Costituzione italiana afferma che le relazioni tra Stato e confessioni religiose
debbano essere regolate attraverso la predisposizione di accordi (intese sottoscritti dalle parti interne). È individuato
da Art.7.2 Cost. + Art 8.3 Cost.
18
La libertà di coscienza è la libertà di coltivare profonde convinzioni interiori e di agire di conseguenza. Essa non ha
un esplicito riconoscimento in Costituzione, così come non l'hanno la libertà di pensiero o di fede religiosa: ciò che
interessa al diritto (e alla Costituzione) non sono i fenomeni interiori, che sono per loro stessa natura incontrollabili,
ma la disciplina delle manifestazioni esteriori, "sociali", della coscienza, del pensiero e della fede. Così, per esempio,
l'art. 19 riguarda la libertà di culto, l'art. 21 la libertà di manifestazione del pensiero; invece il diritto di agire "secondo
coscienza" è implicito in tutti i diritti di libertà e, come è proprio dei diritti di libertà, incontra i limiti posti dalle leggi.
Ma in certi casi il diritto stesso consente all'individuo di superare il limite posto dalla legge e, nel conflitto tra quanto
prescrive la legge e quanto prescrive il suo "foro interno", seguire il secondo: sono i casi di "obiezione di coscienza".
Un capitolo a parte è quello della tensione tra il principio di laicità e l’esposizione pubblica
dei simboli religiosi. Il crocifisso esposto nei locali pubblici, come un’aula scolastica,
un’aula giudiziaria o un seggio elettorale, ha suscitato reazioni “laiche” che hanno più volte
coinvolto sia il giudice ordinario che quello amministrativo: ma con esiti alquanto
incoerenti. Importante, in questo caso, la “sentenza Lautsi c.Italia”.
prole garantiti dalla CEDU affermando che "nulla prova l'eventuale influenza che
l'esposizione di un simbolo religioso sui muri delle aule scolastiche potrebbe avere sugli
alunni; non è quindi ragionevolmente possibile affermare che essa ha o no un effetto su
persone giovani le cui convinzioni sono in fase di formazione". La Corte, stabilito che in
Italia la scuola Pubblica non impone, nella sostanza alcun tipo di indottrinamento religioso
chiude definitivamente la questione stabilendo che "che nel decidere di mantenere i
crocifissi nelle aule della scuola pubblica frequentata dai figli della ricorrente" lo Stato
italiano ha rispettato "il diritto dei genitori ad assicurare questa educazione e questo
insegnamento in conformità alle loro convinzioni religiose e filosofiche.”. La decisione è
stata approvata con 15 voti favorevoli e due contrari. La sentenza è definitiva per tutti i 47
stati membri.
5.3 La tutela delle minoranze e la società multiculturale
La società multiculturale corrisponde al principio secondo cui deve essere assicurata pari
dignità alle espressioni culturali dei gruppi e delle comunità che convivono in una società
democratica ed all’idea secondo cui ciascun essere umano ha diritto a crescere dentro una
cultura che sia la propria e non quella maggioritaria nel contesto socio-politico in cui si
trova a vivere.
A questo punto bisogna fare una differenziazione importante tra:
Tutela delle “minoranze storiche”, presenti da sempre nell’ambito dei confini
nazionali, e tutelati dall’art.6 19della Costituzione italiana, che riconosce una serie di
diritti speciali per le minoranze linguistiche presenti nelle regioni a statuto speciale
della Valle d’Aosta, del Trentino-Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia (inoltre la
legge 482/1999 consente ad alcune lingue espressamente individuate dalla legge di
poter essere utilizzate nei rapporti con le pubbliche amministrazioni, come
programmazione radiotelevisiva di alcune aree, come materia di insegnamento a
scuola);
Tutela delle “nuove minoranze”, costituite da gruppi di immigranti (o dalle
generazioni successive) che risiedono stabilmente in uno Stato straniero e che talora
ne hanno acquisito la cittadinanza.
Attualmente, la sfida maggiore per le democrazie pluralistiche è dato dalle “nuove
minoranze”.
In passato, la risposta politica e giuridica spingevano sull’integrazione dei diversi gruppi
all’interno della società nazionale, e a tal punto sono servite le ideologie dei partiti di massa
e la strumentazione dello Stato sociale.
