Paragrafo 2. Critica delle fonti: moderne metodologie della ricerca e la loro origine
storiografica
“Come la storiografia moderna è ancora in gran parte quale la formarono i greci, così la
maggior parte di quegli avvenimenti sono da noi pensati come gli antichi, il lavoro degli storici
antichi si serba nel nostro: vero “acquisto in perpetuo”, come Tucidide intendeva fosse l’opera
sua.” Queste parole crociane all’esordio della Teoria e storia della storiografia restano tuttora
valide, benchè l’avanzamento degli studi, l’affinamento del metodo critico, le specializzazioni
del sapere abbiano determinato un enorme progresso delle possibilità indagatorie. Pur tuttavia,
nella ricostruzione della storia politica, i progressi hanno aggiornato il fondamento
metodologico che, già nel V secolo era stato posto da Tucidide. A lui si deve la prima
concezione prammatica (pragma/pragmatos) della storia, poi seguita da Polibio-primo autore
di una storia di Roma come storia universale-e dagli stessi storici romani.
Alla concezione prammatica, frutto di una concezione razionalistica e scientifica
dell’osservazione dei fatti, non interessava il pittoresco, col quale lo stesso Erodoto, definito da
Cicerone “padre della storia”, aveva intessuto le proprie narrazioni. In realtà, parafrasando le
parole di Croce, “Talete e Erodoto sarebbero da chiamare, piuttosto che “padri” della filosofia e
della storia, “figli” del nostro interessamento per lo svolgimento attuale di queste discipline”.
Tucidide concentra invece l’analisi storica sui fatti (pragmata) politici, siano essi i conflitti
d’interesse, le guerre, il perseguimento dell’egemonia e delle strategie del potere, l’azione di
governo. L’arte medica (ippocratica V secolo) del suo tempo aveva distinto per la prima volta,
nello studio e nella diagnosi della malattia, la causa (aitia) dal sintomo (syntomon), che ne è
solo la manifestazione (phainomenon). In un’epoca che concepiva unitariamente la scienza,
questa perpetua acquisizione del sapere umano fu da Tucidide trasposta alla specificità
dell’indagine storica, individuando la differenza tra la causa recondita (aitia segreta) dell’agire
politico e la sua giustificazione (prophasis dichiarata), per lo più finalizzata a celare l’interesse
reale, l’unico reale movente: l’utile (sympheron), ritenuto inconfessabile all’opinione pubblica.
Lo storico non perverrà ad una vera comprensione dell’azione politica se non saprà discernere
la causa della rappresentazione strumentale che, a scopo propagandistico, ne viene
normalmente esibita. In quello stesso V secolo che esaltava l’uso dell’analisi razionale in ogni
campo dello scibile, il sofista Protagora dimostrava inoltre che l’uomo costituisca la misura di
tutte le cose: la sofistica negava così l’esistenza dei principi etici tradizionali, che il mondo
greco aveva fino ad allora considerati assoluti. La critica razionalistica infrangeva la metafisica
e i fondamenti morali della polis, il mondo dei valori convenzionali e della religione popolare,
posti in discussione dalla potenza sovvertitrice della logica anche nel pensiero di Socrate. Il
relativismo e il soggettivismo sofistico concorrevano a porre i fondamenti filosofici della
diagnostica clinica storiografica, dalla quale Tucidide sviluppava una nuova concezione,
identificando nell’utilitas la causa ultima e pertanto riconosceva nel nesso di causalità il
cardine, su cui grava e gravita la comprensione profonda della storia, evenemenziale. Proprio
l’interesse costituisce, nella concezione tucididea di immutabilità della natura umana,
l’elemento di prevedibilità della storia. Ma con tale ponderabilità interferisce la Tyche (cfr.
Epicuro in Tyche physeos e Lucrezio in De rerum natura), sorte cieca, accidentale che
sconvolge la razionalità delle scelte umane.
Così la peste di Atene, di cui rimase vittima Pericle nel 429, fu l’elemento imprevedibile che
determinò la morte dello statista che aveva concepito la strategia di guerra (iniziativa di
cinturazione nella regione attica sul mare e resistenza passiva sulla terra). L’evento
imponderabile era già allora spiegato con l’inurbarsi della massa di popolazione in seguito alla
devastazione delle campagne da parte degli Spartani; il recente ritrovamento archeologico ha
accertato si trattasse di colera e non di peste.
In Polibio di Megalopoli esso acquista una connotazione trascendente e si configura come
Providentia divina, predestinante Roma alla conquista del mondo per il bene dell’umanità.
Polibio, vivendo nell’Urbe come ostaggio diplomatico nel circolo degli Scipioni, di fronte alle
vastissime conquiste romane del III-II secolo concepisce per la prima volta una storia
universale: s’interroga su come ai Romani sia riuscito ciò in cui fallirono i Diadochi, i sovrani
che si spartirono l’impero ecumenico di Alessandro Magno dopo la sua morte nel 323 a.C.
Polibio osserva i fatti con un occhio tucidideo e crede di riconoscere nell’assetto politico-
costituzionale romano (politeia) la ragione della capacità di conquista. Egli muove secondo tre
categorie politiche peculiari della mentalità greca, sistematizzate e indagate storicamente da
Aristotele, categorizzandone le rispettive degenerazioni: la monarchia, che degenerava in
tirannide, l’aristocrazia (aristoi) degenerante in oligarchia (oligoi), la democrazia in oclocrazia.
Secondo Polibio la costituzione repubblicana di Roma avrebbe contemperato le tre migliori
forme di governo proprie dell’esperienza storico-politica della civiltà greca: il potere
monarchico sarebbe stato rappresentato dai consoli, i magistrati al vertice dello Stato romano, il
potere aristocratico dal senato, la ristretta assemblea degli anziani (senatus da senior) della
nobilitas patrizio-plebea, il potere democratico dalle assemblee popolari (comizi centuriati e
tributi, le assemblee votanti organizzate per centurie o per tribù). Poco dopo la morte di Polibio
la crisi delle istituzioni repubblicane e le conseguenti guerre civili non posero in crisi
l’espansionismo imperialistico romano, dimostrando la fallacia della sua analisi. Per lui,
assunto che solo negli ultimi 60 anni i Romani avessero inverato l’opera espansionistica, la
Provvidenza poteva spiegare il miracolo dell’inarrestabilità dell’impero. In realtà egli non
apprende gran parte della lezione tucididea di esegesi della realtà politica e infine deve fare
ricorso al Trascendente.
Dionigi d’Alicarnasso, che scrisse la sua storia delle origini di Roma durante le guerre civili e
la pubblicò all’inizio del principato augusteo, dopo il 27 a.C., non poteva riconoscere
nell’architettura costituzionale repubblicana la spiegazione della stabilità del sistema,
ravvisandone la vera grandezza nella conciliazione dei conflitti d’interesse tra classi sociali
(paternalismo, clientela). Ma egli coglie anche tale rapporto nella sua dimensione
internazionale, quando clientes erano interi popoli assoggettati, come causa di integrazione dei
vinti, dapprima nella stessa penisola italiana (Latini, Italici, Greci Italioti) e poi oltremare
(Greci delle poleis elleniche e dei regni ellenistici dalla Macedonia, all’Asia, alla Siria e infine
all’Egitto conquistato da Augusto). Egli constata che l’egemonia romana sia stata caratterizzata
da una capacità assimilatrice sulla base della giustizia e nel rispetto delle nazionalità
provinciali, certo idealizzata e in sintonia con la propaganda politica augustea, ma presaga di
una tendenza di accettazione e tolleranza, di instaurazione di relazioni commerciali che
perverranno a un vero e proprio monopolio della rotta mediterranea.
Neanche il razionalismo induce a rinunciare alla spiegazione provvidenzialistica del favore
degli dei accordato ai Romani per la loro pietas, motivo predominante nei libri ab Urbe condita
di Tito Livio: “da Sallustio a Tacito si stimava il fine del racconto dei fatti della moralistica
nella perdita del Mos maiorum.” (cfr. Benedetto Croce).
Nel I secolo a.C. le guerre civili che travagliano l’Impero romano sono un’infinità.
Ciononostante l’impero subisce un’espansione; pertanto è alquanto improprio addurre alla
decadenza dello stesso solo perché si registra una diffusione maggiore di ricchezza e opulenza.
La visione moralistica non coglie né intercetta i mutamenti radicali in atto nell’Impero romano.
Perciò la storiografia antica, ha forti deficit nell’analisi storica, ereditati in parte dalla
storiografia illuminista.
Fu duemila anni dopo Tucidide, quando la sua opera fu tradotta in latino da Lorenzo Valla
(Falsa donazione di Costantino) che lo storico dell’Atene periclea trovò in Nicolò Machiavelli
un teorico della mens politica, che egli condivise pienamente, applicandolo all’esegesi della
Ragion di Stato della sua epoca, come giustificazione ultima dell’agire del Principe
(parallelismo Guerra del Peloponneso e morte Alessandro VI).
Tuttavia mentre egli equivale per Machiavelli al cosiddetto protos aner (leader) che Tucidide
riconosceva in Pericle, guida carismatica e decisa, Francesco Guicciardini declinò in una
dimensione personalistica la genesi dell’interesse, ravvisando nel particulare, nell’interesse
privatistico, la causa dell’agire dello statista.
Nel Settecento, Vico (bocciato al concorso a cattedra) non supera la concezione ciclica e
organica della storia, per la quale un popolo segue le vicende di un organismo vivente, né
arriva a formulare o concepire il principio di etnogenesi, di converso egli si pone come il
fondatore della critica delle fonti di cognizione nel senso moderno.
La critica delle fonti si misura tanto col cammino delle scienze umanistiche quanto con lo
sviluppo tecnologico, al quale lo storico deve ricorrere per assolvere al suo compito di
valutazione e ricostruzione. Ciò dimostra pertanto come la storia s’inscriva in un quadro
multidisciplinare e parimenti interdisciplinare.
Nel XIX secolo la “casualità” dell’evoluzionismo darwiniano aveva demolito la visione
teleologica o finalistica della storia e lo stesso creazionismo nel dominio delle scienze naturali,
aprendo la prospettiva della moderna biologia: nel campo delle scienze umane, il teleologismo
della concezione storiografica romana finiva stroncato dagli esordi della moderna visione
“casualistica” della storia. Le dinamiche seppur casuali della selezione naturale sollecitavano
l’esigenza di salvare uno spazio, sia pure umano e non più divino, alla ragione e al criterio di
razionalità. Uno spazio occupato dal diritto pubblico, assurto a sola scienza della norma,
autonomo dalla storia e ad essa tanto superiore quanto più quella era espressione della casualità
invece che della causalità.
Paragrafo 3. Lo studio del diritto romano per la formazione dei giuristi (Concetti giuridici
fondamentali)
In Roma antica il diritto apparteneva fin dall’età arcaica alla sfera della conoscenza popolare ed
era strettamente connesso alla religione. Ius prima ancora che diritto, designa una salsa, che
amalgamava varie componenti alimentari, costituendo come un legante, quale il diritto è tra i
consociati della civitas (ius civile Quiritium) o tra gli uomini e gli dei (ius sacrum). La
medesima idea di legame è alla base del sostantivo “religione” (religio), l’insieme dei riti e
delle formule che consentono la comunicazione tra uomini e dei (poliadi), secondo una visione
di tipo contrattualistico. Il diritto è sussunto nella mentalità arcaica sotto la forma della
religione; ciò avvalora che i negozi giuridici sacramentali del diritto arcaico funzionino solo tra
romani.
Sapienza specialistica e riservata ab origine al ceto sacerdotale e massimamente al collegio
pontificio era ancor di più la giurisprudenza. I Romani, sebbene non siano stati gli inventori del
diritto in sé, si posero come fautori dell’interpretazione del diritto (interpretatio iuris) da parte
di esperti (prudentes) cui si dà il nome di iurisprudentia.
