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Campagna di
Russia, è opportuno focalizzare anzitutto su alcuni punti importanti, prima di restringere
l'attenzione sulla divisione Tridentina e sul Battaglione Verona in cui militava zio Vittorio:
– l'assedio di Stalingrado (23 agosto 1942 – 2 febbraio 1943) e la strenua resistenza op-
posta dalla popolazione e dall'Armata Rossa, che fecero naufragare l'idea stessa di u-
na 'Blitzkrieg' e da cui l'esercito invasore uscì con l'annientamento della sua 6a armata
https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Stalingrado
– la controffensiva russa previde prima l'Operazione Saturno, che pur ridimensionata
poi con la 'Piccola Saturno', si proponeva di indebolire le forze dell'Asse attaccando
le “truppe satelliti” - sul Cir già a novembre 1942 – che culminò con l'attacco nella
sacca di RAPOPINSKAJA alle truppe rumene subironoche subirono gravissime
perdite, quindi alle linee italiane appostate sul Don. Nella conca di ARBUZOVKA , a
nord di Malaja Lozovka, gran parte dell'8a Armata italiana e alcuni contingenti tede-
schi si confrontarono (21-25 dicembre 1942) con l'Armata Rossa e subirono ingentis-
sime perdite: la divisione Pasubio fu quasi annientata, ma anche Ravenna, Sforzesca,
XXXV Corpo d'Armata (ex CSIR) e Torino furono molto ridimensionate
https://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Piccolo_Saturno
2 GENNAIO 1943
Nel tentativo di correggere l’atteggiamento dei soldati sovietici nei confronti
dei prigionieri di guerra subito dopo la loro cattura, il vice-ministro alla Difesa,
generale A.V. Chrulev firma il decreto 001, nel quale si sottolineano le gravi
carenze che hanno finora contraddistinto il trasferimento dei prigionieri stessi.
Vengono indicate le regole cui attenersi. Tali istruzioni sono seguite – il 12
gennaio – da ulteriore decreto dell’NKVD. Tuttavia le direttive saranno attuate
soltanto di rado. I prigionieri di guerra subiscono le marce del davai, i trasporti
ferroviari, gli orrori dei primi campi di smistamento. Le testimonianze dei reduci
– nonché i documenti ufficiali – riveleranno situazioni disumane.
I lager destinati ai prigionieri di guerra – che, secondo i dati disponibili, dal
1939 a inizio 1943 erano soltanto 24 – aumentano di numero, fino ad arrivare a
533 (più almeno altri nove lager speciali), distribuiti su tutto il territorio
sovietico. I prigionieri italiani saranno rinchiusi in circa 430 dei lager suddetti.
5 GENNAIO 1943
Le truppe del Blocco Sud si raccolgono a Rykovo e dintorni. Dal 23 gennaio al 3
febbraio la difesa della città verrà affidata ai resti della Colonna Carloni.
9 GENNAIO 1943
La 3ª Armata Corazzata sovietica investe il XXIV Corpo Corazzato tedesco (cui è
stata assegnata la Divisione Julia); il XXIV Corpo ripiega su Rovenki senza
informare il Comando del Corpo d’Armata alpino.
16 GENNAIO 1943
Rossoš' cade. Il comandante del Corpo d’Armata alpino, generale Nasci, chiede
di ripiegare ma il generale Gariboldi proibisce di abbandonare le posizioni sul
Don.
17 GENNAIO 1943
Il Comando d’Armata italiano autorizza il generale Nasci a ripiegare. Lo
sganciamento dal Don inizia alle ore 17.00. Le quattro Divisioni (Cuneense,
Julia, Tridentina, Vicenza) si ritirano a ovest su “vasta fronte”, marciando in
ordine di combattimento su file parallele. Secondo gli ordini, bisogna puntare
su Valuiki, ma per il momento solo il Comando di Corpo d’Armata alpino e la
Divisione Tridentina ne sono informati.
-17 gennaio 1943
….e solo nel pomeriggio del 17, quando le unità sovietiche riuscirono a rompere il
fronte anche sulla sinistra venne ordinato il ripiegamento delle unità alpine.
Sganciatesi dal contatto sul Don, le unità del Corpo d'armata, dopo sporadiche azioni
di retroguardia iniziarono un faticoso ripiegamento attraverso la steppa nell'inclemen-
te rigido inverno russo, muovendo dapprima verso la ferrovia Rossoš'-Evdakovo ma,
successivamente, furono costrette a procedere con movimenti convergenti intesi a co-
stituire colonne di grandi unità in grado di darsi reciproco appoggio per le azioni di
rottura del fronte di accerchiamento che i russi nel frattempo avevano effettuato.
Da Podgornoe la "Tridentina" confluì a Postojalyj e qui tentò di spezzare il primo "anello" dell'accerchia-
mento. Nella feroce battaglia i sovietici inflissero dure perdite al battaglione "Verona", che riuscì comun-
que a conquistare lo snodo e aprire provvisoriamente la strada alla massa in disordinato ripiegamento;
essa, peraltro, veniva ingrossata di ora in ora da militari tedeschi, ungheresi e rumeni lasciati indietro o
sopravvissuti alla distruzione delle loro unità e migliaia di altri dispersi, appartenenti alle divisioni "Ra-
venna", "Pasubio" e "Cosseria"[122]. Presso la cittadina si radunarono tutte le colonne, quindi la "Tri-
dentina" riprese l'avanzata e guidò l'attacco su Šeljakino, infrangendo un nuovo sbarramento sovietico;
tuttavia le altre due divisioni alpine deviarono per errore più a nord e il 23 gennaio, a Varvarovka, incap-
parono in forze sovietiche cinque volte superiori: la battaglia fu cruenta e le perdite altissime, interi
repar-ti furono distrutti. I resti della "Julia"[N 5], della "Cuneense" e della "Vicenza" proseguirono ancora
verso sud allontanandosi dalla "Tridentina" e dai reparti tedeschi, che nel frattempo avevano ricevuto
comunicazione di cambiare destinazione e dirigersi a Nikolaevka, dato che Valujki era ormai nelle mani
dei sovietici. Il generale Nasci, che aveva affiancato Reverberi alla guida della "Tridentina", disponeva
di un apparato radio tedesco che gli permetteva di comunicare con il comando d'armata, ma non fu
capace di contattare le altre due divisioni che proseguirono verso la meta originaria [123][124].
Postojali, l’estremo sacrificio del
Verona. Furono 144 gli alpini che persero la vita
«Avanti Verona!» riecheggia nella lastra di gelo e neve della steppa russa. È il 19 gennaio
1943. Manca qualche giorno alle termopili di Nikolajewka – epilogo dell’infausta Campa-
gna di Russia – e gli alpini veronesi stanno scrivendo una loro dolorosa pagina di storia: la
battaglia di Postojali. L’esito sarà amaro: 436 morti del Sesto reggimento e la decimazione
di uno dei suoi battaglioni, il Verona. Di quest’ultimo oggi il centro studi Ana di via del
Pontiere, intrecciando i dati dell’albo d’oro dei caduti con quelli dell’Unione nazionale
reduci di Russia, ha ricostruito l’elenco di morti e dispersi: una lista di 144 giovani che in
ordine alfabetico va da Guido Albrigo, 22 anni di Gazzo morto a Postojali il 19 (finito in
una fossa comune e riesumato nel 1994), a Italo Zocca, 24 anni di Bardolino, morto il 21.
Tra loro la medaglia d’oro Marcello Piccoli, sergente maggiore, di Monteforte d’Alpone, 31
anni, caposquadra fucilieri. «Confrontando i dati dell’albo con quelli dell’Unirr emerge che
oltre 140 alpini veronesi muoiono il 19 gennaio 1943», spiega Giorgio Sartori del centro
studi. «Per alcuni è indicata la località di morte, Postojali, per altri c’è la dicitura "disperso"
o "località non nota", ma confrontando i dati dei diari storici i conti tornano».
