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Mio padre aveva un modo tutto suo di svegliarmi. Entrava silenzioso nella
stanza, si sedeva accanto a me, sui bordi del letto, e cominciava a
raccontare. Era la sua voce, sottile e amorevole, a svegliarmi. E le storie
erano sempre diverse, storie che avrei poi ritrovato a scuola, come gli Orazi
e i Curiazi, Edipo e la Sfinge, come la favola del lupo e dell’agnello di
Fedro, quella gli piaceva particolarmente e la inframmezzava con citazioni
dall’originale latino, «Lupus et agnus venerant, siti compulsi»; oppure mi
raccontava di quando era in «collegio», così chiamava il campo di
concentramento dove lo avevano rinchiuso i tedeschi dopo l’8 settembre del
’43, e il caporale gli intimava: «Martinelli, ein lied!», e a lui toccava
intonare un canto che gli altri prigionieri, in coro, avrebbero seguito, e
d’altronde, «cosa dovevamo fare? Deprimerci perché eravamo in gabbia?
Piangere? Meglio imparare il tedesco, e cantare, che prima o poi ne
saremmo usciti»; oppure erano le scenette dei suoi film preferiti, Totò e
l’onorevole, Peppone e Don Camillo, che lui ricostruiva a braccio, per come
se le ricordava, improvvisando, divertendosi e divertendomi, oppure era una
citazione, perfettamente a memoria, dell’amato Don Lisander, il Manzoni:
«La quale storia, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha
scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomandata. Ma se invece fossimo
riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta». Io facevo resistenza
per poco, perché quella voce suadente mi faceva cedere in fretta:
appoggiavo i gomiti sul letto, e osservavo il babbo narratore gesticolare
nella penombra. Non saprei dire con precisione quando iniziò questo
rituale, questi battesimi al nuovo giorno con la voce di mio padre, mi pare
nei primi anni della scuola media, avrò avuto dieci o undici anni, quando mi
divisero da Maria, la mia sorella più piccola, e cominciai a dormire da solo,
nella stanzetta che dava sull’unico terrazzo di casa, un piccolo
appartamento nella periferia ravennate. Questo rituale mattutino andò avanti
fino alla fine delle superiori. Non c’è mai stato tra noi l’appuntamento della
favola serale, quella prima di addormentarsi: il babbo narratore preferiva il
mattino, e lo faceva quando gli era possibile, quando era a Ravenna con noi,
perché il lavoro spesso lo teneva lontano in altre città. Quando non toccava
a lui, toccava alla mamma di svegliarmi: e qui la musica cambiava. Entrava
decisa nella stanza, tirava su la serranda facendo entrare la luce, e poi a
voce alta: «È ora di alzarsi! È ora! Sveglia!» Un trauma: e a quel metodo,
sì, che mi veniva di far resistenza, di starmene sotto le lenzuola, di oppormi:
ma lei, imperterrita, come un sergente dei marines, non aveva pietà, e mi
tirava via le lenzuola con uno strattone. Vincenzo e Luciana erano molto
diversi, ma quello che mi ha sempre sorpreso, in quella coppia, era il
pendolo del maschile e del femminile, e di come se lo scambiavano e lo
ripartivano. Voglio dire che mio padre aveva in sé tanta dolcezza, quella che
di solito riferiamo al femminile, mentre la mamma aveva tratti di durezza
che siamo soliti ascrivere al maschile. Sono stereotipi, lo so. Quando
andavo al liceo, papà mi accompagnava fino all’entrata, e prima di lasciarci
ci baciavamo. I miei compagni, abituati a un rapporto da uomini con i loro
babbi fieramente romagnoli, se ne stupivano: «Be’ tu e tuo babbo vi baciate
ogni mattina? Mah…» Per contro la mamma si innervosiva per niente, una
volta mi sgridò perché la ringraziavo: «E perché mi dici sempre grazie? Me
lo dici cento volte al giorno! Grazie grazie grazie! Non dirmi grazie in
continuazione, non ce n’è bisogno, non siamo estranei, capito?»
Allora, chi è Beatrice? Non basta qui la mela di San Tommaso: quello è
solo il primo gradino. Proviamo ad andare oltre. Chi è Beatrice? Cosa si
nasconde dietro il suo mistero? Era una donna reale? Era davvero Bice, la
figlia di Folco Portinari, quella che morirà durante la composizione della
Vita nova? O era solo un simbolo inventato, come affermano altri,
sostenendo che quell’età, nove anni, è chiaramente una finzione costruita
sul significato simbolico del numero nove? Chi è Beatrice? Una rivelazione
mistica? La «beatitudine»? La Grazia divina? È l’anima stessa di Dante, in
cui egli si specchia? Chi è, che cosa è questa apparizione che gli fa fremere
«fortemente» il cuore e tremare «orribilmente» i polsi? Sulla verità o meno
di quella visione, sulla verità o meno di Beatrice, da sette secoli si
scatenano le interpretazioni. Si è detto tutto e il contrario di tutto. E
d’altronde Dante stesso confonde le carte: che significa quando scrive: «la
quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare»?
Forse per Dante come per San Tommaso, come per la cultura medievale
tutta, la mela è, e non si discute, ma la mela non esaurisce tutta la realtà. Il
reale è infinitamente più misterioso delle cose che pure sono: il reale è fatto
di tanti piani invisibili, oltre a quelli visibili. Non sono separati, come lo
saranno sempre più dall’epoca moderna in poi. E le figure visibili ci
rimandano all’invisibile, a una dimensione «trascendente», «trasumanante»,
che ci supera. Ma questo non significa affatto svalutare la materia di cui
siamo fatti: Dante è un «poeta del mondo terreno», come ha fatto capire a
tutti Erich Auerbach alla metà del Novecento, in quanto, ai suoi tempi, i
rapporti tra il visibile e l’invisibile non si presentavano segnati dalla
scissione attribuita loro dai secoli successivi. Poesia, filosofia, economia,
teologia: per Dante è tutt’uno. Dio e le montagne e il verme sono tutt’uno.
Allora chi è Beatrice? Per Dante, Beatrice di certo una cosa non è: non è la
«donna ideale», che ancora si ritiene Dante e i poeti come lui avrebbero
voluto celebrare: bella, umile, lo sguardo incantatore, eccetera. Se c’è una
cosa che i poeti dello «stile nuovo» ripetono con assoluta insistenza è che
essi non intendono cantare la «donna» in quanto tale (come avevano
iniziato a fare i poeti provenzali prima di loro, nel XII secolo), ma l’Amore,
la relazione che apre all’Altro da me stesso, la relazione che mi fa da guida
al reale, quindi all’ignoto. All’inatteso. Al destino che mi attende. La
relazione che mi toglie le false certezze, che fonda il mio desiderio su un
terreno più solido, non quello dei beni materiali ma quello dei beni
essenziali, quelli che mi rivelano la verità del mio essere fragile creatura su
questa terra. Allora certo Beatrice è tante cose, assume in sé tanti diversi
livelli di interpretazione, che Dante svilupperà a partire da quella visione
infantile, quel fatto straordinario, fino all’architettura complessa della
Divina Commedia: Beatrice è e diventerà sempre più la Bellezza, la Grazia,
la scala verso il Mistero, la Sapienza che non ha limiti. L’uomo Dante, in
una tradizione occidentale segnata da una concezione patriarcale, farà
genialmente dell’amata una «iniziatrice», ne riconoscerà la qualità di
«guida». Come se conoscesse le parole di Ildegarda di Bingen, mistica e
scienziata tedesca vissuta un secolo prima di lui: «O uomo guarda te stesso:
tu hai in te il cielo e la terra». L’uomo Dante si apre alla Sapienza attraverso
il femminile.
Ma noi, qui, alla Divina Commedia non ci siamo ancora arrivati: noi ora
siamo ancora alle prese con il ragazzino quindicenne in giro per Firenze,
che diventato giovanotto scriverà di questa sua visione infantile. Quel Dante
ragazzino, che contempla la sua città violentata e sventrata, e al tempo
stesso custodisce in sé il germe di Amore. Il germe di quelle potenti visioni
che proviamo da bambini, che ci stordiscono, che dimenticheremo, o
comprenderemo pienamente, solo con il passare degli anni. Fermiamoci
qui, per ora, giovanissimo lettore. Non sto scrivendo questo libro per gli
specialisti, che pure fanno il loro, e di cui mi nutro, riconoscente. So bene
quanta distanza ci sia tra noi e l’epoca di Dante, quanto grande sia il rischio
di fraintendere una lingua, una cultura così lontane dalle nostre. Lo so.
Eppure è un rischio che devo correre. Perché per quanto indietro, forse
Dante ci è ancora davanti. Perché questo libro lo sto scrivendo soprattutto
per i ragazzini e le ragazzine di questo nostro martoriato Paese. Perché
possano subire lo stesso fascino, lo stesso stordimento che provavo io
quando, adolescente, cominciai a entrare in quella cattedrale rilucente di
oscurità che è la Commedia, portato per mano da mio padre. Smisurata
cattedrale! Smisurato stadio dell’anima, dove gli atleti corrono per un
premio che è la loro stessa felicità. Smisurata favola che comprende volti
urlanti di ossessi e disperazioni immedicabili e sentimenti amorosi che
neanche l’inferno pare sconfiggere, e colombe e cieli di zaffiro e risse di
diavoli dal ghigno mortale, e foreste e fiumi di sangue bollente e laghi
ghiacciati e voragini in cui sprofondare, e specchi dove la nostra immagine
si sdoppia, si triplica, si centuplica, e lupi e agnelli divorati dalla sete, e
sapienti pittori e musicisti e pigri liutai e la vertiginosa matematica
dell’Infinito, e pecorelle e puttane e sadici giganti e principi in ginocchio
che chiedono perdono, e santi che danzano come fiamme nel vento, e il
senso nascosto, il perché delle mie lacrime, questo mi travolgeva nella
lettura, la scoperta che quel libro nascondesse e al tempo stesso a me solo
rivelasse il rumore delle mie lacrime, della mia fame di vita, come se Dante
lo avesse scritto proprio per me quello smisurato poema, per me, Marco di
Luciana e Vincenzo. Così puoi leggerlo, giovanissimo lettore, e farlo
risuonare in te quel canto fatto di tre cantiche fatte di cento canti, come se
Dante nell’uscire dalla «selva oscura» della sua disperazione avesse pensato
a te, a te e a nessun altro. Anche a sette secoli di distanza. A costo di
sbagliare, di andar fuori strada, di errare: ma l’errare, si sa, è un maestro
sorprendente. È un rischio da correre, è quello che ci salva. Siamo in
cammino, quindi possiamo inciampare. E perderci. «Nel mezzo del cammin
di nostra vita», così inizia il racconto, in un punto della notte appena prima
dell’alba, di un uomo solo e smarrito. E pieno di paura.
