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L’autore

Marco Martinelli, nato a Reggio Emilia, è tra i maggiori registi e


drammaturghi del teatro italiano. Il ruolo che meglio lo descrive è quello di
"poeta di compagnia": le sue opere infatti nascono dall’interazione con gli
attori del Teatro delle Albe, fondato nel 1983 insieme a Ermanna
Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni. Venticinque anni fa ha dato vita
alla non-scuola, una pratica teatrale che mette in contatto gli adolescenti
con i grandi classici del teatro. In lui e in Ermanna Montanari, con la quale
condivide la direzione della compagnia, Marco De Marinis vede «due tra i
pochi nuovi maestri della scena attuale»; Martinelli «ha firmato», secondo
Renato Palazzi, «alcuni degli spettacoli più suggestivi di questi anni»,
mentre l’esperienza di «meticciato teatrale» tra attori italiani e senegalesi
(da anni componente stabile delle Albe) è stata definita da Franco Quadri
come «l’ultima riprova che la fabbrica del teatro africano è in Europa, come
già ci avevano ammonito Genet e Brook». Ha vinto numerosi premi, tra cui
sette volte il Premio Ubu per la drammaturgia, la regia e il progetto non-
scuola. I suoi testi teatrali sono stati tradotti e messi in scena in dieci lingue.
Per Ponte alle Grazie ha pubblicato: Aristofane a Scampia.
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Ponte alle Grazie è un marchio


di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

In copertina: progetto grafico ed elaborazione immagine di Laura Dal Maso


/ theWorldofDOT

© 2019 Adriano Salani Editore s.u.r.l. – Milano


ISBN 978-88-3331-264-4

Prima edizione digitale marzo 2019


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Il racconto che apre al giorno

Mio padre aveva un modo tutto suo di svegliarmi. Entrava silenzioso nella
stanza, si sedeva accanto a me, sui bordi del letto, e cominciava a
raccontare. Era la sua voce, sottile e amorevole, a svegliarmi. E le storie
erano sempre diverse, storie che avrei poi ritrovato a scuola, come gli Orazi
e i Curiazi, Edipo e la Sfinge, come la favola del lupo e dell’agnello di
Fedro, quella gli piaceva particolarmente e la inframmezzava con citazioni
dall’originale latino, «Lupus et agnus venerant, siti compulsi»; oppure mi
raccontava di quando era in «collegio», così chiamava il campo di
concentramento dove lo avevano rinchiuso i tedeschi dopo l’8 settembre del
’43, e il caporale gli intimava: «Martinelli, ein lied!», e a lui toccava
intonare un canto che gli altri prigionieri, in coro, avrebbero seguito, e
d’altronde, «cosa dovevamo fare? Deprimerci perché eravamo in gabbia?
Piangere? Meglio imparare il tedesco, e cantare, che prima o poi ne
saremmo usciti»; oppure erano le scenette dei suoi film preferiti, Totò e
l’onorevole, Peppone e Don Camillo, che lui ricostruiva a braccio, per come
se le ricordava, improvvisando, divertendosi e divertendomi, oppure era una
citazione, perfettamente a memoria, dell’amato Don Lisander, il Manzoni:
«La quale storia, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha
scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomandata. Ma se invece fossimo
riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta». Io facevo resistenza
per poco, perché quella voce suadente mi faceva cedere in fretta:
appoggiavo i gomiti sul letto, e osservavo il babbo narratore gesticolare
nella penombra. Non saprei dire con precisione quando iniziò questo
rituale, questi battesimi al nuovo giorno con la voce di mio padre, mi pare
nei primi anni della scuola media, avrò avuto dieci o undici anni, quando mi
divisero da Maria, la mia sorella più piccola, e cominciai a dormire da solo,
nella stanzetta che dava sull’unico terrazzo di casa, un piccolo
appartamento nella periferia ravennate. Questo rituale mattutino andò avanti
fino alla fine delle superiori. Non c’è mai stato tra noi l’appuntamento della
favola serale, quella prima di addormentarsi: il babbo narratore preferiva il
mattino, e lo faceva quando gli era possibile, quando era a Ravenna con noi,
perché il lavoro spesso lo teneva lontano in altre città. Quando non toccava
a lui, toccava alla mamma di svegliarmi: e qui la musica cambiava. Entrava
decisa nella stanza, tirava su la serranda facendo entrare la luce, e poi a
voce alta: «È ora di alzarsi! È ora! Sveglia!» Un trauma: e a quel metodo,
sì, che mi veniva di far resistenza, di starmene sotto le lenzuola, di oppormi:
ma lei, imperterrita, come un sergente dei marines, non aveva pietà, e mi
tirava via le lenzuola con uno strattone. Vincenzo e Luciana erano molto
diversi, ma quello che mi ha sempre sorpreso, in quella coppia, era il
pendolo del maschile e del femminile, e di come se lo scambiavano e lo
ripartivano. Voglio dire che mio padre aveva in sé tanta dolcezza, quella che
di solito riferiamo al femminile, mentre la mamma aveva tratti di durezza
che siamo soliti ascrivere al maschile. Sono stereotipi, lo so. Quando
andavo al liceo, papà mi accompagnava fino all’entrata, e prima di lasciarci
ci baciavamo. I miei compagni, abituati a un rapporto da uomini con i loro
babbi fieramente romagnoli, se ne stupivano: «Be’ tu e tuo babbo vi baciate
ogni mattina? Mah…» Per contro la mamma si innervosiva per niente, una
volta mi sgridò perché la ringraziavo: «E perché mi dici sempre grazie? Me
lo dici cento volte al giorno! Grazie grazie grazie! Non dirmi grazie in
continuazione, non ce n’è bisogno, non siamo estranei, capito?»

Ma questo non dovrebbe essere un libro su Dante Alighieri? Certo, è


sicuramente un libro su Dante Alighieri. Un poco di pazienza…

Papà amava scherzare. Sempre. E quello scherzare era il suo modo di


giocare con le parole, con le lingue, con la poesia, con la musica. Con le
date: poteva dirti su due piedi quando era morto Hegel e quando era nato
Kant, e Tommaso d’Aquino e Karl Marx, e se gli chiedevi però quali
fossero i pensieri, le concezioni di questi grandi filosofi, lui alzava le
braccia e apriva la bocca: «Ah… mah… chi lo sa? Io non lo so, non li ho
mai letti». «Papà non è vero!» «È vero, figlio mio. Ma se vuoi sapere
quando è nato e morto Benedetto Croce…» «Sentiamo!» lo sfidavo io, e lui:
«Croce? Benedetto, dici? Semplice: 1866, 1952». E se andava soddisfatto e
sornione, come se mi avesse battuto a ping-pong. Non era uomo di concetti,
di grandi discorsi: non ci educava con i discorsi, ma giocando. Mio padre è
stato il mio primo maestro, per tutta l’infanzia e l’adolescenza, e senza mai
atteggiarsi a maestro. Aveva un piacere della lingua che definirei
combinatorio, musicale e insieme visivo, il piacere di giocare con le parole
e i suoni e i numeri, forme da mettere in relazione tra loro: più che la
retorica del bel parlare, che anzi lo annoiava, amava le strutture che
formano le frasi, un divertito scomporre e ricomporre. Giocava con le
citazioni dei classici in latino, di motti e sentenze ne conosceva a centinaia,
ma non li faceva mai cadere dall’alto, li distillava come armi segrete, a
sorpresa, con relativa traduzione, e te li diceva sempre con toni e modalità
recitative buffonesche. Come battute. Ce li tirava addosso quando meno ce
l’aspettavamo, e ci sfidava la volta dopo a dimostrare di ricordarceli: e poi
giù espressioni dall’inglese e dal tedesco, storpiate in modo comico, fino al
dialetto reggiano (senza farsi sentire dalla mamma, cui non piaceva che in
casa si parlasse in dialetto, «che poi i miei figli non imparano l’italiano a
scuola!»), fino ai canti popolari che gli piacevano tanto, lombardi e
napoletani e friulani. Ce li insegnava, insieme ai canti alpini, alla guida
della bianca Simca 1000, la piccola automobile che i miei avevano
comperato a metà degli anni Sessanta, forse frutto di un buon 12 al
Totocalcio: quando si andava in vacanza, al mare o in montagna, i viaggi si
trasformavano in un concerto corale, il guidatore intonava, e noi, io e mia
sorella dietro, con la mamma che cedeva e pure lei si univa al canto, tutti a
squarciagola a modulare «O ce biel cjscjel a Udin / oh ce biele zoventut»,
tutti in coro come in quel campo di concentramento tedesco.

Un maestro buffone. Ho avuto la fortuna di avere un precettore personale,


come ce l’avevano i nobili di un tempo, solo che Vincenzo non interferiva
mai con la mia carriera scolastica, non mi faceva mai ripassare le lezioni,
quasi non ne voleva sapere. Gli bastava che andassi bene, che i voti fossero
buoni, punto. Se volevo ragionare con lui di letteratura o di filosofia, si
schermiva, proclamando la sua ignoranza. Lui sviluppava la sua bislacca
pedagogia in parallelo. Era capace di saltar su, nel mezzo di una
conversazione a tavola, dove la mamma si lamentava di qualcuno che aveva
fatto fortuna, soldi e potere, e magari non se li meritava, saltava su con una
strofetta settecentesca del Metastasio, canticchiandola come un rap (che
all’epoca non c’era ancora, o comunque in casa non si sapeva certo cosa
fosse):

Se a ciascun l’interno affanno


si vedesse in fronte scritto
quanti son, che invidia fanno,
ci farebbero pietà.

E alla mamma che lo guardava stranita, Vincenzo allargava sorridente le


braccia e concludeva: «E ho detto tutto», citando così, dopo Pietro
Metastasio, Peppino De Filippo.

A Ravenna non è possibile non inciampare su Dante. È la città che conserva


le sue ossa, che nei secoli ha tenuto vivo il culto del padre della lingua.
Segni che lo ricordano ce ne sono ovunque: per dire, io ho frequentato la
scuola media «Guido Novello», il nobile protettore di Dante nel suo ultimo
rifugio, e il liceo classico è intitolato a «Dante Alighieri», e sempre a
«Dante Alighieri» è intitolato anche il principale teatro della città, costruito
nell’Ottocento, e il teatro Luigi Rasi, in cui lavoro con la mia compagnia da
quasi tre decenni, era nel Duecento la chiesa di Santa Chiara, gestita
all’epoca dalle clarisse, dove molto probabilmente Dante, terziario
francescano, sarà andato a partecipare alla messa. Nell’abside romanica,
che ancora oggi campeggia in fondo al palcoscenico, erano affrescati da un
allievo di Giotto, Pietro da Rimini, i ritratti di San Francesco e Santa
Chiara, per cui Dante nutriva una particolare venerazione. Andando al liceo
in bicicletta, accompagnato da mio padre, era inevitabile per noi passare
davanti al tempietto settecentesco del Morigia che accoglie le spoglie
mortali del poeta, e talvolta papà diceva, con tono finto-misterioso: «il
ghibellin… fuggiasco!», e giorni dopo mi buttava lì solo la prima parte
della frase, perché io la concludessi. Perché mi restasse in mente: era il suo
gioco, la sua arte della memoria. Un’estate ci vennero a trovare, da Reggio
Emilia, i nonni paterni: era la prima volta che accadeva, anche se la nostra
famiglia si era trasferita a Ravenna già da diversi anni: tra le varie tappe di
visita alla città, ci capitò di fermarci davanti alla tomba di Dante, e lì il
nonno Silvio, mezzo cieco da un occhio, guardando la targa della via con
l’iscrizione: «Dante Alighieri – Firenze 1265 – Ravenna 1321», commentò
in dialetto reggiano: «Oh, l’è mort zovan! L’e mort in dal Vintun!» Aveva
scambiato il sommo poeta per un suo coetaneo morto nella prima guerra
mondiale, «morto giovane, morto nel Ventuno». Papà ne fu molto divertito,
non fece nulla per togliere al suo poco istruito genitore l’illusione di aver
ritrovato un commilitone della Grande Guerra, e quell’inversione di 1321 in
1921 non poteva non rientrare nella sua strampalata passione combinatoria
per le date. Ma non solo alle date, si appassionava Vincenzo: anche le vite
lo interessavano. Perché le vite erano sequenze di avventure, le vite non
erano che lunghi racconti, da cui potevi estrarre immagini che restavano in
testa: quella di un uomo in fuga, braccato, un «politico» cui avevano
minacciato il rogo se tornava nell’amata patria fiorentina, il «ghibellin
fuggiasco», che a un certo punto «fece parte per sé stesso», restò solo, solo
con i suoi ideali e i suoi ricordi, abbandonato dai vecchi compagni di
partito, di «parte» appunto, solo con la sua scrittura, solo con la sua fede e i
suoi sogni potenti, che alla fine diventarono la carne del «sacro poema».
Sulla vita di Dante tornava spesso, i suoi chiodi fissi erano la solitudine e la
fuga. Non lo interessava il monumento Dante, a Vincenzo i Grandi della
Storia non interessavano in quanto Grandi. Gli interessava guardarli in
controluce: come delle parole che puoi rovesciare, anagrammare, e ti
suonano in un altro modo. A scuola la professoressa mi disse che Dante non
era ghibellino: era guelfo. Aspettai la sera per sciogliere il dubbio e sapere
con certezza da papà se Dante era ghibellino, come diceva lui, o guelfo,
come diceva la professoressa. «Be’, in effetti… lui era guelfo… ma anche
un po’ ghibellino…» E vedendo la mia faccia stranita, aggiungeva: «La vita
è complicata. E anche la politica». Ma insomma, protestavo io, o era guelfo
o era ghibellino. E lui, con i suoi occhi azzurri penetranti: «Studia, figliolo.
Mica posso dirti tutto io».
Dante adolescente

Concentriamoci ora su Dante: Dante Alighieri, ovvero il padre della lingua


italiana, se pensiamo che l’80 per cento delle parole che usiamo sono
contenute nella Divina Commedia. Dante primo monumento della
letteratura italiana. Dante il grande genio, il sommo poeta, una delle
intelligenze più vertiginose della cultura planetaria, amato e onorato da
poeti e intellettuali di tutti i continenti. C’è di che intimidirsi. Ma per
parlare del Padre, del Genio, del Monumento, io comincerò raccontandovi
del Dante adolescente. Di quando Dante non era che un nessuno. Occorre
un semplice salto di sette secoli e passa: concentratevi su quel ragazzino
come tanti, nella Firenze del Duecento. Quanti anni? 14, 15, 16? Se ne ha
15, siamo nel 1280. Passeggia per le strade della sua città: Firenze all’epoca
contava tra i quaranta e i cinquantamila abitanti, una popolazione certo di
tutto riguardo per i parametri di quel secolo, se si pensa che poche città in
Europa superavano i centomila. Al giorno d’oggi, ci parrebbe una città
medio-piccola. Ma teniamo presente che Firenze in quel tempo era tra i più
importanti centri urbani dell’Europa cristiana, per via dell’impetuoso
sviluppo economico e mercantile della seconda metà del XIII secolo, di cui
la nuova moneta, il «fiorino», era il simbolo. Il ragazzino ha appena finito
la scuola, e vaga senza una meta. Gli piace osservare. È un osservatore di
tipo speciale, ha una forma di attenzione difficile da definire, forse
l’attenzione di cui parlerà con grande acutezza, secoli dopo, Cristina
Campo:
«Dante non è, per quanto scandaloso possa suonare, un poeta
dell’immaginazione, ma dell’attenzione: vedere anime torcersi nel fuoco e
nell’olivo, ravvivare nell’orgoglio un manto di piombo, è una suprema
forma di attenzione, che lascia puri e incontaminati gli elementi dell’idea.
In lui l’attenzione è attesa, accettazione fervente, impavida del reale».
Quel ragazzino è attento: attende che quel suo guardare dia spazio alle
cose. E quali sono le cose che vede? Strade sventrate, case scoperchiate,
ammassi di macerie, le alte torri diroccate o mozzate. Per colpa di chi? Dei
due partiti che all’epoca si contendevano il potere, a Firenze e in tutta la
penisola, i guelfi e i ghibellini. I primi erano filo-papali, i secondi filo-
imperiali, e quelle denominazioni, provenienti dalla Germania, si erano
diffuse in Italia durante lo scontro tra i pontefici e l’imperatore Federico II.
Grandi questioni internazionali si intrecciavano così agli ambiti locali, e il
più delle volte dichiararsi guelfi o ghibellini forniva un abito ideologico,
una sorta di copertura alle lotte furiose per il potere tra le grandi famiglie
presenti in città. Furiose, appunto: sventramenti e macerie. L’alternanza al
potere dell’uno o l’altro partito non era un normale avvicendamento: chi
vinceva, e intendo chi vinceva in battaglia, confiscava i beni alla parte
rivale, ne saccheggiava le abitazioni, le distruggeva, insieme alle botteghe e
ai luoghi di lavoro. Se riuscivano a salvare la pelle, e spesso non ci
riuscivano, gli sconfitti venivano confinati o esiliati, e questo dopo processi
sommari. Spesso si passava subito alla vendetta privata, al regolamento di
conti cruento. Ma cosa vi sto descrivendo? È politica questa? O è la vita di
una società in cui l’odio ha scavato un fosso senza fondo, soggetta a
improvvise esplosioni di violenza collettiva e a colpi di mano di singoli
individui? Cosa vi sto descrivendo? Sembra una guerra tra bande mafiose.
Dal 1260 al 1280 per Firenze non c’è tregua: prima i guelfi massacrano i
ghibellini, poi avviene il contrario, le parti si invertono, i ghibellini mettono
a fuoco le case dei guelfi, poi di nuovo tocca ai guelfi imporsi con le armi e
il terrore. Come nel dialogo tra Dante, che è di famiglia guelfa, e
l’avversario Farinata degli Uberti, nobile capo ghibellino, nel canto X
dell’Inferno, dove non senza sarcasmo entrambi ricordano i massacri, lo
«strazio e ’l grande scempio», e i fiumi rossi di sangue. Partiti come bande
armate? Immaginiamolo, quel quindicenne attento, che non solo osserva in
silenzio le torri mozzate, immaginiamolo che in quel silenzio riesce a
sentire le grida e le voci degli assalti, le bandiere mosse dal vento, i pianti e
le bestemmie, si immagina i cavalieri a cavallo entrare sfondando le porte
delle case, e trucidare i vinti, e il fuoco e il fumo che acceca. Quella sua
attenzione, come suggerisce Cristina Campo, gli permette di vedere il fiume
del Tempo, vede il presente formato, deformato dal peso del passato. Quel
ragazzino non è il Padre della lingua italiana, il Monumento che
intimidisce: è un figlioletto, un ragazzino come quelli che spero mi stiano
leggendo in questo momento. E si aggira tra le macerie. Molti di voi, come
me, non sanno cosa significhi aggirarsi per davvero tra le macerie: le
vediamo in televisione, le macerie, nei telegiornali, nelle riprese di guerra in
Africa o in Medioriente, nelle fiction su Pablo Escobar e il Chapo, sulle
imprese di boss mafiosi e ’ndranghetisti. Come tanti di voi, io non ho mai
camminato in una città semidistrutta dalla guerra. Ma proviamo a
immaginare. Immaginare significa aiutarsi con i ricordi, anche quelli degli
altri, quelli che ci vengono raccontati.
Io per esempio ricordo… una decina di anni fa i miei piccoli amici di
Scampia, quando giunsi alla periferia di Napoli per fare teatro insieme a
loro. È il mio mestiere, il teatro. E mi piace far lavorare i miei attori con
non-attori presi dalla strada, come facevano Rossellini e Pasolini nel
cinema neorealista del dopoguerra. Ricordo gli occhi di gatto di quegli
adolescenti napoletani, la loro fame di vita. Quando chiesi, per strada,
un’informazione su dove si trovasse l’Auditorium, un ragazzino mi rispose:
«Vai dritto, e poi gira a destra, dove hanno bruciato la ragazza dentro la
macchina». Era appena finita la guerra per bande tra i Di Lauro e gli
«spagnoli», gli «scissionisti», quella poi raccontata da Roberto Saviano in
Gomorra, un morto ogni due, tre giorni, per quasi due anni. I ragazzini mi
raccontavano la paura, e la normalità della vita quotidiana nella paura:
incendi, spari nelle strade, i parenti ammazzati «per sbaglio», perché
passavano di là, il sospetto, gli elicotteri sopra i palazzi.

Torniamo all’adolescente fiorentino, a quel verso di lancinante bellezza che


scriverà anni dopo, da adulto, quando, nel canto XXII del Paradiso, 151-154,
guarderà la terra dall’alto dell’ottavo cielo, e così la descriverà:

L’aiuola che ci fa tanto feroci,


volgendom’io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli alle foci.
Poscia rivolsi gli occhi alli occhi belli.

Quella minuscola «aiuola» è la Terra, è Firenze, sono le tante Firenze del


mondo. In tutte regna la «ferocia» degli uomini, che si scannano per il
«maladetto fiore», il fiorino, il denaro che nel mondo ha tanti nomi diversi
ma altri non è che la «maladetta lupa» che ci sbrana, e che Dante descrive
come il male più orrendo all’inizio del suo Inferno. Forse la purezza visiva
di quella idea, quel geniale contrasto nello stesso verso tra i «fiori» di un
pezzo di terra, un giardinetto, e i «feroci» che ci si avventano sopra, forse
quella immagine si era andata oscuramente formando negli anni
dell’adolescenza, nelle strade sventrate della sua città natale. Ecco la cosa
che vede, lo studentello. E quella cosa è reale, non è una fantasticheria.
Dietro quei cumuli di macerie ci sono gli ottomila guelfi fatti morire
prigionieri nelle terribili carceri di Siena, fantasmi che sussurrano, che
gridano, che reclamano vendetta. Corpi reali, un tempo. Dante sa
immaginare come nessun altro, ma le sue visioni prendono origine
dall’attenzione al reale. Il reale è il primo gradino. Il reale sono quelle
macerie. Il reale è la mela di San Tommaso.
Si dice che San Tommaso, entrando nell’aula universitaria parigina dove
insegnava filosofia, metteva una mela sul tavolo e diceva ai suoi allievi:
«Questa è una mela. Chi non è d’accordo, può anche andarsene subito». San
Tommaso d’Aquino fu tra i più grandi pensatori del Medioevo nel
raccordare la filosofia pre-cristiana con la rivelazione evangelica. I
compagni a scuola lo prendevano in giro per la corporatura e la timidezza,
lo chiamavano «il bue muto». Morì nel 1274, quando Dante era un
bambino, e per Dante fu un maestro. Non l’unico, ma certo uno dei più
importanti.

La mela è la cosa. I corpi delle vittime sono come la mela. Ci sono. Il


cadavere di Abele ucciso da Caino è lì, come la mela, sotto i nostri occhi.
Non lo possiamo negare. Partiamo da lì, suggerisce San Tommaso. Poi, se
volete, partendo da lì faremo un viaggio che ci porterà in Cielo, ma da lì
dobbiamo partire. Da quella evidenza. L’evidenza della vittima. Non
inventiamoci alibi. Non costruiamo retoriche o sofismi dietro cui
nasconderci. L’umanità è anche questo macello. Allora, mio giovanissimo
amico che spero tu mi stia leggendo, mia giovanissima amica che spero tu
non abbia già buttato via il libro, è a te come te che parlo. Alla tua
attenzione. Perché, se anche i secoli sono passati, questo noi vediamo
ancora attorno a noi. Dopo sette secoli la terra ancora ci appare come
«l’aiuola che ci fa tanto feroci». Il pianeta è ancora arrossato del sangue dei
fratelli. E anche se, a volte, gli adulti preferiscono chiudersi e chiuderci gli
occhi, «non ci pensare, sei giovane, pensa a divertirti», noi quei corpi
martoriati li vediamo eccome. Tu, li vedi. Li vedi travolti da un pazzo
terrorista, annichiliti sotto una pioggia di bombe dal cielo, squarciati dai
delinquenti organizzati, annegati a migliaia nel mare. Tu vedi molto più di
quel che i tuoi genitori o professori credono. Come quel ragazzino
fiorentino che si aggirava nel 1280 tra le macerie della sua città.

Ma c’è un’altra immagine che dobbiamo mettere da subito sul tavolo,


insieme alla Firenze semidistrutta del 1280, insieme alla mela di San
Tommaso. E lo dobbiamo fare ora, ora che questo nostro racconto è ancora
all’inizio. È quella che Dante mostrerà ai suoi lettori dodici anni dopo, nel
1293, all’età di 28 anni, nella sua prima opera, misto di prosa e versi, la Vita
nova. Il ragazzino è diventato un giovane poeta, e inizia il «libello» con un
ricordo infantile, pescato nel «libro de la mia memoria», l’immagine di una
bambina di quasi nove anni, vista quando anche Dante aveva nove anni.
«A li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la
quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare.
[…] Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta
e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello
punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la
secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che
apparìa ne li minimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole:
Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi».
Dove l’ultima frase in latino significa: «Ecco un dio più forte di me, che
viene per dominarmi». Per Dante la «donna» è la «domina», in latino, la
«signora», colei che «domina» appunto, e quindi la connessione tra la
«donna» e il dio più forte che arriva e «dominabitur» è evidente. E più
avanti aggiunge:
«D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu
sì tosto a lui disponsata».
È quindi Amore il «dio più forte» che da lì in avanti segnerà la vita del
poeta, e a cui l’anima del poeta si legherà per sempre. Qui Beatrice appare
come colei che conduce l’anima di Dante verso Amore, Beatrice che sarà
protagonista di tutta la Vita nova e che poi aiuterà Dante, tramite Virgilio, a
uscire dalla «selva oscura», ad attraversare i gironi infernali e ascendere la
montagna del purgatorio e infine a condurlo, nella parte finale del suo
viaggio, alla visione di quell’«Amor che move il sole e le altre stelle», come
nell’ultimo dei 14.233 versi che compongono il poema. L’ultimo verso
scritto dal vecchio poeta ricalca con precisione l’Amore presente
nell’incipit del suo esordio letterario. C’è tutta una esistenza, tra quella
bambina vestita di color «sanguigno» e il luccichio infinito di quelle
«stelle»: un cammino fatto di sofferenze, di tradimenti, di disinganni, di
visioni e creazioni, un cammino che è stato anche la fuga di uno scacciato,
in costante pericolo di morte. «Donna che imparadisa la mia mente»,
scriverà Dante di Beatrice molti anni dopo nel canto XXVIII del Paradiso. E
prima ancora, quando la rivedrà nel paradiso terrestre, e proverà la stessa
«alta virtù» (la parola «virtù» per gli antichi, diversamente che per noi che
in genere la associamo a «persona virtuosa, a modo, per bene», significava
«forza possente»), avvertirà la stessa tremenda virtù che lo aveva trafitto
«prima ch’io fuor di puerizia fosse» (Purg, XXX, 42).

Allora, chi è Beatrice? Non basta qui la mela di San Tommaso: quello è
solo il primo gradino. Proviamo ad andare oltre. Chi è Beatrice? Cosa si
nasconde dietro il suo mistero? Era una donna reale? Era davvero Bice, la
figlia di Folco Portinari, quella che morirà durante la composizione della
Vita nova? O era solo un simbolo inventato, come affermano altri,
sostenendo che quell’età, nove anni, è chiaramente una finzione costruita
sul significato simbolico del numero nove? Chi è Beatrice? Una rivelazione
mistica? La «beatitudine»? La Grazia divina? È l’anima stessa di Dante, in
cui egli si specchia? Chi è, che cosa è questa apparizione che gli fa fremere
«fortemente» il cuore e tremare «orribilmente» i polsi? Sulla verità o meno
di quella visione, sulla verità o meno di Beatrice, da sette secoli si
scatenano le interpretazioni. Si è detto tutto e il contrario di tutto. E
d’altronde Dante stesso confonde le carte: che significa quando scrive: «la
quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare»?
Forse per Dante come per San Tommaso, come per la cultura medievale
tutta, la mela è, e non si discute, ma la mela non esaurisce tutta la realtà. Il
reale è infinitamente più misterioso delle cose che pure sono: il reale è fatto
di tanti piani invisibili, oltre a quelli visibili. Non sono separati, come lo
saranno sempre più dall’epoca moderna in poi. E le figure visibili ci
rimandano all’invisibile, a una dimensione «trascendente», «trasumanante»,
che ci supera. Ma questo non significa affatto svalutare la materia di cui
siamo fatti: Dante è un «poeta del mondo terreno», come ha fatto capire a
tutti Erich Auerbach alla metà del Novecento, in quanto, ai suoi tempi, i
rapporti tra il visibile e l’invisibile non si presentavano segnati dalla
scissione attribuita loro dai secoli successivi. Poesia, filosofia, economia,
teologia: per Dante è tutt’uno. Dio e le montagne e il verme sono tutt’uno.

Allora chi è Beatrice? Per Dante, Beatrice di certo una cosa non è: non è la
«donna ideale», che ancora si ritiene Dante e i poeti come lui avrebbero
voluto celebrare: bella, umile, lo sguardo incantatore, eccetera. Se c’è una
cosa che i poeti dello «stile nuovo» ripetono con assoluta insistenza è che
essi non intendono cantare la «donna» in quanto tale (come avevano
iniziato a fare i poeti provenzali prima di loro, nel XII secolo), ma l’Amore,
la relazione che apre all’Altro da me stesso, la relazione che mi fa da guida
al reale, quindi all’ignoto. All’inatteso. Al destino che mi attende. La
relazione che mi toglie le false certezze, che fonda il mio desiderio su un
terreno più solido, non quello dei beni materiali ma quello dei beni
essenziali, quelli che mi rivelano la verità del mio essere fragile creatura su
questa terra. Allora certo Beatrice è tante cose, assume in sé tanti diversi
livelli di interpretazione, che Dante svilupperà a partire da quella visione
infantile, quel fatto straordinario, fino all’architettura complessa della
Divina Commedia: Beatrice è e diventerà sempre più la Bellezza, la Grazia,
la scala verso il Mistero, la Sapienza che non ha limiti. L’uomo Dante, in
una tradizione occidentale segnata da una concezione patriarcale, farà
genialmente dell’amata una «iniziatrice», ne riconoscerà la qualità di
«guida». Come se conoscesse le parole di Ildegarda di Bingen, mistica e
scienziata tedesca vissuta un secolo prima di lui: «O uomo guarda te stesso:
tu hai in te il cielo e la terra». L’uomo Dante si apre alla Sapienza attraverso
il femminile.

Ma noi, qui, alla Divina Commedia non ci siamo ancora arrivati: noi ora
siamo ancora alle prese con il ragazzino quindicenne in giro per Firenze,
che diventato giovanotto scriverà di questa sua visione infantile. Quel Dante
ragazzino, che contempla la sua città violentata e sventrata, e al tempo
stesso custodisce in sé il germe di Amore. Il germe di quelle potenti visioni
che proviamo da bambini, che ci stordiscono, che dimenticheremo, o
comprenderemo pienamente, solo con il passare degli anni. Fermiamoci
qui, per ora, giovanissimo lettore. Non sto scrivendo questo libro per gli
specialisti, che pure fanno il loro, e di cui mi nutro, riconoscente. So bene
quanta distanza ci sia tra noi e l’epoca di Dante, quanto grande sia il rischio
di fraintendere una lingua, una cultura così lontane dalle nostre. Lo so.
Eppure è un rischio che devo correre. Perché per quanto indietro, forse
Dante ci è ancora davanti. Perché questo libro lo sto scrivendo soprattutto
per i ragazzini e le ragazzine di questo nostro martoriato Paese. Perché
possano subire lo stesso fascino, lo stesso stordimento che provavo io
quando, adolescente, cominciai a entrare in quella cattedrale rilucente di
oscurità che è la Commedia, portato per mano da mio padre. Smisurata
cattedrale! Smisurato stadio dell’anima, dove gli atleti corrono per un
premio che è la loro stessa felicità. Smisurata favola che comprende volti
urlanti di ossessi e disperazioni immedicabili e sentimenti amorosi che
neanche l’inferno pare sconfiggere, e colombe e cieli di zaffiro e risse di
diavoli dal ghigno mortale, e foreste e fiumi di sangue bollente e laghi
ghiacciati e voragini in cui sprofondare, e specchi dove la nostra immagine
si sdoppia, si triplica, si centuplica, e lupi e agnelli divorati dalla sete, e
sapienti pittori e musicisti e pigri liutai e la vertiginosa matematica
dell’Infinito, e pecorelle e puttane e sadici giganti e principi in ginocchio
che chiedono perdono, e santi che danzano come fiamme nel vento, e il
senso nascosto, il perché delle mie lacrime, questo mi travolgeva nella
lettura, la scoperta che quel libro nascondesse e al tempo stesso a me solo
rivelasse il rumore delle mie lacrime, della mia fame di vita, come se Dante
lo avesse scritto proprio per me quello smisurato poema, per me, Marco di
Luciana e Vincenzo. Così puoi leggerlo, giovanissimo lettore, e farlo
risuonare in te quel canto fatto di tre cantiche fatte di cento canti, come se
Dante nell’uscire dalla «selva oscura» della sua disperazione avesse pensato
a te, a te e a nessun altro. Anche a sette secoli di distanza. A costo di
sbagliare, di andar fuori strada, di errare: ma l’errare, si sa, è un maestro
sorprendente. È un rischio da correre, è quello che ci salva. Siamo in
cammino, quindi possiamo inciampare. E perderci. «Nel mezzo del cammin
di nostra vita», così inizia il racconto, in un punto della notte appena prima
dell’alba, di un uomo solo e smarrito. E pieno di paura.

