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Riassunto storia del diritto romano

Prefazione. Le origini dell’identità europea e il loro portato formativo


Paragrafo 1. Il valore identitario della conoscenza storica
Con le parole poste in epigrafe Adolf Hitler terminava un discorso a mensa coi suoi generali
nel 1941, quando il Reich nazista sembrava inarrestabile e all’apice della conquista. Il discorso
nella fattispecie, stenografato e scoperto, a guerra conclusa, da Pikker, si configura quale
esemplificazione della strategia criminale e dell’intelligenza politica che informano le dittature.
Non può infatti negarsi a Hitler la capacità di aver capito in cosa risieda l’identità profonda di
un popolo: nella conoscenza della storia e della sua civiltà. Conoscenza dalla quale
scaturiscono e si cementano le idee politiche, l’avvedutezza nel recepimento della propria
sostanziale dignità di uomo, svilito dai nazisti come Untermenschen, rispetto alla supremazia
tedesca del nietzschiano Ubermensch. Per conformare e controllare la popolazione
assoggettata, quella che Cicerone denomina imperitia multitudinis, per prevenire atti di
sovversione e insurrezione, le si offre materia di svago (panem et circenses ndr.), (Ministero
della propaganda, Goebbels) la si ammannisce, la si “istruisce” alla manipolazione,
all’asservimento, al controllo; le vie di comunicazione divengono parte attiva e integrante del
progetto di realizzazione del proposito iniziale, la distruzione storica e identitaria degli europei.
Un’aspirazione di carattere politico, la compromissione della trasmissione del sapere, che ha
trovato, anche nei sistemi liberali e democratici (mutatis mutandis), la propria attuazione o
almeno una parvenza di essa.
Del valore formativo della conoscenza storica era consapevole, in termini morali antitetici a
quelli hitleriani, l’eminente esponente dell’Idealismo, il filosofo Benedetto Croce, il quale
affermava che: “L’uomo respira nella storia ed è tutt’uno con essa…e se per un istante, un
solo istante, ne fosse tratto fuori, morrebbe esso e il mondo tutto, storia in moto” (cfr.
Filosofia e storiografia).

Paragrafo 2. Critica delle fonti: moderne metodologie della ricerca e la loro origine
storiografica
“Come la storiografia moderna è ancora in gran parte quale la formarono i greci, così la
maggior parte di quegli avvenimenti sono da noi pensati come gli antichi, il lavoro degli storici
antichi si serba nel nostro: vero “acquisto in perpetuo”, come Tucidide intendeva fosse l’opera
sua.” Queste parole crociane all’esordio della Teoria e storia della storiografia restano tuttora
valide, benchè l’avanzamento degli studi, l’affinamento del metodo critico, le specializzazioni
del sapere abbiano determinato un enorme progresso delle possibilità indagatorie. Pur tuttavia,
nella ricostruzione della storia politica, i progressi hanno aggiornato il fondamento
metodologico che, già nel V secolo era stato posto da Tucidide. A lui si deve la prima
concezione prammatica (pragma/pragmatos) della storia, poi seguita da Polibio-primo autore
di una storia di Roma come storia universale-e dagli stessi storici romani.
Alla concezione prammatica, frutto di una concezione razionalistica e scientifica
dell’osservazione dei fatti, non interessava il pittoresco, col quale lo stesso Erodoto, definito da
Cicerone “padre della storia”, aveva intessuto le proprie narrazioni. In realtà, parafrasando le
parole di Croce, “Talete e Erodoto sarebbero da chiamare, piuttosto che “padri” della filosofia e
della storia, “figli” del nostro interessamento per lo svolgimento attuale di queste discipline”.
Tucidide concentra invece l’analisi storica sui fatti (pragmata) politici, siano essi i conflitti
d’interesse, le guerre, il perseguimento dell’egemonia e delle strategie del potere, l’azione di
governo. L’arte medica (ippocratica V secolo) del suo tempo aveva distinto per la prima volta,
nello studio e nella diagnosi della malattia, la causa (aitia) dal sintomo (syntomon), che ne è
solo la manifestazione (phainomenon). In un’epoca che concepiva unitariamente la scienza,
questa perpetua acquisizione del sapere umano fu da Tucidide trasposta alla specificità
dell’indagine storica, individuando la differenza tra la causa recondita (aitia segreta) dell’agire
politico e la sua giustificazione (prophasis dichiarata), per lo più finalizzata a celare l’interesse
reale, l’unico reale movente: l’utile (sympheron), ritenuto inconfessabile all’opinione pubblica.
Lo storico non perverrà ad una vera comprensione dell’azione politica se non saprà discernere
la causa della rappresentazione strumentale che, a scopo propagandistico, ne viene
normalmente esibita. In quello stesso V secolo che esaltava l’uso dell’analisi razionale in ogni
campo dello scibile, il sofista Protagora dimostrava inoltre che l’uomo costituisca la misura di
tutte le cose: la sofistica negava così l’esistenza dei principi etici tradizionali, che il mondo
greco aveva fino ad allora considerati assoluti. La critica razionalistica infrangeva la metafisica
e i fondamenti morali della polis, il mondo dei valori convenzionali e della religione popolare,
posti in discussione dalla potenza sovvertitrice della logica anche nel pensiero di Socrate. Il
relativismo e il soggettivismo sofistico concorrevano a porre i fondamenti filosofici della
diagnostica clinica storiografica, dalla quale Tucidide sviluppava una nuova concezione,
identificando nell’utilitas la causa ultima e pertanto riconosceva nel nesso di causalità il
cardine, su cui grava e gravita la comprensione profonda della storia, evenemenziale. Proprio
l’interesse costituisce, nella concezione tucididea di immutabilità della natura umana,
l’elemento di prevedibilità della storia. Ma con tale ponderabilità interferisce la Tyche (cfr.
Epicuro in Tyche physeos e Lucrezio in De rerum natura), sorte cieca, accidentale che
sconvolge la razionalità delle scelte umane.
Così la peste di Atene, di cui rimase vittima Pericle nel 429, fu l’elemento imprevedibile che
determinò la morte dello statista che aveva concepito la strategia di guerra (iniziativa di
cinturazione nella regione attica sul mare e resistenza passiva sulla terra). L’evento
imponderabile era già allora spiegato con l’inurbarsi della massa di popolazione in seguito alla
devastazione delle campagne da parte degli Spartani; il recente ritrovamento archeologico ha
accertato si trattasse di colera e non di peste.
In Polibio di Megalopoli esso acquista una connotazione trascendente e si configura come
Providentia divina, predestinante Roma alla conquista del mondo per il bene dell’umanità.
Polibio, vivendo nell’Urbe come ostaggio diplomatico nel circolo degli Scipioni, di fronte alle
vastissime conquiste romane del III-II secolo concepisce per la prima volta una storia
universale: s’interroga su come ai Romani sia riuscito ciò in cui fallirono i Diadochi, i sovrani
che si spartirono l’impero ecumenico di Alessandro Magno dopo la sua morte nel 323 a.C.
Polibio osserva i fatti con un occhio tucidideo e crede di riconoscere nell’assetto politico-
costituzionale romano (politeia) la ragione della capacità di conquista. Egli muove secondo tre
categorie politiche peculiari della mentalità greca, sistematizzate e indagate storicamente da
Aristotele, categorizzandone le rispettive degenerazioni: la monarchia, che degenerava in
tirannide, l’aristocrazia (aristoi) degenerante in oligarchia (oligoi), la democrazia in oclocrazia.
Secondo Polibio la costituzione repubblicana di Roma avrebbe contemperato le tre migliori
forme di governo proprie dell’esperienza storico-politica della civiltà greca: il potere
monarchico sarebbe stato rappresentato dai consoli, i magistrati al vertice dello Stato romano, il
potere aristocratico dal senato, la ristretta assemblea degli anziani (senatus da senior) della
nobilitas patrizio-plebea, il potere democratico dalle assemblee popolari (comizi centuriati e
tributi, le assemblee votanti organizzate per centurie o per tribù). Poco dopo la morte di Polibio
la crisi delle istituzioni repubblicane e le conseguenti guerre civili non posero in crisi
l’espansionismo imperialistico romano, dimostrando la fallacia della sua analisi. Per lui,
assunto che solo negli ultimi 60 anni i Romani avessero inverato l’opera espansionistica, la
Provvidenza poteva spiegare il miracolo dell’inarrestabilità dell’impero. In realtà egli non
apprende gran parte della lezione tucididea di esegesi della realtà politica e infine deve fare
ricorso al Trascendente.
Dionigi d’Alicarnasso, che scrisse la sua storia delle origini di Roma durante le guerre civili e
la pubblicò all’inizio del principato augusteo, dopo il 27 a.C., non poteva riconoscere
nell’architettura costituzionale repubblicana la spiegazione della stabilità del sistema,
ravvisandone la vera grandezza nella conciliazione dei conflitti d’interesse tra classi sociali
(paternalismo, clientela). Ma egli coglie anche tale rapporto nella sua dimensione
internazionale, quando clientes erano interi popoli assoggettati, come causa di integrazione dei
vinti, dapprima nella stessa penisola italiana (Latini, Italici, Greci Italioti) e poi oltremare
(Greci delle poleis elleniche e dei regni ellenistici dalla Macedonia, all’Asia, alla Siria e infine
all’Egitto conquistato da Augusto). Egli constata che l’egemonia romana sia stata caratterizzata
da una capacità assimilatrice sulla base della giustizia e nel rispetto delle nazionalità
provinciali, certo idealizzata e in sintonia con la propaganda politica augustea, ma presaga di
una tendenza di accettazione e tolleranza, di instaurazione di relazioni commerciali che
perverranno a un vero e proprio monopolio della rotta mediterranea.
Neanche il razionalismo induce a rinunciare alla spiegazione provvidenzialistica del favore
degli dei accordato ai Romani per la loro pietas, motivo predominante nei libri ab Urbe condita
di Tito Livio: “da Sallustio a Tacito si stimava il fine del racconto dei fatti della moralistica
nella perdita del Mos maiorum.” (cfr. Benedetto Croce).
Nel I secolo a.C. le guerre civili che travagliano l’Impero romano sono un’infinità.
Ciononostante l’impero subisce un’espansione; pertanto è alquanto improprio addurre alla
decadenza dello stesso solo perché si registra una diffusione maggiore di ricchezza e opulenza.
La visione moralistica non coglie né intercetta i mutamenti radicali in atto nell’Impero romano.
Perciò la storiografia antica, ha forti deficit nell’analisi storica, ereditati in parte dalla
storiografia illuminista.
Fu duemila anni dopo Tucidide, quando la sua opera fu tradotta in latino da Lorenzo Valla
(Falsa donazione di Costantino) che lo storico dell’Atene periclea trovò in Nicolò Machiavelli
un teorico della mens politica, che egli condivise pienamente, applicandolo all’esegesi della
Ragion di Stato della sua epoca, come giustificazione ultima dell’agire del Principe
(parallelismo Guerra del Peloponneso e morte Alessandro VI).
Tuttavia mentre egli equivale per Machiavelli al cosiddetto protos aner (leader) che Tucidide
riconosceva in Pericle, guida carismatica e decisa, Francesco Guicciardini declinò in una
dimensione personalistica la genesi dell’interesse, ravvisando nel particulare, nell’interesse
privatistico, la causa dell’agire dello statista.
Nel Settecento, Vico (bocciato al concorso a cattedra) non supera la concezione ciclica e
organica della storia, per la quale un popolo segue le vicende di un organismo vivente, né
arriva a formulare o concepire il principio di etnogenesi, di converso egli si pone come il
fondatore della critica delle fonti di cognizione nel senso moderno.
La critica delle fonti si misura tanto col cammino delle scienze umanistiche quanto con lo
sviluppo tecnologico, al quale lo storico deve ricorrere per assolvere al suo compito di
valutazione e ricostruzione. Ciò dimostra pertanto come la storia s’inscriva in un quadro
multidisciplinare e parimenti interdisciplinare.
Nel XIX secolo la “casualità” dell’evoluzionismo darwiniano aveva demolito la visione
teleologica o finalistica della storia e lo stesso creazionismo nel dominio delle scienze naturali,
aprendo la prospettiva della moderna biologia: nel campo delle scienze umane, il teleologismo
della concezione storiografica romana finiva stroncato dagli esordi della moderna visione
“casualistica” della storia. Le dinamiche seppur casuali della selezione naturale sollecitavano
l’esigenza di salvare uno spazio, sia pure umano e non più divino, alla ragione e al criterio di
razionalità. Uno spazio occupato dal diritto pubblico, assurto a sola scienza della norma,
autonomo dalla storia e ad essa tanto superiore quanto più quella era espressione della casualità
invece che della causalità.

Paragrafo 3. Lo studio del diritto romano per la formazione dei giuristi (Concetti giuridici
fondamentali)
In Roma antica il diritto apparteneva fin dall’età arcaica alla sfera della conoscenza popolare ed
era strettamente connesso alla religione. Ius prima ancora che diritto, designa una salsa, che
amalgamava varie componenti alimentari, costituendo come un legante, quale il diritto è tra i
consociati della civitas (ius civile Quiritium) o tra gli uomini e gli dei (ius sacrum). La
medesima idea di legame è alla base del sostantivo “religione” (religio), l’insieme dei riti e
delle formule che consentono la comunicazione tra uomini e dei (poliadi), secondo una visione
di tipo contrattualistico. Il diritto è sussunto nella mentalità arcaica sotto la forma della
religione; ciò avvalora che i negozi giuridici sacramentali del diritto arcaico funzionino solo tra
romani.
Sapienza specialistica e riservata ab origine al ceto sacerdotale e massimamente al collegio
pontificio era ancor di più la giurisprudenza. I Romani, sebbene non siano stati gli inventori del
diritto in sé, si posero come fautori dell’interpretazione del diritto (interpretatio iuris) da parte
di esperti (prudentes) cui si dà il nome di iurisprudentia.
Lo studio storico del diritto costituisce una camera di osservazione dell’interazione tra società e
diritto e come tale, può fornire comparativamente il senso della relatività e convenzionalità
dei valori morali, sociali e politici, che nel diritto trovano codificazione fino al mutare,
graduale o traumatico, dell’assetto che li ha prodotti e disciplinati in un dato momento storico.
Tuttavia il diritto, in quanto complesso di norme-in Roma antica-orali, consuetudinari e scritte
posto dalla comunità “statale” (ius a civitate positum, perciò “diritto positivo”), costituisce un
sapere tecnico, dal quale scaturisce una vera e propria sapientia specialistica, quella
dell’interpretatio iuris. L’espressione degli interessi e degli assetti politici, economici, sociali
di una comunità è espressione stessa del diritto; l’applicazione rigorosa del diritto provoca
conseguenze ingiuste (summum ius summa iniuria).
Il principio di equità prevale nella mentalità romana sul principio di applicazione rigorosa del
diritto e della giustizia.
La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico non esiste nel diritto arcaico.
Noi la conosciamo grazie ad una massima attribuita ad Ulpiano, giurista vissuto durante
l’impero della dinastia dei Severi, ma ancor prima pronunciata da Cicerone,
“ius publicum est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum
utilitatem pertinet”.
- Il diritto pubblico è quello che riguarda la condizione dello stato romano;
- Il diritto privato è quello che pertiene all’utilità dei singoli.
Il diritto è uno strumento utilitaristico, non serve a fare giustizia necessariamente ma a
conseguire un utile. E l’utile della pace sociale può essere un utile più conveniente di una
giustizia feroce.
Paragrafo 4. Diritto e religione, evoluzione di Roma
Sussiste una stretta connessione tra diritto e religione della società arcaica romana, e tale,
possiamo considerare la società che va dalla fondazione di Roma anno tradizionale 753 a.C.
confermato dalle scoperte archeologiche, fino al IV secolo a.C. Questo è il periodo che
possiamo definire arcaico. Poi Roma a partire alla fine del IV secolo incomincia a entrare in
contatto con la civiltà più evoluta, quella greca, presente nell’Italia, più tardi detta Magna
Grecia con città come Reggio, Locri, Sibari Napoli, Metaponto.
Gli italici erano popolazione di lingua affine a quella latina, che occupavano la zona
dell’attuale Campania fino alla Calabria dove c’erano i Bruzi. In Basilicata c’erano i lucani e
gli italici erano chiamati in Campania appunto campani. Erano frammisti alle civiltà greche in
cui si erano infiltrati o che avevano addirittura conquistato ma non distrutto. Si erano ellenizzati
prima dei romani: la civiltà ellenistica non era una società agricola (rusticitas) come quella
romana, ma una società urbana in cui l’agricoltura era funzionale e finalizzata al mantenimento
delle città e del loro alto standard di vita.
La qualità della vita rievocava l’Epitafio di Pericle, quale eminente modello di civiltà urbana.
I romani avevano così mutuato lo stile di vita dei greci, importando anche attività culturali e
aggregative come il teatro, oltre alla progettazione degli spazi residenziali, pubblici e privati.
Ma il contatto con la civiltà ellenistica determinò, preminentemente, una discontinuità rispetto
alle convinzioni di una società persuasa che i negozi giuridici fossero assistiti dalle divinità
evocate dai riti sacramentali.
L’impatto sortito dall’immissione delle filosofie scettiche e epicuree, quest’ultima segnata dalla
trascendenza del logos, e dall’aborrimento della politica e della vita pubblica (lathe biosas), fu
dirompente per i romani, i quali non nutrivano una concezione fideistica o ideale del divino, ma
fattuale e reale.
Gli epicurei, i quali ritenevano che gli dei sì situassero nei cosiddetti metakosmia, nel loro
consequenziale rigoroso atomismo, avevano dimostrato che la materia fosse costituita da atomi.
In particolare Epicuro aveva riscontrato la consistenza atomica della materia con esperimenti;
osservava che le statue, i piedi degli dei nello specifico, che venivano continuamente sfregati e
baciati, si consumavano. Ne aveva dedotto con grande intelligenza che esistono particelle
minime, atomi che costituiscono la materia e con lo sfregamento si perdono. Mediante un
ragionamento di tipo logico-matematico egli era giunto alla conclusione che gli atomi fossero
costituiti da particelle subatomiche, legate da forze tanto coesive che niente potrebbe
dividerle”.
Un assunto di verità, una pretesa di scienza esulante dalla superstitio con cui si qualifica la
religione.
Le religioni antiche non sono caratterizzate dall’ortodossia ma dall’ortoprassi che inerisce
all’importanza primaria del compimento del rito pubblico, scevro dal contenuto di fede.
La religione di Stato è pertanto una religione sociale. L’influenza degli epicurei non attiene
quindi la sfera dell’esteriorità per il paganesimo, basato appunto sull’ortoprassi.

Capitolo I. La monarchia
Paragrafo 1. Fonti per la ricostruzione della storia istituzionale romana
Nella civitas arcaica anche i negozi giuridici del diritto privato erano orali. Solo molto più
tardi si sarebbe introdotta la scrittura con valore probatorio (attestazione in caso di
contestazione o impossibilità, per morte, irreperibilità, lontananza o altro, di escutere i
testimoni), restando alle parole il valore costitutivo (il valore di porre validamente in essere
l’atto giuridico).
Le consuetudini consacrate dalla tradizione degli avi (mores maiorum), costituivano le leggi
non scritte regolanti i rapporti sociali. La memoria era un’arte, tramandata pubblicamente.
Stando a Cicerone (De oratore) il pontefice massimo (ultimo pontefice P.Mucio Scevola nel
114 a.C.) avrebbe annualmente esposto una tavola imbiancata dove, sotto il nome dei consoli di
ciascun anno, erano segnalati gli eventi degni di memoria.
Solo alla metà del V secolo si ebbe il primo corpus di leggi scritte, le XII Tavole, anch’esse
comunque distrutte sessant’anni dopo nell’incendio gallico del 390 a.C. Comunque, si suppone
che già nel IV secolo a.C. una raccolta scritta degli eventi antichi sia stata in qualche modo
compilata e diffusa, in quanto sul finire del III e II secolo già i primi annalisti recepiscono una
tradizione sull’età monarchica sufficientemente omogenea da far presumere l’esistenza di
una vulgata ormai prevalente. Furono costoro i primi storici di Roma, a partire dal III secolo,
che anno per anno trascrivevano gli avvenimenti memorabili, con manipolazioni non dolose
operate sulla tradizione orale in funzione dell’appartenenza di ciascuno all’uno o l’altra
famiglia patrizia. Gli annalisti sposarono la versione antiplebea e filopatrizia della storia arcaica
di Roma, cui apportavano, con scarso acume storico, quei cambiamenti ritenuti necessari alle
finalità politiche delle famiglie d’appartenenza. Essi disponevano degli Annales Maximi
Pontificum, redatti e tenuti dal collegio pontificale con l’annotazione annuale degli eventi
rilevanti e ne conservarono la struttura annuale, andando ad intaccare la possibilità di
individuazione di nessi di causalità. Per sopperire a vuoti storici della memoria, o per interesse
politico, o per razionalizzare alla luce dell’esperienza contemporanea dati che apparivano
incomprensibili perché afferenti a una realtà storica o politica non più esistente, l’annalistica
non si fece scrupolo di alterare le informazioni di cui disponeva. La redazione più completa di
liste magistratuali risale all’incirca al 30-29 a.C., grazie all’opera di Tito Pomponio Attico,
amico e corrispondente di Cicerone. I Fasti consolari e trionfali, le liste dei consoli e dei
generali vittoriosi in guerra, furono da lui redatti per incarico di Ottaviano e iscritti nel suo arco
trionfale sulla via sacra, eretto per la vittoria di Azio.
La monarchia latino-sabina fu in definitiva edificata con caratteri di “democraticità”,
opposti all’autocrazia attribuita alla monarchia etrusca; il cui avvento a Roma, certamente
dovuto a una occupazione militare, per quanto possibile fu presentato come pacifico, per non
ferire l’orgoglio nazionale romano.
Paradossalmente, non furono gli annalisti ma i poeti a ricercare per primi le cause della
grandezza romana. La prima opera storica non fu infatti storiografica, ma epica: il Bellum
Punicum di Nevio, poema composto nella seconda metà del III secolo a.C., fondeva le mitiche
origini di Roma, sul modello dell’epos omerico, alla storia recente, ravvisando
nell’ottemperanza della Romana religio la causa del favore divino e del successo militare.

Paragrafo 1.2 La fondazione di Roma e la monarchia latino-sabina


Il “concentramento storico”. L’origine di Roma è connessa nella leggenda al ciclo di Enea, il
principe troiano figlio di Venere, che sarebbe vissuto nel XII secolo. Egli perse la moglie
Creusa nell’incendio d’Ilio ma ne trasse in salvo il vecchio padre Anchise, il figlioletto Ascanio
detto Iulo e il Palladio, la sacra statua di Atena venerata nella città distrutta: sbarcato in Italia
sulla costa laurentina, sarebbe stato ospitato dal re Latino e sepolto a Lavinium, la città da lui
fondata in ricordo della seconda moglie, Lavinia. Lì dal IV secolo a.C. sorse un heroon, un
santuario monumentale nel quale i Romani credevano fosse sepolto Enea, ma che è in realtà la
ben più recente tomba di un capo del VII secolo. Se si pretendeva che Enea avesse fondato
Lavinium1, Ascanio-Iulo avrebbe fondato Alba Longa e dato così origine alla dinastia, i cui
ultimi re, Amulio e Numitore, sarebbero appartenuti alla gens Silvia: il secondo sarebbe stato
nonno di Romolo e Remo, i gemelli “figli della vergine”, la vestale Rea Silvia e Marte.
Una tradizione colloca, secondo la cronologia varroniana, al 21 Aprile nel 753 a.C. la
Fondazione di Roma da parte di Romolo, il quale dal suo il nome della città. Ma la tradizionale
scienze etimologica di tende che sia Romolo a derivare da Roma: eroe eponimo sarebbe stato
escogitato proprio perché del nome Roma si ignorava l’origine e il significato. Alcuni autori
come Plutarco conservano memoria che ruma significasse mamma: e oggi la linguistica ha
dimostrato Romulus derivi dall’etrusco ruma, nel significato appunto di mammella1.2.
Per l’eroe eponimo la tradizione assegnava l’istituzione delle tre tribù (tribus) originarie che,
sulla base di superficiali assonanze, si credette corrispondessero a tre distinti elementi etnici
della primigenia civitas: i Ramnes ai romani, i Tities ai Sabini del re Tito Tazio correggente di
Romolo dopo il ratto delle Sabine, i Luceres agli Etruschi, nella cui lingua il rex si diceva fosse
chiamato luchume e i cui monarchi della dinastia dei Tarquini portavano il praenomen
personale di Lucius2, dal che si traeva la falsa etimologia. Oggi la critica storica è propensa a
postdatare all’età della monarchia etrusca la ripartizione in tribus e curiae della
popolazione di Roma, certamente finalizzata in origine al reclutamento dell’esercito. Non v’è
dubbio che le prime tre tribus siano state istituite in rapporto alla formazione della cavalleria
(equitas) in età etrusca, poiché le turmae dei cavalieri portavano esattamente i nomi di Ramnes,
Tities e Luceres. Alle tre tribù originarie si aggiunsero 4 tribù urbane, recanti il nome dei colli
di ubicazione, Palatino, Suburra, Esquilino e Quirinale, il Collis per antonomasia. E’ tra la fine
del VI e l’inizio del V secolo, all’inizio della respublica, che furono probabilmente aggiunte
altre 17 tribù rustiche, progressivamente fino al numero massimo di 31, rispondenti a una
sorta di ripartizione catastale del contado.
Poiché si congettura che le tribù fossero in origine raggruppamenti di famiglie patriarcali legali
da vincoli di parentela, è chiaro che i contingenti armati che esse fornivano avessero un
carattere tribale, che fu però strutturato dagli Etruschi nell’organizzazione di un vero e proprio
esercito, articolato in un’unica legione di 3000 pedites e 300 equites.
Se elementi etruschi ebbero parte nella fondazione ciò non lasciò questa traccia nella memoria
annalistica e la leggenda dell’età dei Tarquini sul fondatore di Roma si formò in sostanza
indipendentemente dalla realtà storica, per soddisfare istanze politiche degli occupanti etruschi
nei loro rapporti coi Romani nel VII-VI secolo.
Come Romolo era stato concepito miracolosamente, così una credenza radicata nel popolo
voleva che non fosse mai morto, ma asceso al cielo con tutto il corpo mentre passava in rivista
l’esercito, assunto tra gli dei immortali col nome di Quirinus, da cui si pretendeva discendesse
la denominazione dei Romani come Quirites. In realtà populus Romanus Quiritium indicava
l’essenza politica del popolo organizzato in curiae, termine che deriva per contrazione da co-
viriae: riunione di uomini. Per la tradizione le curiae erano suddivisioni gentilizie delle tre
tribus, e ciascuna tribus ne possedeva 10. Esse servivano a trarre leva per l’esercito, sulla cui
base si eseguiva il censimento della popolazione, e deliberavano votando nelle riunioni
assembleari dette comitia curiata.
Ma i moderni attribuiscono l’organizzazione in tribù e curie alla monarchia etrusca piuttosto
che a quella latino-sabina. Il collegamento con l’epiclesi Quirinus è una falsa etimologia
mediante cui si volle dare una spiegazione logica che colmasse la sopravvenuta ignoranza delle
origini. Gli auspici tratti da Romolo per la fondazione della città osservando in competizione
con Remo il volo degli uccelli (ornitomanzia), e l’uccisione del fratello perché aveva osato
valicare il solco sacrale (pomoerium) da lui tracciato con l’aratro a delimitare il Palatino, sono
tutti episodi avulsi dall’annalistica, appartenenti all’oralità e concordemente narrati dalle fonti.
Esse divergono su quali fossero i primitivi sette colli: i nomi canonici Aventino, Campidoglio,
Celio, Esquilino, Palatino, Quirinale, Viminale subirono varianti nella tradizione. Se è da
escludere la pretesa che Roma sia sorta dal nulla per il solo atto della fondazione, visto che la
valle del Tevere era abitata con villaggi sparsi dal XIII secolo, sarà invece da accettare che essa
fosse dovuta alla vocazione commerciale del sito attraversato dal fiume (fenomeno del
sinecismo)3.
Secondo la concezione della paradigmaticità dei numeri sacri, come sette erano stati i colles
della città, così la tradizione orale e annalistica trasmisero una lista “canonica” di septem reges,
che avrebbero coperto un periodo dal 753 al 509 a.C., collocando nel 616 a.C. l’inizio della
monarchia etrusca dei Tarquini. Uno spazio così vasto che indusse Vico a pensare che vi fosse
stata un’omissione di alcuni re. A parte Romolo, in verità s’è propensi a ritenere che i nomi dei
re latino-sabini siano autentici, senza che naturalmente la storicità di tali nomi comporti
automaticamente che quanto loro attribuito dalla tradizione lo sia altrettanto. Le riforme loro
attribuite rispondono al criterio “sistematico” detto del “concentramento storico”:
l’assunzione, secondo un criterio di logica retrospettiva, di tutte quelle azioni confacenti alla
figura che se ne andava costruendo.
In tal modo al fondatore si riferiva la distinzione tra patrizi e plebei, ma sul criterio della
nobiltà di sangue; a ciascun civis Romolo avrebbe assegnato in piena proprietà individuale
(dominium), secondo l’esclusivo ius Quiritium, l’heredium, appezzamento di terra destinato
alla coltivazione familiare, trasmissibile per eredità e inalienabile. Il territorio della civitas
sarebbe stato costituito da subito da ager publicus populi Romani. Esso veniva concesso non
in piena proprietà (dominum ex iure Quiritium) ma come teoricamente temporaneo e
revocabile. Tuttavia, nella degenerazione socio-politica dello sfruttamento economico della
terra, la possessio finì per consolidarsi come una forma di proprietà de facto, anche se non de
iure: si cominciò ad introdurre un canone di fitto, totalmente sperequato rispetto al reale valore
della terra. Così la possessio dell’ager publicus da parte dei patrizi si tramutò in un privilegio
di casta sempre più iniquo e perfino illecito, quando neanche l’irrisorio canone veniva più
corrisposto, ai danni della plebe. Oltre alla possessio Romolo avrebbe conferito ai patrizi anche
il monopolio della costituzione del senatus. Invece i comizi (comitia) avrebbero raccolto
l’intera popolazione maschile organizzata in centurie. Il senato sarebbe stato costituito da 100
patres gentium, ovvero dai capi più anziani dei clan allargati (gentes), che si riconoscevano
nell’obbedienza a un solo patriarca (pater gentis) da parte dei singoli capi delle famiglie
mononucleari costituenti la gens. I discendenti dei patres si sarebbero detti appunto patricii, ai
quali erano riservate le cariche pubbliche.
Anche i comitia sono precorsi dalla tradizione all’età latino-sabina e comunque presentati come
organizzati sulla base di 10 curie per ciascuna tribù, per un totale di 30 (comitia curiata): si
credeva che nei comizi romulei il voto del ricco avesse la stessa valenza di quello del povero. A
tale assemblea la tradizione attribuiva funzioni fondamentali: alla morte del rex, un interrex
nominato dal senato avrebbe espresso il designato alla successione e l’avrebbe sottoposto alla
ratifica (lex curiata de imperio) dei comizi curiati. A questo proposito Livio tramanda che
fossero i patres a ratificare l’elezione; inoltre, ai comizi curiati sarebbe spettata una sorta di
“giurisdizione d’appello”, massima garanzia per il cittadino romano: il giudizio ultimo
(provocatio ad populum) sui crimini che contemplassero una pena capitale già comminata in
primo grado. Le leggi pubbliche (leges publicae populi Romani) sarebbero state proposte e
approvate in ottemperanza ai pareri richiesti al senato (senatus consulta) dal magistrato che si
faceva promotore del disegno di legge. Infatti il rex sarebbe stato soggetto a una sorta di
verifica periodica del suo operato da parte del senato, e in caso di dissenso gli sarebbe stata
concessa la facoltà di abdicare (regifugium). In realtà quel che è certo è che tale responsabilità
del rex costituisce un carattere costruito ad hoc dall’annalistica 4, da contrapporre al principio di
“irresponsabilità costituzionale” attribuito all’accentuazione delle caratteristiche autocratiche
della monarchia etrusca.
I dati sopra elencati, che i Romani pensavano di conoscere sebbene siano state avanzate in
merito molte riserve, costituiscono il frutto di arbitrarie deduzioni dal poco che delle curiae
sopravvisse in età storica: la loro emblematica rappresentanza da parte di 30 littori, che
presenziavano alla cerimonia della lex curiata de imperio, con la quale si sanciva formalmente
l’elezione dei magistrati repubblicani forniti di imperium, consoli e pretori, eletti dai comizi
centuriati, che già in età arcaica sostituirono definitivamente quelli curiati. Si tratta pertanto di
una retrospettiva proiezione di istituzioni e prassi repubblicane all’età regia.
Come a Romolo si attribuivano le istituzioni fondanti della civitas, così, secondo la concezione
del “concentramento storico”, a Numa Pompilio, si assegnavano quelle religiose, coi più
importanti collegi sacerdotali, talvolta con palesi anacronismi, dettati dall’intento di tali collegi
e soprattutto dei Pontefici di nobilitare le proprie origini facendole risalire al secondo re. Ma a
Numa si attribuiva assai meno credibilmente anche la ripartizione del populus Romanus in
mestieri. Quest’ultima iniziativa è stata interpretata come una sorta di “zonizzazione”,
consistente in una dislocazione dei mestieri in quartieri artigianali specializzati, una sorta di
sviluppo protourbano della civitas. Le leggi di re Numa sarebbero state ispirate dalla divinità;
ma la pietas del pacifico Numa non avrebbe preservato i Romani dalla guerra. Infatti,
l’egualitarismo romuleo dei comizi curiati “interetnici” avrebbe consentito il prevalere degli
istinti del popolo: il principio “un uomo=un voto- aborrito dall’annalistica di estrazione
nobiliare- avrebbe così favorito l’elezione di Tullo Ostilio, il quale avrebbe scatenato la guerra
coi vicini Sabini e Latini, e che sarebbe perito nell’incendio della sua reggia. Vi sono varie
versioni dell’accaduto: la più accreditata riconduce la responsabilità al successore di Tullo
Ostilio, Anco Marcio, nipote di Numa. Egli fondò la colonia di Ostia e stabilì le norme rituali
per indire il bellum iustum, moralmente giustificato e perciò garantito dalla benevolenza delle
divinità poliadi; benché aristocratico, re Anco avrebbe raddoppiato i membri del senato con
l’introduzione di famiglie plebee.
Si viene così a strutturare la peculiare fisionomia costituzionale della civitas romana, la quale
si distingue dalla polis perché afferma su base censitaria il peso del voto nei comizi; ma la
civitas si discosta anche dalla spur, dove la plebe (etera) è in posizione preservile.

Nota 1. Atellana satirica della sacra famiglia di Enea, rappresentata con teste da cane e un fallo
pendulo Fallace discendenza della gens Iulia da Enea per assonanza con Iulo.
Nota 1.2. Da ricordare a proposito la statua della Lupa capitolina, la cui datazione è incerta. Si pensa
che la lupa risalga al V secolo, mentre i gemelli siano di epoca medievale.
Nota 2. Sistema onomastico: (praenomen-nomen gentis-cognomen).
Nota 3. Il racconto leggendario sul ratto delle Sabine, il cui popolo occupava il Quirinale, è connesso
al sinecismo.
Nota 4. Sull’attendibilità dell’annalistica è doveroso denotare il pensiero della scuola ipercritica, la
quale respingeva tout court le fonti da essa pervenute. A onor del vero, è altrettanto importante
sottolineare come la critica neotestamentaria sia di recente sviluppo, precisamente dalla metà
dell’800, periodo di instaurazione del positivismo.
Paragrafo 1.3. La civiltà etrusca arcaica e la sua influenza su Roma
Si assiste in età arcaica, nelle civiltà mediterranee, dapprima all’emergere di un nuovo ceto
sociale arricchitosi ma sfornito della nobiltà di sangue, poi al suo partecipare alla costituzione
degli eserciti cittadini con l’acquisto dell’armamento individuale di fanteria. Ciò conduce a un
mutamento delle tattiche di combattimento e delle strategia di guerra: la fanteria oplitica
manovra ben diversamente dalla cavalleria. I pedites si muovono in formazioni serrate, alzando
di fronte al nemico un antemurale di scudi da cui fuoriescono le lance, con tecniche di
combattimento solidali e collettive: i posti lasciati vuoti dai caduti vengono subitaneamente
rimpiazzati.
Cosicché questo ceto emergente, emarginato dalla condivisione del potere politico
monopolizzato dalle oligarchie dominanti, ben presto si riconosce in un tyrannos nel mondo
greco, o in un macstr in quello etrusco-latino: cioè un dittatore che fonda la sua legittimazione
sulla “volontà popolare”, vale a dire sul consenso dei ceti subalterni. Per la maggioranza dei
casi, nei generazione susseguente ai primi tiranni, le città ne depongono i figli e successori e
instaurano regimi democratici, caratterizzati dalla capacità decisionale delle assemblee
popolari.
La conquista di Roma da parte degli Etruschi è stata avvolta da una nube deformante nella
rappresentazione annalistica di età repubblicana, tesa ad attenuare una realtà che ledeva
l’orgoglio nazionalistico di una civitas avviata al dominio del mondo. Non essendo possibile
negare la realtà storica del dominio etrusco a Roma, esso fu presentato come l’affermarsi
pacifico di elementi di quel popolo, affine ai Romani. Ma la presenza a Roma di elementi
etruschi è anteriore alla data tradizionale del regno di Tarquinio Prisco e permane dopo la
cacciata del Superbo. La civiltà etrusca finì per conferire ai romani alcuni istituti fondanti nella
sfera del diritto sacro, pubblico e della sfera politica, l’imperium, il massimo potere, fornito di
coercitio, del rex prima e dei magistrati repubblicani poi. Alcuni termini del lessico politico
sembra siano etruschi e son giunti fino a noi. Sono di origine etrusca i sostantivi derivati da
macstr-; si sospetta che dall’etrusco fufluns derivi il latino populus. Infine i littori e i fasci
littorii adottati in età moderna in Francia e in Italia durante il Fascismo sono per gli Etruschi
come per i Romani simboli dei poteri regi o magistratuali: la potestas, il potere civile che
comportava i fasci senza scudi, e l’imperium i cui fasci possedevano la scure. L’origine etrusca
del fascio littorio romano è affermata dallo storico del I-II secolo Floro e nel poema storico
Punica, Silio Italico ne attribuisce l’invenzione ai Vetuloniesi.

