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DIRITTO COSTITUZIONALE

E’ il diritto di un ordinamento giuridico che ha come fondamento la Costituzione. L’ordinamento


giuridico è il complesso delle norme di un’organizzazione sociale, che danno vita ad un sistema
stabile, unitario, coerente e completo. La Costituzione è la base di tale sistema e ne determina la
forma. La Costituzione comprende le norme fondamentali che disciplinano la società e i principi che
stabiliscono i diritti dei cittadini. La Costituzione Italiana è un modello fondamentale per le Costituzioni
democratiche di tutto il mondo.

Che cosa disciplina la Costituzione? La Costituzione italiana si divide in:


• Art.1-12: principi fondamentali (Catalogo)
• Art. 13-54: sono disciplinati i diritti e di doveri dei cittadini e i rapporti tra i singoli e l’autorità (Diritti
e doveri dei cittadini)
• Art.55-139: è disciplinata la divisione dei poteri tra i soggetti dotati di autorità e il rapporto tra lo
Stato, le autonomie territoriale e le organizzazioni sovranazionali (Ordinamento della Repubblica)

Da ciò si evince l’obiettivo di fondo delle Costituzioni democratiche:


- garantire i diritti dei cittadini
- separare i poteri, in modo tale da non attribuirli ad un solo individuo o organo
- creare equilibrio tra gli organi di governo a garanzia della limitazione del potere, considerato
sempre e comunque pericoloso

I diritti, la loro garanzia e la divisione dei poteri sono gli elementi fondanti della Costituzione italiana.
Tutto questo è sintetizzato nei 13 principi fondamentali che aprono la Costituzione e su cui si fonda
il nuovo ordinamento, che nasce dalle macerie della guerra e del fascismo. i valori che l’Assemblea
Costituente promuove sono in netta opposizione rispetto all’esperienza fascista; tra questi figurano:
✦ Principio democratico (art.1)
✦ Principio personalista (art.2)
✦ Principio di uguaglianza (art.3)
✦ Ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art.11)

La Costituzione ha altre due funzioni:


➔ Stabilisce le modalità secondo le quali si produce il diritto; determina quindi in che modo e
entro quali limiti il parlamento, governo e le regioni possono produrre il diritto; ordina le fonti del
diritto, di cui occupa il vertice, e regola i rapporti tra di esse. Uno dei temi più complessi per i
giuristi è quello di ordinare e coordinare tale sistema.
➔ Stabilisce come si modifica e come si protegge la Costituzione. Lo Statuto Albertino
(Costituzione che viene a regolare il Regno di Sardegna dal 1848 al 1861 e poi il Regno d’Italia
fino al 1948, non prevedeva un processo di revisione e nemmeno un regolamento che potesse
andare a proteggere le sue norme nel caso in cui il Legislatore le violasse. Nel momento in cui
vennero approvate le leggi liberticide di stampo fascista, lo Statuto Albertino non aveva gli
strumenti per contrastarle. Le nuova Costituzione del 1948 prevede invece un procedimento
aggravato per la sua modifica, che necessita in alcuni casi anche l’intervento del corpo elettorale
attraverso i cosiddetti Referendum costituzionali. A tutela delle norme costituzionali, vi è la Corte
Costituzionale, organo giurisdizionale che ha come funzione fondamentale quella di garantire che
le leggi non contrastino con la Costituzione.

Il popolo, come stabilisce l’art.1 comma 2, possiede la sovranità che può essere esercitata entro i
termini e i limiti stabiliti dalla Costituzione. La sovranità del popolo, quindi, non è assoluta. Vi sono
alcuni principi costituzionali che non possono subire modifiche nemmeno con un procedimento
aggravato, in quanto ciò provocherebbe un crollo dell’intero sistema. Se venisse modificato l’art.139,
che non permette il passaggio ad un ordine diverso rispetto a quello repubblicano, l’intero sistema
governativo, giuridico e sociale italiano verrebbe sconvolto.

Il diritto costituzionale studia il rapporto tra potere e libertà, il tentativo di limitare l’arbitrio del potere
attraverso il diritto. E’ dunque il diritto che tutela i cittadini contro il potere, soprattutto quello pubblico,
visto come una continua ed estrema minaccia.

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LO STATO
Stato è il nome dato ad una particolare forma storica di organizzazione del potere politico, che
esercita il monopolio della forza legittima in un determinato territorio e si avvale di un apparato
amministrativo. Lo Stato moderno nasce e si afferma in Europa tra il XV e il XVII secolo e si
differenzia dalle precedenti organizzazioni del potere politico per:
• Concentrazione del potere di comando legittimo nell’ambito di un determinato territorio in capo ad
un’unica autorità;
• Presenza di un’organizzazione amministrativa in cui opera una burocrazia professionale;

LE FORME DI STATO
Con l’espressione forma di stato si intende il rapporto che corre tra lo Stato e la società civile,
nonché l’insieme dei principi e dei valori a cui lo Stato ispira la sua azione. In base alla modulazione
di questi rapporti, si vanno a delineare forme di Stato differenti, in base alla finalità che lo Stato
persegue nell’esercizio delle sue funzioni. In ogni epoca storica vi furono obiettivi prevalenti: per
esempio, lo scopo principale dello Stato liberale era quello di garantire l’autonomia e la libertà
dell’individuo, astenendosi anche dall'intervento nella società e nell’economia per tutelare la sfera di
libertà riconosciuta ai cittadini.

Gli studiosi, comparando diverse fattispecie storiche di Stati, hanno elaborato una classificazione che
comprende 5 forme di Stato diverse, che si sono alternate e susseguite dal ‘500 fino ai giorni nostri:
1. Stato assoluto
2. Stato liberale
3. Stato totalitario
4. Stato socialista
5. Stato democratico-sociale

Non si tratta di rappresentazioni perfette delle diverse specie di forme di stato, ma di modelli che
permettono di comprendere l’individualità di ogni sistema costituzionale e di individuare la logica, di
individuare i fattori storico-istituzionali che permettono l’affermazione di una data forma di Stato e di
cogliere gli elementi fondanti di ogni ordinamento.
N.B. Con forma di governo si intendono i modi in cui il potere è distribuito tra gli organi principali di
uno Stato-apparato e l’insieme dei rapporti che intercorrono tra di essi.

STATO ASSOLUTO
Lo Stato assoluto è la prima forma di Stato moderno. Nasce in Europa tra ‘400 e ‘500 e si afferma
soprattutto nei secoli successivi. Si caratterizza per l’esistenza di un apparato autoritario separato
e distinto dalla società e per l’affermazione di un potere sovrano attribuito al Re e alla Corona.
La volontà di quest’ultimo era la fonte primaria del diritto e il suo potere non incontrava limiti legali
né poteva essere influenzato dalle richieste dei sudditi: non trovava infatti legittimazione nel
popolo, ma nella sua origine divina. L’instaurazione di uno stato in cui i poteri fossero concentrati in
un’unica figura si rese necessario per superare il divisionismo tipico dell’ordinamento feudale, che
non permetteva un controllo assiduo e ordinato sul territorio. L’evoluzione della società e lo sviluppo
economico richiedevano apparati burocratici ben organizzati, non più affidati a potenti locali. La vera
eredità dello Stato assoluto fu quella di aver dato un impulso alla costruzione di uno Stato unitario, in
cui il sovrano può tutto e non è vincolato da norme esterne.

Lo Stato assoluto ebbe un’evoluzione diversa nelle varie aree geografiche:


‣ L'esempio di massima realizzazione dello Stato assoluto è la Francia di Luigi XIV, in cui la
nobiltà feudale venne completamente sottomessa e si accontentò di rientrare nella cerchia
aristocratica del Re alla Corte di Versailles. Lo Stato assoluto era onnipresente e si inserì anche
in ambito economico: nella Francia di Luigi XIV venne messo in atto il mercantilismo, che si
basava sull’idea che la fama del sovrano dipendesse dalla prosperità del regno. Era necessario
dunque promuovere le industrie e produrre sempre più beni da vendere all’estero.

‣ In Inghilterra invece l'assolutismo si affermò solo parzialmente nel ‘500 con la dinastia dei Tudor,
ma fallì con gli Stuart. Questo si verificò per il forte peso delle consuetudini locali, delle leggi
territoriali e delle usanze che rimasero sempre vive in Inghilterra, insieme ad un’alleanza molto
stretta tra la borghesia e l’aristocrazia rurale, che aveva trasformato la rendita fondiaria in impresa
manifatturiera.

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‣ In Prussia e Austria si affermò l'assolutismo illuminato, in cui il compito del sovrano era quello di
promuovere il benessere della popolazione, avviando attività sociali e costruendo infrastrutture

‣ L’italia tra ‘500 e ‘600 è occupata da altre potenze, come gli austriaci, cosa che rende impossibile
lo sviluppo di uno Stato assoluto

La caduta dello Stato assoluto si verificò per le stesse ragioni per cui era emerso secoli prima.
Principalmente si trattò di motivi finanziari: i costi crescenti per il suo funzionamento non erano
tollerati soprattutto dalla borghesia e vi era un’incapacità di fondo di far coesistere il potere sovrano
del Re con la sfera delle libertà che dovevano essere riconosciute alle varie componenti della società.
La rivoluzione industriale e lo sviluppo di un’economia mondiale stavano rendendo sempre più
potente la classe borghese, che voleva superare un’organizzazione statale fondata
sull’accentramento del potere nelle mani di un singolo individuo. Ciò diede la spinta verso le grandi
rivoluzioni borghesi: nel ‘600 in Inghilterra, nel ‘700 in Francia e negli Stati Uniti e nell’800 nel resto
d’Europa:

- Inghilterra Nonostante gli sforzi degli Stuart, in Inghilterra l’assolutismo non riuscì mai ad affermarsi
totalmente, a causa del grande potere del Parlamento e del Common Law (insieme delle norme
consuetudinarie riconosciute dalla borghesia e dalla nobiltà di campagna. Erano questi istituti ad
assicurare la sottomissione del sovrano ai limiti imposti dal diritto. La situazione degenerò nel 1689,
sotto il regno di Giacomo II, con la Gloriosa Rivoluzione. In tale occasione venne reciso
definitivamente il legame tra monarchia e assolutismo senza troppi spargimenti di sangue: il Re, che
non poteva più pretendere l’appoggio dei sudditi per aver violato le leggi fondamentali del paese,
venne dichiarato abdicato e salì al trono Guglielmo d’Orange. Tale evento fu estremamente
significativo perché venne stabilito che il sovrano era sottoposto e vincolato dal diritto; il re venne
dichiarato abdicato e non destituito in modo tale che il Parlamento non potesse prendere i pieni
poteri e si potesse creare invece un equilibrio tra istituzioni; vennero emanate la Declaration of
Rights e il Bill of Rights in cui si riaffermavano i diritti fondamentali dei cittadini. Si instaurò così la
forma di governo parlamentare, secondo cui il governo non risponde al sovrano ma sempre più al
Parlamento.

- Stati Uniti La società americana era formata da emigranti, che si erano trasferiti per fuggire da
regimi oppressivi o in cerca di fortuna. L’Inghilterra, dal canto suo, voleva trarre ricchezze dalle
Colonie americane, imponendo nuove tasse senza il consenso delle assemblee legislative locali. Gli
americani reagirono facendo valere il principio, saldo nel costituzionalismo inglese, secondo cui era
considerata illegittima qualsiasi tassazione che non fosse approvata dai rappresentanti eletti. Il 4
luglio 1776 si giunse alla Dichiarazione d’Indipendenza, cui seguì una guerra lunga 7 anni. Nel
1788 entrò in vigore la Costituzione americana, redatta dai delegati dei tredici Stati Americani, riuniti
nella Convenzione federale di Filadelfia. Il documento originale prevedeva solo 6 articoli, che
vertevano sul potere legislativo, potere esecutivo, potere giudiziario, gli Stati e la modifica della
Costituzione. L’obiettivo era quello di creare un governo forte e autorevole, basato sul consenso
popolare, in cui vigeva la separazione dei poteri e la divisione del territorio (Federalismo).

- Francia Era il paese in cui l’assolutismo aveva attecchito maggiormente, ma anche quello in cui la
risposta fu più violenta. La Rivoluzione del 1789 portò a enormi sconvolgimenti: date le agitazioni
diffuse, la borghesia chiese la convocazione degli Stati generali, a cui aderì anche il primo ministro
del Re, con l’obiettivo di creare un’assemblea costituita da membri eletti a suffragio più esteso
rispetto alla nobiltà e al clero (“Terzo Stato”). Il 5 maggio gli Stati generali si dichiararono Assemblea
nazionale, con l’obiettivo di dare alla Francia una Costituzione. Venne approvata anche la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che sanciva la conservazione dei diritti naturali
dell’uomo, l’eguaglianza di fronte alla legge, la separazione dei poteri. Dopo il governo del direttorio
e la dittatura di Napoleone, venne restaurata la monarchia, a cui seguì la rivoluzione proletaria e poi
l’Impero di Luigi Napoleone. Le leggi costituzionali del 1875 diedero inizio alla Terza Repubblica,
periodo di stabilità che durò circa 70 anni.

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STATO LIBERALE
Lo Stato liberale nasce tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, a seguito della crisi dello Stato
assoluto, dell’affermazione della borghesia e dello sviluppo di un’economia capitalistica. Lo
Stato assoluto ostacolava la nuova economia di mercato di stampo capitalista, basata sul massimo
decentramento, in cui erano le interazioni tra domandanti e offerenti a determinare il prezzo e
l’equilibrio di mercato, principalmente per il controllo assiduo dello Stato nella sfera economica e per il
particolarismo giuridico, che non permetteva lo sviluppo dei traffici commerciali e rendeva incerti i
rapporti economici.

Il sistema capitalista richiedeva la certezza dei diritti di proprietà di venditori e compratori, la


piena libertà contrattuale e la circolazione dei fattori produttivi, che non dovevano essere assimilati
dai meccanismi statali. Si andò a creare progressivamente una società civile, scissa dallo Stato, che
richiedeva il riconoscimento dell’autoregolazione e dello sviluppo di interessi personali. In questo
senso si possono cogliere due tendenze tipiche dello Stato liberale: le codificazioni costituzionali, che
permettevano di riunire in un unico documento i principi sulla titolarità e l’esercizio del potere, e
dall’altro le codificazioni civili e penali, che riunivano le normative sui rapporti tra privati, dotate di
generalità, astrattezza e certezza (il modello era il codice Napoleonico del 1804).

I caratteri fondamentali dello Stato liberale sono:

➔ Stato garantista, ossia deve tutelare le libertà e i diritti degli individui, in primo luogo del diritto di
proprietà. Locke sosteneva infatti che gli uomini nascono liberi, ma poi si assoggettano al potere
per avere assicurata la tutela del diritto di proprietà. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789 viene detto che “tutte le società nelle quali la garanzia dei diritti non è
assicurata e la separazione dei poteri non è determinata, non hanno Costituzione”.

➔ Stato minimo, ossia lo scopo dello Stato liberale deve essere esclusivamente quello di garantire
i diritti fondamentali agli individui. A differenza dello Stato assoluto, prevede infatti l’astensione
dall’intervento nella sfera economica, affidata alle libere decisioni degli individui secondo i loro
interessi (Liberismo). L’intervento dello Stato nell’economia era infatti spesso la causa
dell’arretratezza economica dello Stato. Ciò trova la sua ragione nella paura del potere da parte
dello Stato liberale sia sul piano dei diritti economici sia civili, in quanto era visto come qualcosa
che poteva interferire sulle libere decisioni dei singoli. Gli obiettivi del liberismo erano la riduzione
della tassazione e il pareggio di bilancio (no investimenti che portano all’indebitamento).

➔ Principio di libertà individuale, ossia lo Stato riconosce e tutela le libertà personali, la proprietà
privata e la libertà contrattuale, tutte riferite esclusivamente all’individuo. Lo Stato liberale si
contrappone dunque agli ordinamenti tipici del regime feudali in cui organi intermedi assorbivano i
diritti propri dei singoli.

➔ Separazione dei poteri: da Montesquieu in poi l’idea preponderante fu quella di limitare il potere
distribuendolo tra organi diversi. I soggetti istituzionali che detengono il potere politico si
controllano, in tal modo, reciprocamente.

➔ Cittadinanza, è un concetto che si sviluppa durante la Rivoluzione francese e si identifica con la


posizione dell'uomo libero, ossia il cittadino maschio titolare di diritti perché libero (finalità
fondamentale dello stato liberale). Oggi si intende l’appartenenza a uno Stato in contrapposizione
alla condizione dello straniero.

➔ Principio rappresentativo, che si traduce nella legittimazione dal basso dei governanti. Le
assemblee legislative dello Stato liberale rappresentavano l’intera nazione, ma i parlamentari
erano eletti da un corpo elettorale molto ristretto, che comprendeva per lo più solo la borghesia.
Si attribuiva il diritto di voto infatti solo a cittadini ritenuti particolarmente capaci e ritenuti
interessati alla buona gestione dello Stato: ciò si traduceva in un livello minimo di istruzione e di
reddito per accedere al diritto di voto. L’elettorato attivo rappresentava quindi circa il 2%
dell’intera popolazione. Per queste ragioni lo Stato liberale era detto Stato monoclasse, in quanto
tutto era circoscritto alla borghesia e vi era grande omogeneità tra la classe dei governanti e
quella dei governati. Si trattò comunque di un passaggio epocale che segnò il passaggio dalla
condizione di sudditi a quella di cittadini

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➔ Principio di legalità, secondo cui la tutela dei diritti è affidata alla legge; ogni limitazione della
sfera di libertà riconosciuta a ciascun individuo deve avvenire per mezzo della legge; l’esercizio
del potere deve avere l’autorizzazione legislativa e non esistono potestà pubbliche che non siano
espressamente previste dalla legge. Il principio di legalità rende lo Stato liberale uno Stato di
diritto, che si basa su alcuni pilastri fondamentali come la separazione dei poteri, la tutela
giurisdizionale dei diritti, il principio di eguaglianza, ecc. I presupposti per l’applicazione del
principio di legalità sono le caratteristiche di generalità e astrattezza delle norme (solo se
generale e astratta la legge è garanzia delle libertà e non si trasforma in uno strumento di arbitrio)
e l’omogeneità negli obiettivi tra i rappresentanti e i membri della Nazione.

Dallo Stato liberale allo Stato totalitario


Tra ‘800 e ‘900 si assistette ad un progresso sociale ed economico molto rilevante, che portò al
passaggio dallo Stato liberale monoclasse, ad uno pluriclasse, che si fondava sul riconoscimento e la
garanzia della pluralità dei gruppi, degli interessi, delle idee e dei valori. Sono gli anni in cui coloro
che erano esclusi dal potere iniziano a premere nella società e nel mondo politico: a ciò segue
l’allargamento dell’elettorato attivo, che in alcuni paesi giunge al suffragio universale marchile, la
nascita dei partiti di massa e dei sindacati.

La concessione del diritto di voto fu un processo progressivo, differente nei vari Stati:
- nel Regno Unito tale processo ebbe inizio nel 1832, ma raggiunse una svolta nel 1919 con
l’introduzione del suffragio universale e nel 1969 quando il diritto elettorale venne esteso a tutti gli
individui dai diciotto anni di età;
- in Italia nel 1912 si raggiunse il suffragio universale maschile (21 anni di età, che sapessero
leggere e scrivere e che avessero prestato servizio militare); nel 1946 il diritto di voto venne
esteso anche alle donne e nel 1975 l’età minima per il diritto di voto venne abbassata a diciotto
anni
- la Francia, la Germania e la Svizzera riconoscevano il suffragio universale maschile già dal 1890,
ma per alcuni anni ancora non venne permesso l’ingresso vero e proprio delle masse nell’attività
politica e di esercizio del potere

Altro elemento fondamentale nel passaggio dallo Stato liberale alla democrazia pluralista fu lo
sviluppo dei grandi partiti di massa, caratterizzati da una solida struttura organizzativa che ha
consentito loro di essere radicati nella società e di diventare strumenti di mobilitazione popolare e di
integrazione delle masse nelle istituzioni politiche. L’apparato organizzativo dei partiti di massa tiene
in stretto contatto eletti ed elettori ed è formato da persone che si dedicano professionalmente alla
politica.

I principali partiti di massa che si svilupparono sono:


➔ Partito socialista, che trovò il consenso delle masse operaie; esso mirava a tutelare le
condizioni di vita delle classi più deboli e a costruire una nuova società basata
sull’uguaglianza sostanziale di tutte le donne e gli uomini.
➔ Partiti cattolici, che assunsero un ruolo importante in molti paesi, soprattutto in Italia. Dopo il
non expedit di Papa Pio IX, il pontefice Pio X diede il suo consenso alla partecipazione dei
cattolici alla vita politica: si andarono così a formare partiti di stampo cattolico in posizione
anti-socialista, fino alla nascita nel 1919 del Partito Popolare italiano di Don Luigi Sturzo.

La nascita di questi partiti con ideologie molto diverse fece emergere, dato il coinvolgimento del
popolo, delle divisioni all’interno della società, che si spostarono in Parlamento e si trasformarono in
dibattito politico. Tre erano gli elementi fondamentali che differenziavano lo Stato liberale dal
nascente Stato di democrazia pluralista:
1. i partiti di massa, che organizzavano la partecipazione politica di milioni di elettori
2. la configurazione degli organi elettivi come luogo di confronto di interessi eterogenei
3. il riconoscimento di diritti sociali per l’integrazione dei gruppi più svantaggiati

In alcuni Stati, come il Regno Unito, l’affermazione dei principi democratici e il passaggio dallo Stato
liberale allo Stato democratico non incontrarono grandi ostacoli e permisero l’instaurazione di governi
stabili ed efficaci, arrivando alla legittimazione reciproca tra i partiti. In altri paesi, invece, come la
Germania e l’Italia, non si riuscì a trovare un accordo tra le varie forze e il conflitto sociale divenne
sempre più forte fino all’affermazione di una forma di Stato tutt’altro che democratica, lo Stato
totalitario.

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STATO TOTALITARIO
Lo scoppio della I guerra mondiale porta enormi sconvolgimenti alla vita sociale: masse di persone
abbandonano il loro luogo di nascita, si assiste alla caduta di imperi, a grandi rivoluzioni e alla crisi
profonda dello Stato liberale. A questi eventi, ciascuno Stato reagisce in modo differente:
- in Italia si passa dal liberalismo al fascismo
- in Germania si passa dal liberalismo al nazismo
- in Russia l’assenza totale di istituzioni liberali favorisce il passaggio dallo zarismo al comunismo
sovietico
- nelle democrazie più mature, invece, si assiste ad una progressiva trasformazione dello Stato
liberale in senso democratico (Stati Uniti, Regno Unito, Francia). Negli Stati Uniti, durante gli anni
20, si mantiene un’economia di tipo liberista. Dopo la crisi del ‘29, il presidente Roosevelt mette in
atto una serie di riforme che cambiano drasticamente l’economia e la società stessa.

In Germania dopo la IGM era stato rimosso l’Imperatore ed era stata emanata nel 1919 la
Costituzione di Weimar, con la quale si tentava una profonda democratizzazione del paese,
riconoscendo e garantendo i diritti sociali, che miravano a ridurre le disuguaglianze materiali dovute
alla differente distribuzione delle ricchezze tra le persone. La Repubblica di Weimar mantenne una
certa stabilità fino alla crisi del 1929, grazie all’appoggio della maggioranza parlamentare e del
Governo. Dopo tale evento, divenne sempre crescente la frammentazione politica in partiti sempre
più piccoli, tra cui in si riusciva a trovare un accordo. A partire dalle elezioni del 1930, il partito
nazionalsocialista di Adolf Hitler iniziò ad ottenere sempre più consensi e nel 1932 Hitler venne
nominato Cancelliere e diede avvio alla costruzione dello Stato nazista, lo Stato totalitario meglio
realizzato nella storia.

Lo Stato nazista rimase operante in Germania dal 1933 al 1945. Nell’ordinamento instaurato da Hitler,
gli interessi individuali erano subordinati agli obiettivi dello Stato, verso il quale si indirizzavano tutti gli
sforzi. La finalità dello Stato totalitario nazista era quella di incidere valori nuovi nella mente delle
persone, in modo tale da renderle strumenti utili alle finalità statali; a questo proposito l’intervento
statale incideva sulla sfera economica (massimo rafforzamento dell’appararo militare) e istituzionale e
disconosceva ogni diritto individuale. Venne abolito il pluralismo sociale e politico e l’unico partito
legale divenne il partito nazional socialista di Hitler; furono cancellate tutte le istituzioni di garanzia, in
quanto ai giudici venne chiesto di operare secondo lo spirito del popolo tedesco e della volontà del
potere; Hitler divenne capo del Governo, dello Stato e delle forze armate, accentrando su di sé il
potere di revisione costituzionale, quello legislativo, quello esecutivo e quello giurisdizionale.

La crisi delle istituzioni liberali aprì la strada all’affermazione dello Stato totalitario anche in Italia.
Nelle elezioni del 1919 non si riuscì a trovare un accordo tra i vari partiti politici e il Re decise di
affidare il Governo a Giolitti, il quale pensava di risolvere la situazione creando un blocco nazionale
che comprendeva forze che andavano dai liberali ai fascisti. In poco tempo il Partito fascista acquisì
sempre più consensi fino alla nomina, da parte del Re, di Mussolini in seguito all’evento ricordato con
il nome di “marcia su Roma” del 1922. La rottura con la democrazia e l’instaurazione dello Stato
totalitario ebbero inizio prima con l’approvazione della Legge Acerbo, che attribuiva i due terzi dei
seggi in Parlamento alla lista che avesse ottenuto più voti, purché in percentuale in inferiore al 25%, e
l’omicidio di Matteotti, deputato che aveva denunciato i brogli elettorali messi in atto dai fascisti nelle
elezioni del 1924 per ottenere maggiori consensi. Dal 1925 in poi iniziò il consolidamento dello Stato
fascista, che portò a numerose modifiche istituzionali, all’abolizione del pluralismo politico e al
riconoscimento di un solo partito legale, quello fascista. Lo stato fascista operò in Italia dal 1922 al
1943; l’esperienza fu molto simile a quella tedesca, ma meno totalizzante. Certamente lo Stato si
riteneva legittimato ad intervenire in tutte le sfere di influenza per orientare gli interessi degli individui,
sopprimendo le libertà personali, verso gli obiettivi dello Stato, ma in Italia rimasero sempre, oltre al
partito fascista, altri poli che esercitavano il loro potere: il Re, la Chiesa e il Senato. La Costituzione
italiana nacque in netta opposizione allo Stato fascista: essa infatti prevede norme che impediscono
la restaurazione di un ordinamento politico di matrice nazifascista. Un altro esempio di Stato totalitario
è lo Stato socialista, il cui riferimento storico è dato dagli Stati membri dell’URSS. Tale forma di Stato
nacque da una critica all’impostazione economica dello Stato liberale, indirizzata in particolare al
diritto della proprietà privata: l’obiettivo di socialisti e rivoluzionari divenne infatti quello di instaurare la
cosiddetta “dittatura del proletariato”, una società senza classi e senza conflitti sociali, in cui la
proprietà privata sarebbe stata abolita e tutti i mezzi di produzione sarebbero stati ceduti allo Stato.
Tale ordinamento si rinnegava in particolare la classe borghese. Venne abolito il pluralismo politico e
si affermò l’unico partito legittimo, quello dei soviet, con cui si abbandonò definitivamente
l’ordinamento democrativo. Alla fine degli anni ‘80 del ‘900 gli Stati dell’URSS entrarono in una
profonda crisi, che culminò con la caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989.

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STATO DEMOCRATICO-SOCIALE
La democrazia pluralista si consolidò dopo la fine della II guerra mondiale: in alcuni Stati, come
l’Italia, ricominciò il processo di sviluppo costituzionale che era stato interrotto dalla parentesi
autoritaria; in altri, come la Francia, vennero rivitalizzati i principi liberali e democratici sacrificati dalla
guerra e dall’occupazione straniera; in altri ancora, come il Giappone e la Germania, la democrazia
venne imposta dalle potenze vincitrici della guerra. In questi ordinamenti non erano garantite solo le
libertà tipicamente liberali (libertà di domicilio, religiosa, di pensiero, ecc), ma si affermarono i principi
del pluralismo politico, sociale, religioso e culturale. L’art.49 della Costituzione italiana sottolinea e
garantisce il pluralismo dei partiti politici, affermando che tutti i cittadini hanno diritto di associarsi
liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
Oltre a ciò, nel testo costituzionale italiano, il pluralismo sociale è tutelato al massimo grado in tutti gli
ambiti (religioso, culturale, scolastico, lavorativo), in quanto l’art.18 sancisce la libertà di associazione
di tutti i cittadini per perseguire qualsiasi fine, salvo quelli vietati dalla legge.

Si assistette, inoltre, all'affermazione del cosiddetto Stato Sociale o Welfare State: esso prevedeva il
riconoscimento dei diritti sociali (diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro), che per essere garantiti
necessitavano dell’intervento dello Stato nella società e nell’economia per ridurre le disuguaglianze
tra i cittadini derivanti da disparità di reddito e di opportunità della vita. Garantendo tali diritti, lo Stato
interveniva in maniera importante nella vita economica dei cittadini, assumendo la funzione di
amministratore e non solo di legislatore. Lo Stato liberale era fondato sul principio della libertà
negativa, secondo cui la principale regola distributiva dei benefici sociali e dei sacrifici doveva essere
data dai meccanismi di mercato e allo Stato spettava il compito di tutelare l’iniziativa economica e la
proprietà privata dei singoli. Tuttavia, tali meccanismi non permettevano il rispetto dei diritti sociali:
l’uguaglianza dei cittadini prescindeva infatti dalla posizione che essi occupano nella società e nei
meccanismi economici; tuttavia coloro che dovevano affrontare bisogni economici, non avevano la
possibilità di godere delle libertà liberali, che erano dunque accessibili solo a una parte della
popolazione. Lo Stato di democrazia pluralista dovette affrontare tale problema e si tentò di risolverlo
attraverso un compromesso: lo Stato sociale continuava a riconoscere e a garantire l’economia di
mercato e i diritti su cui essa si fondava, ma tali diritti potevano essere limitati da interventi pubblici
finalizzati a ridurre le disuguaglianze e a correggere gli esiti che sarebbero derivati dal semplice
operare dei rapporti economici nel mercato. Lo Stato sociale supera dunque l’individualismo
liberale e sviluppa forme di solidarietà tra i gruppi sociali. Pertanto, lo Stato di democrazia
pluralista ha visto lo sviluppo di diverse forme di intervento pubblico nell’economia e nella società, che
hanno dato luogo ad un sistema di economia mista. Tali interventi erano finalizzati per lo più al
controllo delle fasi di crisi del ciclo economico, andando ad aumentare la spesa pubblica per tenere
alta la domanda interna e contrastare la disoccupazione (modello keynesiano), e, in secondo luogo
miravano a redistribuire le risorse di determinate categorie di soggetti a vantaggio di altri, al fine di
compensare i sacrifici che sarebbero imposti loro dalle dinamiche di mercato. La Costituzione italiana
non usa espressamente il termine “Stato sociale”, ma l’ordinamento italiano è un chiaro esempio del
compromesso che esso presuppone: vengono riconosciute le libertà economiche tipiche del
liberalismo, ma sono previsti doveri di solidarietà politica, economica e sociale con i quali lo Stato si
impegna a garantire a tutti la possibilità di pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione alla vita politica, economica e sociale della nazione. La Costituzione, a tal proposito,
impone dei limiti alla proprietà privata, relegandola alla sola sfera della sua funzione sociale.

I caratteri principali dello Stato di democrazia pluralista sono:

➔ Principio di tolleranza: suffragio universale, segretezza e libertà di voto, elezioni periodiche e


pluripartitismo sono alcuni degli elementi fondamentali di una democrazia pluralista. Essi fanno
emergere una diversità di ideologie e valori riconducibili a gruppi con obiettivi anche contrapposti,
la cui esistenza è però garantita dal principio del pluralismo politico, sociale, economico e
religioso. Tutto ciò è riconducibile all’accoglimento del principio di tolleranza, secondo cui il
dissenso non deve essere represso , ma garantito. Per far sì che non vengano commessi gli
errori passati, in alcune Costituzioni sono presenti norme a tutela di tale principio: la XII
disposizione transitoria della Costituzione italiana prevede che non possa essere ricostituito in
nessuno modo e per alcuna ragione il partito fascista;

➔ Pluralismo delle formazioni sociali e delle formazioni politiche: le prime operano per la
realizzazione di interessi comuni ai componenti, le seconde mirano a controllare il potere politico
dello Stato, a seguito di libere elezioni. Tale pluralismo trova la sua garanzia nella libertà di
associazione, di formazione di partiti politici, ecc, tutelate dalla Costituzione stessa. Nello Stato
liberale non erano previste tali organizzazioni, in posizione intermedia tra Stato e cittadino.

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➔ Obiettivi del pluralismo: limitare il potere dello Stato e, attraverso le formazioni sociali e i partiti
politici, creare canali di partecipazione continua dei cittadini alla vita politica del Paese, in modo
tale da esercitare pressione sugli organi costituzionali e portare a compimento gli interessi della
società. Da ciò nasce il problema dell’organizzazione del pluralismo, per evitare che le continue
pressioni degli interessi creino paralisi agli organi legislativi. Se prima i partiti di massa riuscivano
a creare programmi che sintetizzavano gli interessi prevalenti, oggi l’opera di selezione delle
richieste del Paese è affidata al Governo.

➔ Ruolo dell’esecutivo: quanto detto sopra porta inevitabilmente ad un rafforzamento del Governo
rispetto al Parlamento, in quanto si rendono necessari interventi e comportamenti attivi tipici
dell’esecutivo.

➔ Bilanciamento degli interessi: il principio del pluralismo porta a dedurre che non esista un
interesse generale, ma piuttosto una varietà di valori differenti, esplicitati nelle Costituzioni. Esse
sono il frutto di compromessi tra correnti culturali e ideologiche differenti, che presentano al loro
interno valori anche in conflitto tra di loro. Nell’opera legislativa, tali principi richiedono forme di
contemperamento, ossia di bilanciamento. Per esempio, il testo costituzionale richiede tanto
l’eguaglianza formale di fronte alla legge quando l’eguaglianza sostanziale, che presuppone
interventi a favore dei cittadini meno abbienti per limitare le disuguaglianze.

➔ Libertà di manifestazione del pensiero e di utilizzo dei mezzi di comunicazione: solamente


attraverso il confronto tra le idee e le opinioni diverse si può raggiungere una gerarchia
provvisoria di interessi, anch’essa suscettibile di critica e superamento. Sono dunque garantiti al
massimo grado la libertà di pensiero e il pluralismo dei mezzi di comunicazione, andando a
formare la sfera pubblica. In essa agiscono singoli membri della classe politica, giornalisti e
intellettuali, che esprimendo le proprie ideologie, promuovono lo sviluppo di riforme e progetti
legislativi che arrivano poi in Parlamento.

➔ Legittimazione del potere politico: a differenza dello Stato fascita, nello Stato di democrazia
pluralista la legittimazione del potere politico deriva dal basso, affermando il principio della
democrazia rappresentativa;

➔ Rafforzamento dell’autonomia territoriale: si trasferisce la gestione di determinati servizi


pubblici agli enti locali, come i Comuni. Essi infatti sono in grado di interpretare in maniera diretta
ed efficace le esigenze dei cittadini e di controllare i costi e la validità degli interventi statali;

➔ Ripudio della guerra: a differenza dello Stato fascista, la Costituzione del 1948, come esplicitato
all’art.11, ripudia la guerra e stabilisce un rapporto pacifico con gli altri Stati membri della
Comunità internazionale. Dietro tale idea di pace, vi è il valore della collaborazione tra nazioni,
che porta anche alla limitazione della propria sovranità in nome delle organizzazioni internazionali
per evitare conflitti.

Nel secondo dopoguerra, nel mondo molti stati si svilupparono secondo il modello della democrazia
pluralista, seppur con alcune differenze:

1. Ruolo dei partiti politici: mentre in Europa l’esperienza politica fu sempre contrassegnata dal
fondamentale ruolo dei partiti di massa, gli Stati Uniti videro la nascita di partiti che presero la
forma di macchine elettorali. Essi sono al servizio di un candidato, sono privi di una precisa
identità ideologica e di significative differenze programmatiche e la loro attività si concentra nelle
campagne elettorali, perdendo valore subito dopo. Ciò determina maggiore fluidità all’interno del
Parlamento, in cui parlamentari di partiti opposti (democratici e repubblicani) possono convergere
nella maggioranza che approva una legge.

2. Omogeneità ed eterogeneità della cultura politica: in alcuni paesi, come Stati Uniti e Regno
Unito, l’evoluzione storica ha portato alla progressiva condivisione dei principi della democrazia
pluralista. In altri invece, come l’Italia, la società è rimasta divisa in settori sociali, a causa di
divergenze etniche, linguistiche e ideologiche. In questo caso, il conflitto tra i gruppi era dovuto a
idee e obiettivi diversi rispetto a un modello di società e di regime politico non condiviso. In un
clima di tale tensione, la finalità delle istituzioni doveva essere quella di ridurre al minimo le
disuguaglianze e di garantire la convivenza pacifica tra i vari gruppi. Tale contrapposizione interna
rimase molto forte fino a quanto è esistita l’URSS; dopo lo scioglimento di quest’ultima, i conflitti
interni si sono attenuati e vi è stata una generale accettazione dei valori democratici e pluralisti.

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3. Intervento dello Stato: in alcuni Paesi, come Stati Uniti e Giappone, l’intervento dello Stato nella
società è rimasto piuttosto moderato, lasciando grande spazio all’azione dei privati; in altri Stati,
come quelli europei, si è verificata una dominanza pubblicistica nell’economia per il prevalere di
finalità sociali.

N.B. Ancora oggi non si può parlare comunque di trionfo assoluto della democrazia. Il modello di
Stato socialista ha mantenuto in alcuni Paesi la sua continuità, seppur con aperture sul tema della
proprietà privata, dell’iniziativa economica e del mercato globale; in alcuni Stati ex socialisti vi sono
delle incongruenze tra i principi pluralisti promosso dalle Costituzioni emesse e le consuetudini
mantenute dall’ordinamento precedente (la ragione di ciò è da ricercare nel fatto che la maggior parte
di questi Stati sono sempre stati soggetti a regimi autoritari e non hanno dunque una tradizione
democratica); i principi pluralisti vengono applicati a pieno solo in Europa e per lo più in USA, mentre
in Asia resistono regimi autoritari che, pur accettando l’economia di mercato, mantengono il controllo
delle imprese più importanti che competono sul mercato mondiale (capitalismo di Stato); anche in
Europa, alcuni Stati, come la Polonia e l’Ungheria, limitano la democrazia alla sovranità popolare e
non aderiscono a pieno ai principi dello Stato di diritto (democrazie illiberali).

Lo Stato di democrazia pluralista ha subito importanti trasformazioni a partire dagli anni ‘80 del XX
secolo per effetto di alcune importanti rivoluzioni sociali. Alle sue origini lo Stato di democrazia
pluralista era detto Stato pluriclasse, in quanto formato da classi sociali ben distinte, di cui si cercava
di assicurare la coesistenza pacifica. I partiti di massa traducevano a livello politico tali differenze
ideologiche presenti nella società del tempo. Gli ultimi decenni del XX secolo hanno visto una crescita
considerevole della complessità sociale, indotta dallo sviluppo tecnologico, il mutamento dei sistemi di
produzione e la globalizzazione; risulta, dunque, molto difficile individuare nette scissioni all’interno
della società su cui si possano creare identità collettive, come quelle promosse dai partiti di massa.
Le richieste di singoli gruppi non organizzati, come i precedenti partiti di massa, arrivano ad invadere
le discussioni parlamentari, traducendosi in un aumento della spesa pubblica.

Gli anni ‘70 del ‘900 furono caratterizzati dalla cosiddetta “crisi fiscale dello Stato”, in cui si assistette
all’aumento della spesa pubblica con la conseguente crescita della pressione fiscale e la ribellione dei
ceti più colpiti. A ciò si aggiunge anche il fenomeno della globalizzazione, che permette a capitali e
imprese di circolare velocemente alla ricerca delle condizioni migliori per gli investimenti. Si hanno 3
conseguenze importanti a tale fenomeno:
- lo Stato deve limitare la pressione fiscale per evitare la fuga di capitali e imprese
- lo Stato deve avere una finanza pubblica sana, evitando un eccessivo disavanzo del bilancio.
Esso impedisce la crescita della spesa pubblica e rende difficile il finanziamento delle attività
sociali e l’attuazione delle politiche keynesiane
- le imprese chiedono maggiore flessibilità, ossia minori vincoli nella disciplina del rapporto di
lavoro e della protezione dei lavoratori

L’obiettivo degli organi governativi deve essere quello di non far perdere competitività al sistema
economico nazionale, riducendo anche le risorse impiegate per finanziare lo Stato Sociale. La tutela
dei diritti sociali richiede la presenza di organizzazioni pubbliche complesse e costose che siano in
grado di erogare le prestazioni oggetto dei diritti stessi. Il soddisfacimento dei diritti sociali dipende
dunque dalla quantità di mezzi finanziari destinati nel bilancio dello Stato a tali organizzazioni.
L’attuazione di questi diritti è il frutto di un compromesso tra l’interesse tutelato ed altri interessi
costituzionali, tra cui quello dell’equilibrio di bilancio. Uno dei più grandi ostacoli che gli Stati
occidentali devono affrontare oggi sono i debiti sovrani: per finanziare le sue attività lo Stato ricorre
all’indebitamento. L’esigenza di maggiore rigore finanziario conduce alla ricerca di mezzi di
razionalizzazione dello Stato sociale, in modo tale da non rinunciare né alla competitività del sistema
economico del paese né alla garanzia dei diritti sociali ai cittadini; tali mezzi sono:
• superamento del carattere universalistico di alcuni servizi erogati dallo Stato sociale (la sanità
non è erogata a tutti in maniera gratuita, ma solo ai cittadini meno abbienti; agli altri si richiede di
concorrere alla spesa in base al reddito di cui dispongono).
• principio di responsabilità individuale e di risparmio di quelle risorse che potrebbero essere utili
per affrontare i rischi della vita; lo Stato dal canto suo crea regole che incentivano tali
comportamenti
• principio di sussidiarietà, che si sviluppa in senso verticale, trasferendo la gestione di determinate
mansioni agli enti locali, come i Comuni, e in senso orizzontale, attribuendo certi compiti propri
dello Stato sociale ad organizzazioni sociali che non hanno scopo di lucro (terzo settore) e che
sono in grado di fornire tali servizi ad un costo minore e con una qualità maggiore;
• tentativo di attrarre a livello sovranazionale alcuni compiti propri dello Stato sociale.

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LA COSTITUZIONE

• Concezione descrittiva: si intende l’insieme di regole fondamentali che disciplinano un


determinato sistema politico, così come di fatto esso è organizzato e funziona. Tale visione, oltre
che ai sistemi politici, potrebbe essere applicata ad ogni formazione sociale, dalla famiglia allo
Stato. Si tratta dunque di tutte quelle regole sulla base delle quali si prendono le decisioni in una
determinata società. Anche lo Stato più autoritario ha delle regole fondamentali su cui si fonda
l’ordinamento. Sistemi complessi come gli Stati moderni non potrebbero reggere senza tali
condizioni: già Montesquieu riteneva che fosse necessario guardare alla costituzione di un paese
come un dato che sta alla pari delle condizioni fisiche del suo territorio; Tocqueville sottolineava lo
stretto legame tra la costituzione e i costumi sociali di un Paese, dimostrando che le costituzioni
non potevano essere del tutto artificiali e scisse dalla società e che non si potesse comprendere
un sistema senza conoscere la sua costituzione (ambito della sociologia e della politologia)

• Concezione prescrittiva: si considera la Costituzione un manifesto politico; tale visione


caratterizza il grande processo politico-filosofico che nasce in Inghilterra nella metà del ‘600 per
poi svilupparsi negli Stati Uniti con la promulgazione della Costituzione americana, giungendo
infine in Europa con la Rivoluzione francese. Si tratta di un periodo di grandi tensioni, in cui le
Costituzioni venivano concesse dopo scontri sanguinosi e violenti. E’ da questi eventi
destabilizzanti, come del resto i moti del 1848 o le due guerre mondiali, che si avvia il processo
costituente con l’obiettivo di riformulare su basi nuove le regole del vivere sociale. La
Costituzione, intesa in senso prescrittivo, è, dunque, il documento fondamentale che segna il
trionfo di un ideale, sancisce la vittoria di un’organizzazione politica e sociale e della sua forma
istituzionale. Tutte le Costituzioni, emanate secondo tale visione, si fondano su principi alti e
obiettivi grandi, come la Costituzione americana e la Costituzione italiana. Tale movimento
caratterizza solo quelle Costituzioni che seguono i principi del costituzionalismo, stabiliti
dall’art.16 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 Ogni società
in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una
costituzione. Pochi mesi dopo la presa della Bastiglia, i rivoltosi francesi approvarono la
Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, che costituì la base per tutte le Costituzioni
successive. L’art.16 sottolinea che non tutte le Costituzioni possano essere definite tali, nel caso
in cui non garantiscano i diritti fondamentali e non vi sia divisione di poteri. Dietro tale pensiero
rileva la figura di Montesquieu, filosofo del ‘700 e teorico della separazione dei poteri (ambito
della filosofia e della storia)

• Concezione normativa: la Costituzione è un testo normativo, la più importante fonte del diritto,
da cui derivano diritti, doveri, obblighi e divieti giuridici e regole per il loro esercizio. Sono i giuristi
a guardare alla Costituzione come ad un testo normativo, che serve loro per decidere se un
determinato atto o comportamento sia conforme o difforme rispetto alla Costituzione, sia
qualificabile come legittimo o meno. Fondamentale è il passaggio dell'interpretazione del testo
costituzionale, in modo conforme allo specifico atto o fatto che si deve giudicare, tenendo conto
anche dell’aspetto descrittivo e prescrittivo della Costituzione.

Il carattere normativo della costituzione


La Costituzione, oltre a sintetizzare i valori di fondo di ogni ordinamento (art.1) e a stabilire gli obiettivi
di una società, è un testo giuridico, costituito da un insieme di norme che trovano applicazione nella
vita quotidiana delle aule di giustizia. E’ posta ad un livello superiore rispetto alle altre fonti del diritto,
ma condivide con esse il carattere normativo.

La prima sentenza della Corte Costituzionale venne emessa nel 1956 e riguardava la libertà di
stampa. In questo periodo la Corte di Cassazione, costituita da giudici di formazione fascista, riteneva
che le norme costituzionali fossero norme programmatiche, che richiedevano determinati
comportamenti da parte del legislatore, ma non interferivano direttamente con i diritti e i doveri dei
cittadini. Nel 1956, invece, la Corte Costituzionale afferma il valore normativo e giuridico delle norme
Costituzionali, con delle ripercussioni:
- Ogni fonte è subordinata alla Costituzione e le leggi contrarie ad essa sono dichiarate
incostituzionali (invalide: non possono produrre effetti giuridici)
- La Costituzione deve guidare il giudice nell’interpretare la legge (interpretatio secundum
Constitutionem). La Costituzione va ad interferire nei processi quotidiani di interpretazione del
diritto, in quanto si colloca su un piano superiore rispetto alla legge stessa.
- Una volta attuate le norme Costituzionali, non se ne possono azzerare gli effetti.

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CARATTERISTICHE DELLE COSTITUZIONI

➔ Rigide/Flessibili → le Costituzioni rigide necessitano per essere modificate del procedimento


aggravato e prevedono un organo giurisdizionale che verifichi la compatibilità della Costituzione
con le fonti subordinate. Rigido non è un sinonimo di immutabile, in quanto la Costituzione può
essere modificata ma entro determinati limiti e con un processo aggravato rispetto alle leggi
ordinarie. Le Costituzioni flessibili non prevedono un procedimento particolare per la loro
modificazione, ma consentono che questa avvenga attraverso la normale attività legislativa; non
è inoltre previsto un organo di controllo giudiziario della corrispondenza delle leggi alla
Costituzione, perché poste sullo stesso piano (Statuto Albertino). Le Costituzioni flessibili sono
quelle tipiche dell’800, concesse dal sovrano assoluto; il ‘900 fu invece caratterizzato da testi
costituzionali rigidi e lunghi.

➔ Concesse/di origine rappresentativa → Le Costituzioni concesse, come lo Statuto Albertino,


sono quelle emanate dall’alto, che determinano un’autolimitazione del potere da parte del
sovrano stesso. Le Costituzioni ottocentesche hanno tutte questa impronta: attraverso di essere i
sovrani limitavano il proprio potere e stabilivano le aree di influenza dei vari organi. Il ‘900 invece
fu caratterizzato da Costituzioni di origine rappresentativa, in cui era il popolo a porsi nuove
regole attraverso dei rappresentanti. La spinta che portava alla promulgazione di una nuova
Costituzione era data da eventi traumatici di grande portata, che rendevano necessario il
cambiamento. L’Italia post-fascista portò alla formazione della Costituzione democratica con
un’elezione a suffragio universale maschile e femminile.

➔ Scritte/Non scritte (*): il Regno Unito (*), patria del costituzionalismo e luogo dove i diritti e la
divisione dei poteri sono assicurati da maggiore tempo, non ha una Costituzione scritta. Quei
principi che in molte nazioni sono stati imposti in seguito ad un evento traumatico, in Gran
Bretagna si sono affermati nel corso della storia con progressività. Nel Regno Unito non vi è un
unico documento che riassuma i principi di convivenza o i diritti dei cittadini, in quanto non si è
mai resa necessaria la protezione di questi ultimi dal potere pubblico autoritario e violento. Qui, a
differenza degli altri stati, vige ancora il principio della sovranità del Parlamento, al di sopra del
quale non vi sono delle norme che lo limitano. I principi democratici su cui si fonda l’ordinamento
inglese non hanno bisogno di essere scritti per essere garantiti, in quanto intrinsechi alla storia e
all’identità del Paese.

➔ Lunghe o brevi: Le Costituzioni brevi caratterizzarono l’800 e si limitavano a stabilire la


distribuzione dei poteri e ad affermare alcuni specifici diritti. Il ‘900 invece fu caratterizzato dalle
Costituzioni lunghe, che non si limitano all’elencazione dei diritti e alla suddivisione dei poteri, ma
pongono gli obiettivi che l’ordinamento persegue e arricchiscono di contenuto le norme relative ai
diritti, fissano le linee fondamentali della legislazione che sarà successivamente attuata e
pongono ulteriormente garanzie e limiti. La struttura di queste Costituzioni porta a una riduzione
del potere di azione del legislatore, la cui potestà legislativa è limitata dalle decisioni dei
costituenti.

➔ Prescrittive/Programmatiche: andando indietro nel tempo le Costituzioni presentano una


minore prescrittività rispetto a quelle odierne, prima fra tutte la Costituzione italiana.

La Costituzione italiana è: rigida, di origine rappresentativa, scritta, lunga e prescrittiva.

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ITALIA; POTERE COSTITUENTE E POTERE COSTITUITO
Il potere costituente si manifesta in casi eccezionali, dopo grandi traumi e violenze: in Italia, si verificò
dopo il crollo del regime fascista. In una situazione sociale e politica complessa, i partiti politici che
si stavano riorganizzando dopo la dittatura si trovarono a dover formulare le nuove regole
della vita sociale e politica italiana grazie alla legittimazione della popolazione che gli permise
di esercitare il potere costituente. Il processo costituente italiano fu un fenomeno storico, politico e
giuridico pacifico che condusse all’affermazione del principio di convivenza in netta opposizione ai
valori affermatisi in precedenza.

L’ITALIA ALLA FINE DELLA II GUERRA MONDIALE

• il 25 luglio 1943 Vittorio Emanuele III revocò Mussolini dalla carica di Capo del Governo,
sostituendolo con il maresciallo Badoglio. Egli soppresse tutti gli organi istituiti dal fascismo,
indicendo le elezioni per una nuova Camera dei deputati entro 4 mesi dalla cessazione dello Stato
di guerra, con l’obiettivo di ricostituire la monarchia. A ciò si opposero i membri del CLN e si trovò un
accordo in occasione del Patto di Salerno.

• Sul piano politico vi sono delle novità molto rilevanti: iniziano a imporsi come soggetti decisivi per la
rinascita del paese i partiti politici, che riescono ad andare al governo. Si affermarono soprattutto i
membri del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), formatosi nel 1943 per contrastare
l’occupazione nazista e fascista, che vedeva uniti i comunisti, i socialisti, i democristiani, i membri
del partitio d’azione e i liberalici. Tali partiti risultano essere grandi aggregatori di masse, in quanto
ottengono moltissime iscrizioni, e operano per la ricostruzione del paese.

• L’unione di partiti, anche molto diversi tra loro, in vista di un unico obiettivo rende necessari dei
compromessi, spesso particolarmente radicali. Significava in questo senso la Svolta di Salerno
(1944), evento in cui Palmiro Togliatti, leader del partito comunista e di ritorno da Mosca dopo
l’esilio, rinunciò alla pregiudiziale antimonarchica per prendere immediatamente parte al governo,
seppur regio. Sempre in occasione del patto di Salerno, si decise di convocare, finita la guerra,
un’assemblea costituente, sospendendo fino ad allora la questione istituzionale, ossia la scelta tra
monarchia e repubblica.

• Nel 1944 viene approvato un primo decreto luogotenenziale, non firmato dal re, ma dal
luogotenente del regno, ossia Umberto, figlio di Vittorio Emanuele III. Dopo la compromissione con
il regime fascita e la crisi dell’8 settembre 1943 (armistizio di Badoglio), il re aveva infatti conferito
tutti i poteri a Umberto, il quale doveva svolgere gli atti di competenza del sovrano.

• Dal 1944 alle elezioni del 2 giugno 1946 viene messo in atto un grande lavoro istituzionale intorno
all’Assemblea costituente, che porta anche alla creazione di un Istituto che si occupava di studiare
le Costituzioni straniere.

• Decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946: con tale atto normativo vengono definite
le regole per l’elezione della Costituente, nonché i suoi compiti. In questa sede si discusse della
scelta del soggetto che avrebbe dovuto stabilire la forma istituzionale della nuova Italia. La maggior
parte dei partiti erano a favore della Repubblica, ma l’elettorato di alcuni, come la democrazia
cristiana, parteggiava invece per la monarchia. Ciò avrebbe potuto mettere la DC in una posizione
alquanto scomoda, in quanto se si fosse schierata a favore della Repubblica avrebbe
potenzialmente perso parte dell’elettorato, schierato con i monarchici.