Proprio quest’ultima è servita ad effettuare una “redistribuzione” economica a favore di
gruppi che erano svantaggiati dalla dinamica di mercato. Il presupposto era che il conflitto
nella società contemporanea fosse essenzialmente un conflitto tra classi definite in relazione
alla posizione occupata nel processo produttivo e in base al tipo di reddito percepito.
19
“La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche” (collegato agli artt. 116‐117‐119)
Nella società odierna, però, accanto al conflitto per la redistribuzione, c’è un conflitto tra
identità culturali differenziate che, spesso, chiedono non di essere integrate ma di mantenere
la propria differenza, e, quindi di trovare nel sistema giuridico gli strumenti per tutelare la
loro alterità. La redistribuzione è quindi affiancata dalla “tutela dell’identità”.
La tutela dell’identità può essere definita sulla base di criteri religiosi o etnici, ma
ultimamente, si assiste anche ai fenomeni di identità aventi criteri diversi come le
“preferenze sessuali” (omosessuali), o “l’apparenza di genere” (femministe).
Per poter far sì, che ogni individuo possa sviluppare la propria personalità, e tutelare la
propria identità culturale, i differenti sistemi giuridici hanno creato vari strumenti:
creazione di un “diritto derogatorio”, che si applica solamente ai membri di
determinate comunità (per esempio, i diritti di caccia riconosciuto dal diritto
canadese agli indigeni, la possibilità riconosciuta negli USA agli Amish di escludere
i propri figli dall’obbligo dell’istruzione scolastica dopo i 14 anni);
creazione di “strumenti per promuovere la cultura di uno specifico gruppo”, norme
che prevedono la possibilità di poter utilizzare la propria lingua, e norme che
istituiscono specifici organismi con il compito di proteggere e promuovere una
determinata cultura;
“costruzione di luoghi di culto per alcune minoranze religiose”;
“estensione di istituti di garanzia previsti per chi segue i comportamenti
maggioritari anche a certe minoranze in modo da riconoscerne l’identità e
garantirne l’esistenza”, per esempio il riconoscimento del matrimonio tra
omossessuali in Regno Unito, Spagna o la versione attenuata dell’unione civile tra
omosessuali in Italia.
Il problema che tali sviluppi pongono ed i limiti, anche di ordine costituzionale, che essi
incontrano sono imponenti. La questione è altamente delicata, ed è sempre più difficile
trovare una soluzione unicamente valida.
Si assiste poi, ad una progressiva caduta dell’eterogeneità culturale delle odierne società, ed
un aspetto particolare di questa situazione è data dall’accentuazione di conflitti su scelte che
presuppongono precise opzioni di carattere etico. Molti conflitti infatti, si basano sulle
diverse prospettive etiche e soprattutto su quei temi che riguardano l’origine e la fine della
vita: fecondazione artificiale, ricerca sulle cellule staminali, diritto all’interruzione dei
trattamenti sanitari, eutanasia, sono questioni la cui soluzione rinvia alla piattaforma etica da
cui si muove.
Drammatico è per esempio il caso delle decisioni sulla fine della vita: l’interrogativo
formidabile è se, di fronte a un malato gravissimo che sopravvive solamente per mezzo di
terapie del tutto artificiali e quindi ha una vita assai menomata, sia ammissibile sul piano
etico e su quello giuridico interrompere, per volere del malato, quelle terapie, senza le quali
inevitabilmente morirà.
In assenza di una disciplina legislativa, sono stati i giudici, su domanda si qualche malato o
del tutore dello stesso, a decidere le condizioni che permettono l’interruzione della terapia e
quindi la morte.