1.4 La monarchia etrusca: i due Tarquini e Servio Tullio (I parte)


Tarquinio Prisco, come il nome dichiara, era nato a Tarquinia da Demarato di Corinto, un
aristocratico fuggito dalla sua patria e da una nobile etrusca del luogo: il nome Lucio Tarquinio
Prisco lo avrebbe assunto recandosi a Roma, mutando il nome originario di Lucumone, che
nell’etrusco luchume designa il più alto magistrato cittadino; egli sarebbe stato accolto bella
reggia di Anco Marcio. Ma alla morte del re (616 a.C.), ne avrebbe approfittato per
impadronirsi del regno, deludendo le attese dei successori di Anco. Viene così edulcorato
l’avvento di una dinastia etrusca a Roma, che in realtà è il frutto di una conquista militare.
Poiché Tarquinio Prisco avrebbe assunto illegittimamente il regno, si voleva che a lui
risalissero quei segni esteriori di un accentuato potere civile e militare che i Romani
mutuavano dalla civiltà etrusca: il serto o corona di alloro, incoronava il rex e più tardi i
triumphatores duces, la sella curulis era lo scranno del re e successivamente dei soli magistrati
patrizi, il mantello di porpora sarebbe stato portato a Roma prima dai censori repubblicani nella
forma della toga purpurea e quindi dagli imperatori. I lictores erano in origine la “guardia del
corpo” del rex, che scortavano portando un certo numero di verghe o bastoni legati (da cui ligo,
lego), che potevano essere distribuiti ai sodales per proteggere il monarca da una folla ostile.
A questa funzione pratica venne ben presto a sostituirsi un valore paradigmatico: la scorta dei
littori e i fasci finirono col rappresentare la dignitas monarchica e più tardi, dall’età
repubblicana, anche la “delega di sovranità popolare” conseguita dai magistrati regolarmente
eletti dai comizi centuriati per esercitare la potestas o l’imperium1 per l’anno di carica.
Nell’ambito di tale simbologia allusiva, i fasci dotati di scure connotarono l’imperium, che il
magistrato esercitava esclusivamente nelle province conquistate. Così le scuri applicate ai fasci
finirono col distinguere i magistrati dotati del potere di coercizione (coercitio) in patria
(imperium domi), privo del ius gladii, cioè del diritto di comminare la pena capitale,
dall’imperium militiae, quel potere militare che si esercitava invece fuori di Roma per
governare i popoli assoggettati.
A stigmatizzare il carattere dispotico posto in evidenza dai fasci littori nel regno di Tarquinio
Prisco, si voleva che egli non avesse mai convocato né il senato né i comizi; ancorché gli si
attribuiva il raddoppio delle centurie di cavalieri e l’immissione nel senato di 100 membri
asserviti, che lo avrebbero reso un organo ligio ai suoi voleri.
Una sorta di rivalsa dell’elemento indigeno si sarebbe avuta col suo successore Servio Tullio,
che la tradizione romana voleva esser stato un latino e magister equitum degli alleati
nell’esercito di Prisco. Egli sarebbe nato, per gli autori romani, nella reggia di quest’ultimo da
Ocrisia; ella avrebbe dato al neonato il nome di Servio per la sua condizione servile e Tullio
perché era il nomen del padre. Ma l’imperatore Claudio, che fu un vero e proprio etruscologo,
ci ha tramandato, nella sua oratio del 48 d.C.2, una versione etrusca ben differente: si
asserisce l’identità del sesto re di Roma col personaggio che nelle vicende dei fratelli Vibenna
viene identificato col nome di Mastarna e che avrebbe assunto quello di Servio Tullio dopo
essersi impadronito del colle di Roma, che avrebbe chiamato Celio dal nome del suo sodalis
fidelissimus Celio Vibenna.

Nota 1. La potestas è la facoltà di sancire obblighi o diritti, a favore dello Stato, esprimendo la
propria volontà personale, mediata da quella della società, in qualità di pubblico ufficiale.
L’imperium è il medesimo genere di potere, ma corroborato dalla coercizione.
Nota 2. L’iscrizione bronzea, mancante della parte superiore, conosciuta come Tabula Lugdunensis
conserva, redatto su due colonne, il discorso che Claudio fece per perorare l’ammissione dei primores
della Gallia Comata in senato.

Approfondimento paragrafo 1.4: la tomba Francois


Nel 1857 Alessandro Francois scoprì a Vulci gli affreschi della tomba etrusca che da lui è
denominata: essi si datano nella seconda metà del IV secolo a.C. e coincidono in parte con la
narrazione di Claudio, rappresentando una serie di duci e principi etruschi, che ne sterminano
altri, per liberare Celio Vibenna tenuto prigioniero (secondo il criterio di corrispettività degli
affreschi).
Ciascun personaggio è accompagnato dall’iscrizione del suo nome: possiamo riconoscere
Mastarna che taglia i legacci alle mani di Celio Vibenna portandogli una spada e i suoi
compagni nell’impresa Larth Ulthes, Rasce, Aulo Vibenna che uccidono rispettivamente Laris
Papathnas di Volsini, Pesna Arcmsnas di Sovana e Venthi Caules di Salpino. Infine una scena
sulla parete angolare alla principale rappresenta un Marco Camillo che sguaina la spada contro
un atterrito Cneo Tarquinio di Roma. Gli aggrediti sono rappresentati tutti mentre si svegliano
di soprassalto, avvolti in un’ampia tunica orlata di porpora, ad indicarne il rango regale: essi
sembrano sorvegliare il prigioniero Celio. I personaggi che non si avvertì l’esigenza di
designare col polinomio sono ritenuti vulcenti. Alle tre città alleate di Roma appartengono i
soccombenti aristocratici, designati, come Cneo Tarquinio, dalla tipica onomastica bimembre
(praenomen personale+nomen gentis), i quali indossano una tunica orlata di porpora. Solo
Cneo Tarquinio ha una toga candida, il che ha fatto indurre a considerare che egli non fosse
uno dei due regnanti di tale famiglia, ma un altro appartenente alla stessa: s’è infatti pensato
che fosse figlio di Lucio Tarquinio Prisco.
Personaggi come Cneve Tarchunies ci sono sconosciuti, poiché il suo praenomen non è né
quello di Prisco né del Superbo, entrambi Lucii. L’epos dei fratelli Vibenna è variamente
illustrato nell’arte figurativa del V secolo, ma la testimonianza storicamente più importante è
un piede di vaso graffito col nome di Aulo Vibenna, trovato come ex voto nel santuario di
Minerva a Veio: si tratta di un reperto, che reca l'iscrizione "mini muluva[an]ece avile
vipiienas”, praticamente contemporaneo a quella che a Roma è l’età serviana, il quale
testimonia la storicità dell’epos.
La raffigurazione storica della liberazione di Celio Vibenna è dipinta di fronte alla scena del
sacrificio, per mano di Achille, dei prigionieri troiani all’ombra di Patroclo.
Poiché i Troiani erano ritenuti i progenitori dei Romani, ciò allude a una vittoria dei Vulcenti
sui Romani che tenevano prigioniero Celio Vibenna. Ma i Romani sono qui rappresentati da
uno Gneo Tarquinio Romano, che si iscrive come etrusco in una coalizione di duci di città
etrusche contro i Vulcenti. La scena di Marco Camillo, che aggredisce Gneo Tarquinio
Romano è stata collegata alla tradizione che vuole Tarquinio Prisco ucciso dal figlio spodestato
di Anco Marcio: ma Marce è un praenomen individuale e il suo nomen gentis è Camitlnas,
mentre Marcus è un gentilizio il cui praenomen è Ancus; inoltre, i due Tarquini re di Roma
avevano praenomen Lucius e non Cnaeus. Dunque non v’è esatta corrispondenza tra la
versione romana e quella etrusca. Si pensa comunque che l’aggressione di Marce Camiltnas a
Cneve Tarchunies Rumach sia rappresentata come una lotta fratricida dall’esito vano, nel senso
che né uno né l’altro regneranno su Roma. Infatti la loro rappresentazione è corrispettiva alla
scena greca dei fratelli Eteocle e Polinice, che si uccidono reciprocamente nella guerra per
regnare su Tebe (tragedia Sofocle).
Mastarna è scritto nell’affresco della Tomba Francois come Macstrna: questo nome
nomembre, mancante di gentilizio, è in realtà un nome di funzione divenuto nome personale.
Infatti il suffisso –na designa in etrusco l’idea di sottoposizione, subalternità o appartenenza.
Dunque, egli era l’attendente di Celio Vibenna. Dove egli sia tenuto prigioniero nella
raffigurazione non si comprende irrefutabilmente, ma si è pensato a Roma. Certamente la
liberazione di Celio e l’aggressione a Cneo Tarquinio è compiuta in un contesto di alleanza tra
quest’ultimo e i principi di Volsini, Sovana e Sapino. Tutti questi principi sono dotati sia di
praenomen che di gentilizio, mentre Mastarna e Rasce non dovrebbero condividerne il rango.
Quest’ultimo doveva essere celeberrimo, una sorta di eroe nazionale al pari di Romolo, poiché
l’iniziale del suo nome Ras- è la stessa che qualifica l’etnico del suo popolo.
La versione etrusca della “presa di Roma” sembra più fededegna delle versioni romane che per
motivi di orgoglio nazionalistico hanno alterato la realtà degli eventi storici, mutando la
penetrazione etrusca in una benevolente accoglienza. Si trattò di una vera e propria conquista
militare, che introdusse ob torto collo elementi dell’aristocrazia etrusca nella società romana.
Possiamo concludere che “la presa di Roma” da parte di Mastarna-Servio Tullio è
contestualizzata in un’epoca di rivolgimenti sociali con l’affermarsi di ceti subalterni che si
alleano in “compagnie di ventura” con elementi socialmente emarginati e membri
dell’aristocrazia delusi nelle loro aspettative; l’avvento di Mastarna si colloca nel fenomeno di
emersione sociale del ceto popolare.

1.4. La monarchia etrusca: i due Tarquini e Servio Tullio (II parte)


A Servio Tullio l’annalistica amò attribuire quelle riforme e garanzie civiche che, nella sua
ottica aristocratica apparivano democratiche, come la ripartizione censitaria della popolazione
nei comitia centuriata, cioè l’organizzazione dei comizi in centurie, cui si accedeva in base alla
ricchezza. Sulla stessa base Servio avrebbe riorganizzato l’esercito, valorizzando la fanteria,
rispetto al prisco ruolo prevalente della cavalleria aristocratica. Alcune istituzioni, che più tardi
costituirono il cardine del sistema repubblicano, si sarebbe sancita la lex curiata de imperio:
egli avrebbe infatti istituito le 4 tribù urbane, aggiungendovi un certo numero di tribù rustiche,
futura ossatura costituzionale dei comitia curiata.
Servio Tullio sarebbe stato abbattuto da Tarquinio il Superbo: già gli autori romani, come
rammenta Claudio nel suo discorso in senato del 48 d.C., non erano sicuri se il Superbo fosse
figlio o nipote di Tarquinio Prisco. Ma alcuni storici moderni hanno sospettato che egli ne
costituisca uno “sdoppiamento storico”: il personaggio sarebbe unico, ma la tradizione avrebbe
attribuito al primo tutte le virtù, al secondo tutti i vizi del tiranno. L’uccisione di Servio Tullio
da parte di Tarquinio il Superbo sarebbe coerente col contesto di ostilità che nella Tomba
Francois è rappresentato tra Mastarna-Servio Tullio e Cneo Tarquino Romano il quale
appartiene certamente alla dinastia.

1.5. Fine della monarchia etrusca e primordi della respublica


Quel che dalla leggenda certamente si evince come elemento storico è che l’abbattimento
dell’ultimo Tarquinio fu opera di una congiura di palazzo, o meglio ancora, di una congiura
interna alla stessa famiglia. La tradizione vulcente, mostrando uno Gneo Tarquinio ma non
regnante e soccombente, in quanto veste una tunica non orlata di porpora, presuppone una per
noi sconosciuta vicenda di conflitti all’interno della dinastia: le due tradizioni concordano solo
nel ricordo che nella famiglia dei Tarquini si svolsero lotte tra consanguinei per il regnum. I
due congiurati che deposero il Superbo, Marco Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino,
sarebbero divenuti i primi consoli della respublica, ma subito Collatino fu mandato in esilio
perché appartenente suo malgrado all’odiato nome dei Tarquini. Giunio Bruto cadde
combattendo contro il Superbo, che cercava invano di riconquistare il trono chiedendo l’aiuto
di Lars Porsenna, lucumone di Chiusi.
S’inserisce a questo punto la leggenda di Muzio Scevola (Cremuzio Cordo), che avrebbe
attentato alla vita di Porsenna mentre questi assediava Roma: condotto di fronte a lui, avrebbe
impavidamente bruciato la mano destra che avrebbe fallito, suscitando così l’ammirazione del
lucumone. Questi avrebbe allora ribaltato l’alleanza e abbandonato Tarquinio, attaccando quei
Latini che s’erano ribellati a seguito della sua cacciata e ora gli davano ospitalità. Comunque,
esiliato Collatino e caduto Giunio Bruto, unico console della neonata Repubblica sarebbe stato
eletto Publio Valerio Publicola. Publio sarebbe andato ad abitare per un certo tempo nella
reggia della Velia, ciò che, insieme all’iterazione del consolato è sicuro indizio del persistere
dell’istituzione monarchica sotto mutate spoglie. Le fonti, certamente manipolate
dall’annalistica, concordano nel mostrare un’immediata successione della coppia consolare
“canonica” alla cacciata di Tarquinio il Superbo. Diversi e concomitanti indizi ci fanno invece
comprendere che la cacciata del Superbo non coincise né con la fine della monarchia come
istituzione, né con la fine della presenza etrusca. Il sia pur temporaneo dominio di Porsenna
su Roma è dimostrato dal ricorrere dei nomi di gentes etrusche, e forse di origine chiusina,
nelle liste consolari posteriori al 509.
In tale tradizione, quel che può ritenersi storicamente credibile, quanto meno per un criterio di
verosimiglianza, è che Tarquinio si sia rivolto a Porsenna per essere restaurato sul trono, ma
che questi, impadronitosi di Roma, abbia preferito tenerla per sé; e inoltre che la crisi dinastica
dei Tarquini abbia consentito alle città latine sottomesse di rendersi indipendenti e, di fronte al
pericoloso dinamismo di Porsenna, di accogliere lo stesso Tarquinio e la sua fazione in
funzione antiromana e antichiusina (sconfitta di Porsenna ad Aricia da parte del Malaco).
In questo quadro, con la dissoluzione del grandioso disegno di Porsenna di unificare la
presenza etrusca nel Lazio e nell’Italia centrale con gli etruschi stabilitisi in Campania, la
tradizione annalistica fa succedere immediatamente la diarchia consolare alla deposizione del
Superbo.
Ciò non significa però che la tradizione sia integralmente falsa, ma solo che i dati istituzionali
sono stati alterati per adattarli a una visione, che contrapponeva nettamente le
caratteristiche costituzionali del potere regio a quelle dei poteri magistratuali
repubblicani. Così alla durata vitalizia della carica regia si contrapponeva l’annualità del
consolato, alla monocraticità la diarchia e il principio di collegialità1, all’irresponsabilità del
rex la responsabilità del magistrato repubblicano alla fine dell’anno in carica, all’imperium
illimitato del rex, il limite della provocatio ad populum2, riconosciuta come diritto inalienabile
a chi subiva una condanna da parte del magistrato. Non per questo, come ha fatto la scuola
ipercritica, possiamo dubitare della storicità di Publio Valerio, ma solo credere ch’egli
dovette esercitare un potere monocratico per un certo tempo, come la sua dimora nella reggia
della Velia fa presumere. La scuola critica, come detto, ne aveva invece posta in dubbio anche
l’esistenza storica perché la tradizione gli attribuisce il cognomen in Publicola: nel VI secolo i
cognomina personali (nomi individuanti) non erano ancora adottati, e per di più Publicola è
letteralmente un “cognomen parlante”, che significa “protettore del popolo”. Ma una iscrizione
arcaica trovata a Satricum restituisce una dedica a Marte da parte dei sostenitori di Publio
Valerio, che ormai è generalmente datata intorno al 500 a.C., piuttosto che al 450. L’invenzione
annalistica si limitò all’attribuzione del cognomen Publicola, quale protettore del popolo in
opposizione alla tirannide del Superbo. Ma i marzili sodales di Publio Valerio attestati
epigraficamente dimostrano come egli fosse un oligarca circondato da una cospicua guardia
armata di sostenitori, probabilmente costituiti in collegium, un genere di organizzazione
politica privata o comunque una consorteria gentilizia, che sotto la monarchia doveva essere
stato represso a favore dell’organizzazione centuriata e civica dell’esercito “serviano”.
La crisi dell’autocrazia monarchica dopo il 509 consentì certo il riemergere delle
organizzazioni gentilizie romane per diversi decenni: infatti, i Fabii che esercitarono il potere
“consolare” dal 485 al 479 costituirono un esercito esclusivamente gentilizio con cui
aggredirono la confinante città etrusca di Veio. Ma la loro strage nel 477 da parte dei Veienti
dovette costituire un punto di non ritorno nel risorgere di questi eserciti di clan familiari e
clientes. Prese così a riaffermarsi un’organizzazione militare civica, rispondente ai criteri di
“egualitarismo oligarchico”. S’è visto inoltre come la carica monocratica del re non si estinse
subito e si suppone abbia gradatamente perduto le sue caratteristiche, a partire dalla durata
vitalizia e dalla responsabilità. Quando la carica regia divenne temporanea, la carica apicale
della respublica divenne diarchica, le funzioni sacrali del re, legate alla monocraticità e alla
durata vitalizia, furono ereditate da un apposito sacerdote chiamato rex sacrorum, cui era
riconosciuto un altissimo rango istituzionale, quale garante della pax deorum ma alla quale era
interdetta quella carriera politica, consentita invece all’altra carica sacerdotale a vita: quella del
pontifex macimus. In tal modo, all’unica carica che portava il nome di rex, insopprimibile per il
terrore delle innovazioni (metus rerum novarum) nella sfera religiosa, si vietava in assoluto di
poter acquisire una dimensione politica nella gestione del potere.

Nota 1. Principio per il quale il console non condivideva la potestas e l’impeium col collega, ma ne
era titolare per intero, con la conseguenza che, in caso di dissenso tra i due colleghi, l’uno poteva
paralizzare l’azione dell’altro opponendogli un divieto di procedere (intercessio).
Nota 2. Una sorta di prerogativa del civis Romanus a ricorrere in appello ai comizi per vedere
confermata o abrogata da un’assoluzione la sentenza di condanna pronunciata dal magistrato in
carica.
Nota 3. Alcibiade, più che il prototipo del politico della pólis, fu un impolitico, fu colui che
“scavalcava la pólis” ponendosi in uno stato di superiorità rispetto alle istituzioni. Caso esemplare in
questo senso furono gli eventi della spedizione in Sicilia del 415 a.C., da lui incoraggiata, che aprì la
seconda fase della Guerra del Peloponneso, e che portò Atene ad intervenire militarmente in soccorso
di Segesta. Il ceto politico dominante decise di nominare stratego per il comando dell’operazione
Nicia, superstizioso e timoroso dal carattere mite, perché temeva l’ambizione e l’imprevedibilità di
Alcibiade. fu denunciato come responsabile della mutilazione delle sacre effigi di Hermes poste ai
crocicchi della città, accusato di empietà per aver parodiato e rivelato in una festa privata
“nell’ebbrezza del vino” – riferisce Plutarco – il più elevato, autorevole, e sacro rito religioso
dell’antichità: i Misteri Eleusini.
Per sottrarsi al processo, dapprima Alcibiade si rifugiò a Turii (città calabra fondata dallo zio
Pericle sul sito della distrutta Sibari) con la scusa di fare rifornimento; poi fece perdere le sue tracce,
rifugiandosi in Elide e, infine, a Sparta (generale Gilippo). Ad Atene fu condannato a morte in
contumacia.
Capitolo II. Formazione e sviluppo della respvublica
Paragrafo 1.1. Struttura e funzioni elettorale e legislativa dei comitia centuriata e tributa e
concilia plebis tributa
In origine i comitia centuriata, la cui istituzione si attribuiva a Servio Tullio, erano sorti in
rapporto alla leva dell’esercito: questo, adunato in concione per ascoltare il rex o il magister
populi nell’imminenza della guerra, aveva finito per riunirsi al fine di assumere anche decisioni
diverse da quelle militari. Così dalla riunione degli uomini atti alle armi, s’era andata formando
l’assemblea popolare dei cives Romani adulti (Quirites), che continuavano a riunirsi nella sede
originaria del reclutamento, il Campo Marzio, situato fuori le mura della città. I comitia
centuriata riunivano l’intera popolazione di estrazione plebea come patrizia tra i 17 e i 60 anni:
dai 45 ai 60 si avevano i seniores, dai 17 ai 44 i juniores. Il rapporto dei comitia centuriata con
l’esercito venne gradatamente ad attenuarsi, fino a scomparire, con la specializzazione delle
funzioni civili di quell’assemblea popolare, restando puramente formale nel persistere delle
denominazioni originate dall’ordinamento politico.
Il criterio di computo dei voti dei comitia centuriata, ma anche la loro composizione e
ripartizione, rivelano la profonda differenza “ideologica” dell’ordinamento politico della
respublica rispetto alla costituzione democratica delle poleis: infatti la maggioranza non veniva
computata dalla somma dei vori espressi individualmente, ma dalla somma dei voti delle
centurie. Ciascuna centuria non contava lo stesso numero di votanti, ma i seniores erano
privilegiati e ne bastava 1/3 rispetto ai juniores per costituire una centuria. La prima centuria
votante (praerogativa) era estratta a sorte dalle prime 6 fra le 18 degli equites: appena finito di
votare, il risultato veniva computato in base allo spoglio dei voti individuali e la maggioranza
conferiva la sua scelta all’intera centuria.
Le successive votavano e venivano spogliate con lo stesso sistema e potevano farsi
suggestionare dal voto della centuria praerogativa, perché la sua estrazione a sorte era
ritenuta segno della volontà divina. Questo sistema subì dei cambiamenti in un’età anteriore al
resoconto che Cicerone nel De republica riferisce del nuovo metodo: questi si rilevano nel
dimezzamento delle centurie delle fabri chiamate a votare con la I classe dei pedites, che
passano da 2 a 1; poi nella riduzione della I classe di pedites da 80 a 70. Rimasto intatto il
totale di 193 centurie, il nuovo sistema, con 35 centurie di seniores e altrettante di juniores
adeguò la struttura dei comitia centuriata alle 35 tribù, limitando anche “il prepotere dei
più abbienti”.
Ma, ad onta della limitazione del “prepotere dei più abbienti”, ciò che più rileva nel giudizio di
Cicerone è quanto esso sia sintomatico della Weltanschauung oligarchica: la concezione
ideologica del mondo cui è informato il sistema di votazione: una partecipazione socialmente
controllata dalla realtà delle clientele e dal monopolio tradizionale e tradizionalista delle
magistrature da parte di poche decine di famiglie appartenenti alla nobilitas.
I comizi centuriati eleggevano gli auspicia maiora, cioè i consoli, i pretori e i censori: i
comizi tributi eleggevano invece gli edili e i questori; i concili plebei, che furono riconosciuti
dopo la secessione sull’Aventino nel 471, eleggevano i tribuni della plebe e gli edili plebei.
L’aspirante della magistratura era detto candidato perché perorava la sua elezione con
un’arringa vestito di toga candida. In principio riceveva un voto d’approvazione o rigetto, poi
si passò a un’elezione vera e propria su una lista di candidati con voto palese. Gli scrutatori
deputati al controllo delle operazioni, oltreché allo spoglio, erano chiamati nongenti sive
custodes, persone ragguardevoli che esercitavano funzioni di custodia delle ceste fino al
termine delle operazioni. Esse si svolgevano in quel di Campo Marzio; vi erano approntati
tramite transenne lignee corridoi attraverso i quali gli elettori in fila procedevano verso la
tribuna degli scrutatori.
Le elezioni si svolgevano sempre qualche mese prima della scadenza del mandato dei
magistrati in carica, alla fine dell’anno. Quando il magistrato superiore-console o pretore,
designato (nominatus) prendeva possesso, alle kalende di gennaio, della carica conferitagli dai
comizi centuriati, riceveva l’investitura formale del suo imperium: si definiva allora creatus.
Tale investitura gli era conferita dagli antichi comizi curiati attraverso la lex curiata de imperio.
La votazione sulle leggi avveniva innanzitutto con la presentazione di una rogatio, o proposta
di legge da parte del magistrato. Una volta approvata la legge veniva detta rogata. L’affissione
della proposta di legge era chiamata promulgatio, termine che non ha dunque in latino lo stesso
valore tecnico di promulgazione, che indica oggi la pubblicazione della legge già approvata e
destinata a entrare in vigore. L’iniziativa della convocazione spettava sempre ai magistrati: il
ius agendi cum populo ai ricordati auspicia maiora e al didactor, il ius agendi cum plebe ai
tribuni plebis, sia in caso di votazione su una legge o in caso di elezioni. La lex si apriva con la
praescriptio, introduzione comprendente il nome del magistrato proponente, l’assemblea che
aveva votato l’approvazione, la data di votazione, la centuria prerogativa e infine il civis che
aveva votato.
Seguiva il vero e proprio testo della lex, identico alla rogatio, poiché non erano consentiti
emendamenti. La legge era conclusa da una sanctio, che non va fraintesa quale clausola
sanzionatoria per la violazione della legge stessa, ciò che era previsto nella rogatio. Essa
regolava, con apposite disposizioni, i rapporti e soprattutto i potenziali conflitti che
insorgessero tra la disciplina statuita dalla legge vigente e quelle anteriore, e conteneva inoltre
la previsione di eventuali divergenze anche con norme che fossero approvate in futuro. Dal
riconoscimento civico del tribunatus plebis derivò anche quello delle assemblee plebee, i
concilia plebis tributa, che persero così la loro natura rivoluzionaria, legata per tradizione alla
prima secessione della plebe sul Monte Sacro nel 494 ma dai moderni rapportata piuttosto alla
seconda sull’Aventino. Inoltre l’importanza dei concilia plebis tributa crebbe anche perché
base di reclutamento dell’esercito divennero le tribù. Il dato rilevante è che la votazione
secondo le tribù nei comitia tributa diminuiva la rendita di posizione di cui l’oligarchia
senatoria godeva grazie al sistema di voto dei comitia centuriata: infatti, poiché si procedeva
alla votazione e allo spoglio non dell’intero corpo elettorale, ma della singola unità votante, che
era la centuria nei comizi centuriati e la tribù nei comizi tributi.
Le assemblee popolari costituirono uno degli elementi portanti di quel sistema repubblicano,
ch’era apparso al greco Polibio come una sapiente “costituzione mista” tra monarchia,
aristocrazia e democrazia.

Paragrafo 1.2. Il senato in età repubblicana


I senatori, fino alla metà circa del IV secolo, furono esclusivamente patricii, nome connesso a
patres, che era l’esatto equivalente di senatores, nome connesso a senex. Resta in discussione
se si trattasse solo di patres gentis, di patriarchi delle organizzazioni gentilizie comprendenti
varie famiglie o padri di una famiglia mononucleare. Ma quando, a seguito del conflitto
patrizio-plebeo nel V-IV secolo, anche i plebei furono annessi alle magistrature, gradatamente
fu loro aperto altresì l’accesso al senato. Nella seconda metà del III secolo l’accesso agli ex
magistrati plebei era ormai diventato ordinario. I nuovi arrivati erano detti conscripti, ma nel
tempo la solidarietà di classe portò alla formazione di una nobilitas patrizio plebea coesa. Ma
non tutti avevano lo stesso peso: all’interno del consesso solo gli auspicia maiora svolgevano
un ruolo decisionale. Infatti, l’ordine gerarchico degli interventi durante la discussione finiva
regolarmente con l’emarginare quanti avessero rivestito magistrature inferiori. L’ordinamento
gerarchico interno al senato finì dunque col ricalcare l’ordo certus gerendorum honorum, cioè
la progressione prestabilita della carriera pubblica delle magistrature civiche. Princeps senatus
era il più anziano tra gli ex censori, quindi seguivano gli ex consoli, poi i viri pretorii, gli
aedilicii, i tribunicii, i quaestorii.
In un sistema affidato a magistrature di durata annuale e col potere supremo limitato dal
principio di collegialità e disperso nella molteplicità e specializzazione funzionale delle
cariche, il senato emerse come l’organo di continuità del governo e competenza nelle scelte di
politica legislativa, di fronte agli organi assembleari come i comizi e i concili plebei, i cui
componenti non erano certo dotati di preparazione diplomatiche e politiche. Dal III secolo si
pose perciò un problema del tutto nuovo: governare e amministrare i territori conquistati
oltremare, a partire dalla Sicilia e dalla Sardegna, al quale si diede il nome di provinciae.
Provincia designava in origine la sfera di competenza in senso astratto, inclusa l’eventuale
iurisdictio del magistrato, ma il termine aveva finito col radicarsi col territorio in cui il
magistrato esercitava le sue funzioni. L’imperium del console o del pretore cessava con l’anno
di carica; il senato provvide allora a prorogarlo di un anno (prorogatio imperii) inviando l’ex
console o pretore a governare una provincia oltremare in qualità di proconsole o propretore.
Solo in età imperiale il senato assunse in senso proprio una funzione legislativa, quando le sue
deliberazioni formalmente consultive acquistarono valore di legge, quasi a compensare la
deminutio del tradizionale ruolo di direzione politica che quest’organo aveva avuto in età
repubblicana. Nella concezione paternalistica della respublica, il popolo era considerato quasi
affetto da minorità e pertanto i patres si erano arrogati tale funzione di supervisione della legge
prima della promulgazione. Si vuole però che nel 339 a.C., due leges Pubililiae Philonis
abbiano trasformato l’auctoritas da ratifica della legge, rispettivamente dei comizi centuriati o
dei concili plebei tributi, in un’autorizzazione preventiva alla proposta del magistrato.
Ciononostante l’auctoritas preventiva non acquisì valore vincolante divenendo una sorta di
atto dovuto, e al più conseguendo l’effetto di modifiche alla proposta di legge. Dall’altro canto
il senato disponeva di una propria espressione di volontà normativa, il senatusconsultum, cui fu
sempre riconosciuta indiscussa autorità.

Paragrafo 2. Le prime due secessioni plebee


Il principio di egualitaria ripartizione e distribuzione del potere era insito nelle concezioni
aristocratiche nel mondo greco come in quello romano-italico. Naturalmente l’esercizio di tale
potere, nella concezione patrizia, era riservato all’aristocrazia. Il principio di eguaglianza
(isonomia) di coloro che condividono il diritto di cittadinanza, non si fonda sull’idea astratta di
egalitè: il senso pratico e la ritrosia dall’astrazione teorica portavano i Romani a costruire la
respublica prendendo atto della realtà di diseguaglianza naturale, sociale, economica fin dal
momento della nascita. La democrazia era concepita in dimensione compensativa. Quanti
detenevano ricchezze e godevano del tradizionale monopolio nella candidatura alle
magistrature politiche dovevano provvedere con le proprie sostanze alle necessità della civitas,
pagando una summa honoraria all’erario al momento dell’elezione.
Non bastava, comunque, la nobilitas sanguinis per candidarsi alle magistrature: questo
requisito doveva essere avvalorato dai comizi attraverso l’elezione, che riconosceva
l’eccellenza di un candidato sugli altri in competizione. Il ricorso, dal IV secolo, ai proletarii,
con l’acuirsi dei conflitti e con l’espansione di Roma nel Lazio e in Etruria, e poi in Magna
Grecia, rese la plebe cosciente della propria funzione e desiderosa prima di limitare
l’esclusione dai diritti politici e civili, poi di condividere la candidatura alle magistrature. Per
quanto concerne le fonti di ricchezza, se la plebe restò sostanzialmente esclusa dai latifondi, il
commercio divenne un suo privilegio, poiché i pregiudizi sociali, di cui la legge si faceva
espressione, inibivano ai senatori l’esercizio di tali attività. I nuovi plebei detentori di ricchezze
“non convenzionali” cominciarono a pretendere la più plurale condivisione dei vantaggi e della
partecipazione alla vita politica.
Probabilmente permanevano, almeno fino al V secolo, anche differenze etniche tra patrizi e
plebei, come fa sospettare l’estraneità dei plebei all’organizzazione gentilizia, il divieto di
connubium e il fatto che la sua violazione fosse ritenuta una sorta di congiunzione bestiale e
indegna del genere umano (concubitus ferarum ritu), circostanza che si spiega normalmente nel
mondo antico con la contrazione del matrimonio tra appartenenti allo stesso rango.
Oltre alla esposta tesi della differenza etnica, v’è anche una afferente alla dottrina più antica già
tra il Sette e l’Ottocento: che i plebei fossero i clientes dei patrizi. Con tale termine si
designavano le turbe di cui, in età repubblicana, si circondavano i nobili secondo un rapporto di
dipendenza sociale e politica.
La plebe restava di fatto esclusa dalle assegnazioni di ager publicus, la cui nuda proprietà
spettava alla respublica, ma la cui possessio erano dovuti a chi ne avesse necessità. La plebe
rurale era dirotta alla coltivazione di appezzamenti ottenuti dal patriziato, sufficienti appena per
la sussistenza; questo determinava legami di assoggettamento coi patrizi concedenti la terra, i
quali se ne servivano come massa di manovra elettorale, allorquando si candidavano alle
magistrature civiche.
Nel 494 si sarebbe avuta la prima secessione della plebe sul Monte Sacro, con l’istituzione di
due tribuni, incaricati di difendere gli interessi della plebe. Nel 471 si sarebbe avuta la seconda
secessione, questa volta sull’Aventino e il numero dei tribuni sarebbe raddoppiato.
Che l’elezione dei tribuni sia stata in funzione della plebs urbana è dimostrato dal limite
territoriale del loro potere, che cessava subito fuori dall’Urbe. E’ possibile che le 17 tribù
rustiche siano state istituite nel 495 per evitare il concentrarsi dei plebei nelle 4 urbane,
incrementandone l’indipendenza politica; le secessioni sul Monte Sacro costituirebbero una
risposta della plebe urbana alla manovra depotenziatrice posta in essere dal patriziato.
Nel 486 si unirono al foedus anche gli Ernici, ma nel 477 Roma subì una dura sconfitta da parte
dell’etrusca Veio, con cui più tardi stipulò una tregua ventennale. L’annalistica rappresenta le
rivendicazioni della plebe nelle due secessioni come motivate da ragioni eminentemente
afferenti alla distribuzione agraria e al pagamento dei debiti, con conseguente esecuzione
personale sull’insolvente, fino alla riduzione in schiavitù o l’elevazione del ius vitae ac necis.
Tuttavia è stato giustamente osservato che le rivendicazioni economiche non avrebbero molto
significato prima della conquista del territorio di Veio nel 396 e che la situazione dei debitori
non era migliorata neanche con la promulgazione delle XII Tavole: pertanto si è pensato a una
proiezione retrospettiva delle ragioni del conflitto patrizio-plebeo manifestatesi più tardi,
dal IV al II secolo a.C., coi contrasti legati alle leggi agrarie e all’attenuazione dell’esecuzione
per insolvenza del debitore.
Secondo Tito Livio il tribunato della plebe, e la magistratura minore dell’edilità, cui era
deputata la cura degli edifici sacri alle divinità plebee e il controllo dei mercati, furono sanciti
da leges sacratae, riconosciute come inviolabili dai soli plebei. Con esse si stabiliva che la
plebe avesse propri magistrati, ai quali competesse la facoltà di assistere la plebe contro i
consoli. Così ai tribuni viene riconosciuto uno ius intercessionis che consente loro di sottrarre
il plebeo, e più tardi il civis tout court, all’arbitrio del magistrato, fosse anche il console. Il
fondamento della potestas dei tribuni era l’azione popolare, o meglio plebea. Essi non erano
affatto fornita di imperium ma erano garantiti dalla sacrosantitas: chi attentasse alle loro
persone era ritenuto homo sacer, consacrato alle divinità plebee, vittima che chiunque poteva
impunemente uccidere.
Quel che nell’iniziativa sorta dalla secessione aventiniana colpisce è non tanto la sua natura e
carica rivoluzionaria, quanto il fatto che una funzione così eversiva dell’ordinamento civico
oligarchico sia stata concepita e inverata in termini rigorosamente istituzionali, frutto di una
progettazione organica dei rapporti politici e del corpo sociale. La condivisione di tale visione è
del resto insita nell’apologo di Menenio Agrippa (il quale avrebbe convinto a recedere dalla
secessione la plebe con l’argomento anatomico della civitas) e spiega perché il conflitto tra le
parti non sfociò in una guerra civile. Difatti, come la plebe sviluppò in forma di autotutela la
lotta politica, così l’oligarchia finì con raggiungere compromessi, cercando magari di sabotare
le istituzioni plebee.

Paragrafo 2.2. Il Decemvirato e le XII Tavole


Le rivendicazioni sulla libertà personale dei debitori insolventi e sull’abolizione del divieto di
connubium coi patrizi sono disattese nel testo che ci è stato tramandato. E già tale circostanza
pone il problema dell’affidabilità della tradizione su questa legislazione, la prima compilazione
organica codificata su varie materie: forme del processo privato, delle obbligazioni e dei
contratti, diritti di successione, tutela, rapporti di vicinato, limitazioni del lusso. Tant’è che
sembra più verosimile che la redazione scritta di un corpus legislativo sia stata in sé e per sé
oggetto di rivendicazione da parte della plebe, per sottrarre all’arbitrio dei patrizi e
massimamente del Collegio dei Pontefici, l’applicazione di un diritto quasi esclusivamente
orale e pertanto facilmente eludibile e adattabile da parte di chi esercitava il monopolio
dell’attività processuale.
Al di là degli elementi leggendari 1, la maggioranza della dottrina moderna riconosce la
veridicità storica sia alla commissione decemvirale che al testo delle XII Tavole. Scritte su
lastre di bronzo e esposte pubblicamente, furono distrutte dall’incendio gallico del 390 e il loro
testo è stato tramandato da molteplici fonti.

Nota 1. Richiesta nel 462 dal tribuno Terentilio Arsa, la redazione di leggi scritte sarebbe stata elusa
fino al 451, quando una commissione triumvirale sarebbe stata inviata ad Atene a studiare le leggi di
Solone, uno dei sette savi legislatori. Questa tradizione è stata ritenuta infondata così come l’esegesi
che dietro il nome di Atene si celi un rapporto con Turi, l’odierna Sibari. Si tratta di un ripiego non
confortato da somiglianze tra il contenuto delle XII Tavole e la legislazione greca. La commissione
patrizia di decemviri legibus scribundis ottenne l’elezione di una nuova commissione nel 450,
presieduta da Appio Claudio, della quale entrarono a far parte anche i plebei. La seconda
commissione avrebbe aggiunto altre due Tavole, ritenute inique, alle dieci precedenti, senza sottoporle
all’approvazione comiziale. Appio Claudio viene rappresentato con tratti tirannici e un suo cliente
avrebbe rivendicato la bella e giovane Virginia come schiava, col disegno di metterla a disposizione
del suo patrono. Al padre della fanciulla non sarebbe rimasto altro rimedio che ucciderla per salvarne
la verginità. La leggenda riprende il topos dello stupro di Lucrezia da parte del figlio di Tarquinio il
Superbo e costituisce la cornice significante della degenerazione tirannica.