Lo so cosa pensi. Ecco uno che ci viene a far la predica. Che ci parla di
Amore. Ancora? Balle. Ti chiedo solo una cosa. Se queste povere pagine ti
hanno toccato anche solo un po’, in fondo siamo solo a p. 23, continua a
leggere. Se no, butta via il libro che hai tra le mani. Buttami via. Non mi
lamenterò.
I maiali e la grammatica
Una famiglia guelfa nel cuore della pianura. Estati torride e inverni gelati.
Alti sipari di nebbia che nascondono l’orizzonte e lasciano pian piano
emergere le figure, come visioni. E gente testarda. Mite e testarda. Un po’
matta, anche.
«L’unica cosa interessante è che io, anche in prigionia, conservai la mia
testardaggine di emiliano della Bassa: e così strinsi i denti e dissi: «Non
muoio neanche se mi ammazzano!». E non morii. Probabilmente non morii
perché non mi ammazzarono: il fatto è che non morii. Rimasi vivo anche
nella parte interna, e continuai a lavorare». Così aveva scritto Giovannino
Guareschi, tornato dal campo di concentramento in Polonia, nel suo Diario
clandestino 1943-1945. E sotto la pianura, l’acqua. Un enorme fondo
d’acqua, che rende instabile e fluttuante la terra. Una grande palude, con le
sue risonanze: la morte là sotto si mescola con la vita. L’invisibile, che è
vita e morte allo stesso tempo, fa da basamento tremolante al visibile che è
sopra. Là sopra si agita la nostra esistenza materiale che, come la pianura,
ha le sue radici affondate in quella massa instabile e fluttuante. E la mela di
San Tommaso? Nel suo essere lì, concreta, testarda e a suo modo
indiscutibile, dove poggia le sue radici?
Pare che Dante Alighieri avesse una trisavola che veniva dalla pianura
padana. Nel canto XV del Paradiso, Dante incontra l’antenato fondatore
della sua famiglia, Cacciaguida, che gli rivela che la loro stirpe prende il
nome di Alighieri dalla di lui sposa: «mia donna venne a me di val di Pado /
e quindi il sopranome tuo si feo». (Par, XV, 137-138).
Arrivato a tredici anni, e superati tutti gli esami, Vincenzo terminò gli studi
nel Collegio dei chierici poveri. Ora, se voleva, poteva entrare in
Seminario. Non per diventare sacerdote, ci tenne a precisare l’arciprete al
nonno Silvio, ma per poter continuare a studiare. Il ragazzo ha talento. Se
poi gli verrà la vocazione… e anche stavolta Silvio Martinelli, dopo aver
brontolato qualcosa tra i denti che l’arciprete non comprese, acconsentì. In
fondo le figlie bastavano a mandare avanti il caseificio, a Enzo si poteva
rinunciare ancora. Papà la smise di fare i suoi quasi 50 chilometri al giorno
a piedi, e andò a vivere in pianta stabile nel Seminario di Marola, un’antica
abbazia della contessa e vice regina d’Italia Matilde di Canossa, potente
feudataria e sostenitrice del papato nella lotta per le investiture, vissuta tra
l’XI e il XII secolo. Il Seminario era situato nel cuore dell’Appennino, a 35
chilometri da Reggio: da là non si tornava giù a piedi, nella Bassa. Il
Seminario era un’istituzione in cui, una volta entrati, si tagliavano i ponti
sia con le famiglie, sia con il mondo esterno: in un anno erano permessi non
più di una ventina di giorni di licenza. Dormivano in grandi camerate, e
d’inverno il freddo, in mezzo al bosco di castagni, era insopportabile.
Quando cominciai a frequentare il liceo, papà mi mostrò orgoglioso il
Turazza, il manuale di grammatica sul quale studiava il latino in seminario.
«Non scherzavano i preti, e ci facevano rigar dritto: interrogati tutti i giorni,
le declinazioni e le coniugazioni dei verbi a memoria! Vietata ogni
giustificazione, bisognava saperle e baste». Sfogliando il volume del Prof.
Eugenio Turazza, la cui firma campeggiava sul frontespizio come
contrassegno che la copia era autentica, vidi qua e là delle strisce nere e blu.
«È inchiostro?» «Eh, sì», rispose Vincenzo. «E queste?» chiesi io indicando
delle macchie diverse, violacee. «Quelle? Ah, be’… quello è vino… è
lambrusco… un buon lambrusco se non ricordo male…» Vincenzo passò
dal ginnasio al liceo con voti eccellenti, ma la vocazione non venne. «Ma
sei sicuro di voler fare il prete? Guardami in faccia! Perché o lo si fa bene o
niente!» lo interrogava la sua gemella Laura, quando Vincenzo tornava a
Campegine in licenza. Lui ci pensò anche seriamente, sapeva che alla
madre avrebbe fatto piacere: Margherita aveva già un fratello prete e una
sorella monaca di clausura. Ma non era quello il destino di Vincenzo.
Finché un giorno chiamò Laura da parte: «Mi sa che finito il liceo smetto.
Torno a casa». «Sei sicuro?» lo incalza la gemella, puntandogli il dito
contro. «Be’, sai… le volte che mi è capitato di uscire… e vedere le
ragazze…»
Una famiglia guelfa che alle elezioni del ’48 si schierò con Guareschi e con
De Gasperi. Vincenzo mi raccontò che, tornato dalla guerra, vide suo padre,
che non aveva mai preso la tessera del fascio, impegnarsi in quelle elezioni
e diventare rappresentante di lista per la Democrazia cristiana, mentre l’ex
gerarca fascista Gabbi, proprio quello che lo aveva mandato in guerra, era
rappresentante di lista del Partito comunista. Lì mi si cominciarono a
chiarire le idee, aggiunse sorridendo. Gli obiettai che in altri paesi forse era
il contrario, e l’ex gerarca era nelle file dei cattolici. Può darsi, mi rispose
lui, ma a Campésen, e sottolineò quel nome in dialetto, la situazione era
quella. Vincenzo aveva diversi amici tra i «compagni», e con loro discuteva
accanitamente fino a notte fonda. Erano leali, diceva. Nonostante Stalin.
La politica in quegli anni non era la sola passione. Siamo nel ’49, la
Democrazia cristiana ha vinto le elezioni. Vincenzo è diventato il presidente
dei giovani dell’Azione cattolica. Don Ferrarini chiama lui e Nedo Nadi e
gli fa: l’anno scorso abbiamo guadagnato bene con la recita, bisognerebbe
rifarla. Però c’è un problema: alcuni attori e attrici dell’anno scorso sono
venuti a mancare. La Luciana Gherpelli, per esempio… Vincenzo drizza le
orecchie: la Luciana Gherpelli? Aveva già adocchiato la Luciana da un po’.
Convinciamoli, dice Vincenzo, questi che non vogliono tornare. E pensa
soprattutto alla Luciana. C’è anche il Cristo, il ragionier Barbieri, anche lui
non vuole più recitare, e senza Cristo come facciamo, domanda Don
Ferrarini. Convinciamoli, ripete deciso Vincenzo. Nedo Nadi si offre di
accompagnare Vincenzo dalla Gherpelli, abita sotto casa mia, dice.
Vincenzo e Nedo Nadi vanno a trovare la Luciana. Maestra appena
diplomata, fa la commessa nel negozio di alimentari delle Acli. Vincenzo ha
gli occhi azzurri, un profilo greco, ai piedi sandali da frate. Luciana è
colpita dagli occhi e dal profilo, infastidita dai sandali. La Luciana si
schermisce, Vincenzo insiste. Va bene ci penserò, taglia corto la Luciana.
Iniziano le prove della Passio Christi, e in scena ci sono sia la Luciana che
Vincenzo: la prima recita la parte di Claudia, la moglie del procuratore
Ponzio Pilato, il secondo è costretto a fare la parte di un vecchio sacerdote
del Sinedrio, vista la mancanza del titolare. La zia Laura invece è nella buca
del suggeritore, e da lì segue e osserva e capisce tutto, anche che tra
Vincenzo e Luciana sta nascendo qualcosa… ma attenzione, la zia Laura è
diventata buona amica con la Luciana, e a tavola affronta il gemello a muso
duro: «Comportati bene con la Gherpelli, che è molto bella e merita di
essere trattata seriamente. Guarda che, se non ti comporti bene, ti metto
fuori di casa». Entrambi però sono già fidanzati, la Luciana con un tal
Giuseppe, siciliano, e Vincenzo con una friulana di cui anni dopo non
ricorderà più il nome. Nel frattempo… Vincenzo è attratto da una ragazzina
della compagnia, che avrà almeno dieci anni meno di lui… La situazione è
questa: papà 27, mamma 21, e la misteriosa e certo seducente ragazzina
17… in più ci sono il siciliano e la friulana che forse non stanno lì a
guardare… insomma, è una Passio Christi complicata e affollata… sta di
fatto che papà fa un errore forse imperdonabile: Don Ferrarini gli affida, in
qualità di presidente dei giovani dell’Azione cattolica, un sacco di
cioccolatini da distribuire alla compagnia. Vincenzo sbaglia tutto: privilegia
la misteriosa adolescente, dando più cioccolatini a lei che agli altri.
Sconcerto! La Luciana si infuria, e vuole mollare tutto, Passio Christi e
Vincenzo, che però a dirla com’era non poteva essere mollato perché i due
non stavano ancora insieme, lui era ancora fidanzato con la friulana senza
nome, mentre lei era legata al siciliano Giuseppe. Prima che questo affaire
dei cioccolatini rovini tutto e prima che la gemella suggeritrice esca dalla
buca e sbatta fuori di casa il gemello poco serio, papà ha già rincorso la
mamma, le ha chiesto perdono, le ha dichiarato il suo amore, e alla prima
dello spettacolo i due ufficialmente sono fidanzati.
Vincenzo e Luciana si sposarono nel 1954. «Non avevo capito perché papà
mi aveva proposto il viaggio di nozze in Svizzera», ci raccontava la
mamma. Un motivo c’era: i campionati del mondo di calcio. E c’era l’Italia,
in un girone difficile con gli svizzeri padroni di casa, l’Inghilterra e il
Belgio. Il motivo lo capì sul posto, quando Vincenzo le propose di andare
insieme a vedere almeno una partita. La mamma non se la prese, e a
Losanna lasciò che papà andasse allo stadio, lei preferì aspettarlo su una
panchina del lago, a prendere il sole e a godersi il passeggio. Vincenzo
ritornò mogio mogio poche ore dopo: gli azzurri avevano preso una sonora
sberla dalla Svizzera, e alla fine della partita avevano pure aggredito
l’arbitro brasiliano, reo di aver favorito i padroni di casa, inseguendolo
anche negli spogliatoi. L’Italia non passò il girone di qualificazione, e i miei
si godettero la luna di miele senza altre interruzioni. Li ho qui sotto gli
occhi, piccole fotografie in bianco e nero con il bordo seghettato, la mamma
splendida con un vestituccio arioso a fiori e un paio di scarpe eleganti, che
in tutta la mia vita non ricordo di averla mai vista portare tacchi così alti,
papà serio, in completo chiaro e due baffi alla Domenico Modugno e lo
sguardo lontano, forse sta pensando ancora al goal annullato ingiustamente
a Benito Lorenzi, detto «Veleno», il centravanti degli azzurri. Sembrano due
attori veri, due attori di cinema di quel tempo là.
