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Non è possibile determinare con esattezza il momento in cui lo Stato ha avuto origine: il processo è
avvenuto gradualmente e non si è compiuto allo stesso modo per i vari gruppi sociali. La vita umana è
necessariamente sociale e ogni società implica limitazioni reciproche e, dunque, profili giuridici, ma la
società politica o statuale, cioè quella in cui ogni manifestazione della vita umana riceve stabile
ordinamento, nasce solo in presenza di alcune condizioni: un numero abbastanza grande di persone
affinché si distribuiscano le funzioni della vita in comune, un territorio determinato in rapporto permanente
con la popolazione, un potere centrale autonomo e indipendente rispetto ad altri poteri che coordini le
norme regolatrici della convivenza. Non va considerata la teoria secondo cui società e Stato avrebbero
origine da contratto, formula con cui diversi autori, tra tutti Rousseau, hanno inteso rappresentare il
fondamento razionale dello Stato in luce della sua funzione di tutela dei diritti individuali, non la storia o la
sua genesi empirica.
Nel mondo greco e romano, il problema delle origini dello Stato concerne prevalentemente il problema
delle origini della “città-Stato”.
La polis, o città-Stato, era la forma tipica della statualità greca, la quale non si esauriva in un semplice
complesso abitativo, ma aveva la caratteristica di assoggettare i polites ai vincoli imposti dalla politeia
(Costituzione) e dalla subordinazione alle leggi civili (nomoi) e religiose. Accanto alla polis si collocava poi
l’ethnos, ossia lo Stato tribale o cantonale, forma di coesione primitiva costituitasi attraverso un processo
detto “synoikisimos”, cioè un atto di aggregazione di domicili di natura sia tecnico amministrativa che
religiosa, con il comune riconoscimento di una o più divinità cittadine.
Per ciò che riguarda la Roma delle origini, complesso è il momento della transizione dal mero agglomerato
abitativo alla “civitas”, spesso confondendo le sue origini con la presenza di un qualsiasi insediamento e
non del vero e proprio insieme di strutture urbane ed istituzioni. Anche in questo caso, comunque, la tribù
si costituì per essere indipendente ed avere un culto specifico da cui gli estranei dovevano essere esclusi,
motivo per cui più tribù non potevano fondersi. Fu proprio quando più tribù cominciarono ad associarsi, a
condizioni che fossero rispettati i relativi culti, che si ebbe la città.
C) Lo Stato patrimoniale
Guido Astuti ritiene che sia priva di contenuto storico la definizione di Stato patrimoniale come quello in cui
la sovranità non è attribuita all’intero ordinamento, che mancherebbe di personalità giuridica, ma alla
persona fisica del sovrano, considerato il signore di ogni suo elemento.
D) Feudalesimo e patrimonialismo
Il rapporto fra Stato feudale e Stato patrimoniale è di stretta interconnessione. Otto Hintze concorda con
Gierke nel respingere le tesi che considerano l’Impero alla stregua di Stato, ravvisando nel Feudalesimo un
processo politico-costituzionale attraverso cui vengono sottratti sudditi all’impero nella forma della
mediatizzazione sotto autorità private, cioè con la perdita della diretta sovranità dell’Impero in favore di
principi. Per Hintze, l’Impero:
- È uno Stato composito le cui parti non sono perfettamente integrate;
- Manifesta la prevalenza del momento personale su quello istituzionale nell’esercizio del potere;
- È caratterizzato dal principio gerarchico fondato sul collegamento fra Stato e Chiesa senza precisi
vincoli fra potere spirituale e temporale.
Il Feudalesimo, ancora secondo Hintze, assolve tre funzioni:
- Militare, con un ceto di guerrieri particolarmente abili, legati al sovrano da un contratto privato che
gli permette di occupare una posizione di privilegio;
- Economico-sociale, secondo una forma signorilterriera-contadina che assicura ai guerrieri entrate
esenti da lavoro;
- Predominanza degli elementi personali su quelli istituzionali, con tendenza al patrimonialismo e ad
uno stretto nesso con la gerarchia ecclesiastica.
Da questi caratteri emerge la stretta connessione di Feudalesimo e Patrimonialismo.
B) L’Assolutismo: prodromi
Ritter sostenne che le origini dello Stato moderno non sono da ricercare in Italia, poiché nessun altro Stato
rivelerebbe nel suo sviluppo influenze dirette dai modelli italiani. Tale origine sarebbe da ricercare nella
organizzazione politica delle grandi monarchie, in cui i principi accumularono potere a discapito delle
organizzazioni corporative cittadine. Le nuove monarchie traggono forza dall’esistenza di eserciti
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5. L’assolutismo illuminato
L’illuminismo fu caratterizzato da indirizzi di pensiero assai diversi, da un lato tendenti ad una visione
utopistica collegata ad una demitizzazione dello Stato e alla rimozione del suo apparato giuridico-coercitivo
in nome dell’associazione spontanea, dall’altro con una visione realistica e positiva dello Stato stesso da
parte degli elementi di spicco del movimento. Si cominciò a ritenere che il fine supremo dello Stato e della
Società fosse il benessere del singolo, congiunto a quello dell’intero genere umano, e che ad esso si potesse
provvedere attraverso l’assolutismo dei principi, mentre inidoneo era il governo del popolo. L’ambiente
culturale non poté che influenzare l’azione riformatrice dei monarchi assoluti e dei loro governi, dando vita
al cosiddetto Assolutismo illuminato, sui cui caratteri si è interrogato Guido Astuti: la politica delle riforme
appare spesso volta, più che a rinnovare le strutture dello Stato e della Società, a distruggere
sistematicamente le residue istituzioni capaci di porre limiti al dispotismo dei governi. Va da sé che il
movimento non aveva caratteri di perfetta uniformità, poiché notevolmente differenti erano le esigenze e
le necessità dei vari Stati, a seconda dei differenti ambienti politici, sociali, economici e, allo stesso tempo,
anche in base a quali furono gli atteggiamenti dei sovrani e le ideologie dominanti. Anche se improntata al
rafforzamento del potere assoluto, è innegabile che l’opera dell’Assolutismo illuminato segnò una profonda
trasformazione della Società e dello Stato, con i sovrani illuminati che si distinsero positivamente rispetto ai
loro predecessori, sensibili troppo spesso alle sole esigenze della ragion di Stato.
6. Lo Stato inglese
A) Lo sviluppo costituzionale
La storia costituzionale britannica si differenzia nettamente da quella continentale. Essa prende avvio a
seguito della conquista da parte di Guglielmo I nel 1066, con la monarchia franco-normanna che promosse
l’integrazione della tradizione giuridica britannica con gli apporti del diritto romano e canonico, dando
luogo alla formazione della “Common Law”, quel diritto comune che oggi distingue le nazioni di lingua
inglese da quelle impostate sulla tradizione romana. Istituzione tipica dello Stato inglese fu il parlamento,
che si affermò a seguito del depotenziamento della monarchia. Ruolo fondamentale per lo sviluppo
costituzionale inglese fu quello della Magna Charta, concessa ai baroni da Giovanni senza Terra nel 1215,
momento dal quale la limitazione dei poteri regi non venne mai meno e si gettarono le basi per alcuni
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A) La rivoluzione americana
Con gli eventi rivoluzionari, la popolazione di stirpe anglosassone delle tredici colonie americane riuscì ad
ottenere il distacco dalla madrepatria. La ragione fu che, pur essendo regolate dalla legge inglese e,
dunque, dal Bill of Rights, tali fondamentali princìpi non venivano applicati nei territori coloniali.
Gli americani ammiravano le istituzioni britanniche e le istituzioni ne risentirono profondamente, dando
luogo non alla creazione di una nuova civiltà, ma semplicemente ad un’estensione oltre oceano di quella
del Vecchio Mondo.
E) La frontiera
La democrazia americana è considerata il risultato delle spinte colonizzatrici del popolo americano verso
ovest, fattore che contribuì a dare nuova forma e contenuto al patrimonio di leggi e libertà ereditato
dall’Inghilterra.
A) I fermenti di mutamento nella Francia prerivoluzionaria: Gli eventi rivoluzionari che interessano la
Francia alla fine del secolo XVIII vedono protagonista la classe borghese, che riesce ad occupare un posto
rilevante fra i signori ed il volgo.
B) Lo spirito dell’Illuminismo: Lo spirito scientifico si pone in contraddizione con quello filosofico, nel corso
del ‘700, in quanto fa dell’esperienza il giudice supremo: le ipotesi sono solo costruzioni provvisorie che
consentono di riunire alcuni risultati sperimentali, ma nessuna teoria resiste alla smentita. Diversamente, i
filosofi non accettarono mai la sottomissione del soggetto all’oggetto e si rivelarono completamente
disinteressati all’osservazione, all’esperienza, alla ricerca storiografica. Di fatto, la filosofia settecentesca
mostrava le caratteristiche tipiche della religione, con la fede, la propaganda, la stessa rigidità ed
intolleranza, finendo per differenziarsi dalla filosofia precedente soltanto perché si imponeva in nome della
ragione e non in nome di Dio.
Gli anni della rivoluzione videro l’approvazione di tre distinte Costituzioni, precedute da Dichiarazioni dei
diritti dell’uomo. Protagonista fu il “terzo stato”, che si contrapponeva al primo (clero) e al secondo (nobili),
ed era prevalentemente composto dalla borghesia, che guardava con favore all’esperienza inglese, di cui
apprezzava in particolare la divisione dei poteri. L’egemonia borghese liberale portò alla costituzione del
1791, che sancì l’affermazione del fondamento individualistico della Società e della preesistenza dei “diritti
naturali” rispetto allo Stato, prevedendo che tutti gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti.
Venivano riconosciute principalmente le libertà individuali (proprietà, sicurezza, opinione) e molto meno
quelle collettive, cioè di riunione, associazione o stampa. L’organizzazione costituzionale si ispirava alla
divisione dei poteri, affidando al monarca il potere governativo e di partecipazione alla formazione della
legge con il veto sospensivo e la sanzione (cioè approvazione), rendendolo contitolare con il parlamento
della funzione legislativa.
La costituzione del 1793 tentò di combinare la democrazia rappresentativa con quella diretta, riconoscendo
un suffragio tendenzialmente universale e non più censitario (limitato a chi pagava una certa imposta) e
promuovendo diritti collettivi più significativi, quali la riunione, la petizione o la stampa. Questa
Costituzione, tuttavia, non entrò mai in vigore e fu soffocata dal “Terrore”.
Seguì la Costituzione del 1795, che riportò in vigore i princìpi ispiratori del 1791 (divisione dei poteri, diritti
individuali, sovranità della legge), riadattandoli al regime repubblicano. La rivoluzione francese è
certamente una tappa fondamentale del processo storico cominciato con le rivoluzioni inglese ed
americana, rispetto alle quali ha però introdotto talune varianti, la più importanti delle quali fu certamente
la concezione della legge come espressione della volontà generale. A mutare è poi la concezione di
cittadino, non più l’individuo con il suo egoismo e la sua cecità dinanzi agli interessi della collettività, bensì
l’uomo illuminato dalla ragione, libero dai pregiudizi di classe e capace di partecipare alla cosa pubblica
facendo astrazione dalle sue preferenze personali. Ciò non toglie che i filosofi rimasero assolutamente
diffidenti nei confronti del vero popolo, quello basso, quanto alla riflessione ed all’azione politica, del quale
si cerca, di fatto, di ridurre la minaccia comprimendolo nell’astrazione, spogliandolo della sua umanità più
meschina per ritrovarlo degno dell’idealizzazione di cui lo si fa oggetto.
A) La tesi di Carl Schmitt: Nel trattare del significato storico e giuridico della dichiarazione dei diritti
fondamentali, Schmitt la definisce come l’elemento determinante dello Stato, quale unità politica del
popolo, ritenendo che il fattore integrante di una compagine sociale risieda nella proclamazione di un
nuovo ethos statale. Questa dottrina porterebbe ad attenuare la radicalità della separazione fra Stato
americano e Gran Bretagna e, al contempo, ad accentuare la novità dell’ordine prodottosi in Francia a
seguito delle Costituzioni rivoluzionarie: nel primo caso vi sarebbe stata una continuità degli usi civili,
mentre nel secondo l’introduzione dei princìpi astratti avrebbe prodotto una forte cesura. Non sembra però
si possa condividere la tesi dell’identificazione tra unità politica di un popolo e dichiarazione dei diritti e
addirittura lo stesso Schmitt afferma, riguardo la Costituzione americana, che la Costituzione federale non
conteneva alcuna dichiarazione dei diritti fondamentali, avendoli essa accolti solo in alcune aggiunte, ossia
gli emendamenti. Riconoscere nelle “dichiarazioni dei diritti” apposte alle Costituzioni il fattore fondante di
una società può dunque avere valore relativo rispetto a determinate circostanze storiche, ma non è
possibile attribuirgli un valore assoluto senza confondere l’essere dello Stato con il suo scopo, il suo
fondamento ontologico e l’elemento teleologico.
Vale la pena richiamare anche il pensiero di Neumann, il quale ha affrontato il concetto di libertà pubblica,
nella contrapposizione fra Stato e la sfera di libertà dell’individuo ed in rapporto al modo in cui può essere
inteso il diritto. La libertà è anzitutto mancanza di costrizione e in questo significato contrappone
necessariamente il cittadino allo Stato, assumendo un significato “negativo”. Tuttavia, l’idea che l’uomo sia
una realtà a prescindere dal sistema politico nel quale vive equivale ad accettare la sua alienazione politica,
a ritenere il potere politico come estraneo rispetto all’uomo, che non potrà mai identificarsi con esso.
L’idea che esistano diritti individuali, che il potere politico può limitare ma mai eliminare, trova concretezza
nelle elencazioni di diritti civili delle varie costituzioni, che realizzano una presupposizione di diritti a favore
dell’individuo e contro il potere politico dello Stato, il quale, per limitarli, dovrà prima dimostrare che
l’intervento è legittimo, secondo un procedimento regolato dalla legge e con onere della prova a proprio
carico. Il significato di questa formulazione non può che dipendere dal modo in cui è inteso il diritto, di cui è
possibile dare tre definizioni:
- Sistema di regole comportamentali ritenuto valido in qualunque regime politico (teoria tomistica);
- Totalità dei diritti individuali che si presumono esistenti prima della creazione del sistema politico e
che, nella loro essenza, non vengono toccati da esso (posizione di Locke);
- Leggi positive dello Stato, valide se formulate in accordo con una costituzione.