Lo studio storico del diritto costituisce una camera di osservazione dell’interazione tra società e
diritto e come tale, può fornire comparativamente il senso della relatività e convenzionalità
dei valori morali, sociali e politici, che nel diritto trovano codificazione fino al mutare,
graduale o traumatico, dell’assetto che li ha prodotti e disciplinati in un dato momento storico.
Tuttavia il diritto, in quanto complesso di norme-in Roma antica-orali, consuetudinari e scritte
posto dalla comunità “statale” (ius a civitate positum, perciò “diritto positivo”), costituisce un
sapere tecnico, dal quale scaturisce una vera e propria sapientia specialistica, quella
dell’interpretatio iuris. L’espressione degli interessi e degli assetti politici, economici, sociali
di una comunità è espressione stessa del diritto; l’applicazione rigorosa del diritto provoca
conseguenze ingiuste (summum ius summa iniuria).
Il principio di equità prevale nella mentalità romana sul principio di applicazione rigorosa del
diritto e della giustizia.
La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico non esiste nel diritto arcaico.
Noi la conosciamo grazie ad una massima attribuita ad Ulpiano, giurista vissuto durante
l’impero della dinastia dei Severi, ma ancor prima pronunciata da Cicerone,
“ius publicum est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum
utilitatem pertinet”.
- Il diritto pubblico è quello che riguarda la condizione dello stato romano;
- Il diritto privato è quello che pertiene all’utilità dei singoli.
Il diritto è uno strumento utilitaristico, non serve a fare giustizia necessariamente ma a
conseguire un utile. E l’utile della pace sociale può essere un utile più conveniente di una
giustizia feroce.
Paragrafo 4. Diritto e religione, evoluzione di Roma
Sussiste una stretta connessione tra diritto e religione della società arcaica romana, e tale,
possiamo considerare la società che va dalla fondazione di Roma anno tradizionale 753 a.C.
confermato dalle scoperte archeologiche, fino al IV secolo a.C. Questo è il periodo che
possiamo definire arcaico. Poi Roma a partire alla fine del IV secolo incomincia a entrare in
contatto con la civiltà più evoluta, quella greca, presente nell’Italia, più tardi detta Magna
Grecia con città come Reggio, Locri, Sibari Napoli, Metaponto.
Gli italici erano popolazione di lingua affine a quella latina, che occupavano la zona
dell’attuale Campania fino alla Calabria dove c’erano i Bruzi. In Basilicata c’erano i lucani e
gli italici erano chiamati in Campania appunto campani. Erano frammisti alle civiltà greche in
cui si erano infiltrati o che avevano addirittura conquistato ma non distrutto. Si erano ellenizzati
prima dei romani: la civiltà ellenistica non era una società agricola (rusticitas) come quella
romana, ma una società urbana in cui l’agricoltura era funzionale e finalizzata al mantenimento
delle città e del loro alto standard di vita.
La qualità della vita rievocava l’Epitafio di Pericle, quale eminente modello di civiltà urbana.
I romani avevano così mutuato lo stile di vita dei greci, importando anche attività culturali e
aggregative come il teatro, oltre alla progettazione degli spazi residenziali, pubblici e privati.
Ma il contatto con la civiltà ellenistica determinò, preminentemente, una discontinuità rispetto
alle convinzioni di una società persuasa che i negozi giuridici fossero assistiti dalle divinità
evocate dai riti sacramentali.
L’impatto sortito dall’immissione delle filosofie scettiche e epicuree, quest’ultima segnata dalla
trascendenza del logos, e dall’aborrimento della politica e della vita pubblica (lathe biosas), fu
dirompente per i romani, i quali non nutrivano una concezione fideistica o ideale del divino, ma
fattuale e reale.
Gli epicurei, i quali ritenevano che gli dei sì situassero nei cosiddetti metakosmia, nel loro
consequenziale rigoroso atomismo, avevano dimostrato che la materia fosse costituita da atomi.
In particolare Epicuro aveva riscontrato la consistenza atomica della materia con esperimenti;
osservava che le statue, i piedi degli dei nello specifico, che venivano continuamente sfregati e
baciati, si consumavano. Ne aveva dedotto con grande intelligenza che esistono particelle
minime, atomi che costituiscono la materia e con lo sfregamento si perdono. Mediante un
ragionamento di tipo logico-matematico egli era giunto alla conclusione che gli atomi fossero
costituiti da particelle subatomiche, legate da forze tanto coesive che niente potrebbe
dividerle”.
Un assunto di verità, una pretesa di scienza esulante dalla superstitio con cui si qualifica la
religione.
Le religioni antiche non sono caratterizzate dall’ortodossia ma dall’ortoprassi che inerisce
all’importanza primaria del compimento del rito pubblico, scevro dal contenuto di fede.
La religione di Stato è pertanto una religione sociale. L’influenza degli epicurei non attiene
quindi la sfera dell’esteriorità per il paganesimo, basato appunto sull’ortoprassi.
Capitolo I. La monarchia
Paragrafo 1. Fonti per la ricostruzione della storia istituzionale romana
Nella civitas arcaica anche i negozi giuridici del diritto privato erano orali. Solo molto più
tardi si sarebbe introdotta la scrittura con valore probatorio (attestazione in caso di
contestazione o impossibilità, per morte, irreperibilità, lontananza o altro, di escutere i
testimoni), restando alle parole il valore costitutivo (il valore di porre validamente in essere
l’atto giuridico).
Le consuetudini consacrate dalla tradizione degli avi (mores maiorum), costituivano le leggi
non scritte regolanti i rapporti sociali. La memoria era un’arte, tramandata pubblicamente.
Stando a Cicerone (De oratore) il pontefice massimo (ultimo pontefice P.Mucio Scevola nel
114 a.C.) avrebbe annualmente esposto una tavola imbiancata dove, sotto il nome dei consoli di
ciascun anno, erano segnalati gli eventi degni di memoria.
Solo alla metà del V secolo si ebbe il primo corpus di leggi scritte, le XII Tavole, anch’esse
comunque distrutte sessant’anni dopo nell’incendio gallico del 390 a.C. Comunque, si suppone
che già nel IV secolo a.C. una raccolta scritta degli eventi antichi sia stata in qualche modo
compilata e diffusa, in quanto sul finire del III e II secolo già i primi annalisti recepiscono una
tradizione sull’età monarchica sufficientemente omogenea da far presumere l’esistenza di
una vulgata ormai prevalente. Furono costoro i primi storici di Roma, a partire dal III secolo,
che anno per anno trascrivevano gli avvenimenti memorabili, con manipolazioni non dolose
operate sulla tradizione orale in funzione dell’appartenenza di ciascuno all’uno o l’altra
famiglia patrizia. Gli annalisti sposarono la versione antiplebea e filopatrizia della storia arcaica
di Roma, cui apportavano, con scarso acume storico, quei cambiamenti ritenuti necessari alle
finalità politiche delle famiglie d’appartenenza. Essi disponevano degli Annales Maximi
Pontificum, redatti e tenuti dal collegio pontificale con l’annotazione annuale degli eventi
rilevanti e ne conservarono la struttura annuale, andando ad intaccare la possibilità di
individuazione di nessi di causalità. Per sopperire a vuoti storici della memoria, o per interesse
politico, o per razionalizzare alla luce dell’esperienza contemporanea dati che apparivano
incomprensibili perché afferenti a una realtà storica o politica non più esistente, l’annalistica
non si fece scrupolo di alterare le informazioni di cui disponeva. La redazione più completa di
liste magistratuali risale all’incirca al 30-29 a.C., grazie all’opera di Tito Pomponio Attico,
amico e corrispondente di Cicerone. I Fasti consolari e trionfali, le liste dei consoli e dei
generali vittoriosi in guerra, furono da lui redatti per incarico di Ottaviano e iscritti nel suo arco
trionfale sulla via sacra, eretto per la vittoria di Azio.
La monarchia latino-sabina fu in definitiva edificata con caratteri di “democraticità”,
opposti all’autocrazia attribuita alla monarchia etrusca; il cui avvento a Roma, certamente
dovuto a una occupazione militare, per quanto possibile fu presentato come pacifico, per non
ferire l’orgoglio nazionale romano.
Paradossalmente, non furono gli annalisti ma i poeti a ricercare per primi le cause della
grandezza romana. La prima opera storica non fu infatti storiografica, ma epica: il Bellum
Punicum di Nevio, poema composto nella seconda metà del III secolo a.C., fondeva le mitiche
origini di Roma, sul modello dell’epos omerico, alla storia recente, ravvisando
nell’ottemperanza della Romana religio la causa del favore divino e del successo militare.
Nota 1. Atellana satirica della sacra famiglia di Enea, rappresentata con teste da cane e un fallo
pendulo Fallace discendenza della gens Iulia da Enea per assonanza con Iulo.
Nota 1.2. Da ricordare a proposito la statua della Lupa capitolina, la cui datazione è incerta. Si pensa
che la lupa risalga al V secolo, mentre i gemelli siano di epoca medievale.
Nota 2. Sistema onomastico: (praenomen-nomen gentis-cognomen).
Nota 3. Il racconto leggendario sul ratto delle Sabine, il cui popolo occupava il Quirinale, è connesso
al sinecismo.
Nota 4. Sull’attendibilità dell’annalistica è doveroso denotare il pensiero della scuola ipercritica, la
quale respingeva tout court le fonti da essa pervenute. A onor del vero, è altrettanto importante
sottolineare come la critica neotestamentaria sia di recente sviluppo, precisamente dalla metà
dell’800, periodo di instaurazione del positivismo.
Paragrafo 1.3. La civiltà etrusca arcaica e la sua influenza su Roma
Si assiste in età arcaica, nelle civiltà mediterranee, dapprima all’emergere di un nuovo ceto
sociale arricchitosi ma sfornito della nobiltà di sangue, poi al suo partecipare alla costituzione
degli eserciti cittadini con l’acquisto dell’armamento individuale di fanteria. Ciò conduce a un
mutamento delle tattiche di combattimento e delle strategia di guerra: la fanteria oplitica
manovra ben diversamente dalla cavalleria. I pedites si muovono in formazioni serrate, alzando
di fronte al nemico un antemurale di scudi da cui fuoriescono le lance, con tecniche di
combattimento solidali e collettive: i posti lasciati vuoti dai caduti vengono subitaneamente
rimpiazzati.
Cosicché questo ceto emergente, emarginato dalla condivisione del potere politico
monopolizzato dalle oligarchie dominanti, ben presto si riconosce in un tyrannos nel mondo
greco, o in un macstr in quello etrusco-latino: cioè un dittatore che fonda la sua legittimazione
sulla “volontà popolare”, vale a dire sul consenso dei ceti subalterni. Per la maggioranza dei
casi, nei generazione susseguente ai primi tiranni, le città ne depongono i figli e successori e
instaurano regimi democratici, caratterizzati dalla capacità decisionale delle assemblee
popolari.
La conquista di Roma da parte degli Etruschi è stata avvolta da una nube deformante nella
rappresentazione annalistica di età repubblicana, tesa ad attenuare una realtà che ledeva
l’orgoglio nazionalistico di una civitas avviata al dominio del mondo. Non essendo possibile
negare la realtà storica del dominio etrusco a Roma, esso fu presentato come l’affermarsi
pacifico di elementi di quel popolo, affine ai Romani. Ma la presenza a Roma di elementi
etruschi è anteriore alla data tradizionale del regno di Tarquinio Prisco e permane dopo la
cacciata del Superbo. La civiltà etrusca finì per conferire ai romani alcuni istituti fondanti nella
sfera del diritto sacro, pubblico e della sfera politica, l’imperium, il massimo potere, fornito di
coercitio, del rex prima e dei magistrati repubblicani poi. Alcuni termini del lessico politico
sembra siano etruschi e son giunti fino a noi. Sono di origine etrusca i sostantivi derivati da
macstr-; si sospetta che dall’etrusco fufluns derivi il latino populus. Infine i littori e i fasci
littorii adottati in età moderna in Francia e in Italia durante il Fascismo sono per gli Etruschi
come per i Romani simboli dei poteri regi o magistratuali: la potestas, il potere civile che
comportava i fasci senza scudi, e l’imperium i cui fasci possedevano la scure. L’origine etrusca
del fascio littorio romano è affermata dallo storico del I-II secolo Floro e nel poema storico
Punica, Silio Italico ne attribuisce l’invenzione ai Vetuloniesi.