Lo so cosa pensi. Ecco uno che ci viene a far la predica. Che ci parla di
Amore. Ancora? Balle. Ti chiedo solo una cosa. Se queste povere pagine ti
hanno toccato anche solo un po’, in fondo siamo solo a p. 23, continua a
leggere. Se no, butta via il libro che hai tra le mani. Buttami via. Non mi
lamenterò.
I maiali e la grammatica

«Che fai tu in questa fossa?»


Inf, XVII, 66

L’arciprete aveva insistito. «Vincenzo è un ragazzino sveglio, dia retta a me,


Martinelli, continui a farlo studiare». Il nonno Silvio non era così entusiasta
dell’idea: c’era bisogno di braccia, mandare a scuola l’unico figlio maschio
poteva risultare un lusso rischioso per tutta la famiglia. Era il 1932. Tornò a
casa, chiamò Vincenzo che stava giocando con le sorelle, e lo portò nella
stalla. Lo sguardo severo, gli indicò i maiali che grugnivano: «Li vedi
quelli? Hai sentito cos’ha detto il signor arciprete? Se una volta a scuola
non studierai seriamente, te ne torni a badare ai maiali». Vincenzo fece di sì
con la testa. Aveva appena compiuto dieci anni. E fu così che, dal primo
giorno di scuola, tutte le mattine, cominciò a farsi i suoi 24 chilometri a
piedi, da Lemizzone di Correggio a Reggio Emilia, per raggiungere quello
che in città chiamavano il Collegio dei chierici poveri. Si impegnò a
studiare come promesso, ma a dicembre uscì la prima pagella, piena di
insufficienze. Vincenzo percorse i 24 chilometri a piedi nella neve, da
Reggio Emilia a Lemizzone, chiedendosi come rimediare. I maiali lo
aspettavano. I maialini che il nonno andava a prendere in Toscana non
andavano d’accordo con quelli indigeni, occorreva tanta cura e attenzione
perché non si azzuffassero. Un lavoraccio. Al confronto, quei 48 chilometri
a piedi ogni giorno, andata e ritorno, erano una passeggiata. Entrò in casa e
non disse nulla. Non fece vedere la pagella al padre, che tanto ne ignorava
l’esistenza. Di nascosto Vincenzo firmò quella sua prima pagella,
contraffacendo la grafia paterna. Il Natale del ’32 lo si festeggiò in serenità,
in casa Martinelli. Dal secondo trimestre Vincenzo cominciò ad andare
meglio, a rimediare dei buoni voti, e alla fine dell’anno fu promosso.

Il nonno Silvio era un alchimista: faceva il parmigiano-reggiano. Era nato a


Villa Coviolo, Reggio Emilia, nel 1888, e Vincenzo sottolineava «come il
grande poeta Giuseppe Ungaretti, o come, mi voglio rovinare, Edvige
Mussolini». «Mussolini?» «La sorella del Duce, morta nel 1952, due anni
prima che io e tua madre ci sposassimo». Quello era il trucco della sua arte
mnemonica: legare le date della Storia alle date di famiglia, nascite e morti
e avvenimenti che conosceva bene. E anche giocare con gli anagrammi dei
numeri: se mia sorella Maria era nata nel 1958, Vincenzo collegava quella
data, rovesciandola, al 1598 in cui era nato lo scultore barocco Bernini,
mentre con la mia, 1956, ritrovava la nascita del filosofo francese Cartesio,
1596. In questo esercizio i quattordici volumi rilegati in cartoncino rigido
della Enciclopedia Motta gli erano utilissimi. E quando, più avanti negli
anni, cominciò a sentire da me nomi di registi e drammaturghi ai quali
prima non aveva fatto caso, mi rivelò, se per caso non lo sapevo, che il
poeta tedesco Bertolt Brecht era morto lo stesso giorno, mese, anno in cui
ero nato io. E questo, aggiunse, «non te lo dimenticare».

Il nonno Silvio era un casaro: prima aveva imparato l’arte come


apprendista, poi si era messo in proprio e aveva acquistato la licenza di un
caseificio a Campegine, Campésen in dialetto reggiano, un paese in
provincia di Reggio Emilia, a pochi chilometri dalla Brescello dei film di
Peppone e Don Camillo. Mio padre amava molto Guareschi, era uno dei
suoi autori preferiti. Ne apprezzava la passione accesa, quel combattere per
le proprie idee, per la fede e la politica, senza mai arrivare a odiare nessuno.
Ne apprezzava l’umorismo, con cui sapeva affrontare anche i drammi più
grandi. Il nonno Silvio aveva sposato Margherita Bizzocchi, che aveva
conosciuto andando a giocare a briscola nella stalla: gli uomini tiravano le
carte, le donne chiacchieravano e portavano a tutti il lambrusco e le
ciambelle. Lì vide Margherita. I due si fidanzarono, si sposarono, ma poi
Silvio andò militare nella Grande Guerra, e disse alla giovane di sentirsi
libera: poteva morirci in guerra, poteva non tornare più. Quel pensiero
Silvio lo coltivò sul fronte facendo il barelliere, trasportando tutti i giorni i
morti o i feriti. Quando ritornò, c’era un ragioniere che ronzava attorno alla
Margherita, ma la nonna non lo degnava di uno sguardo: aveva aspettato
fedele lo sposo che le si era dichiarato fuori dalla stalla, in una notte di luna
piena. E poi avevano messo su una famiglia numerosa, sette figli, dove
Vincenzo era unico maschio: Rina, Gina, Lina, Vincenzo e la gemella
Laura, Nanda e Anna Maria. Tranne l’ultima, la più piccola, che anni dopo
diventerà professoressa, nessuna delle altre aveva continuato la scuola dopo
la quinta elementare. Erano loro a mandare avanti il caseificio, non c’erano
altri inservienti. Non ce li si poteva permettere. E nel bel mezzo di una
discussione, erano capaci di zittire il fratellino studente con un solido
argomento: «Taci te, che qui sei in minoranza».

Una famiglia guelfa nel cuore della pianura. Estati torride e inverni gelati.
Alti sipari di nebbia che nascondono l’orizzonte e lasciano pian piano
emergere le figure, come visioni. E gente testarda. Mite e testarda. Un po’
matta, anche.
«L’unica cosa interessante è che io, anche in prigionia, conservai la mia
testardaggine di emiliano della Bassa: e così strinsi i denti e dissi: «Non
muoio neanche se mi ammazzano!». E non morii. Probabilmente non morii
perché non mi ammazzarono: il fatto è che non morii. Rimasi vivo anche
nella parte interna, e continuai a lavorare». Così aveva scritto Giovannino
Guareschi, tornato dal campo di concentramento in Polonia, nel suo Diario
clandestino 1943-1945. E sotto la pianura, l’acqua. Un enorme fondo
d’acqua, che rende instabile e fluttuante la terra. Una grande palude, con le
sue risonanze: la morte là sotto si mescola con la vita. L’invisibile, che è
vita e morte allo stesso tempo, fa da basamento tremolante al visibile che è
sopra. Là sopra si agita la nostra esistenza materiale che, come la pianura,
ha le sue radici affondate in quella massa instabile e fluttuante. E la mela di
San Tommaso? Nel suo essere lì, concreta, testarda e a suo modo
indiscutibile, dove poggia le sue radici?

Pare che Dante Alighieri avesse una trisavola che veniva dalla pianura
padana. Nel canto XV del Paradiso, Dante incontra l’antenato fondatore
della sua famiglia, Cacciaguida, che gli rivela che la loro stirpe prende il
nome di Alighieri dalla di lui sposa: «mia donna venne a me di val di Pado /
e quindi il sopranome tuo si feo». (Par, XV, 137-138).

Arrivato a tredici anni, e superati tutti gli esami, Vincenzo terminò gli studi
nel Collegio dei chierici poveri. Ora, se voleva, poteva entrare in
Seminario. Non per diventare sacerdote, ci tenne a precisare l’arciprete al
nonno Silvio, ma per poter continuare a studiare. Il ragazzo ha talento. Se
poi gli verrà la vocazione… e anche stavolta Silvio Martinelli, dopo aver
brontolato qualcosa tra i denti che l’arciprete non comprese, acconsentì. In
fondo le figlie bastavano a mandare avanti il caseificio, a Enzo si poteva
rinunciare ancora. Papà la smise di fare i suoi quasi 50 chilometri al giorno
a piedi, e andò a vivere in pianta stabile nel Seminario di Marola, un’antica
abbazia della contessa e vice regina d’Italia Matilde di Canossa, potente
feudataria e sostenitrice del papato nella lotta per le investiture, vissuta tra
l’XI e il XII secolo. Il Seminario era situato nel cuore dell’Appennino, a 35
chilometri da Reggio: da là non si tornava giù a piedi, nella Bassa. Il
Seminario era un’istituzione in cui, una volta entrati, si tagliavano i ponti
sia con le famiglie, sia con il mondo esterno: in un anno erano permessi non
più di una ventina di giorni di licenza. Dormivano in grandi camerate, e
d’inverno il freddo, in mezzo al bosco di castagni, era insopportabile.
Quando cominciai a frequentare il liceo, papà mi mostrò orgoglioso il
Turazza, il manuale di grammatica sul quale studiava il latino in seminario.
«Non scherzavano i preti, e ci facevano rigar dritto: interrogati tutti i giorni,
le declinazioni e le coniugazioni dei verbi a memoria! Vietata ogni
giustificazione, bisognava saperle e baste». Sfogliando il volume del Prof.
Eugenio Turazza, la cui firma campeggiava sul frontespizio come
contrassegno che la copia era autentica, vidi qua e là delle strisce nere e blu.
«È inchiostro?» «Eh, sì», rispose Vincenzo. «E queste?» chiesi io indicando
delle macchie diverse, violacee. «Quelle? Ah, be’… quello è vino… è
lambrusco… un buon lambrusco se non ricordo male…» Vincenzo passò
dal ginnasio al liceo con voti eccellenti, ma la vocazione non venne. «Ma
sei sicuro di voler fare il prete? Guardami in faccia! Perché o lo si fa bene o
niente!» lo interrogava la sua gemella Laura, quando Vincenzo tornava a
Campegine in licenza. Lui ci pensò anche seriamente, sapeva che alla
madre avrebbe fatto piacere: Margherita aveva già un fratello prete e una
sorella monaca di clausura. Ma non era quello il destino di Vincenzo.
Finché un giorno chiamò Laura da parte: «Mi sa che finito il liceo smetto.
Torno a casa». «Sei sicuro?» lo incalza la gemella, puntandogli il dito
contro. «Be’, sai… le volte che mi è capitato di uscire… e vedere le
ragazze…»

Una famiglia guelfa che alle elezioni del ’48 si schierò con Guareschi e con
De Gasperi. Vincenzo mi raccontò che, tornato dalla guerra, vide suo padre,
che non aveva mai preso la tessera del fascio, impegnarsi in quelle elezioni
e diventare rappresentante di lista per la Democrazia cristiana, mentre l’ex
gerarca fascista Gabbi, proprio quello che lo aveva mandato in guerra, era
rappresentante di lista del Partito comunista. Lì mi si cominciarono a
chiarire le idee, aggiunse sorridendo. Gli obiettai che in altri paesi forse era
il contrario, e l’ex gerarca era nelle file dei cattolici. Può darsi, mi rispose
lui, ma a Campésen, e sottolineò quel nome in dialetto, la situazione era
quella. Vincenzo aveva diversi amici tra i «compagni», e con loro discuteva
accanitamente fino a notte fonda. Erano leali, diceva. Nonostante Stalin.

La politica in quegli anni non era la sola passione. Siamo nel ’49, la
Democrazia cristiana ha vinto le elezioni. Vincenzo è diventato il presidente
dei giovani dell’Azione cattolica. Don Ferrarini chiama lui e Nedo Nadi e
gli fa: l’anno scorso abbiamo guadagnato bene con la recita, bisognerebbe
rifarla. Però c’è un problema: alcuni attori e attrici dell’anno scorso sono
venuti a mancare. La Luciana Gherpelli, per esempio… Vincenzo drizza le
orecchie: la Luciana Gherpelli? Aveva già adocchiato la Luciana da un po’.
Convinciamoli, dice Vincenzo, questi che non vogliono tornare. E pensa
soprattutto alla Luciana. C’è anche il Cristo, il ragionier Barbieri, anche lui
non vuole più recitare, e senza Cristo come facciamo, domanda Don
Ferrarini. Convinciamoli, ripete deciso Vincenzo. Nedo Nadi si offre di
accompagnare Vincenzo dalla Gherpelli, abita sotto casa mia, dice.
Vincenzo e Nedo Nadi vanno a trovare la Luciana. Maestra appena
diplomata, fa la commessa nel negozio di alimentari delle Acli. Vincenzo ha
gli occhi azzurri, un profilo greco, ai piedi sandali da frate. Luciana è
colpita dagli occhi e dal profilo, infastidita dai sandali. La Luciana si
schermisce, Vincenzo insiste. Va bene ci penserò, taglia corto la Luciana.
Iniziano le prove della Passio Christi, e in scena ci sono sia la Luciana che
Vincenzo: la prima recita la parte di Claudia, la moglie del procuratore
Ponzio Pilato, il secondo è costretto a fare la parte di un vecchio sacerdote
del Sinedrio, vista la mancanza del titolare. La zia Laura invece è nella buca
del suggeritore, e da lì segue e osserva e capisce tutto, anche che tra
Vincenzo e Luciana sta nascendo qualcosa… ma attenzione, la zia Laura è
diventata buona amica con la Luciana, e a tavola affronta il gemello a muso
duro: «Comportati bene con la Gherpelli, che è molto bella e merita di
essere trattata seriamente. Guarda che, se non ti comporti bene, ti metto
fuori di casa». Entrambi però sono già fidanzati, la Luciana con un tal
Giuseppe, siciliano, e Vincenzo con una friulana di cui anni dopo non
ricorderà più il nome. Nel frattempo… Vincenzo è attratto da una ragazzina
della compagnia, che avrà almeno dieci anni meno di lui… La situazione è
questa: papà 27, mamma 21, e la misteriosa e certo seducente ragazzina
17… in più ci sono il siciliano e la friulana che forse non stanno lì a
guardare… insomma, è una Passio Christi complicata e affollata… sta di
fatto che papà fa un errore forse imperdonabile: Don Ferrarini gli affida, in
qualità di presidente dei giovani dell’Azione cattolica, un sacco di
cioccolatini da distribuire alla compagnia. Vincenzo sbaglia tutto: privilegia
la misteriosa adolescente, dando più cioccolatini a lei che agli altri.
Sconcerto! La Luciana si infuria, e vuole mollare tutto, Passio Christi e
Vincenzo, che però a dirla com’era non poteva essere mollato perché i due
non stavano ancora insieme, lui era ancora fidanzato con la friulana senza
nome, mentre lei era legata al siciliano Giuseppe. Prima che questo affaire
dei cioccolatini rovini tutto e prima che la gemella suggeritrice esca dalla
buca e sbatta fuori di casa il gemello poco serio, papà ha già rincorso la
mamma, le ha chiesto perdono, le ha dichiarato il suo amore, e alla prima
dello spettacolo i due ufficialmente sono fidanzati.

Di Nedo Nadi si sa che è poi finito nei testimoni di Geova.

Vincenzo e Luciana si sposarono nel 1954. «Non avevo capito perché papà
mi aveva proposto il viaggio di nozze in Svizzera», ci raccontava la
mamma. Un motivo c’era: i campionati del mondo di calcio. E c’era l’Italia,
in un girone difficile con gli svizzeri padroni di casa, l’Inghilterra e il
Belgio. Il motivo lo capì sul posto, quando Vincenzo le propose di andare
insieme a vedere almeno una partita. La mamma non se la prese, e a
Losanna lasciò che papà andasse allo stadio, lei preferì aspettarlo su una
panchina del lago, a prendere il sole e a godersi il passeggio. Vincenzo
ritornò mogio mogio poche ore dopo: gli azzurri avevano preso una sonora
sberla dalla Svizzera, e alla fine della partita avevano pure aggredito
l’arbitro brasiliano, reo di aver favorito i padroni di casa, inseguendolo
anche negli spogliatoi. L’Italia non passò il girone di qualificazione, e i miei
si godettero la luna di miele senza altre interruzioni. Li ho qui sotto gli
occhi, piccole fotografie in bianco e nero con il bordo seghettato, la mamma
splendida con un vestituccio arioso a fiori e un paio di scarpe eleganti, che
in tutta la mia vita non ricordo di averla mai vista portare tacchi così alti,
papà serio, in completo chiaro e due baffi alla Domenico Modugno e lo
sguardo lontano, forse sta pensando ancora al goal annullato ingiustamente
a Benito Lorenzi, detto «Veleno», il centravanti degli azzurri. Sembrano due
attori veri, due attori di cinema di quel tempo là.

Siate sempre allegri nel Signore. Ve lo ripeto: siate allegri.


(Lettera di San Paolo ai Filippesi, 4. 4)

Delle decine e decine di frasi in latino che papà mi buttava lì, come ami per
prendere il pesce, molte mi tornano in mente nelle situazioni più disparate.
Affiorano come relitti dal mare. Quella che più ricordo, e che ripeto a me
stesso in mezzo alle furie e alle tempeste della vita e del lavoro, è: age quod
agis. Fa’ bene quello che fai. Concentrati su quello. Non farti prendere
dall’agitazione, dall’ansia, dai demoni del sono-sempre-indietro, dovrei fare
questo e quello e anche quell’altro, e poi le cose non mi riescono, e mi
sembra di affondare, no, age quod agis, ricomincia. Non farti travolgere.
Ricomincia. Ti sembra, sembra a te di stare all’inferno, e forse è anche un
po’ vero, ma dall’inferno si esce. Ricomincia. Ricomincia col fare proprio
questo, questo compito che ti sta davanti, nella luce chiara del presente,
proprio questo, questo che ti soffoca, che ti sembra insormontabile. Non è
insormontabile. Ricomincia. Age quod agis: fallo, e fallo bene. Fare bene è
pensare bene. Fallo con pazienza, poi da questo passerai a quello, e a
quell’altro, e a quell’altro ancora, e via di questo passo. E pazienza se non
riuscirai a farli tutti, quei passi. Ci penseranno i sogni, e la notte, e il tuo
Dio misterioso, a finire il lavoro.

Nella tua pazienza c’è la tua anima. Questa massima alchemica, antica
come il mondo, Vincenzo non l’ha mai sentita ma, se l’avesse sentita,
certamente l’avrebbe fatta sua.
Bianchi, Rossi e Neri

Era stata la politica a portarci in Romagna, nel 1959. Scendendo da Reggio


lungo la via Emilia, con deviazione verso nord-est all’altezza di Castel
Bolognese, mio padre arrivò a Ravenna con tutta la famiglia: dopo il
viaggio di nozze in Svizzera eravamo nati prima io e poi mia sorella Maria.
Vincenzo era stato assunto in pianta stabile nella Democrazia cristiana
come «addetto alla segreteria tecnica», un ruolo all’interno del partito di
natura «tecnica», appunto, non politica. Doveva servire il partito, non le
singole correnti. Per poco mio padre, anziché a Ravenna, non fu mandato a
Caserta: ma di questo parlerò più avanti. La prima lezione che Vincenzo mi
fece sulla «politica ai tempi di Dante» era semplice come un gioco, con
quei colori netti a distinguere le «squadre», come le maglie colorate dei
calciatori: e d’altronde io ero alle scuole medie, avrò avuto dodici anni. «Il
resto lo imparerai da te», mi diceva, «ma intanto vediamo di mettere lì un
po’ di basi». Eccole, le sue basi.

Al tempo di Dante c’erano i guelfi e i ghibellini. Metti i Bianchi contro i


Rossi. Li vedi? I guelfi erano alleati con il papa, i ghibellini con
l’imperatore. In quei tempi papa e imperatore si litigavano per chi dovesse
avere la supremazia. Stai attento, parliamo di sette secoli fa, io non c’ero,
ma qualcosa ho studiato e tu prova a seguirmi. I guelfi e i ghibellini, due
squadre, semplice no? Ma poi la cosa si complica. Dante abita a Firenze,
giusto? A Firenze vince il partito dei guelfi, e Dante si trova a governare.
Ma a Firenze il partito si divide al suo interno. Da una parte i cosiddetti
guelfi bianchi, dall’altra i cosiddetti guelfi neri: non abbiamo appena detto
che erano tutti della stessa razza, tutti guelfi? Dov’era la differenza?
Diciamo che i Neri erano «servi» del papa di allora, Bonifacio VIII, qualsiasi
cosa quello diceva loro la facevano, mentre i Bianchi, e Dante tra loro,
volevano essere sì obbedienti a Roma, ma non «servi», mi segui?
Obbedienti ma non servi: c’è una bella differenza. E il papa cosa fa? Strilla.
Si mette in mezzo. Briga a tal punto che fa vincere i suoi, i Neri. Dante
allora va dal papa a protestare, ma lì capisce subito che non è aria, e fugge
da Roma, e per star sicuro non torna neanche a Firenze, dove i Neri hanno
già preso il potere. E questi, una volta al potere, fanno una multa bella
pesante a Dante e a quelli come lui, e gli danno pure due anni di confino,
dopodiché, dicono i Neri minacciosi, vi aspettiamo a Firenze. Pagare la
multa e tornare a Firenze? Dante gli dà un braccio, se mi permetti
l’espressione. Allora i Neri, invece di ragionare, esagerano e condannano
Dante Alighieri al rogo. Dante e gli altri Bianchi in esilio si organizzano,
cercano di costruire un fronte comune, anzi, trovano anche qualche alleato
tra i ghibellini, che è tutto dire… Ma alla fine i Bianchi, sì, figlio mio, i
Bianchi si dividono pure loro, al loro interno: Bianchi contro Bianchi. Un
manicomio. E allora Dante a un certo punto manderà tutti a quel paese e si
sentirà costretto a fare «parte per se stesso», solo come un cane. Eravamo
partiti da due grandi schieramenti, i guelfi e i ghibellini, il papato e
l’impero. E siamo arrivati a uno solo come un cane.

Più avanti negli anni, quella lezione di storia lui la applicava alla politica
del suo tempo. Lo schema era quello, ma tradotto al presente. I guelfi erano
i democristiani, i ghibellini i comunisti. E nella DC c’erano i Bianchi, come
Moro e Zaccagnini, e i Neri, come Andreotti. A papà piacevano i Bianchi,
quelli come Andreotti meno: fanno un po’ troppo i loro comodi, diceva. E
certo ai Bianchi come Moro e Zaccagnini i ghibellini-comunisti non
dispiacevano. Quando erano leali, ovvio. Be’, speriamo che non si arrivi
alla fine ai Bianchi contro i Bianchi contro tutti, concludeva Vincenzo. Tu
pensaci, figlio mio.

Sappiamo, dal racconto di Vincenzo, che quell’adolescente che avevamo


lasciato a scrutare le macerie per strada arriverà un giorno al governo della
sua Firenze, e possiamo aggiungere che la politica lo afferrerà, come
un’ossessione di giustizia. Ma per ora no, niente politica. Sono passati
tredici anni e, come vi avevo anticipato, nel 1293 quel giovane di famiglia
guelfa si afferma in Firenze come un promettente poeta. La sua opera
prima, la Vita nova, viene salutata come un esordio interessante, per quel
suo intrecciare il piano autobiografico e quello simbolico. È centrata sulla
figura di Beatrice, figura reale e simbolica allo stesso tempo, mistero che
allude a quell’Amore cui il poeta si dice «fedele». E così, nella Vita nova, si
rivolge agli amici e colleghi poeti, chiamandoli «fedeli d’Amore». Il libro
comincia con la visione infantile di Beatrice per passare a un nuovo
incontro tra i due, esattamente nove anni dopo, al diciottesimo anno d’età: e
di nuovo Dante prova la stessa potente emozione dell’infanzia. L’opera si
snoda attraverso altri sogni e visioni e ragionamenti filosofici, per poi
arrivare alla morte di Beatrice, morte che lascia il poeta in uno stato di
totale smarrimento e di abbandono. Non è semplicemente la morte di una
persona: sembra la fine dell’Amore stesso, della felicità possibile in questa
vita. Durante di Alighiero di Bellincione, detto Dante, parla di Beatrice
come un mistico parla di Dio. O della propria anima. La Vita nova termina,
al capitolo 42, con una solenne promessa:

[…] apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non
dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di
venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui
a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello
che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima
se ne possa gire a vedere la gloria della sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale
gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.

Ma perché Dante e i suoi amici poeti scrivevano in volgare, in dialetto


diremmo noi oggi, visto che la lingua ufficiale della cultura era da secoli il
latino? Lo spiega lui stesso: per farsi capire dalle donne. In una cultura da
secoli patriarcale, questi giovani scrittori andavano controcorrente. E non
c’entrava solo la misoginia di certa Chiesa: il disprezzo della donna precede
il cristianesimo, se pensiamo che in Atene le donne non potevano essere
«cittadine» al pari degli uomini, non avevano diritti, e che per Aristotele la
donna non aveva neppure l’anima. Certi monaci cristiani avevano
continuato l’opera, definendo le donne «sacco di escrementi». La poe-sia
d’amore, dice Dante, nacque perché «il primo che cominciò a dire sì come
poeta volgare si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a
la quale era malagevole d’intendere li versi latini». (Vn, XXV). Il volgare è la
lingua «alla quale i bambini sono avvezzati da chi sta loro accanto, quando
dapprima cominciano ad articolare le parole […] quella che si apprende
senza norma alcuna, imitando la nutrice» (Dve, libro primo, I).
Tale scelta è scardinante: il latino era lo strumento della cultura alta,
tipicamente maschile, creata dai dotti per comunicare tra loro, fuori dal
tempo e dalla storia, un patrimonio immutabile, sottratto alla continua
trasformazione delle lingue reali. Dante non lo disdegna affatto: in latino,
negli anni dell’esilio, scriverà il De vulgari eloquentia, per rivolgersi ai
dotti e promuovere il «volgare illustre» come lingua «nobile». Ma con la
Vita nova, con le rime e i sonetti, Dante parla alle donne. A quelle cui è
negata ogni istruzione. Alle sottomesse.

Poiché sono gli uomini a fare le Chiese, è inevitabile che le Chiese diffidino
delle donne. Come del resto diffidano di Dio, cercando di addomesticare le
une e l’altro, cercando di contenere la vita tumultuosa nell’alveo dei riti e
dei precetti. La Chiesa di Roma, in questo, somiglia a tutte le altre. Nel
1310, quando Dante sarà in sofferenza in esilio, una francese viene messa
sul rogo, la stessa condanna che il fiorentino riuscirà a scampare fuggendo
tra i monti. La colpa di questa donna, Margherita Porete, è aver scritto un
libro, Lo specchio delle anime semplici. È un dialogo con tre personaggi:
Amore, Anima e Ragione: tutti e tre femminili. In questo libro Margherita
Porete non si serve del latino dei preti e dei dotti ma del provenzale dei
trovatori, così come Dante usa il fiorentino: per entrambi, sono le lingue dei
passeri e dei bambini e della sovrabbondanza famelica d’amore. Non si
rivolge all’Altissimo: si rivolge al Vicino-Lontano. Parla a Dio come
all’Amato, perché sempre Amore ci spiazza, è qui quando lo temiamo
lontano, è già altrove quando ci illudiamo di possederlo. E tutti su questa
terra abbiamo la stessa dignità, la stessa assoluta eguaglianza, in virtù del
semplice apparire, bagnati dal medesimo sole d’amore sovrano. Insieme
alla sua carne, una frase del libro di Margherita Porete brucia sul rogo, e ci
parla a distanza di secoli: «Di nessuno si può dire che è insignificante,
perché è chiamato a vedere Dio senza fine». Questa frase riassume in un
lampo il viaggio che Dante farà dalla «selva oscura» alla visione del canto
XXXIII del Paradiso.

Margherita, come la madre di mio padre.