Delle decine e decine di frasi in latino che papà mi buttava lì, come ami per
prendere il pesce, molte mi tornano in mente nelle situazioni più disparate.
Affiorano come relitti dal mare. Quella che più ricordo, e che ripeto a me
stesso in mezzo alle furie e alle tempeste della vita e del lavoro, è: age quod
agis. Fa’ bene quello che fai. Concentrati su quello. Non farti prendere
dall’agitazione, dall’ansia, dai demoni del sono-sempre-indietro, dovrei fare
questo e quello e anche quell’altro, e poi le cose non mi riescono, e mi
sembra di affondare, no, age quod agis, ricomincia. Non farti travolgere.
Ricomincia. Ti sembra, sembra a te di stare all’inferno, e forse è anche un
po’ vero, ma dall’inferno si esce. Ricomincia. Ricomincia col fare proprio
questo, questo compito che ti sta davanti, nella luce chiara del presente,
proprio questo, questo che ti soffoca, che ti sembra insormontabile. Non è
insormontabile. Ricomincia. Age quod agis: fallo, e fallo bene. Fare bene è
pensare bene. Fallo con pazienza, poi da questo passerai a quello, e a
quell’altro, e a quell’altro ancora, e via di questo passo. E pazienza se non
riuscirai a farli tutti, quei passi. Ci penseranno i sogni, e la notte, e il tuo
Dio misterioso, a finire il lavoro.
Nella tua pazienza c’è la tua anima. Questa massima alchemica, antica
come il mondo, Vincenzo non l’ha mai sentita ma, se l’avesse sentita,
certamente l’avrebbe fatta sua.
Bianchi, Rossi e Neri
Più avanti negli anni, quella lezione di storia lui la applicava alla politica
del suo tempo. Lo schema era quello, ma tradotto al presente. I guelfi erano
i democristiani, i ghibellini i comunisti. E nella DC c’erano i Bianchi, come
Moro e Zaccagnini, e i Neri, come Andreotti. A papà piacevano i Bianchi,
quelli come Andreotti meno: fanno un po’ troppo i loro comodi, diceva. E
certo ai Bianchi come Moro e Zaccagnini i ghibellini-comunisti non
dispiacevano. Quando erano leali, ovvio. Be’, speriamo che non si arrivi
alla fine ai Bianchi contro i Bianchi contro tutti, concludeva Vincenzo. Tu
pensaci, figlio mio.
[…] apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non
dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di
venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui
a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello
che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima
se ne possa gire a vedere la gloria della sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale
gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.
Poiché sono gli uomini a fare le Chiese, è inevitabile che le Chiese diffidino
delle donne. Come del resto diffidano di Dio, cercando di addomesticare le
une e l’altro, cercando di contenere la vita tumultuosa nell’alveo dei riti e
dei precetti. La Chiesa di Roma, in questo, somiglia a tutte le altre. Nel
1310, quando Dante sarà in sofferenza in esilio, una francese viene messa
sul rogo, la stessa condanna che il fiorentino riuscirà a scampare fuggendo
tra i monti. La colpa di questa donna, Margherita Porete, è aver scritto un
libro, Lo specchio delle anime semplici. È un dialogo con tre personaggi:
Amore, Anima e Ragione: tutti e tre femminili. In questo libro Margherita
Porete non si serve del latino dei preti e dei dotti ma del provenzale dei
trovatori, così come Dante usa il fiorentino: per entrambi, sono le lingue dei
passeri e dei bambini e della sovrabbondanza famelica d’amore. Non si
rivolge all’Altissimo: si rivolge al Vicino-Lontano. Parla a Dio come
all’Amato, perché sempre Amore ci spiazza, è qui quando lo temiamo
lontano, è già altrove quando ci illudiamo di possederlo. E tutti su questa
terra abbiamo la stessa dignità, la stessa assoluta eguaglianza, in virtù del
semplice apparire, bagnati dal medesimo sole d’amore sovrano. Insieme
alla sua carne, una frase del libro di Margherita Porete brucia sul rogo, e ci
parla a distanza di secoli: «Di nessuno si può dire che è insignificante,
perché è chiamato a vedere Dio senza fine». Questa frase riassume in un
lampo il viaggio che Dante farà dalla «selva oscura» alla visione del canto
XXXIII del Paradiso.
Dunque quel giovane fiorentino arriverà alla politica, ma per ora no, per ora
sogna e scrive di Amore, stringe amicizia con musicisti, come Casella, che
mettono in musica e cantano i suoi testi poetici, ama disegnare gli angeli
«su certe tavolette» e si occupa di pittura, e fa il suo dovere di cittadino.
Ovvero presta servizio in guerra. Quelle macerie viste da adolescente gli
ritornano come un’ossessione: come un dovere. Questa volta non si limita a
osservare, questa volta deve indossare l’armatura e andare a combattere. Gli
storici non hanno certezze su quante furono le battaglie cui partecipò in
giovinezza perché, di dati storicamente certi e fondati per quel che riguarda
l’esistenza di Dante, ne abbiamo pochissimi, ma, i più affermano, nel 1289
Dante era sicuramente a Campaldino, a difendere il suo Comune, a
combattere tra le fila dell’esercito guelfo contro i ghibellini venuti da tutta
Italia, prevalentemente aretini. Il luogo individuato per la battaglia era la
Piana di Campaldino, fra Poppi e Pratovecchio, vicino alla chiesetta
chiamata di Certomondo, sul lato sinistro dell’Arno. Dante apparteneva al
reparto dei feditori a cavallo, quelli cui toccava l’onere (l’onore?) del primo
assalto. La mattina di sabato 11 giugno, San Barnaba, iniziò la battaglia. I
primi ad attaccare furono i ghibellini, scatenando l’ondata dei loro trecento
feditori a cavallo. Immaginiamocelo il nostro poco più che ventenne in
prima linea, rivestito di maglia di ferro in mezzo ai suoi compagni
fiorentini, armati alla leggera come tocca ai feditori a cavallo,
immaginiamocelo guardare quella massa colorata e urlante che gli sta
arrivando addosso. Il galoppo di quei trecento cavalli è un tuono che spacca
le orecchie, il terreno si apre sotto gli zoccoli, è il rimbombo dell’inferno
che si rovescia sulla prima linea fiorentina. I feditori guelfi serrano le file,
qualcuno prega silenzioso, qualcun altro sputa bestemmie: il momento dello
schianto arriva per tutti, e ricevono l’urto in pieno, come una valanga.
Tantissimi di loro sono disarcionati, e tra questi Dante, cadono a terra e
fanno appena in tempo a vedere i loro cavalli trafitti dalle lance annaspare,
e continuano il combattimento appiedati, con le asce, le spade e le mazze.
Metallo tagliente e legno duro e cervelli che si spappolano. I feditori
ghibellini si incuneano profondamente nello schieramento nemico, lo
aprono in due. Lo scontro si fa disordinato, è tutto una zuffa, un duello
infantile e macabro. E il terreno si riempie di corpi doloranti, feriti,
sventrati, decapitati. Immaginiamolo il nostro poeta, amante dei sonetti e
della musica, che sa disegnare gli angeli, immaginiamolo andare incontro al
nemico in una lotta corpo a corpo, in mezzo a uomini che gridano per la
paura e per l’esaltazione, uomini che non sanno se arriveranno a vedere la
luce del tramonto, e intanto già feriti perdono sangue ma continuano a
difendersi e ad attaccare, non pensare, non pensare, non c’è tempo per
pensare, c’è tempo solo per spaccare il cranio al nemico, se non vuoi che lui
faccia altrettanto. Intanto sono entrati in azione i balestrieri, nuvole di
frecce volano da una parte e dall’altra, ma le frecce scendono a casaccio, e
il compagno che cade trafitto al tuo fianco cade per colpa di una freccia
tirata dai nostri, ma possibile? Possibile? La giornata è secca, il caldo non fa
respirare, il caldo è feroce come quei guerrieri, come quei padri di famiglia
tutti credenti, tutti cristiani e timorati di Dio, e si alza la polvere, una
montagna di polvere che si mescola al sudore e al sangue. La cavalleria
guelfa è arretrata, ma le ali dello schieramento, composto di fanteria, hanno
retto. A quel punto cominciano a chiudersi a tenaglia, accerchiando
cavalleria e fanteria ghibelline. E un gruppo di «riserve», guidato da Corso
Donati, attacca il fianco destro dei ghibellini, separando i cavalieri dai fanti.
E quella fu forse la manovra che decise le sorti della battaglia.
Ma di questo poteva rendersi conto un’aquila dall’alto dei cieli, questo
possiamo studiarlo oggi nei manuali di storia militare, ma Dante? Di cosa si
sarà reso conto Dante, in mezzo a quel macello? Mentre sei in mezzo a
quelle carcasse che si sbriciolano, mentre le budella tutto attorno escono dai
corpi come serpenti, mentre un rivolo di sangue si allarga fino a diventare
un fiume, un Flegetonte infernale, di cosa si sarà reso conto in mezzo a quei
dannati, il feditore non più a cavallo Dante Alighieri? Forse si sarà fermato
un istante in quell’orrore, completamente rintronato, le orecchie che non
sentono più nulla, come un epilettico con la bava alla bocca, il poeta che
tremava per Amore, ma che tremiti sono questi che lo attraversano ora, e
dove sei, Amore, ora, dove sei tu che ti proclami Salus, Salvezza, tu che
salvi le nostre anime, perché sei lontano da questo campo insanguinato,
perché? Si sarà fermato il guelfo Dante a guardare il corpo del ghibellino
Buonconte di Guido da Montefeltro, orrendamente mutilato, trascinato via
dalla briglia di un cavallo in cui è rimasto impigliato, avrà visto Dante quel
cavallo trascinare quel cadavere… o era ancora vivo il ghibellino? L’avrà
visto trascinarlo fino all’Archiano, il torrente in piena lì vicino, come per
portarlo a un sepolcreto d’acqua, a un lavacro purificatore, l’avrà visto quel
dettaglio insignificante in mezzo a quel tumulto senza significato?
