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Maurizio Blondet

Bianchi, cioè arretrati


26 Giugno 2008

In Gran Bretagna, «i maschi bianchi tendono ad andare all’università meno che i loro
omologhi dei gruppi etnici minoritari»: la conclusione di uno studio del Department for
Innovation, Universities and Skills e commissionato dal governo britannico sta suscitando
allarme (1). Secondo lo studio, il 23% dei bianchi maschi inglesi ha intenzione di proseguire
gli studi all’università, contro il 66% degli indiani, il 64% dei cinesi, e il 43% degli africani. A
fare peggio dei bianchi sono solo coloro che si autodefiniscono «neri caraibici» e «neri non-
africani».

Il dato conferma un’indagine condotta nel 2007 dall’università di Manchester, che ha cercato
di indagare la connessione tra disagio sociale e cattiva riuscita scolastica. Ed ha scoperto che
sì, i giovani bianchi inglesi che vengono da famiglie povere e marginali vanno male; ma che i
giovani di colore provenienti da famiglie anche più povere, vanno comunque meglio. Per
esempio, negli ultimi tre anni il 7% dei bianchi inglesi socialmente sfavoriti ha ottenuto i
massimi punteggi al GCSE (General Certificate of  Secondary Education, una specie di esame
di controllo); ma i ragazzi di famiglie poverissime native del Bangladesh ad avere i massimi
voti sono stati il 12%, i pakistani il 10%, e persino i neri (caraibici e africani) hanno raggiunto
il 9%.

La ricerca di Manchester ne fa una questione di fondi. «Lo Stato spende molto a sostegno
degli alunni delle minoranze etniche e che non parlano inglese come madrelingua - 178
milioni di sterline - mentre per gli allievi bianchi di estrema povertà non c’è nulla di simile».

Cameron Watt, vicedirettore del Centre for Social Justice, ha aggiunto: «C’è una lobby
politica che  richiama l’attenzione sulla cattiva riuscita scolastica dei ragazzi neri, ed è giusto;
ma la povertà bianca non fa notizia sui media, e questo scolari sono spesso trascurati, per loro
non c’è un progetto di sostegno». E’ un tema, come si capisce, delicato. «Non voglio attizzare
l’odio razziale, ma è un problema che va affrontato», dice Watt.

Preoccupa il fatto che si sta formando un sottoproletariato permanente  bianco, che si vedrà
scavalcare nel lavoro e nella riuscita sociale dai «colorati». E questo rischia di essere, fra
l’altro, «un regalo al British National Party», il partito neofascista britannico. Dove il termine
«neofascista» descrive male una (in)cultura di graffiti, rock duro, skinhead, tifoseria teppista e
violenza spicciola per bande.

Qualcosa che vediamo anche in Italia: atteggiamenti e marginalità tipici dei «negri»
americani, oggi sono dei bianchi sfavoriti. Un sintomo terribile per la nostra civiltà.

In questo dibattito britannico, ha suscitato proteste la proposta del professor John White, un
pedagogista che ha contribuito ad elaborare il programma di studi delle scuole statali inglesi.
Secondo White - o almeno i giornali hanno riportato così le sue idee - la scuola secondaria
dovrebbe abbandonare materie come storia, geografia, matematica e inglese, e invece
insegnare qualcosa che lui chiama «capacità personali», come civismo, educazione
«personale, sociale e sanitaria», «risparmio energetico»  e persino «capacità di gestire il
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debito» (certo un’abilità che servirebbe  agli inglesi, già indebitati con le carte di credito ancor
prima di raggiungere i 18 anni).

I programmi con le vecchie materie come storia e geografia, scienza e latino, dice White, sono
«creazioni della classe media»; miravano a formare una «solida classe media», quella che
esisteva nel secolo 19mo, laddove le classi superiori imparavano alle «public schools»
programmi basati sui classici, e al popolino si insegnava a leggere, scrivere e far di conto.
L’imposizione di un insegnamento da classe media, oggi, «aliena tantissimi giovani, specie
delle classi svantaggiate» (2).

Detto così, sembra un puro e semplice cedimento alla realtà di fatto, con l’abbandono
definitivo del modello educativo umanista-rinascimentale che mirava all’«uomo completo» (e
non come crede White, alla «classe media»). O il ritorno - molto british - a scuole classiste,
diversificate per gerarchia sociale. In realtà, l’intenzione del professor White è l’opposta:
«Nel secolo scorso si credeva che la diversità d’intelligenza fosse innata, e che le scuole
secondarie fossero per i più intelligenti e richiedessero programmi più ‘accademici’ che quelle
per gli altri giovani. I testi d’intelligenza  sono stati costruiti attorno ad  abilità  linguistiche,
logiche e matematiche».

Oggi queste teorie di stampo eugenetico che consideravano innata la quantità d’intelligenza
sono abbandonate, ma i programmi che ne discendono sono rimasti - secondo White - e
infatti  le materie che esigono pensiero astratto, come matematica e fisica, sono le più
apprezzate. E queste materie sono insegnate come temi «distinti», secondo un modello
«introverso e specialistico, come ad addestrare gli alunni al modo di pensare richiesto a
matematici o a geografi, e come per prepararli a studi più avanzati in quei campi». Certo,
dice, la conoscenza è necessaria; ma - si domanda il professore - ciò «giustifica 11 anni di
matematica obbligatoria per tutti?». Le materie per argomenti distinti «non sono il solo modo
di generare piacere intellettuale - ammesso che lo generino, visto che in molti alunni generano
noia».

Divertenti alcune altre considerazioni del professore. Per lui, l’obbiettivo più o meno
dichiarato delle scuole è: occorre più cultura per potere vivere «una vita di successo». Che
poi, nella società attuale, si è ridotto al successo economico. 

Ma «se il successo è misurato in reddito, può esser vero che studiare a testa bassa equazioni
simultanee, la fisica dei gas e la Guerra dei Trent’anni è un buon avviamento per l’entrata
nelle università prestigiose e stipendi da 70 mila sterline l’anno. Ma in tal modo i programmi
diventano solo corse ad ostacoli verso la ricchezza. Senza contare che, come tali, le materie
sono sostituibili con altre. Se per l’ammissione  ad Oxford e Cambridge si richiedesse il
sanscrito, la storia della Persia e la logica formale, molti dei nostri più risoluti giovani
ingollerebbero queste» (3).

Meno convincenti, e meno comprensibili, le proposte alternative del professor White. Il suo
merito, lo dice lui stesso, è porre «le domande difficili radicali su qual’ è l’obbiettivo della
scuola». Forse questo è il punto.

Nell’Italia appena unificata, gli obbiettivi erano chiari perchè elementari: si trattava di dare
un’istruzione di base a una popolazione rurale e analfabeta, e una unità linguistica a genti che
non ne avevano, perchè parlavano dialettti diversi. Elaborare obbiettivi in società complesse,
con fenomeni sociali inquietanti (come la de-industrializzazione e la pluri-etnicità) è molto
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più difficile. Ma bisogna cominciare, e radicalmente. Se non altro, perchè l’uomo bianco sta
diventando il negro del prossimo secolo.

1) Alexandra Frean, «White teenagers are significantly less likely to go to university than
their peers from ethnic minority groups», Times, 18 giugno 2008.
2) Laura Clark, «Drop ‘middle-class’ academic subjects, says school adviser», Globe & Mail,
4 giugno 2008.
3) John White, «Toward an aims-led curriculum», www.qca.org.uk/futures/.

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