• La soluzione si trovò nella scissione tra la questione istituzionale e la stesura della


Costituzione. Si attribuì al corpo elettorale, mediante un Referendum, la scelta tra monarchia e
Repubblica, mentre i partiti si scontravano per i seggi nell’Assemblea Costituente. Compito
fondamentale dell’Assemblea Costituente era quello di dare vita a una nuova Costituzione, in
sostituzione della carta costituzionale ancora allora in vigore, in quanto mai formalmente revocata
neppure durante il periodo fascista, lo Statuto Albertino. Si giunse a questo compromesso
attraverso un patto stipulato con Vittorio Emanuele III, che prevedeva che il re non avrebbe dovuto
abdicare prima degli esiti del Referendum in modo tale da dare vantaggio alla Repubblica, data la
sua fama compromessa per i rapporti con il fascismo. Tuttavia un mese prima delle elezioni Vittorio
Emanuele III abdicò e Umberto, più limpido e democratico, divenne re, rendendo più ampia la
competizione tra monarchia e repubblica.

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Il 2 giugno 1946
Gli italiani furono chiamati a compilare due schede: nella prima potevano esprimere il voto del
Referendum per la forma istituzionale dello Stato, scegliendo fra monarchia e repubblica; nella
seconda, invece, si eleggevano i deputati dell’Assemblea Costituente. Il 2 giugno del 1946 fu, inoltre il
primo caso di elezione nazione a suffragio universale maschile e femminile. L’affluenza alle urne
fu pari al 90% degli aventi diritto al voto. La Repubblica vinse con il 54% dei voti contro il 47% dei voti
a favore della Monarchia.

Quanto all’esito del voto per l’elezione dell’Assemblea Costituente, i 556 deputati eletti risultarono
ripartiti fra i diversi partiti antifascisti che avevano partecipato alle elezioni, registrando una
preponderanza dei partiti di massa. Tale panorama politico rendeva complessa la stesura di un testo
costituzionale che accontentasse tutti i partiti coinvolti. In particolare, la DC e il partito Comunista e
Socialista perseguivano obiettivi apparentemente inconciliabili.

L’idea su cui la Costituente lavorò sempre era quella del raggiungimento di un compromesso, che
non mirava a una fusione di ideali, ma ad una sintesi tra culture diverse in principi in cui tutti si
potessero riconoscere. Il reale accordo sui contenuti, che si perseguì per tutta la durata dei lavori sul
testo costituzionale, si raggiunse perché tutti conoscevano e condividevano i frutti del
costituzionalismo, ossia la tecnica di porre limiti al potere pubblico allo scopo di garantire diritti alle
persone, e avevano l’obiettivo comune di realizzarli nel nuovo ordinamento.

Uno dei punti su cui si dibatté maggiormente senza raggiungere un accordo fu quello che oggi è
l’art.7, riguardante il rapporto tra Stato e Chiesa, su cui si fronteggiarono:
• Opzione concordataria, sostenuta dalla DC, secondo cui la Costituzione doveva recepire al suo
interno i contenuti e i principi posti nei patti lateranensi (accordo firmato nel 1929 tra Mussolini e la
Santa Sede), grazie ai quali si dava alla religione cristiana uno statuto privilegiato nell’ordinamento
• Opzione liberale, sulla scia dell’impostazione di Cavour (“Libera Chiesa, libero Stato), secondo cui
la Chiesa aveva il diritto di esercitare il suo magistero sul territorio ma senza avere rapporti
privilegiati con lo Stato

Tale questione si risolse con l’appoggio dei comunisti all’opzione concordataria per non inimicarsi la
Chiesa, già a loro fortemente ostile. Questa scelta non ebbe esiti molto positivi in quanto alle elezioni
successive i comunisti vennero scomunicati e ciò creò una grande spaccatura nella Costituente.
Un altro ampio dibattito si aprì sul principio della indissolubilità del matrimonio. La DC voleva inserire
nel testo costituzionale tale principio e ciò significava che, negli anni successivi, il Parlamento non
avrebbe potuto introdurre il divorzio con una legge ordinaria, ma solo con una legge di revisione
costituzionale. In questo caso prevalse il fronte laico e si arrivò ad una soluzione che dava peso alla
famiglia fondata sul matrimonio, ma non ne prevedeva l'indissolubilità. Nel 1970 venne introdotto il
divorzio in Italia con una legge ordinaria. Se fosse stata prevista a livello costituzionale l’indissolubilità
matrimoniale, si sarebbe dovuto ricorrere per introdurre il divorzio al procedimento aggravato. Le
forze contrarie al divorzio chiesero un Referendum abrogativo della legge sul divorzio nel 1974 che si
risolse con una vittoria netta del no, segnando un passaggio storico nell’evoluzione della società
italiana.

Il lavoro della costituente


Martedì 25 giugno 1946, alle ore 16, si aprirono in modo solenne i lavori dell’Assemblea Costituente,
riunita nella grande aula semicircolare di Palazzo Montecitorio, oggi sede della Camera dei Deputati.
Prese la parola per il discorso inaugurale il presidente provvisorio dell’Assemblea, e cioè il suo
membro più anziano: Vittorio Emanuele Orlando, illustre giurista e uomo politico della vecchia scuola
liberale, nato a Palermo nel 1860. Come si può leggere dai resoconti ufficiali dei lavori dell’Assemblea
Costituente, il discorso di Orlando sottolineò 3 punti fondamentali:
- coloro che erano incaricati di redigere la Costituzione erano stati eletti da tutto il popolo italiano,
non più solo dagli uomini colti e ricchi, ma anche dalle donne, dai poveri e dagli analfabeti
- il loro compito era quello di chiudere definitivamente con il passato regime autoritario e
ricostruire l’Italia da zero, a partire dalle fondamenta

L’Assemblea Costituente si organizzò quindi per portare a termine tale compito, lavorando
intensamente per un anno e mezzo. Venne innanzitutto istituita la commissione dei 75, incaricata di
predisporre un progetto Costituzionale da offrire come base per la discussione e la votazione all’intera
Assemblea Costituente, composta da 556 membri. La Commissione dei 75 non era formata dagli
anziani liberali, ma da giovani non compromessi con il regime fascista e le esperienze precedenti.

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La Commissione per la Costituzione si organizzò in 3 sottocommissioni, ognuna delle quali
responsabile di aree diverse:
1. Diritti e doveri dei cittadini
2. Organizzazione costituzionale dello Stato e forma di governo
3. Rapporti economici e sociali

Un altro organo più ristretto, costituito da 18 deputati, detto Comitato di redazione, si occupò di
armonizzare e unire i testi delle tre commissioni, in modo tale da presentare un testo coerente
all’Assemblea.

Da marzo a dicembre 1947 il progetto redatto dalla Costituente giunse in aula pronto per essere
valutato, discusso, modificato e votato dall’intera Assemblea. Il dibattito fu anche qui molto acceso,
ma fu animato da esponenti presenti anche nella Commissione dei 75. L’Assemblea esaminò il testo
articolo per articolo per poi giungere alla votazione complessiva del testo. La votazione finale della
Costituzione avvenne a scrutinio segreto. Il testo della Costituzione venne approvato il 22 dicembre
1947 a larghissima maggioranza dei deputati presenti in aula, con 453 voti favorevoli e 62 contrari
(>90%). Si riuscì a consegnare il testo definitivo della nuova carta costituzionale nelle mani del
Presidente provvisorio della Repubblica Enrico de Nicola il 27 dicembre 1947. La Costituzione
venne poi pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Alcuni hanno
parlato di “miracolo della Costituente”, in quanto il testo costituzionale è riuscito ad ottenere il
consenso non solo dei contemporanei, ma anche di tutti coloro che sono venuti dopo, almeno nella
parte dei principi fondamentali.

Il fatto che il testo costituzionale sia stato approvato da quasi il 90% dell'Assemblea politicamente
divisa spiega due caratteristiche fondamentali della Costituzione italiana:
➔ è una Costituzione lunga, in quanto le istanze, i valori e gli interessi delle varie componenti non
sono state selezionate, ma sommate
➔ è una Costituzione aperta, in quanto non pretende di individuare il punto di equilibrio tra i diversi
interessi, ma si limita ad elencarli, lasciando al legislatore il compito di individuare il punto di
bilanciamento.

LA REVISIONE COSTITUZIONALE
Le modalità di modifica della Costituzione sono enunciate nell’art.138. Una parte del procedimento di
revisione costituzionale è connessa al processo legislativo.Secondo quanto enunciato nell’art.138
della Costituzione, nel processo di revisione costituzionale è necessario che le Camere approvino
due volte lo stesso testo di legge fino a raggiungere un totale di quattro approvazioni. Il
procedimento ordinario prevede, invece, una sola deliberazione a maggioranza relativa di ciascuna
Camera sullo stesso testo. N.B. La revisione costituzionale richiede maggioranze superiori rispetto
alla maggioranza semplice. E’ importante distinguere tra:
• Maggioranza relativa: maggioranza dei voti espressi (leggi ordinarie)
• Maggioranza assoluta: maggioranza degli aventi diritto al voto

Processo di revisione costituzionale:


1. La prima deliberazione delle Camere è a maggioranza relativa (devono prevalere i sì sui no).
Questo passaggio è dunque uguale al processo ordinario. In questa fase le Camere possono
apportare al progetto di legge costituzionale degli emendamenti (modifiche) e dunque il testo è
destinato a viaggiare tra una Camera e l’altra fino ad ottenere da entrambe voto favorevole sul
medesimo testo di legge (c.d. navette).

2. Tra la prima e la seconda deliberazione del Senato e della Camera devono passare almeno tre
mesi. La seconda votazione apre due strade:

A. se in entrambe le Camere la legge è approvata a maggioranza qualificata, ossia per i ⅔ dei


suoi membri, essa è definita e viene promulgata dal PdR.
B. se non si ottiene la maggioranza qualificata, è sufficiente arrivare all’approvazione con la
maggioranza assoluta (metà più uno dei membri della Camera); in questo caso la legge
costituzionale non è approvata definitivamente, ma viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale in
modo da darne massima pubblicità. Entro 3 mesi dalla pubblicazione può essere richiesto un
referendum costituzionale, in modo da sottoporre il testo ad approvazione popolare. Ciò può
essere richiesto da 500.000 elettori, ⅕ dei membri di una Camera o 5 Consigli regionali. La
legge sottoposta a Referendum viene promulgata solo se approvata dalla maggioranza dei voti
validi, in quanto non è richiesto un quorum.

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Le revisioni costituzionali nel tempo
Nel corso della storia italiana vi sono state solo 17 riforme costituzionali e tra queste alcune molto
poco significative, che hanno interessato soprattutto la seconda parte del testo costituzionale. Le
riforme più significative sono state:
• Legge di revisione costituzionale 3/2011 sul titolo V della II parte della Costituzione (approvata),
che attribuì maggiori poteri alle Regioni e agli enti territoriali
• Leggi di revisione costituzionale del 2006 e 2016, che vennero bocciate dal corpo elettorale. La
prima interessava diversi ambiti istituzionali, come la riduzione dei parlamentari, l’abolizione del
bicameralismo perfetto, ecc; la seconda è ricordata come “riforma Renzi-Boschi”.
• Legge costituzionale n.1 del 19 ottobre 2020 (approvata con Referendum), che mirava a
modificare gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei
parlamentari.
• Legge costituzionale n.1 del 18 ottobre 2021 (approvata con Referendum), che mirava a
modificare l’art. 58 della Costituzione, in materia di elettorato per l’elezione del Senato della
Repubblica, concedendo il voto ai diciottenni per il Senato
• Legge Costituzionale approvata in via definitiva l’8 febbraio 2022 in seconda deliberazione con
la maggioranza di ⅔ dei componenti, che apporta modifiche agli art. 9 e 41 in materia di tutela
dell’ambiente. Con questa riforma, per la prima volta dal 1948 si è andati a incidere sui principi
fondamentali della Costituzione (art.9). L’art.9, prima della modifica, prevedeva la tutela del
paesaggio, oggi invece dell’ambiente e dell’ecosistema e si introduce ciò come limite esplicito
all'iniziativa economica privata (art.41). Si tratta di una riforma per lo più con valore simbolico:
l’ambiente era infatti già materia di tutela della Costituzione in quanto lo si derivava dal concetto
stesso di paesaggio, termine più appropriato per la società del 1948. Il punto più critico di tale
questione riguardava il principio della tutela degli animali, che voleva essere posto all’interno dei
principi fondamentali della Costituzione. Questa volontà ha subito una forte opposizione da parte
dei cacciatori, che temevano che ciò avrebbe messo a rischio la legittimazione della caccia come
sport. Si è dunque giunti ad un compromesso: la tutela dell’ambiente è disciplinata dalla
Costituzione, la tutela degli animali dalla legge, a cui la Costituzione rimanda.

Limiti alla revisione costituzionale


Non tutta la Costituzione è revisionabile. La revisione costituzionale è vincolata da un limite esplicito
presente all’art.139, il quale afferma che la forma repubblicana, votata dal popolo insieme
all’assemblea costituente il 2 giugno 1946, non può essere oggetto di modifica. Il limite espresso
all’art.139 stabilisce che sono sottratti alla revisione costituzionale tutti quei principi e diritti su cui si
fonda la democrazia, quindi la libertà di espressione, di riunione, di associazione politica, di voto, di
candidatura, ecc. Nel caso in cui si intervenisse, cambierebbe la forma di Stato e quindi verrebbero
alterati i rapporti tra cittadini e autorità.

La Corte Costituzionale, nella sentenza 1146/1988 sull’essenza dei valori su cui si basa la
Costituzione, ha stabilito altri limiti alla revisione costituzionale che riguardano:
- principi supremi dell’ordinamento (sovranità popolare, uguaglianza, laicità…)
- Art.2 e diritti inviolabili della persona umana (dignità)
- Art.5 e la repubblica indivisibile
- Art.24 e la tutela giurisdizionale dei diritti
- Art.138 sulla rigidità

IL REFERENDUM
Il referendum è la richiesta fatta al corpo elettorale di esprimersi direttamente su una determinata
questione mediante un si o un no. La questione oggetto del referendum può quindi essere accolta o
meno. Il referendum, dunque, può essere definito uno strumento di democrazia diretta.

Quali sono all'interno della Costituzione italiana gli articoli che legittimano il Referendum?
Primo fra tutti troviamo l’art.1, comma 2 del testo costituzionale, nel quale si afferma che la sovranità
appartiene al popolo nelle forme e nei limiti della costituzione. Gli strumenti di democrazia diretta
sono quindi previsti nella Costituzione, che ne permette l’esercizio, tuttavia, solo nelle forme e nei
limiti stabiliti.

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Quanti e quali Referendum conosce la Costituzione italiana?
La Costituzione prevede 4 tipologie di Referendum, che trovano la propria fonte in articoli differenti e
hanno requisiti e finalità diverse. Distinguiamo tra:
● Referendum costituzionale ( art.138 → caso di revisione delle leggi costituzionali; è un
referendum conservativo, con il quale si chiede al popolo di confermare una determinata
revisione)
● Referendum abrogativo (art.75)
● Referendum per la modificazione territoriale delle regioni (art. 132 → prevede una fase di
consultazione delle popolazioni interessate alla modifica)
● Referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione (art.132 → sono
regolati dagli statuti).

Il referendum abrogativo
Si tratta di una richiesta diretta al popolo di abrogare totalmente o in parte una disposizione di legge.
La Ratio consiste nel conferire al popolo, per iniziativa dei gruppi di minoranza, la possibilità di
contestare la scelta della maggioranza → è quindi un correttivo alla democrazia rappresentativa.
Potrebbe, inoltre, avere una funzione di stimolo nei confronti del legislatore, contestando il suo
operato/non operato.

Quali sono le sue fonti?


● art. 75 della costituzione
● legge di attuazione 352/1970: il Referendum abrogativo non trovò attuazione subito dopo la
stesura della Costituzione, in quanto la classe politica non vedeva di buon occhio uno
strumento pericoloso come quello, che poteva mettere in discussione le scelte del
Parlamento. Dagli anni ‘70 in poi iniziò la stagione del Referendum abrogativo, a partire da
quello sul divorzio.

Procedimento
Sono previste una serie di fasi, scandite temporalmente e in base agli obiettivi perseguiti, tutte
bloccanti rispetto alla fase successiva-
1. Iniziativa, che può essere:
- popolare: sono richieste 500.000 firme; i promotori, ossia un gruppo di almeno 10 cittadini iscritti
nelle liste elettorali, depositano presso la cancelleria della Corte di Cassazione il quesito da
sottoporre a referendum. Entro 3 mesi devono essere raccolte le firme necessarie e depositare le
firme presso la cancelleria della Corte di Cassazione. Ad oggi la raccolta delle firme può avvenire
anche con l'identità digitale.
- regionale: è richiesto da almeno 5 Consigli regionali; è necessaria l’approvazione a maggioranza
assoluta dello stesso quesito; la richiesta è depositata presso la Cancelleria della Cassazione.

Le richieste devono essere depositate tra il 1 gennaio e il 30 settembre di ciascun anno, ma non
possono essere depositate nell'anno precedente alla scadenza ordinaria della legislatura e nei sei
mesi successivi alla convocazione dei comizi elettorali.

2. Controllo di conformità e legittimità → si effettua presso l’Ufficio centrale del referendum alla
Corte di Cassazione, costituito dai tre presidenti di sezione della Cassazione più anziani e dai tre
consiglieri più anziani di ciascuna sezione, che ha il compito di verificare che le richieste avanzate
siano conformi alla legge (no controllo sul merito) → si controlla la veridicità delle sottoscrizioni e
il rispetto delle norme procedimentali; si rilevano eventuali irregolarità; si dispone la
concentrazione dei quesiti e si stabilisce la denominazione della richiesta. Entro il 15 dicembre
l’Ufficio decide con ordinanza definitiva sulla legittimità di tutte le richieste depositate.

3. Controllo di ammissibilità: la Corte Costituzionale verifica se la richiesta di referendum è


ammissibile e se può essere sottoposta al corpo elettorale; cambia il parametro rispetto al
controllo della Cassazione, in quanto si verifica l’ammissibilità non in riferimento alla legge
(Cassazione), ma alla Costituzione. Il quesito che si deve giudicare è ammissibile entro i limiti
stabiliti ex art.75. La Corte Costituzionale deve esprimersi con sentenza entro il 10 febbraio.

4. Nella quarta fase, Il Presidente della Repubblica quarta fase, su deliberazione del Consiglio dei
Ministri, fissa la votazione tra il 15 aprile e il 15 giugno. Dopo ciò, il popolo è autorizzato alla
votazione.

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5. Votazione: l'art. 75 pone un ostacolo all’esito del Referendum, ossia il quorum strutturale →
affinchè l’esito del Referendum sia favorevole devono partecipare alla consultazione la
maggioranza degli aventi diritto al voto + la maggioranza dei voti validi (partecipazione del 50+1
della popolazione e superamento del sì sul no). Si richiede il quorum strutturale, in quanto il
Costituente riteneva che fosse necessaria la sicurezza della presenza di una maggioranza
interessata alla deliberazione.

Effetti del Referendum


Un referendum può avere due esiti:
● Esito favorevole → il Presidente della Repubblica dichiara l'abrogazione della legge o della
disposizione con proprio decreto, pubblicato immediatamente sulla Gazzetta Ufficiale.
L’abrogazione ha effetto dal giorno successivo, ma il Presidente della Repubblica, su proposta del
Governo, ha la possibilità di posticipare l'entrata in vigore dell’abrogazione per un termine non
superiore a 60 giorni. Ciò è previsto in quanto a volte è necessario organizzare correttivi o
modifiche alle legislazioni e quindi, per garantire il lavoro del Governo, è prevista tale
posticipazione.
● Esito negativo → si dà comunicazione in Gazzetta Ufficiale e non si può proporre richiesta di
abrogazione del medesimo atto nei 5 anni successivi (limite legislativo). L’esito negativo si ha non
quando non si raggiunge il quorum, ma quando la maggioranza richiede che la normativa non sia
abrogata. Perché bisogna aspettare 5 anni? La ragione è quella di garantire ed evitare che ci sia
un susseguirsi di richieste referendarie che non abbiano trovato un riscontro nel corpo elettorale,
evitando la degenerazione dello strumento referendario.

Il giudizio di ammissibilità
Non era previsto in Costituzione, ma venne introdotto dalla legge costituzionale 1/1953, che all’art.2
stabilisce che «Spetta alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo
presentate a norma dell'art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma
dell'articolo stesso. Le modalità di tale giudizio saranno stabilite dalla legge che disciplinerà lo
svolgimento del referendum popolare».

Non possono essere oggetto di referendum abrogativo:


• Leggi tributarie
• Leggi di bilancio
• Leggi di amnistia e indulto → leggi che dichiarano l'estinzione del reato di amnistia e della pena nel
caso dell’indulto, mitigando o eliminando la sanzione penale.
• Leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali → si vuole evitare che il complesso
lavoro del Governo e dello Stato, insieme ad altri Stati, sia vanificato; si parlerebbe di responsabilità
internazionale dello Stato stesso e si vuole evitare che materie così complesse siano sottoposte a
consultazione diretta.

La Corte Costituzionale è costretta a elaborare nuovi limiti ulteriori rispetto a quelli previsti ex art.75,
che si ricavano dall'interpretazione del testo costituzionale. Tale compito è svolto dalla Corte
Costituzionale in quanto è necessaria la garanzia che le leggi siano ammissibili e il referendum non
sia ostacolato. Ulteriori limiti sono individuati dalla corte a partire dalla sentenza 16/1978,
interpretando il testo e lo spirito della costituzione. Si parla quindi di leggi strettamente collegate alle
categorie indicate dall’art.75:
• leggi finanziarie e leggi collegate
• leggi di esecuzione dei trattati internazionali
• leggi di esecuzione di obblighi europei

Inoltre sono sottratte a referendum abrogativo:


● Costituzione e leggi formalmente costituzionali (procedimento ex art.138 Cost.)
● Leggi dotate di “forza passiva peculiare” → leggi di origine ordinaria che non possono per la
loro natura essere abrogate da altre fonti ordinarie, dunque nemmeno dal referendum. Ad
esempio, la legge di esecuzione dei Patti Lateranensi; oppure leggi su intesa.
● Leggi a contenuto costituzionalmente vincolato → la corte afferma che sono leggi il cui
nucleo normativo non può essere alterato senza pregiudizi costituzionali; il contenuto di quella
legge deriva dalla costituzione e dunque il referendum non è lo strumento idoneo alla loro
modifica perchè ci potesse essere una lesione dei principi costituzionali. Ad esempio la legge
sull’interruzione volontaria di gravidanza è una legge a contenuto costituzionalmente limitato.

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● Leggi costituzionalmente necessarie (obbligatorie) → leggi che disciplinano il funzionamento
degli organi costituzionali; sono inammissibili perché sono leggi che se venissero abrogate
paralizzerebbero l'attività di quegli organi.

La legge elettorale di Camera e Senato può essere abrogata con Referendum abrogativo?
Inizialmente la Corte dichiara inammissibile l’abrogazione totale, come il caso posto per la legge che
regola l'elezione dei membri del consiglio superiore di Magistratura. A partire dagli anni ‘90 la Corte
apre la possibilità ai referendum parziali, con cui si chiede l’eliminazione di determinate istituzioni. La
condizione è che la normativa di risulta (che fuoriesce dalla consultazione referendaria) consenta il
funzionamento del sistema e lo deve consentire in via automatica, il sistema elettorale deve
funzionare anche in assenza dell’intervento legislativo (autoapplicabilità della normativa di risulta).

Limiti di ammissibilità che riguardano la formulazione del quesito referendario


La Corte richiede 3 requisiti:
1. omogeneo: ci deve essere una matrice razionalmente unitaria; la richiesta referendaria deve
essere omogenea, il quesito deve essere lo stesso deve esserci una matrice unica, l'intento deve
essere unico.
2. chiaro: il quesito deve essere comprensibile, il cittadino deve capire l’oggetto e il fine del quesito
e le conseguenze dell'abrogazione.
3. univoco: il referendum deve essere chiaro e fornire un'alternativa secca. Permette una secca
alternativa tra sì e no.

LA STRUTTURA DELLA COSTITUZIONE

1. Principi fondamentali → sono 12 articoli che contengono un complesso di norme di principio


giustapposte, talvolta anche contrapposte. Rappresentano le premesse ideologiche e politiche
che i costituenti hanno trascritto traendole dai loro diversi manifesti politici, con la consapevolezza
che sarebbero stati destinati a bilanciarsi e non a prevalere l’uno sull’altro. Nonostante alcuni di
questi principi non bastino a formare delle situazioni giuridiche soggettive, che si possono
rivendicare in maniera diretta davanti al giudice, hanno comunque valore normativo (non solo di
manifesto politico): i giudici possono impugnare le leggi che vanno in direzione opposta o che
ostacolano il loro raggiungimento. Tale funzione può essere attribuita alle norme programmatiche
disseminate in tutta la Costituzione. L’avvento della Corte Costituzionale ha fatto perdere di
significato la distinzione tra norme precettive e norme programmatiche. Essa aveva avuto grande
fortuna nei primi anni di applicazione della Costituzione tra i giudici ordinari, i quali ritenevano che
la maggior parte delle norme in Costituzione non potessero essere applicate direttamente nei
tribunali, rendendo quindi necessario l’intervento del legislatore. Poche erano le norme precettive,
tra cui rientravano quelle che istituivano gli organi costituzionali o quelle sufficientemente precise.
Nella sua prima sentenza, la Corte Costituzionale contestò tale distinzione e affermò l’applicabilità
diretta delle norme costituzionali.

2. Parte prima - Diritti e doveri dei cittadini (art.13-54) → pone le garanzie delle libertà individuali,
dei diritti sociali, delle libertà economiche, dei modi in cui il popolo esercita la sovranità

3. Parte seconda (art.55-139) - Ordinamento della Repubblica → è dedicata all’organizzazione


costituzionale dello Stato

I PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA COSTITUZIONE


I principi fondamentali della Costituzione italiana sono
● principio personalista
● principio pluralista
● principio di uguaglianza
● principio lavorista
● principio democratico

oltre a questi troviamo


● apertura sovranazionale
● autonomia e decentramento, il quale permette l’esecuzione delle decisioni pubbliche a
livello territoriale
● pluralismo statale e culturale

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ARTICOLO 2
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale.

Tale articolo riguarda il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili a tutte le persone nella loro
dimensione individuale o in quella di formazione sociale e l’adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà. Sono dunque 3 i principi fondamentali qui racchiusi:
1. Principio personalista
2. Principio pluralista
3. Principio solidaristico

I principi espressi all’art.2 contribuiscono a delineare l'identità stessa dell’ordinamento repubblicano e


ne costituiscono il nucleo imprescindibile. L’art.2 è inoltre considerato da sempre uno degli esempi più
alti di compromesso tra posizioni di partenza contrastanti, come erano quelle della DC e dello
schieramento di sinistra, formato da socialisti e comunisti. L’applicazione di tali principi fu comunque
abbastanza tardiva: subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione si pensava che le norme in essa
contenute fossero prettamente programmatiche e avessero bisogno dell’intervento del legislatore per
essere applicate, congelandoli per molto tempo. Nel 1956 la Corte Costituzionale, nella sua prima
sentenza, affermò il valore precettivo di tutte le norme costituzionali. Il messaggio dell’art.2 era stato
comunque assimilato dalla parte della società impegnata nelle battaglie civili, che prese questa
disposizione come manifesto del cambiamento.

Principio personalista
Il principio personalista rappresenta una delle basi del costituzionalismo contemporaneo, il quale
annovera tra i suoi scopi principali la valorizzazione e lo sviluppo della persona rispetto ai regimi
storici precedenti. L’affermazione di tale principio nell’art.2 comporta delle conseguenze e dei
cambiamenti rispetto alla scena italiana precedente:

● si instaura un nuovo rapporto tra Stato e persona → lo Stato deve essere il mezzo attraverso
cui si perseguono le finalità della Repubblica, quindi la garanzia e il riconoscimento dei diritti
e dei doveri dell’uomo. La persona è dunque considerata il fine, non più il mezzo, come nel
regime fascista.

● i diritti non sono solo garantiti, ma riconosciuti → si tratta di diritti preesistenti


all’ordinamento statale, quindi insiti nel concetto stesso di persona; essi non sono concessi,
ma propri dell’uomo e compito della legge è quello di garantirli e disciplinarli. Sono i valori di
dignità umana e di libertà della persona che costituiscono la base dello Stato italiano. Tale
concezione rimanda alle teorie giusnaturalistiche, secondo le quali i diritti appartengono in
maniera insita ai singoli individui.

● i diritti sono inviolabili → si pongono dei limiti all’intervento dello Stato nella sfera della libertà
dei singoli e delle formazioni sociali: sono immodificabili anche in sede di revisione, in quanto
le eventuali modifiche potrebbero costituire un sovvertimento dell’assetto costituzionale.
L’irrivedibilità riguarda sia l’esistenza sia il contenuto essenziale dei diritti. I caratteri dei diritti
inviolabili sono: l’assolutezza, l’indisponibilità e l’inalienabilità, l’irrinunciabilità e
l’imprescrittibilità. “Inviolabile” tuttavia non significa che non possa essere disciplinato o
limitato: ad esempio, la libertà personale è inviolabile, ma può essere limitata in casi di
necessità collettiva.

● i diritti inviolabili sono riconosciuti a tutti, cittadini e stranieri (sono le disposizioni che
garantiscono solo ai cittadini l’esercizio di alcune funzioni ad essere l’eccezione). La Corte
Costituzionale ha dichiarato che i diritti inviolabili, espressi all’art.2, spettano ai singoli non in
quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma perché esseri umani; la condizione
di straniero non può pertanto essere causa giustificativa di trattamenti diversificati o
peggiorativi. Tuttavia, essa afferma anche che lo straniero può essere soggetto ad un
trattamento ad hoc per ragioni specifiche, legate alla sanità e alla sicurezza pubblica,
all’ordine pubblico e alla politica nazionale sull’immigrazione. Su questa linea si è riconosciuto
il diritto alla salute come diritto fondamentale che deve essere garantito a tutti,
indipendentemente dalle norme che regolano l’ingresso o il soggiorno nello Stato. Risulta
comunque superata la clausola di reciprocità prevista all’art.16 delle preleggi.

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● l’art.2 tutela i diritti proclamati dall’art.13 ss. del testo costituzionale. Tuttavia la
giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che potessero rientrare sotto la tutela di quanto
espresso all’art.2 anche diritti non esplicitamente menzionati nella Costituzione, ma
ritenuti nella coscienza sociale meritevoli di considerazione costituzionale. Si tratta di un
chiaro sintomo dell’evoluzione della società, che trascina con sé anche il testo costituzionale.
Una parte della dottrina, dunque, legge l’art.2 come una disposizione a fattispecie aperta, che
permette il riconoscimento di diritti non ancora tutelati (privacy, riservatezza, identità
sessuale, diritto di autodeterminazione, diritto ad essere genitori, ecc). Un’altra parte della
giurisprudenza ha invece preferito non abbracciare tale interpretazione a causa del timore
che una lettura di questo tipo potesse comportare un indebolimento della tutela dei diritti già
riconosciuti e un ampliamento degli obblighi a carico dei consociati e dei poteri pubblici. Il
riconoscimento di nuovi diritti è attribuibile anche al legislatore (es. unioni civili tra persone
dello stesso sesso).

Principio pluralista
Il costituzionalismo democratico ha dietro di sé un'idea della persona diversa rispetto allo Stato
liberale: tiene, infatti, in considerazione un individuo che sviluppa la propria personalità all’interno di
gruppi e formazioni sociali. Se prima l’unico rapporto esistente e riconosciuto era quello tra gli
individui e lo Stato, il costituzionalismo democratico mira a tutelare i luoghi in cui l’uomo può
esprimere effettivamente la sua personalità. Tutto ciò costituisce il contenuto del principio pluralista,
che riconosce la pluralità delle esperienze e delle formazioni che si sviluppano nella società. Con
“formazioni sociali”, si intende ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e
favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di valorizzazione del
modello pluralistico. Le finalità riconosciute a queste organizzazioni sono dunque:
● la valorizzazione della socialità della persona
● la cura degli interessi generali
● lo sviluppo della personalità dei singoli attraverso la partecipazione alla società

Per garantire i diritti della persona è indispensabile tutelarli: spesso questi ambienti si considerano
pericolosi per la persona stessa, in quanto possono anche essere luogo di oppressione → è
indispensabile tutelare il singolo contro le possibili interferenze negative da parte delle organizzazioni
sociali. Risulta necessario trovare un giusto equilibrio tra la tutela dell’autonomia della formazione
sociale e del singolo al suo interno. Nella Costituzione sono previsti alcuni aspetti sottratti
all’autonomia dei singoli, come l’istruzione obbligatoria , che costituisce un evidente limite
all’autonomia familiare. Si tratta comunque di limitazioni volte alla tutela del singolo, cosa che si
esplicita anche attraverso l’intervento dei pubblici poteri nelle organizzazioni sociali in nome
dell’interesse superiore del singolo.

Nel corso del tempo, sono state sviluppate norme di tutela a sostegno delle formazioni sociali, non
solo per le forme riconosciute espressamente dalla Costituzione, ma qualsiasi forma di vita associata.
Un esempio importante è il riconoscimento delle famiglie omosessuali. In Italia il legislatore è stato
uno degli ultimi a livello europeo a riconoscere forme di famiglia diverse da quella generalmente
accettata. Un passaggio importante e controverso è stato fatto dalla Corte Costituzionale con una
sentenza del 2010, con cui si è dichiarata incostituzionale la norma che imponeva la diversità dei
sessi per la celebrazione del matrimonio. Tale sentenza avrebbe dovuto portare all’estensione del
matrimonio anche alle coppie omosessuali, ma così non è stato → L’art.29 parla della famiglia
naturale fondata sul matrimonio; tuttavia il Parlamento è stato invitato a intervenire per riconoscere un
trattamento equivalente o simile alle coppie del medesimo sesso sulla base del riconoscimento del
valore delle formazioni sociali, espresso all’art.2 del testo costituzionale. Si tratta infatti di una
formazione sociale con carattere di stabilità, che deve essere tutelata.

Principio solidaristico
Il principio solidaristico ha una doppia matrice politica, in quanto la sua affermazione venne promossa
da Dossetti, democristiano, e Togliatti, comunista. Tale disposizione si fonda sul tentativo di conciliare
le libertà individuali e i diritti sociali riconosciuti e garantiti ai singoli con il ruolo dell’individuo e del
potere pubblico nella costruzione di una Repubblica libera e giusta. I doveri previsti dal principio
solidaristico sono propedeutici alla realizzazione della solidarietà politica, economica e sociale e
fanno sì che lo spazio di autonomia lasciato ai singoli non violi il principio di uguaglianza.
L'opposizione tra libertà e uguaglianza trova una sintesi nell’idea che ai diritti individuali corrisponde
anche l’idea che i singoli fanno parte di una società.

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L’inderogabilità del dovere di solidarietà si riferisce all’impossibilità di escludere dal suo rispetto
qualcuno dei consociati e alla volontà del costituente di richiedere ad essi l’assolvimento di tutti quei
doveri che l’appartenenza ad uno Stato richiede sul piano giuridico, morale e politico. I doveri di
solidarietà richiamati dall’art.2 sono: dovere di concorso al progresso sociale, dovere di sottoporsi ai
trattamenti obbligatori, collegati alla prevenzione delle malattie infettive, a patto che siano previsti
dalla legge e indirizzati alla tutela dell’interesse della collettività, il dovere di istruire e di istruirsi, il
dovere civico di voto, il dovere alla difesa della patria, alla fedeltà alla Repubblica e al concorso alle
spese pubbliche. Quest’ultimo, detto anche dovere tributario, stabilisce che il contributo che ogni
soggetto dà alla società deve essere ispirato al principio della progressività. La solidarietà perseguita
dall’art.2 si esprime anche in forme libere, come lo dimostra la realtà del volontariato sociale. E’
indispensabile che tutti i diritti coesistano in maniera armonica e bilanciata, senza che uno prevalga
sugli altri.

ARTICOLO 3
Il principio di uguaglianza è il pilastro su cui si fonda l’intera Costituzione ed è legato alla libertà e alla
centralità riconosciuta alla persona nella rinascita della democrazia. Tuttavia è anche la norma che
secondo i giudici viene più spesso violata. L’art.3 può essere diviso a livello strutturale in due parti:

● Al I comma troviamo il principio di eguaglianza formale → assicurare a tutti un trattamento


uniforme da parte della legge, che non può produrre discriminazioni; si trattava del
fondamento dello Stato liberale, in cui i cittadini erano considerati eguali dinanzi alla legge e
venivano “protetti” dallo Stato stesso, che non poteva interferire nella sfera individuale
dell’uomo.

● Al II comma il principio di eguaglianza sostanziale → si richiede allo Stato di non


disinteressarsi delle disuguaglianze esistenti nella realtà e di lavorare per eliminarle per
assicurare a tutti pari opportunità; solo eliminando le disuguaglianze di fatto si può assicurare
una vera vita democratica (il punto di vista non è più quello dello Stato liberale, ma della
Repubblica). E’ espressione dell’evoluzione dello Stato Liberale in Stato Sociale,
caratterizzato da atteggiamenti interventisti dello Stato nel campo del godimento dei diritti,
che non possono essere assicurati in astratto, ma che occorre garantire nel concreto
(istruzione, sanità, assistenza sul lavoro, ecc.).

Eguaglianza in senso formale


Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso,
di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Il principio di uguaglianza formale si sostanzia in un divieto rivolto al legislatore ordinario di adottare


trattamenti discriminatori tra gli individui. Ciò significa che bisogna assicurare a ciascuno eguaglianza
di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche
si riferiscono per la loro applicazione. Dal principio di eguaglianza formale discende il divieto per il
legislatore di introdurre discriminazioni dirette e indirette. La distinzione tra discriminazione diretta e
indiretta è contenuta all’art.25 del Codice delle pari opportunità:
• Discriminazione diretta si ha quando una norma esclude espressamente una categoria di
soggetti dal godimento di un diritto o quando comunque quest’ultima sia esplicitamente soggetta
ad un trattamento deteriore.
• Discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o
un comportamento apparentemente neutri possono mettere in situazioni disciminatorie alcuni
soggetti rispetto ad altri

Un’altra tipologia di discriminazione sono le discriminazioni multiple, che si producono per effetto della
coesistenza di una pluralità di fattori di discriminazione, che agiscono nei confronti del medesimo
soggetto o categoria. Si distinguono in:
✦ Discriminazione multipla ordinaria: due fattori di discriminazione caratterizzano lo stesso
individuo, ma rimagono distinti venendo in rilievo in momenti diversi
✦ Discriminazione multipla addizionale: i fattori di discriminazione rimangono distinti, ma si
aggravano a vicenda
✦ Discriminazione multipla intersezionale: i fattori di discriminazione agiscono in maniera
simultanea a danno della vittima.

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Principio di ragionevolezza → il principio di uguaglianza è ritenuto violato anche quando la legge,
senza un ragionevole motivo, tratti diversamente persone che si trovino in situazioni analoghe.
Compito della Corte Costituzionale è quello di verificare che il legislatore agisca con coerenza e
congruità logica, non escludendo da una disciplina situazioni ad essa assimilabili e viceversa. In
primo luogo il principio di ragionevolezza prevede un confronto tra la fattispecie presentata e un’altra,
detta tertium comparationis. Si richiede poi l’individuazione della ratio legis, che indica i motivi
dell’intervento, le finalità o gli scopi che il legislatore vuole perseguire. Dopo questa analisi, la Corte
dichiara la legittimità o l’illegittimità della scelta del legislatore, nonché la proporzionalità del
trattamento instaurato. E’ necessario trattare in modo uguale situazioni uguali e in modo diverso
situazioni diverse.

L’art.3 individua alcuni fattori di discriminazione espressamente vietati: sesso, razza, lingua,
confessione religiosa, condizioni personali e sociali

Esempi di discriminazioni:

● La legge del Trentino prevede che per accedere a concorsi per vigili è necessaria un’altezza
di 1.70m. E’ ragionevole? La legge viene impugnata davanti alla Corte Costituzionale come
violazione del principio di eguaglianza perché non distingue tra uomo e donna. La C.C dice
che questa legge è incostituzionale perchè non distingue in base al sesso escludendo una
buona fetta della popolazione femminile dal concorso Trattare in modo ragionevole
situazioni uguali e diverse.

● Norma che garantisce alla donna nei primi mesi di vita del figlio dei permessi retribuiti dopo la
maternità. Vale fino al primo anno di età. Una coppia di genitori adotta un bambino di dieci
anni e la donna chiede i permessi retribuiti per il primo anno di vita della nuova famiglia. La
legge non prevede questo e il giudice che doveva giudicare non può dare il permesso. però
solleva una questione davanti alla corte costituzionale, sostenendo che si tratti di un
comportamento discriminatorio nei confronti della madre adottiva. Discriminazione
ragionevole? sì; la legge si deve ispirare non solo ai bisogni fisici, ma anche psichici del
bambino e ciò si realizza nelle famiglie adottive. Alla fine la Corte, applicando il principio di
ragionevolezza, ricercando la ragione profonda la dichiara incostituzionale nella parte in cui il
genitore adottivo non ha diritto a quanto previsto.

● Tradizioni dell’Alto Adige - maso: forma di organizzazione isolata in cui vive una famiglia e
che aveva come peculiarità che doveva passare indiviso. L’intero maso doveva passare al
figlio maschio. Questa disposizione in contrasto con il principio di uguaglianza fu in un primo
momento ritenuta giustificata. Diritto successorio che favoriva i figli maschi. Anni dopo la c.c.
la dichiara incostituzionale.

● Tutela degli stranieri → gli invalidi hanno il diritto al trasporto gratuito sui mezzi pubblici: vale
però solo per i cittadini italiani. Legittima? Qual è la ratio? Favorire gli invalidi. La
discriminazione sulla base della cittadinanza può trovare giustificazione? No, incostituzionale.
Non ha alcuna logica la discriminazione sulla base della cittadinanza.

Eguaglianza in senso sostanziale


Il principio di uguaglianza sostanziale costituisce la novità della Costituzione del 1948. La concezione
liberale dei diritti viene integrata attraverso la previsione di un obbligo rivolto alla Repubblica di
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che non permettono a tutti di avere pari
opportunità. Sono previsti infatti provvedimenti a favore delle categorie più svantaggiate, detti azioni
positive. Attraverso le azioni positive il legislatore può innalzare la soglia di partenza delle singole
categorie svantaggiate al fine di assicurare pari opportunità di realizzazione. Le azioni positive sono
sottoposte a limitazioni, in quanto un loro esercizio troppo ampio può portare a una discriminazione in
senso contrario.

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ARTICOLO 1
L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Il primo principio enunciato nella Costituzione è il principio democratico, che riassume ed è alla
base di tutti gli altri valori costituzionali. L’art.1 delinea in maniera puntuale il profilo dello Stato
italiano, sia dal punto di vista dell’organizzazione del potere che dei fini della Repubblica.

Che cosa si intende per Repubblica? Nel senso più ampio del termine, la Repubblica è una
comunità politica vivente, che si fonda su valori fondamentali e organizza il potere in modo specifico.
In tale definizione potrebbe rientrare però anche la monarchia: la differenza tra Repubblica (come
art.1) e monarchia è sostanzialmente data dal fatto che la Repubblica si fonda sulla democraticità.
Una Repubblica è formata da un popolo, ossia un insieme di individui, singoli o associati, che
vogliono realizzare insieme valori comuni. La comunità politica è formata dal corpo elettorale, i partiti
politici e i sindacati e le formazioni sociali. La Repubblica è anche promotrice di valori fondamentali,
che permettono di individuare quella che è la sua identità costituzionale. La Repubblica italiana si
fonda su tre valori fondamentali: libertà, uguaglianza e solidarietà, che vanno integrati
congiuntamente in modo tale che nessuno prevalga sugli altri.

Che cos’è una Repubblica democratica? Il concetto di democrazia è molto ambiguo e in base al
luogo e al tempo può avere significati e sviluppi diversi. La Repubblica italiana è democratica in
quanto fonda il potere politico sul suffragio universale attribuito a tutti i cittadini, affinché la fonte di
legittimazione sia esclusivamente la comunità politica → la sovranità è infatti affidata al popolo.
Quando si parla di sovranità in senso moderno si indica un mezzo per creare e per mantenere
l’ordine sociale. Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 si sono contrapposte due diverse visioni della
sovranità e della sua titolarità:
➔ Concezione francese, che sostiene la sovranità nazionale: la sovranità appartiene alla
Nazione, concetto astratto che riunisce in sé popolo, territorio e cultura (il popolo svolge una
funzione all’interno della Nazione e ha, dunque, un ruolo secondario)
➔ Sovranità popolare, in cui sovranità appartiene effettivamente ed esclusivamente al popolo. I
poteri politici devono agire con il consenso di chi è governato; in democrazia, chi governa è
in accordo con la maggioranza del popolo.

A differenza dei regimi liberali del ‘700, la sovranità spetta a tutti i cittadini indistintamente, così come
il diritto di voto, garantito dal suffragio universale maschile e femminile. Attribuire la sovranità al
popolo significa assegnare alla comunità politica la titolarità e l’esercizio dei poteri in cui quella si
estrinseca.

Una Repubblica democratica ha alcune caratteristiche fondamentali:


- il popolo governa con o senza mediazioni, con decisioni dirette o attraverso rappresentanti. Dal
punto di vista decisionale, il processo di governo si fonda sul principio di maggioranza. Affinché sia
garantito il pluralismo politico, è necessario che le varie forze di alternino e spetta al popolo stabilire
i rapporti di forza tra maggioranza e minoranza.
- il decisore politico deve agire in conformità al volere della maggioranza del popolo
- deve essere garantita la tutela delle minoranze, cosa che è sottratta alla volontà del popolo stesso
- devono sussistere diritti puntuali che caratterizzano un regime democratico
- La legittimazione del popolo è necessaria solo per provvedimenti di natura politica. Il Parlamento e il
Governo sono organi rappresentativi in maniera diretta o indiretta del popolo; ciò non tocca invece
la magistratura, che non necessita della legittimazione democratica, ma applica comunque la legge
emanata dagli organi rappresentativi.
- Il principio democratico è influenzato dalle regole di forma di governo, dal sistema dei partiti e dal
sistema elettorale: è necessaria una continuità tra corpo elettorale e istituzioni di Governo, affinché
il rapporto di fiducia non leghi solo Governo e Parlamento, ma anche il popolo; i partiti politici
continuamente popolo e Stato

Quali sono i limiti imposti all’esercizio della sovranità? L’art.1 dice che il popolo può esercitare la
sovranità nelle forme e nei limiti della Costituzione. In tempi recenti si è aperto un ampio dibattito sul
tema del sovranismo e della sovranità e si sono sviluppate due posizione contrapposte:
● Governo del popolo: prevede che quanto decide la maggioranza non può essere discusso;
tale impostazione ha però portato a conseguenze nefaste nella storia, come l’avvento del
nazismo e del fascismo, sostenuti entrambi dalla maggioranza.

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● Governo dei custodi: una parte della decisione politica è sottratta alla decisione popolare, in
quanto vi sono organi che custodiscono i principi fondamentali e inviolabili, come la Corte
Costituzionale. Ciò è dovuto ai limiti imposti dalla Costituzione stessa. Chi vorrebbe un
maggiore sovranismo lamenta la presenza di questi custodi che impediscono al popolo di
scegliere in determinati ambiti.

Il potere del popolo non è dunque illimitato, ma è sottoposto a dei vincoli:


1. ogni decisione deve essere rivedibile → il popolo non ha mai potere assoluto; quando lo ha
avuto, è asceso il nazismo
2. alcune decisioni devono essere sottratte dall’area in cui il decisore politico può intervenire;
si parla qui dei diritti e garanzie che devono essere garantite ai singoli alle minoranze, sottratti
anche alla revisione costituzionale
3. si tratta di un limite procedurale: il popolo parla solo attraverso i meccanismi costituzionali
(democrazia rappresentativa e non diretta come quella greca).

I DIRITTI COSTITUZIONALI
La Costituzione italiana è divisa in due grandi parti:
1. La tutela dei diritti
2. La divisione dei poteri

Il diritto costituzionale ha visto l’affermarsi nel tempo diverse generazioni di diritti:


● Diritti individuali e civili: sono i diritti che si affermano per primi e riguardano le persone in
quanto tali (diritto al rispetto del proprio domicilio, diritto di spostarsi liberamente, ecc.). Le prime
istanze che vengono garantite sono quelle che riguardano la vita delle persone, attraverso le
quali si chiedeva allo Stato di astenersi, di non intervenire negli affari individuali della persona.
● Diritti economico-sociali: impongono che lo Stato intervenga attivamente nella sfera economica
per garantire determinati diritti, come l’istruzione (Stato sociale)
● Diritti di partecipazione politica: si aggiungono a quelli individuali e consentono di intervenire
attivamente nel determinare l’assetto dello Stato.
● Diritti collettivi: non riguardano i singoli in quanto tali ma intere collettività e la società in
generale; in questa categoria rientrano il diritto alla tutela dell’ambiente, alla tutela dei beni
culturali, ecc.

Importante è il tema delle situazioni giuridiche attive, in cui rientrano:


● il diritto soggettivo, ossia situazione giuridica attraverso cui si attribuisce a un soggetto
facoltà e pretese tutelate direttamente dall’ordinamento. A tale situazione corrisponde un
obbligo dello Stato o di terzi.
● interesse legittimo: è una creazione della giurisprudenza italiana di ‘800 e ‘900 per garantire
tutela in sede giurisdizionale. Nasce in via spontanea davanti ai giudici come modo di
intervenire e garantire una posizione giuridica a ciascuno. E’ una mera situazione di
vantaggio legata ad un interesse pubblico.

In tali concetti si esprime il ruolo dei pubblici poteri nell’ordinamento italiano:


● garanzia, che esprime la libertà dallo Stato
● partecipazione, che esprime la libertà nello Stato
● protezione dei più deboli, che esprime la libertà attraverso lo Stato

Gli strumenti di tutela dei diritti


La Costituzione italiana segue un modello ripetuto: affermazione del diritto-limiti-garanzie.
L’affermazione in sé di un diritto non è sufficiente a garantirlo se non ci sono strumenti specifici che lo
tutelino. Gli strumenti di tutela dei diritti sono:
● Rigidità della Costituzione e controllo della costituzionalità delle leggi: pone dei limiti al
legislatore stesso, in quanto il nucleo duro dei diritti costituzionali non può essere modificato con il
processo di revisione costituzionale

● Tutela sovranazionale dei diritti

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● Riserva di legge: è lo strumento con cui la Costituzione riserva alle fonti primarie la disciplina di
una determinata materia; essa può essere dunque limitata. Un esempio classico di riserva di
legge è dato dall’art.13, che consente che la libertà personale sia limitata solo nei casi e nei modi
previsti dalla legge, ossia da fonti primarie o atti aventi forza di legge. Le riserve di legge sono
state introdotte per la prima volta in Costituzione per tutelare i diritti fondamentali e le libertà
personali; ogni limitazione deve essere discussa in Parlamento tra maggioranza e opposizione. In
casi straordinari di urgenza, è possibile approvare degli atti che hanno la stessa forza di una
legge, detti decreti legge, che decadono qualora il parlamento non li converta in legge entro 60
giorni. In caso di estrema necessità, è possibile, nel quadro dei decreti legge, che alcune misure
specifiche e molto incidenti siano approvate da fonti di livello secondario, ossia i decreti del
Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM). E’ importante distinguere tra riserva di legge
relativa e riserva di legge assoluta:
- si ha riserva di legge assoluta quando la materia deve necessariamente essere
disciplinata da fonti primarie, mentre lo spazio dato alle fonti secondarie è limitato;
- si ha riserva di legge relativa quando la Costituzione non riserva l’intera materia alla
legge, ma attribuisce ad essa il compito di disciplinare la materia, lasciando alle fonti
secondarie la disciplina di dettaglio.

Vi sono alcuni criteri che stabiliscono il tipo di riserva da applicare:


- criterio formale
- Art.13 - art.97 (organizzazione della pubblica amministrazione). Più le materie sono
sensibili, più la protezione della riserva di legge deve essere forte.

Si distingue poi tra:


Riserva semplice, quando la materia è disciplinata solo dalla legge senza dare indicazione
o limite al legislatore; in altri casi la stessa norma costituzionale pone già dei limiti (garanzie)
all’intervento del legislatore
Riserva rinforzata, quando il legislatore non è libero di disciplinare la materia, ma può farlo
solo negli spazi previsti dalla Costituzione.

● Riserva di giurisdizione: è applicato soprattutto all’art.13 ed è un meccanismo che rafforza la


riserva assoluta di legge, in quanto serve a ridurre lo spazio di valutazione discrezionale lasciato
all’autorità pubblica. Con essa, ogni atto che incida sulle libertà, non solo deve essere previsto in
astratto dalla legge, ma deve essere autorizzato in concreto dal giudice (per atto motivato
dall’autorità giudiziaria). La riserva di giurisdizione è strettamente connessa al principio
dell’habeas corpus, ossia il diritto di avere un giudice che verifichi quanto meno la correttezza
dell’atto del potere esecutivo che limita la libertà delle persone. Si tratta dunque di una garanzia
del singolo contro l’abuso dei pubblici poteri

● Diritto alla tutela giurisdizionale: è espresso dall’art.24 della Costituzione e prevede che tutti
possano agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi; garantisce quindi la più
ampia possibilità di ricorrere al giudice per ogni violazione dei propri diritti. Il diritto alla difesa
completa le norme costituzionali che garantiscono libertà e diritti, che senza di esso perderebbero
il loro significato. Affinché la tutela giurisdizionale sia efficace, è necessario che l’organo
giudicante risponda ad alcuni requisiti, primi fra tutti l’imparzialità e l’indipendenza.

IL TITOLARE DEI DIRITTI


1. con la nascita per:

a) Ius sanguinis → acquista la cittadinanza il figlio, anche adottivo, di padre o madre con
cittadinanza italiana, qualunque sia il luogo di nascita. Questo è il criterio fondamentale
utilizzato in Italia – figli di italiani acquisiscono la cittadinanza. Fino a 40 anni fa l’immigrazione
era bassissima.
b) Ius soli → acquista la cittadinanza colui che è nato in Italia da genitori ignoti o apolidi o che,
nato in Italia da cittadini stranieri, non ottiene la cittadinanza dai genitori sulla base delle
disposizioni dello Stato a cui appartengono.

2. Lo straniero nato in Italia che vi abbia riseduto senza interruzioni fino al raggiungimento
della maggiore età, diviene cittadino se entro un anno dichiara di voler acquisire la cittadinanza
italiana;
• Ius scholæ: discussioni riguardo la dovuta concessione e non, della cittadinanza agli stranieri
che hanno concluso un ciclo scolastico in Italia.