Nota 1. La potestas è la facoltà di sancire obblighi o diritti, a favore dello Stato, esprimendo la
propria volontà personale, mediata da quella della società, in qualità di pubblico ufficiale.
L’imperium è il medesimo genere di potere, ma corroborato dalla coercizione.
Nota 2. L’iscrizione bronzea, mancante della parte superiore, conosciuta come Tabula Lugdunensis
conserva, redatto su due colonne, il discorso che Claudio fece per perorare l’ammissione dei primores
della Gallia Comata in senato.
Nota 1. Principio per il quale il console non condivideva la potestas e l’impeium col collega, ma ne
era titolare per intero, con la conseguenza che, in caso di dissenso tra i due colleghi, l’uno poteva
paralizzare l’azione dell’altro opponendogli un divieto di procedere (intercessio).
Nota 2. Una sorta di prerogativa del civis Romanus a ricorrere in appello ai comizi per vedere
confermata o abrogata da un’assoluzione la sentenza di condanna pronunciata dal magistrato in
carica.
Nota 3. Alcibiade, più che il prototipo del politico della pólis, fu un impolitico, fu colui che
“scavalcava la pólis” ponendosi in uno stato di superiorità rispetto alle istituzioni. Caso esemplare in
questo senso furono gli eventi della spedizione in Sicilia del 415 a.C., da lui incoraggiata, che aprì la
seconda fase della Guerra del Peloponneso, e che portò Atene ad intervenire militarmente in soccorso
di Segesta. Il ceto politico dominante decise di nominare stratego per il comando dell’operazione
Nicia, superstizioso e timoroso dal carattere mite, perché temeva l’ambizione e l’imprevedibilità di
Alcibiade. fu denunciato come responsabile della mutilazione delle sacre effigi di Hermes poste ai
crocicchi della città, accusato di empietà per aver parodiato e rivelato in una festa privata
“nell’ebbrezza del vino” – riferisce Plutarco – il più elevato, autorevole, e sacro rito religioso
dell’antichità: i Misteri Eleusini.
Per sottrarsi al processo, dapprima Alcibiade si rifugiò a Turii (città calabra fondata dallo zio
Pericle sul sito della distrutta Sibari) con la scusa di fare rifornimento; poi fece perdere le sue tracce,
rifugiandosi in Elide e, infine, a Sparta (generale Gilippo). Ad Atene fu condannato a morte in
contumacia.
Capitolo II. Formazione e sviluppo della respvublica
Paragrafo 1.1. Struttura e funzioni elettorale e legislativa dei comitia centuriata e tributa e
concilia plebis tributa
In origine i comitia centuriata, la cui istituzione si attribuiva a Servio Tullio, erano sorti in
rapporto alla leva dell’esercito: questo, adunato in concione per ascoltare il rex o il magister
populi nell’imminenza della guerra, aveva finito per riunirsi al fine di assumere anche decisioni
diverse da quelle militari. Così dalla riunione degli uomini atti alle armi, s’era andata formando
l’assemblea popolare dei cives Romani adulti (Quirites), che continuavano a riunirsi nella sede
originaria del reclutamento, il Campo Marzio, situato fuori le mura della città. I comitia
centuriata riunivano l’intera popolazione di estrazione plebea come patrizia tra i 17 e i 60 anni:
dai 45 ai 60 si avevano i seniores, dai 17 ai 44 i juniores. Il rapporto dei comitia centuriata con
l’esercito venne gradatamente ad attenuarsi, fino a scomparire, con la specializzazione delle
funzioni civili di quell’assemblea popolare, restando puramente formale nel persistere delle
denominazioni originate dall’ordinamento politico.
Il criterio di computo dei voti dei comitia centuriata, ma anche la loro composizione e
ripartizione, rivelano la profonda differenza “ideologica” dell’ordinamento politico della
respublica rispetto alla costituzione democratica delle poleis: infatti la maggioranza non veniva
computata dalla somma dei vori espressi individualmente, ma dalla somma dei voti delle
centurie. Ciascuna centuria non contava lo stesso numero di votanti, ma i seniores erano
privilegiati e ne bastava 1/3 rispetto ai juniores per costituire una centuria. La prima centuria
votante (praerogativa) era estratta a sorte dalle prime 6 fra le 18 degli equites: appena finito di
votare, il risultato veniva computato in base allo spoglio dei voti individuali e la maggioranza
conferiva la sua scelta all’intera centuria.
Le successive votavano e venivano spogliate con lo stesso sistema e potevano farsi
suggestionare dal voto della centuria praerogativa, perché la sua estrazione a sorte era
ritenuta segno della volontà divina. Questo sistema subì dei cambiamenti in un’età anteriore al
resoconto che Cicerone nel De republica riferisce del nuovo metodo: questi si rilevano nel
dimezzamento delle centurie delle fabri chiamate a votare con la I classe dei pedites, che
passano da 2 a 1; poi nella riduzione della I classe di pedites da 80 a 70. Rimasto intatto il
totale di 193 centurie, il nuovo sistema, con 35 centurie di seniores e altrettante di juniores
adeguò la struttura dei comitia centuriata alle 35 tribù, limitando anche “il prepotere dei
più abbienti”.
Ma, ad onta della limitazione del “prepotere dei più abbienti”, ciò che più rileva nel giudizio di
Cicerone è quanto esso sia sintomatico della Weltanschauung oligarchica: la concezione
ideologica del mondo cui è informato il sistema di votazione: una partecipazione socialmente
controllata dalla realtà delle clientele e dal monopolio tradizionale e tradizionalista delle
magistrature da parte di poche decine di famiglie appartenenti alla nobilitas.
I comizi centuriati eleggevano gli auspicia maiora, cioè i consoli, i pretori e i censori: i
comizi tributi eleggevano invece gli edili e i questori; i concili plebei, che furono riconosciuti
dopo la secessione sull’Aventino nel 471, eleggevano i tribuni della plebe e gli edili plebei.
L’aspirante della magistratura era detto candidato perché perorava la sua elezione con
un’arringa vestito di toga candida. In principio riceveva un voto d’approvazione o rigetto, poi
si passò a un’elezione vera e propria su una lista di candidati con voto palese. Gli scrutatori
deputati al controllo delle operazioni, oltreché allo spoglio, erano chiamati nongenti sive
custodes, persone ragguardevoli che esercitavano funzioni di custodia delle ceste fino al
termine delle operazioni. Esse si svolgevano in quel di Campo Marzio; vi erano approntati
tramite transenne lignee corridoi attraverso i quali gli elettori in fila procedevano verso la
tribuna degli scrutatori.
Le elezioni si svolgevano sempre qualche mese prima della scadenza del mandato dei
magistrati in carica, alla fine dell’anno. Quando il magistrato superiore-console o pretore,
designato (nominatus) prendeva possesso, alle kalende di gennaio, della carica conferitagli dai
comizi centuriati, riceveva l’investitura formale del suo imperium: si definiva allora creatus.
Tale investitura gli era conferita dagli antichi comizi curiati attraverso la lex curiata de imperio.
La votazione sulle leggi avveniva innanzitutto con la presentazione di una rogatio, o proposta
di legge da parte del magistrato. Una volta approvata la legge veniva detta rogata. L’affissione
della proposta di legge era chiamata promulgatio, termine che non ha dunque in latino lo stesso
valore tecnico di promulgazione, che indica oggi la pubblicazione della legge già approvata e
destinata a entrare in vigore. L’iniziativa della convocazione spettava sempre ai magistrati: il
ius agendi cum populo ai ricordati auspicia maiora e al didactor, il ius agendi cum plebe ai
tribuni plebis, sia in caso di votazione su una legge o in caso di elezioni. La lex si apriva con la
praescriptio, introduzione comprendente il nome del magistrato proponente, l’assemblea che
aveva votato l’approvazione, la data di votazione, la centuria prerogativa e infine il civis che
aveva votato.
Seguiva il vero e proprio testo della lex, identico alla rogatio, poiché non erano consentiti
emendamenti. La legge era conclusa da una sanctio, che non va fraintesa quale clausola
sanzionatoria per la violazione della legge stessa, ciò che era previsto nella rogatio. Essa
regolava, con apposite disposizioni, i rapporti e soprattutto i potenziali conflitti che
insorgessero tra la disciplina statuita dalla legge vigente e quelle anteriore, e conteneva inoltre
la previsione di eventuali divergenze anche con norme che fossero approvate in futuro. Dal
riconoscimento civico del tribunatus plebis derivò anche quello delle assemblee plebee, i
concilia plebis tributa, che persero così la loro natura rivoluzionaria, legata per tradizione alla
prima secessione della plebe sul Monte Sacro nel 494 ma dai moderni rapportata piuttosto alla
seconda sull’Aventino. Inoltre l’importanza dei concilia plebis tributa crebbe anche perché
base di reclutamento dell’esercito divennero le tribù. Il dato rilevante è che la votazione
secondo le tribù nei comitia tributa diminuiva la rendita di posizione di cui l’oligarchia
senatoria godeva grazie al sistema di voto dei comitia centuriata: infatti, poiché si procedeva
alla votazione e allo spoglio non dell’intero corpo elettorale, ma della singola unità votante, che
era la centuria nei comizi centuriati e la tribù nei comizi tributi.
Le assemblee popolari costituirono uno degli elementi portanti di quel sistema repubblicano,
ch’era apparso al greco Polibio come una sapiente “costituzione mista” tra monarchia,
aristocrazia e democrazia.
Nota 1. Richiesta nel 462 dal tribuno Terentilio Arsa, la redazione di leggi scritte sarebbe stata elusa
fino al 451, quando una commissione triumvirale sarebbe stata inviata ad Atene a studiare le leggi di
Solone, uno dei sette savi legislatori. Questa tradizione è stata ritenuta infondata così come l’esegesi
che dietro il nome di Atene si celi un rapporto con Turi, l’odierna Sibari. Si tratta di un ripiego non
confortato da somiglianze tra il contenuto delle XII Tavole e la legislazione greca. La commissione
patrizia di decemviri legibus scribundis ottenne l’elezione di una nuova commissione nel 450,
presieduta da Appio Claudio, della quale entrarono a far parte anche i plebei. La seconda
commissione avrebbe aggiunto altre due Tavole, ritenute inique, alle dieci precedenti, senza sottoporle
all’approvazione comiziale. Appio Claudio viene rappresentato con tratti tirannici e un suo cliente
avrebbe rivendicato la bella e giovane Virginia come schiava, col disegno di metterla a disposizione
del suo patrono. Al padre della fanciulla non sarebbe rimasto altro rimedio che ucciderla per salvarne
la verginità. La leggenda riprende il topos dello stupro di Lucrezia da parte del figlio di Tarquinio il
Superbo e costituisce la cornice significante della degenerazione tirannica.
Paragrafo 2.3. Nuovo equilibrio sociale e politico nella seconda metà del V secolo
La plebe conseguì alcuni successi politici negli anni immediatamente successivi: cessò
definitivamente la funzione legislativa dei comizi curiati e il ruolo di approvazione delle leggi
si trasferì ai comizi centuriati e tributi. Nel 449 una delle leggi Valerie Orazie avrebbe
riconosciuto nell’ordinamento la sacrosantitas dei magistrati plebei, ovvero che: “chiunque
nuocesse ai tribuni della plebe, agli edili, ai giudici decemviri fosse sacrificato a Giove, e che il
suo patrimonio fosse venduto presso il tempio di Cerere, Libero e Libera.”