Il conflitto etico sull’Eutanasia: il caso Welby ed il caso Englaro
Nel 2006 Welby, malato di una forma gravissima di sclerosi e tenuto in vita solamente
grazie ad un respiratore artificiale, ha chiesto espressamente al medico di sospendere il
trattamento che lo manteneva in vita. Il medico, dopo avergli somministrato dei sedativi per
evitare il dolore causato dal soffocamento, ha interrotto le pratiche che assicuravano a
Welby, il sostegno vitale, con la conseguenza che è morto nella mezz’ora successiva. Il
Pubblico ministero ha escluso che il medico avesse commesso il reato di “omicidio del
consenziente” chiedendo, perciò, l’archiviazione del caso. Secondo il PM, nel bilanciamento
tra due principi egualmente tutelati dall’ordinamento (in particolare all’art.32 Cost.) - il
diritto al rifiuto del trattamento e le istanze di sostegno della vita – bisogna dare la
prevalenza al diritto al rifiuto del trattamento, cioè all’autodeterminazione del paziente in
merito alle cure che gli vanno somministrate. Diverso, però, è il caso in cui il paziente non
può esprimersi, perché si trova da lunghi anni in coma. Può la sua volontà essere sostituita
da quella del tutore? La Cassazione (sez. I civ., 21748/2007) si è pronunciata su una vicenda
di questo tipo a seguito di un complesso iter processuale. Esso è partito da un ricorso presso
il Tribunale di Lecco con cui il padre di una ragazza – Eluana Englaro, in come vegetativo a
seguito un incidente dal 1992 – chiedeva al giudice un ordine di interruzione
dell’alimentazione forzata, grazie alla quale era tenuta in vita. La Cassazione ha sostenuto
che “ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato
vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno,
e sia tenuto artificialmente mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua
nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contradditorio con
il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario
(fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica
nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti : (a) quando la
condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico,
irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici
riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un
qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo
esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova
chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti
dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti,
corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea
stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve
negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla
vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e volere
del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita
stessa”. La Cassazione ha dovuto riconoscere la carenza, nell’ambito dell’ordinamento
giuridico italiano, di una organica disciplina normativa destinata espressamente a
regolamentare la materia della “interruzione della vita”. E proprio tale presupposto ha
innescato un vivace dibattito pubblico. Da una parte c’è chi ha sostenuto che il giudice si sia
sostituito al legislatore, nel disciplinare una materi che coinvolge principi etici delicatissimi
e su cui esistono forti divisioni. Dall’altra parte, è stato sostenuto che il giudice deve
comunque dare una risposta alla domanda dell’attore, ricostruendo, in mancanza di una
norma espressa, il sistema ed elaborando i principi. Il Parlamento, aderendo alla prima
impostazione, ha sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale,
ritenendo che il giudice abbia usurpato la funzione legislativa riservata dalla Costituzione al
Parlamento (ma che esso non ha mai esercitato!). La Corte costituzionale ha respinto
seccamente il ricorso (ord.334/2008) e alla fine di una complessa vicenda amministrativa
giudiziaria Eluana è stata staccata dalle macchine ed è morta tra mille polemiche e un vero e
proprio scontro istituzionale. Approvata il 14/12/17 legge sul Biotestamento.
6. STATO UNITARIO, STATO FEDERALE, STATO REGIONALE
6.1 Definizioni
La separazione dei poteri ed i limiti alla regola di maggioranza possono realizzarsi non solo
livello orizzontale, cioè nel rapporto tra i poteri dello Stato, ma altresì a livello verticale,
attraverso la distribuzione del potere di indirizzo politico e delle funzioni pubbliche tra lo
Stato centrale ed altri enti territoriali.
Perciò si suole distinguere tra Stato unitario e Stato composto: nel primo il potere è
attribuito al solo Stato centrale o comunque a soggetti periferici da esso dipendenti; nel
secondo il potere è distribuito tra lo Stato centrale ed enti territoriali da esso distinti, che
sono titolari del potere di indirizzo politico e delle funzioni legislativa e amministrativa in
determinate materie.
Lo Stato unitario ha caratterizzato a lungo l’esperienza europea, mentre quel tipo di Stato
composto che è lo Stato federale ha caratterizzato l’esperienza degli Stati Uniti d’America.
Da alcuni anni, però, anche in Europa ha avuto successo lo Stato composto, nelle sue 2
varianti di:
1) Stato federale;
2) Stato regionale.
Ad ogni modo, di regola, i caratteri tipici dello Stato federale vengono individuati nel modo
seguente:
l’esistenza di un ordinamento statale federale, dotato di una Costituzione scritta e
rigida;
la previsione da parte della Costituzione federale di una ripartizione di competenze
tra Stato centrale e stati membri;
l’esistenza di un Parlamento bicamerale, in cui cioè esiste una camera rappresentativa
degli stati membri;
la partecipazione degli stati membri a procedimento di revisione costituzionale e la
presenza di una Corte costituzionale in grado di risolvere i conflitti tra Stati federali e
Stati membri.
