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Per meglio inquadrare le vicende che videro l'intervento dell'ArmIR nella c.d.

Campagna di
Russia, è opportuno focalizzare anzitutto su alcuni punti importanti, prima di restringere
l'attenzione sulla divisione Tridentina e sul Battaglione Verona in cui militava zio Vittorio:
– l'assedio di Stalingrado (23 agosto 1942 – 2 febbraio 1943) e la strenua resistenza op-
posta dalla popolazione e dall'Armata Rossa, che fecero naufragare l'idea stessa di u-
na 'Blitzkrieg' e da cui l'esercito invasore uscì con l'annientamento della sua 6a armata
https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Stalingrado
– la controffensiva russa previde prima l'Operazione Saturno, che pur ridimensionata
poi con la 'Piccola Saturno', si proponeva di indebolire le forze dell'Asse attaccando
le “truppe satelliti” - sul Cir già a novembre 1942 – che culminò con l'attacco nella
sacca di RAPOPINSKAJA alle truppe rumene subironoche subirono gravissime
perdite, quindi alle linee italiane appostate sul Don. Nella conca di ARBUZOVKA , a
nord di Malaja Lozovka, gran parte dell'8a Armata italiana e alcuni contingenti tede-
schi si confrontarono (21-25 dicembre 1942) con l'Armata Rossa e subirono ingentis-
sime perdite: la divisione Pasubio fu quasi annientata, ma anche Ravenna, Sforzesca,
XXXV Corpo d'Armata (ex CSIR) e Torino furono molto ridimensionate
https://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Piccolo_Saturno

La campagna di Russia[modifica | modifica wikitesto]


Il Corpo d'armata alpino venne ricostituito a Trento il 20 marzo 1942. Alle dipendenze della grande unità
le divisioni alpine "Tridentina", al comando del generale Luigi Reverberi, "Julia", al comando del genera-
le Umberto Ricagno e "Cuneense", al comando del generale Emilio Battisti. Il Corpo d'armata alpino, al
comando del generale di corpo d'armata Gabriele Nasci, e posto alle dipendenze della 8ª Armata co-
mandata dal generale Italo Gariboldi, venne inviato sul fronte russo dove giunse nella seconda decade
del mese di luglio, dislocandosi nella regione di Izjum. Nei primi giorni di agosto, il Corpo viene avviato
in linea prima nel Caucaso e poi, per il sopraggiungere di nuove esigenze, nella zona di Millerovo e
Starobelsk, sul Don, dove venne tenuto in seconda schiera. Nel mese di settembre alle unità del Corpo
d'armata venne affidato il controllo del settore compreso fra Babka-Paclovsk-Novo Kalitva, costituendo
l'ala sinistra della 8ª Armata italiana. Il periodo ottobre-novembre fu caratterizzato unicamente da attivi-
tà di ricognizione e da combattimenti locali.[1] Nel corso della seconda offensiva russa sul Don, iniziata
il 16 dicembre 1942, dopo una serie di attacchi preliminari a partire dall'11 dicembre, il settore del Cor-
po d'armata fu interessato a più riprese da violenti attacchi nemici che vennero decisamente respinti. A
partire dal 23 dicembre, l'intero Corpo d'armata rimase a difesa delle posizioni sul Don assieme a forze
tedesche.[1]
Nei primi giorni del 1943 la spinta offensiva russa[1] si inasprì,....... solo nel pomeriggio del 17, quando
le unità sovietiche riuscirono a rompere il fronte anche sulla sinistra, venne ordinato il ripiegamento
delle unità alpine. Sganciatesi dal contatto sul Don, le unità del Corpo d'armata, dopo sporadiche azioni
di retroguardia, iniziarono un faticoso ripiegamento attraverso la steppa nell'inclemenza del rigido
inverno russo, muovendo dapprima verso la ferrovia Rossoš'-Evdakovo ma, successivamente, furono
costrette a procedere con movimenti convergenti intesi a costituire colonne di grandi unità in grado di
darsi reciproco appoggio per le azioni di rottura del fronte di accerchiamento che nel frattempo i russi
erano riusciti a realizzare. Il 19 e 20 gennaio ebbero luogo a Postojalyj e a Skororyo, violenti
combattimenti, per aprire un varco in un primo sbarramento nemico e proseguire quindi verso ovest.
Altri combattimenti vennero sostenuti il 21, contro un secondo sbarramento fortemente presidiato a
Novo Charkovka e a Varvarovka, il 23 a Nikolaevka[1] e il 25, 26 e 27 a Nikitovka dove furono
impegnate le ultime risorse per rompere finalmente l'accerchiamento. Il 30 gennaio i resti del Corpo
d'armata alpino si raccolsero a Šebekino e gli ultimi reparti giunsero il 3 febbraio.[1] Da questa località
vennero avviati nella zona di Homel' da dove partiranno in ferrovia per far rientro in Italia. Il 1º marzo, al
ritorno dalla Russia il Corpo d'armata alpino si sciolse dando vita al XXIV Corpo d'armata.[1]
Comandanti (1940-1943)[modifica | modifica wikitesto]
•CORPO D'ARMATA ALPINO (1939-40)
•Generale di corpo d'armata Luigi Negri
•Generale di divisione Ugo Santovito
•Generale di corpo d'armata Carlo Rossi
•Generale di corpo d'armata Gabriele Nasci
•--->COMANDO CORPO D'ARMATA ALPINO (XXVI) (1941)
•Generale di corpo d'armata Gabriele Nasci
•Generale di divisione Ugo Santovito (interim)
•--->COMANDO CORPO D'ARMATA ALPINO (1942-43)
•Generale di corpo d'armata Gabriele Nasci

2 GENNAIO 1943
Nel tentativo di correggere l’atteggiamento dei soldati sovietici nei confronti
dei prigionieri di guerra subito dopo la loro cattura, il vice-ministro alla Difesa,
generale A.V. Chrulev firma il decreto 001, nel quale si sottolineano le gravi
carenze che hanno finora contraddistinto il trasferimento dei prigionieri stessi.
Vengono indicate le regole cui attenersi. Tali istruzioni sono seguite – il 12
gennaio – da ulteriore decreto dell’NKVD. Tuttavia le direttive saranno attuate
soltanto di rado. I prigionieri di guerra subiscono le marce del davai, i trasporti
ferroviari, gli orrori dei primi campi di smistamento. Le testimonianze dei reduci
– nonché i documenti ufficiali – riveleranno situazioni disumane.
I lager destinati ai prigionieri di guerra – che, secondo i dati disponibili, dal
1939 a inizio 1943 erano soltanto 24 – aumentano di numero, fino ad arrivare a
533 (più almeno altri nove lager speciali), distribuiti su tutto il territorio
sovietico. I prigionieri italiani saranno rinchiusi in circa 430 dei lager suddetti.

5 GENNAIO 1943
Le truppe del Blocco Sud si raccolgono a Rykovo e dintorni. Dal 23 gennaio al 3
febbraio la difesa della città verrà affidata ai resti della Colonna Carloni.

9 GENNAIO 1943
La 3ª Armata Corazzata sovietica investe il XXIV Corpo Corazzato tedesco (cui è
stata assegnata la Divisione Julia); il XXIV Corpo ripiega su Rovenki senza
informare il Comando del Corpo d’Armata alpino.

13-27 GENNAIO 1943


Il Fronte di Voronež avvia l'Operazione Ostrogožsk-Rossoš', l'offensiva sull'Alto
Don contro il Corpo d'Armata alpino e la 2ª Armata ungherese.

-da inizio gennaio 1943, fino al 16 gennaio


Nei primi giorni del 1943 la spinta offensiva russa[1] si inasprì, specie in corrispon-
denza delle ali estreme del Corpo d'armata. La mattina del 14 gennaio il fronte tenuto
dal Corpo d'armata alpino venne attaccato da poderose forze corazzate russe che
premevano sull'intero fronte. Il corpo d'Armata alpino resistette su tutto il fronte, ma
un cedimento delle unità sulla sua destra consentì ai sovietici di aprirsi un varco e di
guadagnare le spalle dello schieramento, minacciando la sede del comando a Rossoš'.
[1] Nei giorni 15 e 16 gennaio, in corrispondenza del proprio settore meridionale, il
corpo d'armata venne impegnato in violenti combattimenti tesi ad evitare l'aggira-
mento. La notte tra il 16 e il 17 gennaio l'Armata Rossa investì l'intero fronte, senza
però riuscire a progredire, malgrado la notevole superiorità dei mezzi impiegati
15 GENNAIO 1943
Raid della 106ª Brigata Corazzata sovietica a Rossoš', sede del Comando di
Corpo d’Armata alpino [coord geo: 51° 08' N – 38° 31' E] che si sposta a
Podgornoe e affida la città a reparti di retroguardia.

16 GENNAIO 1943
Rossoš' cade. Il comandante del Corpo d’Armata alpino, generale Nasci, chiede
di ripiegare ma il generale Gariboldi proibisce di abbandonare le posizioni sul
Don.

16-17 GENNAIO 1943


I resti del Blocco Nord giungono a Starobelsk.