Primo tentativo dell’armata italiana di rompere l’accerchiamento russo e aprire un varco
alla ritirata, Postojali è una storia veronese. Il 18 gennaio, il Comando del corpo d’armata
degli alpini vi invia il battaglione Verona. Il paese – forse già occupato dai russi o solo da
pochi partigiani, forse composto da qualche isba o chissà (nessuno l’ha mai visto) – è lungo
l’armeestrasse a circa 25 chilometri da Podgornoje. È un punto nevralgico per la manovra
di ripiegamento dell’armata. Il comando lì vuole riunire tutte e tre le divisioni ripieganti
dal Don.
Il Verona ha un compito di estrema importanza: occupare Postojali e sistemarsi a difesa
aprendo così «la strada della salvezza e la libertà a migliaia di compagni», racconteranno i
reduci nel volume del 1992 a cura di Vittorio Cristofoletti Battaglione Verona “Cimi”. È il
varco entro il quale dovrà transitare la Tridentina e le truppe italiane, tedesche, ungheresi
e romene in ripiegamento.
Dopo la lunga marcia dal Don, il battaglione, il 18 gennaio, è sistemato in un paesino. «Il
mio piccolo termometro a spillo sul cappello segnava già 43 gradi sottozero, ma la scala
arrivava solo a quella misura!», scriverà nel libro Enno Donà. Ci sono casi di
congelamento: vesciche ai polsi come scottature laddove il vento della steppa è riuscito a
penetrare negli inadatti cappotti degli alpini.
Nel tardo pomeriggio le cinque compagnie del battaglione sono caricate sui mezzi verso
Postojali. Gli alpini vengono avvisati della probabile presenza di nuclei partigiani che
potrebbero disturbare il ripiegamento. Ma la notizia è infondata: il Verona troverà ben
altre forze a contrapporsi. Arriva a Repiewka, poche isbe abbandonate. Sulla destra, un
bosco; sulla sinistra, dorsali candide e un’ampia piana spazzata dal vento e da un silenzio
assoluto e l’indomani costellata di alpini che arrancano nella neve alta. 19 gennaio. Come
sarà Postojali? Un nugolo di isbe sepolte dalla neve? Un paese? Nessuno ne ha un’idea. Ma
all’improvviso eccola: una doppia schiera di isbe dalla quale si scatenerà la furia
dell’armata rossa. «Verona avanti!» gridano i comandi mentre cadono i soldati. Gli alpini
procedono sulla neve rossa del sangue di fratelli, compaesani, amici più cari. Postojali, ora
nitida in tutta la sua ampiezza e fortemente presidiata, è un inferno. Il Verona combatte
con la sola forza della disperazione fino all’ordine di ripiegare. È una disfatta. Cala la notte,
ma non il sacrificio cui ancora il battaglione sarà chiamato nelle settimane successive,
prima di giungere a casa.
----> sono riuscito a recuperare il file con i nomi dei 144 alpini morti e i dispersi
Alpino Guerrino Malizia
56ª Compagnia, Battaglione Verona, 6^ Reggimento Alpini
Il giorno 18 gennaio 1943 il mio Battaglione Verona fu mandato ad attaccare nella zona di
Opyt; all’alba del 19 attaccammo a Postojalyi, e dopo otto ore di cruento combattimento
corpo a corpo, senza nessun appoggio dell’artiglieria, rimase ferito sul campo di battaglia il
capitano della 58ª Compagnia, Venier, e il capitano della 57ª, Ridolfi. Quando il maggiore
Bongioanni ordinò di ripiegare in ritirata, non trovo le parole adatte per spiegare e descri-
vere in quali condizioni ci trovammo, i russi erano ben appoggiati dentro il paese, con le
armi ben puntate e con un continuo tiro dei mortai.
Qualche più precisa informazione può darla il generale Dona, il mio capitano di allora. Il
giorno 20 gennaio passò da quei luoghi tutta l’intera Divisione Tridentina; tutti videro e
potrebbero testimoniare quanti e quanti erano i morti sulla neve, e quasi tutti del Verona.
Xxxxxxxxx.......
https://it.wikipedia.org/wiki/Campagna_italiana_di_Russia
Circa 70 000 uomini del Corpo alpino, assieme a circa 10 000 tedeschi e 2 000/7 000 ungheresi, si
riversarono verso ovest, nel disperato tentativo di rompere l'accerchiamento sovietico e ricongiungersi
al lontano fronte amico[117]. Le armate sovietiche avevano sopravanzato i reparti dell'Asse di circa 100
chilometri e le loro formazioni corazzate, nonostante si preoccupassero soprattutto di avanzare, si
insinuavano continuamente con fulminee scorrerie tra le colonne in rotta, rendendo ancor più penosa la
fuga attraverso la steppa innevata, a temperature comprese tra i -20 e i -40 °C[118]. Colti di sorpresa,
la notte del 18 i generali Umberto Ricagno, Luigi Reverberi e Emilio Battisti, comandanti rispettivamente
della "Julia", della "Tridentina" e della "Cuneense", riuscirono a riunirsi a Podgornoe, dove il generale
Nasci aveva trasferito frettolosamente il suo quartier generale: fu deciso di ripiegare in due colonne
separate verso il comando dell'8ª Armata, ristabilitosi a Valujki. La "Tridentina" e la "Cuneense" erano al
completo degli effettivi, mentre la "Julia", che si era sacrificata per difendere il lato destro del Corpo, era
ridotta a un terzo delle sue forze; le unità tedesche erano letteralmente dissanguate, combattevano con
appena un quarto del loro organico e avevano a disposizione i pochi armamenti pesanti presenti tra le
truppe in fuga: una decina di semoventi Sturmgeschütz III, quattro semicingolati, cinque pezzi FlaK da
88 mm e alcuni lanciarazzi Nebelwerfer. Unica reale difesa contro i carri sovietici, furono sempre in
prima linea durante i feroci combattimenti per uscire dalla sacca[119]. Il generale Nasci cercò quindi di
coordinare il movimento delle tre divisioni alpine e della "Vicenza", ma la confusione era enorme e di
sicuro incertezza e caos avevano paralizzato anche il comando dell'8ª Armata, dacché non diramava
ordini o direttive volte a salvare le divisioni accerchiate[120]. La Divisione "Tridentina", ancora coesa e
combattiva, fu guidata dal generale Reverberi in testa all'enorme colonna di soldati sbandati, stremati e
spesso privi di armi: coadiuvata dai corazzati tedeschi, il 19 si mise in marcia e il giorno seguente si
raccolse a Podgornoe, mentre una decina di chilometri a sud, vicino al villaggio di Samojlenko, si riunì
la "Vicenza". Ancora più a sud, verso Rossoš', si raggrupparono i resti della "Julia" e della "Cuneense",
a cui si erano aggiunti due o tremila sbandati tedeschi[121].
20 GENNAIO 1943
Il generale Martinat – Capo di Stato Maggiore del Corpo d’Armata Alpino – viene
incaricato dal generale Nasci di raggiungere le Divisioni Cuneense, Julia e
Vicenza, per comunicare le varie tappe previste e il punto di sbocco a Valuiki.
Martinat riesce a incontrare solo il generale Pascolini (comandante la Divisione
Vicenza).