Articolo 1
Articolo 114
indivisibile, riconosce e democratica, fondata sul dai Comuni, dalle Province,
promuove le autonomie lavoro. La sovranità dalle Città metropolitane,
locali; attua nei servizi che appartiene al popolo, che la dalle Regioni e dallo Stato. I
dipendono dallo Stato il più esercita nelle forme e nei Comuni, le Province, le Città
ampio decentramento limiti della Costituzione”. metropolitane e le Regioni
amministrativo; adegua i sono enti autonomi con
principi ed i metodi della propri statuti, poteri e
sua legislazione alle funzioni secondo i princìpi
esigenze dell'autonomia e fissati dalla Costituzione.
del decentramento". Roma è la capitale della
Repubblica. La legge dello
Stato disciplina il suo
ordinamento”.
7. L’UNIONE EUROPEA
7.1 Definizioni
L’Unione Europea (UE) è una struttura istituzionale che è tradizione
descrivere ricorrendo ad una metafora: “un tempio greco che poggia
su tre pilastri”.
Il pilastro centrale è quello della Comunità economica (CE) che
comprende le 3 comunità originarie (CEE, CECA, EURATOM). I
due pilastri laterali sono costituiti dalla politica estera e dalla sicurezza comune (PESC) e
dalla cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni (CGAI).
La differenza sostanziale tra il primo pilastro e gli altri due si evidenza nei processi
decisionali. Infatti nell’ambito della CEE la maggior parte delle decisioni non richiedono
l’unanimità degli Stati, mentre per la PESC e il CGAI è richiesto il voto unanime di tutti gli
Stati membri.
Con il Trattato di Amsterdam è stato introdotto il principio della cooperazione rafforzata
che consente agli Stati membri di instaurare forme di collaborazione specifiche, quindi un
sistema a geometria variabile o a due velocità.
Quindi: l’UE si fonda sulle 3 comunità pre-esistenti, si aggiunge a queste ed utilizza le loro
istituzioni per l’esercizio delle sue funzioni e per il perseguimento degli obiettivi previsti dal
Trattato.
7.2 L’organizzazione
L’organizzazione comunitaria si articola in diverse istituzioni:
a) il CONSIGLIO EUROPEO è l’organo di impulso dell’UE, chiamato a definire gli
orientamenti politici generali. È composto dai capi di Stato (o di Governo) membri e
dal Presidente della Commissione. È tenuto ad informare il Parlamento europeo dei
risultati di ogni sua riunione;
Il CONSIGLIO è l’organo titolare del potere di adottare gli atti normativi e del compito di
coordinare le politiche generali di tutti gli Stati membri. È composto da un rappresentato per
ogni Stato (secondo l’ambito di competenza) ed è presieduto da ciascuno dei suoi membri a
rotazione per un periodo di 6 mesi ciascuno. Le deliberazioni del Consiglio sono
generalmente assunte a maggioranza semplice anche se in alcuni casi il Trattato CE prevede
la maggioranza qualificata calcolata con un meccanismo di voto ponderato che attribuisce
un peso diverso ad ogni Stato. In casi particolari è richiesta l’unanimità. Al Consiglio è
affiancato il COMITATO DEI RAPPRESENTANTI PERMANENTI (COREPER), organo
composto dai rappresentanti permanenti degli Stati membri, incaricato di preparare il lavoro
del Consiglio;
b) la COMMISSIONE si può considerare come il centro dei processi di decisione e
come l’organo di propulsione dell’ordinamento comunitario. Dispone di poteri
d’iniziativa normativa (su indirizzo del Consiglio), di poteri di decisioni
amministrativa e di regolamentazione e di poteri di controllo nei confronti degli Stati
membri. La commissione esercita un controllo indiretto sugli Stati membri circa il
rispetto del Diritto europeo tramite le segnalazioni di soggetti privati, creando così un
rapporto trilatero (Commissione, Amministrazioni nazionali, privati). Rilevante è il
ruolo della Commissione nella gestione dei finanziamenti comunitari, ne stabilisce
l’ammontare e la ripartizione.
