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di Paula Michelstaedter Winteler, sorella di Carlo (aprile 1939), pubblicata da Sergio Campailla in
Pensiero e poesia di Carlo Michelstaedter, Bologna Patron, 1973
[…]
Eravamo in quattro, due fratelli e due sorelle, ma da due primi ai due ultimi c’erano sei anni
d’intervallo.
. Carlo era il minore di tutti. Dal babbo e da tutto l’ambiente […] si infiltrò a poco a poco questa
malattia “letteraria”, specialmente in noi due piccoli. Da bambini Carlo ed io ci credevamo in
dovere di comporre versi per il natalizio di papà e per altre occasioni, ci si metteva all’opera con
grande impegno e grande sforzo, e aiutandoci a vicenda si riusciva a mettere assieme delle poesie di
cui eravamo molto fieri. Di tutti e quattro, strana cosa, Carlo nei primi anni era il più mite, il più
docile e ubbidiente. […] Lui che più tardi, da giovanetto, da ragazzo, non conosceva il pericolo,
anzi lo cercava, e nelle sue imprese era sempre temerario, da bambino era piuttosto pauroso. […]
Ma di noi quattro era anche il più riflessivo, il più raccolto, e già da bambino in certo modo aveva
una vita sua. […]
[…] Un nuovo indirizzo alle sue idee, o piuttosto una concentrazione gli diede il contatto con
l’amico Enrico Mreule che conosceva già da anni al ginnasio, ma soltanto superficialmente.
Si avvicinarono, mi pare, nell’ultimo anno della scuola. Mreule era una natura chiusa, aveva avuto
una infanzia triste, si trovava male in famiglia, s’era isolato e aveva già da giovanetto, tendenze
filosofiche precoci. Fu lui a far conoscere a Carlo Schopenauer e a iniziarlo alla ricerca dei valori
della vita. Con Mreule e con un altro compagno, Nino Paternolli, si trovava
spesso in una grande soffitta in casa di quest’ultimo, dove passavano delle
lunghe sere a discutere problemi seri. […] Non aveva mai preso lezioni di pittura la
dimostrava già da ragazzo un’attitudine straordinaria, specialmente per la caricatura. In ginnasio
aveva ritratto tutti i professori e molti dei suoi compagni. I suoi quaderni, i suoi libri di scuola erano
pieni di pupazzetti: nei faceva sui ritagli di carta, sui notes, in qualunque luogo si trovasse, in treno
o in festa,o una conferenza; al caffè in mancanza di carta disegnava sul marmo del tavolino.
Quest’abitudine del ritratto era diventata quasi un bisogno. […] Aveva una passione pel
mare, ma amava moltissimo anche la montagna. Non fece alpinismo, ma
conosceva bene i nostri monti attorno a Gorizia, e non ci andava per sport,
in compagnia, ma per bisogno di movimento, per amore alla natura, per
ricerca della solitudine. In una delle ultime vacanze d’estate, passò alcuni
giorni sulle Alpi Giulie, ci andò da solo, senza meta prefissa, senza carte,
senza sacco di provviste, senza saper nemmeno quando sarebbe tornato. E
si fermò alcuni giorni camminando molto, passò tutto un giorno nella
nebbia fitta, nutrendosi soltanto di latte che trovava nelle malghe dei
pastori. E ritornò più dimagrito, ma con una faccia illuminata
come chi ha vissuto intensamente d’una vita interiore. Ma il
suo monte preferito era il San Valentin (quello che dopo la guerra si
chiamò Sabotino). Ci andava spesso con i suoi due compagni di Gorizia,
Mreule e Paternolli e anche solo, trattenendosi su tutta la giornata. Non era
un’ascensione quella (il monte è soltanto si 600 metri) lo considerava
come un rifugio dalla città. Lassù scrisse parecchie delle sue ultime poesie:
Risveglio, Giugno. Mi par ancora di vederlo ritornar a casa verso
mezzogiorno il 1 marzo del ‘910. Era una giornata luminosa e ventosa;
rientrò a casa coi capelli arruffati, proprio come una folata di vento e si
mise a scrivere di getto la poesia: “Marzo ventoso….”. La leggenda del
San Valentin l’aveva scritta prima, nel 1908, e difatti essa risente nello
stile delle sue letture di allora, specialmente delle opere dannunziane, non
ha la spontaneità, quell’impronta viva e la forza della Bora, scritta
nell’ultimo anno. Finito il liceo nel ‘905 pensava dapprima di frequentare
l’Università di Vienna e vi si iscrisse in Matematica e Fisica, ma poi spinto
dal suo amore per l’arte, pregò il babbo di lasciarlo andare un anno almeno
a Firenze, che non conosceva, ma poi vi rimase tutto il corso degli studi.
Non soltanto l’arte lo attirava, ma anche l’ambiente italiano e la lingua. Ci
andò con entusiasmo giovanile, assetato del bello in tutte le sue
emanazioni. Pure il distacco da casa per la prima volta gli fu doloroso e lo
esprime nelle sue prime lettere piene di nostalgia. Nei primi tempi scriveva
molto, cominciò già dalle diverse tappe del suo viaggio: Venezia, Vicenza,
Ferrara, Bologna. Visitò tutte le chiese, le gallerie e ci comunicava le
impressioni, intercalando nelle descrizioni di cose vedute, dei compagni di
viaggio, schizzi e ritratti. […] Presto però l’ambiente su cui si era fatto
tante illusioni lo deluse, specialmente quello universitario. Meno alcuni
professori ai quali era affezionato, fra cui Villari e Vitelli, gli altri lo
urtavano per la loro rettorica e la loro vanità. Gli davano ai nervi quelle
aule zeppe di uditori del bel mondo di Firenze che assistevano alle lezioni
per posa, per darsi delle arie. Cominciò a trovarsi bene quando fece la
conoscenza di Chiavacci e Arangio Ruiz coi quali strinse un’amicizia
profonda che li legò fino alla morte. […] Non so se nel primo o secondo o
terzo anno d’Università fece la conoscenza di Giannotto Bastianelli,
musicista. Passava da lui molte sere solo o con gli amici, ascoltando la sua
musica. Bastianelli era pianista, appassionato wagneriano, ma Carlo con il
suo entusiasmo per Beethoven seppe convertirlo e negli ultimi anni
Bastianelli trascurò Wagner per suonare a Carlo, ripetute volte tutte le
sonate e sinfonie di Beethoven.
Nei primi anni di Firenze esplicò una attività meravigliosa; oltre agli studi
per i suoi esami, alle lunghe lettere che scriveva a casa e agli amici,
trovava il tempo di passeggiare per tutti i dintorni di Firenze, di visitare a
lungo le gallerie studiando ogni opera artistica con intendimento da critico.
Scriveva impressioni d’arte e di paesaggi, di lavori teatrali (critiche di
drammi di Ibsen, tragedie di D’Annunzio, romanzi di Tolstoj, ecc.). Aveva
il bisogno di comunicare, di dare forma alle sue idee. Ma c’era forse
ancora in lui quella tendenza alla letteratura, retaggio di famiglia. Il suo
stile era scorrevole, vivo, colorito, ma non era quello conciso, scolpito,
quasi classico dell’ultimo tempo.
Nei tre ultimi giorni non l’avevo veduto, mi aveva pregato di non venire da
lui finché non avesse finito il suo lavoro «Poi – mi disse – verrò io da te».
E non lo vidi più. Emilio che lo aiutava nella correzione delle pagine fu
l’ultimo a vederlo vivo e il primo che lo ritrovò morto.