17 GENNAIO 1943
Il Comando d’Armata italiano autorizza il generale Nasci a ripiegare. Lo
sganciamento dal Don inizia alle ore 17.00. Le quattro Divisioni (Cuneense,
Julia, Tridentina, Vicenza) si ritirano a ovest su “vasta fronte”, marciando in
ordine di combattimento su file parallele. Secondo gli ordini, bisogna puntare
su Valuiki, ma per il momento solo il Comando di Corpo d’Armata alpino e la
Divisione Tridentina ne sono informati.
-17 gennaio 1943
….e solo nel pomeriggio del 17, quando le unità sovietiche riuscirono a rompere il
fronte anche sulla sinistra venne ordinato il ripiegamento delle unità alpine.
Sganciatesi dal contatto sul Don, le unità del Corpo d'armata, dopo sporadiche azioni
di retroguardia iniziarono un faticoso ripiegamento attraverso la steppa nell'inclemen-
te rigido inverno russo, muovendo dapprima verso la ferrovia Rossoš'-Evdakovo ma,
successivamente, furono costrette a procedere con movimenti convergenti intesi a co-
stituire colonne di grandi unità in grado di darsi reciproco appoggio per le azioni di
rottura del fronte di accerchiamento che i russi nel frattempo avevano effettuato.
Da Podgornoe la "Tridentina" confluì a Postojalyj e qui tentò di spezzare il primo "anello" dell'accerchia-
mento. Nella feroce battaglia i sovietici inflissero dure perdite al battaglione "Verona", che riuscì comun-
que a conquistare lo snodo e aprire provvisoriamente la strada alla massa in disordinato ripiegamento;
essa, peraltro, veniva ingrossata di ora in ora da militari tedeschi, ungheresi e rumeni lasciati indietro o
sopravvissuti alla distruzione delle loro unità e migliaia di altri dispersi, appartenenti alle divisioni "Ra-
venna", "Pasubio" e "Cosseria"[122]. Presso la cittadina si radunarono tutte le colonne, quindi la "Tri-
dentina" riprese l'avanzata e guidò l'attacco su Šeljakino, infrangendo un nuovo sbarramento sovietico;
tuttavia le altre due divisioni alpine deviarono per errore più a nord e il 23 gennaio, a Varvarovka, incap-
parono in forze sovietiche cinque volte superiori: la battaglia fu cruenta e le perdite altissime, interi
repar-ti furono distrutti. I resti della "Julia"[N 5], della "Cuneense" e della "Vicenza" proseguirono ancora
verso sud allontanandosi dalla "Tridentina" e dai reparti tedeschi, che nel frattempo avevano ricevuto
comunicazione di cambiare destinazione e dirigersi a Nikolaevka, dato che Valujki era ormai nelle mani
dei sovietici. Il generale Nasci, che aveva affiancato Reverberi alla guida della "Tridentina", disponeva
di un apparato radio tedesco che gli permetteva di comunicare con il comando d'armata, ma non fu
capace di contattare le altre due divisioni che proseguirono verso la meta originaria [123][124].
Postojali, l’estremo sacrificio del
Verona. Furono 144 gli alpini che persero la vita
«Avanti Verona!» riecheggia nella lastra di gelo e neve della steppa russa. È il 19 gennaio
1943. Manca qualche giorno alle termopili di Nikolajewka – epilogo dell’infausta Campa-
gna di Russia – e gli alpini veronesi stanno scrivendo una loro dolorosa pagina di storia: la
battaglia di Postojali. L’esito sarà amaro: 436 morti del Sesto reggimento e la decimazione
di uno dei suoi battaglioni, il Verona. Di quest’ultimo oggi il centro studi Ana di via del
Pontiere, intrecciando i dati dell’albo d’oro dei caduti con quelli dell’Unione nazionale
reduci di Russia, ha ricostruito l’elenco di morti e dispersi: una lista di 144 giovani che in
ordine alfabetico va da Guido Albrigo, 22 anni di Gazzo morto a Postojali il 19 (finito in
una fossa comune e riesumato nel 1994), a Italo Zocca, 24 anni di Bardolino, morto il 21.
Tra loro la medaglia d’oro Marcello Piccoli, sergente maggiore, di Monteforte d’Alpone, 31
anni, caposquadra fucilieri. «Confrontando i dati dell’albo con quelli dell’Unirr emerge che
oltre 140 alpini veronesi muoiono il 19 gennaio 1943», spiega Giorgio Sartori del centro
studi. «Per alcuni è indicata la località di morte, Postojali, per altri c’è la dicitura "disperso"
o "località non nota", ma confrontando i dati dei diari storici i conti tornano».
Primo tentativo dell’armata italiana di rompere l’accerchiamento russo e aprire un varco
alla ritirata, Postojali è una storia veronese. Il 18 gennaio, il Comando del corpo d’armata
degli alpini vi invia il battaglione Verona. Il paese – forse già occupato dai russi o solo da
pochi partigiani, forse composto da qualche isba o chissà (nessuno l’ha mai visto) – è lungo
l’armeestrasse a circa 25 chilometri da Podgornoje. È un punto nevralgico per la manovra
di ripiegamento dell’armata. Il comando lì vuole riunire tutte e tre le divisioni ripieganti
dal Don.
Il Verona ha un compito di estrema importanza: occupare Postojali e sistemarsi a difesa
aprendo così «la strada della salvezza e la libertà a migliaia di compagni», racconteranno i
reduci nel volume del 1992 a cura di Vittorio Cristofoletti Battaglione Verona “Cimi”. È il
varco entro il quale dovrà transitare la Tridentina e le truppe italiane, tedesche, ungheresi
e romene in ripiegamento.
Dopo la lunga marcia dal Don, il battaglione, il 18 gennaio, è sistemato in un paesino. «Il
mio piccolo termometro a spillo sul cappello segnava già 43 gradi sottozero, ma la scala
arrivava solo a quella misura!», scriverà nel libro Enno Donà. Ci sono casi di
congelamento: vesciche ai polsi come scottature laddove il vento della steppa è riuscito a
penetrare negli inadatti cappotti degli alpini.
Nel tardo pomeriggio le cinque compagnie del battaglione sono caricate sui mezzi verso
Postojali. Gli alpini vengono avvisati della probabile presenza di nuclei partigiani che
potrebbero disturbare il ripiegamento. Ma la notizia è infondata: il Verona troverà ben
altre forze a contrapporsi. Arriva a Repiewka, poche isbe abbandonate. Sulla destra, un
bosco; sulla sinistra, dorsali candide e un’ampia piana spazzata dal vento e da un silenzio
assoluto e l’indomani costellata di alpini che arrancano nella neve alta. 19 gennaio. Come
sarà Postojali? Un nugolo di isbe sepolte dalla neve? Un paese? Nessuno ne ha un’idea. Ma
all’improvviso eccola: una doppia schiera di isbe dalla quale si scatenerà la furia
dell’armata rossa. «Verona avanti!» gridano i comandi mentre cadono i soldati. Gli alpini
procedono sulla neve rossa del sangue di fratelli, compaesani, amici più cari. Postojali, ora
nitida in tutta la sua ampiezza e fortemente presidiata, è un inferno. Il Verona combatte
con la sola forza della disperazione fino all’ordine di ripiegare. È una disfatta. Cala la notte,
ma non il sacrificio cui ancora il battaglione sarà chiamato nelle settimane successive,
prima di giungere a casa.

Maria Vittoria Adami

----> sono riuscito a recuperare il file con i nomi dei 144 alpini morti e i dispersi
Alpino Guerrino Malizia
56ª Compagnia, Battaglione Verona, 6^ Reggimento Alpini
Il giorno 18 gennaio 1943 il mio Battaglione Verona fu mandato ad attaccare nella zona di
Opyt; all’alba del 19 attaccammo a Postojalyi, e dopo otto ore di cruento combattimento
corpo a corpo, senza nessun appoggio dell’artiglieria, rimase ferito sul campo di battaglia il
capitano della 58ª Compagnia, Venier, e il capitano della 57ª, Ridolfi. Quando il maggiore
Bongioanni ordinò di ripiegare in ritirata, non trovo le parole adatte per spiegare e descri-
vere in quali condizioni ci trovammo, i russi erano ben appoggiati dentro il paese, con le
armi ben puntate e con un continuo tiro dei mortai.
Qualche più precisa informazione può darla il generale Dona, il mio capitano di allora. Il
giorno 20 gennaio passò da quei luoghi tutta l’intera Divisione Tridentina; tutti videro e
potrebbero testimoniare quanti e quanti erano i morti sulla neve, e quasi tutti del Verona.
Xxxxxxxxx.......

19-20 GENNAIO 1943


A Novopostojalovka, forze sovietiche sbarrano la ritirata alle Divisioni Cuneense
e Julia. La battaglia prosegue per trenta ore: le due Divisioni alpine sono
decimate, non riescono a passare e sono costrette a deviare l’itinerario di
marcia.
-19 e 20 gennaio 1943
Il 19 e 20 gennaio ebbero luogo a Postojalyj e a Skororyo, violenti combattimenti, per
aprire un varco in un primo sbarramento nemico e proseguire quindi verso ovest.

https://it.wikipedia.org/wiki/Campagna_italiana_di_Russia
Circa 70 000 uomini del Corpo alpino, assieme a circa 10 000 tedeschi e 2 000/7 000 ungheresi, si
riversarono verso ovest, nel disperato tentativo di rompere l'accerchiamento sovietico e ricongiungersi
al lontano fronte amico[117]. Le armate sovietiche avevano sopravanzato i reparti dell'Asse di circa 100
chilometri e le loro formazioni corazzate, nonostante si preoccupassero soprattutto di avanzare, si
insinuavano continuamente con fulminee scorrerie tra le colonne in rotta, rendendo ancor più penosa la
fuga attraverso la steppa innevata, a temperature comprese tra i -20 e i -40 °C[118]. Colti di sorpresa,
la notte del 18 i generali Umberto Ricagno, Luigi Reverberi e Emilio Battisti, comandanti rispettivamente
della "Julia", della "Tridentina" e della "Cuneense", riuscirono a riunirsi a Podgornoe, dove il generale
Nasci aveva trasferito frettolosamente il suo quartier generale: fu deciso di ripiegare in due colonne
separate verso il comando dell'8ª Armata, ristabilitosi a Valujki. La "Tridentina" e la "Cuneense" erano al
completo degli effettivi, mentre la "Julia", che si era sacrificata per difendere il lato destro del Corpo, era
ridotta a un terzo delle sue forze; le unità tedesche erano letteralmente dissanguate, combattevano con
appena un quarto del loro organico e avevano a disposizione i pochi armamenti pesanti presenti tra le
truppe in fuga: una decina di semoventi Sturmgeschütz III, quattro semicingolati, cinque pezzi FlaK da
88 mm e alcuni lanciarazzi Nebelwerfer. Unica reale difesa contro i carri sovietici, furono sempre in
prima linea durante i feroci combattimenti per uscire dalla sacca[119]. Il generale Nasci cercò quindi di
coordinare il movimento delle tre divisioni alpine e della "Vicenza", ma la confusione era enorme e di
sicuro incertezza e caos avevano paralizzato anche il comando dell'8ª Armata, dacché non diramava
ordini o direttive volte a salvare le divisioni accerchiate[120]. La Divisione "Tridentina", ancora coesa e
combattiva, fu guidata dal generale Reverberi in testa all'enorme colonna di soldati sbandati, stremati e
spesso privi di armi: coadiuvata dai corazzati tedeschi, il 19 si mise in marcia e il giorno seguente si
raccolse a Podgornoe, mentre una decina di chilometri a sud, vicino al villaggio di Samojlenko, si riunì
la "Vicenza". Ancora più a sud, verso Rossoš', si raggrupparono i resti della "Julia" e della "Cuneense",
a cui si erano aggiunti due o tremila sbandati tedeschi[121].

20 GENNAIO 1943
Il generale Martinat – Capo di Stato Maggiore del Corpo d’Armata Alpino – viene
incaricato dal generale Nasci di raggiungere le Divisioni Cuneense, Julia e
Vicenza, per comunicare le varie tappe previste e il punto di sbocco a Valuiki.
Martinat riesce a incontrare solo il generale Pascolini (comandante la Divisione
Vicenza).
Dopo il raggruppamento generale a Postojali (20 gennaio), la Tridentina al comando del
generale Luigi Reverberi, l'unità più efficiente e combattiva delle truppe in ritirata, guidò l'attacco su
Šeljakino che permise di superare un nuovo sbarramento sovietico; ma a questo punto le altre due
divisioni alpine deviarono per errore più a nord e incapparono a Varvarovka (23 gennaio) in un nuovo
ostacolo nemico; la battaglia fu disperata e le perdite altissime; interi reparti furono distrutti. I resti della
Julia, della Cuneense e della Vicenza proseguirono ancora verso sud allontanandosi dalla Tridentina e
dai reparti tedeschi [28]

21 GENNAIO 1943
La Divisione Tridentina combatte a Seljakino. Ore 18.45: tramite radio tedesca
(le apparecchiature radio italiane erano state distrutte a Opyt), il Comando di
Corpo d’Armata alpino riceve un radiogramma da parte del Comando dell’8ª
Armata: il punto di sbocco è Nikitovka, non più Valuiki, occupata fin dal giorno
19 gennaio da ingenti forze sovietiche. Il Comando di Corpo d’Armata alpino
non riesce però a ripristinare i collegamenti con le Divisioni Julia, Cuneense e
Vicenza, che proseguiranno verso Valuiki, come concordato in precedenza.
-21 gennaio 1943
Altri combattimenti vennero sostenuti il 21, contro un secondo sbarramento
fortemente presidiato a Novo Charkovka e a Varvarovka,