Dopo il raggruppamento generale a Postojali (20 gennaio), la Tridentina al comando del
generale Luigi Reverberi, l'unità più efficiente e combattiva delle truppe in ritirata, guidò l'attacco su
Šeljakino che permise di superare un nuovo sbarramento sovietico; ma a questo punto le altre due
divisioni alpine deviarono per errore più a nord e incapparono a Varvarovka (23 gennaio) in un nuovo
ostacolo nemico; la battaglia fu disperata e le perdite altissime; interi reparti furono distrutti. I resti della
Julia, della Cuneense e della Vicenza proseguirono ancora verso sud allontanandosi dalla Tridentina e
dai reparti tedeschi [28]
21 GENNAIO 1943
La Divisione Tridentina combatte a Seljakino. Ore 18.45: tramite radio tedesca
(le apparecchiature radio italiane erano state distrutte a Opyt), il Comando di
Corpo d’Armata alpino riceve un radiogramma da parte del Comando dell’8ª
Armata: il punto di sbocco è Nikitovka, non più Valuiki, occupata fin dal giorno
19 gennaio da ingenti forze sovietiche. Il Comando di Corpo d’Armata alpino
non riesce però a ripristinare i collegamenti con le Divisioni Julia, Cuneense e
Vicenza, che proseguiranno verso Valuiki, come concordato in precedenza.
-21 gennaio 1943
Altri combattimenti vennero sostenuti il 21, contro un secondo sbarramento
fortemente presidiato a Novo Charkovka e a Varvarovka,
…....e il 25, 26 e 27 a Nikitovka dove furono impegnate le ultime risorse per rompere
finalmente l'accerchiamento.
Durante l'ultima fase della ritirata ci furono fasi di disperazione, di caos e di cedimento morale. Gravi
incidenti scoppiarono tra le truppe tedesche e quelle italiane, apparentemente per lo sprezzante, poco
cameratesco comportamento dei soldati tedeschi e per violenti liti riguardanti il diritto di usufruire dei
pochissimi mezzi motorizzati disponibili; in realtà non mancarono episodi di rivalsa tra le truppe italiane
anche con l'uso delle armi[125][126]. La stremata colonna guidata dalla "Tridentina", comunque, non
era ancora uscita dalla sacca, e nella giornata del 25 dovette dapprima fronteggiare un attacco di
partigiani e forze regolari russe a Nikitowka che venne respinto dal 5º battaglione alpini e dalle residue
artiglierie tedesche e italiane, e successivamente, e alle prime luci del 26 gennaio dovette respingere
duri attacchi nei pressi di Arnatauwo con i battaglioni "Tirano" e "Val Camonica"[127]. Superata
quest'ultima sacca, tutta la "Tridentina" si schierò per sfondare l'ultimo sbarramento sovietico a
Nikolaevka: il 26 gennaio 1943 gli alpini e i rimanenti cannoni d'assalto tedeschi si scagliarono con le
ultime energie contro l'ostacolo e, alla fine della sanguinosa battaglia di Nikolaevka riuscirono
finalmente a rompere l'accerchiamento e a guadagnare la via verso Šebekino. La loro marcia però non
finì qui: il comando di divisione fece ricostituire rapidamente i reparti ed ordinò la ripresa della marcia
all'alba del 27, che si concluse solo il 31 gennaio, quando gli alpini raggiunsero Triskoje non senza
ulteriori perdite e grandi difficoltà[128]. Sorte peggiore toccò alle due divisioni "Cuneense", "Vicenza" e
ai sopravvissuti della "Julia", che furono definitivamente intrappolate e costrette alla resa il 28 gennaio
a Valujki dai reparti del 7º Corpo di cavalleria sovietico, giunto in quella località fin dal 19, a cui non
seppero e non poterono opporre una efficace resistenza [129][130][131]
26 GENNAIO 1943
Tridentina e XXIV Panzerkorp (insieme a 40.000 fra sbandati e apparte-
nenti a reparti vari e di varia nazionalità) infrangono a Nikolajevka l'ultimo sbar-
ramento sovietico.
BIBLIOGRAFIA Giorgio Scotoni, L'Armata Rossa e la disfatta italiana (1942-43),
Trento, Editrice Panorama, 2007, ISBN 978-88-7389-049-2.
xxxxxxx------->......alcuni racconti tratti da "C'ero anch'io!”
Gli attacchi si succedono agli attacchi, si combatte con accanimento da ambo le parti, i
russi per chiuderci definitivamente nella sacca, gli alpini per poter uscire e tornare in
patria. Giungono il Val Chiese ed i resti del Verona, tutto il 6^ combatte lungo l’arco della
giornata. Scendono i resti del Tiràno e del Morbegno e verso il tramonto giunge l’E-dolo;
con la sua venuta tutto il 5^ Alpini è attestato di fronte a Nikolajewka. Il 2^ Reggi-mento
Artiglieria Alpina, privo ormai di munizioni, scende con noi sul terrapieno, la Tridentina è
pronta per l’ultimo balzo. xxxxxx.......
Era l’alba del 26 gennaio di quasi trent’anni fa. Al comando del maggiore Bracchi, in testa
alla colonna che da molti giorni lottava nella sacca, provenienti da Nikitowka, eravamo
arrivati la sera del 25 gennaio in un abitato non molto lontano da Nikolajewka ed avevamo
pernottato. Bisognava, col Battaglione Val Chiese e coi resti del Battaglione Verona, at-
taccare la città, espugnarla ed eliminare, per la colonna nella sacca, l’ultimo e il più duro
ostacolo verso la salvezza.
Abbastanza stanchi, non molto ben equipaggiati per quei climi, ormai con poche armi e
munizioni, ma sorretti da una volontà decisa, gli alpini del Vestone ebbero così l’ordine di
attaccare. Il Val Chiese e il Verona a sinistra della rotabile che conduceva alla città, e il
Vestone sulla destra. La consistenza della difesa nemica si manifestò subito eccezionale,
facilitata dalla forte posizione difensiva costituita dal bastione della ferrovia che correva
avanti alla città, sul quale era ben appostato il nemico con cannoni e mitragliatrici.
La situazione fu presto difficile perché, di fronte a tale difesa di forze ben organizzate, si
doveva arrancare affondando nella neve, morbida al di fuori delle piste, e ci si doveva
affidare alla Provvidenza nei lunghi balzi tra una breve attesa e l’altra, per prendere
respiro. Senza indugi a soccorrere feriti e morenti, con grande slancio si arrivò al bastione,
lo si espugnò e superò entrando alla disperata nell’abitato. Solo allora il primo lungo
respiro consentì il primo bilancio, con la speranza che i troppi mancanti fossero solo feriti.
xxxxxxx....... Sapemmo poi che il Val Chiese e il Verona, fermi dal mattino di fronte al
munitissimo bastione ferroviario nella zona sinistra della città, arrivati nel pomeriggio i
battaglioni del 5^ Alpini, avevano sferrato l’attacco decisivo e, guida ed anima il nostro
generale Reverberi, avevano conquistato il bastione ed erano entrati in città.
27 GENNAIO 1943
II VII Corpo di Cavalleria cosacca sgomina a Valuiki [coord. 50° 11' N – 38° 07' E]
i resti delle Divisioni Cuneense, Julia, Vicenza. I generali Battisti, Pascolini e Ri-
cagno (comandanti, rispettivamente, le Divisioni Cuneense, Vicenza e Julia)
vengono catturati.
...La maggior parte dei resti della Cuneense fu fatta prigioniera a Valujki tra il 27 e il 28
gennaio 1943.
31 GENNAIO 1943
I Sovietici catturano Paulus a Stalingrado.
-dal 30 gennaio al 3 febbraio 1943
Il 30 gennaio i resti del Corpo d'armata alpino si raccolsero a Šebekino e gli ultimi
reparti giunsero il 3 febbraio.[1] Da questa località, dopo circa 1100 km percorsi a piedi,
vennero avviati nella zona di Homel' (o Gomel, ora in Bielorussia - 620 km a nord-est
[vedi mappa allegata] per lo più in treno) da dove partiranno in ferrovia per far rientro
in Italia.
2 FEBBRAIO 1943
Le ultime truppe tedesche si arrendono a Stalingrado.
17 FEBBRAIO 1943
I resti della Colonna Carloni, unitamente a reparti tedeschi, combattono a
Pavlograd. È questa l’ultima battaglia sostenuta da truppe italiane al Fronte Russo.
