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Maurizio Blondet

Cultura vitale, democrazia e altro


02 Aprile 2008

«La vita deve essere colta ma la cultura deve essere vitale»: la frase di Ortega y Gasset è
piaciuta a vari lettori. «In tutte le scuole si dovrebbe reintrodurre la filosofia... l’arte del porsi
le domande», dice ad esempio il lettore Lorenzo, stimolato da quella frase. Ma aggiunge: «Poi
magari è una mera illusione perche se insegnata da maestri ottusi in pochi avrebbe un barlume
di effetto».

Eh sì, è questo l’effetto: abbiamo scuole e specie università che uccidono ogni desiderio di
cultura. Giovani schiacciati da tomi (basta vedere quelli di medicina) di cui non si sa quanto
resterà nella memoria, assillati da corsi su autori o temi marginali e minori, del tutto superflui,
dalla moltiplicazione di «scienze specializzate»che sono solo moltiplicazioni di cattedre, da
torreggianti saperi intimidatori e scoraggianti. Tutto questo «sapere» indigeribile e
inassimilabile è fra le cause della regressione alla barbarie.

Trasmettere una cultura vitale dovrebbe cominciare con lo sfrondamento, la semplificazione,


lo sforzo di fornire un senso unitario, che la mente umana, limitata, possa comprendere in sé.
La missione dell’università, oggi, dovrebbe essere quella di strappare gli strati di cultura
morta, le cortecce, le scorze e le concrezioni che si sono accumulate in un tronco antico di
tremila anni, per giungere al midollo umido, dove ancora pulsa la linfa che porta le sostanze
vitali.

Dice bene Lorenzo: la filosofia come originaria «arte di porsi le domande» è esattamente quel
che viene trascurato dalle facoltà di filosofia. Certe domande, poi, furono vive e urgenti per la
generazione che le formulò, ma oggi sono morte. Per fare un esempio, la pretesa di Cartesio di
creare una scienza perfetta e integrale di tutto l’universo «dedotta dalle cause prime», a priori.
Un tentativo fatale, che per secoli ha impegnato il pensiero europeo nella costruzione di
«sistemi» chiusi e totali.

Kant «deduce» le categorie, Hegel fa «passare necessariamente» lo Spirito da un «momento»


all’altro con la dialettica, Marx spiega la storia e la società con la dialettica delle forze
materiali… E s’intende ad ogni passo che questi filosofi ci pongono l’intimazione: l’umanità
scelga tra me,  oppure, la fine del pensiero. Tutto questo è, credo, defunto per questa
generazione.

La fine dei sistemi totalitari - filosofie che hanno figliato ideologie e regimi totali - ci ha
lasciati con una fascina di scorze e cortecce, e senza orientamento nel mondo. Forse bisogna
ricominciare da Socrate, là dove pulsava la linfa: e non per porre le stesse domande che
poneva Socrate (urgenti ai suoi tempi), ma per porre quelle che ci assillano «oggi». Per
infondere negli studenti quel primordiale entusiasmo della scoperta di una nuova idea, di un
nuovo principio o applicazione.

Ciò vale anche per l’arte. Quando costruì il campanile a Firenze, Giotto era subissato dalle
osservazioni che i passanti, da sotto, gli facevano, dandogli consigli e criticando.
Evidentemente, la gente sentiva il campanile come cosa propria. Com’è che oggi l’arte non
interessa a nessuno? Che la gente - non pochi individui, ma la gente nel suo complesso -
sopporta, nella propria città, il sorgere di mostri edilizi, sbilenchi e irridenti all’uomo, ordinati
dal municipio?

Già il fatto che il committente di «arte» oggi sia il Comune, o insomma la burocrazia (il
mostro freddo) oppure il Capitale la dice lunga sull’esproprio che abbiamo lasciato fare ai
nostri danni. Per secoli, la committtenza dell’arte fu religiosa. Il tempio, la cattedrale e la
chiesa «attraevano» a sé le arti, pittura, scultura, arazzi, arte del vetro, oreficeria, musica
d’organo, in una pulsione unitaria e coerente, ciò che si dice lo stile.

Da molto tempo ormai il pittore di genio è senza committenti: il disperato Van Gogh provava
a vendere i suoi quadri nelle osterie, ci pagava la pigione delle stamberghe. Più furbi, i suoi
successori commerciali producono direttamente per le case d’asta. Hanno formato
«avanguardie di massa» che vendono bene sul «mercato». Andy Warhol si vende per miliardi,
ma tutti capiscono che con qualche macchina fototecnica ciascuno può farsi dei Warhol a
decine.

Gli scultori producono per il cimitero, e sempre meno (la scultura costa). A cosa «serve»
infatti una scultura? Chi se la mette nel trilocale biservizi? Magari qualche Goldman Sachs la
ordina per l’atrio fastoso-templare della banca. Ma insomma questa forma d’arte è morta,
insieme al tempio o al palazzo principesco. L’Europa non ha più arte.