Sulla storicità del preteso “ripristino” della diarchia consolare nel 449, dopo il decemvirato
legislativo vi sono fondati dubbi: infatti la stessa tradizione ammette che nel 444 furono eletti
tre tribuni militari con potere consolare aumentati fino a sei nel 406, probabilmente con lo
scopo di dare maggiore sfogo all’imbuto ristretto del cursus honorum patrizio.
In questo quadro di fermento istituzionale si avvertì la necessità di conoscere sistematicamente
la consistenza della popolazione per la leva militare e per l’imposizione tributaria. Così nel 443
furono istituiti i censori, magistrati cui competeva il census, cioè la valutazione patrimoniale
dei cives e la loro iscrizione nei tribus territoriali. Alla fine del censimento, che avveniva ogni
quinquennio, i censori celebravano il lustrum, la rituale purificazione del popolo; più tardi i
censori assunsero anche funzioni di controllo della moralità pubblica e privata dei cittadini, da
cui discendeva un importante atto politico compiuto ogni cinque anni: la lectio senatus, cioè la
conferma o l’espulsione per indegnità dei membri del senato. La censura si collocava al di
sopra del cursus honorum, costituendone il massimo coronamento sociale e politico.
Paragrafo 2.4. Emancipazione della plebe dopo la vittoria su Veio
Nel 396 a.C. la conquista di Veio segna l’inizio dell’espansionismo romano che
inesorabilmente finirà col portare dell’Etruria e delle popolazioni italiche dell’Italia
centromeridionale, entrando in contatto già alla fine del IV secolo con la più settentrionale delle
poleis della Magna Grecia: Napoli. Ciò comportò la distribuzione individuale di 7 iugeri non
solo a tutti i cives aventi diritto, plebei inclusi, ma anche ai filii familias, cioè a figli ancora in
potestate del pater o dell’ascendente: la plebs rustica che lavorava nei latifondi patrizi in
condizione clientelare, presto si affrancò dal suo status di subordinazione e divenne
coltivatrice diretta. I latifondisti contavano di far ricorso al lavoro servile in sostituzione della
manodopera agricola libera, ma la vendita della popolazione veiente ridotta in schiavitù non fu
sufficiente a fornire al patriziato fondiario romano la manodopera necessaria, con la
conseguenza della coattazione dei debitori insolventi, nei cui confronti le XII Tavole avevano
ribadito l’esecuzione personale. I debitori erano distinti in addicti e nexi di cui il creditore
disponeva liberamente: i primi erano assegnati al lavoro in base alla pronuncia del magistrato, i
secondi in base a un’obbligazione personale, che lo prevedeva espressamente in caso di
inadempimento. Così, paradossalmente, la conquista di Veio finì con l’accentuare il conflitto
sociale, rendendo l’escussione dei debitori insolventi il problema politico centrale nelle
tensioni interne del IV secolo. Se il successo dell’espugnazione di Veio sortì effetti nel
dinamismo sociale, politico, istituzionale, esso fu ben presto traumaticamente offuscato dalla
conquista di Roma ad opera dei Galli, a comando di Brenno, nel 390. Per escogitare una
giustificazione politicamente utile alla sconfitta romana, la tradizione pontificale oligarchica ne
attribuì tendenziosamente la causa alla violazione dei riti religiosi da parte dei plebei,
riversando sul ceto sociale antagonista la presunta responsabilità della sconfitta. Ciò fece
scaturire nei Romani il cosiddetto metus Gallicus, il terrore dei Galli, ma anche dal timore
dell’oligantropia, la crisi demografica. Dal canto suo la tradizione orale, prim’ancora che
l’annalistica, si sforzò di compensare con l’epos la cocente umiliazione di Roma, sottoposta da
Brenno al tributo, che il dittatore Marco Furio Camillo, eletto per la bisogna, e accorso furente
a fermare Brenno, si voleva avesse eroicamente recuperato. La ripercussione politica della
conquista gallica fu il dissolversi del foedus Cassianum e la fine dell’alleanza coi federati
Latini e Ernici. Solo un quindicennio dopo la conquista di Veio e dieci anni dopo il disastro
gallico, nel 380, i tribuni militum consulari potestate esercitarono decisamente l’auxilii latio, la
facoltà di portare aiuto alla plebe; la reazione dell’oligarchia senatoria non si fece attendere, e
benché nel 379 i tre tribuni militum fossero tutti plebei, chiaro effetto politico della
deliberazione dell’anno precedente, furono eletti tribuni di esclusiva estrazione patrizia.
Ma il rimedio fu per i conservatori peggiore del male: nel 377, le leggi Licinie-Sestie
stabilirono un programma sociale organicamente mirato all’autosufficienza economica e
all’autonomia politica dei ceti emarginati. La prima legge limitava a 500 iugeri, la possessio
dell’ager publicus, con ciò colpendo la formazione del latifondo patrizio a spese dello Stato; la
seconda istituiva quello che chiameremmo divieto di anatocismo, cioè la maturazione degli
interessi sugli interessi del debito, e inoltre deduceva dall’importo del capitale gli interessi
debitori già pagati, e rateizzava il resto in tre soluzioni. La terza legge stabiliva l’obbligatorietà
che in ciascun anno uno dei due consoli fosse plebeo. Infine nel 367 fu ripristinata la diarchia
consolare e si procedette all’istituzione della pretura come magistratura riservata ai patrizi,
con competenze processuali e di amministrazione della giustizia, che venivano sottratte ai
consoli. Il pretore veniva ad affiancarsi ai consoli, che da questo momento assunsero
certamente tale denominazione.
L’edilità. Gli edili, forse creati nel 494 a.C., erano in origine due magistrati plebei addetti alla
costruzione dei templi delle divinità della plebe. Ma col riconoscimento delle magistrature
plebee nella civitas i patrizi ottennero pariteticamente altri due edili di rango aristocratico, che
presero il nome di aediles curules. Agli edili spettavano funzioni specifiche, costituiti dalle
curae, la cura urbis Romae, la cura annonae e la cura ludorum. La cura Urbis consisteva nel
controllo della viabilità e dell’edilizia a Roma; la cura annonae: comportava la sorveglianza
dei mercati e l’approvvigionamento
Granario, la cura lodorum: istituita come sorveglianza dell’ordine pubblico durante gli
spettacoli, divenne l’onere di organizzare a proprie spese i combattimenti di gladiatori o di fiere
nel foro e più tardi nell’anfiteatro. Ai soli edili curuli spettava anche la giurisdizione sulle liti
relative ai mercati, per tali intendendosi i processi privati per contestazioni fra venditori e
compratori, come vizi occulti nella vendita di schiavi e animali. Essi pubblicavano
annualmente un edictum aedilium curulium parallelo a quelli dei pretori urbani e peregrino,
ma ben più limitato quanto ad ambito, materia e valore.
Il tribunato della plebe. Dei tribuni plebis della loro creazione probabilmente nel 494 a.C. e
dei concilia tributa va ricordato che il tribunato, istituito per proteggere la plebe dagli abusi
patrizi, era posto nel cursus honorum sullo stesso “livello” dell’edilità e seguiva la questura.
Con il riconoscimento nella città di questa magistratura in origine rivoluzionaria, il tribunato
perse la sua originaria natura sovversiva dell’ordinamento oligarchico e spesso fu
strumentalizzato, attraverso la corruzione. I tribuni erano eletti dai concilia plebis tributa e
restavano in carica 18 mesi. Essi avevano il ius agendi cum plebe, cioè il diritto di convocare i
concilia plebis sia per l’elezione dei magistrati plebei sia per l’approvazione dei plebiscita,
deliberazioni che finirono con l’essere del tutto equiparate alle leggi comiziali centuriate.
Benché sprovvisti dell’imperium, possedevano un fortissimo potere nell’intercessio, il divieto
che potevano opporre alla proposta di qualsiasi magistrato, ad eccezione del solo dictator,
quante volte vi ravvivassero una lesione dei diritti individuali o collettivi della plebe. Nel 449
la lex Valeria Horatia sancì la sacertas per chi avesse attentato alla loro incolumità: una pena
per il quale il reo veniva abbandonato alla vendetta di chiunque lo sacrificasse come capo
espiatorio alle divinità plebee, Libero e Cerere.
La pretura, il ius gentium e l’editto pretorio. Praetor viene da prae-ire, cioè “andare avanti”,
proprio perché agli esordi del sistema repubblicano era questa la carica apicale dello Stato, alla
quale competeva il comando dell’esercito.
Ma nella tradizione annalistica il titolo di praetor appare con riferimento all’anno 367, quando
sarebbe stato istituito per la prima volta quale magistrato unico, con l’importante funzione di
amministrare la giustizia a Roma fra i cittadini romani.
A seguito della conquisa della Sicilia, Roma si trovò ormai in una nuova dimensione
commerciale, ereditata in parte da Cartagine, in parte determinata dal gravitare nell’orbita
romana delle città italiote e siceliote. Le attività commerciali si ritennero indegne del rango
senatorio; un ceto medio di commercianti poté così arricchirsi senza concorrenza interna,
determinando l’afflusso nella capitale dell’impero di masse di stranieri interessati agli scambi,
che restavano esclusi dalle forme giuridiche dei negozi quiritari romani come anche della tutela
pretoria accordata ai soli cives. Fu perciò necessario istituire un nuovo pretore che si occupasse
dei conflitti d’interesse (lites) insorgenti tra costoro, ma anche un nuovo ordinamento
processuale.
Così nel 242 a.C. al pretore esistente si affianca un collega chiamato praetor peregrinus. Il
primo assunse la denominazione di praetor urbanus. Le sue competenze processuali rimasero
quelle tra i cittadini romani, mentre la giurisdizione del nuovo pretore si esercitò nei nuovi
processi privati fra stranieri che si trovavano a Roma, o fra cittadini romani e forestieri.
Nell’istituire i processi il pretore urbano continuò per lo più ad avvalersi del ius civile
Quiritium attraverso le sole 5 legis actiones esistenti. Il pretore peregrino invece faceva ricorso
a una sorta di diritto commerciale e internazionale, il ius gentium, che nel II secolo a.C., egli
recepiva anche nella pubblicazione del suo proprio editto, distinto da quello del pretore urbano.
Nell’istruzione processuale di fronte al praetor peregrinus non solo non si era tenuti al
formalismo verbale delle 5 legis actiones, ma nemmeno era indispensabile l’uso della lingua
latina, e il pretore era libero di avvalersi di interpreti. Il suo processo non era fondato sul dari
oportere- pagare o non far pagare la multa in caso di soccombenza nel processo, (ius strictum)
ma sulla bona fides, il rispetto fiduciario della parola data svincolato dal formalismo giuridico
e rispondente alla sostanzialità dei negozi giuridici.
Pertanto i iudicia di fronte al praetor urbanus presero il nome di iudicia legitima in quanto
consacrati dal formalismo delle legis actiones, mentre quelli di fronte al praetor peregrinus si
chiamarono bonae fidei iudicia, cioè processi fondati sulla fiducia reciproca nelle
contrattazioni indipendentemente dall’esistenza di una lex valida per entrambe le parti.
La creazione del praetor peregrinus e del ius gentium introdusse così due fondamentali
innovazioni: la pubblicazione dapprima dell’editto del pretore peregrino poi anche quello del
pretore urbano. L’editto in cui il pretore peregrino finì con il raccogliere le formulae (cioè le
previsioni astratte dei casi che potevano essere dedotti di fronte al suo tribunale) si sostituì alle
cinque legis actiones sacramentali e formali riservate ai cives e dalle quali gli stranieri
restavano esclusi.