Leonardo Bruni, un grande storico fiorentino vissuto decenni dopo, venne
in possesso di una lettera in cui Dante raccontava «la forma della battaglia»
di Campaldino, dicendo di aver provato prima «temenza molta», paura e
orrore, e alla fine «grandissima allegrezza per li varii casi di quella
battaglia». E in quella lettera Dante «disegna la forma», cioè i «varii casi»
di quel combattimento, con parole da stratega militare: non credo che il
Dante in carne e ossa, durante la carneficina, abbia avuto modo di tenere
quel distacco, forse quel che è successo sulla piana di Campaldino l’avrà
capito dopo, mettendo in fila i fatti, i racconti, mentre quando ci sei, sulla
piana di Campaldino, sei come una belva in uno scontro feroce, sei preda
della «temenza», pensi solo a difenderti e attaccare, attaccare e difenderti, e
schivare i colpi, e tutti oggi sono i tuoi carnefici, tutti questi che han deciso
di venire in questo giorno proprio su questa piana verde per ammazzare
proprio te, Dante Alighieri, tutti questi sono i tuoi Pilato e i tuoi Caifa, e i
centurioni romani che ti attaccheranno alla croce… allora alla fine, alla fine,
quando vedi i nemici che scappano e battono in ritirata, allora sì che
finalmente provi «grandissima allegrezza», e quasi non ci credi che sia
finita quella mattanza durata un tempo infinito, e i tuoi capitani ti danno il
segno che è ora di iniziare la «caccia», di fare il più possibile prigionieri
vivi per poi chiedere i soldi dei riscatti, Arezzo è ricca, vedrai quanto ce li
pagheranno, anche se han le gambe spezzate, anche se li abbiamo accecati,
la «caccia» è peggio della battaglia, più cinica e subdola, correre dietro agli
sconfitti per sottrargli di tutto, insegne, armi, equipaggiamenti, madonnine
al collo se le hanno.
Nel tardo pomeriggio scoppiò un temporale estivo. Si disse che erano stati
dei diavoli, infuriati contro gli angeli che stavano salvando troppe anime,
pentite al tramonto della loro vita. La caccia fu sospesa. La battaglia era
finita. Era durata almeno dieci ore. Si contarono 1700 morti tra i ghibellini,
300 tra i guelfi. Alcune centinaia di ghibellini morirono poi nelle carceri
fiorentine. Il Comune di Firenze era salvo, quel macello decretò la sua
supremazia sulla intera Toscana.
Dante è arrivato ai trent’anni ed è pronto a iniziare il suo impegno civico.
Non solo la guerra lo ha preparato: negli anni che precedono la sua attività
politica, ha frequentato le scuole filosofiche e teologiche presenti a Firenze,
gli Studia di alcuni ordini religiosi, corrispondenti alle nostre università: in
Santa Maria Novella insegnavano i domenicani, allievi di San Tommaso,
mentre in Santa Croce c’erano i francescani, e in particolare gli esponenti di
spicco del movimento degli Spirituali, ovvero di quella «corrente»,
all’interno del francescanesimo, che intendeva la lezione di povertà di
Francesco d’Assisi nel modo più radicale. Erano in conflitto con i
Conventuali, chiamati così perché costruivano conventi là dove il fondatore
aveva detto che bisognava accontentarsi di capanne di frasche. Dante
irrobustisce il suo sapere e le sue competenze, e così diventa un cittadino
che ha tutto quel che occorre per presentarsi sul terreno della politica: è
poeta, filosofo, teologo, vanta anche l’avere avuto come insegnante privato
Brunetto Latini, notaio di alto livello e pure lui poeta, l’intellettuale più
rappresentativo della Firenze comunale, e infine tutti sanno che il giovane
Alighieri ha dimostrato il suo coraggio a Campaldino. Ed è pure sposato.
Sposato? Ci siamo forse persi qualcosa? In un documento del 1329 si
accenna a un altro documento, andato perduto, del 9 febbraio 1277, che
indica in «200 lire di fiorini piccoli» la dote che la famiglia di «Gemma di
Manetto Donati» reca a «Dante di Alaghiero»: instrumentum dotis,
strumento della dote, così viene definito il documento del 1277. Eccoli, i
due piccoli: hanno entrambi 12 anni. Dietro di loro, le due famiglie: li
hanno portati davanti a un notaio e li sposano. Così usava allora, così si è
usato per secoli. Eccoli lì, Dante e Gemma: entrambi a testa bassa, faticano
a guardarsi negli occhi, si spiano appena mentre i genitori parlano contenti
di affari. Quella di Alighiero di Bellincione è una famiglia «popolana», dal
patrimonio «mediocre e sufficiente al vivere onoratamente», scriverà Bruni
nella sua Vita di Dante: è ben felice di sposare il primogenito a una
rampolla di famiglia «nobile», tra le più importanti di Firenze, appartenente
alla più antica oligarchia cittadina. Insomma, anche se i Donati, visto i gran
signori che sono, potevano corrispondere una dote un po’ più generosa alla
loro figliola… gli Alighieri ci hanno comunque fatto un affare. Il contratto è
stato stipulato, gli sposi tornano alle loro case, e lì rimarranno fino al
raggiungimento della maggiore età, quando, probabilmente sui vent’anni, il
matrimonio sarà effettivamente consumato. Avranno tre figli: Jacopo, Pietro
e Antonia. Forse anche un quarto, Giovanni, ma sulla reale esistenza di
Giovanni i dantisti continuano a discutere.
Fu eletto. Fu scelto. E arriva il suo primo giorno nel Consiglio dei Cento: a
cosa pensa, mentre procede per quel lungo corridoio? L’ampia sala del
Consiglio è già colma, animata nella discussione, anche da lontano arrivano
voci e grida e sberleffi, arriva il rumore della democrazia. La città lo
aspetta: prova emozione, il poeta prestato alle lotte per il bene comune?
Riuscirà, dopo quello che ha sostenuto nelle sue canzoni politiche, a far
seguire alle idee le azioni? Riuscirà ad alzare la voce in mezzo al tumulto?
Una tradizione di sette secoli ce lo presenta sempre in posa, superbo,
egocentrico, consapevole del suo genio. Questo martellare della Tradizione
non mi convince. È un acceso, questo sì. Si piegherà solo a verità e
giustizia, questo cercherà di fare, questo pensa dentro di sé, entrando in
quella sala strapiena di mercanti e fabbri vocianti.
Di quali canzoni politiche stiamo parlando? Dopo la Vita nova, Dante aveva
continuato a scrivere canzoni e sonetti di vario genere. Attenzione: nella
Vita nova, d’accordo con Guido Cavalcanti, il «primo de li miei amici»,
Dante aveva sostenuto che la poesia in volgare poteva essere solamente
d’argomento amoroso. E invece, dopo la morte dell’amata, Dante si
contraddice. Fa esattamente il contrario: comincia a sperimentare in diversi
stili e su svariati argomenti. Pratica il genere della poesia giocosa: ci è
rimasta una tenzone, una gara scurrile e fintamente ingiuriosa, con l’amico
Forese Donati, parente della moglie Gemma: tre sonetti a testa, dove gli
amici si insultano con effetti comici sulla povertà di Dante e la vigliaccheria
della sua stirpe, sulla ghiottoneria di Forese e sulle sue insufficienze di
marito, delle quali dovrebbe sapere qualcosa la moglie Nella.
Ci restano di quel periodo sperimentale anche le rime cosiddette
«petrose», un ciclo di quattro composizioni dedicato a una donna
misteriosa, la «bella petra». Qui Beatrice sembra dimenticata: ora la
sensualità di Dante è affascinata da una donna «crudele», che non
contraccambia l’amore del poeta, ma sta «gelata come neve a l’ombra». A
nulla serve all’innamorato fuggire «per piani e per colli», il pensiero torna
sempre a quella «scherana micidiale». Amore anche qui ha la A maiuscola,
ma ora la potente divinità rivela la sua faccia nera, feroce, distruttiva. Il
poeta «latra» – fate attenzione a questo verbo –, ulula come un lupo nel
«caldo borro» del desiderio, e sogna di afferrare i «biondi capelli» per farne
uno «scudiscio» e colpirla, come fa «l’orso quando scherza». E, precisa il
poeta, non sarei «né pietoso né cortese». È un inferno, e Dante vi scende
giù, un inferno di istinti animaleschi, di sadiche ossessioni: per descriverlo
Dante usa rime martellanti, ripete ossessivamente le parole «freddo» e
«petra», «petra» e «freddo», con effetti disarmonici, stridenti, ben lontani
dal «dolce stile» della Vita nova. Questa ricerca linguistica gli servirà anni
dopo, quando metterà mano alla Commedia, quando per descrivere i gironi
infernali e i loro orrori dovrà ricorrere alle rime «aspre» di quella
sperimentazione giovanile. Non ci sarebbe la straordinarietà di Dante e
della sua opera mondo, se avesse conosciuto solo la beatitudine di un amore
spirituale.
Intra li quali errori uno io massimamente riprendea […] Questo è l’errore dell’umana bontade in
quanto in noi è dalla natura seminata e che nobilitade chiamar si dee; che per mala consuetudine
e per poco intelletto era tanto fortificato, che l’oppinione quasi di tutti n’era falsificata; e della
falsa oppinione nascevano li falsi giudicii, e de’ falsi giudicii nascevano le non giuste reverenze
[…] li buoni erano in villano despetto tenuti, e li malvagi onorati ed essaltati. La qual cosa era
pessima confusione del mondo (Cv, IV, I, 6-7).
Propuosi di gridare alla gente che per mal cammino andavano, acciò che per dritto calle si
dirizzassero; e cominciai una canzone nel cui principio dissi: le dolci rime d’amor ch’i’ solia.
Nella quale io intendo riducer la gente in diritta via sopra la propia conoscenza della verace
nobilitade (Cv, IV, I, 9).
Turbolenta, già. Nel 1296, un anno dopo l’ingresso di Dante nel Consiglio
dei Cento, viene a crearsi una frattura tra due grandi famiglie, i Donati,
«antichi di sangue» e i Cerchi, «buoni mercatanti e gran ricchi». Il pretesto
è la lite per un’eredità, ma la rivalità tra le due casate ha radici antiche:
entrambe residenti nella stessa zona di Firenze, il sestiere di San Pier
Maggiore, contano al loro interno gli esponenti delle maggiori banche della
città. I Cerchi non potevano vantare illustri natali, venivano dalla
campagna, erano l’esempio perfetto di quella classe sociale «selvaggia» che
Dante accuserà nella Commedia di aver distrutto Firenze con i «sùbiti
guadagni» e il culto della ricchezza. I Donati invece, pur meno abbienti, si
vantavano di appartenere alla più antica aristocrazia cittadina, e degli
aristocratici avevano il comportamento altezzoso e sprezzante. Dalla fine
del 1296 alla primavera del 1299, sale un clima di tensione e di violenza,
che vede susseguirsi scontri armati e «tagli di lingue» e omicidi da
entrambe le parti: Dante, e quelli con lui più desiderosi di «unità e di pace»,
si danno da fare perché non si arrivi a una vera e propria guerra civile. Ma
Dante, e qui occorre una parentesi, è legato in maniera personale a entrambi
gli schieramenti.
Dante è stretto tra due fuochi, tra la parentela con l’uno e l’amicizia con
l’altro. Ma Dante non vuole scegliere tra i due, vuole restare super partes.
Quelli che ha scelto sono i valori del Comune, di una democrazia che va
difesa da logiche di sopraffazione. Le parti nel frattempo hanno trovato i
loro emblemi: ed è curioso che tali emblemi arrivino da una città vicina.