Dunque quel giovane fiorentino arriverà alla politica, ma per ora no, per ora
sogna e scrive di Amore, stringe amicizia con musicisti, come Casella, che
mettono in musica e cantano i suoi testi poetici, ama disegnare gli angeli
«su certe tavolette» e si occupa di pittura, e fa il suo dovere di cittadino.
Ovvero presta servizio in guerra. Quelle macerie viste da adolescente gli
ritornano come un’ossessione: come un dovere. Questa volta non si limita a
osservare, questa volta deve indossare l’armatura e andare a combattere. Gli
storici non hanno certezze su quante furono le battaglie cui partecipò in
giovinezza perché, di dati storicamente certi e fondati per quel che riguarda
l’esistenza di Dante, ne abbiamo pochissimi, ma, i più affermano, nel 1289
Dante era sicuramente a Campaldino, a difendere il suo Comune, a
combattere tra le fila dell’esercito guelfo contro i ghibellini venuti da tutta
Italia, prevalentemente aretini. Il luogo individuato per la battaglia era la
Piana di Campaldino, fra Poppi e Pratovecchio, vicino alla chiesetta
chiamata di Certomondo, sul lato sinistro dell’Arno. Dante apparteneva al
reparto dei feditori a cavallo, quelli cui toccava l’onere (l’onore?) del primo
assalto. La mattina di sabato 11 giugno, San Barnaba, iniziò la battaglia. I
primi ad attaccare furono i ghibellini, scatenando l’ondata dei loro trecento
feditori a cavallo. Immaginiamocelo il nostro poco più che ventenne in
prima linea, rivestito di maglia di ferro in mezzo ai suoi compagni
fiorentini, armati alla leggera come tocca ai feditori a cavallo,
immaginiamocelo guardare quella massa colorata e urlante che gli sta
arrivando addosso. Il galoppo di quei trecento cavalli è un tuono che spacca
le orecchie, il terreno si apre sotto gli zoccoli, è il rimbombo dell’inferno
che si rovescia sulla prima linea fiorentina. I feditori guelfi serrano le file,
qualcuno prega silenzioso, qualcun altro sputa bestemmie: il momento dello
schianto arriva per tutti, e ricevono l’urto in pieno, come una valanga.
Tantissimi di loro sono disarcionati, e tra questi Dante, cadono a terra e
fanno appena in tempo a vedere i loro cavalli trafitti dalle lance annaspare,
e continuano il combattimento appiedati, con le asce, le spade e le mazze.
Metallo tagliente e legno duro e cervelli che si spappolano. I feditori
ghibellini si incuneano profondamente nello schieramento nemico, lo
aprono in due. Lo scontro si fa disordinato, è tutto una zuffa, un duello
infantile e macabro. E il terreno si riempie di corpi doloranti, feriti,
sventrati, decapitati. Immaginiamolo il nostro poeta, amante dei sonetti e
della musica, che sa disegnare gli angeli, immaginiamolo andare incontro al
nemico in una lotta corpo a corpo, in mezzo a uomini che gridano per la
paura e per l’esaltazione, uomini che non sanno se arriveranno a vedere la
luce del tramonto, e intanto già feriti perdono sangue ma continuano a
difendersi e ad attaccare, non pensare, non pensare, non c’è tempo per
pensare, c’è tempo solo per spaccare il cranio al nemico, se non vuoi che lui
faccia altrettanto. Intanto sono entrati in azione i balestrieri, nuvole di
frecce volano da una parte e dall’altra, ma le frecce scendono a casaccio, e
il compagno che cade trafitto al tuo fianco cade per colpa di una freccia
tirata dai nostri, ma possibile? Possibile? La giornata è secca, il caldo non fa
respirare, il caldo è feroce come quei guerrieri, come quei padri di famiglia
tutti credenti, tutti cristiani e timorati di Dio, e si alza la polvere, una
montagna di polvere che si mescola al sudore e al sangue. La cavalleria
guelfa è arretrata, ma le ali dello schieramento, composto di fanteria, hanno
retto. A quel punto cominciano a chiudersi a tenaglia, accerchiando
cavalleria e fanteria ghibelline. E un gruppo di «riserve», guidato da Corso
Donati, attacca il fianco destro dei ghibellini, separando i cavalieri dai fanti.
E quella fu forse la manovra che decise le sorti della battaglia.
Ma di questo poteva rendersi conto un’aquila dall’alto dei cieli, questo
possiamo studiarlo oggi nei manuali di storia militare, ma Dante? Di cosa si
sarà reso conto Dante, in mezzo a quel macello? Mentre sei in mezzo a
quelle carcasse che si sbriciolano, mentre le budella tutto attorno escono dai
corpi come serpenti, mentre un rivolo di sangue si allarga fino a diventare
un fiume, un Flegetonte infernale, di cosa si sarà reso conto in mezzo a quei
dannati, il feditore non più a cavallo Dante Alighieri? Forse si sarà fermato
un istante in quell’orrore, completamente rintronato, le orecchie che non
sentono più nulla, come un epilettico con la bava alla bocca, il poeta che
tremava per Amore, ma che tremiti sono questi che lo attraversano ora, e
dove sei, Amore, ora, dove sei tu che ti proclami Salus, Salvezza, tu che
salvi le nostre anime, perché sei lontano da questo campo insanguinato,
perché? Si sarà fermato il guelfo Dante a guardare il corpo del ghibellino
Buonconte di Guido da Montefeltro, orrendamente mutilato, trascinato via
dalla briglia di un cavallo in cui è rimasto impigliato, avrà visto Dante quel
cavallo trascinare quel cadavere… o era ancora vivo il ghibellino? L’avrà
visto trascinarlo fino all’Archiano, il torrente in piena lì vicino, come per
portarlo a un sepolcreto d’acqua, a un lavacro purificatore, l’avrà visto quel
dettaglio insignificante in mezzo a quel tumulto senza significato?
Leonardo Bruni, un grande storico fiorentino vissuto decenni dopo, venne
in possesso di una lettera in cui Dante raccontava «la forma della battaglia»
di Campaldino, dicendo di aver provato prima «temenza molta», paura e
orrore, e alla fine «grandissima allegrezza per li varii casi di quella
battaglia». E in quella lettera Dante «disegna la forma», cioè i «varii casi»
di quel combattimento, con parole da stratega militare: non credo che il
Dante in carne e ossa, durante la carneficina, abbia avuto modo di tenere
quel distacco, forse quel che è successo sulla piana di Campaldino l’avrà
capito dopo, mettendo in fila i fatti, i racconti, mentre quando ci sei, sulla
piana di Campaldino, sei come una belva in uno scontro feroce, sei preda
della «temenza», pensi solo a difenderti e attaccare, attaccare e difenderti, e
schivare i colpi, e tutti oggi sono i tuoi carnefici, tutti questi che han deciso
di venire in questo giorno proprio su questa piana verde per ammazzare
proprio te, Dante Alighieri, tutti questi sono i tuoi Pilato e i tuoi Caifa, e i
centurioni romani che ti attaccheranno alla croce… allora alla fine, alla fine,
quando vedi i nemici che scappano e battono in ritirata, allora sì che
finalmente provi «grandissima allegrezza», e quasi non ci credi che sia
finita quella mattanza durata un tempo infinito, e i tuoi capitani ti danno il
segno che è ora di iniziare la «caccia», di fare il più possibile prigionieri
vivi per poi chiedere i soldi dei riscatti, Arezzo è ricca, vedrai quanto ce li
pagheranno, anche se han le gambe spezzate, anche se li abbiamo accecati,
la «caccia» è peggio della battaglia, più cinica e subdola, correre dietro agli
sconfitti per sottrargli di tutto, insegne, armi, equipaggiamenti, madonnine
al collo se le hanno.

C’erano le farfalle, quel giorno d’estate a Campaldino? Sulla piana di erba


verde, fecero in tempo a scappare via, prima di essere travolte dagli
eserciti? O qualcuna raccolse nell’aria gocce di rosso sangue sulle ali, e le
portò lontano?

Nel tardo pomeriggio scoppiò un temporale estivo. Si disse che erano stati
dei diavoli, infuriati contro gli angeli che stavano salvando troppe anime,
pentite al tramonto della loro vita. La caccia fu sospesa. La battaglia era
finita. Era durata almeno dieci ore. Si contarono 1700 morti tra i ghibellini,
300 tra i guelfi. Alcune centinaia di ghibellini morirono poi nelle carceri
fiorentine. Il Comune di Firenze era salvo, quel macello decretò la sua
supremazia sulla intera Toscana.
Dante è arrivato ai trent’anni ed è pronto a iniziare il suo impegno civico.
Non solo la guerra lo ha preparato: negli anni che precedono la sua attività
politica, ha frequentato le scuole filosofiche e teologiche presenti a Firenze,
gli Studia di alcuni ordini religiosi, corrispondenti alle nostre università: in
Santa Maria Novella insegnavano i domenicani, allievi di San Tommaso,
mentre in Santa Croce c’erano i francescani, e in particolare gli esponenti di
spicco del movimento degli Spirituali, ovvero di quella «corrente»,
all’interno del francescanesimo, che intendeva la lezione di povertà di
Francesco d’Assisi nel modo più radicale. Erano in conflitto con i
Conventuali, chiamati così perché costruivano conventi là dove il fondatore
aveva detto che bisognava accontentarsi di capanne di frasche. Dante
irrobustisce il suo sapere e le sue competenze, e così diventa un cittadino
che ha tutto quel che occorre per presentarsi sul terreno della politica: è
poeta, filosofo, teologo, vanta anche l’avere avuto come insegnante privato
Brunetto Latini, notaio di alto livello e pure lui poeta, l’intellettuale più
rappresentativo della Firenze comunale, e infine tutti sanno che il giovane
Alighieri ha dimostrato il suo coraggio a Campaldino. Ed è pure sposato.
Sposato? Ci siamo forse persi qualcosa? In un documento del 1329 si
accenna a un altro documento, andato perduto, del 9 febbraio 1277, che
indica in «200 lire di fiorini piccoli» la dote che la famiglia di «Gemma di
Manetto Donati» reca a «Dante di Alaghiero»: instrumentum dotis,
strumento della dote, così viene definito il documento del 1277. Eccoli, i
due piccoli: hanno entrambi 12 anni. Dietro di loro, le due famiglie: li
hanno portati davanti a un notaio e li sposano. Così usava allora, così si è
usato per secoli. Eccoli lì, Dante e Gemma: entrambi a testa bassa, faticano
a guardarsi negli occhi, si spiano appena mentre i genitori parlano contenti
di affari. Quella di Alighiero di Bellincione è una famiglia «popolana», dal
patrimonio «mediocre e sufficiente al vivere onoratamente», scriverà Bruni
nella sua Vita di Dante: è ben felice di sposare il primogenito a una
rampolla di famiglia «nobile», tra le più importanti di Firenze, appartenente
alla più antica oligarchia cittadina. Insomma, anche se i Donati, visto i gran
signori che sono, potevano corrispondere una dote un po’ più generosa alla
loro figliola… gli Alighieri ci hanno comunque fatto un affare. Il contratto è
stato stipulato, gli sposi tornano alle loro case, e lì rimarranno fino al
raggiungimento della maggiore età, quando, probabilmente sui vent’anni, il
matrimonio sarà effettivamente consumato. Avranno tre figli: Jacopo, Pietro
e Antonia. Forse anche un quarto, Giovanni, ma sulla reale esistenza di
Giovanni i dantisti continuano a discutere.

Cosa sappiamo di Gemma? Niente. Cosa sappiamo di Dante marito?


Niente. Non ci sono nell’opera di Dante allusioni dirette e esplicite alla
moglie. E neanche Jacopo e Pietro, che saranno i primi dopo la morte del
padre a commentare la Commedia, ce ne parlano. Sappiamo da altri atti
notarili che sopravvisse al padre dei suoi figli, dopo il 1321. Quella vita
matrimoniale, figli compresi, è tenuta da Dante nel nascondimento: non
nella vita pubblica, dove tutto era alla luce del sole e delle relazioni che
univano le famiglie degli Alighieri e dei Donati, ma nella sua opera.
Silenzio. Perché, me lo sono sempre chiesto.
Il poeta in politica

Si dice: Dante-Alighieri-il-sommo-poeta. Lo si dice come lo potrebbe dire


un sonnambulo. Siamo detti, e crediamo di essere noi a dire. Accumuliamo
dati e presunzione, e crediamo di sapere. Ma non c’è sapore, in quel che
sappiamo. Lasciamo venire le parole, ma spesso quelle parole non sono le
nostre, esse vengono in un ordine che è l’ordine degli automatismi, delle
frasi fatte, del dicono tutti così. Un ordine che ci ingabbia, fatto di
menzogne e di abitudine. Pochissime sono le parole vere che ci scambiamo
ogni giorno. E quando ci innamoriamo, ecco, ecco che cominciamo a
parlare davvero. Forse si aprono certi libri con la speranza di trovare, lì
dentro, un luogo dove rinascere.

Firenze è un Comune autonomo: per decenni ha gravitato nell’orbita


dell’impero, poi dal 1280 si è instaurato in città un regime guelfo, in
rapporti privilegiati con il papa di Roma. Scacciate le grandi famiglie
ghibelline, sono rimasti a dividersi il potere i cosiddetti Magnati, cioè i
«nobili», e il «popolo», ovvero i borghesi e gli artigiani, divisi in «popolani
grassi», quelli delle Arti maggiori, come ad esempio i commercianti di
denaro e i giudici e i notai, e i «popolani minuti», quelli rappresentati dalle
Arti minori: tra gli altri, i fabbri e i macellai e i fornai. Ma qual è la grande
differenza tra la nobiltà e il popolo? Il cavallo. Chi ce l’ha e chi non ce l’ha.
I nobili combattono a cavallo, per questo sono chiamati «cavalieri», il
popolo combatte a piedi. I nobili sono clan che possiedono le terre e si
riconoscono in un antenato comune, il popolo si riconosce nei propri
mestieri, le Arti appunto. I nobili non lavorano la terra ma la fanno lavorare
ai contadini, non si sporcano le mani, i nobili vantano privilegi per la loro
«nobiltà di sangue», ereditata o «comperata», il popolo tende a combattere
quei privilegi. Ma l’egoismo del guardare ai propri interessi accantonando
qualsiasi altra considerazione è una malattia antica: nei momenti di crisi, di
recessione economica, i «popolani grassi» vanno a cercare l’alleanza con i
«popolani minuti», appena l’economia torna a crescere li abbandonano e
tornano a flirtare con le famiglie ricche e aristocratiche.

Mi piace la definizione di popolani «grassi». È materica: pance che si


arrotondano, guance che si arrossano. Rende l’idea.

Quando Dante comincia a partecipare alla vita politica, Firenze ha un


governo in cui è preponderante l’influenza del popolo, soprattutto quello
rappresentato dalle Arti maggiori. È uno degli esperimenti di democrazia
più avanzati dell’epoca. Al vertice del governo della città ci sono un organo
di magistratura, il Priorato, e accanto il Consiglio dei Cento, deputato a
deliberare su tutto ciò che comporta un impegno economico rilevante da
parte del Comune. Sia i priori che gli appartenenti al Consiglio dei Cento
provengono dal popolo: il popolo teme i nobili, teme la loro arroganza, il
loro pretendere «le non giuste reverenze», il loro stile di vita violento, e al
potere quindi vuole solo gente sua. Gente iscritta a un’Arte. Gli studi di
filosofia permettono a Dante di iscriversi all’Arte dei medici e degli
speziali, e così iscritto viene eletto a far parte del Consiglio dei Cento: è un
uomo del popolo. Ma non aveva combattuto a cavallo, a Campaldino?
Certo, ma non dimentichiamo che era imparentato con i Donati, tramite
Gemma. Quindi possiamo ipotizzare che sarà stato addestrato al
combattimento a cavallo, anche senza possederlo, tanto da essere schierato
in prima linea.

Fu eletto. Fu scelto. E arriva il suo primo giorno nel Consiglio dei Cento: a
cosa pensa, mentre procede per quel lungo corridoio? L’ampia sala del
Consiglio è già colma, animata nella discussione, anche da lontano arrivano
voci e grida e sberleffi, arriva il rumore della democrazia. La città lo
aspetta: prova emozione, il poeta prestato alle lotte per il bene comune?
Riuscirà, dopo quello che ha sostenuto nelle sue canzoni politiche, a far
seguire alle idee le azioni? Riuscirà ad alzare la voce in mezzo al tumulto?
Una tradizione di sette secoli ce lo presenta sempre in posa, superbo,
egocentrico, consapevole del suo genio. Questo martellare della Tradizione
non mi convince. È un acceso, questo sì. Si piegherà solo a verità e
giustizia, questo cercherà di fare, questo pensa dentro di sé, entrando in
quella sala strapiena di mercanti e fabbri vocianti.
Di quali canzoni politiche stiamo parlando? Dopo la Vita nova, Dante aveva
continuato a scrivere canzoni e sonetti di vario genere. Attenzione: nella
Vita nova, d’accordo con Guido Cavalcanti, il «primo de li miei amici»,
Dante aveva sostenuto che la poesia in volgare poteva essere solamente
d’argomento amoroso. E invece, dopo la morte dell’amata, Dante si
contraddice. Fa esattamente il contrario: comincia a sperimentare in diversi
stili e su svariati argomenti. Pratica il genere della poesia giocosa: ci è
rimasta una tenzone, una gara scurrile e fintamente ingiuriosa, con l’amico
Forese Donati, parente della moglie Gemma: tre sonetti a testa, dove gli
amici si insultano con effetti comici sulla povertà di Dante e la vigliaccheria
della sua stirpe, sulla ghiottoneria di Forese e sulle sue insufficienze di
marito, delle quali dovrebbe sapere qualcosa la moglie Nella.
Ci restano di quel periodo sperimentale anche le rime cosiddette
«petrose», un ciclo di quattro composizioni dedicato a una donna
misteriosa, la «bella petra». Qui Beatrice sembra dimenticata: ora la
sensualità di Dante è affascinata da una donna «crudele», che non
contraccambia l’amore del poeta, ma sta «gelata come neve a l’ombra». A
nulla serve all’innamorato fuggire «per piani e per colli», il pensiero torna
sempre a quella «scherana micidiale». Amore anche qui ha la A maiuscola,
ma ora la potente divinità rivela la sua faccia nera, feroce, distruttiva. Il
poeta «latra» – fate attenzione a questo verbo –, ulula come un lupo nel
«caldo borro» del desiderio, e sogna di afferrare i «biondi capelli» per farne
uno «scudiscio» e colpirla, come fa «l’orso quando scherza». E, precisa il
poeta, non sarei «né pietoso né cortese». È un inferno, e Dante vi scende
giù, un inferno di istinti animaleschi, di sadiche ossessioni: per descriverlo
Dante usa rime martellanti, ripete ossessivamente le parole «freddo» e
«petra», «petra» e «freddo», con effetti disarmonici, stridenti, ben lontani
dal «dolce stile» della Vita nova. Questa ricerca linguistica gli servirà anni
dopo, quando metterà mano alla Commedia, quando per descrivere i gironi
infernali e i loro orrori dovrà ricorrere alle rime «aspre» di quella
sperimentazione giovanile. Non ci sarebbe la straordinarietà di Dante e
della sua opera mondo, se avesse conosciuto solo la beatitudine di un amore
spirituale.

Ma non sono il ghiottone Forese o la Petra che ora ci interessano. In


relazione all’Alighieri trentacinquenne che sta entrando in politica, ci
interessa soprattutto il fatto che abbia cominciato a scrivere canzoni su temi
etici e civili. Tra queste, in particolare, ce n’è una che ci fa capire appieno la
sua evoluzione psicologica e intellettuale. Si intitola Le dolci rime d’amor
ch’i’ solia, e la troviamo nel quarto libro del Convivio, il trattato filosofico
che Dante comporrà negli anni dell’esilio, forse nel 1304, lasciandolo
incompiuto. Ma quella canzone era stata composta nel 1290: Dante la
inserirà nel Convivio per spiegare le ragioni che lo avevano portato a
impegnarsi per il bene comune. Nel Convivio, lo scrittore in esilio ci
racconta come il giovane appassionato d’Amore si sia trasformato
nell’araldo della rettitudine. Dell’agire bene. Del cercare il bene. Il bene di
tutti. E per trovare questo bene comune, afferma Dante, bisogna riuscire a
spazzar via gli «errori» più gravi, quelli che hanno conseguenze funeste per
la nostra vita di cittadini, per esempio quello relativo alla nobiltà:

Intra li quali errori uno io massimamente riprendea […] Questo è l’errore dell’umana bontade in
quanto in noi è dalla natura seminata e che nobilitade chiamar si dee; che per mala consuetudine
e per poco intelletto era tanto fortificato, che l’oppinione quasi di tutti n’era falsificata; e della
falsa oppinione nascevano li falsi giudicii, e de’ falsi giudicii nascevano le non giuste reverenze
[…] li buoni erano in villano despetto tenuti, e li malvagi onorati ed essaltati. La qual cosa era
pessima confusione del mondo (Cv, IV, I, 6-7).

Non vi suona attuale, questo ritratto della politica in quattro parole?


«Pessima confusione del mondo»: è così che Dante comincia a interessarsi
alla polis, al vivere insieme degli uomini e delle donne, sostenendo che la
«pessima confusione del mondo» nasce dal non capire che la vera nobiltà,
ovvero l’autentica bontà umana, non è questione di clan, di sentirsi
superiori perché si ha la borsa piena d’oro o perché si è parte di una
famiglia aristocratica. La vera nobiltà è seminata in noi dalla natura. Tutti,
potenzialmente, siamo nobili.

Propuosi di gridare alla gente che per mal cammino andavano, acciò che per dritto calle si
dirizzassero; e cominciai una canzone nel cui principio dissi: le dolci rime d’amor ch’i’ solia.
Nella quale io intendo riducer la gente in diritta via sopra la propia conoscenza della verace
nobilitade (Cv, IV, I, 9).

La «gentilezza», il seme di virtù «messo da Dio nell’anima ben posta», non


appartiene solo ai nobili e ai ricchi: è una qualità di tutti. Anzi, nobili e
ricchi sono spesso i peggiori nemici della «gentilezza», i primi quando
fanno gli arroganti e i violenti, i secondi quando ostentano la ricchezza
circondandosi di clienti e parassiti. Entrambe le classi pretendono una sorta
di immunità dalla legge: per Dante è inaccettabile. È per tutti gli uomini e
per tutte le donne, senza distinzione di ceto o ricchezza, è per tutte le anime
gentili che Dante scrive. Questa canzone, e le altre composte in quegli anni,
diventano il suo biglietto da visita, il suo modo di farsi intendere all’interno
delle lotte tra nobili, ricca e «grassa» borghesia e popolo «minuto». Chi l’ha
fatto eleggere nel Consiglio dei Cento le aveva lette, quelle canzoni, e
aveva riconosciuto nel loro autore la passione e la saggezza necessarie al
governo della città, qualità che non potevano che giovare alla turbolenta
democrazia guelfa.

Turbolenta, già. Nel 1296, un anno dopo l’ingresso di Dante nel Consiglio
dei Cento, viene a crearsi una frattura tra due grandi famiglie, i Donati,
«antichi di sangue» e i Cerchi, «buoni mercatanti e gran ricchi». Il pretesto
è la lite per un’eredità, ma la rivalità tra le due casate ha radici antiche:
entrambe residenti nella stessa zona di Firenze, il sestiere di San Pier
Maggiore, contano al loro interno gli esponenti delle maggiori banche della
città. I Cerchi non potevano vantare illustri natali, venivano dalla
campagna, erano l’esempio perfetto di quella classe sociale «selvaggia» che
Dante accuserà nella Commedia di aver distrutto Firenze con i «sùbiti
guadagni» e il culto della ricchezza. I Donati invece, pur meno abbienti, si
vantavano di appartenere alla più antica aristocrazia cittadina, e degli
aristocratici avevano il comportamento altezzoso e sprezzante. Dalla fine
del 1296 alla primavera del 1299, sale un clima di tensione e di violenza,
che vede susseguirsi scontri armati e «tagli di lingue» e omicidi da
entrambe le parti: Dante, e quelli con lui più desiderosi di «unità e di pace»,
si danno da fare perché non si arrivi a una vera e propria guerra civile. Ma
Dante, e qui occorre una parentesi, è legato in maniera personale a entrambi
gli schieramenti.

I Donati gli sono addirittura parenti, lo abbiamo visto. Corso Donati è il


cugino di sua moglie Gemma: e Corso è il capo della casata, detto «il
Barone». È il modello del perfetto cavaliere, ardito e coraggioso, ma anche
supponente e violento. Quando «passava per la terra», racconta lo storico
Dino Compagni, «molti gridavano: ‘Viva il Barone!’, e parea la terra sua».
A Campaldino era stato lui l’eroe, il condottiero che aveva portato Firenze
alla vittoria. Chiamato a ricoprire la carica di podestà in molte città italiane,
abituato al comando, si riteneva al di sopra delle leggi, e non nascondeva
mai la sua avversione per il «popolo». Dante, che di quel «popolo» fa parte,
è imparentato con un uomo che in fondo lo disprezza.

E i Cerchi? Sono capeggiati da Vieri del Cerchi, un banchiere, un moderato,


uno pieno di soldi. «L’asino di Porta», così lo sbeffeggiava Corso Donati.
Schierato politicamente con i Cerchi c’era anche il poeta Guido Cavalcanti,
il «primo» degli amici di Dante. Cavalcanti era lui pure altezzoso, ma non
alla maniera di Corso Donati: non era un violento, era sì incline allo scontro
anche fisico, alla provocazione, al bel gesto individuale, ma più che altro
per una visione individualistica della vita. All’inizio della loro amicizia
Dante e Cavalcanti condividevano una concezione elitaria della poesia,
un’arte raffinata per pochi eletti, ma poi, già con la Vita nova, qualcosa si
incrina: è Dante che cambia, è Dante che si smarca dall’amico. Nella Vita
nova, Amore viene tratteggiato con toni mistici che non potevano piacere
all’ateo Cavalcanti; e le canzoni politiche scritte in seguito, lo abbiamo
visto, testimoniano una posizione che Guido non avrebbe mai condiviso, la
scelta, da parte di Dante, di mettere la cultura e il valore poetico al servizio
del «volgo», della «annoiosa gente», come la definiva il nobile Cavalcanti.
Rileggiamo il sonetto scritto da un giovanissimo Dante agli esordi della
sua amicizia con Guido, prima della Vita nova:

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io


fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.
Come definirlo? È musica pura. È la magia che gli adolescenti sognano di
vivere con i loro amici più intimi: via tutti quanti, lontani dal noioso mondo,
a «ragionar d’amore». Quando papà me lo recitò la prima volta, ero come
impazzito. Glielo feci ripetere tre volte di seguito, e lui paziente mi
accontentò. Dopodiché lo imparai subito a memoria, provai anche a
musicarlo, visto che in quel tempo andavo a lezione di chitarra. Da quel
«vasel», da quella navicella incantata Dante è sceso, Guido vi è rimasto
sopra. Solo e sprezzante. E quindi non lo convince affatto la sbandata
democratica dell’amico, quel suo appassionarsi alle beghe dei popolani. E
in più odia Corso Donati.

Dante è stretto tra due fuochi, tra la parentela con l’uno e l’amicizia con
l’altro. Ma Dante non vuole scegliere tra i due, vuole restare super partes.
Quelli che ha scelto sono i valori del Comune, di una democrazia che va
difesa da logiche di sopraffazione. Le parti nel frattempo hanno trovato i
loro emblemi: ed è curioso che tali emblemi arrivino da una città vicina.
Infatti nel 1296, esercitando una sorta di protettorato della città di Pistoia, il
Comune fiorentino si trovò coinvolto nella faida tra due rami della
medesima casata pistoiese, i Cancellieri, divisa in «bianchi» e «neri». I
colori delle famiglie pistoiesi in lotta si trasferirono a Firenze, perché i
«bianchi» pistoiesi trovarono un sostegno presso i Cerchi, i «neri» presso i
Donati. Da qui le nuove denominazioni di Bianchi e di Neri per le due
fazioni fiorentine. E non dimentichiamolo: tutti guelfi, a Pistoia come a
Firenze.

La situazione degenera. Il primo maggio del 1300, scrive Dino Compagni


nella sua Cronica, «i giovani de’ Cerchi si riscontrorono con la brigata de’
Donati […] i quali assalirono la brigata de’ Cerchi con armata mano. Nel
quale assalto fu tagliato il naso a Ricoverino de’ Cerchi da uno masnadiere
de’ Donati». La Storia passa anche da lì, da un naso tagliato. La Storia è un
infinito carnaio di nasi tagliati, di gambe e braccia tagliate, di occhi fatti
schizzare fuori dalle orbite, mettiamoli in fila dalla notte dei tempi, e la
vertigine ci assale, meglio chiudere gli occhi, meglio non guardare in faccia
l’inferno, respira, respira.
Mentre vi sono «popolani» che si schierano con l’una o l’altra famiglia,
Dante è tra i più impegnati a far cessare gli scontri, a riportare la pace: e
questo suo impegno fa sì che venga eletto priore, la massima carica politica
in città, insieme ad altri sei cittadini, per il bimestre 15 giugno-14 agosto.
Stiamo parlando di una carica che durava solo due mesi: la politica a
Firenze doveva restare un servizio, questo almeno nelle intenzioni di chi
aveva codificato quelle regole, non doveva diventare un mestiere. Per
questo si era stabilita la rotazione degli incarichi, perché i cittadini non
accumulassero potere. E il 1300 è un anno fatale: ha da poco compiuto i
trentacinque anni, è diventato priore. L’uomo Dante riconosce, nelle lotte
mortali che fanno esplodere la città, il fumo di quelle macerie che
l’adolescente Dante osservava vent’anni prima passeggiando per Firenze:
ora però si trova nella posizione di chi, quelle lotte, può interromperle, di
chi può farsi strumento di pace. Sappiamo che non riuscirà nell’intento: e
che in esilio dichiarerà sconsolato che tutti i suoi «mali» nacquero da quella
sfortunata ascesa al priorato. Dante, politicamente, diciamo che fa carriera,
ma in quel suo salire al vertice c’è già, nascosto, il germe della caduta.

Una settimana dopo la sua elezione, il 23 giugno, avvenne un fatto


clamoroso: alla vigilia della festa di San Giovanni, i consoli delle Arti, che
sfilavano verso il Battistero nella tradizionale processione, furono assaliti
da un gruppo di cavalieri. Questi urlavano: «Noi siamo quelli che demo la
sconfitta in Campaldino; e voi ci avete rimossi dagli uffici e onori della
nostra città». C’era del vero: i nobili erano stati i principali artefici della
vittoria sui ghibellini a Campaldino, quegli stessi nobili che pochi anni
dopo furono estromessi dalle cariche pubbliche. Non si limitarono alle grida
e agli insulti: passarono ai fatti, misero le mani addosso ai consoli, li
strattonarono, li umiliarono pubblicamente. E, quella clamorosa protesta,
non erano stati solo i Donati ad inscenarla, vi avevano aderito anche alcuni
esponenti dei Cerchi. Un gesto inaudito, un limite superato. I priori
risposero con una misura radicale: colpirono entrambi gli schieramenti,
mandando al confino in Umbria otto uomini dei Donati, e anche «lor
consorti», mentre a Sarzana furono mandati sette Cerchi e «lor consorti».
Tra quei sette esponenti dei Cerchi, c’era anche Guido Cavalcanti. Cosa
avrà provato Dante, a esiliare il «primo» dei suoi amici? Dante conclude
così il suo bimestre di priore, ma subito dopo accade un fatto che sarà usato
contro di lui: i nuovi priori fanno tornare in città i Cerchi, lasciando al
confino i Donati. È una decisione che provoca scandalo, la dimostrazione,
secondo i Neri, che il priorato non è più un organo super partes. Di questa
«preferenza» venne poi ingiustamente accusato Dante stesso, incolpato di
aver fatto tornare l’amico Cavalcanti. Ma le cose non stavano affatto così:
Guido Cavalcanti si era ammalato di malaria a Sarzana, zona paludosa, e
aveva chiesto di tornare. Il permesso fu dato quando ormai era tardi, e il
poeta morì lontano dalla patria. I Bianchi furono autorizzati al rientro a
motivo della necessità di riportare a Firenze la salma del poeta. Dante non
era più priore, non c’entrava con la concessione di quel privilegio. Che
strano coincidere, il destino di questi due amici, se ripensiamo alla navicella
incantata con monna Vanna e monna Lagia: anche Dante morirà in esilio,
anche Dante morirà di malaria.

Facciamo un passo indietro. Firenze è una delle capitali finanziarie


d’Europa. È inevitabile che gli avvenimenti di politica interna si intreccino
con le ambizioni esterne. Come a suo tempo le lotte tra guelfi e ghibellini
avevano orbitato nell’ottica del conflitto tra papato e impero, così ora
questa guerra tra Bianchi e Neri non lasciava certo indifferente colui che di
entrambi gli schieramenti era il massimo riferimento, il papa Bonifacio VIII.
Non era però un segreto che Bonifacio appoggiasse Corso Donati. È
impossibile, qui, analizzare a fondo la personalità storica di Benedetto
Caetani, eletto papa come Bonifacio VIII: certo nella Commedia Dante lo
ritrarrà come il peggiore dei suoi nemici. E, pur non essendo un eretico, ma
un cattolico dalla fede salda, pur non mettendo mai in dubbio la legittimità
del papa di Roma, chiunque esso sia, Dante nel suo capolavoro attaccherà
Bonifacio con una violenza estrema, accusandolo di aver trasformato la
tomba di San Pietro in una «cloaca», «là dove Cristo tutto dì si merca»,
dove si fa mercanzia di Gesù Cristo, salvatore dell’umanità.