È chiaro che, con l’emergere dello Stato, la “legge naturale” o i “diritti naturali inalienabili” hanno
significato politico solo qualora riconosciuti dallo Stato stesso e resi diritto positivo, ed è questo il caso dei
diritti civili incorporati in una costituzione, sui quali certamente potranno aver avuto influenza le dottrine
filosofiche sulle libertà civili e che, ancora, potranno essere utilizzate per interpretare le situazioni ambigue,
ma che non possono determinarne la validità giuridica: il diritto sulla base del quale lo Stato deve provare il
proprio diritto di interferire con i diritti degli individui può essere solo la legge positiva.
B) I diritti individuali: La Costituzione francese tutela le garanzie individuali stabilendo che i diritti
fondamentali più importanti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e il diritto di resistenza, non
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A) L’ontologia dello Stato e il rapporto fra metodo e oggetto: L’oggetto dello studio proprio della dottrina
dello Stato va tenuto distinto rispetto a quello della filosofia del diritto, così come diverso è il loro rapporto
con il metodo. Anzitutto, la teoria generale dello Stato si pone il compito di esaminare “l’essere” dello Stato
e i suoi indirizzi non possono intendersi come attinenti alla sfera di una visione idealizzante dello stesso, ma
devono ver riferimento all’ambito degli oggetti reali. Oggetto della filosofia, dunque, è l’essere in quanto
“essenza”, mentre gli oggetti appartengono al dominio della dimensione scientifica, rendendosi necessario
operare una distinzione fra la filosofia dello Stato, intesa quale metafisica, e l’ontologia dello Stato, la quale,
pur avvalendosi necessariamente di concetti filosofici, è di stretta pertinenza della teoria generale dello
Stato. Al fine di comprendere al meglio il significato dell’ontologia dello Stato bisogna analizzare il rapporto
fra metodo e oggetto. In una prospettiva ontologica, Ermacora afferma che l’oggetto preesiste al metodo,
cioè che il metodo è stabilito dallo stesso oggetto della conoscenza e, conseguentemente, lo Stato non può
che essere considerato come una grandezza empirica. Opposta è la concezione del neokantismo
B) La dottrina generale dello Stato in rapporto con la politologia, con la sociologia e con la “dottrina della
Costituzione”: Le tematiche riguardanti lo Stato costituiscono l’oggetto comune di varie discipline, si pensi
alla politologia, che ne studia i rapporti di potere, o alla sociologia, che con metodo induttivo ne analizza le
risultanze empiriche. Distinta è la dottrina della Costituzione, la quale prende avvio dall’elaborazione di Carl
Schmitt e che costituisce il necessario presupposto che rende possibile il configurarsi stesso della dottrina
dello Stato. Badura afferma che, dopo la seconda guerra mondiale, il rafforzarsi del diritto costituzionale
diede luogo alla nascita di una nuova dottrina della Costituzione materiale, che perse di vista la garanzia
politica della Costituzione realizzata attraverso lo Stato, che invece si concentrerebbe nella Costituzione
stessa secondo una concezione subordinata, non lasciando alcuno spazio alla dottrina dello Stato, che anzi
perde il proprio nome poiché al concetto di Stato che essa si propone di costruire viene sostituita una
nozione puramente normativistica.
2. L’oggetto della teoria generale dello Stato: lo Stato come fenomeno globale
La dottrina dello Stato non ha ad oggetto particolari aspetti dello Stato ma il suo stesso “essere”, cioè la sua
globalità, non rilevabile attraverso la percezione empirica, ma costruita sulle varie risultanze che emergono
dall’analisi della realtà statualistica sulla base di un metodo. Ciò non sta a significare che si debba
necessariamente condividere l’impostazione del neokantismo nello stabilire che il metodo produce
l’oggetto, gli elementi delle varie scienze ausiliari quali il diritto o la sociologia, vengono utilizzati dalla
dottrina generale dello Stato secondo uno schema logico che li compone e definisce il fenomeno statuale
come considerato da un punto di vista globale. Pertanto, gli elementi della statualità non sono un prodotto
dei metodi, ma preesistono ad esso e lo schema utilizzato esercita su di essi una mera funzione categoriale.
Va da sé che i vari indirizzi metodologici possono accentuare taluni elementi a seconda delle tendenze
culturali e delle circostanze storiche, dunque a seconda di quali schemi interpretativi si utilizzino si
potranno ottenere vari concetti di Stato.
Questa dottrina considera lo Stato come un’entità reale, risultante dall’esperienza storica e costituita da
due strati sociali: i dominanti e i dominati. Più nello specifico, si distingue fra la teoria del dominio, che
contrappone coloro che esercitano il dominio a coloro che ne sono oggetto, e la teoria della conquista,
secondo cui lo Stato consegue alla conquista di popoli da parte di altri popoli. Nel primo caso si tratterebbe
di una contrapposizione strutturale e permanente della realtà statuale, mentre nel secondo si farebbe
prevalentemente riferimento al momento genetico dello Stato.
5. La dottrina organica
La concezione organica dello Stato si afferma con i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, per poi
trovare compiuta elaborazione in Gierke e Bluntschli. Quest’ultimo considerava lo Stato come un ente che
agisce con volontà propria: il popolo si organizza in unità nello Stato, persona giuridica reale che diviene
titolare della sovranità. Per Gierke, invece, il nucleo del pensiero era costituito dal concetto di corporazione,
affermando che la teoria dello Stato come comunità organica dotata di personalità reale fosse sicuramente
più antica, ma che ricevette comunque una forte impronta giuridica quando fu raffrontata con la teoria
generale della corporazione. Nel pensiero di Gierke, Stato e popolo si identificano e la metafora
antropomorfica si spinge al punto di individuare nel diritto l’anima e nell’insieme dei cittadini il corpo
dell’organismo statale. Come ogni organismo, lo Stato è unità composta da parti che si occupano di
svolgere determinate funzioni: organi e funzioni sono regolati dal diritto e dalla conformità alla
Costituzione. La portata di queste affermazioni è tanto più evidente se si considera che, nello schema
organicistico, il monarca, da soggetto posto al di sopra dello Stato, diviene organo dello stesso. Si può allora
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B) La concezione organicistica gierkiana ed i rapporti fra Stato e diritto: Per Gierke lo Stato non è
semplicemente un prodotto del diritto, ma è vero che questo consegua garanzia e completezza solo quando
riceva dal diritto il carattere di rapporto giuridico. Allo stesso tempo, il diritto non è creato dallo Stato né da
altra potenza umana poiché, essendo esso il complesso di norme esteriori rivolto a volontà libere, non può
essere esso stesso volontà e dovrà risiedere in una facoltà spirituale autonoma, ossia la ragione. Il diritto,
dunque, non è la volontà che qualcosa deve essere, ma è la convinzione collettiva che qualcosa è, ossia la
convinzione della collettività di dover conformare la propria volontà a norme esteriori, a limitazioni della
libertà. Lo stato, dunque, in qualità di legislatore, rappresenta e determina la coscienza giuridica e completa
ogni manifestazione del diritto mediante il comando e la coazione. Per queste ragioni bisogna concludere
che debba esistere unità fra diritto e forza, poiché il diritto che non è capace di farsi valere cessa di essere
diritto e la forza che esiste senza il diritto, per affermarsi, deve essere riconosciuta come conforme al
diritto, trasformandosi da quel momento in diritto.
A) La persona giuridica dello Stato quale centro dell’elaborazione statualistica: L’indirizzo della dottrina
anorganica dello Stato, misconoscendo appunto la portata teorica dello schema organico, perseguì
l’obbiettivo di conseguire maggior rigore metodologico, escludendo ogni fattore extragiuridico. Questo
metodo, definito monistico, ravvisa l’elemento sintetizzatore dell’unità statale nel concetto di persona
giuridica, comunque perciò sia alla dottrina organica che a quella anorganica ma, in questo secondo caso,
come qualità conferita dal diritto.
B) Lo schema organicistico ed il concetto giuridico di Stato nell’opera di Gerber: Pur accogliendo il modello
organico, per Gerber il concetto di organismo non esprime la realtà giuridica dello Stato, poiché appare
come privo di un centro d’imputazione dei rapporti e, quindi, di unità giuridica. Più correttamente, questa
realtà si esprime nel momento in cui allo Stato viene riconosciuta la personalità giuridica, che lo rende un
soggetto idoneo a volere ed agire. Ancora, il concetto di Stato è il risultato del collegamento indissolubile
fra l’organismo sociale e un centro individuato prima nel monarca e poi nella persona giuridica dello Stato.
Il monarca stesso è il più elevato dei membri che trovano il proprio ruolo vitale all’interno dell’organismo. È
pertanto impossibile sviluppare il potere di volontà dello Stato senza considerare come necessaria la
personalità statale, poiché non è ammissibile considerarlo come un complesso di corpi naturali, regolato
nel suo movimento da un ordinamento superiore ed esterno il quale fa sì che agisca non in virtù di una
cosciente capacità di volere, ma di astratte leggi naturali. L’idea di Stato come entità capace di libera
autodeterminazione è essenziale al diritto pubblico, la cui scienza si occupa di determinare le relazioni
giuridiche tra le singole forze che agiscono nello Stato, compito che può essere assolto solo analizzando le
singole sfere di potere risultanti dalla Costituzione e le loro reciproche relazioni. Ciò che ne consegue, è una
ramificazione dei diritti pubblici, tra loro interdipendenti e che si appoggiano alla personalità Stato come
fosse il loro tronco. Bisogna allora concludere che la concezione organica e quella giuridica si completano in
qualità di considerazioni dello stesso oggetto da punti di vista diversi, uno volto a determinare la vita
naturale e la fisiologia dello Stato, l’altra ad individuare il suo contenuto etico-giuridico; ancora, uno volto a
considerare le basi reali dei diritti, l’altro i diritti stessi.
C) Laband e la costruzione “formale” dello Stato: Laband, considerato continuatore del pensiero di Gerber,
si passò da un positivismo della scienza giuspubblicistica ad uno avente ad oggetto le leggi del Reich. La
natura corporativa dello Stato venne ad essere inclusa nell’ambito della personalità giuridica, cui si
conferisce una qualità formale, escludendo ogni dipendenza da schemi organici e considerandola nel suo
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8. La dottrina normativistica
A) Il monismo metodologico di Hans Kelsen: Espressione del positivismo giuridico ancora più estrema
dell’indirizzo formalistico di Gerber, Laband e Jellinek, è quella di Hans Kelsen, oppositore della teoria
statualistica di Jellinek della quale elimina l’aspetto storico-politico per concentrarsi solo su quello
normativo. Kelsen esclude ogni fattore materiale dello Stato, nonché ogni riferimento a valori che risultino
estranei alla pura inerenza alle norme, stabilendo che l’unico criterio che rende accettabile un valore è la
sua conformità al comportamento concreto prescritto da una norma. Il metodo giuridico kelseniano si
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B) L’identificazione kelseniana di Stato e diritto: Anche dal concetto di Stato Kelsen espunge ogni elemento
sociopolitico sostanziale, disconoscendo a quel fattore corporativo ed associativo ogni ruolo rispetto
all’omogeneità etica e culturale di un popolo. L’aspetto sociale è un posterius rispetto alla struttura
normativo e solo ad essa può attribuirsi il ruolo di fattore primario della realtà statuale, con il concetto
giuridico che precede quello sociologico: lo Stato è la comunità creata da un ordinamento giuridico
nazionale e lo Stato come persona giuridica è una personificazione della comunità o dell’ordinamento
giuridico che la costituisce. Conseguentemente, lo Stato non è la fonte né l’autore dell’ordinamento
giuridico. Kelsen ritiene insostenibile il dualismo fra Stato e diritto, criticando la posizione di chi assume che
il diritto verrebbe creato dallo Stato e dovrebbe regolare il comportamento dello Stato stesso così come di
chi ritiene esista un concetto sociologico di Stato logicamente anteriore al suo concetto giuridico.
Nel primo dopoguerra si diffonde la linea di pensiero che considera l’unità statale come “unità di senso”,
con Dilthey che introduce una distinzione fra gli oggetti naturali, misurabili solo esteriormente e non
penetrabili fino al loro senso, e ciò che è prodotto dallo spirito umano, come l’arte, il diritto o la
Costituzione, che possono divenire oggetto della esperienza spirituale e culturale comune di una
molteplicità di soggetti, integrandoli in una comunità politica. Le scienze dello spirito studiano la realtà
storico sociale nella misura in cui questa è conservata nella coscienza dell’umanità, come conoscenza che
trascende la condizione presente e diviene accessibile alla scienza.
A) La teoria dell’integrazione – La teoria dell’integrazione come metodo sociologico ispirato alle Scienze
dello Spirito: Nella teoria dell’Integrazione di Rudolf Smend ci si avvale di un metodo sociologico ispirato
alle scienze dello Spirito, con il quale si cerca di porre rimedio alla crisi della dottrina dello Stato, la cui
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B) La teoria della Gestalt – La Staatslehre di Hermann Heller quale scienza politica: Heller qualifica la
propria teorizzazione come Dottrina dello Stato e non come Dottrina generale dello Stato, espungendo il
termine “generale” che veniva associato all’indirizzo giuridico-formale. Il pensiero di Heller, difatti, non
voleva essere giuridico, ma politico, avvalendosi dei metodi di una scienza politica critica e del criterio
dell’obbiettività per analizzare gli eventi politici prodotti dai gruppi in lotta e riconoscendo un senso
attribuibile a tutte le parti del conflitto. L’aspetto giuridico viene considerato solo per ciò che riguarda i
rapporti di potere degli organi statali fra loro, o in relazione agli aitanti del territorio e agli altri Stati, poiché
l’attività degli organi amministrativi e giudiziari ha rilievo nella misura in cui influisce sugli indirizzi politici.
