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Luigi Copertino

In morte dello Stato (e della pubblica amministrazione)


12 Marzo 2008

L’ingloriosa fine dell’immagine sociale della pubblica amministrazione e del pubblico


impiego, circa la quale su questo sito si sono scatenate accese discussioni sulla scorta di
alcuni articoli del direttore Maurizio Blondet, deve essere spiegata in chiave epocale come
segno del più vasto fenomeno della «morte dello Stato».
Per comprendere questo fenomeno è necessario però indagare storicamente sulle origini della
comunità politica, di cui lo Stato è la forma nata nella modernità quando il «commune» della
visione comunitaria tipicamente medioevale si è andato progressivamente scindendo in
«pubblico» e «privato» con un recupero del diritto romano classico senza più la mediazione
della rielaborazione cristiana che aveva dato origine al sistema romano-cristiano dello «ius
commune-ius proprium».

La comunità politica è sempre stata, presso ogni cultura umana, connaturata al sacro sicché
ciò che era comune, e dunque «politico» nel senso nobile di questa parola, era
immancabilmente consacrato da un’investitura dall’«alto».
Da qui la sua sacralità riflessa sul piano immanente.
L’antica tripartizionale funzionale indoeuropea, studiata dal Dumezil, esprimeva proprio
questa connessione del politico con il sacro.
Una connessione che non apparteneva soltanto all’ambito indoeuropeo perchè presente in
ogni cultura umana, indipendentemente dall’area linguistica o etnica.
La consacrazione dei re di Israele da parte dei profeti ne è un chiaro esempio in ambito
ebraico.
La sacralità della funzione monarchica o imperiale nelle più diverse aree culturali, come ad
esempio l’antico Giappone o l’antica Cina, ne è un altro esempio.
Persino la stretta relazione esistente tra lo sciamano ed il guerriero capo tribù nelle
popolazioni nomadi, come i pellerossa, è esempio della stretta connessione da sempre
sussistente nella storia dell’umanità tra sacro e politico.

Questa connessione non è affatto venuta meno, come molti erroneamente ritengono, con il
cristianesimo.
Se è vero che Cristo ha ben distinto, ma non conflittualmente separato, ciò che è di Dio e ciò
che è di Cesare, è tuttavia verissimo che, attraverso il riconoscimento che Nostro Signore ha
fatto della legittimità dell’impero romano, cosa questa che ha contribuito a renderlo sospetto
alla cultura ebraica del suo tempo la quale aspettava un messia guerriero e liberatore dal
dominio romano, la Chiesa ha ereditato i grandi valori universalistici ed etici del diritto
romano individuando in essi l’espressione, preparatoria dell’annuncio cristiano, del diritto
naturale, iscritto da Dio nel cuore umano al di là dell’opzione di fede.
Su questa base l’Aquinate ha potuto porre tra la legge di Dio e la legge civile la legge di
natura, intimamente propria a ciascun uomo ed a ciascuna epoca anche se variamente
modulata, ma non nell’essenziale, a seconda delle culture e delle epoche, ad evitare, con il
mediare tra la prima e la seconda, ogni laicismo separatista ed ad evitare, d’altro canto, con il
distinguere tra la prima e la seconda, ogni tentazione teocratica o fondamentalista.

La stretta connessione, in questione, tra sacro e politico comportava la natura «guerriera»


ovvero «militare» dell’auctoritas politica (la medioevale potestà temporale).
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La res pubblica romana, ad esempio, nacque dall’organizzazione militare dell’esercito che si


fondò prima, in epoca monarchica, sui comitia curiata e poi, nell’età repubblicana vera e
propria, sui comitia centuriata.
I patres conscripti senatoriali erano, almeno all’origine, i capi famiglia responsabili
dell’inquadramento in armi dei membri della propria gens al momento della chiamata da parte
della res pubblica.
La gens romana era, originariamente, una sorta di tribù con seguito servile: un po’, in altro
ambito ed al di là del carattere non nomade dell’urbe prisca, come quella di Abramo.
Anche successivamente, come dimostra il periodo delle guerre civili e la carriera di famosi
tribuni tipo Pompeo e Cesare, il cursus honorum del cittadino alle alte cariche dello Stato
romano iniziava dal duro e lungo servizio militare.
Non si diventava cittadini a pieno titolo se non attraverso il percorso della carriera militare.
Sebbene sempre più formalmente, la natura militare dell’imperator rimase anche in età post
repubblicana.
Questa origine comportava anche una concezione essenzialmente militare dell’organizzazione
civile della Res Pubblica.

Tutto l’apparato amministrativo dello Stato romano era modellato, anche nelle carriere,
sull’organizzazione militare.
Si trattava di un modello gerarchico, di ordini e di esecuzioni, che assicurava, nello spirito
ferreo coltivato nelle legioni romane, la massima efficienza dell’apparato statuale come se si
trattasse di un esercito in guerra il cui scopo fosse la vittoria con il minimo di perdite umane.
Sebbene in un mutato spirito dei tempi, connesso con la fragilità feudale e comunale, anche in
età medioevale l’organizzazione amministrativa, per quanto essa sussisteva, rimase legata, nei
diversi livelli dell’impero, dei regni, dei feudi e dei comuni, a modelli di origine militare e
pertanto fortemente gerarchici.
In età pre-moderna questo tipo di organizzazione della comunità politica e delle sue funzioni
si reggeva essenzialmente, pur con tutte le umane deficienze, su un etica di sacralità
dell’autorità (autorità deriva dal latino «augere» che significa «far crescere, aumentare»)
sicché coloro che ne incarnavano o rappresentavano, ai vari livelli, lo «Stato» si sentivano
investiti di quella stessa sacralità anche perchè erano selezionati, mediante la dura gavetta
delle armi, attraverso prove che ne mettevano in luce le doti di fides, di pietas, di humanitas,
secondo i valori propri della romanità successivamente trasformatasi in romano-cristianità con
l’apporto di un altro valore, più alto dei predetti ma ad essi strettamente confacente, quello
della caritas.
Chi era al comando, in altri termini, doveva dimostrarsi, per virtù umane, «militarmente»
degno, agli occhi dei «suoi» uomini, ossia del «suo» popolo, o perlomeno tentare di apparire
tale, della posizione occupata e, in età cristiana, di essere degno, o tentare di esserlo, anche
dell’infusione soprannaturale della grazia divina.
Tutto ciò naturalmente in linea ideal-tipica di principio.

