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Maurizio Blondet
01 Settembre 2011
Duchamp si stabilisce negli Stati Uniti nel 1915; per sfuggire al carnaio delle trincee
francesi ha accusato un difetto cardiaco, che non gli impedirà di vivere fino ad 81 anni
fra infinite avventure femminili. In America è già noto come iconoclasta: nel 1913,
nella prima mostra che intendeva far conoscere le avanguardie europee ai newyorkesi
che contano, ha esposto un suo quadro futurista-dinamico, Nu descendant un
escalier, nudo che scende le scale. Paragonato da qualche critico a «un’esplosione in
una fabbrica di tegole», il quadro ha suscitato il dovuto scandalo e l’intera mostra ha
conosciuto il successo dell’indignazione del pubblico, debitamente ampliata dai
grandi giornali: centomila visitatori a New York, repliche a Boston e a Chicago. Le
enormi tirature dei giornali USA assicurarono alle avanguardie europee e ai suoi
esponenti una notorietà o pubblicità su scala continentale.
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Così, quando decide di stabilirsi a New York nel 1915, Duchamp viene subito ospitato
in casa e nel salotto degli Arensberg (j), ricchi collezionisti della allora scarsa
avanguardia USA, e dal massimo promotore dell’avanguardismo in America, il ricco
fotografo d’arte e gallerista Alfred Stieglitz (j).
Costui ha una piccola galleria d’arte al numero 291 della Quinta Strada, cuore dei
miliardari di Manhattan, che ha chiamato appunto 291; in più, pubblica una
sopraffina rivista, anche’essa 291, in cui si propone «in nome della fotografia, di
seppellire la convenzione pittorica».
Walter Arensberg, deciso a battere il ferro della notorietà finchè è caldo, iscrive
l’amico Duchamp alla Society of Independent Artists, di cui è cofondatore, creata per
la promozione dell’innovazione in arte. Va detto però che ad essa partecipano,
insieme ad allora rarissimi avanguardisti come Man Ray, anche i pittori che traggono
i loro soggetti dalla realtà quotidiana americana, e che si considerano innovatori in
quanto contrari all’accademismo della National Academy: sono i New York Realists,
capeggiati da George Bellow, che non hanno rinunciato al modo tradizionale della
riproduzione riconoscibile della realtà.
Che fare per ovviare a questa sterilità, che poi Duchamp attribuirà a un suo radicale
«disprezzo per l’arte», e alla sua volontà di delegittimarla totalmente? Si sa che, in
compagnia dei coniugi Arensberg, egli acquista da un non identificato rigattiere un
pisciatoio usato tratto da un cesso pubblico, ne pone la base (quella destinata ad
essere fissata al muro) su uno zoccolo, vi ha apposto una firma (non la sua: R.
Mutt, 1917), e l’ha mandata alla giuria.
Come è noto agli storici d’arte contemporanea, una parte maggioritaria della giuria
negò la natura di opera d’arte al sanitario, e rifiutò decisamente di esporla. Ma,
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A farlo scoppiare pensarono gli amici di Duchamp, fra cui Arensberg, che aveva fatto
parte della giuria e quindi conosceva la faccenda. I complici fondano una rivista che
durerà poco, The BlindMan, e che nel suo secondo (e ultimo) numero, maggio 1917,
pubblica un’inchiesta su Il caso Richard Mutt: vi si denuncia la non-esposizione del
pisciatoio, di cui appare anche la foto. Il fotografo d’arte è il già noto Stieglitz, amico e
complice di Duchamp e degli Arensberg. S’intende che il caso restò a lungo confinato
nella piccola e raffinata cerchia dei mercanti d’arte avanguardisti, per lo più (J). Ma
era lanciata l’idea che l’artista, una volta ricevuto da questi mercanti l’adeguato
status, poteva presentare come opera d’arte un oggetto industriale qualunque,
raccolto in una qualunque discarica.