FEBBRAIO 1943
Nei campi di prigionia si scatenano epidemie di tifo petecchiale e di dissenteria,
che colpiscono persone già fortemente debilitate dalle lunghe marce, dai
terribili trasporti in treno, e dalla scarsissima distribuzione di cibo. I morti sono
numerosissimi.
In seguito i Sovietici cercheranno di fornire una certa assistenza medica, alla quale
daranno un contributo importante anche ufficiali medici prigionieri. La fornitura di
farmaci e di attrezzature sanitarie sarà sempre carente. Le visite periodiche effettuate
da commissioni mediche esterne avranno lo scopo non tanto di migliorare le condizioni
dei prigionieri, quanto di classificarli in funzione della loro idoneità al lavoro .
1 MARZO 1943
Lavrentij Berija, capo dell’NKVD, emana un decreto sulla distribuzione dei
prigionieri catturati nella zona del Don e a Stalingrado. La conseguenza sarà
che nei mesi successivi quasi tutti gli ufficiali italiani prigionieri verranno
concentrati a Suzdal’ (lager n. 160).
-1 marzo 1943
Il 1º marzo, al ritorno dalla Russia il Corpo d'armata alpino si sciolse dando vita al
XXIV Corpo d'armata.[1]
6 MARZO 1943
I superstiti dell’8ª Armata si raccolgono nella zona di Gomel’, eccetto alcune
aliquote dell’Intendenza e i reparti dotati di quadrupedi.
25 MARZO 1943
Alle ore 00.00 il Comando dell’8ª Armata cede al Comando del II Corpo d’Arma-
ta italiano ogni autorità sulle Forze Armate italiane in Unione Sovietica.
Al 27 marzo il II Corpo d’Armata è costituito da 1860 ufficiali e 38.650 militari di
truppa (tra Comando, Truppe e Servizi di Corpo d’Armata, appartenenti alle Di-
visioni Cosseria e Ravenna, e personale dell’Intendenza).
12 APRILE 1943
Presi accordi con il Comando Supremo tedesco, si ufficializza che anche il II Cor-
po d’Armata rientrerà in Patria. Il 22 aprile vengono date disposizioni esecutive
per il trasporto ferroviario e il 26 aprile inizia il movimento.
MAGGIO 1943
A metà mese giunge da Mosca il famoso приказ (ordine): nessuno deve più mo
-rire nei lager. Le razioni alimentari vengono aumentate quel tanto che basta
per mantenere i prigionieri di guerra in vita e, soprattutto, per consentire loro
di lavorare.
20 MAGGIO 1943
Mar Nero. A causa dell’andamento del conflitto a terra, l’operatività della flotti-
glia italiana si era ridotta sempre più tra la fine del 1942 e il gennaio 1943.
…...........
Sebbene il giudizio sulla XII Squadriglia sia positivo, il suo intervento – limitato
a causa delle condizioni meteo molto particolari – non ha mai avuto possibilità
alcuna di interrompere i rifornimenti via lago alla città di Leningrado. Molti si
sono chiesti se sia valsa la pena spostare le quattro unità MAS, facendo loro
percorrere circa mille miglia per raggiungere la zona di operazioni.
22 MAGGIO 1943
Secondo l’Uff. Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito le partenze da Gomel’
per l’intera Armata italiana sono ultimate.
ALTRE INFORMAZIONIxxxxxxx........
Subito dopo la fine del conflitto si moltiplicarono in Italia gli sforzi per conoscere il numero dei prigionieri
sopravvissuti e riportarli in patria e l'Unione Sovietica si rivelò il primo paese a essere disposto a
consegnare gli internati, a eccezione dell'esiguo numero di criminali di guerra condannati dai tribunali
sovietici. Nel luglio 1946 il numero dei rimpatriati finale fu di 21193 persone: questa cifra era molto
sotto le aspettative, considerando che gli effettivi rimpatriati appartenenti all'8ª Armata furono appena
10032 mentre gli altri erano soldati e civili italiani catturati dai tedeschi e liberati dall'Armata Rossa nei
territori occupati. Gli ultimi dodici prigionieri italiani furono liberati nel febbraio 1954 su decisione di
Mosca: tra di loro vi erano sette combattenti dell'8ª Armata, catturati sul Don dodici anni prima[154].
Mancavano dunque all'appello circa 75 000 soldati, dei quali nessuno riuscì mai a delineare la
sorte[155].
Sicuramente la maggior parte di questi uomini morì nel corso degli ultimi scontri, delle marce forzate e
delle traversate su treni, eventi vissuti in condizioni estreme e tra terribili sofferenze. Nei campi di
detenzione la fame, le malattie e privazioni di ogni genere causarono innumerevoli decessi nei primi
mesi di prigionia; solo dopo l'estate del 1943 le condizioni di vita divennero più sopportabili e il numero
di morti si attestò su livelli "fisiologici". Per inquadrare questa falcidia è doveroso ricordare la barbara
condotta tedesca nei confronti dei prigionieri sovietici (soprattutto nei confronti dei commissari politici)
che venivano fucilati sul posto: di conseguenza l'enorme massa di prigionieri arresasi ai sovietici tra
1942 e 1943 fu sistematicamente trasferita in enormi campi privi di sussistenza e lasciata morire per
fame, stenti e malattia senza particolari distinzioni riguardo alla nazionalità. Addirittura durante la ritirata
dal Don i soldati tedeschi che si arrendevano, spesso venivano subito passati per le armi, mentre
italiani, rumeni e ungheresi non furono uccisi per ordine di Stalin: essi rimasero comunque in balìa della
disorganizzazione e della precarietà del sistema detentivo sovietico. Lo sforzo bellico dell'Armata
Rossa era infatti concentrato al combattimento, sussistenza e sanità erano precari per le stesse truppe
sovietiche, mentre mancava del tutto per i prigionieri: per loro (a maggior ragione se tanto numerosi)
non fu dunque prevista alcuna assistenza. Il primitivo sistema ferroviario russo era inoltre sconvolto
dalle distruzioni dell'invasione e il rifornimento alimentare era disastroso persino per i cittadini stessi,
per cui scarso fu l'interesse per la sopravvivenza degli stremati prigionieri. Furono necessari mesi
affinché le condizioni minime di vita fossero garantite[156].
Nel 1991, su iniziativa del Ministero della difesa, furono avviate le esumazioni dai cimiteri campali di
Russia e Ucraina, che permisero il rientro in Italia di migliaia di salme di caduti noti e non
identificati[157]
xxxxx..... È importante sottolineare che nelle letterature russa, britannica e tedesca (a differenza della tradizione
storiografica italiana) alla battaglia di Nikolaevka non viene dato molto rilievo e l'attenzione si concentra sulla resa degli
alpini a Valujki; anzi in Germania la stessa ritirata non ha mai avuto grande risonanza. Per molti soldati tedeschi il crollo
dell'ARMIR fu solo un episodio presto superato da altri avvenimenti, mentre l'indugiare italiano sul periodo dicembre
1942-gennaio 1943 può essere ricondotto alla volontà di evidenziare gli errori e i soprusi commessi dai tedeschi durante
la ritirata, passando sotto silenzio le deficienze e gli sbagli degli ufficiali dell'8ª Armata. Vedi: Schlemmer, pp. 150-
151 e Scotoni, p. 546 xxxxxxx.....