-25, 26 e 27 gennaio 1943


L’Alpino Ferdinando Pasin di Refrontolo rievoca, in un’inter-
vista, la sua esperienza di guerra nella ritirata di Russia.
Nel mese di ottobre del 1942 la divisione alpina Tridentina, arrivata in Russia
duran-te l’estate, si schierò definitivamente sulla riva destra del Don, nel tratto
compreso tra Karabut e Bassowka, su di un fronte lungo ben 28 chilometri.
Il signor F. Pasin di Refrontolo, protagonista e testimone di quella campagna militare con-
clusasi con la battaglia di Nikolajewka, ha lasciato a Fiamme Verdi la seguente intervista.
Con quale battaglione giunse in Russia nell’estate del ’42?
Arrivai in Russia al seguito del battaglione Verona della divisione Tridentina.
Quando e dove vi siete attestati definitivamente sul Don?
Nel mese di ottobre. Il nostro battaglione si trovava all’estremo nord di tutto lo
schieramento italiano in Russia. Alla nostra sinistra c’era l’armata Ungherese e alla
nostra destra il Battaglione Val Chiese.
Quando cominciò l’offensiva sovietica nel settore tenuto dal vostro
battaglione?
Lungo il fronte presidiato dal nostro battaglione, noi non subimmo nessuna offensi-
va. Le prime vere battaglie cominciarono per noi solo due giorni dopo l’inizio del
ripiegamento.
Come si svolgeva la vita di trincea in tutti questi mesi di passiva attesa?
In un primo tempo abbiamo costruito i nostri camminamenti e i nostri rifugi per l’in-
verno. Poi quando cadde la neve, vestiti di bianco e in pattuglie isolate andavano, di
notte, al di là del Don per compiere qualche azione di disturbo tra le linee nemiche.
Il nostro compito si limitava a distruggere qualche postazione nemica e a catturare
qualche prigioniero.
Lei ha mai partecipato a queste azioni di guerra?
Si. Tre o quattro volte.
Quando avete dovuto lasciare le vostre posizioni sul Don?
Il giorno 17 di note. Il nostro Corpo d’Armata Alpino, formato dalla Julia, dalla Cune-
ense, dalla divisione di fanteria Vicenza e dalla Tridentina, era ormai completamente
accerchiato dai Russi. Non ci restava che ripiegare.
Raggiungemmo quindi Podgor sede del comando della Tridentina. Da questa località
al comando del maggiore Bongiovanni e scortati da due cannoni tedeschi da 105
trainati da semicingolati, cominciò per noi del battaglione Verona quell’odissea che
ci portò dopo numerosi combattimenti e faticose marce fuori dalla sacca.
Quanti combattimenti avete sostenuto?
Non so. Tanti. Non li ho mai contati.
Chi vi riforniva di armi durante la ritirata?
Nessuno. Raccoglievamo le munizioni e le armi abbandonate dai russi o da quei no-
stri compagni che cadevano in battaglia. Ce n’erano una infinità.
Quando avete affrontato per la I^ volta la tragica esperienza dei carri armati
russi?
Non ricordo esattamente il giorno. Ricordo solo che avevamo oltrepassato un paese
con un mulino a vento, quando ci facemmo sorprendere per la I^ volta dai carri ar-
mati nemici. Questi venivano giù da una collina sparando e tagliando l’ultima parte
della colonna della quale facevo parte. Di corsa cercai di allontanarmi il più possibile,
insieme al resto del mio battaglione, dal luogo dello scontro. In quell’occasione mi
alleggerii dello zaino pesante e tenni per me solo quello leggero, le bombe a mano e
il fucile mitragliatore che avevo in dotazione.
E tutte le altre volte come ve la siete cavata in circostanze simili?
Come ho detto all’inizio di questa mia intervista, il mio battaglione era sempre pre-
ceduto o seguito a due cannoni da 105 trainati da mezzi meccanici tedeschi, sui
quali saliva spesso il nostro comandante maggiore Bongiovanni. All’apparire dei carri
questi venivano messi in posizione di tiro e sotto i colpi dei loro proiettili i carri si
allontanavano.
Ricorda i nomi di alcuni suoi amici morti o dispersi durante il ripiegamento?
Voglio ricordare Pietro Mazzero di Solighetto, Andrea Zambon di Pieve di Soligo e un
certo Zanin di Tovena.
Quando li ha visti per l’ultima volta?
Vidi il Mazzero e lo Zambon prima di lasciare il Don e credo siano morti il giorno del-
la battaglia di Postojali. La loro compagnia, la 56^, fu la prima quella mattina a es-
sere impiegata nel tentativo di scacciare i Russi dal paese e lasciò sul terreno molti
morti tra ufficiali e soldati. Dopo quella data nonostante le mie speranze di trovarli
vivi tra i prigionieri che ogni tanto liberavano, non ebbi più notizia di loro.
E lo Zanin di Tovena?
Questi venne colpito in un combattimento coi partigiani, lo raccogliemmo ferito all’
addome da dove perdeva molto sangue e lo portammo in un’isba. Mi supplicava di
non abbandonarlo. Ma non potevamo portarcelo dietro, non avevamo i mezzi, né io
potevo restargli accanto. Se mi fossi fermato avrei perso il contatto con la mia com-
pagnia che proseguiva la sua marcia verso ovest e correvo il rischio di restare là per
sempre.
Quando siete arrivati a Nikolajewka?
Io con il mio battaglione arrivai in vista di Nikolajewka alle otto di mattina, ma la cit-
tà era già occupata dai russi, qualche nostro plotone cominciò subito ad attaccare
ma senza successo. Solo nel pomeriggio, noi che eravamo nella parte sud di tutto lo
schieramento alpino, ci dirigemmo con il resto della Tridentina contro il nemico.
Appena ci muovemmo, questi cominciò a convergere il tiro delle sue armi contro di
noi. Ci fu allora un attimo di incertezza da parte nostra. Ma ormai ci era impossibile
tornare indietro; saremmo stati colpiti alle spalle senza possibilità di salvezza.Nell’a-
vanzare di corsa là dove i Russi ci sparavano addosso, vedevo i miei compagni, che
stavano attorno e davanti a me, cadere colpiti dalle raffiche di mitraglia o dallo scop-
pio delle granate. Arrivati sul terrapieno della ferrovia lanciammo le nostre bombe a
mano e i russi fuggirono via precipitosamente, lasciando intatte, sul terreno, tutte le
loro armi.
Poi cosa avete fatto?
Siamo andati a disotturare i tre o quattro cannoni e alcuni mortai che ci avevano
ostacolato l’avanzata. Ma la prima cosa che feci al termine dell’assalto fu quella di
toccarmi il corpo per vedere se c’erano ferite. Ancor oggi mi chiedo come sia potuto
uscire indenne senza un graffio da quell’inferno.
Ha visto la chiesa di Nikolajewka?
No. Da dove mi trovavo io vedevo solo la parte alta del campanile.
Cos'altro ricorda di quella giornata?
La sera. Quando calarono le tenebre, la luna illuminava il versante dal quale erava-
mo scesi il pomeriggio. Ma la collina era talmente disseminata di cadaveri che non
rifletteva più il suo candore. Inoltre fino alle dieci, nel silenzio e a intervalli irregolari
proveniva l’eco delle urla e delle invocazioni di quei soldati, che feriti e nell’impossi-
bilità di essere soccorsi, stavano vivendo, sulla collina, l’ultimo atroce dramma della
loro vita.
Quanti anni aveva quando visse questa esperienza?
Vent’anni e sei mesi.
I russi lasciarono sul terreno un numero enorme di armi leggere, 25 cannoni
di medio e grosso calibro e dieci carri armati distrutti. Secondo la testimonianza del
tenente Giuseppe Cancarini Ghisetti, ufficiale di artiglieria con il compito di collega-
mento tra il Corpo d’Armata Alpino e il XXIV Panzer Korp, alcuni carri furono distrutti
da due cannoni tedeschi trainati da semoventi ed entrati in Nikolajevka al seguito
degli alpini. Gli altri, secondo le testimonianza dell’artigliere G. Gozzini, furono colpiti
dai cannoni della 29° batteria gruppo Valcamonica. Non è stato possibile stabilire
con esattezza quanti furono i morti tra gli alpini in quest’ultima e disperata battagli-
a, il cui esito vittorioso permise però di portare in salvo, fuori dalla sacca, ben venti-
mila militari italiani e quindicimila tra tedeschi e ungheresi.
Giuseppe Perin

---- S. Antonio protettore degli Alpini, parola di F. Pasin


Ferdinando Pasin è nato a Pieve di Soligo il 19 luglio 1922.
Nei primi mesi del 42 venne chiamato alle armi e destinato al battaglione Pieve di
Cadore nel VII reggimento alpini.
Nel maggio dello stesso anno fu spostato nel battaglione Verona VI reggimento
alpini, divisione Tridentina dove si preparò alla partenza per il fronte russo.
Nel mese di ottobre, dopo un lungo viaggio con il treno addetto al trasporto del
bestiame, fino a 150 km dal fronte e poi proseguendo a piedi, la divisione Tridentina
prese posizione nella zona di Podgor sulla sponda destra del fiume Don.
Per quasi tre mesi questo fronte si rivelò abbastanza tranquillo, pur non mancando
gli assalti quotidiani da parte di battaglioni e compagnie russe con lo scopo di testa-
re la forza degli alpini, ma, oltre agli attacchi nemici, il problema maggiore per i no-
stri soldati era il freddo (la vigilia di Natale il termometro segnò -45°C) e le condizi-
oni di vita molto precarie.
Questa situazione difficile ma di relativa calma andò avanti fino al 17 gennaio del
1943 quando, completamente accerchiata la divisione Tridentina, alla sera, iniziò lo
sganciamento del fronte e una lunga fase di combattimenti, ben presto si resero
conto di non avere i mezzi per contrastare un esercito come quello russo, armato di
potenti carri armati T34 e dei famosi razzi Katiusha.
Da qui inizia il ripiegamento e il battaglione Verona fu fin da subito impegnato a
Opit, in prima linea, subendo perdite gravissime. Dal 17 al 26 gennaio la divisione
Tridentina venne impegnata in 11 battaglie, l’ultima e più sanguinaria fu quella di
Nikolajewka: dalle 9 di mattina alcuni reparti della Tridentina, tra cui il battaglione
Verona, prese d’assalto la cittadina russa dove vi erano preponderanti forze russe
armate con numerosi cannoni, mortai, mitragliatrici.
Gli assalti continuarono per tutta la giornata finché, verso sera, il Generale Reverberi
col grido “Tridentina avanti!” trainò l’intera divisione all’assalto e, nonostante le
ingenti perdite di uomini, riuscirono a sfondare l’accerchiamento russo.
Calata la notte, la luna piena illuminava il versante dove era avvenuta la battaglia, la
collina era coperta di cadaveri al punto che non si vedeva il candore riflesso della ne
-ve. Inoltre, fino a notte fonda si udirono le urla e le invocazioni dei soldati che, gra-
vemente feriti, erano sul campo di battaglia a causa dell’impossibilità di prestar loro
soccorso e stavano vivendo l’ultimo atroce dramma della loro vita.
Ferdinando Pasin disse e ripeté tante volte che fu grazie a S. Antonio da Padova che
riuscì a scampare da quell’inferno: egli aveva una piccola reliquia che teneva sempre
con sé e nei momenti peggiori, mentre vedeva intorno i compagni cadere, la stringe-
va forte. Sta di fatto che la sua fede in S. Antonio, la forza dei vent’anni e anche,
naturalmente, un po’ di fortuna lo portarono sano e senza aver riportato alcuna
ferita in Italia.
Al ritorno, ai primi di marzo, rimase per un mese a Tarvisio dove fu sottoposto a vari
esami e fu, assieme agli altri sopravvissuti, riabilitato e preparato per il ritorno a ca-
sa. Fu a Tarvisio che per la prima volta, dopo 4 mesi, riuscì a lavarsi, cambiarsi gli a-
biti e a disinfestarsi dai pidocchi che gli si erano attaccati ovunque.
Rimase a casa un mese e fu richiamato alle arni a Bolzano.
Il 9 settembre fu fatto prigioniero dai tedeschi e mandato nei campi di concentra-
mento di Berlino est. Era comandato dalle SS e aveva varie mansioni, tra cui liberare
le zone bombardate dai cadaveri.
Nel maggio 1945, ironia della sorte, fu liberato dall’esercito russo entrato a Berlino.
Dopo quasi due mesi riuscì a ritornare a casa, la maggior parte del tragitto lo fece a
piedi.

