L’VIII secolo a.C. per la storia greca costituì un momento di grandi cambiamenti, che
posero le premesse per gli sviluppi che si verificarono in tutti settori della vita
collettiva.
Durante il Medioevo ellenico la lineare B, cioè la scrittura dei palazzi micenei, era
scomparsa. Quando, nell’VIII secolo a.C., la scrittura si riaffacciò in Grecia, era
profondamente mutata: si trattava di una scrittura alfabetica, nella quale ogni suono
corrispondeva a una singola lettera e che rappresentò una vera e propria rivoluzione.
Un ruolo fondamentale fu giocato dai Fenici, incontrati dei mercanti greci sulle rotte
dei loro commerci.
La scrittura alfabetica incise anche sul modo di concepire la memoria. Il ritorno della
scrittura e l’avvio della produzione letteraria hanno consentito agli storici moderni
una conoscenza più puntuale di quell’epoca. Questo evento segna l’inizio dell’età
arcaica, che dura fino a tutto il VI secolo a.C.
Intorno alla metà dell’VIII secolo a.C. in Grecia ci fu uno sviluppo dell’agricoltura,
che ebbe come conseguenze un notevole incremento demografico e una
significativa crescita economica. Nonostante questo, almeno inizialmente, la
proprietà della terra rimase concentrata nelle mani degli aristocratici, che avevano
il pieno controllo dei contadini.
Gli opliti non andavano in guerra individualmente, ma serrati in schiere nelle quali i
singoli soldati erano disposti l’uno accanto all’altro, in modo che lo scudo di ognuno
proteggesse anche il fianco destro del compagno vicino. Si trattava della falange
oplitica. Nello scontro fra truppe di opliti, a contare non era tanto il valore dei singoli,
ma la loro disciplina e la loro coesione, la capacità di mantenere la posizione
assegnata e di non indietreggiare, mettendo in difficoltà i compagni; quindi lo spirito
di gruppo e la solidarietà fra commilitoni prevalevano sull’eroismo individuale.
La nascita degli opliti si legò alla formazione di un ceto medio, costituito dai
proprietari di appezzamenti di terra abbastanza grandi da consentire l’accumulazione
di un reddito che poteva poi essere impiegato per procurarsi un’armatura completa
da oplita. Questo ceto finì per accrescere la propria importanza e si ridimensionarono
i privilegi dei nobili.
L’ultima rivoluzione dell’VIII secolo a.C. fu la nascita della Polis, termine con cui si
indica la città greca. La Polis era un’organizzazione socio-politica. A caratterizzare
la Polis era la presenza di un gruppo umano autonomo e indipendente, di piccole
dimensioni, capace di decidere il proprio ordinamento politico e leggi che regolano la
vita collettiva. Questo implica un passaggio del potere dalle èlite nobiliari alle
istituzioni della Polis: implica un primo embrione di quello che oggi chiamiamo
“Stato”.
Parlare di “nascita della Polis” è improprio, perché nessuna struttura sociale nasce
dal nulla, ma deriva dalla trasformazione di strutture precedenti. A favorirla furono
anche fenomeni di sinecismo: la propensione di più villaggi a riconoscere l’autorità di
un centro urbano di maggiori dimensioni.
Con la parola Polis i greci indicavano una vasta gamma di concetti: in primo luogo
la Polis era la città o l’insieme formato dal centro urbano e dal territorio
circostante, poi la Polis coincideva con le sue istituzioni e infine la Polis
presupponeva un forte senso di appartenenza alla comunità, alimentato dalla
condivisione di tradizioni e leggende, dal culto prestato alla divinità protettrice della
città, e dall’impegno militare nelle frequenti guerre con le Polis confinanti. La Polis si
identificava con l’insieme dei cittadini: a contare non era la città, ma i cittadini.
Per gli antichi, la distinzione fondamentale era quella fra spazi sacri e spazi profani:
ogni Polis era un luogo in cui dei e uomini abitavano insieme.
In ogni Polis greca si distinguevano due spazi principali, quello dell’acropoli (“città
alta“) e quello dell’agorà (“piazza“).
L’acropoli, centro della Polis, divenne il luogo privilegiato del culto pubblico, in cui
aveva sede il tempio della divinità polìade, cioè protettrice della città.
L’agorà si trovava invece nella parte bassa della Polis: era la piazza del mercato, era
uno spazio politico ed infine era un luogo di incontro e di socialità.
