Sei sulla pagina 1di 16

CAPITOLO 1

Luoghi e popoli
Stati e popoli non restano uguali a se stessi nel corso dei secoli. Ad esempio, aprendo un atlante storico e
vedendo la scritta “regni anglosassoni” in corrispondenza dell’odierna Inghilterra, si opera in automatico la
semplificazione di anglo-sassoni=inglese. Tuttavia, pur avendo qualche tratto in comune, è fondamentale
non studiare la storia con il solo scopo di rintracciare le origini di quella identità, cosa che veniva fatta in età
romantica. Da ciò nasce quella correlazione popolo-individuo sempre uguale a se stessa. Spesso, questa
azione è motivata da interessi politici che hanno come scopo, magari, la richiesta di maggiori autonomie. Per
contro, è possibile interfacciarsi con stati e popoli che non hanno alcuna corrispondenza nel presente,
tendendo, quindi, a trascurarli. Stati e popoli sono il prodotto della storia: non sempre un popolo ha
mantenuto lo stesso nome, e viceversa.

Stato ≠ stati
Altrettanto problematica è la differenza tra Stato e stati. Il primo è un’entità astratta, indipendente dagli
individui che operano in suo nome, nato nell’Ottocento ed ha come caratteristiche:
- piena sovranità su un territorio ben definito nei suoi confini e difeso;
- le uniche leggi valide sono quelle dell’autorità statale, il cui non rispetto è giudicato da appositi
tribunali;
- controllo delle risorse pubbliche;
- apparato burocratico stabile e legato all’autorità statale.
Gli stati medievali presentavano anche dei territori delimitati e la distribuzione delle funzioni di difesa, opere
pubbliche, giustizia, fisco a funzionari, tuttavia non Stato e stati non sono organismi equivalenti.
Innanzitutto, il territorio amministrato non aveva confini precisi rappresentati da carte geografiche, ma era
segnato da elementi naturali o da bastoni. Inoltre, il comes (o conte) a cui era affidato un comitatus (o contea)
non aveva alcuna formazione scolastica o professionale, perché non esistevano scuole, né aveva superato un
concorso e probabilmente non sapeva né leggere né scrivere. Non aveva un corpus di norme omogenee che
limitassero i suoi compiti, ma solo provvedimenti slegati tra loro che gli erano inviati di volta in volta
dall'imperatore, tradotti da qualcuno dal latino alla sua lingua. Non aveva una sede stabile perché non era
possibile controllare un territorio senza percorrerlo continuamente. Per il conte lo stato era la fedeltà giurata
al suo sovrano, che lo ricambiava con fiducia e benefici; si trattava, dunque, di uno stato fatto di persone. Il
termine pubblico, invece, era utilizzato abitualmente dai pochi alfabetizzati del tempo, tendenzialmente
ecclesiastici o monaci, facendo riferimento alla tradizione dell'impero romano.

La psicologia dei personaggi e l’anacronismo


Frasi come “Alarico invase l'impero romano d'occidente per estendere il suo territorio” o “Carlo Magno
attaccò i Longobardi per estendere il suo territorio non sono presenti sui manuali di storia, ma spesso
vengono pronunciate dagli studenti attribuendo ai protagonisti di queste imprese desideri che sembrano del
tutto ovvi e che sono motivati da presupposti impliciti ben radicati dentro di noi. Il primo è che l'uomo è
rimasto sempre uguale a se stesso nel corso di millenni, il secondo è che chi intraprendere una guerra senza
un motivo giusto rende in automatico malvagio. Il tutto è supportato dalla contrapposizione tra buono e
cattivo, invasore e resistente, barbaro e civilizzato. Tuttavia, l'uomo non è rimasto uguale a se stesso nel corso
dei millenni, così come sono cambiati i contesti in egli opera e la valenza delle sue azioni, per cui non è
possibile giudicare le loro azioni sulla base dei giudizi di valore presenti. Analizzando più a fondo è possibile
constatare che Alarico non voleva estendere il proprio territorio, anzi, egli un territorio ancora non lo aveva
essendo i visigoti ancora nomadi, tuttalpiù era alla ricerca di un insediamento soddisfacente. Inoltre, la sua
scelta fu motivata dalla volontà di vendicarsi dei romani, in quanto si sentiva un alleato tradito. Ciò implica
che non sia possibile connotarlo come un vero e proprio invasore, essendo i visigoti alleati romani da tempo.
Oppure, Carlo Magno, pur avendo un territorio, non attacca i Longobardi solo ed esclusivamente per
espandersi, ma per difendere coloro che non vivevano nel Regno longobardo d'Italia sulla base di un debito
contratto con il vescovo di Roma dal padre Pipino il breve. A ciò si lega bene il concetto di anacronismo,
letteralmente “nel tempo sbagliato”, che delinea l’attribuzione al passato di caratteri del presente, allora
inesistenti. Per evitare fraintendimenti, gli storici spesso aggiungono aggettivi al fine di sottolineare le
differenze o scelgono di utilizzare direttamente il termine del passato, senza tradurlo. Tuttavia l'anacronismo
può aiutare a comprendere il passato attraverso l'analogia (es. comites/funzionari)o il contrasto (es. idea di
conquista per Alarico VS idea di conquista per noi).