....Al contempo il sacrificio degli Alpini servì al Regio Esercito per coprire il fallimento dei comandanti sul Don, che predi-
sposero la ritirata del Corpo alpino con molto ritardo e senza dar prova di reattività dinanzi alla colpevole passività del
generale Gariboldi.
xxxxxx
Un elenco dei nomi dei soldati, in cirillico, in cui è presente la data e luogo di morte è stato prodotto dal-
le autorità russe dopo il 1989 (Ministero della Difesa italiano, 1996). 10.085 prigionieri furono rimpatriati
tra il 1945 e il 1954. Il destino individuale di 30.430 soldati, che morirono durante i combattimenti e il
ritiro o dopo la cattura, è meno noto. Si stima approssimativamente che circa 20.000 uomini abbiano
perso la vita a causa dei combattimenti e 10.000 uomini siano morti tra il momento in cui sono diventati
prigionieri e il momento in cui si sono registrati all'interno dei campi.
Fonti russe elencano le morti di 28.000 dei 49.000 prigionieri di guerra italiani (secondo loro) nell'Unio-
ne Sovietica tra il 1942 e il 1954.[1]
A Nikolajewka il generale Reverberi prima dell’ultimo attacco tenne un rapporto agli uffi-
ciali; accordatosi sulla tattica da seguire si diresse verso un carro cingolato tedesco (e non
carro armato come si è stampato). Estratta la rivoltella salì sul predellino, sparò alcuni col-
pi in aria gridando: “Tridentina, avanti!”; dai reparti organizzati si sentì un grido che par-
ve un boato.
Dalle nostre poche artiglierie e dai cannoni tedeschi partirono gli ultimi proiettili, ed alcuni
ufficiali di quelli che avevano partecipato al rapporto cominciarono a gridare: “Dobbiamo
scendere in massa prima che venga buio, per la nostra salvezza!”.
Capitano medico Giulio Bartolozzi
31ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Quanto possiamo raccontare, sia io sia mio fratello, è solo una delle tante vicende che in
terra di Russia hanno vissuto altri fratelli come noi. Per il reclutamento regionale delle
truppe alpine, molti sono stati i fratelli e i consanguinei che si sono trovati uniti nello
stesso destino appartenendo a gruppi od a battaglioni dello stesso reggimento.
Assegnato al 2^ Reggimento Artiglieria Alpina della Tridentina con il grado di tenente
medico, il colonnello Moro, comandante il reggimento, non volle che due fratelli si
trovassero nella stessa batteria onde evitare in una famiglia una eventuale duplice perdita.
Mio fratello, capitano in servizio permanente effettivo comandava la 31ª Batteria del
Gruppo Bergamo; io fui assegnato alla 45ª Batteria del Gruppo Vicenza e con tale reparto
partii per il fronte russo.
Ai primi di dicembre del 1942, essendo stato promosso capitano, fui temporaneamente
trasferito al 618º O. C. del 5^ Alpini. Avevo lasciato la batteria ed il reggimento con molto
dispiacere ma il destino e gli eventi bellici mi ci ricondussero dopo poco tempo. Durante il
ripiegamento ad Opyt il 20 gennaio 1943 ebbi modo di ritrovarmi vicino al mio amico e
comandante la 45ª Batteria, capitano Libero Vinco. Lì la 45ª fu distrutta dopo aspri
combattimenti con carri armati russi. Fu la prima batteria che si sacrificò per il
ripiegamento della Tridentina.
Allontanatomi da Opyt, in me sorse un solo desiderio: rientrare al mio reggimento e
possibilmente raggiungere la 31ª Batteria comandata da mio fratello e con lui affrontare il
nostro destino. Poco prima di Scheljakino ci incontrammo. Dissi allora al capitano amico
Romolo Deotto, comandante il 618º O. C., quale era il mio desiderio, ed egli acconsentì.
Lo stesso permesso ottenni dal tenente colonnello Calbo comandante il Gruppo Vicenza, a
cui io appartenevo. Da quel momento tornavo a fianco di coloro che furono gli artefici della
vittoriosa conclusione di Nikolajewka e assicuro che il ricevere un mitra e mettermi nei
ranghi della batteria mi dette oltre che una vera gioia un senso di profonda serenità di
spirito per aver attuato ciò che la mia coscienza mi diceva di fare.
La 31ª Batteria combattè a Scheljakino; unita al Morbegno attaccò Warwarowka ed i nostri
alpini furono veramente formidabili. Solo la preponderanza dei mezzi nemici poté aver
ragione di noi, però io penso che l’aver costretto forze nemiche notevoli in quel
combattimento abbia contribuito ad alleggerire il peso della battaglia di Nikolajewka. In
quelle ore di dura lotta fui sempre accanto a mio fratello, i nostri sguardi si cercarono
spesso mentre più aspro era il combattimento. Abbiamo visto cadere i nostri soldati,
abbiamo sparato fino all’ultima granata contro i carri armati che ci avevano circondati e la
31ª alle prime luci dell’alba del 24 gennaio ’43 cessava di esistere.
Quel mattino dei 2.000 uomini che componevano l’unità di combattimento Morbegno –
31ª Batteria ne restavano vivi circa 150. Fu allora che ringraziai il destino e la mia
decisione di aver voluto essere a fianco di mio fratello: il capitano Alfredo Bartolozzi,
comandante la 31ª Batteria al fronte occidentale, in Albania ed in Russia, alla vista della
sua batteria distrutta ebbe una crisi di sconforto. Fui rapido a deviare l’arma che stava per
portarsi alla tempia e riuscii a ricondurlo gradatamente alla ragione. Essergli stato vicino
ha contribuito a far sì che un tragico gesto non fosse compiuto. In sèguito, uniti, abbiamo
trovata la forza morale per sopravvivere alle terribili marce del davai ed ai campi di
concentramento in Russia.
Capitano Alfredo Bartolozzi
31ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
La 31ª Batteria, il giorno 17 gennaio 1943 si trovava in linea a Belogorje sul Don e riceveva
ordini dal Comando Gruppo Bergamo dal quale dipendeva, di ripiegare su Podgornoje,
incolonnandosi col resto del gruppo. La marcia aveva inizio all’imbrunire del 17 gennaio e
proseguiva per tutta la notte sul 18 gennaio 1943. Alle prime luci del 18 gennaio 1943 il
gruppo al completo giungeva alla meta.
A Podgornoje, la sera dello stesso giorno, la batteria riceveva ordine dal Comando Gruppo
di attendere sul posto il passaggio del Battaglione Tiràno del 5^ Alpini, comandato dal
maggiore Maccagno, e di mettersi a disposizione di detto battaglione. Il Tiràno giungeva a
Podgornoje alle ore 22 circa e, presa ai suoi ordini la batteria, proseguiva il suo movimento
dirigendo verso Scororib, nei pressi del quale giungeva sul finire della notte. Il tentativo di
entrarvi per acquartierarvisi falliva perché elementi nemici col favore dell’oscurità,
riuscivano a sbarrarne l’ingresso
Il comandante del battaglione decideva allora di attendere la luce per procedere a regolare
attacco e, nell’attesa, ripiegava su di una posizione più arretrata. Sul posto a protezione del
movimento retrogrado venivano lasciati due pezzi della batteria che raggiungevano la
colonna successivamente. Il giorno 19 gennaio l’attacco veniva sferrato insieme al
Battaglione Edolo ed al Gruppo Valcamonica che, nella notte, erano affluiti nella zona e,
dopo un combattimento che si protraeva per gran parte della giornata, il paese di Scororib
veniva occupato.
Il ripiegamento verso ovest veniva ripreso il giorno successivo in unica colonna dai due
battaglioni, dal Gruppo Valcamonica e dalla batteria che si incolonnava nuovamente alle
dipendenze del Battaglione Tiràno e con esso giungeva in serata al paese di Postojalyi. Qui
ai due battaglioni del 5^ si ricongiungeva anche il Battaglione Morbegno comandato dal
maggiore Sarti, al quale, nella nuova colonna che si costituiva, veniva affidato il compito di
retroguardia.