Nella Polis greca era considerato polìtes, “cittadino“, il maschio adulto libero, che
fosse a sua volta figlio di cittadini e che fosse proprietario di un appezzamento di
terra nel territorio della Polis.
Nel mondo greco si era soldati in quanto si era cittadini: essere membri della Polis e
fare parte del suo esercito erano la stessa cosa. In molte Polis solo chi era soldato
poteva essere cittadino di pieno diritto. In Grecia la città apparteneva a chi la
difendeva.
C’erano due forme di organizzazione politica alternative alla Polis: l’èthnos (“stirpe”,
“popolo”) e il koinòn (“ciò che è comune“, da cui “comunità“ e poi “Stato federale“).
Gli abitanti degli èthne si consideravano discendenti da un medesimo antenato, di
solito mitico. I koinà erano Stati federali caratterizzati dalla doppia cittadinanza: i loro
membri godevano sia della cittadinanza della comunità di appartenenza, sia di quella
federale.
Una simile distinzione era utile sul piano della teoria politica, ma difficilmente si
realizzava nella pratica in forma “pura“. La democrazia, intesa come regime che
assegna al demòs un ruolo politico centrale, fu un’invenzione di Atene. Invece la
grande maggioranza delle poleis ha adottato un regime di tipo aristocratico.
Il potere dei gruppi dominanti, costituiti da famiglie nobili, si basava sul fatto che
erano considerati àristoi, cioè “i migliori“, da cui “aristocrazia“, ovvero “governo dei
migliori“. L‘aretè è un termine che di solito viene tradotto con “virtù“. Nell‘aretè
coesistono le qualità del singolo, il suo senso dell’onore e il suo valore guerriero,
doti che vengono messe al servizio della comunità.
L’aretè finiva spesso per designare le qualità che caratterizzano quanti per nascita,
per educazione e per ricchezza appartenevano i ceti più alti della Polis.
La mentalità agonale dei greci, basata cioè su una forte competizione per il primato,
si manifestava in molti ambiti, da quello sportivo a quello politico, fino all’ambito
artistico. La cultura greca attribuiva un forte rilievo alle competizioni atletiche.
Dal 650 al 550 a.C., molte città greche sperimentarono la tirannide. In quel periodo
dal gruppo aristocratici si distaccarono singole figure, i tiranni, dotati di particolari
capacità e ambizioni, che si appoggiarono ai nuovi ceti medi di contadini-soldati e
agli strati più poveri della popolazione per esercitare un potere personale,
indipendente dal gruppo aristocratico di provenienza e spesso contro di esso. La
figura del tiranno non fu sempre connotata negativamente: i tiranni prendevano il
potere con la forza e lo mantenevano con l’intimidazione, ma molti tiranni favorirono
lo sviluppo delle città e la partecipazione dei nuovi ceti alla vita politico-militare e
promossero le attività commerciali e mercantili, ambiziosi programmi di lavori
pubblici.
Gli antichi immaginavano che le diverse forme di governo formassero una specie di
ciclo e che ogni città fosse destinata a sperimentarle tutte. La realtà dei fatti
smentisce però questa convinzione.
Il mondo greco rimase, da questo punto di vista, molto diversificato e i greci non
realizzarono mai uno Stato che unificasse l’intero territorio. Ciò produsse un forte
spirito di competizione tra le Polis.
Il fatto che il territorio della Grecia fosse prevalentemente arido e montuoso, poneva
limiti alla possibilità di estendere i terreni agricoli e garantire a tutti i suoi abitanti le
risorse alimentari necessarie. Quindi dalla metà dell’VIII secolo, gruppi di greci
iniziarono a commerciare.
Il flusso migratorio si volse a est e a nord est della Grecia, e verso le zone
occidentali del Mediterraneo. In particolare il sud dell’Italia e la Sicilia conobbero
una splendida fioritura grazie agli insediamenti greci: questo territorio fu chiamato
Magna Grecia.
Di norma erano le Polis a predisporre gli spostamenti di una parte dei propri cittadini,
ai quali forniva mezzi di trasporto, supporto tecnico e organizzativo, e armi.
Una volta insediatosi nella nuova terra, ciascun colono riceveva dall’ecista un
appezzamento di terreno coltivabile. I lotti erano tutti uguali fra loro e il colono ne
diventava proprietario per sempre: così, le differenze sociali tra i cittadini vennero
annullati, in un nuovo inizio che poneva tutti sulla stessa linea di partenza.