Infatti nel 1296, esercitando una sorta di protettorato della città di Pistoia, il
Comune fiorentino si trovò coinvolto nella faida tra due rami della
medesima casata pistoiese, i Cancellieri, divisa in «bianchi» e «neri». I
colori delle famiglie pistoiesi in lotta si trasferirono a Firenze, perché i
«bianchi» pistoiesi trovarono un sostegno presso i Cerchi, i «neri» presso i
Donati. Da qui le nuove denominazioni di Bianchi e di Neri per le due
fazioni fiorentine. E non dimentichiamolo: tutti guelfi, a Pistoia come a
Firenze.
1959. Papà è in viaggio in treno verso Roma, terza classe. Aveva fatto mesi
prima un corso alla Camilluccia, lezioni tutti i giorni per tre settimane,
aveva sostenuto l’esame finale ed era stato dichiarato idoneo a diventare
funzionario del partito, «addetto di segreteria tecnica». A differenza che nel
PCI, dove i funzionari erano anche quadri politici, la Democrazia cristiana
aveva tenuto distinto il ruolo dei funzionari da quello dei politici veri e
propri. L’addetto alla segreteria tecnica, uno per provincia, doveva porsi al
servizio del partito, non delle singole correnti, non di interessi di parte.
Vincenzo arriva in piazza del Gesù, sede della DC, e incontra l’ingegner
Beccherini, romano, che lo fa accomodare nel suo ufficio: «Allora,
Martinelli, complimenti, la tua destinazione sarà Caserta. Ti va bene?»
Vincenzo deglutisce. Caserta? E Beccherini gli mostra la comunicazione
dell’onorevole Alcide Berloffa, che ufficializza la sede casertana. Vincenzo
espone con discrezione le sue perplessità. «Caserta è lontana… sa, ho due
bimbi piccoli…» «Preferiresti andare ad Aosta?» incalza l’ingegner
Beccherini. Arriva, inaspettata, la telefonata del dottor Biasutto di Udine,
addetto di segreteria tecnica appena assunto a Ravenna, che dice: «Ho dei
gravi problemi familiari, non vorrei creare disagi al partito, ma… insomma
dovrei tornare a Udine, ecco, a costo di mollare tutto…» Beccherini lo
prega di restare in linea e si rivolge a Vincenzo: « Mi risponda al volo,
Martinelli: le andrebbe bene Ravenna? Lei si è comportato bene, ottimo
punteggio, è emiliano…» «Io ci vado a piedi, anche subito», risponde
Vincenzo interrompendo l’ingegnere, quasi per timore che ci ripensi.
«Bene, allora Caserta può aspettare. E si arrangi con la famiglia!»
Andammo ad abitare alla Darsena, il quartiere tra la stazione e il porto, nel
grattacielo appena costruito, il primo in città. Il punto più alto di Ravenna,
all’epoca. Fin da bambino ero attirato dal guardare la città dall’alto.
Stavamo all’ottavo piano, e dalla finestra io guardavo i treni partire e
arrivare, il formicolio dei passeggeri che salivano e scendevano. Tutta
quella vita, lontana, in movimento. Tutte quelle formiche. E il cielo così
vicino, a sua volta mai fermo, ma in continuazione mosso dalle nuvole, dal
loro farsi e disgregarsi e rifarsi.
Papà non era riuscito a trasmettere la sua passione per il calcio alla Luciana,
ma aveva trovato una giovanissima alleata nella sorella di mia madre, Anna,
un «maschiaccio» dicevano, e insieme andavano allo stadio a vedere la
Reggiana. Una volta trasferitosi a Ravenna, il rito dello stadio lo comunicò
al figlio. La domenica per me era davvero un giorno speciale. Perché quello
era il giorno del riposo e del rito, anzi, dei riti: la messa alla mattina e la
partita nel pomeriggio. I due templi. I due grandi spazi, la chiesa e il prato
verde, entrambi theatrum mundi, teatro del mondo, entrambi specchi in cui
specchiarsi, lo specchio in cui Dioniso bambino si contempla nelle sue tante
maschere possibili e specchiandosi vede il mondo. Il canto liturgico e le
urla. L’incenso e il sudore. La meditazione in silenzio e l’esplosione dei
corpi. Il popolo di Dio inginocchiato e la massa saltellante dei tifosi,
febbrile e ondeggiante. Erano forme diverse, entrambe per me, per me
bambino, importanti, di intimità e eccitazione. Dioniso e Cristo.
Tra le storielle con le quali papà mi svegliava la mattina, ce n’era una che
aveva un sapore dantesco: quella del padre, dell’asino e del figlio. Un
vecchio commerciante di stoffe, in compagnia del figlio, giovane e forte, si
mise in viaggio per Roma, per acquistare stoffe arrivate dal lontano Oriente.
Partirono una mattina all’alba: il viaggio era lungo, quindi decisero di
portare con sé il loro piccolo asino. Il padre sull’asinello, il figlio a piedi.
Vedendoli, i passanti li schernivano: «Guarda lì come se la spassa quel
vecchio, risparmia sulla salute e intanto fa ammalare quel bel giovane!» Il
vecchio si vergognò tanto che scese dall’asino e disse al figlio di salirci al
suo posto. Così il padre andava a piedi, e il figlio comodamente seduto
sull’asino. Ma poco dopo, la folla dei viandanti ricominciò a mormorare:
«Un giovane sano e robusto, veh, che pigrizia! E il padre che si ammazza a
piedi!» Il figlio provò una gran vergogna a quelle parole, e convinse il padre
a salire sull’asino con lui. A quel punto il mormorio dei passanti, vedendo
l’asinello caricato di padre e figlio, si trasformò in indignazione: «Povera
bestia! Ma non vi vergognate, di stroncare in questo modo un asino così
giovane?» Padre e figlio, sentendo i rimproveri, si sentirono in colpa,
scesero dall’asinello e decisero di procedere entrambi a piedi. Puntuale
arrivò lo scherno di altri passanti: «Ma si può essere più coglioni? Hanno un
asino, e vanno a piedi!» A quel punto il padre si rivolse al figlio: «Vedi, non
c’è niente che vada bene a tutti, e continuando così diventeremo matti.
Faremo quel che ci sembrerà giusto, senza stare ad ascoltare le chiacchiere
e i giudizi della gente». A Roma ci arrivarono, se è questo che vuoi sapere,
e acquistarono della magnifica seta azzurra.
Se c’è una cosa che può insegnarti la storiella dell’asino è che bisogna
andare con la schiena dritta, figlio mio. Non ti sottomettere ai giudizi degli
altri. Ascoltali, sì, ascolta i suggerimenti, ascolta anche le critiche, hai il
mondo intero da imparare, quindi lascia da parte ogni presunzione, ascolta
ma non ti sottomettere. Ascolta tutti, ma sappi distinguere l’erba cattiva
dall’erba buona. Non te la prendere per le parolette fastidiose che ti
scagliano addosso, con l’intenzione di ferirti: buttale via. Buttale via!
Strappale dal cuore, non meritano di annidarsi lì, come un veleno. Pensa a
quel poeta cacciato dalla patria, a quanto fango gli hanno tirato addosso.
Eppure non si è piegato! Cammina. Continua a camminare infischiandotene
delle maldicenze e delle adulazioni. La vita non è una competizione. Non è
una partita di calcio. È un combattimento con l’invisibile. Age quod agis.
Mio padre serviva il partito, non i potentati locali. Prendeva alla lettera il
mandato che il partito gli aveva dato, quello di non piegarsi a questa o
quella corrente, ma vigilare perché la vita politica si svolgesse nel rispetto
di tutti. Delle minoranze, innanzi tutto. E a Ravenna, davanti a certi ordini
che non sentiva giusto eseguire, si rifiutava. «Preferirei di no»: se avesse
conosciuto Bartleby lo scrivano, il meraviglioso racconto di Melville,
avrebbe risposto così all’arroganza di questo o quel segretario di partito.
Alla sua maniera, Vincenzo si comportava proprio come l’impiegato
melvilliano, abituato a non intervenire nelle discussioni, abituato a non farsi
notare quando arrivavano a Ravenna un ministro o un sottosegretario
(mentre altri correvano a farsi la foto insieme al pezzo grosso), se c’era però
da dire un no rispetto a un ordine che lui riteneva ingiusto, quel funzionario
mite e spesso silenzioso si irrigidiva: a malincuore obbediva, oppure deciso
si opponeva, per lo sconcerto dei superiori che non erano abituati a un
comportamento del genere. E fu per questo motivo, anche se non solo per
questo, che negli anni Settanta mio padre approfittò per cambiare aria. Per
andarsene via da Ravenna. Temporaneamente. «In esilio» diceva lui
scherzando: «Fatti non foste a viver come bruti… ma tra mafiosi!» Si
trattava di missioni prescritte dalla direzione generale del partito: in
situazioni difficili, là dove la lotta politica tra le correnti era stata inquinata
dal fenomeno dei tesseramenti fasulli, veniva inviato un apposito «ispettore
per il tesseramento». E per questo ruolo si sceglievano i funzionari che
dessero sufficienti garanzie di fedeltà super partes. Vincenzo accettava con
piacere queste forme di esilio volontario, erano un modo per servire il
partito a livello nazionale e non dover soggiacere ai diktat di questo o quel
ras locale. Non lo vedevamo per mesi: Calabria, Sicilia, Umbria, Sardegna.
Una volta tornato, scriveva i suoi rapporti e li mandava a Roma, resoconti
che spesso non suonavano lusinghieri per la reputazione della Democrazia
cristiana. Erano sempre «fatti» quelli che lui raccontava, non dicerie a
favore di questa o quella corrente. Mi fece leggere, anni dopo, alcuni di
quei resoconti, vere e proprie grida d’allarme, dove sommessamente
denunciava un partito che stava perdendo l’anima. Le finiva sempre con un
orgoglioso: «Noi del ’48». Non mi hanno mai risposto, concludeva mesto,
riponendo le lettere nel suo archivio personale.
Per il guelfo Vincenzo, gli anni Settanta furono duri anche per altri motivi.
Troppa violenza nell’aria, nelle strade. E un crescere di estremismi che
erano lontanissimi dal suo modo di intendere la democrazia. Erano gli anni
del mio liceo: il movimento studentesco, le associazioni extraparlamentari,
le occupazioni, la critica quotidiana al «potere democristiano corrotto». Io
vivevo la schizofrenia insopportabile di comprendere, da una parte, quanta
verità ci fosse in quella contestazione e, dall’altra, quanto fosse limpida la
vita di mio padre. Che cosa c’entrava, lui, col «potere democristiano
corrotto»? Avrò avuto 17, 18 anni: cominciai a militare nel gruppo Cristiani
per il socialismo, un movimento che radicalizzava le istanze del Concilio
Vaticano II, un movimento di cattolici per un «socialismo dal volto umano»,
che si rifacevano alle esperienze sudamericane della «teologia della
liberazione». Cominciai a vendere la rivista del movimento davanti al liceo,
affiancato da chi vendeva «Lotta Continua» o «il Manifesto». E, una volta
arrivato a casa, nascondevo le copie invendute nel fondo di un armadio,
dietro i dizionari di latino e greco. Venni scoperto dalla mamma, che subito
imbastì un processo sommario. «E questa robaccia cos’è?» mi urlò in
faccia. I titoli in grande, anti-democristiani, non lasciavano adito a dubbi.