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3. Su istanza dell’interessato
a) dal coniuge, straniero o apolide, di un cittadino italiano qualora ricorrano determinate condizioni
(2 anni in Italia dopo il matrimonio o 3 anni dal matrimonio)
b) dallo straniero che possa vantare un genitore o un ascendente in linea retta di secondo grado che
sia cittadino italiano per nascita;
c) dallo straniero che abbia raggiunto la maggiore età, adottato da cittadino italiano e residente nel
territorio nazionale da almeno 5 anni dall’adozione;
d) dallo straniero che ha prestato servizio alle dipendenze dello Stato per 5 anni
e) dal cittadino di uno degli Stati membri UE dopo almeno 4 anni di residenza sul territorio italiano
f) dall’apolide dopo 5 anni di residenza
g) dallo straniero dopo 10 anni di residenza in Italia – in questo caso si può fare domanda, e lo Stato
in modo agirà in modo discrezionale in seguito ai dovuti controlli e dopo un procedimento
amministrativo.

ARTICOLO 10
Vi sono poi una serie di norme a tutela dello straniero: l’art 10 co.2, che sancisce che: la condizione
giuridica dello staniero deve essere regolata dalla legge (riserva di legge rinforzata) e il Legislatore
italiano è obbligato a rispettare le norme internazionali che l’italia ha sottoscritto per garantire a tutti i
diritti fondamentali.
• Impone al legislatore delle leggi che derivano dal diritto internazionale, ha una discrezionalità
limitata dalle norme e i trattati internazionali.
• La Corte Costituzionale ha stabilito che i diritti inviolabili ex art.2 si applicano a tutti.

DIRITTO DI ASILO: L’ART 10 CO.3


La nostra costituzione in parte è scritta da persone fuggite dall'Italia durante il fascino, i cosiddetti
opposizioni che venivano cacciati dall'Italia; questi in altri paesi goderono del diritto di silo, in
particolare in Francia. È per questo motivo che la nostra costituzione ben compr diritto di asilo. Nella
costituzione infatti è stata inserita una norma proprio relativa a questo. Vi è parallelismo tra al
condizione degli i italiani e esuli e tra gli stranieri che scappano in italia poiché nel loro paese non
sono loro garantiti i i diritti e le libertà democratiche. Non ha diritto di asilo solo chi viene perseguito
dal suo paese ma anche interi popoli, tutti quei popoli che abbandonano il loro paese poiché in
quello vi è una persecuzione e dunque non vi è garanzia dei diritti.

Perché la distinzione sulla tutela dei diritti?


• Diritti fondamentali riconosciuti a tutti, anche a chi non ha diritto a risiedere nel territorio dello
Stato.

• Diritti dello straniero regolarmente soggiomante (diritti civili , sociali e limitati di partecipazione
politica – più essa è inclusiva e più gente è coinvolta nel circuito del voto, e più diventa centrale
per le politiche pubbliche,).

• Diritti del cittadino europeo (anche alcuni diritti politici): sono diritti politici quelli orientati
soprattutto verso l’acquisizione del consenso, qualunque sia la legge. In Italia lo straniero non
partecipa ad alcun voto: alle elezioni locali comunali e a quelle europee possono partecipare
tuttavia i cosiddetti cittadini europei; anche i cittadini comunitari che non hanno la cittadinanza nel
luogo in cui risiedono – possono dunque esercitare dei diritti.

LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DEI DIRITTI


È una tutela introdotta negli ultimi decenni: esiste un secondo livello di tutela dei diritti, ossia quello
sovranazionale. La Repubblica italiana rinuncia a quote di sovranità a favore di organizzazioni
sovranazionali, che operano in materia di tutela dei diritti, i quali integrano il catalogo del testo
costituzionale (soprattutto in caso di violazione degli stessi stati).

Nel 1950 nel Consiglio d’Europa si è dato vita alla “Convenzione europea dei diritti dell’uomo” che
prevede un catalogo di diritti in parte sovrapponibile con i cataloghi di diritti delle costituzioni.

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• L’italia ha aderito alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che prevede la
possibilità per una singola persona di presentarsi davanti ad un giudice internazionale, qualora
ritenga che uno Stato abbia violato un proprio diritto riconosciuto dalla convenzione – ha aderito
sulla base della Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’ONU del ’48.

• E’ previsto anche un giudice autorizzato a condannare lo Stato per come ha agito nei confronti
del proprio cittadino. Qualora si ritenga che lo Stato abbia violato le norme della convenzione, il
giudice della Corte Europea di Strasburgo può condannare l’Italia a un risarcimento o al ripristino
del diritto (spesso mediante sanzione pecuniaria). I diritti della Convenzione influenzano
l’interpretazione delle disposizioni italiane, per le quali si deve preferire l’orientamento della
Convenzione. Diverso è il trattamento per quanto concerne l’Unione Europea vera e propria.

• Ho una tutela ulteriore qualora lo Stato italiano violi i miei diritti, a meno che io abbia esaurito i
ricorsi interni – sentenza dei giudici interni italiani passata al giudicato.

• Casi in cui l’Italia viene portata davanti alla corte sono migliaia, moltissimi per violazione della
durata del processo.

• Questo meccanismo pone un vincolo agli stati aderenti alla convenzione che non possono
disciplinare i diritti in modo diverso rispetto alla Corte, perchè altrimenti sarebbero condannati.

La giurisprudenza di Strasburgo è fondamentale per garantire il riconoscimento di tutti quei diritti che
non sono esplicitamente trattate nel testo costituzionale, come il diritto alla privacy.
Quasi ogni sentenza di carattere innovativo cita le sentenze di Strasburgo, orientando il giudice
internazionale.

L’articolo 117 divide le competenze legislative tra Stato e Regioni: tutte le leggi devono conformarsi
alla Costituzione, ai vincoli derivanti dal diritto dell’UE e del diritto internazionale. Tra gli obblighi
internazionali, vi è la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

➔ Il legislatore italiano non deve solo rispettare le norme della convenzione, ma deve rispettarle
in base all’interpretazione del giudice internazionale di quelle norme. Se una norma è
intrpretata secondo un certo orientamento, il legislatore non deve discostarsi da esso –
altirmenti la norma è ritenuta incostituzionale secondo l’art.117.

➔ Le norme della CEDU si pongono in termini gerarchici sopra le leggi, ma sotto la Costituzione
italiana.

Si definisce disposizione un testo normativo; mentre la norma è frutto dell’interpretazione da parte del
giudice di quella disposizione.

Accade che da una disposizione di ricava una pluralità di norme: può accadere vi sia una norma più
conforme alla CEDU, e l’altra più difforme. Il giudice italiano deve obbligatoriamente preferire la
norma conforme alla convenzione.Il primo grande esperimento della sovranazionale dei diritti ha
innervato l'ordinamento creando diritti nuovi e intervenendo su alcuni diritti già esistiti: Il secondo
grande catalogo dei diritti deriva dalla Unione Europea; nasce come comunità che non si occupa di
diritti, tuttavia con lampai mento progressivo dei suoi poteri inizia a prendere atto del fatto che deve
anche lei tutelare i diritti fondamentali. Prima i giudici europei e poi i legislatori iniziano ad occuparsi di
materie che hanno a che fare strettamente con il diritto. Dunque nasce la carta dei diritti fondamentali
dell'UE nel 2000, prima come documento politico ce no doveva avere valore giuridico, am poi fu
incorporata in tratti e divenne a tutti gli effetti un documento giuridico. Da questo momento nasce una
cultura dei diritti dell'uomo nell'unione europea, on soluzioni diverse rispetto a quelle dei singoli stati.

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ARTICOLO 13 - LA LIBERTÀ PERSONALE
I. La libertà personale è inviolabile.
II. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né
qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità
giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
III. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l'autorità di
pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati
entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive
quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
IV. E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di
libertà
V. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.

I diritti di libertà, che tutelano la persona nella sua sfera individuale, trovano riscontro già nelle carte
più antiche. La prima parte della Costituzione, successiva all’elenco dei principi fondamentali, si apre
con l’art.13 in cui viene enunciato il principio dell’habeas corpus, ossia il bene più connesso
strettamente all’individuo, la sua libertà fisica. Negli articoli successivi lo spettro si allarga, andando
ad abbracciare la libertà di domicilio, di circolazione e di comunicazione tra le persone.

Nella sua accezione più storica e immediata la libertà personale coincide con la libertà dagli arresti,
ossia con l’habeas corpus. Si tratta infatti del modo più tradizionale di incidere sulla sfera personale
dei cittadini, non solo attraverso la detenzione carceraria ma anche con misure restrittive della libertà
come gli arresti domiciliari. Il nucleo fondamentale della libertà personale è la libertà fisica e l’obiettivo
dell’art.13 è quello di proteggerla dai poteri repressivi dello Stato, che ha assunto il monopolio
dell’utilizzo della forza. Nella prassi giurisprudenziale tale nozione ha subito un netto ampliamento,
andando a tutelare la detenzione, l’ispezione, la perquisizione personale e qualsiasi altra restrizione
della libertà personale che leda la dignità della persona. Non sono incluse invece nell’art.13 le
restrizioni di lieve entità, che non ledono la dignità dell’individuo. Rientrano in questa categoria i rilievi
segnaletici che la pubblica sicurezza può compiere, come rilievi fotografici o impronte digitali. Per
quanto riguarda invece gli interventi diretti sul corpo, come prelievi di sangue per il controllo delle
sostanze stupefacenti o indagini su parti del corpo non esposti alla vista, è necessaria
l’autorizzazione di un giudice in quanto vanno a ledere in maniera importante la dimensione corporea
e quindi la libertà personale.

L’ambito della coercizione fisica va integrato anche con il divieto della violenza morale, che si
riscontra in qualsiasi coercizione che offenda la dignità della persona e ne comporti la degradazione
giuridica. La Corte, dunque, ha incluso tra le misure lesive della libertà personale anche
provvedimenti in cui non v’è traccia di coercizione fisica, come l’ammonizione, pronunciata da
un’apposita commissione presieduta dal prefetto nei confronti di chi è ritenuto socialmente
pericoloso, le misure di prevenzione applicate a chi potrebbe mettere in atto comportamenti mafiosi e
l’obbligo di comparire nell’ufficio di polizia per tifosi coinvolti in episodi di violenza sportiva (il semplice
divieto no → DASPO). Tutte queste fattispecie rientrano nella categoria controversa delle misure di
prevenzione, assunte dall’autorità giudiziaria sulla base di indizi che potrebbero condurre alla
commissione di reati. Si tratta di disposizioni molto criticate, in quanto si basano su fattispecie di
sospetto che colpiscono coloro per i quali la magistratura non riesce a raccogliere prove a sufficienza
per convalidare la condanna.

Come specificato al comma 1 dell’art.13, la libertà personale è inviolabile. Ciò, tuttavia, non significa
che non possa subire delle limitazioni entro i casi e i modi previsti dalla legge e per atto motivato
dell’autorità giudiziaria.

Si pongono quindi due vincoli alla discrezionalità dell’autorità pubblica, la riserva di legge e la riserva
di giurisdizione. Il comma 3 presenta una deroga alla riserva di giurisdizione, coperta da una riserva
di legge → qualora vi siano delle ragioni di estrema urgenza, la libertà personale può essere bloccata
dalle autorità di sicurezza senza l’intervento del giudice, che può attuare provvedimenti provvisori che
però devono essere comunicati all’autorità giudiziaria entro 48 ore e da questa convalidati entro le 48
ore successive, altrimenti decadono gli effetti. Tale eccezione si giustifica quando la polizia giudiziaria
deve intervenire per flagranza di reato o quando il soggetto è colto con oggetti e tracce che fanno
supporre che abbia appena commesso il fatto illecito quando c’è pericolo di fuga. La riserva di
giurisdizione viene ulteriormente rafforzata con ulteriori garanzie: l’arrestato o il fermato deve essere
consegnato al PM entro 24 ore altrimenti decade; il PM può interrogare il soggetto solo in presenza
del difensore e chiedere la convalida del fermo al g.i.p entro 48 ore dal fatto.

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La riserva di legge del comma 2 opera anche per l’individuazione del tipo di restrizione cui può essere
sottoposta la libertà personale. Il sistema dei diritti e delle pene italiano impone che debba essere
sempre garantito il minimo sacrificio alla libertà personale. Proprio per questa ragione, la Costituzione
impone al legislatore di fissare i termini massimi della custodia cautelare (detenzione senza una
condanna definitiva per la presenza di gravi indizi di colpevolezza, fuga o reiterazione del reato), che
in un certo senso si pone in contrasto con il principio di non colpevolezza, in quanto si punisce
anticipatamente chi non è ancora dichiarato a tutti gli effetti colpevole. La ratio della custodia
cautelare si trova nelle esigenze di sicurezza della Repubblica, nella quale sono presenti processi
molto lunghi e dunque la custodia cautelare diventa l’unico strumento per bloccare questi soggetti
prima della sentenza definitiva. Sono comunque previsti dei limiti alla custodia cautelare proporzionati
alla gravità dei reati. Uno dei temi più dibattuti nell’ambito del diritto penale è la funzione della pena:
l’idea di fondo è quella che la pena debba tendere alla rieducazione del reo, al suo reinserimento
sociale e a sanare le cause che hanno condotto a quei reati, soprattutto se compiuti di gravi situazioni
di disagio. Da ciò consegue espressamente il divieto della pena di morte e in trattamenti contrari al
senso di umanità. Nell’ordinamento italiano vi sono orientamenti differenti sull’ergastolo, che non ha
alcuna finalità rieducativa in quanto esclude la reintegrazione dell’individuo nella società (art.27). La
previsione dell’ergastolo è compatibile con la Costituzione solo in quanto il condannato ha la
possibilità di accedere a premi fino a ridurre la pena (30 anni) sotto determinate condizioni.

Il principio di responsabilità, ex art.25, sancisce che la responsabilità penale sia personale e una
limitazione alla libertà personale possa essere conseguenza solo di un comportamento nel quale si
può evincere una responsabilità del soggetto, che ha voluto quell’azione (dolosa) o per colpa
(soggetto che si è comportato in modo negligente contribuendo a un determinato reato). Tale principio
esclude la responsabilità oggettiva, non prevista nel diritto penale data la portata delle sanzioni.
Nell’art.25 troviamo anche l’enunciazione del principio di tassatività e irretroattività delle norme
penali. Con irretroattività si intende che nessuno possa essere punito se non in forza di una legge che
sia entrata in vigore prima della commissione del fatto.
Con tassatività si intende che il giudice non possa interpretare analogicamente le norme penali in
senso sfavorevole al reo. Per le nostre incriminatrici nel diritto penale vale il divieto di applicare
l’analogia.

Tema importante è quello del trattamento sanitario obbligatorio: con tale espressione si intende
ogni tipo di attività diagnostica o terapeutica imposta all’individuo. Se il trattamento è volto alla ricerca
di una prova di reato, si ricade nella tutela dell’art.13, per cui è prevista l’autorizzazione del giudice.
Se invece il trattamento è finalizzato alla tutela sanitaria si ricade nella disposizione dell’art.32, che
prevede una riserva di legge. L’obbligo a sottoporsi a trattamenti medici deve essere motivato da
ragioni di tutela alla salute pubblica, non della propria salute individuale, per la quale prevale la scelta
individuale.

ARTICOLO 14. libertà di domicilio


Il domicilio è inviolabile. Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei
casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale.
Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali
sono regolati da leggi speciali

La vicinanza della libertà di domicilio alla libertà personale non è casuale, infatti il domicilio è definito
come la proiezione spaziale della persona e per questo si estendono ad esso le garanzie prescritte
per la libertà personale. Nell’ordinamento giuridico italiano sono presenti diverse definizioni di
domicilio, l’una di diritto privato e l’altra di diritto penale:
● nel diritto privato, con domicilio si intende il luogo in cui un soggetto ha stabilito la sede principale
dei suoi affari e interessi, distinguendolo dalla residenza (luogo in cui la persona ha la dimora
abituale) e dalla dimora (luogo in cui un soggetto soggiorna occasionalmente)
● nel diritto penale, il domicilio è l’abitazione e ogni altro luogo di privata dimora, nonché le
appartenenze di essi; chi viola il domicilio incorre in una sanzione penale.

L’art.14 assume come propria la definizione del diritto penale, stabilendo che con domicilio si intende
qualsiasi luogo protetto e privato in cui un soggetto può isolarsi dell’ambiente esterno e ha il diritto di
sfruttarlo senza l’intrusione né di terzi né dei pubblici poteri.

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Strumenti di tutela: La libertà di domicilio è inviolabile e ad essa si estendono anche la riserva di
legge e la riserva di giurisdizione, tipiche della libertà personale. La libertà di domicilio non è garantita
solo alle persone fisiche, ma anche alle formazioni sociali. La riserva di giurisdizione è prevista per gli
atti di:
● ispezione: serve ad accertare le tracce e gli effetti materiali del reati
● perquisizione: serve alla ricerca del corpo del reato o di cose pertinenti il reato
● sequestro: consegna delle prove trovate durante la perquisizione

Anche per la libertà di domicilio, la polizia è autorizzata a procedere in casi eccezionali a ispezione,
perquisizione e sequestro senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria, ma rispettando i termini di
comunicazione e convalida previsti all’art.13. Il comma 3 dell’art.14 prevede che il legislatore possa
disciplinare attraverso leggi speciali le intrusioni nella sfera di domicilio per motivi di sanità e
incolumità pubblica o per fini economici e fiscali, che possono avvenire senza l’autorizzazione
dell’autorità giudiziaria

ARTICOLO 16, libertà di circolazione e soggiorno


Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo
le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna
restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio
della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge

Definizione: Tra le libertà di disporre della propria persona fisica rientra anche la libertà di
spostamento, di circolazione e di scelta della propria dimora. SI tratta di un diritto che venne per molto
trascurato e di cui si è ampiamente discusso durante il lockdown per il Covid-19 del 2020. Alcuni anni
fa, in Costituzione era previsto che per gli obblighi di leva non si potesse espatriare. La norma è stata
modificata in occasione del rientro in patria dei Savoia.
Nella libertà di circolazione rientrano sia la libertà di espatrio che la libertà di scelta del luogo di
esercizio delle libertà economiche.

Strumenti di tutela: La libertà di circolazione è garantita ai cittadini da una riserva di legge rinforzata
per contenuto, ma non da una riserva di giurisdizione. Le limitazioni alla circolazione sono stabilite
dalla legge in via generale, in modo tale da non incidere sulla dignità dei singoli e devono essere
motivate da ragioni concernenti la sicurezza e la sanità. In ciò si esplicita il rafforzamento della riserva
di legge, in quanto la Costituzione pone già i confini all’intervento nella limitazione della circolazione.
Non compromettono tale libertà le norme che regolano o limitano l’uso delle strade per motivi di
sicurezza o di protezione di altri interessi pubblici, né le norme edilizie o urbanistiche che restringono
il diritto dell’individuo di scegliere il luogo in cui abitare.

ARTICOLO 15 - libertà di corrispondenza e comunicazione


La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.
La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie
stabilite dalla legge.

L’art.15 tutela la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione, a partire da quella più
tradizionale, ossia la corrispondenza. Al contrario della libertà di manifestazione del pensiero, tutelata
dall’art.21, la libertà di comunicazione tutela l’espressione del proprio pensiero che è
intenzionalmente non manifesta e riservata → ciò che differenzia le due libertà è, dunque, la
segretezza. Se la volontà del soggetto è quella di limitare la diffusione del messaggio entra in gioco
l’art.15; se invece la volontà è quella che il messaggio circoli il più possibile si prende in
considerazione l’art.21. La libertà e la segretezza sono assicurate dalla Costituzione a tutte le forme
di comunicazione, sia essa veicolata attraverso parole o altri segni, sia essa scritta o orale, sia essa
trasmessa per posta, telefono o in via telematica.

Strumenti di tutela: La libertà di segretezza della comunicazione è tutelata dalla riserva di legge e
dalla riserva di giurisdizione.

Limitazioni: I codici di procedura penale prevedono norme che permettono alla polizia di intercettare
comunicazioni e conversazioni, dietro autorizzazione dell’autorità giudiziaria e solo il giudice può
prenderne cognizione. Per le intercettazioni telefoniche, il p.m. deve chiedere l’autorizzazione del
giudice, che l’accorda soltanto quando, in relazione a delitti di particolare gravità vi siano indizi di
reato e l’autorizzazione sia fondamentale ai fini dell’indagine.

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Per l’acquisizione dei dati di traffico esterni alla comunicazione, ma che forniscono molte informazioni
sul luogo in cui avviene la comunicazione, non è necessaria l'autorizzazione del giudice. L’art.15
costituisce la base per il diritto alla privacy e alla riservatezza. Le garanzie poste a tutela sono quelle
che limitano i pubblici poteri mediante riserva di legge e giurisdizione senza eccezioni; nei confronti
del privato in previsione di reati (caso delle intercettazioni).

ARTICOLO 21 - libera manifestazione del pensiero


I. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione.
II. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
III. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti,
per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme
che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.
IV. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento
dell'autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di
polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia
all'autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro
s'intende revocato e privo d'ogni effetto.
V. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di
finanziamento della stampa periodica.
VI. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al
buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le
violazioni.

Il 1° comma dell’art.21 sancisce il diritto riconosciuto a tutti di manifestare liberamente il proprio


pensiero, garantendo la libertà di espressione, pietra angolare di tutto il sistema democratico. Sono
titolari di questo diritto tutte le persone fisiche e le persone giuridiche, che lo esercitano attraverso i
loro rappresentanti. Recentemente si è iniziato a discutere anche sulla titolarità del diritto di libera
manifestazione del pensiero dei robot, data la continua evoluzione della tecnologia e la produzione di
informazioni attraverso gli algoritmi. L’art.21 copre tutte le manifestazioni di pensiero che si esprimono
con lo scritto o la parola; la libertà non è circoscritta al solo ambito politico, ma non vi può essere
alcuna selezione tra le idee quanto a scopi, contenuti e circostanze → ogni libera manifestazione
del pensiero è tutelata dall’art.21 senza distinzioni. Vi sono particolari forme di manifestazione del
pensiero per le quali la Costituzione prevede un regime speciale: così è per la fede religiosa e l’arte,
da cui discendono a loro volta la libertà di ricerca scientifica e la libertà di insegnamento.

Unico limite imposto dall’art.21 alla libertà di espressione è il buon costume, che va inteso con il
significato di “pudore sessuale”. Tale interpretazione è molto simile a quella impiegata nel diritto
penale, ma diversa dalla clausola del buon costume nel codice civile: in questo caso si intende la
moralità in generale, non solo legata alla sfera sessuale. Il limite del buon costume è comunque
strettamente legato all’evoluzione dei costumi e della società: rientra infatti in quelle nozioni che non
hanno significato stabile e contenuti prestabiliti ma vanno riempite con valutazioni lasciate
all’interprete. La legge sulla stampa estende il reato di pubblicazioni oscene fuori dai limiti del pudore
sessuale, punendo anche le pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante che
provochino turbamento alla comune moralità. Il buon costume non sussiste per opere d’arte e scienza

I reati di opinione → nella legge penale vi sono diverse fattispecie di reato che si realizzano
attraverso forme di espressione del pensiero, punendo cioè quanto tutelato dall’art.21. Data
l’ambiguità di tale situazione, i reati d’opinione sono stati sottoposti alla Corte Costituzionale, che ne
ha fatti salvi alcuni, seguendo 2 filoni di pensiero:
● si deve distinguere tra espressione del pensiero e principio di azione → ciò vale soprattutto per
reati come l’istigazione, l’apologia di delitti (propaganda o giudizio positivo dato in pubblico
rispetto ad un comportamento che costituisce reato) e la diffusione di notizie false o
tendenziose. Secondo la Corte Costituzionale sono punibili dunque le espressioni del pensiero
che possono determinare direttamente l'attuazione di un’azione pericolosa per la sicurezza
pubblica. E’ il giudice in concreto che deve verificare se la fattispecie concreta rientra in una di
queste situazioni.
● la libertà di espressione non può arrivare a ledere l’onore altrui → ciò legittima reati come
l’ingiuria e la diffamazione, i reati che ledono il sentimento religioso e il prestigio delle istituzioni
(reato di vilipendio e di oltraggio). Anche in questo caso di lascia al giudice la valutazione del
caso concreto.

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I mezzi di comunicazione → la libertà di espressione è garantita a tutti e tutti possono esprimere il
loro pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Il problema è che i mezzi di
comunicazione più efficaci non sono disponibili a tutti: la stampa e la televisione hanno costi molto alti
e ciò porta la libertà di manifestazione del pensiero ad intrecciarsi con la libertà di iniziativa
economica. Tuttavia ciò che deve essere tutelato è anche il pluralismo dell’informazione, che va ad
inserire in questo ambito il diritto all’informazione ma anche quello ad essere informati. Tuttavia, tale
diritto è garantito solo se è qualificato e caratterizzato dal pluralismo delle fonti da cui attingere e
conoscere le notizie. Da qui nasce la legislazione anti-trust che, a partire dal 1981, ha cercato di porre
sotto controllo i trasferimenti di proprietà delle imprese giornalistiche e televisive, per renderli
trasparenti e per evitare la concentrazione e la formazione di posizioni dominanti.

Il regime della stampa → dal 2° comma in poi, l’art.21 è interamente dedicato alla disciplina della
stampa. La Costituzione vieta ogni forma di controllo preventivo alla stampa, ossia di applicare
autorizzazioni o censure. In questo modo, i Costituenti volevano evitare che si ripetessero gli
interventi dei pubblici poteri sulla stampa che avevano caratterizzato il ventennio fascista. Con
autorizzazione si intende un provvedimento che subordina l’esercizio di un’attività ad un permesso. Di
conseguenza è lecito fondare un giornale o qualsiasi altra forma di carta stampata senza che vi sia un
permesso preventivo dell’autorità pubblica. La censura è invece un atto del pubblico potere, che si
realizza attraverso il controllo degli stampati prima della loro diffusione. Nel periodo dello Statuto
Albertino vigeva la censura per i testi religiosi, che dovevano essere approvati prima di essere
pubblicati.

La Costituzione ammette la possibilità del sequestro, ossia del ritiro della stampa successivo alla sua
pubblicazione. Il sequestro è circondato da garanzie molto rigide:
● Riserva di legge assoluta → il sequestro è ammesso nel caso di delitti per i quali la legge sulla
stampa espressamente lo autorizzi. Con il termine legge sono da intendersi le norme penali, che
consentono il sequestro per le pubblicazioni che sono da ritenersi oscene e offensive della
pubblica decenza. Il sequestro è dunque preordinato alla salvaguardia del buon costume; a
questa disposizione si affianca la Legge Scelba, che prevede il sequestro per le pubblicazioni
attraverso cui si compia delitto di apologia di fascismo. Inoltre è previsto il sequestro per le
pubblicazioni anonime, che non permettono a chi si sente danneggiato di far valere la
responsabilità dell’autore di esse. E’ necessario dunque che sugli stampati sia indicato il nome
del responsabile, che deve essere iscritto all’albo dei giornalisti.
● Riserva di giurisdizione → il sequestro deve essere disposto dal giudice, ma in caso di urgenza
può provvedere la polizia, con obbligo di comunicazione del provvedimento al giudice entro 24
ore e necessità di convalida nelle 24 ore successive (tempi dimezzati rispetto al resto).

Il reato di diffamazione non comporta il sequestro dello stampato, ma è necessario che si attenda la
fine del processo e poi la condanna. La stampa è un mezzo di comunicazione in evidente crisi e
dunque ci si chiede se l’art.21 possa essere applicato anche ad altri mezzi di comunicazione. La
Corte di Cassazione ha affermato che qualora un giornale telematico si sia registrato e abbia quindi
una struttura professionale, esso gode della tutela di tale articolo. Se invece si tratta di un singolo che
lo esercita occasionalmente, non ne gode.

Regime della radiotelevisione → è stato compito della Corte Costituzionale elaborare i principi che
ispirano la disciplina della radiotelevisione. La radio era nata in Italia come monopolio pubblico nel
1936, in quanto si pensava che in questo modo si sarebbe garantito il pluralismo dell’informazione,
cosa che non avverrebbe in un regime privatistico. Nel corso del tempo si sono susseguite una serie
di sentenze che hanno aperto la strada ad un regime misto. Con il Decreto Berlusconi venne
legittimata la situazione che si era creata in cui gli enti privati avevano assorbito la maggior parte dei
trasmittenti locali. La Corte Costituzionale minacciò di rendere illegittima tale disciplina e la riforma
arrivò con la Legge Mammì, con la quale si instaura un regime misto, in cui il servizio pubblico è
affidato ad una società a totale partecipazione pubblica, la RAI, e accanto ad esso vi sono dei
concessionari privati, che gestiscono trasmettitori a livello nazionale o locale

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ARTICOLO 17 - libertà di riunione
I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al
pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle
autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.

L’art.17 e l’art.18 (*) hanno una forte matrice politica in quanto è attraverso questi due diritti che si
sviluppa la vita democratica. La loro tutela rafforzata è giustificata dal fatto che nel corso della storia
sono stati i primi diritti ad essere soppressi dai regimi autoritari.

Definizione: Con riunione si intende la compresenza volontaria di più persone nello stesso luogo,
che sono accomunate da uno scopo comune. La libertà di riunione esprime il diritto di tutti di riunirsi
pacificamente e senz'armi. Ciò che si vuole tutelare con l’art.17 è dunque l’ordine pubblico, nonché la
sicurezza e l’incolumità delle persone. Nel caso in cui sfoci nella violenza, la riunione può essere
sciolta dall’autorità pubblica. Il fatto che qualcuno sia armato non comporta lo scioglimento totale della
riunione, ma solo l’allontanamento del soggetto pericoloso. Con “armi” si intendono tutti gli strumenti
utilizzabili per l’offesa fisica alla persona (Testo Unico di Pubblica Sicurezza). Le riunioni possono
svolgersi in luogo privato, luogo aperto al pubblico e luogo pubblico. Solo per le riunioni in luogo
pubblico è previsto l’obbligo di preavviso che deve essere dato in forma scritta almeno 3 giorni prima
dell’evento al questore. Si tratta di un preavviso e non di un’autorizzazione, tanto che il questore può
impedire che la riunione di svolga solo per ragioni di sicurezza o incolumità pubblica. Le riunioni sono
legittime anche senza preavviso ma l’organizzatore dovrà poi rispondere della sua mancanza davanti
al giudice penale. Il divieto deve essere essere motivato e può essere impugnato davanti al giudice.

ARTICOLO 18 - libertà di associazione


I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai
singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche
indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

Con associazione si intendono quelle formazioni sociali che hanno base volontaria ed un nucleo di
organizzazione e di tendenziale stabilità. L’art.18 si rivolge a tutte le associazioni, qualunque sia la
loro natura giuridica, e ne enuncia la disciplina generica. Per alcuni tipi di associazioni, come le
associazioni sindacali (art.39), i partiti politici (art.49) e le confessioni religiose (art.19-20), la
Costituzione prevede discipline specifiche.

L’art.18 pone tre garanzie alla libertà di associazione:


● Adesione, che deve essere libera e tale libertà si esplicita anche nel non prendere parte ad
alcuna associazione (tratto di distacco rispetto al regime fascista che prevedeva l’appartenenza
obbligatoria degli ebrei alla Comunità israelitica locale). Vi sono, tuttavia, delle associazioni sui
generis per le quali è prevista l’iscrizione obbligatoria, ovvero gli ordini professionali, le
federazioni sportive e i consorzi obbligatori tra proprietari e produttori. La libertà di iscriversi e non
iscriversi è dunque subordinata alla persecuzione di interessi pubblici. La libertà negativa ha
riflessi anche sull’organizzazione interna dell’associazione, che può regolare ma mai impedire il
recesso dell’iscritto
● Istituzione dell’associazione, che può avvenire senza autorizzazione → Le autorità pubbliche
non possono intervenire nella creazione di un’istituzione, in quanto questa prerogativa spetta solo
al singolo cittadino
● Riserva di legge rinforzata, che impedisce di fondare associazioni per fini che siano vietati dalle
norme del codice penale, escludendo dunque che la legge possa porre dei divieti specifici alle
associazioni, che invece sono sottoposte agli stessi dei singoli cittadini. Tutte le associazioni
dunque sono lecite tranne quelle che abbiano come fine commettere un reato (divieto per
l’associazione a delinquere). Sono inoltre vietate le associazioni sovversive antinazionali, che
hanno il fine di sovvertire sovvertire l’ordinamento in senso fascita (XII disposizione finale).
Immediatamente dopo la caduta del facismo si andò a formare il movimento sociale, di stampo
fascista, che non venne mai messo fuori legge perché in questo modo lo si sarebbe estremizzato.
L’ordinamento italiano è una democrazia aperta, che ammette anche chi non crede in essa
proprio perché si tutela il metodo democratico.

Vi sono due tipi di associazioni espressamente vietati:


● associazioni segrete
● associazioni che perseguono scopi politici mediante organizzazioni militari

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Associazioni segrete: sono definite dalla “legge P2” del 1982, emanata in seguito alla scoperta delle
attività illecite svolte dalla loggia massonica. Venne fondata negli anni 70 da Licio Gelli, condannato
per depistaggio sulla strage di Bologna; tra i componenti figuravano importanti figure statali; aveva
come fine l’instaurazione di una democrazia autoritaria, che utilizzasse il pugno duro nei confronti dei
comunisti. La legge P2 afferma che le associazioni segrete sono quelle in cui sono nascosti gli scopi
e i soci e svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni degli organi costituzionali e
dell’amministrazione pubblica. Alla Costituzione, dunque, non interessano le associazioni che restano
in ambito privato, ma sono importanti quelle che vogliono influire sulla vità pubblica, che hanno
l’obbligo di agire in maniera trasparente. La legge P2 inoltre stabilisce le modalità per lo scioglimento
delle associazioni segrete: ci deve essere una sentenza irrevocabile che accerti l’esistenza
dell’associazione segreta, a cui segue un decreto del Presidente del Consiglio che ne ordini lo
scioglimento e la confisca dei beni.

Associazioni paramilitari: si intendono quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici
mediante organizzazioni di carattere militare. Tali associazioni devono avere due caratteristiche
fondamentali: l’attività politica e l’organizzazione militare congiunte insieme; non devono inoltre
essere organizzate in reparti o squadriglie e in modo gerarchico. Il divieto di tali organizzazioni mira
ad evitare che si ricostituiscano gruppi in contrasto con l’ordinamento democratico, come le milizie
fasciste.

ARTICOLO 49 - l’associazione politica


Evoluzione dei partiti politici: Il rapporto tra Stato e partiti nella storia d’Italia è sempre stato molto
difficile da regolare. Nello Stato liberale l’idea del partito politico, inteso come partito di massa
composto da iscritti che perseguono un'ideologia e un fine comune, era estranea e giudicata in modo
negativo. La logica dello stato liberale prevedeva infatti che la decisione politica dovesse essere
presa in Parlamento dopo un dibattito tra soggetti senza vincoli esterni. La divisione interna del Paese
era infatti considerata un freno alla migliore decisione derivante dal dibattito parlamentare. Di
conseguenza, i partiti liberali erano aggregazioni di personalità che si dividevano secondo schemi
molto fluidi: molti si spostavano dal centro alla sinistra o alla destra, all’interno però di un quadro di
valori particolarmente omogeneo. I partiti novecenteschi, che nascono alle fine dell’800 e faticano ad
affermarsi nello Stato liberale, costituiscono un fenomeno di grande rilievo che si accompagna
all’estensione del diritto di voto. I partiti di massa, infatti, tendono a rappresentare gli interessi di una
parte della popolazione e trovano un’importante affermazione dopo la IGM, quando inizia a venire
meno il predominio dei liberali, entrando nell’area di Governo. Tale sviluppo è più lineare in alcuni
paesi come in Francia e in Germania, mentre in Italia la paura dei ceti agiati di essere sostituiti da una
nuova classe dirigente socialista e cattolica porta ad un’involuzione autoritaria con il fascismo, che
mette fuori legge tutti i partiti, al di fuori di quello facista, e organizza la società attorno ad esso. Viene
totalmente negato il pluralismo politico e il partito nazionale fascita diventa anche organo dello Stato
(ancora oggi in Cina il partito è lo Stato). Dopo la caduta del regime fascita, i partiti politici tradizionali,
provenienti dal periodo precedente al fascismo, si affermano nella società come i nuovi grandi
soggetti che dominano la vita pubblica. Durante la Resistenza e subito questi partiti acquisiscono una
legittimazione sociale fortissima, ottenendo numeri di iscrizione altissimi e favorendo l’identificazione
tra partito e cittadini. Dal 1946 fino agli anni ‘70, la vita delle persone era segnata dalla partecipazione
ad un partito, in quanto ne costituiva la socialità. I cambiamenti politici erano dei traumi e chi usciva
da un partito, si portava dietro delle fratture nel sociale. E’ da questo contesto si comprende la ratio
della disciplina costituzionale dei partiti politici italiani.

Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico
a determinare la politica nazionale.

I partiti sono lo strumento principale tramite cui in democrazia i cittadini, associandosi, partecipano
alla politica nazionale dello Stato. I partiti interpretano, mediano, organizzano e rappresentano i
molteplici interessi e bisogni presenti nella società, ricondotti in proposte politiche unitarie rivolte a
tutti i cittadini in modo tale da poter ottenere consensi. Il ruolo dei partiti, essendo espressione della
società civile, si proietta a livello istituzionale, senza però trasformarsi in organi dello Stato legittimati
costituzionalmente. Non sono dunque disciplinati da regole pubblicistiche, ma dalle norme tipiche
delle associazioni. I partiti sono inoltre dei ponti tra la società e le istituzioni, grazie ai quali l’attività del
Governo e del Parlamento diventa rappresentativa degli interessi dei cittadini e politicamente
responsabile verso di loro. La democraticità è espressa proprio da questo ruolo dei partiti, intesi come
il modo più naturale di partecipazione politica alla vita del paese.

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L’art.49 consente a tutti i cittadini il diritto di associarsi in partiti. Alcune deroghe ammettono nei partiti
anche gli stranieri o gli apolidi, pur non permettendo loro di ricoprire posizioni dirigenziali all’interno di
essi. L’adesione ai partiti può essere inoltre limitata dalla legge ai magistrati, ai militari in carriera, ai
funzionari e agenti di polizia e ai diplomatici all’estero per tutelare la posizione di imparzialità che
devono rispettare.

Inoltre la libertà di associarsi ammette anche la formazione di una molteplicità di partiti diversi,
rendendo così esplicito il principio del pluralismo politico, alla base dei sistemi democratici. E’ da
sottolineare che può essere negato l’accesso ai partiti quando si ritenga che la condotta o le ideologie
del soggetto siano in contrasto con gli obiettivi che il partito vuole perseguire.
Si è molto dibattuto sul significato dell’espressione “metodo democratico”.

Si può analizzare la situazione da due punti di vista differenti:


● verso l’esterno → obbligo per i partiti di agire all’esterno accettando le regole del sistema
rappresentativo, a partire da quelle elettorali, competendo lealmente tra loro, senza ricorrere a
mezzi illegali e illeciti che impedirebbero il pluralismo politico, garante del vero confronto
democratico e dell’effettiva competizione politica. Ciò che viene imposto è dunque il metodo
democratico, non l’ideologia: i partiti infatti sono liberi di non essere fedeli agli ideali politici e ai
valori della costituzione. Partiti di tal genere non vennero mai dichiarati illegittimi e relegati ai
margini della dimensione politica (conventio ad excludendum), in modo tale da superare le
divisioni e non permettere la loro estremizzazione. Il divieto di ricostituzione del partito fascista
costituisce un’eccezione.

● verso l’interno → sussistono obblighi di democraticità rispetto l’organizzazione interna del partito,
che si esplicita nel rapporti tra gli iscritti e gli organi direttivi. Entrano qui in gioco i diritti inviolabili
di riunione, associazione e espressione. L’organizzazione interna di un partito non è mai stata
disciplinata da una legge specifica e ciò è ancora più grave in rapporto all’evoluzione che i partiti
hanno avuto negli ultimi anni. Non si tratta più di partiti di massa, fondati su organizzazioni rigide
e ideologie radicate, ma di partiti di opinione, spesso legati alla figura del leader, senza
un’organizzazione stabile e specifica. Per questo motivo, per accedere ai finanziamenti, è
necessario che si dotino di uno statuto, che contenga i tratti essenziali di democrazia interna e di
trasparenza nei confronti degli elettori. L’indebolimento del legame ideale all’interno di un partito
ha condotto alla necessità di una regolazione maggiore dei partiti in generale e di conseguenza
approvare una normativa che garantisca in maniera generale la democraticità interna dei partiti.
data l’attuale eterogeneità dei partiti, una qualsiasi legge ne metterebbe fuori legge qualcuno. Lo
stato di salute dei partiti è spesso dimostrazione del buon funzionamento delle istituzioni.

IL RAPPORTO TRA LO STATO E LE CONFESSIONI RELIGIOSE


Per quanto concerne i rapporti tra lo Stato e le altre confessioni religiose, la Costituzione prevede una
disciplina enunciata da 3 articoli:
● Articolo 7 → rapporto tra lo Stato e la Chiesa cattolica
● Articolo 8 → rapporto tra lo Stato e le altre confessioni religiose
● Articolo 19 → libertà di culto

ARTICOLO 7
Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti
sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono
procedimento di revisione costituzionale.

L’art.7 fu una delle norme più controverse da sviluppare e approvare; in Costituente vi erano infatti
due schieramenti contrapposti: coloro che sostenevano l’opzione concordataria e coloro ,invece, sulla
scia del motto di Cavour “Libero stato, Libera Chiesa”, sostenevano l’opzione separatista → prevalse
la prima grazie all’appoggio di Togliatti. I rapporti tra Stato e Chiesa furono nel corso della storia
abbastanza altalenanti: nonostante l’affermazione nello Statuto Albertino della religione cattolica
come religione di Stato, le tensioni iniziarono a causa della presa dei territori pontifici da parte del
Regno d’Italia e l’instaurazione al Quirinale del PdR, che prese il posto del Papa. Questa crisi culminò
con la pronuncia del non expedit da parte di Papa Pio IX. Il punto di conciliazione si raggiunse con i
Patti Lateranensi, stipulati nel 1929 tra Mussolini e la Chiesa, che garantivano a quest’ultima il
carattere di soggetto di diritto internazionale, ampia libertà di manovra e ristoro per le perdite
immobiliari subite 10 anni prima. Dopo la caduta del fascismo, in Assemblea costituente si discutè
molto sulla tenuta delle disposizioni degli atti, data la loro origine.

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Il 1° comma stabilisce la distinzione netta tra l’ordinamento statale e la Chiesa → tutti in Assemblea,
aggiungendo anche la posizione favorevole della Chiesa, concordavano sull’importanza del distacco
tra l’ordine della Chiesa e quello dello Stato, in modo tale che nessuno dei due potesse interferire
nella sfera d’influenza dell’altro.

Il 2° comma verte sul definire i rapporti tra lo Stato e la Chiesa → la parte cattolica temeva per la
sorte dei Patti Lateranensi, la cui disciplina era insita nella natura confessionale italiana, ma non era
in linea con quanto enunciato al 1° comma. La DC sosteneva il mantenimento dei Patti nella nuova
Costituzione in modo tale da tutelare le relazioni tra i due ordinamenti, mentre i comunisti aspiravano
al contrario. La questione si risolse con il sostegno di Togliatti al mantenimento dei Patti.
La disciplina dei Patti riuscì a coesistere con quanto enunciato dall’art.7/8/19, in evidente
contrapposizione, per circa 40 anni. Nel 1984 si arrivò ad un’intesa che portò alla modifica dei Patti.

ARTICOLO 8
Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose
diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino
con l'ordinamento giuridico italiano.

I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.
Il principio di laicità dello Stato, introdotto all’art.7, viene ulteriormente rafforzato dall’art.8, in cui viene
inteso come tutela del pluralismo confessionale e della libertà religiosa.

Il 1° comma dispone l’uguaglianza di tutte le confessioni religiose di fronte alla legge, implicando così
il rispetto della loro diversità. Questo comma risulta fondamentale per riequilibrare le diversità di
trattamento che potenzialmente potrebbero tramutarsi in privilegi selettivi e discriminatori. La
giurisprudenza costituzionale attuale riconosce a tutte le confessioni religiose, dopo la riforma del
concordato, eguale trattamento.

Il 2° comma tutela le prerogative delle confessioni che, strutturate in un’organizzazione, vogliono


attribuire ad essa carattere istituzionale, cosa che può essere fatta attraverso uno statuto, che
comprende norme relative alla struttura e ai principi ideologici della confessione religiosa. Tuttavia le
norme statutarie non devono entrare in contrasto con quanto stabilito dall’ordinamento italiano: in
questo limite rientrano solo i precetti o le regole che interferiscono in maniera diretta con
l’ordinamento civile (non sono sottoposti a questo vincolo i principi di carattere strettamente
professionale.

Il 3° comma stabilisce che i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla religione
cattolica sono regolati da intese fra i relativi rappresentanti. Le trattative sono affidate alla Presidenza
del Consiglio, che si avvale di una specifica commissione esperta in materia, e ai rappresentanti delle
confessioni religiose. Le decisioni sull’esito favorevole o meno della trattazione spettano al Governo
nella sua collegialità. Le intese hanno esteso alle confessioni religiose diverse dalla religione cattolica
privilegi in ambito fiscale e finanziario, prima solo della Chiesa. Lo Stato non può modificare queste
stipule in maniera unilaterale, ma solo attraverso la bilateralità pattizia (si approva un’altra legge su
un’altra intesa). Tuttavia non tutte le confessioni religiose riescono a stipulare accordi a causa della
mancanza di rappresentanti.

Data l’assenza di una legge che tuteli in maniera generica la libertà religiosa, si crea inevitabilmente
un pluralismo confessionale a gradi differenziati:
1. il ruolo privilegiato spetta alla religione cattolica
2. le confessioni religiose che hanno stipulato un’intesa con lo Stato
3. le confessioni senza intesa che sono sottoposte alla legge del 1930 sui culti ammessi e sono
distinte in confessioni riconosciute e non riconosciute

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ARTICOLO 19
Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o
associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di
riti contrari al buon costume.

L’art.19 tutela la libertà di culto e dunque l’aspetto più individuale della libertà religiosa. Tale libertà si
estende a tutte le attività connesse al culto, dal proselitismo ai rituali. L’aspetto negativo della libertà si
manifesta sia nel non svolgere alcuna attività di culto, sia nella tutela della libertà di coloro che non
professano alcuna fede religiosa. Unico limite all’esercizio della libertà religiosa è il buon costume,
concetto indefinito che assume ampi significati e in questo caso si riferisce essenzialmente alla
morale sessuale.

I diritti sociali
I diritti precedentemente enunciati, riguardanti le libertà inviolabili degli individui, richiedono
espressamente un comportamento astensionista dello Stato. Sono poi previsti nel testo costituzionale
altri diritti, i cosiddetti diritti sociali, che possono essere garantiti solo attraverso un ruolo attivo da
parte dei pubblici poteri. Essi rendono lo Stato democratico uno Stato democratico-sociale. Come si
sostanzia il compito della Repubblica?
● garanzia di pari opportunità di partenza → non si tratta di una costituzione egualitaria di
stampo comunista che vuole giungere all’eguaglianza nei risultati, ma di un testo
costituzionale che vuole garantire a tutti, attraverso l’intervento dello Stato, di sfruttare a
pieno i propri talenti e di ottenere delle gratificazioni attraverso il lavoro. Per fare ciò lo Stato
incide sui rapporti sociali, sull’istruzione, sui rapporti di lavoro ossia diritti che hanno un
duplice aspetto: da un lato sono diritti di libertà, nel senso dell’autodeterminazione delle
proprie scelte, ma dall’altro necessitano del sostegno dello Stato per essere realizzati a
causa del loro elevato costo
● lo Stato deve avere un’ingente massa di risorse, che vengono ottenute soprattutto dal
versamento delle imposte da parte della cittadinanza. La tassazione, ispirata al principio della
progressività e commisurata alle ricchezze, è una delle caratteristiche peculiari dello stato
sociale ed è volta a riequilibrare le disuguaglianze.

ARTICOLO 32 - il diritto alla salute


La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e
garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento
sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal
rispetto della persona umana.

La Costituzione tutela la salute sotto una pluralità di aspetti:


● la salute è concepita come un diritto di libertà individuale, la salute è un fondamentale diritto
dell’individuo. è diritto del singolo scegliere come curarsi.
● salute intesa come interesse pubblico, della collettività (aspetto che si può porre in antitesi
con il precedente, quale prevale?)
● diritto di prestazione dello stato; si garantisca che l’individuo si possa curare, ma anche che
lo stato stesso cura e garantisce le cure gratuitamente.

Queste tre prospettive non devono essere prese in prospettive separate, ma insieme disegnano in
complessivo il diritto alla salute, questo è un diritto che anche per l'interpretazione costituzionale è
l’insieme del testo e le interpretazioni che al testo sono state date e gli aggiornamenti.
A partire dagli anni settanta la giurisprudenza ha affermato che la tutela alla salute rappresenta un
diritto primario e assoluto della persona, e dalla lesione di questo deriva il diritto al risarcimento di
eventuali danni.

Dall’articolo 32 si è individuato il diritto all’ambiente, un ambiente salubre e quindi una pretesa a


condizioni di vita e di lavoro che non mettano in pericolo la salute (questo diritto deve essere
tutelato eventualmente anche contro l’autorità pubblica). Inoltre è intesa come singola cura alla
persona malata, concezione antica, ma anche come complessiva prevenzione della malattie
attraverso politiche di prevenzione di vaccinazione. Il testo costituzionale garantisce cure gratuite ai
soli indigenti (chi è in condizioni precarie); chi non è indigente, potrebbe non avere un diritto
costituzionale a cure gratuite e in qualche modo. Si ha un cambiamento epocale negli anni 70, si
introduce una tutela del diritto alla salute con il principio di universalità, si istituisce il servizio
sanitario nazionale (SSN) che garantisce a tutti (senso ampissimo) il diritto alla salute, lo garantisce
a tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali.

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Si predispone un apparato importante e costoso che deve garantire cure per tutti (sistema finanziato
dalla fiscalità generale); il servizio sanitario nazionale deve garantire cure a tutti (il servizio è
universale). Il servizio comprende anche quelle strutture private che sono convenzionate con lo
stato/regione; sono inoltre comprese le visite specialistiche o prescrizioni farmaceutiche con dei ticket
a carico dell’assistito.

A chi è garantito il diritto alla salute?


Deve essere garantito anche a chi non ha titolo per risiedere nel territorio italiano. La costituzione e il
servizio sanitario nazionale tutelano il diritto alla salute come un bene universale. Non tutti hanno
diritto allo stesso grado di salute, nel senso che un irregolare ad esempio non ha diritto ad
accedere a particolari servizi del servizio sanitario nazionale; le cure alternative non sono garantite
universalmente.nIl nucleo duro del diritto alla salute è garantito universalmente, si ha quindi una tutela
universale.

Trattamenti sanitari obbligatori: ci vuole una normativa primaria che preveda i trattamenti sanitari
obbligatori. Può la legge imporre un obbligo vaccinale? Sì, ma a determinate condizioni. è necessario
che il parlamento con una legge prevede un determinato trattamento, un obbligo vaccinale, in seguito
a valutazioni di tipo scientifico; nessuno può essere sottoposto ai trattamenti sanitari obbligatori se
non per disposizione di legge e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana. Il parlamento è
libero di decidere se introdurre o meno un obbligo vaccinale? No, perchè si devono tenere in
considerazione i valori, in quanto il trattamento sanitario obbligatorio si pone in contraddizione con il
primo comma, ovvero la libertà di cura. Nel momento in cui si pone un obbligo di cura si limita lo
spazio di libertà. Ciò non significa che non si possa imporre un obbligo. Infatti il legislatore deve
valutare qual è l’interesse collettivo protetto, il sacrificio del diritto individuale deve essere
bilanciato da un effettivo interesse della comunità. In casi eccezionali indicati dalla legge, i
trattamenti sanitari quindi possono essere imposti a tutela della salute come interesse della
collettività (ad esempio forme di quarantena e isolamento per prevenire la diffusione del covid).
L’effetto della vaccinazione deve andare oltre il benessere dell'individuo in senso stretto ma deve
investire anche il benessere della collettività. Come si fa questo bilanciamento tra singolo e
collettività? Lo fa sulla base delle notizie scientifiche, il legislatore non può decidere lui qual è lo
stato della scienza, ma deve verificare se effettivamente sulla base delle conoscenze scientifiche a
quel trattamento sia ragionevolmente sicuro. La scienza deve essere aggiornata, e deve ritenere che
quel trattamento sia sicuro e ragionevolmente efficace. Allora il legislatore potrà introdurre quel
trattamento sanitario obbligatorio, prevedendo tuttavia un obbligo di risarcimento del danno per
coloro che per quel trattamento sono danneggiati. Questo tipo di trattamento sanitario impone alla
collettività l’adempimento di un dovere di solidarietà, soprattutto nei confronti di soggetti
immunodepressi che non possono ricorrere alla vaccinazione.

I servizi psichiatrici
Si ha una disciplina specifica per quanto riguarda i trattamenti sanitari obbligatori che riguardano
persone affette da disturbi mentali. Nel 78 sono stati chiusi i manicomi, i malati di mente ad oggi sono
assistiti dai servizi psichiatrici territoriali in base al principio della volontarietà dei trattamenti. è
previsto il ricovero coatto (ricovero forzato adottato su ordinanza del sindaco) per l’infermo che rifiuti
interventi terapeutici e sia necessario che questi vengano svolti in una struttura ospedaliera.

La tossicodipendenza
Non è possibile imporre un trattamento sanitario al tossicodipendente (salvo casi di alterazione
psichica); la legislazione quindi non prevede fra i trattamenti sanitari obbligatori dei programmi
terapeutici o socio-riabilitativi per questi soggetti, in quanto l’adesione e la partecipazione deve
essere spontanea da parte del diretto interessato.

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IL DIIRTTO ALL’ISTRUZIONE

ARTICOLO 33 - libertà di insegnamento


I. L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
II. La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini
e gradi.
III. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
IV. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve
assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello
degli alunni di scuole statali.
V. E` prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la
conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale.
VI. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti
autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

L’art.33 garantisce la libertà dell’insegnamento. Come tutte le libertà precedentemente enunciate,


si tratta di una libertà imposta.