Paragrafo 2.3. Nuovo equilibrio sociale e politico nella seconda metà del V secolo
La plebe conseguì alcuni successi politici negli anni immediatamente successivi: cessò
definitivamente la funzione legislativa dei comizi curiati e il ruolo di approvazione delle leggi
si trasferì ai comizi centuriati e tributi. Nel 449 una delle leggi Valerie Orazie avrebbe
riconosciuto nell’ordinamento la sacrosantitas dei magistrati plebei, ovvero che: “chiunque
nuocesse ai tribuni della plebe, agli edili, ai giudici decemviri fosse sacrificato a Giove, e che il
suo patrimonio fosse venduto presso il tempio di Cerere, Libero e Libera.”
Sulla storicità del preteso “ripristino” della diarchia consolare nel 449, dopo il decemvirato
legislativo vi sono fondati dubbi: infatti la stessa tradizione ammette che nel 444 furono eletti
tre tribuni militari con potere consolare aumentati fino a sei nel 406, probabilmente con lo
scopo di dare maggiore sfogo all’imbuto ristretto del cursus honorum patrizio.
In questo quadro di fermento istituzionale si avvertì la necessità di conoscere sistematicamente
la consistenza della popolazione per la leva militare e per l’imposizione tributaria. Così nel 443
furono istituiti i censori, magistrati cui competeva il census, cioè la valutazione patrimoniale
dei cives e la loro iscrizione nei tribus territoriali. Alla fine del censimento, che avveniva ogni
quinquennio, i censori celebravano il lustrum, la rituale purificazione del popolo; più tardi i
censori assunsero anche funzioni di controllo della moralità pubblica e privata dei cittadini, da
cui discendeva un importante atto politico compiuto ogni cinque anni: la lectio senatus, cioè la
conferma o l’espulsione per indegnità dei membri del senato. La censura si collocava al di
sopra del cursus honorum, costituendone il massimo coronamento sociale e politico.
Paragrafo 2.4. Emancipazione della plebe dopo la vittoria su Veio
Nel 396 a.C. la conquista di Veio segna l’inizio dell’espansionismo romano che
inesorabilmente finirà col portare dell’Etruria e delle popolazioni italiche dell’Italia
centromeridionale, entrando in contatto già alla fine del IV secolo con la più settentrionale delle
poleis della Magna Grecia: Napoli. Ciò comportò la distribuzione individuale di 7 iugeri non
solo a tutti i cives aventi diritto, plebei inclusi, ma anche ai filii familias, cioè a figli ancora in
potestate del pater o dell’ascendente: la plebs rustica che lavorava nei latifondi patrizi in
condizione clientelare, presto si affrancò dal suo status di subordinazione e divenne
coltivatrice diretta. I latifondisti contavano di far ricorso al lavoro servile in sostituzione della
manodopera agricola libera, ma la vendita della popolazione veiente ridotta in schiavitù non fu
sufficiente a fornire al patriziato fondiario romano la manodopera necessaria, con la
conseguenza della coattazione dei debitori insolventi, nei cui confronti le XII Tavole avevano
ribadito l’esecuzione personale. I debitori erano distinti in addicti e nexi di cui il creditore
disponeva liberamente: i primi erano assegnati al lavoro in base alla pronuncia del magistrato, i
secondi in base a un’obbligazione personale, che lo prevedeva espressamente in caso di
inadempimento. Così, paradossalmente, la conquista di Veio finì con l’accentuare il conflitto
sociale, rendendo l’escussione dei debitori insolventi il problema politico centrale nelle
tensioni interne del IV secolo. Se il successo dell’espugnazione di Veio sortì effetti nel
dinamismo sociale, politico, istituzionale, esso fu ben presto traumaticamente offuscato dalla
conquista di Roma ad opera dei Galli, a comando di Brenno, nel 390. Per escogitare una
giustificazione politicamente utile alla sconfitta romana, la tradizione pontificale oligarchica ne
attribuì tendenziosamente la causa alla violazione dei riti religiosi da parte dei plebei,
riversando sul ceto sociale antagonista la presunta responsabilità della sconfitta. Ciò fece
scaturire nei Romani il cosiddetto metus Gallicus, il terrore dei Galli, ma anche dal timore
dell’oligantropia, la crisi demografica. Dal canto suo la tradizione orale, prim’ancora che
l’annalistica, si sforzò di compensare con l’epos la cocente umiliazione di Roma, sottoposta da
Brenno al tributo, che il dittatore Marco Furio Camillo, eletto per la bisogna, e accorso furente
a fermare Brenno, si voleva avesse eroicamente recuperato. La ripercussione politica della
conquista gallica fu il dissolversi del foedus Cassianum e la fine dell’alleanza coi federati
Latini e Ernici. Solo un quindicennio dopo la conquista di Veio e dieci anni dopo il disastro
gallico, nel 380, i tribuni militum consulari potestate esercitarono decisamente l’auxilii latio, la
facoltà di portare aiuto alla plebe; la reazione dell’oligarchia senatoria non si fece attendere, e
benché nel 379 i tre tribuni militum fossero tutti plebei, chiaro effetto politico della
deliberazione dell’anno precedente, furono eletti tribuni di esclusiva estrazione patrizia.
Ma il rimedio fu per i conservatori peggiore del male: nel 377, le leggi Licinie-Sestie
stabilirono un programma sociale organicamente mirato all’autosufficienza economica e
all’autonomia politica dei ceti emarginati. La prima legge limitava a 500 iugeri, la possessio
dell’ager publicus, con ciò colpendo la formazione del latifondo patrizio a spese dello Stato; la
seconda istituiva quello che chiameremmo divieto di anatocismo, cioè la maturazione degli
interessi sugli interessi del debito, e inoltre deduceva dall’importo del capitale gli interessi
debitori già pagati, e rateizzava il resto in tre soluzioni. La terza legge stabiliva l’obbligatorietà
che in ciascun anno uno dei due consoli fosse plebeo. Infine nel 367 fu ripristinata la diarchia
consolare e si procedette all’istituzione della pretura come magistratura riservata ai patrizi,
con competenze processuali e di amministrazione della giustizia, che venivano sottratte ai
consoli. Il pretore veniva ad affiancarsi ai consoli, che da questo momento assunsero
certamente tale denominazione.

Paragrafo 2.5. Civitas optimo iure e sine suffragio


La sapienza diplomatica di Roma si esercita nelle avversità e a Cere, in riconoscimento non
dell’attuale politica, ma dell’ospitalità del 390, viene conferita nel 353 una nuova forma di
alleanza, che sarà poi sperimentata su larga scala nel sistema federativo romano: la civitas sine
suffragio. Si trattava di una cittadinanza priva soltanto dei diritti politici, priva dell’elettorato
attivo e passivo, ma che consentiva di accedere al ius connubii e al ius commercii, il diritto di
contrarre matrimonio e di avvalersi delle forme solenni, comportanti pienezza di efficacia
giuridica, del ius civile Quiritium, esperibile solo tra cittadini romani. Alla latina Tusculum
verrà concessa con l’alleanza la civitas optimo iure, la piena cittadinanza romana.
Sotto l’aspetto politico Roma matura in quest’arco di tempo un programma diplomatico e
amministrativo empirico, su cui fonderà l’efficace sistema del proprio dominio. Esso può
compendiarsi nelle espressioni emblematiche divide et impera, parcere subiectis, debellare
superbos. Il trattamento dei vinti e degli alleati viene nettamente differenziato anche per
scongiurare il formarsi di comunioni di interessi e rendite di posizione tra i popoli soggetti.
Agli alleati vengono elargiti foedera aequa su un assoluto piano di parità delle due parti,
oppure foedera iniqua, in cui Roma è pars leonina ed esige tributi e contingenti navali o
terrestri ausiliari in caso di guerra.

Paragrafo 2.6. Ordinamento delle coloniae e dei muncipia


Le coloniae civium Romanorum sono costituite da cittadini romani e riproducono il sistema
politico-costituzionale di Roma, rette da duoviri iure dicundo e duoviri aedilicia potestate; ai
coloni delle coloniae Latinae viene dato il ius Latii. Tuttavia restano loro preclusi i diritti
politici e le garanzie processuali di ogni sorta. Altra forma di insediamento sono municipia, i
quali non costituiscono nuove fondazioni, bensì la trasformazione politico-istituzionale di
preesistenti città non romane, cooptate e assimilate nel sistema tramite un processo di
romanizzazione.
Sia le coloniae che i municipia posseggono organi cittadini e magistratuali: organi collegiali
sono le assemblee centuriate e tribute, il senato locale, detto anche ordo decurionum e i suoi
membri; magistrature sono la censura, la questura e il tribunato.

Paragrafo 3.1. Caratteri delle magistrature


Caratteri salienti delle magistrature, che ne determinano le facies sino alla fine dell’età
repubblicana sono:
1) il principio di irresponsabilità nel corso della carica, per cui al magistrato si può chiedere
conto del suo operato solo a fine mandato;
2) la temporaneità del mandato elettorale, abitualmente annuo, ad eccezione della dittatura, in
origine semestrale, del tribunato della plebe, la cui durata era di 18 mesi e della censura
quinquennale.
3) l’onorarietà, vale a dire la gratuità per le funzioni avocate.
Per questo la magistratura è detta anche honor, perché il rivestire la carica pubblica era
considerato un onore e come tale non retribuito. Erano i magistrati, una volta eletti, a pagare
all’erario la summa honoraria; inoltre, essi adempivano alle pollicitationes, mantenendo le
promesse fatte durante la competizione elettorale, di elargizioni e distribuzioni, banchetti,
costruzioni di edifici.
I Romani non operarono categorizzazioni concettuali dei caratteri delle magistrature, ma
conobbero trattazioni de officis, opere in cui i giuristi trattavano i compiti e le funzioni inerenti
alle singole magistrature. Il sostantivo magistratus appartenente alla IV declinazione, designa
in latino sia la carica che in italiano si traduce “magistratura” sia la persona che la riveste e che
noi definiamo “magistrato”. Ma mentre “magistratura” e “magistrato” indicano oggi chi
amministra la giustizia nell’esercizio della giurisdizione civile, penale e o amministrativa, a
Roma magistratus indicava la carica politica di governo intesa genericamente: cioè il
magistrato eletto, con durata annuale, nei comitia centuriata o nei concilia plebis tributa. La
carriera magistrale era chiamata cursus honorum o anche ordo certus gerendorum honorum,
cioè “carriera degli onori” oppure “ordinamento prestabilito del modo di accedere alle
magistrature e gestirle”. Le magistrature che erano nell’ordo (in ordine) erano il consolato, la
pretura, l’edilità curule e plebea, il tribunato della plebe, la questura, di norma annuali, salvo il
tribunato che durava 18 mesi. Per rivestire la magistratura superiore bisognava avere già
esercitato quella inferiore. La magistratura poteva essere iterata ripresentando la propria
candidatura, ma si finì con lo stabilire un intervallum, sia per l’iterazione che per l’ascesa.
L’ordine d’ammissione per gradus alle cariche pubbliche era consuetudinario ma per evitare
violazioni nell’età dell’emergere di potentati familiari e di condottieri in grado di prevalere
nella scena politica, nel 180 a.C. fu approvata una lex Villia annalis che sancì la progressione
di carriera. Più tardi nel decennio 80-70 a.C. Lucio Cornelio Silla s’impadronì dello Stato come
dictator legibus scribundis et reipublicae costituendae per restaurare quell’egualitarismo
oligarchico. Silla fece perciò promulgare nell’81 a.C. una lex Cornelia de magistratibus che
stabilì: l’età minima per candidarsi a ciascuna magistratura; inoltre il divieto di iterazione,
cioè di candidarsi alla stessa magistratura nell’anno successivo alla scadenza della carica
ricoperta; l’intervallum decennale per il consolato.
L’elezione degli auspicia maiora, cioè delle sole magistrature più elevate che potevano trarre
gli auspici, consoli, pretori e censori, era riservata ai comizi centuriata, mentre ai concilia
plebis tributa competeva l’elezione dei tribuni e degli edili plebei. Gli edili curuli e gli altri
magistrati minori erano eletti dai comitia tributa. Magistrature extra ordinem, cioè
straordinarie in quanto fuori dall’ordine, cui si faceva ricorso in situazioni eccezionali o
particolari, furono il dictator, il magister equitum, il decemvirato legislativo del 451-450, il
triumvirato di età graccana e più tardi il triumvirato rivestito da Ottaviano, Antonio e Lepido.

Paragrafo 3.2. Poteri e funzioni delle magistrature repubblicane


Tutte le magistrature erano fornite di potestas, il potere del magistrato di creare diritti o
determinare obblighi per la civitas pronunciando la propria volontà, comportante:
- Ius edicendi: potere di pubblicare editti rivolti a tutto il popolo, contenenti il programma
generale di governo del magistrato o disposizioni specifiche scaturenti dalla sua funzione;
- Ius agendi cum populo o cum plebe: diritto di convocare ed eventualmente presidiare i
comitia centuriata tributa o i concilia plebis tributa sia ai fini elettorali sia per la votazione
delle leggi e dei plebisciti;
- Ius consulendi senatum: facoltà di interrogare il senato chiedendogli di deliberare un
senatusconsultum in materia nella quale il magistrato intendeva agire nel proprio ambito di
competenza.
Alla potestas non era inerente il potere di coercitio, nel senso che non disponeva di una forza
pubblica direttamente e specificamente ai suoi ordini per l’esecuzione coattiva. Tale forza era
prerogativa delle sole magistrature dotate anche di imperium, il consolato e la pretura.
L’imperium comportava infatti, oltre ai poteri inerenti alla potestas, anche la coercitio, e dava
non solo il diritto alla scorta dei littori ma anche della sella curulis.
Le magistrature ordinarie erano collegiali, costituite cioè da almeno due membri che
detenevano indiviso il potere inerente alla carica. Il ius intercessionis o diritto di opporre il
veto discendeva come conseguenza del principio di collegialità; in caso di disaccordo si poteva
solo paralizzare l’iniziativa del collega attraverso l’intercessio. L’intercessio poteva essere
opposta anche a magistrati di grado inferiore ma solo per concorrente competenza, cioè in
attività condivise con il magistrato superiore, come per esempio il diritto di convocare
un’assemblea, mentre il principio gerarchico non operava mai all’interno della sfera di attività
esclusiva di ciascuna magistratura. Vi era una sola eccezione: unicamente ai tribuni plebis,
grazie alla loro tribunicia potestas, spettava il diritto di opporre l’intercessio non soltanto al
collega ma anche da altri magistrati e altresì di rango superiore, a tutela dei diritti della plebe.

Paragrafo 3.3. Le singole magistrature del cursus honorum


La questura. La magistratura di grado meno elevato, quella con cui si iniziava il cursus
honorum in senso proprio, era la questura. Il nome quaestores ne indica le originarie funzioni
inquisitorie. Dapprima in numero di due, scelti dai consoli come segretari del processo penale, i
questori, quando i consoli si recavano in guerra, li accompagnavano amministrando la cassa per
il pagamento delle truppe. In un secondo momento, furono eletti dai comizi e spettò loro la
giurisdizione penale nella provocatio ad populum, l’appello contro la pena di morte o l’esilio.
Più tardi alcuni dei quaestores furono addetti al Tesoro Pubblico; infine, fu istituito il quaestor
Hostiensis, comandante del porto di Ostia.

L’edilità. Gli edili, forse creati nel 494 a.C., erano in origine due magistrati plebei addetti alla
costruzione dei templi delle divinità della plebe. Ma col riconoscimento delle magistrature
plebee nella civitas i patrizi ottennero pariteticamente altri due edili di rango aristocratico, che
presero il nome di aediles curules. Agli edili spettavano funzioni specifiche, costituiti dalle
curae, la cura urbis Romae, la cura annonae e la cura ludorum. La cura Urbis consisteva nel
controllo della viabilità e dell’edilizia a Roma; la cura annonae: comportava la sorveglianza
dei mercati e l’approvvigionamento
Granario, la cura lodorum: istituita come sorveglianza dell’ordine pubblico durante gli
spettacoli, divenne l’onere di organizzare a proprie spese i combattimenti di gladiatori o di fiere
nel foro e più tardi nell’anfiteatro. Ai soli edili curuli spettava anche la giurisdizione sulle liti
relative ai mercati, per tali intendendosi i processi privati per contestazioni fra venditori e
compratori, come vizi occulti nella vendita di schiavi e animali. Essi pubblicavano
annualmente un edictum aedilium curulium parallelo a quelli dei pretori urbani e peregrino,
ma ben più limitato quanto ad ambito, materia e valore.

Il tribunato della plebe. Dei tribuni plebis della loro creazione probabilmente nel 494 a.C. e
dei concilia tributa va ricordato che il tribunato, istituito per proteggere la plebe dagli abusi
patrizi, era posto nel cursus honorum sullo stesso “livello” dell’edilità e seguiva la questura.
Con il riconoscimento nella città di questa magistratura in origine rivoluzionaria, il tribunato
perse la sua originaria natura sovversiva dell’ordinamento oligarchico e spesso fu
strumentalizzato, attraverso la corruzione. I tribuni erano eletti dai concilia plebis tributa e
restavano in carica 18 mesi. Essi avevano il ius agendi cum plebe, cioè il diritto di convocare i
concilia plebis sia per l’elezione dei magistrati plebei sia per l’approvazione dei plebiscita,
deliberazioni che finirono con l’essere del tutto equiparate alle leggi comiziali centuriate.
Benché sprovvisti dell’imperium, possedevano un fortissimo potere nell’intercessio, il divieto
che potevano opporre alla proposta di qualsiasi magistrato, ad eccezione del solo dictator,
quante volte vi ravvivassero una lesione dei diritti individuali o collettivi della plebe. Nel 449
la lex Valeria Horatia sancì la sacertas per chi avesse attentato alla loro incolumità: una pena
per il quale il reo veniva abbandonato alla vendetta di chiunque lo sacrificasse come capo
espiatorio alle divinità plebee, Libero e Cerere.

La pretura, il ius gentium e l’editto pretorio. Praetor viene da prae-ire, cioè “andare avanti”,
proprio perché agli esordi del sistema repubblicano era questa la carica apicale dello Stato, alla
quale competeva il comando dell’esercito.
Ma nella tradizione annalistica il titolo di praetor appare con riferimento all’anno 367, quando
sarebbe stato istituito per la prima volta quale magistrato unico, con l’importante funzione di
amministrare la giustizia a Roma fra i cittadini romani.
A seguito della conquisa della Sicilia, Roma si trovò ormai in una nuova dimensione
commerciale, ereditata in parte da Cartagine, in parte determinata dal gravitare nell’orbita
romana delle città italiote e siceliote. Le attività commerciali si ritennero indegne del rango
senatorio; un ceto medio di commercianti poté così arricchirsi senza concorrenza interna,
determinando l’afflusso nella capitale dell’impero di masse di stranieri interessati agli scambi,
che restavano esclusi dalle forme giuridiche dei negozi quiritari romani come anche della tutela
pretoria accordata ai soli cives. Fu perciò necessario istituire un nuovo pretore che si occupasse
dei conflitti d’interesse (lites) insorgenti tra costoro, ma anche un nuovo ordinamento
processuale.
Così nel 242 a.C. al pretore esistente si affianca un collega chiamato praetor peregrinus. Il
primo assunse la denominazione di praetor urbanus. Le sue competenze processuali rimasero
quelle tra i cittadini romani, mentre la giurisdizione del nuovo pretore si esercitò nei nuovi
processi privati fra stranieri che si trovavano a Roma, o fra cittadini romani e forestieri.
Nell’istituire i processi il pretore urbano continuò per lo più ad avvalersi del ius civile
Quiritium attraverso le sole 5 legis actiones esistenti. Il pretore peregrino invece faceva ricorso
a una sorta di diritto commerciale e internazionale, il ius gentium, che nel II secolo a.C., egli
recepiva anche nella pubblicazione del suo proprio editto, distinto da quello del pretore urbano.
Nell’istruzione processuale di fronte al praetor peregrinus non solo non si era tenuti al
formalismo verbale delle 5 legis actiones, ma nemmeno era indispensabile l’uso della lingua
latina, e il pretore era libero di avvalersi di interpreti. Il suo processo non era fondato sul dari
oportere- pagare o non far pagare la multa in caso di soccombenza nel processo, (ius strictum)
ma sulla bona fides, il rispetto fiduciario della parola data svincolato dal formalismo giuridico
e rispondente alla sostanzialità dei negozi giuridici.
Pertanto i iudicia di fronte al praetor urbanus presero il nome di iudicia legitima in quanto
consacrati dal formalismo delle legis actiones, mentre quelli di fronte al praetor peregrinus si
chiamarono bonae fidei iudicia, cioè processi fondati sulla fiducia reciproca nelle
contrattazioni indipendentemente dall’esistenza di una lex valida per entrambe le parti.
La creazione del praetor peregrinus e del ius gentium introdusse così due fondamentali
innovazioni: la pubblicazione dapprima dell’editto del pretore peregrino poi anche quello del
pretore urbano. L’editto in cui il pretore peregrino finì con il raccogliere le formulae (cioè le
previsioni astratte dei casi che potevano essere dedotti di fronte al suo tribunale) si sostituì alle
cinque legis actiones sacramentali e formali riservate ai cives e dalle quali gli stranieri
restavano esclusi.
Il processo privato ne beneficiò enormemente in duttilità, adattandosi alla molteplicità dei casi
dell’esperienza economica e negoziale. Al contempo, senza rinnegare formalmente un diritto
sancito nella sfera della religio, e che perciò non poteva essere abrogato dalla volontà umana,
se ne elusero gli effetti iniqui. La coesistenza dei diversi ordinamenti, ius civile Quiritium, ius
gentium e ius honorarium non minava la forma mentis dei Romani ma era anzi espressione
della loro praticità.
Ai due pretori residenti a Roma, se ne aggiunsero altri due per l’amministrazione delle
province, a partire dalla Sicilia e dalla Sardegna, anch’essi forniti di funzioni giurisdicenti in
quanto governatori di territori oltremare.

Il consolato: imperium domi e militiae. Consules deriva dal verbo consulere che indicava la
facoltà di consultare il senato nell’esercizio della propria suprema funzione di governo. Ai due
consoli era riservata l’eponimia, cioè il conferimento del proprio nome all’anno in corso.
La delimitazione delle loro competenze non era precisa, spettando loro la summa imperii, ma
era di fatto limitata dalle funzioni delle altre magistrature. Si distingueva un imperium
consulares domi da uno militiae. L’imperium militiae comportava ovviamente il supremo
comando in guerra: e poiché imperium era indivisibile, nel senso che ciascun console lo
possedeva per intero, si rimediava al periodo di una paralizzante discordia nella tattica o nella
strategia con l’attribuzione del comando di due fronti distinti, ovvero con il lasciare un console
a Roma mandando l’altro a combattere.
Il principio oligarchico dell’eguaglianza nel privilegio e nel monopolio del potere fece sì che si
reagisse con diverse restrizioni all’iterazione del consolato. Nel 342 un plebiscito stabilì un
intervallum decennale per l’iterazione non solo del consolato ma anche delle altre magistrature.
Tuttavia gli stessi comizi centuriati rielessero spesso gli stessi consoli in violazione delle leggi
che avevano precedentemente votato sull’iterazione. Il principio cardine non era pertanto
l’inviolabilità di una legge votata da un’assemblea popolare, ma la piena sovranità della
stessa assemblea nel derogare alla legge che essa stessa aveva votata.

La censura. Secondo la tradizione i censores sarebbero stati istituiti da Servio Tullio per il
census populi, il censimento della consistenza numerica e patrimoniale non dell’intera
popolazione, ma dei cives maschi adulti finalizzato alla leva dell’exercitus censitarius, nel
quale il soldato doveva armarsi a proprie spese e anche al pagamento del tributum. In qualsiasi
epoca questa magistratura sia stata creata, certo è che il censimento si svolgeva ogni cinque
anni, ma i due censori eletti dai comizi centuriati restavano in carica solo 18 mesi, concludendo
le operazioni con la cerimonia sacra del lustrum. Inoltre ai censores era deputata la lectio
senatus: i destinatari di una nota censoria andavano incontro all’ignominia, che, pur
comportando l’espulsione dal senato, non era causa d’ineleggibilità né costituiva una pena
permanente come l’infamia derivante dal turpe iudicium publicum: difatti la valutazione dei
censori non risultava né da un’istruttoria né da un processo, ma era puramente discrezionale.
Ma proprio questo determinò la crisi della censura: nella pro Cluentio, Cicerone stigmatizza
lo svuotamento della sua funzione politica da parte di Silla, che ne aveva minato anche la
periodicità quinquennale, col decennio fallimentare dall’80 al 70. Comunque le sole funzioni di
censimento della popolazione rimasero demandate ai consoli quante volte la magistratura fu
disertata o differita e parimenti a loro si affidarono appalti e collaudi delle opere pubbliche, che
prima erano stati di competenza censoria.

Paragrafo 4. La conquista della Magna Grecia


Sul principio del III secolo i Romani si trovano coinvolti nella rivalità tra le stesse poleis
italiane e siceliote nei frangenti della guerra pirrica della I guerra punica in Sicilia e infine
della guerra annibalica. Cartagine si vide costretta a cedere a Roma la Sicilia e la Sardegna,
quindi la Corsica, che costituiranno le prime provincie romane oltremare e i suoi traffici
verranno ereditati dal nuovo ceto emergente a Roma: quello della plebe urbana che ora formerà
una nuova classe sociale intermedia fra plebe e quella nobilitas patrizio-plebea dell’ordo
senatorius. Questa nuova classe era quella dei cavalieri (ordo equester), formalmente istituita
nel 123 a.C. dal tribuno Gaio Gracco, ma in realtà anteriore come lo è il sorgere dei suoi
interessi, che impressero nuove dinamiche sia alle tensioni tradizionali tra nobilitas e plebe, sia
al funzionamento delle istituzioni politiche e giudiziarie. La conquista della Magna Grecia
durante la guerra pirrica è spesso segnata da episodi brutali da parte romana. Ma sotto l’aspetto
della storia costituzionale la romanizzazione della grecità occidentale appare un fenomeno
dinamico e accorto.
L’esperienza politica romana in Magna Grecia si formò caso per caso, ma finì con il tradursi in
un consapevole progetto politico, la cui dimensione istituzionale realizzò al meglio il principio
di differenziazione del trattamento di alleati e assoggettati, di organizzazione funzionale
dell’amministrazione ma anche di rispetto delle tradizioni locali da quelle religiose e
istituzionali a quelle legate all’uso della lingua greca.
Il sistema dei foedera, degli insediamenti di municipia, coloniae, fora e conciliabula, delle
conquiste nella Grecia continentale è frutto del patrimonio di esperienza che a Roma matura
con le poleis italiote e siceliote fra le guerre pirrica ed annibalica. Con queste poleis Roma
tornerà a misurare la pretesa di essere considerata essa stessa città ellenica, polis hellenìs,
allorché il potere romano sarà riuscito a darsi una giustificazione ideologica nella missione di
unificazione dell’Ecumene mediterranea. Sotto questo profilo, l’esperienza di Roma in Magna
Grecia, acquista un valore storico che certamente non ha la romanizzazione dell’Italia centrale
e settentrionale.
Quest’influenza non è tuttavia una sovrapposizione o sostituzione, bensì il contemperamento
della varietà della tradizione con l’uniformità dell’organizzazione cittadina romana. Mentre le
poleis avevano un’eponimia sempre monocratica e magistrati civici dai titoli più diversi,
l’organizzazione civica romana applicava di regola lo standard dei duoviri o quattuorviri
sempre alle coloniae; da quest’incontro si sviluppano forme costituzionali ibride di particolare
interesse storico, giuridico e politico, che trovano la loro spiegazione nel retroterra culturale
dell’influenza ellenica sulla civiltà romana. La corretta prospettiva storica dischiude un
universo costituzionale italiota sempre reattivo di fronte all’esperienza giuridica romana,
perpetuante le proprie caratteristiche istituzionali entro l’ordinamento romano dopo il bellum
sociale dell’89 a.C. Prologo della conquista della Magna Grecia sono le confederazioni tra
Roma e le città italiote: dapprima Napoli e poi Turi, Crotone, Locri e Reggio tra il 285 e il 269
a.C. La fides populi Romani si configura come il fondamento giuridico, sul quale si esercita
ideologicamente la propaganda e si misura la realtà politica della conquista romana. Ma la
guerra pirrica mette a dura prova queste relazioni.
Il rapporto di alleanza formalmente paritetica tra Roma e le poleis italiote muta sostanzialmente
dopo che queste defezionano a favore di Pirro. Un opportuno ritorno ai Romani, prima che la
guerra sia finita, fa sì che Roma ripristini i trattati di alleanza, anche nell’ottica politica di
accreditare di sé l’immagine di città filoellenica e perfino ellenica. Questa politica suggerisce
che, a guerra conclusa, i tradimenti delle poleis non siano stati punti con deportazioni di massa
o riduzioni in schiavitù della popolazione italiota. Emerge piuttosto la sostanziale incapacità dei
ceti di governo italioti di concepire e scegliere un progetto di unificazione politica della grecità
occidentale in termini federativi. Sotto quest’aspetto, la Magna Grecia e la Grecia sono
accomunate nel sopravvivere stentatamente nel frastagliato particolarismo delle poleis mentre il
fulcro politico della grecità si sposta nelle monarchie ellenistiche del Mediterraneo.
Roma interviene politicamente e istituzionalmente presso le città federate in Sicilia tra la prima
e la seconda guerra punica. Un preciso rapporto intercorre tra l’intervento romano a favore dei
Mamertini di Messana-gli Italici che avevano proditoriamente occupato la polis che aveva
chiesto loro aiuto contro i Siculi- e l’atteggiamento dell’opinione pubblica greca occidentale
verso la politica espansionistica di Roma. La confederazione romana entra in crisi durante la
guerra annibalica, che provoca una divisione interna alle città; terminata la guerra in Magna
Grecia vengono fondate diverse coloniae, nelle quali vengono insediati soldati romani e latini.
Circa un decennio dopo ha luogo contro i Bruzi la repressione attestata dal ritrovamento del
senatusconsultum de Bacchanalibus del 186 a.C. nell’ager Teuranus: sappiamo che la
diffusione dei culti bacchici si prestava alla coesione sociale dei ceti emarginati dal potere
romano.
Capitolo III. Giurisprudenza repubblicana
Paragrafo 1. Ius publicum e ius privatum. Nozioni processuali.
I Romani avevano del diritto una percezione più processuale che sostanziale: si dava maggiore
importanza al momento della contestazione del diritto che al suo momento costitutivo o
negoziale. Perciò il concetto di ius publicum distinto da ius privatum si affermò dopo le XII
Tavole, in rapporto alla soppressione della vendetta privata e alla sua sostituzione con la poena
sancita dalla civitas. Con questo presupposto concettuale, i Romani distinsero dunque i iudicia
publica dai iudicia privata.
I delicta privata offendevano esclusivamente l’individuo titolare di un diritto soggettivo che
veniva leso a suo esclusivo danno. Questo era risarcito dalla multa pecuniaria nel iudicium
privatum ad iniziativa della parte offesa che dava inizio all’azione giudiziaria di fronte al
magistrato ed era perciò detta actor contro il convenuto, che era detto reus in quanto accusato
di essere responsabile di qualcosa (res = cosa). Nel processo privato non solo l’iniziativa
spettava esclusivamente alla parte che si presumeva avesse subito un danno, ma esso non
poteva aver luogo se il convenuto non accettava di sottoporvisi: in caso di rifiuto il magistrato
poteva infliggere una multa di valore ben superiore alla causa, ma il processo non poteva
tenersi senza il consenso del reus. Il iudicium era privatum perché attinente alla singulorum
utilitas.
I crimina publica dileggiavano anche la collettività e comportavano perciò l’iniziativa
dell’azione e l’accertamento del fatto da parte del magistrato, rappresentante dell’interesse della
civitas.

Paragrafo 2. Il processo pubblico


I crimina publica erano perseguiti in età arcaica dai quaestores parricidi e dai duoviri
perduellionis. Il parricidium era in origine il reato di uccisione del padre, ma in seguito fu
inteso come omicidio in generale. La perduellio era invece contemplata nelle XII tavole come
crimine che aspirava alla tirannide o attentato alle istituzioni della respublica. Nel 300 a.C. una
lex Valeria previde il diritto del civis Romanus condannato per questi due reati, comportanti la
pena di morte, di appellarsi ai comizi centuriati.
L’evoluzione del processo criminale è legata anche al conflitto patrizio-plebeo. Fu con il III
secolo a.C. che l’amministrazione delle provincie acquisite determinò l’istituzione di tribunali
permanenti (quaestiones perpetuae) per i reati di corruzione e concussione dei governatori
provinciali, ex pretori ed ex consoli, il cui imperium era prorogato di un anno al senato perché
amministrassero una provincia (Verrine di Cicerone). I promagistrati usavano frequentemente
macchiarsi di questi reati e ai provinciali fu riconosciuto il diritto di denunciarli: il iudicium
come la quaestio erano in tal caso detti repetundarum, in quanto la sanzione, visibilmente
influenzata dall’origine privatistica del processo, consisteva anzitutto nella restituzione dei
fondi. Più tardi si consentì che prima che i giurati avessero finito di votare esprimendo la metà
più uno dei votanti per la condanna, l’imputato potesse allontanarsi volontariamente: in tal caso
gli veniva comminato il divieto di ritornare in patria. La quaestio era presieduta dal pretore e si
configurava come una corte criminale con una giura composta in origine da appartenenti alla
nobilitas e-a seconda del prevalere nella lotta politica a partire dal periodo graccano- anche di
plebei o di equestri. I membri delle giurie votavano all’inizio palesemente sia nel processo di
fronte alle quaestiones che in quello comiziale, ma dal 137 a.C. una lex Cassia tabellaria sancì
la segretezza del voto nel processo. La procedura da allora consistette nel porre in un’urna una
tabella cerata con la lettera A (absolvo) o C (condemno), computando la maggioranza a
votazione conclusa, mentre in caso di parità il pretore pronunciava l’assoluzione. Nel 123 a.C.
una lex Acilia repetundarum, ispirata dal tribuno della plebe C. Sempronio Gracco, stabilì che
il senato designasse il presidente della quaestio tra i pretori in carica e che il pretore così
designato predisponesse una lista di 450 giudici tratti dal ceto equestre. La composizione
senatoria delle giurie garantiva molto spesso l’impunità ai proconsoli e ai proprietari dello
stesso rango dei giudici.

Paragrafo 3. I vari tipi di reati


Furtum, iniuria, calumnia, vis. Alcuni reati come il furto, l’ingiuria o la diffamazione possono
essere perseguiti negli ordinamenti moderni a querela di parte, vale a dire che la pubblica
autorità non procede normalmente di propria iniziativa ma solo su richiesta della parte lesa. Ad
esempio tale era il furtum. Le circostanze aggravanti come quando il furto era perpetrato di
notte o il ladro fosse armato, comportavano l’esimente della legittima difesa se il derubato
uccideva il ladro in fragranza del reato, ma se ciò non avveniva la pena era costituita da una
multa pecuniaria. Parimenti era considerata in origine la vis, come lesione personale: era
prevista la legge del taglione per sostituire la sproporzione in cui facilmente cadeva la vendetta
privata con un criterio equitativo.

Parricidium. Del crimen parricidii si è già detto che da uccisione del padre fu poi configurato
come homicidium. Il primo era punito con la poena cullei, che consisteva nel chiudere il
parricida, dopo averlo verberato a sangue, in un sacco con un cane, un gallo, un serpente e una
scimmia e buttarli nel Tevere. Per l’omicidio era invece prevista la pena capitale da comminarsi
per i cives romani solo per decapitazione o strangolamento, per gli altri anche con pene
infamanti come la verberatio a morte, la crocefissione e l’esposizione nell’anfiteatro.

Falsum. Il crimen falsi consisteva in diversi reati, dalla falsificazione del testamento o anche
di moneta, alla corruzione di testimoni, all’alterazione di pesi e misure, all’assunzione di un
nome proprio e in particolare all’usurpatio dei nomina Romanorum da parte di peregrini. Le
pene contemplate andavano dalla poena capitis per quest’ultimo crimine o alla condanna ad
minas.

Crimen ambitus si diceva la corruzione elettorale nelle sue varie forme, dal broglio di “voti di
scambio” all’iterazione della magistratura in violazione dell’intervallum previsto dalla legge.
Nel 180 a.C. una lex Cornelia comminò la pena dell’interdizione decennale dalle cariche
pubbliche, ma l’interdizione divenne perpetua nel 67 a.C. in forza di una lex Calpurnia.

Crimen maiestatis era in età repubblicana un reato qualificato, configurato cioè in capo a
persone dotate di una determinata qualifica pubblica, i magistrati che abusavano dei propri
poteri (potestas e imperium) o della propria auctoritas. Ma la lex Cornelia pubblicata nel 81
a.C. da Silla configurò il crimine come attentato al potere del senato, dunque alla sicurezza
dello stato, nell’ambito della sua “restaurazione” oligarchica.

Peculatus, concussio e repetundae. Il peculatus era come oggi un tipico crimine contro la
pubblica amministrazione, che si realizzava con l’abuso nell’impiego di fondi pubblici, come il
destinarli a elargizioni indebite o nella loro sottrazione. Il peculato comportava la pena della
relegatio in insula.
Anche il crimen concussionis era un reato qualificato configurabile solo per magistrati e
funzionari: consisteva e consiste nell’estorsione di danaro o valori soprattutto in età imperiale,
estesa anche a favori personali, mediante pressioni o minacce di compiere o meno atti inerenti
alle proprie funzioni pubbliche.
Il crimen repetundarum o de reptundis consisteva nella concussione a danno dei provinciali da
parte dei governatori romani, i promagistrati (proconsoli e propretori) o magistrati (questori) in
età repubblicana, anche i funzionari imperiali durante il principato. La pena consisteva nella
restituzione dei beni in simplum o del danno estorti in un secondo momento in duplum e più
tardi nell’interdictio aquae et ignis, cioè nel divieto di rimettere piede in patria per l’imputato
che si fosse sottratto alla condanna andando in esilio.

Paragrafo 4. La giurisprudenza repubblicana: diritto e processo privato


In età arcaica l’interpretazione del diritto era monopolio del collegio dei Pontefici, i quali
rilasciavano risposte (responsa) ai privati che rivolgevano loro quesiti giuridici,
prevalentemente in materia processuale. Della questione loro sottoposta i Pontefici valutavano
allora sotto il profilo di diritto (de iure), secundum ea quae proponerentur, cioè a condizione
che le circostanze rappresentate dal richiedente rispondessero alla realtà. Invece l’accertamento
della realtà dei fatti, il cosiddetto merito, era escluso dalla competenza pontificale. L’esclusiva
della funzione rispondente fu perduta dal collegio ponteficale nel 304 a.C., quando lo scriba del
Pontefice Appio Claudio Cieco, Gneo Flavio, pubblicò le actiones giudiziarie, fino ad allora
accessibili solo ai sommi sacerdoti. E fu infine un plebeo, asceso alla carica di Pontefice
Massimo, a rendere pubblica la conoscenza dei responsa, riservati al richiedente. Si distinsero
tre funzioni della giurisprudenza:
Cavere consisteva nell’approntare gli schemi dei contratti e dei negozi giuridici, adattandoli
alla varietà dei casi che l’esperienza presentava, con la preparazione di appositi formulari.
Ancor oggi si parla per questa funzione di “giurisprudenza cautelare”.
L’agere consisteva nello scegliere e preparare la formula processuale: la si sceglieva dapprima
tra le sole cinque legis actiones esistenti nel diritto arcaico e più tardi tra le formule contenute
nell’editto giurisdizionale dei magistrati. La formula prescelta dal magistrato come
maggiormente consona al caso dedotto in giudizio, era quella adeguata alla controversia che
una delle parti del processo, attore o convenuto, portava all’attenzione del giurista. Questi
allora rispondeva sul presupposto che le circostanze addotte fossero veritiere, senza indagare
nel merito. In tal modo si venne a formare una giurisprudenza casistica, modulata sui casi
reali, ma che prescindeva dall’accertamento delle circostanze di fatto. Cosicché i giuristi
raccoglievano e pubblicavano questo genere di risposte in opere chiamate responsa, che
venivano consultate per l’autorità del rispondente e finivano con il costituire quasi precedenti
per gli stessi giudizi successivi, per i magistrati e per i giudici.
Infine il respondere comprendeva le più diverse attività esegetiche, dall’interpretazione delle
tabulae testamentarie fino all’ambito di applicazione delle leges e dei Mores. Soprattutto però
con tale verbo si designava la risposta data dal giurista ai quesiti che anche il magistrato o una
pubblica autorità poteva porgli. Oltre ai responsa casistici, i giuristi pubblicavano anche altri
generi di opere, ad esempio i Digesta che prendevano il nome dal verbo “digerere”, ovvero
ordinare, e costituivano opere di trattazione più sistematica delle materie giuridiche. La
giurisprudenza finì così per assolvere una vera e propria funzione creativa del diritto.