Sconcerto, occhi sbarrati, minacce: «Così sputi nel piatto in cui mangi!
Quando viene a casa tuo padre lo senti!» Vincenzo non fece in tempo a
entrare in casa, che mamma gli mise sotto il naso il pacco delle riviste e
continuò l’arringa accusatoria nel pomeriggio. Io confessai che, sì,
frequentavo quel movimento, giustificandomi col fatto che tutto sommato
mi sembrava in linea con certi discorsi sentiti in casa: in fondo anche papà
l’aveva difeso Paolo VI, quando per certi discorsi in difesa dei poveri gli
avevano dato del «comunista»! La mia fragile linea difensiva fu travolta
dalle grida di mia madre: tu sputi nel piatto in cui mangi, continuava a
ripetere, non hai rispetto per tuo padre! Vincenzo se ne stava silenzioso, a
occhi bassi, e non disse una parola. Quando finalmente mi guardò, con un
velo di sorpresa e di delusione negli occhi, non riuscii a sostenere il suo
sguardo. Per quanto non mi sentissi colpevole, per quanto mi sentissi nel
pieno diritto di manifestare le mie idee, il suo sguardo mi tagliò in due.
Pochi anni dopo uscii di casa: nel settembre 1977, dopo il primo anno di
università, mi sposai con Ermanna, e cominciammo a fare teatro. Senza una
lira in tasca, senza un’istruzione teatrale, semplicemente e follemente
innamorati di noi e del teatro. Cominciare, sbagliare, ricominciare. Imparare
dagli errori. Era una scelta di vita e insieme l’apprendimento sul campo di
un mestiere, fatto certamente nel modo più anarchico e rischioso possibile,
da autodidatti. Perché non andate a Roma o a Milano, a fare provini per
questo o quel regista? Perché non vi laureate e poi ci pensate dopo a far tea-
tro? Come pensate di vivere di teatro, senza appoggi, senza conoscenze,
senza soldi? Perché non siete un po’ più ragionevoli? Noi non volevamo
esserlo, ragionevoli. I miei non la presero bene, anzi. Specialmente la
mamma: fece di tutto per evitare quel matrimonio e, visto che a quel
risultato non ci si poteva arrivare, costrinse in un qualche modo mio padre a
cambiare città. Non voleva vergognarsi di suo figlio: cosa avrebbe risposto
alla gente che le avesse chiesto il perché di tanta follia? Vincenzo cercò di
far ragionare sia me che mia madre: entrambi fummo irremovibili. Allora
papà chiese al partito di spostarlo, se possibile, anche temporaneamente, da
qualche parte. E così il 3 settembre 1977, giorno delle nostre nozze, i miei
erano a Genova. Avevano scansato la vergogna.
I Neri proprio non li mandava giù, quelli che «il potere logora chi non ce
l’ha». I Bianchi per lui erano Moro e Zaccagnini. Moro in particolare: lui
vuole trasformare il paese, mi diceva, ha capito che se continua così il
partito diventerà una macchina vuota e senz’anima. Ha capito che non si
può stare al potere per così tanto tempo, c’è il rischio di abdicare ai valori
che ci hanno fatto nascere, i valori della Resistenza, della tradizione
cristiana, del Vangelo. Per questo, mi diceva, sta cercando l’accordo con i
«ghibellini» di Berlinguer, sta cercando il modo di smarcare l’Italia dalla
sudditanza agli Stati Uniti e dalla paura dell’Unione Sovietica: se non si
riuscirà a far questo, non ci sarà mai una vera alternanza al governo, e senza
alternanza una democrazia muore. Si suicida.
La visione politica di Vincenzo affondava le sue radici nel cattolicesimo
democratico, che in Emilia risaliva al socialismo cristiano di un Camillo
Prampolini, nell’impegno mistico-politico di un Dossetti. E Guareschi
anche c’entrava, perché il sindaco Giuseppe Bottazzi, detto Peppone, e il
parroco don Camillo sotto sotto erano più amici che nemici, entrambi rami
di quell’unico albero che era il popolo della Bassa. Vincenzo avvertì che
l’Italia della Resistenza stava finendo con il ritrovamento del cadavere di
Aldo Moro in quella Renault rossa in via Caetani, dieci proiettili nel corpo:
e in quella fine, in quella morte, se ne andava la politica stessa, il senso più
alto della politica, se ne andavano per paradosso amici e nemici, guelfi e
ghibellini, se ne andava Moro ma se ne sarebbe andato anche Berlinguer,
che morì pochi anni dopo, se ne andava un mondo intero e se andavano
anche i terroristi rossi, che con quell’omicidio firmarono la loro definitiva
autodistruzione. Chi avanzava era la TV a colori: la Pubblicità, che diventò
la politica e la religione di fine millennio. Arrivarono infatti negli anni
Ottanta i tempi del CAF, del trio Craxi-Andreotti-Forlani, e del
berlusconismo che gli si posizionò a fianco, per prendere poi il timone del
comando una volta passata la buriana di Tangentopoli. Avevano stravinto i
Neri. Quelli che «il potere logora chi non ce l’ha».
Nell’82 il partito gli comunicò che aveva cessato il servizio. Poteva
andare in pensione. Per certi aspetti fu come sollevato. «Neanche un
grazie», mi disse mostrandomi la lettera arrivata da Roma.
Il profugo
Quale giudizio dare sul Dante politico? I giudizi degli specialisti divergono,
come su tante altre questioni. Giovanni Villani, storico della generazione
successiva, a sua volta priore e per giunta vicino al partito dei Neri, lo
definirà uno «de’ maggiori governatori della nostra città».
Non pare che Dante sia mai sceso in campo, armi in pugno, in quelle
battaglie tra i fuoriusciti e la madrepatria. Per lui la pace è stata, da sempre,
il fine di ogni politica: con che animo, con che amarezza avrà partecipato a
quella politica che si trasformava in guerra? Probabilmente il suo ruolo
nella «Universitas» era di cancelliere o segretario, forse quella mansione era
anche retribuita, costituendo una fonte di sostentamento nei primi anni di
esilio. Lo sappiamo a Forlì, forse a Padova, dove avrà visto la splendida
Cappella degli Scrovegni affrescata dall’amico Giotto, lo sappiamo a
Verona nel 1303, ospite di Cangrande della Scala, con un incarico
diplomatico presso quella signoria ghibellina. A Verona Dante scopre una
delle più straordinarie biblioteche esistenti in Europa, la Capitolare. Il
poeta, l’intellettuale che non ha mai smesso di essere, si esalta nel trovarsi
tra le mani dei classici latini pochissimo conosciuti al suo tempo, come Tito
Livio, Plinio e altri ancora. Dante resta a Verona forse al di là del suo
mandato diplomatico. Che abbia maturato qui la decisione di allontanarsi
dall’associazione degli esuli, guardando con sempre maggior distacco alle
loro manovre militari? Non lo sappiamo. Sappiamo che quello sterile
guerreggiare culminerà nella battaglia della Lastra, il 19 luglio 1304. Una
disfatta: alleati con Pistoia, Bologna, Arezzo e Pisa, gli esuli pensano
addirittura di assalire Firenze, vista la sua momentanea debolezza, visto che
il partito dei Neri si è (a sua volta!) spaccato in due fazioni contrapposte.
Arrivano a ingaggiar battaglia nel centro di Firenze, perfino davanti al
Battistero. Credono di avercela ormai fatta, quando la sospirata vittoria si
trasforma in una sconfitta rovinosa. E anche se Bianchi e ghibellini
continueranno a combattere per anni, la battaglia della Lastra sarà la pietra
tombale sulle loro possibilità di ritorno in patria. Dante è già lontano. Dante
ha deciso di far «parte per se stesso». Contro di lui, l’odio e l’ira di chi si
sente abbandonato, di chi sospetta di quell’atteggiamento da «traditore»,
visto che Dante ha scritto pochi mesi prima al nuovo papa, Benedetto XI,
dichiarando piena disponibilità ad accettare il suo arbitrato, pur di far
cessare quella «guerra civile» e far tornare Firenze in pace. Come si è
permesso di scrivere quella lettera senza consultarli? I fuoriusciti ormai
considerano Dante un traditore, e Dante non ne vuole più sapere di loro e
del loro guerreggiare scalcagnato, senza una visione politica coerente. La
separazione dalla «compagnia malvagia e scempia» è l’ultimo passo verso
lo sradicamento definitivo dalla città-patria. Adesso è solo, definitivamente
solo. Uno sbandito è uno cui han tolto la terra da sotto i piedi:
immaginiamolo. Immaginiamo la vita di un uomo braccato, vittima di un
processo farsa, condannato a morte, che chiunque può legittimamente e
impunemente uccidere. In ogni momento un sicario stipendiato può
prendergli la vita. Immaginiamolo povero, senza più casa, senza denaro in
tasca, ad attraversare valli e montagne con mezzi di fortuna, a piedi o sul
dorso di un asino, guardandosi attorno circospetto, alla ricerca della
benevolenza di un signore, di una corte che lo possa ospitare. Lui, così
fiero, ridotto a dover chiedere. Nel Paradiso, anni dopo, farà dire al suo
antenato Cacciaguida:
Guido Novello aveva forse già incontrato Dante? Vien da pensare che
avesse letto quei canti dell’Inferno e del Purgatorio che circolavano, e che
tra questi uno lo avesse profondamente colpito, quello in cui Dante
disegnava il ritratto immortale di Francesca da Rimini, di cui Guido
Novello era nipote. Da Rimini? Nella memoria collettiva oggi la si ricorda
riminese, la famosa adultera, perché Silvio Pellico e D’Annunzio così ce
l’hanno tramandata, essendo lei sposa di un Malatesta riminese, ma è una
deformazione storica. Certo il nipote Guido non la pensava in quel modo:
Francesca era sua zia, per nascita e famiglia ravennate. La sfortunata
protagonista del V canto dell’Inferno non aveva goduto di buona stampa
presso i contemporanei, per via della sua infedeltà al marito e del fatto di
sangue che ne era conseguito. E, si sa, il peso della colpa e dello scandalo
ricadeva allora (allora?) più sulle donne che sugli uomini. Per i Da Polenta,
quello scandalo era un macigno enorme da portarsi dietro. Ma ora un poeta
fiorentino aveva scritto su di lei dei versi meravigliosi, e Guido non crede ai
suoi occhi, nel leggere con quanta pietà e tenerezza Dante ha lasciato
memoria di quel fattaccio di cronaca nera.