Al 1° comma la libertà di insegnamento si traduce nel diritto al pluralismo dell’istituzione


scolastica e universitaria, ossia nella possibilità per ogni docente di interpretare la propria materia
secondo convinzioni personali etiche e filosofiche, dando però spazio, nell’insegnamento, alla
pluralità delle interpretazioni che vi possono essere riguardo ai diversi argomenti. Il docente non può
dunque imporre un’unica lettura della realtà, in quanto non sta esercitando il suo diritto alla libertà di
pensiero ma sta adempiendo ad una funzione, che è quella dell’insegnamento,il cui ambito di libertà è
comunque molto ampio.

Si può insegnare qualsiasi cosa? Si sono verificati casi di professori che nelle scuole facessero
esplicita propaganda a regimi autoritari, come il nazismo. La costituzione prevede la libertà di
pensiero anche ideologie sovversive e antidemocratiche; tuttavia tale discorso non sussiste per la
libertà d’insegnamento, che deve sempre essere espressione del principio pluralista, tipico
dell’ordinamento democratico, e attenersi alla veridicità del dato storico o scientifico, non fornendo
interpretazioni distorte della realtà. Tali comportamenti possono condurre a sanzioni disciplinari che
comportano anche il licenziamento.

Il 2° comma pone in capo allo Stato due obblighi inderogabili aventi per oggetto l’enunciazione delle
norme generali sull’istruzione e l’istituzione di scuole statali per ogni ordine e grado. Ciò sottintende la
scelta netta dei Costituenti a favore della scuola pubblica, verso la quale è rivolto un maggiore favor
rispetto alla scuola privata in quanto espressione del principio pluralista, alla base della libertà di
insegnamento e di istruzione, aiutando i giovani a sviluppare la loro personalità. La scuola privata,
infatti, potrebbe essere una scuola di tendenza, una scuola confessionale, una scuola in cui
legittimamente si insegna una sola ideologia e una sola visione del mondo. Non si tratta comunque di
una scelta imposta, come in altri regimi in cui la scuola pubblica diviene il mezzo per l’indottrinamento
di massa → ciò avviene nei regimi autoritari, in cui si vuole ottenere il consenso dei giovani attraverso
l’insegnamento dell’ideologia dominante nelle scuole. Nello stato democatico invece, espressione del
principio pluralista, deve favorire il dialogo tra diversi nella provenienza sociale, culturale ecc.

Il 3° comma stabilisce che possano essere istituite scuole private ma senza oneri per lo Stato.
Quest'ultima espressione è tra le più discusse e ne discendono due interpretazioni:
● le scuole private possono essere istituite ma a spese di coloro che vi si vogliono recare. Il
capitale pubblico che lo stato mette a disposizione per l’istruzione deve essere speso solo per
le scuole pubbliche
● il finanziamento alle scuole private in sé non è lecito ma per garantire la libertà di scelta di
tutti e non solo dei ceti privilegiati, a determinate condizioni, vi possono essere delle misure di
favore per le famiglie che mandano i figli alle scuole private. Un esempio è il “buono scuola”,
che garantisce un rimborso per le spese scolastiche. Tuttavia questo aiuto dello Stato risulta
indirizzato solo a coloro che frequentano le scuole a pagamento e non agli utenti della scuola
pubblica.

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ARTCOLO 34 - diritto all’istruzione
La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e
gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli
studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre
provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

L’art.34 tutela il diritto all’istruzione per tutti indistintamente.

Il 2° comma prevede l’obbligo scolastico per almeno 8 anni, che è accompagnato dalla gratuità delle
scuole pubbliche. La scuola dell’obbligo pubblica è gratuita salvo per i libri di testo dalle scuole medie
in poi. Si ha insieme un diritto-dovere: il dovere è l’obbligo di frequentare la scuola per un tempo
minimo di 8 anni, periodo che il legislatore è autorizzato ad estendere, e il diritto di avere
un’istruzione, oggi scontato non come allora (nel 1946 l’obbligo scolastico era fissato a 5 anni di
frequenza).

Il 3° comma esplicita quello che è l’obiettivo di promozione sociale, già presente all’art.3 della
Costituzione: lo Stato garantisce ai capaci e meritevoli di raggiungere i più alti livelli di istruzione
anche se non dispongono dei mezzi necessari. Ciò è reso possibile grazie all’attribuzione di borse di
studio di agevolazioni varie attribuite per concorso (4° comma). SI tratta di diritti derivanti dal testo
costituzionale che dimostrano la natura meritocratica della Costituzione. Per il merito, ad esempio, vi
è la riduzione o la cancellazione delle tasse universitarie per coloro che sono in regola con gli esami e
hanno una media elevata. Il sistema che garantisce il diritto all’istruzione non è dunque asettico, ma è
collegato all’idea di cittadinanza che si vede nei primi articoli della Costituzione. I diritti sociali sono
tutte norme che impongono un enorme impegno da parte dello Stato, soprattutto in natura
economica, e sono norme che hanno tempi di realizzazione lunghissimi. Dopo 75 anni la scuola
italiana continua a non essere una scuola omogenea sul territorio. Vi sono delle distinzioni
geografiche enormi sia a livello scolastico che universitario e ciò incrementa le disparità sociali e
territoriali, adempiendo all’obiettivo fondamentale della scuola, che deve essere quello di fungere da
ascensore sociale per raggiungere livelli alti di istruzione aperti a tutti. La costituzione lascia alla
politica molte vie per attuare questi principi ma disegna un’idea di società libera ed egualitaria, la cui
realizzazione deve essere promossa di generazione in generazione.

LA COSTITUZIONE ECONOMICA
La Costituzione italiana, nella sfera dei rapporti economici, assume un modello di economia mista,
che si esplicita in serie di norme e principi che da un lato riconoscono l’iniziativa economica privata e
il diritto di proprietà, ma rispetto allo stato liberale ritengono che questi diritti non siano diritti sacri e
illimitabili, ma che debbano essere riconosciuti nell’ambito di un sistema che riconosce il ruolo dello
Stato nell'economia come imprenditore e regolatore)e nel quadro più generale di un sistema che mira
a incidere sui rapporti economico-sociali. Nella logica della Costituzione, come già enunciato ex
art.3-4, lo Stato non è indifferente nei rapporti tra privati che nascono nel mondo del lavoro o
dell’impresa, ma è volto ad assicurare l'eguaglianza di fatto e condizioni paritarie quando vi sia una
disparità di forze, in modo da limitare e regolare quei diritti che pure afferma, ossia l’iniziativa
economica e la proprietà. L’atteggiamento dello Stato e dei pubblici poteri riguardo l’economia e i
rapporti economici è tradotto nel testo costituzionale e può essere scisso in due blocchi:
● Art.35-40, il cui nucleo centrale di tutela è il diritto del lavoro
● Art.41-47, che vertono sull’iniziativa economica, la proprietà e il risparmio

I principi costituzionali sulla tutela del lavoro (35-40)


Il ruolo del lavoro all’interno della Costituzione è esplicitato, dato il luogo in cui viene posto, nella parte
dei diritti fondamentali ex art.1, per cui l’italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ed ex art.4, che
riconosce il valore del lavoro in ogni sua forma.
La disciplina specifica di tutela del lavoro è presente negli artt.35-40 del testo costituzionale.

ARTICOLO 35 - principio generale


La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione
professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi
ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi
stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero

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ARTICOLO 36 - equilibrio tra datore e lavoratore
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni
caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima
della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie
annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

L’art.36 analizza il rapporto che intercorre tra datore e lavoratore e fissa alcuni diritti fondamentali del
lavoratore. Obiettivo principale della Costituzione è quello di tutelare il soggetto più debole, ossia il
lavoratore, rispetto all’oppressione del potere privato più forte, ossia quello del datore. Vi sono una
serie di diritti che la Costituzione garantisce e sono indisponibili dallo stesso lavoratore, nella logica
che una loro disponibilità potrebbe portare a situazioni di ricatto da parte della controparte:

● La retribuzione deve essere dignitosa e proporzionata al lavoro svolto → nella logica


costituzionale il lavoro deve essere retribuito non in modo uguale ma in modo da consentire una
vita dignitosa. !! Nemmeno attraverso la libera contrattazione delle parti, il salario può essere
inferiore a una certa cifra, ad esempio oraria. La logica della Costituzione era quella (poi mai
applicata), prevista all’art.39, della stipula di contratti collettivi con efficacia erga omnes, ossia nei
confronti di tutti i lavoratori di una determinata categoria. Questi contratti collettivi nel disegno
costituzionale dovevano essere stipulati dalle organizzazioni rappresentative dei lavoratori e dei
datori; dovevano essere riconosciute con un determinato procedimento e dovevano vincolare per
i minimi anche coloro che non erano iscritti a quei sindacati. La via italiana non era quella sul
minimo orario, ma quella di un minimo salariale frutto di un accordo tra le parti. Si dà dunque
grande peso all’autonomia dei sindacati e delle organizzazioni a tutela dei datori. Il disegno
dell’art.39 per ragioni storiche è rimasto inattuato, perché né i sindacati né i datori di lavoro si
sentivano di seguire quella via prevista dalla Costituzione perché vi era l’obbligo di
riconoscimento dei sindacati e problemi burocratici che rendevano difficile la sua attuazione. Di
conseguenza gli accordi collettivi, che pure sono stati stipulati per categorie di grandi settori
organizzati, sono contratti di diritti privato e quindi vincolano solo gli iscritti al sindacato e alle
organizzazioni imprenditoriali. Ciò lascia scoperta un’ampia parte di lavoratori non iscritti ai
sindacati o di datori che lavorano in imprese che non aderiscono alle organizzazioni
imprenditoriali e quindi non hanno stipulato i contratti di lavoro. Se il contratto collettivo di una
categoria prevede un salario minimo e un lavoratore viene assunto da un imprenditore non iscritto
alle organizzazioni che gli propone di lavorare a meno di quanto stabilito nei contratti sociali, quali
tutele ha il lavoratore per ricondurre il suo salario a quello dei contratti collettivi? Viene in
soccorso l’art.36, utilizzato in maniera diretta dalla Costituzione → da tempo accade che si invoca
non direttamente il contratto collettivo che non si applica a chi non fa parte delle organizzazioni
sindacali in quanto contratto di diritto privato, ma l’art.36, che parla di salario dignitoso. Che cosa
si intende per salario dignitoso? Come si fa a valutarlo? Si usa come metro di paragone la
contrattazione collettiva: se il salario corrisponde almeno al minimo della contrattazione collettiva
allora è dignitoso, se non corrisponde allora no e deve essere portato a quel livello minimo
previsto dai contratti. In questo modo si estende la contrattazione collettiva, che rimane un
contratto tra privati, a tutti i lavoratori.

● sono disciplinati il diritto alle ferie e al riposo. Ci sono una serie di obblighi posti e la
Costituzione fissa dei diritti minimi che non possono essere derogati, sempre per la logica per cui
la parte debole potrebbe rinunciare ad un diritto pur di avere il posto di lavoro.

ARTICOLO 37 - il lavoro femminile


La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al
lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione
familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce
il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali
norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.

L’art.37 garantisce il lavoro femminile, affermando che, a parità di lavoro, la donna deve avere parità
di retribuzione nella contrattazione individuale; garantisce la tutela della lavoratrice anche come
madre. In base alla società in cui è nata la Costituzione, alla donna era affidato il compito di cura dei
figli e quindi la cost è attenta a garantire alla lavoratrice madre la possibilità di contemperare la sua
professione con l’attività di cura dei figli.

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ARTICOLO 38 - diritto alla previdenza e all’assistenza
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento
e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle
loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti
in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata
è libera.

Nell’art.38 è enunciato il diritto alla previdenza e all’assistenza. Con previdenza si intendono le


garanzie per i lavoratori contro gli infortuni, malattie, invalidità e vecchiaia. E’ una forma di tutela
collettiva di un diritto → il sistema è un sistema di contributi versati dal lavoratore stesso e dal datore
che consentono a chi diventa inabile al lavoro di essere protetto (INPS - Istituto Nazionale per la
Protezione Sociale). Sono inoltre previste garanzie di sussistenza a coloro che nella condizione di
inabilità non possono e non potranno mai lavorare.

ARTICOLO 39 - le associazioni sindacali


L'organizzazione sindacale è libera.Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro
registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. E` condizione per la
registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione
dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti
alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

Oltre alla disciplina sui contratti collettivi (non realizzata), nella prima parte si afferma la libertà
sindacale e di associazione sindacale, figlia del diritto di associazione, ma particolarmente tutelata e
garantita. Si parla di diritto di associazione sindacale e non di diritto di associazione imprenditoriale
nell’ottica di ribilanciamento dei livelli di potere tra datore e lavoratore.

ARTICOLO 40 - il diritto di sciopero


L'organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro
registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. E` condizione per la
registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I
sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione
dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti
alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

L’art.40 garantisce il diritto di sciopero, ossia uno dei modi fondamentali di pressione dei lavoratori
sulla controparte datoriale. La Costituzione lo garantisce soprattutto nei servizi pubblici essenziali, ma
non garantisce costituzionalmente un diritto analogo da parte dei datori (no diritto alle serrate). Con
sciopero si intende il non adempimento agli obblighi contrattuali senza avere conseguenze negative
ad eccezione dell’ora di salario persa.
Il diritto del lavoro è molto specifico ed entra molto nel dettaglio perché la materia del lavoro è una
delle più delicate, sulla quale il conflitto politico era molto forte.

Il modello economico (41-47)


Le norme successive all’art.40 disegnano il modello economico di economia mista o economia
sociale di mercato, vigente in Italia. Il disegno dell’Assemblea Costituente in materia di economia è
un disegno che è necessariamente ambiguo perché frutto di un compromesso tra varie forze che
avevano idee diverse a riguardo:
- liberali: confermare il modello liberale e liberista dell ‘800
- socialisti e comunisti: avevano come fine quello di rivoluzionare i rapporti economici, non
pensando di poter introdurre nella Costituzione norme che portassero a un’economia socialista,
ma volevano comunque lasciare una via per un’opzione con un ruolo dello Stato assai rilevante
nell’economia (socialisti e comunisti)
- Democrazia cristiana: no liberisti, ma volevano valorizzare le componenti sociali, la
partecipazione dei lavoratori nelle imprese → via di mezzo tra liberismo e socialismo

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ARTICOLO 41
L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da
recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.La legge
determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa
essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali

L’articolo si apre con l’affermazione l’iniziativa privata è libera. Si prospetta uno scenario in cui la
libertà d’impresa è assicurata e per la formazione liberale la disciplina poteva essere qui conclusa.
Nel modello di economia mista vi sono una serie di limiti al diritto di iniziativa:
● l’iniziativa economica non può essere in contrasto con l’utilità sociale, presupponendo un
intervento nello Stato di tipo regolatorio;
● non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute e all’ambiente (rif
cost 1/2022).

Da un alto c’è un diritto, dall’altro la possibilità di intervenire per evitare che dall'esercizio di quel diritto
si ledano altri interessi. La legge può stabilire i programmi e i controllo opportuni perchè l’attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata verso fini sociali ed ambientali.L’iniziativa
economica privata, dunque, che era proclamata libera, può essere oggetto di una programmazione
da parte dello Stato. Si parte da una lettura liberista e si arriva ad un testo in cui l’intervento pubblico
nell’economia può essere anche molto forte.

ARTICOLO 43
A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e
salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese
o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni
di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.

Delinea il ruolo dello stato nell’economia → si tratta di una norma molto discussa, che segna un
passaggio importante perché riguarda alcune nazionalizzazioni importanti, soprattutto nell’ambito
dell’energia elettrica. Il legislatore può prevedere per i servizi pubblici essenziali che tali attività siano
riservate a se stesso e nel caso in cui siano di privati, si espropriano (l’iniziativa privata viene
eliminata).

ARTICOLO 42 - la proprietà privata


La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di
godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La
proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi
d'interesse generale.La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e
testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.

Proprietà privata e iniziativa economica privata sono un binomio inscindibile dell’economia liberista di
‘700 e ’800. Nella Costituzione è riconosciuta ma anch’essa non è più un diritto sacro ed inviolabile. Al
1° comma si stabilisce che la proprietà possa essere pubblica o privata ( in una Costituzione liberale
solo privata). Si riconosce la proprietà privata ma con dei limiti, allo scopo di assicurare la fruizione
sociale e renderla accessibile a tutti. La proprietà non è così sacra e inviolabile che non può essere
limitata nella logica di una funzione sociale. Nel cc il diritto di proprietà ha, invece, solo lo scopo del
libero godimento del bene senza interferenze di terzi.

La Costituzione economica e la comunità europea


Le norme costituzionali danno la possibilità di letture diverse della Costituzione economica, che sono
frutto di mutazioni nel corso del tempo. Uno dei fattori più importanti di rilettura delle norme
costituzionali è dato dall’adesione dell’Italia nel 1957 alla Comunità Economica Europea, che si è
evoluta in Comunità Europea e poi oggi in Unione Europea. Questo dato è rilevante perché il diritto
comunitario ha dato una lettura delle norme in materia economico-sociale tendenzialmente più vicina
rispetto a quella linea che sosteneva il massimo intervento dello Stato nell’economia. La Comunità
europea fin dalla sua nascita aveva come obiettivo quello di creare un mercato comune all’interno del
quale vi fosse la possibilità di garantire la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e
dei capitali → sistema orientato dal principio di concorrenza, quindi da una serie di norme che
impediscono interventi da parte degli Stati per alterare la libera concorrenza e la libera impresa.

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Una delle caratteristiche del diritto dell’Unione Europa sono gli “aiuti di Stato”, che gli Stati danno alle
loro imprese e che conducono a una concorrenza interna. Anche se ill diritto europeo e quindi il diritto
della concorrenza nell’Unione Europea non riprende i dogmi dello stato liberale in quanto tutti gli stati
prevedono un’economia con risvolti sociali, una disciplina attenta ai valori sociali, la rivoluzione del
diritto dell’UE ha condotto fino a pochi anni fa a un’impostazione più attenta ai valori liberali rispetto a
quelli dell’intervento pubblico. Si è assistito ad un cambio di passo dagli anni 2000, soprattutto con la
pandemia → nuova prospettiva con il PNRR, l’enorme finanziamento da parte dell’Unione agli Stati
maggiormente colpiti dalla pandemia, volto a favorire una politica di aiuti di Stato. Il PNR è una massa
di norme e di denaro che l’Unione dà ai singoli stati sotto forma o di fondi senza obbligo di
restituzione o di prestiti agevolati, volti a garantire attraverso il programma stipulato insieme alla
commissione europea interventi pubblici in settori particolari, come l’istruzione, la giustizia, le
infrastrutture. Si tratta di una logica interventista e che determina forti indebitamenti da parte dello
stato, in una prospettiva diversa rispetto alla prospettiva rigorista che era sempre stata impiegata. Se
si deve analizzare come è stata vissuta in questi 70 anni la componente economica bisogna
considerare questa pluralità di livelli.

LE FORME DI GOVERNO
L’espressione forma di governo è la formula sintetica che indica quali sono i rapporti che
intercorrono tra gli organi di indirizzo politico dello Stato, ossia quali sono gli organi che
contribuiscono a definire le scelte politiche fondamentali e quali rapporti sussistono tra loro.
Nell’ordinamento italiano, ricopre un ruolo fondamentale il rapporto tra Parlamento e Governo,
nonché la posizione del Presidente della Repubblica.

PRESIDENZIALISMO
La forma di governo presidenziale ha avuto la sua massima realizzazione negli Stati Uniti.
Il termine presidenzialismo non deve trarre in inganno: non significa, infatti, che il Presidente sia in
una posizione più forte rispetto, ad esempio, ai Primi ministri della forma di governo parlamentare →
si tratta di una forma di governo in cui il Presidente incontra molti contropoteri o limiti all’esercizio del
suo potere, cosa in cui, spesso, i Primi ministri non incorrono nella forma parlamentare. Nelle sue
linee generali la forma di governo presidenziale viene sviluppata alla fine del ‘700, momento in cui gli
Stati Uniti si danno una Costituzione. Si tratta di una Costituzione liberale, che si fonda sulla netta
separazione dei poteri in una prospettiva di reciproca limitazione e controllo → essa, infatti, prevede
come primo tratto una netta distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo.

Ha alcune caratteristiche fondamentali:


- il Presidente è il titolare del potere esecutivo, mentre il potere legislativo appartiene al
Congresso (Parlamento bicamerale americano).

- il Congresso ha una struttura bicamerale: il Senato, formato da due rappresentanti per ogni Stato
membro, e la Camera dei rappresentanti, formata su base nazionale in proporzione alla
popolazione degli Stati

- L’esecutivo americano è monocratico, in quanto si identifica con la figura del Presidente, il


quale si avvale di collaboratori, nomina e revoca i ministri. N.B. In Italia l’organo del Governo è
collegiale, non monocratico.

- Il Presidente è al contempo Capo dello Stato e Capo del Governo, ossia somma le funzioni
tipiche di rappresentanza del primo e le funzioni politiche del secondo

- Il Presidente ha una legittimazione diversa e separata rispetto al Congresso. Il Presidente degli


Stati Uniti, in linea teorica, è eletto direttamente dal corpo elettorale, mentre il Congresso è eletto
separatamente dal corpo elettorale. In Italia, il Governo nasce dalla maggioranza parlamentare:
ciò significa che l’elezione è del Parlamento ed è da essa che poi prende forma l’esecutivo. Nel
caso americano si parla, invece, di due elezioni separate. L’espressione “Il Presidente è eletto
direttamente dal corpo elettorale” non è totalmente aderente a quanto in realtà accade: in ogni
Stato sono eletti gli “elettori presidenziali”, ossia delegati che in un secondo momento si riunisco
in un collegio per nominare il Presidente e il Vice-Presidente. Tuttavia, dato che i due grandi
partiti hanno già individuato in precedenza i propri candidati alle due cariche, attraverso apposite
convenzioni nazionali, quando gli elettori votano per i rappresentanti, in verità sanno che essi si
limiteranno a votare per il candidato scelto dal loro partito > l’elettore esprime quindi la sua
preferenza per il candidato alla Presidenza e per questo si parla di elezioni dirette.

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- Il meccanismo delle elezioni prevede che i grandi elettori, ossia i delegati, vengano assegnati
come punti al candidato che prende maggiori voti in ciascuno Stato (se un candidato vince anche
di un solo punto in uno Stato prende tutti i delegati di quello stato, ossia tutti i voti). Il numero dei
delegati di ciascuno Stato varia in base alla popolazione e alla dimensione dello Stato stesso. Il
candidato che riesce ad ottenere la maggioranza assoluta dei grandi elettori diventa Presidente,
anche se potenzialmente potrebbe aver avuto meno voti complessivi rispetto all’altro candidato.
Non si tratta di un sistema antidemocratico in quanto il voto non è quello dei cittadini ma degli
Stati → è lo Stato che complessivamente va a Washington a eleggere il Presidente.

- Il Presidente degli USA viene eletto per 4 anni e il suo mandato, come quello dei congressisti, è
fisso → ciò significa che non può essere sfiduciato, salvo il caso dell’Impeachment, ossia la
messa in stato d’accusa del Presidente da parte del Congresso (caso Trump). Per il resto non vi è
la possibilità di far cadere il Presidente.

- Presidente e Congresso sono organi indipendenti l’uno dall’altro e non possono sfiduciarsi a
vicenda. Il Presidente ha il potere di veto sospensivo delle leggi approvate dal Congresso, il quale
può superare l’opposizione presidenziale solamente tramite un’ulteriore deliberazione approvata
con la maggioranza di ⅔; il Congresso può convocare funzionari dell’amministrazione al fine di
esercitare un controllo sulla politica del Presidente. Il Presidente è dunque separato dal sostegno
parlamentare, ottenendo la legittimazione dal corpo elettorale, ma non ha strumenti per superare
l’ostilità del Congresso, non potendolo sciogliere anticipatamente. Il Presidente è dunque molto
forte sul piano formale, ma non sostanziale, in quanto il potere di indirizzo politico è sempre
diviso, sulla scia del principio della separazione dei poteri di stampo liberale.

- Può succedere che il Congresso e il Presidente abbiano maggioranze diverse, cioè uno sia
Repubblicano e l’altro Democratico. Si tratta dunque di un Governo diviso, in cui il Presidente
deve contrattare qualsiasi legge, provvedimento o nomina con un congresso a lui potenzialmente
ostile. Tuttavia, con la ricerca del consenso in parlamento, è possibile che il Presidente ottenga
voti favorevoli anche dallo schieramento opposto al suo.

FORMA PARLAMENTARE
Innanzitutto “forma di governo parlamentare” non significa ruolo preminente del Parlamento. Si tratta
della forma di governo più diffusa in Europa, adottata dalla Costituzione italiana e negli Stati in cui la
democrazia è consolidata da tempo. Si trova l’eccezione dell’assetto della Polonia e dell’Ungheria, in
cui negli ultimi anni si sono verificate delle spinte antidemocratiche. La forma di governo parlamentare
rappresenta l’evoluzione storica della monarchia costituzionale.
La monarchia costituzionale è la forma di governo che si afferma nel passaggio tra lo Stato
assoluto e lo Stato liberale. Si instaura dapprima in Inghilterra, dopo le rivoluzioni del 1649 e del
1688, quando il Parlamento vede riconosciuti i suoi poteri, volti a limitare quelli del Re. Si diffonde poi
in Francia dopo il 1789 e in Italia con la promulgazione dello Statuto Albertino del 1848. La monarchia
costituzionale si caratterizza per la netta separazione dei poteri tra il Re, a cui spetta il potere
esecutivo, e il Parlamento, a cui viene affidato il potere legislativo. Il Re, tuttavia, manteneva una
posizione privilegiata all’interno dello Stato, in quanto poteva esercitare la funzione legislativa con la
sanzione regia, ossia il consenso necessario per la promulgazione delle norme, la nomina dei giudici,
dei ministri e il potere di sciogliere anticipatamente la Camera elettiva del Parlamento, qualora essa
promuovesse ideali contrastanti con quelli del sovrano. La riuscita di tale forma di governo si basava
sull’equilibrio tra i due centri di potere, che trovavano la loro legittimazione da classi sociali differenti: il
Re era appoggiato dalla nobiltà, mentre il Parlamento della nuova classe borghese. La monarchia
costituzionale si trasformò in governo parlamentare quando venne inserito, tra Re e Parlamento, un
nuovo organo, il Governo, che acquisì progressivamente autonomia dal Re, avvicinandosi al
Parlamento. Ciò che caratterizza la forma parlamentare è infatti il rapporto di fiducia tra Governo e
Parlamento.

Le due fasi del parlamentarismo


Il sistema parlamentare delle origini era un parlamentarismo dualista, caratterizzato da:
● il potere esecutivo era ripartito tra il Capo dello Stato e il Governo
● il Governo doveva avere la fiducia del Re e del Parlamento
● a garanzia dell’equilibrio tra esecutivo e legislativo, il Capo dello Stato poteva sciogliere
anticipatamente il Parlamento.

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Tale sistema si afferma nell'Inghilterra del XVIII secolo per poi diffondersi in tutta Europa nell’800. Il
dualismo rifletteva l’equilibrio sociale già tipico della monarchia costituzionale: il Re rappresentava la
parte aristocratica della popolazione, mentre il Parlamento la borghesia. Tuttavia fu lo sviluppo della
classe borghese a circoscrivere il ruolo del Re a favore del Parlamento, che era sempre più legato al
Governo. Si afferma così il parlamentarismo monista, in cui il Governo ha un rapporto di fiducia molto
stretto con il Parlamento, mentre al Re sono affidate funzioni di garanzia e non più politiche. Istituto
fondamentale in questo processo è quello della controfirma, che inizialmente serviva come
attestazione da parte di un ministro della volontà del sovrano. Con lo spostamento del baricentro
verso il Governo, quest’ultimo, che controfirmava, assunse la prerogativa di determinare anche il
contenuto dell’atto da controfirmare, togliendo potere politico al Re.

Caratteristiche del sistema di governo parlamentare


➔ Nella forma di governo parlamentare, il legame tra Governo e Parlamento si fonda su un rapporto
di fiducia: il Governo è, infatti, emanazione permanente del Parlamento, che può costringerlo alle
dimissioni votandogli contro la sfiducia. Il Governo può quindi svolgere le sue funzioni in modo
pieno solo se ha la fiducia della Camera rappresentativa del corpo elettorale o, nel caso italiano,
di entrambe le Camere. Qualora il Parlamento non sia in grado di esprimere un Governo, può
essere sciolto anticipatamente. Rispetto al sistema presidenziale, in cui sia il Presidente che il
Congresso hanno durata fissa e non possono essere né sfiduciati né sciolti anticipatamente, nella
forma parlamentare è possibile sia una crisi di governo sia la fine anticipata della legislatura.
Questo è il rischio fondamentale del sistema parlamentare, che, del resto, ha portato all’avvento
dei sistemi totalitari del ‘900.

➔ Figura del Capo dello Stato: il Capo dello Stato per ragioni dettate dalla storia è un organo
separato rispetto al Governo. Non c’è identificazione tra i due Istituti, come nel sistema
presidenziale, e tendenzialmente il Capo dello Stato ha poteri di garanzia. Ciò vale sia quando il
Capo dello Stato è un monarca (Regno unito, Spagna, Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca), che
tuttavia ha perso quasi ogni funzione di tipo politico, tendendo a divenire un organo soprattutto di
rappresentanza della nazione ma escluso dal processo governativo e politico, sia quando il Capo
dello Stato è il Presidente di uno Stato Repubblicano, che deve garantire il buon andamento del
sistema costituzionale. Il potere di indirizzo politico è condiviso tra Governo e Parlamento → tale
condivisione conduce ad equilibri diversi tra Governo e Parlamento: vi sono ordinamenti che
tendono ad allocare il potere decisionale maggiormente nelle mani del Governo e ordinamenti
che tendono a darlo più al Parlamento.

Vi sono due fattori che incidono in maniera importante sulle modalità in cui la forma di governo
parlamentare viene applicata:
• sistema dei partiti: il funzionamento del parlamentarismo è influenzato da una pluralità di partiti,
che è ciò che lo caratterizza maggiormente. Il sistema dei partiti condiziona il comportamento dei
soggetti politici che danno vita a regole convenzionali che integrano la disciplina costituzionale.
Con sistema dei partiti si intende il numero di partiti presenti in un ordinamento e il rapporto che si
instaura tra di essi. Vi possono essere partiti aperti al compromesso e quindi a formare coalizioni
e altri molto ideologizzati che si pongono in contrapposizione tra loro. Un sistema frastagliato e
diversificato, multipartitico e polarizzato, in cui i partiti si collocano ai poli estremi delle linee di
destra e sinistra, tende ad avere governi deboli, in quanto risulta semplice che siano messi in
difficoltà da partiti minori, che difficilmente appoggiano per un lungo tempo un determinato
governo. Quando, invece, il sistema politico tende ad orientarsi intorno a pochi partiti, non molto
distanti ideologicamente, il sistema partitico tende a concentrarsi su due poli. Ciò permette una
maggiore stabilità ai Governi e un’alternanza tra maggioranze non difficile da raggiungere in sede
elettorale. Il partito vincitore non tenderà ad eliminare quello opposto, ma si sottoporrà invece al
giudizio critico di questi.

• sistema elettorale, metodo di trasformazione dei voti in seggi (*)

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SEMIPRESIDENZIALISMO
Il luogo in cui il sistema presidenziale trova la sua massima affermazione è la Francia. Dopo la IIGM
la Francia è un paese metà vincitore e metà sconfitto: le Costituzioni di questo periodo conducono a
una serie continua di crisi di governo, a causa dell’impossibilità per i partiti di formare maggioranze
stabili. Dopo una serie di eventi traumatici, come l’opera di decolonizzazione e la guerra d’Algeria,
viene chiamato a formare il Governo il Generale Charles de Gaulle, che era stato leader della
resistenza francese contro i nazisti ed era una figura politica e istituzionale di rilievo. De Gaulle forma
un nuovo governo che ha come compito quello di modificare la Costituzione.
La Costituzione emanata nel 1958 dà inizio alla V Repubblica (quella attuale).
Il fine della V Repubblica era quello di rafforzare la stabilità dei Governi e di diminuire il potere del
Parlamento, responsabile delle varie crisi che vi erano state. Il sistema che viene scelto per sanare la
situazione è definito sistema semipresidenziale.

E’ caratterizzato da:
● il Capo dello Stato viene eletto direttamente da parte dei cittadini. E’ previsto un sistema a doppio
turno, con eventuale ballottaggio, che al primo turno garantisce l’elezione solo a chi ha
maggioranza assoluta dei votanti; qualora nessuno ottenga la maggioranza, dopo 15 giorni, si
tiene il secondo turno di elezioni in cui si presentano i due candidati che hanno avuto il maggior
numero di voti nella prima fase. E’ qui che emerge il nome del Presidente. Egli dunque di una
forte legittimazione popolare.

● il Presidente della Repubblica condivide la gestione dell’esecutivo con il Governo, che lui stesso
nomina. Il PdR francese non svolge quindi solo la funzione di garanzia, ma è anche un organo di
indirizzo politico. Ad esempio, la Costituzione attribuisce al PdR francese alcune funzioni
importanti in politica estera.

● Subito dopo le elezioni del PdR, si tengono le elezioni dell’Assemblea nazionale, ossia il ramo del
Parlamento francese eletto direttamente dai cittadini. Si svolge secondo un sistema elettorale
maggioritario a doppio turno. Solitamente si verifica un effetto traino, in seguito all’elezione del
PdR, che influenza la votazione dell’Assemblea. Si forma così una maggioranza parlamentare
dello stesso colore politico del PdR. Ciò rende il sistema presidenziale un sistema iper
presidenziale, in quanto il PdR ha dalla sua parte la legittimazione popolare, il sostegno del Primo
Ministro e del Parlamento, cosa che non accade nei sistemi parlamentari e presidenziali.

IL MODELLO ITALIANO
La forma di governo adottata dalla Costituzione italiana è una forma di governo parlamentare a
debole razionalizzazione, in cui sono previsti limitati interventi a livello costituzionale per assicurare
la stabilità del rapporto di fiducia e la capacità di direzione politica del Governo. Quando si dovette
discutere in Assemblea Costituente sulla forma di governo da adottare la scelta fu a larghissima
maggioranza a favore della forma parlamentare. Vi furono tuttavia delle voci dissonanti, come quella
di Piero Calamandrei, il quale sosteneva il presidenzialismo. Per bilanciare gli interessi di coloro che
aspiravano a una forte razionalizzazione del parlamentarismo con la volontà della sinistra, che voleva
un sistema parlamentare il più aperto possibile, si scelse una forma di governo parlamentare
disciplinata con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo
ed evitare le degenerazioni del parlamentarismo (ordine del giorno presentato da Perassi). Si
mettevano dunque in atto dei correttivi volti ad evitare l’instaurazione di un governo debole e in balia
delle pressioni delle minoranze. L’esperienza italiana aveva dimostrato che le continue crisi di
governo potevano portare a una disaffezione della democrazia, favorendo ipotesi totalitarie.era
necessario, dunque, adattare la forma di governo classica alle nuove esigenze dell’ordinamento
democratico. Ciò, in realtà, si è tradotto nel testo costituzionale in norme piuttosto deboli che si sono
rivelate nel tempo incapaci di frenare la tendenza a governi instabili, fragili e di durata ridotta. Vennero
previsti pochi elementi di razionalizzazione rispetto alla forma di governo parlamentare:

● il Presidente della Repubblica assume un ruolo significativo nelle dinamiche tra Governo e
Parlamento → nomina il Presidente del Consiglio e può sciogliere anticipatamente le Camere. Tali
strumenti sono stati utilizzati in modo forte per evitare crisi di Governo o consentire la
continuazione della legislatura di fronte a crisi di Governo conclamate (crisi Conte Bus e
successivo Governo Draghi).

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● Modalità di formazione del Governo: il Governo viene nominato dal Presidente della
Repubblica. Entro 10 giorni dalla sua formazione, il Governo deve presentarsi alle Camere per
ottenere la fiducia a maggioranza semplice con voto palese su una mozione motivata. Il voto
palese e nominale comporta una chiara assunzione di responsabilità politica da parte dei
parlamentari, che, se votano la fiducia, devono impegnarsi a realizzare l’indirizzo politico stabilito
(maggioranza politica). Il processo di fiducia termina positivamente solo se il Governo la ottiene
da entrambe le Camere (diverso rispetto ad altri ordinamenti in cui il Governo può esistere finchè
non si presenta una mozione di sfiducia - fiducia negativa).

● La Costituzione prevede che il voto contrario di una delle due Camere ad un disegno di legge non
comporta l’obbligo alle dimissioni del Governo. L’obbligo si pone solo quando il Parlamento vota
una mozione di sfiducia o non approva un provvedimento su cui il Governo ha posto la sua
fiducia. Tuttavia ciò non è servito in quanto i rapporti Governo-Parlamento non seguono solo la
via della Costituzione ma trovano la loro legittimazione soprattutto nella sfera politica e
avvengono fuori dalle aree parlamentari → si parla in questo caso di crisi di governo
extraparlamentari. A ciò è collegata la ratio della questione di fiducia, che può essere posta dal
Governo su una questione che richiede l’approvazione parlamentare → il Governo dichiara che,
in caso di mancata approvazione di richiesta ritenuta fondante per l’attuazione dell'indirizzo
politico concordato, rassegnerà le sue dimissioni. Si tratta dunque di uno strumento che il
Governo ha per sollecitare la maggioranza a mantenere gli accordi ed evitare crisi di governo.

● Scelta dell’Assemblea Costituente del bicameralismo paritario: entrambe le Camere che


formano il Parlamento hanno la medesima legittimazione → sono entrambe elette a suffragio
universale e hanno i medesimi poteri. Qualora una delle due camere tolga la fiducia, il Governo è
costretto a dimettersi. La scelta del bicameralismo perfetto fu ampiamente discussa in assemblea
costituente e fu ul frutto di un compromesso tra le forze politiche. La DC proponeva una Camera
che fosse rappresentativa delle professioni e del lavoro, che avrebbe avuto funzioni di minor
rilievo rispetto all’altra. I socialisti e i comunisti, invece, sostenevano il bicameralismo, in quanto il
popolo era uno solo e non vi era la necessità di creare due Camere distinte. Il compromesso fu
dunque quello di salvare il principio bicamerale e dell’unicità del popolo, creando due Camere
fotocopia. Inizialmente la durata delle Camere non era la stessa: la Camera dei Deputati
rimaneva in carica 5 anni, il Senato 6 e il Presidente della Repubblica 7. Ciò però avrebbe
comportato elezioni sempre più svasate nel tempo con la possibilità di maggioranze diverse. Tale
norma non si realizzò mai → nel 1953 si sciolse il Senato e si modificò la Costituzione per
modificare tale disposizione.

IL DIRITTO ELETTORALE
Il diritto elettorale è fondamentale nei sistemi democratici, in quanto racchiude delle questioni
fondamentali:
● Cittadinanza politica, ossia l’insieme delle norme che stabiliscono quali soggetti godono
dell’elettorato attivo
● Sistema elettorale, ossia i meccanismi attraverso cui i voti espressi si trasformano in seggi
parlamentari
● Legislazione elettorale di contorno, ossia le regole che stabiliscono le modalità di svolgimento
delle campagne elettorali , i modi di finanziamento della politica, l’ineleggibilità o incompatibilità
parlamentari.

La definizione in senso ampio di “sistema elettorale” viene fornita dall’art.48

Il 1° comma disciplina l’elettorato attivo, ossia coloro che hanno la capacità di votare. Esso è
subordinato a due requisiti: la cittadinanza italiana e la maggiore età. Si ha dunque un superamento
rispetto allo Stato liberale, in cui il diritto di voto era conferito sulla base di un criterio censitario che
permetteva l’accesso ad esso solo alla grasse borghese.

Il 2° comma pone alcuni principi che caratterizzano il voto:


- voto personale, con la conseguenza che è escluso il voto per procura
- voto eguale o utile → ogni voto pesa allo stesso modo ed è esclusa la possibilità che alcuni siano
più rilevanti di altri. Nel sistema maggioritario, ottiene il seggio chi accumula più voti, mentre gli
altri sono cancellati; nel sistema proporzionale, viene valorizzato ogni voto sia in entrata che in
uscita

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- voto libero, ossia il voto deve essere scisso da costrizioni esterne (minacce o violenze); oltre che
libero deve essere anche consapevole, in quanto deve essere permesso ad ogni cittadino di
informarsi e di non essere influenzato in maniera subdola e sproporzionata
- voto segreto, laddove la segretezza serve a garantire l’effettiva libertà del voto
- voto come dovere civico → il costituente evitò di qualificare il voto al dovere giuridico, in quanto
non vi sono sanzioni per chi non si reca a votare

Il 3° comma stabilisce la disciplina del diritto di voto per gli italiani all'estero. Essi sono autorizzati a
votare per il Parlamento in un’apposita circoscrizione, la Circoscrizione estero, nella quale vengono
eletti 6 deputati e 4 senatori. Tale disposizione ha recentemente scosso dei dubbi, in quanto gli
italiano all’estero hanno diritto di voto nonostante non contribuiscano alle finanze pubbliche e non
siano sottoposti alle norme sviluppate in Parlamento. Coloro che, invece, risiedono in Italia e
contribuiscono anche alle finanze pubbliche non hanno diritto di voto. La partecipazione alle scelte
della polis per chi è protagonista nella vita economica e sociale del Paese è importante e si è tentato
di risolvere questo problema concedendo il diritto di voto nelle elezioni amministrative ai cittadini
europei. Altri ordinamenti, invece, hanno previsto forme di voto per gli stranieri presenti nel lungo
periodo.

Il 4° comma stabilisce che il diritto di voto possa essere limitato o eliminato solo per cause di
incapacità civile, per effetto di sentenze penali irrevocabili e per cause di indegnità morale. I detenuti,
che non siano incorsi in una causa di incapacità elettorale, sono ammessi a votare nel loro sito di
detenzione così come i malati in ospedale.

Chi può candidarsi?


L’elettorato passivo comprende coloro che possono essere eletti. La regola generale è che tutti coloro
che sono elettori sono anche tendenzialmente eleggibili, salvo alcune restrizioni poste dalla
Costituzione. Una di queste è il limite d’età per essere eletti alla Camera, 25 anni, e al Senato 40
anni. La Costituzione prevede inoltre altre limitazioni all’elettorato passivo che discendono da
condizioni della persona che potrebbe candidarsi: l’ineleggibilità e l’incompatibilità.

Con ineleggibilità parlamentare si intende un impedimento giuridico, precedente all’elezione, che


non consente a chi si trova in una delle cause di ineleggibilità di assumere la carica. Le cause di
ineleggibilità sono volte a rendere libero il voto dell’elettore, che potrebbe essere influenzato dalla
carica o dalla funzione che detiene il candidato. Esse hanno natura invalidante e determinano la
nullità della stessa elezione. L’ineleggibilità non deve essere confusa con l’incapacità elettorale
passiva, che discende da quelle cause che fanno venire meno lo stesso elettorato attivo. La
legislazione ordinaria enuncia quelle che sono le cause di ineleggibilità parlamentare:
• titolari di cariche di governo degli enti locali, funzionari pubblici, alti ufficiali che per la funzione
ricoperta potrebbero esercitare una captatio benevolentiae sull’elettore e orientare il suo voto
• soggetti aventi rapporti di impiego con i governi esteri
• categorie di soggetti aventi stretti rapporti economici con lo Stato (Berlu)
• i magistrati, non eleggibili nelle circoscrizioni sottoposte alla giurisdizione degli uffici in cui hanno
svolto le loro mansioni nei 6 mesi precedenti

Le cause di ineleggibilità che sopraggiungono nel corso del mandato prendono il nome di
ineleggibilità sopravvenuta. Se la causa che la determina è il sopraggiungere di una nuova carica,
essa si trasforma in una causa di incompatibilità.

L’incompatibilità, invece, riguarda il divieto di detenere contemporaneamente alcune cariche. Le


cause di incompatibilità sono volte ad assicurare l’imparziale esercizio delle funzioni elettive.
L’elezione non è nulla ma, una volta eletti, è necessario compiere una scelta sulla carica da
mantenere. Per i dipendenti pubblici, è garantita la conservazione del posto di lavoro. La ratio è che
tutti possono accedere alle cariche elettive, ma qualora debbano perdere il posto di lavoro non si
candiderebbero mai e il risultato sarebbe che si candiderebbero solo coloro che ne hanno le
disponibilità economiche (disciminazione). Le cause di incompatibilità parlamentare sono previste
dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie: Deputato e senatore; PdR e qualsiasi altra carica;
Parlamentare a membro del consiglio superiore della magistratura; Parlamentare e consigliere
regionale; Parlamentare e giudice della Corte Costituzionale; titolarità di uffici pubblici o privati da
nomina o designazione governativa e cariche in enti che gestiscono gli affari dello Stato
La Costituzione stabilisce che debba essere la Camera di appartenenza del parlamentare a stabilire
se esso si trovi in una condizione di ineleggibilità o incandidabilità e tale decisione non può essere
rimessa davanti al giudice.

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Diverse è la condizione dell’incandidabilità, che ebbe grande applicazione dopo la legge Severino
contro la corruzione. Essa reca il divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo per chi è colpito da
sentenze definitive di condanna alla pena di reclusione superiore a due anni riferite a gravi reati non
colposi. Se l’incandidabilità sopraggiunge dopo l’elezione, in caso di condanna definitiva, si procede
con la deposizione della carica; in caso di sentenza non definitiva, si procede con la sospensione
della carica. L’incandidabilità non è da intendersi come una sanzione penale, ma come uno strumento
di tutela per il comportamento di disciplina e onore che deve essere tenuto nel ricoprire le cariche
pubbliche. L’incandidabilità, proprio perchè si basa sulle qualità morali del soggetto, non può essere
rimossa per volontà dello stesso.

Che cosa elegge il popolo?


Il popolo può eleggere o non eleggere il Capo dello Stato. Elegge i parlamentari di entrambe le
Camere. Può eleggere direttamente il Governo → tentativo fatto in Israele ma fallito. Questo perché
nel momento in cui si perde la fiducia parlamentare, diventa un fattore di instabilità. Si elegge l’organo
rappresentativo direttamente solo a livello territoriale, ossia il Sindaco e l’Assemblea comunale.
I sistemi elettorali Il sistema elettorale è il mezzo attraverso cui i voti espressi dagli elettori si
trasformano in seggi. Esso si compone principalmente di 3 parti:
1. il tipo di scelta: l’elettore può esprimere una scelta secca o un ordine di preferenze
2. il collegio, l’ambito preso in considerazione per la ripartizione dei seggi in base ai voti. Si
distingue principalmente tra collegio uninominale, in cui risulta eletto un solo candidato, e
collegio plurinominale, in cui vengono eletti due o più candidati.
3. formula elettorale, meccanismo con cui si procede alla ripartizione dei seggi.

Si conoscono due tipologie di formula elettorale:


● maggioritari, che tendono a premiare i partiti e le formazioni maggiori. Sono caratterizzati da
sistemi fondati su collegi uninominali, in cui il territorio viene diviso in tanti piccoli collegi e aree e
in ognuna prevale un candidato → chi prende più voti rappresenta quella parte di territorio,
mentre gli altri voti vengono cancellati. In questo sistema, è difficile per un piccolo partito arrivare
primo nel Collegio e quindi ottenere deputati o senatori in Parlamento. Ciò naturalmente incide
sulla forma di Governo, il quale riesce ad ottenere la maggioranza appoggiandosi a pochi partiti.
● proporzionali, ossia sistemi in cui il Parlamento è la fotografia perfetta della società. Ogni partito
politico ha una rappresentanza proporzionale rispetto al numero di voti che ha acquisito → si apre
un parlamento molto più rappresentativo del Paese, in quanto tutte le forze presenti in esso
avranno una loro rappresentanza in Parlamento. Quest’ultimo risulta essere più frammentato
dunque la nascita del Governo deriva da compromessi e accordi anche tra forze politiche diverse
tra loro. I seggi vengono ripartiti tra tutte le liste che abbiano ottenuto una percentuale minima di
voti, detta quoziente elettorale. Se l’elettore può esprimere, oltre al voto per la lista, una o più
preferenze per i candidati della lista, sono eletti i candidati con il numero di preferenze più
elevato. Se manca questa possibilità, i seggi sono attribuiti seguendo l’ordine dei parlamentari
sulla lista, detta lista bloccata.

In alcuni sistemi, anche se proporzionali, è presente la clausola di sbarramento, in virtù della quale
possono accedere alla ripartizione dei seggi solo le liste che a livello nazionale abbiano raggiunto una
certa percentuale di voti. Un altro espediente utilizzato è il premio di maggioranza, grazie al quale le
coalizioni che superano una certa percentuale di voti hanno attribuito un premio un certo numero fisso
di seggi.

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IL PARLAMENTO
La disciplina costituzionale del Parlamento è enunciata dagli artt.55-82, che stabiliscono
l'organizzazione, le garanzie e i poteri del Parlamento.

La struttura del Parlamento


La struttura dei parlamenti moderni può essere bicamerale o monocamerale. La Costituzione italiana,
come dichiarato ex art.55, ha adottato la forma bicamerale, prevedendo l’articolazione del Parlamento
in Camera dei Deputati e Senato. Il bicameralismo caratterizza soprattutto gli Stati federali, in cui la
seconda Camera rappresenta gli Stati membri; negli ordinamenti non federali, invece, il
bicameralismo è giustificato in quanto la seconda Camera dovrebbe consentire una migliore
ponderazione delle decisioni della prima.

La Costituzione italiana ha optato per un bicameralismo perfetto, in cui le due Camere sono dotate
delle medesime funzioni e poteri: entrambe possono concedere o revocare la fiducia al Governo e
nella formazione di una legge ordinaria, è necessario che entrambe le Camere approvino lo stesso
identico testo.

La conseguenza del bicameralismo perfetto è un appesantimento del processo decisionale


parlamentare, soprattutto in materia di deliberazioni, in quanto, affinché una legge passi, deve essere
approvato lo stesso testo da entrambe le Camere e se la seconda apporta una modifica, la legge
torna alla prima che deve nuovamente approvarla. Inoltre sussiste comunque il rischio che Camera e
Senato abbiano maggioranze diverse e quindi si rendano più difficili gli accordi tra le due camere.
Nel 2016 il Governo Renzi aveva promosso una legge di riforma costituzionale del bicameralismo
perfetto; tuttavia essa venne bocciata al Referendum costituzione e costrinse Renzi alle dimissioni. La
Costituzione inoltre prevede che il Senato si riunisca in seduta comune, nei casi previsti da essa, a
Montecitorio, sede della Camera,

La regola generale è che il Parlamento si riunisca separatamente tranne nei casi previsti dalla
Costituzione (riserva di costituzione), mentre l’eccezione è costituita dal Parlamento in seduta
comune. Ciò avviene quando:
● il Parlamento elegge una carica istituzionale o una parte di un organo istituzionale
● l’elezione del PdR: eletto dal Parlamento in seduta comune con una composizione integrata
da 3 delegati per ogni regione. Il Parlamento in seduta comune è considerato un seggio
elettorale: in questa sede i parlamentari non discutono perché non ci sono candidature
ufficiali, ma votano e basta.
● elezione di 5 giudici costituzionali
● elezione di ⅓ dei membri della corte costituzionale
● elezione di ⅓ dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura (organo di autogoverno
della magistratura ordinaria, che si occupa dell’amministrazione di essa).
● formazione di una lista di 45 persone con requisiti specifici da cui estrarre eventualmente 16
giudici aggregati nell’ipotesi di messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica. Il
PdR può essere messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune per due reati:
alto tradimento e attentato alla Costituzione. Il giudice del PdR nell’ipotesi in stato di
accusa è la Corte Costituzionale che solo in questo caso è composta da 15 giudici ordinari e
16 giudici estratti dalla lista formata dalle Camere. In tutta la storia repubblicana non vi è mai
stato il caso di un PdR processato davanti alla Corte Costituzionale.

Il Parlamento si limita ad eleggere dei soggetti. L’unico caso in cui si discute e si vota secondo le
dinamiche consuete è la messa in stato di accusa del PdR. Nel corso del tempo vi sono state delle
minacce di messa in stato d’accusa, che però non si sono mai tradotte in fatti. L’ultima è avvenuta nel
2018 quando si doveva formare il primo governo Conte, che aveva indicato come ministro
dell’economia un soggetto dichiaratamente non europeista e anti euro, che aveva disegnato un piano
per la fuoriuscita dell’Italia dall’euro; Mattarella è intervenuto per ragioni di interesse nazionale. Sia
esponenti del M5S (Di Maio) sia della Lega presentarono una richiesta di stato d’accusa del PdR.

Le funzioni del Parlamento


● Funzione legislativa (art.70 della Costituzione)
- Funzione di revisione costituzionale, che consiste nell’approvazione delle leggi costituzionali
secondo quanto previsto ex art. 138
- Approvazione dei regolamenti, in particolare del regolamento parlamentare che costituisce la
normativa fondamentale per il corretto esercizio dei lavori parlamentari. I regolamenti parlamentari
integrano il lavoro costituzionale e ordinano il lavoro parlamentare.

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● Funzioni di indirizzo e di controllo: in particolare l'indirizzo e il controllo dell’operato del
Governo. Sussiste infatti un rapporto dialettico tra Governo e Parlamento che vuole che gli atti e
le politiche di Governo siano sottoposte al controllo parlamentare. Questo controllo si attua con la
fiducia parlamentare che permette al Governo di agire e al Parlamento di intervenire nel caso in
cui non vada bene l’azione governativa. La mozione di fiducia viene votata nel momento in cui il
Governo entra per la prima volta in Parlamento. Il rapporto fiduciario può essere controllato in
ogni momento della vita del Governo, in quanto il parlamento ha la possibilità di approvare una
mozione di sfiducia. Ci sono altri strumenti quotidiani della normale dialettica parlamentare
attraverso cui si orienta l’azione di governo, come le interrogazioni parlamentari, le interpellanze,
gli ordini del giorno, le mozioni e le inchieste. Si tratta di strumenti che servono ad esercitare una
funzione conoscitiva da parte delle Camere, in cui si chiede come il Governo intende agire in
una determinata situazione. Il Governo risponde in aula. Le mozioni e gli ordini del giorno sono
strumenti che il Parlamento utilizza nel momento dell’approvazione della legge per orientare
l’attività del Governo circa l’approvazione concreta di quella legge, richiedendo di intervenire su
alcuni settori e problematiche urgenti ( non sono parte della legge, sono senza valore normativo,
ma sono inviti del Parlamento al Governo che hanno valore politico). Le inchieste sono l’unico
strumento ispettivo disciplinato espressamente dalla Costituzione ex art.82. Diverse sono le
commissioni d’inchiesta: il Parlamento, singolarmente o collegialmente, può disporre un’inchiesta
su temi di interesse generale. Ad esempio, all’inizio di ogni legislatura viene istituita la
commissione antimafia, che studia la presenza della criminalità organizzata in Italia. Le
commissioni non hanno una funzione giurisdizionale, in quanto non si concludono con una
sentenza ma con una relazione alle Camere, in cui viene riassunto l’esito dei lavori. La
commissione ha poteri di indagine uguali a quelli dell’autorità giudiziaria.