Paragrafo 5. L’evoluzione storica del diritto


Nel prendere possesso della carica all’inizio dell’anno, il praetor urbanus come il peregrinus
facevano pubblicare un edictum, nel quale stabilivano programmaticamente le formulae cui si
sarebbero attenuti nell’esercizio della giurisdizione. Il nome edictum deriva dal verbo edicere,
che letteralmente significava “proclamare oralmente”, ma poi finì col designare la
pubblicazione in forma scritta. Il primo significato di editto indicava l’intero testo pubblicato,
dipinto in caratteri neri (atramento) su tavole imbiancate (tabulae dealbatae), che perciò si
diceva in albo propositum. Il secondo significato si riferiva alla singola forma, che poteva
successivamente aggiungersi al testo generale attraverso pubblicazione (propositio in albo).
In origine il pretore non era tenuto ad attenersi al proprio editto: tuttavia, nei casi in cui si
accingesse a violare i principi giuridici rischiava di esporsi all’intercessio o perfino a una nota
censoria. Comunque, la discrezionalità del pretore di aggiungere improvvisamente (repente),
nel corso dell’anno di carica, edicta per casi sopravvenuti e dunque non regolati
precedentemente, non poteva essere ostacolata. Per porre fine agli arbitri, nel 67 a.C. una lex
Cornelia sancì che i pretori dovessero amministrare la giustizia in base al proprio editto e non
potessero più modificarlo durante l’anno di carica: ex edictis suis perpetuis ius dicere. La legge
comportò l’immodificabilità dell’editto pubblicamente esposto dal pretore alle calende di
gennaio: dal 67 esso sarebbe divenuto perpetuum per l’immutabilità che la pubblicazione ne
comportava.
Il pretore, tuttavia, conservava pienamente la facoltà di modificare, entrando in carica, l’editto
del suo predecessore; ci si limitava a qualche aggiunta, tanto che l’editto di anno in anno veniva
tramandato quasi immutato, ed è perciò chiamato da Cicerone edictum translaticium.
Durante il principato la discrezionalità dei pretori nella pubblicazione dell’editto perpetuo
dovette subire il controllo del senato, cui furono attribuite funzioni più accentuate nel campo
del diritto privato. Rispetto ai principi generali della giurisdizione contenuti nell’editto annuale,
il pretore, anche dopo la lex Cornelia del 67 a.C., poteva comunque pubblicare editti specifici
per fattispecie determinate: i cosiddetti edictum peculiare di stampo ciceroniano, che potevano
aggiungersi ma non essere in contrasto coi principi dell’edictum generale annuum.
Infine, l’imperatore Adriano, attorno al 130 d.C., conferì a Salvo Giuliano, illustre giurista, di
redigere un testo unico e definitivo degli editti che i pretori, gli edili curili e i governatori
promulgavano ogni anno da secoli. L’effetto unificante della romanizzazione consentì inoltre a
Giuliano di un unico testo edittale destinato alle provincie.
Dopo Adriano, dunque, di perpetuità dell’editto si parlò in senso ben diverso da quello
repubblicano: la possibilità di innovarlo fu riservata evidentemente solo al principe.

Paragrafo 6. Il processo privato: legis actiones e formulae


Esso era bifasico, aveva cioè inizio con una prima fase detta in iure, dinanzi al tribunale del
pretore, e si concludeva apud iudicem, di fronte a un giudice privato, con la pronuncia della
sentenza di condanna o assoluzione.
Nella fase in iure il magistrato sceglieva la formula consona al caso, senza valutare la
credibilità della pretesa dell’attore o della difesa del convenuto: tali valutazioni di merito erano
riservati alla seconda fase, detta apud iudicem, perché il magistrato usciva di scena e un privato
cittadino, scelto d’accordo tra le parti in una lista di boni viri, giudicava nel merito e
pronunciava la sentenza del convenuto. Base del processo era il ius strictum, l’osservanza
formale e rigorosa del diritto quiritario riservato ai cittadini romani, che si traduceva in un dari
oportere, il dover soddisfare l’obbligazione contratta in quanto ritualmente formalizzata
(intentio certa). La denominazione di legis actiones deriva dal fatto che il processo era
instaurato dalla pronuncia, al cospetto dei Pontefici e più tardi del magistrato in tribunale, da
parte dell’attore e del convenuto, di certa et sollemnia verba, parole consacrate dalla tradizione,
immutabili e predeterminate, da cui sorgevano le cinque azioni formali.
Conosciamo da un manuale del II secolo d.C., le Institutiones di Gaio, le cinque legis actiones,
tre delle quali dichiarative (per sacramentum, per iudici postulationem, per condictionem) e
due esecutive (per manus iniectionem, per pignoris capionem). Le prime instauravano in iure
un’azione da decidersi tramite una solenne dichiarazione, le seconde legittimavano
l’esecuzione, da parte dell’attore, sulla persona o sui beni del convenuto inadempiente alla
condanna. Sembra che la più antica legis actio sia stata la manus iniectio: decorsi 30 giorni
consecutivi dalla sentenza di condanna del debitore insolvente, il creditore-attore era
legittimato a sfruttarne il lavoro fino alla soddisfazione del debito. Quest’escussione personale
non fu più legittimata grazie al processo di emancipazione della plebe e fu sostituita da una
mera esecuzione patrimoniale sui beni.
Poco meno risalente della manus iniectio è l’actio sacramenti, che prende il nome dal
giuramento che ciascuna parte fa in giudizio di versare all’erario una somma se la sua pretesa
non risulti provata. Se la pretesa è in rem, entrambe le parti sostengono lo stesso diritto sulla
cosa contesa; se l’azione è in personam il dibattimento si svolge tra creditore e debitore di
fronte al pretore.
Più recenti sono le altre tre legis actiones, delle quali le prime due dichiarative:
Per iudicis postulationem consisteva nella richiesta al magistrato della nomina di un giudice
per la divisione dell’eredità tra coeredi. La condictio concerneva una somma determinata di
denaro che il creditore-attore chiedeva al debitore, di fronte al giudice, di riconoscere o negare.
Infine, la pignoris capio consisteva nell’acquisizione del pegno, col quale il creditore
soddisfaceva la sua pretesa verso il debitore inadempiente.

Paragrafo 7. Il processo formulare


L’editto pretorio è un testo per antonomasia giurisdizionale, le cui formule si adattano alle
rispettive actiones. Mentre le formule delle legis actiones erano solo cinque, nel processo
formulare1 si presentarono concepta secondo le contingenze: esse si esprimono in una delle
numerose formulae dell’editto, precisamente in quella la cui previsione risponde al caso
concreto della controversia insorta tra attore e convenuto.
Tipicamente bifasico, esso ha inizio in iure con la in ius vocatio da parte dell’attore al
convenuto, e può svolgersi in più udienze mediante un’ulteriore convocazione delle parti
(attraverso vadimonia) e si conclude apud iudicem.
Al pretore spettava comunque, in iure, la facoltà di non dar luogo alla prosecuzione del
processo per varie ragioni: dall’accoglimento di un’eccezione (exceptio), dedotta in giudizio
dal convenuto, che paralizzava la pretesa dell’attore destituendone il fondamento giuridico o
equitativo, fino al diniego di concedere l’azione giudiziaria per la mancanza di fondamento
della pretesa attrice.
Il vadimonium è nel processo formulare un atto stragiudiziale, il cui nome deriva dalla figura
del garante, il quale interveniva per assicurare che il convenuto si sarebbe ripresentato ad una
successiva udienza, esponendosi a pagare loro una multa in caso d’inadempienza (mandato di
comparizione davanti al pretore).
La redazione su tabulae ceratae rispondeva a fini probatori e non aveva natura costitutiva: essa
suggellava l’assunzione verbale dell’impegno contratto, il quale però rimaneva per sua natura
giuridica una convocazione formalmente orale. Nel caso in cui il convenuto non si presentasse
di fronte al pretore, si irrogava una multa di valore maggiore rispetto al contenzioso, ma non lo
si poteva costringere a comparire. L’elevazione di una multa pecuniaria non avrebbe leso il
principio fondante del processo privato, la libera convergenza delle volontà di attore e
convenuto di sottostare alla sentenza, in base allo ius civile Quiritium.
Si riconosceva invece più largamente che nel processo del praetor peregrinus la condanna
potesse essere anche un facere oportere ex fide (obbligo di adempiere a un comportamento
attivo in buona fede). Sembra che questo tipo di processo sia stato introdotto da una lex
Aebutia, abrogata da una lex Iulia iudiciorum privatorum.
Per quanto concerne pertanto le fasi processuali, nella fattispecie:
-la prima si concludeva con la litis contestatio con la quale le parti dichiaravano il comune
accordo di presentarsi di fronte al giudice.
L’attore dettava al convenuto la formula nella quale consisteva il iudicium, la nomina che il
magistrato faceva del giudice, con le relative istruzioni che gli erano impartite: il giudice
privato era perciò vincolato alla formula e all’impostazione del caso astrattamente valutato dal
magistrato sotto il profilo del diritto. Al iudex privatus era riservata la valutazione di merito.
La corrispettiva accettazione del convenuto col conseguente impegno reciproco determinava
l’estinzione del rapporto dedotto in giudizio. Per questo i romanisti parlano modernamente di
effetto consuntivo della litis contestatio, che si aveva nel processo formulare: il sorgere di un
nuovo rapporto giuridico come effetto della cosiddetta novazione processuale, fondato
sull’obbligo, da parte del convenuto, di sottoporsi all’eventualità di una sentenza di condanna.
Lapalissianamente questo assumeva che l’attore accettasse correlativamente di sottoporsi alla
sentenza di assoluzione, senza poter più intentare un’altra volta l’azione, in quanto passata in
giudicato (bis de eadem re ne sit actio).
Il giudice, libero di valutare gli elementi de facto della controversia, non essendo fornito né di
imperium né di potestas, doveva ricevere dal magistrato un iussus iudicandi, vale a dire il
legittimo ordine di pronunciare la sentenza.
Nel caso che il convenuto, soccombente, si rifiutasse di pagare la multa prevista dalla sentenza,
l’attore poteva intentare contro di lui un’actio iudicandi. La natura privata del processo
formulare faceva sì che la condanna consistesse sempre in una somma pecuniaria, di norma
perfino in casi come la reivindicatio, nella quale l’attore reclamava dal possessore la cosa di cui
era proprietario2.

Nota 1. Si pensa che l’artefice del processo formulare sia stato un Mucio Scevola, appartenente
all’omonima famiglia e vissuto in una villa sul fiume Aniene.
Nota 2. Nel caso della cosiddetta mancipatio, modo formale iuris civili per l’alienazione della res
mancipi, che consentiva all’acquirente di diventare dominus di un bene, l’istituto dell'in bonis habere
ne regolava la provvisorietà, destinata a tramutarsi in proprietà col decorso del tempo necessario
all’usucapio. L’eventuale reivindicatio non avrebbe quindi ingerito sul dominium del suddetto bene.
Capitolo IV. La crisi della respublica (L’impero e l’ellenismo)
Paragrafo 1. L’espansione e le conseguenze dell’incontro di Roma con la civiltà greca
Con la I guerra punica avrà inizio la conquista della Sicilia, dove il secolare contrasto tra
l’egemonia siracusana e l’eparchia cartaginese sarà risolto da Roma a proprio favore. Subito
dopo Roma s’impadronirà anche della Sardegna e della Corsica, relegando Cartagine in Africa.
Il periodo della II guerra punica, detta annibalica, consoliderà il dominio romano nella
penisola, proiettandolo altresì verso la conquista dall’Africa all’Ellade. Corinto sarà distrutta
nel 146 a.C., nello stesso anno in cui lo sarà anche Cartagine: due distruzioni gratuite, nei
confronti di città inermi, che ebbero un valore di brutale deterrenza e segnarono una svolta
nell’uso del terrore come strumento psicologico di diplomazia nel Mediterraneo. Dovendo fare
un uso estremamente oculato delle sue risorse economiche e militare, vista la crescente
sproporzione tra Romani e popolazioni soggette, il principio di deterrenza divenne un cardine
della politica romana.
La civiltà greca con cui Roma entrò in contatto è quella che noi chiamiamo ellenistica, quella
che le conquiste macedoni avevano fatto uscire nel IV secolo dagli angusti confini delle poleis,
diffondendola in tutto il bacino del Mediterraneo: dal disfacimento dell’impero di Alessandro
Magno nacquero monarchie rette dai diadochi macedoni e dai loro discendenti. L’incontro tra
la civiltà greco-macedone e le antiche civiltà orientali, di cui la Persia, la Siria e l’Egitto erano
depositari, diede luogo a una commistione culturale dominata dalla lingua greca, portatrice di
un modo di vivere urbano e cosmopolita. Cultura, organizzazione dei servizi e
dell’amministrazione del regno, sviluppo commerciale, progresso nelle discipline scientifiche e
umanistiche produssero la diffusione di ideali filosofici e di un concetto di umanità ecumenico
propugnati dallo stoicismo e dall’epicureismo.
Dopo la conquista della Sicilia alla fine della prima guerra punica e la cessione della Sardegna,
cui fu costretta Cartagine, ed infine l’acquisizione della Corsica, Roma si trovò alla fine del III
secolo ad avere consolidato la sua egemonia sull’Italia fino a Reggio.
Nel 197 si ultimò la conquista dell’Hispania citerior e della ulterior e nel 148 il regno di
Macedonia. Quest’ultimo, sotto Alessandro Magno, aveva dato vita ad un effimero impero
universale con la conquista della Persia e di altri territori come l’Afghanistan e l’India. Nel 146
a.C. veniva costituita la provincia dell’Africa, coincidente con il territorio della città punica.
Nel 133 veniva acquisita pacificamente l’Asia. L’istituzione di tante provincie determinò un
enorme afflusso di ricchezze la cui distribuzione fu tutt’altro che equa all’interno del popolo
romano, ma soprattutto non lo fu anche nei confronti degli alleati latini ed italici.
Il contatto con la civiltà ellenistica aveva fatto sì che Italici, Romani stessi e Latini fossero
letteralmente preda di un’attrazione perfino smodata verso il modello di vita urbano dei Greci;
ciò innescò una profonda trasformazione sociale. Sotto il profilo dell’evoluzione sociale e della
politica interna, i fondamenti etici e costituzionali della respublica romana saranno posti in
crisi e alla fine scardinati sino alla formazione di un nuovo sistema di governo, quello del
principato.
Paragrafo 2. La trasformazione della società romana
La più importante assemblea popolare, il comizio centuriato nacque in età arcaica dalla
riunione dell’esercito in concione. L’esercito romano era un esercito cittadino di estrazione
contadina: l’agricoltore, coadiuvato da figli ed al più da qualche schiavo, abbandonava
temporaneamente il fondo e la famiglia per la durata stagionale della guerra. Una guerra che in
età arcaica era abitualmente interrotta dai contendenti nel periodo del raccolto. Il contadino
soldato si recava nella città alle scadenze elettorali o in occasione dell’approvazione delle leggi
per esercitare liberamente il diritto di voto. Nei comitia centuriata e tributa o nei concilia
plebis tributa eleggeva i magistrati e si dimostrava più o meno ossequiente alle direttive del
senato.
Ma il prolungarsi delle guerre, dapprima nella penisola e poi oltremare, pose in crisi il rapporto
fra il contadino-soldato, la sua terra e la sua civitas. La ferma sempre più lunga, comportando
l’abbandono del campo, distruggeva le ricchezze dell’economia agricola, ma spezzava anche la
continuità e la periodicità del rapporto con le istituzioni cittadine. Esse apparivano al reduce più
estranee di quanto non fosse la relazione venutasi a cementare col proprio comandante.
Cosicché finiva con l’essere ceduta la tradizionale fonte di sostentamento della famiglia
contadina: quel piccolo campo coltivato trasmesso ereditariamente di generazione in
generazione come inalienabile, il fundus avitus et patritus. Ma se anche la famiglia non
l’avesse venduto durante la lunga leva, per sopravvivere, al ritorno di questi le possibilità di
vita che l’agricoltura poteva offrire non appagavano più chi aveva constatato il modus vivendi
delle città ellenistiche o orientali. Un modello di vita urbano che il reduce vedeva ora
riproposto negli agi dell’aristocrazia romana. Non tutta la nobilitas però, si adeguava ai nuovi
costumi. Esisteva anche una fazione reazionaria, che praticava l’austerità del mores maiorum e
ne teorizzava la superiorità sulla filosofia greca. Tuttavia questi conservatori, che assurgevano
a modello Catone il Censore e poi il suo pronipote Catone l’Uticense, raccoglievano consensi
sempre più ridotti e soprattutto sempre più teorici nell’ultimo secolo della repubblica venivano
additati piuttosto retoricamente ad esempio che imitati. I processi che subirono gli Scipioni
sono il sintomo di questo contrasto all’interno dell’aristocrazia senatoria. Nel loro circolo
gentilizio la concezione pragmatica della storia avevano portato un vento innovatore della
filosofia e della storiografia greche: agli Scipioni non era sfuggito come queste potessero ben
prestarsi al disegno imperialistico di Roma, giustificandone e mitigandone il potere e
convincendo i provinciali e gli alleati italici e latini della convenienza dell’accettazione del
sistema costituzionale romano. Gli Scipioni, tuttavia, non vollero avvalersi del loro grande
ascendente sulle truppe che avevano comandato per imporsi a quella respublica che essi
avevano servito come generali, le cui ricchezze si concentravano ora nelle mani dell’uterque
ordo. Il vectigal pressoché simbolico che i possessores senatorii pagavano per l’ager publicus
nulla toglieva al fatto che esso fosse divenuto in realtà del tutto privato. L’afflusso di un gran
numero di prigionieri dalle continue conquiste e il rifornimento dai mercati orientali rendevano
proficua la coltivazione servile del latifondo. I più intraprendenti tra i plebei, che potessero
ricorrere a un capitale iniziale d’investimento, si dedicarono ai commerci: costituirono così il
nuovo ordo equester, intermedio economicamente tra il proletariato plebeo agiato e
l’aristocrazia, ma destinato a un sempre crescente ruolo politico.

Paragrafo 3. La politica graccana


Tiberio Sempronio Gracco e suo fratello Gaio, tribuni plebis rispettivamente nel 133 e nel 123-
22 a.C., furono gli interpreti del disagio e delle tensioni sociali che percorrevano la respublica
romana non solo al suo interno ma anche nel rapporto con gli alleati italici e latini.
Tiberio cercò innanzitutto di ripristinare l’osservanza di un’antica norma agraria, che si
attribuiva alle ricordate leges Liciniae Sextiae del 367 a.C., per la quale non era consentita una
possessio dell’ager publicus populi Romani superiore ai 500 iugeri. Benché la rogatio tiberiana
elevasse la quota a 750 iugeri per chi avesse un figlio o a 1000 per chi ne avesse più di uno, il
recupero delle eccedenze avrebbe compromesso la grande ricchezza latifondistica che il senato
aveva accumulato da generazioni. Chi aveva ereditato la possessio dell’ager publicus dal padre,
che l’aveva avuta in concessione, era portato a ritenersene proprietario a tutti gli effetti
(dominus). Tanto più che la respublica senatoria, poco accorta agli interessi collettivi quando si
trattava di privilegi illegali del ceto dirigente, di fatto dai concessionari del suolo demaniale
non esigeva nemmeno il pur esiguo canone di fitto dovuto, il vectigal. Il progetto di legge
graccano prevedeva inoltre che una commissione straordinaria avrebbe distribuito le terre
recuperate, costituendole in lotti inalienabili, al fine di evitarne la vendita ai precedenti
possessori. La nobilitas senatoria reagì facendo opporre a Tiberio l’intercessio del compiacente
tribuno Gaio Ottavio. Ma Tiberio riuscì a farne votare l’abrogatio della carica dai concilia
plebis che quindi deposto Ottavio, approvarono senz’altro la legge agraria. Si volle accusare
Tiberio che l’abrogatio fosse un atto formalmente incostituzionale. Ma si volle che ancora più
incostituzionale fosse l’iterazione del tribunato, cui Tiberio si candidò per l’anno successivo. Il
senato giustificò così, con l’accusa di aspirazione alla tirannide (adfectatio regni) il linciaggio
di Tiberio nella stessa curia senatus. Il programma di lotta di Gaio, eletto dieci anni dopo
Tiberio, fu certamente più maturo e articolato, oltreché tatticamente più studiato, di quello del
fratello, ma l’esito non fu più fausto. Egli propose una legge per l’applicazione e la
realizzazione definitiva della riforma agraria tiberiana, che, pur non abrogata, era rimasta
sostanzialmente inapplicata. Un’altra legge provvide a decongestionare l’inurbamento della
plebe mediante la fondazione di nuove colonie (deductio coloniarum). Un’altra legge ancora
sottrasse alla competenza del senato l’appalto nell’esazione delle imposte della provincia
d’Asia, conferendola ai concilia plebis tributa. Questo provvedimento colpì il ruolo del senato
minando l’articolato sistema di corruzione: infatti le imposte della più ricca delle provincie di
recenti acquisizione costituivano il maggior interesse di quelle società di appaltatori di rango
equestre cui il senato affidava la riscossione. Mutando l’organo deputato ad assegnare
l’affidamento dell’appalto, e tributando al nuovo ordo equester riconoscimento censitario e
politico, Gaio ne faceva un alleato della plebe.
La respublica non disponeva di una struttura statale deputata al pagamento delle imposte, e le
appaltava ai privati in cambio di una percentuale. Costoro anticipavano all’erario il gettito
fiscale previsto per un’intera provincia, rivalendosi poi sui debiti provinciali con gli interessi e
perfino con gli interessi sugli interessi (anatocismo). Il provvedimento di Gaio Gracco,
pertanto, non era solo volto ad accrescere il potere politico della plebe a detrimento dello
strapotere del senato, ma anche a costituire un presupposto per porre rimedio a un fattore
strutturale di corruzione del sistema imperiale. Infine una legge ribadiva il diritto di provocatio
ad populum anche nei casi in cui la condanna per attentato alla summa salus reipublicae fosse
stata sancita da un senatusconsultum ultimum, con ciò stigmatizzando l’illegalità della
esecuzione capitale dei seguaci di Tiberio Gracco nel 132. L’approvazione di questa legge
portò all’esilio del console P. Lenate, esponente di spicco dell’ala più reazionaria del senato.
L’ultimo provvedimento di tale organico quadro di riforma politica fu affidato al collega di
Gaio, che fece approvare quella lex Acilia repetundarum con la quale si affidava agli equites,
sottraendola ai senatori, la composizione delle giurie incaricate di giudicare i casi di
concussione e corruzione dei promagistrati provinciali. Tale provvedimento colpiva
direttamente il ceto senatorio: questo usava rifarsi illegalmente a spese dei provinciali della
destinazione a pubblica utilità di una parte del proprio patrimonio. Infine una legge di Gaio
sanciva la possibilità di iterare immediatamente il tribunato, in deroga all’intervallum.
A conclusione di un così intenso anno di tribunato, Gaio potette perciò farsi eleggere tribuno
per la seconda volta nel 122 a.C. Egli propose la concessione della piena cittadinanza
romana ai latini e di quella latina agli italici. In tal modo Gaio pensava di soddisfare le
aspirazioni dei socii. L’ottusa difesa del privilegio della cittadinanza accomunò questa volta
senatori, cavalieri e plebei determinando la mancata rielezione di Gaio al tribunato per la terza
volta e il suo successivo assassinio e la guerra (bellum sociale) che i socii italici mossero a
Roma, circa un trentennio dopo, negli anni 90-88 a.C., per ottenere a pieno titolo la civitas
Romana loro proditoriamente negata.
Paragrafo 3.2. La valutazione politica dell’opera dei Gracchi nella storiografia antica e
moderna
L’operato politico dei Gracchi ha diviso anzitutto la storiografia romana. Influenzata dalla
visione senatoria, ben rappresentata da Cicerone, essa non s’affrancò da un giudizio negativo
anche nel caso degli stessi storici, come Sallustio. Pure un greco come Dionigi d’Alicarnasso
addossa ai Gracchi la responsabilità di aver infranto la concordia ordinum, che costituiva lo
strumentale fondamento della concezione paternalistica dell’oligarchia senatoria. Ai Gracchi fu
rimproverato di aver voluto sovvertire sia l’ordine sociale, sia l’ordinamento costituzionale;
furono dipinti come esiziali rivoluzionari e non si mancò di accusarli di aspirazione alla
tirannide. La critica storica moderna, lontana dalla faziosità passionale, ha certo tenuto in conto
le ragioni dei Gracchi. Ciononostante, la storiografia di estrazione liberale e quella marxista
sono state in qualche modo condizionate da una visione ideologica del problema,
rispettivamente formalistica la prima, socialista la seconda.
La storiografia liberale1 ha insistito sulle violazioni formali della tradizione e
dell’ordinamento costituzionale; così facendo non ha colto i termini reali del problema storico,
dal momento che l’appropriazione indebita dell’ager publicus era ormai un vero e proprio
problema di natura costituzionale, stante il fatto che l’ordinamento della civitas romana si
fondava sull’equilibrio politico e sul contemperamento degli interessi tra nobilitas, ordo
equester e plebs. A un ceto dirigente, quello senatorio, che per intero aveva fatto della
violazione della legge la propria prassi di governo, non può riconoscersi il legittimo uso di
argomenti legali o costituzionali.
Quanto all’accusa di violazione costituzionale per iterazione del mandato tribunizio, non
sembra che questa fosse espressamente vietata nel II secolo: non era ritenuto affatto cogente il
plebiscito del 342.
Nella mentalità dell’epoca ad una legge elettorale poteva derogarsi allorché lo stesso
organo assembleare che l’aveva approvata eleggesse un candidato in violazione della legge
stessa. Lo stesso vale per l’accusa a Tiberio Sempronio Gracco d’aver fatto deporre dai
concilia plebis tributa il tribuno Ottavio: infatti era sì previsto che si potesse processare il
magistrato solo alla scadenza del mandato, ma ad Ottavio fu ritirata la fiducia dallo stesso
organo assembleare che lo aveva eletto. L’opinione, invece, della storiografia marxista2, che
ravvisa il fallimento del progetto graccano nel non aver contemplato il coinvolgimento del ceto
servile e l’abrogazione della schiavitù, appare addirittura antistorica. La storiografia marxista è
pervenuta ad un giudizio distorto dell’operato di Gaio Sempronio Gracco per non aver saputo
rinunciare all’uso di un fondamento ideologico canonico della sua visione politica del mondo.
La storiografia liberale, al contrario, è stata espressione di una concezione dello Stato
formalmente neutrale nel rapporto di lavoro tra detentori del capitale e prestatori d’opera: ma
sotto tali spoglie del formalismo giuridico-costituzionale sussisteva la realtà di un parlamento
costituito dai detentori del capitale, facendone la pars leonina e relegando i prestatori d’opera
in una posizione subalterna priva di garanzie sociali e contrattuali. E’ perciò precipuo perché la
mentalità della forma iuris prevalga acriticamente nella storiografia liberale sulla valutazione
politica sostanziale, ma prevalga perfino anche sul criterio di legalità in un ordinamento
politico non parametrato su una Carta Costituzionale scritta.
Quanto poi al preteso contenuto rivoluzionario del programma graccano, non v’è dubbio che
vada ridimensionato. Tale programma è infatti da ritenere si eversivo del consolidato assetto
sociale dell’epoca ma tale assetto era dipeso da un abuso politico e costituzionale divenuto
prassi.
L’oligarchia fondiaria, esprimendo il senato, lo aveva trasformato nel tutore dei privilegi
illegali che s’era arrogata. Il programma graccano era invece, sotto quest’aspetto, del tutto
restauratore, in quanto si prefiggeva di ristabilire il legame tra terra e plebe inurbata e di sanare
la corruzione che affliggeva la vita politica, al limite dell’utopismo.
Va però riconosciuto che la deductio coloniarum in Italiam et in provincias, risolse non solo il
problema dell’inurbamento della plebe, ma anche quello del controllo dei territori di recente
conquista. Ma per altri aspetti le cose non funzionarono secondo le speranze. Anzitutto i coloni
romani disseminati in Italia e nelle provincie restarono sostanzialmente esclusi dall’elettorato
passivo, cioè la facoltà di candidarsi alle magistrature, che poteva esercitarsi esclusivamente a
Roma. L’utopia del programma graccano risiedeva comunque nella convinzione che la plebe
fosse disposta a legarsi nuovamente alla terra quando questa aspirava a godere del benessere
che derivava dall’impero, alimentato dalla diffusione dell’edonismo più popolare, erronea
interpretazione dell’epicureismo greco.
Differentemente va giudicato il programma di Gaio Gracco sull’estensione della cittadinanza.
Esso restituisce la misura del grande acume politico del tribuno e della sua strenua volontà
degli aviti costumi repubblicani: l’esposizione all’accusa di essere rerum novarum cupidi
dimostra quanto l’ordinamento fosse degenerato: da un lato per la trasformazione degli
optimates in un ceto dedito alla spoliazione e alla rapina sistematica delle provincie e dunque
delle risorse dello Stato; dall’altro per la struttura inadeguata al governo di un immenso impero.

Nota 1. Vincenzo Arangio Ruiz afferma che i Gracchi ebbero il merito di porre il problema
dell’esclusione della plebe dai benefici economici e del fatto che la plebe fosse in condizione di miseria
quando costituiva il nerbo dell’esercito che portava le ricchezze a Roma, che però attentarono alla
Costituzione. In realtà tale accusa perde la propria fondatezza se si inscrive nel contesto del diritto
pubblico romano.
Nota 2. Francesco De Martino afferma che la rivoluzione graccana sia fallita a causa della non
previsione della liberazione degli schiavi. Una deformazione prospettica che non asserisce alla realtà
politica romana, in cui non si è mai pensato all’abrogazione della schiavitù; la concezione era
pertanto quella di ribaltare i rapporti di forza (Spartaco). L’istanza di abolizione della subalternità
schiavile perviene soltanto con l’instaurazione dell’industrializzazione per mero fine utilitaristico di
incremento della produzione a fronte dell’aumento della domanda.

Paragrafo 4.1. Dal consolato straordinario di Mario alla dittatura di Silla


Il fenomeno d’inurbamento della plebe indusse il generale dei populares, Gaio Mario, a partire
dal 107 a.C., ad arruolare non solo i proprietari di fondi rustici col reclutamento su base
censitaria, ma anche il proletariato urbano. Si venne a costituire un esercito professionale di
soldati retribuiti dallo Stato, nel quale trovò occasione di arricchimento una parte
ragguardevole della plebe urbana. L’esercito mariano poteva far fronte nell’Africa proconsolare
alla guerra di Giugurta e più tardi arrestare l’invasione delle popolose bellicose germaniche dei
Cimbri a Aix en Provence. Capo dei populares, Mario aveva comunque tentato invano,
sull’orma di Caio Sempronio Gracco e tramite il luogotenente Lucio Apuleio Saturnino di
estendere la cittadinanza romana ai Latini e agli Italici, dai quali il suo esercito aveva tratto
notevoli forze prima dello scoppio del bellum sociale. Per porre fine alla guerra Roma concesse
la cittadinanza con la lex Iulia del 90 e la lex Plautia dell’89 a.C., agli Italici che avessero
deposto le armi entro tre mesi. Da parte degli italioti l’utilità di rinunciare all’indipendenza
statale per divenire municipia non era affatto scontata: a Napoli e Eraclea si verificarono
tumulti popolari sull’opportunità di accettare la cittadinanza romana piuttosto che mantenere
l’autonomia, il che significava perdere tutti i privilegi fiscali e doganali dei porti, i quali
costituivano terminali del commercio dell’Italia romana, quando ancora il porto di Ostia non
riusciva a soddisfare l’afflusso di merci destinate all’Urbe. Per questa ragione furono concessi
statuti municipali a città come Napoli e Reggio, che preservarono l’uso della lingua. E’ una
vexata quaestio se sia stata promulgata una legge di carattere generale, che statuisse
uniformemente sulle costituzioni dei municipia appena istituiti o se si sia provveduto caso per
caso agli statuti municipali da dare a coloro che avessero accettato le condizioni per ottenere la
cittadinanza.
La coordinata esegesi di documenti epigrafici relativi a sei civitates dell’Italia meridionale
porta alla conclusione che all’uniformità del provvedimento politico di concessione della
civitas ex lege Iulia nel 90 a.C. non fa riscontro una regolamentazione normativa univoca
e generale delle costituzioni municipali.
L’amministrazione dei municipia dell’Italia romana. L’esame della documentazione
epigrafica delle città romane rette da duoviri e quattuorviri consente di verificare l’imitazione
del modello romano nelle funzioni dei senati locali e di rapportarvi in dimensione cittadina la
parabola storica della censura. Per amministrare l’erario il senato disponeva di schiavi
specializzati in occasione dei censimenti, e a quanto parte tale utilizzazione dei servi senatus fu
mantenuta anche durante il principato.

Paragrafo 4.2. La dittatura e la riforma costituzionale sillana


Lo stesso tribunus plebis mariano che aveva distribuito in tutte le tribù i novi cives confluiti
nella città romana, non contento di aver colpito il progetto oligarchico di vanificare gli effetti
della concessione di cittadinanza, fece approvare una seconda lex Sulpicia che intimava a
Lucio Cornelio Silla la consegna a Mario delle sue legioni, predestinate a combattere contro il
re del Ponto, Mitridate. Silla non esitò ad occupare la città stessa con le legioni dando inizio
alle proscrizioni degli avversari e restaurando il predominio dell’aristocrazia senatoria. Tuttavia
non appena egli fu partito con l’esercito per il Ponto, i populares ripresero il potere e la capitale
fu nuovamente insanguinata dalle vendette sino all’82, anno del ritorno di Silla.
Questi si fece investire della dictatura legibus scribundis et republicae constituendae,
magistratura eccezionale ed illimitata senza precedenti nella storia costituzionale repubblicana.
La riforma sillana svilì sostanzialmente il ruolo dei tribuni, dichiarando eleggibili al tribunato i
soli senatori ma soprattutto ponendo una riserva costituzionale che escludeva dal cursus
honorum quelli avessero ricoperto la carica. L’intercessio veniva limitata alla tutela dei diritti
del singolo civis, non della plebe in quanto collettività sociale. Inoltre venivano determinati gli
intervalli fra le magistrature del cursus honorum e in ispecie l’intervallo decennale per
l’iterazione del consolato.
Era sancita poi la separazione fra i due imperia magistratuali, quello domi e quello militiae,
nell’intento di aumentarne la controllabilità da parte del senato.
L’imperium militiae veniva così sottratto ai consoli e riservato solo ai promagistrati, inviati
nelle provincie, dopo la scadenza dell’anno di carica. Le quaestiones perpetuae, i tribunali
incaricati di giudicare fra l’altro dei crimina politici di brogli elettorali e delle concussioni dei
promagistrati provinciali, furono restituiti ai senatori mentre ne venivano esclusi gli equites.
In verità non si può parlare di “restaurazione” in senso proprio poiché un simile assetto prima
di Silla non esisteva: si tratterà piuttosto di una ristrutturazione funzionale dello Stato
nell’ottica da un lato di garantire il predominio dell’oligarchia senatoria su equites e plebs,
dall’altro di assicurare che nell’ambito dell’oligarchia non potesse emergere in futuro un nuovo
Silla. A tal fine rispondeva la regolamentazione del cursus honorum con un’equa distribuzione
di intervalla e limiti di iterabilità delle cariche.
Conclusa così la sua opera, Silla depose la dittatura straordinaria che si era fatto conferire.
Allora, dopo la sua morte, occorsa nel 78 a.C., a partire dal 75 quasi tutte le sue riforme furono
smantellate e il partito riconquistò le posizioni perdute.
Poco dopo la morte di Silla, nel 70, da Capua dove più che altrove imperversava il barbaro
gusto dei giochi gladiatori, divampò in tutta Italia la rivolta di Spartaco. La capacità dello
schiavo ribellatosi allo sfruttamento schiavistico non bastò ad assicurare a lui e ai suoi
compagni la salvezza. Tuttavia, prima di essere sconfitti, gli schiavi impartirono una dura
lezione agli eserciti consolari romani.

