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Maurizio Blondet

Un maestro unico
16 Ottobre 2008

Sarà per tutto questo protestare di insegnanti, ma verso l’alba - insonnia aiutando - m’è venuto
alla mente il mio maestro di terza-quinta. L’avevo dimenticato da decenni. Ho detto una
preghiera per lui, anche se sono certo che non ne ha bisogno, ma per gratitudine.

Come tutti, avevamo temuto il passaggio alla terza, perchè significava lasciare la maestra ed
avere come maestro un uomo; ma non ricordo che il maestro Aldo Prati potesse dirsi severo.
Rigoroso direi: dal primo giorno, ci chiarì che non avrebbe tollerato altri pennini che i
Mitchell numero 5, piccole lance d’acciaio, tedesche, lisce senza arzigogoli (vietandoci certi
pennini a forma di Tour Eiffel di bronzo, i nostri preferiti), e questa precisione nella minuzie
fece impressione. Ma rigoroso in un suo modo lieve, sulle nuvole.

Perchè il maestro Prati, benchè ci insegnasse tutte le materie del programma, aritmetica,
geografia e storia, non aveva in realtà che un interesse: la letteratura italiana. Più
specificamente, la poesia. E in modo più esclusivo, Giovanni Pascoli.

Ma in quello della «Cavallina storna», patetico e dolciastro: il maestro Prati amava, e ci rivelò
l’esistenza, di un Pascoli che aveva cantato i gelidi spazi interplanetari, la Luna dai desolati
crateri, le profondità siderali. Ci aveva anche scritto un saggio di poche pagine, «Pascoli
astrofilo e cosmico», stampato a sue spese, di cui regalava una copia agli scolari che gliene
sembravano degni.

Ogni pretesto era buono perchè il maestro Prati si mettesse a parlare di quel Pascoli, e allora
poteva deviare dal programma anche per molto tempo. Sapeva una quantità di aneddoti sul
suo poeta; e non aneddoti privati e familiari, ma quelli del Pascoli serio filologo,
commentatore di Dante.

Ci raccontò che Pascoli aveva illustrato la Divina Commedia come percorso simbolico verso
la Sapienza Santa. Ci raccontò che una volta, nell’inviare un suo libro di poesie ad un critico
perchè le recensisse, Pascoli gli scrisse la seguente dedica: «Sia la chiosa migliore del verso»,
ossia - ci traduceva - «ti auguro che il commento superi i miei versi».

Ma sentite, aggiungeva entusiasmandosi, che questa frase così concisa è un endecasillabo.


Non sentivamo, dovevamo ancora imparare a «sentire». Il maestro Prati, girando tra i banchi,
ci dava altri esempi di endecasillabi - declamava Dante, Carducci - scandendo le parole e
contando per noi le sillabe sulle dita; a suo dire, la lingua italiana tende spontaneamente
all’endecasillabo, è la sua nobiltà; e gli italiani quando parlano tendono a fare endecasillabi.
Per natura.
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Si astenne dal fare l’esempio più ovvio: «E’ vietato introdurre biciclette», perfetto
endecasillabo. Credo, perchè - benchè il maestro Prati venisse a scuola in bici - non solo non
l’avrebbe mai lasciata in un androne violando un divieto, ma perchè tutto ciò che era prosaico
gli era semplicemente estraneo, non lo riguardava. Per questo sembrava camminare sulle
nuvole, aveva qualcosa di fanciullesco - non so adesso, ma allora spesso gli insegnanti
restavano fanciulli, contaminati dall’infanzia degli scolari.

Per lui, l’italiano era quel che per noi erano le biglie colorate, qualcosa di cui faceva raccolta,
tesaurizzava, e di cui non si stancava di mostrarci i colori e le forme.

Ci faceva notare gli accenti: «Non si deve dire Flòrida, come gli americani, si deve dire
Florìda, perchè significa fiorita, e perchè le parole italiane e della nobile lingua iberica sono
per lo più piane». Flòrida era una «parola sdrucciola, sentite? Flò, Flò. Invece Florì, florì,
sentite l’accento sulla penultima sillaba?».

Cominciavamo a sentire. Il colore della lingua. Da quel momento, dovemmo imparare a


mettere gli accenti acuti quando occorreva, non sempre solo quello grave. Il maestro Prati non
transigeva, segnava in blù la sciatteria dell’accento indistinto:  errore grave.