…....e il 25, 26 e 27 a Nikitovka dove furono impegnate le ultime risorse per rompere
finalmente l'accerchiamento.
Durante l'ultima fase della ritirata ci furono fasi di disperazione, di caos e di cedimento morale. Gravi
incidenti scoppiarono tra le truppe tedesche e quelle italiane, apparentemente per lo sprezzante, poco
cameratesco comportamento dei soldati tedeschi e per violenti liti riguardanti il diritto di usufruire dei
pochissimi mezzi motorizzati disponibili; in realtà non mancarono episodi di rivalsa tra le truppe italiane
anche con l'uso delle armi[125][126]. La stremata colonna guidata dalla "Tridentina", comunque, non
era ancora uscita dalla sacca, e nella giornata del 25 dovette dapprima fronteggiare un attacco di
partigiani e forze regolari russe a Nikitowka che venne respinto dal 5º battaglione alpini e dalle residue
artiglierie tedesche e italiane, e successivamente, e alle prime luci del 26 gennaio dovette respingere
duri attacchi nei pressi di Arnatauwo con i battaglioni "Tirano" e "Val Camonica"[127]. Superata
quest'ultima sacca, tutta la "Tridentina" si schierò per sfondare l'ultimo sbarramento sovietico a
Nikolaevka: il 26 gennaio 1943 gli alpini e i rimanenti cannoni d'assalto tedeschi si scagliarono con le
ultime energie contro l'ostacolo e, alla fine della sanguinosa battaglia di Nikolaevka riuscirono
finalmente a rompere l'accerchiamento e a guadagnare la via verso Šebekino. La loro marcia però non
finì qui: il comando di divisione fece ricostituire rapidamente i reparti ed ordinò la ripresa della marcia
all'alba del 27, che si concluse solo il 31 gennaio, quando gli alpini raggiunsero Triskoje non senza
ulteriori perdite e grandi difficoltà[128]. Sorte peggiore toccò alle due divisioni "Cuneense", "Vicenza" e
ai sopravvissuti della "Julia", che furono definitivamente intrappolate e costrette alla resa il 28 gennaio
a Valujki dai reparti del 7º Corpo di cavalleria sovietico, giunto in quella località fin dal 19, a cui non
seppero e non poterono opporre una efficace resistenza [129][130][131]

26 GENNAIO 1943
Tridentina e XXIV Panzerkorp (insieme a 40.000 fra sbandati e apparte-
nenti a reparti vari e di varia nazionalità) infrangono a Nikolajevka l'ultimo sbar-
ramento sovietico.
BIBLIOGRAFIA Giorgio Scotoni, L'Armata Rossa e la disfatta italiana (1942-43),
Trento, Editrice Panorama, 2007, ISBN 978-88-7389-049-2.
xxxxxxx------->......alcuni racconti tratti da "C'ero anch'io!”
Gli attacchi si succedono agli attacchi, si combatte con accanimento da ambo le parti, i
russi per chiuderci definitivamente nella sacca, gli alpini per poter uscire e tornare in
patria. Giungono il Val Chiese ed i resti del Verona, tutto il 6^ combatte lungo l’arco della
giornata. Scendono i resti del Tiràno e del Morbegno e verso il tramonto giunge l’E-dolo;
con la sua venuta tutto il 5^ Alpini è attestato di fronte a Nikolajewka. Il 2^ Reggi-mento
Artiglieria Alpina, privo ormai di munizioni, scende con noi sul terrapieno, la Tridentina è
pronta per l’ultimo balzo. xxxxxx.......
Era l’alba del 26 gennaio di quasi trent’anni fa. Al comando del maggiore Bracchi, in testa
alla colonna che da molti giorni lottava nella sacca, provenienti da Nikitowka, eravamo
arrivati la sera del 25 gennaio in un abitato non molto lontano da Nikolajewka ed avevamo
pernottato. Bisognava, col Battaglione Val Chiese e coi resti del Battaglione Verona, at-
taccare la città, espugnarla ed eliminare, per la colonna nella sacca, l’ultimo e il più duro
ostacolo verso la salvezza.

Abbastanza stanchi, non molto ben equipaggiati per quei climi, ormai con poche armi e
munizioni, ma sorretti da una volontà decisa, gli alpini del Vestone ebbero così l’ordine di
attaccare. Il Val Chiese e il Verona a sinistra della rotabile che conduceva alla città, e il
Vestone sulla destra. La consistenza della difesa nemica si manifestò subito eccezionale,
facilitata dalla forte posizione difensiva costituita dal bastione della ferrovia che correva
avanti alla città, sul quale era ben appostato il nemico con cannoni e mitragliatrici.

La situazione fu presto difficile perché, di fronte a tale difesa di forze ben organizzate, si
doveva arrancare affondando nella neve, morbida al di fuori delle piste, e ci si doveva
affidare alla Provvidenza nei lunghi balzi tra una breve attesa e l’altra, per prendere
respiro. Senza indugi a soccorrere feriti e morenti, con grande slancio si arrivò al bastione,
lo si espugnò e superò entrando alla disperata nell’abitato. Solo allora il primo lungo
respiro consentì il primo bilancio, con la speranza che i troppi mancanti fossero solo feriti.
xxxxxxx....... Sapemmo poi che il Val Chiese e il Verona, fermi dal mattino di fronte al
munitissimo bastione ferroviario nella zona sinistra della città, arrivati nel pomeriggio i
battaglioni del 5^ Alpini, avevano sferrato l’attacco decisivo e, guida ed anima il nostro
generale Reverberi, avevano conquistato il bastione ed erano entrati in città.

27 GENNAIO 1943
II VII Corpo di Cavalleria cosacca sgomina a Valuiki [coord. 50° 11' N – 38° 07' E]
i resti delle Divisioni Cuneense, Julia, Vicenza. I generali Battisti, Pascolini e Ri-
cagno (comandanti, rispettivamente, le Divisioni Cuneense, Vicenza e Julia)
vengono catturati.
...La maggior parte dei resti della Cuneense fu fatta prigioniera a Valujki tra il 27 e il 28
gennaio 1943.

28-31 GENNAIO 1943


Tridentina e XXIV Panzerkorp attraversano Slonovka, poi Bessarab, poi Bol’šie
Troickoe e infine Šebekino, uscendo finalmente dalla sacca.

31 GENNAIO 1943
I Sovietici catturano Paulus a Stalingrado.
-dal 30 gennaio al 3 febbraio 1943
Il 30 gennaio i resti del Corpo d'armata alpino si raccolsero a Šebekino e gli ultimi
reparti giunsero il 3 febbraio.[1] Da questa località, dopo circa 1100 km percorsi a piedi,
vennero avviati nella zona di Homel' (o Gomel, ora in Bielorussia - 620 km a nord-est
[vedi mappa allegata] per lo più in treno) da dove partiranno in ferrovia per far rientro
in Italia.

2 FEBBRAIO 1943
Le ultime truppe tedesche si arrendono a Stalingrado.

17 FEBBRAIO 1943
I resti della Colonna Carloni, unitamente a reparti tedeschi, combattono a
Pavlograd. È questa l’ultima battaglia sostenuta da truppe italiane al Fronte Russo.

FEBBRAIO 1943
Nei campi di prigionia si scatenano epidemie di tifo petecchiale e di dissenteria,
che colpiscono persone già fortemente debilitate dalle lunghe marce, dai
terribili trasporti in treno, e dalla scarsissima distribuzione di cibo. I morti sono
numerosissimi.
In seguito i Sovietici cercheranno di fornire una certa assistenza medica, alla quale
daranno un contributo importante anche ufficiali medici prigionieri. La fornitura di
farmaci e di attrezzature sanitarie sarà sempre carente. Le visite periodiche effettuate
da commissioni mediche esterne avranno lo scopo non tanto di migliorare le condizioni
dei prigionieri, quanto di classificarli in funzione della loro idoneità al lavoro .

1 MARZO 1943
Lavrentij Berija, capo dell’NKVD, emana un decreto sulla distribuzione dei
prigionieri catturati nella zona del Don e a Stalingrado. La conseguenza sarà
che nei mesi successivi quasi tutti gli ufficiali italiani prigionieri verranno
concentrati a Suzdal’ (lager n. 160).
-1 marzo 1943
Il 1º marzo, al ritorno dalla Russia il Corpo d'armata alpino si sciolse dando vita al
XXIV Corpo d'armata.[1]

6 MARZO 1943
I superstiti dell’8ª Armata si raccolgono nella zona di Gomel’, eccetto alcune
aliquote dell’Intendenza e i reparti dotati di quadrupedi.

6-15 MARZO 1943


Vengono rimpatriati i resti del Corpo d’Armata alpino. Il giorno 24 dello stesso
mese terminano gli arrivi in Italia dei reparti alpini.

25 MARZO 1943
Alle ore 00.00 il Comando dell’8ª Armata cede al Comando del II Corpo d’Arma-
ta italiano ogni autorità sulle Forze Armate italiane in Unione Sovietica.
Al 27 marzo il II Corpo d’Armata è costituito da 1860 ufficiali e 38.650 militari di
truppa (tra Comando, Truppe e Servizi di Corpo d’Armata, appartenenti alle Di-
visioni Cosseria e Ravenna, e personale dell’Intendenza).

Bilancio e conseguenze[modifica | modifica wikitesto]


Il quartier generale dell'ARMIR fu disattivato il 31 gennaio 1943 e le unità superstiti trasferite
in Bielorussia. Il generale Gariboldi e il suo stato maggiore, assieme agli Alpini e al XXXV Corpo
d'armata, tornò in patria a marzo, trovandosi dinanzi ad un paese alla deriva, in profonda crisi
economica e sociale, ormai in procinto di veder esplodere anche la crisi politica che vedrà la caduta del
fascismo nel luglio dello stesso anno, e che rischiava di diventare un campo di battaglia. Il II Corpo
d'armata, con la "Ravenna" e la "Cosseria", rimase sul posto con l'intenzione di continuare a
rappresentare l'Italia fascista sul fronte orientale, ma le enormi difficoltà nel reperire equipaggiamenti e
il rifiuto tedesco a farsi carico del rifornimento di queste divisioni fecero arenare l'idea sul nascere. Tra
aprile e maggio 1943 anche il II Corpo tornò in Italia[133]
xxxxxx..... I dati più eloquenti sono quelli relativi alle battaglie invernali e alla rotta finale: le cifre ufficiali
parlano di 84 830 militari che non rientrarono nelle linee tedesche e che furono indicati come dispersi e
di 26 690 feriti o congelati rimpatriati[143]. I numeri peggiori furono registrati dal Corpo alpino, che
perse il 60% degli effettivi (41 000 uomini); gli altri due corpi d'armata registrarono perdite ugualmente
molto pesanti: la 2ª Divisione "Sforzesca" 5 130, la 3ª Divisione "Ravenna" 2 390, la 9ª Divisione
"Pasubio" 4 443, la 52ª Divisione "Torino" 4 954, la 3ª Divisione "Celere" 3 595, la 5ª Divisione
"Cosseria" 1 273. Inoltre furono conteggiate oltre 7 000 vittime tra gli altri reparti[151]. Tuttavia dati
precisi e unanimi circa il periodo dicembre 1942-gennaio 1943 sono impossibili da raccogliere: l'Unione
nazionale italiana reduci di Russia (UNIRR) sostiene che i caduti e i dispersi furono circa 95 000, ma
non si hanno cifre precise di quanti tra questi dispersi siano morti in battaglia o a causa di
congelamento e spossatezza durante la ritirata, o ancora quanti siano stati fatti prigionieri. Studi recenti
riportano che nell'inverno 1942-1943 l'Armata Rossa catturò circa 70 000 soldati italiani, di cui 22 000
non arrivarono neppure ai campi di prigionia e morirono nelle lunghe marce di trasferimento (le famose
"marce del davaj") a causa di sfinimento, inedia e percosse delle guardie sovietiche; tra coloro che
arrivarono nei campi di prigionia ne morirono almeno altri 38 000, sfiancati della debilitazione fisica che
li rese facile preda delle diffuse malattie infettive. Alla fine riuscirono a tornare in Italia esattamente
10 032 soldati dell'ARMIR[152]

La strada verso i campi[modifica wikitesto]


Il viaggio verso i campi di prigionia veniva percorso a piedi, spesso era lungo centinaia di chilometri. I
sopravvissuti hanno riferito che si trattava di marce dette Davai. "Davai!" è un'espressione russa che in
questo contesto significa "continua a muoverti!".
I prigionieri venivano scortati dall'Armata Rossa e dai partigiani, molti lungo il tragitto caddero perché
congelati o sfiniti.[2] Una parte del tragitto veniva completata utilizzando treni merci, dove molti prigioni-
eri morirono a causa delle temperature estremamente fredde e a causa della mancanza di cibo.