Tuttavia, si trattava di una concezione comunque, in epoche non ancora secolarizzate,


effettivamente agente nella formazione della mentalità diffusa e dunque nei rapporti sociali.
A parte il caso, sfortunato, della monarchia ispano-asburgica, che all’epoca rappresentò una
valida alternativa alle emergenti monarchie nazionali (1), lo Stato moderno nasce nel XVI
secolo nella forma delle monarchie assolute «superiorem non recognoscentes» (dove per
«superiorem» devono intendersi le due compagini universali del medioevo ossia la Chiesa e il
Saro Romano Impero).
In tal senso, come ha rilevato Carl Schmitt, lo Stato moderno è «il primo agente della
secolarizzazione».
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Esso, sul piano del politico, ha chiuso le vie verso l’«alto» ed ha aperto inesorabilmente la via
verso il basso: era del resto questa l’intenzione dei suoi teorici, da Machiavelli a Bodin
passando per Hobbes.
Lo Stato moderno ha rappresentato la momentanea e necessaria tappa per il passaggio
dall’universalismo romano-cristiano ad un altro tipo di universalismo, non più cristiano, che
oggi chiamiamo globalizzazione.

Nel momento in cui lo Stato ha assolto alla sua funzione di completa desacralizzazione del
politico, momento coincidente con il passaggio storico dal moderno al postmoderno, esso è
stato dissolto, o è in via di dissoluzione, dalle stesse forze nichiliste e destrutturanti che ha
contribuito, innescando il processo di secolarizzazione, a scatenare.
Sia detto di sfuggita: è una pura illusione il fatto che l’emergere di apparentemente antiche
istanze localistiche, federalistiche, sussidiarie, sia una sorta di ritorno alla comunità politica di
tipo pre-moderno.
In realtà queste istanze sono del tutto strumentali alla realizzazione completa del processo di
globalizzazione (si parla ormai di «glocalizzazione») mediante la destrutturazione
transfrontaliera dello Stato nazionale, erede democratico delle monarchie assolute del XVI
secolo, in favore di assetti territoriali di tipo regionale (l’Europa delle regioni, ad esempio) in
concorrenza tra loro nel mercato globale amministrato dalle organizzazioni  planetarie
dell’economia e della finanza: dalla bancocratica UE al WTO, dal Fondo Monetario
Internazionale alla Banca Mondiale, per finire, oggi che l’ONU si è dimostrato incapace del
governo globale dei conflitti, agli stessi Stati Uniti d’America che hanno, sin dal 1945,
sostituito l’Inghilterra nel ruolo di gendarme coloniale del mondo.

Quello cha ha portato alla morte dello Stato moderno è stato un lungo processo durato almeno
cinque secoli.
All’inizio anche lo Stato moderno conservava una sua sacralità sebbene si trattasse ormai, per
via della pretesa di disconoscere le superiori istanze universalistiche della cristianità, di una
sacralità sempre più tendenzialmente immanente e riduttivamente politica.
Ecco perché lo Stato moderno, con il suo accentramento amministrativo, appare
immediatamente come una macchina, un meccanismo, e non più come una comunità
organica.
Lo stesso monarca non è più, come in precedenza, il luogotenente, ossia il vicario, del
Christus Rex ma diventa il primo «funzionario» della macchina statuale («l’Etat c’est moi»
diceva Luigi XIV, il Re Sole, in base ad una concezione copernicana ed esoterica della
sovranità che voleva tutti i corpi del regno girare intorno al re assoluto come i pianeti intorno
al sole).
Max Weber ha visto nello Stato moderno una «grande fabbrica» che si sviluppa in stretta
unione con la rivoluzione protestante, il razionalismo filosofico, il contrattualismo sociale
(anche quando si veste di «giusnaturalismo» non più cattolico, come in Locke, o non più
neanche cristiano, come in Hobbes e nei filosofi illuministi, da Rousseau a Voltaire), il
mercantilismo e/o la fisiocrazia economica, fino appunto alla rivoluzione industriale ed al
liberismo.

Anche se, sin dall’inizio, ha posto le premesse della sua stessa odierna dissoluzione, lo Stato
moderno, come si diceva, conservava una sorta di sacralità artificiale che si esprimeva nella
sua posizione di egemonia sui sudditi, dei quali tuttavia fino alla fine del XVIII secolo ha
continuato a godere il consenso proprio per l’aurea di sacralità che ancora circondava ai loro
occhi il sovrano, e nell’accentramento del potere nella persona stessa del monarca non più
vincolata ai patti tradizionali e consuetudinari in precedenza sussistenti tra il re ed i ceti, i
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corpi intermedi, le città del regno.


Accentramento del potere che fu organizzato, l’esempio prussiano è un classico, su
un’organizzazione di tipo gerarchicamente militare in senso moderno.
Un apparente ritorno alla romanità che però, per la pretesa di rinunciare alla cristianità, era
una epocale scimmiottatura della stessa romanità antica: quest’ultima, infatti, fu il precursore
pagano della cristianità («Quella Roma onde Cristo è romano», cantava Dante nei secoli
medioevali) mentre la riedizione neopagana della romanità, umanistico-rinascimentale prima,
puritano-americano ed illuministico-giacobina poi, è stata la pretesa storica di baipassare la
cristianità medievale «corrutrice» per riallacciare, con un volo pindarico ed ideologico, la
Roma antica, o meglio il suo fantoccio mitico, alla Nuova Roma o Terza Roma (così
Mazzini), opponendo a-storicamente la Roma pagana delle prische virtù civiche alla Roma
cristiana ed oscurantista dei Papi.

La Pubblica Amministrazione nasce proprio dallo sviluppo di questo accentramento del potere
nella mani del monarca assoluto per la trasmissione ed esecuzione dei suoi ordini.
Questo comportava da parte dei funzionari pubblici un senso altamente militare di fedeltà al
sovrano ed un’etica della responsabilità nell’amministrazione della cosa dello Stato,
coincidente per lo più con il patrimonio del re, che rendeva, per i tempi, efficiente
l’amministrazione proprio perché gerarchicamente strutturata.
Un’efficienza che qualificava persino l’amministrazione di realtà politiche plurinazionali e
plurireligiose come l’impero asburgico, ultimo residuo del Sacro Romano Impero e, dunque,
di quel «superiorem» che le monarchie nazionali assolute avevano disconosciuto.
Quando con la Rivoluzione Francese i sudditi diventano cittadini e la repubblica si sostituisce
al re siamo già un passo avanti nel processo di desacralizzazione dell’apparato statuale ed
amministrativo (2) e tuttavia quella sorte di sacralità spuria, che abbiamo visto caratterizzare
le monarchie assolute, continuava a sussistere anche nella nuova forma repubblicana dello
Stato come testimoniano slogan rivoluzionari del tipo «La Republique ou la mort».
Con l’illuminismo ed il giacobinismo la sacralità artificiale delle monarchie assolute si fa
messianismo rivoluzionario.
Nasce qui la «religione della Patria», alla quale faranno seguito quelle della razza, della classe
ed, oggi, del mercato.