I rapporti tra coloni e madrepatria restavano saldi dal punto di vista commerciale,
culturale e religioso. Questo, però, non implicava una forma di dipendenza dalla
città di origine; la colonia manteneva rapporti privilegiati con la madrepatria, ma era
una Polis perfettamente autonoma.
L’assetto sociale delle colonie era più egualitario e meno conflittuale. Nelle Polis di
origine il potere si concentrava nelle mani dei grandi proprietari terrieri, mentre nelle
colonie ogni cittadino ottenevano porzioni di terra di dimensioni pari a quella degli
altri. La vita nelle colonie era più aperta e libera. La vitalità delle colonie riguardò
anche l’ambito culturale: fu nel mondo coloniale, e non nella Grecia continentale, che
nacque la filosofia; e dalla più antica colonia greca d’Occidente proviene uno dei più
antichi esempi di scrittura, come dimostrato dalla coppa di Nestore.
Atene e Sparta, le città più potenti della Grecia, non parteciparono in modo
significativo alla colonizzazione. Atene non fondò colonie in età arcaica, mentre
Sparta fondò soltanto Taranto. Più attive furono invece Corinto, Megara, Eretria e
Calcide, molto competenti nella navigazione marittima.
Inizialmente le monete erano costituite da piccoli lingotti metallici, poi furono realizzati
in Elettro, e più avanti vennero coniate monete d’argento e d’oro.
L’incremento del commercio portò, nel VII secolo a.C., al passaggio dalla nave a 50
remi (la pentecontere) alle navi a vela; inoltre le navi commerciali si differenziarono
dalle navi da guerra, che erano più maneggevoli, e avevano dotazioni specifiche
come i rostri. Quindi verso la fine del VI secolo a.C. i greci misero a punto la trireme,
una nave da guerra dell’antichità.
Furono i poeti a definire i tratti della concezione religiosa greca, ed è a partire da loro
che si può parlare di religione olimpica. Quella olimpica era una religione politeista.
Secondo i greci, gli dei non esistono da sempre e non sono stati creatori
dell’universo. Secondo Esiodo all’origine del mondo c’era il chaòs; successivamente
nacque la terra e più tardi gli altri esseri divini.
Al vertice del Pantheon olimpico si trova Zeus, il re degli dei, poi al suo fianco
Poseidone, Apollo, Artemide, Ermes, Atena, Efesto ed Era, la regina dell’Olimpo.
Si parla di una concezione antropomorfa degli dei greci. Essi erano dotati di
emozioni, passioni e sentimenti analoghi a quelli degli uomini. Gli dei intervenivano
nella vita degli uomini e interagivano con loro. Ma esistevano differenze essenziali fra
uomini e dei, in quanto quest’ultimi erano immortali, ma non eterni.
Esisteva una forza divina sulla quale neanche il re dell’universo aveva potere: era il
fato o destino, chiamato Moira.
Secondo la religione greca era possibile interrogare gli dei per ottenere la
spiegazione di un fenomeno, l’autorizzazione a compiere un’azione, e il
preannuncio di un evento futuro. L’insieme delle modalità attraverso le quali si
stabiliva un contatto con il divino veniva chiamato divinazione. C’erano casi in cui la
divinità compariva in un sogno, oppure attraverso oracoli, templi nei quali il fedele si
recava a interrogare il Dio.
Il più importante tra tutti gli oracoli del mondo greco fu quello di Apollo a Delfi.
Ad Atene molte feste erano dedicate a Dioniso; però la festa più importante era quella
che celebrava la nascita di Atena.
Il rituale più caratteristico di queste feste era la purificazione per mezzo del capro
espiatorio, cioè una persona che costituiva un catalizzatore per ogni impurità della
città e ne veniva espulsa come empia.
I giochi panellenici, così chiamati perché gli atleti che partecipavano provenivano da
tutta la Grecia, appartenevano alla sfera religiosa.
Le olimpiadi, che si svolgevano ogni quattro anni, derivano il loro nome dalla località
in cui si tengono, Olimpia. I giochi erano occasione per esprimere il forte spirito
competitivo e costituivano un collante identitario.
Sparta venne fondata da popolazioni di stirpe dorica, che intorno all’XI secolo a.C.,
si insediarono nel Peloponneso; e attraverso il sinecismo diedero vita a Sparta.
Nell’VIII secolo a.C., la città divenne padrona della Laconia e della Messenia, che fu
conquistata al termine delle due guerre messeniche.
Nel VI secolo a.C. si costituì la Lega Peloponnesiaca, che comprendeva tutte le città
più importanti dell’area, tranne Argo.