Paragrafo 4.3. Pompeo, Cesare e il primo triumvirato


Negli anni successivi alla morte del dittatore patrizio, divenne sempre più chiaro il problema
strutturale di fondo nel governo dell’impero, cui Silla aveva cercato di porre rimedio regolando
l’assegnazione delle provincie e le promagistrature: l’inadeguatezza del sistema repubblicano,
basato sulla divisione e sulla circoscritta temporaneità dei poteri magistratuali, ad affrontare la
necessità di mantenimento della pace, di capacità programmatica, di corretta ed efficiente
amministrazione nel lungo periodo in un impero dotato di un’economia globalizzata.
Fu così che nel 67 a.C. una legge molto discussa, lex Gabinia de piratis persequendi conferì a
Gneo Pompeo un imperium proconsolare esteso a tutto il mediterraneo per estirpare la pirateria,
che paralizzava i traffici commerciali marittimi. Si trattava di un imperium aequum con quello
dei proconsoli, ma triennale, esteso a tutto il Mediterraneo-perciò infinitum- e nell’entroterra
fino a 50miglia, presumibile fascia di rifugio dei pirati con amplissimi poteri finanziari e
militari nel reclutamento delle legioni. L’imperium proconsolare di Pompeo assumeva dunque
caratteristiche eccezionali in ragione delle sue necessità funzionali per combattere la pirateria.
Ma si trattava comunque di una violazione dei principi oligarchici di egualitaria ripartizione del
potere.
Ancora più eccezionale fu l’imperium proconsulare lege Manilia, conferito a Pompeo nel 66.
Questo imperium era anche maius, cioè superiore a quello dei proconsoli, con cui Pompeo
avrebbe potuto intrattenere rapporto operando nelle loro provincie e vi aggiungeva le provincie
governate da Licinio Lucullo, che non del tutto a torto accusò Pompeo di avergli strappato la
vittoria su Mitridate.
Nel 63 maturò la congiura, sfociata in rivolta armata, di Lucio Catilina, nobile indebitato, che
per due volte aveva aspirato invano al consolato, quale base di una dittatura personale. In
quell’anno rivestiva il consolato Cicerone, homo novus proveniente dal municipium di Arpino,
che l’aristocrazia senatoria aveva tuttavia consentito entrasse nel suo club elitario, proprio per
le sue qualità di “macelleria” nel liquidare la ribelle nobilitas degli scontenti catilinari.
Cicerone infatti scoprì e fece giustiziare i congiurati con un procedimento di dubbia legittimità,
non tenendo conto del diritto di provocatio ad populum.
La realizzazione delle aspirazioni di Catilina avrebbe comportato proscrizioni non inferiori a
quelle di Mario, ma il suo programma politico non era quello che Cicerone volle far credere.
Esso mirava ad una redistribuzione della ricchezza a favore dei ceti più poveri in Italia e forse
anche nelle provincie. Non essendo riuscito a raggiungere il consolato, gli mancò quel
comando dell’esercito che aveva consentito a Mario e a Silla di fondare il loro potere
saldamente.
Catilina cadde coraggiosamente a Pistoia, sul campo di battaglia fu trovato attorniato dai
cadaveri di tutti i suoi che preferirono morire con le armi in pugno, come si addiceva ai romani,
anziché farsi strangolare nel carcere dove Cicerone aveva eliminato alcuni congiurati prima che
riuscissero a lasciare Roma per raggiungere Catilina. Invano Cesare, eletto quell’anno pontefice
massimo, nascostamente simpatizzante dei Catilinari, aveva tentato di salvarli della pena
capitale. Non era stata questa la prima apparizione di Cesare sulla scena politica: egli si era
distinto già, per aver resistito ancora giovanissimo alle pressioni di Silla perché ripudiasse la
moglie Cornelia, figlia di Cinna, il mariano che aveva tenuto Roma durante l’assenza di Silla
stesso.
Ormai l’emergere di personalità carismatiche polarizzava sempre di più l’attenzione politica e
i favori dell’elettorato. Il primo triumvirato tra Gneo Pompeo Magno, Gaio Giulio Cesare e
Publio Licinio Crasso fu stipulato privatamente nel 60: fu il capolavoro politico di Cesare,
che convinse Crasso a superare il suo sordo rancore contro Pompeo per averlo defraudato della
vittoria su Spartaco. Inoltre l’alleanza tra Pompeo e Cesare fu subito suggellata dal matrimonio
della figlia di questi, la giovanissima Giulia, con l’ormai anziano Pompeo: il matrimonio
coinvolse profondamente i due sposi, riverberandosi sul rapporto tra suocero e genero, ad onta
delle rispettive rivalità. Il patto privato tra i triumviri venne rinnovato formalmente nel 56 a
Lucca. Esso sanciva la prevalenza della volontà dei triumviri su quella degli organi
costituzionali: la spartizione delle provincie, il sostegno elettorale ai propri candidati,
segnavano una vera esautorazione del senato in favore dei tre: furono difatti stabiliti
proconsolati di durata quinquennale anziché annuale per i triumviri. Così Pompeo fu nominato
nel 55 proconsole delle due Spagne, Citeriore ed Ulteriore, ma in 5 anni si guardò dal mettervi
piede inviandovi invece con prassi innovativa ed incostituzionale, tre suoi legati. Cesare stesso
rammenta come violazione dei principi costituzionali che per senatoconsulto s’erano assegnate
le provincie consolari e pretorie a privati, decaduti dalle cariche da almeno un quinquennio.
Crasso non era un generale di vocazione e professione come Pompeo e Cesare, ma di
estrazione equestre, ed era diventato ricchissimo con tutte le attività immaginabili prima di
accedere alle più alte magistrature. La vittoria sull’esercito di gladiatori ribelli comandati da
Spartaco, non poteva portare gloria militare a Crasso, trattandosi di un esercito di schiavi. Così
nel 53 il triumviro si fece assegnare il comando della spedizione contro i Parti, stanziati ai
confini dell’impero recentemente accresciuti da Pompeo con la conquista della Siria, oltreché
della Giudea. Ma a Crasso mancava la competenza e la tradizione militare propria
dell’aristocrazia: la campagna partica da lui condotta lo portò al disastro e all’annientamento
del suo esercito: egli si suicidò con il figlio per non cadere in mano al nemico.
Dopo la sua morte, gli optimates, ritennero di poter dividere i due triumviri superstiti e di
trovare in Pompeo il tutore dei loro interessi, mentre i populares lo trovarono in Cesare.
Perfino Catone e Cicerone diedero l’assenso all’elezione di Pompeo consul sine collega nel 52.
Fu poi promulgata una lex Pompeia de iure magistratuum che regolava pubblicamente le
magistrature in generale ma che certamente sanciva l’obbligo della presenza in Roma per
potersi candidare. Ma così essa finiva con l’annullare l’accordo di Lucca, che avrebbe
consentito a Cesare di candidarsi in Roma al consolato senza deporre l’imperium sulle Gallie.
Ora invece il senato pretendeva che Cesare lasciasse il proprio esercito prima di candidarsi al
consolato, mettendosi in sostanza nelle mani di Pompeo. Fu questo che ne incrinò i rapporti
sino al 49, una volta che la morte per parto di Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo, fece
venir meno l’unico legame che i due non potessero rinnegare, facendo esplodere la rivalità per
l’egemonia.
Cesare piombò quindi in Italia con una sola legione il 10 gennaio del 49, attraversando le
Alpi in pieno inverno a tappe forzate: il suo straordinario intuito tattico e strategico gli
suggeriva convenisse agire subito con forze ridotte contro un nemico impreparato. Così
attraversò con l’intera legione il Rubicone, il fiume al cui corso s’imponeva di deporre le armi,
perché separava la Gallia Cisalpina dall’Italia, segnando idealmente il pomoerium di Roma.
Cesare confidava non solo che gli italici non gli avrebbero opposto resistenza, ma che ne
avrebbero ingrossato le fila. Ciò che infatti avvenne: egli era interprete del malcontento dopo
che la concessione della cittadinanza romana nell’89 a.C. si era ridotta per loro ad un vantaggio
più che altro formale. A Pompeo ed al senato non restò che imbarcarsi a Brindisi con le proprie
ridotte truppe e fuggire in Oriente. Li Pompeo Magno ricostituì l’esercito e puntò sulla strategia
del logoramento delle forze cesariane, ma il suo seguito senatorio lo indusse ad accettare il
combattimento, dove Cesare riuscì a spiegare la sua superiore genialità tattica, sbaragliando i
pompeiani a Farsalo. Inseguendo Pompeo in fuga con pochissime e rapide truppe, Cesare era
sbarcato ad Alessandria d’Egitto: li si era visto offrire la testa di Pompeo dal faraone-basileus
Tolomeo che pensava così di ingraziarselo. Cesare si era inorridito e colse l’occasione di
liquidare Tolomeo appoggiandone la sorella-sposa Cleopatra, che si trovava in contesa
dinastica con lui. Finiva così ad Alessandria Pompeo Magno che, del grande ecista fondatore
della città aveva assunto il cognomen, Pompeo conquistatore della Siria e Giudea, vincitore di
Mitridate e debellatore della pirateria mediterranea e dei gladiatori di Spartaco.
Pompeo segna in qualche modo e paradossalmente il punto di non ritorno della crisi della
respublica, quella crisi da cui nacque l’autocrazia non di Cesare ma dei Cesari. E che campione
del senato fosse solo pro forma l’aveva lucidamente compreso Cicerone: egli scrive che quella
tra Pompeo e Cesare non era una lotta per la tirannide, ma una regnandi contentio tra due
despoti, dei quali riconosce che Cesare sarebbe stato il più umano, Pompeo il nuovo Silla.

Paragrafo 5.1. La dittatura cesariana


Pompeo si era illuso di trovare asilo in Egitto perché era stato lui a ristabilire sul trono il padre
del sovrano regnante, ma la corte tolemaica s’illuse a sua volta di poter conquistare l’autonomia
grazie alle contese fra i generali romani. Cesare trovò infatti modo di intervenire come arbitro
nella contesa dinastica fra il giovanissimo Tolomeo e la sua sorella-sposa Cleopatra.
Giudicando suo interesse appoggiare la causa di Cleopatra, ne aveva fatto eliminare l’incomodo
fratello-sposo, che si era infine sollevato contro di lui, e Cesare ebbe dalla regina di Egitto il
suo unico figlio maschio, Tolomeo Cesarione. Ma in Oriente quelle sacre nozze, hieros gamos,
ammantavano la sua vittoria nel rapporto con una dea vivente, nella quale scorreva qualche
goccia del sangue del divino Alessandro.
Ma il bellum civile seguiva in Africa e Spagna ed ebbe fine solo con la sconfitta delle ultime
forze pompeiane e il suicidio di Catone ad Utica. Cesare non sterminò i concittadini vinti, come
era da usanza precedentemente come Mario e Silla avevano fatto, ma con una humanitas che
mirava a costruire una base di consenso alla sua dittatura, li risparmiò, conservandoli spesso nel
rango e nelle ricchezze.
A Roma dal 2 al 12 dicembre del 49, a Cesare fu attribuita la prima dittatura, ancora nel solco
repubblicano della natura legale di questa magistratura straordinaria, per indire le elezioni
comiziali in luogo dei consoli. Ma l’anno seguente gli fu conferita la seconda dittatura rei
gerandae causa, per di più contemporaneamente al consolato per decem annos, un altro
“mostro costituzionale” per la concezione oligarchica della repubblica. Nel 46 gli fu data la
dittatura decennale ed infine nel febbraio del 44, un mese prima del cesaricidio, quella
perpetua con il titolo vitalizio di imperator.
Plutarco osserva che Cesare fu eletto dittatore a vita e che la sua era ormai una palese tirannide
che univa al potere sovrano della dittatura la prerogativa di non deporla mai.
Cesare in fondo riuscì a salvarsi fin quando fu in grado di mantenere pienamente
quell’ambiguità, per la quale si lasciava credere che la dictatura e il cumulo delle cariche
fossero appunto finalizzate alla gestione di una situazione eccezionale in vista di un futuro
ripristino della tradizionale “legalità” repubblicana. Alla congiura, ordita da Bruto e Cassio,
parteciparono anche diversi Cesariani, i quali aborrivano la prospettiva della fine irrevocabile
della respublica.
Fu questa, dunque, la giustificazione per l’uccisione di un dittatore che aveva minato gli
interessi dell’oligarchia e Giunio Bruto coniò allora un denario con la sua effigie, e dall’altro
lato, due pugnali con la fatidica data Eidibus Martiis, Idi di Marzo e il berretto che si imponeva
agli schiavi liberati: allusione al tirannicidio che aveva liberato il popolo romano ridotto in
schiavitù. Cesare tuttavia si era rivelato non il capo di una fazione, ma il capo dello Stato, che
non ne aveva consentito il saccheggio, nemmeno al suo stesso partito. Egli cercò una linea di
equilibrio tra le istanze della plebe urbana e le esigenze dei senatori e equestri detentori di
capitale: non abolì i debiti ma alleviò significativamente la posizione dei debitori. L’estensione
della civitas alle provincie della Gallia Cisalpina e della Sicilia si iscriveva nel progetto
cesariano di unificazione dell’ecumene greco-romana. Nell’ambito di questo progetto, che
poi Augusto ritenne opportuno frenare, Cesare concesse la cittadinanza ad interi gruppi
provinciali, avviando quel processo di equiparazione delle provincie all’Italia, che si sarebbe
in definitiva dimostrato una delle fondamentali cause storiche della coesione e della lunga
durata del dominio romano.
La legislazione cesariana contro la corruzione e concussione dei magistrati si iscrive nei
programmi di valorizzazione delle provincie e di controllo della loro corretta gestione
finanziaria e amministrativa. La legislazione per i reati contro la sicurezza dello stato e la
violenza politica, mirava invece al controllo rigoroso dell’ordine pubblico e alla tutela della
persona e figura politica del dittatore.
Questa azione politica rispondeva al generale desiderio di pace e di ordine dopo le numerose
guerre che da molti anni travagliano l’impero e la stessa Italia. Essa soddisfaceva in particolare
gli interessi dei provinciali, che avevano militato largamente nell’esercito cesariano sia prima
che durante la guerra civile, ma rispondeva molto meno agli interessi immediati dei cives
Romani, che non sapevano scorgere il giovamento dell’impero.
Le riforme di Cesare, globalmente considerate, colpivano gli arricchimenti illegali dei
promagistrati, cui era demandato per prorogatio imperii il governo delle provincie; ma
colpivano anche la gelosia con la quale la plebe si riteneva beneficiaria esclusiva della civitas
Romana quale fonte di privilegi. La legislazione di contenimento delle usurae mirava infine a
garantire la funzione economica del credito.
Lo stesso Bruto, graziato da Cesare e poi protagonista del cesaricidio, aveva praticato il prestito
usurario nei confronti di privati come di intere città provinciali, ricavandone immensi guadagni.
Dunque la dittatura non lasciava presagire nulla di buono per i promagistrati e i pubblicani che
spogliavano regolarmente le provincie. Il dittatore era da sé garanzia di buongoverno per le
provincie esauste. Ma non è in questa realtà che potevano trovarsi giustificazioni ideali al
cesaricidio, rispetto alla ripugnanza per il culto orientale della personalità.
Nel 44 poi, poco prima del suo assassinio, furono coniate monete con la sua effigie quale
Pontefice massimo con capite velato e con la corona di alloro, mentre il senato deliberava che
sui coni fosse iscritto il titolo già tributatogli di pater patriae, che conferiva alla sua persona la
stessa sacralità di Romolo: fino ad allora nelle monete della respublica si erano rappresentati
solo gli dei oppure i grandi del passato; ora per la prima volta vi appariva il ritratto di un uomo
vivente come era uso nelle monarchie ellenistiche.
Ma in oriente Cesare era spontaneamente venerato addirittura come un dio: in Asia già nel 48
a.C. un decreto delle città di quella provincia celebrava in lui il Salvatore di tutto il genere
umano per Rivelazione divina.

Paragrafo 5.2. Il problema della natura costituzionale e del progetto politico di Cesare
Il problema della natura costituzionale e del progetto politico di Cesare è stato dibattuto dagli
antichi e forse ancora più dai moderni. La storiografia non ha mai alimentato dubbi sulla natura
monocratica del potere di Giulio Cesare. Il dibattito moderno verte invece sul modello
ispiratore: se fosse la monarchia romana arcaica dei reges rappresentati dalla tradizione, quella
alessandrina o perfino altre forme di governo regale dell’età ellenistica comportanti l’apoteosi
in vita, o piuttosto la dittatura repubblicana. Tuttavia, Cesare sembra essersi orientato piuttosto
pragmaticamente, traendo forse ispirazione da alcuni precedenti storici in casi determinati. La
storiografia antica ne interpretava tout court alcuni atti come segno di una tendenza al modello
ellenistico e a una presunta divinizzazione già in vita, che non può certamente accogliersi come
sintomi dell’adfectatio regni.
Per una parte della dottrina moderna ne sarebbero prova l’epiteto di Iulius per Iuppiter,
l’intitolazione al nomen del dittatore del mese Quintilis, decretato lui vivo e mutato post
mortem in Iulius. Alcuni moderni hanno sposato l’esegesi risalente alla sua pars politica e forse
a Ottaviano, secondo cui l’offerta del simbolo regio fosse una provocazione dei suoi nemici,
adottata per screditarlo. E’ alquanto singolare che molti storici abbiano dato più importanza ai
racconti di Dione Cassio e Svetonio, che adducevano a un fondamento del potere divino,
piuttosto che agli scritti di Cesare stesso. A notarlo fu Francesco De Martino, che ne colse il
valore in essi insito. Tuttavia l’osservazione di De Martino non è del tutto esatta: nel De bello
civili infatti Cesare stesso riferisce di una serie di prodigi a lui favorevoli, per non parlare della
propaganda da lui fatta di discendere da Venus Genetrix.
I monetarii cesariani rappresentano la dea con un’iconografia particolare: armata di uno scudo,
poggiato sul globo (detto sfera armillare che rappresenta l’universo) e talvolta con una lancia, e
reggente su una mano una Victoriola (statua della vittoria) che protende una corona d’alloro,
della quale sull’altro lato della moneta è cinta la testa di Cesare imperator. Solitamente Venere
non era né armata né portava in mano una victoriola, ma era rappresentata con un seno
scoperto, simbolo della sua sensualità, che ne faceva la divinità della generazione cosmica,
l’alma Venus, solennemente evocata da Lucrezio nel De rerum natura. Nei denari cesariani,
invece, Venere acquista le dette caratteristiche marziali. In questa contaminatio, il seno nudo si
colloca in un contesto figurativo afferente l’abbigliamento amazzonico, un corto chitone
anziché una lunga veste. La figura delle monete sembra in qualche modo liberamente evocare
le celebri Amazzoni della statuaria greca classica di Policleto, Fidia e Cresila. Le monete di
Cesare rappresentano non solo la più antica immagine di Venus Genetrix e Victrix ma anche
un’innovazione nella raffigurazione della dea. Si tratta di una novità iconografica che
costituisce un forte veicolo ideologico e propagandistico: non v’è da dubitare sia dovuta
all’iniziativa di Cesare, e che egli volle superare il tempio che Pompeo aveva edificato
dedicandolo alla dea. Ma è ovvio che alle sue convinzioni personali Cesare possa aver messo la
sordina per avvantaggiarsi della religione come instrumentum regni.
Prima di farsi conferire la dittatura perpetua, Cesare, mantenne il proconsolato, e inoltre si fece
nominare di anno in anno anche console, così tracciando la via del concentramento in una
sola persona di poteri magistratuali repubblicani. E’ precipuo che un ordinamento
costituzionale, fondato sulla temporaneità e sulla divisione dei poteri magistratuali, veniva del
tutto snaturato da siffatto sistema. La dittatura perpetua sancì l’abbandono del compromesso
con le forme repubblicane, reso ancor più evidente dalla tempistica della carica, assunta prima
di partire per la spedizione partica.
Il progetto di autocrazia cesariano si radica ab origine nel disegno che egli fa trapelare con
delle confidenze al suo entourage, pervenuteci grazie all’epistolario ciceroniano: la gente
avrebbe dovuto rivolgersi a lui con maggior deferenza e considerare le sue parole come leggi.
Bisognerà arrivare alla dinastia dei Severi perché si affermi formalmente il principio che “quel
che piace al principe ha vigore di legge”.
Solo quasi tre secoli dopo la parabola della volontà di Cesare può considerarsi compiuta: il
percorso di resistenza dell’aristocrazia senatoria a tale pretesa sottende all’intera storia
del principato. Riflettono la forma mentis cesariana i versi di Euripide che diceva come
“bisogna rispettare sempre la giustizia, salvo a dover violare il diritto per impadronirsi del
potere”. Scrive Luciano Canfora che “il potere o lo si ha tutto o non c’è”. I versi che Cesare
preferiva dicevano esattamente “Se bisogna violare il diritto, allora è meglio farlo per ottenere
la tirannide, il rispetto delle regole vale negli altri campi”. Ciò dimostra e proclama la non-
moralità della politica: Cicerone nel De officiis parla di Cesare criticamente evidenziando
quanto fosse stato coinvolto nella congiura di Catilina e denunciando la sua eccessiva
inclinazione tirannica.
La concezione materialistica del diritto in Euripide, riflesso della sofistica, precorre quella
dell’epicureismo, cui Cesare aderiva almeno per il materialismo atomistico e l’inesistenza
dell’Aldilà; Cesare doveva trovare particolarmente consono alle proprie aspirazioni il pensiero
di Epicuro in materia politica. Le affermazioni dei contemporanei posteriori alle Idi di marzo
presentano il rischio di poter essere retrospettive. Va detto però che Cesare, se prima aveva
citato i versi di Euripide e criticato l’abdicazione di Silla, proclamò anche di non volerne
seguire l’esempio non solo nell’abdicare ma neppure nella crudeltà. Lo tramanda l’epistola
ad Oppio e Cornelio del 49. Cesare in quest’occasione allude se non all’incolumità dei senatori,
sicuramente all’aggredibilità del loro status e ne sottintende la minorità politica.
Segno di una diversa humanitas, che sortiva degli effetti ingannevoli, in cui cadde lo stesso
Cicerone, persuaso che il princeps vagheggiato come moderator della forma di Stato.
Alla fine possiamo credere che Cesare abbia avuto, fin dal suo primo consolato, un’intima
avversione della respublica senatoria e delle sue forme.

Paragrafo 5.3. Le virtutes del dictator e il pensiero politico della tarda repubblica
Senza dubbio Cesare trovò nella filosofia epicurea i modelli morali di clementia e moderatio: il
rector, moderator e princeps reipublicae vagheggiato da Cicerone come ossequioso del senato
non può certo averlo influenzato. In quegli anni gravidi di eventi maturava a Roma un pensiero
politico che avrebbe posto i fondamenti ideologici del principato. L’ideale di libertas era
propriamente interno alla civitas Romana e si concretava nella libertà di parola nella sede del
senato. A questa libertà di parola nell’ambito filosofico Filodemo di Gadara, il caposcuola
epicureo, aveva dedicato un’opera, teorizzando anche la figura dell’optimus princeps,
intitolando una delle sue opere “Del buon re secondo Omero”. Filodemo teorizzava la figura
del sovrano governato dalla ragione e che grazie ad essa governava i sudditi. Anche Cicerone
nel De republica teorizzava la figura del princeps, che a suo parere doveva essere un arbiter al
di sopra delle fazioni e degli interessi, per autorità morale universalmente riconosciuta e che
sapesse mitigare il potere con l’uso della ragione.
Può dunque sembrare, a prim’acchito, che nel sincretismo del pensiero ellenistico trapiantato a
Roma, la razionalità del basileus filodemeo non si differenzi molto dal Logos stoico. In realtà la
razionalità è tutta umana e immanente, mentre quella stoica è la proiezione di un’Entità
metafisica, che presiede ai destini del mondo. Il concetto della provvidenzialità dell’impero
sarà utilizzato come strumento ideologico della propaganda del principato.
Ma v’è un’altra e politicamente più concreta dimensione, dove le declinazioni della ratio
vennero a confronto. Catone ad Utica aveva rifiutato la clementia caesaris ed aveva preferito
suicidarsi anziché arrendersi al dittatore, stimando la libertà politica superiore alla vita. Tutti gli
optimates convenivano, ma non tutti avevano lo straordinario coraggio che la coerenza
richiedeva di fronte alla generosità di Cesare, c’erano molti Bruti e molti Ciceroni che avevano
preferito vivere mantenuti nel loro rango. Catone era dunque diventato una bandiera.
Il suicidio stoico di Catone non risponde alla razionalità epicurea. Questo gesto non necessario
di fronte alla clementia che Cesare aveva largamente dimostrato verso i nemici sconfitti,
obbligava lo stesso Cesare a combattere con armi adeguate la sublimazione del concetto di
libertas: il dittatore avvertì l’esigenza di una risposta politica e ideologica al gesto di Catone,
che rischiava di screditarne la vittoria.
Così quando Cicerone gli inviò il suo Cato minor, nel quale esaltava la virtus stoica
dell’Uticense e la scelta eroica del suicidio, Cesare gli rispose, con l’Anticato opera non
pervenutaci, lodando il valore letterario dell’opera ma sostenendo che la scelta eroica del
suicidio sarebbe stata giustificabile solo se Catone avesse saputo di perdere la libertà e dignità
ma poiché sapeva che le avrebbe conservate, così il suo gesto andava giudicato come sintomo
di feroce barbarie contro se stesso. Ma il tentativo del dittatore di screditare il gesto di Catone
non ebbe fortuna: non sfuggì ai romani che la libertas di Cesare era la libertà personale mentre
quella di Catone era la libertà politica. L’apoteosi fu sancita nel cognomen di Uticense, da
allora in poi attribuitogli dal luogo in cui aveva scelto di rinunciare alla vita; ma fu suggellata
maggiormente dai versi di Lucano nella Pharsalia: “la causa vincitrice fu gradita agli dei ma
quella vinta lo fu a Catone.
Oltre mille anni dopo, la Commedia di Dante attesterà ancora la straordinaria vitalità dell’ideale
catoniano.

Paragrafo 5.4. Giudizio ciceroniano di Cesare


La rappresentazione del popolo come afflitto da una sorta di “incapacità” o quanto meno
“minorità politica”, che un ottimate non avrebbe mai apertamente proclamato, è invece esposta,
senza che Cicerone se ne sia accorto, in un passo della II Filippica, dove egli svolge un’analisi
straordinariamente lucida della vicenda politica e della figura umana di Cesare, alla luce
dell’esperienza da lui stesso vissuta.
Il brano oratorio, intriso di così alte e nobili idealità, fu scritto da chi di quella specie di
clemenza di Cesare aveva usufruito, avendo scelto di non rinunciare alla vita per la libertà
politica, come aveva fatto invece Catone. Ma la libera civitas è quella degli optimates. La
multitudo è imperita (ndr. Pag 1), il che avvalorava, con finto paternalismo, il monopolio del
potere da parte del ceto dirigente. Altrettanto significativo che questa minorità politica, fosse
invece attribuita da Cesare al senato e che il dittatore democratico si autorappresentasse verso
i patres conscripti con quello stesso atteggiamento paternalistico che ne faceva piuttosto dei
filii al cospetto del pater patriae.
Tali considerazione non tolgono all’acutezza del giudizio umano, psicologico e politico di
Cicerone sul dittatore defunto. L’Ottaviano in cui egli riponeva le sue illusioni, avrebbe di lì a
poco abbandonato non solo lui ma anche alcuni fedeli cesariani. Cicerone che ad Ottaviano
riconosceva indole volitiva quanto capacità organizzativa, non l’avrebbe creduto, quando si
trovò a stringer con lui una innaturale ma necessitata alleanza contro Antonio.
Cicerone non avrebbe potuto concepire che il potere supremo nello Stato romano si
trasmettesse per via ereditaria. Forse nemmeno Cesare arrivò a pensarlo. Certamente, anzi, il
progetto politico di Cleopatra, di fare del figlio che da lui aveva avuto, Tolomeo XIV Cesare
detto Cesarione, il capo dell’impero romano e dell’Egitto insieme, non trovò riscontro nel
testamento del dittatore. Ottaviano non sottovalutò il rischio di un discendente diretto di
Cesare. Così mentre risparmiò i figli che Cleopatra aveva avuto da Antonio, fece sopprimere il
rampollo di stirpe cesarea.
Le realizzazioni e il progetto cui Cesare riuscì a dare solo inizio, rivelarono la genialità politica
della sua visione ecumenica dell’impero. La via da lui indicata fu percorsa per secoli dai suoi
successori e la sua azione determinò lo stesso modo di essere della civiltà europea nei due
seguenti millenni. Fu lui a introdurre e istituzionalizzare in Roma i sanguinosi spettacoli
gladiatori, così graditi alle folle aggravando la posizione degli schiavi. La politica del panem et
circenses era infatti la più adatta per soddisfare le folle e a distrarle dalla dittatura. Fu così
introdotto nella società romana un genere di spettacolo indegno della civiltà, che Cicerone e
Seneca non mancarono di deplorare. Ma i problemi lasciati irrisolti da Cesare per la morte
prematura e improvvisa, come la conquista del regno partico e della Germania, tormentarono
l’impero finché ebbe vita. Dalla Germania vennero quelle invasioni barbariche che causarono
la fine dell’impero d’Occidente. La conquista della Dacia invece fu risolta anni dopo da
Traiano, l’imperatore “cesareo”.

Paragrafo 6.Il secondo triumvirato e Ottaviano-Augusto


Quando i congiurati agli ordini di Bruto e Cassio decisero di risparmiare la vita ad
Antonio, luogotenente di fiducia di Cesare che era console nel 44, fecero sul momento un
calcolo riuscito.
Antonio infatti cercò di mediare fra le parti e di contenere l’ira popolare che si scatenò alla
vista del corpo martoriato del dittatore. La curia di Pompeo dove si era consumato il
cesaricidio, fu fatta a pezzi e solo più tardi fu innalzato il tempio del Divus Iulius.
Ma i cesaricidi, come anche Antonio non avevano tenuto conto dell’improvvisa e inattesa
apparizione sulla scena di un altro protagonista di cui Cesare era prozio: il diciannovenne
Ottavio, nipote di una sorella del dittatore. Quando Antonio aprì il testamento di Cesare
dandone pubblica lettura, scoprì amaramente di non essere istituito fra gli eredi, mentre lo era
Ottavio. Questi tornò rapidamente dalla Grecia, dove si trovava a completare la formazione di
studio. Con un’abilità insospettata si accostò a Cicerone, che si illuse di strumentalizzarlo,
cercando di esautorare Antonio. L’antipatia di questi per l’inatteso rivale era evidente ma i
veterani di Cesare non gradivano che l’erede del dittatore e il suo luogotenente fossero nemici e
costrinsero i due ad una pace armata.
I quattorviri monetales dell’anno 44 aggiungeranno alle monete con l’effigie di Cesare una
stella: il Sidus Iulium. Esso sarà posto sotto lo scettro o la lancia di Venere sul rovescio, in
sostituzione della sfera armillare e sul diritto rappresentato dietro il ritratto del dittatore. Per
quanto riguarda l’iconografia di Venere ella viene sostituita da una Venere che evoca
l’agognata Pax: il seno nudo della guerriera amazzonica le viene ricoperto con un pesante
panneggio; reggerà allora il caduceo degli ambasciatori di pace. La moneta rappresenta sul
recto il profilo laureato di Cesare, ispirandosi innovativamente alla raffinatezza dell’arte
ellenistica.
L’apparizione del Sidus Iulium era valsa a convincere la maggioranza della divinità attinta,
ascendendo in cielo, da Cesare, occasione che Ottaviano non si lasciò sfuggire.
Ottaviano costrinse Antonio a riconoscere l’adozione che di lui Cesare aveva fatto nel
testamento e divenutone figlio adottivo ne assunse il nome: Caius Iulius Caesar Octavianus.
Finché vi fu il problema di liquidare i Cesaricidi che Ottaviano presentò come segno di pietas
filiale nel vendicare l’uccisione del padre, egli fu legato ad Antonio da un’alleanza necessaria.
Ma alla fine l’assassinio di Cesare precipitò l’impero in una nuova guerra civile. Una legge
comiziale, la lex Titia de triumviris rei publicae constituendae, affidò lo stato ad Ottaviano,
Antonio e Lepido, espressione dell’aristocrazia senatoria.
Sconfitti prima a Filippi, i Cesaricidi Bruto e Cassio, e poi presso Milazzo, Ottaviano riuscì ad
emarginare Lepido. Emerse allora la contrapposizione di interessi che dall’inizio vi era stata fra
Antonio ed Ottaviano, il primo insediato in Oriente, il secondo in Occidente.
Antonio seguì le orme di Cesare: non tenendo conto del matrimonio con Ottavia, che aveva
suggellato la sua temporanea alleanza con Ottaviano, si stabilì ad Alessandria da Cleopatra.
Bisogna riconoscere che il tema propagandistico fosse in fondo rispondente alla realtà.
Nell’orma di Cesare, Antonio s’era unito a Cleopatra nella ierogamia: i nomi di Alexandros
Helios e Cleopatra Selene dichiaravano i termini alla teologia cosmica e l’aspirazione ideale a
Alessandro Magno come legittimazione politica. Il 1 agosto del 30 a.C., l’esercito di Ottaviano,
comandato da Agrippa e Gallo, entrava ad Alessandria; Antonio si suicidava, seguito da
Cleopatra che otteneva che i figli fossero risparmiati. Relegato Lepido nel ruolo, puramente
onorifico di pontefice massimo, Ottaviano restava così solo padrone dell’Ecumene. Appena
giunto ad Alessandria egli volle visitare il sepolcro del fondatore, Alessandro Magno, da cui la
città prendeva nome e ordinò che fosse aperto per deporvi una corona, alla domanda dei
sacerdoti che gli chiesero se desiderasse vedere i sepolcri degli altri re egli rispose che non era
venuto a vedere i morti ma a venerare un re. Con questa affermazione Ottaviano alludeva
così alla sua statura di unico conquistatore e padrone del mondo, il solo a potersi paragonare ad
Alessandro Magno, unico vero dio.
Il senato romano ed il suo massimo rappresentante, Cicerone, sono stati accusati per essersi
messi nelle mani di Ottaviano senza comprendere che la vittoria dell’uno e dell’altro triumviro
avrebbe comunque portato alla fine della respublica.
Il principato augusteo adottò l’ideologia della libertas repubblicana, che pretese di avere
restaurato.
Dal 31 al 23 Ottaviano rivestì ogni anno il consolato e fino al 28 mantenne il titolo ormai
paradossale di triumviri rei publicae constituendae. Ma il 13 gennaio del 27 dichiarò nella
seduta del senato che apriva il nuovo anno di ritenere d’aver adempiuto al suo compito con la
vendetta del padre suo. Si faceva ormai chiamare dal 43 divi filius e aveva eretto il tempio di
Marte Ultore per celebrare la vittoria sui Cesaricidi.
Ora deponeva i poteri triumvirali che il giuramento di fedeltà prestatogli dall’Italia intera per la
guerra contro Antonio e Cleopatra, gli aveva consacrato. E desiderava tornare a vita privata. Un
senato servile però lo supplicò di conservare l’imperium proconsolare sulle provincie non
pacificate, ciò che egli si degnò di accettare solo per dieci anni perché comportava il comando
degli eserciti, vera sede del potere e infine l’amministrazione dell’erario dello Stato. Per questa
sua generosità gli fu attribuito il titolo di Augusto che divenne da allora il suo nome personale
e poi il titolo degli imperatori. Il nome deriva dal verbo augeo (accrescere) e designava
l’eccellenza e la supremazia morale. Il suo nome passò da Caius Iulius Caesar Octavianus a
Imperator Caesar Augustus. Imperator divenne il suo praenomen con il quale venivano
acclamati i generali vittoriosi nella repubblica, Caesar divenne il suo gentilizio e derivava dal
nome del padre adottivo e da quel momento designò la stirpe dei Cesari, mentre Augustus fu
assunto come cognomen.

Capitolo V. Il principato
Paragrafo 1. Augusto: restitutio reipublicae o respublica amissa?
Quando depose formalmente il potere conferitogli per condurre la guerra contro Antonio e
l’Egitto e fu proclamato Augusto nel 27 a.C., il nuovo Cesare aveva 36 anni e a tre era
rimasto il solo incontrastato padrone del mondo romano. Egli fece del rispetto formale delle
strutture costituzionali repubblicane un cardine inossidabile della sua tattica di politica
interna e di mantenimento del suo predominio; non meno, tuttavia, di quando si adoperò per
svuotare le magistrature, il senato, i comizi e tutte le istituzioni repubblicane dei loro effettivi
poteri politici. Nel 27 gli fu così assegnata una provincia di dimensioni inusitate comprendente
la Gallia, la Spagna, la Siria e l’Egitto, con un decennale imperium proconsulare maius, cioè
superiore a quello dei proconsoli delle rispettive provincie, che gli consentiva di mantenere il
comando degli eserciti nei territori non del tutto pacificati perché di recente annessione. Inoltre
egli continuò ad essere eletto console annualmente e senza intervallum. Nel 27 gli fu esteso a
tutte le provincie l’imperium proconsulare maius e nello stesso anno gli fu confermata la
tribunicia potestats in perpetuo.
In verità l’espressione “tribunicia potestas in perpetuo” è del tutto impropria per il formalismo
giuridico-costituzionale; tuttavia la si trova utilizzata nella dottrina moderna, sull’orma di
Svetonio. Gli storici antichi tramandano addirittura, come Dione Cassio, che gli era stato
conferito il tribunato o perfino che egli fosse tribuno.
Augusto stesso è ovviamente più cauto quando nelle Res Gestae, il suo testamento politico,
scrive che gli fu attribuita quod viverem la tribunicia potestas: con ciò egli sottintende ch’essa
gli era rinnovata con formale conferimento di volta in volta. Augusto acquisiva da essa il ius
agendi cum plebe, cioè il diritto di convocare i concilia plebis, la sacrosanctitas, l’intangibilità
e la coercitio.
Ma il vero potere imperiale risiedeva nel ius intercessionis, il diritto di veto a qualsiasi
magistrato. Per i tribunis plebis questo potere trovava un limite sia nel principio generale
dell’opponibilità dell’intercessio fra colleghi, dunque fra stessi tribuni, sia nella temporaneità
della carica (18 mesi).
Ma Augusto assumendo la tribunicia potestas senza essere tribuno della plebe e dunque
indipendente dalla carica magistratuale, non era collega dei tribuni e perciò non subiva il
rischio di vedersi opporre l’intercessio da uno di loro. Proclamava comunque di aver voluto un
collega nella tribunicia potestas che dapprima fu Agrippa poi Tiberio. Si salvava
apparentemente il principio di collegialità della respublica, ma infine il rinnovo annuale della
potestà tribunizia faceva sì che venisse meno quella temporaneità, intorno a cui gravitava il
sistema. Catone il Censore aveva cercato d’impedire per legge che si potesse iterare la carica di
console: ora un princeps senza colleghi, nella totalità dei suoi poteri, deponeva la carica solo
con la morte. Duttile è la rappresentazione che Augusto restituisce dei suoi poteri: egli afferma
d’esser stato superiore a tutti per auctoritas ma pari per potestas a tutti gli altri che gli
furono colleghi quoque in magistratu.
Theodor Mommsen aveva integrato il testo latino, il cui senso era “dopo essermi impadronito
del sommo potere”, essendo potitus participio passato di potior. La recente letteratura
scientifica, sulla base del testo trovato ad Antiochia, ha creduto di poter correggere potitus in
“potens”, che indica sostanzialmente il concetto che Ottaviano-Augusto sia, dopo la vittoria sul
triumviro Antonio, “rimasto padrone assoluto dello Stato”, sia pure per universale consenso, il
che esalta la sua generosità di avere restituito la respublica al senato ed al popolo. Potiens
rerum omnium indica infatti l’essere padrone assoluto.
Il concetto di “colpo di Stato”, mutuato in dottrina dall’esperienza politica del XIX secolo,
costituiva di per sé un approccio inadeguato a comprendere le parole di Augusto. L’esegesi
sostanziale del Mommsen, se non la sua integrazione, resta abbastanza confermata dalla nuova
restituzione, venendone men solo l’idea di attività di iniziativa intrapresa per impadronirsi del
potere, per il solo fatto che, venuto meno Antonio, il consenso per il vincitore divenne
universale, cioè conquisto anche la parte vinta antoniana.
Quanto al quoque del terzo paragrafo, può tradursi grammaticalmente sia come congiunzione,
nel significato di ‘anche’, sia come aggettivo indefinito, nel significato di ‘ciascuno’ (ciascuna
magistratura).
La dottrina ha discusso a quale magistratura Augusto alludesse: per escludere che si trattasse di
consolato si è obiettato che egli ebbe anche l’imperium militiae, dal quale i colleghi rimasero
esclusi; ma non si può ritenere che l’imperium militiae sia compreso nella nozione di potestas
che è in generale il potere del magistrato e più tecnicamente il suo potere di determinare con la
sua volontà diritti ed obblighi per la respublica. Più fondata sembra l’osservazione che Augusto
fa scrivendo le Res Gestae, narrazione delle sue imprese alla fine della sua vita, probabilmente
composte nel 13 d.C. (un anno prima della morte): qui Augusto non qualifica la potestas quale
tribunicia, come fa invece altrove; sembra che abbia adoperato con voluta equivocità i termini
per alludere alle diverse cariche da egli rivestite. Con questa studiata genericità egli poteva
autorappresentarsi investito di un potere, diverso nel tempo a seconda dei momenti, eguale a
quello dei colleghi di volta in volta avuti: tale genericità gli consentiva di onnicomprendere la
tribunicia potestas, che conveniva sussumere nella categoria generale senza riferirsi alla sua
specificità istituzionale.
Augusto promulgò un editto de restituenda republica, tramandato da Svetonio, e permeato
dalle tradizionali convinzioni del mondo romano, sistematizzate nella concezione dell’etica
pubblica del Somnium Scipionis ciceroniano, che garantiscono la sopravvivenza post mortem
nei Campi Elisi. Il tema della respublica restituita, consistente nella pretesa di aver restaurato e
conservato la “democrazia repubblicana”, è pubblicizzato anche dalle iscrizioni monumentali
fino alle leggende monetali. Il greco Strabone (contemporaneo di Augusto) definì Ottaviano
hègemon definendo il principato prostasia, termine che fu usato anche da Dione Cassio quando
scrive che Augusto ebbe l’intero governo della cosa pubblica. Dall’uso di questa terminologia
traspare la concezione di un regime a guida autoritaria, diverso sì dalla tirannide, restando in
ombra se per la sua diversità istituzionale da quella, o piuttosto per la razionalità
dell’autocrazia illuminata.
Ma colui al quale apparve in tutta crudezza che quella di Augusto era di fatto una monarchia, fu
Tacito. Egli la considerò inevitabile per il mantenimento della pace dopo un secolo di guerre
civili: fra Mario e Silla contro Catilina, fra Cesare e Pompeo, fra Ottaviano e Antonio.
Tacito, negli Annales sostiene infatti che: “la parola, potestas tribunicia, fu trovata da Augusto
per non assumere il nome di re o di dittatore e tuttavia porsi al di sopra di tutti gli altri poteri
magistratuali con un qualche appellativo”.
Anche Svetonio mostra di condividere tale opinione, considerando senza mezzi termini il
principato un regno senza corona.
Augusto non poteva comunque negare la superiorità della sua posizione senza perdere di
credibilità: escogitò così l’ammissione di tale supremazia nell’ambito dell’auctoritas.
Questo termine condivide la radice sia con il verbo latino “augere” che significa “accrescere”,
sia con la parola “augurium” che riporta alla sfera del sacro. Prima del 27 a.C. Augustus era un
appellativo riservato a Giove o a divinità.
Ora che il princeps pretende come tale di essere solo un primus inter pares, l’auctoritas, con la
sua sfuggente qualificazione morale ma densa di una funzione di supervisione, si presta bene
all’ammissione di eminenza, ambiguamente fuori dalla definizione del potere magistratuale.
Questa ambiguità scompare nella traduzione greca che traduce auctoritas con axioma (autorità)
che rivela il contenuto autocratico del potere di Augusto. Se dunque la tribunicia potestas è il
potere imperiale nella sua espressione civile, l’auctoritas segna la supremazia morale,
l’imperium proconsulare del principe costituisce il vertice del potere militare. Invano se ne
cercherebbe una trattazione nelle Res Gestae, che si segnalano per i silenzi su sconfitte come
quella al comando di Varo in Germania.
Per quanto concerne il passo di Dione Cassio, cittadino romano, vissuto sotto la dinastia dei
Severi ma di nazionalità greca, possiamo dedurre che egli adduca alla magistratura
proconsolare o al potere proconsolare. La scoperta di un editto promulgato da Augusto in
qualità di proconsul nel 15 a.C. in Spagna per la popolazione dei Paemeibrigenses ha
dimostrato, smentendo la dottrina moderna, che il principe aveva fin dall’inizio l’imperium
proconsulare in quanto inerente alla carica di proconsole da egli rivestita.
Inoltre l’editto ci aiuta a fornire una rappresentazione in cui le provinciae non pacificatae
sottostavano all’imperium proconsulare del princeps che lo esercitava in qualità di
proconsules; il titolo della provincia non mutava probabilmente sul piano della terminologia
costituzionale, in quanto ancora non correva alcuna differenza tra provincie consolari e
provincie non pacificate, accomunate dal processo di romanizzazione imperante.
Sembra dunque che Augusto governasse le provincie non pacificate mediante il suo imperium
consulare e legati di rango inferiore a lui referenti; Augusto, in quanto maius, esercitava un
controllo su questi ultimi nelle provincie senatorie, governate da promagistrati di tradizione
repubblicana, per discernerle da quelle imperiali, governate dai delegati del principe.
E’ singolare che il giudizio di incostituzionalità di tale modus operandi da parte di Cesare si
concreti nell’operato di Augusto, il quale ne rievoca le orme. Tuttavia, la salvaguardia della
forma istituzionale può dirsi inverata, nonostante si assista all’esautorazione del corpus ad esso
rimandante e al mantenimento dell’appellatio, la mera denominazione.