L’auto-incoronazione di Napoleone è il gesto epocale che meglio rappresenta questa sacralità


immanente che con la modernità si impone nonostante tutte le sue dichiarazioni di «laicità».
Proprio per questo, e nonostante la Grande Rivoluzione, rimase tuttavia ancora in piedi il
concetto dello Stato, e del «pubblico», come di qualcosa di «sacro».
Questa idea, si badi, continuò ad agire sia, come è ovvio, nei sistemi autoritari ed in quelli
totalitari in forma di «ideocrazia» (autoritarismo e totalitarismo non sono affatto la stessa cosa
ed in quanto a grado di avanzamento verso il moderno esito nichilistico del politico il secondo
è storicamente più avanti del primo) che nelle liberal-democrazie.
In queste ultime la sacralità spuria si manifesta nella forma legalistica dell’«etica pubblica» o
in quella della massonica «religione civile»: entrambe di radici luterane.
Onde raffreddare i troppo facili entusiasmi liberistici di coloro che leggendoci, dalla crisi
odierna dello Stato che abbiamo descritto, volessero trarre auspici di un futuro luminoso
dell’umanità nell’assoluta liberazione del mercato, in una sorta di riedizione liberale del
comunista (e mai spuntato) «sol dell’avvenire» (non ci si meravigli: liberalismo e comunismo
sono entrambe utopie moderne, per giunta in stretta parentela culturale), ricordiamo subito
che, pur con tutta l’equivoca sacralità che lo ha caratterizzato, lo Stato moderno ha, a suo
tempo, svolto una funzione storica essenziale ossia quella di comporre interclassisticamente il
conflitto sociale, scatenato
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dal capitalismo e dalla rivoluzione industriale, che altrimenti avrebbe distrutto lo Stato stesso
ed anche il mercato.

Lo Stato sociale, prima della sua declinazione democratica e/o socialdemocratica, nacque a
«destra» lungo un filone che dalla denuncia reazionaria dei costi sociali della borghese
rivoluzione francese (il «socialismo aristocratico» odiato da Marx) attraverso il movimento
sociale cattolico ottocentesco (Opera dei Congressi, Toniolo, Leone XIII) ed i regimi
autoritari di massa, come quelli fascisti, perciò in quanto di massa propensi ad una forte
politica di modernizzazione e socializzazione dirigista, giunse, anche naturalmente con
l’apporto di altre correnti culturali e politiche, a caratterizzare l’Europa post-bellica fino agli
anni ‘80 del secolo scorso, quando l’acuirsi di quel processo di destrutturazione dello Stato, di
cui abbiamo detto, ha coinvolto anche lo Stato sociale riaprendo la più aspra conflittualità
sociale tra gruppi, classi ed individui.
Una conflittualità che fa della attuale compagine sociale qualcosa di analogo ad un corpo
morto in putrefazione che si dissolve nella dis-organicità e nella polverizzazione ed alla quale
oggi si cerca di porre rimedio, in nome della sussidiarietà orizzontale, con proposte di
«welfare community» o «welfare society», alternative al tramontato «welfare State», ma
finora senza la stessa efficienza  a suo tempo storicamente dimostrata dal vecchio Stato
sociale.
La putrefazione sociale è l’esito dell’individualismo che crede di poter sorreggere i legami
sociali riducendoli a meri reciproci contratti tra individui a tutela dell’egoismo utilitarista di
ciascun contraente.

Con il passaggio dall’età moderna al postmoderno, storicamente realizzatosi nel corso del XX
secolo con una forte accelerazione dal dopoguerra, ed in particolare dal 1968, in poi, per
diventare palese tra la fine del secolo scorso e l’inizio del presente, si è avuto contestualmente
l’inasprirsi del processo di desacralizzazione del politico con la tendenziale trasformazione
dello Stato, inteso come apparato amministrativo, da organizzazione burocratica, ancora
legata ai vecchi modelli gerarchici di tipo militare, ad organizzazione aziendale ispirata ai
nuovi, postmoderni appunto, modelli del management: sicché parlare oggi di burocrazia
diventa sempre più improprio in quanto, al contrario, gli apparati organizzativi della società
stanno sempre più diventando, secondo gli auspici già ottocenteschi di Saint Simon ripresi nel
novecento da Thorstein Veblen, di tipo tecnocratico.
Modelli nei quali ciò che è prevalente non è più la legittimità o la legalità procedurale, sancite
dal principio costituzionale del «nulla potestas sine lege», principio nel quale riecheggiava
ancora quella sorta di «sacralità» artificiale che ha caratterizzato lo Stato moderno, ma, al
contrario, il profitto che, calato nella pubblica amministrazione, è chiamato «rapporto
costo/benefici».

Diremo successivamente quanto sia difficile, e forse innaturale, per un’organizzazione


pubblica adottare i criteri tipici di un’azienda e quanto in Italia tale processo sia ancora più
tragico per via della cultura stessa del popolo italiano forgiatosi in una mentalità, salvo la
breve parentesi, però autoritaria, del fascismo, anti-nazionale a causa di un Risorgimento di
matrice massonica che, a suo tempo, ha preteso di realizzare una unità nazionale contro
l’identità religiosa cattolica di un popolo, con le inevitabili conseguenze in termini di
scollamento tra cittadini ed istituzioni che tutti oggi conosciamo: gli apparati pubblici si
portano, in qualche modo, ancora dietro quella stessa diffidenza verso il popolo amministrato
che aveva lo Stato unitario liberalmassonico, governato da affaristi che dopo aver fatto l’Italia
- diceva persino un insospettabile come Gramsci - se la sono mangiata, che si sentiva, a torto
o a ragione, minacciato dalle masse ancora sottomesse al «clericalismo».
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Qui ci sia ora consentito notare che la trasformazione dello Stato in azienda segna il definitivo
esito nichilista del moderno processo di desacralizzazione.
Alla «morte di Dio» segue a ruota la morte non solo dell’uomo ma, dato che l’uomo è
«creatura sociale», anche della comunità politica, nella sua forma statuale moderna.
E conseguentemente la riduzione, mortificante, della politica dapprima a pura
amministrazione e poi a gestione meramente clientelare di affari: non che in precedenza non
vi fosse anche l’aspetto della amministrazione degli affari correnti e straordinari della res
publica, ed anche un certo tasso inevitabile di corruzione, ma la politica non era questo o
perlomeno non era solo questo, essendo essa, un tempo, innanzitutto progettualità («il
chiamare genti diverse a fare qualcosa insieme» come, sulla scorta di Ortega y Gasset, ricorda
spesso Blondet) e, prima ancora, opera di modellazione, per quanto le deboli forze umane lo
consentissero, della legge civile alla legge di natura e, quindi, in ultima istanza e per
mediazione di questa, alla Legge di Dio (3).
«Per Me reges regnant» era inciso, non a caso, sulla corona del Sacro Romano Impero, e si
trattava della trascrizione delle parole della Sapienza, ossia del Verbo di Dio, tratte da un
passo biblico attribuito a re Salomone (Prov. 8, 15).