Ma la storia non sarebbe completa, senza citare il gallerista milanese Artuto Schwarz
(j). Bisogna sapere che il pisciatoio originale, quello esposto-nascosto nella
esposizione newyorkese, andò presto perduto, non meno che lo scolabottiglie; ben
consci della natura non-artistica dell’oggetto, gli Arensberg non si preoccuparono di
tesaurizzarlo. L’originale tornò alla discarica, come meritava. Ne restavano solo le
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foto di Stieglitz. Da quelle foto, Arturo Schwarz fece confezionare quattordici copie
numerate del sanitario, insieme a 14 copie dello scolabottiglie: inutile dire che queste
repliche andarono a ruba a prezzi stellari, e Duchamp, che le firmò, fu estasiato da
questa lucrativa operazione.
Qui sono ben visibili gli snodi della fabbricazione. Lo scandalo creato ad arte da
riviste prestigiose create apposta per l’operazione, la figura dell’artista descritto
come incompreso se non perseguitato dai colleghi realisti, la conventicola che si
rende esclusiva e raffinata tanto da fare di un banale derisore, notevole solo per la
sua naturale impudenza, qualcosa come Dio, un essere che – datogli lo statuto di
artista – nessuno ha il diritto di giudicare.
Pensate che il gioco lucroso dura, benché ormai sia un gioco così ripetitivo e scoperto,
che la trasgressione degli artisti contemporanei è diventata l’Arte Ufficiale assoluta.
Da ciò misurate la potenza del difetto umano chiamato snobismo, e di chi sa eccitarlo
e strumentalizzarlo ai propri fini.
Lo snob è colui che imita con affettazione le opinioni, i gusti, le maniere e le mode
della classe che considera distinta, in senso sociale o intellettuale. Non è il difetto di
minoranze. Al contrario. Lo snobismo è un fenomeno di massa della modernità,
trascina anche le classi basse, marginali o persino delinquenziali. In questo senso, è il
cemento anche del branco e delle bande giovanili, dove se non hai certi tatuaggi e
certi pantaloni, se non aderisci ai gusti e al gergo del capobanda sei fuori. Uno
snobismo simile, ancorchè immondo, regna nella mafia e nella camorra; lo snobismo
è il potere psichico, omogeneizza i giovani leoni di Wall Street sia nel linguaggio, nelle
giacche Armani, nel cinismo, e nei SUV Porsche. Lo snobismo è quel che conferisce il
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Qualche lettore potrà dubitare che lo snobismo sia una tale forza irresistibile, che fa
sua preda non questo o quel gruppuscolo sociale, ma quasi l’intera umanità. A ciò
rispondo: considerate che la maggior parte degli uomini non è capace di gusti, idee,
opinioni proprie. Di conseguenza, di fronte a qualunque realtà o produzione umana,
non si chiede: è vero, o no? È autentico o no?
Il meccanismo viene via via ridotto ai termini più schematici: chi non sa dire a se
stesso se un artista o una idea o una moda sia autentico o no, chi è sordo alla verità, si
lascia guidare da chi decreta – per dirla all’americana – ciò che èin e out. È lo
snobismo ridotto ai minimi termini dell’assenza intellettuale: in eout non sono
categorie logiche nè del pensiero; sono nulla. Sono, nell’essenza, riflessi condizionati.
In mano a chi li sa usare, fanno di noi dei cani di Pavlov.
Il fatto che li sappiano usare nel modo più magistrale il gruppo umano che ho
indicato con la lettera (J), è abbastanze bene spiegabile. Anzitutto, questo gruppo è in
proprio snob al massimo livello, se si pensa che snob è l’abbreviazione delle
parole Sine Nobilitate, e come abbreviazione accompagnava i biglietti d’invito che
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inviava l’aristocrazia inglese per qualche suo ricevimento: baronessa Tale, Lord
tal’altro, John Mason esq (esquire), poi il banchiere Rothstein, s.nob. Pensate la
sofferenza e l’umiliazione subita per secoli dal banchiere, magari immensamente più
ricco dei Lord che lo invitavano, o del medico ebraico dei re, il consigliere e il gestore
dei beni dei principi, che frequentava le loro stanze e i loro castelli, ma sempre
disperatamente out, e senza alcuna possibilità – per secoli – di diventare pari
all’aristocrazia. L’acuto senso di inferiorità vissuto come ingiustizia e offesa, ha reso il
popolo (J) acutamente sensibile alle questioni che travagliano lo snob, nonchè
acutamente cosciente della superiorità e dell’inferiorità e dei suoi segnali che si
manifestano anche impercettibilmente in un raggruppamento umano, sia un
ricevimento o sia un partito politico, o una conventicola d’avanguardia o un salotto
esclusivo.