La Commissione è composta da 20 membri (attualmente 1 per l’Italia), che durano in carica
5 anni, designati in accordo con gli Stati membri. La nomina del Presidente e dei
componenti coinvolge direttamente il Parlamento, che dapprima esprime il proprio parere
(vincolante) sul Presidente e poi con un voto distinto sull’intera Commissione.
c) il PARLAMENTO EUROPEO è composto dai rappresentanti dei popoli degli Stati
membri, eletti in ciascun Stato, per 5 anni e a suffragio universale e diretto. Il PE è
un organo rappresentativo e dotato di legittimazione democratica, ma non è titolare
del potere di adottare atti normativi. Con il Trattato di Amsterdam sono stati
rafforzati i poteri del PE, che ora è pienamente partecipe del processo di formazione
degli atti normativi attraverso procedure di codecisione (diritto di veto sulle proposte
della Commissione) e cooperazione. Il PE dispone di un potere di iniziativa indiretta
tramite la Commissione. Il PE è titolare dei poteri di controllo verso la Commissione
tramite commissioni temporanee di inchiesta, interrogazioni, mozioni di censura e
voto di fiducia iniziale;
Le attribuzioni della Comunità europea e dell’UE sono solo quelle espressamente previste
dal Trattato, e riguardano campi rilevantissimi: la libera circolazione di merci, lavoratori,
capitali e servizi; la disciplina della concorrenza; l’agricoltura; i trasporti; la politica
monetaria (ed economica); l’occupazione; ecc.…
Consiglio
Europeo
Commissione Parlamento
Consiglio dell'UE
Europea Europeo
20
Tipo di organizzazione economica basata sull'interazione della domanda e dell'offerta, ovvero sulla loro
interdipendenza, tenuto conto dei tipi di beni da produrre, della loro quantità, dei sistemi di produzione da impiegare
nonché dei destinatari di tali beni.
Attraverso l’insieme di questi strumenti si è affermato, almeno fino agli anni ’80 del XX
secolo, il cosiddetto del “dirigismo economico”, secondo cui lo Stato deve intervenire
nell’economia orientandola e dirigendola per il conseguimento dei suoi obiettivi politici e
sociali. Ma l’affermazione del “dirigismo economico” non era imposto dalla Costituzione
italiana, ed oggi è in costante tensione con i principi dell’Unione europea.
Sin dall’origine i Trattati istitutivi della Comunità europea ponevano al centro degli obiettivi
l’instaurazione di un mercato comune, un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione,
fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei
servizi e dei capitali.
Questo comportava l’adozione da parte della Comunità e degli Stati membri di una politica
economica fondata sullo stretto coordinamento delle politiche degli Stati membri, ispirata al
principio di una economia di mercato aperta e di libera concorrenza. Questi principi sono
ribaditi dal Trattato Unione Europe e dal Trattato sul funzionamento dell’UE.
Si è arrivati alla creazione di un mercato unico attraverso 3 strumenti previsti dai Trattati:
1) la libertà di circolazione delle merci dei lavoratori, dei servizi e dei capitali (le c.d.
quattro libertà, capisaldi del liberalismo economico della Comunità);
2) il divieto degli aiuti finanziari;
3) la disciplina della concorrenza, e sotto qualsiasi forma, dello Stato alle imprese, salve
alcune specifiche eccezioni.
Gli Stati non possono cercare di impedire la creazione di un mercato comune limitando la
circolazione delle merci e dei fattori produttivi (per esempio, attraverso tariffe doganali),
oppure introducendo un privilegio per le proprie imprese, ed in particolare per le imprese
pubbliche, erogando loro aiuti finanziari che creano ostacoli all’ingresso nel mercato
nazionale di imprese straniere.
Prima della moneta unica, gli Stati potevano impiegare due strumenti di politica monetaria:
il tasso di cambio, che definisce il prezzo relativo tra due monete;
il tasso di interesse, il prezzo che bisogna pagare sul denaro preso in prestito.
Sei il tasso di cambio di un paese si deprezza, la quantità di moneta per acquistare beni
esteri aumenta. All’estero, invece, costano di meno i beni prodotti nel Paese che ha
svalutato.
Per quanto riguarda il tasso di interesse, più quest’ultimo è basso, più diminuisce il prezzo
del denaro, più aumenta la domanda di crediti da parte delle imprese, più aumentano gli
investimenti (inversamente, accade il contrario). La riduzione del tasso di interesse stimola
la crescita economica, ma aumentando la massa di denaro circolante può crescere anche il
livello dei prezzi, cioè l’inflazione21. Lasciare agli Stati questi due strumenti era da ostacolo
per la creazione di un mercato unico.