La politica, nel senso alto e nobile del termine, è ormai chiaramente defunta ed al suo posto è
subentrato il potere di anonimi tecnocrati nonché una egemonica bancocrazia transnazionale
che, lo abbiamo detto altrove (4), ha letteralmente castrato, mediante la spoliazione
centralbancaria del monopolio di emissione e controllo della moneta, la sovranità nazionale in
favore della speculazione finanziaria globale.
I politici oggi sono i camerieri dei banchieri e gli esecutori delle ricette, impolitiche, dei
tecnocrati.
Questo perché la sostituzione alla politica dei poteri anonimi non è avvenuta alla luce del sole,
ma surrettiziamente, ossia mantenendo apparenti forme democratiche nella gestione della cosa
pubblica e tuttavia svuotando i parlamenti di effettivi poteri decisionali.
Non è un caso che sempre più spesso si parla di «demo-tecnocrazia», nel senso di un governo
nel quale la volontà popolare è guidata ed indirizzata, naturalmente per il suo «bene», dalla
«saggezza» di una Casta, sì: questa è la vera Casta!, di tecnocrati non eletti da nessuno, ma
cooptati da lobby transnazionali.
Insomma, si tratta della democrazia sotto tutela a dimostrazione che proprio a questo è servita,
alla fin fine, la Rivoluzione Francese: togliere il potere ai re per passarlo nelle mani della
tecnocrazia bancocratica lasciando al popolo l’illusione di essere diventato esso il sovrano.
Ecco perché non è più possibile parlare ancora di «politica» ma solo, tutt’al più, di apparati di
partito tenendo però conto che, come ulteriore effetto della desacralizzazione del politico, non
esiste più il vecchio modello del partito ideologico di massa ma che anche i partiti sono
diventati a modo loro delle «aziende» come, del resto, tutta la lotta tra i partiti un agone
pressoché esclusivamente mediatico. 
Questa osservazione è da tenere assolutamente presente per comprendere quanto segue.

Di uno Stato ancora dotato di una sacralità artificiale, come quella sopra descritta, possiamo
storicamente parlare soltanto fino agli anni ‘30-50 del XX secolo, quando persisteva ancora in
qualche modo l’idea che il compito principale dello Stato fosse garantire il bene comune e
non quello di una fazione contro l’altra.
Persino nei regimi autoritari di massa, come quello fascista italiano, la scelta di subordinare
il partito unico allo Stato, e non il contrario, è indicativa del persistere, all’epoca, di questa
etica pubblica, sicché, pur tenuti alla formalità del giuramento di fedeltà al regime e del
tesseramento al partito, i funzionari pubblici rimanevano, in una qualche misura, autonomi
dall’ideologia continuando ad essere reclutati mediante pubblici concorsi ed a far carriera per
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esperienza e professionalità acquisita.


Cosa questa che l’ala più intransigente del fascismo rimproverò sempre a Mussolini
accusandolo di aver in tal modo castrato le potenzialità rivoluzionarie del regime avendone
affidato lo sviluppo non ai commissari politici ma alla vecchia burocrazia a-fascista.
Gli storici ben sanno che, infatti, a differenza della Germania nazista e della Russia
comunista, nell’Italia fascista il partito era subordinato allo Stato (il federale era subordinato
al prefetto di nomina e carriera statale), cosa che, appunto, assicurava, per quanto la
situazione di un regime autoritario di massa lo consentisse, una certa indipendenza degli
apparati statali dalle velleità rivoluzionarie dei fascisti più faziosi (5).

Dagli anni ‘60 - ‘70 del secolo scorso è iniziata la fase acuta della desacralizzazione dello
Stato che è coincisa con una progressiva destatualizzazione.
L’ipertrofia statuale, inevitabile per l’accumularsi delle funzioni necessarie alla composizione
del conflitto sociale cui lo Stato moderno fu chiamato dall’economia capitalista, dagli anni
sessanta in poi aumentò notevolmente, con correlativa aumento della spesa pubblica.
Ma in realtà questo aumento era nient’altro che il segno dell’incipiente destatualizzazione che,
infatti, dagli anni ‘80 si manifestò apertamente.
L’assunzione da parte dello Stato delle sue necessarie funzioni sociali ne ha, infatti, provocato
l’ulteriore desacralizzazione, e quindi depoliticizzazione, in favore di un puro Stato-
amministrativo, al quale ben presto è stato richiesto di uniformarsi a modelli di efficienza
aziendale nell’erogazione dei servizi pubblici o addirittura di privatizzarli, lasciando sempre
più spazio al mercato.
In un certo senso allo Stato si è chiesto di liquefarsi nel mercato.
Gli esperti sono tutti d’accordo, per esperienza storica in atto, che né la privatizzazione dei
servizi né le riforme federaliste riducono la spesa pubblica, semmai la aumentano a causa del
moltiplicarsi dei centri di spesa e dell’intreccio pubblico-privato nel quale nasce la
convergenza «mafiosa» tra interessi di politicanti senza scrupoli ed interessi dei gruppi
imprenditoriali, piccoli o grandi che siano (in America, lo si è visto con l’amministrazione
Bush, il Governo Federale è diventato il procacciatore di affari per le multinazionali come la
Halliburton: anche di qui la guerra irachena).
Proprio a partire dagli anni sessanta del XX secolo, perlomeno in Italia, la pubblica
amministrazione è andata progressivamente sindacalizzandosi.