Subordinati agli spartirai erano i perieci, ossia i membri delle comunità non doriche e
non ridotte in schiavitù, che erano liberi di possedere le terre e di dedicarsi al
commercio e all’artigianato. Dovevano fornire servizio nell’esercito, ma non
potevano partecipare al governo di Sparta.
Il resto della popolazione era costituita dagli iloti, i discendenti delle popolazione della
Laconia e della Messenia che erano state conquistate e ridotte in schiavitù, con il
compito di lavorare le terre degli spartiati.
Ogni anno gli èfori dichiaravano guerra agli iloti, affinché fosse legittimo
ucciderli. Per gli spartiati era come se la conquista del Peloponneso fosse un
evento permanente.
Tra le schiavitù degli iloti e quella diffusa in altre aree della Grecia esistevano
importanti differenze: gli iloti continuavano a vivere nello stesso posto, avevano
famiglie, conservavano le proprie tradizioni e erano considerati di proprietà comune
del ceto egemone. Sparta arruolò come opliti molti iloti, che dopo venivano liberati,
senza però ottenere diritti politici.
Alle cariche politiche della città potevano accederci solo gli spartiati.
Sparta fu inizialmente una diarchia, cioè uno stato rettò da due re. I poteri di
quest’ultimi erano soprattutto militari, religiosi e giudiziari, ma dall’VIII secolo a.C.
furono limitati dalla nascita di altri organismi e figure istituzionali: l’apèlla, la gherusìa,
gli èfori.
L’apèlla era un’assemblea composta dagli spartiati di età superiore ai trent’anni, che
approvava o respingeva le leggi.
Gli èfori erano cinque magistrati scelti dall’apèlla e restavano in carica un anno.
Affiancavano i re come collaboratori, proponevano le leggi e vigilavano sulla buona
condotta dei cittadini e dei sovrani: finirono per rappresentare la carica più
importante della polis.
I fanciulli spartani a sette anni erano tolti alle famiglie e presi in carico dalla polis,
sotto la direzione di un paidonomos. Iniziava allora l’agoghè, durante il quale si
ragazzi erano inculcate le virtù civiche e militari.
La polis appariva per alcuni versi, agli occhi degli stessi greci, eccessivamente
aperta e trasgressiva.
Ad Atene le donne erano poco più che delle recluse, mentre gli spartani ritenevano
che le loro donne dovessero sviluppare i loro corpi per trasmettere ai figli i valori della
città; e partecipavano alle gare atletiche nude.
Gli antichi sovrani dell’Attica venivano rappresentati con un corpo che aveva fattezze
umane nella parte superiore, mentre in basso terminava con una coda di serpente.
Quest’immagine intendeva richiamare il rapporto di quelle figure con la loro terra,
essendo il serpente un animale legato al suolo. Per i greci questa condizione era
espressa dal termine autoctonia, e costituiva una ragione di superiorità rispetto alle
altre polis.
Nel VII secolo a.C. Atene conobbe una crisi sociale, a causa dello strapotere delle
famiglie aristocratiche a scapito dei ceti popolari e dai conflitti fra le famiglie
dominanti. Cilone tentò di instaurare la tirannide; ma il tentativo fu represso dagli
Alcmeònidi.
Nel 624 a.C., emerse la figura del legislatore Dracone: a lui si dovette il più antico
codice di leggi della città, nato per pacificare le fazioni in lotta.
Dracone non riuscì a fronteggiare la crisi sociale, quindi le città greche si affidarono a
un arbitro, scelto all’interno delle aristocrazie. Atene nel 594-593 a.C., affidò il
compito di mediatore all’aristocratico Solone.
Solone effettuò anche una riforma dei pesi e delle misure, affinché sia i liquidi sia i
cereali venissero misurati in modo corretto.
Solone suddivise la popolazione ateniese in quattro classi sulla base del censo: si
parla di costituzione timocratica, da timè, che significa “onore“ e “ricchezza“.
La ricchezza veniva misurata sulla base del ricavato delle terre possedute dei
cittadini.
L’opera di Solone sancì il principio di laicità delle scelte politiche; significa che i
mali della città sono frutto di scelte umane.
La legislazione di Solone non cancellò i conflitti sociali, perché non accontentava fino
in fondo nè i ricchi nè il demòs. Il suo allontanamento da Atene creò un nuovo
periodo di instabilità.