Il consolato. Il consolato era rimasto non solo la magistratura apicale, ma anche la più
importante dell’ordinamento repubblicano dopo Silla. Sotto Augusto i consoli non esercitarono
più un effettivo potere politico e nonostante ciò tale carica rimase lo stesso molto ambita per il
lustro che recava e per il prestigio della tradizione, ma anche per il governo civile dell’Urbe.
Essa costituiva una sorta d’imbuto, con due soli consoli all’anno, troppo limitante per la vanità
dell’aristocrazia senatoria. Augusto si avvalse dei consules suffecti: i due iniziali
raddoppiarono a 4 il numero dei consoli, ma alla fine giunsero a 24.

I comizi e la destinatio. Restava il problema del controllo delle funzioni elettorali dei comizi.
Quando morirono i giovanissimi eredi di Augusto, Caio e Lucio Cesari, suoi nipoti in quanto
generati dalla figlia maggiore Giulia con Agrippa e dal principe adottati, egli poté approfittare
della loro enorme popolarità e della commozione collettiva alla loro prematura scomparsa, per
manipolare il funzionamento elettorale dei comizi senza suscitare malcontento.
Nel 5 d.C. una lex Iulia de destinatione magistratuum, istituiva 10 centurie miste di soli
senatori e cavalieri, intitolate ai principi defunti (5 a Caio e 5 a Lucio) che dovevano votare i
destinati a presentarsi ai comizi centuriati da una lista di candidati alla pretura e al consolato.
Accadeva così che i candidati alle più alte magistrature non si presentassero direttamente ai
comizi che riunivano tutto il populus romanus ma solo alle 10 centurie dell’aristocrazia
senatorio-equestre, ai cui ordines si accedeva in base al censo. Inutile dire che i candidati
ufficialmente sostenuti dall’imperatore venivano regolarmente eletti sia in prima che in seconda
consultazione. Non vi furono proteste, anche perché Augusto seppe avvantaggiarsi
politicamente dell’attesa epocale delle folle romane come di quelle provinciali. Alle prime offrì
una mistica, che coniugava una nuova teologia di Stato col concetto di delega della
sovranità popolare, insito nelle elezioni repubblicane: dai Campi Elisi, dove i giovani principi
erano ritratti nelle arti figurative, Caio e Lucio esprimevano le proprie scelte attraverso il voto
delle centurie a loro intitolate.

Il senato e la sua nuova attività giurisdizionale.


Le deliberazioni senatorie continuarono a chiamarsi senatusconsulta, ma mentre in età
repubblicana dovevano essere recepite dal magistrato richiedente, nel principato acquistarono
valore di legge.
In materia criminale alcune competenze che in età repubblicana erano state proprie delle corti
permanenti e delle “giurie popolari”, si aggiunsero al crimen maiestatis nel costituire una
giurisdizione propria del senato. Il crimen maiestatis poi, che consisteva nell’attentato alla
sicurezza dello Stato attraverso una rivolta armata o nell’attentato alla vita o all’incolumità dei
magistrati, si estese a tutela della persona del principe.
L’attività normativa del senato divenne talmente abituale che in un manuale di insegnamento
istituzionale del II secolo d.C. il modesto giurista Gaio, scrive che è “scontato che il senato
pubblichi di propria iniziativa una deliberazione che solo per tradizione continua a chiamarsi
senatus consultum perché non consegue più ad una consultazione ma sente poi il bisogno di
precisare che anche nel caso che la richiesta vi sia, il richiedente non può sottrarsi
all’applicazione della delibera.”
Nel Campo del diritto privato andranno ricordati alcuni senatoconsulti innovativi:
-Il Macedoniano, che poneva il divieto di prestare denaro ai filii familias;
-Il Claudiano, che sanciva la riduzione in schiavitù per la donna libera che intrattenesse una
relazione sessuale con uno schiavo altrui, se non vi fosse il consenso del padrone.

Il processo cognitorio e il controllo della giurisprudenza. L’unicità del processo formulare


bifasico non durò molto, tantoché venne introdotta quella che è definita in dottrina Cognitio
extra ordinem, così intendendosi che questo tipo di processo si svolgeva al di fuori
dell’ordinario processo formulare.
Mentre il processo per formulas prevedeva una fase in iure, di fronte al magistrato e una apud
iudicem, di fronte al giudice privato, la cognitio si svolgeva in fase unica ed era gestita
interamente da una pubblica autorità. All’inizio Augusto assegnò tale cognitio allo stesso
pretore ma poi invalse la consuetudine che il principe nominasse un funzionario imperiale,
responsabile di fronte al principe, per gestire il processo. Fu così che l’imperatore iniziò ad
ingerirsi anche nell’attività giurisdizionale. Inoltre la cognitio non si applicò solo ai iudicia
privata ma esautorò le quaestiones perpetuae repubblicane nei iudicia publica e specialmente
nella giurisdizione criminale. La cognitio nel campo dei publica iudicia comporta un
mutamento del sistema da accusatorio in inquisitorio: infatti mentre la pubblica accusa
poteva essere intentata da chiunque di fronte alle quaestiones, da cives romani come da
peregrini, nella cognitio è la pubblica autorità cui spetta di inquirere, cioè di istituire il
processo, condurre le indagini ed acquisire le prove attraverso gli organi di polizia di cui
dispone. In caso di pena comportante la condanna a morte, se l’imputato era cittadino romano,
la competenza esclusiva spettava al tribunale imperiale. In diversi periodi fu ammesso l’appello
al principe da parte dei peregrini condannati dal governatore provinciale. L’imperatore era
normalmente assistito da un consesso di giuristi (consilium principis), che nel II secolo con
Adriano, divenne un organo stabile e permanente.
Quanto all’attività giurisprudenziale dei privati, questi (Augusto) la limitò poiché introdusse un
ius publice respondendi ex auctoritate principis. In tal modo non si impediva ai giuristi di
esercitare liberamente l’attività rispondente, ma quelli forniti dell’auctoritas imperiale si
vedevano riconosciuti i propria responsa come più autorevoli rispetto a chi di quell’auctoritas
era stato sfornito.

Il governo delle provincie.


Nel 30 a.C. Ottaviano aveva conquistato l’Egitto, ponendovi come governatore il suo valente
generale ed amministratore, Caio Cornelio Gallo, già luogotenente di Cesare. I governatori
provinciali erano stati prima di allora sempre tratti dall’ordo senatorius e era invalsa la
prorogatio imperii che consentiva ai consoli e pretori usciti di carica di governare, per lo più
l’anno successivo, la provincia loro assegnata dal senato in veste di proconsoli e pretori. Ma
Gallo era di rango equestre né era mai stato console o pretore: non poteva dunque essere
nominato né proconsole né pretore. Egli era praefectus dell’esercito di Ottaviano quando questi
lo nominò primo praefectus Alexandreae et Aegypti.
La più ricca provincia romana era così sottratta al governo del senato poiché il prefetto era un
delegato di Ottaviano, ancora triumviro ed a lui solo rispondeva. Il senato assunse ciò a
pretesto, nel voler tutelare lo stesso principe, e riuscì ad incastrare Gallo in un modo che a noi
romani oscuro ma che comportò una grave accusa politica ed un processo dinanzi al senato cui
il prefetto preferì sottrarsi con il suicidio.
L’interessata sollecitudine del senato per l’imperatore non conseguì però l’effetto che si
prefiggeva: ai senatori fu interdetto l’accesso alla nuova provincia populi Romani se non
espressamente autorizzata dal principe. Egli sperimentò per la prima volta una nuova forma di
amministrazione delle provincie. Le più importanti militarmente, e poi tutte, furono così
ricomprese nel suo imperium proconsulare maius decennale, ma in realtà prorogato ad
infinitum. Le provincie che Augusto aveva conquistato furono da lui governate attraverso suoi
legati di rango sia senatorio che equestre ma che comunque rispondevano a lui, anziché al
senato, dei propri atti di governo e di amministrazione finanziaria e militare.
Gradatamente però si affermò l’uso di nominare in queste provincie, che furono dette
“imperiali”, un delegato dell’imperatore tratto dal rango equestre: praefectus Augusti fu detto,
o procurator, fornito o meno dello ‘ius gladii’ cioè della facoltà di comminare condanne a
morte per i provinciali, a seconda dell’importanza sua e della provincia. Ma alcune provincie
conquistate in età repubblicana furono in diverse epoche e per diverse ragioni, come ad
esempio il malgoverno, sottratte a quei governatori e rimesse al principe. Tuttavia questi traeva
il proprio funzionario non dall’ordo equester ma dallo stesso ordo senatorius: il senatore che
governava per nomina imperiale la provincia sottratta al senato assumeva la titolatura di
legatus Augusti pro praetore e rispondeva al principe della sua amministrazione. Inoltre tutti i
funzionari imperiali venivano retribuiti dallo Stato. Con ciò si estirpava la radice, che induceva
proconsoli e propretori, detentori di cariche onorarie non retribuite, a procurarsi risorse per
mantenere il loro censo.

Paragrafo 2.2. Il dibattito moderno sulla natura “giuridico-costituzionale” del principato


augusteo
Le opinioni della dottrina moderna, che ha identificato il principato ora con una diarchia
senato-principe ora con un protettorato del princeps sull’ordinamento repubblicano, ora infine
con un vero e proprio dominato o con una monarchia, sembrano oziose. Esse sono anche
inadeguate a spiegare non solo la rappresentazione del nuovo status che Augusto volle dare in
termini di propaganda ma anche la sua realtà costituzionale. Il principato non può considerarsi
una diarchia sia perché il principe non può ritenersi un magistrato, sia perché i suoi poteri
furono enormemente superiori a quelli del senato e dei magistrati, come anche di quanti, come
Agrippa e Tiberio, ne condivisero la tribunicia potestas ma non l’auctoritas. Non si può
nemmeno accettare però la teoria del protettorato. La teoria del dominato o della monarchia è
poi palesemente inadatta per il principato di Augusto.
Il principato augusteo è una creazione politica originale non riducibile a schemi. Fu una
condivisione ineguale (a favore del principe) del potere fra l’uterque ordo e l’imperatore.
La teoria del governo misto sembrerebbe la più adeguata ma anche essa si presta alle critiche.
Esso dovrebbe semplicemente definirsi “principato romano” come autonoma categoria
costituzionale di una forma particolarmente complessa di governo, più di qualsiasi altra. Di
questa nozione di “principato romano” dovrà far parte la conservazione formale delle
strutture cittadine, il loro progressivo esautoramento nel quadro di un governo mondiale,
la tendenza lentissima del primus inter pares a trasformarsi in un monarca.
Il principato ebbe una graduale e lenta evoluzione verso forme di dispotismo illuminato
sorrette dal connubio tra la grande tradizione di tecnicità giuridica e amministrativa e un
plurisecolare pensiero greco-romano fondato sulle finalità filantropiche del governo
monarchico.

Paragrafo 3. La successione imperiale: l’impero tra ideologia della libertas e dispotismo


Nella sua ossessione di stabilità e sicurezza dello stato, Augusto si era impegnato per tempo ad
assicurarsi una pacifica successione, volendo evitare il divampare di una ennesima
conflagrazione inter cives. Poiché il principato non era una monarchia e pretendeva per di più
d’essere una repubblica non si poteva far valere il principio dinastico. Augusto si fece associare
nella tribunicia potestas il genero Agrippa, di cui aveva comunque adottato i figli, dei quali era
nonno, Caio e Lucio Cesari. Morto Agrippa nel 12 a.C. la vedova e sua seconda moglie Giulia
chiese al padre di sposare Tiberio.
Questo era figlio della terza moglie di Augusto, l’imperatrice Livia, e di Claudio Domizio che
l’aveva di buon grado ceduta al principe con il consenso di lei. In verità Tiberio era felicemente
sposato e innamorato di Vipsania, figlia di primo letto di Agrippa. Ma Livia, Augusto e Giulia
prevalsero: divorziato da Vipsania, il povero Tiberio fu associato alla tribunicia potestas
dall’imperatore quale segno della sua designazione alla futura successione.
Alla fine il progetto di Livia di vedere il figlio succedere Augusto, fu coronato al successo: nel
4 d.C. il principe adottò Tiberio tornato già dall’esilio e 10 anni dopo egli divenne imperatore.
Ma formalmente furono il senato e i comizi a ratificare la sua ascesa al trono imperiale.
Proseguiva così la distonia politica instaurata da Augusto: il “regno senza corona” aveva
adottato come propria ideologia la libertas di Catone Uticense. Se ci fu un principe convinto
degli ideali repubblicani questo fu Tiberio. Esponente di una delle più antiche aristocratiche
famiglie della repubblica, avrebbe voluto governare con la reale e fattiva collaborazione
politica del senato; egli rifiutò di proseguire la mistica augustea. Quando gli proposero di
intitolargli un mese, come s’era fatto per Cesare (luglio) e Augusto (agosto) rispose che
andando avanti di quel passo in futuro non sarebbero bastati i mesi dell’anno per tutti gli
imperatori che ci sarebbero stati. I tentativi di caratterizzare il regime del principato
nell’assolutismo orientale furono effettuati da imperatori come Caligola, Nerone, Domiziano e
Commodo. Essi furono considerati dalla storiografia d’ispirazione senatoria come dei folli
sanguinari e alla loro morte furono condannati alla damnatio memoriae: vennero abbattute le
loro statue, furono cancellate le loro immagini e il loro nome fu eliminato da tutte le iscrizioni.
La storiografia moderna ha invece in gran parte rivalutato il loro operato, interpretando il loro
assolutismo unicamente come una concezione politica dello Stato.

Tiberio: l’ineluttabilità dell’impero.


Tiberio fu esponente di quella gens Claudia, che si era identificata nelle memorie più sacre
della tradizione repubblicana: egli visse drammaticamente l’inevitabilità politica
dell’autocrazia, ma si tenne sempre lontano dalle suggestioni della monarchia di tipo orientale.
Benché credesse nell’astrologia come scienza per conoscere il futuro dell’impero, al contrario
del predecessore, Tiberio cercò di scoraggiare il più possibile le spontanee manifestazioni della
mistica messianica, cui Augusto aveva dato libero corso.
Rifiutò il titolo di imperator, lui che al contrario di Augusto, grande generale lo era veramente.
E rifiutò anche il titolo di Augustus che tuttavia gli fu spesso frequentemente attribuito e che
finì con l’usare nei confronti dei sovrani stranieri.
Politicamente la sua estrazione aristocratica accentuò il distacco dai populares di cesariana
memoria, che già Augusto aveva gradualmente iniziato. Così una lex Visellia del 24 d.C. da lui
ispirata, vietò libertà ai liberti, gli schiavi liberi e perciò dotati della cittadinanza romana, di
entrare nell’ordo decurionum, cioè nel senato cittadino delle colonie e dei municipi. Tale
provvedimento, foriero di vaste conseguenze sociali, politiche e giuridiche, rispondeva a quella
concezione elitaria dell’ideologia conservatrice senatoria, da sempre ostile all’indirizzo
politico cesariano. Roma intraprese un’azione di governo accentuando la riduzione delle
funzioni comiziali. Dopo la prematura morte di Germanico, di cui era zio, della quale fu
ingiustamente sospettato, gli intitolò altre 5 centurie nella procedura di destinatio
magistratuum, decretandogli anche onori divini. Premortogli poi il figlio Druso ne aggiunse
altre 5 nel 19 d.C. con una lex Valeria Cornelia.
Il mantenimento degli appalti pubblici in mano alle famigerate societas publicanorum fu
compensato da un estremo rigore nella pubblica amministrazione, che costò la vita a molti
funzionari profittatori.
Iniziò a creare una burocrazia imperiale per la riscossione dei tributi, affiancando a quelli
dell’aerarium del senato i propri schiavi specializzati nell’amministrazione delle finanze. Gli
schiavi presentavano il vantaggio di poter essere sottoposti a tortura in caso di furti o
malversazioni, ma erano poi premiati con la libertà e l’assunzione come funzionari pubblici
quando meritavano. Fu accusato di avarizia per la sua buona amministrazione dello Stato, che
avocò con la trasformazione del fiscus Caesaris da cassa privata a istituto pubblico collaterale
all’erario. Istituzionalizzò la guardia personale del principe nel corpo dei pretoriani e li collocò
armati nei Castra praetoria.
Il venir meno della dignitas e del senso dello Stato disgustarono a tal punto quest’uomo severo,
da indurlo a ritirarsi in solitudine a Capri, lontano dalla corruzione, dal servilismo della capitale
e da lì a governare il mondo, quasi una condanna per chi da quel mondo voleva fuggire.
L’occasione della fuga definitiva gli fu data nel 26 d.C. dal pericolo miracolosamente scampato
nel suo primo rifugio nella villa imperiale, appositamente costruita a Sperlonga. Tacito e
Svetonio ricordano la frana che si verificò li mentre il principe vi soggiornava con il prefetto
del pretorio Seiano. Seiano gli fece da scudo con il proprio corpo e da quel momento Tiberio
ripose in lui una sconfinata fiducia e lo lasciò governare a Roma, ritirandosi a Capri.
La personalità politica di Tiberio è quella di un principe dalla vita travagliata, che riconosciamo
in alcuni essenziali lineamenti del ritratto psicologico tacitiano. A Sperlonga e poi a Capri, egli
ci appare straordinariamente coerente con l’immagine della storiografia antica nel sotterraneo
rapporto, di tipo freudiano, col padre adottivo e al contempo padre politico: Augusto. Tiberio,
diviso tra ascendenza repubblicana e adozione imperiale, è segnato da un conflitto interiore
inestricabilmente politico e personale insieme e in ciò è intimamente homo politicus nel senso
romano: suspensa semper et oscura verba.
Quando Seiano iniziò a tramare contro il principe perché deluso nelle sue attese di successione,
Tiberio riuscì a farlo arrestare e uccidere. Ma perse così l’unica persona di cui si fidava. La
cognata Agrippina, moglie del fratello Druso, lo sospettò di avere fatto avvelenare il marito,
Germanico. Questi era amato dal popolo, molto più di Tiberio, e dalla folla preferito allo stesso
imperatore: tramite dell’omicidio sarebbe stato il proconsole di Siria Cneo Pisone.
L’impassibilità di Tiberio al processo, che voleva essere imparziale per non influenzare il
senato, fu interpretata come abbandono dell’amico: Pisone si suicidò prima di essere
condannato, così da risparmiare che i suoi discendenti fossero colpiti da infamia e che la sua
eredità fosse confiscata.
Tiberio fu infine costretto a far uccidere Agrippina che, per nulla convinta della sua innocenza,
tramava contro di lui; infine designò come successore uno dei suoi nipoti, nati dal figlio Druso.

Caligola: la tendenza alessandrina e la titolatura imperiale


Uno dei gemelli, nipoti di Tiberio morì all’età di soli 4 anni, mentre l’altro ne aveva 17 quando
morì il nonno: il testamento dell’imperatore che lo designava erede insieme a Caligola, fu
annullato perché Tiberio gemello era appunto minore. Così ascese al trono il solo Caligola, di
cui il defunto principe era prozio. Caligola era il figlio di Germanico e di quell’Agrippina che
proprio Tiberio aveva fatto morire, e discendente di Marco Antonio del quale si sentì erede
nella concezione politica orientale, contro la quale Ottaviano aveva orchestrato la sua
propaganda di guerra.
La storiografia, a lui avversa, lo descrisse come un folle in quanto nominò come senatore il
proprio cavallo, gesto che bisognerebbe interpretare come un vilipendio nei confronti
dell’immagine dell’odiato senato; per esempio l’ostentato amore per la sorella Drusilla non è
semplicisticamente configurabile come perversione, ma è invece l’assunzione, inaccettabile per
il costume romano, della tradizione endogamica che la dinastia tolemaica aveva fatto propria,
ereditandola dall’Egitto faraonico. Del suo breve principato rimangono delle acquisizioni
formali: l’adozione di titoli di Imperator e Augustus nella nomenclatura imperiale: tutti epiteti
che Tiberio aveva rifiutato per segnare il ritorno alla tradizione repubblicana. La sua
propensione ai modelli orientali della mistica di Stato, che astutamente Augusto aveva lasciato
fomentare nelle provincie mostrando di schermirsi e stigmatizzarle a Roma, non fu invece
sposata dal successore di Caligola, Claudio.

Claudio: amministrazione e ecumenismo imperiale


La pessima fama di cui gode è dovuta all’odio che la storiografia senatoria ebbe per un
imperatore che, pur appartenendo alla dinastia Giulio-Claudia, ma non più Giulia, non era
espressione della volontà politica del senato, bensì dei pretoriani che, avevano pensato che un
incapace e un menomato fisico fosse un debole inesperto politicamente. Così non era: i
pretoriani si ripromettevano di sfruttarne la presunta malleabilità e manovrabilità (moneta di
imperium receptum, dall’altro lato l’imperatore che stringe la mano a un pretoriano; c’è
raffigurato il castro pretorio con una personificazione, la dea Roma, che esclama dagli spalti:
Claudio è stato acclamato imperatore del pretorio).
Tuttavia, egli governò benissimo; una singolarità dell’Impero Romano è che ha prodotto per
secoli un intero ceto politico di persone competenti. La trasmissione del sapere di governo, in
assenza di scuole e istituzioni ad esso deputate, informa la riflessione degli storici politici come
Tito Livio, maestro di Claudio, il quale ha una precisa percezione dell’innovazione costituita
dal sorgere dell’ordine equestre e sposa politicamente la causa della plebe. Non è un caso che la
causa della redistribuzione del reddito sia il perno del sistema del principato. Proprio per
Claudio, attraverso l’autore ebreo Giuseppe Flavio, sappiamo che l’imperatore era considerato
un morso per l’avidità di ricchezze che aveva il senato. Una voce miracolosamente
sopravvissuta fino a noi e che ci fa capire la deformazione della visione senatoria. Claudio
capisce anche che si deve costituire alleanze, per cui sposa, ripudiando la precedente moglie, la
giovanissima Messalina (uccisa a 27 anni). Messalina faceva parte di una famiglia che gli
potesse dare consenso in senato, visto che la sua elezione era dovuta alle armi pretoriane.
Claudio aveva dato prova di essere un uomo di carattere, come quando rifiutò di dimettersi,
affermando di ispirarsi ad Augusto.
Claudio riprende l’abbandonato progetto di Cesare sull’estensione della cittadinanza romana
e la promuove nei limiti possibili; un’intera popolazione, quella degli Anauni, tra l’attuale
Lombardia e il Veneto, viene insignita della cittadinanza; loro contingenti notevoli militavano
tra i pretoriani (Tabula Clesiana). Ben conoscendo le riserve dei patres conscripti in materia
dei privilegi della romanità, e avvalendosi della sua autorità di storico, cercò di vincere i
pregiudizi del senato, adducendo gli exempla maiorum.
Nel 40 a.C. prepara l’invasione della Britannia. Aveva un’alternativa: o varcare il Reno,
chiudere i conti con la Germania, vendicare la strage di Varo e completare l’opera di Tiberio,
che si era fermata a Colonia Agrippinorum, limite massimo della provincia costituita. L’altra
era varcare la Manica e conquistare la Britannia 1. Tale alternativa determina tuttora la
configurazione dell’Europa, perché era chiaro che a quel punto l’Impero Romano non avrebbe
mai più tentato di conquistare la Germania. Claudio invera una politica espansionistica con cui
può vantarsi di aver portato le armi di Roma ultra oceanum, ma il generale che condusse le
operazioni militari non fu lui.
La sua lungimiranza si riscontra anche nella protezione che accordò ai soggetti deboli, con
provvedimenti favorevoli alle donne, agli orfani, nei confronti degli schiavi abbandonati
nell’isola Tiberina, impedendone l’uccisione per futili motivi.
Egli struttura inoltre, in maniera formale, un’esperienza che, contrariamente a quello che si
crede, inizia con Tiberio e che consiste nell’impiego degli schiavi e dei liberti
nell’amministrazione imperiale; una burocrazia rinnovata, incrementando la formazione degli
amministratori, un’operazione osteggiata dal ceto senatorio ma segno di una grande visione
politica.
Gli schiavi amministratori percepivano un emolumento ed erano assistiti da schiavi personali, i
quali avevano alle proprie dipendenze molte professionalità. Tale strategia si può rimandare a
un principio di deterrenza all’illegalismo e alle ruberie, corroborato dalla garanzia lavorativa
e dal conseguimento della qualifica di liberto a servigi ultimati.
Il matrimonio di Claudio con Messalina (uccisa perché ordiva una congiura) va in fumo dopo
l’opportunità, accolta dallo stesso Claudio, di instaurare un rapporto con una famiglia
maggiormente in auge, quella di Agrippina Minore, figlia di suo fratello.
La stessa Agrippina, una volta venuta a conoscenza dell’intento di Claudio di cambiare la
propria disposizione testamentaria in favore del figlio naturale Britannico, l’avrebbe ucciso
somministrandogli una pietanza avvelenata (funghi).
Il senato gli decretò l’apoteosi, che era stata negata a Tiberio e ovviamente a Caligola, ma
concessa solo a Cesare e Augusto. Seneca allora, amico di Agrippa e precettore del
giovanissimo Nerone, lo irrise scrivendo una satira, la “zucchificazione” del dio Claudio
operata nell’ Apokolokyntosis: il componimento narra la morte di Claudio e la sua ascesa
nell’Olimpo nella vana pretesa di essere assunto tra gli dei, i quali lo condannano a discendere
agli Inferi, dove egli finisce schiavo del nipote Caligola e da ultimo viene assegnato al liberto
Menandro; una sorta di contrappasso per chi aveva fama di essere tenuto in pugno dai suoi
liberti.

Nota 1. La Britannia parla oggi una lingua il cui lessico è neolatino, il sistema giuridico del Common
Law è desunto dalla tradizione romana rispetto a quello neoromanistico, che ha subito la
codificazione di Napoleone, quindi la sostituzione della libertà creativa dell’interpretazione del diritto
con una norma codificata. Il terzo sistema, quello cinese, è una ripresa moderna del diritto romano,
applicato e interpretato con libera interpretazione.

Nerone: il ritorno della concezione alessandrina. Nerone liquida con un assassinio


Britannico. Nei primi 5 anni del suo regno Nerone è assistito da Agrippina, esponente degli
interessi del senato, e dal precettore Lucio Anneo Seneca (quinquennio felice).
Il rapporto tra Nerone e Agrippina doveva essere morboso in quanto Nerone sposò poi una
donna, Poppea Sabina, sosia ringiovanita della madre.
Nerone decide di eliminare la madre con un inganno: finge di volersi riconciliare con lei,
invitandola nella villa imperiale. Una volta finita la cena, la fa prelevare da una nave dotata di
una botola che le sarà fatale.
Tacito rappresenta Agrippina che ostenta il ventre e dice sprezzante al centurione inviato ad
ucciderla, perché colpisca laddove è nato il mostro.
L’impero di Nerone, dopo la scomparsa di Agrippina e Seneca, è dipinto come abominevole.
Tale invece non era, non gli è infatti imputabile l’incendio di Roma del 64, occasione in cui si
mostrò prodigo per la ricostruzione della città, commettendo però un solo errore. Rimandandosi
infatti alla concezione orientale monarchica e teocratica del potere, fa erigere un enorme
colosso, Nero Helios, che lo raffigura con le sembianze del Dio Sole e fa costruire,
espropriando gran parte della città, la cosiddetta Domus Aurea. E’ vero che fa ricostruire con
materiali ignifughi Roma, ma si impadronisce della città dal momento in cui una gran parte
della cittadinanza è sfollata.
Per risanare le finanze dello stato fa produrre dalla Zecca dei dischetti invisibili che
sostituiscono il 20% dell’argento con un altro gallo (rame, piombo). Tale falso di Stato non è
rilevabile da un’incisione, tant’è che si è appurato solo vent’anni fa che le monete siano
suberate (recanti una lamina bronzea). L’imperatore in questa maniera incrementa, senza che
appaia, il 20% del patrimonio statale, avendo i denari valore nominale.
Nerone avrebbe inoltre voluto un provvedimento che prevedesse l’esenzione tributaria della
Grecia, segno del ruolo paritario che intendeva riconoscerle nella formazione della civiltà
come nel governo dell’ecumene romana.
Lo stretto legame con la cultura greca di Nerone si denota dalla sua propensione alla
recitazione teatrale, distogliendo i contemporanei dagli spettacoli gladiatori.
Si racconta che quando ci fu a Napoli una scossa di terremoto, che poteva provocare migliaia di
vittime, egli scese nel centro del teatro, gridando alla folla: “Non abbiate paura, sono gli dei che
lo applaudono”.
Con la medesima connotazione valoriale, si narra che prima di darsi la morte per evitare la
verberatio, egli abbia esclamato: “Qualis artifex pereo”.
Nel 66 Nerone scelse con grande sagacia il suo più valente generale, Flavio Vespasiano, per
reprimere l’ennesima rivolta divampata in Giudea, affrontata in prima battuta dal contingente
confinante del proconsole della Siria, miseramente sconfitto. La fazione di fanatici giudei,
galvanizzati dalla vittoria, arriva a uccidere il ceto sacerdotale, che aveva consigliato di
intavolare una trattativa; questa mossa determinerà la fine delle aspirazioni giudaiche.

L’anno dei tre imperatori e l’avvento dei Flavi (Vespasiano)


Con Nerone si estinse la dinastia Giulio-Claudia: sul momento fu nominato imperatore il
vecchio senatore Galba, espressione della rivolta in senato. Ma altri due pretendenti, Otone e
Vitellio, provocarono una nuova guerra civile, di cui prima vittimi fu Galba.
Allora il generale Tito Flavio Vespasiano, che fin dal 66 soffocava la rivolta in Giudea1 per
ordine di Nerone, fu proclamato Cesare ad Alessandria dalla legione della confinante provincia
d’Egitto. Piombato sull’Italia nel 69 non ebbe bisogno di colpo ferire: Vitellio era stato linciato
a Roma ed Otone preferì nobilmente suicidarsi per evitare un bagno di sangue fratricida. Al
senato non restò che ratificare la nomina di Vespasiano ad imperatore per acclamazione
dell’esercito.
Così per la prima volta ascese al soglio imperiale un equestre. Egli non aveva ereditato dalla
famiglia di Augusto il charisma, la grazia divina ch’era stata fino ad allora requisito per il
potere imperiale; mancavano auctoritas e maiestas al nuovo e inatteso padrone di Roma.
I “miracoli” di Vespasiano si datano al 69 d.C.: questi miracoli vengono poi attribuiti a Gesù.
Il vangelo più antico è quello di Marco, normalmente datato abbastanza tardi – verso il 90, ma
c’era anche chi lo datava intorno al 70. Questa datazione è forse la più probabile, perché è in
prossimità dell’evento che si spiega meglio la “competizione” tra Cristo e i miracoli
Vespasiano.
Vespasiano fa intendere ai Romani di non essere agente di miracoli – come pure viene
acclamato –, però tutta questa gratia, questo χάρισμα [-ατος, τό] (favore, dono) che gli viene
attribuito da parte della divinità proviene dal mondo orientale, che è numericamente superiore
alla popolazione romana. I romani ritengono invece che i poteri – imperium proconsolare
maius et infinitum e tribunicia potestas – vengano dall’imperatore ottenuti con una ratifica del
senato, il tutto con un senatusconsultum detto lex (de imperio) Vespasiani.
Quel che è certo dal testo epigrafico è comunque che il principe non era considerato legibus
solutus, perché espressamente esentato solo da quelle leggi e plebisciti da cui erano esentati
Augusto, Tiberio e Claudio. La delimitazione dei poteri per l’imperatore non fu un’esigenza
avvertita specificatamente per Vespasiano dopo “la degenerazione tirannica” dell’impero di
Nerone, ma un’esigenza politico-costituzionale che si pose subito dopo la morte di Augusto.
Vespasiano instituì anzitutto il cosiddetto fiscus Iudaicus, cioè una tassa equivalente a quella
che prima della distruzione di Gerusalemme, tutti gli Ebrei pagavano al Tempio. Allo stesso
fine di risanamento delle finanze pubbliche, organizzò l’impianto delle latrinae e la raccolta
dell’urina, utilizzata dalle corporazioni di fullones, gestori di lavanderia, per ricavarne l’acido
urico al fine di disinfettare le vesti. All’obiezione del figlio Tito, Vespasiano rispose con la
celebre frase che pecunia non olet. I fondi da essa derivanti venivano incamerati dal fiscus
Caesaris, divenuta ora una cassa pubblica, ma sottratta al senato e direttamente gestita
dall’imperatore attraverso schiavi specializzati nell’amministrazione finanziaria.
La politica edilizia del principe, s’ispirò tutta alla concezione del publicum in antitesi alla
privatizzazione neroniana, la cui Domus Aurea fu restituita alla cittadinanza, nell’ottica di una
vera e propria ecumenica Roma resurgens.
L’imperatore che guariva cechi e storpi e faceva miracoli, iniziò una politica di soccorso
dell’infanzia povera e abbandonata, anche per far fronte alla crisi demografica, fondando
istituzioni di soccorso. La cosa era utile per il reclutamento nelle forze armate, nelle quali,
raggiunta l’età, confluivano poi molti fra i salvati dalla strada, dal momento che fu il primo dei
Flavi ad esentare i romani dall’obbligo di leva, dando così inizio alla provincializzazione
dell’esercito.
Rendendosi conto di trovarsi in punto di morte, Vespasiano, quando gli chiesero come si
sentisse, rispose che sentiva stesse per divenire dio. Questa sovrana ironia sull’apoteosi
dell’imperatore è il segno della concreta italicità del principe.

Nota 1. Vespasiano non dimenticò che uno dei comandanti della rivolta giudaica, Giuseppe, gli aveva
predetto l’ascesa al soglio imperiale. Quando la profezia di avverò Vespasiano non solo gli donò la
libertà, ma anche la cittadinanza romana e il rango senatorio. Egli allora assunse il nomen dei Flavi e
come Flavio Giuseppe divenne lo storico della dinastia, scrivendo la Storia giudaica per convincere
gli Ebrei che l’Avvento del Messia dovesse riconoscersi nell’ascesa di Vespasiano. Bisogna tuttavia
rammentare che egli aveva dato inizio alla costruzione dell’Anfiteatro Flavio col bottino del sacco di
Gerusalemme e che la Menorah, il candelabro a sette braccia sacro al giudaismo era stata esibita in
trionfo a Roma.

Flavio Tito e Domiziano: l’autocrazia illuminata e il conflitto col senato


Tito regnò solo dal 78 all’81, un periodo troppo breve per essere ricordato nel tempo e lasciare
un segno indelebile. Ma l’eruzione del Vesuvio nel 79 gli diede modo di soccorrere quella parte
della popolazione che era sopravvissuta al disastro. Per questo e per i suoi magnifici giochi
gladiatori e di caccia alle belve egli fu detto “delicia humani generis (delizia del genere
umano). Ma un giudizio più umano non definirebbe deliziosi gli spettacoli dove il solo
spargimento di sangue doveva recare divertimento alla popolazione, eppure ancora oggi il
persistere di questi spettacoli dimostrano il radicamento di tali divertimenti della società
romana nei peggiori istinti dell’umanità.
La politica “democratica” dei Flavi, mutò con l’ultimo esponente, quel Domiziano dipinto
dalla storiografia senatoria con tratti tirannici; questa tuttavia non poté cancellare né alterare il
giudizio positivo sulla sua amministrazione finanziaria.
A Domiziano si deve la concessione di civitas Romana alle città ispaniche. Furono date allora
costituzioni municipali e coloniarie con ordinamenti giuridici esemplari sul modello dell’Urbe,
che romanizzarono profondamente la penisola iberica fino ai nostri giorni. Ossessionato dal
rischio, del resto reale, di congiure, Domiziano fu accusato di tirannide e assassinato in una
congiura ordinatagli all’interno del palazzo imperiale.