Se in precedenza quello di pubblico impiego era un rapporto di lavoro di diritto pubblico


perché non contrattualizzato ma regolato, anche nella carriera, in base al diritto
amministrativo sicché il pubblico dipendente non era un soggetto altro dalla Pubblica
Amministrazione ma «era» la Pubblica Amministrazione, in dottrina questo si chiamava
«rapporto di immedesimazione organica» e si trattava di un istituto che affondava le sue radici
nella concezione «sacrale» e «militare» dello Stato, attualmente, a seguito della cosiddetta
«privatizzazione» del pubblico impiego attuata inizialmente con il D. lgs. numero 29/1993
(ora D. Lgs. numero 165/2001), che ha ricondotto il rapporto di pubblico impiego nell’alveo
del libro V codice civile e delle altre leggi sul lavoro subordinato nell’impresa privata, il
pubblico dipendente non è più organo dell’apparato pubblico, non è più la Pubblica
Amministrazione, ma è un soggetto privato, dunque altro ed opposto ad essa, contrattualmente
chiamato ad esercitare, per conto di essa, pubbliche funzioni (6). Tutto questo, che avrebbe
dovuto aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione e responsabilizzare la dirigenza
pubblica assimilandola al management privato, ha, invece, da un lato, estraniato ancor di più
il dipendente pubblico dal senso «sacrale» del pubblico (egli non sente più di «essere», in
senso «militare», lo Stato: da qui il contraccolpo della decadenza psico-sociale
della sua figura) e, dall’altro, ha aumentato il potere condizionante, congiunto, dei sindacati e
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dei partiti politici, che ormai imperversano ancor più di prima, e diremo con quale subdolo
trucco, nella gestione.

La particizzazione e la sindacalizzatone della pubblica amministrazione è un fenomeno


riconducibile al condizionamento dello Stato da parte di «potestates indirecte» dal basso, ossia
in termini più attuali da parte di lobby.
Ma anche le pressioni degli interessi particolari che le imprese, anche quelle piccole, ed altri
corpi privati esercitano sulla pubblica amministrazione, per lucrare finanziamenti ed altre
prebende (il capitalismo, ora che la depressione è alle porte, invoca sempre più l’assistenza
dello Stato dopo averlo depotenziato nei decenni precedenti: è il lamento della moglie che ha
castrato il marito e che poi si lagna della propria insoddisfazione sessuale), sono riconducibili
al fenomeno della «potestà indiretta».
Grande responsabilità in questo deve attribuirsi ad un certo mondo cattolico, quello che gira
intorno alla Compagnia delle Opere di CL, ed al mondo della cooperazione «rossa», quello
della Lega delle Cooperative.
Si tratta di gruppi economici che, con la scusa della sussidiarietà orizzontale, si sono
dimostrati, soprattutto in Lombardia ed in Emilia Romagna, capaci di monopolizzare,
mediante i propri compiacenti riferimenti politicanti, la gestione delle risorse pubbliche in
campi come la formazione professionale e il collocamento privato di forza lavoro.

E pensare che nel XIX secolo il movimento sociale cattolico riuscì a creare una vasta rete di
opere sociali ed economiche senza una lira da parte dello Stato unitario che anzi era contro
l’attivismo sociale cattolico e tentava di intralciarlo in tutti i modi.
Ora, è facile riempirsi la bocca di belle parole sul principio di sussidiarietà e drenare risorse
pubbliche dal pubblico al privato, foss’anche al privato sociale: si tratta di un metodo molto
comodo di fare imprenditoria e crediamo che tutti riuscirebbero a fare gli imprenditori con i
soldi pubblici.
Abbiamo, sopra, rinviato la spiegazione delle difficoltà della riduzione della pubblica
amministrazione al puro modello aziendale nonché quella del trucco con cui i partiti ed i
sindacati oggi imperversano nella gestione della cosa pubblica.
E’ giunto il momento di affrontare queste questioni nel concreto della più stretta attualità del
vigente ordinamento giuridico.

Maurizio Blondet nell’articolo, su questo sito, «Diamo Napoli ai bulgari» ha toccato, con la
sua solita precisa incisività di argomentare, il vero problema attuale della Pubblica
Amministrazione italiana: la particizzazione della dirigenza pubblica e dei funzionari.
Ad iniziare dal 1993, per effetto di tangentopoli, sono state introdotte una serie di riforme
della Pubblica Amministrazione, che, in apparenza, sembravano dovessero rendere più
efficiente la stessa.
Si tratta delle cosiddette «leggi Bassanini».
Con la scusa di separare la funzione di programmazione, di competenza dei politici eletti, da
quella di gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali, per il conseguimento degli
obiettivi programmati, gestione la cui competenza fu attribuita alla dirigenza (principio di per
sé giusto ed ineccepibile), si introdusse, di soppiatto, il cosiddetto «spoil system», a maldestra
imitazione del sistema americano (ad imitare il peggio degli altri noi italiani siamo
imbattibili).
In realtà se da un lato la programmazione e la gestione, che prima di tangentopoli erano
entrambe di competenza degli amministratori elettivi (con i risultati disastrosi che
conosciamo), venivano finalmente e giustamente separate, dall’altro (e qui stava la fregatura)
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ai gestori, ossia ai dirigenti pubblici, fu tolta la inamovibilità perché la loro nomina e revoca
fu attribuita alla scelta «fiduciaria», ossia politicante, del sindaco, del presidente provinciale,
del governatore regionale o del ministro di turno.

Ufficialmente questa riforma fu motivata con l’argomento secondo cui era giusto dare alla
«casta», che dovrebbe rendere conto all’elettorato del suo buon o mal governo (ma quando
mai è stato così?), la possibilità di nominare, tra quelli a disposizione in organico, i dirigenti
più bravi e capaci e quindi di portar efficacemente avanti il programma politico premiato
dall’elettorato.
In realtà, questo argomento, è stata la classica foglia di fico per coprire la spudorata
sfacciataggine della casta politicante.
Infatti, dopo tangentopoli, la casta ha capito che gli atti di gestione non devono più essere
firmati dai propri membri, in modo da sfuggire ad eventuali «avvisi di garanzia», ma essere
attribuiti alla competenza dei dirigenti resi, però, dipendenti, mediante nomina o revoca, dalla
«fiducia» dei politicanti in carica.
Insomma, la casta ha provveduto, dopo l’esperienza di «mani pulite», a premunirsi del
«parafulmine».