Il processo privato ne beneficiò enormemente in duttilità, adattandosi alla molteplicità dei casi
dell’esperienza economica e negoziale. Al contempo, senza rinnegare formalmente un diritto
sancito nella sfera della religio, e che perciò non poteva essere abrogato dalla volontà umana,
se ne elusero gli effetti iniqui. La coesistenza dei diversi ordinamenti, ius civile Quiritium, ius
gentium e ius honorarium non minava la forma mentis dei Romani ma era anzi espressione
della loro praticità.
Ai due pretori residenti a Roma, se ne aggiunsero altri due per l’amministrazione delle
province, a partire dalla Sicilia e dalla Sardegna, anch’essi forniti di funzioni giurisdicenti in
quanto governatori di territori oltremare.
Il consolato: imperium domi e militiae. Consules deriva dal verbo consulere che indicava la
facoltà di consultare il senato nell’esercizio della propria suprema funzione di governo. Ai due
consoli era riservata l’eponimia, cioè il conferimento del proprio nome all’anno in corso.
La delimitazione delle loro competenze non era precisa, spettando loro la summa imperii, ma
era di fatto limitata dalle funzioni delle altre magistrature. Si distingueva un imperium
consulares domi da uno militiae. L’imperium militiae comportava ovviamente il supremo
comando in guerra: e poiché imperium era indivisibile, nel senso che ciascun console lo
possedeva per intero, si rimediava al periodo di una paralizzante discordia nella tattica o nella
strategia con l’attribuzione del comando di due fronti distinti, ovvero con il lasciare un console
a Roma mandando l’altro a combattere.
Il principio oligarchico dell’eguaglianza nel privilegio e nel monopolio del potere fece sì che si
reagisse con diverse restrizioni all’iterazione del consolato. Nel 342 un plebiscito stabilì un
intervallum decennale per l’iterazione non solo del consolato ma anche delle altre magistrature.
Tuttavia gli stessi comizi centuriati rielessero spesso gli stessi consoli in violazione delle leggi
che avevano precedentemente votato sull’iterazione. Il principio cardine non era pertanto
l’inviolabilità di una legge votata da un’assemblea popolare, ma la piena sovranità della
stessa assemblea nel derogare alla legge che essa stessa aveva votata.
La censura. Secondo la tradizione i censores sarebbero stati istituiti da Servio Tullio per il
census populi, il censimento della consistenza numerica e patrimoniale non dell’intera
popolazione, ma dei cives maschi adulti finalizzato alla leva dell’exercitus censitarius, nel
quale il soldato doveva armarsi a proprie spese e anche al pagamento del tributum. In qualsiasi
epoca questa magistratura sia stata creata, certo è che il censimento si svolgeva ogni cinque
anni, ma i due censori eletti dai comizi centuriati restavano in carica solo 18 mesi, concludendo
le operazioni con la cerimonia sacra del lustrum. Inoltre ai censores era deputata la lectio
senatus: i destinatari di una nota censoria andavano incontro all’ignominia, che, pur
comportando l’espulsione dal senato, non era causa d’ineleggibilità né costituiva una pena
permanente come l’infamia derivante dal turpe iudicium publicum: difatti la valutazione dei
censori non risultava né da un’istruttoria né da un processo, ma era puramente discrezionale.
Ma proprio questo determinò la crisi della censura: nella pro Cluentio, Cicerone stigmatizza
lo svuotamento della sua funzione politica da parte di Silla, che ne aveva minato anche la
periodicità quinquennale, col decennio fallimentare dall’80 al 70. Comunque le sole funzioni di
censimento della popolazione rimasero demandate ai consoli quante volte la magistratura fu
disertata o differita e parimenti a loro si affidarono appalti e collaudi delle opere pubbliche, che
prima erano stati di competenza censoria.
Parricidium. Del crimen parricidii si è già detto che da uccisione del padre fu poi configurato
come homicidium. Il primo era punito con la poena cullei, che consisteva nel chiudere il
parricida, dopo averlo verberato a sangue, in un sacco con un cane, un gallo, un serpente e una
scimmia e buttarli nel Tevere. Per l’omicidio era invece prevista la pena capitale da comminarsi
per i cives romani solo per decapitazione o strangolamento, per gli altri anche con pene
infamanti come la verberatio a morte, la crocefissione e l’esposizione nell’anfiteatro.
Falsum. Il crimen falsi consisteva in diversi reati, dalla falsificazione del testamento o anche
di moneta, alla corruzione di testimoni, all’alterazione di pesi e misure, all’assunzione di un
nome proprio e in particolare all’usurpatio dei nomina Romanorum da parte di peregrini. Le
pene contemplate andavano dalla poena capitis per quest’ultimo crimine o alla condanna ad
minas.
Crimen ambitus si diceva la corruzione elettorale nelle sue varie forme, dal broglio di “voti di
scambio” all’iterazione della magistratura in violazione dell’intervallum previsto dalla legge.
Nel 180 a.C. una lex Cornelia comminò la pena dell’interdizione decennale dalle cariche
pubbliche, ma l’interdizione divenne perpetua nel 67 a.C. in forza di una lex Calpurnia.
Crimen maiestatis era in età repubblicana un reato qualificato, configurato cioè in capo a
persone dotate di una determinata qualifica pubblica, i magistrati che abusavano dei propri
poteri (potestas e imperium) o della propria auctoritas. Ma la lex Cornelia pubblicata nel 81
a.C. da Silla configurò il crimine come attentato al potere del senato, dunque alla sicurezza
dello stato, nell’ambito della sua “restaurazione” oligarchica.
Peculatus, concussio e repetundae. Il peculatus era come oggi un tipico crimine contro la
pubblica amministrazione, che si realizzava con l’abuso nell’impiego di fondi pubblici, come il
destinarli a elargizioni indebite o nella loro sottrazione. Il peculato comportava la pena della
relegatio in insula.
Anche il crimen concussionis era un reato qualificato configurabile solo per magistrati e
funzionari: consisteva e consiste nell’estorsione di danaro o valori soprattutto in età imperiale,
estesa anche a favori personali, mediante pressioni o minacce di compiere o meno atti inerenti
alle proprie funzioni pubbliche.
Il crimen repetundarum o de reptundis consisteva nella concussione a danno dei provinciali da
parte dei governatori romani, i promagistrati (proconsoli e propretori) o magistrati (questori) in
età repubblicana, anche i funzionari imperiali durante il principato. La pena consisteva nella
restituzione dei beni in simplum o del danno estorti in un secondo momento in duplum e più
tardi nell’interdictio aquae et ignis, cioè nel divieto di rimettere piede in patria per l’imputato
che si fosse sottratto alla condanna andando in esilio.
Nota 1. Si pensa che l’artefice del processo formulare sia stato un Mucio Scevola, appartenente
all’omonima famiglia e vissuto in una villa sul fiume Aniene.
Nota 2. Nel caso della cosiddetta mancipatio, modo formale iuris civili per l’alienazione della res
mancipi, che consentiva all’acquirente di diventare dominus di un bene, l’istituto dell'in bonis habere
ne regolava la provvisorietà, destinata a tramutarsi in proprietà col decorso del tempo necessario
all’usucapio. L’eventuale reivindicatio non avrebbe quindi ingerito sul dominium del suddetto bene.
Capitolo IV. La crisi della respublica (L’impero e l’ellenismo)
Paragrafo 1. L’espansione e le conseguenze dell’incontro di Roma con la civiltà greca
Con la I guerra punica avrà inizio la conquista della Sicilia, dove il secolare contrasto tra
l’egemonia siracusana e l’eparchia cartaginese sarà risolto da Roma a proprio favore. Subito
dopo Roma s’impadronirà anche della Sardegna e della Corsica, relegando Cartagine in Africa.
Il periodo della II guerra punica, detta annibalica, consoliderà il dominio romano nella
penisola, proiettandolo altresì verso la conquista dall’Africa all’Ellade. Corinto sarà distrutta
nel 146 a.C., nello stesso anno in cui lo sarà anche Cartagine: due distruzioni gratuite, nei
confronti di città inermi, che ebbero un valore di brutale deterrenza e segnarono una svolta
nell’uso del terrore come strumento psicologico di diplomazia nel Mediterraneo. Dovendo fare
un uso estremamente oculato delle sue risorse economiche e militare, vista la crescente
sproporzione tra Romani e popolazioni soggette, il principio di deterrenza divenne un cardine
della politica romana.
La civiltà greca con cui Roma entrò in contatto è quella che noi chiamiamo ellenistica, quella
che le conquiste macedoni avevano fatto uscire nel IV secolo dagli angusti confini delle poleis,
diffondendola in tutto il bacino del Mediterraneo: dal disfacimento dell’impero di Alessandro
Magno nacquero monarchie rette dai diadochi macedoni e dai loro discendenti. L’incontro tra
la civiltà greco-macedone e le antiche civiltà orientali, di cui la Persia, la Siria e l’Egitto erano
depositari, diede luogo a una commistione culturale dominata dalla lingua greca, portatrice di
un modo di vivere urbano e cosmopolita. Cultura, organizzazione dei servizi e
dell’amministrazione del regno, sviluppo commerciale, progresso nelle discipline scientifiche e
umanistiche produssero la diffusione di ideali filosofici e di un concetto di umanità ecumenico
propugnati dallo stoicismo e dall’epicureismo.
Dopo la conquista della Sicilia alla fine della prima guerra punica e la cessione della Sardegna,
cui fu costretta Cartagine, ed infine l’acquisizione della Corsica, Roma si trovò alla fine del III
secolo ad avere consolidato la sua egemonia sull’Italia fino a Reggio.
Nel 197 si ultimò la conquista dell’Hispania citerior e della ulterior e nel 148 il regno di
Macedonia. Quest’ultimo, sotto Alessandro Magno, aveva dato vita ad un effimero impero
universale con la conquista della Persia e di altri territori come l’Afghanistan e l’India. Nel 146
a.C. veniva costituita la provincia dell’Africa, coincidente con il territorio della città punica.
Nel 133 veniva acquisita pacificamente l’Asia. L’istituzione di tante provincie determinò un
enorme afflusso di ricchezze la cui distribuzione fu tutt’altro che equa all’interno del popolo
romano, ma soprattutto non lo fu anche nei confronti degli alleati latini ed italici.
Il contatto con la civiltà ellenistica aveva fatto sì che Italici, Romani stessi e Latini fossero
letteralmente preda di un’attrazione perfino smodata verso il modello di vita urbano dei Greci;
ciò innescò una profonda trasformazione sociale. Sotto il profilo dell’evoluzione sociale e della
politica interna, i fondamenti etici e costituzionali della respublica romana saranno posti in
crisi e alla fine scardinati sino alla formazione di un nuovo sistema di governo, quello del
principato.
Paragrafo 2. La trasformazione della società romana
La più importante assemblea popolare, il comizio centuriato nacque in età arcaica dalla
riunione dell’esercito in concione. L’esercito romano era un esercito cittadino di estrazione
contadina: l’agricoltore, coadiuvato da figli ed al più da qualche schiavo, abbandonava
temporaneamente il fondo e la famiglia per la durata stagionale della guerra. Una guerra che in
età arcaica era abitualmente interrotta dai contendenti nel periodo del raccolto. Il contadino
soldato si recava nella città alle scadenze elettorali o in occasione dell’approvazione delle leggi
per esercitare liberamente il diritto di voto. Nei comitia centuriata e tributa o nei concilia
plebis tributa eleggeva i magistrati e si dimostrava più o meno ossequiente alle direttive del
senato.
Ma il prolungarsi delle guerre, dapprima nella penisola e poi oltremare, pose in crisi il rapporto
fra il contadino-soldato, la sua terra e la sua civitas. La ferma sempre più lunga, comportando
l’abbandono del campo, distruggeva le ricchezze dell’economia agricola, ma spezzava anche la
continuità e la periodicità del rapporto con le istituzioni cittadine. Esse apparivano al reduce più
estranee di quanto non fosse la relazione venutasi a cementare col proprio comandante.