Il maggiore Andri, comandante del Gruppo Valcamonica, assumeva l’incarico di
comandante dell’artiglieria della colonna e ordinava alla 31ª Batteria, di passare dalle
dipendenze del Battaglione Tiràno a quelle del Battaglione Morbegno e costituire con esso
gruppo tattico di retroguardia della colonna. Col Battaglione Morbegno, la batteria
riprendeva la marcia la sera del 20 gennaio 1943 e giungeva nella giornata 23 gennaio 1943
nei pressi di Scheljakino località che il grosso della colonna, dopo aver sostenuto un
combattimento contro resistenze nemiche che si opponevano al passaggio, aveva superato
qualche ora prima
Le resistenze rimosse dal grosso, e costituite da forze di fanteria appoggiate da mezzi
corazzati leggeri, si presentavano nuovamente nel tardo pomeriggio al giungere della
retroguardia, sbarrando a questa il passo. Il Battaglione Morbegno e la 31ª Batteria
ingaggiavano combattimento e, mentre le compagnie del battaglione attaccavano con
decisione, la batteria apriva il fuoco appoggiandole con tiri di neutralizzazione e tiri contro
carro. In tale azione venivano messi fuori combattimento due carri armati nemici mentre
altri venivano colpiti dalla compagnia anticarro da 47/32, del capitano Mario Panzeri
In tale combattimento, durato poco più d’un ora, la batteria aveva avuto un solo ferito: il
caporal maggiore puntatore Carlo Proserpio che aveva riportato una leggera ferita al naso.
Più gravi invece le perdite del battaglione. Cessato il combattimento, il comandante del
battaglione, prima di riprendere la marcia, dava ordine di curare i feriti e riordinare i
reparti al fine di evitare intromissioni di sbandati, che in gran numero seguivano i reparti
organici, nei ranghi della colonna. Al punto di adunata giungevano però solo due
compagnie del battaglione, la compagnia anticarro, i guastatori di C. A., che marciavano
col Morbegno, e la 31ª Batteria.
La marcia veniva ripresa a notte inoltrata, a forte distanza dal grosso della colonna e la
batteria marciava in coda al battaglione col compito di salvaguardarne il retro da eventuali
offese di elementi corazzati nemici. Durante la marcia nel passare attraverso un piccolo
raggruppamento di isbe, la coda della batteria veniva attaccata da partigiani che cercavano
di distaccarla dal resto della colonna. A tale offesa essa reagiva prontamente: con i serventi
dei pezzi si gettava contro le isbe in cui si annidavano i partigiani e, a colpi di bombe a
mano, riusciva a mettere in fuga tali elementi disturbatori e a serrare nuovamente sotto il
battaglione che, nel frattempo, si era alquanto distaccato.
Verso la mezzanotte sul 24, il Battaglione Morbegno e la 31ª Batteria, ormai di molto
staccati dal grosso della colonna, urtavano contro il caposaldo nemico di Warwarowka che
apriva il fuoco su di essi. La 45ª Compagnia e i guastatori, appoggiati dal fuoco della
batteria, attaccavano decisamente il caposaldo. Il combattimento si prolungava per circa
due ore, durante le quali, tanto il battaglione che la batteria subivano forti perdite in
uomini e quadrupedi ma non riuscivano ad avere ragione del nemico. Visto vano ogni
sforzo, il comandante del battaglione dava ai reparti ordine di ripiegare lentamente sulle
basi di partenza e volgere nuovamente verso Scheljakino: era suo intendimento tentare
altra via puntando su Waluiki.
Durante questo tempo, numerosi gruppi di sbandati, che avevano seguito il battaglione e la
batteria, avevano serrato sotto e costituivano un ingombro non indifferente alle manovre
dei reparti che erano ancora in grado di operare. La confusione creata da tali gruppi
successivamente aumentava ancor più a causa di una puntata di alcuni carri armati usciti
da Warwarowka.
Il comandante del battaglione in sèguito a tale minaccia lasciava a fronteggiarla alcuni
pezzi della compagnia anticarro da 47/32 assieme ai quali restava anche il comandante
della compagnia stessa, capitano Mario Panzeri, e, col resto del battaglione e della batteria,
superato l’ingombro che gli sbandati avevano creato, riprendeva la marcia verso
Scheljakino. Nell’azione di protezione svolta dai pezzi della compagnia da 47 il capitano
Panzeri veniva ferito.
Dopo circa un’ora di marcia, poco prima dell’alba, in un punto in cui la pista risaliva un
costone, il battaglione e la batteria venivano improvvisamente attaccati frontalmente da
numerose forze nemiche appoggiate da una ventina di carri armati pesanti (T 34 e Klim
Voroscilov). Mentre i reparti del battaglione si schieravano immediatamente per
fronteggiare la nuova improvvisa minaccia, la batteria prendeva rapidamente posizione ed
apriva il fuoco contro i carri da una distanza ravvicinata finendo tutte le munizioni che
ancora le restavano.
Vari carri venivano colpiti, ma, malgrado ciò, non manifestavano danni apparenti e, non
appena la batteria cessava il fuoco, questi la caricavano travolgendo i pezzi e continuando
la carica sulle slitte del sèguito che, non appena iniziato il combattimento, avevano cercato
di mettersi fuori tiro, ma che per la confusione esistente non avevano completato la
manovra.
Mentre i carri svolgevano questa loro azione producendo fortissime perdite nei reparti, dal
caposaldo di Warwarowka veniva aperto un violentissimo fuoco di artiglieria, mortai e
mitragliatrici il quale, assieme all’azione dei carri e della fanteria che li appoggiava, veniva
ad ingabbiare ciò che restava della colonna, in un cerchio di fuoco che non era possibile
controbattere in alcun modo.
A questo punto la batteria, perduti i pezzi, travolti dai carri e quasi completamente
distrutti, non aveva alcuna possibilità di reazione allo scorrazzare dei carri che insistevano
nella loro azione. Anche il battaglione aveva subìto perdite paurose e anche in esso era
scomparsa ogni parvenza di reparto organico. La retroguardia della Tridentina cessava di
esistere. Pochi i superstiti di tutto il gruppo tattico e ridotti con le sole armi individuali e
poche munizioni.
Capitano Luigi Collo
II Battaglione Misto Genio, 6^ Reggimento Alpini
Il 20 gennaio 1943 la Divisione Tridentina ha lasciato da tre giorni le sue posizioni sul Don
per tentare di aprirsi una strada attraverso i paesi già occupati alle sue spalle dai russi e il
II Battaglione Genio Alpino è arrivato la sera precedente nella piana di Opyt con la colonna
del 6^ Alpini.
Ordini e contrordini si sono susseguiti nella notte per assegnare un compito operativo a
questo reparto che si è trasformato in reparto di alpini di linea. Me ne è stato assegnato il
comando e con me sono venti tenenti e sottotenenti che hanno fede in questi ragazzi che
non hanno avuto alcuna esitazione ad abbandonare i propri attrezzi tecnici per impugnare
il moschetto. Il nemico non è riuscito a mantenere il contatto con la nostra retroguardia
ma la situazione è molto incerta.
Nella piana brumosa ed uniforme dove l’unica tonalità di colore è il grigio, in una
situazione incerta e confusa il battaglione riceve le ultime disposizioni e lascia lo
schieramento assunto per raggiungere il 6^ Alpini già impegnato in violenti combattimenti
tra Repiewka e Postojalyi. In testa al reparto che si sta muovendo verso la pista di
Repiewka è con me il tenente Elio Bencini; ci seguono uomini e salmerie con una forza
complessiva di circa 550 uomini e 150 muli.
Alle sette del mattino la colonna che procede in silenzio è in fondo alla piana di Opyt e sta
filtrando tra una massa di slittoni ungheresi in sosta. Le armi pesanti sono state caricate su
slitte e avvolte in coperte per proteggerle dal gelo e consentirne l’impiego quando il reparto
avrà raggiunto il 6^ Alpini.