La Recherche du Temps Perdu di Marcel Proust può essere letta come un trattato
sullo snobismo. C’è lo snobismo ereditario dei baroni, dei Charlus e dei Guermantes,
che affettano comportamenti alla mano (è parte dello snobismo dei grandi del tempo
che fu), e quello dei risaliti arricchiti. La psicologia dei personaggi proustiani non è
psicologia affatto; essa è ridotta ai tic, agli atteggiarsi e alle maniere e manierismi di
chi cerca di restare in o di diventarlo, o almeno di non essere ridotto ad out. Gli sforzi
di madame Verdurin e consorte per fare del proprio salotto o piccola cerchia la
centrale che decreta a Parigi ciò che è in e ciò che è out di artisti ma anche di
scienziati, di medici e di politici, e il successo che arriderà a questo sforzo quando
tramonterà l’era dei baroni, è una saga satirica, ridicola e dolorante insieme (per
quelli bollati come out e dunque non più frequentabili). La potenza del salotto
Verdurin consiste in un ferreo sistema di ostracismi, di cui Proust sottolinea
l’arbitrario e il capriccioso: chi viene escluso non lo è mai per le vere ragioni, come chi
è dichiarato in non lo diventa per i suoi meriti. Non diversamente decretano
espulsioni e scomuniche al loro interno piccoli partiti estremisti che, se prendono il
potere, diventano concentrazionari.
Chi ha una certa età, ricorderà come fosse chic per certa borghesia di peso in Italia, e i
suoi intellettuali, essere di sinistra, simpatizzare per il comunismo realizzato a
Mosca, addirittura per Mao, ed estendere quella simpatia fino alla Brigate Rosse.
Personalmente ricordo persone cui consigliavo di leggere Solgenitsyn (Arcipelago
Gulag) per apprendere la verità nel paradiso deipopoli, l’universo concentrazionario
comunista, e che rifiutavano adducendo che Solgenitsyn era reazionario, credente,
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Poi, insensibilmente, tutto ciò è cambiato. Una quindicina d’anni fa, non fece più
bon-ton essere comunisti. Nei salotti si smise di evocare le masse lavoratrici, in fatto
di estetica si smise di citare Lukacs, di dichiararsimarxiani; i ragazzi della bella
società non strimpellarono più Comandante Che Guevara, grandi giornalisti e
intellettuali cessarono di esibire la conoscenza diretta dei Grundrisse di Marx di cui si
vantavano due anni prima.
Non è che la borghesia avanzata avesse riconosciuto la verità, ossia la natura omicida
del sovietismo; nemmeno che era caduta l’Unione Sovietica. Era che qualcuno aveva
dato il segnale che la lotta di classe non si portava più. Che il leninismo era superato,
vecchio e un po’ ridicolo come il realismo socialista in pittura.
I militanti del Partito Comunista più forte dell’Occidente, la base operaia che non
partecipa allo snobismo dei piani alti, probabilmente non si capacitarono del
cambiamento improvviso. Persino i capi del PCI cambiavano: era come se Marx,
Lenin e Gramsci non li avessero mai letti e conosciuti a memoria nelle scuole di
partito, e puntavano sulla globalizzazione del capitalismo. Gli abiti (mentali) che si
vendevano bene in via Montenapoleone, erano diventati oggetti di stock, che nessuno
voleva indossare più per una sera elegante. Lemasse videro d’essere ormai fuorimoda
come i modelli pret-à-porter dell’anno prima; fino a ieri adulate avanguardie della
storia, ora abbandonate ormai all’individualismo avanzante e alle ragioni del profitto,
del meno Stato piùmercato.