Cosicché finiva con l’essere ceduta la tradizionale fonte di sostentamento della famiglia
contadina: quel piccolo campo coltivato trasmesso ereditariamente di generazione in
generazione come inalienabile, il fundus avitus et patritus. Ma se anche la famiglia non
l’avesse venduto durante la lunga leva, per sopravvivere, al ritorno di questi le possibilità di
vita che l’agricoltura poteva offrire non appagavano più chi aveva constatato il modus vivendi
delle città ellenistiche o orientali. Un modello di vita urbano che il reduce vedeva ora
riproposto negli agi dell’aristocrazia romana. Non tutta la nobilitas però, si adeguava ai nuovi
costumi. Esisteva anche una fazione reazionaria, che praticava l’austerità del mores maiorum e
ne teorizzava la superiorità sulla filosofia greca. Tuttavia questi conservatori, che assurgevano
a modello Catone il Censore e poi il suo pronipote Catone l’Uticense, raccoglievano consensi
sempre più ridotti e soprattutto sempre più teorici nell’ultimo secolo della repubblica venivano
additati piuttosto retoricamente ad esempio che imitati. I processi che subirono gli Scipioni
sono il sintomo di questo contrasto all’interno dell’aristocrazia senatoria. Nel loro circolo
gentilizio la concezione pragmatica della storia avevano portato un vento innovatore della
filosofia e della storiografia greche: agli Scipioni non era sfuggito come queste potessero ben
prestarsi al disegno imperialistico di Roma, giustificandone e mitigandone il potere e
convincendo i provinciali e gli alleati italici e latini della convenienza dell’accettazione del
sistema costituzionale romano. Gli Scipioni, tuttavia, non vollero avvalersi del loro grande
ascendente sulle truppe che avevano comandato per imporsi a quella respublica che essi
avevano servito come generali, le cui ricchezze si concentravano ora nelle mani dell’uterque
ordo. Il vectigal pressoché simbolico che i possessores senatorii pagavano per l’ager publicus
nulla toglieva al fatto che esso fosse divenuto in realtà del tutto privato. L’afflusso di un gran
numero di prigionieri dalle continue conquiste e il rifornimento dai mercati orientali rendevano
proficua la coltivazione servile del latifondo. I più intraprendenti tra i plebei, che potessero
ricorrere a un capitale iniziale d’investimento, si dedicarono ai commerci: costituirono così il
nuovo ordo equester, intermedio economicamente tra il proletariato plebeo agiato e
l’aristocrazia, ma destinato a un sempre crescente ruolo politico.
Nota 1. Vincenzo Arangio Ruiz afferma che i Gracchi ebbero il merito di porre il problema
dell’esclusione della plebe dai benefici economici e del fatto che la plebe fosse in condizione di miseria
quando costituiva il nerbo dell’esercito che portava le ricchezze a Roma, che però attentarono alla
Costituzione. In realtà tale accusa perde la propria fondatezza se si inscrive nel contesto del diritto
pubblico romano.
Nota 2. Francesco De Martino afferma che la rivoluzione graccana sia fallita a causa della non
previsione della liberazione degli schiavi. Una deformazione prospettica che non asserisce alla realtà
politica romana, in cui non si è mai pensato all’abrogazione della schiavitù; la concezione era
pertanto quella di ribaltare i rapporti di forza (Spartaco). L’istanza di abolizione della subalternità
schiavile perviene soltanto con l’instaurazione dell’industrializzazione per mero fine utilitaristico di
incremento della produzione a fronte dell’aumento della domanda.
Paragrafo 5.2. Il problema della natura costituzionale e del progetto politico di Cesare
Il problema della natura costituzionale e del progetto politico di Cesare è stato dibattuto dagli
antichi e forse ancora più dai moderni. La storiografia non ha mai alimentato dubbi sulla natura
monocratica del potere di Giulio Cesare. Il dibattito moderno verte invece sul modello
ispiratore: se fosse la monarchia romana arcaica dei reges rappresentati dalla tradizione, quella
alessandrina o perfino altre forme di governo regale dell’età ellenistica comportanti l’apoteosi
in vita, o piuttosto la dittatura repubblicana. Tuttavia, Cesare sembra essersi orientato piuttosto
pragmaticamente, traendo forse ispirazione da alcuni precedenti storici in casi determinati. La
storiografia antica ne interpretava tout court alcuni atti come segno di una tendenza al modello
ellenistico e a una presunta divinizzazione già in vita, che non può certamente accogliersi come
sintomi dell’adfectatio regni.
Per una parte della dottrina moderna ne sarebbero prova l’epiteto di Iulius per Iuppiter,
l’intitolazione al nomen del dittatore del mese Quintilis, decretato lui vivo e mutato post
mortem in Iulius. Alcuni moderni hanno sposato l’esegesi risalente alla sua pars politica e forse
a Ottaviano, secondo cui l’offerta del simbolo regio fosse una provocazione dei suoi nemici,
adottata per screditarlo. E’ alquanto singolare che molti storici abbiano dato più importanza ai
racconti di Dione Cassio e Svetonio, che adducevano a un fondamento del potere divino,
piuttosto che agli scritti di Cesare stesso. A notarlo fu Francesco De Martino, che ne colse il
valore in essi insito. Tuttavia l’osservazione di De Martino non è del tutto esatta: nel De bello
civili infatti Cesare stesso riferisce di una serie di prodigi a lui favorevoli, per non parlare della
propaganda da lui fatta di discendere da Venus Genetrix.
I monetarii cesariani rappresentano la dea con un’iconografia particolare: armata di uno scudo,
poggiato sul globo (detto sfera armillare che rappresenta l’universo) e talvolta con una lancia, e
reggente su una mano una Victoriola (statua della vittoria) che protende una corona d’alloro,
della quale sull’altro lato della moneta è cinta la testa di Cesare imperator. Solitamente Venere
non era né armata né portava in mano una victoriola, ma era rappresentata con un seno
scoperto, simbolo della sua sensualità, che ne faceva la divinità della generazione cosmica,
l’alma Venus, solennemente evocata da Lucrezio nel De rerum natura. Nei denari cesariani,
invece, Venere acquista le dette caratteristiche marziali. In questa contaminatio, il seno nudo si
colloca in un contesto figurativo afferente l’abbigliamento amazzonico, un corto chitone
anziché una lunga veste. La figura delle monete sembra in qualche modo liberamente evocare
le celebri Amazzoni della statuaria greca classica di Policleto, Fidia e Cresila. Le monete di
Cesare rappresentano non solo la più antica immagine di Venus Genetrix e Victrix ma anche
un’innovazione nella raffigurazione della dea. Si tratta di una novità iconografica che
costituisce un forte veicolo ideologico e propagandistico: non v’è da dubitare sia dovuta
all’iniziativa di Cesare, e che egli volle superare il tempio che Pompeo aveva edificato
dedicandolo alla dea. Ma è ovvio che alle sue convinzioni personali Cesare possa aver messo la
sordina per avvantaggiarsi della religione come instrumentum regni.
Prima di farsi conferire la dittatura perpetua, Cesare, mantenne il proconsolato, e inoltre si fece
nominare di anno in anno anche console, così tracciando la via del concentramento in una
sola persona di poteri magistratuali repubblicani. E’ precipuo che un ordinamento
costituzionale, fondato sulla temporaneità e sulla divisione dei poteri magistratuali, veniva del
tutto snaturato da siffatto sistema. La dittatura perpetua sancì l’abbandono del compromesso
con le forme repubblicane, reso ancor più evidente dalla tempistica della carica, assunta prima
di partire per la spedizione partica.
Il progetto di autocrazia cesariano si radica ab origine nel disegno che egli fa trapelare con
delle confidenze al suo entourage, pervenuteci grazie all’epistolario ciceroniano: la gente
avrebbe dovuto rivolgersi a lui con maggior deferenza e considerare le sue parole come leggi.
Bisognerà arrivare alla dinastia dei Severi perché si affermi formalmente il principio che “quel
che piace al principe ha vigore di legge”.
Solo quasi tre secoli dopo la parabola della volontà di Cesare può considerarsi compiuta: il
percorso di resistenza dell’aristocrazia senatoria a tale pretesa sottende all’intera storia
del principato. Riflettono la forma mentis cesariana i versi di Euripide che diceva come
“bisogna rispettare sempre la giustizia, salvo a dover violare il diritto per impadronirsi del
potere”. Scrive Luciano Canfora che “il potere o lo si ha tutto o non c’è”. I versi che Cesare
preferiva dicevano esattamente “Se bisogna violare il diritto, allora è meglio farlo per ottenere
la tirannide, il rispetto delle regole vale negli altri campi”. Ciò dimostra e proclama la non-
moralità della politica: Cicerone nel De officiis parla di Cesare criticamente evidenziando
quanto fosse stato coinvolto nella congiura di Catilina e denunciando la sua eccessiva
inclinazione tirannica.
La concezione materialistica del diritto in Euripide, riflesso della sofistica, precorre quella
dell’epicureismo, cui Cesare aderiva almeno per il materialismo atomistico e l’inesistenza
dell’Aldilà; Cesare doveva trovare particolarmente consono alle proprie aspirazioni il pensiero
di Epicuro in materia politica. Le affermazioni dei contemporanei posteriori alle Idi di marzo
presentano il rischio di poter essere retrospettive. Va detto però che Cesare, se prima aveva
citato i versi di Euripide e criticato l’abdicazione di Silla, proclamò anche di non volerne
seguire l’esempio non solo nell’abdicare ma neppure nella crudeltà. Lo tramanda l’epistola
ad Oppio e Cornelio del 49. Cesare in quest’occasione allude se non all’incolumità dei senatori,
sicuramente all’aggredibilità del loro status e ne sottintende la minorità politica.
Segno di una diversa humanitas, che sortiva degli effetti ingannevoli, in cui cadde lo stesso
Cicerone, persuaso che il princeps vagheggiato come moderator della forma di Stato.
Alla fine possiamo credere che Cesare abbia avuto, fin dal suo primo consolato, un’intima
avversione della respublica senatoria e delle sue forme.
Paragrafo 5.3. Le virtutes del dictator e il pensiero politico della tarda repubblica
Senza dubbio Cesare trovò nella filosofia epicurea i modelli morali di clementia e moderatio: il
rector, moderator e princeps reipublicae vagheggiato da Cicerone come ossequioso del senato
non può certo averlo influenzato. In quegli anni gravidi di eventi maturava a Roma un pensiero
politico che avrebbe posto i fondamenti ideologici del principato. L’ideale di libertas era
propriamente interno alla civitas Romana e si concretava nella libertà di parola nella sede del
senato. A questa libertà di parola nell’ambito filosofico Filodemo di Gadara, il caposcuola
epicureo, aveva dedicato un’opera, teorizzando anche la figura dell’optimus princeps,
intitolando una delle sue opere “Del buon re secondo Omero”. Filodemo teorizzava la figura
del sovrano governato dalla ragione e che grazie ad essa governava i sudditi. Anche Cicerone
nel De republica teorizzava la figura del princeps, che a suo parere doveva essere un arbiter al
di sopra delle fazioni e degli interessi, per autorità morale universalmente riconosciuta e che
sapesse mitigare il potere con l’uso della ragione.
Può dunque sembrare, a prim’acchito, che nel sincretismo del pensiero ellenistico trapiantato a
Roma, la razionalità del basileus filodemeo non si differenzi molto dal Logos stoico. In realtà la
razionalità è tutta umana e immanente, mentre quella stoica è la proiezione di un’Entità
metafisica, che presiede ai destini del mondo. Il concetto della provvidenzialità dell’impero
sarà utilizzato come strumento ideologico della propaganda del principato.