La situazione fu cavalcata da Pisistrato, che nel 561-560 a.C., con un colpo di Stato,
occupò Atene e divenne tiranno della città, ponendosi dalla parte del demòs, di cui
aveva bisogno per mantenersi al potere.
Pisistrato si avvalse del leggi di Solone per nuovi interventi riformatori: stabilì un
limite alla proprietà fondiaria e distribuì l’eccedenza dei latifondi agli agricoltori più
poveri e istituì alcuni giudici itineranti per attenuare la distanza fra città e
campagna.
Alla morte di Pisistrato, il potere passò ai figli; sotto di loro gli ateniesi conobbero il
volto più violento della tirannide. Nel 514 a.C. Ipparco fu ucciso da due nobili.
Nel 510 a.C., Clistene finanziò la ricostruzione del tempio di Apollo a Delfi, distrutto
da un terremoto. L’intervento di Sparta, che mirava a restaurare nella Polis attica un
regime aristocratico, costrinse Ippia a fuggire e a trovare asilo in Persia.
Quindi si scatenò una lotta tra gli Alcmeònidi e gli altri clan dell’aristocrazia per
riempire il vuoto del potere. In principio si trattò di un regolamento di conti tra
fazioni nobiliari, le eterìe; nel 508-507 a.C., Clistene, alleandosi con il demòs,
rovesciò la situazione a suo favore.
Da molto tempo il demòs ateniese era suddiviso in quattro tribù. Durante il pieno
periodo della tirannide, la società ateniese ebbe una profonda trasformazione. Ci fu
uno sviluppo urbanistico e mercantile. Clistene guardò con la sua riforma
soprattutto a gruppi emergenti.
Clistene divise l’Attica e Atene in tre grandi arie (la città, la costa e l’entroterra),
suddivise a loro volta in 10 unità territoriali, le trittie. Le 30 trittie furono raggruppate
tre a tre a formare 10 tribù. Ciascuna trittia comprendeva un certo numero di demi, a
cui spettavano la compilazione delle liste cittadini e l’amministrazione delle finanze e
dei culti. Questo meccanismo integrava la popolazione dell’attica, e scardinava lo
strapotere degli aristocratici.
Il consiglio dei quattrocento fu portato a 500 componenti, 50 per tribù, estratti a sorte
fra cittadini volontari di età superiore a 30 anni. I sorteggiati restavano in carica per
un anno; la presidenza della bulè era affidata a rotazione a ciascuna delle tribù, che lo
esercitava per un periodo di circa 36 giorni (pritanìa). La funzione primaria della bulè
era preparare l’ordine del giorno dell’ecclesia. La bulè divenne il fulcro della
politica cittadina.
La popolazione urbana prese le parti di Clistene nel conflitto che lo vedevo opposto
alle fazioni dell’aristocrazia ateniese. Isagora, invocò il soccorso di Sparta, per
liberare Atene dagli Alcmeònidi. Nel 507 a.C., il re spartano Cleomene si presentò ad
Atene con un esercito: disciolse il consiglio dei cinquecento e pretese che tutto il
potere fosse affidato a 300 uomini della fazione di Isagora. Il demòs però agì.
Cleomene e Isagora si ritrovarono assediati dalla folla inferocita e si ritirarono.
La sottomissione nel 547-546 a.C. del Regno di Lidia, che aveva inglobato molte
colonie greche, fu decisiva.
I timori crebbero con Dario I, che conquistò le regioni della Propòntide e della
Tracia, e rese tributario il Regno di Macedonia.
I persiani imposero pesanti tributi economici e militari alle poleis greche che
sottomettevano. Il pericolo più grave che incombeva sulla politica interna delle
colonie era quello del riaffacciarsi della tirannide.
Nel 500 a.C. il tiranno di Mileto, Aristagora, progettò la conquista dell’isola di Nasso
e trovò l’appoggio del persiano Artaferne. Quest’ultimo era interessato a una
conquista dell’arcipelago delle Cicladi. Nonostante la superiorità numerica, le truppe
ionico-persiane non vinsero la resistenza dell’isola e fallirono.
Per sottrarsi alla punizione di Dario I, Aristagora decise, nel 499 a.C., di deporre la
carica di tiranno e di mettersi a capo di una rivolta dei greci della Ionia contro la
Persia. Chiese sostegno in primo luogo a Sparta, che però non voleva impegnarsi
lontano dal Peloponneso, e che in quel momento stava combattendo contro Argo;
altri centri rifiutarono perchè non avevano interesse a prestare aiuto alle poleis
ioniche, loro concorrenti nei commerci. Atene, invece, assicurò il suo contributo, che
fu però esiguo: inviò poche navi e un minuscolo contingente.