Trattamento nei campi e cause di morte[modifica wikitesto]


Tambov, Oranki, Krinovoje, Michurinsk, situati nella Russia dell'Est Europa, erano i campi in cui la
maggior parte dei prigionieri di guerra italiani erano detenuti in condizioni lugubri (Ministero della Difesa
italiano, 1996). Le malattie legate al tifo e alla fame erano le principali cause di mortalità all'interno dei
campi.[3] Fu segnalata la brutalità delle truppe sovietiche e dei partigiani ai prigionieri italiani disarmati,
ma i sopravvissuti testimoniarono anche episodi di cameratismo tra i soldati delle due nazioni opposte,
in particolare in prima linea[4] e la compassione dei civili russi[5]

12 APRILE 1943
Presi accordi con il Comando Supremo tedesco, si ufficializza che anche il II Cor-
po d’Armata rientrerà in Patria. Il 22 aprile vengono date disposizioni esecutive
per il trasporto ferroviario e il 26 aprile inizia il movimento.

MAGGIO 1943
A metà mese giunge da Mosca il famoso приказ (ordine): nessuno deve più mo
-rire nei lager. Le razioni alimentari vengono aumentate quel tanto che basta
per mantenere i prigionieri di guerra in vita e, soprattutto, per consentire loro
di lavorare.

20 MAGGIO 1943
Mar Nero. A causa dell’andamento del conflitto a terra, l’operatività della flotti-
glia italiana si era ridotta sempre più tra la fine del 1942 e il gennaio 1943.
…...........
Sebbene il giudizio sulla XII Squadriglia sia positivo, il suo intervento – limitato
a causa delle condizioni meteo molto particolari – non ha mai avuto possibilità
alcuna di interrompere i rifornimenti via lago alla città di Leningrado. Molti si
sono chiesti se sia valsa la pena spostare le quattro unità MAS, facendo loro
percorrere circa mille miglia per raggiungere la zona di operazioni.

22 MAGGIO 1943
Secondo l’Uff. Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito le partenze da Gomel’
per l’intera Armata italiana sono ultimate.

ALTRE INFORMAZIONIxxxxxxx........
Subito dopo la fine del conflitto si moltiplicarono in Italia gli sforzi per conoscere il numero dei prigionieri
sopravvissuti e riportarli in patria e l'Unione Sovietica si rivelò il primo paese a essere disposto a
consegnare gli internati, a eccezione dell'esiguo numero di criminali di guerra condannati dai tribunali
sovietici. Nel luglio 1946 il numero dei rimpatriati finale fu di 21193 persone: questa cifra era molto
sotto le aspettative, considerando che gli effettivi rimpatriati appartenenti all'8ª Armata furono appena
10032 mentre gli altri erano soldati e civili italiani catturati dai tedeschi e liberati dall'Armata Rossa nei
territori occupati. Gli ultimi dodici prigionieri italiani furono liberati nel febbraio 1954 su decisione di
Mosca: tra di loro vi erano sette combattenti dell'8ª Armata, catturati sul Don dodici anni prima[154].
Mancavano dunque all'appello circa 75 000 soldati, dei quali nessuno riuscì mai a delineare la
sorte[155].
Sicuramente la maggior parte di questi uomini morì nel corso degli ultimi scontri, delle marce forzate e
delle traversate su treni, eventi vissuti in condizioni estreme e tra terribili sofferenze. Nei campi di
detenzione la fame, le malattie e privazioni di ogni genere causarono innumerevoli decessi nei primi
mesi di prigionia; solo dopo l'estate del 1943 le condizioni di vita divennero più sopportabili e il numero
di morti si attestò su livelli "fisiologici". Per inquadrare questa falcidia è doveroso ricordare la barbara
condotta tedesca nei confronti dei prigionieri sovietici (soprattutto nei confronti dei commissari politici)
che venivano fucilati sul posto: di conseguenza l'enorme massa di prigionieri arresasi ai sovietici tra
1942 e 1943 fu sistematicamente trasferita in enormi campi privi di sussistenza e lasciata morire per
fame, stenti e malattia senza particolari distinzioni riguardo alla nazionalità. Addirittura durante la ritirata
dal Don i soldati tedeschi che si arrendevano, spesso venivano subito passati per le armi, mentre
italiani, rumeni e ungheresi non furono uccisi per ordine di Stalin: essi rimasero comunque in balìa della
disorganizzazione e della precarietà del sistema detentivo sovietico. Lo sforzo bellico dell'Armata
Rossa era infatti concentrato al combattimento, sussistenza e sanità erano precari per le stesse truppe
sovietiche, mentre mancava del tutto per i prigionieri: per loro (a maggior ragione se tanto numerosi)
non fu dunque prevista alcuna assistenza. Il primitivo sistema ferroviario russo era inoltre sconvolto
dalle distruzioni dell'invasione e il rifornimento alimentare era disastroso persino per i cittadini stessi,
per cui scarso fu l'interesse per la sopravvivenza degli stremati prigionieri. Furono necessari mesi
affinché le condizioni minime di vita fossero garantite[156].
Nel 1991, su iniziativa del Ministero della difesa, furono avviate le esumazioni dai cimiteri campali di
Russia e Ucraina, che permisero il rientro in Italia di migliaia di salme di caduti noti e non
identificati[157]
xxxxx..... È importante sottolineare che nelle letterature russa, britannica e tedesca (a differenza della tradizione
storiografica italiana) alla battaglia di Nikolaevka non viene dato molto rilievo e l'attenzione si concentra sulla resa degli
alpini a Valujki; anzi in Germania la stessa ritirata non ha mai avuto grande risonanza. Per molti soldati tedeschi il crollo
dell'ARMIR fu solo un episodio presto superato da altri avvenimenti, mentre l'indugiare italiano sul periodo dicembre
1942-gennaio 1943 può essere ricondotto alla volontà di evidenziare gli errori e i soprusi commessi dai tedeschi durante
la ritirata, passando sotto silenzio le deficienze e gli sbagli degli ufficiali dell'8ª Armata. Vedi: Schlemmer, pp. 150-
151 e Scotoni, p. 546 xxxxxxx.....
....Al contempo il sacrificio degli Alpini servì al Regio Esercito per coprire il fallimento dei comandanti sul Don, che predi-
sposero la ritirata del Corpo alpino con molto ritardo e senza dar prova di reattività dinanzi alla colpevole passività del
generale Gariboldi.

xxxxxx

Un elenco dei nomi dei soldati, in cirillico, in cui è presente la data e luogo di morte è stato prodotto dal-
le autorità russe dopo il 1989 (Ministero della Difesa italiano, 1996). 10.085 prigionieri furono rimpatriati
tra il 1945 e il 1954. Il destino individuale di 30.430 soldati, che morirono durante i combattimenti e il
ritiro o dopo la cattura, è meno noto. Si stima approssimativamente che circa 20.000 uomini abbiano
perso la vita a causa dei combattimenti e 10.000 uomini siano morti tra il momento in cui sono diventati
prigionieri e il momento in cui si sono registrati all'interno dei campi.
Fonti russe elencano le morti di 28.000 dei 49.000 prigionieri di guerra italiani (secondo loro) nell'Unio-
ne Sovietica tra il 1942 e il 1954.[1]

RICOSTRUZIONE approssimativa intorno al Btg Verona ----> unità da superiori a inferiori


Il CORPO d'ARMATA è costituito da 10 divisioni. Quelle di fanteria (Sforzesca, Torino, Pasubio,
Celere, Ravenna, Cosseria, Vicenza, sono composte da circa 12000 uomini; quelle alpine da 5000
uomini in più (i conducenti dei muli) [Tridentina, Cuneense, Julia - secondo un dato del 20giu 1942 però
quest'ultima era composta da 15000 uomini]
DIVISIONE ALPINA TRIDENTINA --- >comandante: gen. Reverberi
BRIGATA ? tra i 4-6 mila uomini
REGGIMENTO (costituito da 3 Battaglioni) tra i 1500-3000 uomini
BATTAGLIONE (costituito da 4 Compagnie) Battaglione alpini Val Venosta risulta dal foglio matric.
Btg Verona tra i 500 e i 1000 uomini
COMPAGNIA (costituito da 3 Brigate) tra i 100 e i 200 uomini
PLOTONE tra i 20 e i 50 uomini
SQUADRA è l'inutà più piccola
-----------------------

ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 69


Pubblicato il 15 Novembre 2017 da CornelioGalas

a cura di Cornelio Galas


Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Artigliere alpino Adolfo Salvaterra