La teoria della Gestalt – I caratteri della teoria statualistica di Heller: La scienza politica di Heller ruota
intorno al radicamento dello Stato nella realtà sociale: lo Stato e la società non sono oggetto delle scienze
naturali, per cui la dottrina dello Stato non è scienza della natura, ma scienza della cultura, che si occupa di
“comprendere”, comprensione qui intesa come trasformazione del mondo per scopi umani. La dottrina
dello Stato, quindi, rappresenta la formazione di finalità umane nella natura e deve definirsi come scienza
della struttura, non della storia, nonostante la vita dello Stato si realizzi, di fatto, nella storia stessa. Per
Heller, difatti, le forme di attività storiche come lo Stato o l’economia non possono essere comprese
attraverso i mezzi logici della scienza della storia, cioè con le categorie della successione temporale, ma
soltanto sulla base della coesistenza degli elementi della struttura sociale in atto
La teoria della Gestalt – La struttura dello Stato quale “Gestalt”: La dottrina dello Stato, come scienza della
realtà, comprende lo Stato partendo dalla totalità della realtà concreta della società, il cui carattere unitario
risulta dalle condizioni geografiche e, soprattutto, da quelle etniche. Il popolo è infatti oggetto di duplice
caratterizzazione, come forma naturale, studiata dall’antropologia, e come forma culturale. Heller
affermava, infatti, che l’unità dello Stato risiede nell’unità del popolo ed è la struttura organizzativa che
rende possibile tale unità, dando forma unitaria alla molteplicità dei processi che compongono la totalità
statale. L’organizzazione non va intesa come uno statico assemblaggio di fattori costitutivi e per spiegarla
correttamente Heller si avvale della categoria della “forma” (Gestalt): ogni forma è universale e particolare
e tramite le proprie leggi regola le altre forme, ma viene da esse limitata nella sua individualità. Tenendo
conto di quanto affermato, è possibile comprendere l’affermazione secondo cui “la legge
dell’organizzazione è la legge fondamentale della formazione dello Stato”, poiché le leggi di organizzazione
della Gestalt sono volte a stabilizzare la forma compositiva nel suo insieme. Organizzare significa realizzare
quelle azioni necessarie all’esistenza in continuo rinnovamento di una struttura pianificata di quelle azioni,
secondo una struttura caratterizzata da tre elementi: un agire sociale orientato ad un atteggiamento di
reciprocità della maggior parte degli uomini; le interazioni degli uomini si rivolgono ad un orientamento
costituito da regole a carattere impositivo; la statuizione e garanzia di tali regole è tutelata da organi
specifici.
Nello Stato come Gestalt ogni potere è stabilito attraverso l’intervento degli organi statali e il diritto è la
forma che permette al potere politico di stabilizzarsi, sia dal punto di vista tecnico che etico-spirituale. Il
potere dell’organizzazione ha carattere oggettivo, mentre quello sull’organizzazione ha carattere soggettivo
ed è la struttura organizzativa stessa a dare luogo ad una totalità cui spetta la pienezza del potere. La
differenza di un’organizzazione rispetto alle altre è data dalla sua qualità di potere territoriale sovrano. Ogni
unità collettiva di atti è una struttura organizzata delle azioni che attraverso degli organi viene costituita in
un’unità di decisione ed azione e tutte le organizzazioni più ampie, incluso lo Stato, si fondono sulla
divisione sociale del lavoro. Lo stato si rende autonomo proprio trasferendo specifici compiti statali in capo
ad organi appositamente costituiti, per cui l’unità reale dell’organizzazione si realizza come unità d’azione
nell’interazione dei membri e degli organi sulla base di un ordinamento. Ne deriva un centro di atti,
costituito da fattori molteplici ma che agisce in modo unitario, che non può essere banalmente scomposto
in governanti e governati, in quanto entrambi agiscono solo grazie al legame che li unisce nell’ordinamento.
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B) Hauriou e lo Stato quale istituzione: Il concetto di Istituzione trova una sua concretizzazione esemplare
nello Stato, all’interno del quale l’idea dell’opera da realizzare dà luogo ad un potere di governo e ad una
manifestazione della comunità, che si traduce in una partecipazione all’istituzione. Questa è oggetto di un
triplice processo, di interiorizzazione, incorporazione e personificazione: anzitutto, lo Stato entra nella
prima fase quando l’idea oggettiva si diffonde nelle coscienze soggettive; l’idea è “incorporata” a seguito
della formazione di un governo rappresentativo, i cui organi agiscono per il bene comune (non è necessario
che siano concesse libertà politiche, la rappresentatività è connessa all’operatività a seconda di quale sia
l’idea di Stato); la personificazione si realizza quando si comunica l’idea alla pluralità delle coscienze
soggettive in modo da dare luogo ad assemblee deliberative e manifestazioni comunitarie.
C) Romano e l’ordinamento giuridico come “istituzione”: Nella sua opera “L’ordinamento giuridico”, Santi
Romano considera il fenomeno giuridico come unità che trascende la realtà normativa, affermando che “il
tutto è più della somma delle parti”, per cui l’unità dell’ordinamento è costituita da un elemento strutturale
entro il quale le norme trovano la propria composizione. Il concetto di diritto, per Romano, sussume sia la
norma che l’unità strutturale che pone la norma e ogni ordinamento giuridico si identifica con
“l’Istituzione”, corpo sociale dotato di individualità propria, all’interno del quale l’elemento normativo è
subordinato ad una struttura organizzativa.
D) Romano e lo Stato come “istituzione di istituzioni”: La teoria della “persona giuridica” di Romano si
fonda sulla dottrina dell’organizzazione e sull’affermazione secondo cui la persona giuridica deve avere un
ordinamento interno che ne costituisca il sostrato. Lo Stato come “istituzione delle istituzioni” non ha un
potere di natura “pregiuridica”, poiché Stato e ordinamento non sono fenomeni diversi, lo Stato non è un
prius o un posterius rispetto ai propri poteri e ciò che collega gli elementi statali è l’ordinamento giuridico
statale. Inoltre, le relazioni fra lo Stato e i suoi organi hanno carattere giuridico, in quanto regolati dal
diritto. Se vi è identità fra diritto ed istituzione e per l’istituzione è fondamentale il fattore organizzativo,
allora l’organizzazione stessa, come insieme di organi ed uffici, è diritto.
Dal concetto di ordinamento giuridico è possibile dedurre che ci sono tanti ordinamenti quante istituzioni e
che ciascuno Stato sia da considerarsi come un ordinamento separato dagli altri. Il principio, incontestato
per gli Stati, è spesso criticato per tutti gli altri ordinamenti, che vengono sempre ricondotti al diritto
statuale, che gli imprimerebbe carattere giuridico costituendoli e riconoscendoli. Per Romano, tuttavia, non
è possibile dimostrare l’esistenza di un nesso necessario fra diritto e Stato tale da impedire di immaginare
se non quando è un prodotto del secondo. Anzi, mentre il diritto può essere compreso anche senza uno
Stato, all’opposto non è possibile definire lo Stato senza far ricorso al diritto, non trattandosi di un mero
aggregato casuale di uomini, ma di una comunità organizzata, cioè di un ente giuridico.
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È necessario comprendere se il dualismo fra diritto interno ed internazionale possa negare validità alla
nozione unitaria di Stato come ente ternario. Doehring sostiene che il diritto internazionale e quello interno
costituiscono ordinamenti giuridici diversi e seguono regole differenti, concludendo che la qualità statale
può essere divergente per le relazioni interne ed il diritto pubblico interno. Partendo da quanto affermato,
Quadri conclude che il riconoscimento da parte del diritto internazionale non è costitutivo né dichiarativo
della qualità statale, ma ha una funzione meramente politica che non può sostituire la nozione di soggetto
di diritto internazionale a quella di Stato.
3. Il Popolo
B) Il “Principio di nazionalità”: la periodizzazione di Scheuner: Nel suo studio del principio di nazionalità,
Ulrich Scheuner distingue tre periodi:
- La genesi del principio, all’inizio dell’età moderna, cioè nell’epoca pre-nazionale delle formazioni di
Stato dinastiche.
- L’età aurea dello Stato nazionale, che prende avvio con la rivoluzione francese e si sviluppa lungo la
metà del diciannovesimo secolo e il primo decennio successivo alla prima guerra mondiale: in
questo periodo storico tutti i grandi eventi politici sono espressione della volontà nazionale.
- Il declino del principio in Europa, che perde di rilevanza a partire dalla fine della seconda guerra
mondiale.
C) Nazioni culturali e nazioni territoriali nella distinzione di Meinecke: Friedrich Meinecke distingue fra
Nazioni culturali e territoriali: le prime sono fondate in virtù di un possesso culturale conquistato attraverso
uno sforzo comune, come potrebbe essere la lingua, la letteratura o la religione; le seconde si fondano
invece sulla virtù unificatrice di una storia politica ed una legislazione comuni. La Nazione territoriale può
qualificarsi in base a caratterizzazioni ideologiche di tipo nazionalistico o costituire una determinazione
accessoria del concetto giuridico di popolo.
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D) Stato e Nazione: I concetti di Nazione e Stato non sono sovrapponibili, si pensi alle nazioni divise fra più
Stati, come i Curdi, o alle situazioni in cui lo Stato, inteso come struttura organizzativa, ha contribuito alla
costruzione del concetto di nazione, come avvenuto nella Confederazione Svizzera, in cui entità
demografiche diverse per lingua e cultura hanno trovato nello Stato lo strumento di formazione della
comunità politica.
E) Il concetto di popolo ed il dualismo di Stato-governo e di Stato-società: La teoria dei tre elementi, nella
formulazione di Jellinek, esclude il dualismo fra Stato-governo e Stato-società: ravvisare nel popolo un
elemento dello Stato è inconciliabile con la nozione di Stato-apparato, che, in quanto struttura
organizzativa autoritaria, include il sovrano ma esclude i cittadini; allo stesso modo, questa costruzione è
inconciliabile con la nozione di Stato-società, poiché non contempla la sovranità né il territorio, elementi
essenziali per il concetto stesso di Stato. Di conseguenza, come già detto, la dottrina dei tre elementi va
intesa in ragione della funzione unificante del potere sovrano sugli elementi personale e spaziale.
F) Il popolo quale “elemento” dello Stato (teoria generale) e la “cittadinanza” quale istituto di diritto
pubblico: Non c’è inconciliabilità fra il concetto di popolo come elemento dello Stato, oggetto della teoria
generale, e quello di popolo come oggetto della qualificazione giuridica effettuata dagli ordinamenti
giuridici statali. Proprio dalla qualificazione giuridica risulta l’istituto della cittadinanza, a seconda delle
condizioni richieste dai vari ordinamenti per la determinazione dell’appartenenza allo Stato.
Le due accezioni del termine “popolo” si collocano in una connessione dialettica, nella quale può
distinguersi il momento genetico della Stato, oggetto della teoria generale in cui il popolo si pone come
elemento, dal momento della qualificazione giuridica, in cui il popolo è oggetto della concreta
individuazione in cui si traduce l’istituto della cittadinanza.
G) Popolo e gruppo etnico: Pernthaler evidenzia che i concetti di “popolo” e “gruppo etnico” siano di
difficile determinazione dal punto di vista giuridico. Il diritto internazionale non ne dà alcuna definizione e
le sue norme hanno come destinatari soltanto gli Stati, che impongono poi obblighi per la tutela dei gruppi
etnici, oggetto della quale sono gli individui appartenenti alle minoranze. Nel pensiero di Pernthaler, i
caratteri di un gruppo etnico dovrebbero essere stabiliti dall’etnologia o dall’etnosociologia e la
propensione di una minoranza a considerarsi tale deve riscontrarsi in elementi oggettivi: la comune
discendenza; la lingua; la religione; la condivisione di storia e territorio; la coscienza e la volontà di
appartenere ad una determinata etnia.
L’idea dell’autodeterminazione nazionale è stata sviluppata dai teorici della rivoluzione francese ed
americana ed è stata poi ripresa dal diritto internazionale. Non c’è accordo in dottrina su chi siano i titolari
del diritto di autodeterminazione, ma, nella posizione concettuale prevalente, questo viene riservato agli
Stati nazionali o ai popoli colonizzati. Il fondamento di questa limitazione del diritto ai soli Stati, assurda per
Pernthaler, trova ragione nel timore degli Stati già costituiti che particolari gruppi etnici possano richiedere
il diritto di autodeterminarsi. In questa accezione limitata, il diritto finisce per assumere funzioni e
contenuti giuridici divergenti dall’intendimento originario.
Buchanan scrive che nel diritto internazionale c’è stata una certa riluttanza a riconoscere il diritto di
secessione nel diritto internazionale, quest’ultimo inteso, fino a metà novecento, come il diritto che
riguardava le relazioni fra nazioni. Solo dopo il concetto di diritto internazionale si è allargato, abbracciando
non solo ciò che riguardava gli Stati, ma anche gli individui. Ciononostante, la tutela internazionale delle
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4. La sovranità
A) La coessenzialità di Stato e di sovranità: La connessione fra Stato e sovranità risulta evidente dall’analisi
storica e sorge contestualmente al nascere dello Stato moderno, momento nel quale i giuristi medievali
elaborarono il principio di sovranità, anche se si ritiene che la genesi del concetto di sovranità sia anteriore
a quella del concetto di Stato moderno.
B) Bodin e la fondazione del concetto: natura e caratteri del potere sovrano: Bodin individua nella
sovranità il nucleo essenziale della nozione di Stato, affermandone i caratteri di assolutezza e perpetuità: la
sovranità è il potere assoluto e perpetuo proprio dallo Stato. È dibattuta l’originarietà di questo potere nel
pensiero bodiniano, poiché, mentre sul piano giuridico-filosofico viene utilizzato lo schema del
conferimento del popolo, dal punto di vista politico la legittimazione della sovranità trova la propria radice
nell’immagine dell’elevazione del potere regale a Dio. Il principe sovrano della sua dottrina non si fondava
sul riconoscimento o la sottomissione ad altre autorità storiche, ma per il suo potere assoluto derivante
dall’elevazione della sua volontà ad una causa trascendente ogni potere mondano, concretizzandosi
nell’attribuzione indivisibile del potere legislativo: “le leggi sono cosa pubblica e comune e dipendono dal
sovrano”.
Bodin respinge il concetto delle forme statali miste e ritiene che ne possano esistere solo tre forme: la
democrazia assoluta, l’aristocrazia assoluta e la monarchia assoluta, che è la migliore. La sovranità trova un
limite solo nel diritto privato, poiché i contratti vincolano anche il sovrano e la libertà personale e la
proprietà devono essere riconosciute come inviolabili.
D) L’imperium come contrassegno del potere statale. La separazione fra sovranità e potere statale
(Staatsgewalt): I due aspetti della sovranità, supremazia ed indipendenza, sono stati concepiti anche come
separati fra loro, come in occasione della fondazione del Reich tedesco, Stato federale che portò lo stesso
Jellinek ad ammettere che la sovranità non può più essere intesa come elemento essenziale dello Stato,
dovendosi piuttosto distinguere fra Stati sovrani e non sovrani. È palese che una simile costruzione si pone
in contrasto con la nozione di sovranità di Bodin e con la definizione di Jellinek dello Stato come
corporazione territoriale indipendente.