Con l’unione monetaria, vengono evitati i pericoli che possono portare ad una possibile
inflazione. Spariscono le monete nazionali e le decisioni sul tasso di interesse sono
accentrate nel SEBC.
Obiettivo principale dell’Unione Europea è quello di lottare contro l’inflazione. Solo dopo
aver assicurato questo obiettivo, si possono sostenere altre politiche della Comunità, come
quello della libertà di concorrenza.
L’instaurazione di una moneta unica impone un grande punto di incontro tra le economie
degli Stati dell’UE. Tutti gli Stati inoltre, devono avere condizioni finanziarie interne tali da
ridurre la possibile diffusione dell’inflazione.
21
L'aumento generalizzato e prolungato dei prezzi che porta alla diminuzione del potere d'acquisto della moneta e
quindi del valore reale di tutte le grandezze monetarie.
I parametri di Maastricht
L'Unione monetaria europea stabilisce una serie di vincoli alle politiche di bilancio dei Paesi
membri (con eccezione del Regno Unito, Danimarca, Svezia, che hanno scelto di restare
fuori dall'Euro, e della Grecia, che non ce l'ha fatta a rientrare nei parametri). Agli Stati
nazionali, infatti, viene imposto il rispetto di "finanze pubbliche sane" e, pertanto, il Trattato
prevede che due volte l'anno gli Stati membri sottopongano i loro bilanci, quello in corso e
quello previsto, ad una procedura di esame. L'obiettivo è quello di evitare i disavanzi
eccessivi (che sono ritenuti i principali sintomi di finanze non sane). Secondo il Trattato CE
ed il Protocollo aggiuntivo un disavanzo è ritenuto eccessivo se:
- il disavanzo supera la soglia del 3% del Prodotto Interno Lordo (PIL);
- il debito pubblico supera la soglia del 60% del PIL.
Per la verifica dei parametri di convergenza deve farsi riferimento al conto consolidato delle
pubbliche amministrazioni che comprende, oltre alle amministrazioni statali, anche le
Regioni, gli Enti locali e gli Enti di previdenza. Qualora in un Paese membro un disavanzo
risulti eccessivo, la Commissione europea deve preparare un rapporto al Consiglio, che può
fare delle raccomandazioni al Paese in questione. Ove queste non siano prese in
considerazione possono essere emesse delle sanzioni pecuniarie. Questa disciplina è stata
completata dal cosiddetto Patto di stabilità, concordato in occasione del Consiglio europeo
di Amsterdam nel giugno 1997. In virtù del Patto di stabilità i Paesi aderenti si impegnano a
porsi un obiettivo di bilancio pubblico in pareggio nel medio termine.
Queste prescrizioni si spiegano in quanto, nella prospettiva del Trattato, la politica di
bilancio deve essere diretta ad assicurare la stabilità dei prezzi ed ha un ruolo strumentale
rispetto alla politica monetaria. Ciò ha imposto ai Paesi aderenti all'Unione, e
particolarmente all'Italia, un'opera di risanamento finanziario che ha consentito di rispettare
i "parametri di Maastricht". Il risanamento finanziario ed il rispetto dei vincoli comunitari si
appoggiano su procedure decisionali congegnate in modo tale da garantire il rispetto di tali
vincoli ponendo freni alla crescita incontrollata della spesa ed all'indebitamento.
L’unione economica e monetaria comporta una moneta ed una politica monetaria unica
gestite dal SEBC, che è un organismo di tipo “federale” composto dalle banche centrali
nazionali e, in posizione sovraordinata, dalla BCE (Banca centrale europea).
Nel SEBC, le Banche centrali (in Italia, si chiama “Banca d’Italia”) svolgono
fondamentalmente 2 compiti:
1) concorrere, tramite il proprio vertice istituzionale (il Governatore), a determinare le
decisioni del Consiglio direttivo della BCE;
2) dare attuazione a tali decisioni entro il confine del proprio Paese.
Attualmente aderiscono all’euro (€), 18 dei 28 Stati dell’UE.
22
Come la determinazione delle spese pubbliche, delle entrate e del debito pubblico.
23
L'area economica corrispondente al complesso dei paesi europei che adottano l'euro come moneta di corso legale.