All’epoca, contro Bassanini (centro sinistra), autore di quelle riforme (un oscuro docente
universitario di diritto regionale messo a fare il ministro della funzione pubblica), il professor
Sabino Cassese, luminare del diritto amministrativo, si dimostrò sin troppo facile profeta
scrivendo, su Il Sole24ore, che l’esito delle nuove norme sul rapporto tra dirigenza pubblica e
politica sarebbe stato inevitabilmente «clientelare».
Cassese, invece, proponeva di rendere sì rimuovibile, a rendiconto, il dirigente incapace, e nei
casi più gravi licenziarlo, ma tutelando la dirigenza durante l’esercizio delle sue funzioni da
ogni influenza dei partiti e dei sindacati, mediante nomina per concorso pubblico e non per
fiducia politica, e quindi restituendo ad essa la inamovibilità, in corso d’opera, con il rinvio di
ogni valutazione, su base strettamente tecnica e non politica, e della eventuale rimozione, alla
fine dell’esercizio.
Cassese rimase inascoltato e la riforma Bassanini iniziò a produrre i suoi effetti partendo dalla
categoria dei segretari comunali e provinciali che furono destatualizzati e posti alle
dipendenze di un’Agenzia nel cui albo i sindaci e presidenti di Provincia possono scegliere:
naturalmente, secondo la vulgata ufficiale, la scelta avverrebbe sulla base delle «capacità»
dei candidati alla nomina e non sulla base della «fiducia politica»!
Un meccanismo di nomina e revoca analogo fu introdotto anche per la dirigenza sia dello
Stato che degli enti locali.
Il tutto alla faccia dell’articolo 97 della Costituzione (antifascista!) che, per garantire
l’imparzialità della pubblica amministrazione, un principio discendente direttamente dalla
Rivoluzione Francese, impone, per accedere ai pubblici uffici, il pubblico concorso e
stabilisce la responsabilità dei pubblici funzionari esclusivamente verso la «nazione»(il che
significa responsabilità amministrativa, penale, civile e contabile) e non verso i governi in
carica, che vanno e vengono.

Il sistema attuale, invece, fa dei segretari comunali e provinciali dei veri e propri «segretari»
del sindaco o del presidente di Provincia e fa dei dirigenti pubblici funzionari di fiducia,
partitica, dell’assessore o del ministro.
Ridotta la dirigenza ad una categoria di «yes men» l’imparzialità della Pubblica
Amministrazione, che già di per sé non è mai garantita in assoluto essendo l’uomo sempre
fallibile e «peccatore», si è andata a far del tutto benedire.
Non pago di aver così reso possibile l’infeudamento partitocratico della dirigenza pubblica
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(del resto, il suo retroterra ideologico lo portava inevitabilmente a preferire i «commissari


politici» ai funzionari amministrativi «impolitici»), Bassanini introdusse la possibilità di
reclutare mediante contratto di diritto privato, su nomina fiduciaria politica, un certo numero
di dirigenti e funzionari al di fuori della dotazione organica, ossia a tempo determinato con
durata dell’assunzione pari
al mandato elettivo del politico di turno (inizialmente si stabilì nel 5% dell’organico la
percentuale dei dirigenti e funzionari a contratto; successivamente il governo di centro destra
ha aumentato tale percentuale).

Si può immaginare la conflittualità che si è, di conseguenza, creata tra la dirigenza di ruolo,


un tempo serbatoio della memoria storica e dell’esperienza amministrativa della pubblica
amministrazione, e questi neodirigenti di nomina politica, senza competenze professionali né
esperienza, entrati negli enti, a percepire fior di stipendi, senza concorso, ossia senza la
procedura ordinaria prevista dal citato articolo 97 della Costituzione.
A chiudere il cerchio arrivò poi, con la scusa di semplificare l’iter decisionale, l’abolizione,
alla faccia della trasparenza e dell’imparzialità, dei controlli amministrativi (eliminazione del
commissario di governo per le Regioni, dei co.re.co. per gli enti locali e del «fastidioso», per
la casta quando era negativo, parere di legittimità reso dai segretari comunali e provinciali
sulle deliberazione di giunta o consiglio).
A tutto questo si è, infine, aggiunta la moltiplicazione clientelare del reclutamento, a mezzo di
contratti atipici, di personale precario (co.co.co., co.co.pro., tempo determinato, interinali,
presunti consulenti di ogni genere e specie), sicuramente impreparato a lavorare in un ente
pubblico ed in gran parte non necessario (anzi: il personale precario spesso è preferito dai
politicanti di turno perché più ricattabile del personale di ruolo il quale per essere convinto a
derogare, o «elasticizzate», la legge deve essere «corrotto» con promesse di carriera o altre
prebende).
La consequenziale esplosione della relativa spesa non può perciò meravigliare: ma, si sa, il
precariato è il serbatoio dei voti di scambio per la rielezione.
Naturalmente, nel quadro sopra delineato, i dirigenti e funzionari pubblici che continuano ad
ispirare il proprio ruolo ai principi di imparzialità dettati dalla Costituzione diventano i
«nemici» dell’amministrazione di volta in volta in carica.
Come esiste una schiera di dirigenti e funzionari che non accetta affatto il rischio di dover
rispondere in sede giurisdizionale (civile, amministrativa, contabile o penale) per aver
«acconsentito», in cambio di prebende varie, alle malefatte della casta, va purtroppo anche
detto chiaramente che molti altri dirigenti e funzionari stanno, invece, al «gioco» (o vi sono
costretti
a stare, non avendo alternative).

E’ doloroso constatarlo ma, per effetto delle disastrose riforme degli anni ‘90, il numero di tali
dirigenti e funzionari disposti a chiudere, se necessario, entrambi gli occhi, va sempre più
aumentando.
Essi accettano di stare al gioco in cambio di incarichi e prebende e sono così sprovveduti o
impreparati (o sono costretti a far finta di esserlo) da non rendersi neanche conto (o fingere di
non rendersene conto, sperando nella buona sorte) dei rischi che assumono su di sé
compiacendo illegittimamente la casta politicante.
Questo genere di dirigenti e funzionari, grati all’assessore o ministro di turno cui devono
l’incarico, ben remunerato, sono disposti ad accontentare in tutti i modi chi ha dato loro
«fiducia»: anche truccando appalti e concorsi o con altri abusi e malversazioni.
Un sistema perverso voluto dalla casta, per la precisione iniziato dalla sinistra della casta
(Bassanini) ma continuato dalla destra, sostenuto anche dal particolarismo di quegli
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imprenditori ed elettori che pur di vincere la concorrenza o il concorso sono disposti a votare
clientelarmente i politicanti che sanno possono accontentarli.
Alla luce di tutto questo non può, purtroppo, far meraviglia, e si tratta solo di un esempio tra i
molti che si potrebbero fare anche di rilevanza penale, la notizia circolata qualche mese fa su
quel sindaco di un comune dell’entroterra romano che ha rimosso dall’incarico il comandante
dei vigili urbani non avendo quest’ultimo raggiunto l’«obiettivo» di introitare la somma
preventivata in bilancio di 200.000 euro a titolo di multe da infliggere ai cittadini.
Il poverino si era fermato a quota 120.000 euro.