● Funzione di manovra finanziaria: il Parlamento inglese approvava il bilancio dello Stato,


autorizzando il sovrano a riscuotere le imposte. La mancata approvazione del bilancio impediva
al sovrano di fare le guerre, non disponendo delle risorse finanziarie. L’approvazione del bilancio
è anche oggi una funzione tipica dei Parlamenti. Non si tratta di una funzione legislativa,
nonostante porti all’approvazione della legge di bilancio, che autorizza il governo a spendere e a
esercitare le sue funzioni (ritiro delle tasse e investimenti). La legge di bilancio non ha una portata
innovativa dell’ordinamento, ma attraverso di essa si controlla l’operato del Governo e lo si
autorizza ad operare per l’anno successivo.

● Funzione di verifica dei poteri: l’art.66 della Costituzione attribuisce alle Camere il giudizio sui
titoli di ammissione dei propri componenti nonché sulla verifica delle sopravvenute cause di
ineleggibilità e incompatibilità (condizioni che ostano alla candidatura). Chi giudica sui requisiti
che il parlamentare deve avere? Trattandosi di diritti a giudicare dovrebbe essere il giudice
esterno ed imparziale, ma in questo caso la funzione giurisdizionale è attribuita alla Camera di
appartenenza stessa.

● Funzioni elettorali e di nomina: partecipano all’elezione delle autorità amministrative


indipendenti (antitrust ecc). La nomina non viene data al Governo ma alle camere per cercare di
creare autorità plurali (che tengano conto della pluralità delle idee presenti in parlamento) e il più
possibili distinti dal potere politico

● Insindacabilità e autorizzazioni giudiziarie: l'insindacabilità del parlamentare riguarda il fatto


che egli non possa essere perseguitato per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle
funzioni parlamentari anche dopo che sia scaduto il mandato; oggi non è più richiesta
l'autorizzazione per sottoporre a procedimento penale il parlamentare

● Rapporti con l’Unione europea: l'appartenenza dell'Italia all'Unione Europea dà al Parlamento


due funzioni fondamentali:
➔ Recepire le direttive dell'Unione europea in tempi ragionevoli, evitando che esse si accumulino
determinando la responsabilità dello Stato italiano per la loro mancata immissione
nell'ordinamento interno
➔ Avere cognizione degli indirizzi comunitari sui grandi temi e dei progetti di atto normativo prima
che essi siano approvati dagli organi competenti dell'Unione europea

● Autodichiarazioni

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Organizzazione interna delle Camere
La Costituzione e i regolamenti parlamentari stabiliscono quali sono gli organi delle camere:
● Presidenti delle Camere: si occupano dell’organizzazione dei lavori delle Camere e la
conduzione dell’operato. Importante è chi decide su che cosa si discute: il problema delle camere
molto spesso è quello di scegliere quale tra i tanti temi all’ordine del giorno andare a discutere. Vi
sono infatti una pluralità di commissioni che discutono, trovano punti d’accordo e definiscono dei
disegni di legge, che poi devono essere discussi in assemblea. La scelta è decisiva
sull’approvazione stessa perché se non si discute la legge non può essere approvata. Il
cosiddetto potere d’agenda può essere in mano al Governo (in questo modo impone al
Parlamento le sue priorità), in mano alla maggioranza o in mano a maggioranze più alte rispetto
alla maggioranza politica. Inizialmente era affidato interamente alle Camere e si chiedeva il
coinvolgimento di gruppi parlamentari molto ampi, cosa che permetteva di far discutere proposte
di partiti diversi. Recentemente si è sempre più rafforzato il ruolo del Governo in Parlamento e
quindi le discussioni sono orientate dal Governo che, in caso di disaccordo, viene sostituito dai
Presidenti delle Camere. Il ruolo del Presidente della Camera è molto particolare, in quanto deve
garantire il corretto funzionamento delle Camere e il rispetto della Costituzione e dei regolamenti
parlamentari. Ha dunque una funzione ispirata all’imparzialità: è eletto in un partito, ma nel
momento in cui assume la presidenza delle camere svolge la sua funzione secondo principi di
imparzialità, non votando. Tale idea di imparzialità ha comportato per un lungo periodo ad
attribuire la presidenza di una delle due camere all’opposizione (anni 70-80-90 esponenti del
partito comunista ES. Nilde Lotti). La prassi si interruppe dagli anni ‘90 con il passaggio al
sistema maggioritario, con il quale i Presidenti tendono ad essere individuati nella maggioranza.

● Ufficio di presidenza: è composto dal Presidente, vicepresidente e altri soggetti come i Segretari
e i Questori che svolgono funzioni particolari all’interno delle Camere (sono parlamentari che
hanno funzione di mantenere l’ordine pubblico nelle camere e garantire l’esito delle votazioni).

● Conferenza dei capigruppo: è composta dal Presidente della camera e dai capogruppo dei
parlamentari. In essa vengono decisi i calendari e il programma dei lavori delle Camere.

● Le commissioni e le giunte sono organi parlamentari che svolgono funzioni fondamentali. Ogni
parlamentare appartiene ad una commissione divisa per competenze. Le commissioni
corrispondono ai ministeri (es. ministero delle finanze), sono formate in proporzione ai gruppi
parlamentari, sono decisive soprattutto per il procedimento legislativo e hanno la funzione
fondamentale di esaminare i progetti di legge affidati alle Camere. Le scelte fondamentali
avvengono più in commissione che in aula. La discussione avviene in commissione dove si cerca
un testo che tenga insieme le anime della costituzione e se qui si trova un accordo il passaggio in
aula diventa molto facile.

● Gruppi parlamentari: sono organi delle camere a cui i parlamentari devono aderire, altrimenti
rientrano nel gruppo misto, e sono costituiti secondo gli orientamenti politici dei parlamentari

● Le giunte sono organi necessari secondo le stesse regole delle commissioni che hanno funzioni
di controllo. Si ha ad esempio la giunta delle elezioni (regolarità delle elezioni), la giunta delle
immunità (verificare se si applicano quelle immunità),la giunta per il regolamento, che coadiuva il
presidente nello stilare il regolamento parlamentare

Funzionamento delle Camere


La legislatura delle Camere dura 5 anni: può essere prorogata solo nel caso in cui venga dichiarato
lo Stato di guerra. Diversa dalla proroga della legislatura è la prorogatio, ossia il tempo di cui le
Camere da sciolte continuano l’esercizio di alcune funzioni sino all’insediamento del Parlamento
successivo. Si tratta sostanzialmente del periodo che intercorre tra la fine dell’attività delle Camere e
l’inizio di quelle successive: in tale periodo le Camere non possono esercitare poteri di indirizzo
politico, ma possono solo svolgere le funzioni di ordinaria amministrazione. La ratio consiste
nell’evitare che vi siano vuoti di potere tra la decadenza di un organo e l’insediamento di quello
successivo.

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Le Camere possono essere sciolte anticipatamente dal Presidente della Repubblica: la Costituzione
indica solo il procedimento che il Presidente deve seguire prime di sciogliere le camere, non il motivo.
La Costituzione e i regolamenti parlamentari richiedono dei particolari requisiti per le sedute e per le
votazioni:
● per le sedute non vi è un quorum
● per le votazioni (di una proposta di legge, di una mozione di sfiducia) la Costituzione prevede
dei quorum, ossia una presenza minima dei parlamentari, e delle regole per verificare se una
proposta sia passata o meno
➔ quorum strutturale: per la validità della votazione devono essere presenti almeno la
metà dei parlamentari; l’opposizione per fare ostruzionismo può richiedere
continuamente la verifica del numero parlamentare
➔ quorum funzionale: certifica l’esito della votazione; la Costituzione afferma che le
leggi devono essere approvate a maggioranza dei presenti (maggioranza semplice o
relativa): per la Camera ciò era da intendersi come la maggioranza dei voti validi
(contano solo i sì e i no, mentre gli astenuti non sono validi), per il Senato invece, fino
alla scorsa legislatura, l’interpretazione della norma costituzionale era più aderente al
testo, in quanto si contavano anche gli astenuti, il cui voto era considerato come un
no (chi si voleva astenere doveva uscire dall’aula); con la riforma del Senato, si è
parificata la normativa del Senato con quella della Camera (la maggioranza dei
presenti è la maggioranza dei voti validi, gli astenuti non contano).

La regola generale, scritta nei regolamenti, è che il voto è palese ed avviene in modo elettronico: si
tratta di una scelta fatta a metà anni ‘80 soprattutto per evitare il fenomeno dei franchi tiratori. Il voto
segreto è rimasto solo per quelle leggi che toccano la coscienza del parlamentare ( legge in materia
di aborto) o nei voti relativi alle persone.

Status parlamentare
La Costituzione prevede alcune prerogative parlamentari, ossia delle garanzie che tutelano la libertà
del mandato parlamentare e fanno sì che il parlamentare possa adempiere alle sue funzioni senza
costrizioni o eccessive pressioni da parte di terzi.

Articolo 67
La prima garanzia è il vincolo di mandato. La rappresentanza politica nasce sul modello della
rappresentanza privatistica. Dalla fine del ‘700 questa impostazione cambia e si afferma un tipo di
rappresentanza per cui gli elettori eleggono un parlamentare, ma, nel momento in cui egli viene
eletto, è libero di agire secondo la propria coscienza e non è vincolato giuridicamente dal programma
presentato. Questa concezione impedisce di vincolare il mandato, ma impedisce anche di revocare il
mandato prima della scadenza del termine della legislatura: sulla base di ciò si instaura uno stretto
rapporto tra eletto e partito, molto rilevante sul piano politico, in quanto l’unico modo che ha l’elettore
per essere rappresentato è quello di fare la fiducia agli eletti.

Articolo 68
Altra garanzia dei parlamentari è l’insindacabilità delle opinioni e dei voti espressi nell’esercizio delle
funzioni di parlamentare. Ciò significa che un parlamentare non può essere ritenuto giuridicamente
responsabile per come vota o per ciò che dice nei dibattiti parlamentari. Anche questa prerogativa è
funzionale a garantire il più libero esercizio dei diritti parlamentari, facendo sì che il parlamentare nei
propri voti non sia condizionato da pressioni dall’esterno. La stessa cosa vale per le opinioni espresse
nei dibattiti parlamentari. Una norma antica inglese garantiva in primo luogo che i giudici del re
potessero limitare la libertà del Parlamento arrestando o comunque mandando al processo quei
membri che non si esprimevano in modo favorevole al sovrano. Il tema che ancora impegna la Corte
Costituzionale è definire l'ambito di applicazione dell’insindacabilità: se il parlamentare insulta un altro
parlamentare su Facebook è coperto da insindacabilità? Si tratta di una questione molto dibattuta: vi
erano moltissimi casi in cui si iniziava una causa civile o un provvedimento penale verso una
parlamentare che si era espresso nei confronti di un altro parlamentare, ledendo la sua reputazione.
In questo caso il Parlamento dichiarava il suo voto insindacabile e il giudice aveva due possibilità:
accettare la dichiarazione della Camera di appartenenza o ritenere che quell’opinione non fosse
coperta da insindacabilità, sollevando un conflitto di attribuzione.

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Al II comma dell’art.68 viene presentata l’immunità penale. La Costituzione antica prevedeva
l’istituto dell’autorizzazione a procedere: per dare vita ad un procedimento penale (omicidio, furto,
lesioni) nei confronti di un parlamentare, il giudice doveva chiedere l’autorizzazione alla Camera di
appartenenza. Se fosse stata negata il Parlamentare non avrebbe potuto essere processato per tutta
la durata del mandato. Tale istituto voleva garantire al massimo l’autonomia dei parlamentari rispetto
al potere giudiziario. Tuttavia molto spesso l’autorizzazione a procedere veniva negata per motivi
comuni (criminalità economica) per una sorta di iper-protezione del Parlamento a vantaggio dei
parlamentari davanti ai giudici.

Oggi, il II comma dell’art. 68 pone delle garanzie parlamentari: esso prevede l’autorizzazione a
procedere per alcuni specifici atti limitativi della libertà personale o di comunicazione del
parlamentare. Un giudice è tenuto a chiedere l’autorizzazione alla Camera per:
● Perquisizioni personali e domiciliari
● Arresti, detenzione o altra forma di limitazione della libertà personali
● Intercettazioni
● Sequestro di corrispondenza

Nel caso ci sia un processo e il parlamentare venga condannato in via definitiva, per l’espiazione
della pena detentiva non è necessaria l’autorizzazione, così come nel caso di arresto in flagranza di
reato. Tuttavia, oltre alla convalida dell’arresto da parte del giudice, richiesta dall’art. 13 della
Costituzione, in questo caso sarà necessario, perché l’arresto sia valido, anche l’autorizzazione della
Camera di appartenenza, successiva all’arresto.

Altra garanzia è l’indennità parlamentare, articolo 69

Funzione di controllo delle entrate e delle uscite dello Stato


Tale funzione consiste nell’approvazione del bilancio dello Stato. Uno dei temi più rilevanti negli Stati
contemporanei è quello dell’indebitamento dello Stato: ogni Stato, soprattutto negli ultimi decenni, è
tendenzialmente indebitato: il disavanzo è naturale, ma ciò che conta è la grandezza di questo
disavanzo e le conseguenze dell’eccessivo indebitamento dello Stato soprattutto sulle generazioni
future. Un aumento del debito pubblico, infatti, comporta l’obbligo di ridurre le spese e aumentare le
imposte che vanno a carico delle future generazioni. La Costituzione, soprattutto dopo la riforma
costituzionale avvenuta nei primi anni dello scorso decennio, dopo la crisi del 2008, pone dei principi
per contenere l’indebitamento che, se eccessivo, crea degli squilibri in vario senso. Tutto ciò è
ulteriormente amplificato dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea: in un sistema giuridico-
economico praticamente unico come quello europeo, è evidente che le politiche di uno Stato possano
incidere complessivamente sull’intera Unione, soprattutto dopo l’introduzione della moneta unica (€).
Di conseguenza l’adesione dell’Italia all’UE ha imposto al nostro ordinamento per quanto riguarda le
politiche di bilancio (che si trovano nel trattato di Maastricht) diversi canoni da rispettare.
Lo Stato assicura, con le politiche di bilancio, l'equilibrio tra le entrate e le spese, tenendo conto delle
fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.

Articolo 81
L’art. 81 prevede che le Camere ogni anno approvino con legge il bilancio (documento in cui sono
rappresentate entrate e uscite che nell’anno successivo il Governo ritiene di incassare e spendere)
dell’anno successivo, e il rendiconto consuntivo (esito delle spese e dell’entrate dell’anno
precedente) presentati dal Governo, che devono essere approvati entro il 31 dicembre. Con la legge
di bilancio non si possono prevedere né nuove entrate né nuove spese: la legge di bilancio non ha
contenuti innovativi. Questo non vuol dire, tuttavia, che non vi sia la necessità spesso di intervenire
con un aggiustamento o cambiamento: molto spesso nel periodo della legge di bilancio avvengono
quelle che sono definite le manovre finanziarie, ovvero le manovre che aumentano o diminuiscono
le spese e mutano la locazione delle risorse. Fino a qualche anno fa ciò avveniva tramite le leggi
finanziarie, che precedevano la legge di bilancio, su cui si costruiva il bilancio dello stato; oggi il
cammino di approvazione delle varie manovre finanziarie è più strutturato nel tempo, tuttavia nella
stessa legge di bilancio c’è una sezione particolare che può intervenire aumentando o diminuendo le
spese

Ulteriore aspetto importante dell’articolo 81, prima della riforma, è che l’articolo prevede una norma
generale che vale per tutte le leggi: “Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi
per farvi fronte”: ogni legge che in qualche modo aumenti le spese o diminuisca le entrate deve avere
la cosiddetta copertura finanziaria, ossia il Parlamento nel momento in cui approva una legge, che
comporti un aumento di spese, deve prevedere quali siano le entrate che coprano quelle spese.

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Si tratta di una norma introdotta da un grande economista (Einaudi) che tendenzialmente doveva
condurre a una sorta di pareggio di bilancio; in verità poi molte coperture sono abbastanza ipotetiche
oppure per lungo tempo si coprivano le spese con il debito pubblico e ciò ha comportato il crescere
progressivo di un debito pubblico enorme, che nei momenti di crescita dell’economia può essere
gestito (le entrate sono maggiori), ma nei momenti di crisi pone problemi per la stessa stabilità dello
Stato. Questo pericolo è emerso dopo la crisi del 2008 che porta l’UE a irrigidire le regole di bilancio
(reazione di lotta all’inflazione, non espansionistica).

Spinta dall’UE, in Italia, durante il Governò Monti (governo di unità nazionale), si introduce una
modifica costituzionale per irrigidire in qualche modo le regole su bilancio: venne introdotto il
principio del tendenziale pareggio di bilancio, secondo cui, almeno in un periodo relativamente
breve ,il bilancio dello Stato doveva essere in equilibrio (le entrate dovevano essere uguali alle spese)
sia per lo Stato che per le amministrazioni locali, regionali (una gran parte del debito pubblico italiano
deriva dalle spese delle amministrazioni locali). La riforma dell’art.81 ha dunque richiesto che per
l’approvazione di una legge che preveda un ulteriore indebitamento è necessaria la maggioranza
assoluta dei componenti delle Camere.

Ciò cambia anche le modalità in cui si approvano i vari documenti che compongono
complessivamente il bilancio dello stato. Si supera l’idea della legge finanziarie che porta alla messa
in atto di un percorso diviso in tappe durante l’intero anno:
● ad Aprile c’è l’approvazione del DEF (Documento di Economia e Finanza), che deve prevedere
gli orientamenti del Governo riguardo le entrate e le spese alla luce dei vincoli europei (vincoli
previsti nel trattato di Maastricht che pongono dei limiti all’indebitamento), poi vi è l
● a Settembre vi è la nota di aggiornamento presentata per vedere se ci sono stati degli
scostamenti relativi al DEF
● entro il 31 dicembre deve essere approvata la legge di bilancio

Simile alla legge di bilancio, troviamo le leggi di autorizzazione e ratifica dei trattati internazionali.

Articolo 80
I Trattati internazionali sono discussi tra i Governi, possono essere unilaterali o plurilaterali. Un
trattato per produrre i suoi effetti ed impegnare l’Italia nei confronti degli stati firmatari deve essere
ratificato (ratifica: atto presidenziale); la ratifica deve però essere preceduta da un’autorizzazione
delle camere con legge. Con la ratifica vi è l’impegno a rispettare il trattato con gli Stati con cui è stato
sottoscritto.

Un’altra normativa particolarmente rilevante nell’ordinamento italiano è il recepimento della


normativa europea nell’ordinamento interno: una legge del 2012 prevede una serie di obblighi del
Parlamento riguardo al recepimento del diritto dell’Unione. Si tratta di una legge ideata per limitare i
casi di inadempimento rispetto agli obblighi comunitari. Uno dei maggiori strumenti dell’Unione
europea sono le direttive, che sono approvate all'interno dell’UE e gli stati hanno l’obbligo di adeguare
la legislazione interna ai principi contenuti nella direttiva, solitamente entro un termine; se gli Stati non
adempiono, seguono conseguenze negative (procedure di infrazione per gli stessi membri). L’Italia è
sempre stata tra i paesi più inadempienti: di conseguenza è stato previsto un sistema che dovrebbe
evitare i ritardi nell'adempimento rispetto alla normativa europea. Ogni anno il Governo ha l’obbligo di
presentare un disegno di legge che impone di rispettare tutte le normative in cadenza; il Parlamento
deve o approvare la normativa interna che dà attuazione al diritto dell'Unione oppure delegare il
governo, con una legge di delegazione, o le Regioni, se la normativa è in materia regionale, a dare
attuazione alla normativa europea. Per evitare che vi siano inadempienze è prevista una doppia
sessione ogni anno: una a febbraio, in cui si dà attuazione alle normative scadute nell’anno
precedente e una in autunno per evitare le procedure di infrazione.

ITER LEGISLATIVO
L’iter legislativo è il procedimento attraverso il quale viene approvata una legge dalle Camere: è un
provvedimento molto complesso che consta di varie fasi, non tutte all’interno delle Camere (solo una:
approvazione delle leggi):
1. Iniziativa
2. Istruttoria- deliberativa
3. Promulgazione (30 giorni salvo rinvio)
4. Pubblicazione (entrata in vigore)

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Iniziativa
Si tratta della possibilità di proporre un disegno di legge all’una o all’altra Camera. Tale potere è
attribuito dalla Costituzione all’articolo 71 a:
● Il Governo: per alcune materie è solo il Governo che può presentare il disegno di legge alle
camere, come l’approvazione del disegno di legge del bilancio, l’autorizzazione e la ratifica dei
trattati internazionali, i decreti legge, ecc.
● Ciascun membro delle camere: lo presenta nella camera di appartenenza, viene di solito
firmato da una pluralità di parlamentari perché se è presentato del singolo viene “dimenticato”
● Organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale (CNEL ovvero il consiglio
nazionale dell’economia e del lavoro, Consiglio regionale)
● Il popolo attraverso 50 mila elettori con la raccolta di firme

Istruttoria o deliberativa
La Costituzione afferma che ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme
del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva
articolo per articolo e con votazione finale. E’ fondamentale, in questa fase, il potere di agenda,
ovvero il potere di decidere quali tra i disegni di legge debba avere una “corsia preferenziale”. Il
secondo aspetto fondamentale è decidere quale procedimento usare. La proposta di legge passa
inizialmente nella commissione competente per materia.

La commissione opera in tre sedi:


1. Procedimento ordinario in sede referente: la commissione esamina i disegni di legge, li
discute, talvolta propone un testo unificato (se ci sono diversi disegni legge sulla stessa materia
fa una sintesi). Una volta che la commissione trova un punto di sintesi e un consenso su un
disegno di legge approva una relazione all’aula che contiene le ragioni per approvare un testo di
legge e le relazioni spesso propongono un testo che può essere diverso rispetto al disegno di
legge originario; in commissione si cerca di sbrogliare i nodi più complessi del discorso.

2. Procedimento legislativo in sede deliberante: l’articolo 72 prevede che tutte le fasi del
procedimento legislativo, fino all’approvazione finale inclusa, si svolgono in Commissione; per
fare ciò è necessario che ci sia un consenso molto ampio perché la Costituzione prevede che si
torni al procedimento ordinario qualora lo richieda il Governo o qualora lo richiedano 1/5 dei
membri della commissione o 1/10 dei componenti delle camere

3. Procedimento legislativo in sede redigente: prevista dai regolamenti parlamentari; in tal caso
la sistemazione del testo di legge e l’approvazione articolo per articolo avvengono in
commissione, la votazione finale del testo avviene in ciascuna camera. La scelta del
provvedimento è lasciata alla singola camera

Cosa fa l’assemblea nel caso del procedimento ordinario?


Inizialmente si ha una discussione generale preceduta dalla lettura delle relazioni
● Una relazione di maggioranza che contiene le ragioni di opportunità dell’approvazione del
testo legislativo
● Una relazione di minoranza stilata da coloro che non sostengono l’approvazione del testo di
legge

Poi si ha una discussione sulle singole norme previste dal disegno di legge (discussione articolo
per articolo). Si discutono e si votano gli emendamenti presentati per quell’articolo e alla fine si vota
l’articolo nel suo complesso. Infine, vi è un voto finale che avviene in modo palese e che può
condurre all’approvazione o al rigetto del testo. Una volta che il testo è stato approvato passa all’altra
camera che deve discutere e approvare nuovamente il testo: se vengono approvati degli
emendamenti, il testo torna alla camera iniziale che deve riesaminarlo e riapprovarlo.
Una volta che il medesimo testo è stato approvato da entrambe le camere si passa alla fase della
promulgazione e della pubblicazione.

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Promulgazione
La Costituzione assegna il potere di promulgare la legge al PDR: si tratta di un atto formale del PDR,
salvo l’ipotesi prevista dall’articolo 74 della Costituzione, che prevede che il PDR possa ripudiare una
legge deliberata dalle camere: Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con
messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano
nuovamente la legge, questa deve essere promulgata.Si tratta di una norma molto rilevante anche sul
piano politico perché il PDR ha un potere che può incidere sull’esito del procedimento legislativo:
nonostante l’approvazione della legge da entrambe le Camere, il PdR potrebbe chiederne una nuova.
La Costituzione non prevede i motivi che possono indurre il PDR a chiedere una nuova approvazione.
Tuttavia, i confini del potere del rinvio si colgono dal ruolo che il PDR svolge nel nostro ordinamento: il
PDR non è una terza camera, egli non può in qualche modo orientarsi nella scelta se rinviare una
legge o no secondo le proprie idee politiche; il PDR non è la Corte costituzionale ovvero egli non è il
giudice della costituzionalità delle leggi. Il potere di rinvio del PdR si colloca dunque in mezzo tra un
giudizio politico e un giudizio costituzionale: tutti i PDR hanno usato con parsimonia questo potere
secondo una dottrina che prevede che il rinvio delle leggi alle Camere è consentito solo quando o la
legge sia palesemente incostituzionale oppure il PDR ritiene che la legge sia così contrastante con la
volontà del corpo elettorale da essere totalmente inopportuna nel merito. Il potere di rinvio non è un
potere di veto: quando il PDR rinvia la legge non vuol dire che quella legge non può essere approvata
,ma la legge deve essere approvata dalle camere, che possono riapprovarla così com’è e il PDR non
può più rinviarla e la deve per forza promulgare. Il PDR tramite un messaggio motivato alla le camere
spiega il motivo per il quale non ha pubblicato la legge: il periodo durante il quale le Camere
modificano e riapprovano la legge prende il nome di veto sospensivo.

Pubblicazione
Dopo massimo 30 giorni dalla promulgazione, la legge viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, e li ci
rimane per il periodo della vacatio legis (15 giorni), in cui la legge è in Gazzetta ma non è ancora
“valida”: questo periodo servirebbe a far conoscere ai cittadini le nuove regole che vengono introdotte
nell’ordinamento; dopo la vacatio legis la legge entra in vigore e si ritiene conosciuta da tutti.
Questo periodo serve anche a corollare un principio, che è necessario, il principio che la mancata
conoscenza della legge non costituisce una scusante. È un principio generale che trova un’eccezione
nel diritto penale: per alcuni tipi di reati che sono spesso molto tecnici che presuppongono la
conoscenza di una serie di dati, che non sono reati “naturali” (es: omicidio) in questi casi è ammesso
come causa di giustificazione la mancata conoscenza della legge che nasce da un intervento della
Corte Costituzionale.

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Articolo 84
L’unico requisito richiesto per essere eletti Presidenti della Repubblica è l’essere cittadino italiano,
aver compiuto 50 anni di età e godere dei diritti civili e politici. La carica di Presidente della
Repubblica non è inoltre compatibile con altre e non vi sono limiti al numero dei mandati. L’art. 84
inoltre prevede che il Presidente goda di un assegno personale e una dotazione finanziaria fissata per
legge. La stessa legge istituisce un apparato amministrativo autonomo che risponde direttamente al
Presidente, ovvero il Segretario generale della Presidenza della Repubblica.

Articolo 83
L’art.83 prevede che il Presidente della Repubblica venga eletto dal Parlamento in seduta comune
integrato con 3 delegati per Regione, eletti dal consiglio regionale. Al 3° comma si prevede la
maggioranza qualificata dei ⅔ dei componenti per la validità delle prime tre votazioni, mentre dalla
quarta votazione in poi la maggioranza richiesta scende alla maggioranza assoluta dei componenti.
Questo tipo di maggioranza viene richiesto dal Il Costituente richiede la maggioranza qualificata per
l’elezione del Presidente della Repubblica per far sì che abbia un grado di consenso elevato, che va
oltre, almeno per le prime tre votazioni, la maggioranza politica. Il Presidente della Repubblica è
rieleggibile, anche se nella logica costituzionale probabilmente non era contemplata questa ipotesi.

Articolo 85
La durata della carica è di 7 anni. L’incarico stabilito è volutamente molto lungo, allo scopo di
evitare che un Presidente possa essere rieletto dalle medesime assemblee, svincolandolo da legami
politici immediati con l’organo che lo elegge.

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Articolo 86
Questo articolo prevede l’istituto della supplenza, in base al quale, nel momento in cui il Presidente
non sia in grado di adempiere temporaneamente alle sue funzioni per una qualsiasi ragione (visita
all’estero, malattia...), allora le sue funzioni passano nelle mani del Presidente del Senato. Questo,
una volta in carica come supplente, deve esercitare il suo ruolo secondo il buon senso e nel rispetto
del buon funzionamento delle istituzioni; si deve dunque astenere da qualsiasi iniziativa non
strettamente necessaria e non concordata col Presidente. Al 2° comma si fa riferimento ad un
impedimento permanente, caso si attribuisce al Presidente del Senato il pieno esercizio della
supplenza. In caso di dimissioni del Presidente della Repubblica, quest’ultimo, dopo aver consegnato
la lettera di dimissioni, diventa Senatore di diritto a vita (salvo il caso di destituzione da parte della
Corte Costituzionale).

Articolo 87
La Costituzione all’art. 87 elenca una serie di funzioni del Presidente della Repubblica, richiamate
anche in altre norme. E’ opportuno inquadrare i poteri presidenziali secondo il ruolo che il Presidente
svolge e la sua funzione nell'esercizio dei suoi poteri:
● poteri di controllo: il Presidente esercita le sue funzioni solitamente controllando le funzioni
svolte da un altro potere.
● poteri di garanzia: sono esercitati attraverso la presidenza di alcuni organi, in cui il Presidente
svolge solitamente una funzione di controllo della conformità al dettato costituzionale delle
modalità attraverso cui opera l’organo.
● potere di nomina: il Presidente della Repubblica nomina i 5 senatori a vita, ovvero cinque
senatori che hanno illustrato la patria per vari motivi; è un retaggio che riprende il potere sovrano
del re nello statuto albertino, in quanto il Senato era interamente di nomina regia. Questa scelta
del Presidente non deve essere guidata da criteri di appartenenza politica, ma in primo luogo da
meriti e prestigio delle persone che lui chiama a sedere a vita al senato (Liliana Segre senatrice a
vita). Il presidente nomina anche 5 giudici della Corte Costituzionale, con l’obiettivo di mantenere
equilibrata la composizione interna della Corte ed evitare la politicizzazione.
● potere di influenza: il Presidente della Repubblica può mandare messaggi formali alle camere,
invitandole a riflettere su un determinato tema, ad esempio su una determinata legge. Egli solleva
quindi una questione che ritiene di importanza e urgenza per il paese; può indire le elezioni delle
nuove camere e referendum popolari. Molto frequenti invece sono le forme di esternazione del
Presidente della Repubblica, ovvero quei discorsi pubblici che il presidente fa in tante occasioni
quasi quotidiane, non sono semplicemente il pensiero di un uomo, ma sono forme (non
istituzionalizzate) di pressione e invito agli organi costituzionali di agire in una determinata
direzione.
● poteri di prerogativa: in particolare troviamo il potere di grazia → discende dal potere del
monarca, la grazia è quel potere che il presidente esercita nei confronti del soggetto che ha avuto
una sanzione penale, cancellandone gli effetti. Si inserisce in questa categoria anche il potere di
conferire le onorificenze
● potere di intermediazione politica: il PdR svolge la funzione di sostegno nelle crisi e la sua
discrezionalità esiste e può essere decisiva
● potere di scioglimento anticipato delle Camere, alle quali può inviare messaggi
● potere di nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, dei ministri
● ruolo di protagonista nella politica e nella formazione del Governo: è lui che accoglie il
giuramento e ne accetta le dimissioni.
● potere di rappresentanza esterna: il Presidente della Repubblica accredita e riceve i
rappresentanti diplomatici; ratifica i trattati su autorizzazione delle camere; dichiara lo stato di
guerra; effettua visite ufficiali all’estero (accompagnato dal ministro degli affari esteri).
● potere legislativo: Il Presidente della Repubblica può avere una funzione legislativa, infatti
promulga le leggi approvate dal parlamento, autorizza la presentazione alle camere dei disegni di
legge del governo, emana gli atti del governo aventi forza di legge.

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Il presidente esercita il suo potere con una serie di atti con forme diverse. Fondamentale è capire la
differenza tra:

● atti formalmente presidenziali: la volontà e le decisioni sono di un organo diverso dal


Presidente della Repubblica. In tali atti il Presidente esercita solamente il potere di garanzia
per assicurare la costituzionalità dell’atto, ma sono espressione della volontà soprattutto del
Governo.

● atti sostanzialmente presidenziali: espressione della volontà del PdR. Sono atti a tutti gli
effetti presidenziali, come la nomina dei giudici, i messaggi alle camere, il potere rinvio. Non
avrebbe senso che derivassero da un’iniziativa di governo o parlamento. Ci sono dei casi in
cui si è discusso se il potere fosse solo formalmente o sostanzialmente presidenziale, in
particolare sul potere di grazia ci fu un conflitto molto forte. Con la sentenza 200/2006 la
Corte ha affermato che il potere di grazia è un potere formalmente e sostanzialmente
presidenziale e non può essere esercitato dal ministro della giustizia. La controfirma è solo
una certificazione.

Una norma fondamentale per comprendere la natura dell’atto è l’art.89 che prevede l’istituto della
controfirma ministeriale. Se si legge questo articolo alla lettera, il sistema che ne deriva prevede
che tutti gli atti presidenziali debbano essere preceduti da una proposta di un ministro (ministro
proponente). In realtà non è così, vi sono molti atti che presuppongono una previa proposta (ad
esempio l’approvazione di un decreto legge è preceduta dall'approvazione del consiglio dei ministri),
ma vi sono anche molti atti presidenziali in cui non vi è un proponente (potere di rinvio non può aver
una previa proposta del governo), ma sono atti propri del Presidente della Repubblica, derivando
prettamente dalla sua volontà. Quindi il termine proponente viene meglio sostituito con “ministro
competente” per materia. Tuttavia è necessario che vi sia sempre un centro di responsabilità: questa
viene assunta dal ministro competente, che controfirma l’atto per la sua validità.

Oltre agli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali, troviamo gli atti complessi o duumvirali,
in cui deve coesistere la volontà del Presidente e di un altro organo, in particolare del Presidente del
Consiglio. Tra questi riconosciamo:
● lo scioglimento della camere: il PdR non può sciogliere le camere anticipatamente, salvo che
vi sia il consenso del PdC, il quale deve firmare l’atto di scioglimento. Qualora, invece, il PdC
chieda lo scioglimento al PdR questo può rifiutarsi di sciogliere anticipatamente. Qualora
manchi uno di questi consensi non si può esercitare il potere
● nomina del Presidente del Consiglio e formazione del Governo (stessa disciplina)

La responsabilità del presidente della repubblica


Si distingue tra:

● Responsabilità politica, che il PdR ha nei confronti degli altri organi della Repubblica. Il
Presidente della Repubblica non può essere sfiduciato e una volta eletto non risponde più
alle camere perché rappresenta l’unità nazionale. Di conseguenza non si figura una vera e
propria responsabilità politica.

● Responsabilità politica generale, nei confronti del paese e dei cittadini. Può essere
soggetto a critiche nella logica della libertà di espressione. Non può esserci una legge che
impedisca di esercitare il diritto di critica contro il PdR. Ad esempio, il vilipendio del
Presidente della Repubblica, è un reato che in origine proteggeva la sacralità del re e del
capo dello stato e quindi impediva ogni critica al sovrano; oggi all'interno degli stati
democratici deve essere interpretato in modo assai restrittivo, nel senso di vietare quel tipo di
critica che si traduce in insulto o offesa gratuita al PdR. La critica ragionata è invece lecita.

● Responsabilità giuridica (art.90): Il regime giuridico del PdR e della responsabilità penale a
lui attribuita è atipico, in quanto la Costituzione prevede che il Presidente della Repubblica
non sia responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni salvo che per il reato
di ALTO TRADIMENTO e ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE. Non si tratta di reati tipizzati,
cioè non c’è una norma che specifica quali sono i comportamenti che portano all’ipotesi di
alto tradimento o attentato alla Costituzione. In questo caso il Capo dello Stato è messo in
stato di accusa dal Parlamento in seduta comune che decide se vi debba essere un processo
e in questo caso si ha il giudice che è la Corte costituzionale, giudice penale solo in questo
specifico caso.

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● Responsabilità giuridica generale, civile e penale, per gli atti compiuti al di fuori dalla
posizione di PdR, precedenti al mandato o durante il mandato, ma compiuti come privato
cittadino e non come presidente. In riferimento a questo vi è stata una lunga diatriba sulla
stabilità dal potere del Presidente: si è discusso se il Presidente potesse essere processato
durante il mandato, nel senso che si riteneva inopportuno e pericoloso per le istituzioni che
un organo con una funzione così delicata fosse sottoposto a processo (a livello simbolico e di
garanzia). Ci si chiedeva se processare il Presidente durante il mandato non rischiasse di
mettere a rischio gli equilibri delle istituzioni, e quindi si riteneva ragionevole una regola
implicita secondo la quale il processo dovesse essere posposto al suo mandato,
presumibilmente dopo la presentazione delle sue dimissioni. Questa questione viene risolta
dalla Corte costituzionale in una serie di sentenze che nascevano da altre ragioni: durante i
primi anni del 2000 la maggioranza approvò una serie di leggi (leggi Schifani e Alfano) che
miravano a sottrarre il Presidente del Consiglio (Berlusconi) a una serie di processi penali in
cui era imputato. Queste leggi sottraevano le alte cariche dello Stato (presidenti degli organi)
al procedimento processuale, finché detenevano quella carica. Si tratta del fenomeno delle
leggi ad personam, che venivano approvate tenendo in considerazione un caso concreto.
Queste leggi furono portate davanti alla Corte costituzionale per verificarne la legittimità e la
Corte disse che quelle leggi erano incostituzionali per vari principi e motivi, primo fra tutti
quello secondo cui non esiste una posizione gerarchica per cui i Presidenti sono diversi dagli
altri membri degli organi e quindi possano avere un trattamento diverso.

IL GOVERNO
Il Governo è un organo costituzionale complesso, formato dal Presidente del Consiglio, i Ministri e
l’organo collegiale del Consiglio dei Ministri. La disciplina costituzionale sul Governo è molto ridotta:
sono solo 5 gli articoli dedicati espressamente ad esso (92-96), a cui si aggiungono gli articoli dal 97
al 200 in materia di amministrazione pubblica. Si tratta di una scelta non casuale, in quanto la
disciplina del Governo è per lo più esplicitata nella prassi, nelle convenzioni, nella legge e in atti di
autorganizzazione dell’organo stesso. Storicamente il Governo era un’appendice del sovrano e
dunque gli si attribuiva una disciplina piuttosto ristretta nelle Costituzioni, dando maggiore rilievo al
Parlamento, organo centrale dei sistemi di governo parlamentare. Oggi invece il Governo ha un ruolo
fondamentale negli ordinamenti, che va al di là del solo potere esecutivo: ricopre una posizione
rilevante nell’attività di indirizzo politico dello Stato a livello nazionale e sovranazionale e possiede
importanti poteri normativi all’interno delle politiche statali. Tuttavia il ruolo del Governo all’interno
dell’ordinamento è fortemente influenzato dagli equilibri della complessiva forma di governo, dal
grado di attuazione del decentramento politico e dall’economia di mercato. Negli ultimi anni, infatti, si
è optato per un decentramento del potere a favore di Regioni ed enti locali, togliendo così importanti
attribuzioni al Governo; si predilige uno scarso intervento dello Stato nel mercato economico,
privando il Governo del controllo su molte imprese pubbliche e, nonostante il suo ruolo centrale nella
comunicazione con gli organi europei, è stato svincolato da molte mansioni ora legate alle istituzioni
europee e sovranazionali.

La disciplina costituzionale del Governo è integrata da 2 leggi importanti, che stabiliscono compiti,
funzioni e organizzazione di tale organo:
● Legge 400/1988 → legge che disciplina la carica del Presidente del Consiglio e le fonti
governative, ossia decreto legge, decreto legislativo e le fonti secondarie, che si pongono al
di sotto della legge ordinaria
● Decreto legislativo 300/1999 → riforma dell’amministrazione dello Stato, connessa a leggi
che riformano l’organizzazione del governo e dei ministeri

La struttura del Governo


Il Governo è un organo costituzionale complesso, ossia formato da una pluralità di organi, necessari e
non necessari. Gli organi fondamentali sono enunciati dall’art.92.1.
Sono previsti tre organi fondamentali:
● il Presidente del Consiglio (organo monocratico)
● i Ministri con portafoglio (organo monocratico) → sono previsti dalla legge e sono a capo di un
ministero, una struttura amministrativa complessa; hanno sia funzioni politiche sia di vertice
nell’amministrazione di ingenti quantità di denaro e di servizi fondamentali (ministro della giustizia,
ministro dell’interno)
● il Consiglio dei Ministri (organo collegiale)

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Vanno a formare il Governo anche organi la cui presenza non è indispensabile:
● Vice-presidente del Consiglio dei Ministri → viene eventualmente nominato tra i ministri e
assume le funzioni di supplente del Presidente nel caso in cui questi sia assente o impedito.
Solitamente viene nominato per dare risalto a un partito nella coalizione diverso da quello del
PdC
● Consiglio di Gabinetto → talvolta viene istituito dal PdC per riunire i ministri che rappresentano
le varie componenti politiche della coalizione
● Comitati interministeriali → possono essere di due tipi: istituiti per legge (possono deliberare in
via definitiva su determinati oggetti, adottando atti produttivi di effetti giuridici verso l’esterno) e
comitati di ministri, istituiti dal PdC con compiti provvisori per affrontare questioni definite
● Ministri senza portafoglio → sono ministri non a capo di un ministero, che svolgono funzioni
delegate loro dal PdC. Per l’espletamento delle loro funzioni sono preposti ad un dipartimento
della Presidenza del Consiglio. Alcune figure di ministri senza portafoglio sono previste dalla
legge e spetta al PdC la decisione di inserirle o meno nel Governo. Ad esempio, vi è il ministro
dei rapporti con il Parlamento, che si occupa di coordinare i rapporti tra Governo e Parlamento.
● Sottosegretari di Stato → coadiuvano il ministro o il PdC, esercitando i compiti che quest’ultimo
delega loro con apposito decreto. Proprio perché collaboratori, essi non fanno parte del Consiglio
dei Ministri e non possono partecipare alla formazione della politica generale del Governo. Tutte
le attività che svolgono, sono attuate in rappresentanza del ministro che li ha delegati e dunque
secondo la sua volontà. Un ruolo particolare è quello del sottosegretario di Stato alla Presidenza
del Consiglio, che svolge le funzioni di segretario del Consiglio dei ministri, curando la
verbalizzazione e la conservazione del registro delle deliberazioni del Consiglio.
● Viceministri → sono sottosegretari (non più di dieci) cui vengono conferite deleghe relative
all’intera area di competenza di una o più strutture dipartimentali o più direzioni generali. Possono
essere invitati dal PdC a partecipare al Consiglio dei ministri senza diritto di voto, per riferire su
questioni oggetto della delega.
● Commissari straordinari del Governo → sono nominati per realizzare obiettivi specifici o per
esigenze di coordinamento operativo tra le amministrazioni statali.

La nascita del Governo


La formazione del Governo nelle democrazie pluraliste può avvenire secondo due modalità:
● Democrazia mediata, in cui spetta ai partiti, dopo le elezioni, la scelta della struttura e del
programma di Governo
● Democrazia immediata, in cui vi è l’investitura popolare diretta del PdC

La forma di Governo parlamentare vigente in Italia esclude che il corpo elettorale formalmente possa
scegliere il Presidente del Consiglio. L’art.92 afferma che il Presidente della Repubblica nomina il
Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri. Tale norma avrebbe
consentito al PdR, dopo aver svolto le consultazioni, di nominare immediatamente il PdC, che poi
avrebbe presentato al Capo dello Stato la lista dei Ministri che avrebbe voluto al suo fianco al
Governo. Ciò presupponeva la presenza di un PdC autorevole, direttamente in grado di stilare la lista
dei ministri. Tuttavia, il sistema delle coalizioni formate tra partiti dopo il Governo non ha spesso
permesso l’attuazione di questo meccanismo, in quanto frequentemente negli accordi di coalizione
erano già previsti i ministri da nominare e il loro ruolo, togliendo potere al PdC. Dunque, in presenza
di coalizioni formate in sede elettorale, con l’indicazione del candidato alla Presidenza del Consiglio, il
Capo dello Stato si limita a nominare PdC il leader della coalizione che ha avuto voti maggiori. In
caso di assenza di maggioranza, il ruolo discrezionale del PdR, che in una situazione di crisi di
governo, ha il compito di trovare la persona adatta a rivestire la carica di Presidente del Consiglio. In
alcuni casi, il PdR ha scelto figure autorevoli, estranee ai partiti, a cui ha affidato la guida di governi
tecnici, che godono della fiducia costituzionale necessaria e dell’appoggio del Capo dello Stato.

1. Consultazioni → dopo l’apertura della crisi di Governo, si prospettano due soluzioni:


scioglimento delle Camere con nuove elezioni o ricerca di una soluzione che ottenga la fiducia
delle Camere. Emerge qui il ruolo del Capo dello Stato. Il PdR procede con le consultazioni, che
possono durare anche mesi, in cui incontra i presidenti dei gruppi parlamentari e gli esponenti più
significativi dei vari partiti, con l’obiettivo di scegliere un soggetto, ritenuto idoneo dai partiti a
continuare nella definizione degli accordi di coalizione e di programma di Governo. In questa fase
il PdR può consultare chiunque possa informarlo sulle posizioni dei partiti rispetto al Governo, in
modo tale da individuare un soggetto e una maggioranza che ottengano la fiducia parlamentare.
Tale prassi è sempre stata seguita fin dagli esordi della Repubblica. Il PdR pronuncia la nomina
oralmente, che viene accettata con riserva, che viene sciolta solo se l’incaricato ha svolto in
maniera opportuna la sua attività.

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In caso di situazione politica particolarmente incerta, il PdR, prima di dare l’incarico vero e
proprio, può conferire un mandato esplorativo ad un soggetto super partes, che svolge un’attività
di informazione integrativa a quella del PdR. Solitamente questo incarico è conferito ai Presidenti
delle Camere. Se questa fase fosse regolamenta, ci sarebbero delle problematiche nella sua
riuscita: per questo ci si affida alla prassi e alle consuetudini. ESEMPIO La formazione del
Governo Draghi.

2. Nomina del Presidente del Consiglio → costituzionalmente la scelta dei ministri da proporre al
Capo dello Stato spetterebbe al PdC; tuttavia, data la realtà politica attuale, il Presidente del
Consiglio contratta i nomi dei ministri con i partiti politici che lo appoggiano. Dopo la
presentazione al PdC della proposta della lista del ministri, si procede con la nomina, da parte del
PdR, del Presidente del Consiglio e dei ministri. Il PdC sale al Quirinale con la lista dei ministri
che vuole proporre al PdR, il quale non può sovrapporre al consiglio del PdC un proprio giudizio
politico. Emblematico in questo senso è il caso Savona: durante la formazione del Governo
Conte, era stato proposto come ministro dell’economia il professor Savona, che aveva
dichiaratamente espresso di voler far uscire l’Italia dall’euro, andando in contrasto con le
principali norme costituzionali in materia economica ed europeista. Alla luce dei fatti, il Presidente
Mattarella si era opposto alla sua nomina per ragioni di tutela costituzionale, adempiendo
perfettamente alla sua funzione di custode della Costituzione.

3. Giuramento → si tratta di un atto formale che ha valore giuridico, grazie al quale il Governo entra
nell’esercizio delle sue funzioni. La fase del giuramento è disciplinata dall’art.93 e stabilisce che
debba essere pronunciato 24 ore dopo la nomina. Fino a questo momento rimane in carica il
Governo precedente per risolvere le questioni rimaste in sospeso e fare sì che non vi siano vuoti
di potere. Dopo il giuramento, il Governo non ha ancora ottenuto la fiducia e dunque la sua
attività è limitata agli atti di ordinaria amministrazioni, pari a quelli di un governo dimesso.

4. Fiducia → è disciplinata dall’art.94, che prevede che entro 10 giorni dal giuramento, il Governo si
presenti alle Camere esponendo il programma di Governo. In ciascuna Camera i parlamentari di
maggioranza presentano una mozione di fiducia che deve essere motivata e votata per appello
nominale. Per far sì che la fiducia sia concessa è necessario ottenere la maggioranza relativa dei
voti. La mozione di sfiducia può essere presentata da 1/10 dei deputati e messa in discussione
dopo 3 giorni dalla sua presentazione, in quanto prima occorre che vi sia un dibattito e la
presenza della maggioranza dei parlamentari.

Le funzioni del Governo


Oggi il potere del Governo non può essere circoscritto al solo potere esecutivo, che trova
applicazione grazie alla pubblica amministrazione. I ministri forniscono le direttive e gli indirizzi
all’amministrazione, la cui operatività però sussiste ugualmente. Il potere del governo tocca le scelte
fondamentali dell’indirizzo politico e costituisce il baricentro del potere riguardo i rapporti tra i diversi
livelli di governo. Il dato costituzionale mostra qualche ambiguità nella distribuzione del potere e
nell’attribuzione dell’indirizzo politico all’interno del Governo. Ciò avviene in quanto il Governo è un
organo collegiale, formato da PdC, ministri e Consiglio dei ministri, e il potere è associato ad ognuno
di essi. Il motivo si ritrova nella cosiddetta “paura del tiranno”, che consiste nel timore che un
personalità forte possa accentrare il potere e instaurare un regime autoritario, come quello fascista.
Per questa ragione la Costituzione è costruita su pesi e contrappesi e uno dei principi fondamentali è
proprio quello della collegialità.

L’art.95 stabilisce i rapporti tra gli organi necessari del governo, a ermando che il Presidente del
Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne e' responsabile. Mantiene l'unità di
indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri. Tale
disposizione mira a risolvere la questione spinosa dell’omogeneità e dell’unità del Governo e la
Costituzione, per garantire ciò, fa leva sulla competenza collegiale del Consiglio dei ministri a
determinare la politica generale del Governo e sulla competenza monocratica del PdC a dirigere
questa politica e a mantenere l’unità di indirizzo politico e amministrativo, coordinando l’attività dei
ministri. Il coordinamento a cui fa riferimento l’art.95 è l’attività volta ad assicurare l’unità di azione
del Governo, assicurando che le iniziative politiche e amministrative dei singoli ministri siano in linea
con l’indirizzo politico del governo. Per tutelare l’omogeneità di Governo, il PdC dispone di alcuni
poteri:

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ff
● propone al Capo dello Stato la lista dei ministri
● indirizza le direttive politiche e amministrative ai ministri, in attuazione della politica generale
del Governo
● competenza del Consiglio dei ministri di deliberare sulle questioni che riguardano la politica
generale del Governo

Che significa dunque che il PdC dirige e mantiene l’unità dell’indirizzo politico? Il Pdc deve
assicurare la tenuta omogenea dell’indirizzo politico del governo, mentre l’organo che effettivamente
lo determina è il Consiglio. Il baricentro del Governo è dunque il Consiglio dei Ministri, mentre il Pdc è
un organo primus inter pares, non posto in un ruolo di supremazia, ma sicuramente di rilievo. Il PdC
propone, infatti, al PdR la lista dei ministri, appone il segreto di Stato, può proporre al Consiglio la
fiducia su un determinato atto per accelerare il processo parlamentare, ha una posizione importante a
livello internazionale ed europeo.
La centralità dunque spetta al Consiglio dei Ministri, che approva gli atti legislativi del Governo
(decreto legge, decreto legislativo, regolamenti governativi), ma nel concreto la fiducia parlamentare,
che viene data al Parlamento nel suo complesso, è tuttavia molto personale e dunque il ruolo del PdC
risulta fondamentale. L’iniziale logica costituzione si basava sulla creazione di un Governo debole
rispetto al Parlamento, in cui prevalesse la dimensione collegiale a quella democratica.
Ruolo importante spetta anche ai ministri, in particolare a quelli dotati di portafoglio, a capo di un
ministero. Essi sono al vertice dell’amministrazione, a cui sono preposti e partecipano al Consiglio dei
Ministri. Compito del PdC è assicurare che i ministri svolgano le loro funzioni nel rispetto della linea di
indirizzo politico del Governo. Nei governi di coalizione, create dopo le elezioni, spesso i ministri
hanno assunto il ruolo di delegati dei vari partiti di cui facevano parte, andando ad assumere
un’autonomia eccessiva e a non essere integrati nelle dinamiche di Governo. Peraltro, ove un
ministro assuma comportamenti gravemente lesivi dell’unità di indirizzo politico, il PdC non sembra
disporre di efficaci strumenti con cui porre fine a tali comportamenti. La revoca del singolo ministro
non è concessa in quanto, dato che la fiducia viene data al Governo in senso collegiale, il
cambiamento anche di un solo ministro potrebbe incidere sulla tenuta complessiva del governo e
portare ad una situazione di crisi. I rimpasti di Governo, nei quali un ministro viene sostituito con un
altro, avvengono senza traumi politici, ma può accadere che vi siano delle rotture politiche tra un
singolo ministro e l’intera compagine di Governo. Nel 1995 viene votata dalle Camere una mozione di
sfiducia individuale nei confronti del singolo ministro di Grazia e Giustizia Mancuso. A seguito di
quella mozione il PdR revoca il ministro e il Governo ne nomina uno nuovo. Tuttavia si trattava di uno
strumento non previsto dalla Costituzione e di conseguenza Mancuso sostiene l’usurpazione del suo
potere da parte delle Camere e del PdR. Con la sentenza 7/1996 si introduce il nuovo istituto della
“sfiducia individuale”, motivata dal fatto che la responsabilità politica del Governo è da un lato
collegiale, ma esiste anche una responsabilità dei singoli ministri per quanto riguarda la loro attività di
capi di un ministero. Il principio nelle democrazie è che dove vi sia un potere, vi è una responsabilità e
ciò distingue la democrazia dallo Stato assoluto, in cui il re era sciolto da ogni responsabilità.