45ª batteria, Gruppo Vicenza, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Il 17 gennaio 1943 la 45ª Batteria è sola con gli alpini del Val Chiese mentre gli altri reparti
del reggimento stanno ripiegando. Il nostro comandante capitano Vinco ci ha illustrato la
situazione. E’ in noi tutti un alto senso di consapevole responsabilità, forse dovremo
sacrificarci per salvare gli altri, ma se sapremo essere tutti uniti e forti, anche noi potremo
tentare di salvarci; dipende da come potremo ingannare il nemico mentre il reggimento
tenta di porsi in salvo
Al mattino in una splendente giornata di sole ma freddissima, la batteria spara moltissimi
colpi; vogliono significare al nemico che le linee del 2^ Reggimento sono sempre ai loro
posti. Alla sera finalmente 4 Fiat 26 vengono a prelevare la 45ª e durante la notte
abbandoniamo la linea e torniamo a Podgornoje ove ci rendiamo esattamente conto della
situazione. Ciò nonostante il morale è alto e qui incominciamo a capire il bene che ci fa la
ferrea disciplina che il nostro comandante ha sempre preteso da noi. Ci spostiamo verso
Opyt, la oltrepassiamo, troviamo la 20ª del capitano Bavosa.
I pezzi vengono piazzati con le bocche rivolte dalla parte opposta da dove dovrebbe
incamminarsi la Tridentina, dovremmo arginare l’avanzata del nemico per permettere alla
Tridentina di aprirsi un varco verso Postojalyi. Il giorno dopo, il 19, la 20ª ci lascia, deve
accorrere ad appoggiare il Verona che trova difficoltà, per entrare in Postojalyi, più dure
del previsto. Siamo piazzati su una piccola altura, le tende, dopo aver fatto un buco nella
neve, sono state erette in esso.
Si succedono brevissimi i turni di guardia; il momento, sentiamo nel nostro intimo, è
particolarmente delicato. Il nostro comandante con il suo esempio e la sua calma ci tiene
uniti e ci fa comprendere tutta la responsabilità che incombe sulla 45ª. Forse la salvezza di
tutta la nostra amata Tridentina. Sentiamo realmente tutti noi questa tremenda
responsabilità.
Alle 2,30 del mattino del 20 gennaio l’allarme “serventi ai pezzi”. Il primo ordine è di alzo
90, il secondo alzo 60. Vediamo le scie di fuoco dei colpi russi passare sopra i nostri capi. Il
terzo ordine è di sparare a zero. Registro il cannocchiale sui dati ricevuti e mi accorgo che il
cocuzzolo della collinetta m’impedisce di sparare sul nemico. Ci accingiamo a spostare il
pezzo sul cocuzzolo stesso.
Durante questa manovra una granata fa il vuoto fra i serventi del mio pezzo, il 4^; cade
l’artigliere Ghezzer di Mezzocorona, resta gravemente ferito Boselli, sono leggermente
feriti il capopezzo Giovila, Emer e Piva, l’unico incolume è il puntatore Salvaterra; il
tenente Macchi urla come mai il 4^ pezzo non spara. Si rende subito conto del motivo,
mentre io in un ultimo disperato richiamo, la sua testa fra le mie mani, mi chino sul povero
Ghezzer, una scheggia lo aveva colpito al capo ed era caduto senza una parola.
Ma il combattimento continua, dobbiamo fermare i russi. Difatti poco dopo il loro fuoco su
di noi cessa; sono stati fermati. Il nostro comandante nel frattempo aveva provveduto ad
avvertire il comando e verso le 4,30 un gruppo di 40 alpini del Vestone al comando di un
ufficiale (Franzini?) viene a darci una mano. I russi sono già stati fermati. Prendono il
nostro posto mentre noi verso l’alba ripieghiamo verso Opyt per seguire la colonna verso
Postojalyi.
Nell’abitato di Opyt osserviamo sgomenti i colpi dei russi fare strage nelle retrovie della
colonna. E’ terribile, i 4 pezzi della 45ª sono pronti sulla strada fra le isbe di Opyt.
Improvvisamente verso le 8,30 fra l’assordante bombardamento russo il ruggito di grossi
motori: vediamo avanzare verso noi sulla nostra stessa strada e sfilare un grosso carro
armato con un gruppetto di uomini sopra, seguito da un uomo a cavallo il quale traina un
piccolo pezzo dietro al quale un altro gruppetto di uomini, armi in pugno, segue.
Dietro ancora un altro carro armato seguito da altri due; si fermano di fronte alla 45ª,
siamo viso a viso. Evidentemente non ci rendiamo conto che sia il nemico, sapevamo che
gli alpini del Vestone erano dietro noi. Non possiamo credere che siano russi. Sono attimi
terribili! Vedo uno di loro farmi segno di piantare il moschetto nella neve, di alzare le
mani. Ricordo esattamente cosa pensavo in quegli attimi! Io non posso arrendermi, non
sarà mai! Improvvisamente l’urlo del capitano Vinco: “Sparate sono russi!”.
Immediatamente spariamo. Punto e sparo sul russo che voleva mi arrendessi, lo colpisco e
cade in avanti; una raffica del caporal maggiore Rondelli falcia gli uomini sul primo carro
armato e in un baleno restano solo i carri armati impossibilitati a sparare su di noi perché
sono troppo sotto; lo intuiamo dal movimento delle torrette che non possono abbassarsi
più di tanto, è la nostra fortuna! Ma anche fra di noi molti cadono.
Il tenente Macchi è colpito al cuore dal parabellum mentre pistole in pugno spara sui russi.
Le sue ultime parole sono: “Oh Dio mamma” e cade sul fianco sinistro. Un artigliere è
colpito a morte mentre accovacciato sulla neve sta sparando col moschetto, il sergente
maggiore Passerini ha le cosce trapassate da una raffica. Molti altri sono caduti ma il
nemico è annientato e i carri armati sono fatti fuori, uno per ciascun pezzo. Il capitano
Vinco strappa il parabellum ad un russo e col tenente Di Pietro e suoi artiglieri attende
l’uscita dei carristi dalla torretta. Poi li fanno fuori.
Il capitano Vinco da ordine al tenente Di Pietro di raccogliere gli uomini rimasti e di
incamminarsi verso Postojalyi, lui si fermerà con i mitraglieri a proteggerci. Il tenente Di
Pietro esprimendo quello che era il desiderio di tutti cerca di opporsi, vogliamo restare
tutti uniti al nostro comandante. Per due volte si oppone, alla terza il secco indiscutibile
ordine “Tenente Di Pietro, ti ordino di portare via gli uomini rimasti” e il tenente Di
Pietro irrigidito sull’attenti risponde “Signorsì!”.
I resti della 45ª senza il loro comandante, a piccoli gruppi, cercano di raggiungere
Postojalyi. L’estremo sacrificio del capitano Vinco e i mitraglieri darà la possibilità a circa
un terzo dell’intero organico della batteria di tornare ancora in patria. Mentre
attraversiamo il pianoro per salire dove si era incamminata la colonna siamo facile preda
dei colpi nemici e molti di noi cadono ancora, i serventi del 2^ pezzo, i più forti uomini
della batteria sono colpiti da una granata russa. Alla sera del 20, mentre già è buio,
possiamo ricongiungerci alla colonna. Questo è quanto ricordo della mia cara 45ª e del suo
valorosissimo capitano Vinco.
Artigliere alpino Giacomo Gozzini
29ª Batteria, Gruppo Valcamonica, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Cominciamo da Podgornoje? La mattina del 17 gennaio 1943 il sergente maggiore Gino
Corti mi chiama e mi dice devi andare “in prima linea a portare al capitano Fabio Moizo
l’ordine della ritirata che è cominciata ieri sera alle 17,30”. Ma io preferivo non andarci
perché era già troppo pericoloso, e lo dissi davanti a tutti. Lui mi dice: guarda che questa è
una missione delicata e solo di te ci affidiamo, altrimenti resteremo qui tutti. Allora mi
metto in ordine, prendo munizioni e bombe a mano e mi sono messo in cammino e sono
arrivato per puro miracolo perché si vedevano parecchi partigiani in giro.
Quando consegnai al mio capitano Moizo quel famoso e delicato messaggio mi disse bravo
e grazie. E dopo questo abbiamo avuto gli onori personali di avere appianato i carri armati
russi che sparavano e maciullavano la colonna in ritirata. La sera del 26 gennaio sul ponte
della ferrovia abbiamo incendiato carri armati e camion carichi di munizioni fino a
quando, finite le munizioni, abbiamo avuto l’ordine di smontare i pezzi e buttarne un po’
dovunque e andare avanti all’arma bianca fino nella grande piazza di Nikolajewka. Mi scusi
se ho scritto troppo male, mi vorrebbe un sillabario e poi sarei ancora da capo.

Artigliere alpino Mario Freschi


28ª Batteria, Gruppo Valcamonica, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Mi sono deciso a scrivere perché nel libro non ci siano delle inesattezze; infatti ne ho ri-
scontrate in tanti quotidiani, settimanali, e libri che hanno pubblicato notizie di quella bat-
taglia. Io posso precisare con esattezza ciò che avvenne nel momento culminante della
battaglia.