Ma v’è un’altra e politicamente più concreta dimensione, dove le declinazioni della ratio
vennero a confronto. Catone ad Utica aveva rifiutato la clementia caesaris ed aveva preferito
suicidarsi anziché arrendersi al dittatore, stimando la libertà politica superiore alla vita. Tutti gli
optimates convenivano, ma non tutti avevano lo straordinario coraggio che la coerenza
richiedeva di fronte alla generosità di Cesare, c’erano molti Bruti e molti Ciceroni che avevano
preferito vivere mantenuti nel loro rango. Catone era dunque diventato una bandiera.
Il suicidio stoico di Catone non risponde alla razionalità epicurea. Questo gesto non necessario
di fronte alla clementia che Cesare aveva largamente dimostrato verso i nemici sconfitti,
obbligava lo stesso Cesare a combattere con armi adeguate la sublimazione del concetto di
libertas: il dittatore avvertì l’esigenza di una risposta politica e ideologica al gesto di Catone,
che rischiava di screditarne la vittoria.
Così quando Cicerone gli inviò il suo Cato minor, nel quale esaltava la virtus stoica
dell’Uticense e la scelta eroica del suicidio, Cesare gli rispose, con l’Anticato opera non
pervenutaci, lodando il valore letterario dell’opera ma sostenendo che la scelta eroica del
suicidio sarebbe stata giustificabile solo se Catone avesse saputo di perdere la libertà e dignità
ma poiché sapeva che le avrebbe conservate, così il suo gesto andava giudicato come sintomo
di feroce barbarie contro se stesso. Ma il tentativo del dittatore di screditare il gesto di Catone
non ebbe fortuna: non sfuggì ai romani che la libertas di Cesare era la libertà personale mentre
quella di Catone era la libertà politica. L’apoteosi fu sancita nel cognomen di Uticense, da
allora in poi attribuitogli dal luogo in cui aveva scelto di rinunciare alla vita; ma fu suggellata
maggiormente dai versi di Lucano nella Pharsalia: “la causa vincitrice fu gradita agli dei ma
quella vinta lo fu a Catone.
Oltre mille anni dopo, la Commedia di Dante attesterà ancora la straordinaria vitalità dell’ideale
catoniano.
Capitolo V. Il principato
Paragrafo 1. Augusto: restitutio reipublicae o respublica amissa?
Quando depose formalmente il potere conferitogli per condurre la guerra contro Antonio e
l’Egitto e fu proclamato Augusto nel 27 a.C., il nuovo Cesare aveva 36 anni e a tre era
rimasto il solo incontrastato padrone del mondo romano. Egli fece del rispetto formale delle
strutture costituzionali repubblicane un cardine inossidabile della sua tattica di politica
interna e di mantenimento del suo predominio; non meno, tuttavia, di quando si adoperò per
svuotare le magistrature, il senato, i comizi e tutte le istituzioni repubblicane dei loro effettivi
poteri politici. Nel 27 gli fu così assegnata una provincia di dimensioni inusitate comprendente
la Gallia, la Spagna, la Siria e l’Egitto, con un decennale imperium proconsulare maius, cioè
superiore a quello dei proconsoli delle rispettive provincie, che gli consentiva di mantenere il
comando degli eserciti nei territori non del tutto pacificati perché di recente annessione. Inoltre
egli continuò ad essere eletto console annualmente e senza intervallum. Nel 27 gli fu esteso a
tutte le provincie l’imperium proconsulare maius e nello stesso anno gli fu confermata la
tribunicia potestats in perpetuo.
In verità l’espressione “tribunicia potestas in perpetuo” è del tutto impropria per il formalismo
giuridico-costituzionale; tuttavia la si trova utilizzata nella dottrina moderna, sull’orma di
Svetonio. Gli storici antichi tramandano addirittura, come Dione Cassio, che gli era stato
conferito il tribunato o perfino che egli fosse tribuno.
Augusto stesso è ovviamente più cauto quando nelle Res Gestae, il suo testamento politico,
scrive che gli fu attribuita quod viverem la tribunicia potestas: con ciò egli sottintende ch’essa
gli era rinnovata con formale conferimento di volta in volta. Augusto acquisiva da essa il ius
agendi cum plebe, cioè il diritto di convocare i concilia plebis, la sacrosanctitas, l’intangibilità
e la coercitio.
Ma il vero potere imperiale risiedeva nel ius intercessionis, il diritto di veto a qualsiasi
magistrato. Per i tribunis plebis questo potere trovava un limite sia nel principio generale
dell’opponibilità dell’intercessio fra colleghi, dunque fra stessi tribuni, sia nella temporaneità
della carica (18 mesi).
Ma Augusto assumendo la tribunicia potestas senza essere tribuno della plebe e dunque
indipendente dalla carica magistratuale, non era collega dei tribuni e perciò non subiva il
rischio di vedersi opporre l’intercessio da uno di loro. Proclamava comunque di aver voluto un
collega nella tribunicia potestas che dapprima fu Agrippa poi Tiberio. Si salvava
apparentemente il principio di collegialità della respublica, ma infine il rinnovo annuale della
potestà tribunizia faceva sì che venisse meno quella temporaneità, intorno a cui gravitava il
sistema. Catone il Censore aveva cercato d’impedire per legge che si potesse iterare la carica di
console: ora un princeps senza colleghi, nella totalità dei suoi poteri, deponeva la carica solo
con la morte. Duttile è la rappresentazione che Augusto restituisce dei suoi poteri: egli afferma
d’esser stato superiore a tutti per auctoritas ma pari per potestas a tutti gli altri che gli
furono colleghi quoque in magistratu.
Theodor Mommsen aveva integrato il testo latino, il cui senso era “dopo essermi impadronito
del sommo potere”, essendo potitus participio passato di potior. La recente letteratura
scientifica, sulla base del testo trovato ad Antiochia, ha creduto di poter correggere potitus in
“potens”, che indica sostanzialmente il concetto che Ottaviano-Augusto sia, dopo la vittoria sul
triumviro Antonio, “rimasto padrone assoluto dello Stato”, sia pure per universale consenso, il
che esalta la sua generosità di avere restituito la respublica al senato ed al popolo. Potiens
rerum omnium indica infatti l’essere padrone assoluto.
Il concetto di “colpo di Stato”, mutuato in dottrina dall’esperienza politica del XIX secolo,
costituiva di per sé un approccio inadeguato a comprendere le parole di Augusto. L’esegesi
sostanziale del Mommsen, se non la sua integrazione, resta abbastanza confermata dalla nuova
restituzione, venendone men solo l’idea di attività di iniziativa intrapresa per impadronirsi del
potere, per il solo fatto che, venuto meno Antonio, il consenso per il vincitore divenne
universale, cioè conquisto anche la parte vinta antoniana.
Quanto al quoque del terzo paragrafo, può tradursi grammaticalmente sia come congiunzione,
nel significato di ‘anche’, sia come aggettivo indefinito, nel significato di ‘ciascuno’ (ciascuna
magistratura).
La dottrina ha discusso a quale magistratura Augusto alludesse: per escludere che si trattasse di
consolato si è obiettato che egli ebbe anche l’imperium militiae, dal quale i colleghi rimasero
esclusi; ma non si può ritenere che l’imperium militiae sia compreso nella nozione di potestas
che è in generale il potere del magistrato e più tecnicamente il suo potere di determinare con la
sua volontà diritti ed obblighi per la respublica. Più fondata sembra l’osservazione che Augusto
fa scrivendo le Res Gestae, narrazione delle sue imprese alla fine della sua vita, probabilmente
composte nel 13 d.C. (un anno prima della morte): qui Augusto non qualifica la potestas quale
tribunicia, come fa invece altrove; sembra che abbia adoperato con voluta equivocità i termini
per alludere alle diverse cariche da egli rivestite. Con questa studiata genericità egli poteva
autorappresentarsi investito di un potere, diverso nel tempo a seconda dei momenti, eguale a
quello dei colleghi di volta in volta avuti: tale genericità gli consentiva di onnicomprendere la
tribunicia potestas, che conveniva sussumere nella categoria generale senza riferirsi alla sua
specificità istituzionale.
Augusto promulgò un editto de restituenda republica, tramandato da Svetonio, e permeato
dalle tradizionali convinzioni del mondo romano, sistematizzate nella concezione dell’etica
pubblica del Somnium Scipionis ciceroniano, che garantiscono la sopravvivenza post mortem
nei Campi Elisi. Il tema della respublica restituita, consistente nella pretesa di aver restaurato e
conservato la “democrazia repubblicana”, è pubblicizzato anche dalle iscrizioni monumentali
fino alle leggende monetali. Il greco Strabone (contemporaneo di Augusto) definì Ottaviano
hègemon definendo il principato prostasia, termine che fu usato anche da Dione Cassio quando
scrive che Augusto ebbe l’intero governo della cosa pubblica. Dall’uso di questa terminologia
traspare la concezione di un regime a guida autoritaria, diverso sì dalla tirannide, restando in
ombra se per la sua diversità istituzionale da quella, o piuttosto per la razionalità
dell’autocrazia illuminata.
Ma colui al quale apparve in tutta crudezza che quella di Augusto era di fatto una monarchia, fu
Tacito. Egli la considerò inevitabile per il mantenimento della pace dopo un secolo di guerre
civili: fra Mario e Silla contro Catilina, fra Cesare e Pompeo, fra Ottaviano e Antonio.
Tacito, negli Annales sostiene infatti che: “la parola, potestas tribunicia, fu trovata da Augusto
per non assumere il nome di re o di dittatore e tuttavia porsi al di sopra di tutti gli altri poteri
magistratuali con un qualche appellativo”.
Anche Svetonio mostra di condividere tale opinione, considerando senza mezzi termini il
principato un regno senza corona.
Augusto non poteva comunque negare la superiorità della sua posizione senza perdere di
credibilità: escogitò così l’ammissione di tale supremazia nell’ambito dell’auctoritas.
Questo termine condivide la radice sia con il verbo latino “augere” che significa “accrescere”,
sia con la parola “augurium” che riporta alla sfera del sacro. Prima del 27 a.C. Augustus era un
appellativo riservato a Giove o a divinità.
Ora che il princeps pretende come tale di essere solo un primus inter pares, l’auctoritas, con la
sua sfuggente qualificazione morale ma densa di una funzione di supervisione, si presta bene
all’ammissione di eminenza, ambiguamente fuori dalla definizione del potere magistratuale.
Questa ambiguità scompare nella traduzione greca che traduce auctoritas con axioma (autorità)
che rivela il contenuto autocratico del potere di Augusto. Se dunque la tribunicia potestas è il
potere imperiale nella sua espressione civile, l’auctoritas segna la supremazia morale,
l’imperium proconsulare del principe costituisce il vertice del potere militare. Invano se ne
cercherebbe una trattazione nelle Res Gestae, che si segnalano per i silenzi su sconfitte come
quella al comando di Varo in Germania.
Per quanto concerne il passo di Dione Cassio, cittadino romano, vissuto sotto la dinastia dei
Severi ma di nazionalità greca, possiamo dedurre che egli adduca alla magistratura
proconsolare o al potere proconsolare. La scoperta di un editto promulgato da Augusto in
qualità di proconsul nel 15 a.C. in Spagna per la popolazione dei Paemeibrigenses ha
dimostrato, smentendo la dottrina moderna, che il principe aveva fin dall’inizio l’imperium
proconsulare in quanto inerente alla carica di proconsole da egli rivestita.
Inoltre l’editto ci aiuta a fornire una rappresentazione in cui le provinciae non pacificatae
sottostavano all’imperium proconsulare del princeps che lo esercitava in qualità di
proconsules; il titolo della provincia non mutava probabilmente sul piano della terminologia
costituzionale, in quanto ancora non correva alcuna differenza tra provincie consolari e
provincie non pacificate, accomunate dal processo di romanizzazione imperante.