La concessione fatta ai Bianchi di tornare a Firenze dal confino fu letta dal


papa come un gesto di parte: come la prova che il Comune di Firenze, al di
là delle retoriche dichiarazioni di imparzialità, era in mano ai Bianchi. Le
vicende precipitano: il primo giugno 1301 si svolge un’assemblea pubblica
dei Neri presso la Chiesa di Santa Trinita. I Bianchi denunciarono tale
iniziativa come una «congiura» che i priori avrebbero dovuto punire. E i
Neri cominciarono a sparger la voce che i Bianchi «avevano fatto lega coi
ghibellini di Toscana»: i Neri infatti volevano presentarsi agli occhi di tutti
come i «guelfi» autentici, sostenuti dalla Curia romana. Il papa aveva le
orecchie ben aperte a quelle «voci»: Bonifacio peraltro aveva un suo piano
preciso, quello di far scendere in Italia Carlo di Valois, fratello del re di
Francia, per conquistare la Sicilia. Nello scendere a sud il conte francese
avrebbe potuto, en passant, risolvere anche la situazione fiorentina, e
«pacificare» quel Comune turbolento, rimettendo il potere nelle mani della
Chiesa. Ma c’era bisogno di un pretesto, per legittimare l’invasione: e il
pretesto Bonifacio lo trovò chiedendo a Firenze di concorrere alla sua
guerra contro gli Aldobrandeschi, una nobile casata del sud della Toscana,
tradizionalmente ghibellina. Si convoca il Consiglio dei Cento: tutti sanno
che Carlo di Valois è pronto per partire alla volta di Firenze, tutti sanno che
la richiesta di aiuto militare di Bonifacio VIII deve servire da lasciapassare al
francese, come a ribadire: siete fiorentini, ergo obbedienti a Roma.
Qualsiasi cosa vi chieda. Nel Consiglio dei Cento è chiaro a tutti che
obbedire, in questo caso, significherebbe ammettere che Firenze non ha
alcuna autonomia: Dante non obbedisce, e con altri 32 vota contro. Con
questo voto Dante si qualifica agli occhi di Firenze come ghibellino
potenziale. Prevale però la linea favorevole al papa, prevale la paura,
prevale la prudenza di chi vuole comunque «trattare» con Bonifacio. Se
trattiamo, pensano, il papa non farà scendere il francese. Ma si sbagliano:
nel giugno 1301 Carlo di Valois, accompagnato dalla moglie incinta e da
uno scarso seguito di armati, comincia la sua marcia di avvicinamento. Il
partito della trattativa non vuole guardare in faccia la realtà e decide di
mandare un’ambasceria a Roma, a parlare direttamente con il papa. Di
questa ambasceria fa parte anche Dante. Perché, viene da chiedersi. Tutti
conoscono la sua fermezza nella difesa dell’autonomia cittadina, il suo
essere super partes rispetto alle fazioni in lotta, tutti sanno che ha votato
contro le richieste di Bonifacio, che è un intransigente: perché mandare
proprio lui, se l’ambasceria va a Roma apposta per trattare?

Bonifacio VIII viene da una potentissima famiglia dell’aristocrazia romana, i


Caetani. Si è fatto grande a forza di intrighi, di maneggi, di violenze,
accumulando quattrini, castelli, terre, benefici ecclesiastici, ed è convinto di
poter dominare la Chiesa e il mondo con lo stesso piglio con cui domina in
Lazio e nel Napoletano. Riceve i tre fiorentini, li ascolta, finge pazienza, ma
poi rimanda a Firenze gli altri due ambasciatori, Guido Ubaldini da Signa,
detto «il Corazza», e Maso di Ruggerino Minerbetti, con un compito
preciso: riferire ai priori che il Comune deve accogliere Carlo di Valois,
facendo così in pratica atto di sottomissione. L’incontro non è durato a
lungo, gli ambasciatori fiorentini sono già sulla via del ritorno: ma perché il
papa trattiene Dante Alighieri? Si è inginocchiato e ha baciato l’anello
papale, come i suoi compagni di ambasceria. Ha forse detto una parola di
troppo? È inciampato in un’espressione irriguardosa? O forse ha parlato con
un tono che alla «volpe», come chiamano Bonifacio sottovoce, non è
piaciuto affatto? Come si permette, questo figlio della Santa Madre Chiesa,
romana, cattolica e apostolica, di guardare in quel modo il Pontefice negli
occhi? Nello sguardo di Dante, in realtà, non c’è alcuna arroganza, solo la
dignità di chi pensa dentro di sé: non sum servus. Non sono servo. Sono un
fedele figlio della Santa Madre Chiesa, romana, cattolica e apostolica, e
riconosco in te, Bonifacio VIII, il legittimo successore di Pietro, ma non
sono alle tue dipendenze. Sono un libero cittadino di un libero Comune. Ma
non capisci che così la pagherete cara, tu e la tua famiglia, pensa Bonifacio,
e nasconde quell’intenzione malvagia dietro un sorriso di scherno, di
irrisione verso il piccolo fiorentino, il poetucolo dal naso aquilino e dagli
occhi scuri, e pensa di lui quello che i potenti di tutte le epoche di tutti i
continenti pensano, increduli, dall’alto dei loro troni, quando un semplice
mortale non prova sgomento davanti alla loro forza, quando un semplice
mortale non abbassa la testa davanti alle loro richieste, non si arrende, non
si sottomette: ma chi credi di essere? Potrei farti imprigionare all’istante
nella più buia delle mie prigioni, tu e il tuo orgoglio da popolano istruito, e
gettare la chiave, e farti divorare dai miei mastini, farti torturare dai miei
sgherri, non lo sai? Non lo immagini, tu che sei così bravo a immaginare?
Lo sguardo di Dante resta lo stesso: non abbassa la testa. Lo sa che c’è un
prezzo da pagare, c’è sempre un prezzo da pagare se si vuole essere
veramente liberi. La vera libertà è quella dei martiri. La vera libertà dimora
nella Verità, non ha altra casa. «Libertà va cercando ch’è sì cara / come sa
chi per lei vita rifiuta», scriverà anni dopo, all’inizio del Purgatorio. È il
prezzo della croce: lo ha insegnato il Vangelo. E, pensa Dante, mentre
scortato dalle guardie torna al suo alloggio in Vaticano, dovrebbe averlo
insegnato anche a te, papa Bonifacio,
Carlo di Valois entra in Firenze il 4 novembre 1301, ricevuto con tutti gli
onori. È una resa, non le si può dare altro nome. I Neri hanno aspettato
impazienti quel momento, e ora non vogliono che un intervento esterno li
possa defraudare della vittoria totale. Nella notte tra il 4 e il 5 novembre
compiono un vero e proprio colpo di Stato. Corso Donati, che stazionava
con i suoi armati nelle vicinanze di Firenze, entra in città attraverso le porte
custodite dai francesi. È l’inizio della carneficina: per una settimana i Neri
scatenano una serie di violenze e devastazioni inaudite. Tanti scappano,
tanti vicini ai Bianchi si inginocchiano davanti ai vincitori e cambiano
parte. I vincitori qualcuno lo risparmiano, altri li condannano a morte. Poi
si dedicano ad annullare tutte le condanne che pendevano su di loro e si
preparano a una persecuzione giudiziaria che andrà avanti per mesi e mesi.
Occupano tutte le cariche, mettendo nel Priorato solamente persone
affidabili, a loro vicine. E come podestà, il braccio esecutivo del nuovo
governo, viene scelto un uomo di fiducia di Corso Donati: toccherà a lui
emettere le sentenze. Nel 1302 furono pronunciate 559 condanne a morte e
600 condanne all’esilio e al confino: ogni condanna si portava dietro un
carico di distruzioni e confische. Fu un esodo pari soltanto a quello che i
ghibellini avevano inferto ai guelfi dopo la battaglia di Montaperti nel 1260.
Veniva allontanato dalla città un intero blocco della classe dirigente e delle
famiglie più in vista. Quello che l’adolescente Dante aveva visto nelle
strade di Firenze, come effetto di lotte sanguinose, ora puntualmente si
ripresentava e spaccava a metà il fronte di quei guelfi che da vincitori
avevano governato la città per vent’anni. Ma il cittadino Dante Alighieri
non era a Firenze in quei giorni, e a Firenze non avrebbe messo più piede. Il
27 gennaio 1302, il nuovo podestà condanna Dante Alighieri e altri politici,
accusati dalla «pubblica fama»: non c’è un regolare processo, solo dicerie,
ma sufficienti a condannare i «colpevoli». Bisogna fare in fretta, quando si
vuole decapitare la gente. La colpa è aver commesso «a beneficio proprio o
altrui, baratterie, peculato, ingiuste estorsioni in denaro o cose», la colpa è
aver derubato lo Stato e la comunità quando «tutti o alcuno di loro erano in
carica come priori, oppure dopo aver deposta quella carica». Sono
condannati a pagare ciascuno 5000 lire di fiorini piccoli e a restituire il
maltolto: se non lo faranno i loro beni saranno confiscati o distrutti. Oltre a
pagare, dovranno rimanere due anni al confino fuori di Toscana e saranno
per sempre interdetti da qualsiasi pubblico ufficio. Il 10 marzo, constatato
che quindici condannati, e tra essi Dante, non hanno pagato e non si sono
presentati, il podestà li condanna tutti al rogo. Secondo Boccaccio, Gemma
non fu costretta a seguire il marito in esilio, tanto più in presenza di figli
ancora piccoli. Una certa protezione poté, forse, esserle garantita dalla
famiglia d’origine. Sta di fatto che così termina la fase politica attiva di
Dante Alighieri, poeta e intellettuale fiorentino, all’età di 37 anni. Un uomo
in fuga dalla patria: la famiglia sfasciata, i beni confiscati e un rogo che lo
aspetta.
Il corpo nella Renault rossa

«Ahi serva Italia, di dolore ostello,


nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!»
Purg, VI, 76-78

1959. Papà è in viaggio in treno verso Roma, terza classe. Aveva fatto mesi
prima un corso alla Camilluccia, lezioni tutti i giorni per tre settimane,
aveva sostenuto l’esame finale ed era stato dichiarato idoneo a diventare
funzionario del partito, «addetto di segreteria tecnica». A differenza che nel
PCI, dove i funzionari erano anche quadri politici, la Democrazia cristiana
aveva tenuto distinto il ruolo dei funzionari da quello dei politici veri e
propri. L’addetto alla segreteria tecnica, uno per provincia, doveva porsi al
servizio del partito, non delle singole correnti, non di interessi di parte.
Vincenzo arriva in piazza del Gesù, sede della DC, e incontra l’ingegner
Beccherini, romano, che lo fa accomodare nel suo ufficio: «Allora,
Martinelli, complimenti, la tua destinazione sarà Caserta. Ti va bene?»
Vincenzo deglutisce. Caserta? E Beccherini gli mostra la comunicazione
dell’onorevole Alcide Berloffa, che ufficializza la sede casertana. Vincenzo
espone con discrezione le sue perplessità. «Caserta è lontana… sa, ho due
bimbi piccoli…» «Preferiresti andare ad Aosta?» incalza l’ingegner
Beccherini. Arriva, inaspettata, la telefonata del dottor Biasutto di Udine,
addetto di segreteria tecnica appena assunto a Ravenna, che dice: «Ho dei
gravi problemi familiari, non vorrei creare disagi al partito, ma… insomma
dovrei tornare a Udine, ecco, a costo di mollare tutto…» Beccherini lo
prega di restare in linea e si rivolge a Vincenzo: « Mi risponda al volo,
Martinelli: le andrebbe bene Ravenna? Lei si è comportato bene, ottimo
punteggio, è emiliano…» «Io ci vado a piedi, anche subito», risponde
Vincenzo interrompendo l’ingegnere, quasi per timore che ci ripensi.
«Bene, allora Caserta può aspettare. E si arrangi con la famiglia!»
Andammo ad abitare alla Darsena, il quartiere tra la stazione e il porto, nel
grattacielo appena costruito, il primo in città. Il punto più alto di Ravenna,
all’epoca. Fin da bambino ero attirato dal guardare la città dall’alto.
Stavamo all’ottavo piano, e dalla finestra io guardavo i treni partire e
arrivare, il formicolio dei passeggeri che salivano e scendevano. Tutta
quella vita, lontana, in movimento. Tutte quelle formiche. E il cielo così
vicino, a sua volta mai fermo, ma in continuazione mosso dalle nuvole, dal
loro farsi e disgregarsi e rifarsi.

Papà non era riuscito a trasmettere la sua passione per il calcio alla Luciana,
ma aveva trovato una giovanissima alleata nella sorella di mia madre, Anna,
un «maschiaccio» dicevano, e insieme andavano allo stadio a vedere la
Reggiana. Una volta trasferitosi a Ravenna, il rito dello stadio lo comunicò
al figlio. La domenica per me era davvero un giorno speciale. Perché quello
era il giorno del riposo e del rito, anzi, dei riti: la messa alla mattina e la
partita nel pomeriggio. I due templi. I due grandi spazi, la chiesa e il prato
verde, entrambi theatrum mundi, teatro del mondo, entrambi specchi in cui
specchiarsi, lo specchio in cui Dioniso bambino si contempla nelle sue tante
maschere possibili e specchiandosi vede il mondo. Il canto liturgico e le
urla. L’incenso e il sudore. La meditazione in silenzio e l’esplosione dei
corpi. Il popolo di Dio inginocchiato e la massa saltellante dei tifosi,
febbrile e ondeggiante. Erano forme diverse, entrambe per me, per me
bambino, importanti, di intimità e eccitazione. Dioniso e Cristo.

Lo spazio è l’inizio della nostra esistenza, proprio come un padre.


(Ruggero Bacone, Opus maius, I. 1.5)

Tra le storielle con le quali papà mi svegliava la mattina, ce n’era una che
aveva un sapore dantesco: quella del padre, dell’asino e del figlio. Un
vecchio commerciante di stoffe, in compagnia del figlio, giovane e forte, si
mise in viaggio per Roma, per acquistare stoffe arrivate dal lontano Oriente.
Partirono una mattina all’alba: il viaggio era lungo, quindi decisero di
portare con sé il loro piccolo asino. Il padre sull’asinello, il figlio a piedi.
Vedendoli, i passanti li schernivano: «Guarda lì come se la spassa quel
vecchio, risparmia sulla salute e intanto fa ammalare quel bel giovane!» Il
vecchio si vergognò tanto che scese dall’asino e disse al figlio di salirci al
suo posto. Così il padre andava a piedi, e il figlio comodamente seduto
sull’asino. Ma poco dopo, la folla dei viandanti ricominciò a mormorare:
«Un giovane sano e robusto, veh, che pigrizia! E il padre che si ammazza a
piedi!» Il figlio provò una gran vergogna a quelle parole, e convinse il padre
a salire sull’asino con lui. A quel punto il mormorio dei passanti, vedendo
l’asinello caricato di padre e figlio, si trasformò in indignazione: «Povera
bestia! Ma non vi vergognate, di stroncare in questo modo un asino così
giovane?» Padre e figlio, sentendo i rimproveri, si sentirono in colpa,
scesero dall’asinello e decisero di procedere entrambi a piedi. Puntuale
arrivò lo scherno di altri passanti: «Ma si può essere più coglioni? Hanno un
asino, e vanno a piedi!» A quel punto il padre si rivolse al figlio: «Vedi, non
c’è niente che vada bene a tutti, e continuando così diventeremo matti.
Faremo quel che ci sembrerà giusto, senza stare ad ascoltare le chiacchiere
e i giudizi della gente». A Roma ci arrivarono, se è questo che vuoi sapere,
e acquistarono della magnifica seta azzurra.

Se c’è una cosa che può insegnarti la storiella dell’asino è che bisogna
andare con la schiena dritta, figlio mio. Non ti sottomettere ai giudizi degli
altri. Ascoltali, sì, ascolta i suggerimenti, ascolta anche le critiche, hai il
mondo intero da imparare, quindi lascia da parte ogni presunzione, ascolta
ma non ti sottomettere. Ascolta tutti, ma sappi distinguere l’erba cattiva
dall’erba buona. Non te la prendere per le parolette fastidiose che ti
scagliano addosso, con l’intenzione di ferirti: buttale via. Buttale via!
Strappale dal cuore, non meritano di annidarsi lì, come un veleno. Pensa a
quel poeta cacciato dalla patria, a quanto fango gli hanno tirato addosso.
Eppure non si è piegato! Cammina. Continua a camminare infischiandotene
delle maldicenze e delle adulazioni. La vita non è una competizione. Non è
una partita di calcio. È un combattimento con l’invisibile. Age quod agis.

Mio padre serviva il partito, non i potentati locali. Prendeva alla lettera il
mandato che il partito gli aveva dato, quello di non piegarsi a questa o
quella corrente, ma vigilare perché la vita politica si svolgesse nel rispetto
di tutti. Delle minoranze, innanzi tutto. E a Ravenna, davanti a certi ordini
che non sentiva giusto eseguire, si rifiutava. «Preferirei di no»: se avesse
conosciuto Bartleby lo scrivano, il meraviglioso racconto di Melville,
avrebbe risposto così all’arroganza di questo o quel segretario di partito.
Alla sua maniera, Vincenzo si comportava proprio come l’impiegato
melvilliano, abituato a non intervenire nelle discussioni, abituato a non farsi
notare quando arrivavano a Ravenna un ministro o un sottosegretario
(mentre altri correvano a farsi la foto insieme al pezzo grosso), se c’era però
da dire un no rispetto a un ordine che lui riteneva ingiusto, quel funzionario
mite e spesso silenzioso si irrigidiva: a malincuore obbediva, oppure deciso
si opponeva, per lo sconcerto dei superiori che non erano abituati a un
comportamento del genere. E fu per questo motivo, anche se non solo per
questo, che negli anni Settanta mio padre approfittò per cambiare aria. Per
andarsene via da Ravenna. Temporaneamente. «In esilio» diceva lui
scherzando: «Fatti non foste a viver come bruti… ma tra mafiosi!» Si
trattava di missioni prescritte dalla direzione generale del partito: in
situazioni difficili, là dove la lotta politica tra le correnti era stata inquinata
dal fenomeno dei tesseramenti fasulli, veniva inviato un apposito «ispettore
per il tesseramento». E per questo ruolo si sceglievano i funzionari che
dessero sufficienti garanzie di fedeltà super partes. Vincenzo accettava con
piacere queste forme di esilio volontario, erano un modo per servire il
partito a livello nazionale e non dover soggiacere ai diktat di questo o quel
ras locale. Non lo vedevamo per mesi: Calabria, Sicilia, Umbria, Sardegna.
Una volta tornato, scriveva i suoi rapporti e li mandava a Roma, resoconti
che spesso non suonavano lusinghieri per la reputazione della Democrazia
cristiana. Erano sempre «fatti» quelli che lui raccontava, non dicerie a
favore di questa o quella corrente. Mi fece leggere, anni dopo, alcuni di
quei resoconti, vere e proprie grida d’allarme, dove sommessamente
denunciava un partito che stava perdendo l’anima. Le finiva sempre con un
orgoglioso: «Noi del ’48». Non mi hanno mai risposto, concludeva mesto,
riponendo le lettere nel suo archivio personale.

Per il guelfo Vincenzo, gli anni Settanta furono duri anche per altri motivi.
Troppa violenza nell’aria, nelle strade. E un crescere di estremismi che
erano lontanissimi dal suo modo di intendere la democrazia. Erano gli anni
del mio liceo: il movimento studentesco, le associazioni extraparlamentari,
le occupazioni, la critica quotidiana al «potere democristiano corrotto». Io
vivevo la schizofrenia insopportabile di comprendere, da una parte, quanta
verità ci fosse in quella contestazione e, dall’altra, quanto fosse limpida la
vita di mio padre. Che cosa c’entrava, lui, col «potere democristiano
corrotto»? Avrò avuto 17, 18 anni: cominciai a militare nel gruppo Cristiani
per il socialismo, un movimento che radicalizzava le istanze del Concilio
Vaticano II, un movimento di cattolici per un «socialismo dal volto umano»,
che si rifacevano alle esperienze sudamericane della «teologia della
liberazione». Cominciai a vendere la rivista del movimento davanti al liceo,
affiancato da chi vendeva «Lotta Continua» o «il Manifesto». E, una volta
arrivato a casa, nascondevo le copie invendute nel fondo di un armadio,
dietro i dizionari di latino e greco. Venni scoperto dalla mamma, che subito
imbastì un processo sommario. «E questa robaccia cos’è?» mi urlò in
faccia. I titoli in grande, anti-democristiani, non lasciavano adito a dubbi.
Sconcerto, occhi sbarrati, minacce: «Così sputi nel piatto in cui mangi!
Quando viene a casa tuo padre lo senti!» Vincenzo non fece in tempo a
entrare in casa, che mamma gli mise sotto il naso il pacco delle riviste e
continuò l’arringa accusatoria nel pomeriggio. Io confessai che, sì,
frequentavo quel movimento, giustificandomi col fatto che tutto sommato
mi sembrava in linea con certi discorsi sentiti in casa: in fondo anche papà
l’aveva difeso Paolo VI, quando per certi discorsi in difesa dei poveri gli
avevano dato del «comunista»! La mia fragile linea difensiva fu travolta
dalle grida di mia madre: tu sputi nel piatto in cui mangi, continuava a
ripetere, non hai rispetto per tuo padre! Vincenzo se ne stava silenzioso, a
occhi bassi, e non disse una parola. Quando finalmente mi guardò, con un
velo di sorpresa e di delusione negli occhi, non riuscii a sostenere il suo
sguardo. Per quanto non mi sentissi colpevole, per quanto mi sentissi nel
pieno diritto di manifestare le mie idee, il suo sguardo mi tagliò in due.

Pochi anni dopo uscii di casa: nel settembre 1977, dopo il primo anno di
università, mi sposai con Ermanna, e cominciammo a fare teatro. Senza una
lira in tasca, senza un’istruzione teatrale, semplicemente e follemente
innamorati di noi e del teatro. Cominciare, sbagliare, ricominciare. Imparare
dagli errori. Era una scelta di vita e insieme l’apprendimento sul campo di
un mestiere, fatto certamente nel modo più anarchico e rischioso possibile,
da autodidatti. Perché non andate a Roma o a Milano, a fare provini per
questo o quel regista? Perché non vi laureate e poi ci pensate dopo a far tea-
tro? Come pensate di vivere di teatro, senza appoggi, senza conoscenze,
senza soldi? Perché non siete un po’ più ragionevoli? Noi non volevamo
esserlo, ragionevoli. I miei non la presero bene, anzi. Specialmente la
mamma: fece di tutto per evitare quel matrimonio e, visto che a quel
risultato non ci si poteva arrivare, costrinse in un qualche modo mio padre a
cambiare città. Non voleva vergognarsi di suo figlio: cosa avrebbe risposto
alla gente che le avesse chiesto il perché di tanta follia? Vincenzo cercò di
far ragionare sia me che mia madre: entrambi fummo irremovibili. Allora
papà chiese al partito di spostarlo, se possibile, anche temporaneamente, da
qualche parte. E così il 3 settembre 1977, giorno delle nostre nozze, i miei
erano a Genova. Avevano scansato la vergogna.

Nella primavera del ’78 ci furono il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro,


il presidente del partito al potere in Italia da 30 anni. E vidi mio padre
affranto, senza più voglia di scherzare: lo andai a trovare a Genova, e me lo
trovai davanti alla televisione, davanti a quel corpo raggomitolato nella
Renault rossa. Vincenzo non aveva parole, scuoteva la testa, con una
tristezza negli occhi che non gli avevo visto mai, ben più grande di quella
che gli avevano provocato pochi anni prima le riviste sovversive nascoste
nell’armadio. L’immagine finale di quella tragedia fu un trauma anche per
me: il potente, il capo di cinque governi, era un corpo senza più vita,
«acciambellato» nel bagagliaio, una povera creatura la cui morte gridava al
cielo o alla terra o al nulla. Un capro sgozzato sull’altare di una folle,
insensata, feroce ideologia.

I Neri proprio non li mandava giù, quelli che «il potere logora chi non ce
l’ha». I Bianchi per lui erano Moro e Zaccagnini. Moro in particolare: lui
vuole trasformare il paese, mi diceva, ha capito che se continua così il
partito diventerà una macchina vuota e senz’anima. Ha capito che non si
può stare al potere per così tanto tempo, c’è il rischio di abdicare ai valori
che ci hanno fatto nascere, i valori della Resistenza, della tradizione
cristiana, del Vangelo. Per questo, mi diceva, sta cercando l’accordo con i
«ghibellini» di Berlinguer, sta cercando il modo di smarcare l’Italia dalla
sudditanza agli Stati Uniti e dalla paura dell’Unione Sovietica: se non si
riuscirà a far questo, non ci sarà mai una vera alternanza al governo, e senza
alternanza una democrazia muore. Si suicida.
La visione politica di Vincenzo affondava le sue radici nel cattolicesimo
democratico, che in Emilia risaliva al socialismo cristiano di un Camillo
Prampolini, nell’impegno mistico-politico di un Dossetti. E Guareschi
anche c’entrava, perché il sindaco Giuseppe Bottazzi, detto Peppone, e il
parroco don Camillo sotto sotto erano più amici che nemici, entrambi rami
di quell’unico albero che era il popolo della Bassa. Vincenzo avvertì che
l’Italia della Resistenza stava finendo con il ritrovamento del cadavere di
Aldo Moro in quella Renault rossa in via Caetani, dieci proiettili nel corpo:
e in quella fine, in quella morte, se ne andava la politica stessa, il senso più
alto della politica, se ne andavano per paradosso amici e nemici, guelfi e
ghibellini, se ne andava Moro ma se ne sarebbe andato anche Berlinguer,
che morì pochi anni dopo, se ne andava un mondo intero e se andavano
anche i terroristi rossi, che con quell’omicidio firmarono la loro definitiva
autodistruzione. Chi avanzava era la TV a colori: la Pubblicità, che diventò
la politica e la religione di fine millennio. Arrivarono infatti negli anni
Ottanta i tempi del CAF, del trio Craxi-Andreotti-Forlani, e del
berlusconismo che gli si posizionò a fianco, per prendere poi il timone del
comando una volta passata la buriana di Tangentopoli. Avevano stravinto i
Neri. Quelli che «il potere logora chi non ce l’ha».
Nell’82 il partito gli comunicò che aveva cessato il servizio. Poteva
andare in pensione. Per certi aspetti fu come sollevato. «Neanche un
grazie», mi disse mostrandomi la lettera arrivata da Roma.
Il profugo

Si è opposto al papa, si è opposto alla furia di Corso Donati, si è opposto


alle paure e ai trasformismi, non ha guardato in faccia a nessuno, neanche al
«primo» dei suoi amici, Guido Cavalcanti, mandato in esilio come i suoi
avversari. E adesso pagherà il prezzo di tanta fierezza. E la sua patria,
Fiorenza, il «bell’ovile» della sua fanciullezza, non la rivedrà mai più.

Quale giudizio dare sul Dante politico? I giudizi degli specialisti divergono,
come su tante altre questioni. Giovanni Villani, storico della generazione
successiva, a sua volta priore e per giunta vicino al partito dei Neri, lo
definirà uno «de’ maggiori governatori della nostra città».

Il «governatore» adesso è un uomo in fuga. E gli avvenimenti lo


costringono, per la prima volta, a farsi uomo di parte. I fuoriusciti si
ritrovano a Gargonza, tra Siena e Arezzo, e costituiscono un’organizzazione
denominata «Universitas Partis Alborum de Florentia»: Associazione della
Parte dei Bianchi di Firenze. Dante è tra loro. Il gruppo non comprende solo
i Bianchi, ma anche fuoriusciti ghibellini di vecchia data. Sì, ghibellini, da
questo momento, anche se i Bianchi si vanteranno sempre del loro
guelfismo, i Neri cominceranno a chiamarli proprio così, con disprezzo:
ghibellini. È l’insulto più grande. Ha inizio una guerriglia vera e propria,
dove i Bianchi, alleandosi ai ghibellini, non sono più solamente degli
esiliati che tentano di ritornare in patria: si sono trasformati in traditori, in
nemici non solo della parte «nera», ma dell’intera città.

Eccolo, il «ghibellin fuggiasco» di cui scriverà Ugo Foscolo, e di cui papà


mi parlava passando davanti alla tomba nel centro di Ravenna. Lui, che i
ghibellini li ha combattuti a Campaldino, ora se li trova a fianco. Ora non è
più un intellettuale super partes, come il suo maestro Brunetto Latini gli
aveva insegnato. Ora è schierato, e in quello schierarsi sente a distanza
l’odio dei fiorentini per lui e per quelli come lui, che sono in armi contro la
patria. Sì, la vita e la politica, come ripeteva Vincenzo, sono faccende
complicate.