All’improvviso, quando i primi uomini sono usciti dal groviglio delle slitte ungheresi, si
scatena sul reparto un fuoco d’inferno. Cannoni e mortai hanno aggiustato il tiro sulla
nostra colonna e non è subito chiaro da dove provenga il fuoco; un attimo di incertezza
coglie il reparto che è scaglionato su una notevole profondità e non ha possibilità di
schierarsi perché invischiato in mezzo ai reparti ungheresi.
Ma la situazione si chiarisce subito; alle spalle dei genieri, dalle posizioni appena lasciate,
escono dalla bruma che riduce il campo visivo 12 carri T 34 scortati da ingenti forze di
fanteria sovietica. Certamente le truppe che stanno dietro a noi sono state sopraffatte
prima di poter intervenire e l’attacco si sviluppa contro di noi e contro l’abitato di Opyt
dove è ancora il comando della divisione.
Non abbiamo alcun mezzo anticarro, ma non c’è da esitare; occorre tenere la situazione in
pugno per evitare uno sbandamento degli uomini che sono al loro battesimo del fuoco. Alla
nostra sinistra un ripido canalone fortemente innevato e difficilmente percorribile dai carri
adduce ad una posizione più facilmente difendibile, ai margini di un piccolo bosco. Nel
frastuono dei colpi in arrivo gli ordini sono immediati; il tenente Bencini con il grosso del
reparto dovrà raggiungere il bosco e schierarsi a difesa; Fabiani con un plotone si butta al
riparo di alcuni pesanti carriaggi ungheresi e dovrà proteggere il movimento di tutti gli
altri.
Il fuoco che si scatena sul reparto è micidiale e gli ungheresi che sono intorno a noi,
buttando le armi e arrendendosi al nemico, ritardano il nostro movimento e la nostra
reazione, e le perdite sono gravissime da parte nostra. Ma non è dell’insieme di questa
azione, condotta in modo brillante da tutti i genieri del II Battaglione che riuscirono a
fermare a Opyt le avanguardie russe, che voglio parlare; ma del comportamento di alcuni
valorosi genieri dal cui sacrificio è dipeso il risultato del combattimento.
Siamo ancora al momento della sorpresa iniziale. Le armi pesanti del reparto sono caricate
sulle slitte e non è facile raggiungerle in mezzo al caos creato dalle slitte ungheresi. La loro
utilizzazione è però indispensabile per contrapporre alle armi del nemico la loro massa di
fuoco, e i due mitraglieri della compagnia trasmissioni, caporale Caregnato e geniere
Ragazzoni non hanno un attimo di esitazione.
Mentre il tenente Fabiani con il suo plotone che dispone di pochi mitragliatori, si schiera a
ridosso delle slitte ungheresi, in un’impresa che non ha alcuna possibilità di scampo
Ragazzoni e Caregnato buttano il pesante cappotto e si slanciano di corsa verso le salmerie
che più indietro arrancano faticosamente tra le slitte ungheresi. In pochi istanti le loro
armi sono scaricate e vengono piazzate in un punto dominante; i conducenti stessi animati
dal loro esempio li aiutano a portare le cassette di munizioni.
Mentre il grosso del battaglione pur subendo gravi perdite riesce a sottrarsi all’incalzare
dei russi ed a schierarsi a difesa in posizione favorevole, i due mitraglieri rimangono al loro
posto e col tiro rabbioso delle loro armi seminano la morte tra le file dei russi che
avanzano. Nessuno potrà fermare questi due magnifici soldati; solo il destino che,
purtroppo, per loro è già segnato. Caregnato è il primo a cadere, colpito da una scheggia di
mortaio e si accascia sull’arma rovente mentre Ragazzoni spara ancora. Intorno a lui molti
russi cadono e pare che il loro fuoco non possa nulla contro questo magnifico soldato.
Infine è un T 34 che si profila dinanzi alla sua arma; ma Ragazzoni non desiste e non cerca
scampo; sul carro numerosi tiratori russi sparano su di lui e sul reparto ancora in
movimento ma Ragazzoni impavido li abbatte; poi cerca ancora di opporsi al carro e
rabbiosamente spara contro i cingoli e contro la massa d’acciaio che incombe su di lui. Non
può far nulla contro il mezzo corazzato, ma il geniere non si arrende. Fino a quando il carro
non lo travolge, Angelo Ragazzoni non cessa di sparare; la sua forza, il suo coraggio e il suo
eroismo nulla hanno potuto contro la massa d’acciaio.
A destra di questi due eroici genieri è ancora abbarbicato alle slitte ungheresi il tenente
Fabiani con il suo plotone ridotto ad un pugno di uomini. La sua difesa è ancora necessaria
perché una parte degli uomini del battaglione non ha ancora raggiunto la posizione
prescelta dal comandante. I russi sono ormai a breve distanza ma le poche armi di cui
dispone li fa ancora rallentare. Poi improvvisamente Fabiani è colpito da una raffica al
ventre. Ormai la sua azione ha raggiunto lo scopo cui era destinata e l’ufficiale ordina ai
propri uomini di raggiungere il grosso.
Non può camminare e due genieri lo afferrano sotto le ascelle per trascinarlo via. Fabiani
visto che i due genieri rischiano di essere catturati dai russi perché con lui andrebbero
troppo lenti ordina loro di abbandonarlo e di mettersi in salvo. Non viene ubbidito e i due
uomini che lo trascinano via continuano ad arrancare faticosamente nella neve; Riccardo
Fabiani non ha un attimo di esitazione: estrae la pistola e si spara un colpo in bocca. I due
genieri soltanto ora abbandonano l’ufficiale morto e riescono a raggiungere il reparto.
24 gennaio 1943. I genieri alpini del 2^ Battaglione da tre giorni sono inquadrati nel 6^
Alpini e costituiscono la 54ª Compagnia del Vestone. Il giorno 22 hanno brillantemente
preso parte alla conquista di Scheljakino e procedono oggi in testa alla colonna. Io e il
tenente Bencini siamo sempre al comando di questo reparto di formazione che comprende
artieri, trasmettitori e fotoelettricisti.
Si procede faticosamente nella neve che ricopre la steppa infinita ed uniforme; il reparto da
più giorni manca totalmente di viveri e le munizioni sono scarse. Si spera di poter fare un
po’ di bottino in uno dei vari paesi che verranno attraversati in questa marcia senza fine. In
caso contrario gli uomini non potranno reggere a lungo. All’improvviso si arriva in vista di
un abitato che si estende in una lunga balka sulla destra del cammino della colonna. E’ il
piccolo centro di Malakijewa che subito si rivela fortemente presidiato da truppe russe
motorizzate.
L’attacco dei nostri reparti è immediato; bisogna impedire al nemico di assumere una
buona posizione difensiva o di mettersi in salvo per attaccarci poi durante la notte. I
genieri della 54ª che sono i primi ad attaccare, accompagnati dal fuoco dei pezzi della 32ª,
in pochi minuti sono già a ridosso delle prime case e il nemico è disorientato e sorpreso
dalla rapidità dell’attacco.
Mentre gli altri reparti del Vestone e del Val Chiese accerchiano il paese per impedire ai
russi di sottrarsi al combattimento, nell’abitato i genieri dilagano da ogni parte e lo scontro
si fraziona in mille episodi che disorientano il nemico per la rapidità e la decisione che
anima gli attaccanti. Pianon, Tumicelli, Vargiu, Cella ed altri con i loro ufficiali sono i più
animosi. Entrano nelle isbe lanciando bombe e sparando a bruciapelo senza dar tempo al
nemico di organizzarsi e di reagire.
Con pochissime perdite il paese è conquistato e quanti riescono a fuggire cadono sotto il
fuoco degli alpini del 6^ che hanno aggirato il paese. Tra gli episodi più salienti, l’azione
del geniere Tumicelli che da solo entra in un’isba dove sono appostati diversi russi armati.