E) Le dottrine critiche della separazione fra sovranità e Staatsgewalt: La dottrina della separazione fra
imperium (potere interno) e sovranità (potere più indipendenza) impone una riduzione delle connotazioni
che tradizionalmente sono riconosciute alla statualità. Con riguardo alle federazioni, difatti, se si assume la
sovranità come contrassegno del potere statale, è impossibile considerare come Stati le entità territoriali
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F) I due momenti del potere sovrano – La sovranità come potere fattuale: le origini del concetto in Bodin:
Dalla coessenzialità di Stato e sovranità deriva la duplice natura del potere sovrano, che trova concretezza
in due momenti, come potere fattuale e come qualificazione giuridica. Sotto il primo punto di vista, la
sovranità è potere fattuale che precede l’ordinamento giuridico, costituendone l’elemento genetico
manifestandosi come potere costituente, potere cioè di stabilirne i valori, ossia i principi etici e sociali, e
predisponendo l’apparato statale che si occuperà di realizzarli. Bodin ravvisava proprio nel potere di dare o
annullare le leggi la principale prerogativa del potere sovrano, non soggetto a leggi fondamentali di sorta e,
dunque, con un potere paragonabile a quanto oggi si definisce “costituente”. Più specificamente, la
funzione legislativa può essere la principale prerogativa del potere sovrano ovvero legittimare deroghe
all’assetto legislativo ed istituzionale anteriore, poiché “la forma e il regime di uno Stato sono determinati
da chi ha in esso il potere sovrano”. È dunque possibile affermare che il potere sovrano si pone come
potere politico antecedente alla qualificazione giuridica.
I due momenti del potere sovrano – La sovranità come “qualificazione giuridica”: Nel suo secondo
significato, il potere sovrano, come conseguente all’esercizio del potere costituente, si esprime nelle
moderne costituzioni scritte e nelle strutture organizzative che hanno lo scopo di attuarne i valori. La
sovranità diviene un potere subordinato ad una qualificazione giuridica che trova concretezza nel
conferimento della personalità, da parte dell’ordinamento giuridico interno, come centro d’imputazione
delle norme alla totalità statale. Alla comunità statale ordinata dal diritto, dunque, spettano i poteri
all’interno del suo territorio e l’indipendenza rispetto alla comunità internazionale. Secondo Chiarelli non
bisogna però sovrapporre il significato del concetto di sovranità a quello di indipendenza nella comunità
internazionale, poiché assumono rilevanza in riferimento a ordinamenti diversi: il potere sovrano implica la
supremazia del suo titolare in un ordinamento di tipo autoritario, vale a dire quello interno dello Stato;
l’indipendenza internazionale concerne invece una posizione di uguaglianza dello Stato nei rapporti con gli
altri stati sul piano paritario del diritto internazionale. Più in particolare, l’ordinamento statale è autoritario
perché le sue norme traggono efficacia dall’ordinamento stesso, in cui il potere sovrano è sovraordinato a
coloro che vi sono soggetti, mentre in quello internazionale si ha un rapporto paritario poiché è costituito
da norme poste dagli stessi soggetti che ne fanno parte ed è assente un potere superiore ad essi. La
coincidenza dei due aspetti si è attuata con gli Stati nazionali, ma non è una necessità se si pensa
all’esistenza degli Stati membri di uno Stato federale, che, pur senza essere soggetti di diritto
internazionale, sono comunità fissate su un determinato territorio e giuridicamente organizzate sulla base
di un potere sovrano.
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5. Il territorio
A) Il territorio quale elemento dello Stato: La definizione di Jellinek, da cui deriva la dottrina dei tre
elementi, considera lo Stato come una comunità stanziata, dotata di potere originario. Va ricordato che la
relazione fra i tre elementi non va mai intesa in senso statico, quale mera somma, ma in senso dinamico,
cioè in virtù della funzione unificante che il potere sovrano originario esercita sugli elementi personale e
spaziale, dando luogo ad un vincolo di coessenzialità.
B) Stato moderno e territorio: ripudio delle concezioni patrimonialistiche: La diretta connessione fra
territorio e Stato è incompatibile con le concezioni patrimonialistiche. Brunner, difatti, riconosce le
sostanziali differenze fra lo Stato medievale e quello moderno, evidenziando che i poteri di signoria feudali
sul territorio presuppongono un dualismo fra soggetto ed oggetto del dominio, inconciliabile con la
coessenzialità posta a fondamento della dottrina dei tre elementi. L’austriaco afferma che la signoria di un
signore sulla terra rappresentava, originariamente, un complesso di diritti di differente natura riuniti nelle
mani di un signore. Gradualmente, questa sovranità territoriale cominciò ad indirizzarsi anche verso il basso
e non si distingueva più tra singoli diritti feudali, signorili o fondiari, considerandoli piuttosto come un
potere per sua natura unitario ed esteso a tutto il territorio. Per Brunner infatti, anche se la comprensione
giuridica del tempo non permetteva una simile qualificazione, il complesso di diritti nelle mani del signore,
definito “signoria” dalle fonti medievali, altro non è che il moderno potere dello Stato che ancora non ha
riconosciuto chiaramente la propria natura unitaria. Proprio questo potere unitario dello Stato costituisce
l’unità del territorio, per cui tutte le signorie sono territori.
C) Il rapporto Stato-territorio: Henrick effettua una classificazione del rapporto tra Stato e territorio,
individuando cinque posizioni teoriche: la teoria del territorio-oggetto; le teorie miste; la teoria del diritto
internazionale privato; la teoria della competenza; la teoria del territorio-spazio.
La teoria del territorio oggetto: Nell’epoca in cui diritto privato e pubblico erano ancora indifferenziati, il
territorio veniva considerato come una cosa, concezione che inevitabilmente si rifletteva anche sul
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Le teorie miste: Alcune teorie, tra cui quella di Laband, attribuiscono al territorio una doppia funzione:
come oggetto esterno allo Stato e spazio entro cui viene esercitato il potere statale. Tra questi due aspetti
non sembra sussistere una dialettica, dando luogo ad una nozione di Stato che non tiene conto del
territorio come elemento formativo.
La teoria del diritto internazionale privato: Henrick qualifica questa ricostruzione come anticipazione della
teoria della competenza. Dovuta principalmente a Zitelmann, questa teoria ha come oggetto non una
precisa definizione del rapporto Stato-territorio, ma l’individuazione di criteri volti a dirimere i contrasti
normativi fra i vari ordinamenti, configurando il territorio solo come ambito spaziale dei diversi
ordinamenti.
La teoria della competenza: Formulata per la prima volta da von Radnitzky, la teoria trova il suo principale
esponente in Kelsen. In linea con la dottrina normativistica che afferma l’identità di Stato e diritto, si
concepisce il territorio esclusivamente come ambito di validità dell’ordinamento giuridico dello Stato,
escludendo la coessenzialità dei tre elementi, che sono “suscettibili soltanto di determinazione giuridica”.
Anzitutto, scrive Kelsen, se lo Stato è un ordinamento giuridico, tutte le caratteristiche dello Stato devono
essere in grado di essere presentate come proprietà dell’ordinamento giuridico. Lo stato concepito come
unità sociale nella dottrina dei tre elementi sembrerebbe implicare un’unità geografica, ma avviene spesso
che ad un territorio statale appartengano spazi che non sono fisicamente contigui, come nel caso delle
colonie. Queste aree geograficamente separate possono essere considerate come unità solo in quanto uno
stesso ordinamento giuridico sia valido per tutte, potendosi quindi concludere che il territorio è un’unità
giuridica e non geografico naturale, che può essere definita come la sfera territoriale di validità
dell’ordinamento giuridico chiamato Stato. Caratteristica tipica dello Stato, difatti, è che la sua sfera
territoriale di validità è limitata, a differenza di quella relativa ad altri ordinamenti sociali, come del diritto
internazionale, che pretende di essere valida dovunque.
Kelsen affronta anche il problema del territorio dello Stato in relazione al decentramento e al
frazionamento, cioè quando la stessa comunità giuridica è divisa all’interno di uno stesso territorio in una
pluralità di ordinamenti giuridici parziali che siano parte di un ordinamento totale. La norma fondamentale
deve quindi essere valida per tutto il territorio, che si suddivide in frazioni conformemente agli ordinamenti
parziali delegati dalla norma fondamentale, nella quale trovano la propria unità.
La teoria del territorio-spazio: Secondo questa dottrina, il territorio è un’entità fisico-geografica costitutiva
dell’essenza del fenomeno statale, dunque non è oggetto di un diritto reale né presuppone alcuna
qualificazione giuridica rispetto al concetto di Stato, ma esiste in senso naturalistico. Lo Stato non “ha” un
territorio, ma “è anche” territorio, secondo l’interazione dinamica dei tre elementi per la quale il territorio
è senz’altro oggetto del potere sovrano, ma lo Stato non è titolare di un diritto su di esso né può formarsi
indipendentemente. Contrariamente al contenuto normativista della teoria della competenza, l’attitudine
di un popolo ad insediarsi su un dato territorio si manifesta come connotazione antropologica e non
giuridica: elemento demografico, spaziale e di dominio sono momenti costitutivi che operano
dinamicamente sul piano storico-fattuale e non nozioni derivabili dall’ordinamento, in quanto fattori
genetici dello Stato e dell’ordinamento stessi. In questo senso, solo una volta costituita la struttura
organizzativa statale l’ordinamento dà la qualificazione al territorio, ma non ne crea la nozione, così come
individua il popolo attraverso l’istituto della cittadinanza.
Va sicuramente ricordata l’analisi di Hamel, che ribalta del tutto la tesi normativistica e ritiene che non sia
l’ordinamento giuridico come espressione del potere sovrano a configurare un tipo di territorio, ma che sia
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Il rapporto Stato-territorio, conclusioni: L’unica teoria che si mostra compatibile con la Dottrina dei tre
elementi è quella del territorio-spazio, che coglie quel fondamentale aspetto della coessenzialità, mentre
quella del territorio oggetto lo considera solo come oggetto di diritto reale, quella mista lo inquadra come
oggetto esterno allo Stato e ambito di validità del suo potere e, infine, quella della competenza considera lo
Stato come ordinamento normativo ed il territorio come non coessenziale. Di sicura rilevanza è la
formulazione di Fricker, che permette di cogliere adeguatamente la coessenzialità fra Stato e spazio
territoriale: lo Stato non c’è se uno dei tre elementi viene a mancare e solo una volta che questi siano
congiunti formano l’organizzazione dello Stato, che viene così ad esistere. Poiché questa unione costituisce
l’essenza stessa dello Stato, il suo concetto non può esistere senza tale unione e non può essere soggetto a
mutamenti causati dal diritto. Non si può parlare dunque di un legame dello Stato con il territorio perché
non si può affatto concepire che uno Stato esista senza di esso.
1. La nozione di “persona”
Il termine persona, derivante dal greco “prosopon” che originariamente indicava il volto dell’uomo, ha
assunto significati diversi nel corso della storia. Interessante è l’analisi di Stoetzel, esperto di psicologia
sociale, sui significati che il vocabolo assunse nel latino classico: come apparenza esteriore (derivata
dall’idea di maschera), come ruolo interpretato dall’attore, come la persona stessa dell’interprete e come
personaggio con una significazione di valore. È opportuno osservare che questi significati continuano ad
avere una rilevanza in diversi ambiti della nostra cultura e società.
2. La persona giuridica
A) L’evoluzione storica: Nella giurisprudenza classica romana non veniva realizzata alcuna personificazione
e i diritti e gli obblighi del gruppo non venivano concepiti come propri dello stesso, ma appartenenti a
ciascuno dei suoi componenti. Lo stesso dovrà dirsi per il medioevo, durante il quale i Glossatori,
attenendosi al Corpus Iuris, non giunsero ad una contrapposizione fra persona giuridica e persone che ne
facevano parte. Furono invece i Canonisti a formulare la teoria della finzione e ad affermare il carattere
personale dell’universitas (ente collettivo che si autogoverna parzialmente, in dipendenza da un’autorità
superiore, generalmente i comuni dell’Italia meridionale). Nel XIX secolo, l’elaborazione teorica del
concetto di persona giuridica annovera due indirizzi: la teoria della finzione e la teoria della realtà.
B) La persona giuridica e la teoria della “finzione”: Partendo dal concetto di “persona ficta” elaborato dai
canonisti, Savigny affermò che la personalità giuridica può essere riconosciuta laddove lo Stato assurga a
soggetto di diritto e l’ordinamento giuridico conferisca la soggettività ad alcune entità sociali, realizzando
così una finzione, poiché solo i soggetti individuali sarebbero dotati di capacità di diritto. Tuttavia,
nonostante sia solo l’uomo a poter essere considerato come una persona reale, determinate finalità sociale
fanno ritenere utile fingere la personalità di qualcosa che non sia un essere umano, attribuendovi una finta
soggettività giuridica. È però giusto sottolineare che il diritto esige soggetti, ma un soggetto-finzione non è
un soggetto, è soltanto finzione.
C) La persona giuridica e la teoria della “realtà”: La tesi che attribuisce soggettività giuridica
esclusivamente all’essere umano cominciò a perdere rilievo quando Jhering pose al centro del diritto
soggettivo non più il dogma della volontà, ma l’interesse giuridicamente protetto. La teoria della finzione
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B) Le teorie negative della persona giuridica statale: Il concetto di persona giuridica fu nettamente
rigettato da tutti gli autori che, in linea con le concezioni patrimonialistiche, attribuiscono la soggettività
giuridica non allo Stato, ma al monarca. Rilevante è soprattutto la critica di Fritz Sander, per il quale lo Stato
non è un soggetto ma uno “status”, cioè un modo di essere, una situazione. Per Sander la teoria dello
Stato-persona non ha alcun fondamento di validità scientifico e costituisce una mera espressione di una
tendenza del pensiero e del linguaggio, che appare comoda per concepire un oggetto altrimenti
difficilmente intelligibile, facendo un soggetto simile a quello umano. Si deve però rilevare che, se la
dottrina dello Stato è, come afferma Heller, “scienza della struttura”, la “situazione” cui fa riferimento
Sander altro non è che la situazione dello Stato come struttura sociale, accezione nella quale essa è
perfettamente personificabile.
Criticabile è anche la posizione di Vincenzo Miceli, secondo cui il concetto unitario di persona è
incompatibile con la molteplicità di estrinsecazioni che vi fanno capo, poiché la volontà dello Stato si muove
attraverso una molteplicità di voleri soggettivi, che possono addirittura essere discordanti. Come evidenzia
la moderna psicologia, anche la persona fisica è un’entità organica e la sua personalità è l’organizzazione di
tutte le disposizioni innate ed acquisite. Negare la nozione di persona giuridica statale per la strutturazione
gerarchica delle sue manifestazioni non è ammissibile, se una simile strutturazione è presente anche nella
persona individuale.
C) La persona giuridica statale quale “entità formale”: Così come la figura dell’uomo “soggetto di diritto” è
stata posta al centro della costruzione del diritto privato, il principio della personalità dello Stato è stato il
punto di partenza per ogni costruzione giuridica di diritto pubblico. La determinazione del carattere formale
della persona giuridica statale si fa risalire a Gerber, Laband e Jellinek.