Non pare che Dante sia mai sceso in campo, armi in pugno, in quelle
battaglie tra i fuoriusciti e la madrepatria. Per lui la pace è stata, da sempre,
il fine di ogni politica: con che animo, con che amarezza avrà partecipato a
quella politica che si trasformava in guerra? Probabilmente il suo ruolo
nella «Universitas» era di cancelliere o segretario, forse quella mansione era
anche retribuita, costituendo una fonte di sostentamento nei primi anni di
esilio. Lo sappiamo a Forlì, forse a Padova, dove avrà visto la splendida
Cappella degli Scrovegni affrescata dall’amico Giotto, lo sappiamo a
Verona nel 1303, ospite di Cangrande della Scala, con un incarico
diplomatico presso quella signoria ghibellina. A Verona Dante scopre una
delle più straordinarie biblioteche esistenti in Europa, la Capitolare. Il
poeta, l’intellettuale che non ha mai smesso di essere, si esalta nel trovarsi
tra le mani dei classici latini pochissimo conosciuti al suo tempo, come Tito
Livio, Plinio e altri ancora. Dante resta a Verona forse al di là del suo
mandato diplomatico. Che abbia maturato qui la decisione di allontanarsi
dall’associazione degli esuli, guardando con sempre maggior distacco alle
loro manovre militari? Non lo sappiamo. Sappiamo che quello sterile
guerreggiare culminerà nella battaglia della Lastra, il 19 luglio 1304. Una
disfatta: alleati con Pistoia, Bologna, Arezzo e Pisa, gli esuli pensano
addirittura di assalire Firenze, vista la sua momentanea debolezza, visto che
il partito dei Neri si è (a sua volta!) spaccato in due fazioni contrapposte.
Arrivano a ingaggiar battaglia nel centro di Firenze, perfino davanti al
Battistero. Credono di avercela ormai fatta, quando la sospirata vittoria si
trasforma in una sconfitta rovinosa. E anche se Bianchi e ghibellini
continueranno a combattere per anni, la battaglia della Lastra sarà la pietra
tombale sulle loro possibilità di ritorno in patria. Dante è già lontano. Dante
ha deciso di far «parte per se stesso». Contro di lui, l’odio e l’ira di chi si
sente abbandonato, di chi sospetta di quell’atteggiamento da «traditore»,
visto che Dante ha scritto pochi mesi prima al nuovo papa, Benedetto XI,
dichiarando piena disponibilità ad accettare il suo arbitrato, pur di far
cessare quella «guerra civile» e far tornare Firenze in pace. Come si è
permesso di scrivere quella lettera senza consultarli? I fuoriusciti ormai
considerano Dante un traditore, e Dante non ne vuole più sapere di loro e
del loro guerreggiare scalcagnato, senza una visione politica coerente. La
separazione dalla «compagnia malvagia e scempia» è l’ultimo passo verso
lo sradicamento definitivo dalla città-patria. Adesso è solo, definitivamente
solo. Uno sbandito è uno cui han tolto la terra da sotto i piedi:
immaginiamolo. Immaginiamo la vita di un uomo braccato, vittima di un
processo farsa, condannato a morte, che chiunque può legittimamente e
impunemente uccidere. In ogni momento un sicario stipendiato può
prendergli la vita. Immaginiamolo povero, senza più casa, senza denaro in
tasca, ad attraversare valli e montagne con mezzi di fortuna, a piedi o sul
dorso di un asino, guardandosi attorno circospetto, alla ricerca della
benevolenza di un signore, di una corte che lo possa ospitare. Lui, così
fiero, ridotto a dover chiedere. Nel Paradiso, anni dopo, farà dire al suo
antenato Cacciaguida:

Tu proverai sì come sa di sale


lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.
(Par, XVII, 58-60)

La terzina è famosa, e io l’ho fissata nella memoria da quando me la


cantava mio padre: il miracolo dell’arte, di quella musica irresistibile che è
la poesia, risiede proprio nel dare forma alla materia delle parole e dei
suoni. Quel sale così amaro in bocca, in cui risuona la fatica di scendere e
salire dalle scale dei palazzi dei signori, il duro calle, la vergogna di
chiedere, di abbassare la testa davanti al potente di turno che mentre lo
scruta cerca di ricordare la condanna sul capo di quell’uomo: al rogo, e
perché? Perché era un barattiere, ovvero un politico corrotto, uno che si è
arricchito a spese dello Stato? Un ladro insomma… e noi dovremmo
ospitare a corte un ladro? Meglio non abbassarla, quella testa, meglio
tenerla eretta, guardando dritto negli occhi il signore cui si fa richiesta di
cibo e accoglienza, nascondendo il desiderio del pane altrui. Come un
musicista, il poeta concatena sillabe e suoni sul suo spartito, crea con
l’endecasillabo un potente ritmo percussivo, musica e visione al tempo
stesso. Il risultato è che noi vediamo tutto quello che la musica di Dante ci
fa entrare nell’orecchio.
Eppure, anche in quella condizione così difficile, Dante ritrova la sua vera
arma: la scrittura. Per dare voce a quella solitudine, per continuare a fare il
suo dovere di intellettuale politico. Perché l’essere lontano dalla patria,
infamato, additato come un traditore e un ladro, gli provoca una ferita che
va rimarginata. È forse del 1305, o del 1306, la composizione, rimasta
incompiuta, di un trattato in latino: il De vulgari eloquentia. È il frutto di
chi ha messo la testa fuori dalla Toscana, di chi ha scoperto l’Italia. Il
fiorentino comincia a sentirsi cittadino del mondo: «Nos autem, cui mundus
est patria». Ovvero: «Noi, che abbiamo per patria il mondo». In questo
trattato di linguistica, in questa prima storia della letteratura italiana, Dante
si pone uno scopo preciso: dimostrare che il «volgare», la lingua «che si
apprende senza norma alcuna imitando la nutrice», è più nobile dell’altra
lingua, quella che si impara solo «col tempo e con assiduità di studio», il
latino. In altri termini, quelli che useremmo oggi: la lingua viva è più nobile
della lingua morta. La prima è in movimento, la seconda è inalterabile come
un cadavere. E, dopo aver dimostrato questo, Dante cerca quale sia il
volgare più «illustre», tra i tanti che si parlano in Italia: per questo passa a
un esame delle varie «parlate» che affollano la penisola, a partire dalla
divisione tra la parte destra e la parte sinistra dell’Italia, prendendo come
spartiacque l’Appennino. Milanesi e veronesi, romani e fiorentini, ravennati
e faentini, e così via; il catalogo delle diverse parlate del popolo si
differenzia e si ramifica, e Dante sembra quasi sorpreso dalla ricchezza di
lingue che varia da un Comune all’altro, addirittura dalla periferia al centro
di una stessa città, e ci appare come un moderno glottologo che in possesso
di registratore annoti con precisione che a Imola si parla con una certa
morbidezza e mollezza, a Ferrara predomina la gutturalità, e in Puglia la
lingua ha un suono barbaro e turpe. E poi confronta gli accenti con le
composizioni dei poeti che in quelle lingue hanno scritto: e forse quella dei
bolognesi gli sembra la più armoniosa perché in quella lingua ha scritto il
suo maestro in poesia, l’iniziatore del «dolce stil novo», Guido Guinizelli.
Ma perché un trattato sulla «preminenza» del volgare è scritto in latino?
Come nel caso delle rime d’amore, anche qui è forse decisivo il
destinatario. Il bisogno di parlare a interlocutori in carne e ossa è uno dei
tratti più caratteristici del Dante scrittore. La Commedia è punteggiata di
appassionate invocazioni al «lettor», a chi lo legge. È a te come te che
parlo. Dante scrive il De vulgari eloquentia pensando ai dotti e agli
universitari. È loro che vuole convincere. E allora lo fa dimostrando di
possedere la loro lingua, di non temere, lui che non ha titoli accademici, il
giudizio dell’Accademia. Perché prendano coscienza che il latino non basta
più. Non è detto che sia sufficiente questa mossa per essere ascoltato dai
circoli universitari, ma almeno lo scrivere in latino non comporterà un loro
rifiuto a priori, come invece sarà rifiutata a priori, anni dopo, causa il
peccato di esser scritta in volgare, la Commedia. E, attenzione, non si tratta
solo di uno studio filologico. Non si tratta solo di un primo, pionieristico
tentativo di analizzare metri e stili e costruzioni retoriche. Dante è sempre
mosso da una necessità che non è mai solo estetica o scientifica, ma che
riguarda la cultura viva, il desiderio di «felicità» che ci tiene vivi su questa
terra. In questo caso, Dante intende offrire uno strumento importante alla
nobiltà, a quella classe sociale che a suo modo ha inteso selezionare con le
sue canzoni morali e politiche, quella che non è traviata dallo smodato
desiderio di denaro e che, sì, non è riuscita a impedire lo sfascio di Firenze,
ma alla quale Dante consegna ancora le sue speranze di rinnovamento. Si
rende conto che i ceti dirigenti italiani mancano di una lingua comune. Nel
passato era il latino, ma adesso «principi, baroni, cavalieri e molt’altra
nobile gente» non sono «litterati», ovvero non capiscono il latino. Occorre
uno strumento nuovo, che va cercato in mezzo alle tante lingue che abitano
la penisola, le lingue che corrono nelle strade, che affollano i mercati.
Occorre una lingua però che sia anche «illustre», ovvero che abbia i
caratteri dell’antico latino: dignità, omogeneità, stabilità. Questa lingua
ancora non esiste, ma l’ardita utopia di Dante è che lo diventi il volgare. Il
De vulgari eloquentia è come un primo laboratorio di preparazione alla
Commedia, per certi aspetti contraddittorio: in esso Dante proclama la
superiorità dello stile «tragico» rispetto a quello «comico». Forse non ha
ancora deciso di chiamarla Commedia, quel grande poema che comincia a
ronzargli in testa.

Scrive il poeta, il profugo, sballottato da una corte all’altra, scrive in una


locanda di passaggio, contemplando il sole che spunta dietro le montagne,
scrive ascoltando il canto degli uccelli tra i rami. È un febbrile cantiere al
lavoro, è l’arte nella fuga. Si fa le ossa, anche se non ne è consapevole, per
affrontare la grande sfida che lo attende. E negli stessi anni del trattato sulla
lingua si dedica anche a una grande opera a vocazione enciclopedica,
anch’essa incompiuta, il Convivio, che con il De vulgari eloquentia forma
una sorta di dittico: là voleva dare alla nobiltà una nuova lingua, qui intende
gettare in maniera sistematica i fondamenti di quella filosofia accennata
nelle canzoni del decennio precedente. E proprio tre di quelle canzoni, che,
lo abbiamo visto, sono state gli strumenti con cui il giovane Alighieri si è
preparato alla politica, vengono qui riprese e commentate. Gli interlocutori
sono sempre i «non litterati», e «non solamente maschi, ma femmine»,
quelli appunto che intendono solo il volgare. Il Dante che scrive il Convivio
è lo stesso che, negli anni precedenti all’esilio, si proponeva di insegnare in
che cosa consistesse la vera nobiltà d’animo: «gentilezza», sensibilità e
raffinatezza acquisibili attraverso la cultura. È lo stesso Dante che però in
quell’epoca parlava da uomo libero, mentre oggi è un condannato al rogo,
uno sbandito. E il suo insegnamento non si limita alla questione della
nobiltà d’animo: va oltre. Qual è il suo orizzonte, ora che la sua patria è il
mondo? Appunto, il mondo. Il mondo intero. I singoli Comuni, non solo
Firenze, hanno dimostrato che non sanno porre argini alla violenza. È
necessaria una guida diversa, che sappia portare pace e armonia, là dove le
fazioni insanguinano le strade e bruciano le case. Nel quarto libro
dell’incompiuto Convivio comincia a farsi strada la concezione imperiale.
Dante aderisce entusiasta alla dottrina dell’impero universale (o
monarchia), necessario al bene del genere umano e pertinente per diritto a
Roma. Il fondamento di quel diritto è situato da Dante nel volere di Dio: qui
in nuce c’è già la teo-ria dei «due soli» che Marco Lombardo enuncerà nel
canto XVI del Purgatorio. Dante riconosce allo stesso tempo i due poteri
universali, ma li distingue con un colpo d’accetta: la sovranità spirituale al
papa, la sovranità temporale all’imperatore, il quale dipende da Dio
direttamente, non dal papa. Così ragiona il Vangelo, dice.

Avviene il fatto insperato, il fatto che apre alla speranza il profugo


fiorentino: non sappiamo dove fosse il 27 novembre 1308, ma l’elezione di
Enrico di Lussemburgo a re di Germania fu per lui un terremoto. Forse
questa elezione avvenne quando stava scrivendo il quarto libro del
Convivio? Forse è per questo che smise di proseguire nella scrittura, perché
era più importante impegnarsi a fianco del potenziale imperatore? Non lo
sappiamo. Sta di fatto che Dante ricomincia a cercare i contatti con i
compagni esuli da cui si è allontanato. E nel 1310 Enrico scende in Italia,
per essere incoronato imperatore dal papa. Qui viene da chiedersi: quale
papa? Bonifacio VIII era morto nel 1303. Guardiamolo da un’altra
prospettiva il potente pontefice, la «volpe» che ha segnato il destino di
Dante. Con tutti i suoi peccati, è stato anche l’ultimo papa che ha tentato di
conservare alla Chiesa il ruolo di potenza egemone che aveva svolto negli
ultimi due secoli: quando contro di lui il re di Francia Filippo IV il Bello
compì una serie di atti ostili, Bonifacio si trovò impotente, privo di armi
materiali con cui imporsi. Un conto erano il Lazio, o Firenze, un altro la
nuova potenza d’oltralpe. Privo degli eserciti per imporsi, Bonifacio ricorse
alla schermaglia ideologica e nella bolla Unam Sanctam, proclamò
fieramente che non ci sono «due soli», ma uno solo, la Chiesa, cui spettano
entrambi i poteri, lo spirituale e il temporale. Noi non prendiamo ordini da
nessuno, fu la risposta di Parigi. Ad Anagni, Bonifacio venne addirittura
schiaffeggiato e deriso da un messo del re di Francia, complici i nobili
romani in rivolta, e morì pochi giorni dopo. Con lui moriva l’universalismo
del papato. Trionfavano le nazioni, in particolare la Francia, che seppe
conquistare il controllo della Chiesa, del collegio dei cardinali, dell’intera
curia romana. I suoi successori eseguiranno gli ordini di Parigi, fino allo
spostamento della sede papale da Roma a Avignone: lo schiaffo di Anagni
rimbomberà oltraggioso in tutta la cristianità, e la città voluta dalla
Provvidenza, la città di san Pietro, primo martire e primo papa, rimarrà a
quel punto solo un piccolo Comune dell’Italia centrale, al pari di tutti gli
altri. E i papi, che erano riusciti, per secoli, a tener testa agli imperatori, ora
discenderanno al rango di cappellani di corte.
Ma quando Enrico scende in Italia la sede del papato, per quanto
controllata dai francesi, è ancora a Roma. Enrico scende al sud proprio per
rompere l’accerchiamento francese, per passare da re di Germania a
imperatore universale, per riconquistare l’Italia riottosa, i cui Comuni hanno
combattuto fino alla morte contro le pretese del suo antenato Federico
Barbarossa. L’Italia, così ragiona il nuovo, potenziale imperatore, è pur
sempre il «giardin dello imperio», come la definirà Dante nel canto VI del
Purgatorio. L’impresa, sostenuta dalla propaganda di corte, si risolse in un
disastro. Si formò una agguerrita lega guelfa contro di lui, mentre i
ghibellini suoi sostenitori avevano sì qualcosa da chiedergli, ma nulla o
troppo poco da dare, se non una fedeltà a parole. I veneziani poi si
risparmiarono anche quelle, e un cronista di Enrico li bolla sarcastico:
perché i veneziani non giurano fedeltà all’imperatore? Perché non
riconoscono nulla al di là di quel che fa loro comodo, né Dio, né Chiesa, né
Impero, né Terra, né Mare…
Enrico provò a mediare, a premiare gli amici, a punire chi gli resisteva.
Ma finì per apparire il capo di una fazione, la ghibellina, non l’imperatore
di tutti, come Dante sperava quando forse andò a rendergli omaggio a
Milano, quando in Sant’Ambrogio Enrico ricevette la leggendaria «corona
ferrea» del regno d’Italia. I suoi fedeli approfittarono dell’appoggio
imperiale per liquidare antichi avversari, o per espandersi territorialmente,
come fece Cangrande della Scala, signore di Verona, che occupò Vicenza; e
i più si lamentavano perché la protezione imperiale costava troppo. Enrico,
discendendo con il suo esercito verso Roma, si logorò in un’estenuante
serie di battaglie e inutili assedi. Una volta arrivato nel cuore della
cristianità, si fece nominare imperatore nella basilica di San Giovanni in
Laterano e proclamò solennemente la sovranità dell’imperatore su tutti i
monarchi. Il re di Francia gli rispose come aveva risposto a Bonifacio VIII:
noi non prendiamo ordini da nessuno.
Il mondo è profondamente cambiato: i poteri universali del papato e
dell’impero, quelli che han dettato legge per secoli, non sono più tali, non
sono più universali. A guardarci bene, anche dal punto di vista simbolico,
l’incoronazione di Enrico VII fu un’incoronazione monca: non fu effettuata
dal papa in persona, come era sempre avvenuto, ma dai suoi emissari. E la
morte del nuovo imperatore, del tutto casuale, sopraggiunta nei pressi di
Siena nel 1313, interruppe una spedizione sotto tutti i punti di vista
fallimentare. A Dante crollò il mondo addosso: possiamo immaginarcelo
mentre apprende la notizia? Firenze era ormai irraggiungibile, e del sogno
dell’impero non restava che un fantasma dissolto nell’aria. Un cronista del
tempo scrisse che gli esuli, dopo la morte dell’imperatore, erano rimasti
come il busto cui sia stata mozzata la testa.

Di cosa morì lo sfortunato Enrico VII, «l’alto Arrigo», come lo chiamerà


Dante nel Paradiso, riservandogli un posto tra i beati? Di malaria. Come
già Guido Cavalcanti, come otto anni dopo Dante Alighieri. Non sembra,
ma la Storia è un romanziere implacabile.
L’ultimo rifugio

Il mondo va in un’altra direzione. Dante ne prende atto. Il suo sogno è


crollato. E allora? Dante non è un sociologo, un cronista che si limita a
descrivere le forze in campo, è un poe-ta prestato alla politica, in lui
sguardo sul presente e slancio utopico sono tutt’uno. E alla poesia torna a
rivolgersi. I fatti gli hanno dato torto? Peggio per i fatti. Non sappiamo
esattamente quando né dove abbia cominciato, ma ora la sua unica ragione
di vita diventa la composizione del «poema sacro» al quale ha iniziato a
mettere mano, la grande opera in cui tracciare la speranza per un futuro di
giustizia, in cui gridare al mondo la sua innocenza, in cui fondere insieme,
in una nuova forma, gli avvenimenti di una vita e i materiali e le idee e la
sapienza acquistati nello scrivere il De vulgari eloquentia, il Convivio e
anche il terzo trattato, quel Monarchia che a differenza dei primi due è
riuscito a terminare, e che per i dantisti è forse il rompicapo più arduo:
quando l’ha scritto? Negli anni della discesa di Enrico VII? Subito prima?
Subito dopo? Lasciamo stare. Il Monarchia è la teo-rizzazione della
separazione tra i due poteri, il temporale e lo spirituale, quella che aveva
cominciato a delineare nel Convivio. Dante sogna che l’impero sarà la fonte
della giustizia nel futuro, e su tale profezia costruirà l’architettura politica
del suo capolavoro.

È vero, i fatti poi hanno dato torto al sognatore. L’impero universale è


definitivamente tramontato, non ci saranno nuovi Enrichi a illudere,
l’Europa diventerà l’Europa delle monarchie nazionali. Da questo punto di
vista il genio Dante Alighieri non comprende affatto la direzione della
Storia in cui è immerso. Fraintende. Generazioni successive di storici gli
daranno del reazionario. Ma perché allora il suo grande poema ci parla e ci
commuove ancora, a distanza di sette secoli, nonostante i suoi abbagli?
Dove passerà gli ultimi otto anni? Anche qui i dantisti si dividono, senza
dati certi. Certamente approdò alla fastosa corte di Cangrande della Scala,
signore ghibellino di Verona, forse ci rimase un paio d’anni. Forse. Sta di
fatto che l’ultimo rifugio sarà a Ravenna. Lì accade un fatto nuovo. Negli
anni dell’esilio, il profugo ha cercato in giro per l’Italia un signore cui
chiedere ospitalità e protezione: questa volta è il signore a cercare Dante. Il
signore è il podestà di Ravenna, Guido Novello, della famiglia dei Da
Polenta. Guido ha dieci anni meno di Dante, è un principe amante della
pace, poeta egli stesso: ha cambiato la politica dei suoi predecessori, e da
città guelfa «arrabbiata» Ravenna si è trasformata sotto il suo governo in
guelfa «moderata», ed egli è tra i primi nobili dell’epoca a dedicarsi con
passione di mecenate all’arte e alla poesia, anticipando quella che sarà la
prassi dei signori del Rinascimento. Giovanni Boccaccio, nel suo Trattatello
in laude di Dante, la prima biografia dell’Alighieri, usa espressioni assai
efficaci: scrive che il signore di Ravenna, «famosa e antica città di
Romagna», sapendo della «disperazione» in cui viveva il poeta dopo la
morte di Enrico VII, gli evitò «la vergogna» del domandare, e «si dispose di
riceverlo e onorarlo».

Guido Novello aveva forse già incontrato Dante? Vien da pensare che
avesse letto quei canti dell’Inferno e del Purgatorio che circolavano, e che
tra questi uno lo avesse profondamente colpito, quello in cui Dante
disegnava il ritratto immortale di Francesca da Rimini, di cui Guido
Novello era nipote. Da Rimini? Nella memoria collettiva oggi la si ricorda
riminese, la famosa adultera, perché Silvio Pellico e D’Annunzio così ce
l’hanno tramandata, essendo lei sposa di un Malatesta riminese, ma è una
deformazione storica. Certo il nipote Guido non la pensava in quel modo:
Francesca era sua zia, per nascita e famiglia ravennate. La sfortunata
protagonista del V canto dell’Inferno non aveva goduto di buona stampa
presso i contemporanei, per via della sua infedeltà al marito e del fatto di
sangue che ne era conseguito. E, si sa, il peso della colpa e dello scandalo
ricadeva allora (allora?) più sulle donne che sugli uomini. Per i Da Polenta,
quello scandalo era un macigno enorme da portarsi dietro. Ma ora un poeta
fiorentino aveva scritto su di lei dei versi meravigliosi, e Guido non crede ai
suoi occhi, nel leggere con quanta pietà e tenerezza Dante ha lasciato
memoria di quel fattaccio di cronaca nera.
Una bufera infernale, che mai non si arresta, sbatte di qua e di là,
percuotendoli come una sadica frusta, i lussuriosi: in mezzo a loro,
allacciati per l’eternità, Francesca e il suo amante Paolo. Neanche Dio li
può staccare? Neanche Dio, neanche l’Onnipotente. E vedendoli andare
così leggeri, nel vento, Dante chiede a Virgilio se può rivolgere loro la
parola. Ma certo, gli risponde la sua guida, pregali in grazia di quell’amore
che li sospinge. Ma non è la bufera a sospingerli? Certo, è la bufera. Ma che
cos’è l’amore, non è forse una bufera che comanda al nostro cuore e ai
nostri sensi, e ci trascina dove vuole? Noi sappiamo che amore è una
esperienza fondamentale per Dante, da sempre, è il Signore del suo cuore
fin dalla prima visione di Beatrice a nove anni: cosa ci fa amore all’inferno?
Dante li chiama: «O anime affannate /venite a noi parlar, s’altri nol niega!»
E Paolo e Francesca, come «colombe dal disio chiamate», gli si fanno
incontro, e Francesca risponde, e parla a sua volta come un poeta, in quel
luogo in cui tutti lì attorno gridano e bestemmiano, lei invece risponde
usando parole luminose, approfittando di un breve istante in cui il vento
infernale è come per incanto cessato:

O animal grazioso e benigno


che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re dell’universo
noi pregheremmo lui della tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
(Inf, V, 88-93.)

È dannata, la creatura capace di parlare a quel modo? In quei versi ci sono


la grazia e la benignità e la preghiera, e uno struggente «se fosse», riferito al
«re dell’universo», che mette tutto in bilico: Dio non è certo «nostro
amico», ammette Francesca, a causa del nostro «mal perverso», ma… se lo
fosse? Se potesse esserlo, nella sua misteriosa misericordia? In fondo ci
permette di restare mano nella mano anche qui, non vedi? Tutti gli altri
sono condannati alla solitudine, noi ancora ci amiamo, non vedi? Guido
legge e resta sorpreso da quel ritratto di sua zia Francesca, che sembra
quasi… innocente? No, certo, cosa vado a pensare, sono troppo di parte,
ammette tra sé il podestà-poeta… eppure… e riprende a leggere… è tra i
dannati, non ci sono dubbi… eppure… Guido guarda fuori dalla finestra, è
una giornata di nebbia, come spesso accade d’inverno in Romagna, di
visioni, ombre che pian piano si avvicinano e si fanno corpi, corpi che a
loro volta si allontanano e sfumano e si ritrasformano in ombre… eppure…
Guido legge e rilegge, e capisce che il ritratto infamante che di sua zia
Francesca circola in giro è distrutto per sempre, capisce che la sua memoria
sarà riabilitata, purificata per via poetica, in grazia di quella struggente
dolcezza che il poeta le mette nella voce, facendole evocare quell’Amore
che li ha incatenati in vita e che li serra insieme anche da morti. È lo stesso
«Amor» del XXXIII del Paradiso, quello cantato da Dante per descrivere –
senza descrivere – il suo affondare nel mistero della Divinità: «l’Amor che
move il sole e l’altre stelle». Domanda: cosa ci fa Amore all’inferno? Cosa
ci fa il paradiso all’inferno? E questo Guido però non può domandarselo,
visto che quel XXXIII canto Dante non lo ha ancora scritto. Guido alza gli
occhi dal manoscritto: è commosso, davanti al ricordo del primo bacio tra
gli amanti, che per noi è come uno struggente primo piano cinematografico:
«la bocca mi baciò tutto tremante». È commosso come lo stesso Dante
quando, nel sentire le ultime parole di Francesca, viene sopraffatto dalla
pietà, e «cade come corpo morto cade».
Allora Guido decide di invitare a Ravenna l’esule fiorentino, quel poeta
di cui, da collega, avverte senza invidia la statura eccelsa, e l’esule accetta.
Ma il signore dei Da Polenta fa di più, e dimostra così di comprendere a
fondo la situazione di chi per anni ha lottato quotidianamente per
sopravvivere: lo esonera da ogni obbligo di servire a corte, lo sottrae ai
frivoli contatti con la gente di palazzo, gli evita le invidie e le malignità
tipiche del costume cortigiano, non ne fa un suo sottoposto, ma risolve una
volta per tutte il problema del suo sostentamento economico: insieme a
Dante chiama a Ravenna anche i figli (forse anche Gemma?) e intesta al
primogenito Pietro – a Dante non sarebbe stato possibile a motivo delle sue
condanne – il rettorato di due chiese ravennati, le cui rendite avrebbero
garantito, a partire da quel momento, una vita dignitosa e tranquilla.

Una casa e uno scrittoio, ecco il senso di quell’ultimo, ospitale rifugio. Una
casa dove radunare la famiglia, uno scrittoio dove completare l’opera,
quella Commedia che Boccaccio, dopo la morte del poeta, dichiarerà
«divina». E anche un lavoro di docente allo Studio, l’università di allora.
Dante non si era mai laureato, e infatti Giovanni del Virgilio, accademico
bolognese, nelle sue epistole lo chiama «magister», maestro, non «doctor»,
che è la denominazione che spetta ai laureati. Ma Guido Novello non
guarda a queste sottigliezze: per lui, poeta in volgare, Dante è «magister» e
«doctor» insieme, e nello Studio ravennate l’autore della prima grammatica
italiana, il De vulgari eloquentia, insegna retorica volgare, come mi pare
emerga dallo scambio di lettere con Giovanni del Virgilio. E attorno a Dante
si forma un gruppo di nuovi amici e allievi, intellettuali, notai e
professionisti: se poi vogliamo dar retta alle Vite dei più eccellenti pittori
del Vasari, Dante arricchisce la vita culturale cittadina chiamando a
Ravenna l’amico Giotto, che esegue (o fa eseguire agli allievi) gli affreschi,
oggi perduti, nelle chiese di San Francesco e San Giovanni evangelista.
Così il Vasari se li immagina, i due artisti toscani, il pittore e il poeta,
mentre passeggiano all’alba nella pineta, mentre entrano nelle antiche
basiliche e ammirano i mosaici bizantini: Giotto mostra all’amico «le
movenze eleganti e il colorito robusto delle figure a mosaico», Dante spiega
al pittore «la filosofia dei concetti e dei simboli» con la quale operarono gli
antichi artefici.

È facile dirlo a posteriori, ma Ravenna sembra proprio essere la città del


destino, per il politico fallito, per l’esule avvelenato dall’ansia di tornare a
Firenze, per lo scrittore desideroso di portare a termine l’opera di tutta una
vita. Una città silenziosa e piena di memorie, la pineta di Classe allora assai
più rigogliosa ed estesa di oggi, i tronchi possenti, come colonne di
basiliche nelle cui navate non entra la violenza del vento, e in cui le foglie
dei pini vibrano come le corde di una cetra, tanto da far immaginare al
poeta che così fosse il paradiso terrestre delle origini. E la sconfinata distesa
della pianura e del mare, i ricordi dell’ultima capitale dell’impero romano e
le testimonianze nei mosaici delle sorgenti cristiane: la tomba di una
imperatrice latina, Galla Placidia, e il mausoleo di un re barbaro, Teodorico,
e le reliquie di santi come Romualdo e Pier Damiani. Forse in nessun altro
luogo avrebbe potuto trovare l’incontro delle due storie, l’Eneide e i
Vangeli, che tanto lo commuovevano. Un raffinato storico del secolo scorso,
Attilio Momigliano, diceva: «Quando voglio capire la storia d’Italia, prendo
il treno e vado a Ravenna».
E si arriva al settembre 1321. Guido, che non ha mai chiesto nulla
all’ospite, se non di illuminare la città con la sua presenza, ora è come
costretto a chiedergli un favore. Ravenna possiede Cervia e le sue saline, e
il sale di Cervia costituisce una delle massime risorse per la città; al tempo
stesso il prezioso alimento è oggetto di un patto con Venezia, per cui la
Serenissima ne pretende di diritto e di fatto il monopolio commerciale,
limitandosi a un versamento in denaro alla Signoria dei Da Polenta. I
ravennati, che non possono ufficialmente vendere ad altre città neanche le
eccedenze, cominciano a praticare il contrabbando del sale, e i veneziani,
quando se ne accorgono, non pagano più il contributo dovuto. È crisi
politica e diplomatica tra le due città. Venezia incarica gli alleati forlivesi di
attaccare Ravenna, Guido Novello chiede l’intervento pacificatore di papa
Giovanni XXII: il conflitto è imminente. A quel punto Guido si gioca la carta
Dante e manda il poeta in missione a Venezia, per scongiurare la guerra:
Dante non può tirarsi indietro, deve tutto a quel «gentile» cavaliere. È stato
per anni un politico eloquente? Bene, farà ancora una volta il suo dovere.
Ma l’eloquenza del poeta non convince i veneziani e Dante ritorna a mani
vuote. Immaginatevi il viaggio di ritorno, le valli tra Comacchio e
l’Adriatico, immaginatevi le piogge di fine estate, le paludi non bonificate,
le esalazioni malsane, le zanzare in agguato: Dante contrae una violenta
febbre malarica e pochi giorni dopo muore nella sua casa ravennate,
attorniato dai figli, dagli amici, dai signori della città. È il 13, o forse il 14
settembre 1321.
E cielo e terra

Se mai continga che ’l poema sacro


al quale ha posto mano e cielo e terra
sì che m’ha fatto per molti anni macro.
Par, XXV, 1-3

Andiamo all’origine. Alla scintilla, da cui è nato l’incendio. Dimenticate ciò


che intimidisce. Dimenticate il nome altisonante nei secoli. Dimenticate i
monumenti sparsi in tutta Italia e nel mondo, la corona di alloro sulla testa
di pietra, dimenticate la pietra, dimenticate le ore di scuola in cui pensavate
ad altro mentre il professore vi leggeva quel poema noioso e
incomprensibile, dimenticate quella cantilena, dimenticate come ce lo
hanno sempre presentato, con spreco di maiuscole, il Genio Universale, il
Poeta Sommo, il Creatore della nostra lingua, dimenticate tutte le
maiuscole, dimenticate il massiccio imponente, la montagna che fa paura,
che non si può scalare. All’origine non c’è una montagna. C’è un bosco,
buio, in cui vi siete persi, in cui tu, tu che mi stai leggendo, ti sei perso. Io?
Proprio io? È di me che si parla?

All’origine c’è un uomo perduto in una selva. È la selva oscura delle sue
paure, della sua disperazione, dei suoi errori. È il suo fallimento, quella
selva, amaro come tutti i fallimenti, come tutte le sconfitte, amaro come la
morte. Vi ricorda qualcosa questa immagine? Qualcosa che avete vissuto,
qualcosa che state vivendo ora, proprio ora, mentre vi parlo? Quella selva
piena di legni storti, che ci fa le cose stonate, che ci impedisce l’abbraccio.
Che ci fa acida la bocca, che ci strozza il respiro. Ma quando ci sono caduto
dentro? Ma come è potuto accadere? Quell’uomo non sa rispondere. È forse
l’amarezza nata da un abbandono, dall’essere o avere abbandonato, da una
ferita che non si rimargina, di cui solo il ferito balbetta il nome? Stavo
dormendo forse, quando la vita mi si è accartocciata tra le mani, come un
foglietto illeggibile? Forse. Ma com’è che non me ne sono accorto? Certo
quel sangue che sgocciola è il mio, adesso sì che me ne accorgo, adesso sì
che quella ferita mi svuota il cervello, che quel dolore mi impedisce di
respirare. Quell’uomo nel bosco dai rami intricati, in una notte che pare non
finire mai, siamo tutti noi. È l’umanità, uomini e donne. Sei tu, mio lettore.
Sono io.

E quando ci pare di poterne uscire, quando un raggio di luce filtra tra le


ombre dei rami, ecco che si fanno avanti tre bestie feroci, per divorarci.
Anche qui, ve lo chiedo ancora, vi ricorda qualcosa questa immagine? La
sensazione di essere fatti a pezzi, dell’alzarci la mattina e sentire che il
corpo non è intero, che non ce la possiamo fare, che è troppo faticoso
ricominciare, che forse era meglio restare nel magma indifferenziato del
sonno, restare ombra tra le ombre, e non affrontare, ancora, ancora oggi,
quella insensatezza che è la vita, quel branco di belve là fuori, pronte a
sbranarci, anche solo con uno sguardo, con un giudizio cattivo. È tutta qui?
– ci siamo domandati in certi istanti del nostro cammino – è tutta qui la
vita? Quante volte ce lo siamo domandati: è tutta qui la vita? Nel mezzo di
una lite feroce, davanti a una violenza incomprensibile, davanti al cadavere
di un amico, nel lento scorrere degli anni, sospesi tra la paura di essere
inadeguati davanti alle sfide o ubriachi di presunzione, è tutta qui, è questa
orrenda stupidata, e noi non siamo che pacchi, spediti dalla sala parto al
becchino?

Il poema così puntigliosamente autobiografico, pieno di fatti e persone, e


vicende storiche che riguardano, da vicino o da lontano, un certo Dante
Alighieri, nato a Firenze nel 1265, inizia con un uomo senza nome.
Smarrito. E il suo nome apparirà un’unica volta in quei 14.233 versi, nel
canto XXX del Purgatorio, e sarà Beatrice a pronunciarlo. E Dante quasi si
scusa: nel volgersi, al suono del suo nome, aggiunge che per «necessità» lo
ha dovuto mettere, perché se questo pellegrinaggio dalle tenebre alla luce
riguarda l’umanità intera, la rampogna che Beatrice ora gli farà, la colpa
che Beatrice ora gli ricorderà, il pentimento che Beatrice ora esigerà,
riguardano lui e nessun altro, Dante Alighieri, fiorentino, qui rosso per la
vergogna.