Una bufera infernale, che mai non si arresta, sbatte di qua e di là,
percuotendoli come una sadica frusta, i lussuriosi: in mezzo a loro,
allacciati per l’eternità, Francesca e il suo amante Paolo. Neanche Dio li
può staccare? Neanche Dio, neanche l’Onnipotente. E vedendoli andare
così leggeri, nel vento, Dante chiede a Virgilio se può rivolgere loro la
parola. Ma certo, gli risponde la sua guida, pregali in grazia di quell’amore
che li sospinge. Ma non è la bufera a sospingerli? Certo, è la bufera. Ma che
cos’è l’amore, non è forse una bufera che comanda al nostro cuore e ai
nostri sensi, e ci trascina dove vuole? Noi sappiamo che amore è una
esperienza fondamentale per Dante, da sempre, è il Signore del suo cuore
fin dalla prima visione di Beatrice a nove anni: cosa ci fa amore all’inferno?
Dante li chiama: «O anime affannate /venite a noi parlar, s’altri nol niega!»
E Paolo e Francesca, come «colombe dal disio chiamate», gli si fanno
incontro, e Francesca risponde, e parla a sua volta come un poeta, in quel
luogo in cui tutti lì attorno gridano e bestemmiano, lei invece risponde
usando parole luminose, approfittando di un breve istante in cui il vento
infernale è come per incanto cessato:
Una casa e uno scrittoio, ecco il senso di quell’ultimo, ospitale rifugio. Una
casa dove radunare la famiglia, uno scrittoio dove completare l’opera,
quella Commedia che Boccaccio, dopo la morte del poeta, dichiarerà
«divina». E anche un lavoro di docente allo Studio, l’università di allora.
Dante non si era mai laureato, e infatti Giovanni del Virgilio, accademico
bolognese, nelle sue epistole lo chiama «magister», maestro, non «doctor»,
che è la denominazione che spetta ai laureati. Ma Guido Novello non
guarda a queste sottigliezze: per lui, poeta in volgare, Dante è «magister» e
«doctor» insieme, e nello Studio ravennate l’autore della prima grammatica
italiana, il De vulgari eloquentia, insegna retorica volgare, come mi pare
emerga dallo scambio di lettere con Giovanni del Virgilio. E attorno a Dante
si forma un gruppo di nuovi amici e allievi, intellettuali, notai e
professionisti: se poi vogliamo dar retta alle Vite dei più eccellenti pittori
del Vasari, Dante arricchisce la vita culturale cittadina chiamando a
Ravenna l’amico Giotto, che esegue (o fa eseguire agli allievi) gli affreschi,
oggi perduti, nelle chiese di San Francesco e San Giovanni evangelista.
Così il Vasari se li immagina, i due artisti toscani, il pittore e il poeta,
mentre passeggiano all’alba nella pineta, mentre entrano nelle antiche
basiliche e ammirano i mosaici bizantini: Giotto mostra all’amico «le
movenze eleganti e il colorito robusto delle figure a mosaico», Dante spiega
al pittore «la filosofia dei concetti e dei simboli» con la quale operarono gli
antichi artefici.
All’origine c’è un uomo perduto in una selva. È la selva oscura delle sue
paure, della sua disperazione, dei suoi errori. È il suo fallimento, quella
selva, amaro come tutti i fallimenti, come tutte le sconfitte, amaro come la
morte. Vi ricorda qualcosa questa immagine? Qualcosa che avete vissuto,
qualcosa che state vivendo ora, proprio ora, mentre vi parlo? Quella selva
piena di legni storti, che ci fa le cose stonate, che ci impedisce l’abbraccio.
Che ci fa acida la bocca, che ci strozza il respiro. Ma quando ci sono caduto
dentro? Ma come è potuto accadere? Quell’uomo non sa rispondere. È forse
l’amarezza nata da un abbandono, dall’essere o avere abbandonato, da una
ferita che non si rimargina, di cui solo il ferito balbetta il nome? Stavo
dormendo forse, quando la vita mi si è accartocciata tra le mani, come un
foglietto illeggibile? Forse. Ma com’è che non me ne sono accorto? Certo
quel sangue che sgocciola è il mio, adesso sì che me ne accorgo, adesso sì
che quella ferita mi svuota il cervello, che quel dolore mi impedisce di
respirare. Quell’uomo nel bosco dai rami intricati, in una notte che pare non
finire mai, siamo tutti noi. È l’umanità, uomini e donne. Sei tu, mio lettore.
Sono io.
No. Non è così. Ti sei calcato la corona sulla testa, ma non ti sei trasformato
in farfalla: rimani sempre un verme. Un verme con la corona.
A Ravenna Dante ha visto i mosaici bizantini dei primi secoli cristiani, tutte
le chiese del tempo ne erano ornate, e Boccaccio testimonia che di chiese a
Ravenna ce n’era una per ogni giorno dell’anno. I mosaici che vediamo
oggi sono un terzo di quelli che poteva vedere Dante. Tra i tanti andati
distrutti, un Cristo musicante in trono nell’abside di Sant’Apollinare
Nuovo: nella destra un flauto, nella sinistra la lira, gli strumenti di Dioniso e
Orfeo, i santi patroni degli artisti nell’antichità. A Dante, imbevuto di
cultura antica, quel Cristo deve aver fatto molta impressione. Come non
pensare al musicista Casella, quando Dante lo incontra sulla spiaggia nel
canto II del Purgatorio, e gli chiede: amico, perché non mi canti quella mia
canzone, Amor che ne la mente mi ragiona, che avevi musicato così bene?
E Casella comincia, e Dante e tutti gli altri penitenti lì attorno restano
incantati, rapiti da quella musica, «come a nessun toccasse altro la mente»,
finché arriva il guardiano del purgatorio, Catone, che li rimprovera, dice di
non attardarsi e li sprona a riprendere la via verso il monte della
purificazione. La sgridata ci sta, è Dante stesso che per bocca di Catone ci
ricorda che l’arte è solo un gradino, e al tempo stesso Dante,
quell’immagine di estasi dionisiaca, di esaltazione dell’arte, l’ha fissata per
l’eternità. Dioniso e Cristo: come non pensare a Hölderlin, a Simone Weil,
che nel dio greco vedevano una prefigurazione di Gesù di Nazaret?
È una vera prova del fuoco: e Amore la richiede. Ma Dante ancora tentenna,
allora Virgilio, sorridendo come a un bambino, passa lui per primo, per
dargli sicurezza. E Dante entra, e tanto è il calore di quell’incendio che si
sarebbe gettato dentro a un vetro bollente pur di rinfrescarsi. Ma non muore
e arriva al di là. Al di là entrerà nel paradiso terrestre e incontrerà Beatrice,
«vestita di color di fiamma viva», e sentirà dentro di sé la stessa potenza di
«antico amor» che lo aveva colpito alla prima visione di lei, a nove anni; e
quale sarà l’espressione che userà appena la rivede?
Boccaccio, per ben tre volte, trascrive tutta la Commedia, a mano, come
facevano gli amanuensi prima dell’invenzione della stampa. Riusciamo a
immaginare quanti giorni, quanta pazienza, quanta attenzione per evitare
errori, quanto amore per ricopiarli per tre volte quei 14.233 versi, uno per
uno? E una volta li ricopia apposta per l’amico Petrarca, che Boccaccio
considera come un maestro; ha visto che nella biblioteca dell’amico il
capolavoro dantesco non c’è, e lui così rimedia, e fa dono all’amico di una
copia della Commedia: «divina», è Boccaccio il primo a dirlo. Mio padre in
fondo ha fatto qualcosa di simile: ha trascritto nella memoria centinaia di
versi danteschi, per il piacere di cantarli e per farne dono al figlio.
Nel 1965, in occasione del settimo centenario della nascita, l’editore
Longo ristampò L’ultimo rifugio di Dante, un’opera di 500 pagine sul Dante
«ravennate», pubblicata per la prima volta nel 1891. L’autore era Corrado
Ricci, archeologo e storico dell’arte, allievo di Giosuè Carducci. Qualche
anno dopo Vincenzo mi regalò quel volumone con una dedica di suo pugno:
«A Marco mio figlio VMartinelli», dove la parola «figlio» era sottolineata.
E da quel libro, che all’epoca io solo sfogliai impaurito da tutto quel peso,
papà ricavò la storia delle ossa di Dante e delle loro avventurose vicende
nei secoli, storia che mi raccontò come un giallo, un racconto alla Sherlock
Holmes.
Erano venuti come ladri, e da ladri più furbi sono stati gabbati. Vincenzo si
divertiva un mondo a raccontarmi quella burla. E chi erano, i ladri più
furbi? I francescani!
Dantis ossa
A me Fre Antonio Santi
Hic posita
Nel 1921, sesto centenario della morte, Ravenna è meta di pellegrini che da
tutto il mondo vengono a onorare «l’altissimo poeta». La Commedia è
ormai tradotta e ammirata ovunque, dalla Cina al Brasile agli Stati Uniti. E
nelle pagine di grandi scrittori come Pound e Eliot, Borges e Beckett,
Mandel’štam e Achmatova, il Novecento interpreterà e comprenderà Dante
con una profondità forse ignota all’epoca moderna. Nel 1921 c’è anche
l’ultima richiesta, da parte dei fiorentini e del loro Comune, di riportare in
patria le ossa. È detta quasi sottovoce. Questa volta non ci credono neanche
loro.
Servire il popolo
Avevamo lasciato Vincenzo nel 1982, fresco di pensione. Ma papà non era
tipo da amare la pensione. Aveva sessant’anni, era pieno di energia e voglia
di fare: guardava il partito con distacco, ma al tempo stesso era stato il suo
lavoro, la sua casa. Capì che a Ravenna poteva trovare il modo di
continuare a lavorare, allora convinse la mamma a ritrasferirsi da Genova,
anche per tornare vicino ai figli. La «vergogna» del mio matrimonio era
svanita, e mamma acconsentì, e così riprendemmo a vivere tutti a Ravenna.