A Nikolajewka il generale Reverberi prima dell’ultimo attacco tenne un rapporto agli uffi-
ciali; accordatosi sulla tattica da seguire si diresse verso un carro cingolato tedesco (e non
carro armato come si è stampato). Estratta la rivoltella salì sul predellino, sparò alcuni col-
pi in aria gridando: “Tridentina, avanti!”; dai reparti organizzati si sentì un grido che par-
ve un boato.
Dalle nostre poche artiglierie e dai cannoni tedeschi partirono gli ultimi proiettili, ed alcuni
ufficiali di quelli che avevano partecipato al rapporto cominciarono a gridare: “Dobbiamo
scendere in massa prima che venga buio, per la nostra salvezza!”.
Capitano medico Giulio Bartolozzi
31ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Quanto possiamo raccontare, sia io sia mio fratello, è solo una delle tante vicende che in
terra di Russia hanno vissuto altri fratelli come noi. Per il reclutamento regionale delle
truppe alpine, molti sono stati i fratelli e i consanguinei che si sono trovati uniti nello
stesso destino appartenendo a gruppi od a battaglioni dello stesso reggimento.
Assegnato al 2^ Reggimento Artiglieria Alpina della Tridentina con il grado di tenente
medico, il colonnello Moro, comandante il reggimento, non volle che due fratelli si
trovassero nella stessa batteria onde evitare in una famiglia una eventuale duplice perdita.
Mio fratello, capitano in servizio permanente effettivo comandava la 31ª Batteria del
Gruppo Bergamo; io fui assegnato alla 45ª Batteria del Gruppo Vicenza e con tale reparto
partii per il fronte russo.
Ai primi di dicembre del 1942, essendo stato promosso capitano, fui temporaneamente
trasferito al 618º O. C. del 5^ Alpini. Avevo lasciato la batteria ed il reggimento con molto
dispiacere ma il destino e gli eventi bellici mi ci ricondussero dopo poco tempo. Durante il
ripiegamento ad Opyt il 20 gennaio 1943 ebbi modo di ritrovarmi vicino al mio amico e
comandante la 45ª Batteria, capitano Libero Vinco. Lì la 45ª fu distrutta dopo aspri
combattimenti con carri armati russi. Fu la prima batteria che si sacrificò per il
ripiegamento della Tridentina.
Allontanatomi da Opyt, in me sorse un solo desiderio: rientrare al mio reggimento e
possibilmente raggiungere la 31ª Batteria comandata da mio fratello e con lui affrontare il
nostro destino. Poco prima di Scheljakino ci incontrammo. Dissi allora al capitano amico
Romolo Deotto, comandante il 618º O. C., quale era il mio desiderio, ed egli acconsentì.
Lo stesso permesso ottenni dal tenente colonnello Calbo comandante il Gruppo Vicenza, a
cui io appartenevo. Da quel momento tornavo a fianco di coloro che furono gli artefici della
vittoriosa conclusione di Nikolajewka e assicuro che il ricevere un mitra e mettermi nei
ranghi della batteria mi dette oltre che una vera gioia un senso di profonda serenità di
spirito per aver attuato ciò che la mia coscienza mi diceva di fare.
La 31ª Batteria combattè a Scheljakino; unita al Morbegno attaccò Warwarowka ed i nostri
alpini furono veramente formidabili. Solo la preponderanza dei mezzi nemici poté aver
ragione di noi, però io penso che l’aver costretto forze nemiche notevoli in quel
combattimento abbia contribuito ad alleggerire il peso della battaglia di Nikolajewka. In
quelle ore di dura lotta fui sempre accanto a mio fratello, i nostri sguardi si cercarono
spesso mentre più aspro era il combattimento. Abbiamo visto cadere i nostri soldati,
abbiamo sparato fino all’ultima granata contro i carri armati che ci avevano circondati e la
31ª alle prime luci dell’alba del 24 gennaio ’43 cessava di esistere.
Quel mattino dei 2.000 uomini che componevano l’unità di combattimento Morbegno –
31ª Batteria ne restavano vivi circa 150. Fu allora che ringraziai il destino e la mia
decisione di aver voluto essere a fianco di mio fratello: il capitano Alfredo Bartolozzi,
comandante la 31ª Batteria al fronte occidentale, in Albania ed in Russia, alla vista della
sua batteria distrutta ebbe una crisi di sconforto. Fui rapido a deviare l’arma che stava per
portarsi alla tempia e riuscii a ricondurlo gradatamente alla ragione. Essergli stato vicino
ha contribuito a far sì che un tragico gesto non fosse compiuto. In sèguito, uniti, abbiamo
trovata la forza morale per sopravvivere alle terribili marce del davai ed ai campi di
concentramento in Russia.
Capitano Alfredo Bartolozzi
31ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
La 31ª Batteria, il giorno 17 gennaio 1943 si trovava in linea a Belogorje sul Don e riceveva
ordini dal Comando Gruppo Bergamo dal quale dipendeva, di ripiegare su Podgornoje,
incolonnandosi col resto del gruppo. La marcia aveva inizio all’imbrunire del 17 gennaio e
proseguiva per tutta la notte sul 18 gennaio 1943. Alle prime luci del 18 gennaio 1943 il
gruppo al completo giungeva alla meta.
A Podgornoje, la sera dello stesso giorno, la batteria riceveva ordine dal Comando Gruppo
di attendere sul posto il passaggio del Battaglione Tiràno del 5^ Alpini, comandato dal
maggiore Maccagno, e di mettersi a disposizione di detto battaglione. Il Tiràno giungeva a
Podgornoje alle ore 22 circa e, presa ai suoi ordini la batteria, proseguiva il suo movimento
dirigendo verso Scororib, nei pressi del quale giungeva sul finire della notte. Il tentativo di
entrarvi per acquartierarvisi falliva perché elementi nemici col favore dell’oscurità,
riuscivano a sbarrarne l’ingresso
Il comandante del battaglione decideva allora di attendere la luce per procedere a regolare
attacco e, nell’attesa, ripiegava su di una posizione più arretrata. Sul posto a protezione del
movimento retrogrado venivano lasciati due pezzi della batteria che raggiungevano la
colonna successivamente. Il giorno 19 gennaio l’attacco veniva sferrato insieme al
Battaglione Edolo ed al Gruppo Valcamonica che, nella notte, erano affluiti nella zona e,
dopo un combattimento che si protraeva per gran parte della giornata, il paese di Scororib
veniva occupato.
Il ripiegamento verso ovest veniva ripreso il giorno successivo in unica colonna dai due
battaglioni, dal Gruppo Valcamonica e dalla batteria che si incolonnava nuovamente alle
dipendenze del Battaglione Tiràno e con esso giungeva in serata al paese di Postojalyi. Qui
ai due battaglioni del 5^ si ricongiungeva anche il Battaglione Morbegno comandato dal
maggiore Sarti, al quale, nella nuova colonna che si costituiva, veniva affidato il compito di
retroguardia.
Il maggiore Andri, comandante del Gruppo Valcamonica, assumeva l’incarico di
comandante dell’artiglieria della colonna e ordinava alla 31ª Batteria, di passare dalle
dipendenze del Battaglione Tiràno a quelle del Battaglione Morbegno e costituire con esso
gruppo tattico di retroguardia della colonna. Col Battaglione Morbegno, la batteria
riprendeva la marcia la sera del 20 gennaio 1943 e giungeva nella giornata 23 gennaio 1943
nei pressi di Scheljakino località che il grosso della colonna, dopo aver sostenuto un
combattimento contro resistenze nemiche che si opponevano al passaggio, aveva superato
qualche ora prima
Le resistenze rimosse dal grosso, e costituite da forze di fanteria appoggiate da mezzi
corazzati leggeri, si presentavano nuovamente nel tardo pomeriggio al giungere della
retroguardia, sbarrando a questa il passo. Il Battaglione Morbegno e la 31ª Batteria
ingaggiavano combattimento e, mentre le compagnie del battaglione attaccavano con
decisione, la batteria apriva il fuoco appoggiandole con tiri di neutralizzazione e tiri contro
carro. In tale azione venivano messi fuori combattimento due carri armati nemici mentre
altri venivano colpiti dalla compagnia anticarro da 47/32, del capitano Mario Panzeri
In tale combattimento, durato poco più d’un ora, la batteria aveva avuto un solo ferito: il
caporal maggiore puntatore Carlo Proserpio che aveva riportato una leggera ferita al naso.
Più gravi invece le perdite del battaglione. Cessato il combattimento, il comandante del
battaglione, prima di riprendere la marcia, dava ordine di curare i feriti e riordinare i
reparti al fine di evitare intromissioni di sbandati, che in gran numero seguivano i reparti
organici, nei ranghi della colonna. Al punto di adunata giungevano però solo due
compagnie del battaglione, la compagnia anticarro, i guastatori di C. A., che marciavano
col Morbegno, e la 31ª Batteria.
La marcia veniva ripresa a notte inoltrata, a forte distanza dal grosso della colonna e la
batteria marciava in coda al battaglione col compito di salvaguardarne il retro da eventuali
offese di elementi corazzati nemici. Durante la marcia nel passare attraverso un piccolo
raggruppamento di isbe, la coda della batteria veniva attaccata da partigiani che cercavano
di distaccarla dal resto della colonna. A tale offesa essa reagiva prontamente: con i serventi
dei pezzi si gettava contro le isbe in cui si annidavano i partigiani e, a colpi di bombe a
mano, riusciva a mettere in fuga tali elementi disturbatori e a serrare nuovamente sotto il
battaglione che, nel frattempo, si era alquanto distaccato.
Verso la mezzanotte sul 24, il Battaglione Morbegno e la 31ª Batteria, ormai di molto
staccati dal grosso della colonna, urtavano contro il caposaldo nemico di Warwarowka che
apriva il fuoco su di essi. La 45ª Compagnia e i guastatori, appoggiati dal fuoco della
batteria, attaccavano decisamente il caposaldo. Il combattimento si prolungava per circa
due ore, durante le quali, tanto il battaglione che la batteria subivano forti perdite in
uomini e quadrupedi ma non riuscivano ad avere ragione del nemico. Visto vano ogni
sforzo, il comandante del battaglione dava ai reparti ordine di ripiegare lentamente sulle
basi di partenza e volgere nuovamente verso Scheljakino: era suo intendimento tentare
altra via puntando su Waluiki.
Durante questo tempo, numerosi gruppi di sbandati, che avevano seguito il battaglione e la
batteria, avevano serrato sotto e costituivano un ingombro non indifferente alle manovre
dei reparti che erano ancora in grado di operare. La confusione creata da tali gruppi
successivamente aumentava ancor più a causa di una puntata di alcuni carri armati usciti
da Warwarowka.
Il comandante del battaglione in sèguito a tale minaccia lasciava a fronteggiarla alcuni
pezzi della compagnia anticarro da 47/32 assieme ai quali restava anche il comandante
della compagnia stessa, capitano Mario Panzeri, e, col resto del battaglione e della batteria,
superato l’ingombro che gli sbandati avevano creato, riprendeva la marcia verso
Scheljakino. Nell’azione di protezione svolta dai pezzi della compagnia da 47 il capitano
Panzeri veniva ferito.
Dopo circa un’ora di marcia, poco prima dell’alba, in un punto in cui la pista risaliva un
costone, il battaglione e la batteria venivano improvvisamente attaccati frontalmente da
numerose forze nemiche appoggiate da una ventina di carri armati pesanti (T 34 e Klim
Voroscilov). Mentre i reparti del battaglione si schieravano immediatamente per
fronteggiare la nuova improvvisa minaccia, la batteria prendeva rapidamente posizione ed
apriva il fuoco contro i carri da una distanza ravvicinata finendo tutte le munizioni che
ancora le restavano.
Vari carri venivano colpiti, ma, malgrado ciò, non manifestavano danni apparenti e, non
appena la batteria cessava il fuoco, questi la caricavano travolgendo i pezzi e continuando
la carica sulle slitte del sèguito che, non appena iniziato il combattimento, avevano cercato
di mettersi fuori tiro, ma che per la confusione esistente non avevano completato la
manovra.
Mentre i carri svolgevano questa loro azione producendo fortissime perdite nei reparti, dal
caposaldo di Warwarowka veniva aperto un violentissimo fuoco di artiglieria, mortai e
mitragliatrici il quale, assieme all’azione dei carri e della fanteria che li appoggiava, veniva
ad ingabbiare ciò che restava della colonna, in un cerchio di fuoco che non era possibile
controbattere in alcun modo.
A questo punto la batteria, perduti i pezzi, travolti dai carri e quasi completamente
distrutti, non aveva alcuna possibilità di reazione allo scorrazzare dei carri che insistevano
nella loro azione. Anche il battaglione aveva subìto perdite paurose e anche in esso era
scomparsa ogni parvenza di reparto organico. La retroguardia della Tridentina cessava di
esistere. Pochi i superstiti di tutto il gruppo tattico e ridotti con le sole armi individuali e
poche munizioni.
Capitano Luigi Collo
II Battaglione Misto Genio, 6^ Reggimento Alpini
Il 20 gennaio 1943 la Divisione Tridentina ha lasciato da tre giorni le sue posizioni sul Don
per tentare di aprirsi una strada attraverso i paesi già occupati alle sue spalle dai russi e il
II Battaglione Genio Alpino è arrivato la sera precedente nella piana di Opyt con la colonna
del 6^ Alpini.
Ordini e contrordini si sono susseguiti nella notte per assegnare un compito operativo a
questo reparto che si è trasformato in reparto di alpini di linea. Me ne è stato assegnato il
comando e con me sono venti tenenti e sottotenenti che hanno fede in questi ragazzi che
non hanno avuto alcuna esitazione ad abbandonare i propri attrezzi tecnici per impugnare
il moschetto. Il nemico non è riuscito a mantenere il contatto con la nostra retroguardia
ma la situazione è molto incerta.
Nella piana brumosa ed uniforme dove l’unica tonalità di colore è il grigio, in una
situazione incerta e confusa il battaglione riceve le ultime disposizioni e lascia lo
schieramento assunto per raggiungere il 6^ Alpini già impegnato in violenti combattimenti
tra Repiewka e Postojalyi. In testa al reparto che si sta muovendo verso la pista di
Repiewka è con me il tenente Elio Bencini; ci seguono uomini e salmerie con una forza
complessiva di circa 550 uomini e 150 muli.
Alle sette del mattino la colonna che procede in silenzio è in fondo alla piana di Opyt e sta
filtrando tra una massa di slittoni ungheresi in sosta. Le armi pesanti sono state caricate su
slitte e avvolte in coperte per proteggerle dal gelo e consentirne l’impiego quando il reparto
avrà raggiunto il 6^ Alpini.
All’improvviso, quando i primi uomini sono usciti dal groviglio delle slitte ungheresi, si
scatena sul reparto un fuoco d’inferno. Cannoni e mortai hanno aggiustato il tiro sulla
nostra colonna e non è subito chiaro da dove provenga il fuoco; un attimo di incertezza
coglie il reparto che è scaglionato su una notevole profondità e non ha possibilità di
schierarsi perché invischiato in mezzo ai reparti ungheresi.
Ma la situazione si chiarisce subito; alle spalle dei genieri, dalle posizioni appena lasciate,
escono dalla bruma che riduce il campo visivo 12 carri T 34 scortati da ingenti forze di
fanteria sovietica. Certamente le truppe che stanno dietro a noi sono state sopraffatte
prima di poter intervenire e l’attacco si sviluppa contro di noi e contro l’abitato di Opyt
dove è ancora il comando della divisione.
Non abbiamo alcun mezzo anticarro, ma non c’è da esitare; occorre tenere la situazione in
pugno per evitare uno sbandamento degli uomini che sono al loro battesimo del fuoco. Alla
nostra sinistra un ripido canalone fortemente innevato e difficilmente percorribile dai carri
adduce ad una posizione più facilmente difendibile, ai margini di un piccolo bosco. Nel
frastuono dei colpi in arrivo gli ordini sono immediati; il tenente Bencini con il grosso del
reparto dovrà raggiungere il bosco e schierarsi a difesa; Fabiani con un plotone si butta al
riparo di alcuni pesanti carriaggi ungheresi e dovrà proteggere il movimento di tutti gli
altri.
Il fuoco che si scatena sul reparto è micidiale e gli ungheresi che sono intorno a noi,
buttando le armi e arrendendosi al nemico, ritardano il nostro movimento e la nostra
reazione, e le perdite sono gravissime da parte nostra. Ma non è dell’insieme di questa
azione, condotta in modo brillante da tutti i genieri del II Battaglione che riuscirono a
fermare a Opyt le avanguardie russe, che voglio parlare; ma del comportamento di alcuni
valorosi genieri dal cui sacrificio è dipeso il risultato del combattimento.