Sembra dunque che Augusto governasse le provincie non pacificate mediante il suo imperium
consulare e legati di rango inferiore a lui referenti; Augusto, in quanto maius, esercitava un
controllo su questi ultimi nelle provincie senatorie, governate da promagistrati di tradizione
repubblicana, per discernerle da quelle imperiali, governate dai delegati del principe.
E’ singolare che il giudizio di incostituzionalità di tale modus operandi da parte di Cesare si
concreti nell’operato di Augusto, il quale ne rievoca le orme. Tuttavia, la salvaguardia della
forma istituzionale può dirsi inverata, nonostante si assista all’esautorazione del corpus ad esso
rimandante e al mantenimento dell’appellatio, la mera denominazione.
Il consolato. Il consolato era rimasto non solo la magistratura apicale, ma anche la più
importante dell’ordinamento repubblicano dopo Silla. Sotto Augusto i consoli non esercitarono
più un effettivo potere politico e nonostante ciò tale carica rimase lo stesso molto ambita per il
lustro che recava e per il prestigio della tradizione, ma anche per il governo civile dell’Urbe.
Essa costituiva una sorta d’imbuto, con due soli consoli all’anno, troppo limitante per la vanità
dell’aristocrazia senatoria. Augusto si avvalse dei consules suffecti: i due iniziali
raddoppiarono a 4 il numero dei consoli, ma alla fine giunsero a 24.
I comizi e la destinatio. Restava il problema del controllo delle funzioni elettorali dei comizi.
Quando morirono i giovanissimi eredi di Augusto, Caio e Lucio Cesari, suoi nipoti in quanto
generati dalla figlia maggiore Giulia con Agrippa e dal principe adottati, egli poté approfittare
della loro enorme popolarità e della commozione collettiva alla loro prematura scomparsa, per
manipolare il funzionamento elettorale dei comizi senza suscitare malcontento.
Nel 5 d.C. una lex Iulia de destinatione magistratuum, istituiva 10 centurie miste di soli
senatori e cavalieri, intitolate ai principi defunti (5 a Caio e 5 a Lucio) che dovevano votare i
destinati a presentarsi ai comizi centuriati da una lista di candidati alla pretura e al consolato.
Accadeva così che i candidati alle più alte magistrature non si presentassero direttamente ai
comizi che riunivano tutto il populus romanus ma solo alle 10 centurie dell’aristocrazia
senatorio-equestre, ai cui ordines si accedeva in base al censo. Inutile dire che i candidati
ufficialmente sostenuti dall’imperatore venivano regolarmente eletti sia in prima che in seconda
consultazione. Non vi furono proteste, anche perché Augusto seppe avvantaggiarsi
politicamente dell’attesa epocale delle folle romane come di quelle provinciali. Alle prime offrì
una mistica, che coniugava una nuova teologia di Stato col concetto di delega della
sovranità popolare, insito nelle elezioni repubblicane: dai Campi Elisi, dove i giovani principi
erano ritratti nelle arti figurative, Caio e Lucio esprimevano le proprie scelte attraverso il voto
delle centurie a loro intitolate.
Nota 1. La Britannia parla oggi una lingua il cui lessico è neolatino, il sistema giuridico del Common
Law è desunto dalla tradizione romana rispetto a quello neoromanistico, che ha subito la
codificazione di Napoleone, quindi la sostituzione della libertà creativa dell’interpretazione del diritto
con una norma codificata. Il terzo sistema, quello cinese, è una ripresa moderna del diritto romano,
applicato e interpretato con libera interpretazione.
Nota 1. Vespasiano non dimenticò che uno dei comandanti della rivolta giudaica, Giuseppe, gli aveva
predetto l’ascesa al soglio imperiale. Quando la profezia di avverò Vespasiano non solo gli donò la
libertà, ma anche la cittadinanza romana e il rango senatorio. Egli allora assunse il nomen dei Flavi e
come Flavio Giuseppe divenne lo storico della dinastia, scrivendo la Storia giudaica per convincere
gli Ebrei che l’Avvento del Messia dovesse riconoscersi nell’ascesa di Vespasiano. Bisogna tuttavia
rammentare che egli aveva dato inizio alla costruzione dell’Anfiteatro Flavio col bottino del sacco di
Gerusalemme e che la Menorah, il candelabro a sette braccia sacro al giudaismo era stata esibita in
trionfo a Roma.
Gli edicta furono la prima precipua forma dell’attività normativa dell’impero. Il ritrovamento
dell’edictum di Augusto ad un piccolo popolo della Spagna cui si accordava l’esenzione
tributaria, ci fa sapere che il principe fin dall’inizio si avvalse del potere di edicere
(proclamazione) in qualità di proconsole, cioè nel solco della consuetudine repubblicana.
Nell’editto si distingue il praescriptum con le indicazioni relative all’autorità promulgante, che
è il principe, quindi il testo della pronuncia in forma diretta ed infine il luogo e la data di
confezione del documento.
Questa tradizione formulare, con verbi del genere videtur, placet riflette la paradossale
concezione repubblicana dell’autorità repubblicana dell’autorità imperiale.
I mandata erano invece rivolti ai funzionari imperiali del fiscus ed ai legati Augusti, ma anche
a proconsoli e propretori in forza dell’imperium proconsulare maius et infinitum del princeps:
consistevano in istruzioni particolari della più diversa natura; i mandata avevano pertanto una
certa analogia con l’omonimo contratto di diritto privato e per questa ragione la loro validità
era limitata alla vita dell’imperatore che li aveva inviati, ma il loro contenuto poteva essere
ripreso dai principi successivi e costituire una norma rinnovata da ogni imperatore.
Rescripta si dicevano le risposte che il principe dava alle parti, ai magistrati o ai giudici di un
processo su questioni di diritto oggetto di controversia. Bisogna sottolineare che il principe non
entrava nel merito (in rem) e non verificava l’attendibilità delle informazioni contenute in tali
richieste, egli si limitava solamente a fornire un consiglio, un parere personale. Ma le domande
potevano essere poste anche dai giudici: esse erano dette relationes, suggestiones e
consultationes e le risposte erano contenute in lettere (epistulae) scritte su fogli di papiro
distinti dalla domanda. Quando invece i quesiti erano posti dall’attore o dal convenuto, nel
processo privato, o dal denunciante o querelante o dall’imputato, nel processo penale, essi
erano detti libelli, preces o supplicationes e le risposte imperiali venivano redatte in un
apposito spazio, dal nome di subscriptiones.
I decreta sono in sostanza sentenze o decisioni del principe su questioni sottoposte alla sua
cognitio, alla quale si poteva far ricorso in qualsiasi momento del processo, interrompendone
così lo svolgimento. Ma il principe svolgeva poi una sorta di “grado di appello” per le sentenze
già pronunciate, che il condannato nel processo pubblico o il soccombente nel processo privato
potevano far ricorso a lui perché rivedesse l’intero giudizio.
Nota 1. Potremmo dunque legittimamente presumere che nulla ne avesse saputo anche Tiberio, se un
passo dell’Apologeticum di Tertulliano, non tramandasse che l’imperatore, informato della
Rivelazione del Cristo, ne avrebbe proposto al senato il riconoscimento come divinità, volendo
sancirne la liceità. Di fronte al rifiuto del senato, il principe si sarebbe limitato a impedire le
persecuzioni dei cristiani.
Si ravvisa qui l’accortezza politica della decisione di Tiberio di riconoscere un dio dei Giudei che, per
la prima volta, avesse un volto e si prestasse a una rappresentazione iconografia come gli dei pagani.
Paragrafo 1.5. Celso e il confronto tra padeia classica e dottrina cristiana nel II secolo
Negli Acta Martyrum ricorre la confessione di fede e l’atteggiamento inflessibilmente ostinato
dei cristiani di fronte ai magistrali romani.
Il testo più antico di tali Atti dei martiri scillitani riporta il dibattito processuale tra il
proconsole d’Africa in Cartagine, di nome Saturnino, e alcuni cristiani, i quali si dimostrano
ostinati e tenaci di fronte la richiesta del proconsole di venerare l’imperatore come Dio, i
cristiani non rifiutano la loro fede e alla fine del dibattito il proconsole ordina al banditore che
proclami il supplizio e la decapitazione dei cristiani processati. E’ lo stesso contenuto che,
attorno al 150 d.C., Giustino descrive nella sua Apologia rivolta all’imperatore Antonino Pio.
Ma Giustino è appunto il segno della conquista sociale ed intellettuale del cristianesimo
dell’impero.
La Rivelazione, che avvicinava il cristianesimo ad alcuni religioni misteriosofiche di età
imperiale, si sostanziava nei peculiari contenuti dogmatici dell’escatologia trinitaria.
Un’intransigenza evangelica porta l’Apologeta al rifiuto di Atene e della filosofia.
Tuttavia, al cristianesimo mancavano i due requisiti connotativi della religione: l’etnicità, cioè
l’appartenenza a un popolo e l’antichità, per la quale era inconcepibile la novità di una
religione.
Non molto prima della morte dell’imperatore Marco Aurelio, la Vera Dottrina del pagano
Celso dimostra che su questo stesso campo di un conflitto intellettuale, i pagani dispongono di
raffinati strumenti di conoscenza: il rifiuto delle pretese filosofiche del cristianesimo e
dell’interpretazione allegorica dei Vangeli.
Appare evidente, per Celso, che gli evangelisti abbiano forzato il senso dei libri profetici e
adattato maldestramente le profezie agli episodi della vita di Gesù.
Paragrafo 1.6. Porfirio, le persecuzioni del III secolo e la politica religiosa di Diocleziano
Verso il 268-272 vengono pubblicati i 15 libri Contro i Cristiani di Porfirio, mistico pagano,
letterato, discepolo di Plotino. Egli sostiene che gli evangelisti abbiano indovinato i trattamenti
riservati a Gesù durante il supplizio rifacendosi all’Antico Testamento, e lo deduce dal fatto
che nel racconto di Giovanni si narra come si sia fatto a meno di rompere le ossa a Gesù
crocifisso e di come gli abbiano aperto il fianco con la lancia: in realtà nel racconto si allude ad
una prescrizione relativa al trattamento dell’agnello della pasqua ebraica. Porfirio considera gli
evangelisti dei falsari, ingannatori e lettori ingenui e dunque in mala fede.
Il punto di forza del cristianesimo furono la crisi dell’impero e le invasioni barbariche nel III e
IV secolo, che favorirono la nascita di un senso di angoscia esistenziale e un profondo
cambiamento del pensiero pagano, mutando nel misticismo. Si vengono a porre così i
presupposti per la diffusione del cristianesimo anche fra i ceti intellettuali. La Chiesa aveva
tratto tantissimo vantaggio dall’ammorbidirsi delle persecuzioni grazie soprattutto al rescritto
traianeo. Ancora la frammentarietà delle persecuzioni e l’individuale specificità del loro
fondamento normativo sono riflesse dalla raccolta di rescripta imperiali inviati ai governatori
provinciali, che Domizio Ulpiano pubblicò, in età severiana, nel settimo libro della sua opera
de officio proconsulis.
Ma mancò anche una continuità politica ed ai periodi di intense persecuzioni si alternavano
periodi di estrema pace nei confronti dei cristiani, fino all’ultima grande persecuzione di
Diocleziano che avvenne subito dopo un lungo periodo di aperta tolleranza.
Il razionalismo nella gestione dello Stato e la coscienza della funzione pubblica
nell’amministrazione dell’impero si riassumono per l’ultima volta nel governo di Diocleziano.
E’ in questo quadro che avviene la promulgazione nel 297 di una costituzione contro il
manicheismo, ribadendo la sacrosantitas della religione tradizionale. E’ chiaro che agli occhi
di Diocleziano il cristianesimo non poteva che apparire come una forza centrifuga e
disgregatrice dell’impero: l’evento scatenante l’editto persecutorio potrebbe essere l’incendio
del palazzo imperiale.