Forse gli smarriti ultimi comunisti rimasti avrebbero potuto intuire chi guidava il
cambiamento, se avessero osservato lo spostamento che negli ultimi anni s’era
operato nella comunità J a livello internazionale. Prima, in Italia come in Europa e in
USA, non si incontrava un J che non fosse di sinistra, radical chic o addirittura
esponente del direttivo comunista. Poi, da un certo punto in poi, lo stesso (J) era
diventato liberista in economia e falco in politica, se non addirittura religioso con
tanto di cappello nero, filatteri e barba rabbinica.
Come fonte ideologica interna, Lev Davidovic Trotski aveva lasciato il passo allo
gnostico nicciano-machiavellico e rabbinico Leo Strauss, teorico della doppiezza; il
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In Italia, nel suo piccolo, abbiamo visto le stesse metamorfosi nella Nirenstein, da
movimentista rossa della rivoluzione permanente in likudnik fanatica, e di Giuliano
Ferrara, figlio del numero 2 del PCI, allevato sulle ginocchia di Togliatti, oggi neocon
italiano ed ateo devoto. E autore di un giornale ultra-snob, inteso ad instillare nei
circoli che contano la nuova moda: diventare crociati è l’imperativo dell’attualità
intelligente, la reazione si porta fra le persone distinte e gli intellettuali
d’avanguardia, il razzismo anti-islamico e il rifiuto del multiculturalismo (che loro
stessi ci hanno fatto ingoiare di dritto e di traverso, quando erano di sinistra) oggi è
l’ultimo grido intellettuale.
Il comunismo non è più di moda, o come disse Berlinguer la «sua spinta propulsiva
si è esaurita», da quando loro non sono più comunisti, ma neocon, nicciani alla
Strauss, religiosi ultra-ortodossi, antiislamici.
In arte, il successo dei gestori dello snob è totale. Privi di una tradizione figurativa per
il ben noto divieto biblico di raffigurare esseri viventi, e perchè nei secoli si sono
occupati di ben altro che del Bello, i nostri (J), galleristi o specialisti, hanno promosso
esclusivamente artisti che, come Duchamp, si son fatti un dovere di irridere e
delegittimare l’arte, che per secoli fu figurativa, la rappresentazione degli dei come
esseri reali, della storia sacra come recitata da uomini reali, o del paesaggio come
realtà trasfigurata (2).
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Per un popolo che non ha mai avuto per secoli pittori nè scultori nè architetti, è
notevole quanti (J) sono illustri nell’empireo dell’arte contemporanea: Modigliani,
Chagall, Ernst, Kandinsky, Klein, Pollock, Gottlieb, Rothko, l’archistar Gehry, che
riempie di sgorbi le città tradizionali, ovviamente su ordinazione della burocrazia
locale. Probabilmente ciò non è senza relazione con il numero, parimenti affollato, di
galleristi e intenditori ebrei, specie in USA, che promossero l’informale e l’astratto:
Guggenheim, Kanhweiler, il triestino Leo Castelli che nella sua galleria sulla East 77 a
Manhattan, promosse l’arte minimalista, la concettuale e la pop-art.
Non è stato un processo spontaneo, il libero affermarsi del gusto del pubblico. Al
contrario, la gente comune continua a soffrire l’arte informale come offensiva e priva
di senso: «Ciò che ferisce gli occhi, ferisce l’anima».
E’ stato lo snobismo con la sua leva su chi, davanti a un’opera, non si fa domande
sulla sua verità, ma se è in. Fu esercitata una dittatura culturale intimidatoria.
A cominciare dal ‘43, in USA, due artisti di nome Rothko e Gottlieb scatenarono una
campagna di ridicolizzazione contro il realismo, contro «i quadri da appendere sul
caminetto». Nel 1952, una cinquantina di pittori figurativi scrisse una lettera di
protesta contro il museo d’arte moderna di New York (MoMA): la scelta del museo di
accogliere solo astrattisti e avanguardisti, scrivevano, condannava i realisti a vivere da
sepolti vivi, senza mercato e ignorati dalla critica e dalle gallerie. Tra i firmatari c’era
il più grande pittore americano del ventesimo secolo, Edward Hopper.