Le prime vittime della casta degli inutili politicanti, europea, nazionale o locale, sono gli
stessi dipendenti pubblici, quando essi non vogliono rendersi complici della malversazioni
partitiche o sindacali e cercano di fare onestamente il loro dovere.
I politicanti sanno benissimo che la loro rielezione è assicurata dal clientelismo e non dalla
buona amministrazione, della quale, al momento del voto, non importa a nessuno, neanche
alle partite IVA.
Al venir meno del senso dello Stato, anzi del senso nazionale di ciò che è pubblico e che
dovrebbe in qualche modo godere di una sorta di «sacralità», hanno contribuito tutti: cittadini,
imprenditori, casta politicante e sindacati, statali e pubblici dipendenti, giornalisti prezzolati,
professionisti ed autonomi, interessi privati, localistici e particolari del genere più vario, non
escluse cooperative, ONG, organizzazioni sussidiarie sia laiche che religiose (che campano,
alla faccia della sbandierata sussidiarietà, con i soldi pubblici).

Solo una forte e sentita etica dello Stato, che restituisca dignità ed immagine sociale ai
pubblici dipendenti, può far funzionare la macchina pubblica.
Non le riforme alla Bassanini o i soli incentivi economici: anzi, questi ultimi, se non sono
percepiti come la misura di un apprezzato status sociale, dell’appartenenza ad un stimato e
qualificato «ceto professionale» (nel senso dello «stande» tedesco), spesso si rilevano deleteri
perché, nel putrescente sistema sopra descritto, vengono distribuiti dalla casta politicante di
turno, con l’assenso dei sindacati, in modo clientelare come prebende per ottenere la
«sottomissione» della dirigenza pubblica e dei funzionari.
Lo Stato, non solo quello dirigista, sempre più auspicabile a fronte del fallimento epocale del
liberismo che va manifestandosi a livello globale proprio in questi mesi, ma anche quello
liberale, ha assolutamente bisogno, per ben funzionare, di un ceto di funzionari pubblici,
orgogliosi di essere tali per etica di Stato, professionalmente qualificato e capace di essere
super partes nonché devoto soltanto ed esclusivamente al bene comune nazionale e non al
politicante di turno.
Purtroppo, in Italia, dove un tempo un tale tipo di ceto di pubblici funzionari è pur esistito,
attualmente non se ne vede l’ombra e così sarà fino a quando la casta politicante, che, succube
delle tecnocrazie bancocratiche nelle decisioni di livello autenticamente politico, ha però
riservato a se stessa la gestione degli affari correnti, leggasi «prebende clientelari», per fare
leggi a proprio favore, continuerà ad imperversare.
Però la casta non la eleggono solo gli «statali» ma tutti i cittadini, e tutti aspirando a qualche
favore o interesse personale.
Molti dei candidati, poi, sono portatori all’interno dello Stato dei propri interessi personali:
Prodi e Berlusconi sono in questo grandi esempi.

La casta politicante non è identificabile esclusivamente con la sinistra (che in teoria tutela i
pubblici dipendenti come serbatoio di voti) o con la destra (che sempre in teoria favorisce gli
autonomi, che sono il suo serbatoio di voti): la casta è trasversalmente la casta e basta!
Anzi, come detto, ma repetita juvant, in realtà si tratta di una sotto casta cui la vera casta,
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quella bancocratica, ha lasciato una riserva di sotto potere clientelare non effettivamente
incidente nelle vere decisioni di carattere politico, come ad esempio la fondamentale politica
monetaria, parte essenziale della sovranità.
Quel che abbiamo di fronte altro non è che una situazione di tipo, anche se nuovo, totalitario.
Il totalitarismo, infatti, non è, come comunemente si pensa, organizzazione perfetta.
Questo è ciò che esso vorrebbe essere ma, per eterogenesi dei fini, in realtà finisce per
realizzare sempre e soltanto, come i precedenti storici dimostrano, il caos organizzato.

Chi studiasse il funzionamento degli apparati nazista e sovietico troverebbe, con sua grande
meraviglia, una sordida lotta di potere tra gruppi rivali per accrescere la propria sfera di
influenza agli occhi del «capo».
Una concorrenza che sconvolse, per l’accavallarsi delle competenze e dei centri decisionali,
nella contraddittorietà delle direttive erogate, la vita normale dello Stato, fagocitato dal partito
unico.
Una situazione non dissimile dalle democrazie pluripartitiche e di mercato: anche qui
l’illusione che la concorrenza sia sempre benefica e, quindi, il caos organizzato.
La differenza sta nel fatto che nelle democrazie i «capi» possono essere sostituiti.
Una differenza non di poco conto ma che nulla toglie al volto «oscuro» del potere quando
esso rimane chiuso ad istanze superiori.
Generalmente si ritiene che Marx fosse statalista.
Nulla di più errato: per Marx lo Stato, nella società comunista compiuta, doveva scomparire
per lasciare il posto all’auto-organizzazione spontanea della società («da ciascuno secondo le
proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni»).
I liberali, fedeli all’idea della spontaneità sociale garantita dalla «mano invisibile»,
riconoscono inevitabilmente in questa prospettiva marxiana la loro medesima filosofia
sociale, al di là del fatto, filosoficamente del tutto secondario, che per Marx l’obiettivo era
raggiungibile solo con l’abolizione della proprietà privata (ed, infatti, i cosiddetti
«anarcoliberisti» americani, che sognano le «privatopie», si considerano marxiani).

Del resto anche nella prassi liberale la proprietà non è adeguatamente tutelata: non è, infatti,
una sorta di abolizione della proprietà l’enorme crescita capitalista delle società anonime nelle
quali la proprietà non è degli azionisti, il titolo azionario infatti è solo un titolo di credito
vantato dagli azionisti verso la società di capitali, ma della «persona giuridica» ossia di quella
fictio iuris, centro impersonale ed astratto di imputazione di diritti e di poteri, che Giacinto
Auriti chiamava «fantasma giuridico» o «società strumentalizzante» dietro la quale, egli
sosteneva, si nascondono le persone fisiche degli amministratori, analogamente a quel che
fanno le consorterie di loggia o di partito in quell’altro fantasma giuridico che è lo Stato
costituzionale, veri detentori del potere e, mediante la gestione, della proprietà.
Ecco perché, a modo suo ha ragione, Francesco Gavazzi quando afferma che il liberismo è di
sinistra.
Solo che essendo figlio della stessa utopia solipsista marxiana, anche il liberismo è
puntualmente destinato all’eterogenesi dei fini, come i fatti hanno e stanno dimostrando.
Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

Per concludere, ribadiamo: il problema dello Stato e del suo funzionamento non è
primariamente tecnico ma epocale.
Sebbene ogni più estesa ripubblicizzazione dei servizi pubblici e dello stesso rapporto di
pubblico impiego, accompagnato dalla sua decontrattualizzazione, sia auspicabile e
necessaria, senza uno scatto di orgoglio da parte di tutti coloro che sono chiamati ad «essere»
lo Stato, ad iniziare dai dirigenti pubblici, che restituisca loro l’etica pubblica nonché la
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consapevolezza del proprio ruolo e quindi anche la dignità sociale che hanno perso, qualsiasi
riforma puramente tecnica è destinata a fallire.
Ma, ed è questo il punto critico, uno scatto d’orgoglio del genere è impossibile in un’epoca di
decadenza umana e civile come la nostra.
Solo se l’umanità entrerà in una diversa fase storica cambiando i propri attuali parametri
spirituali tendenti al nichilismo, anche quello del buon vivere associato nella comunità
politica e del buon funzionamento dei suoi apparati diventerà una questione ragionevolmente
risolvibile.