24
In finanza pubblica l'insolvenza sovrana (o nazionale) è la condizione in cui viene a trovarsi uno Stato sovrano che
non è più in grado di restituire completamente il suo debito pubblico ai creditori (insolvenza, fallimento o default).
Può essere accompagnato da una dichiarazione formale di un governo circa l'intenzione di pagare solo in parte (o non
pagare) i propri debiti (un taglio parziale dei debiti è detto haircut), oppure consistere in un comportamento
concludente, in cui uno stato cessa de facto i pagamenti dovuti alle scadenze stabilite.
25
Sono il prezzo del denaro preso in prestito dagli Stati, e, questo prezzo aumenta quanto più cresce il rischio di un
mancato rimborso del prestito.
26
Particolarmente importanti in quanto, i partiti hanno proposto direttamente agli elettori di tutti i Paesi europei un
candidato alla carica di Presidente della Commissione. La competizione ha visto scontrarsi Junker(popolare) e
Schulz(socialdemocratico). Per nessuno dei due arrivò maggioranza dei seggi elettorali, quindi si arrivò ad una
coalizione, con a capo della Commissione, Junker. Il fatto è politicamente assai rilevante poiché: sono stati abbattuti i
particolarismi dei singoli Stati facendo votare un unico candidato sottoposto a tutti gli elettori; Junker si è presentato
L’appartenenza all’Eurozona si basa sulla fiducia reciproca degli Stati, ognuno dei quali
deve avere la ragionevole aspettativa che gli altri adempiranno lealmente i loro doveri. Nella
vicenda greca questa fiducia è stata scossa in profondità. Da un lato la Grecia era accusata
dagli Stati creditori (che avevano finanziato i primi due programmi di aiuti), prima di avere
truccato i bilanci creando un debito pubblico enorme, poi di non voler fare i sacrifici
necessari, godendo di aiuti il cui peso finanziario ricadeva sulle spalle dei contribuenti di
altri Paesi. Di contro, i popoli, come quello greco, che hanno sofferto le conseguenze
al voto del Parlamento europeo, su designazione del consiglio europeo, sulla base di un preciso programma politico,
rafforzando ulteriormente una prospettiva politica transnazionale che vede instaurarsi un rapporto di fiducia tra
istituzioni espressione di tutti i cittadini e non dei singoli Stati; si è avviata la tendenza ad un evoluzione in senso
parlamentare della forma di governo europea, con un Presidente della commissione scelto dai partiti che ottengono la
maggioranza alle elezioni europee, con un suo programma politico, e che poi è eletto dal Parlamento europeo, che
successivamente può censurarlo costringendolo alle dimissioni; infine, il programma di Junker spinge verso
l’approfondimento dell’integrazione europea, in diversi settori, a cominciare dalla politica economica.
pesantissime di una politica di austerità che ha falcidiato i loro redditi, hanno perso fiducia
negli altri Stati accusati di voler punire il popolo greco.
Il 23 giugno 2016 in Gran Bretagna si è tenuto un referendum sulla permanenza della stessa
nell’Unione europea. La maggioranza degli elettori britannici si è espressa a favore del
recesso dall’Unione, i cui membri quindi scenderanno a 27. Sulla base dei risultati del
referendum il Governo inglese dovrà azionare l’art.50 del Trattato sull’Unione europea,
secondo cui ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Unione. Questa decisione viene
notificata al Consiglio europeo. Alla luce degli
orientamenti formulati dal Consiglio europeo,
l’Unione negozia e conclude con tale Stato un
accordo volto a definire le modalità del recesso,
tenendo conto del quadro delle future relazioni
con l’Unione. Ess è concluso dal Consiglio, che
delibera a maggioranza qualificata, previa
approvazione del Parlamento europeo. Dopo il
referendum britannico, che ha sorpreso un po’
tutti e ha provocato anche pesanti reazioni per la
premiership del Governo e la leadership dei
partiti, la lunga e imprevedibile trattativa per
l’exit si prospetta lunga. Il Regno Unito uscirà
dall'Unione Europea alle 23 (ora di Greenwich)
del 29 marzo 2019. A scriverlo, "nero su
bianco", è la premier britannica Theresa May,
che in un intervento sul Telegraph annuncia la
presentazione di un emendamento alla proposta
di legge per l'Uscita dalla Ue (EU Withdrawal
Bill), che stabilisce l'ora e la data esatta della
Brexit.