Ci fu un’iniziale vittoria greca, culminata nella distruzione di Sardi. Ma nel 494 a.C.,
Mileto, guida dell’insurrezione, fu rasa al suolo, e i suoi abitanti deportati o trucidati.
La campagna offensiva di Dario iniziò nel 490 a.C. La flotta persiana, comandata da
Dati e Artaferne, e accompagnata da Ippia, sottomise le Cicladi, puntò verso
l’Eubea, dove Eretria fu assediata e incendiata, e i suoi abitanti ridotti in schiavitù.
Nel settembre dello stesso anno le navi persiane approdarono nella baia di
Maratona.
Tra gli strateghi ateniesi prevalse Milziade, che propose di andare loro incontro per
affrontarli.
Fu inviata a Sparta una delegazione ateniese per chiedere l’invio di truppe, ma gli
spartani non sarebbero partiti prima del termine delle celebrazioni in onore di Apollo.
I timori di Aristide non erano infondati: una flotta è composta di uomini e gli equipaggi
avrebbero richiesto almeno 40000 rematori. Il solo bacino sociale da cui attingerli era
rappresentato dai teti, e se, grazie a loro, si fosse ottenuto un successo militare, non
si sarebbero lasciati sfuggire l’occasione per chiedere un riconoscimento sul piano
politico, e questo era ciò che gli aristocratici temevano di più.
Nel 486 a.C. Dario era morto, e il compito di allestire la campagna militare fu ereditato
dal figlio Serse I, il quale utilizzò un esercito di terra, che comprendeva un numero
maggiore di combattenti e anticipava l’intervento della cavalleria.
Nella primavera del 480 a.C. le truppe persiane, guidati dal re in persona, mossero da
Sardi e passarono l’Ellesponto su un ponte di barche, mentre la flotta avanzava lungo
la costa.
Il fronte antipersiano non era totalmente compatto: molte città accolsero gli emissari
che Serse aveva inviato per chiedere “terra e acqua“; altri strinsero accordi segreti
con i rappresentanti del gran re.
Per tenere unita la coalizione, gli ateniesi rinunciarono al comando delle operazioni:
Sparta rappresentava la potenza militare più forte del mondo greco.
Nel 480 a.C., 300 oppliti spartani, guidati dal re Leonida, bloccarono il valico delle
Termopili; mentre la flotta del Gran re si schierò a nord dell’Eubea, nonostante i
tentativi delle navi greche di ostacolarne l’avanzata. Leonida e suoi opposero una
tenace resistenza. Alla fine, la postazione spartana venne aggirata ed essi furono
attaccati alle spalle; gli oppliti morirono tutti in battaglia.
La resistenza degli spartani alle Termopili passò alla storia come esempio di quel
valore in battaglia che gli antichi consideravano la più importante fra le virtù. Morire
in battaglia significava aver messo al primo posto la difesa della collettività.
Dopo la sconfitta alle Termopili, i beoti (con l’eccezione di Platea e Tespie) passarono
dalla parte del Gran re. Invece gli ateniesi evacuarono la città e si ritirarono a
Salamina. Quando Serse giunse nella Polis, si trovò di fronte una città fantasma, ma
la distrusse comunque e incendiò i templi dell’acropoli.
A Salamina fu Temistocle a prevalere ancora una volta: convinse tutti che bisognava
ingaggiare una battaglia navale. Intanto Serse diede ordinò di dirigere la flotta nella
baia. Però le navi persiane si ostacolarono a vicenda e furono sopraffatti dalle agili
triremi greche.
Serse, a quel punto, rientrò in Asia, ma lasciò l’esercito sotto la guida di Mardonio.
Lo scontro con i greci ebbe luogo a Platea, nel 479 a.C. Il contributo del contingente
spartano guidato dal re Pausania fu decisivo. Le navi greche affondarono ciò che
restava della flotta persiana a Capo Micale.
Negli anni successivi, fu Siracusa a trarre il massimo vantaggio dalla vittoria; prima
sotto Gelone e poi sotto a Ierone, costituì uno Stato territoriale in grado di controllare
buona parte della Sicilia.
Nel 474 a.C., chiamato in aiuto dagli abitanti di Cuma, Ierone si impose in un
importante battaglia navale che metteva fine alle ambizioni espansionistiche degli
etruschi, che erano alleati dei cartaginesi.