C1) La persona giuridica statale come “astrazione”: La persona giuridica non deve essere considerata come
una “finzione”, termine che indica una falsa rappresentazione della realtà, poiché si finirebbe per teorizzare
la concretizzazione di un’entità inesistente. Jellinek afferma che l’indicare la volontà unitaria dello Stato
come finzione giuridica significa ammettere di non poterlo spiegare giuridicamente. Più correttamente,
deve parlarsi della persona giuridica come “astrazione”, cioè come centro di riferimento dell’attività degli
organi deputati a realizzare la volontà dello Stato attraverso il diritto. Capograssi definisce l’astrazione, sul
piano filosofico, come l’atto attraverso cui lo spirito si rende conto della complessità e totalità vivente del
concreto, distinguendo nella sua storia unitaria i momenti che la compongono.
C2) Il nesso tra la persona giuridica statale e l’elemento sociologico: Gerber considera il popolo come la
realtà naturale sulla quale si fonda lo Stato come personalità giuridica. Per l’autore, lo Stato è
sociologicamente un organismo morale e spirituale; al contempo, dal punto di vista giuridico, la formazione
organica è ricondotta ad unità nella costruzione concettuale della persona giuridica, che è essenzialmente
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C3) Il progressivo attenuarsi del nesso fra la persona giuridica statale e l’elemento psicologico: Nella sua
teoria della “doppia natura dello Stato”, Jellinek riprende il dualismo tra i fenomeni sociali e la costruzione
del diritto, che culmina nella nozione di persona giuridica come entità formale. L’autore cristallizza l’unità di
associazione di una molteplicità di soggetti nella “corporazione”, nesso fra l’elemento sociologico dello
Stato e la persona giuridica statale. Il concetto di corporazione è di natura giuridica, poiché la personalità
della corporazione è il prodotto di una relazione fra i soggetti dell’associazione e l’ordinamento normativo.
La personalità giuridica statale, dunque, va intesa come “capacità di volere e di agire”, in quanto pone in
essere le relazioni giuridiche fra gli individui appartenenti alla corporazione attraverso i propri organi.
Questo non significa che la persona dello Stato debba essere identificata con l’insieme dei suoi organi,
come nella lettura di Jellinek data da Hafelin, ma che senza un apparato organizzativo lo Stato non può
esteriorizzare la propria capacità di volere ed agire. Per Jellinek, in conclusione, lo Stato è un’associazione
con unità collettiva che non può essere considerato come una finzione di una sostanza inesistente, ma
come forma posta alla base delle istituzioni e dotata di soggettività giuridica in maniera non diversa dagli
individui umani.
Con Laband, la distanza tra le tematiche sociologiche gerberiane dello Stato come organismo etico-
spirituale e le teorizzazioni giuridiche viene accentuata, in direzione del formalismo positivistico che portò
poi ad equiparare i rapporti giuridici alle relazioni logiche. Come rileva Gierke, nella dottrina labandiana lo
Stato, più che come istituzione, viene considerato come soggetto di diritti e di obblighi, secondo una
concezione formale della persona che antepone il carattere logico delle relazioni giuridiche al carattere
sostanziale della corporazione statale.
C4) La dissoluzione del nesso tra la persona giuridica statale e l’elemento sociologico nella “Dottrina pura
del diritto” di Hans Kelsen: L’equazione normativistica kelseniana comporta un’identità fra Stato ed
ordinamento giuridico che impedisce di concepire aspetti della realtà sociale che siano indipendenti
rispetto all’ordinamento normativo. La realtà sociale, per Kelsen, è oggetto di analisi da parte di diverse
metodologie scientifiche: da un lato la scienza causale, che include le discipline naturalistiche fondate sulla
relazione di causa ed effetto, dall’altro la scienza normativa, avente ad oggetto i comportamenti umani in
quanto determinati da norme. La logica conseguenza è che la società e l’ordinamento sono la stessa cosa e
che, se la società è definita “comunità”, ciò che è comune agli uomini che ne fanno parte è l’ordinamento
che ne regola il comportamento reciproco. La società è quindi un posterius rispetto all’ordinamento
giuridico statale ed è intelligibile attraverso lo stesso principio metodologico che presiede all’indagine della
sfera giuridica, ossia il principio di imputazione normativa, per cui non esiste collegamento ma
identificazione fra società e diritto.
La persona giuridica è quindi una metafora attraverso cui è possibile affermare che ogni funzione
determinata dall’ordinamento giuridico viene assolta dallo Stato considerato come persona. Per Kelsen, il
problema di comprendere se un certo comportamento può essere ascritto allo Stato deve essere analizzato
anzitutto comprendendo la natura di questa operazione concettuale: se si tenta di comprendere quand’è
che lo Stato come persona abbia posto in essere un dato fatto come se si volesse stabilire quand’è che un
uomo compie un’azione, la questione non potrebbe mai essere risolta, poiché sarà sempre e soltanto un
certo uomo che agisce, pur se come organo statale. Solo se si rappresenta lo Stato come soggetto agente,
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C5) La persona giuridica e gli organi dello Stato: La nozione di organo è storicamente e logicamente
connessa con quella di persona giuridica, in qualità di strumento attraverso il quale questa vuole ed agisce.
Inizialmente, il rapporto fra lo Stato e i soggetti che agivano per conto di esso veniva ascritto all’istituto
privatistico della rappresentanza, ma lo schema fu poi superato mediante la distinzione giuspubblicistica fra
“ufficio” e “portatore dell’ufficio”. Per la dottrina organica, poi, l’organo non è dotato di una propria
personalità giuridica, poiché è parte integrante della persona giuridica dello Stato, come parte di un tutto
inscindibile. Anche da coloro che rifiutarono la dottrina organica, il concetto di organo rimase
fondamentale, pur se posto in corrispondenza con quello di organizzazione e non di organismo, come fece
Jellinek.
C6) La persona giuridica dello Stato e l’apparato organizzativo: La dottrina tradizionale riconosce
all’organo due elementi: uno soggettivo, che corrisponde alla persona fisica, ed uno oggettivo, ossia
l’ufficio; mentre il primo varia con l’avvicendarsi delle persone, il secondo ha una stabilità duratura, in
quanto collegato alla funzione cui l’organo è deputato in forza di norme giuridiche. La funzione giuridica
dell’ufficio riguarda sia i rapporti interni, fra gli uffici della persona giuridica, che i rapporti esterni, fra la
persona fisica e soggetti esterni. Nel suo significato giuridico, l’ufficio non è strumento dell’imputazione, ma
risponde allo scopo di definire la distribuzione delle funzioni all’interno dell’organizzazione dell’ente ed è
questo il discrimine rispetto all’organo, che è invece lo strumento dell’imputazione. Secondo Giannini
infatti, sono organi solo quegli uffici che le norme indicano come idonei ad operare l’imputazione giuridica
dell’ente. È questa la distinzione fra uffici in senso giuridico ed organi.
Fra ufficio ed organo sussiste un rapporto di genere a specie per cui:
- L’organo è definito solo da norme di legge primarie, mentre gli uffici sono regolati da norme
secondarie;
- Nei rapporti giuridici intersoggettivi, solo l’organo può operare giuridicamente;
- L’immedesimazione organica si produce con l’imputazione all’ente di intere fattispecie di condotte,
comportamenti ed atti.
Giannini aggiunge che il concetto di organo si presenta come idoneo a sostituire quello di rappresentante,
in quanto lo schema privatistico realizzava una scissione dell’imputazione, creando una dicotomia fra lo
stato soggettivo del rappresentante e quello del rappresentato, mentre con l’organo si assiste ad
un’imputazione piena e viene meno la considerazione della persona giuridica quale soggetto incapace
d’agire.
C7) La persona giuridica Statale come “personificazione dell’apparato”: Già Kelsen, nel riconoscere nella
persona giuridica una metafora, ebbe modo di distinguere fra una “personificazione dell’ordinamento
giuridico nazionale” ed una più ridotta “personificazione dell’organizzazione statale” intesa come
“ordinamento giuridico parziale”. La separazione fra Stato e persona giuridica statale è sostenuta da Hans
Wolff, il quale, allontanandosi parzialmente dalla visione kelseniana, personificava puramente l’apparato,
negando che fosse personificabile l’intero complesso normativo statale. Secondo questa teoria, ciò che
viene personificato non è il popolo o la nazione, ma è l’organizzazione quale ordinamento giuridico parziale.
Più correttamente, nei rapporti esterni si può riconoscere lo Stato quale personificazione giuridica del
popolo, concetto che deve tenersi separato rispetto a quello di “persona statale” come personificazione
puramente dell’organizzazione e non dell’intero ordinamento giuridico dello Stato. [In senso giuridico,
pertanto, lo Stato si definisce come il complesso delle relazioni giuridiche che dipendono da una superiore
norma positiva di delegazione o da un sistema di tali norme (la legge costituzionale), mentre la persona
26
C8) Critica della concezione che identifica la persona giuridica dello Stato con l’apparato: La teoria per cui
la persona giuridica statale sarebbe solo la personificazione dell’apparato viene criticata poiché porterebbe
a ritenere che gli organi effettuano l’imputazione giuridica all’ente per il quale agiscono, cioè
l’organizzazione medesima e, quindi, a se stessi unitariamente considerati. Questa costruzione tautologica,
peraltro, esclude altri elementi dello Stato, in particolare il popolo, che nelle moderne costituzioni
costituisce il fattore unico di legittimazione dell’apparato. La distinzione fra Stato e persona giuridica statale
non tiene conto del legame dialettico sussistente fra questi due elementi, anzi proprio l’ordinamento
giuridico nel suo elemento di base, ossia la legge fondamentale, assicura il necessario collegamento fra
Stato e persona giuridica statale: da un lato le relazioni giuridiche costituenti lo Stato sono delegate da un
ordinamento normativo alla cui base viene posta la costituzione, dall’altro l’operatività del meccanismo di
imputazione degli atti alla persona giuridica statale è possibile in ragione delle norme di tale ordinamento e
gli stessi contenuti degli atti imputati alla persona statale devono essere conformi al dettato costituzionale,
sul quale l’ordinamento in questione si regge.
C9) La persona giuridica dello Stato come “personificazione” dell’intera fenomenologia statualistica:
Radicato nella Scuola organica, l’indirizzo organicistico considera l’unità dello Stato come analoga a quella
dell’essere vivente, come prodotto della dinamica delle sue componenti che, con le loro interazioni,
formano un “tutto”. L’entità che ne risulta non è determinata meramente sul piano del diritto, attraverso la
creazione da parte dell’ordinamento giuridico di un centro di imputazione degli atti posti in essere dagli
organi, né può essere considerata solo come la concretizzazione dell’unità di un ordinamento statale cui va
ascritta una determinata funzione. La persona dello Stato non è una qualità formale nata dal diritto, ma una
realtà complessiva dei vari elementi alla cui strutturazione il diritto concorre, in una struttura articolata
nelle sue componenti come un’entità reale, non come creazione giuridica.
Con il venir meno dei consensi intorno alle dottrine organologiche, alcune delle istanze fondamentali che le
caratterizzavano furono riprese dalle moderne analisi sociologiche e politologiche basate su modelli
sistemici, nel tentativo di considerare la dinamica delle interazioni fra fattori sociopolitici, da un lato, e
giuridico-costituzionali, dall’altro, al fine di eliminare i rigidi meccanismi del formalismo giuridico.
C10) La concezione “totalizzante” della persona statale ed il rapporto fra persona e sovranità dello Stato:
Il rapporto fra persona giuridica e sovranità dello Stato sembra essere di difficile comprensione: la persona
giuridica, prodotto dell’ordinamento giuridico, è il soggetto della sovranità, in quanto punto di riferimento
di ogni attività sovrana dello Stato; allo stesso tempo, la sovranità, come esplicazione del potere
costituente, è la fonte dell’ordinamento giuridico. Per risolvere l’antinomia è necessario adottare un
metodo fondato sulla circolarità dialettica fra elemento sociopolitico e statuizioni giuridiche, cioè
considerando lo Stato come un “sistema globale” alla cui formazione concorrono forze e poteri portatori
della “sovranità fattuale”, che, relazionandosi, danno luogo al documento costituzionale come fonte della
“sovranità formale”. Divenuta vigente la Costituzione, la sovranità si trasfonde negli organi costituiti in
conformità ad essa. La persona giuridica è, dunque, un punto di ascrizione di norme e rapporti giuridici,
creato dal diritto in riferimento alla persona reale, come sua proiezione che perfeziona l’unità sostanziale
sul piano del diritto. La sovranità, elemento formativo della persona reale, si presenta allora come attributo
della persona giuridica statale, in quanto costituisce il complemento della persona reale e non può
intendersi come disgiunto da essa.
Di sicura rilevanza è la riflessione di Cereti, il quale affermava che l’organizzazione di governo e
amministrazione non è la persona dello Stato, ma una sua parte, o meglio un suo strumento, essenziale per
l’esercizio della sovranità, la formazione della volontà e il raggiungimento dei suoi fini. La personalità
giuridica dello Stato unifica gli elementi dello stesso e la sua organizzazione, dando vita ad un unico
soggetto giuridico, per cui porre la comunità popolare al di fuori della persona dello Stato significa mutilarlo
ingiustificatamente di una sua parte essenziale.
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A) La Costituzione come “organizzazione” dello Stato e come “modello” di Stato: La Costituzione viene
anzitutto intesa come struttura e, secondo Haverkate rispondono a due scopi: stabilire l’organizzazione
statale, ossia la competenza e l’ordinamento degli uffici, e stabilire le finalità dello Stato e le ideologie che
vengono poste alla sua base. Questa concezione intende la Costituzione come relativa “all’essere” dello
Stato, con carattere descrittivo. Diversa è la teorizzazione di chi fonda il concetto di Costituzione su
elementi contenutistici in assenza dei quali uno Stato non può considerarsi come “costituzionale”, con
riferimento ai diritti dell’uomo e alla divisione dei poteri, contrassegni della democrazia rappresentativa. In
questo caso, la Costituzione è intesa come relativa al dover essere dello Stato, con un carattere prescrittivo.
La prima concezione è comune agli Stati aventi Costituzioni sia scritte che consuetudinarie, la seconda è
collegata al sorgere delle Carte costituzionali e si afferma con l’avvento delle Costituzioni scritte.
B) La coesistenza dei due concetti nel pensiero di Aristotele: Nel pensiero aristotelico è possibile
individuare la Costituzione sia intesa come struttura che come modello ideale, per il filosofo aspetti
complementari e correlati: la descrizione comparativa delle Costituzioni esistenti è lo strumento attraverso
cui è possibile acquisire il concetto di Costituzione ideale. Nella sua teorizzazione dello Stato ideale
attraverso l’indagine empirica sugli Stati, viene infatti enunciato il concetto di politìa, cioè di una
Costituzione tra tutte le altre che sia principio e misura di queste e della Costituzione in generale. L’analisi
di Gunter Blen del pensiero aristotelico evidenzia la compresenza dei concetti descrittivo e prescrittivo di
Costituzione, il primo con il nome di politeia, cioè Costituzione in generale, il secondo con il nome di politìa,
cioè la Costituzione come modello ideale.