Benchè milanese, il maestro Prati parlava con un accento toscaneggiante: aveva lavorato
molto su se stesso per amore della nobile lingua, stava attento a pronunciare le «e» larghe
quando i fiorentini le pronunciano larghe, e strette quando a Firenze si dicono strette; e quasi
sempre purtroppo, le «e» toscane sono il contrario di quelle milanesi.

«Non si dice sècchio, ma sécchio», e per far notare la differenza, pronunciava la prima volta
quasi «sàcchio» (esagerando il modo di Milano), e la seconda «sìcchio».

Chissà perchè, tutto questo non ci annoiava; forse il suo entusiasmo ingenuo, fanciullesco, ci
contagiava. Forse, invece, ci stava insegnando a sentire la lingua come si sente una stoffa, a
palparla e capire che può essere velluto, può essere canapa, può essere seta.

Un giorno fu deciso che la scuola (prima genericamente «la scuola di via Mac Mahon»,
presso la Ghisolfa) si sarebbe chiamata Dante Alighieri. Il direttore didattico, che lo stimava
molto, incaricò il maestro Prati di elaborare le parole che sarebbero state scolpite sulla lapide
di dedica. Fu, credo, l’evento più importante e anche traumatico della sua vita: ci si arrovellò
per settimane, ogni giorno ci diceva che aveva scritto la frase giusta, e il giorno dopo che
l’aveva corretta. Correva a casa a correggere, mai soddisfatto; rileggeva la Divina Commedia
(che sapeva a memoria) per inzupparsi di Dante.

Il giorno che nell’atrio la lapide fu scoperta in una piccola cerimonia, leggemmo la frase che
l’aveva tanto macerato. Cinque righe, ricordo vagamente che erano piene di dantismi («Macro
il volto nobile e austero...»), ma il direttore didattico e gli altri insegnanti lo felicitarono
molto. Al maestro Prati quel giorno tremava un poco il mento, non per le lodi, ma per la
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tensione: avrò onorato la lingua? Non avrò fatto torto a Dante, al poeta?

Quel giorno, in classe, ci spiegò i dantismi che aveva usato, ad uno ad uno: «Macro» invece di
«magro», e declamò: «E se continga che il poema sacro/ al quale han posto mano cielo e terra/
sì che m’ha fatto per più anni macro… Lo vedete, Dante: asciugato dalla fatica di scolpire il
suo poema: non più ‘Commedia’, ma ‘poema sacro’; e lui  non è un poeta ma un fabbro, uno
scultore che lotta con la materia, che ‘a risponder è sorda’... Beh, è un po’ difficile per voi...».

Veniva a scuola sempre perfettamente sbarbato, con il solito abito grigio chiaro da mezza
stagione, liso ma stiratissimo: mai in maglione, ovviamente. Il maestro Prati sapeva che
rappresentava lo Stato - lo Stato educatore, che esige rispetto e forme. La sua vita privata era
come non esistesse, o non importasse; aveva moglie, non so se avesse figli. Da venticinque
anni era solo e totalmente il maestro Prati.

Una volta dovetti andare a casa sua e mi ricevette in quella sala che esisteva allora nelle case
borghesi, che non si poteva chiamare «soggiorno» perchè nessuno ci soggiornava mai,
occupata da un tavolo lucido da pranzo, in eterna attesa di  improbabili pranzi per dodici
persone (non si poteva nemmeno immaginare il maestro Prati a pranzo), e da un divano su cui
nessuno sedeva mai. Anche lì a casa sua, il maestro Prati stava in giacca e cravatta.

Certo, non voglio fare un confronto con la scuola d’oggi. Sono passati tanti anni. I maestri
non avevano a che fare con ragazzini iperattivi, nè sessualizzati precocemente, nè cinici e
derisivi. Atti di prepotenza fisica avvenivano sì, ma all’oratorio, nei giochi rudi di gruppo.
Non mi piaceva - il mio tipo di divertimento consisteva nell’immaginare guerre e assalti, la
difesa di fortini dall’assalto di indiani, e questo gioco si faceva meglio con un amico o due - e
mi piaceva la scuola, l’ordine controllato e sereno che ci dava; il grembiule con il colletto di
plastica bianca non era vissuto come un’imposizione, ma come un’appartenenza: eravamo
anche noi, come il maestro Prati, dello Stato.

Non lo portavamo solo noi ragazzini, il grembiule. La mia maestra di seconda - la signorina
Triulzi - indossava anche lei il grembiule nero, grembiule di Stato, come i bidelli, quando
entrava in classe. Non ho mai visto il suo vestito sottostante, per così dire privato. Secondo
mia madre, era bruttissima, ma a me non pareva. Non s’era mai sposata. Il suo cognome
«Triulzi» era milanesissimo, deformazione dialettale di «Trivulzio», nome di una famiglia
aristocratica e anche del paese feudo di quei nobili; eppure anche lei senza accento, e
sull’italiano non transigeva.