Il suo linguaggio musicale, sviluppato per secoli, è ora abbandonato, lo sfrondo un po’ noioso
della «radio culturale», RAI3. Persino nel cinema dà poco o nulla, schiacciata dal linguaggio
cinematografico americano egemone. Questa sterilità è un sintomo spaventoso, terminale: è
come il moribondo che si volta contro il muro, non ha più niente da dire, niente da sperare.

L’espressione ben temperata ha ceduto all’afasia o al grido, per di più in una «lingua»
straniera: la musica dal rap, la pittura ridotta a graffito del degrado newyorkese, l’architettura
a un «decostruttivismo» che intenzionalmente vuole avvelenare chi passa nei paraggi. Vi si
esprimono «personalità» incomplete, malevole, petulanti, patologiche e demoniache come
quelle che ossessionano i malati mentali quando sentono le «voci». Ciò che ripetono
infinitamente i graffiti e le musiche giovanili è il grido di Lucifero: «Non serviam», non
servirò.

E infatti, a forza di rifiutarsi a servire Dio e l’uomo, l’arte non serve più a nulla. Anche per
questo bisognerebbe recuperare il senso che la cultura, per essere vitale, deve essere
«funzionale». La cultura viva è quella che «ci serve». Attenzione: non nel senso della pittura
del realismo socialista, che serviva la propaganda del regime. In un altro senso, più profondo
e immediato. Come dirlo?

Provo a dirlo così: ciascuno di noi è stato gettato nella vita come il naufrago è sbalzato fra le
onde. Deve nuotare per sopravvivere. A ciò, gli occorrono buoni muscoli e buona salute
organica, adrenalina dalle surrenali, insomma le funzioni vitali.

Orbene, la cultura è una di queste  funzioni vitali, e va ricompresa tra le funzioni vitali. Non è
un arredamento di lusso per anime belle, è qualcosa che ci serve per nuotare - per
sopravvivere - nel complicato mondo odierno in tempesta.

In questo senso, non mi pare colga nel segno il lettore che scrive: ricordare Roma «è dire di
fronte ai falsi maestri d’oggi: abbiamo una radice, non ci avete tolto la memoria». E’ un’idea
accademica, ornamentale della cultura. Dobbiamo ristudiare continuamente Roma, certo: per
capire, poniamo, come mai poteva dominare il suo vastissimo impero con così pochi soldati
(quelli che gli americani hanno in Iraq); per capire cosa «funzionò» nell’impero, e come mai
smise di «funzionare»; per capire le lotte del potere romano, che tanto possono illuminare le
lotte del potere d’oggi; per capire come mai, nella decadenza, Roma seppe condurre la
gestazione di un’altra civiltà, diversa ma a lei collegata come figlia. Insomma, lo studio è
funzionale alle nostre urgenze vitali, o altrimenti è mitologia, posa o noia.

Recuperare la cultura come funzione vitale  significa anche liberarla dai divieti. Oggi ci sono
imposti divieti di pensare, in gran quantità: il fascismo fu il «male assoluto», quindi non
pensatelo; la democrazia è sacra, non criticatela; Israele non è discutibile, altrimenti siete
«antisemiti»; l’unione Europea non deve essere sottoposta a critica e nemmeno a
referendum…

Questi divieti sono come l’asportazione delle surrenali: senza adrenalina, fiacchi, non ci
arrabbiamo più, anzi ci sentiamo deboli e impotenti. E ci lasciamo condurre in carrozzzella
dalla badante del potere costituito.

Dovrebbe diventare più chiaro che la cultura - in quanto funzione vitale - non si apprende solo
sui libri e a scuola. Anzi, per secoli a trasmettere la cultura, infiniti saperi e segreti del
mestiere, sono stati gli artigiani e i capi-operai.

Di recente sono stato invitato a parlare ad Udine, in un ottimo istituto tecnico professionale di
salesiani. Il preside, salesiano, mi ha raccontato che l’assessore regionale alla pubblica
istruzione e cultura, di sinistra, è contrarissimo all’istituto, vuole che i giovani passino tutti
per una generica scuola media superiore e libresca: e ciò per una residuo fossile della sua
maldigerita ideologia. Considera la scuola tecnica una discriminazione «di classe», tutti
avrebbero diritto al liceo…

Naturalmente, con ciò rivelando un disprezzo molto classista (piccolo-borghese) per gli
operai. Ma i ragazzi che approdano a quella scuola tecnica, mi diceva il preside, sono «già»
passati per la scuola generale, e ne sono stati scacciati, bocciati per demotivazione e
impreparazione. Arrivano lì come ripetenti e drop-out, e con grande sforzo, ma con successo,
imparano ad imparare: come la maggior parte di noi, infatti, è più facile imparare «vedendo
fare».