A) Costituzione in senso formale e potere costituente: Per Zagrebelsky, la Costituzione formale si riferisce
alle regole volontariamente create dall’esterno dei rapporti politici e sociali concreti, al fine di determinarli
sistematicamente. Il carattere formale viene ulteriormente accentuato nelle Costituzioni rigide, che, per la
modifica di norme costituzionali, prevedono procedimenti più complessi rispetto a quelli necessari per la
legislazione ordinaria. Nonostante alcuni tentativi in dottrina, non è possibile attribuire una preliminare
giuridicità alle forze politiche che esercitano il potere costituente, le quali possono trarre legittimazione
solo dallo Stato, che ne costituisce il prodotto, e non possono essere considerate come organi, che esistono
solo in forza della Costituzione stessa. Carrè de Malberg ha sostenuto che la pretesa di percorrere a ritroso
il corso della Costituzione per scoprire la fonte giuridica dello Stato è un errore: la fonte dello Stato è di
fatto, al quale solo successivamente si ricollega il diritto.
B) La Costituzione formale è espressione del “potere costituente” quale potere fattuale: Accettando che il
dogma della sovranità popolare sia dotato della “qualità metafisica” di fattore di giustificazione, anche
giuridica, del potere costituito si vanifica l’opposizione fra elemento pre-giuridico e giuridico. Distinguendo
tra potere costituente e costituito si comprendono i due elementi della dinamica del potere sovrano: nel
potere costituente, la sovranità si esprime come potere fattuale e fattore genetico della Costituzione, in cui
si realizza la sintesi del popolo e del territorio entro l’unità dello Stato; nel potere Costituito, la sovranità
statale si esprime nella qualificazione giuridica degli atti posti in essere dagli organi in conformità alla
Costituzione. In questo modo si realizza il passaggio dalla sovranità fattuale del potere costituente a quella
formale del potere costituito. Si può dunque definire la Costituzione formale come la Costituzione scritta
posta in essere dal potere costituente come potere sovrano nel suo momento fattuale. Ancora, Zippelius
afferma che la Costituzione formale consiste nelle norme costituzionali poste in un documento, che ha il
suo fondamento nel potere costituente. È giusto, infine, evidenziare che le leggi di revisione costituzionale,
effettuate secondo le procedure aggravate previste, non sono manifestazioni del potere costituente, ma del
potere costituito, che trova i propri limiti nelle norme costituzionali fondamentali.
C) La costituzionalità delle norme individuata nei procedimenti speciali di revisione: Laband sostenne la
tesi per cui la differenza fra leggi costituzionali ed ordinarie si dovrebbe ravvisare esclusivamente nella
“gradazione” della forza di legge formale, aggravata nel caso delle leggi costituzionali a causa delle
particolari regole che ne diversificano l’iter rispetto alla legislazione ordinaria. La diversa forza della legge
costituzionale comporta un rafforzamento della legge formale, ma l’efficacia della prescrizione materiale
rimane immutata, sia essa contenuta in una legge costituzionale, ordinaria o altra equivalente sul piano
giuridico.
D) Critica della tesi che attribuisce il contrassegno della costituzionalità alle sole norme per le quali è
prevista una speciale procedura di revisione: Non sembra condivisibile la tesi che riconosce il contrassegno
della costituzionalità alle sole norme per cui siano previste procedure aggravate per la modificazione.
Anzitutto, sono da considerarsi formali le Costituzioni scritte, dunque la costituzionalità non può dipendere
dal grado di forza della legge formale e dalle procedure di revisione previste, poiché si finirebbe per
considerare irrilevanti le Costituzioni flessibili e per ignorare la funzione di garanzia propria del potere di
revisione, il quale, senza alcun limite, apre la strada a qualsiasi mutamento, anche radicale.
Interessante è la riflessione di Alessandro Pace, secondo cui ogni costituzione scritta è già di per sé rigida e
la presenza di procedure aggravate costituisce una conseguenza e non una causa della rigidità. Nella
Costituzione sono indicate le norme che identificano la forma di Stato e di governo prescelta, elementi che
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A) Gli elementi che caratterizzano la Costituzione materiale: Prima di studiare nel concreto la Costituzione
materiale, sorge la necessità di definire il rapporto fra una società statale e i valori in essa dominanti. La
società si fonda su un insieme di valori fondamentali, da cui dipendono gli istituti e le modalità procedurali
di organizzazione della stessa, costituita in maniera da poter realizzare quei valori. Solo in questo caso,
infatti, è possibile comprendere una società statale e le sue istituzioni e, qualora i valori fondamentali
dovessero cambiare, dovranno necessariamente cambiare anche le istituzioni corrispondenti.
Emilio Crosa ha opportunamente teorizzato una tripartizione tra: il fine politico di una Costituzione, come
mezzo volto a risolvere una crisi storica; il complesso dogmatico, cioè l’insieme di princìpi volto a realizzare
quel fine politico e che viene inserito nelle Costituzioni moderne; il sistema costituzionale, cioè il prodotto
della formalizzazione delle norme che costituiscono la struttura dello Stato. Le Costituzioni, nel loro
sorgere, rappresentano infatti la soluzione ad una crisi storica, che si concluderà con la trasformazione o la
formazione dello Stato, secondo una struttura politica, un fine etico e una realtà sociali corrispondenti alla
crisi che ebbe a determinarlo. Il complesso di dogmi di ordine politico e morale posto a fondamento delle
Costituzioni moderne si presenta come un complesso di princìpi diversi ma coordinati, necessari per
realizzare il fine politico per cui la Costituzione si attua, motivo per cui l’uno o l’altro principio sarà più o
meno presente a seconda delle circostanze storiche.
A) La contraddittorietà della nozione di “Costituzione non normativa” sul piano logico. Il concetto di
“struttura” nelle definizioni di Russell e di Piaget: Alcuni autori hanno teorizzato una radicale
differenziazione tra la Costituzione materiale e quella formale, legata al significato diverso che il sostantivo
“Costituzione” verrebbe ad assumere. Come generalmente accettato in dottrina, il principale significato di
Costituzione è quello di “struttura”, che per Russell indica “il piano di una relazione” e per Piaget un sistema
di trasformazioni che comporta delle leggi in quanto sistema e che si conserva o arricchisce grazie alle sue
trasformazioni. In questo senso, al concetto di struttura sarebbe radicalmente interconnesso quello di
“legge” e qualsiasi ricostruzione volta ad escludere dal concetto di Costituzione l’elemento normativo
configurerebbe una contraddizione.
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D) La “Costituzione in senso materiale” di Costantino Mortati: In linea con quanto affermato da Schmitt,
anche per Mortati l’elemento caratteristico delle norme costituzionali non è rintracciabile in un dato
esteriore, ma nel fatto che sono le sole necessarie in via logica per pensare esistente lo Stato. Una società
diventa Stato quando esprime una volontà positiva attraverso una forza politica che produce l’ordine
giuridico da cui nasce il diritto dello Stato, stabilendo quali siano gli interessi della società e ponendo un
ordinamento giuridico mediante il quale realizzarli. Il nucleo essenziale della Costituzione consta, pertanto,
di due elementi: uno funzionale, costituito da un soggetto in grado di individuare i fini cui una società tende
e che Mortati identifica col partito; uno materiale, formato da uno scopo comprensivo di tutti i vari interessi
che si raccolgono intorno allo Stato. Questi elementi formano l’unità politica, che mantiene l’ordine
esistente e tende al suo svolgimento progressivo. Per Mortati, dunque, la Costituzione materiale
comprende l’insieme delle forze e dei rapporti che operano nel campo che trascende il sistema delle norme
e degli istituti regolati dalle stesse, distinguendola da quella formale, che risulta dal testo scritto nel quale
sono raccolte le norme ritenute fondamentali. Non si può, in sostanza, ritenere che la Costituzione possa
esaurirsi in quella formale, cioè, come afferma Kelsen, nella sintesi concettuale delle norme positive,
soprattutto se si pensa alle frequenti deviazioni fra le solenni proclamazioni di principio e l’effettivo
funzionamento dell’ordinamento, intrinsecamente influenzato dalla realtà sociale.
E) Analisi comparativa dei concetti di Costituzione materiale non normativa espressi da Schmitt e
Mortati: Le affermazioni del Mortati e quelle di Schmitt hanno ad oggetto fenomenologie parzialmente
diverse. Schmitt si riferisce ad un assetto di forze che, con le proprie deliberazioni, determina l’unità politica
dello Stato, nella forma di una Costituzione assoluta che si relativizza nelle leggi costituzionali., con
riferimento principalmente all’instaurazione dell’ordinamento statale come derivante dalle decisioni del
potere costituente. Per contro, Mortati configura la Costituzione materiale soprattutto tenendo conto del
potere costituito, cioè di come nella società reale possano prodursi comportamenti anche difformi da quelli
stabiliti dalle norme costituzionali, opponendo all’ordinamento formale risultante dal testo scritto
l’ordinamento vivente della realtà sociale sottostante all’ordinamento giuridico. Questo comportamento
deviante rispetto alla norma formale può essere visto come consuetudine, procedimento costante che
esprime la convinzione della collettività assumendo carattere normativo, o come sostituzione di un
ordinamento attraverso procedimenti addirittura vietati dallo stesso, nella forma cioè di interventi
rivoluzionari.
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G) Il presupposto di una Costituzione materiale non normativa: la dicotomia tra “ordinamento concreto”
e “ordinamento normativo”: Secondo la concezione schmittiana, l’ordinamento concreto si contrappone a
quello normativo, con l’autore che fa propri concetti già espressi da Santi Romano. Questi aveva infatti
affermato che non è corretto definire il diritto come una mera somma di regole, poiché è l’organizzazione
complessa dello Stato a produrre tale diritto: le istanze e connessioni del potere statale producono,
modificano e attuano le norme giuridiche pur non identificandosi con esse. Va detto che, come espresso da
Bobbio, Romano non definisce mai chiaramente il termine “organizzazione”, che viene identificata con il
diritto e allo stesso tempo intesa come suo scopo, non chiarendo se il diritto è l’organizzazione stessa o
qualcosa che sta prima di esso. Se si facesse riferimento a ciò che viene prima dell’organizzazione,
dovrebbe trattarsi necessariamente di qualcosa di pregiuridico, cioè un potere o una forza sociale che dà
vita al diritto stesso, operazione che però Romano rifiuta di compiere.
D) Costituzione reale e Costituzione normativa: In dottrina, alcuni autori hanno tentato di conciliare il
dover essere della Costituzione formale e le dinamiche fattuali della Costituzione reale: il dover essere si
concretizza nella forza normativa delle disposizioni che la compongono, cioè nella loro efficacia in un
determinato contesto, attraverso il riconoscimento dei consociati. Heller, criticando l’apriorismo
kelseniano, riconduce la forza normativa della Costituzione al suo corrispondere alla regolarità del reale,
mentre Hesse ravvisa la sua forza normativa nel carattere prescrittivo delle norme costituzionali.
Secondo Heller è inesatta l’affermazione kelseniana secondo cui il senso delle leggi naturali è che le cose si
comportino così come vengono espresse dalle leggi, mentre il senso delle norme giuridiche non è che gli
uomini si comportano come statuiscono le norme, ma che si devono comportare così. Questa concezione
priverebbe le norme del loro significato di dover essere. Schmitt invece, che concepisce la Costituzione non
come norma ma solo come decisione, commette l’errore opposto, poiché non c’è situazione politica che
non sia, in quanto stato dell’essere, una realtà plasmata da norme. Particolare significato per l’esistenza
della Costituzione assumono le norme designate come diritto con vincolatività generale, poiché nel loro
contenuto sono regole empiriche dell’agire, astratte dal contesto della realtà sociale da parte degli organi
che le formulano e che le sistematizzano. Queste, spesso, si presentano come un voler ed un dover essere
contrapposti alla realtà sociale, come nuove disposizioni dell’ordinamento fino a quel momento esistente,
ed è proprio in ciò che Heller ravvisa l’essenza dello Stato moderno, cioè nell’intervento pianificato e
consapevole che, tramite una statuizione normativa, tenta di realizzare l’uniformità dei comportamenti su
tutto il territorio. Il rapporto tra normalità e normatività della Costituzione statale si pone come il problema
fondamentale dell’intera sociologia giuridica e politica, poiché da un punto di vista sistematico queste si
integrano reciprocamente, ma allo stesso tempo possono anche contraddirsi.
Secondo Konrad Hesse la Costituzione non è soltanto espressione di un essere, cioè della semplice
immagine riflessa delle condizioni della sua validità, ma anche un dover essere, per cui proprio in virtù della
propria pretesa di validità cerca di ordinare e dare forma alla realtà sociale e politica. Il condizionamento
reale e la normatività della Costituzione si lasciano solo distinguere, ma non separare o identificare l’uno
con l’altro.
A) I tipi delle norme costituzionali: Le norme costituzionali possono avere efficacia immediata od efficacia
differita ed è possibile distinguere anche fra norme aventi ad oggetto i diritti fondamentali e quelle che
riguardano la struttura organizzativa dello Stato. Fra le norme che riguardano i diritti fondamentali,
Zagrebelsky individua quelle ad efficacia verticale, che costituiscono limiti all’esercizio dei pubblici poteri e
rappresentano il nucleo fondamentale della libertà propria dei diritti fondamentali, e quelle ad efficacia
orizzontale, che invece hanno ad oggetto i rapporti fra soggetti privati. Ancora Zagrebelsky pone in evidenza
come le norme d’organizzazione siano ad efficacia differita, necessitando di una disciplina normativa
ulteriore rispetto a quella posta dalla Costituzione, si pensi alla camera dei deputati ed al senato che
possono essere costituiti solo sulla base di una legge elettorale. L’efficacia di queste norme costituzionali
risulta dunque differita al momento in cui viene posta la normativa di attuazione.
B) Le “Dichiarazioni dei diritti” quali parti integranti delle Costituzioni: Originariamente, le cosiddette
“disposizioni fondamentali”, non disciplinanti l’organizzazione dello Stato, gli organi e le competenze dei
medesimi, non venivano considerate come facenti parte la Costituzione. Laband e Jellinek, ad esempio,
asserivano che la Costituzione avesse un carattere “strutturale” e che normalmente comprendesse i princìpi
giuridici che designano gli organi supremi dello Stato e ne disciplinano i rapporti. Altrettanto fece poi la
dottrina francese, che distingueva le dichiarazioni dei diritti, aventi esclusivamente rilevanza politica, dalle
“garanties de droits”, incluse nel testo costituzionale e disciplinanti i diritti pubblici soggettivi
costituzionalmente garantiti. Attualmente, però, questa posizione non è sostenibile e il principio della
costituzionalità dei diritti fondamentali è accolto in via generale dagli ordinamenti statali moderni.