Nerva e Traiano: espansionismo “cesareo” e restitutio reipublicae augustea


Successore di Domiziano fu l’anziano Nerva, il quale per prima cosa usurpò la statua di
ispirazione macedone che raffigurava Domiziano al fine di cancellare la sua memoria e
successivamente attuò una politica dedita al risollevamento delle coloniae romane e dei
municipia in Italia. Data l’età, gli si diede un giovane collega, cosa che poteva dare l’illusione
che si fosse ripristinato il principio diarchico repubblicano nell’ordinamento dello Stato. Anche
il giovane collega di Nerva era, come lui, un generale: Marco Ulpio Traiano, nato da un padre
che era stato console e proconsole, nel municipium di Italica in Spagna.
Traiano fu il primo provinciale a diventare imperatore e lo fu nel segno formale della restitutio
libertatis conculcata dal tirannico Domiziano. Quest’ultimo aveva perseguitato il filosofo
Dione Crisostomo per le sue idee cinico-stoiche, che negavano la divinità dell’imperatore, pur
ritenendolo ispirato dal Logos.
Traiano invece proprio per questo portò in auge Dione concedendogli la sua amicizia, e
s’attenne alle sue idee. A Roma esse trovarono espressione in Tacito e Plinio il Giovane: questi
due senatori nutriti di ideali repubblicani erano sufficientemente realisti da non sognare
neppure la restaurazione della vecchia respublica, ma riconoscevano in Traiano la figura
esemplare di governatore dell’impero, l’optimus princeps dell’orbe romano. Il principe cesareo
per antonomasia si vide costretto a mutare la tradizionale strategia romana di contenimento dei
barbari. Fino all’età flavia la formazione di “Stati-cuscinetto” alle frontiere garantiva che lo
Stato alleato si facesse carico di fermare le invasioni barbariche; il sistema poteva funzionare
solo se la deterrenza dell’esercito romano sconsigliava ai sovrani alleati di sottrarsi alla loro
funzione di contenimento. Ma il re della Dacia, Decebalo, aveva intrapreso una politica di
unificazione delle tribù daciche, ribellandosi a Roma; un’insurrezione repressa per due volte da
Traiano che, nel 106 d.C. non risolse solo i problemi strategici ma anche quelli finanziari
dell’impero, conquistando la Dacia ricca di miniere aurifere e argentifere. L’oro e l’argento
dacico consentirono a Traiano non solo di risolvere i problemi economici con l’afflusso di
grandi ricchezze, ma anche di abbassare il valore della moneta aurea, immettendo nuovi aurei
nella circolazione monetaria e così valorizzando il denarius d’argento, detenuto dai ceti medi,
nel cambio con l’oro.
Il colossale foro che egli costruì a Roma a celebrazione della sua vittoria dacica ospita ancora
la colonna coclide, che ne narra in una straordinaria rappresentazione le imprese: in essa
Traiano propone se stesso ai contemporanei, alla posterità ed ai suoi successori. Vediamo il
principe sempre fra i suoi ufficiali e soldati mentre dirige le operazioni belliche: egli dunque
non è mai ritratto nella colonna e raramente lo è in altri monumenti, nelle convenzioni dell’arte
figurativa che lo prediligono in veste di combattente e abbattitore di nemici. Ma al valore
militare di Traiano affianca il programma civile che trova nelle biblioteche greche e latine, le
quali si ergevano attorno alla colonna, la traduzione più significativa della paideia come
suprema finalità istituzionale del potere. Ma la paideia di Traiano è romanamente
caratterizzata: la sapienza giuridica racchiusa negli editti dei pretori repubblicani si custodiva
anche dopo Adriano nella biblioteca latina del foro traianeo. Di fronte alla colonna sorgeva la
basilica Ulpia, l’edificio dove si amministrava la giustizia a coronamento del programma
politico e edilizio del principe che dichiarava di voler conquistare con l’esempio il rispetto dei
cittadini e rifiutava di imporlo perseguendo il crimen maiestatis.
E il crimen maiestatis non volle applicarlo neanche ai cristiani, processati per il crimen lesae
Romanae religionis, il crimine di vilipendio alla religione di Stato. Vietò tuttavia che i
magistrati li ricercassero di propria iniziativa e impose loro di rifiutare le delazioni anonime.
Traiano creò le premesse perché il cristianesimo non fosse estirpato quando ancora sarebbe
stato possibile farlo. I tempi non erano maturi perché egli potesse riconoscerlo quale
sotterraneo pericolo per l’impero, per i suoi fondamenti politici e ideologici e per la saldezza
civica della società romana. Affrontò invece la crisi demografica e il problema sociale
dell’infanzia misera, esposta ed abbandonata insieme ai primi sintomi della crisi economica di
quei medi possidentes fondiari d’Italia. Traiano assunse iniziative in uno spirito di decisa
innovazione proseguendo e potenziando un’opera ch’era stata intrapresa solo in nuce sotto i
Flavi. Lo Stato s’ incaricò di raccogliere gli orfani in tutta Italia, con un’organizzazione
capillare nelle città, allevandoli e conferendo alle femmine anche una dote per il matrimonio.
Ai fanciulli veniva corrisposto un sussidio fino al raggiungimento della pubertà, differenziato
fra maschi e femmine ed a seconda della condizione di figlio legittimo o illegittimo. I fondi
necessari a queste iniziative, che furono chiamate institutiones alimentariae, a partire dal 99
d.C., vennero tratti da un ingegnoso sistema di mutuo a basso tasso d’interesse, dal 2,5 al 5%
annuo, con variazioni su base territoriale: lo Stato prestava denaro-con restituzione a lungo
termine sul capitale-a medi e piccoli proprietari terrieri in Italia, che volessero investire nel
miglioramento dei fondi e degli attrezzi agricoli. Gli interessi percepiti dallo Stato erano bassi
ma la dimensione di massa dell’operazione consentiva di finanziare con essi le institutiones
alimentariae. Al momento dell’assegnazione dei prestiti agrari, dai cui interessi dovevano
finanziarsi gli alimenta Italiae, veniva ipotecato al massimo fra l’8 e il 10% dei terreni: la
convenienza del prestito era perciò evidente. L’organizzazione era capillare e riguardava sia
l’Urbe sia i municipia di tutta Italia per 53 dei quali possediamo attestazioni. In questi si
attribuirono le competenze e le funzioni necessarie all’espletamento dei compiti ai quaestores
pecuniae publicae. In tali casi essi furono denominati quaestores pecuniae publicae et
alimentariae.
Si risollevò in tal modo la condizione dell’agricoltura in Italia, s’incrementò la coltivazione
diretta dei fondi, s’affrancò da bisogno il ceto dei piccoli agricoltori, si combatté la crisi
demografica. Il sistema dei prestiti agricoli e degli alimenta restò in uso fino al III secolo,
quando finì col soccombere alla crisi economica e all’anarchia militare.
E disponendo di un tale esercito professionale, addestrato e moralmente motivato, Traiano
decise di risolvere l’eterna disputa della sicurezza dell’impero sul confine partico, minaccia alla
provincia della Siria. Il rifiuto di ricevere gli ambasciatori, che i Parti gli avevano inviato per
negoziare la pace quando Traiano era ancora ad Atene, si spiega con un profondo
cambiamento della grande strategia dell’impero romano. Augusto aveva inaugurato la
politica degli “Stati cuscinetto”: dove i confini provinciali erano insicuri per il rischio di
invasioni barbariche, Roma trovava più conveniente costituire regni vassalli ma alleati e
indipendenti. La stessa inaffidabilità dei Daci Traiano riconobbe nel regno partico, maturando
la decisione di intervenire. Egli penetrò profondamente nel regno partico, conquistandone la
capitale Ctesifonte e morendo di spossatezza durante la campagna, senza aver mai designato un
successore.
Aveva tuttavia sotto la sua custodia un giovane di nome Elio Adriano che era anche lontano
parente dell’imperatore ma che tuttavia non era stato designato come successore in quanto
probabilmente Traiano vide in lui colui il quale avrebbe sovvertito la politica espansionistica di
Roma che fino ad ora era stata messa in atto. La moglie di Traiano però era di tutt’altro avviso
e così ordì una falsa designazione sul letto di morte a favore di Adriano. Quest’ultimo fu
acclamato dalle truppe e perciò non passò molto tempo che giunse la ratifica ufficiale del
senato che designò Adriano come nuovo imperatore. Non essendo d’accordo con la politica
espansionistica di Traiano il suo successore decise di abbandonare la campagna contro i Parti
proponendo loro una pace vantaggiosa e inattesa per il nemico. Un grande esperto di strategia
come Luttwak giudica consona la scelta adrianea di consolidamento, e ravvisa negli alti costi
dell’occupazione diretta, con la rinuncia alla politica degli “Stati cuscinetto”, un elemento
essenziale della crisi economica e militare dell’impero.

Adriano: l’ellenismo e le province


Sotto il principato di Adriano, il retore Aristide propaganda nell’Encomio di Roma, la
concezione ecumenica dell’impero retto da un principe illuminato, che egli contrappone sia al
dispotismo orientale, sia al nazionalismo delle monarchie ellenistiche, sia infine al
particolarismo delle poleis. Aristide coglie anche la divisione orizzontale della società
imperiale nella solidarietà e nel privilegio tra l’uterque ordo e i ceti aristocratici e borghesi
delle province. Nella concezione della Aeternitas di Roma, egli attinge a una visione quasi
trascendente della missione romana: Adriano, principe filoellenico, recependo la tradizione
ellenistica, nata a Locri Epizefiri, delle divinità di Roma, erige il grande tempio urbano di
Venere e Roma e ne celebra l’eternità nelle iscrizioni e nelle leggende monetali.
Da Traiano in poi tutti gli imperatori romani furono di origine provinciale, appartenendo spesso
a familias italiche trapiantate da generazioni nelle provincie. Lo stesso Adriano, pur essendo
cresciuto a corte, proveniva dal mondo provinciale; si comprende dunque il crescente ruolo di
esse nell’impero.
Come nell’Encomio di Aristide le provincie non erano le schiave, ma le sorelle di Roma, così
nei monumenti adrianei e nel tempio che costruisce il successore Antonino Pio la loro
raffigurazione muta, ed esse si trasformano dalla convenzionale immagine di donne barbare
assoggettate in quella di donne piene di fierezza che, sorreggendo le architetture celebrative,
suggeriscono l’idea che sorreggano l’impero. Dopo la fase espansionistica Adriano volle
contenere e talvolta contrarre i confini dell’impero per rafforzare le difese, inaugurando la
costruzione di grandi opere militari stabili, il cosiddetto Vallum in Britannia e riorganizzando le
forze mobili di pronto intervento. Imperatore filoellenico per eccellenza, Adriano si lascerà
crescere la barba secondo la moda greca, allusione alla sapienza filosofica necessaria a
governare l’impero mondiale.
Seguirà i costumi greci anche nella pederastia, nelle poleis un’istituzione pedagogica pubblica,
e esibirà la sua relazione con il giovinetto Antinoo.
Particolare importanza riveste anche la politica giudiziaria adrianea: sottraendo
definitivamente ai pretori la modificabilità dell’editto, codificato da Salvio Giuliano, Adriano
concluse anche nel campo giudiziario il primato del principe sulle istituzioni repubblicane
sopravvissute. Non vi è anzi da dubitare che egli abbia conferito tale incarico a Giuliano al fine
di sottrarre ai pretori e promagistrati qualsiasi residua autonomia nella propositio degli editti
giurisdizionali.
Operò del pari intelligentemente per accentuare il controllo sulla giurisprudenza. Così anche
lo ius publice respondendi ex auctoritate principis, istituito da Augusto, venne ad essere del
tutto svalutato e si estinse di fronte al ruolo dei rescripta che il consilium principis approntava
a nome dell’imperatore. Con Adriano ha inizio il processo di accentuazione del ruolo e della
dimensione politica delle costituzioni imperiali, cioè di quegli atti normativi volti alla
collettività o ai singoli individui, sia privati che rappresentanti delle istituzioni, che erano
promulgati dal principe.
I liberi responsa prudentium sono crescentemente sostituiti dai suoi rescripta, i quali, pur
fornendo supporto e tecnicità scientifici, si mantengono sul piano dell’interpretazione de iure e
dunque non intervengono sulla decisione di merito, sulla verifica cioè della veridicità delle
asserzioni in base all’acquisizione delle prove, mentre i decreta e i mandata, sentenze e
istruzioni per funzionari e promagistrati, segnano la forma più autoritativa e innovativa
d’ingerenza del principe nella giurisdizione. Adriano segna pertanto l’inizio del mutamento
istituzionale nella dinamica del rapporto sistemico tra libertà della giurisprudenza e potere
imperiale. Può parlarsi di una svolta adrianea nei modi di produzione del diritto, la quale
darà avvio a un processo di stabilizzazione giuridico normativa che si concluderà in età
severiana. La “codificazione” edittale giulianea comporta il consolidamento del sistema di
rimedi processuali e dell’interpretatio iuris che vengono strutturati nell’apparato del potere
imperiale: s’innesta così un processo dialettico tra attività normativa e interpretazione
giurisprudenziale.

Gli Antonini: la filosofia di governo del saeculum aureum


Consapevole del rischio di guerra civile che avrebbe potuto correre egli stesso alla morte di
Traiano, Adriano nel 136 adottò come successore L. Ceionius Commodus che assunse il nome
di Lucius Aelius Caesar, che però morì alle Calende di gennaio del 138, pochi mesi prima di
Adriano. Questi allora volendo assicurare massima stabilità all’impero per il tempo più lungo
possibile, non solo designò alla successione, adottandolo, Antonino Pio. Ma dispose che egli
dovesse a sua volta adottare Marco Aurelio ed il figlio di Elio Cesare, Lucio Vero, per garantire
stabilità nella successione imperiale per due o tre generazioni. Antonino e Marco si rivelarono
ben più rispettosi del senato di quanto non fosse stato Adriano. Sotto Antonino Pio e i suoi
successori le institutiones alimentariae, l’assistenza pubblica agli orfani, l’evergetismo delle
aristocrazie locali nel sopperire alla necessità delle città in emulazione con la Providentia
Caesaris, traducono nella realtà politica la filosofia di governo dei principi. Le istituzioni di
raccolta e tutela dell’infanzia sono poste sotto il nome del principe e dell’imperatrice e i pueri e
le puellae saranno chiamati Antoniani e poi anche faustiani dai nomi di Antonino Pio e di
Faustina II, moglie di Marco Aurelio. Questo è ritenuto il simbolo dell’epoca: in realtà è del
tutto riduttivo chiamare “imperatore filosofo” questo grande generale e amministratore. Lo
stoicismo trova espressione nelle Riflessioni (Tà eis autòn) di Marco Aurelio: ne esce
concretamente rafforzata e teoreticamente più matura una filosofia di governo protesa alla
utilitas publica, maggiormente fondata su ideali umanitari. La parresia, la libertà di parola
teorizzata da Filodemo di Gadara, è in Marco Aurelio l’isegoria, la libertà di parlare
pubblicamente. Ad essa s’affianca, nella concezione politica dell’imperatore, l’isonomia,
l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. L’organizzazione gerarchica della società
romana ed i segni della crisi economica contraddicevano gli ideali filosofici del principe,
sancendo la distinzione tra humiliores e honestiores anche in materia di applicazione delle pene
per lo stesso reato. Ciò non toglie che Marco Aurelio si sia sforzato di contrastare la tendenza
dell’epoca e ne abbia negato la giustificabilità filosofica. Altro segno del suo alto senso della
philanthropia e della responsabilità politica è che egli abbia venduto il tesoro imperiale per far
fronte all’emergenza della peste.
Educato allo studio del diritto, promulgò costituzioni imperiali che mitigavano il regime della
schiavitù, favorendo l’acquisto della libertà e sottraendo gli schiavi al mero arbitrio di vita e di
morte dei padroni. La sua philanthropia era sorretta dalla convinzione che il criterio della
razionalità fosse comune alla mente di ciascun individuo e dovesse essere orientato verso
l’humanitas in quanto ogni uomo doveva ritenersi “cittadino del mondo”: tutto il genere umano
era iscritto nel kosmos e aveva una comune costituzione universale. Queste convinzioni
filosofiche lo portarono pertanto a superare il formalismo dello ius civile in favore di una
humanior interpretatio iuris. Giunse così, nell’applicazione del favor libertatis, a smentire
perfino la volontà del testatore nel caso in cui, disponendone la manomissione nel testamento,
l’avesse sottoposta alla condizione potestativa di presentazione del rendimento. La ratio
imponeva al principe di applicare categorie umanitaria che superassero la logica del diritto
inteso in senso stretto.
Il suo atteggiamento verso i giochi gladiatori si manifestò nel disprezzo ostentato durante il
loro svolgimento, quando egli, nel palco imperiale dell’anfiteatro, preferiva attendere
all’amministrazione o alla lettura anziché osservare lo spettacolo.
La critica storica moderna ha colto nell’animo di questo principe, che fu venerato già in vita
come un santo e godette di una straordinaria popolarità, più la malinconia e l’insicurezza che in
lui nascevano da un profondo tormento esistenziale, che non il componimento di esso in quella
ataraxia fusa alla maiestas romana del principe, il ritratto della sua statua equestre. Egli inoltre
non ebbe dubbi nel perseguitare i cristiani e nel manifestare il suo disprezzo per il fanatismo
con cui sfidavano la morte. Tuttavia in una delle sue Riflessioni lo vediamo interrogarsi
sull’uso che egli faceva della sua anima, cioè delle facoltà direttive della ragione e chiedersi se
non fosse l’anima di una bestia feroce. Lo stesso sgomento che leggiamo nell’animo del
principe lo vediamo raffigurato nel pathos dei volti vinti nella sua colonna trionfale: è
l’angoscia che incomincia a pervadere tutta un’epoca di fronte ai primi cedimenti dell’impero,
il presentimento oscuro che la fine di Roma è ineluttabile. Solo pochi decenni dividono la
colonna Traiana da quella Antonina di Marco Aurelio, ma in quel breve lasso di tempo cambia
profondamente per i romani la concezione del mondo: quelle di Traiano sono guerre di
conquista, quelle di Marco Aurelio di difesa dai barbari che hanno già devastato alcune città
delle provincie e raggiunto la stessa Italia. Stragi e violenze dei Romani contro inermi saranno
accadute anche nella spedizione dacica, ma non sono rappresentate nella Colonna Traiana; si
mostra il nemico rassegnato alla prigionia, ma rispettato dal vincitore: la scena del suicidio di
Decebalo rende omaggio all’eroismo del nemico.
Nella Colonna Antonina, l’angoscia epocale pervade i bambini come i Romani; dall’intervento
della Provvidenza che salva l’esercito dalla sete mandando la pioggia; dalle scene di violenza
perpetrate contro donne e bambini, che vengono sbattuti con la testa contro gli alberi. Per le
popolazioni dell’impero, ora traumatizzate dai barbari, non v’è messaggio più rassicurante che
l’imperatore possa trasmettere. Nell’età di Marco Aurelio si mette a nudo la sproporzione fra
le risorse dello Stato e le spese necessarie al mantenimento dell’elevato tenore del modello
di vita urbana dell’impero. L’immenso accumulo di ricchezze negli anni delle conquiste aveva
consentito agli imperatori di far fronte con il proprio patrimonio privato alle necessità della vita
organizzata. Ma la crisi sopravvenne molto prima in Occidente e i senati municipali
cominciarono ad essere disertati: iniziò la fuga dei curiali, cioè la diserzione da parte dei
membri dei senati cittadini, i decuriones, per evitare di sostenere pesanti oneri (munera)
concernenti le cariche pubbliche. Marco Aurelio morì di peste conducendo l’ennesima
campagna contro i barbari, ma la storiografia senatoria attribuì al figlio
Commodo l’avvelenamento del padre, costruendo per lui l’ennesimo stereotipo del tiranno.
In realtà Commodo si colloca nella scia di principi ispirati alla concezione orientale del potere
invisa al senato. Commodo si faceva effigiare come Giove e addirittura come Ercole. Questo
ricordava le pretese di Caligola, che aveva ostentato amore endogamico per la sorella, Nerone-
Helios con le sue manie e Domiziano-Alessandro. L’ispirazione orientale tornava insomma, in
forma diretta o con “mediazione tolemaica”, nei tre Cesari che avevano tentato d’intraprendere
la trasformazione del principato in dispotismo di diritto divino. Commodo riprese da Nerone
anche i suoi eccessi, imitandolo nella ricerca del consenso plebeo.

I Severi. Quod principi placuit legis habet vigorem


La breve parentesi del povero Clodio Albino, trattato da usurpatore, non ostacolò l’avvento di
Settimio Severo, capostipite di una dinastia che resse l’impero sino al 235. Egli riconobbe e
proclamò Divus il predecessore Pertinace. Per legittimarsi come discendente degli Antonini,
con i quali non aveva alcun rapporto di discendenza, Settimio, che era d’origine libica ed era
sceso al potere con la forza delle armi, si fece ritrarre facendo imitare le sembianze e le fogge
di Marco Aurelio, con il quale condivideva in realtà solo i capelli ricci. Con finalità egualmente
propagandistiche ma diversamente orientate, si fece ritrarre con sembianze evocanti “la
maschera di Socrate”, icona universale della saggezza filosofica vissuta fino al sacrificio della
vita per ottemperare alla legge, virtù precipua di chi dovesse rivestire il potere imperiale.
I celebri giuristi siriani Eneo Domizio Ulpiano e Emilio Paolo Papiniano vissero sotto
Settimio e la sua dinastia. Il primo configurò la iurisprudentia come una funzione pubblica
sacra per lo Stato: i giuristi sono come gli antichi sacerdoti, depositari di una sapientia che
persegue l’utilitas reipublicae. Ed egli mette in guardia contro i falsi filosofi, alludendo agli
stoici, che a quell’epoca realizzavano l’imperturbabilità, estraniandosi completamente dai
marosi della vita politica. La massima ulpiana che il principe sia legibus solutus era in origine
intesa nel senso non che fosse sciolto dall’osservanza di tutte le leggi ma che lo era da alcune,
che prescrivevano particolari limitazioni ai cives nel diritto pubblico e privato. Fu il crescente
dispotismo del sistema a snaturare l’interpretazione dell’asserto.
Il principato di Settimio Severo segna dunque l’accentuarsi dei caratteri monarchici, fondato
sulla fedeltà di un esercito di estrazione largamente provinciale, che costituì successivamente
un elemento di grave destabilizzazione provocando dopo i Severi un periodo detto di anarchia
militare. Essa culminò nella promulgazione della Constitutio Antoniana del 212 d.C., con la
quale Marco Aurelio Antonino detto Caracalla, estese la cittadinanza romana a tutti i
provinciali, con l’eccezione dei popoli arresisi solo recentemente. Dione Cassio cercò di
sminuire nella sua opera storica il provvedimento universalistico intrapreso dall’imperatore
dandone una spiegazione grettamente fiscale. Questo atto, inteso a rafforzare la solidarietà dei
diversi popoli che costituivano l’impero, costituisce la risposta politica alle forze centrifughe
delle nazionalità provinciali e soprattutto delle loro plebi fino ad allora escluse dai vantaggi del
dominio universale.
La Constitutio Antoniniana ebbe ricadute ed effetti secondari maggiori degli scopi che
perseguiva. Uno fu a vantaggio dello Stato: con la generalizzazione della civitas romana i
privilegi consistenti nell’esenzioni fiscali e tributarie concessi da Augusto in poi ai romani
residenti nelle provincie vennero meno.
Inoltre fu ridotto o limitato il diritto di provocatio ad populum contro la condanna a morte
anche se l’appello all’imperatore costituì una compensazione teorica.
Infine la Constitutio antoniniana comportò l’estensione del diritto romano e dei suoi negozi
giuridici a chi romano non era. Ciò diede luogo ad un fenomeno di volgarismo del diritto,
poiché i provinciali non sapevano avvalersi delle forme e delle parole latine solenni del ius
civile.
Nel 234 a.C. una costituzione del giovane imperatore Alessandro Severo consentì di redigere
un testamento anche in greco. Le cerimonie quiritarie comportanti l’uso della bilancia (libra)
come la mancipatio, mezzo di trasferimento della proprietà a causa variabile, non capite né
sentite dai provinciali, finirono con il non essere realmente praticate, ma ci si limitò a farne
menzione scritta come se lo fossero state (caduta degli atti librali). L’effetto fu che la
scrittura, che nel diritto romano aveva solo funzione probatoria, cioè di prova del negozio
giuridico, finì con l’acquisire quel valore costitutivo che aveva nei sistemi provinciali di diritto
greco e che conserva tuttora.

L’età della crisi: da Diocleziano al IV secolo


I Severi eccetto Elagabalo, non imposero mai il culto dell’imperatore come divinità vivente ma
introdussero a Roma vari culti orientali che si aggiunsero alla loro politica nei confronti dei ceti
disagiati e dell’esercito provinciale come elementi di conflitto con il senato conservatore.
Soltanto nel IV secolo divenne generale in tutto l’impero quella fuga dei curiali, sintomo più
eclatante della recessione. La crisi determinata in Occidente dall’anarchia militare nata dopo i
Severi, non sconvolse la parte orientale. Essa ebbe fine quando salì al soglio imperiale Caio
Valerio Diocleziano, valente generale nato a Spalato.
Sancì in tale ottica la responsabilità fiscale dei decuriones, tenuti a rispondere col proprio
patrimonio del gettito delle imposte; ma il calcolo dell’imposta fondiaria veniva eseguito sulla
base di astratti parametri di redditività della terra, che la realtà si faceva carico di disattendere.
Le aristocrazie ridotte in miseria preferivano allora abbandonare le città per sottrarsi ai
funzionari del fisco. Ma anche i coloni, trasformati in quest’epoca da liberi contraenti della
produzione agricola in servi della gleba legati ai fondi di generazione in generazione,
desideravano sottrarsi alla lunga leva, anche ventennale. I potentiores giudicavano ostilmente
che la propria terra fosse privata delle braccia che la lavoravano per rinsanguare l’esercito:
cosicché spesso sorgeva una sinergia d’interessi tra latifondisti e coloni contro i funzionari
imperiali.
Diocleziano si illuse di poter rimediare alla crisi economica costringendo i figli a svolgere le
professioni dei padri ed assumere gli oneri. Ed inoltre pubblicò l’edictum de pretiis rerum
venalium, cioè un “calmiere” generale dei costi di ogni genere di beni commerciabili, da quelli
alimentari a quelli di lusso, alle stesse prestazioni professioni, da quella del maestro a quella del
medico, con l’intento di bloccare l’inflazione e sancendo anche la pena di morte per le
infrazioni più gravi.
Nell’amministrazione centrale trasformò gli officia palatina da cariche di corte a veri e propri
uffici statali paragonabili ai nostri ministeri: il quaestor sacri palatii era preposto
all’amministrazione della giustizia; il comes sacrarum largitionum alle finanze di stato; il
comes rerum privatarum ai beni patrimoniali dell’imperatore. Venne introdotto anche un
nuovo ordinamento provinciale; le provincie furono costituite come entità autonome e prive
di contatti reciproci che rispondevano direttamente all’imperatore o al senato: quelle di limitata
estensione furono riunite in una sola diocesis e diverse diocesi si accorpavano in una delle
quattro prefetture: la praefectura Italiae e quelle Galliarum, Illyrici e Orientis. La praefectura
Italiae non aveva più una posizione privilegiata rispetto al resto del mondo provinciale.
Sotto l’aspetto militare Diocleziano impiantò l’exercitus praesentalis, un esercito mobile
costituito da unità dislocate nei punti critici ma in grado di spostarsi rapidamente lungo la
frontiera, laddove si fossero verificati sfondamenti da parte dei barbari. In tal modo
Diocleziano prendeva atto del fenomeno di frazionamento e localizzazione che s’era
verificato nel III secolo nell’esercito romano, ma trovava rimedio a tale inconveniente che
aveva ripetutamente determinato l’acclamazione come imperatore del comandante locale.
Per prevenire il ripetersi di tale anarchia al momento della morte dell’imperatore, Diocleziano
escogitò la Tetrarchia, un sistema di successione fondato su 2 Augusti e 2 Cesari e lo
circonfuse di legittimazione divina, destinata a sostituire l’elezione umana del principe.
Giudicando che un impero così vasto non potesse essere governato da un unico dominus,
Diocleziano lo divise in pars Orientis e in una pars Occidentis nominando per quest’ultima
un secondo Augustus nella persona di Massimiano e due Caesares nelle persone Galerio e
Costanzo Cloro, destinati a succedere gli augusti quando questi si fossero ritirati, abdicando
prima di raggiungere la vecchiaia. Fu quello il momento in cui si formò il concetto di Oriente
contrapposto all’Occidente, che dall’800 vide contrapposto l’impero romano con capitale a
Costantinopoli in Oriente, impropriamente chiamato “bizantino”, al Sacro Romano impero di
origine carolingia in Occidente, detto sacro perché cristiano.
Il sistema della Tetrarchia si sarebbe dovuto perpetuare nel tempo, nelle attese di Diocleziano.
Inoltre, per far sì che la proclamazione non si fondasse più sulla delega di sovranità popolare,
ormai in mano alle legioni, egli promosse, sulla scia della tradizione orientale risalente a
Alessandro Magno, la divinizzazione del potere: i due Augusti furono così appellati Iovius e
Herculius. L’evocazione delle divinità pagane protettrici di Roma intendeva così, nel suo
programma di restaurazione della potenza dell’ecumene, restaurare la saldezza religiosa e
morale dell’impero.
Da qui, dopo un decennio di larga tolleranza, la tardiva iniziativa di una generale persecuzione
del cristianesimo con lo scopo non tanto di sterminare i fedeli, quanto di riportarli ad bonam
mentem. Fu allora revocato il divieto di Traiano di non ricercare i cristiani per iniziativa dello
stato ma la diffusione della nuova religione era ormai troppo estesa e favorita dalla crisi
dell’impero, per poter essere arrestata, se non con uno sterminio generale che nemmeno
Diocleziano pensò di eseguire.
Diocleziano abdicò però nel 305 e si ritirò a Spalatum. La gran parte delle sue riforme, frutto di
un troppo astratto razionalismo, fallì già dopo il suo ritiro. Ma le riforme amministrative e
territoriali rispondevano alle nuove esigenze politiche-sociali, e difatti tali riforme dioclezianee
diedero inizio a una ristrutturazione dell’impero che segnerà la tarda antichità sia in Occidente,
sino alla fine del 476 con quello che la storiografia moderna considera l’ultimo imperatore,
Romolo Augustolo, che in Oriente, dove invece proseguì fino al 1453, quando il sultano
Maometto II conquistò Costantinopoli.
Capitolo VI. Produzione del diritto e giurisprudenza nel principato
Paragrafo 1. Gli interventi normativi del principe
A partire da Augusto i giuristi considerarono che la volontà del principe dichiarata in forma
normativa dovesse applicarsi con forza di legge: legis vicem optinet. Che quest’espressione non
avesse il valore assolutistico attribuitale, lo dimostra il fatto che essa è egualmente adottata dal
giurista di età antonina Gaio sia per i senatusconsulta che per i rescripta qualora il parere dei
giudici su un caso fosse unanime.
Tuttavia il percorso che portò le pronunce normative del principe ad avere forza di legge fu in
realtà molto graduale e non lo si può ritenere compiuto prima della piena età antonina.
Esso si affianca ed è concomitante con lo sviluppo della cancelleria imperiale, che iniziato già
sotto Augusto e Tiberio fu incrementato da Claudio e infine strutturato da Adriano: si ebbero
così le praefecturae urbi, praetorio e classis nonché vigilum, cioè - rispettivamente - le
funzioni di governo di Roma, il comando della guardia pretoriana acquartierata nella capitale,
l’ammiragliato della flotta militare, la soprintendenza alla polizia urbana ed ai vigili del fuoco.
Normalmente le prefetture furono assegnate ad esponenti del rango equestre ma per la flotta e
la prefettura urbana, si ricorse anche a membri dell’ordo senatorius, che però rispondevano al
principe. Fu inoltre istituita la cancelleria a secretis, a scriniis e ab epistulis Graecis et Latinis,
cioè la segreteria riservata dell’imperatore, l’amministrazione finanziaria del principe, la
cancelleria per la corrispondenza e l’invio delle costituzioni imperiali, suddivisa secondo la
lingua usata, greca o latina.

Paragrafo 1.2. I vari tipi di costituzioni imperiali


Possediamo il manuale di insegnamento istituzionale del diritto privato, scritto da un certo
Gaio nel II secolo, le Institutiones, che esemplifica fra i provvedimenti del principe gli editti
(edicta), i decreti (decreta) e le epistole (epistulae) cioè i rescritti. Aggiungendovi i mandati
(mandata) abbiamo tutte le nuove categorie sussunte sotto il nome di costitutiones principum o
costituzioni imperiali.

Gli edicta furono la prima precipua forma dell’attività normativa dell’impero. Il ritrovamento
dell’edictum di Augusto ad un piccolo popolo della Spagna cui si accordava l’esenzione
tributaria, ci fa sapere che il principe fin dall’inizio si avvalse del potere di edicere
(proclamazione) in qualità di proconsole, cioè nel solco della consuetudine repubblicana.
Nell’editto si distingue il praescriptum con le indicazioni relative all’autorità promulgante, che
è il principe, quindi il testo della pronuncia in forma diretta ed infine il luogo e la data di
confezione del documento.
Questa tradizione formulare, con verbi del genere videtur, placet riflette la paradossale
concezione repubblicana dell’autorità repubblicana dell’autorità imperiale.
I mandata erano invece rivolti ai funzionari imperiali del fiscus ed ai legati Augusti, ma anche
a proconsoli e propretori in forza dell’imperium proconsulare maius et infinitum del princeps:
consistevano in istruzioni particolari della più diversa natura; i mandata avevano pertanto una
certa analogia con l’omonimo contratto di diritto privato e per questa ragione la loro validità
era limitata alla vita dell’imperatore che li aveva inviati, ma il loro contenuto poteva essere
ripreso dai principi successivi e costituire una norma rinnovata da ogni imperatore.

Rescripta si dicevano le risposte che il principe dava alle parti, ai magistrati o ai giudici di un
processo su questioni di diritto oggetto di controversia. Bisogna sottolineare che il principe non
entrava nel merito (in rem) e non verificava l’attendibilità delle informazioni contenute in tali
richieste, egli si limitava solamente a fornire un consiglio, un parere personale. Ma le domande
potevano essere poste anche dai giudici: esse erano dette relationes, suggestiones e
consultationes e le risposte erano contenute in lettere (epistulae) scritte su fogli di papiro
distinti dalla domanda. Quando invece i quesiti erano posti dall’attore o dal convenuto, nel
processo privato, o dal denunciante o querelante o dall’imputato, nel processo penale, essi
erano detti libelli, preces o supplicationes e le risposte imperiali venivano redatte in un
apposito spazio, dal nome di subscriptiones.

I decreta sono in sostanza sentenze o decisioni del principe su questioni sottoposte alla sua
cognitio, alla quale si poteva far ricorso in qualsiasi momento del processo, interrompendone
così lo svolgimento. Ma il principe svolgeva poi una sorta di “grado di appello” per le sentenze
già pronunciate, che il condannato nel processo pubblico o il soccombente nel processo privato
potevano far ricorso a lui perché rivedesse l’intero giudizio.

Paragrafo 1.3. Il consilium principis e l’attività normativa


Nel caso dei pareri come dei giudizi, il principe si faceva assistere da un consilium di giuristi
che garantivano la tecnicità delle sue decisioni e risposte. Il principe non si estraniava affatto
dalla discussione e normalmente era fornito di un’ottima conoscenza della materia giuridica. In
ogni caso le sue risposte non ebbero alcun valore vincolante, nel senso che non potevano essere
estese per analogia ad altri casi. Costituivano precedenti forniti di auctoritas che, se noti,
potevano essere citati dalle parti che ne avessero interesse a sostegno della propria pretesa. Fu
da ciò che dopo Adriano, incominciarono ad assumere valore paradigmatico e ad essere
applicati da magistrati e giudici ai casi analoghi (principio di estensione analogica). Ma la
tendenza fu anche contrastata: Marco Opellio Macrino prefetto del pretorio di Caracalla,
succedutogli dopo la morte, cui non fu forse estraneo, vietò l’applicazione analogica dei
rescripta imperiali, che erano nati come risposte a quesiti per un caso determinato:
l’inconveniente da egli ravvisato era quello di travalicare i limiti della volontà imperiale
formulata ad gratiam per una specifica lite applicando la risposta ad alias causas. L’esigenza
della securitas iuris era indubbiamente reale, ma è anche vero che il crescente assolutismo
monarchico tendeva a restringere i residui spazi di autonomia dal potere imperiale anche nel
campo del diritto e della sua applicazione processuale. Un secolo dopo Macrino, infatti,
Costantino non solo ribadì il divieto di analogia, ma dichiarò nulli tutti i rescritti non più
conformi al diritto vigente. Va detto che comunque mandata ed edicta non furono affatto
esclusiva dei principi, ma rimasero prerogativa anche dei proconsoli e dei propretori. In
complesso la loro incidenza nella formazione e produzione del diritto fu enorme perché
capillare.
L’imperatore, a partire da Adriano, intervenne più efficacemente con lo strumento della oratio
principis in senatu habita (discorso dell’imperatore tenuto di fronte al senato), cui talvolta si
attribuiva valore legislativo ma sempre influenzava o determinava ben più che in passato la
promulgazione dei senatuconsulta normativi.

Paragrafo 2.1. Relativismo e giusnaturalismo: ius naturale e ius civile


Nel De legibus Cicerone compendia in una concezione giusnaturalistica la tradizione
dell’Accademia antica, da Platone a Aristotele, col pensiero stoico di Zenone. Ratio, con cui
Cicerone traduce in latino il nomos, ha per gli stoici il valore di una razionalità universale, non
quello contingente di un ius a civitate positum, un diritto posto per convenzione sociale dallo
Stato. L’epicureo Pomponio Attico conviene che esista un diritto naturale, ma per gli epicurei
questo consisteva in quella ricerca edonistica, di appagamento dei bisogni, in cui riconoscevano
le finalità dell’etica. In età severiana il giurista Domizio Ulpiano generalizzerà e banalizzerà la
rappresentazione giusnaturalistica col sostenere che il ius naturale è perfino comune ad uomini
e animali, con l’esempio che al congiungimento fra maschio e femmina del mondo animale
corrisponde il matrimonio, e comune è la procreazione e l’allevamento della prole.
Questa confusione tra istinto biologico e diritto non si ritrova in Cicerone, che in verità anche
sulla concezione giusnaturalistica qualche riserva a livello teoretico la mantenne. Del tutto più
sensata fu la concezione attinta da Epicuro, dopo l’esperienza del soggettivismo e del
relativismo sofistico del V secolo a.C.: “in materia del giusto e dell’ingiusto, del santo e
dell’empio”; Protagora aveva sostenuto che “in natura nulla esiste di giusto o di santo come
intrinseca entità oggettiva, ma l’opinione che si ha del giusto o dell’ingiusto diviene opinione
vera e solo per il tempo in cui si continua ad aver tale opinione”. Allora il diritto positivo ha
come finalità l’utilitas e si fonda “su una convenzione generata dalle reciprocità dei rapporti”.
Per Epicuro è il risultato della civiltà, posto dalla polis e la coercitio da parte dello Stato ha la
funzione di farlo rispettare. Lucrezio, il poeta epicureo, rappresenta nel De rerum natura
quell’idea di progresso dell’umanità, mostrando come proprio attraverso il diritto l’uomo si sia
sollevato dalla brutalità atavica alla civiltà ed alla convivenza sociale. Ma in questo v’è solo la
visione antropologica, non idealistica né trascendente.
La visione idealistica e neoplatonica di Cicerone espressa nel De Officiis, è l’antitesi della
capacità di osservazione della realtà da parte dell’epicureismo, diffuso a Roma come una peste:
per Cicerone il diritto ha come fine la ricerca della verità. Lo scetticismo di Cicerone opera
infatti sul piano gnoseologico non su quello etico. Cicerone condivide un pregiudizio classico
verso la scienza della natura perché ritiene intimamente inconoscibile l’universo. Cicerone,
paradossalmente editore del De rerum natura di Lucrezio, approda ad un eticismo strumentale
e funzionale al mantenimento della supremazia politica senatoria, cui è lo stoicismo ad esser
congeniale.
La parte conservatrice del senato fondandosi sulla difesa del principio dello ius naturale
aderisce ad un pensiero politico funzionale al mantenimento del suo predominio: la pretesa
che il diritto si fondasse su valori assoluti si prestava bene ad un sistema giuridico che
rappresentasse la nobilitas come la parte raziocinante del corpo sociale, deputata alla tutela
della plebe affetta da minorità infantile. Il riconoscimento della pura convenzionalità del
diritto, con l’accettazione di un relativismo etico, poteva acquistare un valore dirompente per
la conservazione dello stato privilegiato della nobilitas. Di qui la necessità per i conservatori di
confutare a livello teoretico le posizioni epicuree.