Le crisi di Governo
Con crisi di governo si intende la presentazione delle dimissioni del Governo a causa della rottura del
rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento. E’ opportuno distinguere tra:
➢ crisi di governo parlamentare → è determinata dall’approvazione di una mozione di sfiducia o
di un voto contrario sulla questione di fiducia posta dal Governo. La votazione della mozione di
sfiducia avviene per voto palese e sulla base di una mozione valida e motivata e deve essere
firmata da almeno 1/10 dei componenti della Camera.
➢ crisi di governo extraparlamentare → sono causate dalle dimissioni volontarie del Presidente
del Consiglio, causate da una crisi politica all’interno della maggioranza.

Responsabilità giuridica del PdC e dei ministri


Anche in questo caso è opportuno distinguere tra:
- reati ministeriali: reati compiuti nell’esercizio delle funzioni
- reati non ministeriali: vi furono diversi tentativi di prevedere forme di sospensione dei
processi per tali reati, tutte dichiarate incostituzionali. Di conseguenza i ministri e il PdC sono
processabili come tutti gli altri cittadini, anche durante il mandato

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Reati ministeriali → sono reati compiuti nell’esercizio delle funzioni. La Costituzione prevede che per
essi, la Camera di appartenenza del ministro debba autorizzare il giudice ad indagare sul ministro e a
processarlo. Tale autorizzazione può essere negata solo quando attraverso la sua attività il ministro
abbia agito secondo un interesse costituzionalmente rilevante per l’ordinamento → si parla qui di
reati per la salvezza della Repubblica. Si tratta di un’attività complessa che mette insieme un
giudizio tecnico-giuridico e politico e fa emergere i rapporti di potere all’interno delle Camere. Un
esempio è quanto accadde in riferimento all’autorizzazione di processo nei confronti di Salvini per una
serie di comportamenti che i magistrati ritenevano incostituzionali (respingimento delle navi dei
migranti). Finché Salvini era in maggioranza, l’autorizzazione venne negata; appena il Governo si
sciolse, l’autorizzazione è stata concessa. Per questi reati la Costituzione prevede un giudice ad hoc,
detto “Tribunale dei Ministri”, composto dai giudici della Corte d’appello dell’ala competente per
materia in base alla fattispecie concreta.

Gli strumenti per l’attuazione dell’indirizzo politico


Il Governo esercita una quota rilevante dell’attività di indirizzo politico e si avvale di una molteplicità di
strumenti giuridici per la sua realizzazione. Le linee generali dell’indirizzo politico e amministrativo del
Governo sono espresse nel programma di Governo, predisposto dal Presidente del Consiglio ed
approvato dal Consiglio dei ministri. Esso sta alla base della concessione parlamentare della fiducia.
Il Governo, per attuare il suo programma, ha a disposizione diversi strumenti:
● la direzione dell’amministrazione statale
● i poteri di condizionamento della funzione legislativa del Parlamento, che riguardano sia la
fase della programmazione del lavoro parlamentare sia il procedimento legislativo vero e
proprio
● i poteri normativi di cui è direttamente titolare il Governo con l’emanazione dei decreti legge,
decreti legislativi e regolamenti governativi

Settori della politica governativa


● politica di bilancio e finanziaria → rientra tra le principali responsabilità del Governo, al quale
la legge attribuisce il compito di elaborare i diversi documenti che definiscono il quadro
finanziario delle attività dello Stato. Tale mansione è affidata al ministero dell’economia e delle
finanze.
● politica estera → si sostanzia nella stipula di trattati internazionali e nelle relative attività
preparatorie, nella cura dei rapporti tra gli Stati, in particolare all’interno delle organizzazioni
di cui l’italia fa parte
● politica europea → concerne i rapporti con le istituzioni dell’UE
● politica militare → la gestione è affidata quasi interamente al Governo, mentre il Parlamento
occupa una posizione di margine. Secondo le disposizioni costituzionali, le Camere
deliberano lo Stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari; il Capo dello Stato
dichiara lo Stato di guerra deliberato dalle Camere; il Capo dello Stato ha il controllo delle
forze armate e presiede il Consiglio supremo alla difesa. Tuttavia in sostanza, la politica
militare è regolata da decreti legge di matrice governativa.
● politica informativa e di sicurezza → riguarda la difesa delle istituzioni democratiche e spetta
sostanzialmente al Presidente del Consiglio, a capo dei Servizi Segreti e garante del segreto
di Stato.

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IL SISTEMA DELLE FONTI DEL DIRITTO

Le fonti del diritto sono fatti e atti ai quali l’ordinamento conferisce l’attitudine a produrre norme
giuridiche”, ossia a produrre norme che abbiano carattere della generalità, dell’astrattezza e
dell’innovatività. Questo è il concetto di fonte del diritto, che si riferisce alle fonti di produzione del
diritto, ossia fonti abilitate ad innovare l’ordinamento giuridico. SI tratta di un concetto distinto da
quello di fonti di cognizione del diritto, ossia raccolte ufficiali delle disposizioni normative che
consentono ai cittadini di avere conoscenza ufficiale del diritto di un ordinamento. La più importante
delle fonti ufficiali è la Gazzetta Ufficiale. Le fonti di cognizione del diritto sono strumenti importanti
attraverso cui lo Stato certifica le novità normative in maniera ufficiale. L’ufficialità è un aspetto
importante in quanto il testo in esse pubblicato è quello che entra in vigore, divenendo obbligatorio
per tutti. Tutti gli atti normativi, infatti, devono essere pubblicati su una fonte ufficiale perché i cittadini
e gli organi preposti all’applicazione del diritto lo possano conoscere. Proprio per consentire lo studio
e la conoscenza dei nuovi atti, questi non entrano in vigore immediatamente dopo la pubblicazione,
ma soltanto dopo la vacatio legis, ossia un periodo di 15 giorni in cui gli effetti del nuovo atto sono
sospesi. Trascorso questo periodo, il nuovo atto diviene obbligatorio e sussiste la presunzione di
conoscenza della legge (ignorantia legis non excusat) e l’obbligo del giudice di applicarla. Altre fonti di
cognizione del diritto ufficiali sono i Bollettini ufficiali delle Regioni e la Gazzetta ufficiale dell’UE.

FONTI-ATTO E FONTI-FATTO
Le fonti di produzione si distinguono tradizionalmente in:
● fonti-atto → sono atti normativi che hanno la capacità di porre norme vincolanti per tutti e
sono frutto dell’agire volontario di organi abilitati dall’ordinamento giuridico
● fonti-fatto → sono fonti, oggi residuali e secondarie, che nascono direttamente dal corpo
sociale. Non discendono, dunque, da una volontà politica di un organo preposto a produrre il
diritto, come il Parlamento, ma da comportamenti ripetuti nel tempo che si assumono avente
valore giuridico.

Fonti-fatto per eccellenza è la consuetudine, che ha alla base due elementi, che garantiscono la
sua applicabilità come norma giuridica:
● diuturnitas: ripetizione nel tempo di determinati comportamenti
● opinio iuris: convinzione che sia diritto e che sussista un obbligo giuridico
In presenza di questi due elementi si può formare una consuetudine che, a determinate condizioni,
può essere anche nel nostro ordinamento, tipicamente di leggi scritte, norma giuridica. Le
consuetudini sono richiamate in primo luogo dall’art.1 delle Preleggi al codice civile del 1942, che le
pone sull’ultimo gradino della gerarchia delle fonti, ammetendole dunque solo dove non vi sia una
norma superiore.
Vi sono 3 tipi di consuetudini che hanno valore di norma giuridica:
● Consuetudini secundum legem: sono richiamate dalla norma scritta. Ad esempio, in
alcune norme del codice civile si fa riferimento alle consuetudini come modalità di
adempimento delle obbligazioni
● Consuetudini praeter legem: in alcuni casi rari, in assenza di normativa, la consuetudine
può disciplinare una determinata materia. In questo caso lo spazio alla consuetudine nel
nostro ordinamento è molto limitato: è ammessa purchè non vi sia una riserva di legge che
disciplina la materia (se si attribuisce alla legge la disciplina della materia, la consuetudine
non può intervenire).
● Consuetudini contra legem: non sono applicabili perché, sul piano gerarchico delle fonti
del diritto, le fonti fatto si pongono ad un livello sottostante alle leggi, alle fonti secondarie, ai
regolamenti e ad altre fonti
Nel caso in cui venga meno uno degli elementi alla base delle consuetudini, si parla di desuetudine.
Distinte dalle consuetudini sopra spiegate sono le cosiddette consuetudini costituzionali. Non si
tratta di comportamenti aventi le caratteristiche delle consuetudini tradizionali, ma sono importanti per
quel che riguarda i rapporti tra i poteri dello Stato.

Fonti-atto sono norme prodotte da organi costituzionali deputati a tale scopo; le fonti di maggior
rilievo nell’ordinamento giuridico italiano e in tutti gli ordinamenti giuridici moderni.
Le fonti-atto si distinguono tradizionalmente in due categorie:
● fonti di produzione del diritto
● fonti sulla produzione del diritto: fonti che prevedono le modalità attraverso cui si può
produrre il diritto e quindi attraverso cui si possono modificare le norme giuridiche di un
ordinamento.

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Le antinomie tra le fonti
Con antinomie si intendono i contrasti tra le norme, che sorgono qualora disposizioni che qualificano
lo stesso comportamento esprimono disposizioni tra loro incompatibili. La risoluzione dei conflitti tra
norme è uno dei temi più rilevanti nello studio delle fonti del diritto, in quanto risulta fondamentale
capire quale fonte applicare di fronte a tali situazioni. La logica è quella di individuare i criteri per
risolvere tali contrasti tra fonti dello stesso livello o di livelli diversi ed arrivare così ad
un’interpretazione corretta del diritto. L’interpretazione del diritto Il primo metodo per risolvere le
antinomie tra le fonti è quello dell’interpretazione del diritto, processo che conduce da una
disposizione ad una norma giuridica e compito essenziale dell’attività del giudice. La disposizione è
il testo, la norma è il frutto dell’interpretazione di quel testo. Il giudice ricava una norma da una
disposizione attraverso il processo interpretativo. Quindi la norma giuridica non la fa il legislatore, ma
il legislatore pone la disposizione, approvando il testo normativo, ma sarà l’attività concreta e
quotidiana del diritto, soprattutto quella dei giudici, a porre la norma giuridica, che individua da quella
disposizione una o più norme giuridiche.

Il criterio cronologico
Si applica tipicamente tra fonti di pari grado. La logica alla di questo principio è che la legge
successiva nel tempo prevalga su quella precedente, permettendo così al diritto di rinnovarsi
continuamente. Il diritto e la società si influenzano a vicenda ed è proprio il cambiamento della società
e i nuovi ideali politici che spingono ad un processo riformatore del diritto, permettendo al legislatore
successivo di modificare le leggi introdotte in precedenza. La prevalenza della norma nuova su quella
vecchia si esprime attraverso l’abrogazione. L’effetto dell’abrogazione comporta la cessazione
dell’efficacia della norma giuridica precedente a vantaggio di quella successiva.

ABROGAZIONE Con l’abrogazione una legge non viene dichiarata invalida: è innanzitutto in questo
che l’abrogazione si differenzia da una sentenza di incostituzionalità della Corte Costituzionale, che
comporta l’invalidazione della legge. L’abrogazione è un fenomeno fisiologico dell’ordinamento che
comporta l’interruzione degli effetti giuridici di una determinata normativa. Quando si parla di
efficacia, si intende l’idoneità di un fatto o di un atto a produrre effetti giuridici, ossia a costituire,
modificare o estinguere situazioni giuridiche: le norme abrogate perdono questa caratteristica.
Una legge abrogata, dunque, potrà trovare ancora applicazione nei tribunali? La regola generale
prevede che nei processi venga applicata la legge vigente al momento del fatto. Tutti i processi sono
basati su fatti sul passato e, per il principio della certezza del diritto, bisogna applicare le normative
che erano in vigore in quel momento. L’abrogazione non comporta che la legge non possa più
trovare applicazione, ma determina che non potrà più essere applicata per i fatti successivi
all’abrogazione stessa. Succede spesso che, data la durata dei processi in Italia, i giudici aprono i
codici aggiornati e senza pensarci applicano la norma vigente, mentre è importante porsi la domanda
“Quale legge era vigente al momento del fatto?”. Ciò si basa sul principio di certezza del diritto, che
va a tutelare il fatto che si orientino le azioni rispettando la legge in quel momento, non ipotizzando
possibili modifiche future. Importante in riferimento agli effetti dell’abrogazione è il principio di
irretroattività del diritto, secondo cui gli atti normativi dispongono solo per il futuro e non hanno effetti
per il passato. Si tratta, tuttavia, di un principio non costituzionalmente garantito, in quanto è previsto
all’art.11 delle Preleggi, in cui si afferma un divieto generale di retroattività. Proprio perché posta in
una fonte primaria, tale regola generale potrebbe essere modificata da un atto primario successivo;
inoltre, non essendo un principio costituzionalmente previsto, non può essere dichiarata
l’incostituzionalità di quelle norme che prevedono retroattività del diritto (sentenze di accoglimento
della Corte Costituzionale). Tuttavia tali leggi possono essere sospettate di incostituzionalità, in
quanto si va a violare il principio dell'astrattezza e di riflesso anche il principio costituzionale di
uguaglianza di fronte alla legge. Vi è un solo caso in cui la Costituzione, all’art.25.2, pone un principio
di irretroattività e riguarda le norme penali incriminatrici: nessuno può essere punito se non in base ad
una legge che sia già vigente al momento del fatto. Siccome il diritto penale è il diritto più lesivo dei
diritti della persona, è evidente che il singolo (principio personalista) non può essere punito se non
era consapevole che quel comportamento fosse vietato dalla legge. Una legge non può introdurre un
aumento di pena o un nuovo reato per fatti già commessi. In questo caso, essendo un principio
costituzionale, il divieto di retroattività è assoluto e dunque nessuna legge può derogare a questo
principio. Per quel che riguarda l’abrogazione, il principio di irretroattività prevede che la nuova norma
produca effetti solo per il futuro, mentre tutti i rapporti preesistenti e basati sulla norma precedente
rimangono vigenti e regolati da essa. Si dice quindi che l’abrogazione operi ex tunc.

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Come avviene l’abrogazione? Il metodo canonico in un ordinamento è quello dell’abrogazione
espressa: il legislatore, nel momento in cui introduce una norma, indica espressamente quali norme
sono abrogate oppure prevede una legge che comporta l’abrogazione di una norma non ritenuta più
necessaria. L’abrogazione espressa ha dunque efficacia erga omnes.
Ma se il legislatore modifica una certa materia senza abrogare espressamente una certa norma? In
questo caso si possono avere davanti due diverse situazioni:
● abrogazione per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti: in questo caso
si parla di abrogazione tacita, in quanto il legislatore nulla dice e quindi si cambiano le norme
senza abrogare espressamente le norme precedenti. Qui è il giudice che deve verificare
quale sia la norma da applicare, ossia se la nuova normativa abbia implicitamente abrogato
la legge precedente per incompatibilità oppure no. Nei codici non si trova la parola
“abrogata”, perché non c’è stata un’abrogazione formale, ma ragionando sui rapporti tra le
norme si deve considerare se quella norma non sia più vigente.
● abrogazione perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge
anteriore: si tratta del caso dei Testi unici innovativi → vi sono casi in cui il legislatore decide
di raggruppare un’intera materia, che magari è sparpagliata in tanti testi normativi, in un
unico, approvato con decreto legislativo (fonte primaria governativa). L’obiettivo è ordinare,
dando ai cittadini la possibilità di conoscere più facilmente una certa materia, e abrogare tutte
le norme precedenti non espressamente indicate nel testo unico. In questo modo il legislatore
potrebbe aver risolto il problema, anche se ciò avviene e non avviene anche perché il
concetto di materia è flessibile e quindi spesso il giudice deve chiedersi se quella norma è
effettivamente abrogata dal testo unico. In generale, come regola, l’abrogazione può avvenire
anche implicitamente attraverso una nuova disciplina complessiva della materia (abrogazione
implicita).

Il criterio gerarchico
Si tratta di un criterio patologico, perché ordina e disciplina fonti di livello diverso, ossia fonti poste
nella gerarchia su piani diversi. Il criterio gerarchico prevede che in caso di contrasto tra due norme si
deve preferire quella che nella gerarchia delle fonti occupa un posto più elevato (lex superior derogat
legi inferiori). Tale criterio vale nel rapporto tra la Costituzione e tutte le altre fonti dell’ordinamento
italiano, tra le norme primarie e le norme secondarie (legge e regolamenti governativi), tra le fonti atto
e le consuetudini. A differenza di quanto accade per il principio cronologico, in caso di contrasto tra
norma costituzionale e la legge, la legge non sarà abrogata ma invalida, ossia eliminata
dall’ordinamento tramite l'annullamento.

Qual è la differenza fondamentale rispetto all’abrogazione? Mentre la legge abrogata continua a


produrre i suoi effetti per gli eventi che si sono svolti durante la vigenza di quella legge, la norma
invalida non potrà più produrre i suoi effetti sia per il futuro, ossia per gli eventi successivi
all’annullamento, sia per il passato (l’abrogazione ha effetto ex nunc, da ora, l’annullamento ha effetto
ex tunc, da allora). Questo perché non siamo in presenza di un fenomeno normale di rinnovamento
del diritto, ma ad un fenomeno patologico, ossia ad un atto viziato: la legge che contrasta con la
costituzione è viziata, ossia ha un vizio che può essere sostanziale, quando il contenuto della legge
contrasta con una norma costituzionale, oppure un vizio formale, quando le legge non è stata
approvata secondo le procedure che l’ordinamento prevede. Chi decide se una legge è in contrasto
con la Costituzione o se una fonte secondaria è in contrasto con una fonte primaria? Il rapporto tra
fonti primarie e Costituzione è regolato dalla Corte Costituzionale, ossia l’organo a cui è affidata la
funzione di verificare la legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge. La Corte
Costituzionale può dichiarare una legge incostituzionale e quindi invalidarla. In caso di contrasto tra
una fonte primaria e una secondaria è il giudice amministrativo che potrà annullare la fonte
secondaria perché in contrasto con una fonte di grado superiore.

Importante è l’effetto ex tunc dell’annullamento: che significa? La norma viziata non può più trovare
applicazione, ma questo determina che tutti i rapporti giuridici sorti sulla base di quella norma
vengono meno? Per garantire la certezza dei rapporti giuridici, l’effetto di una sentenza di
incostituzionalità, dell’invalidità di un atto normativo, non va ad investire qualsiasi rapporto sorto sulla
base di quella norma, ma solo i rapporti non esauriti e le sentenze non ancora passate in giudicato.
Vige quindi il principio di retroattività. Se i rapporti sono esauriti significa che non ci sono più mezzi
di impugnazione, non c’è più la possibilità di rivolgersi ad un giudice per far valere un determinato
diritto perché magari si tratta di rapporti antichissimi nel tempo e vi è la prescrizione: questi rapporti
non vengono travolti. Quindi gli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale e gli effetti
dell’invalidità di una legge non vanno a ritroso all’infinito nel passato ma riguardano solo rapporti non
esauriti e sentenze non ancora passate in giudicato.

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Se il giudice che deve giudicare un fatto precedente alla dichiarazione di incostituzionalità, deve
ancora finire di giudicare (il processo non è ancora finito), allora non potrà più applicare quella norma
anche per fatti del passato. Se invece il processo è finito e la sentenza definitiva è passata in
giudicato, allora quella sentenza rimane intoccabile, salvo per il diritto penale. Se si è dichiarati
colpevoli in via definitiva sulla base di un reato che poi viene dichiarato incostituzionale, gli effetti di
quella sentenza vengono meno. ESEMPIO Norma che puniva l’adulterio ma solo della donna; la
Corte Costituzionale interviene e la dichiara incostituzionale sulla base dell’art.3. Se una donna stava
scontando una pena per questo tipo di reato, quella pena risulta in sé ingiusta perché quel
comportamento non è più riconosciuto come reato ed era un reato che contrastava con la
Costituzione. Gli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale nel diritto penale comportano un
effetto ultra retroattivo, quindi non solo sui processi in corso ma anche su sentenze passate in
giudicato.

Il criterio della competenza


Il criterio della competenza è un criterio esplicativo che serve a spiegare come è organizzato
attualmente il sistema delle fonti e non ad indicare all’interprete come risolvere le antinomie tra le
fonti. La Costituzione stessa attribuisce ad alcune fonti la disciplina di alcune materie. Ad esempio,
l’art.117 della Costituzione disciplina la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni: distingue le
materie che devono essere disciplinate dalla legge statale, le materie disciplinate esclusivamente
dalla legge regionale e le materie che devono essere disciplinate per quanto riguarda i principi dalla
legge statale e per quanto riguarda il dettaglio dalla legge regionale. Che cosa succede se una legge
statale disciplina una materia che è attribuita dalla Costituzione alle Regioni, o viceversa? Non è una
violazione diretta di una norma costituzionale, ma vi è una violazione della norma costituzionale che
attribuisce le competenze; quindi la legge statale o regionale è viziata per violazione dell’art.117
perchè non è la fonte competente per quella disciplina. Lo stesso rapporto si applica tra la legge e i
regolamenti parlamentari: la Costituzione prevede che il procedimento legislativo, l’organizzazione
delle camere sia disciplinata dai regolamenti parlamentari; se una legge disciplina anche in modo
coerente con la Costituzione l’organizzazione delle Camere, quella legge è incostituzionale perché
viola il principio di competenza. L’incostituzionalità non è quindi nel contenuto nella legge ma nel
fatto che la fonte che disciplina la materia non è quella indicata dalla Costituzione. In qualche modo il
principio di competenza vale anche per il rapporto tra diritto interno e diritto dell’UE: l’Unione Europea
ha delle competenze legislative che le sono attribuite dai Trattati istitutivi dell’UE (trattati firmati dagli
Stati membri dell’UE, in cui si afferma che in determinate materie la normativa europea può
intervenire); in realtà il diritto europeo, in relazione al rapporto tra diritto interno e diritto dell’UE, non è
orientato solo secondo il criterio di competenza, ma anche secondo i fini che si vogliono raggiungere.
In termini di competenza: all’inizio dell’UE, quando nel 1957 nasce la Comunità economica europea
l’intera normativa è statale, ma l’UE può intervenire in alcune materie attraverso la legislazione
europea. Il rapporto è che la legge statale rimane in vigore sino a che l’UE non interviene: quando
interviene la normativa europea, essa occupa negli spazi concessi dal Trattato lo spazio della norma
interna, che non è più applicabile (prevale il diritto dell’UE). Lo schema è quello della competenza.
Il criterio della competenza nasce dal problema secondo cui a fonti dello stesso grado sono attribuite
competenze diverse da parte della Costituzione stessa e se si vanno a violare, ciò comporta un
contrasto tra fonti. In questo caso, prevale e deve essere applicata la norma posta dalla fonte
competente, con esclusione di qualsiasi altra fonte. La norma non competente è invalida e deve
essere eliminata dall’ordinamento mediante l’annullamento.

Il criterio di specialità
Il criterio di specialità dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire la norma speciale a
quella generale, anche se questa è successiva.

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LE FONTI PRIMARIE
Nell’ordinamento italiano le fonti al vertice della gerarchia sono:
● la Costituzione
● le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali approvate secondo quanto
previsto ex art.138, tra cui gli Statuti delle Regioni a statuto speciale che hanno lo Statuto
approvato secondo la procedura ex art.138

Al di sotto delle fonti di rilievo costituzionale abbiamo le fonti primarie:


● leggi ordinarie dello Stato
● gli atti aventi forza di legge del Governo: decreti leggi e decreti legislativi
● regolamenti parlamentari, i quali non sono sullo stesso livello della legge ma si pongono in un
rapporto di separazione di competenze: mentre un decreto legge può modificare una legge e una
legge un atto avente forza di legge, un regolamento parlamentare non può farlo e una legge non
può modificare un regolamento parlamentare, ma ognuno disciplina una sua materia
● statuti delle regioni ordinarie: sono fonti regionali; ogni regione si dà il suo Statuto, che deve
disciplinare quelle materie che la Costituzione attribuisce ad esso
● leggi regionali, ossia le leggi approvate dai Consigli regionali delle singole Regioni che operano
sulle materie che l’art.117 attribuisce ad esse.

Le leggi ordinarie
Sono disciplinate dagli art.70 ss. La legge ordinaria è sempre stata definita come fonte a competenza
generale, in quanto capace di disciplinare tutte le materie non espressamente attribuite ad altre fonti.
Questo era sicuramente vero fino al 2001: con la riforma costituzionale n.3 del 2001, che portò ad un
grande cambiamento del regionalismo italiano, sul piano formale questo rapporto si è ribaltato e è
disciplinato dall’art.117 della Costituzione, che si occupa di distinguere le competenze tra Stato e
Regioni.

Il 1° comma introduce dei limiti generali che valgono sia per le leggi regionali che per le leggi statali,
che devono rispettare la Costituzione, i vincoli posti dal diritto europeo e gli obblighi che l’Italia ha
assunto a livello internazionale. Si distinguono poi le competenze statali e regionali.

Il 2° comma elenca le materie di competenza esclusiva dello Stato: solo lo Stato può legiferare in
queste materie (diritto penale, diritto civile, materie trasversali come la tutela dell’ambiente), ma sono
competenze enumerate, inserite in un elenco dettagliato.

Il 3° comma elenca le materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni affermando che nelle
materie di competenza concorrente spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la
determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

Il 4° comma stabilisce che spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato. La competenza residua, ossia tutto ciò che
non è espressamente attribuito allo Stato è delle Regioni. Si ha quindi un rovesciamento del principio
secondo il quale lo Stato ha competenza generale. Questo tuttavia solamente sul piano formale, in
quanto le materie di competenza statale, elencate espressamente, sono di grande rilievo e tendono
ad investire molti settori fondamentali; in secondo luogo altre materie sono attribuite alla competenza
concorrente, lasciando uno spazio minimo alla competenza residuale delle Regioni. In termini
concreti, lo Stato può intervenire in quasi tutti gli ambiti.

Gli atti aventi forza di legge


Sono atti normativi provenienti dal Governo che hanno la stessa forza della legge. Costituiscono
quindi una eccezione al principio strettamente connesso alla divisione dei poteri, secondo il quale il
potere legislativo appartiene al Parlamento, mentre il Governo esercita il potere di attuazione delle
norme (potere esecutivo). Queste due fonti si pongono come eccezioni rispetto alla logica delle
Costituzioni democratiche e trovano la loro legittimazione dal Parlamento, che può essere:
● legittimazione anticipata nel caso del decreto legislativo, che può intervenire solo quando il
Parlamento abbia approvato in precedenza una legge di delegazione
● legittimazione successiva nel caso del decreto legge, che deve essere convertito in legge
entro 60 giorni dalle Camere

Sono atti governativi deliberati dal CdM. Tra le varie funzioni del CdM vi è quello di approvare gli atti
normativi del Governo, in particolare questi due tipi: decreto legge e decreto legislativo. Dopo la
deliberazione del Consiglio dei Ministri vi sarà l’emanazione da parte del PdR. Si tratta di atti
formalmente presidenziali, ma sostanzialmente governativi.

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DECRETO LEGISLATIVO
Per comprendere che cosa sia un decreto legislativo bisogna partire ragionando sulle due fasi che
necessariamente vi sono per giungere ad esso.

1. La prima fase è una fase tipicamente parlamentare e può condurre all’approvazione di una legge
delega (legge di delegazione): è una legge approvata da entrambe le Camere attraverso cui il
Parlamento delega al Governo la funzione legislativa in una determinata materia. Ad esempio, il
Parlamento ha approvato pochi mesi fa due leggi di delegazione in materia di processo civile e
penale, attraverso le quali si è attribuito al Governo la possibilità di approvare più decreti
legislativi che disciplinano aspetti complessi del processo civile e penale. La legge di
delegazione, ex art.76 cost, deve avere un contenuto necessario. Ciò significa che il
Parlamento deve individuare le linee essenziali della materia stessa (principi e criteri direttivi), in
modo tale da non spogliarsi del tutto della funzione di indirizzo politico.

Che cosa deve necessariamente contenere la legge di delegazione?


A. oggetto della delega, che deve essere un oggetto definito, anche molto ampio (materia su cui
il Governo può esercitare il potere normativo)
B. individuare i principi e i criteri direttivi, ossia quali siano le scelte politiche fondamentali, in
che direzione deve andare la deliberazione governativa; possono essere anche molto
dettagliati
C. individuare la durata della delega, che deve avere un termine

Qualora questi requisiti necessari non siano presenti, la legge di delegazione è


incostituzionale, in quanto viola quanto previsto all’art.76. Oltre ai requisiti necessari, vi
possono essere ulteriori requisiti che la legge di delega prevede e che il Governo deve
seguire, come l’obbligo per il Governo, durante l’iter di approvazione del decreto legislativo,
di sentire le commissioni parlamentari competenti. Nel momento, infatti, in cui il
Parlamento approva la legge delega, affida al Governo il compito di scrivere e approvare il
testo. Tuttavia è molto delicata questa seconda fase, in cui possono sorgere discussioni e
dibattiti nella stesura il testo. Di conseguenza il Parlamento quasi sempre decide nella legge
di delegazione di rientrare in gioco e di non affidare interamente al Governo il processo di
formazione del decreto legislativo, imponendogli di sentire le commissioni. Ad ogni termine
prefissato e prima dell’approvazione definitiva, il Governo deve avere il parere della
commissione parlamentare competente per la materia trattata per far conoscere le sue
intenzioni e accogliere i suggerimenti da parte della commissione. In alcuni casi il parere della
commissione non solo è obbligatorio, ma è anche vincolante: se la commissione si esprime
contro lo schema del decreto legislativo predisposto dal Governo, allora quello schema non
può tradursi in un decreto legislativo. Si distinguono dunque i pareri obbligatori, a cui il
Governo deve sottoporre il decreto legislativo prima di passare all'approvazione, dai pareri
vincolanti.

2. Una volta che è stata approvata la legge di delega, la palla passa al Governo, che entro
il termine fissato nella legge di delegazione può approvare uno o più decreti legislativi. Si
hanno qui alcuni elementi rilevanti:
● Una volta avuta la delega, il Governo non è giuridicamente obbligato ad approvare un
decreto legislativo: non esiste un obbligo, ma si tratta di una facoltà, cosa che è
importantissima dal punto di vista politico.
● il Parlamento che ha attribuito al Governo la delega di una certa materia può medio
tempore (negli anni che vanno dall’approvazione della legge delega alla scadenza della
delega stessa), riappropriarsi dei suoi poteri, abrogando la delega. Nel momento in cui
il Parlamento delega al Governo l’approvazione di un decreto legislativo su una certa
materia, in realtà lui non si spoglia dei suoi poteri e di conseguenza ha il diritto di legiferare
sulla stessa materia oggetto del decreto legislativo. La delega non è, infatti, una
spoliazione dei poteri del Parlamento, ma è un affiancamento nel potere legislativo da parte
del Governo. Il Parlamento può inoltre abrogare la legge delega, paralizzando l’azione del
Governo e facendo tornare il Parlamento nel pieno dei suoi poteri: resta in capo al
Parlamento il pieno dominio della materia pur essendo stata delegata al Governo.

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DECRETO LEGGE - ART.77
Il decreto legge parte da presupposti opposti rispetto al decreto legislativo, che aveva alla sua base
un atto del Parlamento: in questo caso, invece, alla base dell’assunzione del Governo di una potestà
normativa primaria, non vi è un atto del Parlamento ma una condizione straordinaria di necessità e
urgenza. La logica del decreto legge è quella di attribuire al Governo poteri di intervento attraverso
un’innovazione legislativa sulla base di una auto-assunzione dei poteri: il decreto legge è espressione
della volontà del Governo stesso e comporta dunque una rottura maggiore del principio della
divisione dei poteri.

L’art.77 della Costituzione, che disciplina il decreto legge, proprio per questo motivo è costruito in
negativo:. Il 1° comma afferma che il Governo non possa approvare atti aventi forza di legge salvo
che a determinate condizioni. Il 2° comma stabilisce i presupposti per il ricorso al decreto legge,
ossia la necessità e l’urgenza. il Governo valuta la sussistenza di questi requisiti e qualora ritenga
che esistano, adotta il decreto legge, che verrà emanato dal PdR. In questa prima fase, dunque, il
Parlamento non è presente. Da ciò sorgono alcune questioni importanti e una di queste è Chi
controlla effettivamente che sussista questa condizione di necessità e urgenza?

Il decreto legge, prima di essere approvato, prevede una serie di passaggi che conducono poi alla
sua conversione:
1. Il Presidente della Repubblica deve emanare il decreto legge: tuttavia si tratta di un atto solo
formalmente presidenziale, in quanto la volontà e la responsabilità politica sono riconducibili
esclusivamente al Governo. Il Presidente della Repubblica ha il compito di valutare se sia stato
seguito correttamente il processo che conduce all’approvazione del decreto legge. Sono rarissimi
i casi in cui il PdR si sia rifiutato di firmare un decreto legge. L’unico esempio è stato quello di un
decreto legge che il Governo Berlusconi cercò di approvare e far entrare in vigore nel caso
relativo a Eluana Englaro: dopo una lunga battaglia giudiziaria del padre, che voleva far
riconoscere la volontà di Eluana di non continuare a vivere in quello stato vegetativo permanente,
la Cassazione si era pronunciata dando il via libera al medico per interrompere i trattamenti
medici che la trattenevano in vita; il Governo, pressato da forze contrarie a tale provvedimento,
approva in Consiglio dei Ministri un decreto legge che modificava la legislazione e poneva nel
nulla la sentenza definitiva della Cassazione; il PdR Napolitano si rifiutò di firmare il decreto
legge, in quanto esso andava ad impedire l’esercizio del potere giudiziario: era come se il
Governo si ponesse su un livello superiore rispetto al giudice precedente, esercitando potere
giurisdizionale e invadendo la sfera di competenza del potere giudiziario.

2. Spesso il Governo abusa dei decreti legge: alle Camere spetta il compito di controllare in sede
di conversione che questo abuso non vi sia. Si tratta tuttavia di un giudizio prettamente politico, in
cui la maggioranza sarà a favore del decreto legge del Governo e la minoranza no.

3. Controllo da parte della Corte Costituzionale: i decreti legge hanno una durata massima di 60
giorni; entro 60 giorni devono essere convertiti in legge, altrimenti decadono, travolgendo tutti gli
effetti che si sono prodotti sulla base di quel decreto legge. Come fa la Corte Costituzionale a
giudicare il decreto legge nei 60 giorni -> nell’ordinamento italiano ci sono due modi per arrivare
alla Corte Costituzionale:durante i 60 giorni di vigenza provvisoria, anche se i tempi stringenti
impediscono praticamente sempre il controllo di costituzionalità in questa fase, oppure se una
Regione, per una violazione della sua area di competenza, sollevi in via principale una questione
di legittimità costituzionale. Per un lungo periodo la Corte Costituzionale ha affermato che i
decreti legge fossero sottratti al suo controllo, poi, accorgendosi degli abusi del Governo
dell’utilizzo dei decreti legge, ha cambiato giurisprudenza, dichiarando che se un decreto legge
nasce e viene adottato senza che abbia i presupposti di necessità e urgenza richiesti, quel vizio si
riflette e si traspone sulla nuova legge al momento della conversione. Se in origine, dunque,
risulta chiaro che il decreto legge non abbia i presupposti di necessità e urgenza, allora la legge
di conversione può essere dichiarata incostituzionale. Con “abuso” si intende la legiferazione su
materie che in quel momento non hanno un’effettiva necessità e urgenza di essere modificate,
ma in questo modo il Governo si assicura l’intervento del Parlamento entro 60 giorni. In questa
prospettiva è importante che comunque un qualche controllo sussista.

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Procedimento di approvazione del decreto legge

1. Adozione da parte del Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro competente

2. Emanazione da parte del PdR, con le riserve precedentemente indicate

3. Pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale: con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il decreto
legge entra in vigore immediatamente il giorno successivo alla pubblicazione data l’urgenza
senza il periodo di vacatio legis tipico delle leggi e inizia a produrre i suoi effetti subito, prima della
conversione in legge

4. il Parlamento deve convertire il decreto legge in legge entro 60 giorni: il processo di


conversione ha tempi molto ristretti e dunque sono previste nei regolamenti parlamentari corsie
preferenziali. Quando in Parlamento arriva un disegno di legge di conversione, che deve essere
presentato dal Governo il giorno stesso dell’entrata in vigore del decreto legge, i lavori
parlamentari devono essere organizzati in modo tale da consentire l’esame del testo in tempi
brevi. Questo spiega perché il Governo utilizzi spesso i decreti legge: se presentasse un classico
disegno di legge alle Camere, non vi sarebbero tempi certi per la sua approvazione, mentre per il
decreto legge le Camere si devono necessariamente esprimere con un sì o un no entro 60 giorni.
Siccome i decreti legge viaggiano spediti in Parlamento, si è diffusa la tendenza del Governo ad
utilizzare questo strumento e del Parlamento di approvare emendamenti che tendono ad
espandere l’oggetto del decreto legge e a far passare in Parlamento testi normativi su materie
parzialmente diverse rispetto a quelle del decreto legge. L’effetto è che spesso di parte da decreti
legge formati da 3 articoli, per arrivare ad una legge di conversione di 20 articoli. Anche qui la
Corte Costituzionale ha posto un freno a questa tendenza: lei stessa può sindacare il contenuto
della legge di conversione dichiarando incostituzionali quelle norme che sono state introdotte in
Parlamento di contenuto totalmente disomogeneo rispetto al decreto legge. Resta comunque
possibile il potere di emendare da parte delle Camere i disegni di legge di conversione.

5. Il decreto legge entra in vigore subito: la Camera approva degli emendamenti che vengono
inclusi nella legge di conversione del decreto legge, che entra in Parlamento in un modo ed esce
in un altro. Gli emendamenti del Parlamento entrano in vigore insieme alla legge di conversione,
quindi 60 giorni dopo l’entrata in vigore del decreto legge.

Gli effetti del decreto legge


Il decreto legge entra in vigore immediatamente, ma sino a che non viene convertito la sua efficacia
è provvisoria. Nel momento in cui viene convertito in legge, esso entra nell’ordinamneto come era e
propria legge dello Stato. Qualora invece il decreto legge non venga convertito, ossia le Camere si
rifiutino di convertirlo e facciano trascorrere il termine di 60 giorni senza esprimersi definitivamente,
succede che gli effetti del decreto legge decadono ex tunc (da allora). Questo pone una serie di
problemi, in quanto gli effetti prodotti fino a questo momento vengono annullati e dunque soggetti che
fino ad ora avevano rispettato la legge, si trovano penalizzati per la mancata conversione del decreto
da parte delle Camere. Di conseguenza la Costituzione prevede che il Parlamento possa approvare
una legge di sanatoria che regoli gli effetti che si sono prodotti durante la vigenza del decreto legge.

Reiterazione dei decreti legge


Che cosa succedeva in passato? Il Governo approvava un decreto legge, le Camere non facevano
nulla e lasciavano passare i 60 giorni senza una risposta. Il decreto legge dunqu decadeva e
immediatamente dopo il Governo approvava un nuovo decreto legge con il medesimo contenuto
(questa cosa si è protratta fine ad un massimo di 30 volte). Il contenuto era sempre lo stesso ma era
presentato in maniera diversa: al Governo questa situazione andava bene perché era protratto nel
tempo, al Parlamento anche perché non se ne occupava rinviandolo ed era una situazione sul piano
costituzionale e della certezza del diritto agghiacciante perché una fonte che per la Costituzione ha
durata brevissima finiva con avere una durata lunghissima nel tempo. Di fronte a questo modo di
legiferare che si era trasformato quasi in una consuetudine, con la sentenza 360/1996 la Corte
Costituzionale vieta la reiterazione del decreto legge salvo il caso in cui sussistano nuovi e diversi
casi di necessità e urgenza. La prassi della reiterazione all’infinito è così sparita e il Parlamento si è
impegnato a rispondere dei tempi previsti dalla Costituzione

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Abuso della decretazione d’urgenza
L’abuso della decretazione d’urgenza è una caratteristica tipica di tutti i Governi, che può essere
spiegata dal fatto che la Costituzione e i nostri regolamenti parlamentari non abbiano previsto una via
effettivamente rapida e privilegiata del Governo per fare discutere e approvare le proprie proposte di
legge in Parlamento. Nelle democrazie contemporanee, le dinamiche politiche sono necessariamente
veloci e i Governi hanno bisogno di corsie preferenziali in Parlamento: in questa ottica, l’abuso del
decreto legge è una conseguenza della carenza delle norme in materia di iter legislativo. Vi sono
anche situazioni in cui l’uso dei decreti legge si rende indispensabile, come durante la pandemia,
caso straordinario di necessità e urgenza.

LE FONTI SECONDARIE
Le fonti secondarie si pongono nella gerarchia delle fonti al di sotto delle leggi primarie e degli atti
aventi forza di legge. Mentre le fonti primarie sono un numero chiuso, ossia sono fonti primarie solo
quelle fonti a cui la Costituzione attribuisce facoltà di produrre diritto; le fonti secondarie sono un
numero aperto, nel senso che fonti di livello primario possono prevedere la formazione di fonti
diverse di livello secondario, che trovano la loro legittimazione non nel testo costituzionale, ma in una
fonte primaria. Ciò avviene ovviamente nei limiti che la Costituzione stessa riserva alle fonti
secondarie. Uno di questi limiti è dato dalla riserva di legge: la Costituzione riserva alle leggi o agli
atti aventi forza di legge la disciplina di una determinata materia; qualora quindi la Costituzione riservi
la disciplina di quella materia totalmente alle fonti primarie (riserva di legge assoluta) oppure solo per
quanto riguarda i principi alle fonti primarie, lo spazio per le fonti secondarie è molto limitato; qualora
non vi sia una riserva di legge, il legislatore può attribuire alle fonti secondarie la disciplina della
materia. Ciò si fonda sulla logica del sistema gerarchico, secondo cui ciò che non è disciplinato da
fonti superiori, dovrà essere disciplinato da fonti inferiori sempre che sia autorizzato da fonti superiori
a disciplinare la materia. A ciò si lega il concetto di “principio di legalità”, che prevede che le fonti
secondarie debbano basarsi su una fonte normativa primaria. Il Governo ha il potere parlamentare in
determinati ambiti perché la legge attribuisce al Governo quel potere: non si tratta di un potere
innaturale, ma di un potere che discende da una norma della Costituzione. Per le fonti secondarie, è
necessario che vi sia una fonte primaria che indichi come si approvano le fonti secondarie e in quali
ambiti possano essere applicate. Tra le fonti secondarie hanno un rilievo del tutto peculiare i
regolamenti dell’esecutivo, ossia i regolamenti provenienti dal Governo, dai singoli ministri o dal
Presidente del consiglio.

Regolamenti dell’esecutivo/DPCM
I DPCM, ossia i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, sono fonti secondarie generate dal
Presidente del Consiglio, particolarmente utilizzati per prevedere le misure specifiche, molto spesso
restrittive, durante la pandemia. Queste fonti secondarie sono in grado di intervenire sui diritti
fondamentali anche in maniera molto importante: durante la pandemia sono state messe in atto rigide
restrizioni che hanno interessato la libertà di circolazione, la libertà di soggiorno, il diritto allo studio,
ecc. Che cosa legittima l’approvazione dei DPCM? Il primo aspetto importante è che fu pubblicato,
qualche settimana prima del primo caso di Codogno, lo Stato di emergenza, che va ad incidere
sull’amministrazione più che sulle libertà dei cittadini. Lo stato di emergenza, previsto nel nostro
ordinamento e disciplinato dalla legge sulla protezione civile, sostanzialmente attribuisce alla
protezione civile o al commissario nominato poteri particolari per quanto riguarda l’attività
amministrativa (acquisti di materiale medico saltando tutte le procedure per necessità imminenti). Lo
Stato di emergenza quindi in sé non giustifica la restrizione dei diritti fondamentali: prima di tutta la
normativa secondaria che puntualmente precisava le misure da attuare a tutela della salute pubblica,
vi era stata una pluralità di atti normativi primari, ossia decreti legge che trovavano la loro
legittimazione nel caso straordinario di necessità e urgenza, che avevano da un lato fissato il quadro
giuridico e le regole generali per la pandemia e attribuivano al PdC attraverso il DPCM, strumento
veloce, il potere di regolare puntualmente le varie materie che potevano essere disciplinate alla luce
dei principi fissati nel decreto legge. Era il decreto legge, fonte primaria, che legittimava nei limiti
previsti dal decreto legge l’utilizzo di una fonte secondaria: è stata un’operazione particolarmente
ardita dal punto di vista costituzionale per rispondere alle necessità immediate della pandemia. Non
è consuetudine che in ogni situazione di crisi, il PdC possa limitare in modo così discrezionale i diritti
fondamentali dei cittadini. Anche durante la pandemia, non si trattava comunque di un potere assoluto
e distinto dagli altri organi, ma trovava la sua legittimazione da una fonte primaria che rispettava i
principi costituzionali. La Corte Costituzionale si è spesso interrogata sui decreti legge che
attribuivano al PdC questi speciali poteri: essa ha poi affermato che anche alla luce di quello che
stava accadendo, tale operazione era legittima. Questa normativa che incide sui diritti della persona
non viene assunta come una fonte primaria, ma come una fonte secondaria che trova la sua
legittimazione in una fonte primaria.

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Regolamenti dell’esecutivo
Tra le fonti secondarie assumono un ruolo molto importante i regolamenti dell’esecutivo.
N.B. Il termine regolamento è un termine generico che può designare fonti diverse:
● i regolamenti parlamentari sono una fonte primaria a competenza esclusiva, che disciplinano il
procedimento legislativo e l’organizzazione delle camere
● i regolamenti dell’esecutivo (regolamenti governativi, regolamenti ministeriali, DPCM -
regolamenti del PdC) sono fonti secondarie.
● i regolamenti che disciplinano il funzionamento dell’organo costituzionale (regolamenti
della Corte Costituzionale, regolamento del CSM, regolamento interno del Governo, che
disciplina l’organizzazione del Governo) sono fonti secondarie, ma hanno competenza in un
ambito riservato di materie (il regolamento della Corte Costituzionale disciplina varie cose come il
funzionamento interno della Corte e le garanzie dei giudici costituzionali)
● regolamenti dell’UE, che equivalgono alle leggi italiane, sono una fonte posta nel rapporto tra
diritto interno e diritto comunitario in una posizione di superiorità rispetto alla legge ordinaria. In
caso di contrasto tra la legge e i regolamenti dell’Unione prevalgono i secondi.

Con il termine “regolamento” dunque si intendono molte cose diverse: quando si parla di regolamento
come fonte normativa secondaria si intendono i regolamenti governativi, di cui la Costituzione dà solo
un piccolo accenno:
- Art.87 della Costituzione elenca le funzioni del Presidente della Repubblica e una di queste è
quella di emanare i regolamenti dell’esecutivo
- art.117 della Costituzione attribuisce la potestà legislativa allo Stato e alle Regioni e afferma il
principio del parallelismo, ossia afferma che ove vi è competenza esclusiva dello Stato anche la
potestà regolamentare è statale; se invece vi è competenza concorrente o competenza esclusiva
delle Regioni, la potestà regolamentare sarà in capo alle Regioni (potestà assoluta); in caso di
competenza concorrente, lo Stato detta i principi generali e la Regione con legge predispone la
normativa di dettaglio. I regolamenti di attuazione ed esecuzione sono normative di dettaglio e
possono essere approvate solo se vi sono già i principi generali.

La norma fondamentale per capire i limiti della potestà regolamentare e le procedure che i governi
devono seguire per approvare i regolamenti è la legge 400 del 1988. Si tratta di una legge molto
importante perché prevede la disciplina dei regolamenti così come la Costituzione prevede la
disciplina delle leggi. L’art.17 prevede le tipologie dei regolamenti e il procedimento che conduce
all’approvazione dei regolamenti.

Le tipologie dei regolamenti


La legge 400 si fonda sempre sul principio di riserva di legge e individua 4-5 tipi di regolamenti:
A. regolamenti di esecuzione: sono i regolamenti attraverso i quali il Governo dà esecuzione ai
provvedimenti normativi primari. Vi è una legge che disciplina una determinata materia, che non
può prevedere qualsiasi aspetto di dettaglio e dunque attribuisce al regolamento la potestà di dare
esecuzione a quella legge. Il legislatore fissa la normativa e i principi ma ha bisogno dei
regolamenti di esecuzione, che possono intervenire nelle materie coperte da riserva di legge
relativa (le fonti primarie disciplinano i principi generali, mentre la normativa di dettaglio può essere
affidata alle fonti secondarie). Se vi è invece una riserva di legge assoluta non significa che l’intera
materia debba essere assolutamente disciplinata solo da fonti primarie, ma che le fonti secondarie
devono essere di mera esecuzione di quanto sancito dalle fonti primarie, ossia uno spazio per le
fonti secondarie minimo in quanto le scelte discrezionali devono essere adottate dalle fonti
primarie (regolamenti di mera esecuzione). Se per le materie coperte da riserva di legge assoluta,
il Governo interviene esercitando il proprio indirizzo politico e quindi adottando alcune politiche
discrezionali, quel regolamento è annullato perché viola la riserva di legge assoluta prevista in
Costituzione.

B. Regolamenti di attuazione e integrazione, che si caratterizzano per una maggiore


discrezionalità del Governo, attuando scelte politiche maggiori rispetto ai regolamenti di
esecuzione. Questa tipologia di regolamenti è ammissibile in caso di riserva di legge relativa, ma
non in caso di riserva di legge assoluta.

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C. Regolamenti indipendenti: sono emanati nelle materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi
o atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate aslla legge. Se
la Costituzione prevede che quella materia non debba essere disciplinata da fonti primarie e non è
prevista alcuna riserva di legge, allora il Governo può disciplinare quella materia attraverso un
regolamento indipendente, altrimenti quel regolamento si annulla. Sono una figura particolarmente
criticata, in quanto accusata di ledere i principi della sepatazione dei poteri e della legalità
dell’amministrazione.

D. Regolamenti di delegificazione: La legge 400 prevede un meccanismo che ha come obiettivo


quello di delegificare, ossia di fare in modo che una determinata normativa prevista da una fonte
primaria possa essere poi concretamente disciplinata da una fonte secondaria, favorendo una
modifica più agevole. Il secondo problema che si è posto riguarda l’abrogazione della legge: una
volta abrogata la legge si deve intervenire nuovamente. Ma tra il momento dell’abrogazione della
legge e il momento di approvazione del regolamento si rischiava di avere uno spazio di tempo
privo di qualsiasi regolamentazione. Il problema viene risolto con un procedimento che prende il
nome di processo di legificazione: il Parlamento approva una legge che da un lato abroga le
normative esistenti e dall’altro fissa i principi della stessa materia e attribuisce al Governo la
potestà regolamentare. Per evitare il vuoto normativo rinvia l’abrogazione delle norme precedenti
al momento in cui entrerà in vigore il regolamento del Governo: la legge precedente è abrogata
solo se e quando entreranno in vigore i regolamenti attuativi del Governo. Prima la materia era
disciplinata esclusivamente dalla legge e quindi per ogni modifica necessitava dell’intervento del
Parlamento, dopo il processo di legificazione viene disciplinato da una legge che ne stabilisce i
principi e da una serie di regolamenti che potranno essere più facilmente modificati.

Procedimento di approvazione dei regolamenti governativi


Il procedimento di approvazione dei regolamenti governativi è disciplinato dall’art.17 della legge
400/1988. Essi vengono deliberati, su proposta di uno o più ministri, dal Consiglio di Ministri, previa
consultazione del Consiglio di Stato. Si tratta di un parere obbligatorio ma non vincolante, per cui il
Governo può discostarsene con motivazione. Il regolamento viene poi emanato dal Presidente della
Repubblica con proprio decreto; a questo punto deve passare il controllo di legittimità della Corte dei
Conti. Si passa poi alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

LA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE
Con giustizia costituzionale si intende un sistema di controllo giurisdizionale del rispetto della
Costituzione. La giustizia costituzionale è la principale garanzia della rigidità della Costituzione e
consente di reagire a determinate infrazioni del testo costituzionale, rivolgendosi in un determinato
modo ad un determinato giudice. In base all'applicazione di queste 3 variabili, si vanno a formare
diversi sistemi di giustizia costituzionale, che dipendono dall’origine della Costituzione stessa.

L’atto di nascita della giustizia costituzionale è sancito da una sentenza della Corte Suprema
americana del 1803, pronunciata per risolvere il cosiddetto caso Marbury vs Madison. Si può
parlare, tuttavia, di “atto di nascita della giustizia costituzionale” solo negli Stati Uniti, in quanto, ad
esempio, in Italia la prima sentenza della Corte Costituzionale, e quindi l’avvio dell’attività della
giustizia costituzionale risale al 1956. La Costituzione americana era stata emanata nel 1787 e fu poi
integrata con una serie di emendamenti nel 1791, che sancirono il catalogo dei diritti della
Federazione americana. Pochi anni dopo la Corte Suprema, ossia i giudici di ultimo grado del sistema
americano ( = Corte di Cassazione in Italia) si trova di fronte ad una legge approvata dal Congresso
in contrasto con una norma della Costituzione e per la prima volta nella storia il giudice deve decidere
se applicare o meno la legge. Era accaduto che dopo molti anni di dominio dei federalisti, era salito
alla presidenza il repubblicano Jefferson. Adams, il presidente uscente, negli ultimi attimi della sua
carica aveva nominato 16 nuovi giudici. Tuttavia, data la frenesia in cui ciò era avvenuto, il segretario
di Stato uscente non aveva trasmesso la nomina al giudice Marbury e di conseguenza ora il nuovo
segretario di Stato Marbury non voleva convalidarla. Intervenne così la Corte Suprema, a
maggioranza federalista e con a capo Marshall, che riconobbe la nomina di Marbury e dichiarò
incostituzionale, per violazione del principio costituzionale della divisione del potere giurisdizionale, la
norma che attribuiva alla Corte Suprema la competenza a decidere tale caso. Il Presidente Marshall
pronunciò una sentenza che diede la svolta alla giustizia costituzionale e che sancì l’importanza del
controllo di legittimità costituzionale, affermando che o la Costituzione è la legge suprema,
immodificabile con i mezzi ordinari (quindi dalla legge), oppure è allo stesso livello della legge
ordinaria e come questa è modificabile ogni qualvolta piaccia al legislatore o la Costituzione ha un
valore superiore alla legge sul piano gerarchico o è allo stesso livello della legge stessa

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Se è vera la prima parte dell’alternativa, allora la legge contraria alla Costituzione non è una legge
(legge invalida o incostituzionale); se è vera la seconda parte, allora le Costituzioni scritte (la
Costituzione americana è uno dei primi esempi di Costituzione scritta, in Inghilterra ad esempio non vi
era) sono un assurdo tentativo per limitare un potere [quello del legislatore] per sua natura illimitabile.
[…]. Un atto del potere legislativo contrario alla Costituzione è nullo [nul and void]”. Dietro l’atto di
nascita della giustizia Costituzionale, vi è la grande ambizione del costituzionalismo di limitare il
potere, anche quello legittimo. Il grande passaggio storico di questa sentenza è l’affermazione che le
Costituzioni non siano un assurdo tentativo di limitare un potere illimitabile come quello del
legislatore, ma sono la dimostrazione della riuscita della limitazione di qualsiasi potere a tutela dei
diritti dei singoli. che non possono essere cancellati nemmeno da una maggioranza. In questa
sentenza si stabilisce che ciascun giudice americano possa disapplicare la legge secondo i dettami
costituzionali, ma anche limitare legalmente l’ambito del potere. Si risponde così ad una domanda
che occorre porsi, ossia i giudici in persona, che non sono eletti direttamente dal popolo (alcuni eletti
dal PdR, altri dal Parlamento, altri dalle magistrature superiori) possono invalidare un atto che deriva
dal legittimo rappresentante del popolo? Perché possono cancellare l’operato del Parlamento? Per
quello che dice Marshall, ossia che il potere, anche quello legittimo, deve essere limitato a difesa
della Costituzione. La ragione per cui le Corti Costituzionali possano in qualche modo far venire meno
la volontà del corpo elettorale va ricercata nel carattere di rigidità della Costituzione. La legge è posta
al di sotto della Costituzione e dunque una legge in contrasto con la Costituzione deve essere
dichiarata incostituzionale. Sul piano sostanziale, la logica è quella del costituzionalismo, che mira
alla divisione dei poteri.