Visto con gli occhi di oggi, quel record storico di voti fa sorridere. Pochi
anni dopo la Democrazia cristiana finirà la sua storia strangolata dal
cinismo dei suoi stessi capi. Eppure quel tentativo garibaldino, quell’andare
ogni giorno tra quartieri e campagne, le 60 riunioni di papà e Stoppa, fu il
gesto irreale, commovente, sublime, velleitario, fuori epoca, di parlare al
popolo. Di ascoltarlo, il popolo. Forse quei partiti, nati dalla Resistenza e
dall’antifascismo, sono finiti perché semplicemente hanno smesso di stare
come antenne in mezzo alle persone, alle comunità. È in quell’ascolto, è in
quella missione che un partito di quel genere, che intenda governare stando
al servizio della comunità civile, trova la sua ragion d’essere: al di là delle
demagogie, dei finti populismi, al di là delle ideologie, al di là delle
televisioni e delle nuove tecnologie, della politica fatta con Twitter e su
Facebook. Dopo ormai tre decenni di contestazione della casta, fatta spesso
da gente che gridava in piazza o sui media per diventare lei casta, abbiamo
compreso bene che in questione non è la politica, la politica intesa come
arte della polis: quella non finirà mai, sarà sempre necessaria; in questione
è il veleno di una politica intesa come arrogante accumulo, come esercizio
sordo del potere, della violenza che nasce dal potere, dell’altro come
avversario da sopprimere. Vale per l’oggi come valeva per i guelfi e i
ghibellini di sette secoli fa. Miro, un vecchio comunista del quartiere
Darsena a Ravenna, mi racconta che negli anni Sessanta le sedi dei partiti
non stavano solo in centro, c’erano anche le sedi di quartiere, pronte a
intercettare gli umori, i problemi, le esigenze di cambiamento. Erano luoghi
di ritrovo. E, aggiunge Miro sorridendo, mica solo le nostre: anche la DC
aveva il suo ufficetto in Darsena. La politica allora era andare in sezione,
fare assemblee, ascoltare la gente, punto e a capo: magari poi facevi come
volevi… ma intanto la ascoltavi. E se la ascoltavi veramente, quel fare
come si voleva puoi star sicuro che ne restava condizionato. E anche i bar
erano molto più grandi, perché ci si andava e ci si rimaneva, non era come
oggi, un caffè e via. Alla fine degli anni Ottanta tutto questo iniziò a
perdersi. I partiti cominciarono a decidere tutto tra pochi, perché andare tra
il «popolo»?
Dentro di me penso: in quei caffè e in quelle sedi di partito erano forse tutti
uomini. E questa mancanza di donne mi suona come una nota stonata, in
quel ritratto in parte convincente in parte idealizzato. Ma Miro è un torrente
in piena, non lo si può interrompere.
Benigno Zaccagnini morì il 5 novembre del 1989, e ai suoi funerali, nella
chiesa di Santa Maria in Porto, c’era tutta Ravenna, e i potenti venuti da
Roma, quelli che papà non poteva più vedere. Se ne stette con me in fondo
alla chiesa. Pochi giorni dopo cadde il muro di Berlino. Il mondo cambiava
veramente. Vincenzo riprese a lavorare alla Capit, ovviamente senza
stipendio, come tutti quelli che ci lavoravano, per pura passione. In questo
suo nuovo impegno sul piano della cultura, lo attraeva anche il fatto di
essere più vicino ai figli, al mio fare teatro, ai documentari a cui lavorava
Maria. Buttava uno sguardo di traverso alla catastrofe di Tangentopoli, e lo
appassionavano le situazioni che cominciavano a crescere fuori
dall’orizzonte dei partiti tradizionali. Il primo luglio 1992 eravamo tutti a
casa dei miei per il suo settantesimo compleanno. Gli regalai un libro di
Jacques Séguéla sulla politica in vendita come un detersivo, Eltsin lava più
bianco, un saggio che in fondo diceva cose che lui mi aveva già detto anni
prima, alla sua maniera. A tavola papà ci raccontò del suo viaggio a
Palermo, una grande manifestazione dopo gli omicidi di Falcone e
Borsellino. C’erano un sacco di giovani, disse lieto e un po’ sorpreso,
sorridendo, e aggiunse: ma la DC non c’era, hanno organizzato tutto i
sindacati. E mi hanno dato pure un berrettino bianco per il sole. Ho perso la
voce, tanto ho gridato.
Gli ultimi anni
Nel gennaio del ’94 passeggiata in pineta con Vincenzo. Papà come te li
senti i tuoi anni? «Quando leggo di un sessantenne sul giornale che lo
definiscono vecchio, be’ allora? Io con i miei 72 ormai, cosa sono? Da
buttare? E mi sembra ieri che ne avevo 50, e guardavo il nonno Bruno con i
suoi 62 e pensavo… è vecchio! E voi siete già grandi, ed è andato tutto così
veloce. Così in fretta che non me ne sono accorto?» Camminavamo tra i
pini alti, e lì accanto il mare. Dopo un po’ si guardò attorno, e tirò fuori uno
dei suoi versi con l’arpione: «la divina foresta, spessa e viva», la foresta che
Dante ritrae nel paradiso terrestre, nel canto XXVIII del Purgatorio, e il cui
modello è proprio la pineta ravennate.
Non aveva perso la sua vitalità. Ogni tanto mi regalava una poesia, una
citazione nuova che l’aveva colpito. Quasi si schermiva: «Hai letto un sacco
di libri, sicuramente la conosci già». Conservo una sua cartolina degli anni
Novanta, spedita dalle Dolomiti, con una frase di Teilhard de Chardin: «Il
meglio finisce sempre per accadere, e il futuro è migliore di qualsiasi
passato». E in fondo, come una nota a piè di pagina, le date di nascita e di
morte: 1881-1955.
Negli ultimi anni gli chiedevo spesso della sua infanzia, della giovinezza.
Una volta a Roma, maggio 2002, gli telefonai da piazza del Gesù, pensando
di fargli una sorpresa: te la ricordi? Erano qui i tuoi capi, no? Ma piazza del
Gesù proprio non lo interessava, e deviò il discorso. «Allora sei vicino a
piazzale Venezia? Be’, hai tempo? Ti racconto un fatto! Era quel giorno del
’40 che il Duce si affacciò al balcone di piazza Venezia per dire alla
Nazione: andiamo in guerra! Io ero in piazza a Reggio Emilia ad ascoltarlo,
precettato come tutti i miei coetanei, la sua voce si sentiva dappertutto. Il
giorno dopo il capitano della milizia ci chiama, noi tutti diciottenni, e ci
chiede, sicuro che saremmo saltati su dall’entusiasmo: volete andare
volontari in guerra? Volete servire la Patria, combattendo contro i nemici
del Duce e del nostro popolo? Nessuno dice sì. Nessuno. Al capitano gli
prende un colpo: e tu Ferretti? Neanche tu, Ferretti? Ferretti era il figlio di
uno squadrista, commerciante di maiali. Quello bofonchiò due, tre parole in
dialetto, si capiva che la prospettiva non lo appassionava… e il capitano gli
sferrò un calcione nel sedere. Allora tu, Martinelli! Ero l’unico studente.
Provai ad argomentare: che la famiglia era numerosa, che ero l’unico
maschio con sei sorelle… che dovevo finire il liceo, e quindi… Il capitano
della milizia se ne andò bestemmiando. Non aveva tirato su nessun
volontario. A proposito, non c’è più nessuno neanche a piazza del Gesù,
vero?»
Papà non l’ho mai sentito alzare la voce. Quando è morto io avevo 53 anni.
Be’, in 53 anni non l’ho mai sentito alzare la voce. Mai. Così come non ha
mai alzato le mani sui suoi figli.
A casa dei miei, 2007. Papà nel raccontare ogni tanto mi sputacchia
addosso dei minuscoli frammenti di cibo, mamma nel rompere coi denti un
pomodorino spruzza Ermanna. Miei poveri vecchi, che tenerezza, quella
nostra carne che si corrompe. Mamma più serena, meno ansiosa di un
tempo, Vincenzo con un velo di tristezza negli occhi, fatica anche a uscire,
quegli 85 cominciano a pesare. Papà, il Ravenna è tornato in serie B,
domenica inizia il campionato, che dici, lo andiamo a vedere insieme? Gli
si illuminano gli occhi.
Epilogo. La selva e le stelle
Vita Oscura Smarrita. Queste tre parole sono le parole che chiudono i primi
tre endecasillabi dell’Inferno. Mi suonano silenziose in mente, quando entro
nel dantis poetae sepulcrum: le ossa lì custodite a questo ci rimandano, alla
vita oscura e smarrita di ognuno di noi. Il poeta che ha cantato l’Eterno: di
lui, cosa resta? Quelle poche ossa. Di lui che, come tutti i credenti, ha
creduto nella resurrezione dei corpi, cosa resta? Nel canto XXIV del
Paradiso san Pietro gli fa l’esame della fede: sei arrivato fin qui, ma tu ci
credi veramente? E Dante snocciola il suo credo: sì, credo, credo in questo e
quello e nella resurrezione. E dopo quell’esame il pellegrino, partito dalla
selva tenebrosa, sprofonderà nella visione sfolgorante della Luce, di Amore
come «infinito eccesso». Ma continua a risuonare la domanda, una voce
smarrita dentro di noi: cosa resta? La scommessa cristiana è davvero
sfrontata. Punta tutte le fiches sulla vita eterna. «Morte, dov’è il tuo
pungiglione?» grida beffardo san Paolo. Il Cristo è risorto, e ogni nostra
sofferenza sarà riscattata, è riscattata, ora, ora è Pasqua di resurrezione, ora
è il Regno dei Cieli, ora siamo accolti nel tempio dell’Altissimo, della
Gerusalemme Celeste.
I giochi sono aperti. Nessuno può illudersi e dichiararli chiusi una volta per
tutte, per legge, per decreto, per ideologia. Il Mistero ci avvolge. E la parola
finis, in latino, ha in sé una ambigua ricchezza: indica «la» fine, e il
«confine» aperto verso un altro mondo, ma anche «il» fine, la meta,
l’orizzonte atteso e desiderato. Come scrive Rilke, nella lettera a von
Hulewicz a proposito delle Elegie duinesi: «La morte è il lato della vita
rivolto altrove da noi, non illuminato da noi».
Una domanda l’ho lasciata inevasa, qualche pagina indietro. Quella relativa
al grande abbaglio di Dante sull’impero. L’abbiamo visto, i fatti gli hanno
dato torto. L’impero universale è definitivamente tramontato, l’Europa è
diventata l’Europa delle monarchie nazionali. Da questo punto di vista il
genio Dante Alighieri non comprende la direzione della Storia in cui è
immerso. Fraintende. Ma perché allora quel poema ci parla e ci commuove
ancora, a distanza di sette secoli, nonostante i suoi abbagli?
Dopo aver verificato sulla sua pelle il dissolvimento della democrazia
comunale, il suo suicidio a colpi di feroci lotte fratricide, Dante scorge
nell’impero un argine, l’unico argine possibile alla marea di ingiustizie che
travolge la società del suo tempo. La Commedia è una grandiosa protesta
contro quelle ingiustizie. Ed è questo slancio impetuoso verso la giustizia
che ci commuove, la forza veritiera di quella protesta, non tanto il fatto che
Dante sbagli a identificare l’argine giusto. Così come nel leggere i poemi
colorati di Vladimir Majakovskij, il poeta russo suicida nel 1930, non ci
mettiamo a fare l’esame ai suoi convincimenti ideologici, ma siamo
commossi da quel grido stentoreo contro i soprusi, ci incanta quel sogno di
felicità che traspare da ogni verso, di felicità per tutti.
Ascoltate!
Se accendono le stelle
significa che qualcuno ne ha bisogno
significa che qualcuno vuole che ci siano
significa che qualcuno chiama perle
questi piccoli sputi!