All’inizio del viaggio c’è la paura, e la paura fa a pezzi.


Andare verso l’Alto significa anche andare verso l’Altro. L’uomo sta per
essere divorato dalle belve. Vede un’ombra farglisi incontro. Che fa?
Chiede aiuto. «Miserere di me». Abbi pietà di me, chiunque tu sia. Che
invenzione, quell’implorare aiuto metà in latino e metà in volgare, come
sarebbe oggi partire con una frase in italiano e poi cadere nel dialetto, che
invenzione! Gridata quindi non da un dotto che sa parlare, che si controlla,
ma da un comune mortale le cui gambe tremano. Quell’espressione
pasticciata è il corpo, è il suo affanno a gridarla. E l’aiuto arriva. Qualcuno
gli tende una mano. A guidarlo, dal basso profondo dell’inferno fino alle
luci del paradiso, saranno in tre: Virgilio, un pagano – pensate che scelta
ardita per quell’epoca: Dante non si fa guidare da un santo eremita, da un
credente, ma dal suo maestro di poesia, confinato nel Limbo –, e Virgilio lo
scorterà fino al paradiso terrestre, e lo consegnerà a Beatrice, e con Beatrice
ascenderà all’Empireo dei beati, e là, negli ultimi passi, sarà san Bernardo a
pregare per lui la Vergine, a metterlo di fronte al Mistero. Una catena di
mani.

Qual è il punto? Il punto decisivo, qual è? È quello che Dante scrive


nell’Epistola XIII a Cangrande: ho composto la Commedia per rimuovere i
mortali dallo stato di miseria e condurli alla felicità. Splendida
megalomania dei poeti! La felicità, nientemeno! Non li ha scritti, quei
14.233 versi, per compiacere un principe o vincere un premio letterario o
crogiolarsi nei talk-show televisivi (diremmo oggi). Li ha scritti per
condurci alla felicità. Tutti noi, anche tu, mio lettore. Che presunzione. A
guardarci bene, che insolenza.
Eppure noi tutti sappiamo che il punto, il punto che grida dentro di noi, è
proprio quello: il nostro desiderio. Abbiamo fame di luce. E Virgilio, il
«dolce padre» come lo chiama Dante, glielo spiega per bene: se vogliamo
arrivare alla luce, dobbiamo prima attraversare le tenebre. E passare
attraverso l’inferno, il «cieco carcere», il labirinto in cui l’umanità si
trasforma in mostro, e guardare in faccia il male, in tutte le sue orride
variazioni. Dobbiamo sostenere lo sguardo, senza paura, «specchiarci» in
quella rovina che è l’uomo, in quell’inferno di distruzioni che ognuno di noi
– nessuno escluso – può infliggere agli altri e a se stesso. Noi
contemporanei l’inferno lo conosciamo bene. Siamo specialisti di inferni, e
soprattutto di inferni senza uscita.
La Divina Commedia è grande teatro. Sul suo palcoscenico appaiono più di
500 personaggi. Nessun’altra opera medievale s’avvicina a una tale
profusione, perché l’autore mescola i vivi e i morti, la storia antica e la
cronaca del suo tempo. Un artigiano sconosciuto come Belacqua ha il suo
posto su quel palco insieme a papi e imperatori, e ladri e santi e truffatori:
su quel palcoscenico c’è l’umanità intera, i morti e i vivi, ci sono tutte le
razze. È piena di dialoghi, di monologhi, addirittura di «a parte», come
nessun’altra opera della letteratura italiana. Nel 1797, Giambattista Brocchi,
nelle sue Lettere sopra Dante, scrisse: «Io non dubito che Dante si sarebbe
alzato al paro di Eschilo o di Shakespeare se ai tempi suoi fosse stata in
voga in Italia l’arte del teatro e ch’egli l’avesse voluta coltivare».
D’altronde, fin dal titolo: Commedia, Dante si rivela far parte dei «technitai
Dionisou», i «tecnici di Dioniso», così come i greci antichi chiamavano la
gente di teatro, i fedeli di Dioniso, di quel dio che poteva morire come gli
uomini ma poi sapeva risorgere, come l’attore sulla scena tutte le sere.
Dioniso è il dio di Seneca e Terenzio, i drammaturghi romani che Dante cita
nell’Epistola xiii a Cangrande per spiegare la ragione di quel titolo. Oggi
potremmo anche aggiungere: è cinema. La macchina spazia tra primissimi
piani e campi lunghi, talvolta usa il drone dall’alto: ci mostra vicinissimo il
dettaglio del volto dell’invidiosa Sapìa con gli occhi cuciti dal filo di ferro,
come uno sparviero; oppure si allarga su tutto lo schermo per farci
sprofondare nel fiume di sangue bollente in cui i diavoli torturano i tiranni e
i violenti; oppure è sistemata sulla groppa del mostro Gerione, per
riprenderne il volo. E in sala di montaggio Dante precede Ejzenštejn.
Teatro, cinema: arti della visione.

Ma da questo inferno si esce. Camminando. La guida Virgilio davanti, e


Dante dietro. L’anima ce la salviamo con i piedi. Scrive il poeta russo Osip
Mandel’štam: «L’Inferno, e ancor più il Purgatorio, celebrano la camminata
umana, la misura e il ritmo dei passi, il piede e la sua forma. Del passo,
congiunto alla respirazione e saturo di pensiero, Dante fa un criterio
prosodico. Egli designa l’andare e il venire ricorrendo a un gran numero di
espressioni multiformi e affascinanti. In Dante, filosofia e poesia sono
sempre in cammino, sempre in piedi». Mandel’štam ha scritto queste frasi
nel 1933 nella sua Conversazione su Dante, prima di morire in un campo di
concentramento stalinista.
L’inferno è una voragine immensa, un pozzo che, cerchio dopo cerchio,
arriva al centro della terra. Dante e Virgilio discendono, è quella la
direzione del loro movimento, e in quel loro discendere vedono come la
violenza possa sfigurare il volto dell’umanità. Al centro della terra, il corpo
gigantesco di Lucifero, l’angelo ribelle, la cui caduta dai cieli ha provocato
la voragine infernale: uno schianto enorme, all’inizio dei tempi, e da allora
il Male assoluto è là, in fondo, là conficcato. Lucifero è il traditore di Dio, è
uno spaventoso mostro a tre teste, e nelle sue tre bocche maciulla Bruto e
Cassio, i traditori dell’impero, e Giuda, che ha tradito Cristo. Per Dante,
accusato ingiustamente di tradimento dai suoi nemici, è proprio il
tradimento il male più grande.

Si esce «a riveder le stelle», ci si trova al finire della tenebra su una


spiaggetta. Il Purgatorio è la cantica del ricominciare. Si può ricominciare?
Dopo un fallimento, una sconfitta, una delusione? Ce la facciamo, a cavarci
dalla bocca quell’amaro che sa di morte, a ritrovare il gusto della vita? Si
può ancora sorridere, dopo che l’angoscia ti ha serrato il cuore con le sue
tenaglie, fin quasi ad arrestarlo? Certo che si può. È come ritornare sui
banchi di scuola, in prima elementare, e apprendere una lingua nuova. Hai
sfogliato il catalogo di tutte le violenze e di tutti gli orrori, hai scrutato nel
buio di tutti quei volti malvagi che sono il tuo volto, ora apprendi l’alfabeto
della compassione. Per questo il Purgatorio inizia all’alba, con un colore
del cielo disegnato da un verso che Borges definiva il più bello di tutta la
Commedia: «Dolce color d’oriental zaffiro». L’interminabile notte è
terminata. Al buio fa seguito l’azzurro. Sveglia presto, e tutti a scuola.
Davanti a Dante, una sfilza di penitenti, che sono al contempo allievi e
maestri: ricordando a Dante e al lettore e a sé stessi il proprio peccato,
mettono tutti sulla via di una vita nuova.

non v’accorgete voi che noi siam vermi


nati a formar l’angelica farfalla,
che vola alla giustizia sanza schermi?»»
(Purg, X, 124-126)

Quando si legge la parola peccato, occorre tradurla come limite. I peccati


sono gli ostacoli che ci impediscono la gioia. L’apertura all’Illimitato. Sono
il nostro voler stare abbarbicati al limite, cocciuti: sono un verme e tale
voglio restare. Al diavolo chi mi parla di angeliche farfalle. Balle! Tutte
balle! Non c’è che questa vita, questo accumulare cose su cose, questo
scannarci gli uni con gli altri, queste menzogne, questo accoltellarci alle
spalle mentre davanti ci si scambia parole zuccherose, non siamo che
carnefici o vittime, quindi impugniamolo ben stretto il coltello, e che ci
vada l’altro sottoterra, prima di noi!

Questo è il peccato. Che è anche esattamente il contrario: la mancanza di


ogni limite. Accumula accumula accumula, soldi e potere e gloria e sesso e
uomini e donne, senza limite! Senza limite! Accumula accumula accumula,
e gonfialo il petto e adirati se qualcuno non vede quanto sei grande e
grosso, quanto sei gigante! Accumula accumula accumula, e divorala tutta
’sta roba che ti si para davanti, e proclama che l’età dell’oro è tornata nel
mondo e coincide col giorno della tua nascita, e usalo il mondo come se
fosse la tua reggia e la tua latrina, e gli altri come oggetti al tuo servizio,
portagioielli o scopini da cesso, e alla fine stupralo distruggilo massacralo
se vuoi questo mondo, perché no, questo pianetino insulso, se vuoi, perché
no? Il mondo è Niente e tu sei Tutto. Non è così?

No. Non è così. Ti sei calcato la corona sulla testa, ma non ti sei trasformato
in farfalla: rimani sempre un verme. Un verme con la corona.

Il Purgatorio è la cantica degli artisti. Quasi non se ne trovano, all’Inferno o


in Paradiso. Dante li ha concentrati tutti nel regno di mezzo: il musicista
Casella, il miniaturista Oderisi da Gubbio, i poeti del suo tempo Guido
Guinizzelli e Bonagiunta Orbicciani, Forese Donati e Arnaut Daniel, ma
anche il poeta pagano Stazio e infine, citati in una terzina fondamentale del
canto XI, i pittori Cimabue e Giotto:

Credette Cimabue nella pintura


tener lo campo, e ora ha Giotto il grido
sì che la fama di colui è scura.
(Purg, XI, 94-96)

È come se Dante intendesse l’arte come un gradino tra la terra e il cielo: ci


vogliono ben altri passi per arrivare a Dio, ma intanto questi poveri artisti il
loro gradino lo stanno facendo. L’arte, alla sua maniera, nasce dalla terra e
indica il cielo. E io pure ci provo, dice Dante, con tutti i miei limiti: e lo
sapete voi, che il mio peccato più grande è proprio un peccato d’artista, che
si annida nel mio stesso fare? È la malattia di cui soffro atrocemente: la
superbia! La presunzione arrogante di chi si sente il primo, di chi desidera
essere sempre il primo, e sopravanzare i colleghi nella gloria del mondo, di
chi si sente superiore e nega così la reale uguaglianza delle creature. Ma in
questo modo si perde di vista il cielo, si rimane schiacciati a terra. Nel
fango. È un gran «tumore», dice Dante. Usa proprio questa parola.

A Ravenna Dante ha visto i mosaici bizantini dei primi secoli cristiani, tutte
le chiese del tempo ne erano ornate, e Boccaccio testimonia che di chiese a
Ravenna ce n’era una per ogni giorno dell’anno. I mosaici che vediamo
oggi sono un terzo di quelli che poteva vedere Dante. Tra i tanti andati
distrutti, un Cristo musicante in trono nell’abside di Sant’Apollinare
Nuovo: nella destra un flauto, nella sinistra la lira, gli strumenti di Dioniso e
Orfeo, i santi patroni degli artisti nell’antichità. A Dante, imbevuto di
cultura antica, quel Cristo deve aver fatto molta impressione. Come non
pensare al musicista Casella, quando Dante lo incontra sulla spiaggia nel
canto II del Purgatorio, e gli chiede: amico, perché non mi canti quella mia
canzone, Amor che ne la mente mi ragiona, che avevi musicato così bene?
E Casella comincia, e Dante e tutti gli altri penitenti lì attorno restano
incantati, rapiti da quella musica, «come a nessun toccasse altro la mente»,
finché arriva il guardiano del purgatorio, Catone, che li rimprovera, dice di
non attardarsi e li sprona a riprendere la via verso il monte della
purificazione. La sgridata ci sta, è Dante stesso che per bocca di Catone ci
ricorda che l’arte è solo un gradino, e al tempo stesso Dante,
quell’immagine di estasi dionisiaca, di esaltazione dell’arte, l’ha fissata per
l’eternità. Dioniso e Cristo: come non pensare a Hölderlin, a Simone Weil,
che nel dio greco vedevano una prefigurazione di Gesù di Nazaret?

Si sale. Il purgatorio è una montagna. Lo spostamento di terra prodotto dalla


caduta di Lucifero al centro della terra, ha fatto sorgere, sull’altro emisfero,
la montagna del purgatorio. Nell’inferno Dante e Virgilio discendono, qui
salgono. Questa scuola è una montagna. Ogni scuola lo è. Per salire e
apprendere ci vogliono rigore e disciplina. Ma c’è anche una grande
«dolcezza», in tutto questo, quella che prova Dante ascoltando cantare «sì
dolcemente» Casella, e che sente ancora dentro di sé, a viaggio concluso.

Nella Commedia c’è un sorprendente uso dei diminutivi. Pensate che


contrasto: in un’architettura così grandiosa, che intreccia insieme «e cielo e
terra», che arriva alla fine a sprofondare nell’Assoluto divino, quei
diminutivi ricordano al lettore l’importanza della sua povera carne. Di me,
vermicello che mi consumo gli occhi stando qui a scrivere, di te, lettore,
mucchietto di ossa e sangue che mi leggi. È il mistero dell’Incarnazione, al
centro del cristianesimo e di tutta l’opera dantesca, che illumina quei
diminutivi, che ne esalta il significato. Due esempi, entrambi dal
Purgatorio.
Il primo nel canto XVI, dove Marco Lombardo, un uomo stimato giusto e
saggio all’epoca e di cui oggi non sappiamo nulla, tiene un solenne discorso
sul libero arbitrio. Nel tracciare un fosco ritratto della corruzione politica
del suo tempo, Marco non fa sconti al poeta che lo interroga. «Frate, lo
mondo è cieco, e tu ben vien da lui». E continua argomentando che è inutile
dare la colpa «alle stelle», se gli uomini sono malvagi: la causa si cerchi «in
voi», «in voi» solamente. E per spiegarsi meglio, descrive l’anima di
ognuno, quando all’inizio, appena creata, non cerca che Amore: è lei,
l’anima «semplicetta», al centro di quel sontuoso monologo sul mistero
della libertà umana. Possiamo diventare papi o imperatori, ma prima di tutto
siamo quell’anima «semplicetta», quel desiderare Amore, quel non essere
appagati finché non torniamo all’Amore che ci ha creati.
L’altro esempio nel canto V, la «lacrimetta» che salva Bonconte da
Montefeltro. Sta morendo, dissanguato, a Campaldino, mentre infuria la
battaglia: e a lui, uomo che ha tanto peccato, scappa una parola di
pentimento sincero, e una lacrima nel nome di Maria. A quel punto si
scatena una battaglia soprannaturale tra angeli e diavoli; i primi sottraggono
l’anima di Bonconte ai secondi, e questi cominciano a gridare: ma come, ci
portate via il bottino? Che modi sono questi? Quello è un disgraziato dai
peccati orribili, lo conoscono tutti, non merita altro che l’eterna dannazione,
e voi ce lo portate via? Per una «lacrimetta»? Non c’è più religione,
sembrano sbottare i diavoli. Ma quanta forza comica, e quanta immensa,
spiazzante misericordia divina, in quella «lacrimetta» che rovescia i piani
del mondo.
E infine il Purgatorio è la cantica del fuoco. La presenza del fuoco
punteggia tutta la seconda cantica, fin dal titolo: il sostantivo «purgatorio»
era in origine un aggettivo riferito al fuoco: ignis purgatorium, ovvero
fuoco purificatore. Vediamole queste presenze. I primi otto canti si
svolgono sulla spiaggia, davanti alla montagna del purgatorio. All’inizio del
nono, Dante sogna un’aquila sospesa in cielo, con le penne d’oro, che balza
giù come un lampo e lo rapisce e lo innalza alla sfera del fuoco, compresa,
nell’astronomia dantesca, tra l’aria e il cielo della luna. E lì i due bruciano
insieme, e l’incendio sognato è così forte che a Dante quasi pare reale, e per
questo si sveglia. Virgilio gli spiega che il sogno è veritiero: sono arrivati
ormai alla porta del purgatorio vero e proprio, e il loro diventerà un
cammino di purificazione, sotto il segno di quel fuoco appena sognato. Nel
canto XXVII, arrivati in cima alla montagna, a dividere Dante dalla visione di
Beatrice e del paradiso terrestre c’è un muro di fuoco, un vero muro di
fuoco: e va attraversato, bisogna passarci dentro per andare oltre. Dante è
turbato: come non pensare al rogo cui è stato condannato in Firenze? Il
Dante personaggio non la conosce ancora quella condanna – ricordiamo che
il viaggio nei regni d’oltretomba è ambientato da Dante nell’anno 1300,
quando il poeta non aveva ancora subito né condanne né esilio – ma il
Dante autore della Commedia sì, e il Dante autore non poteva pensare a un
supplizio più appropriato per il Dante personaggio, che infatti subito
diventa bianco come un cadavere. Anche in questa situazione Virgilio si
mostra «dolce padre», e lo esorta, rassicurandolo che «qui è tormento, ma
non morte».

Quando mi vide star pur fermo e duro,


turbato un poco, disse: «Or vedi, figlio:
tra Beatrice e te è questo muro.
(Purg, XXVII, 34-36)

È una vera prova del fuoco: e Amore la richiede. Ma Dante ancora tentenna,
allora Virgilio, sorridendo come a un bambino, passa lui per primo, per
dargli sicurezza. E Dante entra, e tanto è il calore di quell’incendio che si
sarebbe gettato dentro a un vetro bollente pur di rinfrescarsi. Ma non muore
e arriva al di là. Al di là entrerà nel paradiso terrestre e incontrerà Beatrice,
«vestita di color di fiamma viva», e sentirà dentro di sé la stessa potenza di
«antico amor» che lo aveva colpito alla prima visione di lei, a nove anni; e
quale sarà l’espressione che userà appena la rivede?

conosco i segni dell’antica fiamma


(Purg, XXX, 48)

C’è un romanzo, La strada, di Cormac McCarthy. In una America devastata


da un’apocalisse ecologica, la società e la natura sono state completamente
distrutte: nel gelo dell’inverno senza vita, i pochi sopravvissuti vanno in
giro a cercare cibo, mentre tutt’attorno bande armate stuprano e
ammazzano. Di più, quei predoni sono anche cannibali. In quell’inferno,
dove niente ha senso, un padre e un figlio tentano di sopravvivere. E il
padre deve educare il figlio, perché questo fa un padre, anche nel più
orribile dei mondi: stabilisce una sorta di morale elementare, una netta linea
divisoria tra i buoni e i cattivi. I cattivi ammazzano e divorano carne umana,
i buoni non lo fanno. Noi non lo facciamo. Perché, chiede il bambino.
Perché noi siamo quelli che portano il fuoco, risponde il padre.
«Ce la caveremo, vero papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco».
A questo serve un padre, a farti capire che c’è il fuoco da portare. Che
non dobbiamo cedere. Che noi non mangeremo le persone.

Niente da fare, il Paradiso è noioso. Mi è capitato talvolta di discuterne,


negli anni, in Italia e all’estero, e di sbattere sempre contro lo stesso
pregiudizio. Ricordo una discussione, in Francia, con la giovane direttrice
di un importante teatro nazionale, quando mi ero particolarmente
accalorato, tanto erano evidenti l’ignoranza della mia interlocutrice e al
tempo stesso la supponenza a proposito di qualcosa che non aveva letto.
Rien à faire, il Paradiso è noioso. I pregiudizi e l’ignoranza fanno i giovani
vecchi: gente vecchia, rimasta a De Sanctis, anche senza sapere chi sia, De
Sanctis. Sentiamo allora come Francesco De Sanctis, illustre storico
ottocentesco, nella sua Storia della letteratura italiana, stronca Dante
Alighieri: «Questo vanire delle forme e della stessa personalità riduce il
paradiso a una corda sola, a lungo andare monotona». Per lui, come poi per
Benedetto Croce, il Paradiso è appesantito da una «sovrastruttura» priva di
poesia. E ancora: «Per dirla con Dante, il suo mondo è un volume non
squadernato. È un mondo pensoso, ritirato in sé, poco comunicativo, come
fronte annuvolata da pensiero in travaglio». D’altronde Dante non ha paura
delle stroncature: ne ha subite tante. Come tutti gli artisti di ogni epoca e
luogo: fa parte del gioco. A partire da quella di Petrarca, nascosta dietro un
velo di gelida ammirazione: scrive in una lettera a Boccaccio che stima
Dante più per la nobiltà degli intenti che non per lo stile, da lui definito
«popularis». Gli umanisti dopo Petrarca si interessavano soprattutto al
latino di Dante, criticandolo come poco raffinato. Nel Seicento c’era chi
diceva di stimare più un’ottava di Ariosto che non l’intera Commedia.
Paolo Beni, nell’Anticrusca, 1612, rivendicava la superiorità di Petrarca e
attaccava Dante come «aspro, rozzo, laido, sconcio e senza giuditio». Nel
Settecento Giambattista Vico, paragonando Dante a Omero, era tra le poche
voci autorevoli ad apprezzarlo, mentre Voltaire giudicava il poema a dir
poco «bizzarro», e un suo amico e collega italiano, Saverio Bettinelli,
critico letterario assai ascoltato all’epoca, tuonava: «Sia posto tra i libri di
erudizione, e della Commedia si lascino solo taluni pezzi che, raccolti, e,
come meglio si può, ordinati, formino non più di cinque canti». Per nostra
fortuna il Bettinelli non fu ascoltato, e solo alla fine del Settecento la
lezione di Dante, che sempre era stata facoltativa e marginale, cominciò a
prevalere su quella, che in Italia era sempre stata fondamentale, del
Petrarca, dell’Ariosto e del Tasso. E nonostante i monumenti che da allora
gli si innalzarono, ancora Nietzsche sarà perentorio e pieno di disprezzo,
come d’altronde con tutto quello che gli odorava di cristianesimo, nel
definire il fiorentino «la iena che fa poesia nelle tombe».

Ma torniamo al Paradiso. Anche il paradiso è teatro, spesso ce ne si


dimentica. Beatrice lo spiega a Dante nel canto IV: le anime dei beati sono
già tutte nell’Empireo, nella contemplazione di Dio, ma ora tu le vedrai a
una a una, e tutte ti parleranno una dopo l’altra, perché non c’è altro modo
di fare intendere a te, ai tuoi sensi, visto che sei un essere umano fatto di
sensi limitati, cosa sia il Mistero, indicibile, innominabile, irrappresentabile,
che tutto sorregge. Beatrice qui appare come un’abile regista che svela i
suoi santi trucchi: per questo, aggiunge, nella Bibbia talvolta si
attribuiscono a Dio sia mani che piedi, per questo gli angeli vengono
raffigurati con aspetto umano, perché vi sia possibile comprendere ciò che è
incomprensibile, misurare ciò che è immisurabile. Il paradiso è quindi
rappresentazione. Ma non c’è finzione in questa messinscena, non ci sono
più maschere, c’è solo lo sfolgorìo della felicità, di quella felicità cercata fin
dal primo passo fuori dalla «selva oscura». Perché il paradiso era già là, in
quel primo passo! Fallo, quel primo passo, e sei salvo. Quel primo,
difficilissimo passo, quello in cui scrollare il capo e tirarsi fuori da tutta
quella melma. E ora che si sta arrivando nel cuore del Mistero tutto si
scombina, e il poema perde la sua linearità, la sua natura didattica, e il
«santo riso» di Beatrice ride di Dante e di tutti noi: ma come, non l’avevi
visto Amore, che ti stava accanto perfino nella tristezza più nera? Non lo
sentivi Amore, quando cantava il tuo nome in mezzo alle lacrime? Era già
tutto lì, in quel primo passo! Eri già beato, dentro quel pantano!

D’altronde la Commedia stessa è imprendibile. Ogni volta che rileggo o


riascolto il penultimo canto dell’Inferno, quello del conte Ugolino, che in
carcere muore vedendo morire accanto a sé i figli, uno dopo l’altro, per
fame, non so più dove sono, squassato da quelle sue lacrime che sono le
mie.

C’è l’essere in Dio, l’essere nell’Amore. Come rappresentare questa felicità


sfrenata? Con la danza. È una festa delle anime, il Paradiso dantesco, le
anime come luci tutte accese da Amore. Le anime «semplicette». Danzano i
santi, danzano i teologi, danzano san Tommaso e Bonaventura, mossi da
una ebbrezza sacra e dionisiaca. San Pier Damiani «fiammeggia» di
«allegrezza». La bellezza «ride» negli occhi di tutti. Neanche qui Dante
perde la sua sensualità. Se non si percepisce questo ardere, poco si
comprende della terza cantica. Guardiamo al canto IX, a Cunizza da
Romano, nobile vicentina, che in vita ebbe fama di lussuriosa, ed è posta da
Dante nel cielo di Venere: io qui risplendo, dice, perché in vita «mi vinse il
lume d’esta stella». I commentatori si dividono, a me sembra così chiaro: sì,
ho amato, ho desiderato, il piacere del corpo mi ha squassata, mi ha vinto, e
allora? Il mio desiderare amore mi ha condotto all’Amore, per questo qui
risplendo. Come i diavoli con Bonconte, i moralisti sono scornati.
«Le cose intellettuali dovrebbero assomigliare alle cose amorose». Io non
so se Roland Barthes quando ha scritto queste parole pensasse a Dante. A
me fanno pensare a Dante, e in particolare al Paradiso.

Se la Commedia è una «soglia», una porta regale tra visibile e invisibile,


come ha scritto Pavel Florenskij, giustamente finisce con uno scacco. Una
dichiarazione di impotenza. Una volta che sprofonda nell’abisso della
Divinità, Dante, all’ultimo verso del Paradiso, non ha più parole. Dio è
Amore, lo si conosce se lo si è. Esserlo è conoscerlo, conoscerlo è
generarlo. Non si può vedere Dio come un oggetto, ma si può essere
l’essere stesso di Dio-Amore. Noi vediamo gli enti, le cose e le persone
determinate: questo o quello; se vedo Dio in questo o quel modo non vedo
Dio, vedo qualcosa di determinato. Che non può essere Dio: al massimo è
un idolo. Ascoltiamo Meister Eckhart, teologo domenicano: «Poiché la
natura di Dio è quella di non essere simile ad alcuno, noi dobbiamo
necessariamente giungere al punto di essere niente, per poter essere
trasportati in quello stesso essere che egli è». A questo punto subentra una
«indicibilmente grande gioia» dove «stare all’esterno come all’interno,
abbracciare ed essere abbracciati, contemplare ed essere la stessa cosa
contemplata, tenere ed essere tenuti». Meister Eckhart esprime questi
concetti negli stessi anni in cui Dante scrive la Commedia: l’Assoluto è il
totalmente Altro, di cui in questa vita non possiamo avere che balenii nello
specchio, lampi di una indicibile, smisurata gioia, in cui Dioniso e Cristo si
parlano e si abbracciano, in cui trasumanare in una metamorfosi dei sensi,
non nella loro abolizione. Per questo la «mirabile visione» finisce dicendoci
che non c’è più dire possibile.
Storia delle ossa

Boccaccio, per ben tre volte, trascrive tutta la Commedia, a mano, come
facevano gli amanuensi prima dell’invenzione della stampa. Riusciamo a
immaginare quanti giorni, quanta pazienza, quanta attenzione per evitare
errori, quanto amore per ricopiarli per tre volte quei 14.233 versi, uno per
uno? E una volta li ricopia apposta per l’amico Petrarca, che Boccaccio
considera come un maestro; ha visto che nella biblioteca dell’amico il
capolavoro dantesco non c’è, e lui così rimedia, e fa dono all’amico di una
copia della Commedia: «divina», è Boccaccio il primo a dirlo. Mio padre in
fondo ha fatto qualcosa di simile: ha trascritto nella memoria centinaia di
versi danteschi, per il piacere di cantarli e per farne dono al figlio.
Nel 1965, in occasione del settimo centenario della nascita, l’editore
Longo ristampò L’ultimo rifugio di Dante, un’opera di 500 pagine sul Dante
«ravennate», pubblicata per la prima volta nel 1891. L’autore era Corrado
Ricci, archeologo e storico dell’arte, allievo di Giosuè Carducci. Qualche
anno dopo Vincenzo mi regalò quel volumone con una dedica di suo pugno:
«A Marco mio figlio VMartinelli», dove la parola «figlio» era sottolineata.
E da quel libro, che all’epoca io solo sfogliai impaurito da tutto quel peso,
papà ricavò la storia delle ossa di Dante e delle loro avventurose vicende
nei secoli, storia che mi raccontò come un giallo, un racconto alla Sherlock
Holmes.

Perché irridere al Medioevo sulla questione delle reliquie? Il termine latino


«reliquiae» significa «resti»: è una ossessione quella per ciò che resta, che
non scompare nell’abisso del nulla, da cui i moderni non sono immuni. La
tazza di porcellana su cui Lady Gaga, nel corso di un tour in Giappone,
aveva poggiato le labbra per sorseggiare del tè, venne messa in vendita
online, e in cinque giorni l’asta ebbe termine: la tazza arrivò al compratore
per quattro milioni di yen, circa 40.000 euro. E analoga venerazione hanno i
capelli di Elvis Presley, un vestituccio appartenente a Marilyn Monroe che
ne conserva l’odore, e così via. Vanno forte anche oggi, le reliquie.