LA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA


Secondo il principio democratico, nessuno dei poteri dello Stato dovrebbe avere una legittimazione
diversa da quella che deriva dalla rappresentanza elettorale. Tuttavia, la rigidità della Costituzione
richiede che l’organo deputato a difendere la legalità costituzionale sia esterno alle dinamiche delle
maggioranze e dunque non possa essere di origine rappresentativa. E’ fondamentale infatti che la
Corte Costituzionale mantenga assoluta neutralità rispetto alla “politica” in genere (per questo sono
richiesti ai membri della Corte requisiti tecnici elevati e devono essere scelti tra i magistrati delle
giurisdizioni superiori ordinaria e amministrativa, tra i professori universitari di materie giuridiche e tra
avvocati con almeno vent’anni di esperienza), neutralità rispetto alle parti (sono i poteri dello Stato a
ripartirsi la nomina dei giudici costituzionali) e neutralità rispetto agli interessi politici e privati (negli
USA ciò è garantito rendendo la carica dei giudici vitalizia, ponendo i membri della Corte Suprema in
una posizione di indipendenza rispetto al potere politico e di disinteresse nel crearsi una posizione da
rivestire dopo la cessazione della carica di giudice della Corte; in Italia invece vige un severo regime
di incompatibilità tra la carica di giudice della Corte Costituzionale e qualsiasi ufficio, impiego o
professione pubblica o privata, nonché l’appartenenza a associazioni o partiti politici).

La nomina dei giudici


I giudici della Corte Costituzionale sono 15:
● 5 sono eletti dal Parlamento in seduta comune. La loro elezione procede a scrutinio
segreto e con la maggioranza dei ⅔ dei componenti dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è
sufficiente la maggioranza dei ⅗ dei componenti. La scelta parlamentare ricade per lo più su
soggetti direttamente impegnati nella vita politica

● 5 sono nominati dal Presidente della Repubblica. Si tratta di un atto sostanzialmente


presidenziale e la controfirma del PdC esprime un semplice controllo esterno. La nomina da
parte del Presidente della Repubblica permette di controbilanciare le scelte politiche attuate
dal Parlamento e garantire la neutralità della Corte rispetto alla maggioranza parlamentare

● 5 sono nominati dalle supreme magistrature ordinaria e amministrativa (3 dai magistrati


di Cassazione, 1 dal Consiglio di Stato e 1 dalla Corte dei Conti), garantendo un importante
collegamento tra la Corte Costituzionale e la giustizia ordinaria e amministrativa.

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Status del giudice costituzionale
Per assicurare la neutralità della Corte Costituzionale, la Costituzione attribuisce ai giudici
costituzionali alcune garanzie:
● immunità e improcedibilità → i giudici della Corte Costituzionale non sono sindacabili, né
possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
Inoltre, finché sono in carica godono della stessa immunità personale dei parlamentari
● inamovibilità → i giudici della Corte Costituzionale non possono essere rimossi né sospesi dal
loro ufficio se no a seguito di una deliberazione della Corte, presa a maggioranza dei ⅔ dei
presenti e solo per sopravvenuta incapacità fisica, civile o per gravi mancanze nell’esercizio delle
proprie funzioni
● convalida delle nomine → spetta alla Corte, con deliberazione a maggioranza assoluta, la
convalida della nomina dei suoi membri. E’ un giudizio che comporta il riscontro dell’esistenza dei
requisiti soggettivi di ammissione, ma è anche manifestazione e garanzia di indipendenza
dell’organo. Dopo la convalida, i giudici prestano giuramento di osservare la Costituzione e le
leggi nelle mani dei PdR.
● trattamento economico → i giudici della Corte hanno un trattamento economico che non può
essere inferiore a quello del magistrato ordinario investito delle più alte funzioni. Allo scadere
della carica, è garantito il reinserimento nelle precedenti attività professionali
● autonomia finanziaria e normativa → la Corte amministra un proprio bilancio, il cui ammontare
è fissato dal bilancio dello Stato.
● autodichia → la Corte costituzionale gode di competenza esclusiva per giudicare i ricorsi in
materia di impiego dei propri dipendenti

Durata della carica


I giudici della Corte costituzionale rimangono in carica 9 anni e non sono rieleggibili. Il rinnovo dei
giudici della Corte è graduale e il periodo del mandato ha inizio dal giorno del giuramento e si
conclude alla scadenza dei 9 anni, senza possibilità di prorogatio. La Corte infatti può funzionare
anche senza tutti i suoi membri, ma è richiesto un quorum di 11 giudici. Le decisioni della Corte,
tuttavia, devono essere deliberate dai giudici presenti a tutte le udienze in cui si è svolto il giudizio: la
Corte quindi non può funzionare mediante collegi diversi, in quanto il collegio che ha iniziato a trattare
una causa deve essere lo stesso che la decide in via definitiva. Solo per i giudizi d’accusa è previsto il
regime della prorogatio.

Il Presidente
Il Presidente è un giudice della Corte, eletto dalla Corte stessa a scrutinio segreto e a maggioranza
assoluta. Il suo mandato è triennale ed è rinnovabile, ma scade se il Presidente cessa dalla carica di
giudice costituzionale. Il Presidente della Corte costituzionale ha compito di:
- fissare il ruolo delle udienze in camera di consiglio e convocare la Corte
- designare il giudice incaricato dell’istruzione della causa e di introdurla come relatore di
fronte alla Corte
- designare il giudice incaricato di redigere il progetto di motivazione della decisione, che
dovrà poi essere approvato dalla Corte;
- presiedere il collegio giudicante e dirigere i lavori, regolarne la discussione e determinare i
punti più importanti su cui focalizzarsi
- votare per ultimo ed esprimere il voto decisivo in caso di parità di voti

Procedure
La Corte ha poteri istruttori, che consistono nell’accertamento di dati o fatti anche attraverso
l’audizione di testimoni. La Corte, con ordinanza, può disporre i mezzi di prova che ritiene necessari e
fissa i termini per la loro esecuzione, avvertendo le parti dieci giorni prima per l’assunzione delle
prove orali. Al termine dell’attività probatoria, tutta la documentazione viene depositata in cancelleria
dandone comunicazione alle parti che si sono costituite. La Corte si riunisce in udienza pubblica o
in camera di consiglio: la scelta spetta al Presidente, ma di regola si riunisce in camera di consiglio
quando le parti non si sono costituite o quando il Presidente ipotizzi una decisione di manifesta
infondatezza o inammissibilità. L’udienza pubblica si ha quindi quando le parti sono rappresentate dai
rispettivi avvocati e quando le dichiarazioni sono già state depositate. Il giudice relatore presenta la
causa e dopo ciò gli avvocati possono intervenire. La decisione è assunta in camera di consiglio e il
giudice relatore propone la decisione, che viene votata da lui per primo e infine dal Presidente. In
questa sede i giudici votano il dispositivo della decisione.

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A questo punto il Presidente incarica solitamente il giudice relatore di redigere una bozza di
motivazione che verrà poi approvata dalla camera di consiglio. La decisione è firmata dal Presidente
e dal giudice redattore, depositata in cancelleria (iniziano gli effetti della sentenza) e pubblicata in
Gazzetta Ufficiale.

Le decisioni della Corte


La Corte costituzionale emana 2 tipi di decisioni: le sentenze e le ordinanze. La legge 87/1953
afferma che la Corte giudica in via definitiva con sentenza; tutti gli altri provvedimenti sono adottati
con ordinanza. La sentenza definisce il giudizio, ossia è l’atto con cui il giudice chiude il processo,
mentre l’ordinanza è uno strumento interlocutorio che non esaurisce il rapporto processuale, ma
serve per risolvere le questioni che sorgono nel corso del processo. Tuttavia nei giudizi di legittimità,
la Corte ha sviluppato un uso delle ordinanze più ampio per chiudere il processo, atto legittimato dalla
legge 87/1953. Le sentenze devono essere motivate sia in fatto che in diritto, mentre per le ordinanze
è sufficiente che siano succintamente motivate. Inoltre, le sentenze della Corte Costituzionale non
possono essere impugnate, in quanto è attraverso il processo di motivazione che si legittimano le
proprie conclusioni.

Le funzioni della Corte costituzionale

I. CONTROLLO DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE


Il controllo di legittimità costituzionale è la funzione tipica della Corte Costituzionale ed è posta a
garanzia del principio di rigidità della Costituzione. Le Costituzioni si definiscono rigide non solo
quando prevedono un procedimento aggravato per la loro modifica, ma anche quando opera un
organo di tipo costituzionale che possa invalidare la norma di grado inferiore contrastante con la
Costituzione.

Che cosa può essere oggetto del giudizio della Corte Costituzionale?
Il giudice costituzionale si esprime su una norma giuridica: non giudica quindi un caso, non deve
condannare o assolvere un soggetto, o assegnare la proprietà di un bene. L’art.134 del testo
costituzionale stabilisce quali sono le fonti del diritti che possono essere sottoposte al giudizio di
legittimità costituzionale. La Corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità
costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni , si parla quindi
di leggi statali, decreti legislativi, decreti legge e leggi regionali, norme che appartengono tutte alla
categoria delle fonti primarie.

Sono escluse dal controllo di legittimità costituzionale da parte della Corte le fonti secondarie, come i
regolamenti, che sono sottoposte a giudizio dal Tribunale amministrativo. Vi è solo una fonte primaria
che è sottratta al controllo di costituzionalità da parte della Corte, ossia i regolamenti parlamentari.
Si tratta di fonti che si distinguono dalle leggi ordinarie sulla base del criterio della competenza, in
quanto si occupano del procedimento legislativo, dell’organizzazione interna delle camere e degli
organi. Per garantire il rispetto dell’autonomia del Parlamento e dell’art.134 del testo costituzionale, la
Corte Costituzionale nella sua giurisprudenza, che ha inizio nel 1956 con la prima sentenza, ha
sempre dichiarato insindacabili i regolamenti parlamentari. Tuttavia, se una legge viene approvata
sulla base di un regolamento contrastante con la Costituzione, essa può essere dichiarata
incostituzionale → l’incostituzionalità del regolamento si va a riflettere sull’incostituzionalità della
legge e dunque si recupera il controllo di costituzionalità non su tutto il regolamento ma quelle norme
che sono direttamente connesse ad esso.

Le leggi costituzionali sono sottoponibili al controllo di costituzionalità? Talvolta sì, talvolta no. Una
legge costituzionale può modificare o derogare la Costituzione, essendo posta al suo stesso livello.
Nel rapporto tra Costituzione e leggi costituzionali vige dunque il principio cronologico. In linea di
principio, dunque, una legge costituzionale non potrebbe essere oggetto del controllo di legittimità
costituzionale; tuttavia può essere sindacata per 2 motivi:

● motivo formale: una legge costituzionale è approvata non in conformità con la normativa
prevista all’art.138 (revisione costituzionale). La Costituzione prevede all’art.138 le modalità
con le quali si modifica la Costituzione e compito della Corte Costituzionale è verificare se
questo tipo di procedimento sia stato seguito o meno. (vizio formale). Ad esempio, per la
riforma Renzi che prevedeva la modifica di ampie parti della seconda parte del testo
costituzionale, era stata approvata una legge costituzionale che non rispettava a pieno
quando previsto dall’art.138.

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● motivo sostanziale: esistono i limiti alla revisione costituzionale, che sono sia espliciti
(art.139), sia impliciti (nuclei essenziali dei principi fondamentali). Tra le competenze della
Corte costituzionale vi è quella di sindacare le leggi costituzionali in relazione alla violazione
dei principi fondamentali (vizio sostanziale).

Sono sottratte al giudizio di costituzionalità da parte della Corte le fonti primarie appartenenti alla
categoria delle normative europee. Qualora, infatti, una norma europea contrasti con la
Costituzione, la Corte non può sindacare su quella norma, in quanto ciò non è nelle sue competenze;
se, invece, la norma europea contrasta con uno o più principi fondamentali della Costituzione, il
giudice non potrà applicare la norma europea (in questo caso si tratta di un giudizio di una norma
interna, non di una norma di grado superiore). Sono inoltre escluse dal controllo della Corte
Costituzionale le consuetudini. Qualche problema pratico si pone per l’impugnazione dei decreti
legge: se il decreto-legge non viene convertito in tempo, la decadenza ha effetto su tutti i rapporti sorti
sulla sua base, venendo così meno l’oggetto dell’impugnazione e costringendo la Corte a dichiarare
inammissibile la questione di legittimità sollevata. Se invece il decreto legge fosse convertito, la
questione di legittimità si sposterebbe automaticamente sulla nuova legge. Quindi la Corte si può
trovare a giudicare la legittimità costituzionale di un decreto legge nei 60 giorni di vigenza provvisoria
oppure se viene reiterato contro la volontà della Corte.

Il parametro di giudizio
Per il sistema delle fonti italiano, qualsiasi norma che sia in contrasto con la Costituzione, ad
eccezione in alcuni casi dei regolamenti parlamentari, può essere sottoposta al giudizio o di un
giudice costituzionale o ad un altro giudice: il controllo delle norme interne è quindi prettamente
completo. Vi sono tuttavia delle eccezioni che vengono definite “zone franche”, ossia zone di ombra,
in cui, per il meccanismo di accesso alla Corte Costituzionale, è difficile andare a giudicare una
determinata normativa. Solitamente, il controllo costituzionale in Italia mira ad evitare che un giudice
applichi una norma in contrasto con la Costituzione. Ciò significa che tendenzialmente il parametro
di giudizio, ossia il termine di confronto impiegato nel giudicare la legittimità degli atti legislativi, è
dato dalle disposizioni costituzionali e dalle leggi costituzionali. Di conseguenza affermare l’art.5 di
una determinata legge è in contrasto con la Costituzione è errato: il giudizio della Corte
Costituzionale, infatti, non è un giudizio sull’intera Costituzione, ma tra la norma oggetto del giudizio
di legittimità costituzionale e la norma di livello superiore, solitamente una norma costituzionale, che
si ritiene violata. Il giudice, quindi nel momento in cui solleva la questione di legittimità costituzionale,
deve indicare la norma di cui dubita della costituzionalità e la norma che ritiene violata e la Corte
andrà a giudicare secondo quel parametro.

Tuttavia la stessa Costituzione prevede in diversi casi che leggi o atti aventi forza di legge siano
vincolati al rispetto di norme poste non da fonte costituzionale, ma da fonti sub-costituzionali. Si parla
in questi casi di parametri interposti, ossia quelle norme che non hanno un rango costituzionale, ma
la cui violazione da parte delle leggi comporta un’indiretta violazione di norme costituzionali.

Vizi di legittimità
I vizi di legittimità esprimono le ragioni per cui si può sollevare una questione di legittimità davanti alla
Corte Costituzionale. Si distinguono in:
● vizi formali: riguardano il procedimento di formazione dell’atto legislativo e dunque
intervengono sugli atti che hanno seguito un procedimento difforme rispetto a quello
prescritto dalla Costituzione. Ad esempio, se si interviene con una legge in una materia che è
di competenza del regolamento si tratta di un vizio formale, in quanto si adotta una normativa
senza rispettare il procedimento che la Costituzione prevede per quella materia
● vizi sostanziali: riguardano i contenuti normativi dell’atto legislativo; essi colpiscono non
l’atto ma le singole disposizioni, che risulteranno viziate perché il loro contenuto normativo
risulta in contrasto con le norme ricavabili dalle disposizioni costituzionali.

N.B. Molto importante è la legge di attuazione 87/1953 che presenta il procedimento di attuazione del
controllo costituzionale e prevede che la Corte non debba entrare nel merito politico della legge. I
giudizi sulle leggi sono giudizi molto delicati nel senso che le norme sono espressione di una volontà
politica (si approva una legge per attuare un indirizzo politico). In alcuni casi il giudizio di
costituzionalità tende ad avvicinarsi ad un giudizio politico, in quanto nella sostanza la Corte
Costituzionale sindaca le ragioni che hanno condotto il legislatore ad approvare una determinata
legge e quindi in qualche modo viene a sovrapporre un suo giudizio politico al giudizio politico delle
Camere.

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Accesso alla Corte Costituzionale
L’art.137 della Costituzione rimanda ad una legge costituzionale la determinazione delle condizioni,
delle forme, dei termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale.
In Italia non è previsto un ricorso diretto dei cittadini alla Corte Costituzionale. Ciò significa che un
cittadino, che vede violato un suo diritto costituzionalmente garantito, non ha la possibilità di
richiedere direttamente l’intervento della Corte Costituzionale.
Le modalità di accesso alla Corte Costituzionale sono due:
● in via principale (o in via diretta), riservato al Governo e alle Regioni
● in via incidentale (o di eccezione), attribuito ad un giudice nel corso di un processo

Accesso in via principale è riservato al Governo e alle Regioni per impugnare una legge delle
Regioni o dello Stato che si ritiene in contrasto con la Costituzione. L’accesso in via principale è
disciplinato dall’art.127 della Costituzione, che ha due punti fondamentali:
● il Governo può impugnare la legge regionale qualora essa ecceda le sue competenze
● la Regione può impugnare una legge dello Stato o di un’altra regione qualora la legge leda le
competenze della Regione stessa

L’impugnazione statale contro leggi regionali può essere promossa dal Governo quando ritiene che
una legge approvata dal Consiglio regionale violi qualsiasi disposizione costituzionale, anche diversa
da quelle direttamente a lui attribuite; il ricordo della Regione può avvenire invece nei confronti della
legge statale solo sulla base di un’invasione della sua sfera di competenza attribuita dalla
Costituzione. Ciò significa che lo Stato non deve dimostrare l’interesse a ricorrere, in quanto difensore
della legalità in genere, la Regione deve invece dimostrare di avere un interesse concreto al ricorso,
derivante dalla lesione delle proprie attribuzioni. Si tratta di un controllo “kelseniano”: nel momento in
cui lo Stato e le Regioni emanano una legge, la controparte può impugnarla. Se non si impugna, la
legge continua a produrre i suoi effetti. Non è dunque un controllo preventivo, prima dell’entrata in
vigore della legge, ma in seguito alla pubblicazione della legge. L’atto introduttivo del giudizio in via
principale è il ricorso, che deve essere deliberato dal Consiglio dei ministri, se agisce lo Stato, o dalla
Giunta regionale per la Regione nei 60 giorni successivi alla pubblicazione della legge che si vuole
impugnare. Il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte costituzionale entro i 10
giorni successivi alla notifica a cura del ricorrente. La Corte Costituzionale deve fissare l’udienza
entro 90 giorni dal deposito del ricorso, dando così precedenza ai giudizi in via principale piuttosto
che a quelli in via principale. E’ prevista poi la possibilità di anticipare ulteriormente l’udienza nel caso
in cui l’esecuzione dell’atto impugnato possa arrecare danno all’interesse pubblico o all’ordinamento
giuridico della Repubblica.

Accesso in via incidentale la questione di legittimità costituzionale è sollevata dal giudice, detto
giudice a quo, nel corso di un processo e ciò comporta la sospensione del giudizio e la remissione
della questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale. E’ un giudizio successivo e
concreto, in quanto la legge viene in rilievo con la sua applicazione.

L’art.1 della legge costituzionale 1/1948 e l’art.23 della legge 87/1953 prevedono che la questione di
legittimità costituzionale possa essere sollevata nel corso di un giudizio e dinanzi ad un’autorità
giurisdizionale. Da questo discendono dunque due requisiti necessari:
● requisito oggettivo: è necessario che ci si trovi nel corso di un giudizio
● requisito soggettivo: la questè necessario che la questione di legittimità sia sollevata da un
giudice, ossia un soggetto che sia interessato all’applicazione oggettiva della legge e occupi
una posizione di terzietà e imparzialità.

La questione di legittimità costituzionale può essere sollevata:


● su eccezione di una delle parti del processo: nel corso del processo una parte può chiedere
al giudice di sollevare una questione perché ritenga che vi siano dei dubbi sulla
costituzionalità della legge.
● su eccezione del giudice d'ufficio, senza che vi sia una richiesta delle parti: è il giudice a
sollevare una questione di legittimità su una certa norma che si deve applicare se su essa vi
siano dubbi di costituzionalità.

Nel primo caso, le parti non possono adire direttamente la Corte, ma devono presentare un'istanza al
giudice della causa principale, che dovrà valutare se ricorrono i presupposti necessari per
l’attivazione del giudizio di costituzionalità. La parte deve dunque indicare la norma oggetto, la norma
parametro e le ragioni per cui si dubita della costituzionalità. Il giudice a quo, prima di decidere se
sollevare o meno la questione di legittimità costituzionale, deve verificare la sussistenza di due
requisiti fondamentali:

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● rilevanza: è necessario che la questione sia rilevante per la risoluzione del giudizio in corso. La
rilevanza consiste in un legame di pregiudizialità tra la questione di legittimità costituzionale e il
giudizio a quo: il giudizio principale non può proseguire senza che venga risolta la questione di
legittimità costituzionale. Ciò significa che il sollevamento della questione di legittimità è
subordinato alla valutazione del giudice circa la necessità di applicare la disposizione su cui si
dubita di incostituzionalità. Emerge qui l’aspetto concreto della questione: non è rilevante capire
se una legge sia incostituzionale in sé, ma che il giudizio non possa essere definito
indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità
● non manifesta infondatezza: il giudice a quo deve valutare che la questione che la parte ha
posto non sia del tutto infondata, ossia non sia manifestamente infondata. Per rimettere la
questione alla Corte è dunque sufficiente che il giudice abbia anche solo un minimo dubbio sulla
costituzionalità della legge da applicare e che questo dubbio sia motivato adeguatamente.

Il lavoro del giudice è molto importante perché è il filtro che alimenta la Corte Costituzionale. Una
volta che è terminato il thema decidendum e il giudice solleva la questione, il processo a quo viene
sospeso in attesa della pronuncia della Corte sulla questione di legittimità, che arriverà a decidere
con un procedimento complesso.

Il giudice a quo qualora ritenga di sollevare, lo dovrà fare con un atto pubblico1, in questo caso
un’ordinanza, detta ordinanza di rimessione o di rinvio, con cui rimette alla Corte Costituzionale la
questione di legittimità costituzionale. L’ordinanza poi costituisce la base su cui la Corte dovrà
giudicare ed è dunque fondamentale che contenga tutti gli elementi necessari per individuare la
questione di legittimità costituzionale:
● indicazione dell’oggetto e del parametro del giudizio, ossia le disposizioni della legge di cui
si denuncia l’incostituzionalità, nonchè le disposizioni costituzionali che si presumono violate;
● motivazione della rilevanza e i motivi che hanno portato a dichiarare la non manifesta
infondatezza
● i profili della questione di legittimità in base ai quali si è verificata la violazione con la
descrizione della fattispecie concreta oggetto della controversia.

Questi 3 elementi costituiscono il thema decidendum, che è anche il limite entro il quale la decisione
della Corte può intervenire in ossequio al principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
Eccezionalmente i limiti della questione come prospettata dal giudice potrebbero essere superati nel
caso dell’illegittimità costituzionale consequenziale, quando cioè dalla decisione adottata deriva
l’illegittimità di altre disposizione collegate a quella dichiarata incostituzionale.
Una volta che è terminato il thema decidendum e il giudice solleva la questione, il processo a quo
viene sospeso in attesa della pronuncia della Corte sulla questione di legittimità, che arriverà a
decidere con un procedimento complesso. L’ordinanza di rimessione viene notificata a cura della
cancelleria del giudice a quo alle parti, al pm e al PdC. Lo scopo è quello di permettere ai soggetti
interessati di costituirsi e di intervenire nel giudizio costituzionale. L’ordinanza di rinvio, una volta
giunta alla Corte costituzionale viene pubblicata in Gazzetta Ufficiale e mira a far conoscere a tutti
che su una certa disposizione pende un giudizio di costituzionalità. Entro 20 giorni prima
dall’avvenuta notificazione dell’ordinanza con cui si instaura il giudizio costituzionale, le parti del
giudizio a quo possono costituirsi, ma la loro partecipazione è del tutto facoltativa, in quanto la loro
presenza non è vincolante per la prosecuzione del giudizio di costituzionalità. Il pm non è abilitato ad
intervenire nel processo costituzionale; il Governo invece viene rappresentato dall’Avvocatura di Stato
e tende a esprimere il punto di vista delle istituzioni.

Le decisioni della Corte costituzionale


Una volta terminato il processo, la Corte che giudica nella sua interezza: ciò significa che le decisioni
della Corte sono assunte da tutti i giudici, senza distinzioni per sezioni come avviene all’interno della
Cassazione. Le decisioni della Corte Costituzionale in materia di legittimità costituzionale si
distinguono in:
● ordinanze: la Corte decide con ordinanza quando mancano palesemente alcuni dei requisiti
previsti dalla Costituzione e dalle leggi. Si tratta di problemi processuali, in cui il giudice non
ha valutato correttamente la situazione, che dunque viene rimandata alla Corte
costituzionale. Si ricorre inoltre alle ordinanze solitamente per risolvere casi in cui la Corte
vuole sbarazzarsi di questioni totalmente infondate,
● sentenze: la sentenza della Corte conclude il giudizio e non può essere impugnata di fronte
a nessun altro giudice.

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Le sentenze della Corte possono essere di 3 tipi:

1. Sentenze di inammissibilità: la Corte pronuncia l’inammissibilità della questione quando


manchino i presupposti per procedere nel giudizio:
● quando mancano i requisiti soggettivi e oggettivi per la legittimazione a sollevare la questione
di legittimità costituzionale, ossia quando la questione sia stata sollevata da un organo non
qualificabile come giudice o al di fuori di un procedimento qualificabile come giudizio
● quando sia carente l’oggetto del giudizio, ossia quando l’atto impugnato non rientri tra quelli
indicati all’art.134
● quando manchi il requisito della rilevanza e dunque la Corte provvederà alla restituzione degli
atti al giudice a quo affinché riconsideri la rilevanza
● quando l’ordinanza di rimessione manchi di indicazioni sufficienti e univoche per definire il
thema decidendum
● quando siano stati compiuti errori procedurali
● quando la questione sottoposta alla Corte comporti una valutazione di natura politica o
un’interferenza nel potere proprio del Parlamento. La Corte ricorre spesso a questo
espediente per liberarsi da casi particolarmente spinosi e di matrice politica

2. Sentenze di rigetto: con una sentenza di rigetto la Corte dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale posta dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione. La Corte dunque non
dichiara mai che la legge sia conforme alla Costituzione, ma si limita a respingere la questione
sollevata dal giudice a quo. La questione di legittimità costituzionale è infatti una costruzione
intellettuale del giudice, basata sulle sue operazioni interpretative e sulle sue argomentazioni:
nasce infatti da un dubbio che il caso specifico ha fatto insorgere nel giudice remittente. Perciò la
sentenza di rigetto non costituisce una sorta di certificato di costituzionalità, ma riguarda
esclusivamente la fondatezza della questione presentata dal giudice. Per questa ragione la
sentenza di rigetto produce i suoi effetti solo inter partes del giudizio a quo e non erga omnes. Il
suo unico effetto giuridico è di precludere la riproposizione della stessa questione da parte dello
stesso giudice nello stesso stato e grado dello stesso giudizio. Nulla, tuttavia, impedisce al giudice,
letta la sentenza della Corte, di sollevare una questione diversa modificando il parametro di giudizio
o dando un’interpretazione diversa della disposizione. Quello che è vietato al giudice è di proporre
nuovamente la stessa questione di legittimità costituzionale: se lo facesse, la Corte risponderebbe
con un’ordinanza di manifesta inammissibilità. Questo sul piano giuridico, in quanto le sentenze
sono pubblicate in Gazzetta Ufficiale e sono conosciute da tutti i giuristi. Talvolta succede che
questioni identiche nel corso degli anni siano state prima rigettate e poi accolte, spesso perché
cambiano le percezioni e le esigenze della società.

3. Sentenze di accoglimento: con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara l’illegittimità


costituzionale della disposizione impugnata. La sentenza di accoglimento ha valore erga omnes e
dunque la legge dichiarata incostituzionale viene dichiarata invalida. La Costituzione dall’art.136
afferma che una norma dichiarata incostituzionale cessa di efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione. Il termine efficacia potrebbe far pensare ad una somiglianza tra
l’effetto della sentenza di accoglimento e l’abrogazione. Tuttavia, se la legittimità costituzionale
avesse gli stessi effetti dell’abrogazione nessuna questione sarebbe rilevante, in quanto se l’effetto
della sentenza della Corte potesse essere solo per l’avvenire (abrogazione), allora la norma
incostituzionale continuerebbe a produrre i suoi effetti per i fatti accaduti precedentemente e
dunque nessun giudizio sarebbe rilevante. Secondo motivo per cui una dichiarazione di illegittimità
costituzionale non è un’abrogazione è che un’incostituzionalità è un fatto patologico
dell’ordinamento, non fisiologico: una legge incostituzionale è una legge che viola una norma di
grado superiore e quindi sta nell’interesse dell’ordinamento cercare di ridurre al massimo gli effetti
di quella legge, impedendole di produrre qualsiasi effetto, nel passato e nel futuro. Di conseguenza,
una sentenza di incostituzionalità ha anche effetti retroattivi, ossia la norma dichiarata
incostituzionale non potrà più trovare applicazione sia nei fatti successivi sia per i giudizi e i rapporti
non ancora esauriti. Il giudice a quo quindi dovrà giudicare senza la norma dichiarata
incostituzionale, cosa che andrà ad incidere sull’esito del processo. L’effetto retroattivo si arresta
solo in caso di sentenze già passate in giudicato per una questione di certezza del diritto e per le
sentenze penali. Qualora, infatti, qualcuno stia espiando una pena in ragione di una norma che è
stata dichiarata incostituzionale, allora gli effetti penali decadono.

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Sottotipi di sentenze
Esistono alcuni sottotipi di sentenze, che appartengono alla categoria delle sentenze di accoglimento
o di rigetto e hanno un’importanza sempre maggiore nella giurisprudenza della Corte Costituzionale.
Sono sentenze che nascono da un bisogno da parte della Corte costituzionale di avere strumenti
capaci di superare l’alternativa secca tra accoglimento e rigetto. Con esse la Corte riesce ad
intervenire su norme sottoposte al suo giudizio, incidendo “chirurgicamente” su singole parti della
legge, invece di utilizzare strumenti che consentono solo provvedimenti di cancellazione o di
mantenimento della norma.

A. Sentenze interpretative di rigetto sono le decisioni con cui la Corte dichiara infondata la
questione di legittimità costituzionale, non perché il dubbio di legittimità sollevato dal giudice non
sia giustificato, ma perché esso si basa su una cattiva interpretazione della disposizione
impugnata. E’ bene distinguere tra disposizione e norma:
● la disposizione è il testo normativo
● la norma è l’esito dell’interpretazione di quel testo normativo

Da una disposizione si possono ricavare, dunque, più norme giuridiche. La Corte costituzionale ha
da sempre affermato un preciso canone di interpretazione delle leggi: nel caso in cui una
disposizione possa essere interpretata in modi diversi, l’interprete deve scegliere l’interpretazione
conforme alla Costituzione. Nel caso in cui il giudice a quo propenda, invece, per una norma di
dubbia compatibilità con la Costituzione, la Corte costituzionale ha due diverse alternative:
- dichiarare l’incostituzionalità di quella disposizione
- sentenza interpretativa di rigetto, che consiste nell’offrire una diversa interpretazione che sia
costituzionalmente compatibile. La corretta interpretazione conforme alla Costituzione
basterebbe a risolvere il contrasto della disposizione impugnata con la Costituzione e dunque si
rigetta la questione.

Qual è il limite della sentenza interpretativa di rigetto? Il limite è che una sentenza di rigetto in sé
non ha efficacia erga omnes, ma il suo effetto si esaurisce inter partes. Nessuno, quindi, può
impedire ad un altro giudice di continuare ad applicare l’interpretazione precedente. Ciò si può
risolvere in due modi:
‣ nel tempo la giurisprudenza cambia la sua interpretazione e si adatta all’interpretazione
costituzionalmente fornita dalla Corte
‣ si ripropone alla Corte la stessa questione e la Corte preso atto che esista un diritto vivente in
direzione opposta rispetto a quello che lei stessa aveva indicato, adotta un altro strumento
dichiarando l’incostituzionalità della norma e rendendo legittima solo quella da lei indicata

B. Sentenze manipolative di accoglimento si distinguono in:


● sentenze di accoglimento parziale: la Corte Costituzionale può limitarsi a dichiarare
incostituzionale una parte di una legge, un singolo articolo o parola che sia evidentemente in
contrasto con la Costituzione
● sentenze additive: la Corte dichiara illegittima la disposizione nella parte in cui non prevede
ciò che invece sarebbe costituzionalmente necessario prevedere.
● sentenze sostitutive: sono sentenze con cui la Corte dichiara l’illegittimità di una
disposizione legislativa nella parte in cui si prevede una cosa invece di un’altra. La Corte
dunque sostituisce una locuzione della disposizione, incompatibile con la Costituzione, con
un’altra costituzionalmente corretta. E’ un tipo di sentenza usata soprattutto per correggere
errori materiali del legislatore, per adeguare leggi anteriori alla Costituzione alle competenze
costituzionali degli organi, ecc. Si tratta di sentenze comunque particolarmente invasive della
potestà legislativa e per questo la Corte, per non eccedere dalle sue funzioni deve attenersi
al principio delle “rime obbligate”, che consiste nel sostituire solamente le parti non coerenti
con il testo costituzionale con altre più in linea con esso.

II. CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE TRA I POTERI DELLO STATO


Una delle funzioni della Corte costituzionale consiste nel regolare i conflitti di attribuzione tra i poteri
dello Stato. Si tratta di una questione diversa rispetto alla legittimità costituzionale delle leggi: in
questo caso la Corte costituzionale ha il compito di garantire la separazione e la distribuzione dei
poteri tra i diversi organi costituzionali previsti dalla Costituzione. I conflitti di attribuzione nascono
quando un organo appartenente ad un potere dello Stato solleva un conflitto, difendendo le proprie
attribuzioni previste dalla Costituzione che possono essere compromesse dall’azione di un altro
potere diverso dal proprio. Si ha quindi un potere che agisce e un potere che si difende perché ritiene
sia stato invaso e impedito nell’esercizio dei suoi poteri.

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Quali sono i poteri che hanno delle attribuzioni costituzionali che possono essere difese
davanti alla Corte?
Il concetto di potere ai sensi della normativa sui conflitti di attribuzione è molto ampio: oltre ai 3 poteri
tradizionali (legislativo, giudiziario ed esecutivo), vi sono altri organi a cui la Costituzione attribuisce
poteri, come il Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, il CSM e la Corte dei conti, che
partecipano ai procedimenti decisionali e sono esterni ai 3 poteri fondamentali. Vengono intesi come
poteri dello Stato anche quelli che non appartengono allo Stato apparato, come i firmatari del
Referendum abrogativo: nel caso in cui il Parlamento attraverso degli atti approvi una normativa che
abbia come fine quello di non celebrare il Referendum, allora può essere sollevato un conflitto di
attribuzione anche dal comitato promotore del Referendum, come rappresentanti degli elettori che
hanno chiesto di promuoverlo. E’ necessario attuare una distinzione tra conflitti di attribuzione e
conflitti di competenza: al contrario dei primi, i secondi sorgono tra organi che appartengono allo
stesso potere e non devono essere risolti dalla Corte costituzionale, ma organi predisposti dal potere
stesso.

Chi è legittimato a sollevare il conflitto?


La regola generale è che a sollevare il conflitto di attribuzione sia l’organo che può esprimere la
volontà definitiva di quel potere. Per il Parlamento, ad esempio, l’organo che può esprimere la volontà
definitiva è l’Assemblea, ossia l’insieme dei Parlamentari, non solo il Presidente; per quanto riguarda
il Governo, l’organo deputato a sollevare il conflitto di attribuzione è il Consiglio dei Ministri. La
magistratura non è, a differenza dei primi due, un potere gerarchico, ma diffuso in cui ogni giudice
esprime la volontà del potere e quindi un conflitto di attribuzione può essere sollevato da qualsiasi
giudice. Per gli organi monocratici come il Presidente della Repubblica, il problema di individuare il
soggetto che ha legittimazione processuale non si pone.

Quale deve essere l’oggetto del conflitto?


Il conflitto deve essere con un altro potere dello Stato, non all’interno di uno stesso potere perché
altrimenti si sfocerebbe nel conflitto di competenza. Ad esempio, si può avere conflitto di attribuzione
tra giudice e Parlamento riguardo l’insindacabilità, tra il Presidente della Repubblica e il ministro della
Giustizia riguardo il potere di grazia. Vi è un’eccezione, enunciata ma mai realizzata, che riguarda il
conflitto sollevato da un singolo parlamentare contro la Camera di appartenenza. Il caso era relativo
alla legge di bilancio, che fu votata in tempi molto stretti e con una discussione praticamente
inesistente. Alcuni parlamentari, per questa ragione, denunciano la violazione del loro diritto di
presentare emendamenti e potere di discutere. La Corte ha dichiarato che il conflitto da parte di un
singolo parlamentare verso la Camera di appartenenza, pur essendo un conflitto all’interno dello
stesso potere, è ammissibile. Tuttavia in quel caso concreto non si intervenne perché dichiarare
incostituzionale la legge di bilancio sarebbe stato particolarmente grave per la tenuta dell’intero
ordinamento. L’oggetto del conflitto deve essere un’attribuzione di rilievo costituzionale, ossia deve
trovare nella Costituzione il suo fondamento.

Il conflitto di attribuzione può sorgere principalmente per due ragioni:


● usurpazione di poteri: si verifica quando un organo appartenente ad un potere ritiene che un
altro organo appartenente ad un altro potere abbia esercitato delle funzioni che non gli
spettavano, ma che spettavano a lui. Si parla in questo caso di vindicatio potestatis, in cui
entrambi i soggetti rivendicano per sè l’attribuzione ad emanare l’atto.
● menomazione del potere: si verifica quando un organo agisce nell’ambito dei suoi poteri ma,
agendo in modo illecito, impedisce ad un altro organo l’esercizio dei suoi poteri.

Come si porta in giudizio il conflitto di attribuzione?


Il conflitto sollevato passa al giudizio davanti alla Corte attraverso due fasi:
1. Il giudizio viene introdotto dal ricorso presentato dalla parte che si ritiene lesa direttamente dalla
Corte costituzionale, senza notificazione alla controparte, che deve contenere l’esposizione delle
ragioni del conflitto e l’indicazione delle norme costituzionali che regolano la materia. A questo
punto, la Corte costituzionale valuta l’ammissibilità del conflitto, ossia verifica se il conflitto sia
stato sollevato da un organo che aveva questo potere o no. Nel caso in cui il conflitto sia
ammissibile, si rinvia l'udienza ad un determinato giorno.
2. La sentenza che chiude il giudizio stabilisce a chi spetta la competenza. Nel caso in cui il conflitto
di attribuzione non sia fondato, l’atto di quel potere continua a sussistere. Qualora sia invece
fondato, la Corte dichiara l'appartenenza del potere oggetto di conflitto. In seguito a questo, la
Corte potrà annullare quegli atti che hanno impedito illecitamente l’esercizio del potere e dunque
è valevole erga omnes.

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III.CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE TRA STATO E REGIONI
I conflitti di attribuzione tra Stato e Regione sono lo strumento con cui vengono risolte le controversie
che sorgono tra Stato e Regione o tra Regioni. E’ fondamentale non confondere il giudizio di
legittimità costituzionale delle leggi in via principale in cui vi è l’impugnazione da parte dello Stato di
una legge regionale o di una Regione della legge statale, che fa parte del primo potere della Corte, e
gli eventuali conflitti di attribuzione tra Stato e regioni che riguardano atti non legislativi. Il conflitto
nasce di solito dall’impugnazione di un atto e il motivo dell’impugnazione è solitamente la
menomazione della competenza → vi è quindi una stretta connessione tra competenza e atto. La
violazione della competenza può derivare sia dall’invasione della sfera di attribuzioni sia dalla
menomazione. Anche in questo caso il conflitto è introdotto da un ricorso e condizione necessaria per
l’ammissibilità del ricorso è l’interesse a ricorrere, ossia il ricorrente deve dimostrare di aver subito
una lesione attuale e concreta della sua competenza. Tale requisito è richiesto sia allo Stato che alle
Regioni quando si intende sollevare un conflitto di attribuzione. La sentenza che decide il conflitto
dichiara a chi spetta la competenza, con conseguente eventuale annullamento dell’atto che ha
generato il conflitto. La sentenza dovrebbe avere effetto solo inter partes. Tuttavia se la Corte
stabilisce che la competenza in questione spetta alla Regione o allo Stato, le altre regioni, non interne
al conflitto, sono investite dagli effetti della sentenza? Se la decisione è favorevole alla Regione, le
altre beneficiano della sentenza, altrimenti no.

IV.GIUDIZIO DI AMMISSIBILITA’ DEL REFERENDUM ABROGATIVO


Il giudizio di ammissibilità è introdotto con l’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum che
dichiara la legittimità della richiesta di referendum. Ogni richiesta è oggetto di autonoma sentenza e la
Corte si limita a dichiarare ammissibile o inammissibile la richiesta.

L’art.75 della Costituzione pone dei casi di esclusione per il referendum:


● leggi tributarie
● leggi di bilancio
● leggi di amnistia e indulto
● leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali

La giurisprudenza ha poi ampliato la gamma di casi in cui una richiesta referendaria può essere
dichiarata incostituzionale:
- sono sottratti al referendum la Costituzione e le leggi costituzionali, le leggi rinforzate e le leggi a
contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo non può essere alterato senza
pregiudizio per i principi costituzionali oppure che disciplinano il funzionamento di organi essenziali
- sono inammissibili tutte le leggi che attengono alla manovra finanziaria e le leggi di esecuzione dei
trattati
- sono inammissibili i referendum il cui quesito non abbia una matrice razionalmente unitaria, ossia
non sia omogeneo

V. LA GIUSTIZIA POLITICA
Con giustizia politica si fa riferimento a quelle funzioni che la Corte costituzionale esercita quando
giudica sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, che può essere accusato solo
per alto tradimento o attentato alla Costituzione. In questi casi, il PdR viene messo in stato d’accusa
dal Parlamento in seduta comune con votazione a maggioranza assoluta. In caso di votazione
favorevole, il PdR viene poi giudicato dinanzi alla Corte costituzionale in composizione integrata.

L’amministrazione della giustizia


Il titolo IV della II parte della Costituzione è dedicato all’analisi del potere giudiziario e dell’organo in
cui esso si esplicita, ossia la magistratura. Si tratta di una delle parti su cui i giuristi si scontrarono
maggiormente e tra di essi spiccano anche importanti nomi come quello di Calamandrei e di Leone. Il
potere giudiziario nel disegno della Costituente fu investito da poche innovazioni rispetto al
precedente ordinamento. Su di esso durante il fascismo sono stati fatti numerosi studi e inchieste,
come in ogni regime in cui tutti i poteri vengono influenzati e intrisi dalle ideologie promosse, ma,
proprio per la tradizione del potere giudiziario italiano, almeno sul piano formale non ci fu quella
identificazione tra regime politico e istituzioni, come era avvenuto invece tra Governo e Parlamento.
Di conseguenza il disegno costituzionale in materia di potere giudiziario rimase abbastanza fedele
alla tradizione prefascista.

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Le due innovazioni fondamentali del nuovo disegno costituzionale sono:

1. accentuata autonomia e indipendenza della magistratura interna ed esterna: le norme


costituzionali in materia di ordine giudiziario sono tra quelle che più si preoccupano di garantire
sia l’indipendenza del potere giudiziario rispetto agli altri poteri e in particolare rispetto al potere
esecutivo (indipendenza esterna - il potere giudiziario non deve essere sottoposto a direttive a
condizionamenti da parte di altri poteri) sia l’indipendenza dei singoli giudici rispetto agli altri
appartenenti all’ordinamento giudiziario (indipendenza interna). L’ordinamento giudiziario non è
organizzato secondo criteri gerarchici e l’indipendenza del giudice è garantita dal principio di
legalità, secondo cui egli è sottoposto solo alla legge e non è soggetto ad altri, ad esempio,
superiori di grado.

2. Partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia: la Costituzione si apre


affermando che la giustizia è amministrata in nome del popolo italiano. Qual è il legame tra
principio della sovranità popolare e amministrazione della giustizia? E’ molto controverso. Vi sono
degli ordinamenti, come gli Stati Uniti, in cui la tradizione della partecipazione popolare
all’amministrazione della giustizia è molto radicale: il giudice in USA è solo un controllore, mentre
la decisione viene presa dalla Giuria, che non è togata. La tradizione europea e continentale e
soprattutto quella italiana dà generalmente poco spazio alla partecipazione popolare: la logica è
che la magistratura è un potere sottratto al principio di rappresentanza (i poteri di indirizzo politico
derivano la loro legittimazione dalla volontà popolare) e dunque al rapporto con la maggioranza
del corpo elettorale, trovando la sua legittimazione altrove, così come gli altri poteri di controllo
(PdR, CSM). Il potere giudiziario trova la sua legittimazione in un sapere tecnico, verificato da un
concorso che permette l’accesso alla magistratura, e in ragionamenti di stampo giuridico
svincolati dagli orientamenti politici promossi dai Governi. La decisione dei giudici è sempre
assunta e fondata sul diritto. Alla base della legittimazione del giudice e del suo provvedimento
c’è l’obbligo di motivazione: ogni provvedimento di un giudice deve essere motivato e questo
distingue la decisione di un giudice dalla decisione politica, che non deve essere motivata. La
legge che il Parlamento approva, ad eccezione delle relazioni e delle discussioni, non deve
essere giustificata con il motivo per cui è stata approvata, mentre ogni decisione del giudice è
radicalmente nulla se priva di motivazione perché è in essa che si coglie la ragionevolezza o
meno del percorso che ha condotto il giudice ad essa. La Corte d’Assise, giudice di primo grado
e competente in materia penale per i reati più gravi, prevede una componente di giudici non togati
che devono giudicare alla pari criminali che con i loro reati hanno incrinato il patto sociale. La
Corte d’Assise italiana è costituita da 2 giudici togati e da 6 giudici popolari. Sono processi molto
particolari perché non bisogna convincere un giudice ma delle persone. Esclusa questa
eccezione, sul piano costituzionale quindi, lo spazio per la giustizia amministrata direttamente dal
popolo è molto ristretto.

Dal precedente sistema costituzionale si è invece mantenuto il sistema del doppio binario.
Nell’ordinamento italiano, sin dalla nascita del Regno d’Italia, vi è una distinzione tra la giurisdizione
ordinaria e la giurisdizione amministrativa: il giudice ordinario si occupa dei diritti dei cittadini, mentre
la tutela degli interessi legittimi è affidata insieme a poche altre materie al giudice amministrativo, che
presiede i tribunali amministrativi regionali e il Consiglio di Stato). Si tratta di due giurisdizioni diverse,
che derivano dal sistema francese, in cui le cause che riguardano lo Stato hanno una sorta di
tribunale speciale. Questo sistema è rimasto in Costituzione, che, nel quadro del principio generale di
unità della giurisdizione, prevede comunque alcuni giudici speciali.

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LA MAGISTRATURA
La magistratura italiana è un unico ordine/potere. La giurisdizione ordinaria si ripartisce in due settori:
● giurisdizione penale: l’oggetto è un giudizio che mira ad accertare la fondatezza di una ipotesi
accusatoria che il PM formula nel momento in cui esercita l’azione penale nei confronti di un
soggetto. Il procedimento penale avviene nel seguente modo:
➔ vi è una notizia di reato (denuncia o altro) e sulla base di questa il PM intraprende l’azione
penale
➔ il PM è il soggetto titolare delle indagini, che vengono svolte attraverso la polizia giudiziaria
➔ una volta terminate le indagini ha due alternative:
➢ chiedere l’archiviazione di quella notizia di reato (solitamente quando non vi sono elementi
per portare i soggetti in processo)
➢ qualora ritiene che vi siano elementi da portare in giudizio, esercita l’azione penale.
➔ nella seconda fase, il giudice controlla che vi siano effettivamente gli elementi per esercitare
l’azione penale, dando inizio al vero e proprio processo. Il processo avviene davanti ad un
giudice terzo e in questa fase il PM ha il compito di dimostrare la sussistenza degli elementi
che conducono all’eventuale condanna e l’avvocato difensore dovrà difendere il soggetto che
è stato accusato. Il processo si conclude con la sentenza del giudice.

N.B. Chi agisce nel processo penale è dunque lo Stato perché i reati che vanno a danneggiare i
singoli sono visti come una rottura del patto sociale; di conseguenza l’interesse perseguito nei
processi penali non è solo quello di dare giustizia ai soggetti danneggiati, ma anche quello di
restaurare la pace sociale. Il danneggiato può, comunque, costituirsi nel processo come parte civile
per avere il risarcimento dei danni subiti.

● giurisdizione civile: giurisdizione che riguarda i rapporti tra privati, quindi la tutela giuridica dei
diritti tra privati o anche tra i privati e lo Stato, nel caso in cui la pubblica amministrazione leda un
diritto soggettivo di una persona. Qualora la pubblica amministrazione leda un interesse legittimo,
è compito del giudice amministrativo (tribunali amministrativi regionali e Consiglio di Stato)
risolvere la controversia. Il processo civile è molto diverso da quello penale: il primo ha sempre un
impulso di parte, non è lo Stato che agisce, ma è il singolo che si ritiene leso di un proprio diritto
che agisce (attore), chiamando in giudizio il soggetto colpevole di aver leso un suo diritto
(convenuto). Il meccanismo è diverso, così come l’interesse protetto. In alcuni casi, l’attore ha
sempre la disponibilità della sua azione e quindi ha la possibilità di abbandonare il giudizio;in
questo caso, purché l’altra parte sia d’accordo, il giudizio finisce. Nel processo penale invece
questo non è possibile in quanto non è la parte civile che decide di esercitare o meno l’azione
penale, ma lo Stato nella figura del PM, in quanto si persegue la difesa dell’interesse pubblico,
non del singolo soggetto danneggiato.

La magistratura ordinaria

A. I Magistrati con funzione giudicante


I giudici ordinari amministrano la giustizia civile e penale attraverso organi giudicanti e requirenti. Si
distinguono sulla base della competenza e del grado di esercizio delle loro funzioni all’interno di
quella specifica materia (alcuni giudici si occupano di cause più importanti, altri di cause minori, alcuni
dei giudizi di primo grado, altri di appello e altri di Cassazione). Partendo dal basso:

1. Giudice di pace: hanno competenze sia civili che penali, non però di grande gravità. Hanno
comunque un ruolo fondamentale nello svolgimento del contenzioso in materia conciliativa e sono
impiegati per reati che non conducono a pene detentive. Sono definiti giudici onorari in quanto
non devono superare il concorso ordinario della magistratura per entrare a far parte dell’ordine
giudiziario. Sono dunque cittadini italiani che per il prestigio acquisito e la cultura giuridica
maturata sono in grado di svolgere le funzioni di magistrato ordinario.

2. Tribunale: giudice di primo grado, a cui è attribuita la competenza per tutti i casi non
espressamente attribuiti ad altri giudici. Sono suddivisi in sezioni, penali e civili.

3. Corte d’Assise: giudice penale di primo grado competente per i reati più gravi (solitamente
crimini di sangue)

4. Corte d’Appello: giudice di 2° grado sulle sentenze dei Tribunali. Le decisioni dell Tribunale in 1°
grado possono essere impugnate presso la Corte d’Appello. N.B. Per il Giudice di pace, il giudice
d’appello è il Tribunale stesso.

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5. Corte di Cassazione: si tratta di un giudice sui generis → è un giudice che ha sede unica a
Roma, non è diviso nel territorio ed è diviso in sezione penale e sezione civile. Nell’ordinamento
occupa il ruolo di giudice di legittimità: non si tratta di un giudice di 3° grado, in quanto non
pronuncia giudizi uguali a quelli del Tribunale e della Corte d’Appello, ma ha come compito
fondamentale quello di verificare la corretta applicazione della legge. La competenza della
Cassazione si può riassumere con la formula Non è giudice del fatto, ma è giudice del diritto. Può
essere definito come l’organo di chiusura del sistema giudiziario a cui si affida una funzione molto
importante, detta funzione nomofilattica, che consiste nella risoluzione delle questioni
interpretative più controverse, al fine di indirizzare l’attività giurisdizionale degli organi giudicanti e
requirenti. Si tratta di una funzione di orientamento, in quanto il giudice di grado inferiore non è
obbligato a seguire l’interpretazione della Cassazione, che tuttavia ha un peso molto rilevante. La
Cassazione riveste dunque la funzione determinante di dare certezza al diritto. Nella Cassazione
è prevista una sezione, detta “Sezioni Unite”, che si occupa di risolvere i contrasti
giurisprudenziali all’interno della Cassazione stessa, cercando di mantenere un indirizzo
interpretativo.