Paragrafo 2.2. I generi della letteratura giuridica


L’utilità del diritto come scienza pratica, evocata da Cicerone, si era fin dall’età
repubblicana versata in opere sia didattiche sia scientifiche.
Nell’età del principato i giuristi, dotati del ius publice respondendi ex auctoritate, pubblicarono
opere chiamate responsa, nelle quali raccoglievano i pareri dati per i casi concreti. Ed in età
imperiale tali pareri divennero vincolanti per i giudici e magistrati, nel senso che essi erano
liberi di decidere solo se entrambe le parti producevano responsa divergenti, ma dovevano
altrimenti attenersi al solo responsum che fosse stato loro presentato, ovvero ai responsa che
fossero concordi fra loro.
Al contrario dei responsa, fondati su controversie reali, le quaestiones erano apparentemente
casi, e si trattava in verità di fattispecie fittizie, dove la fictio iuris consentiva di prospettare
soluzioni interessanti sotto l’aspetto dottrinale.
La raccolta di responsa e quaestiones secondo la sequenza di trattazione delle materie
contenuta nell’editto, costituiva il genere dei Digesta, dove la dottrina era esercitata sì su base
casistica ma secondo l’organica struttura con cui materie e istituti erano trattati nell’Editto
giurisdizionale.
Ancora più sistematici erano poi i Commentarii sia ad ius civile in sé, sia alle opere degli
antichi giuristi di esegesi dello stesso (Q.Mucio Scevola).
Durante il principato non cessarono i commenti ad XII Tabulas con finalità ancora pratiche e
non di mera erudizione, ma ovviamente fu l’esegesi della nuova legislazione a tenere campo,
con i commenti a quella sorta di testo unico costituito ormai dalle leggi matrimoniali augustee.

Paragrafo 2.3. Caratteri della produzione giurisprudenziale


La lingua dei giuristi è semplicissima e aderente al pensiero e alle finalità pratiche dei casi
esaminati: è una lingua conducente cioè essenziale e funzionale che porta alla comprensione
della soluzione enunciata, priva di quegli ornamenti oratori tanto apprezzati dagli antichi. I
giuristi non aspiravano allo stile né tanto meno a paragonarsi ai predecessori anzi essi traevano
esempio dalle opere dei predecessori per trarne esempio. Ne risulta un’omogeneità linguistica,
stilistica ma anche di pensiero, che apparenta la giurisprudenza antica più alla giurisprudenza
moderna, cioè alle sentenze pronunciate dall’autorità giudiziaria, che alla dottrina, cioè alle
opere esegetiche e trattatistiche degli studiosi del diritto.
Esistettero si alcune “scuole” già nella tarda repubblica come quelle che fecero capo a Scevola
e Rufo, nonché i loro prosecutori nell’età del principato, detti Sabiniani e Proculiani.
L’antitesi fra le scuole non si fonda su differenze strutturali nella concezione del diritto e
nemmeno sui metodi interpretativi; si trattava, in realtà, dell’appartenenza a circoli incentrati su
personalità della scienza giuridica oppure dell’entourage politico del principe.
I giuristi dell’una e dell’altra scuola d’età imperiale produssero veri e propri generi della
letteratura giurisprudenziale. Nel principato i giuristi non esercitarono gratuitamente la propria
attività ai fini della carriera politica o del prestigio sociale, ma a partire dall’età tiberiana
venivano pagati da auditores e richiedenti, mentre, soprattutto da Adriano in poi, furono
funzionari imperiali retribuiti dallo Stato secondo le classi di stipendio del censo equestre.
Dopo la codificazione dell’editto da parte di Salvio Giuliano per incarico di Adriano, il più
grande giurista dell’età Antonina fu Q. Cervidio Scevola, che si affermò come il maggior
interprete del diritto, difensore della purezza del ius civile dagli influssi dei diritti greci.
Emilio Papiniano ne fu degno discepolo, ma divenne anche più celebre di lui per aver
affrontato la morte sotto Caracalla eroicamente. Allievo, infatti, di Scevola, Papiniano lo era
stato assieme a Settimio Severo, il quale, divenuto imperatore, lo nominò prefetto del pretorio.
Quando alla morte dell’imperatore gli successero i due figli, Geta e Caracalla, Papiniano si
rifiutò di giustificare il fratricidio del primo da parte del secondo e pagò con la vita la sua
determinazione morale.
Ulpiano reagì alla crescente disaffezione dagli officia publica, che si andava diffondendo
nell’età della crisi economica e morale dell’impero per la nefasta influenza del pensiero stoico
e del fanatismo cristiano: e lo fece ponendosi come alfiere della vera philosophia, quella che,
nella tradizione del De republica ciceroniano, additava nell’impegno politico e sociale il dovere
morale del servitium reipublicae, contro la falsa filosofia dell’astensione. E come servitium
reipublicae concepì anche la funzione del giurista, rappresentato come custode della scientia
iuris. Nella tecnicità dell’interpretatio Ulpiano seppe indicare la via per contenere negli argini
del diritto l’onnipotenza del potere imperiale sotto la dinastia dei Severi. Furono questi gli
ultimi bagliori del senso dello “Stato di diritto” e della giurisprudenza, che con un allievo
di Papiniano, Erennio Modestino, s’estinse attorno al 240.
Paragrafo 2.4. La fine della giurisprudenza. I codices
Naturalmente, dopo Modestino non si estinguono né l’insegnamento del diritto del mondo
romano, praticato dal IV secolo anche nelle grandi scuole tardo-antiche di Roma,
Costantinopoli e Beritum, né la sua produzione: si estingue invece l’interpretatio iuris come
attività intellettuale. L’analisi classica delle cause che portarono all’estinzione della
giurisprudenza è sintetizzata nelle parole di Arangio-Ruiz, il quale adduce a un collasso della
dottrina giuridica come fenomeno causato dall’afflusso di elementi stranieri nella popolazione
italica.
Tuttavia, questa analisi, formulata tra il 1936 e il 1957, va oggi storicamente
contestualizzata, quale espressione della storiografia romanistica contemporanea alla stagione
dell’idealismo gentiliano-crociano e alla tradizione politica di estrazione liberale. E’ infatti
facile obiettare che la provincializzazione dell’impero, grazie alla capacità di assimilazione
culturale delle civiltà greco-romana, produsse un allargamento dell’ambiente sociale di
reclutamento dei giuristi, che meglio d’altri può sintetizzarsi nei nomi di Salvio Giuliano e di
Domizio Ulpiano. Del resto tale fenomeno non è affatto limitato alla giurisprudenza, ma
investe altre attività, dall’architettura alla stessa dirigenza dello Stato e all’esercito, dove con
troppa leggerezza si assume la parola “provincializzazione” come sinonimo di “decadenza” o
“scadimento” sull’orma dei pregiudizi degli antichi. Non è la concessione della cittadinanza nel
212 d.C. né la progressiva caduta delle forme librali dei negozi giuridici quiritari, che ne
consegue a partire dalla costituzione di Alessandro Severo nel 224 1, che provoca la decadenza e
la fine della giurisprudenza.
Secondo Francesco Guizzi la crisi dell’originalità creativa della giurisprudenza può infatti
ravvisarsi nella stessa età dei Severi.
Dopo la scuola di Salvio Giuliano, afferma Aldo Schiavone, già i giuristi severiani si
avvalgono della giurisprudenza nelle controversiae iuris molto più di quanto essi stesso non ne
producano. La consultatio dei giuristi, la fornitura delle opere giurisprudenziali con i suoi
molteplici generi, non potevano sopravvivere negli anni dell’anarchia militare,
dell’instabilità del potere imperiale, delle invasioni barbariche, della crisi morale che
nella civitas era inoculata dal cristianesimo, dilagante ormai in ragione inversamente
proporzionale alla prosperità dell’impero.
Nel IV secolo l’allargarsi smisurato della forbice sociale fra honestiores e humiliores fece
scomparire del tutto il ceto medio: la riforma monetaria che aveva indotto Caracalla a battere
gli “antoniniani” con valore nominale eguale ai denari d’argento e la plebe viene sepolta
definitivamente dalla riforma di Costantino, che privilegia il solidus aureus.
Sul piano della cultura questo significò il dilagare dell’analfabetismo. La lettura divenne
monopolio dell’aristocrazia ed un instrumentum scriptorium di costo relativamente basso come
il papiro, con il quale si confezionavano i libri quando la richiesta era di massa, fu sostituito
dalla costosissima pergamena ricavata dalla pelle di vitello o di altri animali, che solo le élites
si potevano permettere. Sulla pergamena furono trascritte le opere di Cicerone, Sallustio, Livio,
Virgilio, Seneca, Tacito e Plinio. La considerazione del diritto come scienza pratica, inferiore
alla filosofia, alla storia, all’oratoria e alla retorica fece sì che la trasmissione stessa della
interpretatio iuris venisse meno: le opere dei grandi giuristi classici, scritte su rotoli di papiro,
non vennero più copiate e sempre meno consultate, anche perché di difficile comprensione in
un’epoca di decadenza del sapere e di drastica riduzione della sua diffusione.
Comprensibile e utile per l’insegnamento fu invece considerato il manuale delle Institutiones di
un giurista dell’età Antonina: Gaius. Ma la diffusione della sua opera didattica come opera
scientifica è il sintomo della decadenza intellettuale nel campo del sapere giuridico.
Sul finire del III secolo si avvertì l’esigenza di raccogliere e compendiare la gran massa delle
costituzioni imperiali, ormai la più importante fonte normativa. La forma libraria favorì
l’edizione non più in rotolo ma in quinterni, cioè in un foglio di pergamena ripiegato in modo
che ne venissero fuori 5 pagine di scrittura. Il nome che si dava a tale libretto era codex ed esso
appariva in tutto simile ai nostri quaderni, pertanto le raccolte di costituzioni imperiali furono
da allora dette codices.
Le prime furono il Codex Gregorianus ed il Codex Hermogenianus che prendono nome dai
rispettivi compilatori: uno sconosciuto Gregorio o Gregoriano che lo redasse nel 292-3 ed un
Ermogeniano che è probabilmente il giurista di età dioclezianea.
Di giuristi in quest’epoca non può dunque più parlarsi, ma di maestri del diritto certamente sì;
la maggior rilevanza di essi si accordava alla volontà delle parti rispetto alle forme.
Va infine fatto cenno a quelle leggi romano-barbariche che in genere riflettono il principio di
personalità del diritto, che si afferma nella parte occidentale dell’impero invaso dai barbari,
per il quale ai Romani si continua ad applicare la propria legge.

Paragrafo 2.5. La Compilazione giustinianea


Quando Giustiniano ascese al soglio imperiale, che resse dal 527 al 565, succedendo allo zio
Giustino, l’impero romano d’Occidente aveva ormai cessato di esistere, e sul suo territorio si
erano insediati i regni romano-barbarici. In Italia si era instaurato il regno gotico ed i Goti si
erano avvalsi anche di alti funzionari romani per l’amministrazione civile, come Cassiodoro di
Scolacium, mantenendo il monopolio del comando dell’esercito. Il diritto romano era applicato
ai Romani, mentre in genere i barbari restavano legati alle loro usanze, anche se poi influenzati
dal primo. Formalmente i regni romano-barbarici riconoscevano l’autorità dell’imperatore
romano insediato a Costantinopoli dal 326, quando Costantino vi aveva trasportato la capitale
dell’impero. Egli aveva fondato la città di Bisanzio, divisa tra Europa ed Asia, dando il proprio
nome all’antica città greca. Da ciò nacque la denominazione di “impero bizantino” per
designare l’impero romano d’Oriente caduto solo nel 1452 con la conquista turca della capitale
da parte di Maometto II.
La lingua usata nell’impero romano d’Oriente era il greco, benché l’imperatore e la corte
conoscessero anche il latino. Non esisteva all’epoca né mai esistette dopo alcuna coscienza dei
Greci d’Oriente di essere “Bizantini “ne “Greci”: per loro Hellenes erano gli empi Greci
pagani, cui si contrapponevano nella loro autorappresentazione di “Romani cristiani”.
Giustiniano intraprese una sistematica opera di restaurazione della romanità, che portò alla
riconquista di una cospicua parte dell’impero d’Occidente, dall’Africa fino all’Italia, dove la
distruzione del regno gotico comportò la devastazione della penisola per circa un ventennio. La
fama di Giustiniano è però legata soprattutto all’opera che si è finora rivelata imperitura e che
perfettamente si inquadra nella sua opera di ripristino e rilancio della romanità: la redazione di
quello che fu poi chiamato fino ad oggi Corpus Iuris Civilis, summa del sapere giuridico di
Roma. L’opera fu dall’imperatore affidata alla direzione e supervisione generale del quaestor
sacri Palatii Triboniano. Con la costituzione del 13 febbraio 528 Giustiniano nominava una
commissione incaricata di redigere un nuovo codice sulla base dei preesistenti Gregoriano,
Ermogeniano e Teodosiano: il 9 aprile del 529 il nuovo Codex Iustinianus era promulgato con
la costituzione Summa reipublicae.
Ma già nel 534 si avvertì la necessità di aggiornarlo con le costituzioni che lo stesso
Giustiniano aveva pubblicato tenendovi in alta considerazione la giurisprudenza classica: il
nuovo Codex repetitae praelectionis veniva così a sostituire il primo.
Ma fra i due codici Giustiniano prendeva l’iniziativa di maggiore importanza: la raccolta
sistematica dei brani estratti dalle opere degli antichi giuristi, raccolti ed ordinati per materie
nei 50 libri dei Digesta. Ciascun libro è diviso in titoli, il cui contenuto è segnalato da una
rubrica. All’interno di ciascun titolo gli excerpta recano l’indicazione dell’autore e dell’opera
da cui si trae il brano.
La celerità dei compilatori o commissari giustinianei scelti da Triboniano ha costituito oggetto
di studi e controversie nella dottrina moderna: grazie al tedesco Von Bluhme si è pervenuti nel
1820 a una ripartizione metodica del lavoro, diviso in quattro “masse”, su cui avevano operato
quattro sottocommissioni, poi riunitesi in seduta congiunta per il lavoro definitivo. In base alle
opere il cui spoglio prevale in ciascuna delle quattro masse, von Bluhme le denominò edittale,
sabiniana, papiniana e Appendix.
Otto Lenel riuscì a ricostruisce pressoché integralmente l’editto perpetuo nella sua redazione
giustinianea e anche le opere dei giuristi classici (Palingenesia iuris civilis).
Non ancora compiuta l’opera del Digesta, Giustiniano incaricò Triboniano, Doroteo e Teofilo
di redigere un’opera didattica, di Institutiones, esemplata sul modello gaiano in 4 libri, e dagli
stessi Digesta, che erano all’epoca ormai quasi pronti. Nelle Institutiones fu l’imperatore in
prima persona ad esporre la materia d’insegnamento, cosicché non furono mai indicate le fonti
cui i compilatori giustinianei avevano attinto.
L’opera tratta nel I libro de iure personarum; il II della classificazione delle res, delle forme di
proprietà e dei diritti reali, concludendosi con la successione; il III tratta invece le successioni e
i princìpi delle obbligazioni; il IV le obligationes ex delicto e le actiones del processo privato.
Delle 158 costituzioni promulgate da Giustiniano sia in greco che latino dopo il 533 fu redatta
una raccolta chiamata Novellae Constitutiones o semplicemente Novellae.
Chi tuttavia pensasse che l’imponente opera del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano abbia
preservato e trasmesso il diritto classico sbaglierebbe di grosso. La prima finalità dei
compilatori giustinianei fu infatti assolutamente pratica: quella cioè di riportare
l’applicazione del diritto ed il dibattito giurisprudenziale dell’epoca all’altezza dell’antichità. A
tal fine furono interpolati sia gli estratti dei giuristi classici sia tutte le altre fonti, in modo da
adeguare il regime giuridico vigente nei primi secoli del principato ai mutamenti ed alle
esigenze del diritto del VI secolo.
Il criterio sistematico ha permesso, per esempio, di capire che la duplice trattazione di uno
stesso istituto, come il pegno, una garanzia reale per il prestito di danaro, nei giuristi escerpiti è
dovuta al fatto che essi trattavano anche un analogo istituto, la fiducia cum creditore,
scomparso nel III secolo e sussunto dai commissari giustinianei sotto il titolo di pignus.
Il criterio storico è stato utilmente esercitato quante volte i Digesta giustinianei rappresentano
il trasferimento della proprietà delle res mancipi, attuabile in diritto classico solo con la
mancipatio e l’in iure cessio attraverso la semplice traditio.
Il criterio logico si fonda sul riscontro di contraddizioni interne nel pensiero di uno stesso
giurista. Più arduo e incerto quello filologico che identifica lessico ed usi propri del latino
tardo-antico e di età bizantina.
L’opera di materiale confezione del Corpus Iuris Civilis fu un’impresa di Stato di prima
misura: si calcola che per i soli Digesta, dei quali ci è pervenuta una copia in pergamena del VI
secolo (Littera Fiorentina, perché custodita nella Biblioteca Laurenziana di Firenze), siano
state necessarie le pelli di circa 6.000 buoi. L’usus modernus Pandectarum, protrattosi fino al
1900, ha dato luogo, attraverso la Pandettistica tedesca del XVIII-XIX secolo, alla nascita delle
moderne categorie concettuali ed interpretative del diritto privato in tutto il mondo.
Il Codice Napoleonico ha costituito la soluzione di continuità con la tradizione del diritto
giurisprudenziale romano, sostituendo un sistema codificato dall’autorità dello Stato alla libera
interpretatio dei giuristi come fonte del diritto.
Capitolo VII. I Vangeli di Augusto e la via di Cristo nell’Impero Romano
Paragrafo 1. Le fonti neotestamentarie e la critica storica.
La conoscenza del cristianesimo antico è un problema storico che va affrontato sullo stesso
piano di qualsiasi altro fenomeno del mondo greco-romano. Tuttavia, esso ha incontrato
ostacoli sconosciuti negli altri campi della ricerca sull’antichità, per il rischio dell’accusa di
eresia da parte della Chiesa cattolica, la quale accusa portava al rogo. Solo nell’Ottocento si
sviluppò ampiamente una critica neotestamentaria (Ettore Paris). Le più dettagliate
informazioni sulla predicazione di Gesù, sulla sua vicenda processuale di fronte a Ponzio Pilato
e sulla sua condanna a morte ci sono date da quattro Vangeli cosiddetti canonici; va posto
tuttavia in generale il problema dell’attendibilità storica delle fonti neotestamentarie di cui
disponiamo.
Il relativismo storico moderno considera tale “verità” soprattutto un’astrazione: la storicità di
una ricostruzione si misura dalla capacità di cogliere le diverse rappresentazioni che di un
evento ebbero coloro che lo vissero. Cristo potrebbe apparire un patriota per i giudei
nazionalisti a causa del contenuto antiromano del suo messaggio, per i Romani in Giudea come
un criminale nell’ottica del mantenimento della pax Romana, per l’aristocrazia come uno dei
tanti fondatori di una setta religiosa predicante la fine del mondo, infine per i primi i cristiani
quale reincarnazione di Dio sulla terra. Ma i redattori dei Vangeli canonici, che vanno sotto i
nomi dei tre sinottici Marco, Matteo e Luca e sotto quello di Giovanni, come per altro di quelli
apocrifi, non avevano alcuna mentalità né finalità storica.
Alcune correnti studi condotti tra il XIX e il XX secolo sono giunti al più completo scetticismo
riguardo alla possibilità di ricostruire la vita e la predicazione di Gesù. La scuola fondata dal
Bultmann, uno studioso di confessione luterana, detta “Storia delle forme” è riuscita ad
accertare la presenza di loghia antecedenti alla redazione dei Vangeli.
La necessità di evitare la rinuncia al potere del mantenimento della fede di massa fa sì che non
vengano considerate tutte quelle interpretazioni “attualizzanti” dei Vangeli; questi tentativi
sono però, sul piano critico, da rigettare come antistorici e mistificanti.
In un certo senso i Vangeli sono assimilabili a fonti come i poemi omerici; la realtà dell’evento
è trasfigurata o amplificata a tal punto da renderne sempre problematica la conoscenza.
Malgrado il Prologo al Vangelo di Luca dichiari l’adesione al metodo tucidideo dell’indagine
storiografica, gli evangelisti supplirono all’ignoranza dei fatti con quella che credevano
ispirazione divina. La sua adesione al metodo storico è volta a convincere il mondo pagano che
era colto e a far fronte alle critiche di insensatezza che venivano mosse.

Paragrafo 1.2. La Giudea romana e il processo di Gesù


Il regno ebraico indipendente fondato da Giuda Maccabeo nel 168 a.C. cessò con la conquista
romana ad opera di Pompeo Magno che nel 63 a.C. ne espugnò la capitale, Gerusalemme, e
profanò il tempio di Jahvè fondato da Salomone, dove i Giudei, che erano l’unico popolo
monoteista del tempo, concedevano di accedere solo ai circoncisi.
Dopo la conquista, la Giudea fu posta sotto un funzionario imperiale che aveva lo ius gladii;
nella tormentata Giudea nacque la prima comunità cristiana e sempre in questa provincia Gesù,
detto il Cristo, aveva trovato la morte secondo il metodo tipicamente romano della
crocefissione, supplizio ritenuto ignobile non per il dolore, l’effusione di sangue e la morte ma
per l’ignominia (disonore) cui il condannato andava incontro.
La prima cognizione che ebbero i romani sull’esistenza di una setta cristiana in seno al
giudaismo si verificò quando, intorno al 30 (33 a.C.) il prefetto della Giudea istruì contro Gesù
il processo conclusosi con la sua condanna a morte. La predicazione di Gesù si limitò solo ad
Israele come attesta Matteo, successivamente con l’apostolo Paolo, che nemmeno aveva
conosciuto Gesù, si ebbe una diffusione del cristianesimo fra i gentili in tutto l’impero romano,
determinando non solo la separazione ma anche l’odio fra la Chiesa cristiana e l’ebraismo. Più
complesso è capire il contenuto della predicazione di Gesù, che servirebbe anche a
comprendere i motivi che portarono alla sua condanna. La risposta potrebbe essere nel
messaggio del Cristo il quale predicava la fine del mondo, la resurrezione dei morti e il giudizio
universale nel quale i dominatori romani avrebbero trovato la loro condanna.
Reimar e Brandon hanno dato a quel messaggio una violenta impronta antiromana che i
Vangeli avevano cercato di celare. Certò è il contenuto apocalittico di quella dichiarazione, che
annunciava l’Avvento dei Regno, la fine del mondo e la resurrezione dei morti. Per le sue
conseguenze un simile annuncio potrebbe essere stato sufficiente a giustificare un interesse
dell’autorità romana in sede di processo criminale. Stante dal Messia profetizzato secoli prima
ci si aspettava la liberazione di Israele e solo l’annuncio dell’avvento di questa figura poteva
costituire grave turbativa dell’ordine pubblico. In questo dunque il capo di imputazione
contestato a Gesù davanti a Pilato, essersi proclamato Re dei Giudei è senz’altro verosimile.
Ben diverso è il caso della procedura giudiziaria del cui svolgimento apprendiamo dai Vangeli
canonici, articolata in un giudizio prima del Sinedrio di Gerusalemme, quindi da Pilato.
Dopo Paolo Tarso, giudeo ma cittadino romano, che non aveva conosciuto né Gesù né fatto
parte del primo collegio apostolico, l’odio contro l’occupante romano costituiva un
imbarazzo che i cristiani dovevano superare.
Ciononostante, da quanto afferma Mommsen, sembra dimostrata la persistenza della
giurisdizione criminale del Sinedrio, durante il periodo procuratorio della provincia, in materia
di reati religiosi. Ragioni di opportunità politica potrebbero aver indotto il Sinedrio a deferire
Gesù a Pilato.
Storici come Giuseppe Flavio e
Filone di Alessandria hanno descritto la personalità di Ponzio Pilato come quella di un
governatore deciso e irritato dai giudei e pronto a cogliere ogni occasione per provocarli ed
operare pesanti repressioni contro di loro anche oltre gli intendimenti stabiliti dall’imperatore
Tiberio. Per tale motivo le sue incertezze e i suoi tentennamenti nel condannare il Cristo
devono considerarsi come un’invenzione evangelica per liberare l’autorità romana dalla
responsabilità morale della morte del Cristo e attribuirla agli Ebrei. Abbastanza sicuro è
che Cristo non predicò la pace né laSalvezza per il genere umano:
Cristo stesso paragona senza esitare i pagani ai cani e il messaggio che diffondeva era una
minaccia per il mondo romano.
Superando l’obbligatorietà del precetto, Paolo costituì la premessa necessaria per la diffusione
ecumenica del messaggio cristiano, rendendolo pacifico, universale e perfino romano, con
l’obbligo morale di pagare il tributo a Cesare.
Sul piano più propriamente teologico e escatologico, l’ispirazione paolina ai modelli del
paganesimo è sufficientemente ravvisabile. I Vangeli di Augusto per la salvezza del genere
umano erano già stati annunciati da Fabio Massimo; la nascita di Augusto era stata profetizzata
da Virgilio come quella del divino fanciullo che avrebbe portato la felicità; il concepimento
divino, da una donna vergine ricorda sia Alessandro Magno che Romolo. L’ascensione in Cielo
era avvenuta per Romolo-Quirino e in fatto di divinità une e trine, nessuno la sapeva più lunga
degli Egiziani.
La genialità di San Paolo fu quella di stravolgere il messaggio originario di Cristo, ma fu
altresì quella di paganizzarne i modi, rendendolo universale e provvidenziale secondo le
concezioni diffuse nelle filosofie ellenistiche. Secondo una concezione tipicamente orientale e
giudaica insieme, Paolo affermò che omnis potestas a Deo. Paradossalmente, erano proprio i
Romani a sostenere che invece il potere venisse dal popolo. Gli autori dei Vangeli, secondo la
catechesi paolina, si fecero anche carico di ricalcare le convinzioni più popolari
dell’escatologia pagana: così la cometa che aveva annunciato l’avvento di Ottaviano nella sua
19a ricorrenza natale, divenne la cometa annunciante l’Avvento di Gesù; lo stesso giorno
natale, il 25 dicembre, del dio Mitra, fu usurpato dai cristiani e attribuito senza alcuno scrupolo.
Paragrafo 1.3. La comunità giudeo-cristiana da Tiberio a Nerone
Il processo e l’esecuzione capitale di Gesù attorno al 33 sembrano essere stati episodi sul
momento del tutto privi di fama. Negli anni successivi alla morte di Tiberio, durante il
principato di Claudio, “un ordine dell’imperatore allontanava da Roma tutti i Giudei”, dato
confermato anche da Svetonio, il quale dichiara apertamente la causa del provvedimento, i
tumulti fomentati da Chrestus in seno alla comunità giudaica1.
Già molto diversa è la situazione quando, nel 64, Nerone rivolge ai cristiani l’accusa di avere
provocato l’incendio di Roma, distinguendoli nettamente dalla comunità giudaica della
capitale. Ma la persecuzione neroniana, cruenta, al contrario di quella di Claudio, non sembra
fondarsi su un editto, per quanto ne sappiamo da Tacito e altri più tardi autori.
Rilevante è il valore storico del passo di Tacito, quale testimonianza della diffusione del
Cristianesimo ad un trentennio circa dalla crocefissione di Cristo, ma anche quale
testimonianza sia dell’ostilità popolare alla nuova religio, sia del giudizio di superstitio, che
essa suscitava fra gli esponenti dell’uterque ordo. Ormai chiaramente distinti dai Giudei, i
cristiani non sono considerati da Tacito professanti una religio ma una superstitio, sul cui
contenuto lo Storico nulla ci dice, probabilmente non perché non ne fosse al corrente, ma
perché, come il suo amico Plinio il Giovane, non doveva ritenerlo degno di nota, e men che mai
di considerazione storica.

Nota 1. Potremmo dunque legittimamente presumere che nulla ne avesse saputo anche Tiberio, se un
passo dell’Apologeticum di Tertulliano, non tramandasse che l’imperatore, informato della
Rivelazione del Cristo, ne avrebbe proposto al senato il riconoscimento come divinità, volendo
sancirne la liceità. Di fronte al rifiuto del senato, il principe si sarebbe limitato a impedire le
persecuzioni dei cristiani.
Si ravvisa qui l’accortezza politica della decisione di Tiberio di riconoscere un dio dei Giudei che, per
la prima volta, avesse un volto e si prestasse a una rappresentazione iconografia come gli dei pagani.

Paragrafo 1.4. La coerenza giuridica di Traiano


Nel 112 d.C. Caio Plinio Secondo, governatore della Bitinia e del Ponto, pose a Traiano alcune
domande sui problemi procedurali che egli si trovava ad affrontare nell’istruire i processi
contro i cristiani. La risposta dell'imperatore, sebbene indirizzata al governatore di una
provincia, aveva validità per tutto l'impero, ed essa probabilmente fece testo per molti anni, fu
una delle fonti, peraltro, che ispirarono l'Apologeticum di Tertulliano, scritto nel 197.
La risposta è la seguente:
“Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come
Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita
infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve
ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in
modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè
rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga
il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non
devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio,
indegna dei nostri tempi”.
Il principe risponde dunque approvando l’azione di Plinio, diversificata secondo la specificità
di ciascun caso denunciato, ma evita “di prendere in considerazione la separazione, proposta da
Plinio, tra il nome di cristiano e i crimini ad esso associati”. Ad ogni modo, della risposta
traianea è stata universalmente lodata la sapienza giuridica nel rifiuto delle delazioni
anonime.
La spiegazione storica dell’indifferenza di Traiano al trattamento di queste categorie nella
cognitio sembra pienamente esplicabile con l’esegesi delle scene di violenza da parte dei
Romani verso donne e bambini nella colonna Aureliana: “con la loro violenza i soldati
corrispondono alle norme comportamentali consone nei confronti dei nemici dello Stato”. I
cristiani appaiono rivoltosi ma ancora non pericolosi come i barbari.
I magistrati romani appartenevano ad un ceto sociale educato spesso nel pensiero filosofico,
fosse esso neoplatonico, stoico, epicureo, scettico; il formalismo della religione romana non
richiedeva un’adesione di fede, ma era garanzia di lealtà alla respublica. La libertà di
concepire la divinità non era intaccata dall’atto formale, puramente esteriore del sacrificio,
che realizzava ai loro occhi un gestum sollemne dello ius publicum.
Ai cristiani, convinti dell’imminenza della parousia, il ritorno di Cristo per il Giudizio Finale
e della resurrezione dei corpi, sembrava preferibile il supplizio terreno di un momento anziché
quello dell’eternità. Invece ai magistrati romani, increduli sull’eventualità della sopravvivenza
dell’anima, la scelta del martirio appariva nient’altro che fanatismo.
La valutazione negativa di Tertulliano verte unicamente su un punto tecnico: la pretesa
incoerenza logica e giuridica della risposta di Traiano.
Il ragionamento di Tertulliano sembra, a prima vista, assolutamente convincente. Se Traiano
condanna i cristiani evidentemente li considera criminali; ma allora non si comprende perché
vieti di ricercarli. Ragionando al contrario, se non li si ricerca evidentemente li si considera
innocenti, e dunque non si vede perché non li assolva. Il confronto tra il rescriptum e la sua
critica comporta preliminarmente che si riconosca il fondamento della perseguibilità del
cristianesimo all’epoca. Non figurandosi il reato di lesa maestà, Plinio punisce i cristiani per la
loro pervicacia e per la loro ostinazione nel rifiutare il sacrificio, che però non fa riferimento a
nessuna norma. E’ evidente l’ampia discrezionalità dei legittimi poteri di coercitio nella
giurisdizione criminale; gli stessi cristiani affermano di subire la condanna non per legge, ma
per volontà dei giudici.
Il punto focale risiede nella distinzione tra l’istruzione processuale, che il solo appartenere al
nomen Christianum legittima in presenza di una delazione (fino al rescritto traianeo) o di
un’iniziativa stessa del magistrato e la conseguente poena capitis.
Sussistono infatti due momenti diversi del processo: la sua instaurazione con l’accusatio e la
sua conclusione con la pronuncia della sententia. La legittimazione alla pena capitale
avveniva per il rifiuto di compiere i sacrifici agli dei.
Appare dunque evidente in sede processuale che non il rifiuto intellettuale di credere agli dei in
sé viene perseguito né tantomeno il rifiuto a ritenere l’imperatore divinità vivente, tramite
l’enfatizzazione della propria imago.
Pertanto è il crimen lesae Romanae religionis, il fondamento giuridico della perseguibilità dei
cristiani nel senso gestuale dell’ordinamento.
In realtà lo Stato romano non credeva più che i cristiani costituissero un pericolo per la società.
Le interpretazioni tradizionali, ormai divenute convenzionali, percepiscono le motivazioni
sociali e politiche del provvedimento traianeo.
Le carenze concettuali di tali interpretazioni sono profonde: esse non riconoscono la natura
giurisprudenziale del rescritto nel sistema del diritto pubblico romano né percepiscono la
straordinaria sensibilità giuridica della risposta di Traiano.
In quest’ottica il crimine del cristianesimo va considerato un reato d’opinione, in quanto tale
disciplinato come perseguibile a querela di parte, un’innovazione nella cognitio extra
ordinem. La configurazione del crimine come reato di opinione dà una spiegazione
giuridicamente accettabile sotto il profilo logico: se infatti viene meno la convinzione
criminale attraverso il pentimento e l’abiura, si estingue ipso facto il reato di opinione e
l’imputato può essere prosciolto. Plinio il Giovane punisce solo il fatto che il nomen ipsum
comporti la proibizione di sacrificio.
Alla luce degli atti processuali successivi all’epistola pliniana, è chiaro che Traiano persegua il
cristianesimo per lo scandalo che socialmente suscita.
Il rescritto traianeo limita così il carattere inquisitorio della cognitio extra ordinem,
subordinandola a un’accusa come accadeva nella cognitio senatus; Traiano esclude la
sufficienza della delazione, alla quale fa riferimento solo in relazione a quanto già avvenuto.
Quest’innovazione nella cognitio extra ordinem avvicina i processi contra Christianos alla
cognitio senatus, nella quale era richiesta l’accusa formale con l’assunzione del rischio di
una controquerela per calunnia.
Dal punto di vista procedurale la cifra storica nella differenza tra i processi dei pagani contro
i cristiani e le persecuzioni dei cristiani contro gli eretici, poi contro gli ebrei; è che i magistrati
romani consideravano la libertas un valore. I cristiani invece considerarono la libertas un
disvalore (licentiosa libertas), poiché la libertà di peccare portava alla perdizione.

Paragrafo 1.5. Celso e il confronto tra padeia classica e dottrina cristiana nel II secolo
Negli Acta Martyrum ricorre la confessione di fede e l’atteggiamento inflessibilmente ostinato
dei cristiani di fronte ai magistrali romani.
Il testo più antico di tali Atti dei martiri scillitani riporta il dibattito processuale tra il
proconsole d’Africa in Cartagine, di nome Saturnino, e alcuni cristiani, i quali si dimostrano
ostinati e tenaci di fronte la richiesta del proconsole di venerare l’imperatore come Dio, i
cristiani non rifiutano la loro fede e alla fine del dibattito il proconsole ordina al banditore che
proclami il supplizio e la decapitazione dei cristiani processati. E’ lo stesso contenuto che,
attorno al 150 d.C., Giustino descrive nella sua Apologia rivolta all’imperatore Antonino Pio.
Ma Giustino è appunto il segno della conquista sociale ed intellettuale del cristianesimo
dell’impero.
La Rivelazione, che avvicinava il cristianesimo ad alcuni religioni misteriosofiche di età
imperiale, si sostanziava nei peculiari contenuti dogmatici dell’escatologia trinitaria.
Un’intransigenza evangelica porta l’Apologeta al rifiuto di Atene e della filosofia.
Tuttavia, al cristianesimo mancavano i due requisiti connotativi della religione: l’etnicità, cioè
l’appartenenza a un popolo e l’antichità, per la quale era inconcepibile la novità di una
religione.
Non molto prima della morte dell’imperatore Marco Aurelio, la Vera Dottrina del pagano
Celso dimostra che su questo stesso campo di un conflitto intellettuale, i pagani dispongono di
raffinati strumenti di conoscenza: il rifiuto delle pretese filosofiche del cristianesimo e
dell’interpretazione allegorica dei Vangeli.
Appare evidente, per Celso, che gli evangelisti abbiano forzato il senso dei libri profetici e
adattato maldestramente le profezie agli episodi della vita di Gesù.
Paragrafo 1.6. Porfirio, le persecuzioni del III secolo e la politica religiosa di Diocleziano
Verso il 268-272 vengono pubblicati i 15 libri Contro i Cristiani di Porfirio, mistico pagano,
letterato, discepolo di Plotino. Egli sostiene che gli evangelisti abbiano indovinato i trattamenti
riservati a Gesù durante il supplizio rifacendosi all’Antico Testamento, e lo deduce dal fatto
che nel racconto di Giovanni si narra come si sia fatto a meno di rompere le ossa a Gesù
crocifisso e di come gli abbiano aperto il fianco con la lancia: in realtà nel racconto si allude ad
una prescrizione relativa al trattamento dell’agnello della pasqua ebraica. Porfirio considera gli
evangelisti dei falsari, ingannatori e lettori ingenui e dunque in mala fede.
Il punto di forza del cristianesimo furono la crisi dell’impero e le invasioni barbariche nel III e
IV secolo, che favorirono la nascita di un senso di angoscia esistenziale e un profondo
cambiamento del pensiero pagano, mutando nel misticismo. Si vengono a porre così i
presupposti per la diffusione del cristianesimo anche fra i ceti intellettuali. La Chiesa aveva
tratto tantissimo vantaggio dall’ammorbidirsi delle persecuzioni grazie soprattutto al rescritto
traianeo. Ancora la frammentarietà delle persecuzioni e l’individuale specificità del loro
fondamento normativo sono riflesse dalla raccolta di rescripta imperiali inviati ai governatori
provinciali, che Domizio Ulpiano pubblicò, in età severiana, nel settimo libro della sua opera
de officio proconsulis.
Ma mancò anche una continuità politica ed ai periodi di intense persecuzioni si alternavano
periodi di estrema pace nei confronti dei cristiani, fino all’ultima grande persecuzione di
Diocleziano che avvenne subito dopo un lungo periodo di aperta tolleranza.
Il razionalismo nella gestione dello Stato e la coscienza della funzione pubblica
nell’amministrazione dell’impero si riassumono per l’ultima volta nel governo di Diocleziano.
E’ in questo quadro che avviene la promulgazione nel 297 di una costituzione contro il
manicheismo, ribadendo la sacrosantitas della religione tradizionale. E’ chiaro che agli occhi
di Diocleziano il cristianesimo non poteva che apparire come una forza centrifuga e
disgregatrice dell’impero: l’evento scatenante l’editto persecutorio potrebbe essere l’incendio
del palazzo imperiale.

Paragrafo 1.7. L’ideale della libertas religionis nel II-III secolo


Nel secolo degli Antonini, che aveva visto lo sforzo del cristianesimo di elevarsi
intellettualmente di fronte al pensiero pagano, alcuni autori cristiani si mostrarono favorevoli
all’impero: per esempio Melitone di Sardi, nell’età di Marco Aurelio, osservava che impero e
cristianesimo erano accomunati dalla loro nascita sotto il principato di Augusto. Attorno alla
metà del III secolo Origene giungerà infine alla concezione storica provvidenzialistica
dell’impero, la cui pace è considerata come voluta da Dio per favorire l’evangelizzazione.
Un’ottica che sarà assunta in età costantiniana dal primo storico della Chiesa, Eusebio di
Cesarea, autore della sua Historia Ecclesiastica. Che solo una religione universale potesse
accomunare la diversità delle nazioni costituenti l’impero romano era opinione anche degli
imperatori della dinastia dei Severi. Il sincretismo religioso, orientato al monoteismo, cercava
di trovare in un comune denominatore culturale una forza da opporre al pericolo di
disgregazione nell’età di crisi. Una crisi economica che portava le masse a rivendicare la
propria libertà e identità nazionale.
E’ nel rapporto irrisolto tra il principio della libertas religionis tertullianeo e l’intima
convinzione di detenere l’unica Verità che risiede il germe dell’intransigenza cristiana.
Sintomatico di tale tendenza unidirezionale è circa, un secolo dopo, l’atteggiamento di
Lattanzio che, dopo aver propugnato il principio di scelta volontaria della fede, è pervaso dallo
spirito persecutorio.

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