A metà del Trecento, Firenze e Ravenna nutrono verso il poeta sentimenti


antitetici: per la prima Dante, anche dopo la morte, rimane un fuorilegge,
mentre la seconda venera il poeta che ha onorato la città con la sua
presenza. E per parecchi anni Dante viene ancora considerato nella sua
Firenze come un maledetto: le copie della Commedia hanno cominciato a
circolare in giro per l’Italia, e sono tante famiglie a venire a sapere di avere
parenti o amici messi «all’inferno» da quel nemico della patria. Come
perdonarlo? I fiorentini tentano di cancellare la memoria del «traditore», ma
invano. La fama di Dante cresce: a 40 anni dalla morte, Giovanni
Boccaccio scrive il Trattatello in laude di Dante, la prima biografia
dell’Alighieri, in cui rimprovera aspramente Firenze: ma come, dopo tutti
questi anni, ancora non hai richiesto a Ravenna le ossa del tuo più grande
figlio? Di lui che, nonostante le sofferenze che gli hai inflitto, si è sempre
chiamato «fiorentino»? Dante è il segno tangibile della tua gloria: dimmi,
di quale altra gloria disponi? I tuoi mercanti? Le tue ricchezze? E
d’altronde, anche se lo richiedessi indietro, quel corpo, Ravenna non te lo
darebbe. Ravenna, «molto più per età veneranda di te», sarà la «perpetua
guardiana di così fatto tesoro».
Ma qualcosa comincia a cambiare, col passar degli anni, col passare delle
generazioni e delle appartenenze politiche, e quel rimprovero comincia ad
avere effetto: proprio Boccaccio viene chiamato dal Comune di Firenze a
tenere una pubblica lettura dell’Inferno. È il segno ufficiale che il
condannato a morte può essere ricordato, riabilitato, e il suo capolavoro
diventa un vanto per l’intera città. È arrivato il momento di fare quel che
suggeriva Boccaccio: richiedere il corpo a Ravenna. La prima richiesta
fiorentina è del 1377. La risposta? Picche. Non se ne parla. I ravennati sono
inflessibili: Dante è nostro.
Pensate che Firenze si rassegni, davanti a quel rifiuto? Niente affatto.
Continuerà imperterrita a richiedere il corpo di quel suo figlio che sta
diventando sempre più importante: in fondo, quel minuscolo sacello fatto
costruire dai Da Polenta nel 1321 è una vergogna! Ce lo riportiamo a
Firenze e gli costruiremo un sepolcro come si deve. Ma i ravennati non
sentono ragioni. Non cedono neanche davanti alla proposta indecente dei
priori fiorentini di «comprarle», le ossa, con una cospicua somma in fiorini
d’oro: come se avessero un prezzo, quelle sante reliquie! Passa più di un
secolo, arriviamo ai primi del Cinquecento. La Romagna intera è da poco
sotto il dominio pontificio, i fiorentini si rifanno sotto: sanno che possono
contare su un loro papa, Leone X, della potente famiglia dei Medici. E
Leone X si vede recapitare a Roma un Memoriale, firmato da autorevoli
dotti e intellettuali, che chiedono a Sua Santità di esaudire il desiderio di
tutti i fiorentini: che Dante ritorni sulle rive dell’Arno! Alla testa di quel
gruppo, Michelangelo Buonarroti, che conosce a memoria la Divina
Commedia e considera Dante come un padre spirituale: abituato a farsi
supplicare dai pontefici per concedere i suoi favori di artista, ora è lui a
supplicare Leone X di fargli realizzare il sogno di un grandioso mausoleo
per Dante Alighieri, un sepolcro finalmente all’altezza del suo genio. Altro
che quella ridicola, «odiosa» tomba ravennate, quel misero chiostro di
francescani! Leone X dà il suo assenso, ma a patto che siano i fiorentini a
compiere materialmente l’impresa. E in più, conoscendo bene la focosità
dei romagnoli, suggerisce di andare a riprendersi le ossa di notte, non di
giorno, per evitare tumulti e incidenti. E tutto infatti avviene in una gelida
notte d’inverno, come una specie di furto col beneplacito delle autorità. È il
1519. Quando però la delegazione fiorentina, protetta dalle guardie papali,
penetra nel sepolcro e scoperchia il sarcofago, dentro… non trova niente!
Le ossa non ci sono! Trovano solo tre piccole falangi di un dito!
Immaginiamoci le facce di quegli accademici: possono forse tornare in
patria con un mezzo dito di Dante? Lo lasciano lì, scornati, e una volta a
Firenze non riveleranno a nessuno il fallimento di quella gloriosa impresa.

Erano venuti come ladri, e da ladri più furbi sono stati gabbati. Vincenzo si
divertiva un mondo a raccontarmi quella burla. E chi erano, i ladri più
furbi? I francescani!

Si sapeva che prima o poi il papa avrebbe concesso ai fiorentini il


trasferimento delle ossa di Dante. Allora i francescani, che da quasi due
secoli sono i custodi del sacello posizionato nell’oratorio accanto alla loro
basilica, passano all’azione: quando? Non lo sappiamo. Ma certo prima
dell’arrivo della delegazione fiorentina, probabilmente di notte, al lume
delle torce. Non entrano nel sacello, ma, dall’interno del convento,
sfondano il muro sul quale è addossato il sarcofago: alcuni di loro lavorano
col martello, cercando di non fare troppo rumore, altri cantano gregoriani
per coprirli. Ecco, ci sono: hanno davanti a sé le ossa del divino poeta. Le
mani tremano, le labbra mormorano una preghiera. Non c’è tempo da
perdere. Bisogna mettere in salvo quelle reliquie, e far ritornare il muro e il
sarcofago alla normalità, in modo che nessuno, per ora, se ne accorga.
Ripongono le ossa in una cassa e la vanno a nascondere, forse nella
biblioteca del convento, forse la murano da qualche altra parte. I
francescani, la notte in cui i fiorentini tenteranno il colpaccio, fingeranno di
dormire, e chiederanno perdono a Dio di aver disobbedito al pontefice in
persona. Ma ormai Dante è nelle loro mani. E nelle loro mani ci resterà per
più di tre secoli. Sì, perché a nessuno converrà rivelare che quel sepolcro è
vuoto! Non ai fiorentini, che ci farebbero una ben magra figura, non ai
francescani, che ammetterebbero la loro colpa, e nemmeno al papa Leone X
che, preso da ben altri problemi, non ascolta le suppliche dei fiorentini di
aprire inchieste e mettere sotto tortura chi ha trafugato lo scheletro del
poeta. E nello stesso tempo la voce che nel sarcofago non ci fosse più nulla,
attraversò i secoli. Alcuni sapevano. Alla fine del Seicento, la relazione di
un vicario vescovile dichiarò esplicitamente che le ossa non c’erano più.
Ma non lo si poteva dire apertamente, non si poteva dire che il glorioso
sepolcro era vuoto.

E così per tre secoli a quella tomba si continua ad andare in pellegrinaggio,


e i più pensano di onorare davvero i resti mortali del «sommo poeta».
Scrive Alfieri: «Di Bologna mi deviai per visitare in Ravenna il sepolcro
del poeta, e un giorno intero vi passai fantasticando, pregando e
piangendo». Avrebbe pianto se avesse saputo che quel sarcofago non
conteneva nulla? E prima di lui altri scrittori come Guicciardini, Ariosto, un
adolescente Torquato Tasso e dopo di lui Foscolo, Leopardi che però non si
commuove; e Lord Byron, che nel 1821, con il suo gusto dello spettacolo,
scortato da una processione di servitori in livrea, entra pomposamente nel
sepolcro e vi depone una raccolta delle sue opere splendidamente rilegata in
pelle di vitello; e Oscar Wilde, che davanti al «sepolcro dorato» scrive di
«incantesimo possente»; e re e imperatori e pontefici e uomini di Stato,
italiani e stranieri. E tanti altri ancora.
Nel frattempo, di generazione in generazione, i ladri continuano a
trasmettersi il segreto. Il vecchio abate del convento rivela al suo successore
il luogo dove è nascosta la cassa con le «sante ossa», e gli consegna anche
la responsabilità di quella custodia clandestina. Nonostante a Firenze ormai
si sia rinunciato da tempo a richiedere le ossa, i francescani non le
considerano ancora fuori pericolo, e operano ricorrenti ricognizioni per
verificarne lo stato. Dante, quei ladri, se lo sentivano fratello: fervente
devoto di san Francesco, era stato un assiduo frequentatore della loro
basilica. Il ritratto che fa del santo di Assisi, nel canto XI del Paradiso, è tra
le pagine più abbacinanti della Commedia. Questo si chiedono i frati
ravennati, mentre rileggono la terza cantica: chi meglio del «teologo» Dante
ha raccontato il fondatore del nostro ordine? Come un bambino-sole,
controfigura irraggiante di quel Cristo da cui ha imparato l’amore
saltellante per Madonna Povertà.

Nel 1810 Napoleone sopprime l’ordine francescano, e i frati devono


abbandonare la basilica e il chiostro. E le ossa di Dante? All’epoca, come
abbiamo detto, i più ritenevano che fossero dove erano sempre state, dentro
il sarcofago che tutti andavano a onorare, dentro al tempietto neoclassico
costruito a fine Settecento dall’architetto Camillo Morigia. Le autorità
stesse volevano che così si credesse. Noi oggi sappiamo la verità, che
dentro al sarcofago non c’erano. E non c’erano neanche più a custodirle
«quelle brave persone dei francescani ladri», come li chiamava papà. Ma,
allora, dove erano finite le sante reliquie? Se le erano portate con sé i frati
nella fuga? Si arriva al 1865, sesto centenario della nascita. L’Italia è unita,
e il fervore delle celebrazioni dantesche si sposa bene alla retorica
risorgimentale. In vista delle celebrazioni si eseguono dei lavori di restauro
e abbellimento della zona dantesca, della cosiddetta area di Braccioforte.
Una leggenda circolava in città, che da quelle parti fosse nascosto un tesoro.
Un muratore, Pio di Luigi Feletti, sta dando di martello su un muretto: sente
il suono secco della pietra, allora sperando di aver trovato il mitico tesoro,
dà un gran colpo che sfascia la parete e gli fa cadere in grembo una cassetta
di legno con dentro delle ossa. Gran delusione, e una bestemmia: niente
tesoro, solo quattro ossa. Fa per gettare il tutto su un mucchio di rifiuti,
quando uno studente di legge nei paraggi, Anastasio Matteucci, lo ferma:
c’è uno scritto in quella cassetta! È un’iscrizione targata 3 giugno 1677, ad
opera del superiore francescano Antonio Santi. Poche parole, vergate sul
legno:

Dantis ossa
A me Fre Antonio Santi
Hic posita

Ovvero: le ossa di Dante – da me Fra Antonio Santi – qui poste.


Poche parole, ma possiamo immaginare le conseguenze: un terremoto.
Erano state ritrovate le ossa che il mondo intero aveva sempre pensato
dentro al sepolcro, era stato ritrovato quel che non si pensava fosse mai
stato perso: uno scheletro pressoché intero, di color rosso scuro, ben
conservato. Cui mancavano tre piccole falangi di un dito.

Nel 1921, sesto centenario della morte, Ravenna è meta di pellegrini che da
tutto il mondo vengono a onorare «l’altissimo poeta». La Commedia è
ormai tradotta e ammirata ovunque, dalla Cina al Brasile agli Stati Uniti. E
nelle pagine di grandi scrittori come Pound e Eliot, Borges e Beckett,
Mandel’štam e Achmatova, il Novecento interpreterà e comprenderà Dante
con una profondità forse ignota all’epoca moderna. Nel 1921 c’è anche
l’ultima richiesta, da parte dei fiorentini e del loro Comune, di riportare in
patria le ossa. È detta quasi sottovoce. Questa volta non ci credono neanche
loro.
Servire il popolo

Avevamo lasciato Vincenzo nel 1982, fresco di pensione. Ma papà non era
tipo da amare la pensione. Aveva sessant’anni, era pieno di energia e voglia
di fare: guardava il partito con distacco, ma al tempo stesso era stato il suo
lavoro, la sua casa. Capì che a Ravenna poteva trovare il modo di
continuare a lavorare, allora convinse la mamma a ritrasferirsi da Genova,
anche per tornare vicino ai figli. La «vergogna» del mio matrimonio era
svanita, e mamma acconsentì, e così riprendemmo a vivere tutti a Ravenna.

Cosa aveva riportato a Ravenna Vincenzo? L’idea di Pericle Stoppa, amico


democristiano, di fondare la sezione ravennate della Capit, presente in altre
città italiane. La Capit, che oggi esiste ancora, era un’associazione
autonoma e al tempo stesso legata al partito, l’equivalente dell’ARCI per il
Partito comunista. A fondarla furono in tre: Stoppa, papà e Gianni Gnani. Il
primo ne era il presidente, Vincenzo si occupava in particolare del lavoro
editoriale, Gianni Gnani non faceva niente. Come niente? Quel trio faceva
sorridere: senti Stoppa, gli dicevano gli amici, va bene, la Capit sarà anche
una buona idea, ma con quei due là dove credi di andare? Martinelli è un
timido, brava persona certo, ma è uno che non si prende responsabilità, che
non fa mai la voce grossa, mentre Gianni Gnani è semplicemente matto. Sa
dire solo stupidate, sta al bar a far niente tutto il giorno. Il matto del
villaggio.

A dispetto delle apparenze, la Capit cominciò a macinare idee e progetti: in


pochi anni mise su una stagione di teatro dialettale romagnolo, un concorso
pianistico nazionale, una stagione di operetta al Teatro Alighieri, un
concorso nazionale di pittura, una casa editrice. Vincenzo, in quel contesto
meno politico, in cui non bisognava sgomitare per emergere, si rivelò un
capace organizzatore culturale, «uomo di costruzione» lo ricorda oggi
Stoppa, che mi racconta che Vincenzo gli insegnò a tenere ordinato
l’archivio, perché, gli diceva, «la memoria è tutto». E dell’archivio aveva
una idea antica: per lui era il libro delle anime, come erano definiti gli
antichi registri parrocchiali. La stessa concezione l’aveva utilizzata negli
anni in cui era in servizio al partito: là dove doveva mettere in ordine i nomi
dei deputati, dei consiglieri comunali, dei semplici iscritti, a Vincenzo
bastava annotare solamente nome e date di nascita e di morte. L’essenza:
siamo tutti uguali. I deputati nascono e muoiono come i semplici contadini.

E il matto del villaggio? Gianni Gnani si rivelò una miniera di idee.


Inventava nuovi progetti in continuazione, Stoppa e papà non gli stavano
dietro. Con quel nome da fumetto, da giullare medievale.

Stoppa, Vincenzo e Gianni Gnani la pensavano allo stesso modo, riguardo


alla decadenza del partito. Tutti e tre ne avvertivano il progressivo
sgretolamento morale, e l’assassinio di Moro sembrava loro un punto di non
ritorno. La bufera di Tangentopoli era forse già nell’aria, e la DC perdeva
voti dappertutto. Ma alla fine del 1986 accade un fatto insolito: la
maggioranza del partito propone a Pericle Stoppa, un «volto nuovo», di
assumere la carica di segretario comunale, in vista delle elezioni che si
sarebbero svolte due anni dopo. È un tentativo di rinnovamento, visto però
con scetticismo dai maggiorenti della DC: d’altronde, quali altre alternative
erano possibili? Il partito è in declino sotto gli occhi di tutti, e ci vuole un
colpo d’ala per risollevarlo, qualcuno che non sia «compromesso» con anni
e anni di gestione del potere. E Stoppa accetta. Prima si rivolge a Benigno
Zaccagnini, che era stato il politico nazionale più importante in città,
partigiano nelle Brigate Garibaldi e figura di spicco della Resistenza, intimo
di Aldo Moro e segretario nazionale ai tempi del rapimento e dell’assassinio
di colui che definiva il suo maestro: ma proprio quella vicenda gli aveva
lasciato una ferita impossibile da rimarginare, sentendosi lui in colpa per
come era tragicamente finita. E quando Stoppa gli chiese aiuto, per portare
avanti un «vero» rinnovamento, Zac, come veniva chiamato, rispose che era
giusto provarci, ma che lui era troppo stanco e depresso per dare una mano.
Stoppa si guardò attorno: su chi poteva contare? Oltre all’appoggio di
alcuni sinceri democristiani, come Walter Fabbri, poteva contare sulla
piccola Armata Brancaleone con cui aveva fondato la Capit: Vincenzo e
Gianni Gnani.
L’intenzione era seria: cambiare faccia alla Democrazia cristiana, farla
ritornare alle sue radici ideali, farla finita con il partito delle tessere, il
partito dei poteri personali, riportarla al «servizio del popolo», a una lunga
tradizione che da don Sturzo passava dal Concilio Vaticano II e arrivava a
Moro. Ma per essere al servizio del popolo bisognava andarlo a cercare, il
popolo, non aspettarlo nella sede di via di Roma, bisognava andare a
incontrarlo là dove stava. E così Stoppa e Vincenzo stilarono un programma
di incontri come non era mai stato fatto nella DC ravennate: in poco più di
due mesi, fecero 60 riunioni sul territorio, andando a incontrare gli iscritti e
i cittadini in ogni singolo quartiere e in ogni circoscrizione. Andavano e
ascoltavano: prima di tutto la gente va ascoltata. Da lì parte la rivoluzione,
da quel semplice gesto. Ascoltare veramente, non fare finta. Stoppa e
Vincenzo ascoltavano i pareri e i problemi di tutti, poi toccava a papà, la
notte stessa, scrivere il resoconto dell’incontro. Non c’era tempo da perdere,
il giorno delle elezioni si avvicinava. Alla fine di quella maratona, stilarono
un programma politico che teneva conto dell’esito di quei 60 incontri, un
programma «personalizzato» in cui anche le esigenze della piccola
circoscrizione di campagna avevano voce in capitolo. E le elezioni furono
un successo insperato: la DC ebbe il record storico di voti in città dal
dopoguerra. Un partito in stato comatoso e in caduta libera vide aumentare
da sei a otto i consiglieri comunali, da 37 a 44 i consiglieri di
circoscrizione. E dopo questi risultati, cosa vi immaginate che possa
accadere? Pericle Stoppa fa la sua relazione e viene messo in minoranza:
bravo, ci hai riportato i voti di cui avevamo bisogno, adesso il partito lo
riprendiamo in mano noi, siamo noi che sappiamo fare politica, noi che
siamo nei consigli di amministrazione delle banche, tu torna pure ai tuoi
concerti e alle tue mostre di pittura. E così Stoppa, salvata la patria, tornò a
lavorare alla Capit.
E Vincenzo? I maggiorenti se lo volevano riprendere. Avevano intuito la
mole di lavoro che aveva svolto, la conoscenza che aveva accumulato del
popolo democristiano. Avevano visto un «nuovo» Martinelli, per niente
timido, combattivo. Ma lui non ci pensò due volte, e non abbandonò
l’amico Stoppa.

Visto con gli occhi di oggi, quel record storico di voti fa sorridere. Pochi
anni dopo la Democrazia cristiana finirà la sua storia strangolata dal
cinismo dei suoi stessi capi. Eppure quel tentativo garibaldino, quell’andare
ogni giorno tra quartieri e campagne, le 60 riunioni di papà e Stoppa, fu il
gesto irreale, commovente, sublime, velleitario, fuori epoca, di parlare al
popolo. Di ascoltarlo, il popolo. Forse quei partiti, nati dalla Resistenza e
dall’antifascismo, sono finiti perché semplicemente hanno smesso di stare
come antenne in mezzo alle persone, alle comunità. È in quell’ascolto, è in
quella missione che un partito di quel genere, che intenda governare stando
al servizio della comunità civile, trova la sua ragion d’essere: al di là delle
demagogie, dei finti populismi, al di là delle ideologie, al di là delle
televisioni e delle nuove tecnologie, della politica fatta con Twitter e su
Facebook. Dopo ormai tre decenni di contestazione della casta, fatta spesso
da gente che gridava in piazza o sui media per diventare lei casta, abbiamo
compreso bene che in questione non è la politica, la politica intesa come
arte della polis: quella non finirà mai, sarà sempre necessaria; in questione
è il veleno di una politica intesa come arrogante accumulo, come esercizio
sordo del potere, della violenza che nasce dal potere, dell’altro come
avversario da sopprimere. Vale per l’oggi come valeva per i guelfi e i
ghibellini di sette secoli fa. Miro, un vecchio comunista del quartiere
Darsena a Ravenna, mi racconta che negli anni Sessanta le sedi dei partiti
non stavano solo in centro, c’erano anche le sedi di quartiere, pronte a
intercettare gli umori, i problemi, le esigenze di cambiamento. Erano luoghi
di ritrovo. E, aggiunge Miro sorridendo, mica solo le nostre: anche la DC
aveva il suo ufficetto in Darsena. La politica allora era andare in sezione,
fare assemblee, ascoltare la gente, punto e a capo: magari poi facevi come
volevi… ma intanto la ascoltavi. E se la ascoltavi veramente, quel fare
come si voleva puoi star sicuro che ne restava condizionato. E anche i bar
erano molto più grandi, perché ci si andava e ci si rimaneva, non era come
oggi, un caffè e via. Alla fine degli anni Ottanta tutto questo iniziò a
perdersi. I partiti cominciarono a decidere tutto tra pochi, perché andare tra
il «popolo»?

Dentro di me penso: in quei caffè e in quelle sedi di partito erano forse tutti
uomini. E questa mancanza di donne mi suona come una nota stonata, in
quel ritratto in parte convincente in parte idealizzato. Ma Miro è un torrente
in piena, non lo si può interrompere.
Benigno Zaccagnini morì il 5 novembre del 1989, e ai suoi funerali, nella
chiesa di Santa Maria in Porto, c’era tutta Ravenna, e i potenti venuti da
Roma, quelli che papà non poteva più vedere. Se ne stette con me in fondo
alla chiesa. Pochi giorni dopo cadde il muro di Berlino. Il mondo cambiava
veramente. Vincenzo riprese a lavorare alla Capit, ovviamente senza
stipendio, come tutti quelli che ci lavoravano, per pura passione. In questo
suo nuovo impegno sul piano della cultura, lo attraeva anche il fatto di
essere più vicino ai figli, al mio fare teatro, ai documentari a cui lavorava
Maria. Buttava uno sguardo di traverso alla catastrofe di Tangentopoli, e lo
appassionavano le situazioni che cominciavano a crescere fuori
dall’orizzonte dei partiti tradizionali. Il primo luglio 1992 eravamo tutti a
casa dei miei per il suo settantesimo compleanno. Gli regalai un libro di
Jacques Séguéla sulla politica in vendita come un detersivo, Eltsin lava più
bianco, un saggio che in fondo diceva cose che lui mi aveva già detto anni
prima, alla sua maniera. A tavola papà ci raccontò del suo viaggio a
Palermo, una grande manifestazione dopo gli omicidi di Falcone e
Borsellino. C’erano un sacco di giovani, disse lieto e un po’ sorpreso,
sorridendo, e aggiunse: ma la DC non c’era, hanno organizzato tutto i
sindacati. E mi hanno dato pure un berrettino bianco per il sole. Ho perso la
voce, tanto ho gridato.
Gli ultimi anni

In quei primi anni Novanta, presi l’abitudine di raccontargli le trame dei


nuovi testi che andavo scrivendo. Era importante, per me, che gli
piacessero. Lui si schermiva, ma poi mi ascoltava. Nell’aprile del ’94
facemmo una breve vacanza insieme a Chiavari: lunghe passeggiate, e
talvolta mi prendeva la mano, e ce ne andavamo mano nella mano, come
due innamorati, e mi veniva in mente di quando ci salutavamo e ci
baciavamo all’ingresso del liceo, e i miei compagni di classe si
scandalizzavano. Gli raccontai Incantati, un testo sul calcio di cui era
protagonista un pulcino, un piccolo calciatore di nove anni che veniva
venduto da una società di dilettanti a una squadra di serie A. Mi sembrava
di tornare all’ infanzia, quando Vincenzo mi portava a vedere il Ravenna. A
una svolta della strada, ci trovammo davanti un campo da calcio, dove i
pulcini dell’Entella Chiavari calcio facevano allenamento. È un segno,
bisogna festeggiare. Ti va se entriamo in quel pub? Pub, mi fa lui, e chi c’è
mai stato in un pub? Entrammo, trasgredendo gli ordini della mamma che,
sul piano alcolico, permetteva a Vincenzo solo un bicchiere di rosso a
pranzo e uno a cena, e ci facemmo una torta di mela calda congelata
(all’inglese) e una birra.

Nel gennaio del ’94 passeggiata in pineta con Vincenzo. Papà come te li
senti i tuoi anni? «Quando leggo di un sessantenne sul giornale che lo
definiscono vecchio, be’ allora? Io con i miei 72 ormai, cosa sono? Da
buttare? E mi sembra ieri che ne avevo 50, e guardavo il nonno Bruno con i
suoi 62 e pensavo… è vecchio! E voi siete già grandi, ed è andato tutto così
veloce. Così in fretta che non me ne sono accorto?» Camminavamo tra i
pini alti, e lì accanto il mare. Dopo un po’ si guardò attorno, e tirò fuori uno
dei suoi versi con l’arpione: «la divina foresta, spessa e viva», la foresta che
Dante ritrae nel paradiso terrestre, nel canto XXVIII del Purgatorio, e il cui
modello è proprio la pineta ravennate.
Non aveva perso la sua vitalità. Ogni tanto mi regalava una poesia, una
citazione nuova che l’aveva colpito. Quasi si schermiva: «Hai letto un sacco
di libri, sicuramente la conosci già». Conservo una sua cartolina degli anni
Novanta, spedita dalle Dolomiti, con una frase di Teilhard de Chardin: «Il
meglio finisce sempre per accadere, e il futuro è migliore di qualsiasi
passato». E in fondo, come una nota a piè di pagina, le date di nascita e di
morte: 1881-1955.
Negli ultimi anni gli chiedevo spesso della sua infanzia, della giovinezza.
Una volta a Roma, maggio 2002, gli telefonai da piazza del Gesù, pensando
di fargli una sorpresa: te la ricordi? Erano qui i tuoi capi, no? Ma piazza del
Gesù proprio non lo interessava, e deviò il discorso. «Allora sei vicino a
piazzale Venezia? Be’, hai tempo? Ti racconto un fatto! Era quel giorno del
’40 che il Duce si affacciò al balcone di piazza Venezia per dire alla
Nazione: andiamo in guerra! Io ero in piazza a Reggio Emilia ad ascoltarlo,
precettato come tutti i miei coetanei, la sua voce si sentiva dappertutto. Il
giorno dopo il capitano della milizia ci chiama, noi tutti diciottenni, e ci
chiede, sicuro che saremmo saltati su dall’entusiasmo: volete andare
volontari in guerra? Volete servire la Patria, combattendo contro i nemici
del Duce e del nostro popolo? Nessuno dice sì. Nessuno. Al capitano gli
prende un colpo: e tu Ferretti? Neanche tu, Ferretti? Ferretti era il figlio di
uno squadrista, commerciante di maiali. Quello bofonchiò due, tre parole in
dialetto, si capiva che la prospettiva non lo appassionava… e il capitano gli
sferrò un calcione nel sedere. Allora tu, Martinelli! Ero l’unico studente.
Provai ad argomentare: che la famiglia era numerosa, che ero l’unico
maschio con sei sorelle… che dovevo finire il liceo, e quindi… Il capitano
della milizia se ne andò bestemmiando. Non aveva tirato su nessun
volontario. A proposito, non c’è più nessuno neanche a piazza del Gesù,
vero?»

5 settembre 2005. Papà stanotte ha avuto una crisi respiratoria: insufficienza


respiratoria accompagnata da broncopolmonite. Alle sei del mattino ha
chiamato Franco, il marito di Maria, perché non ce la faceva più. Quando
sono arrivato all’ospedale, aveva la maschera dell’ossigeno. Negli ultimi
tempi, essendo la mamma fuori uso per la sua ernia, papà faceva tutto, dalla
spesa alle pulizie in casa. A 83 anni, con questa insufficienza respiratoria
diagnosticata già sei anni prima. Perché non chiamare una donna delle
pulizie, mi chiedo. Non si può. La mamma non lo permette. Maria dice che
mamma non lava, non pulisce, non fa andare la lavatrice. Per risparmiare,
chiedo io. Mah, forse, ma poi no, perché spesso, per non lavare, butta via i
panni sporchi e ne compra di nuovi. Per pudore, allora? Non vuole nessuno
in casa? Ermanna dice che la capisce, che quando vede il mucchio dei panni
sporchi anche lei vorrebbe buttarli tutti e comperarne di nuovi. «Me lo
prendi il giornale per papà?» «Certo, mamma». «Ti do i soldi» «Mamma,
no, ci penso io». «Te li do». «Mamma non scherzare…» «Allora mi
offendi!» Va di là e torna con una moneta da due euro.

Papà non l’ho mai sentito alzare la voce. Quando è morto io avevo 53 anni.
Be’, in 53 anni non l’ho mai sentito alzare la voce. Mai. Così come non ha
mai alzato le mani sui suoi figli.

Ve la ricordate la storiella dell’asino? Ce n’era un’altra, fulminante, che


aveva lo stesso valore di apologo morale, e che piaceva tanto a Vincenzo,
visto che in vita sua i maghi non li aveva mai sopportati, i venditori di
fumo, gli imbroglioni, quelli che Dante punisce nella quarta bolgia
dell’Inferno facendoli camminare con il volto distorto all’indietro, in
antitesi con la loro pretesa di vedere avanti, nel futuro. «Un grande mago,
ma proprio grande, un so-tutto-io, uno che guardava tutti dall’alto in basso,
uno pieno di soldi fatti alle spalle dei creduloni, uno che vedeva nel futuro,
teneva in casa una tigre». Pausa. Mio sguardo interrogante. E quindi? «L’ha
sbranato».

A casa dei miei, 2007. Papà nel raccontare ogni tanto mi sputacchia
addosso dei minuscoli frammenti di cibo, mamma nel rompere coi denti un
pomodorino spruzza Ermanna. Miei poveri vecchi, che tenerezza, quella
nostra carne che si corrompe. Mamma più serena, meno ansiosa di un
tempo, Vincenzo con un velo di tristezza negli occhi, fatica anche a uscire,
quegli 85 cominciano a pesare. Papà, il Ravenna è tornato in serie B,
domenica inizia il campionato, che dici, lo andiamo a vedere insieme? Gli
si illuminano gli occhi.
Epilogo. La selva e le stelle

Vita Oscura Smarrita. Queste tre parole sono le parole che chiudono i primi
tre endecasillabi dell’Inferno. Mi suonano silenziose in mente, quando entro
nel dantis poetae sepulcrum: le ossa lì custodite a questo ci rimandano, alla
vita oscura e smarrita di ognuno di noi. Il poeta che ha cantato l’Eterno: di
lui, cosa resta? Quelle poche ossa. Di lui che, come tutti i credenti, ha
creduto nella resurrezione dei corpi, cosa resta? Nel canto XXIV del
Paradiso san Pietro gli fa l’esame della fede: sei arrivato fin qui, ma tu ci
credi veramente? E Dante snocciola il suo credo: sì, credo, credo in questo e
quello e nella resurrezione. E dopo quell’esame il pellegrino, partito dalla
selva tenebrosa, sprofonderà nella visione sfolgorante della Luce, di Amore
come «infinito eccesso». Ma continua a risuonare la domanda, una voce
smarrita dentro di noi: cosa resta? La scommessa cristiana è davvero
sfrontata. Punta tutte le fiches sulla vita eterna. «Morte, dov’è il tuo
pungiglione?» grida beffardo san Paolo. Il Cristo è risorto, e ogni nostra
sofferenza sarà riscattata, è riscattata, ora, ora è Pasqua di resurrezione, ora
è il Regno dei Cieli, ora siamo accolti nel tempio dell’Altissimo, della
Gerusalemme Celeste.

Che sfacciataggine. Come è possibile? Come fanno quelli a parlare di


Resurrezione, di Paradiso, di Vita Eterna? Siamo qualcosa che non resta, un
mucchietto di giorni, fatiche, ferite. Stop. Vita Oscura Smarrita: nella selva
si nasce, nella selva si invecchia, nella selva si muore. Nient’altro. È la
legge dell’Universale Invecchiamento, dell’Universale Abitudine. Siamo
abituati, non c’è nulla di veramente nuovo. I saggi lo sanno, i saggi
nell’Aeropago trattano san Paolo con sufficienza, i saggi del salotto buono
ridono di lui: resurrezione dei morti? Di questo, ce ne parlerai un’altra
volta. E se ne vanno scuotendo la testa. Anche san Paolo se ne va, e
continua fino all’ultimo suo giorno ad annunciare la morte come il dies
natalis, il giorno di una nuova nascita. Davanti a quelle ossa, davanti a tutti
gli scheletri dei miliardi di esseri umani morti dall’inizio dei tempi,
immolati nei sacrifici, scannati nelle battaglie, davanti ai crani dispersi
sottoterra, nel vento, negli oceani, sotterrati o bruciati, divorati dai vermi,
davanti a quella materia che torna alla materia, davanti al ciclo infinito che
tutti ci mastica e ci rimastica e ci tritura, nel mistero degli astri e
dell’universo smisurato, come fanno san Paolo e Dante a sfidare il lavoro
della Morte? A sostenere che i vermi diventeranno angeliche farfalle?

I giochi sono aperti. Nessuno può illudersi e dichiararli chiusi una volta per
tutte, per legge, per decreto, per ideologia. Il Mistero ci avvolge. E la parola
finis, in latino, ha in sé una ambigua ricchezza: indica «la» fine, e il
«confine» aperto verso un altro mondo, ma anche «il» fine, la meta,
l’orizzonte atteso e desiderato. Come scrive Rilke, nella lettera a von
Hulewicz a proposito delle Elegie duinesi: «La morte è il lato della vita
rivolto altrove da noi, non illuminato da noi».