Siamo ancora al momento della sorpresa iniziale. Le armi pesanti del reparto sono caricate
sulle slitte e non è facile raggiungerle in mezzo al caos creato dalle slitte ungheresi. La loro
utilizzazione è però indispensabile per contrapporre alle armi del nemico la loro massa di
fuoco, e i due mitraglieri della compagnia trasmissioni, caporale Caregnato e geniere
Ragazzoni non hanno un attimo di esitazione.
Mentre il tenente Fabiani con il suo plotone che dispone di pochi mitragliatori, si schiera a
ridosso delle slitte ungheresi, in un’impresa che non ha alcuna possibilità di scampo
Ragazzoni e Caregnato buttano il pesante cappotto e si slanciano di corsa verso le salmerie
che più indietro arrancano faticosamente tra le slitte ungheresi. In pochi istanti le loro
armi sono scaricate e vengono piazzate in un punto dominante; i conducenti stessi animati
dal loro esempio li aiutano a portare le cassette di munizioni.
Mentre il grosso del battaglione pur subendo gravi perdite riesce a sottrarsi all’incalzare
dei russi ed a schierarsi a difesa in posizione favorevole, i due mitraglieri rimangono al loro
posto e col tiro rabbioso delle loro armi seminano la morte tra le file dei russi che
avanzano. Nessuno potrà fermare questi due magnifici soldati; solo il destino che,
purtroppo, per loro è già segnato. Caregnato è il primo a cadere, colpito da una scheggia di
mortaio e si accascia sull’arma rovente mentre Ragazzoni spara ancora. Intorno a lui molti
russi cadono e pare che il loro fuoco non possa nulla contro questo magnifico soldato.
Infine è un T 34 che si profila dinanzi alla sua arma; ma Ragazzoni non desiste e non cerca
scampo; sul carro numerosi tiratori russi sparano su di lui e sul reparto ancora in
movimento ma Ragazzoni impavido li abbatte; poi cerca ancora di opporsi al carro e
rabbiosamente spara contro i cingoli e contro la massa d’acciaio che incombe su di lui. Non
può far nulla contro il mezzo corazzato, ma il geniere non si arrende. Fino a quando il carro
non lo travolge, Angelo Ragazzoni non cessa di sparare; la sua forza, il suo coraggio e il suo
eroismo nulla hanno potuto contro la massa d’acciaio.
A destra di questi due eroici genieri è ancora abbarbicato alle slitte ungheresi il tenente
Fabiani con il suo plotone ridotto ad un pugno di uomini. La sua difesa è ancora necessaria
perché una parte degli uomini del battaglione non ha ancora raggiunto la posizione
prescelta dal comandante. I russi sono ormai a breve distanza ma le poche armi di cui
dispone li fa ancora rallentare. Poi improvvisamente Fabiani è colpito da una raffica al
ventre. Ormai la sua azione ha raggiunto lo scopo cui era destinata e l’ufficiale ordina ai
propri uomini di raggiungere il grosso.
Non può camminare e due genieri lo afferrano sotto le ascelle per trascinarlo via. Fabiani
visto che i due genieri rischiano di essere catturati dai russi perché con lui andrebbero
troppo lenti ordina loro di abbandonarlo e di mettersi in salvo. Non viene ubbidito e i due
uomini che lo trascinano via continuano ad arrancare faticosamente nella neve; Riccardo
Fabiani non ha un attimo di esitazione: estrae la pistola e si spara un colpo in bocca. I due
genieri soltanto ora abbandonano l’ufficiale morto e riescono a raggiungere il reparto.
24 gennaio 1943. I genieri alpini del 2^ Battaglione da tre giorni sono inquadrati nel 6^
Alpini e costituiscono la 54ª Compagnia del Vestone. Il giorno 22 hanno brillantemente
preso parte alla conquista di Scheljakino e procedono oggi in testa alla colonna. Io e il
tenente Bencini siamo sempre al comando di questo reparto di formazione che comprende
artieri, trasmettitori e fotoelettricisti.
Si procede faticosamente nella neve che ricopre la steppa infinita ed uniforme; il reparto da
più giorni manca totalmente di viveri e le munizioni sono scarse. Si spera di poter fare un
po’ di bottino in uno dei vari paesi che verranno attraversati in questa marcia senza fine. In
caso contrario gli uomini non potranno reggere a lungo. All’improvviso si arriva in vista di
un abitato che si estende in una lunga balka sulla destra del cammino della colonna. E’ il
piccolo centro di Malakijewa che subito si rivela fortemente presidiato da truppe russe
motorizzate.

L’attacco dei nostri reparti è immediato; bisogna impedire al nemico di assumere una
buona posizione difensiva o di mettersi in salvo per attaccarci poi durante la notte. I
genieri della 54ª che sono i primi ad attaccare, accompagnati dal fuoco dei pezzi della 32ª,
in pochi minuti sono già a ridosso delle prime case e il nemico è disorientato e sorpreso
dalla rapidità dell’attacco.
Mentre gli altri reparti del Vestone e del Val Chiese accerchiano il paese per impedire ai
russi di sottrarsi al combattimento, nell’abitato i genieri dilagano da ogni parte e lo scontro
si fraziona in mille episodi che disorientano il nemico per la rapidità e la decisione che
anima gli attaccanti. Pianon, Tumicelli, Vargiu, Cella ed altri con i loro ufficiali sono i più
animosi. Entrano nelle isbe lanciando bombe e sparando a bruciapelo senza dar tempo al
nemico di organizzarsi e di reagire.
Con pochissime perdite il paese è conquistato e quanti riescono a fuggire cadono sotto il
fuoco degli alpini del 6^ che hanno aggirato il paese. Tra gli episodi più salienti, l’azione
del geniere Tumicelli che da solo entra in un’isba dove sono appostati diversi russi armati.
Tumicelli è armato di una sola bomba a mano che tiene con i denti e di una sciabola da
cavalleria cosacca.
Prima che i russi abbiano tempo di reagire butta nel locale la bomba a mano a rischio di
essere colpito dalla sua stessa arma e nella confusione che si crea con lo scoppio, liquida
all’arma bianca tutti i presenti. Pianon e Vargiu a loro volta saltano rapidissimi da un’isba
all’altra e danno la caccia a quanti cercano di mettersi in salvo. Il tiro preciso dei loro fucili
abbatte numerosi nemici sulla porta delle isbe. Il caporal maggiore Cella, che cadrà poi
eroicamente a Nikolajewka, con Bencini, Gasparinetti e Toni Segat, è scatenato per il paese
alla caccia all’uomo. Con loro sono tutti i migliori uomini della compagnia, Fiacchi e
Battaggia, Stucchi e Contessi, Pintus e Peroni e il combattimento ha una durata brevissima.
Il comandante della compagnia è già in fondo al paese dove si congiunge con il reparto del
Val Chiese proveniente dalla sinistra con il capitano Gaza, e con le altre compagnie del
Vestone che hanno annientato tutti quelli che hanno cercato la salvezza nella fuga.
Finalmente per i valorosi genieri ci sarà anche tempo di cercare qualcosa da mettere sotto i
denti.
26 gennaio 1943. La lunga, interminabile fila di uomini affamati, laceri e semi congelati
che costituisce il grosso della colonna e che comprende superstiti della Julia e della
Cuneense, reparti vari del corpo d’armata, sbandati della Vicenza, ungheresi e tedeschi, ha
ancora la Tridentina a far da battistrada. I suoi reparti che hanno combattuto dal 17
gennaio ad oggi in condizioni disperate sono allo stremo delle forze; scarseggiano le
munizioni, mancano i viveri; la stanchezza, il gelo e la fame hanno decimato i reparti più
del piombo nemico, ma gli alpini vanno ancora avanti; nei loro sguardi una decisione
irremovibile di sfuggire a questo inferno a qualunque costo.
Con gli alpini della Tridentina i genieri superstiti del 2^ Battaglione costituiscono una
ormai sparuta 54ª Compagnia del Vestone e sono ancora in testa alla colonna, con la 53ª e
la 55ª. I reparti del 6^, alle otto del mattino, raggiunta la sommità di una lunga balka che
sale da Nikitowka e da Arnautowo, sono in vista dell’abitato di Nikolajewka. Un lungo
rilevato sul quale passa la ferrovia ai margini del paese compartimenta il terreno in due
settori ben distinti; al di qua, nella steppa nuda, gli alpini; al di là, nell’abitato di
Nikolajewka, con delle difese ben munite, i sovietici.
Il nostro comando non esita; bisogna attaccare subito e il Vestone, in ordine di
combattimento, sta già muovendo all’attacco, sulla destra. In testa è la 53ª, seguita dalla
54ª e dalla 55ª che è più a destra. Poi improvvisamente una batteria russa rivela la sua
posizione sulla sinistra vicino al casello ferroviario e il suo fuoco prende sul fianco gli alpini
che avanzano. La 54ª riceve l’ordine di attaccarla e di ridurla al silenzio. Sono poco più di
un centinaio di genieri che con me e sei ufficiali divergono subito dal precedente obiettivo e
si dirigono sulla batteria.
L’impresa è pressoché impossibile per lo scarso armamento di questi pochi uomini, per il
terreno completamente scoperto e innevato; comunque la batteria non da più fastidio alle
altre compagnie e scatena il suo fuoco sugli attaccanti. L’attacco prosegue malgrado le
gravissime perdite; sulla sinistra sto io con il grosso della compagnia, sulla destra è il
tenente Bencini che con circa 40 uomini punta su un pezzo da 75 spostato più sulla destra,
che continua ininterrottamente a sparare.
L’azione non ha sosta; non c’è tempo di pensare o di fare dei piani; in questo inferno di
fuoco dove si avanza senza alcun riparo e senza poter rispondere al fuoco del nemico,
occorre soltanto far presto per arrivare sui pezzi prima che il nemico abbia fatto fuori tutti
gli attaccanti. Intorno a noi cadono Colle, Falcone, Rossi, Contessi ed altri; ma anche se i
vuoti non possono venir rimpiazzati, nessuno si arresta.
In questa lotta impari Bencini con i suoi uomini, malgrado le gravissime perdite piomba
sul pezzo di destra, elimina i difensori e riesce a portarsi fino al rilevato della ferrovia dove
deve subire altre gravissime perdite per forzare il sottopassaggio. In questa azione tra gli
altri cade il caporal maggiore Cella che si era particolarmente distinto in tutti gli altri
combattimenti, mentre tenta di eliminare i difensori russi del passaggio. Con i pochi
uomini rimasti il valoroso tenente Bencini penetra finalmente nel paese dove infuria il
combattimento tra i russi e gli altri reparti del Vestone che, grazie al sacrificio dei genieri,
sono riusciti a superare la ferrovia.
Più a sinistra il resto della compagnia, sotto il fuoco di due pezzi da 75 e di un gruppo di
mitragliatrici ha maggior difficoltà ad arrivare ai pezzi. Le perdite sono fortissime per il
fuoco infernale che si scatena sugli uomini che avanzano, ma mi riesce di portarmi a
distanza di lancio di bombe a mano con gli ultimi 25 superstiti.
Nell’azione finale, rabbiosa e violenta dell’assalto questi pochi uomini, pur subendo altre
perdite riescono ad avventarsi sul nemico e a conquistare la posizione all’arma bianca.
Anch’io vengo ferito ad una spalla, ma nessuno desiste dal combattimento e riusciamo a
conquistare le piazzole insanguinate. Però l’azione non è ancora finita, perché su questi
pochi uomini che tentano inutilmente di girare i pezzi verso il nemico si scatena ancora il
contrattacco dei russi. Sulle piazzole dei pezzi battute dal fuoco di artiglieria e delle armi
automatiche questi pochi difensori rimangono ancora spavaldamente per impegnare il
maggior numero di forze russe.
La posizione è insostenibile e mancano totalmente le munizioni. Il solo caporale Vargiu che
possiede ancora due caricatori è ancora appostato dietro agli scudi di un pezzo e i suoi
colpi non andranno perduti. Questo eroico giovane sardo, sempre il primo in tutte le
precedenti azioni ancora una volta è di esempio a tutti e riesce a tenere a bada con il
preciso tiro del suo fucile il nemico che vorrebbe mettere fine a questo episodio. Poi le
ultime munizioni finiscono e sui pezzi conquistati non sono rimasti che il caporale Vargiu
ed io stesso, soli superstiti.
Occorre cercare una via di salvezza riunendoci ai reparti che combattono in paese prima
che il nemico riesca a colpirci. L’unica via da tentare è per circa trenta metri totalmente
allo scoperto ma consente di arrivare al sottopassaggio della ferrovia ormai non più tenuto
dai russi. Il primo a tentarla è il caporale che parte di corsa nell’intento di sorprendere il
nemico e di passare. Vargiu riesce a passare indenne malgrado la violentissima reazione
dei russi e raggiunge il sottopassaggio e poi il paese.
Purtroppo questo valoroso geniere non riuscirà a ricongiungersi con gli altri alpini e alla
sera sarà dato disperso. Io, che dopo di lui tento la stessa sorte, vengo invece colpito
gravemente da un colpo di mitragliatrice e cado in mezzo ai miei genieri che giacciono
all’intorno sul terreno. La ferita non è però mortale, e dopo essere riuscito a trarre in
inganno i russi sopraggiunti fingendomi morto e lasciandomi depredare da questi, riuscirò,
malgrado le ferite, a raggiungere la colonna e a riunirmi ai vittoriosi di Nikolajewka.

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