Quella da noi delineata non è e non vuole essere una proposta per una inversione
«reazionaria» della china del processo di graduale desacralizzazione del Politico ma solo la
descrizione storico-filosofica di tale processo.
Chi scrive non crede all’efficacia delle inversioni «reazionarie», tanto meno se attuate con la
forza. Chi scrive crede solo alla Provvidenza che agisce tra le pieghe della storia umana e che
alla fine, con la cooperazione degli uomini di buona volontà, tutto aggiusta per il meglio
anche se non senza consentire che l’umanità attraversi, per i suoi errori, dure prove storiche.
L’autore di queste note si è semplicemente limitato a dire, come il bambino della favola, che
il «re è nudo» ossia, fuor di metafora, ad indicare gli aspetti deleteri, solitamente trascurati dal
trionfalismo egemone, del cammino storico, spiritualmente in discesa, dell’umanità attuale.

Luigi Copertino

1) Confronta Franco Cardini - Sergio Valzania «Le radici perdute dell’Europa - da Carlo V ai
conflitti mondiali», Mondadori, Milano, 2006.
2) Un grande filosofo giurista come Carl Scmitt lamentava proprio questa deriva
desacralizzante dello Stato moderno alla lunga incapace di incarnare una vera sacralità come
sa fare la Chiesa cattolica nella Persona di Cristo. Confronta Carl Schmitt «Cattolicesimo
romano e forma politica - la visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica», Giuffré
editore, Milano, 1986.
3) E’ questa mediazione della legge naturale tra la Legge di Dio e la legge umana che fa la
differenza tra la teologia cattolica del politico, da un lato, e le ricorrenti tentazioni teocratiche
ed i moderni fondamentalismi, dall’altro: lo Stato è di natura e non è pertanto ammissibile
nessuna teocrazia o clericocrazia.
4) Confronta Luigi Copertino «Il capitale volatile ovvero del nichilismo finanziario» 
5) Una testimonianza dell’indipendenza degli apparati statuali dall’ideologia come dagli
interessi privati, durante l’esperienza dello Stato corporativo che pure era fondato su un
ordinamento sindacale gius-pubblicista e che però vietava, proprio per assicurare
l’indipendenza da indebite interferenze, agli impiegati pubblici, che «erano» e dovevano
rimanere lo Stato, l’iscrizione ai sindacati, è riportata nel libro-intervista a Francesco Grossi,
un sindacalista fascista, che faceva parte dell’entourage di Italo Balbo e di Nello Quilici (il
padre di Folco Quilici) all’epoca direttore del Corriere Padano. Racconta il Grossi che, nel
giugno 1936, a Palazzo Wedekind, sede del ministero delle Corporazioni, durante una seduta
della Corporazione Cerealicola, presieduta (cosa del tutto rara) da Mussolini in persona, il
rappresentante degli industriali panificatori perorava con veemenza l’aumento non inferiore a
20 centesimi di lire del prezzo del pane, motivandone
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la necessità con la scusa degli aumentati costi di produzione. Il Grossi, rappresentante della
parte sindacale fascista, invece si opponeva sostenendo che con un tale aumento gli industriali
panificatori avrebbero fatto pagare ai consumatori ed ai lavoratori la crisi del relativo settore
ben oltre il legittimo profitto spettante al capitale. Mussolini chiese informazioni e dati ai
funzionari del ministero delle Corporazioni che, sebbene - come si è detto - avessero giurato
come tutti i dipendenti pubblici fedeltà al regime, non dipendevano dal Partito Fascista né
dalla Confindustria o dai sindacati fascisti, ma erano stati assunti sulla base di procedure
concorsuali ed immessi in carriere avanzare nelle quali dipendeva soprattutto dall’esperienza
che affina le capacità ed il patrimonio professionale. Orbene, quegli onesti funzionari
ministeriali, dotati di forte etica dello Stato, dimostrarono a Mussolini, dati statistici alla
mano, che la richiesta dei panificatori era effettivamente esorbitante l’intervenuta diminuzione
di profitti dovuta agli aumentati costi di produzione e che quella richiesta se accolta avrebbe
inciso in misura insostenibile su consumatori e lavoratori. Mussolini decise per un aumento
del prezzo del pane di soli 5 centesimi. Ma se la nomina e la carriera di quei funzionari fosse
dipesa dalle influenze del Partito o della Confindustria o dei sindacati avrebbero essi messo
Mussolini in condizione di una decisione così equilibrata? Per questa testimonianza storica si
legga Francesco Grossi «Battaglie sindacali - intervista sul fascismo rivoluzione sociale
incompiuta» a cura di Massimo Greco, ISC, Roma, 1988, pagine 47-48.
6) Generalmente si dice che i dipendenti pubblici non possono essere licenziati. Una
convinzione che è soprattutto un luogo comune per il solo fatto che questo avviene molto
raramente in ambito pubblico (come del resto in ambito privato grazie alle tutele dello Statuto
dei Lavoratori: vi è una coincidenza epocale tra le critiche a quest’ultimo e quelle al pubblico
impiego). In realtà, in termini giuridici, con la contrattualizzazione del rapporto di pubblico
impiego, adesso al pubblico dipendente si applicano le stesse norme valide per l’azienda
privata, anche in ordine ai licenziamenti individuali e collettivi (esiste ora anche per il
pubblico l’istituto della disponibilità per esubero di personale o per cessazione o trasferimento
di attività. La disponibilità, come nel privato, dura massimo due anni all’80% dello stipendio
e poi in caso di non riallocazione interviene la risoluzione del rapporto di lavoro, per esubero
di personale. A dire, però, tutta la verità, la possibilità del «licenziamento» esisteva anche nel
precedente regime gius-amministrativo di diritto pubblico del rapporto di lavoro subordinato
alle dipendenze della Pubblica Amministrazione. Il D.P.R. numero 3 del 1957, che regolava
un tempo il rapporto di pubblico impiego, prevedeva l’istituto della «destituzione» che, nella
previdente concezione «militare»
della pubblica amministrazione, equivaleva ad una «degradazione sul campo»: una sorta di
«riduzione allo stato laicale».

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