Tumicelli è armato di una sola bomba a mano che tiene con i denti e di una sciabola da
cavalleria cosacca.
Prima che i russi abbiano tempo di reagire butta nel locale la bomba a mano a rischio di
essere colpito dalla sua stessa arma e nella confusione che si crea con lo scoppio, liquida
all’arma bianca tutti i presenti. Pianon e Vargiu a loro volta saltano rapidissimi da un’isba
all’altra e danno la caccia a quanti cercano di mettersi in salvo. Il tiro preciso dei loro fucili
abbatte numerosi nemici sulla porta delle isbe. Il caporal maggiore Cella, che cadrà poi
eroicamente a Nikolajewka, con Bencini, Gasparinetti e Toni Segat, è scatenato per il paese
alla caccia all’uomo. Con loro sono tutti i migliori uomini della compagnia, Fiacchi e
Battaggia, Stucchi e Contessi, Pintus e Peroni e il combattimento ha una durata brevissima.
Il comandante della compagnia è già in fondo al paese dove si congiunge con il reparto del
Val Chiese proveniente dalla sinistra con il capitano Gaza, e con le altre compagnie del
Vestone che hanno annientato tutti quelli che hanno cercato la salvezza nella fuga.
Finalmente per i valorosi genieri ci sarà anche tempo di cercare qualcosa da mettere sotto i
denti.
26 gennaio 1943. La lunga, interminabile fila di uomini affamati, laceri e semi congelati
che costituisce il grosso della colonna e che comprende superstiti della Julia e della
Cuneense, reparti vari del corpo d’armata, sbandati della Vicenza, ungheresi e tedeschi, ha
ancora la Tridentina a far da battistrada. I suoi reparti che hanno combattuto dal 17
gennaio ad oggi in condizioni disperate sono allo stremo delle forze; scarseggiano le
munizioni, mancano i viveri; la stanchezza, il gelo e la fame hanno decimato i reparti più
del piombo nemico, ma gli alpini vanno ancora avanti; nei loro sguardi una decisione
irremovibile di sfuggire a questo inferno a qualunque costo.
Con gli alpini della Tridentina i genieri superstiti del 2^ Battaglione costituiscono una
ormai sparuta 54ª Compagnia del Vestone e sono ancora in testa alla colonna, con la 53ª e
la 55ª. I reparti del 6^, alle otto del mattino, raggiunta la sommità di una lunga balka che
sale da Nikitowka e da Arnautowo, sono in vista dell’abitato di Nikolajewka. Un lungo
rilevato sul quale passa la ferrovia ai margini del paese compartimenta il terreno in due
settori ben distinti; al di qua, nella steppa nuda, gli alpini; al di là, nell’abitato di
Nikolajewka, con delle difese ben munite, i sovietici.
Il nostro comando non esita; bisogna attaccare subito e il Vestone, in ordine di
combattimento, sta già muovendo all’attacco, sulla destra. In testa è la 53ª, seguita dalla
54ª e dalla 55ª che è più a destra. Poi improvvisamente una batteria russa rivela la sua
posizione sulla sinistra vicino al casello ferroviario e il suo fuoco prende sul fianco gli alpini
che avanzano. La 54ª riceve l’ordine di attaccarla e di ridurla al silenzio. Sono poco più di
un centinaio di genieri che con me e sei ufficiali divergono subito dal precedente obiettivo e
si dirigono sulla batteria.
L’impresa è pressoché impossibile per lo scarso armamento di questi pochi uomini, per il
terreno completamente scoperto e innevato; comunque la batteria non da più fastidio alle
altre compagnie e scatena il suo fuoco sugli attaccanti. L’attacco prosegue malgrado le
gravissime perdite; sulla sinistra sto io con il grosso della compagnia, sulla destra è il
tenente Bencini che con circa 40 uomini punta su un pezzo da 75 spostato più sulla destra,
che continua ininterrottamente a sparare.
L’azione non ha sosta; non c’è tempo di pensare o di fare dei piani; in questo inferno di
fuoco dove si avanza senza alcun riparo e senza poter rispondere al fuoco del nemico,
occorre soltanto far presto per arrivare sui pezzi prima che il nemico abbia fatto fuori tutti
gli attaccanti. Intorno a noi cadono Colle, Falcone, Rossi, Contessi ed altri; ma anche se i
vuoti non possono venir rimpiazzati, nessuno si arresta.
In questa lotta impari Bencini con i suoi uomini, malgrado le gravissime perdite piomba
sul pezzo di destra, elimina i difensori e riesce a portarsi fino al rilevato della ferrovia dove
deve subire altre gravissime perdite per forzare il sottopassaggio. In questa azione tra gli
altri cade il caporal maggiore Cella che si era particolarmente distinto in tutti gli altri
combattimenti, mentre tenta di eliminare i difensori russi del passaggio. Con i pochi
uomini rimasti il valoroso tenente Bencini penetra finalmente nel paese dove infuria il
combattimento tra i russi e gli altri reparti del Vestone che, grazie al sacrificio dei genieri,
sono riusciti a superare la ferrovia.
Più a sinistra il resto della compagnia, sotto il fuoco di due pezzi da 75 e di un gruppo di
mitragliatrici ha maggior difficoltà ad arrivare ai pezzi. Le perdite sono fortissime per il
fuoco infernale che si scatena sugli uomini che avanzano, ma mi riesce di portarmi a
distanza di lancio di bombe a mano con gli ultimi 25 superstiti.
Nell’azione finale, rabbiosa e violenta dell’assalto questi pochi uomini, pur subendo altre
perdite riescono ad avventarsi sul nemico e a conquistare la posizione all’arma bianca.
Anch’io vengo ferito ad una spalla, ma nessuno desiste dal combattimento e riusciamo a
conquistare le piazzole insanguinate. Però l’azione non è ancora finita, perché su questi
pochi uomini che tentano inutilmente di girare i pezzi verso il nemico si scatena ancora il
contrattacco dei russi. Sulle piazzole dei pezzi battute dal fuoco di artiglieria e delle armi
automatiche questi pochi difensori rimangono ancora spavaldamente per impegnare il
maggior numero di forze russe.
La posizione è insostenibile e mancano totalmente le munizioni. Il solo caporale Vargiu che
possiede ancora due caricatori è ancora appostato dietro agli scudi di un pezzo e i suoi
colpi non andranno perduti. Questo eroico giovane sardo, sempre il primo in tutte le
precedenti azioni ancora una volta è di esempio a tutti e riesce a tenere a bada con il
preciso tiro del suo fucile il nemico che vorrebbe mettere fine a questo episodio. Poi le
ultime munizioni finiscono e sui pezzi conquistati non sono rimasti che il caporale Vargiu
ed io stesso, soli superstiti.
Occorre cercare una via di salvezza riunendoci ai reparti che combattono in paese prima
che il nemico riesca a colpirci. L’unica via da tentare è per circa trenta metri totalmente
allo scoperto ma consente di arrivare al sottopassaggio della ferrovia ormai non più tenuto
dai russi. Il primo a tentarla è il caporale che parte di corsa nell’intento di sorprendere il
nemico e di passare. Vargiu riesce a passare indenne malgrado la violentissima reazione
dei russi e raggiunge il sottopassaggio e poi il paese.
Purtroppo questo valoroso geniere non riuscirà a ricongiungersi con gli altri alpini e alla
sera sarà dato disperso. Io, che dopo di lui tento la stessa sorte, vengo invece colpito
gravemente da un colpo di mitragliatrice e cado in mezzo ai miei genieri che giacciono
all’intorno sul terreno. La ferita non è però mortale, e dopo essere riuscito a trarre in
inganno i russi sopraggiunti fingendomi morto e lasciandomi depredare da questi, riuscirò,
malgrado le ferite, a raggiungere la colonna e a riunirmi ai vittoriosi di Nikolajewka.