Una domanda l’ho lasciata inevasa, qualche pagina indietro. Quella relativa
al grande abbaglio di Dante sull’impero. L’abbiamo visto, i fatti gli hanno
dato torto. L’impero universale è definitivamente tramontato, l’Europa è
diventata l’Europa delle monarchie nazionali. Da questo punto di vista il
genio Dante Alighieri non comprende la direzione della Storia in cui è
immerso. Fraintende. Ma perché allora quel poema ci parla e ci commuove
ancora, a distanza di sette secoli, nonostante i suoi abbagli?
Dopo aver verificato sulla sua pelle il dissolvimento della democrazia
comunale, il suo suicidio a colpi di feroci lotte fratricide, Dante scorge
nell’impero un argine, l’unico argine possibile alla marea di ingiustizie che
travolge la società del suo tempo. La Commedia è una grandiosa protesta
contro quelle ingiustizie. Ed è questo slancio impetuoso verso la giustizia
che ci commuove, la forza veritiera di quella protesta, non tanto il fatto che
Dante sbagli a identificare l’argine giusto. Così come nel leggere i poemi
colorati di Vladimir Majakovskij, il poeta russo suicida nel 1930, non ci
mettiamo a fare l’esame ai suoi convincimenti ideologici, ma siamo
commossi da quel grido stentoreo contro i soprusi, ci incanta quel sogno di
felicità che traspare da ogni verso, di felicità per tutti.

Che senso ha se tu solo ti salvi?


Voglio salvezza per tutta la terra
per tutta la razza umana priva d’amore
per tutta la folla umana del mondo.
Sono qui da sette anni
e ci rimarrò altri duecento, inchiodato ad aspettare.
Sul ponte degli anni
tra il disprezzo e le beffe
con l’incarico di redentore dell’amore terrestre
dovrò rimanere e rimango per tutti
per tutti pagherò, piangerò per tutti.

Parole di luce e tempesta, urlo e sacrificio. Composte da un poeta che, lo


sappiamo, ha sbagliato inneggiando al tiranno Stalin. Così come l’aver
creduto in Mussolini non diminuisce di un grammo la grandezza
imponente, enigmatica, dei Cantos di Ezra Pound. Questo sono i poeti:
possono sbagliare, prendere cantonate, ma l’oro della creazione va oltre le
loro sviste. Le loro opere cantano e volano alto, al di là dei loro stessi errori.
O come ha scritto Kipling: ogni grande testo la sa più lunga di chi lo ha
scritto.

Ho sempre accostato Dante a Majakovskij. Li ho sempre sentiti fratelli,


tormentati da un destino per tanti aspetti simile. Entrambi forti, entrambi
fragili, entrambi con un bisogno assoluto di felicità, che non è mai rimasto
un desiderio solamente intimo, perché quel desiderio lo hanno trasformato
in tensione al bene comune, alla politica, entrambi delusi dalla politica,
entrambi rifiutati dalla politica, l’uno condannato al rogo e all’esilio, l’altro
condannato a una sorta di esilio in patria, a un rogo di natura simbolica.
Entrambi sprofondati nella selva oscura della propria esistenza, da cui
usciranno in modi completamente diversi: l’uno si sparerà un colpo di
pistola in testa, suicidato da una rivoluzione che non aveva mantenuto le
promesse, e lascerà scritto su un bigliettino: «la barca dell’amore si è
schiantata contro il grigiore del quotidiano», l’altro passerà gli ultimi anni
della sua vita a cantare di quell’Amore «che move il sole e l’altre stelle».
Eppure quanto desiderio di immortalità nella vita di Majakovskij. Quante
volte i versi dell’ateo materialista prendono di petto Dio, come
un’ossessione.

Ascoltate!
Se accendono le stelle
significa che qualcuno ne ha bisogno
significa che qualcuno vuole che ci siano
significa che qualcuno chiama perle
questi piccoli sputi!

Poeti come questi prendono di petto l’Invisibile, lo adorano, lo maledicono,


lo negano bestemmiandolo oppure ansiosamente lo interrogano. Così si
prendono i loro rischi, perché, sempre parole di Majakovskij, «a rischiare si
può perdere qualcosa, a non rischiare si perde tutto».
È che non possono farne a meno. È nella loro natura affrontare il Mistero,
tirarlo giù dal suo trono celeste. Pensate a quella frase dell’Esodo, 32,15:
«Se Tu non camminerai con noi, non chiederci neppure di alzarci». L’ha
scritta un poeta. Parafrasando: «Se tu, l’Altissimo Onnipotente, non ti alzi
dal tuo scranno contornato di angioletti e non vieni a camminare nel fango
insieme a noi, poveri mortali, se non ti metti al nostro fianco, se non
condividi la nostra fatica e le nostre lacrime, be’, non illuderti che ci
alziamo solo perché ce lo chiedi». Così ci si parla tra amanti. Senza buone
maniere: parole di carne, che strattonano, che prendono per mano, che
abbracciano. Parole come amplessi. Così sono i poeti, razza di cui, sembra,
questi tempi di social e di fretta, di distrazione, di odio aggressivo e stupide
idolatrie, non abbiano più bisogno. Ardenti. Innamorati. Ridicoli. Malati, e
insieme guaritori con le loro opere, le loro ferite trasformate in opere.
Sciamani che ci curano. Testardi, nel continuare a scommettere, come
Emily Dickinson, che:

Questo Mondo non è Conclusione.


Un seguito è al di là
Invisibile, come la Musica
Ma forte, come il Suono.
Fa segno, e poi sfugge.
Filosofia non lo sa.
È l’Intuizione, alla fine,
a penetrare l’Enigma.

21 gennaio 2009. Alle 9 del mattino squilla il telefono. Non ho voglia di


alzarmi, siamo tornati tardi nella notte da Roma. Saranno quelli della
Telecom, lasciamo perdere. Ermanna, timidamente: che sia qualcuno che ha
bisogno? Suonano al mio cellulare, lo prendo dal comodino, guardo il
numero: sconosciuto, non rispondo. Suonano a quello di Ermanna, che
risponde. «Ti cercano dall’ospedale. Tuo babbo, è grave». Mi alzo in fretta
e furia, vado, però farò colazione prima, mi dico, magari l’odore
dell’ospedale mi mette la nausea a stomaco vuoto. Un caffè al volo, e arrivo
a Medicina quarto piano. Mi accoglie una dottoressa. «Allora guardi, signor
Martinelli, suo padre è arrivato stanotte, aveva avuto una sincope, poi si è
ripreso. E tutto sembrava andare per il meglio. Ma poi verso mattina il
cuore ha cominciato…» Mi parla in piedi, con gentilezza. Il pensiero si fa
strada prima che lei me lo dica apertamente: Vincenzo è… no, non può
essere, continua ad ascoltare. «Il cuore ha cominciato a perdere colpi, si è
arrestato, abbiamo lavorato di defibrillazione, abbiamo tentato di tutto per
quaranta minuti…» «Non ce l’ha fatta?» domando. «No». Ecco, è arrivata
in fondo, in quel «no». Sarà durato un minuto, il monologo della dottoressa:
a me è sembrato un istante infinito, sospeso nel vuoto. «L’abbiamo messo di
là, sua madre è andata a casa a prendere i vestiti». Mi accompagna in una
stanzetta, tre metri per due, ci sta giusto il letto da ospedale. Vincenzo è
sdraiato lì sopra, una benda bianca che gli fascia la testa e gli scende sotto il
collo, forse a impedire alla bocca di aprirsi. E appena sembra sorridere,
ancora, come ha sorriso tanto in vita sua. La dottoressa mi lascia solo con
lui. Ha un occhio, il sinistro, un poco aperto, da cui spunta la sua pupilla
azzurra. Mi viene istintivo chiuderglielo, quell’occhio che ancora vuol
guardare. Lo abbraccio. Il suo corpo è ancora caldo, l’orecchio destro rosso
cupo, come se il sangue si fosse raccolto in quella parte della testa. Ancora
non mi rendo conto. Papà, dove sei? Resto sul bordo del letto a tenergli la
mano, così come tante volte era stato lui a sedersi sul bordo del mio letto, la
mattina, a raccontarmi le storie. Poi è arrivata mamma. Con una sportina di
plastica: dentro un paio di pantaloni, un giubbotto verde, scarpe, calzini, un
maglione marrone. «Non portava la giacca». Quasi non piange, parla tra sé.
«Non gli hanno dato l’ossigeno, come l’altra volta». Lo ripete più volte, non
gli hanno dato l’ossigeno. Come a cercare un colpevole. Arriva
un’infermiera con una barella metallica, dove verrà messo papà. Ci spiega
che dobbiamo prendere contatto con un’agenzia di pompe funebri, che
adesso quella stanzetta verrà chiusa, che potremo vederlo solo il giorno
dopo. Andiamo a casa dei miei, arrivano Maria e Franco. Maria in lacrime:
«Non sono riuscita a vederlo». Mamma continua a ripetere: «Non gli hanno
dato l’ossigeno». Nel pomeriggio io e mia sorella andiamo dalle pompe
funebri, e facciamo quel che si deve fare: la scelta della bara e del crocifisso
da metterci sopra, del manifesto, del cartoncino… Papà si era raccomandato
con Maria qualche mese prima: quando toccherà a me, prendete il
cartoncino che ho fatto scrivere io per il nonno Silvio e usate quello, che
fate prima, andrà bene anche per me, c’è una frase di sant’Agostino che mi
sembra che vada. Così gliel’aveva detto a Maria. En passant.

È nel luogo della verità, mi dice la sera stessa Mandiaye, al telefono da


Dakar. Sai come diciamo da queste parti? Che la morte ti fa lo sgambetto
quando non ci pensi. Con l’Invisibile ci vuole pazienza.
Note

IL RACCONTO CHE APRE AL GIORNO


Non esiste autografo né della Divina Commedia né delle altre opere di
Dante. Per le citazioni della Divina Commedia ho utilizzato il testo critico
del commento di Natalino Sapegno, lo stesso che usava Vincenzo, lo stesso
che poi mi sono trovato al liceo, pubblicato da «La Nuova Italia» Editrice,
Firenze, 1955-1957: per quanto da allora vi siano state nuove e importanti
edizioni critiche (Petrocchi, Sanguineti, Lanza, Inglese, Malato), ho voluto
sentire i versi così come me li cantava mio padre. Una scelta affettiva.
DANTE ADOLESCENTE
La questione dei «fedeli d’Amore» è ben riassunta nell’avvincente racconto
di Pier Luigi Vercesi, Il naso di Dante, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2018.
Al di là di certi astrusi esoterismi ottocenteschi, al di là delle supposizioni
sull’esistenza o meno di una confraternita che portasse tale nome e sui suoi
obiettivi politico-spirituali, in una linea interpretativa che da Gabriele
Rossetti arriverà a René Guénon e anche oltre, un fatto rimane evidente: più
volte Dante, nella Vita nova, nomina i «fedeli d’Amore» (con la f minuscola
in fedeli e la A maiuscola di Amore: dettaglio da non trascurare). Per quel
che riguarda Cristina Campo, vedi la raccolta di scritti Gli imperdonabili,
Adelphi, Milano, 1987. Per quel che riguarda invece la questione della
«mela» di san Tommaso, questione centrale dalle origini della filosofia a
oggi, vorrei citare un bel libro di Filippo La Porta, Il bene e gli altri: Dante
e un’etica per il nuovo millennio, Bompiani, Milano, 2018, in cui in
maniera assai pertinente legge la Commedia alla luce della filosofia di
Simone Weil, centrate entrambe su uno sguardo amoroso alla «realtà», il
«gran mare dell’essere» (Par, I, 113), che, dice La Porta, «è soprattutto
relazione, e dunque riconoscimento pieno dell’esistenza degli altri, della
loro alterità, mai troppo manipolabile. Un riconoscimento che ha bisogno
soprattutto di attenzione e di ascolto» (p. 8). Un’avvertenza quanto mai
necessaria in tempi di ubriacature virtuali e fake news e «irrealtà»
santificate dalla tecnologia e dai suoi chierici; a tal proposito la profezia
disarmante di Charles Péguy, che all’inizio del secolo scorso, in Veronique.
Dialogo della storia e dell’anima carnale, scrisse: «Negare il cielo quasi
sicuramente non è pericoloso. È un’eresia senza futuro. È così
evidentemente grossolano. Negare la terra, invece, è allettante. All’inizio è
raffinato. Ed è questo il peggio. È dunque questa l’eresia pericolosa, l’eresia
con un avvenire». Non vi ricorda i minacciosi black mirrors che ci
assediano?
I MAIALI E LA GRAMMATICA
Per questo capitolo ho fatto tesoro delle testimonianze di alcuni miei
parenti, cui va il più sentito ringraziamento: prima di tutti Laura Martinelli,
96 anni, la gemella di papà, l’unica delle sue sorelle ancora viva. «Vuoi
sapere della nonna Margherita?» mi dice puntandomi gli occhi addosso.
«Una santa! Una santa! Ci faceva recitare il rosario tutte le sere prima di
cena! E ogni sera toccava a una sorella diversa di guidare. A me sembrava
un po’ troppo, ma dillo a Enzo, che per lei stravedeva. Io ero l’unica che,
non dico che mi ribellavo ma, insomma, non riuscivo a star zitta: e se dopo
non c’è niente, che fregatura prendiamo? La mamma non mi sopportava,
ma non alzava mai la voce, mi guardava con quegli occhi azzurri che ha
passato a tuo padre. Mamma, le dicevo, posso farlo un contratto con Dio?
Sei mesi d’estate in paradiso, che là fa sicuramente più fresco, e sei mesi
d’inverno all’inferno, che staremo tutti al caldo». Arrivata ormai al secolo
di vita, la zia Laura mi pare in formissima, e lei a quel complimento
reagisce così: «È che non voglio andar via! Non sarà mica obbligatorio». E
poi ringrazio Anna Gherpelli, Francesco Benedetti, Margherita Benedetti,
Stefano Benedetti e infine Franco Nasi: di Franco, docente di Teoria della
traduzione all’Università di Modena e Reggio Emilia, voglio inoltre citare,
tra i vari libri dedicati alla bellezza e alla complessità del tradurre,
Traduzioni estreme, Quodlibet, Macerata, 2015, là dove analizza l’uso degli
acrostici in Dante e in Boccaccio, pp. 69-76.
BIANCHI, ROSSI E NERI
Su Margherita Porete e sul suo libro «proibito», vedi: Lo specchio delle
anime semplici, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1994, con i
commenti di Romana Guarnieri e Marco Vannini; Luisa Muraro, Le amiche
di Dio. Margherita e le altre, Orthotes Editrice, Nocera Inferiore, 2014. Ho
poi trovato illuminante il volume di Alessandro Volpe, Pietro da Rimini,
Skira Editore, Milano, 2016, dove l’autore si fa accompagnare dalle
riflessioni di Walter Benjamin per «consegnare al lettore» l’opera di un
pittore del Trecento, ricordandoci che occorre sempre guardare al passato
con gli occhi del presente, strappandolo «al conformismo». E mi ha
particolarmente toccato come Volpe descrive il rapporto con il padre Carlo,
a sua volta storico dell’arte medievale, allievo di Roberto Longhi.
IL POETA IN POLITICA
Al liceo la professoressa di italiano e latino, Bianca Lotito, ci fece leggere il
fondamentale Studi su Dante di Erich Auerbach, Feltrinelli, Milano, 1963:
devo a Bianca eterna riconoscenza, e non solo per questo motivo, ma anche
per averci messo sul banco, fin da subito, Dante e Brecht, Majakovskij e
Emily Dickinson. Voglio inoltre ringraziare un gruppo di docenti
dell’Università di Bologna, i cui preziosi studi danteschi mi hanno
accompagnato nel mettere in scena la Divina Commedia in diversi luoghi
del mondo, da Ravenna a Nairobi, e li ricordo attraverso i loro lavori:
Giuseppe Ledda, La guerra della lingua, Longo Editore, Ravenna, 2002; La
Bibbia di Dante, Claudiana/Emi, Torino-Bologna, 2015; Leggere la
Commedia, il Mulino, Bologna, 2016; Sebastiana Nobili, La consolazione
della letteratura, Longo Editore, Ravenna, 2017, dove assai interessante è
la relazione tra Dante e la Cronaca del francescano Salimbene; Marco
Veglia, Dante leggero, Carocci Editore, Roma, 2017. A Giuseppe Ledda
debbo anche la conoscenza di Heather Webb e del suo stimolante Dante’s
Person’s, Oxford University Press, Oxford, 2016. Insieme a loro non posso
non citare: Carlo Ossola, Introduzione alla Divina Commedia, Marsilio,
Venezia, 2012, agile e al tempo stesso raffinatissima camminata per
accedere alle tre cantiche; Alessandro Scafi, Il paradiso in terra. Mappe del
giardino dell’Eden, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
IL CORPO NELLA RENAULT ROSSA
Passano gli anni, e sembra sempre più evidente quanto la tragedia
dell’omicidio di Aldo Moro sia stata l’evento spartiacque della storia
politica italiana. Oltre all’opera fondamentale di Miguel Gotor, Lettere
dalla prigionia, Einaudi, Torino, 2008, a me sono particolarmente servite le
riflessioni di Marco Belpoliti in due suoi libri: Settanta, Einaudi, Torino,
2001, in particolare il primo capitolo su Sciascia e «il caso Moro», e Da
quella prigione, Ugo Guanda Editore, Parma, 2018, dove emerge quanto
quella tragedia sia stata un trauma incomparabile per chi aveva vissuto
l’illusione rivoluzionaria degli anni Settanta, e il relativo naufragio. Così
come l’avvincente libro tra memorie personali e serrata analisi politica di
Marco Damilano, Un atomo di verità, Feltrinelli, Milano, 2018. Quello
struggente «acciambellato», relativo al corpo di Moro nella Renault rossa,
l’ho preso in prestito da una poesia di Mario Luzi, che trovate nel volume
Per il battesimo dei nostri frammenti, Franco Angeli, Milano, 1985. Sul
decennio cruciale che precede l’omicidio di Moro, potete leggere e
consultare come un utilissimo manuale: Enrico Deaglio, Patria 1967-1977,
Feltrinelli, Milano, 2017. Sui mille rivoli che legano i vangeli alle utopie
socialiste ottocentesche, bisognerebbe evocare un’intera biblioteca: mi
piace qui citare una frase di Gilbert Keith Chesterton a proposito della sua
indimenticabile creazione letteraria, il «mite e infaticabile pretino chiamato
Padre Brown», tratta da I racconti di Padre Brown, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo, 1995, p. 54: «Poiché c’è al mondo un antico ribelle
demagogo che penetra nei ritiri più raffinati per porgere la spaventevole
novella che tutti gli uomini sono fratelli: e in qualsiasi luogo questo
uguagliatore andasse sulla sua triste cavalcatura, Padre Brown sentiva il
dovere di seguirlo». Su Dioniso e lo specchio: Andrea Tagliapietra, La
metafora dello specchio, Feltrinelli, Milano, 1991, e Il velo di Alcesti,
Feltrinelli, Milano, 1997.
IL PROFUGO
Sulla vita di Dante: Emilio Pasquini, Vita di Dante. I giorni e le opere,
Rizzoli, Milano, 2006; Guglielmo Gorni, Dante. Storia di un visionario,
Laterza, Roma-Bari, 2008; Marco Santagata, Dante. Il romanzo della sua
vita, Mondadori, Milano, 2012; Giorgio Inglese, Vita di Dante. Una
biografia possibile, Carocci Editore, Roma, 2015. Sull’esilio in particolare,
tra le ultime pubblicazioni, ho trovato interessante Dante. Una vita in esilio
di Chiara Mercuri, Laterza, Roma-Bari, 2018.
L’ULTIMO RIFUGIO
Ivan Simonini ha pubblicato negli anni Novanta La basilica gli specchi,
Edizioni Essegi, Ravenna, 1993. È un atto d’amore verso Ravenna e i poeti
italiani e stranieri che l’hanno attraversata e cantata nei secoli, un
ponderoso volume che ha il suo fuoco centrale in Dante: da allora non mi
abbandona. In quelle pagine Simonini già affrontava un tema fondamentale,
il rapporto tra i versi danteschi e i mosaici ravennati, che ha poi sviluppato
in un volume recente: I mosaici ravennati nella Divina Commedia, Edizioni
del Girasole, Ravenna, 2017. Sullo stesso argomento: Laura Pasquini,
Iconografie dantesche, Longo Editore, Ravenna, 2008. Riguardo alla storia
di Ravenna e ai tesori musivi che custodisce, non posso qui non ricordare e
ringraziare Giovanni Gardini e Francesca Masi, per le preziose
conversazioni al riguardo.
E CIELO E TERRA
Per me fondamentali, attinenti in maniera diretta o meno all’opera dantesca:
Romano Guardini, Dante, Morcelliana, Brescia, 1999; Pavel Florenskij, La
filosofia del culto, a cura di Natalino Valentini, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo, 2016; Simone Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano,
1991; Ezra Pound, Dante, a cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani,
Marsilio editori, Venezia, 2015; Thomas Stearns Eliot, Scritti su Dante,
Bompiani, Milano, 2009; Charles S. Singleton, Viaggio a Beatrice, il
Mulino, Bologna, 1968; Charles Péguy, Véronique. Dialogo della storia e
dell’anima carnale, Marietti 1820, Genova, Milano, 2013; Ignazio Silone,
L’avventura di un povero cristiano, Mondadori, Milano, 1968; Ernst Bloch,
Spirito dell’utopia, La Nuova Italia editrice, Scandicci, 1992; Gregory
Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976; Gianfranco
Contini, Un’idea di Dante, Einaudi, Torino, 1976; Giuseppe Fornari, Da
Dioniso a Cristo, Marietti 1820, Genova-Milano, 2006; Jean Soldini, Il
riposo dell’amato. Una metafisica per l’uomo nell’epoca del mercato come
fine unico, Jaca Book, Milano, 2005; Gianni Vacchelli, L’«attualità»
dell’esperienza di Dante, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
La citazione da La strada di Cormac McCarthy è tratta dall’edizione
Einaudi, Torino, 2014, p. 64. Le citazioni di Meister Eckhart sono tratte da
Sermoni tedeschi, a cura di Marco Vannini, Adelphi, Milano, 1985, p. 199 e
passim.
STORIA DELLE OSSA
Corrado Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, Editore Alfio Longo, Ravenna,
1965. Giovanni Pascoli, alla prima uscita del libro di Ricci nel 1891, lo
definì «bellissimo»: la passione di Pascoli per Dante, quel tenere tre
scrivanie distinte nello studio (una per i versi in italiano, una per quelli in
latino, una per i saggi danteschi), continua a commuovermi. È un dialogo
serrato e intimo, pieno di invenzioni e fascino di scrittura, e Pascoli gli
dedica la vita.
Sul nucleo urbano oggi conosciuto come la Zona Dantesca o Zona del
Silenzio, e sul ruolo che ebbe Corrado Ricci, storico dell’arte e primo
sovrintendente di Ravenna e d’Italia, nel trasformare quella parte di città
dalle caratteristiche settecentesche in uno scenario reinventato con forme e
atmosfere neomedievali, vedi: Maria Giulia Bernini, Luoghi danteschi,
Longo Editore, Ravenna, 2003.
A proposito della «religione laica» delle celebrazioni centenarie
affermatasi nell’Ottocento, vedi Carlo Dionisotti, Geografia e storia della
letteratura italiana, Einaudi, Torino, 1967, e soprattutto il capitolo finale,
Varia fortuna di Dante, pp. 255-303. Sempre a proposito di centenari, va
ricordato il «Bollettino dantesco per il settimo centenario», Giorgio Pozzi
Editore, una rivista-libro annuale che ha iniziato il suo percorso nel 2012 e
continuerà fino al 2021, settimo centenario della morte. Nato sotto l’egida
del Comitato ravennate della Società Dante Alighieri, il «Bollettino» è
diretto da Alfredo Cottignoli e Emilio Pasquini.
SERVIRE IL POPOLO
Per scrivere di Vincenzo e della sua vita nella Democrazia cristiana e poi
nella Capit ho fatto ricorso ai racconti di amici e colleghi di partito: Pericle
Stoppa, Giancarlo Sirri, Filippo Milazzo, Aldo Preda, Augusto Benelli,
Franco Gabici, Alvaro Ancisi, Nereo Foschini. E qui tutti li ringrazio per la
disponibilità, la gentilezza e il tempo concessomi.
Sul nodo attorcigliato della Legge, del padre, del suo tramonto,
dell’eredità: Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli,
Milano, 2013.
E ancora ringrazio Miro, ovvero Casimiro Calistri, memoria storica del
quartiere Darsena a Ravenna, dove ha tenuto per decenni una bottega in cui
riparava e vendeva biciclette. La famiglia è di Pistoia, lui arriva a sette anni
a Ravenna, nel 1942. Ricorda quando gli Alleati bombardavano, gli aerei
come uno stormo che oscurava il cielo. Poi, nel dicembre 1944, la
liberazione della città. Miro ricorda i tedeschi imprigionati nell’Ippodromo,
e una donna che andava a portar loro da mangiare. «Ma cosa fai?» la
rimproveravano i partigiani. «Han l’età di mio figlio, cosa dovrei fare?»
L’umanità è questa, dice Miro. È questa capacità di compassione. Poi
aggiunge: è anche ferocia, sì. I partigiani ne hanno combinate tante. Ma,
conclude Miro, se a 15 anni avevi visto tuo padre umiliato a botte e olio di
ricino dai fascisti, quando arrivava il momento che potevi vendicarti, be’,
non lo facevi?
GLI ULTIMI ANNI
Un grazie enorme a Maria, per come abbiamo insieme ricostruito la
memoria degli ultimi anni di nostro padre.
EPILOGO. LA SELVA E LE STELLE
Su Emily Dickinson, si veda la splendente biografia di Marisa Bulgheroni,
Nei sobborghi di un segreto, Mondadori, Milano, 2001. Vale la pena qui di
citare un’altra scintillante poesia della Dickinson, così politica, così mistica
al tempo stesso, tratta da Tutte le poesie, Arnoldo Editore, Milano, nona
edizione, 2010, p. 236: «Se in mare tu annegassi / sotto i miei occhi – o
fossi / condannato a morire / al nuovo sole / o bussassi – ignorato – in
Paradiso / io Dio tormenterei / finché ti lasci entrare!» Nello stesso volume,
a p. 554, l’originale dei versi da me tradotti e citati nell’Epilogo.
I versi majakovskiani citati si trovano in: Vladimir Majakovskij, Opere,
Editori Riuniti, Roma, terza edizione 1980, volume 5, p. 248 e volume 1, p.
29. Non riesco mai a scindere la memoria di Majakovskij da quella del suo
regista Vsevolod Mejerchol’d: sul primo resta fondamentale l’opera di
Angelo Maria Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia,
Einaudi, Torino, 1959, mentre del secondo tre libri fondamentali a cura di
Fausto Malcovati: 1918: Lezioni di teatro, Ubulibri, Milano, 2004;
L’Ottobre teatrale 1918/1939, traduzioni dal russo e note di Silvana de
Vidovich, Feltrinelli, Milano, 1977; L’ultimo atto, La casa Usher, Firenze,
2014. A Fausto debbo riconoscenza anche per un dono luminoso e
inaspettato, arrivato mentre lavoravo a questo libro sui padri.
Theatrum mundi

Negli ultimi anni io e Ermanna abbiamo dato corpo a un sogno giovanile, e


abbiamo cominciato a mettere in vita la Divina Commedia in giro per il
mondo. Lo abbiamo fatto traducendo scenicamente due intuizioni
fondamentali di Ezra Pound: la prima è pensare a Dante come l’everyman,
l’umanità intera, e quindi in questi nostri allestimenti Dante è lo spettatore,
il singolo spettatore che fa il viaggio insieme a noi, è proprio lui il
viandante sperduto nella selva della sua esistenza, e io e Ermanna le guide,
il Virgilio-Beatrice, la coppia maschile-femminile che lo condurrà nel
viaggio fuori dal labirinto; la seconda è pensare alla Commedia come a una
grande sacra rappresentazione, o meglio, un intero ciclo di sacre
rappresentazioni. E abbiamo intrecciato questa suggestione poundiana al
nostro amore per il teatro di massa di Majakovskij e Mejerchold, intreccio
per noi naturale, e che forse avrebbe sorpreso non poco il grande poeta
americano… Quindi abbiamo reinventato la Commedia nei teatri e fuori dai
teatri, nelle strade, nei sagrati delle chiese, lavorando con migliaia e
migliaia di cittadini, impegnati attivamente, come nei modelli teatrali citati,
a far parte di cori, di squadre di attori, a inventarsi arpie o diavoli, angeli o
capitalisti pentiti, artisti superbi o assassini, e così via, seguendo la
strabiliante polifonia delle figure dantesche. Lo abbiamo fatto con Inferno
nell’estate 2017 a Ravenna, partendo ogni sera per 34 repliche dalla tomba
di Dante, in un progetto voluto e prodotto da Ravenna Festival che ci vedrà
impegnati fino al 2021 nella realizzazione dell’intera «trilogia»; lo abbiamo
fatto a Kibera, uno slum alla periferia di Nairobi, uno dei più grandi di tutta
l’Africa, chiamati dalla Ong AVSI a portare in scena il capolavoro dantesco,
in inglese e swahili, con 150 bambini e adolescenti, i quali, ignari di chi sia
Dante e di che cosa sia il teatro, hanno ricreato insieme a noi che cosa sono,
per loro, «inferno» e «paradiso», per loro che vivono in quella trincea
disumana, senza acqua potabile, senza luce elettrica se non illegale,
disoccupazione devastante, delinquenza: e abbiamo scoperto con loro che in
swahili «kibera» significa «selva»; lo stiamo facendo a Matera, per la
Capitale della cultura europea, dove il Purgatorio debutterà nel maggio
2019, e lo faremo a Timisoara, Romania, anche lì per la Capitale europea
della cultura nel 2021, e anche in questo caso coinvolgendo centinaia e
centinaia di cittadini e artisti di quelle città: e ci sembra significativo che
l’Europa, nel necessario ripensarsi in un momento storico così delicato,
faccia ricorso al grande «profugo» e alla sua opera-mondo, che tanto ha
irrobustito e ri-creato le fondamenta letterarie, artistiche, spirituali della sua
cultura; e forse lo faremo negli anni a venire anche negli Stati Uniti,
seguendo l’entusiasmo di Alison Cornish, vice presidente della Dante
Society of America, e il suo desiderio di far risuonare gli endecasillabi
danteschi nel Bronx di New York. E il progetto di New York si intreccerà
con un allestimento in Pennsyilvania, realizzato con la prestigiosa U Penn
di Philadelphia. Alla fin fine, questa Divina Commedia in giro per il mondo
è una festa dei molti. «Perché cotanto in noi ti specchi?», chiede un dannato
a Dante, nel canto XXXII dell’Inferno: che domanda decisiva! Ogni volto è il
nostro volto, è l’umanità intera che ci guarda e in noi si riflette.
Ringraziamenti

Diversi ringraziamenti me li sono già spesi nelle Note. Ora mi restano da


ringraziare solo preziose figure di donna, che hanno letto i capitoli mentre li
andavo componendo: Adria Montanari e Victoria Montanari; Sara Colciago,
cui debbo anche utili indicazioni bibliografiche, che le derivano dalla
passione per la storia medievale; Cristina Palomba, editor di Ponte alle
Grazie, che, dopo Aristofane a Scampia, anche stavolta mi ha
accompagnato ad arrivare in porto. Infine come sempre Ermanna: «Pondus
meum amor meus, eo feror quocumque feror». (Sant’Agostino, Confessioni,
XIII, 9-10).
Indice

Il racconto che apre al giorno


Dante adolescente
I maiali e la grammatica
Bianchi, Rossi e Neri
Il poeta in politica
Il corpo nella Renault rossa
Il profugo
L’ultimo rifugio
E cielo e terra
Storia delle ossa
Servire il popolo
Gli ultimi anni
Epilogo. La selva e le stelle
Note
Theatrum mundi
Ringraziamenti
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