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I tipi di Stato
1. Le origini
A Erodoto si deve la classica tripartizione delle forme di Stato in monarchia, aristocrazia e democrazia, poi
ripresa successivamente da Platone, che aggiunse due specificazioni ulteriori suddividendo la monarchia in
tirannia e governo regio, nonché il governo dei pochi in aristocrazia ed oligarchia. Aristotele enunciò la
tripartizione in forme rette (monarchia, aristocrazia, politìa) e forme deviate (tirannia, oligarchia,
democrazia), differenziando il caso in cui chi governa tende a realizzare il bene comune o fini egoistici. Il
criterio discriminante, per Aristotele, è il numero dei detentori del potere. Non mancano autori che
tentarono di teorizzare una forma di Stato mista, tra cui ad esempio Polibio, il quale, nell’esaminare la
Costituzione romana successiva alle guerre puniche, affermò che i settori dell’amministrazione erano così
equamente ordinati e regolati che non si poteva dire con sicurezza se il sistema politico fosse aristocratico,
democratico o monarchico. Tornando alla ripartizione aristotelica, essa ottenne ampio successo nelle
correnti politiche e filosofiche fino all’età moderna, si pensi a come Bodin introdusse il principio di
sovranità, intesa come suprema capacità di decisione normativa, quale criterio distintivo della forma
politica: se risiede in un principe si avrà la monarchia, se vi partecipa tutto il popolo lo Stato sarà popolare,
se vi partecipa solo una piccola parte del popolo lo Stato sarà aristocratico. Peraltro, Bodin distingue
“sovranità” e “governo”, ammettendo che possano essere affidati a organi separati, cioè con l’organo
sovrano che esercita il proprio potere attraverso altri organi variamente strutturati a seconda della forma di
Stato. Nell’ambito dello Stato liberale si contrapponeva la monarchia alla repubblica, conseguentemente
alla configurazione del capo di Stato ereditario o elettivo. Dopo la prima guerra mondiale apparvero realtà
politiche che negavano lo Stato di diritto, come per lo Stato sovietico o quello fascista, che spinsero i teorici
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Nella tesi di Cereti, la “forma di Stato” è l’espressione esteriore della struttura interna dello Stato,
concezione in cui forma e struttura non configurano termini antitetici, bensì connessi sul piano causale: la
forma è il prodotto della struttura. Quest’ultima è sintesi interna, comprensiva di tutti gli elementi ed organi
attraverso i quali lo Stato si attua, nonché dei princìpi, delle idee, degli indirizzi che si sono politicamente e
giuridicamente affermati negli ordinamenti, mentre la forma è il modo in cui essi si manifestano
esternamente. Dunque, le strutture espresse nella “forma di Stato” si manifestano essenzialmente quali
configurazioni costituzionali, che possono essere diverse, potendo ad una forma inerire strutture
differenziate. Il concetto di “forma” in Cereti sembra quindi restrittivo rispetto alle classificazioni correnti.
Mortati afferma che la forma di Stato vada ricercata negli attributi esteriori che uno Stato evidenzia, intesi
però come prodotto di un procedimento di astrazione e comparazione avente ad oggetto le diverse
organizzazioni dei vari Stati di uno stesso periodo storico, al fine di individuare una “forma fondamentale”
che si instaura fra il potere sovrano e le entità ad esso soggette. L’astrazione e la comparazione degli
ordinamenti statali permettono di rilevare gli aspetti comuni del modo di essere e di procedere a
classificazioni fornite di validità non solo logica, ma empirica, attraverso cui è possibile conoscere il nucleo
essenziale di valori ed interessi cui si informano le strutture organizzative comuni agli Stati di un dato
momento storico. La forma indica, dunque, l’insieme di attributi esteriori di un ente, i quali sono però in
stretta correlazione con la sua struttura interna. In altri termini, la forma è la sintesi dei princìpi costitutivi
essenziali dell’ente derivanti dai fini posti all’attività dello Stato dalle forze politiche dominanti, princìpi che
si manifestano esteriormente e gli danno un’impronta caratteristica. In questo senso, la “forma” altro non è
che la Costituzione materiale, che, nella concezione di Mortati, è appunto quell’insieme di fini come
poc’anzi definiti.
La forma di Stato è concepita, nelle analisi ora affrontate, come aspetto esteriore delle strutture normative
che qualificano lo Stato nelle sue connotazioni fondamentali, ovvero come struttura fondamentale non
normativa o “Costituzione materiale”. In Italia, il concetto della “forma di Stato” viene tradizionalmente
associato a quello di “forma di governo”, nonostante questa distinzione sia scarsamente presente al di fuori
del nostro paese.
A) L’assenza della distinzione nella giuspubblicistica mitteleuropea: I più importanti autori europei non
sembrano prendere in considerazione la distinzione sopracitata. Jellinek assimila le forme di Stato alle
forme delle Costituzioni, Kelsen distingue forme di governo e forme d’organizzazione, Schmitt considera lo
Stato borghese di diritto come una Costituzione mista ispirata ai due principi della forma politica, ossia
identità (come unità politica del popolo) e rappresentanza (come rappresentazione dell’unità politica nella
forma di Stato).
Jellinek afferma che una classificazione delle forme di Stato è possibile solo come classificazione giuridica,
cioè come questione che si identifica con quella circa le differenze giuridiche delle Costituzioni. Il principio
di classificazione adottato tradizionalmente è quello del numero delle persone che esercitano il comando e
nelle loro qualità etiche e sociali, introducendo però un elemento difficilmente determinabile. Per Jellinek,
il principio giuridico di distinzione può essere solo relativo al modo della formazione della volontà statale,
presentandosi due possibilità giuridiche, poiché la volontà suprema, che pone in moto lo Stato
conformemente alla Costituzione, si forma in via psicologica, ossia naturale, o giuridica, vale a dire
artificiale: Nel primo caso, la formazione di volontà si compie nell’interiorità di una persona fisica e la
volontà dello Stato appare, allo stesso tempo, anche come una volontà fisica individualmente determinata;
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B) Le diverse posizioni della dottrina italiana circa il rapporto fra forme di Stato e forme di governo. Il
problema esaminato sulla base della dicotomia struttura-funzione: Nella giuspubblicistica italiana si sono
affermate posizioni antitetiche, tra cui in particolare quella di Cuocolo, che concepisce lo Stato come
struttura e la forma di governo come funzione, e quella di Amato, che concepisce la forma di Stato come
elemento funzionale e la forma di governo come connessa alla struttura organizzativa dello Stato.
Per Cuocolo, nell’identificazione delle forme di Stato prevale il momento strutturale complessivo, mentre in
quella delle forme di governo prevale quella funzionale, categorie che sembrano muoversi su piani diversi
ma interdipendenti, l’una determinata dagli elementi costitutivi dello Stato e dai rapporti che tra essi
intercorrono, l’altra dalla distribuzione di potere fra gli organi supremi dello Stato. La consapevolezza del
reciproco intersecarsi dei due elementi porta l’autore a ritenere che la giustificazione ultima della
distinzione vada ricerca nella stessa evoluzione storica del concetto di Stato e nel realizzarsi, nel corso del
tempo, dei diversi Stati con caratteri ricorrenti tali da consentire l’identificazione astratta delle forme di
Stato.
Opposta è la tesi di Amato, per il quale l’analisi delle forme di Stato deve partire dall’essenza e dalle
funzioni del fenomeno giuridico. Va premesso che l’autore concepisce il diritto come fenomeno o come
oggetto, costituito dall’insieme di regole considerate da un punto di vista funzionale. Le funzioni del diritto
sono: la repressione di comportamenti ritenuti socialmente pericolosi; l’allocazione a individui o collettività
di beni e servizi; l’organizzazione del potere pubblico. Poiché Amato definisce la forma di Stato come la
risultante delle funzioni del diritto quali si manifestano sullo sfondo delle ragioni storiche che le
determinano, bisogna concludere che anche la forma di Stato stessa ha necessariamente carattere
funzionale. La forma di governo, invece, trova significato in relazione ad una sola delle funzioni del diritto,
vale a dire dell’istituzione dell’allocazione dei poteri pubblici più elevati. Si produce allora un rapporto di
continuità tra forma di Stato e forma di governo, così che nella prima prevalgono le funzioni, mentre nella
seconda le forme organizzative. La funzione istitutiva dei pubblici poteri, elemento genetico della forma di
governo, si pone come tramite fra essa e la forma di Stato, secondo un rapporto di complementarietà.
C) L’interrelazione fra forme di Stato e forme di governo nell’analisi di Leopoldo Elia: L’autore ipotizza una
interdipendenza fra forme di Stato e di governo. Queste ultime acquistano una propria autonomia
nell’ambito dei sistemi democratici-pluralistici, mentre nei sistemi totalitari la forma di Stato assorbe quella
di governo, riducendola ad un insieme di modalità organizzative marginali. La determinazione della forma
di Stato risulta perciò essere prioritaria rispetto a quella delle forme di governo, ma la distinzione mantiene
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Sartori asserisce che la logica della classificazione è la logica del trattamento disgiuntivo, definendo la
classificazione come un trattamento logico, stabilito da un criterio che consente di assegnare i dati in classi
mutuamente esclusive ed esaurienti. Sulla base di questo assunto, l’elemento strutturale e quello
funzionale non possono assumersi singolarmente come criteri di classificazione delle forme di Stato e di
governo, poiché sono presenti, in misura varia a seconda degli autori, tanto nelle prime quanto nelle
seconde, non dando luogo a classificazioni mutuamente esclusive e, pertanto, non rispondendo alla logica
del trattamento disgiuntivo.
6. Le tipologie di Stati conseguite grazie ad una pluralità di criteri
La summa divisio forma di Stato/forma di governo non sembra offrire alcun reale apporto all’intelligibilità
del fenomeno statale. Se ad esempio Italia e Usa sono repubbliche, questi ultimi costituiscono una
democrazia presidenziale che non dipende dal sostegno del parlamento, mentre in Italia il governo si regge
sulla fiducia del Parlamento. Detto questo, se la forma di Stato è connessa con la titolarità della sovranità e
l’Italia è caratterizzata dalla sovranità del Parlamento, sarà il regime parlamentare, considerato
generalmente “forma di governo”, e non la forma istituzionale repubblicana o monarchica (come per la
Gran Bretagna) a costituire il contrassegno della “forma di Stato”. L’analisi delle entità statali, allora,
richiede il ricorso non a classificazioni, stabilite da un solo criterio, ma a tassonomie, che sono caratterizzate
da più di un criterio. Sembra allora opportuno sostituire allo schema duplice della forma di Stato e di
governo l’impiego di una “tipologia di Stati”, conseguita attraverso un’organizzazione tassonomica che fa
ricorso a più criteri che consentono un’approfondita conoscenza delle fenomenologie statali. L’approccio in
questione è quello di Robert MacIver, che considera insufficienti le teorie tradizionali già sotto il profilo
della classificazione degli Stati in base al fatto che il governo sia di uno, pochi o molti uomini. Già solo la
categoria del governo di uno solo comprende forme di governo strutturalmente molto distanti, si pensi alla
monarchia ereditaria e a quella costituzionale, che si collocano agli estremi opposti. A fini pratici, quindi, il
fondamento costituzionale della classificazione è dualistico, cioè individuato nelle due categorie principali
dell’oligarchia e della democrazia. Tuttavia, utilizzare come unico criterio di distinzione quello costituzionale
in senso lato impedisce di diversificare strutture statali che dovrebbero tenersi nettamente separate, come
per l’impero e le federazioni, o la repubblica e la monarchia costituzionale. Bisogna quindi classificare i vari
sistemi di governo combinando le loro caratteristiche legate a diversi aspetti delle forme di governo: la
forma costituzionale (A), la struttura economica (B), la struttura comunitaria (C) e la struttura della
sovranità (D).
A1 – Monarchia: È una forma dell’oligarchia. Il monarca è l’unico governante e ha rango sociale diverso
rispetto ai sudditi, separazione sancita dalla successione ereditaria. È diversa dalla dittatura poiché la
successione è ordinata e stabile, mentre nella dittatura il governante nomina il proprio successore.
A2 – Dittatura: Specie dell’oligarchia in cui il dittatore ha un potere assoluto e rimane il capo di un gruppo
al governo, con la collaborazione di una classe dominante. L’autorità trascendente attribuita al leader
corrisponde alla maestà o divinità attribuite al monarca ereditario.
A3 – Teocrazia: Oligarchia diversa dalla dittatura e dalla monarchia perché il capo non è ereditario né
instaurato con un colpo di Stato, ma scelto da una casta sacerdotale come rappresentante di Dio. Può
trattarsi anche di un’autorità superiore alla quale è subordinata la sovranità temporale.
A4 – Direzione collegiale: Sistema di governo oligarchico tipico degli Stati tribali e delle città-Stato, fondati
sulla direzione da parte di soggetti che godono ciascuno di autorità suprema nel settore della propria
giurisdizione.
A5 – Monarchia costituzionale limitata: Solo quando si ha una monarchia limitata al punto che il monarca
non interviene direttamente nelle decisioni politiche, che sono prese dai rappresentanti eletti dal popolo, si
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7. Sintesi
La tesi esposta dal manuale è che una distinzione si possa accogliere sulla base di un unico criterio
classificatorio solo quando esso sia pienamente esaustivo, requisito che non viene soddisfatto dalla
dicotomia “forma di Stato/forma di governo”, alla quale si dovrà sostituire una tassonomia, cioè una
tipologia di formazioni statali basate su più criteri classificatori. La pluralità di criteri, secondo il paradigma
elaborato da Robert MacIver, presenta una classificazione degli stati sulla base di quattro criteri (Forma
Costituzionale, strutture economica, comunitaria e della sovranità) il cui impiego congiunto permette di
analizzare con precisione le entità statali nella loro ampiezza di fenomenologie politiche ed istituzionali.
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L’immagine dell’Impero di Eusebio di Cesarea presentava quei caratteri che si sarebbero sviluppati,
successivamente, nella respublica christiana: l’impero è l’unità territoriale del diritto internazionale, nella
quale si compongono gli ordinamenti cristiani e rispetto alla quale si definiscono i territori dell’impero
bizantino, islamico e dei popoli non cristiani. L’impero acquisisce il significato paolino di “forza frenante” o
“katechon”, che trattiene l’uomo dall’iniquità, elemento che costituirà l’anello fondamentale attraverso cui
collegare l’impero romano temporale all’impero romano spirituale.