Il contatto con le macchine utensili, il rigore che impone il loro uso, fa baluginare in quelle
menti ignoranti (rovinate dalla scuola e spesso dalla famiglia), la coscienza che è il caso di
andarsi a leggere sui libri la parte teorica che serve al funzionamento delle macchine. Ora
sanno «il perché» devono studiare algebra, matematica, geometria, disegno tecnico, CAD-
CAM, Linux. Capire il «perché» è appunto giungere, sotto gli strati di scorza morta, alla linfa
della cultura.

E la cultura dei tecnici non è affatto inferiore a quella dei latinisti; ha la dignità di una
funzione vitale, di un servizio reso alla società che di tecnici ha bisogno (più che di latinisti
eruditi e morti); è la dignità loro che quei giovani apprendono, attraverso le macchine utensili,
vedendo «come si fa».

Devo infine avvertire: il recupero della cultura vitale non è affatto facile. Quell’assessore (che
una cultura vitale mai avrebbe messo a quel posto) è solo un esempio degli ostacoli che il
potere in generale porrebbe a un tentativo di instaurare una cultura per la vita. Gli esempi più
numerosi sono nella cultura stessa.

Sulle scorze morte pullulano una quantità di saltimbanchi e ciarlatani culturali, moltiplicatori
di «scienze» e di «linguaggi», di «avanguardie» inutili (non esistendo più «accademie» contro
cui battersi), e proprio questi sono ritenuti - dai media - i Venerati Maestri. Figurarsi se quelli
vogliono arrivare là dove pulsa la linfa vitale della cultura funzionale: perderebbero stipendi,
cattedre, premi, seggi di senatori a vita. A scanso di querele, accennerò a due esempi un po’
datati.

I più giovani, per loro fortuna, non avranno mai sentito parlare di Roland Barthes: ma fu un
«philosphe» molto seguito e alla moda una trentina d’anni fa. Quale cultura portava? Basta
citare una delle frasi della sua lezione inaugurale al College de France: «La lingua non è ne
reazionaria né progressista; è semplicemente fascista; perché il fascismo non è impedire di
dire, ma obbligare a dire. Dal momento in cui è profferita, fosse anche nella profondità più
intima del soggetto, la lingua entra al servizio del potere».

Questa frase è, puramente e semplicemente, insensata. Ma con quanta albagia e sicumera fu


pronunciata! E quante tesi di laurea produsse! Altro esempio, Lacan.

Uno psicanalista semi-filosofo che poteva scrivere sentenze come questa: «Se la psicanalisi
abita il linguaggio, non potrebbe senza alterarsi, misconoscerlo nel suo discorso». E’
inimmaginabile con quanto rispetto e compunzione frasi simili venivano accolte e
commentate. C’è tutto un mondo che vuol considerare «cultura» solo l’oscurità e la difficoltà;
che ci ha fatto entrare nell’epoca dove «cultura» è sinonimo di «noia», ma peggio, dove
questa noia è rispettata in quanto «culturale».

Nei grandi giornali, le «pagine culturali» sono le pagine noiose. Alla TV, quando
l’annunciatrice annuncia un «programma culturale», abbassa il tono, fa la faccia seria e
appuntisce compunta le labbra come se stesse accompagnandoci a un funerale in chiesa. Tutta
questa gente, che tratta la cultura come noia e funerale, ha potere oggi. Sono accademici,
giornalisti, «opinion leader» di qualche tipo, oppure saltimbanchi promossi come tali dalla
stampa, come Oliviero Toscani o Odifreddi.

E’ questa gente che, lo voglia o no, impedisce coi suoi  trucchi, divieti e tabù lo sfrondamento
necessario, la necessaria separazione dell’essenziale dal superfluo e dal ciarlatanesco, quella
che schiaccia i nostri studenti svogliati sotto i tomi e le specializzazioni.

Questi studenti provano a seguire corsi che per i nomi - «Scienze politiche» o «Scienze della
comunicazione» - promettono ciò di cui sentono il bisogno loro: un po’ di cultura generale,
una serie di categorie e concetti per capire il mondo. Non trovano nulla, e finiscono magari
nelle feste rave. O comunque, privi di riferimenti che non siano i conformismi e i luoghi
comuni dominanti, da cui credono per giunta di essere liberi.  Ne darò un solo esempio fra i
tanti, per ragioni di spazio.

Nel mio pezzo su «Essere autentici prima di essere cristiani» (cioè: se non si è autentici
umanamente, non si può nemmeno essere cristiani) citavo, come opera religiosa, il film Blade
Runner.