B. I Magistrati con funzione requirente


Insieme ai giudici, ossia coloro che hanno funzione giudicante, esistono all’interno della magistratura
ordinaria altri magistrati, che esercitano funzioni di indagine. La funzione requirente è affidata ai PM,
organizzati in strutture diverse rispetto a quelle dei giudici.

I Pubblici Ministeri operano all’interno delle Procure:


● i PM che si occupano dei processi di 1° grado, e quindi delle indagini, operano presso le
Procure della Repubblica.
● i PM che si occupano dei processi di appello non svolgono più le indagini operano nelle
Procure Generali.

Come per il sistema dei magistrati con funzione giudicante, in cui sono previsti diversi tribunali
all’interno di un distretto di Corte d’Appello, all’interno della Procura vi sono diverse sezioni. Ogni
Procura ha all’interno un Procuratore capo così come esiste un Procuratore generale presso la
Cassazione e un Procuratore antimafia presso la Procura antimafia (Procura nata grazie all’iniziativa
di Falcone alla fine degli anni ‘80).

Le giurisdizioni speciali
Uno dei principi fondamentali della Costituzione è quello dell’unicità della magistratura, che consiste
nell’affidare l’amministrazione della giustizia ai giudici ordinari. La Costituzione vieta categoricamente
l’istituzione di nuovi giudici straordinari o speciali. Nella storia si trova un esempio di giudice
straordinario, istituito ad hoc a seguito della commissione di un fatto, ossia il Tribunale di
Norimberga. Si tratta di un tribunale creato dopo la IIGM per giudicare i crimini dei gerarchi nazisti.
Non era un giudice precostituito, ma in quel caso fu giustificato da una serie di ragioni, alla cui base vi
era una certa nobiltà che consisteva nel far giudicare i crimini nazisti da un tribunale e non
semplicemente fucilarli senza processo). Compito essenziale del Tribunale di Norimberga era quello
di affermare i crimini di guerra e crimini contro l’umanità che erano stati compiuti dal regime fascista.

La Costituzione italiana vieta totalmente i giudici straordinari.


Sono invece previsti giudici speciali dall’art.103 della Costituzione, che possono operare negli ambiti
da essa indicati, in quanto si attribuiscono loro quote di giurisdizione, sottratte ai giudici ordinari. I
giudici speciali previsti dalla Costituzione sono:
● giudice amministrativo, che è competente in materia di tutela degli interessi legittimi e dei diritti
soggettivi espressamente indicati dalla legge.
● Corte dei Conti, che ha una serie di competenze in materia di contabilità pubblica e si occupa
del modo in cui la pubblica amministrazione impiega i soldi pubblici. La Corte dei Conti, insieme al
Consiglio di Stato, ha delle peculiarità: oltre ad essere giudici speciali, sono anche organi
consultivi del Governo e in alcuni casi devono essere interpellati, come nel processo di
approvazione di un regolamento governativo. Sono organi che insieme hanno funzioni di tipo
amministrativo e funzioni di tipo giurisdizionale e si dividono in sezioni: le sezioni consultive, che
si occupano di dare consulenza al Governo e di partecipare all’amministrazione, e le sezioni
giudicanti che si occupano della giurisdizione nelle materie attribuite a questi organi.
● giudice militare, le cui competenze riguardano reati commessi da appartenenti alle forze armate.
● Commissioni tributarie, che si occupano del contenzioso tributario. Si tratta di un giudice
speciale non direttamente previsto dalla Costituzione ma che viene comunque salvato.

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La posizione costituzionale della magistratura ordinaria
Uno dei principi cardine della magistratura è il principio dell’indipendenza interna ed esterna. L’art.104
del testo costituzionale afferma che la magistratura costituisce un ordine autonomo e
indipendente da ogni altro potere. La magistratura è un ordine o un potere? Su questo tema si è
sempre sviluppato un ampio dibattito: alcuni sostengono che la magistratura sia un potere per
affermarne anche la sua piena autonomia, altri invece affermano che sia un ordine costituito da
funzionari pubblici al servizio dello Stato. L’autonomia della magistratura è garantita dalla previsione
del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di autogoverno della magistratura. Se non ci
fosse il CSM e non sussistesse una particolare protezione dell’autonomia della magistratura, le
decisioni sulle assunzioni, carriere, trasferimenti dovrebbero essere prese dall’amministrazione
ministeriale competente, quindi dal Ministero della Giustizia. Questo comporterebbe un’evidente
possibilità di condizionamento da parte del Ministero e quindi del Governo sull’esercizio della
giustizia. Il ministro della Giustizia si occupa della struttura, dei Tribunali, del personale
amministrativo, delle carceri, ma le decisioni riguardo lo status dei magistrati sono attribuite al CSM,
composto in maggioranza da magistrati stessi e dunque garante dell’autonomia rispetto agli altri
poteri.

L’indipendenza interna è garantita direttamente dalla Costituzione all’art.101, il quale afferma che i
giudici siano sottratti soltanto alla legge. Questa dichiarazione ha 2 significati:
● il giudice è sottratto alla legge
● il giudice non è soggetto ad altro che alla legge

Ciò pone un limite alla discrezionalità del giudice, non permettendogli di esercitare il suo potere in
modo non conforme alla legge, ma allo stesso tempo è garantito il principio di legalità, secondo cui il
giudice non è soggetto a nulla se non alla legge. Queste garanzie valgono sia per i giudici che per i
PM, ai quali la Costituzione attribuisce peculiari garanzie di autonomia previste dalla legge. Tale tutela
è indirettamente prevista anche da una norma molto discussa presente all’art.112 della Costituzione,
secondo cui vi è obbligatorietà nell’azione penale, riflesso dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla
legge. Ciò significa che il PM non può scegliere discrezionalmente se avviare o meno l’azione in base
al tipo di reato commesso, ma è tenuto a intraprendere la sua azione sempre e comunque in
presenza di una notitia criminis dotata di un certo fondamento. In questo modo la Costituzione vuole
evitare che l’attivazione della giurisdizione penale sia condizionata da scelte a favore di qualcuno o
contro qualcun altro, e quindi sia caratterizzata da imparzialità. Tuttavia i reati commessi sono molti
e risulta impossibile perseguirli tutti, quindi chi deve decidere contro chi muovere l’azione penale?
Spesso il potere politico interferisce in questo campo e quando ciò accade è molto pericoloso perchè
si tende a sconfinare in provvedimenti a vantaggio o a svantaggio di determinati soggetti.
L’indipendenza esterna è garantita dall’art.105 della Costituzione attraverso l’attribuzione al CSM i
provvedimenti afferenti la progressione in carriera e lo status dei magistrati.

L’autonomia e l’indipendenza della magistratura, sia quella interna che esterna, non è volta a creare
una casta che si autogestisce fuori da ogni controllo, ma nel disegno della Costituzione, è finalizzata
a garantire l’uguaglianza di fronte alla legge. Se la magistratura fosse influenzabile dal potere politico,
l’uguaglianza non si potrebbe tradurre in modo concreto. Il principio di indipendenza è dunque
strettamente connesso al principio di imparzialità: solo un giudice indipendente e libero da ogni
altro potere può essere equo.

Un’altra garanzia per i magistrati è data il principio della inamovibilità, secondo cui la sospensione,
la dispensa e il trasferimento del magistrato non possono che essere deliberati dal CSM o con il loro
consenso o per i casi di incompatibilità previsti dalla legge di ordinamento giudiziario. La legge
prevede che i magistrati che siano trasferiti o sospesi senza il loro consenso possano in
contraddittorio far valere le loro ragioni davanti al CSM.

Una garanzia a tutela questa volta dei cittadini rispetto al potere giudiziario e al suo esercizio è
l’imparzialità e il principio della precostituzione del giudice per legge. Tale principio consiste nel
fatto che un cittadino non possa essere giudicato da un giudice creato dopo la commissione di un
determinato fatto, ossia da un giudice straordinario. E’ inoltre importante il principio inviolabile del
diritto alla difesa, che prevede che ciascuno possa agire in giudizio per tutelare i propri diritti o
interessi legittimi sia nei confronti di privati che dello Stato e all’interno di un giusto processo, in cui vi
sia contraddittorio tra le parti e che sia presieduti da un giudice terzo e imparziale rispetto alla
fattispecie concreta.

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L’accesso alla magistratura
L’art.106 del testo Costituzionale stabilisce che per accedere alla magistratura è necessario superare
un concorso pubblico. Vinto il concorso, si è nominati uditore giudiziario e inizia un tirocinio.

Il Consiglio Superiore della Magistratura


Nel disegno costituzionale, la magistratura viene individuata come un potere autonomo e
indipendente, che ha il compito di risolvere i conflitti tra i singoli e i singoli e lo Stato. Di conseguenza,
la distanza tra la magistratura e il potere politico deve essere massima, soprattutto rispetto al
Governo che non deve influenzare l’operato dei singoli magistrati. L’organo deputato a garantire tale
indipendenza è il Consiglio superiore della Magistratura, istituto a cui è attribuito il potere giudiziario.

Il CSM non ha funzioni di natura giurisdizionale: è un organo che svolge:


● funzioni amministrative: si occupa delle assunzioni dei magistrati, dei trasferimenti,
dell’organizzazione dei tribunali, delle promozioni. Sono funzioni molto delicate soprattutto se
attribuite a organi di tipo politico.
● organo di autogoverno della magistratura: è composto prevalentemente da magistrati
ordinari e svolge la funzione di garanzia di indipendenza della magistratura ordinaria rispetto
ad altri poteri.
● potere disciplinare: tutti i dipendenti pubblici sono sottoposti ad un potere disciplinare. Nella
logica di non avere pressioni esterne, questo potere viene attribuito al CSM, in particolare alla
sezione disciplinare che giudica i magistrati soprattutto qualora il loro comportamento leda il
prestigio della magistratura.
● funzioni consultive e attività paranormativa a favore del Governo soprattutto per leggi che
vanno ad interessare l’apparato giudiziario.

Il CSM presenta una composizione mista, a maggioranza di magistrati:


● 3 membri di diritto: Presidente della Repubblica, che presiede il CSM ma non partecipa
direttamente alle sue funzioni, il primo Presidente della Corte di Cassazione e il Procuratore
generale della Corte di Cassazione
● ⅔ dei membri sono magistrati ordinari
● ⅓ dei membri sono professori universitari o avvocati eletti dal Parlamento in seduta comune
(membri laici).

Responsabilità dei magistrati


Il tema della responsabilità dei giudici pone una serie di questioni delicate, in quanto un magistrato
può fare danni molto gravi non adempiendo ai suoi doveri in maniera opportuna. Il mestiere del
giudicare è sempre poi legato ad una grande difficoltà per il fatto che il giudice deve ricostruire ex
post i fatti del passato. Il sistema come reagisce a questo rischio? Si cerca di rimediare a questa
possibilità permettendo, attraverso i diversi gradi di giudizio, di rivedere le sentenze sia con ricorsi
interni che con ricorsi sovranazionali.

Quando un giudice è responsabile? Si distinguono 3 tipi di responsabilità:


- disciplinare: la valutazione è attribuita al CSM, che giudica gli eventuali illeciti dei giudici ordinari
che possono ledere il prestigio della magistratura. Questo tipo di giudizio si può concludere con
una sanzione disciplinare
- civile: in ogni caso civile ci sono due parti e il giudice chiamato a giudicare fa un torto ad una
delle due parti. Se vi fosse una normale responsabilità del giudice, ogni giudizio modificato in
secondo grado potrebbe portare la parte soccombente in primo grado a chiedere i danni. Con un
fardello del genere nessuno farebbe il giudice perché il rischio professionale sarebbe enorme e il
giudice sarebbe orientato a favorire la parte più forte. Tuttavia eliminare qualsiasi tipo di
responsabilità civile comporterebbe che alcuni danni anche molto gravi alle persone rimarrebbero
impuniti. La legge del 13/1988 prevede la responsabilità civile per i magistrati solo per il dolo e
per la colpa grave. Per evitare un eccesso di condizionamento dei giudici, si prevede che la parte
lesa chieda il risarcimento dei danni non al giudice stesso ma allo Stato, che deve risarcire il
danneggiato e successivamente rivalersi sul giudice, in modo tale da garantire la genuinità del
giudizio. Tutto si basa sul principio secondo cui più il magistrato è libero, più giudicherà secondo
coscienza
- penale: i magistrati rispondono come tutti i cittadini dei reati commessi, sia nell’esercizio delle
loro funzioni sia al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni.
N.B. il giudizio civile o penale è affidato ad altri giudici come per tutti gli altri cittadini, ma non a giudici
dello stesso distretto.

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UNIONE EUROPEA
Questo progetto ha una sua prima tappa con la creazione nel 1951 della Ceca, Comunità europea del
carbone e dell’acciaio. Carbone e acciaio erano molto fondamentali per lo sviluppo economico e
militare dei vari Stati ed erano una delle ragioni dello scontro tra Francia e Germania, che si
contendevano l’Alsazia, regione molto ricca di giacimenti di carbone e al confine tra i due Paesi. La
politica militare invece si basava sull’acciaio: fu proprio la capacità delle acciaierie tedesche di
produrre armi in grande quantità che garantì i grandi successi di Hitler nella prima fase della guerra.
Nel 1957 venne firmato il Trattato di Roma, che sancì la nascita della CEE, Comunità Economica
Europea, e dell’Euratom, istituzione che si occupava di energia atomica. Questo passaggio segna il
vero inizio della formazione dell’Unione europea, che ha alcune caratteristiche che la differenziano da
qualsiasi altro progetto simile. In primo luogo si parla di progressiva creazione dell’unità europea:
la storia dell’UE è caratterizzata da un’evoluzione lenta e anche accidentata, con momenti di
maggiore slancio che si alternano a periodi di crisi; nonostante ciò si trattò sempre di un’evoluzione
ininterrotta, tanto che recentemente sono state pronunciate nuove consultazioni per la modifica dei
Trattati e l’ulteriore rafforzamento del processo di unità europea. L’UE quindi non nasce in un
determinato momento per poi fermarsi, come è tipico delle organizzazioni internazionali (l’ONU nasce
nel ‘48 e rimane uguale).

Ci sono alcuni passaggi fondamentali che portano alla situazione attuale:


● 1979 - elezione a suffragio universale del Parlamento europeo: fu un evento di grande rilievo
perché si tratta della prima volta in cui i cittadini di uno Stato eleggono direttamente un organo
legislativo di un organismo sovranazionale. Nel resto del mondo i cittadini votano per le
Assemblee dello Stato o degli enti territoriali minori, ma mai per organismi sovranazionali. L’UE è
l’unico caso in cui viene attribuita ai cittadini dell’Unione l’elezione diretta dei rappresentanti di un
organo fondamentale come il Parlamento europeo. Ciò segna un passaggio che avvicina l’UE alla
conformazione di uno Stato senza che lo sia.
● 1992 - Trattato di Maastricht: nasce una struttura molto complessa tripartita, superata poi dal
Trattato di Lisbona, vengono attribuite nuove funzioni all’UE, viene tracciato il cammino per
l’unificazione economica, inizia il processo che condurrà all’introduzione della moneta unica,
l’Euro, e nasce un concetto molto significativo sul piano costituzionale, ossia quello di
cittadinanza europea. Il concetto di cittadinanza è molto legato allo Stato nazionale e
tendenzialmente è un concetto di unicità (sono molto rari i casi di doppia cittadinanza), ossia
solitamente ad ogni persona corrisponde una cittadinanza di un solo Stato. La cittadinanza
europea, invece, istituzionalmente si somma e non elimina la cittadinanza precedente: si è
cittadini europei proprio perché si è anche cittadini di uno Stato dell’UE. Si tratta di una grande
novità, in quanto vengono smontate tutte quelle concezioni rigide del rapporto tra Stato e cittadino
come rapporto unitario che caratterizza lo Stato moderno. Oltre a questo, vengono legati al
concetto di cittadinanza alcuni diritti del cittadino europeo che possono essere esercitati in
qualsiasi Stato dell’UE.
● 2000 - Trattato di Nizza: si introduce la Carta dei Diritti dell’UE, con la quale si codificano i diritti
che fanno parte della tradizione costituzionale europea e che si esplicitano nelle libertà garantite
da tutti gli ordinamenti dell’Unione. Tuttavia è rilevante che, nel passaggio da una Comunità
economica a una Comunità politica, si senta il bisogno di scrivere in un unico documento i diritti
fondamentali dell’UE. Tale Carta nasce nel 2000 come puro documento politico privo di valore
giuridico. Con il trattato di Lisbona questa carta viene incorporata nei Trattati e diviene quindi
giuridicamente vincolante.
● 2004 - Trattato costituzionale europeo: fu evocata per la prima volta la parola “Costituzione”,
che rimanda anche ad una certa stabilità politica e dunque ad una prospettiva allo Stato federale.
Questo Trattato modificava anche in modo importante l’assetto dell’UE, cambiando molti principi
tra cui il principio di maggioranza nelle decisioni del Consiglio, che toglievano il potere di veto in
campi importanti agli Stati che erano contrari ad un determinata legislazione. I Trattati, per essere
approvati, devono essere ratificati in tutti gli Stati e il Trattato costituzionale europeo fu sottoposto
in alcuni Stati dell’Unione a Referendum, come in Francia, dove, per motivi di politica interna,
venne bocciato dai cittadini. Quindi il processo di costituzionalizzazione anche formale dell’UE,
forse troppo accelerato, non è riuscito ed ha condotto ad un Trattato meno ambizioso, ossia il
Trattato di Lisbona che è il primo ed unico esempio fino ad ora del processo di integrazione
comunitaria.
● 2007 - Trattato di Lisbona: è il punto di arrivo per i trattati istitutivi dell’UE. Entra in vigore nel
2009 e disciplina l’Unione Europea ancora oggi.

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Ogni Trattato integra i trattati precedenti creando nuove fonti: attualmente l’UE è disciplinata da 2
Trattati fondamentali:
● TUE: Trattato sull’Unione Europea
● TFUE: Trattato sul funzionamento dell’UE
Questi due Trattati disciplinano i poteri, gli organi, i diritti e le procedure per arrivare ad approvare il
diritto dell’UE.

Forma di governo dell’UE


L’organizzazione comunitaria si articola in una pluralità di organi politici e giurisdizionali che hanno
fonti di legittimazione diverse e poteri diversi:
● Consiglio europeo: è composto dai Capi di stato o di Governo di ciascuno Stato membro, dal
Presidente della Commissione Europea e dal Presidente del Consiglio europeo. Quest’ultimo è
eletto a maggioranza qualificata, la sua carica dura circa 2 anni e mezzo e non può ricoprire
cariche nazionali. Il Consiglio europeo ha la funzione di definire gli orientamenti politici generali
dell’UE, ma è privo di poteri normativi propri. Si riunisce molto frequentemente in quanto è in esso
che i capi dell’esecutivo dei vari Stati decidono quali devono essere le politiche dell’Unione nei
mesi e negli anni successi: non approvano leggi, ma definiscono gli indirizzi. Quando c’è da
prendere una decisione importante in primo luogo si riunisce il Consiglio europeo che definisce
l’indirizzo della deliberazione e dopo il Consiglio, ossia l’organo che detiene il potere legislativo,
che prenderà le decisioni concrete

● Consiglio dell’Unione europea: è composto da un rappresentante per ogni Stato, componente


del Governo, in relazione alla materia trattata, o in alcuni casi dai Capi di Stato di Governo ed è
presieduto, a turno, da ciascuno dei suoi componenti per un periodo di 6 mesi. Il Consiglio
condivide con il Parlamento la funzione legislativa. Per la gran parte delle materie o affinchè sia
approvato un regolamento o una direttiva è necessario l’accordo, quindi il voto favorevole, sia del
Consiglio che del Parlamento europeo. Uno dei temi su cui si è sempre maggiormente discusso
sono le maggioranze che sono richieste in Consiglio perché l’atto passi. Per molto tempo si
chiedeva l’unanimità, cosa che rende molto difficile il processo legislativo e facilita il ricatto da
parte di alcuni Stati (oggi è richiesta ancora solo per poche e specifiche materie). La regola
generale attuale consiste nel principio di maggioranza rafforzata, ossia la maggioranza degli Stati
e la maggioranza della popolazione europea. Il Consiglio è coadiuvato nell’esercizio delle sue
funzioni dal Comitato dei Rappresentanti Permanenti, organo composto dai rappresentanti
permanenti degli Stati membri, incaricato di preparare i lavori del Consiglio e di sottoporre al suo
esame gli atti da deliberare

● Commissione europea: mentre il Consiglio esprime gli interessi degli Stati e il Parlamento
esprime l’interesse dei popoli europei, la Commissione esprime gli interessi dell’Unione. E’
composta da 27 membri indicati dai singoli Stati, i quali durano in carica 5 anni, sono scelti in
base alle loro competenze generali e alle garanzie di indipendenza offerte. Il Commissario
indicato dal singolo Stato infatti, dopo aver superato il processo di controllo da parte del
Parlamento europeo, non rappresenta più lo Stato, ma persegue gli interessi generali dell’Unione
(per l’Italia Gentiloni - Commissario all’economia). Tra le funzioni della Commissione vi è quella di
dare attuazione ai Trattati e alla legislazione europea; è l’unico organo che ha il potere di
iniziativa legislativa, in quanto i progetti che conducono a una normativa o ad una direttiva
devono essere proposti necessariamente dalla Commissione, non dal Parlamento europeo o dal
Consiglio. La Commissione è poi “custode” dei Trattati e ha poteri rilevanti nel caso in cui i singoli
Stati membri non li rispettino: dà il via alle procedure di infrazione, ossia quelle procedure che
possono condurre a sanzioni gravose a carico di quegli Stati che non diano esecuzione alle
direttive europee nei tempi stabiliti oppure, in materia economica, che non rispettino le regole dei
Trattati per quanto riguarda il deficit, il debito pubblico, ecc. Si occupa inoltre della gestione dei
finanziamenti comunitari, stabilendo l’ammontare dei finanziamenti stanziati dalla Comunità per le
esigenze di sviluppo economico, occupazionale, e formativo degli Stati membri e la loro
ripartizione ai singoli Stati. La Commissione è quindi l’organo motore dell’UE ed è colui che è
deputato al controllo della legalità comunitaria.

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● Parlamento europeo: organo politico formato dai rappresentanti dei cittadini dell’Unione, eletti in
ciascuno Stato per cinque anni, a suffragio universale e diretto. Ogni Stato ha un numero di
rappresentanti proporzionale alla popolazione. Una volta eletti a livello nazionale, i parlamentari
europei non si dividono secondo un criterio di appartenenza statale, ma per appartenenza
politica; al Parlamento europeo, quindi, ci sono i vari gruppi che rappresentano le grandi famiglie
politiche europee. La logica del Parlamento europeo è una logica politica che si nota anche nel
rapporto di fiducia che intercorre tra il Parlamento europeo e la Commissione. Il Parlamento
europeo ha poteri di controllo sulla Commissione che si esplicitano soprattutto nel voto di fiducia
del PE alla Commissione e al Presidente, ma anche nella possibilità di approvare a maggioranza
qualificata una mozione di censura nei confronti della Commissione, costringendola alle
dimissioni. Si crea, quindi, tra Parlamento europeo e Commissione il rapporto fiduciario che vi è
tipicamente tra Governo e Parlamento nelle forme di governo parlamentari. Il Parlamento
europeo nasce poi come un organo meramente consultivo, ossia un organo senza poteri
legislativi reali; progressivamente ha però aumentato il proprio ruolo diventando un co-legislatore
con il Consiglio: per quasi tutte le materie, il potere legislativo è condiviso tra il Parlamento e il
Consiglio, andando a formare una sorta di bicameralismo, in cui una Camera è rappresentativa
dei popoli dell’Unione e l’altra degli Stati dell’Unione. Il PE risponde inoltre alle petizioni dei
cittadini comunitari e nomina un Mediatore, chiamato ad indagare sui casi di cattiva
amministrazione delle istituzioni comunitarie, denunciati dagli stessi cittadini.

● Corte di Giustizia: organo supremo giurisdizionale europeo, ha una serie di funzioni


fondamentali soprattutto per quanto concerne l’interpretazione dei Trattati e della normativa
europea e ne garantisce l’osservanza. E’ composta da tanti giudici quanti sono gli Stati membri e
ha il compito di giudicare sulle violazioni del diritto comunitario, commesse dagli Stati membri o
dalle istituzioni europee e sulla legittimità degli atti normativi comunitari La Corte di Giustizia si
può rivolgere al Giudice nazionale nel momento in cui ritiene di avere dei dubbi riguardo
all’interpretazione delle norme europee e ha anche una funzione di unificazione del diritto
europeo. Una volta che la Corte di giustizia afferma una data interpretazione del diritto, tutti i
giudici nazionali devono seguire tale orientamento. La Corte di Giustizia può poi disporre una
procedura di impugnazione sui ricorsi contro le sentenze del Tribunale di primo grado.

● Banca Centrale europea: è un organo indipendente, costruito in assonanza alle Banche


nazionali che ha poteri particolarmente rilevanti per quanto riguarda la politica monetaria, ma più
in generale la politica economica.

● Corte dei Conti: è l’organo di controllo contabile dell’UE, chiamata ad esaminare le entrate e le
spese della stessa e degli organi da essa creati

● Comitato economico e sociale: è l’organo consultivo del Consiglio, della Commissione e del
PE. E’ composto dai rappresentanti delle diverse categorie economiche e sociali ed esprime i
suoi pareri obbligatoriamente, nei casi previsti dal Trattato o di propria iniziativa

● Comitato delle Regioni: è un organo consultivo delle istituzioni europee. E’ composto dai
rappresentanti delle collettività regionali e locali, delle quali esprime le istanze a livello
comunitario. Il Comitato è consultato obbligatoriamente dalle istituzioni comunitarie, nei casi
previsti dal Trattato o su loro richiesta.

I principi alla base dell’organizzazione comunitaria


Le attribuzioni dell’UE sono quelle espressamente previste dai Trattati: sono specifiche e funzionali al
raggiungimento di determinati obiettivi. La tassatività delle attribuzioni può essere temperata affinché
l’UE possa esercitare i poteri necessari alla realizzazione degli scopi del Trattato (principio di
autointegrazione del diritto comunitario) o nel caso in cui, per il principio dei poteri impliciti,
l’attribuzione di una certa competenza comporti anche quella del potere di adottare tutte le misure
necessarie per il suo esercizio efficace ed adeguato. L’UE inoltre, per il principio di proporzionalità,
deve fare uso solo dei mezzi strettamente necessari agli obiettivi da realizzare, ricorrendo a misure
proporzionate ai risultati da raggiungere e non eccessivi rispetto ad essi. Nel caso di competenze
concorrenti tra UE e Stati membri, l’intervento della prima è ammesso solo se l’obiettivo dell’azione
comunitaria non possa essere raggiunto con i soli strumenti dello Stato nazionale (principio di
sussidiarietà). Inoltre, è previsto che gli Stati membri cooperino con le istituzioni dell’UE per il
raggiungimento degli obiettivi, rispettando quanto previsto dai Trattati (principio di leale
cooperazione).

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Le fonti dell’Unione europea
La distinzione fondamentale da attuare nel sistema delle fonti europee è quella tra:
● fonti originarie: sono i Trattati che hanno dato vita all’UE e hanno poi modificato gli organi e le
competenze dell’Unione. In essi sono disciplinati gli organi dell’Unione e i loro poteri normativi,
che si esprimono attraverso le fonti derivate. In verità, essi non sono vere e proprie norme
comunitarie, ma sono Trattati internazionali sottoscritti dagli Stati membri dell’UE che
attribuiscono poi competenze all’Unione. Non si può parlare di atti dell’UE in quanto quest’ultima
ancora non esisteva, ma sono stati stipulati da Stati che decisero di limitare la propria sovranità a
favore di un’organizzazione superiore. Non è inusuale definire i Trattati come “Costituzione”
dell’UE, in quanto effettivamente si tratta di una fonte sovraordinata al diritto derivato e a garanzia
del loro rispetto vi è un organo specifico, ossia la Corte di giustizia dell’Unione Europea. Il
carattere costituzionale dei Trattati è ancor più marcato dopo l’inclusione in essi della tutela dei
diritti fondamentali, esplicitati nella CEDU. In questo senso la Corte di giustizia europea ha un
ruolo assimilabile a quello della Corte Costituzionale.

● fonti derivate: sono i veri e propri atti giuridici dell’UE. Si distinguono innanzitutto in:
❖ atti non vincolanti: sono le raccomandazioni dell’UE, ossia gli inviti rivolti agli Stati a
conformarsi ad un certo comportamento, e i pareri, che ogni organo dell’UE può emanare.
Essi non costituiscono degli obblighi, ma svolgono una funzione di guida per l’interprete.
❖ atti vincolanti: sono atti normativi a tutti gli effetti e si distinguono in 3 tipi:

➢ regolamenti UE: è l’atto principale o comunque il più forte riguardo gli effetti che l’UE può
produrre sulle politiche interne degli stati membri. Un regolamento approvato dagli organi
dell’UE in primo luogo ha una portata generale e astratta; possiede diretta applicabilità,
ossia non vi è necessità di un intervento da parte del legislatore nazionale per l’esecuzione
di quanto previsto dal regolamento, in quanto l’applicazione di quest’ultimo è obbligatoria in
ogni sua parte e in tutti gli Stati membri. E’ da questo che derivano i possibili contrasti tra i
regolamenti UE e le politiche interne degli Stati europei.

➢ direttive UE: sono atti normativi che hanno come destinatario gli Stati membri, e dunque
non tutti i soggetti giuridici dell’Unione. Attraverso l’approvazione di una direttiva, il
legislatore europeo impone agli Stati membri di raggiungere un determinato obiettivo in uno
specifico periodo di tempo, lasciando però discrezionalità sulle modalità e i mezzi
attraverso cui si raggiunge quel risultato. L’UE pone le finalità con la direttiva, che per
applicarsi ha bisogno di essere recepita nella normativa nazionale. Con il regolamento l’UE
esercita un potere di maggiore uniformazione del diritto europeo, mentre la direttiva
incentiva i singoli Stati a mettere in atto dei provvedimenti sulla base delle norme del
proprio ordinamento, quindi con legge, regolamento o con comportamenti
dell’amministrazione pubblica che portino ad un adempimento corretto del fine imposto
dall’UE. Nei fatti vi sono direttive spesso così dettagliate che assomigliano a dei
regolamenti: in questo caso si parla di direttive dettagliate e il legislatore nazionale riporta
la direttiva europea nella legislazione nazionale.

➢ decisioni UE: sono atti che assomigliano almeno nella struttura più a un atto di tipo
amministrativo che a un atto legislativo. Sono obbligatorie in tutti i loro elementi e sono
direttamente applicabili; tuttavia a differenza dei regolamenti hanno portata particolare,
ossia si rivolgono a soggetti specifici, che possono essere o uno Stato membro o una
determinata persona giuridica.

L’Italia e l’Unione Europea


Aderendo all’Unione europea, l’Italia ha accettato le condizioni di appartenenza fissate dal Trattato e
in particolare il fatto che le leggi europee entrassero direttamente nel proprio ordinamento, andando
di riflesso a limitare la sovranità dello Stato italiano in favore di un’organizzazione sovranazionale
come l’UE. La progressiva estensione dell’area di competenza dell’UE in materia economica e di
politica estera, hanno segnato un’estensione impressionante della limitazione di sovranità subita dagli
Stati membri. Negli altri Stati europei, l’adesione alla Comunità europea è stata accompagnata da
riforme costituzionali, cosa che invece in Italia non è avvenuta. Quali sono dunque le fonti
nell’ordinamento italiano che legittimano l’adesione dell’Italia all’UE? L’art.11 della Costituzione
consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni. Inizialmente tale disposizione non era
certamente rivolta all’adesione dell’Italia all’UE, ma alla sua partecipazione a organizzazioni
internazionali come l’ONU, che avrebbero dovuto garantire la pace nei decenni successivi.

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Tuttavia, l’art.11, prescindendo dalla sua iniziale destinazione, dà legittimazione alla cessione di una
parte della sovranità nazionale per aderire alla Comunità europea. Del resto, ciò rispecchia la natura
anti sovranista della Costituzione e della Repubblica italiana. L’art.11, però, non pone una vera e
propria disciplina dei rapporti tra l’ordinamento italiano e quello europeo.
Nel 2001, con la riforma del titolo V della Costituzione in riferimento alle Regioni. è stata introdotta
una nuova norma che per la prima volta nomina espressamente l’UE nel testo costituzionale, ossia
art.117 I comma. Esso afferma che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel
rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

Diritto europeo e diritto italiano


Cosa succede se una medesima materia è disciplinata da norme interne e norme europee?
In un primo momento, la Corte costituzionale, per risolvere le antinomie tra le leggi interne ed
europee, ha applicato il criterio cronologico, per il quale i contrasti si sarebbero dovuti risolvere
secondo le regole della successione delle leggi nel tempo (le norme più recenti abrogano quelle più
datate). Tuttavia questo metodo non era approvato dalla Corte di Giustizia, che spingeva per la
preponderanza assoluta del diritto europeo sul diritto interno e non poteva contemplare che una legge
italiana potesse abrogare una legge europea. Di conseguenza, iniziò ad essere applicato il criterio
gerarchico, secondo cui le leggi italiane che contrastavano con i regolamenti dell’UE dovevano
essere impugnate davanti alla Corte Costituzionale per violazione indiretta dell’art.11 della
Costituzione. Tuttavia anche questo metodo presentava diverse problematiche. La stessa Corte
costituzionale ha dichiarato che le norme europee prevalgono anche sulla Costituzione: nel momento
in cui il diritto europeo disciplini legittimamente determinate materie, prevale anche in questo caso il
diritto dell’Unione sul diritto costituzionale, con una sola eccezione, ossia quella dei principi
fondamentali. Nel caso in cui il diritto europeo violi un principio supremo del nostro ordinamento o
vada ad intaccare il nucleo essenziale dei diritti inviolabili della persona garantiti dalla Costituzione,
solo in quel caso prevale il diritto costituzionale sul diritto europeo. Tale teoria è stata definita dai
giudici costituzionali “Teoria dei controlimiti”. La Corte costituzionale può dunque dichiarare
incostituzionale la norma interna che ha consentito l’accesso di quella norma europea.

LO STATO REGIONALISTA
Perché lo Stato italiano nel 1946 sente l’esigenza di trasformarsi in uno Stato regionale?
Il disegno costituzionale del 1948 aveva previsto uno Stato regionale e autonomista, basato su
Regioni dotate di autonomia politica (art.114 Cost.), autonomia legislativa e amministrativa
(art.117-118 Cost.) e autonomia finanziaria (art.119 Cost) con l’obiettivo, tipico del costituzionalismo
novecentesco, di dividere i poteri, non solo sul piano orizzontale, ma anche sul piano verticale.
Emerge dunque anche in riferimento al regionalismo la paura del tiranno, che domina lo scenario
costituzionale del secondo dopoguerra.

Lo Stato regionale
In contrapposizione allo Stato federale si pone lo Stato regionale, a cui appartiene anche
l’ordinamento costituzionale italiano.
Lo Stato regionale ha alcune caratteristiche fondamentali:
● riconosce il valore della autonomia dei territori: la scelta delle Costituzioni è quella di attribuire
funzioni amministrative e legislative ai territori proprio perché le decisioni assunte da organi
eletti nel territorio e quindi vicini alla popolazione locale possono essere più efficaci rispetto a
quelle prese a livello statale. L’autonomia delle Regioni deriva dunque dallo Stato e per
questo spesso vi sono numerosi controlli statali sull'esercizio dell’autonomia.
● la divisione dei poteri anche su scala territoriale costituisce una garanzia per la tutela dei
diritti individuali, sempre il concetto della paura che il potere si espanda andando a sacrificare
i diritti inviolabili dei cittadini.

Sono molte le ragioni che spingono a rafforzare le autonomie locali: si tratta di un processo avvenuto
anche fuori dall’Italia sia in Stati federali sia in Stati che invece avevano una tradizione fortemente
centralistica. Un esempio importante è la Francia, che ha sempre avuto un’amministrazione centrale
molto forte e centralizzata, ma, nonostante questo, è stata investita da processi che hanno ampliato il
ruolo delle autonomie territoriali.

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Evoluzione del regionalismo italiano
La materia regionale è stata l’unica materia oggetto di un un profondo processo di riforma
costituzionale che abbraccia un arco di tempo di 70 anni, che è culminato con la riforma radicale del
titolo V della II parte della Costituzione. Il testo costituzionale rivela una certa prudenza nei confronti
di un fenomeno totalmente nuovo, come quello del regionalismo: lo Stato italiano liberale e unitario
fino alla II GM non conosceva la tradizione regionale, in quanto il cuore pulsante a cui si sentivano
legati i cittadini erano le singole città. Si tratta di un senso di appartenenza acquisito dalla storia e
dallo sviluppo dei comuni medievali, che caratterizzano in maniera importante l’evoluzione
dell’ordinamento italiano. Tutto ciò ha portato ad un primo disegno costituzionale in cui la funzione
delle Regioni non era del tutto chiara: da un lato veniva attribuita alle Regioni la potestà legislativa in
alcune materie che erano materie previste espressamente dalla Costituzione all’art.117 (erano
elencate le materie di competenza regionale, mentre tutte le altre erano di competenza statale), ma
dall’altro si trattava di una competenza solo concorrente, secondo la quale alle Regioni era attribuita
la normativa di dettaglio, mentre i principi generali erano di origine statale. Per come si è evoluto il
nostro regionalismo vi è stato un lungo periodo di inattuazione costituzionale, ossia il processo di
nascita del regionalismo dipende da una serie di fattori storici:
● spinta di alcune specifiche regioni ad avere una forte autonomia: sono quelle regioni che
hanno un regime particolari, le cosiddette regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle
d’Aosta, Trentino, Friuli), luoghi in cui ci furono delle forti spinte autonomiste e in alcuni casi
separatiste. Ad esempio, dopo la II GM in Sicilia ci fu un forte movimento separatista che
mirava a legare la Sicilia agli Stati Uniti (fenomeno di emigrazione negli USA, furono liberati
molto presto dagli americani nella II GM), si voleva creare una sicilia separata dall’Italia e
legata ad un’alleanza forte con gli Stati Uniti; in Alto Adige ci furono movimenti separatisti
anche molto violenti. Ancora prima della Costituzione, tali regioni si dotano di Statuti che
riconoscono la loro posizione particolarmente forte

All’Assemblea costituente si decise di avere un doppio regime:


● regime delle Regioni a statuto speciale, che avevano un proprio statuto che prevedeva le
competenze delle singole Regioni
● regime ordinario per le altre 15 Regioni

Tuttavia nei 20 anni successivi, mentre le Regioni a statuto speciale iniziarono ad esercitare la loro
autonomia, per le Regioni a statuto ordinario vi fu una paralisi: il Parlamento non approvò quelle leggi
che avrebbero consentito l’entrata effettiva in vigore degli organismi regionali e quindi delle Regioni,
impedendo loro di iniziare a funzionare. Le ragioni di questa paralisi sono particolari: il partito che era
più regionalista in AC, ossia la DC, che più spingeva anche per la tradizione del pensiero cattolico e
sociale, ad una massima auto amministrazione dei territori, si trovò dopo le elezioni del 1948
solidamente al potere a livello centrale, tanto che rimase per i 40 anni successivi il primo partito
italiano. Mentre si vide che la forza del partito comunista e delle sinistre era concentrata in alcune
aree del territorio, soprattutto nel centro. Di conseguenza la DC, che era regionalista, fece forte
ostruzionismo per evitare che le sinistre potessero governare quei territori. Quando negli anni ‘70 si
diede attuazione alle norme costituzionali con una serie di leggi e decreti, l’idea di regionalismo che si
affermò fu un’idea di regionalismo diverso rispetto a quello pensato all’AC. Si diede relativamente
poco spazio alla potestà legislativa delle Regioni: le Regioni non avevano effettivamente la possibilità
di avere indirizzi politici molto diversi rispetto a quello del Governo centrale, ma si attribuì alle Regioni
soprattutto una funzione di tipo amministrativo.

L’idea era che lo Stato dovesse dare le regole e le Regione amministrare, idea che è emersa in una
delle riforme più importanti in cui venne coinvolto l’ordinamento regionale, che è stata la riforma del
Servizio sanitario nazionale del 1978, in cui le linee guida del servizio sanitario restano allo Stato ma
l’amministrazione progressivamente viene attribuita alle Regioni. Con gli anni ‘90, anni in cui c’è stato
un cambiamento radicale anche per la crisi del sistema politico che era stato dominante per 40 anni
(tangentopoli: i partiti che avevano fatto la Costituente si sono dissolti, come il partito socialista, e altri
si sono trasformati), sono sorte forze politiche nuove: alcune nascono con un’impronta
fortissimamente separatista, se non federalista (Lega).

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Quasi in risposta a queste tendenze vengono approvate da maggioranze di centro-sinistra, ossia dai
governi dal 96 al 2001, alcune riforme che modificano l’assetto costituzionale nei rapporti tra Stati e
Regioni:

1. riforma elettorale che segue due riforme in senso maggioritario che c’erano state in Italia in
quegli anni: nel ‘93 viene introdotta l’elezione diretta dei sindaci, che prima erano eletti dai
Consigli comunali. Questo indeboliva il ruolo del sindaco che cambiava anche lo stesso periodo
di durata del Consiglio. L’elezione diretta crea una forte legittimazione del sindaco anche rispetto
al Consiglio comunale: il punto centrale della competizione elettorale è proprio la scelta del
sindaco, che non può essere sfiduciato dal Consiglio comunale se non a prezzo delle dimissioni
dell’intero Consiglio.

2. riforma elettorale in senso maggioritario del 1993 (Leggi Mattarella), che modificarono il
sistema elettorale nell’idea che il corpo elettorale non dovesse eleggere solo i parlamentari ma
dare un’indicazione anche per il Governo e per la maggioranza del paese

3. riforma elettorale del 1995 per quanto riguarda i Consigli regionali: legge ordinaria, non
costituzionale, che serviva a favorire l’indicazione diretta da parte degli elettori del Presidente
della Regione. La Costituzione non permette l’elezione diretta ma l’effetto che creava era quella di
una sorta di elezione diretta: indicazione del candidato, premio di maggioranza a chi fosse arrivo
primo, tendeva a creare delle maggioranze intorno al candidato che gli elettori avevano preferito

4. Leggi Bassanini (ministro della funzione pubblica del Governo Prodi). Bassanini fa una riforma
che va in due direzioni:
• semplificazione: primo tentativo nei rapporti tra potere pubblico e cittadini
• si cerca di spostare le funzioni amministrative dal centro alla periferia secondo il principio di
sussidiarietà verticale secondo il quale tutto ciò che può essere fatto il più possibile vicino ai
cittadini, deve essere fatto da quel livello territoriale. La riforma Bassanini va ad estendere e ad
incrementare i poteri dei comuni, delle province e delle regioni rispetto a quelli dello Stato per
quanto riguarda l’amministrazione.

5. i passi successivi ricadono direttamente sul testo costituzionale.

Con le leggi Bassanini si era arrivati al massimo livello di regionalismo possibile a Costituzione
invariata e per fare un passo in avanti bisognava necessariamente cambiare la Costituzione. Avviene
con 2 riforme molto importanti:
● riforma del 1999: attribuisce alle Regioni e soprattutto a quelle ad autonomia ordinaria la potestà
statutaria: ogni Regione ha la possibilità di darsi un proprio statuto, nei limiti previsti dalla
Costituzione che disciplini le materie che la Costituzione attribuisce a tale fonte del diritto e tra di
esse vi è la forma di governo. Attraverso i propri statuti le Regioni possono decidere quale sia la
loro forma di Governo, ossia se avere una forma di Governo che preveda l’elezione diretta del
Presidente della Regione oppure una formula di Governo che non la preveda. Con la prima
riforma del ‘99 viena modificata la forma di Governo delle Regioni e viene attribuita una
competenza più ampia agli Statuti riconoscendo espressamente l’autonomia dello Statuto
● legge costituzionale 3/2001: riforma del titolo V della II parte della Costituzione, che tocca in
quasi tutti gli aspetti quello che era l’esito dell’Assemblea costituente e modifica radicalmente i
poteri delle Regioni anche sul piano legislativo

Forma di governo regionale


Nel momento in cui vennero fatte le riforme, sia nel 1999 sia nel 2001, vi erano diverse esigenze che
il legislatore cercava di perseguire: in primo luogo attribuire alle Regioni l’autonomia statutaria, ossia
attribuire alle Regioni la possibilità di decidere loro stesse la loro organizzazione del potere, la loro
forma di Governo, cosa che poteva portare a situazioni molto diversificate in Italia; dall’altra parte vi
era una spinta, che si era vista con l’elezione dei singoli e con la legge del ‘95, a favorire l’elezione
diretta del Presidente della Giunta Regionale, ossia la riforma costituzionale doveva dare
compiutezza a quel disegno per il quale la forma di Governo preferibile era quella che dava ai cittadini
il diritto di scegliersi direttamente il proprio Presidente. Si tratta tuttavia di esigenze tra loro
inconciliabili. Come si arriva ad un compromesso? Il compromesso fu quello di attribuire l’autonomia
statutaria alle Regioni, ma al contempo di suggerire una forma di Governo: la Costituzione stessa
prevede che in assenza di scelte diverse da parte dei singoli statuti regionali, la forma di Governo sia
una forma di Governo con delle caratteristiche specifiche.

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Nel sistema regionale 3 organi fondamentali previsti dalla Costituzione:
● il Presidente
● la Giunta, presieduta dal Presidente della Giunta
● il Consiglio regionale

Il Presidente e la Giunta rappresentano il potere esecutivo, mentre il Consiglio regionale ha potestà


legislativa.

Qual è il rapporto tra questi organi?


La forma di Governo regionale si caratterizza per essere un mix tra diverse forme di Governo:
● i cittadini non eleggono direttamente solo il Consiglio regionale, ma viene eletto anche il
Presidente insieme al Consiglio. I sistemi elettorali tendono praticamente tutti a garantire al
Presidente la maggioranza in Consiglio regionale, in modo tale che
● il Presidente che prevale alle elezioni solitamente ha la certezza di avere almeno all’inizio una
maggioranza solida, grazie all’attribuzione di premi di maggioranza a favore delle liste collegate
alla sua persona.
● La Giunta, composta dagli assessori, è legata con un rapporto diretto e fiduciario al Presidente: il
Presidente nomina e revoca gli assessori.
● Il Presidente è eletto dai cittadini e non dal Consiglio, ma affinché l’amministrazione regionale
possa proseguire, è necessario che debba esservi un rapporto di fiducia tra il Presidente e il
Consiglio regionale, sul modello del rapporto di fiducia che debba esserci tra Governo e
Parlamento. Al Consiglio è attribuito il potere di sfiduciare il Presidente. Tuttavia, una volta che o il
Consiglio sfiducia il Presidente o il Presidente si dimette, si scioglie il Consiglio Regionale, quindi
si va a nuove elezioni regionali, sia per il Presidente che per il Consiglio. Questo significa che il
potere del Consiglio regionale di sfiduciare un Presidente è un potere che i Consigli esercitano
con prudenza perché l’effetto è anche la propria morte. Questo meccanismo riprende alcuni
aspetti tipici della forma di Governo Parlamentare: il rapporto fiduciario tra l’organo
rappresentativo e l’organo esecutivo rimane, ma d’altra parte sbilancia molto a favore del
Presidente l’equilibrio tra gli organi, ossia questa forma di Governo tende a dare una centralità
nell’indirizzò politico regionale alle scelte del Presidente della Giunta rispetto a quelle del
Consiglio regionale. Qualcuno aveva cercato di applicare tale meccanismo anche a livello
nazionale, fallendo. I rapporti tra Consiglio e Presidente possono essere riassunti con la frase
“simul stabunt, simul cadent”: non vi può essere la caduta di uno senza che ciò non comporti la
caduta anche dell’altro. Questo impedisce alla stessa maggioranza di cambiare Presidente o che
si creino maggioranze diverse che nominino un nuovo Presidente.

Autonomia finanziaria delle Regioni


Si nota una certa difficoltà della riforma del titolo V, che era ispirata anche all’idea di una forte
responsabilizzazione delle classi dirigenti regionali: le Regioni devono attuare le proprie politiche con
risorse proprie. La Regione non doveva essere solo un ente che spendeva soldi derivanti dal bilancio
pubblico centrale, ma doveva essere anche un ente che aveva potere di imposizione fiscale. Doveva
essere la Regione a impostare la propria politica fiscale, ossia a decidere nei limiti previsti dalla legge
quali fossero le imposte da chiedere ai cittadini e quindi come finanziarsi attraverso un sistema di
federalismo fiscale. Ci furono varie riforme che andarono in questa direzione, ma furono molto
osteggiate dalle stesse Regioni. La legislazione fiscale è soprattutto statale ed è lo Stato che decide il
livello di pressione fiscale e a sua volta attribuisce una parte di quella pressione fiscale alle Regioni.
Tuttavia, sistemi veri e propri di federalismo fiscale non si sono realizzati, causando una
deresponsabilizzazione della classe politica regionale.

Le fonti regionali
Le Regioni esercitano la loro autonomia, ossia il potere di darsi delle regole da sé, in campi diversi e
attraverso fonti diverse. La Costituzione, dopo la riforma del 2001, legittima una pluralità di
autonomie:
● autonomia statutaria: la Regione di darsi un proprio statuto che disciplini la forma di Governo, le
iniziative popolari e referendarie e tutto quello che riguarda il potere regionale nei limiti della
Costituzione
● autonomia legislativa (art.117)

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Quando si parla di potestà legislativa dello Stato e delle Regioni non bisogna mai dimenticare che
queste due potestà legislative si devono collocare in una cornice, in cui sia lo Stato che le Regioni
hanno numerosi vincoli esterni, derivanti dalla Costituzione, che all’art.11 afferma che sono consentite
limitazioni di sovranità a favore di organizzazioni internazionali che hanno come fine la pace e la
giustizia tra i popoli. La potestà legislativa si distingue dalla potestà regolamentare, ossia nel potere di
dare attuazione attraverso norme secondarie a quanto previsto nelle leggi e nelle norme primarie. E’
attribuita alle Regioni o allo Stato a seconda della competenza legislativa dell’uno e dell’altro.

Statuti regionali
● Statuto delle Regioni speciali: si tratta di una legge costituzionale particolare per due ragioni:
➢ parte delle sue disposizioni sono derogabili attraverso una legge regionale "rafforzata": lo Statuto
subisce quindi un depotenziamento di alcune sue parti (quelle sulla forma di governo), nel senso
che la disciplina che in esse è dettata può essere modificata con legge regionale, subendo un
processo di "decostituzionalizzazione", ossia di declassamento dal livello della Costituzione a
quello della legislazione ordinaria
➢ il procedimento di revisione è semplificato: infatti la legge cost. 2/2001 prevede che le future
modifiche degli Statuti speciali non siano sottoposte a referendum costituzionale

● Statuto delle Regioni ordinarie: Lo Statuto delle Regioni ordinarie ha subito una radicale riforma
anche per ciò che riguarda la procedura di formazione. Il "nuovo" art.123 Cost. dispone che lo
Statuto sia approvato (e modificato) "dal Consiglio regionale con legge approvata a maggioranza
assoluta dei suoi componenti, con due deliberazioni successive adottate ad intervallo non minore
di due mesi". Il Governo ha la possibilità di impugnarlo direttamente dinanzi alla Corte
costituzionale entro trenta giorni dalla sua pubblicazione. Entro tre mesi dalla pubblicazione
stessa, un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti del Consiglio
regionale può proporre un referendum. Si tratta di una nuova ipotesi di referendum approvativo o
sospensivo perché, dispone sempre il "nuovo" art. 123, "lo statuto sottoposto a referendum non è
promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi.

Gli Statuti delle Regioni ordinarie sono dunque leggi regionali rinforzate. Il "nuovo" art.123 Cost.
riserva ad essi la disciplina di alcuni importanti aspetti: la "forma di governo" regionale, "i principi
fondamentali di organizzazione e di funzionamento", il diritto di iniziativa legislativa e di referendum su
leggi e provvedimenti amministrativi regionali, la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali.
La legge dello Stato non può più incidere nella materia "riservata" agli Statuti, anche se invece spetta
ad essa fissare i principi del sistema elettorale regionale (art. 122.1 Cost., che è stato attuato con la
legge 165/2004). Lo Statuto quindi funge da limite sia per le leggi dello Stato, che non possono
invadere la competenza riservata dalla Costituzione a questa particolare legge regionale, sia per le
leggi regionali, rispetto alle quali hanno una posizione di sovraordinazione gerarchica conseguente al
suo "rafforzamento" procedurale.

Leggi regionali
La legge regionale è una legge ordinaria formale. La "forma" della legge le è data dal procedimento,
che rispecchia il procedimento di formazione delle leggi statali (iniziativa, deliberazione da parte
dell'assemblea elettiva,promulgazione); la collocazione tra le fonti primarie è giustificata sia perché la
competenza della legge regionale è garantita dalla stessa Costituzione, sia perché la Costituzione la
pone su un piano di concorrenza e di separazione di competenza con la legge statale, sia infine
perché è parificata alla legge statale per quanto riguarda il controllo di legittimità, riservato alla Corte
Costituzionale. Il procedimento di formazione della legge regionale è disciplinato in minima parte dalla
Costituzione, in parte dallo Statuto e per il resto dal regolamento interno del Consiglio regionale. Il
procedimento si svolge in queste fasi essenziali:
● iniziativa: oltre alla Giunta e ai consiglieri regionali, l'iniziativa spetta agli altrisoggetti individuati
dagli Statuti
● approvazione in Consiglio regionale: è generalmente previsto il ruolo delle Commissioni
consiliari in sede referente, ma alcuni Statuti prevedono anche la Commissione redigente. Sono
in genere previste le classiche tre “letture” in assemblea. La legge è approvata a maggioranza
relativa, ma gli Statuti possono prevedere maggioranze rinforzate. Ad essi spetta anche il compito
di definire le modalità con cui al procedimento legislativo può partecipare il Consiglio delle
autonomie (che è un organo di rappresentanza degli enti locali)
● promulgazione da parte del Presidente della Regione e pubblicazione sul B.U.R.

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Regolamenti regionali
La Costituzione, che non si preoccupa di disciplinare i regolamenti dello Stato, dettava, prima della
riforma introdotta con la legge cost. 1/1999, una norma colma di conseguenze per quanto riguarda i
regolamenti regionali: il potere regolamentare era attribuito al Consiglio regionale, cioè all'organo
legislativo, anziché alla Giunta, cioè all'organo esecutivo. Questo vale, ovviamente, per le sole
Regioni ad ordinamento comune, perché nelle Regioni speciali è lo Statuto a disciplinare l'argomento
(in genere riconoscendo poteri regolamentari alla Giunta).

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