Un compagno una volta, nel «ripetere con le sue parole» un racconto appena letto, parlò della
«pecorella che barbellava dal freddo». Barbellava? Orrore milanese! Non è italiano! si dice
«tremava», si dice! L’incolpevole si trovò dietro la lavagna, stranito, non capiva cosa aveva
fatto di male, parlava così con la mamma e la nonna... oggi, ci sarebbe stata una denuncia
contro la signorina Triulzi all’autorità giudiziaria.

Certe cose che ci disse la maestra Triulzi mi sono rimaste stampate nella memoria. Un
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ragazzino aveva tirato a una rondine con la fionda. La maestra ci spiegò che assolutamente
non si devono ammazzare le rondini, perchè (a parte che non sono buone da mangiare), nel
loro sfrecciare divorano una quantità di insetti dannosi per l’agricoltura: in qualche modo, mi
pare volesse dirci, anche le rondini lavorano per la patria e meritano onore. Sarebbe una viltà,
come tirare una fiondata al maestro Prati. Era anche una lezione di ecologia e di
ambientalismo, ma detta in un modo speciale: tutto contribuisce a fare l’Italia, le rondini e i
maestri, il grano salvato dalle rondini come Dante e Pascoli.

Oggi le rondini sono diventate rarissime. Una volta, d’estate, riempivano il cielo di Milano di
grida; magici uccelli dalle ali aguzze come minuscoli aerei da caccia, il loro ritorno ci
rallegrava. Facevano il nido di terra aggrappato alle vecchie chiese, le stavamo a guardare
quando portavano un vermetto ai loro piccoli invisibili là dentro.

Pascoli veniva facile alla mente: «Tornava una rondine al nido..». D’autunno, si mettevano in
grandi file sui fili elettrici. Erano i maestri a dirci che le rondini stavano partendo per l’Africa,
ma che sarebbero tornate col caldo, per dare il loro contributo all’agricoltura italiana.

Ormai non si vedono più. Persino qui a Bagnaia, dove non mancano le vecchie mura e i
cornicioni antichi, che sicuramente hanno ospitato migliaia di generazioni rondinesche (i figli
delle rondini, ci disse la Triulzi, tornano alle stesse mure dei genitori, che non possono
ricordare), non se ne vedono più.

Le ho riviste invece, con sorpresa, a Pomaia in Toscana, sull’edificio della «scuola» dei
buddhisti tibetani. L’edificio non è così antico, eppure le rondini avvevano fatto una quantità
di nidi proprio lì, stridevano volando in stormi incredibili. Sono rimasto una mezz’ora a
guardarle volteggiare e tuffarsi come caccia, con quelle ali aguzze e senza fronzoli come un
pennino Mitchell, a divorare insetti. Al punto che una signora mi ha chiesto che cosa stessi
guardando.

Le rondini, ho risposto: dunque ci sono ancora. Perchè stanno qua e non altrove? Sui tetti dei
buddhisti? Forse, allora, non sono gli anticrittogamici ad averle sterminate; forse è l’aria
spirituale di noi italiani, il clima psicologico che emaniamo, a tenerle alla larga. Forse le
rondini «sentono» il karma buono e cattivo, come il maestro Prati «sentiva» la lingua come un
tessuto variabile, ora canapa, ora velluto o seta.

Come le lucciole di cui Pasolini segnalava la scomparsa: non è naturalismo, è qualcosa di


spirituale che s’è perso in noi, ad averle uccise. L’estate di quegli anni era per noi ragazzini
questo: il grido delle rondini nel cielo di giorno, e di notte le lucciole. Non era difficile
credere al sovrannaturale, quando la gente chiacchierava all’aperto di notte, in campagna o nei
giardinetti in città, circondata di quelle piccole luci palpitanti e intermittenti. Ma quali insetti;
erano senza pungiglione, luci innocue e misteriose, silenziose testimoni di un aldilà fatato.
Piccoli angeli in visita. Noi bambini le catturavamo per metterle in un barattolo di vetro; il
mattino dopo le trovavamo morte, e anche da morte non sembravano insetti, non avevano
nulla di ripugnante, erano miti corpicini bruni, un poco impolverati. Ci sentivamo in colpa; gli
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adulti, del resto, ci dicevano: lasciatele vivere, le lucciole, non fate loro del male.

Altri tempi, altro karma.

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