È all’impero in quanto “ricollegato ad una corona”, cioè ad una realtà storica capace di assoggettamento di
territori e di signoria, che si rivolge l’attività dei giuristi al servizio delle corti di Francia, Inghilterra e Sicilia, a
partire dal XIII secolo. Bartolo da Sassoferrato affermò che i regni si separavano dall’impero in base ad un
privilegio o per usucapione, ma se hanno riconosciuto che l’imperatore è il signore del mondo non cessano
di essere membri del popolo romano. È questo il contesto in cui le realtà sovrano vanno emancipandosi pur
rimanendo sullo sfondo l’ordinamento universale che continua a costituire il loro contesto giuridico ultimo
e, soprattutto, il loro diritto internazionale.
A) La Chiesa e i regni: Riprendendo la prospettiva teologica del katechon, San Tommaso sostiene che,
nonostante l’avvenuta separazione dei regni dall’Impero romano, non sia ancora giunto il tempo
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B) La Chiesa universale, la Chiesa visibile e i regni: Nel tardo Medioevo, i rapporti tra regni e Chiesa si
inasprirono nelle lotte dottrinali per il potere temporale. Il teologo Gabriel Biel teorizzò l’esistenza di una
Chiesa visibile, come rappresentazione gerarchica della Chiesa militante guidata dal Papa, e i regni intesi
come parti di una Chiesa universale, il cui capo è solo Cristo. La Chiesa visibile e i regni stanno fra loro in
rapporto di reciprocità ed equiordinazione sullo sfondo della Chiesa universale che costituisce il diritto
internazionale inteso come impero morale e spirituale di Cristo.
Lutero, facendo propria la visione di Biel, afferma che, sullo sfondo della Chiesa universale, le società di
cristiani, che costituiscono le Chiese, appaiono modalità delle nazioni altrimenti costituite in Stati, mentre i
sovrani divengono coerentemente capi delle società di cristiani. Uno Stato di cristiani e una Chiesa degli
stessi cristiani sono del tutto la stessa cosa. Il dualismo medievale si racchiude in un’unica sovranità e nel
delinearsi dello spazio morale internazionale in cui i sovrani si muovono liberamente. La Chiesa universale è
l’ambito costitutivo della sovranità, il diritto internazionale degli Stati cristiani.
A) La fondazione giusnaturalistica del diritto internazionale in Spagna nei secoli XVI e XVII. Francisco de
Vitoria e Francisco Suarez: Nel periodo delle grandi scoperte geografiche, lo spagnolo Francisco de Vitoria
fonda un sistema del diritto internazionale estraneo alle rappresentazioni medievali dello spazio e idoneo
ad un eguale trattamento delle genti della vecchia respublica christiana e del nuovo mondo. Facendo
proprio il pensiero aristotelico e tomistico, de Vitoria fa discendere dalla natura razionale e sociale
dell’uomo la socialità delle comunità politiche umane, costituite dalla stessa legge naturale. L’ordinamento
giuridico di questa comunità internazionale, lo jus inter gentes, è costituito dai princìpi fondamentali del
diritto naturale e dal diritto internazionale positivo formatosi attraverso la pratica consuetudinaria e i patti
fra Stati. In questo modo, la Chiesa universale viene sostituita dalla lex universalis.
B) Il diritto internazionale tra giusnaturalismo e illuminismo. Grozio e Emerich de Vattel: Anche a causa
dell’influenza di de Vitoria, l’olandese Grozio sosteneva che il regno morale trovasse il proprio fondamento
nella ragione naturale e non nell’ambito religioso. Questi rielaborò lo stesso concetto di diritto naturale,
senza più intendere la legge naturale come riflesso di quella divina, ma deducendone i princìpi
fondamentali dalla stessa ragione umana, non più mero strumento per conoscere l’ordine oggettivo delle
cose. Le fonti del diritto internazionale sono dunque i princìpi posti dalla stessa ragione umana, applicati
agli stati, e il diritto internazionale positivo di natura pattizia. Pur non innovando sotto questo punto di
vista, la respublica christiana, che comunque viene richiamata, non rappresenta più un ordinamento
assolutamente a priori rispetto ai rapporti tra comunità politiche, ma è posta da un’alleanza tra Stati e dalla
ragione umana che ordina a ciascuno dei contraenti di rispettare i patti.
Ai due momenti dell’ordinamento internazionale individuati da Grozio corrispondono due indirizzi
successivi: da un lato chi riduce il diritto internazionale al diritto naturale applicato agli stati, portando al
centro dei rapporti fra stati l’astratta ragione umana, dall’altro chi fa prevalere il momento delle fonti del
diritto internazionale positivo individuate da Grozio e de Vitoria, ossia diritto consuetudinario e pattizio.
Va ricordato anche il pensiero dello svizzero Emerich de Vattel, del XVIII secolo, che faceva prevalere il
diritto naturale di ragione sulle fonti del diritto internazionale positivo, senza però rinunciare a queste
ultime. È infatti il principio razionale della socialità dell’uomo che fa nascere la comunità degli Stati,
considerata un’istituzione della natura stessa e una conseguenza necessaria del genere umano.
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7. Il primato dell’eticità e dello spirito nazionale. Gli Stati sullo sfondo della storia
universale
Dalla respublica christiana medievale, in cui i corpi politici erano inseriti in una realtà organica concreta, ci si
è gradualmente mossi verso una sempre maggiore spiritualizzazione del diritto internazionale, che diventa
un principio morale di comportamento sempre più astratto (Chiesa universale, legge naturale, pace
perpetua). Kant non può affermare la costitutività della ragione rispetto ai fenomeni e il mondo morale
continua a rimanere separato dai fenomeni politici, diversamente da come invece teorizzerà Hegel. Questi
crede che la ragione, ossia lo “Spirito”, si concretizzi nell’ordine degli scopi, che nell’organismo statale
rappresenta lo spirito nella sua realtà sostanziale, cioè la realtà dell’idea etica che si fa soggetto ed agisce
sullo sfondo della storia universale. La legge morale, che per Kant era l’orizzonte dell’attività interstatuale,
diviene etica di una nazione e si ritira nella realtà statale stessa. La sovranità degli Stati da relativa diviene
assoluta, completando quel processo di progressiva spiritualizzazione dell’impero universale che porta a
vedere il diritto internazionale semplicemente come un diritto pubblico esterno: nei rapporti fra Stati, solo
le differenti volontà statali sono reali e razionali. Un dovere può sorgere in quest’ambito solo in base
all’accordo di volontà particolari, poiché un ordinamento stabile sovrastante agli Stati indipendenti è
impossibile. Il popolo come Stato è lo spirito nella sua razionalità sostanziale e realtà immediata, perciò la
potenza assoluta sulla terra; di conseguenza, uno Stato è di fronte all’altro in indipendenza sovrana. Il
principio del diritto internazionale è che gli accordi devono essere rispettati, ma poiché il loro rapporto ha
per principio la loro sovranità, ne deriva che sono l’uno verso l’altro nella situazione dello stato di natura e
che i loro diritti hanno la loro realtà non in una volontà universale, costituita al di sopra di essi, ma nella
loro volontà particolare.
George Jellinek tenta di pervenire ad una conciliazione fra l’affermazione di una sovranità degli Stati
procedente dalla loro realtà etica e l’esistenza del diritto internazionale, formulando la teoria
dell’autolimitazione ai rapporti tra Stati. Successivamente, anche Triepel propose una costruzione dualistica
del diritto internazionale, criticando la nozione meramente negoziale del trattato internazionale. La teoria
dell’autolimitazione fu poi ripresa da Kaufmann, che evidenziò ulteriormente la natura di diritto di
coordinazione che caratterizza il diritto internazionale.
A) La “teoria dell’autolimitazione” di Georg Jellinek: Centrale per il pensiero di Jellinek è la tesi hegeliana
del diritto pubblico esterno come fondato sul riconoscimento degli altri Stati. Si costruisce un sistema in cui
la volontà sovrana dello Stato pone, autolimitandosi, la norma fondamentale delle sue successive
manifestazioni di volontà, ossia il riconoscimento di altri soggetti, all’interno e all’esterno del proprio
territorio. L’attività negoziale che verrà intrapresa con questi soggetti riconosciuti non potrà che obbligare
oggettivamente gli Stati, nei loro rapporti all’interno della comunità giuridica vincolante di Stati che si sono
riconosciuti e vincolati in quanto soggetti di diritto. Come però rilevato da Kunz, Jellinek tenta di conciliare
l’assunto fondamentale hegeliano per cui lo Stato non è subordinato ad un diritto internazionale, con
l’affermazione contraddittoria del carattere giuridico del diritto internazionale: la comunità internazionale
prende pur sempre avvio dall’onnipotenza dello Stato sovrano, pur se questi dichiara di volere limitare la
propria libertà d’agire riconoscendo un altro Stato come soggetto giuridico.
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C) La dottrina della “clausola rebus sic stantibus” di Erich Kaufmann: La ricostruzione del diritto
internazionale di Kaufmann appare più coerente con le premesse hegeliane, peraltro criticando la teoria
della convenzione che, con il dualismo fra ordinamento internazionale e nazionale, nega “l’universale
concreto” in cui l’ordinamento oggettivo dell’etica si fa soggetto che agisce autonomamente sullo sfondo
della storia universale, ossia nega lo Stato stesso. L’assunzione di ogni ordinamento oggettivo aggiunto a
quello Statale comporta la negazione della specifica natura del diritto internazionale. In un ordinamento di
coordinazione come quello internazionale, non ha significato la distinzione fra convenzioni, che dovrebbero
essere fonte di un diritto oggettivo, e contratti, che istituiscono posizioni soggettive. Il momento oggettivo
dell’ordinamento internazionale va ricercato, piuttosto, nell’interesse di ogni Stato all’autoconservazione
fondato sulla clausola rebus sic stantibus, attraverso cui si crea una solidarietà internazionale di interessi
che giustifica l’attività negoziale fra Stati e, mutate le condizioni, l’interruzione della solidarietà e della
vincolatività tra le parti. Il diritto di autoconservazione reca in sé il proprio valore oggettivo derivante dalla
particolare natura dei soggetti statali e che si pone al di sopra di tutti i trattati, per cui il diritto
internazionale rimane un diritto pattizio. In conclusione, Kaufmann riprende la dottrina dell’autolimitazione
di Jellinek, ma ricollega il momento oggettivo della volontà che si autolimita non alla mera appartenenza
del soggetto statale ad una comunità giuridica, ma all’interesse oggettivo, immanente al soggetto, di
perseverare nella propria esistenza secondo la propria natura.
La geodieretica di d’Ors viene definita come scienza della ripartizione razionale dello spazio in maniera
conforme alle necessità vitali dei differenti gruppi sociali, in sostituzione della geopolitica che presuppone
l’idea di Stato e di territorio. Il nuovo ordine mondiale sarebbe perciò composto non da stati nazionali
sovrani né da un superstato, ma da “grandi spazi” di convivenza, sorretti da un’etica comune, integrati da
differenti confederazioni di nazioni, risultanti da un ordinamento regionale che si fonda nel nucleo vitale
più naturale, cioè la famiglia. Come ogni famiglia ha bisogno di una casa, così ogni popolo necessita di un
territorio e deve considerarsi naturale il concerto tra comunità più ampie allo scopo del possesso di grandi
spazi, determinati da ragioni geopolitiche che costituiscono raggruppamenti i quali non rappresentano
comunità, poiché non dipendono da una volontà contrattuale ma da condizionamenti fattuali. Anche
Schmitt individua i grandi spazi come possibile nuovo “nomos” della terra, qualora questi dovessero essere
razionalmente delimitati ed omogenei, in uno stato di equilibrio.
A) Il diritto internazionale e il monismo kelseniano: La dottrina kelseniana della scienza pura del diritto
positivo esclude dal proprio oggetto il principio materiale di unità etico morale che era stato variamente
teorizzato nel corso della storia, a partire dalla Chiesa universale e dal diritto naturale. Ciò che rimane è un
ordine di imperativi, il cui sistema unitario non può essere dato dal contenuto, o si ritornerebbe ad una
realtà metafisica, ma da una serie di deleghe o “norme di produzione” che costituiscono progressivamente i
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A) Democrazia e diritti nella “civitas maxima”: Segovia studia le dottrine contemporanee che aspirano a
fondare un “nuovo costituzionalismo”, partendo dalla affermazione dei diritti e della democrazia a livello
globale, mettendone in luce anche i limiti e la natura in parte utopica. Secondo l’autore, attualmente la
democrazia si è globalizzata solo sotto il punto di vista dell’autonomia privata e della protezione delle
libertà negative, ma i diritti umani non sono ancora stati garantiti universalmente. Questi considera almeno
in parte accettabile la tesi di Ferrajoli, che aspira a un diritto cosmopolita ma limitato alla tutela dei diritti
fondamentali, per il quale sono comunque necessarie riforme tali da istituire garanzie giudiziarie a livello
internazionale e il superamento della cittadinanza come concetto che consente di godere dei diritti umani,
denazionalizzandoli. L’idea di un governo globale democratico, dal punto di vista giuridico, presuppone
l’aggiunta di un elemento alla piramide di Kelsen, abbandonando il legislatore originario, cui si deve la
Costituzione statale, in favore di un accordo fra gli Stati come atto fondativo del diritto democratico
globale. Alcuni autori, come Habernas, ipotizzano un ordinamento globale giuridico-politico che
difficilmente può non essere considerato come utopistico, dal momento che la democrazia si realizza
attraverso un procedimento di deliberazione collettiva che, per essere realizzato a livello internazionale,
richiederebbe una comunicazione tra cittadini che trascenda gli Stati nazionali e crei una nuova astratta
solidarietà, indipendente dalle radici nazionali e dalle élites dirigenti.
B) Il diritto di guerra nella “civitas maxima”: Nel contesto di una governance mondiale fondata sui princìpi
democratici e sulla difesa dei diritti umani viene a mutare radicalmente il concetto di guerra, al punto da
giungere alla sua negazione. Oggi si assiste ad un ritorno al problema della giusta causa, che tuttavia viene
risolto non attraverso princìpi di merito e contenutistici, ma rimettendolo ad una decisione di un’istanza
sovranazionale. In aggiunta a quella concezione di “guerra difensiva”, bisogna considerare anche ipotesi
che si sono concretamente verificate come gli interventi umanitari e, soprattutto, le guerre al terrorismo,
vere e proprie guerre preventive in cui un gruppo di Stati o una superpotenza, in via unilaterale, hanno
assunto la decisione di intervenire per risolvere crisi internazionali, ponendosi quindi in concorrenza con il
sistema delle Nazioni Unite e con il principio di sovranità nazionale. Se recepiamo nel nostro ordinamento,
attraverso l’adesione del governo, decisioni che attivano guerre umanitarie o al terrorismo, gli organi
costituzionali stanno accettando che il panorama di guerre cui è possibile partecipare si amplia oltre alla
sola guerra difensiva.
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