Il lettore Mario ha scritto: «Quello che va notato a proposito di Blade Runner è che si tratta di
un film tratto da un romanzo del 1968 di Philip K. Dick (1928-1982) intitolato ‘Do Androids
Dream of Electric Sheep?’ vale a dire: ‘Ma gli androidi sognano pecore elettriche?’ e che il
suo autore non disdegnava di ricorrere a discrete dosi di ‘acidi’, specialmente anfetamine, per
eccitare l’immaginazione, causa per la quale alla fine morì. Era anche lui vittima di una moda
compulsiva? Allora, dal ‘pattume’ può nascere una luce di speranza? Non ritengo che si debba
tracciare un rigo sopra i ragazzi dei raduni ‘rave’». Eh no, caro Mario: non si può fare questa
equazione «democratica».

Philip Dick era un rarissimo artista contemporaneo assillato dalla teologia e creatore di una
teologia, il solo che abbia osato parlare dell’uomo come bisognoso d’immortalità, nel
ventesimo secolo; un tormentato esploratore di luoghi in cui avanzava per primo e solo, senza
vie tracciate. Uno che - come gli artisti autentici - si ammala in anticipo delle patologie del
mondo umano, che le preconizza e le segnala, lanciando l’allarme. La parte essenziale e
autentica dell’arte contemporanea è infatti questa: di essere un sintomo precoce.

Simili uomini sono in continuo pericolo; possono ricorrere a «conforti» chimici, nella loro
solitudine profetica che li spaventa e li brucia; sono sciamani nell’epoca della
secolarizzazione, profeti allucinati della rovina che attende i gaudenti e i consumisti, gli
inautentici che siamo tutti. Non li si può giudicare come fai tu; soprattutto, non li si può
mettere sullo stesso piano degli impasticcati alle feste «rave».

Questi possono farsi a morte di LSD, ma non riusciranno mai a scrivere «Androids». «Gli
uomini non sono uguali», Mario. Ci sono uomini superiori, la cui caduta o i cui abisssi vanno
guardati con l’orrore e la pietà con cui il coro greco assistè alla caduta di Edipo Re. La
convenzione dell’uguaglianza ha cittadinanza solo nella democrazia politica, ma non nell’arte,
nella cultura e nella profezia.

Oggi, la pretesa di estendere la «democrazia» dove non deve stare è uno dei problemi della
cultura. E’ la confusione tra l’essenziale e il subordinato o il superfluo, tra il superiore e
l’inferiore. Un esempio.

Giorni fa ho sentito alla radio Veltroni che parlava del suo programma: abolire leggi che
ostacolano la produzione, le imprese, le opere pubbliche… Il giornalista, esponente della
«cultura» vigente, lo interrompe e gli chiede: è a favore della fecondazione in vitro? O
vorrebbe impedire che due genitori talassemici abbiano un figlio sano? «Per come mi pone la
domanda, le dico: no», ha risposto Veltroni. Ma si capiva che era seccato.

Sono convinto che - se avesse potuto dire la verità - avrebbe detto: «Caro giornalista, la
politica non si occupa di tutto. Può a malapena promettere che farà in modo che dallo studio
preliminare per un’autostrada alla sua realizzazione non passino dodici anni ma solo tre, e già
questo è difficile da realizzare. Si figuri se può garantire la soddisfazione di tutti i bisogni
privati, la cura di tutte le infelicità personali di ciascun elettore, o men che meno il diritto alla
felicità individuale di ognuno. Non confondiamo i piani: ho il massimo rispetto per le
sofferenze dei genitori talassemici, ma ho
il dovere di dire che non è il mio campo. Il campo della politica è più modesto, è (al massimo)
l’organizzazione dei mezzi della vita collettiva».

Perché Veltroni non ha potuto dire questa umile verità? Perché il giornalista Santalmassi gli
aveva teso un tranello («Ti metto nei guai coi cattolici che militano nel tuo partito»), e se
avesse risposto altrimenti avrebbe detto una cosa non progressista, non politicamente corretta,
che i giornali avrebbero ripreso a suo danno.

Direte: che cosa c’entra in questo discorso sulla cultura vitale? C’entra eccome. Il giornalista
ha fatto quello per cui è stato elevato a direttore: il guardiano dei «limiti del pensare» attuale;
egli veglia che non si dica tutta la verità ma solo quella accettabile ai gruppi e alle lobby
egemoni «culturalmente». Tutte queste lobby e gruppi che, quando si propone l’essenziale,
pretendono il superfluo e il secondario; che rifiutano di dinstinguere tra priorità e no; che
impediscono di sfrondare e semplificare il discorso, e di concentarsi sulle poche questioni
vitali urgenti, che i mezzi limitati possono (e non è detto) risolvere.

Il «dibattito» è oggi così, nella cultura come nella politica. Scorza, e non linfa.

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