CAPITOLO 2
Che cos’è il Medioevo e la sua periodizzazione
Il medioevo è un periodo della storia europea che comincia nel 476, data della deposizione dell'ultimo
imperatore romano d'occidente Romolo Augustolo, e termina nel 1492, anno della scoperta dell'america da
parte di Cristoforo Colombo. Il termine ha avuto fin dal principio una connotazione negativa legata all'idea
della barbarie e della decadenza. I primi ad utilizzare il termine media tempestas furono gli umanisti italiani
del XV secolo, per isolare l’età di mezzo tra la loro epica e l'antichità classica da cui essi traevano ispirazione. Il
medioevo non era analizzato nei suoi caratteri specifici, come istituzioni ed economia, ma semplicemente un
blocco da rifiutare. L'identificazione del medioevo come una precisa partizione della storia d'Europa si ebbe a
partire dal XVI secolo, man mano che si iniziò a studiarlo da più punti di vista. La definizione medioevo si
cristallizzò a fine 1600 grazie al manuale del professore tedesco Christoph Keller. Gli storici italiani
preferiscono dividere il medioevo in:
- Alto Medioevo (V-XI): stagnazione demografica ed economica, travagliata sperimentazione di
nuove organizzazioni istituzionali. Le fonti, salvo poche eccezioni, sono le stesse del periodo antico:
atti legislativi delle autorità maggiori come imperatore e Papa, opere scritte in latino, storie,
epistolari, cronache, resti materiali (edifici, monete, cimiteri), epigrafi. Rarissimi sono i documenti
giuridici. A causa della scarsità di fonti scritte, è necessario rivolgersi ad altre discipline come
l'archeologia, la geografia, l'antropologia culturale, l'onomastica e la toponomastica.

- Basso Medioevo (XI-XV): crescita demografica, economica e nascita di regni e formazioni


territoriali duraturi. Le fonti scritte sono in numero maggiore grazie all’aumentare del ricorso alla
scrittura in tutte le occasioni (atti notarili, registri contabili, censimenti, diari, prediche). Grazie alla
maggiore quantità di fonti le notizie sono più dettagliate.

E’, tuttavia, diffusa la convinzione che si debba introdurre un nuovo periodo tra antichità e medioevo,
un'epoca di transizione con caratteristiche specifiche: il tardoantico (III-VI, Diocleziano-Giustiniano).
Tardoantico e altomedievale non sono propriamente sinonimi, il primo insiste sulla continuità, il secondo
sulla rottura. Lo stesso problema si pone per la fine del basso medioevo. Talvolta, si tende a parlare di antico
regime (XIV-XVIII) a causa dell'arretratezza delle strutture giuridiche ed economiche delle campagne
d'Europa. Ovviamente, è bene sottolineare che ogni fenomeno che si sviluppa necessita di tempistiche
diverse e, soprattutto l'economia prima della prima industrializzazione, richiese una durata prolungata.

Il soggetto del Medioevo


Viene da chiedersi quale sia il soggetto del medioevo, come per la storia romana lo sia Roma. Infatti,
osservando un manuale di storia medievale, è possibile notare come al centro della trattazione vi siano aree
geografiche e soggetti politici diversi. La storia medievale studiata a scuola e all’università si occupa della
storia dell'occidente, con qualche riferimento all’Asia, e un occhio di riguardo per la penisola italiana.
Grande attenzione è riservata a tutti quegli argomenti individuati come importanti durante il Risorgimento
e soprattutto dopo l'Unità, quando si ricercò nel passato medievale e moderno tutto ciò che potesse
rafforzare il senso di appartenenza a una tradizione comune (che c'era, ma era letterario e culturale) e che
potesse essere letto come un'anticipazione del processo unitario. A partire dalla seconda metà del 1900 lo
studio del medioevo ha vissuto una dilatazione di prospettive che hanno portato ad una crescita,quasi
un’accumulazione di informazioni.

Post hoc propter hoc è sempre vero?


È ampiamente diffusa la convinzione che per capire il presente sia necessario risalire al passato . Tuttavia,
Marc Bloch con l'espressione idolo delle origini si riferiva all'ossessione di ricercare a tutti i costi le origini
dei fenomeni storici, quando, in realtà, sarebbe più opportuno analizzare e comprendere un fenomeno nel
tempo in cui si manifesta a pieno e, solo in un secondo momento, rintracciarne le origini. Inoltre, non è
possibile individuare con certezza assoluta le cause di un fenomeno, sia perché possono essere tra loro
interconnesse, sia perché non sempre si posseggono informazioni a sufficienza. Il più grande ostacolo è che
non sempre dalle stesse cause derivano gli stessi effetti. Per cui, la convinzione secondo la quale la storia
sarebbe maestra di vita non è propriamente esatta se si pensa che da essa sia possibile ricavare infallibili
istruzioni valide per il presente.

L’accezione negativa del termine medioevo


La parola medioevo e l'aggettivo medievale conservano una valenza negativa, definendo ciò che è oscuro
arretrato e irrazionale, tutto ciò che non è moderno. Un fortunato filone letterario e cinematografico
rappresenta il collasso della nostra attuale civiltà, la civiltà moderna, come una sorta di ritorno al medioevo.
Tuttavia, c'è qualcosa di buono in questo periodo: i valori dell'eroismo, della lealtà, dell'amicizia, della donna
amata, della cavalleria, che permettono di dimenticare tutti quegli aspetti senz'altro negativi come
l'inferiorità della donna. Questi aspetti, in realtà, non sono o necessariamente legati ai secoli medievali, alcuni
non sono affatto da attribuire a quel periodo (es. i roghi si praticarono soprattutto tra il XV e il XVI secolo)
e altri si possono tranquillamente estendere ad altre epoche e persino al presente (es. l'inferiorità della donna
in alcune parti del mondo).

Il feudalesimo
Feudale e tutti i termini a esso apparentati sono spesso utilizzati con accezione negativa. L’immagine della
piramide feudale composta da feudatario, vassallo, valvassore, valvassino è errata. Il termine feudalesimo
risale al XVIII secolo, quando fu definito feudale l'intero sistema di rapporti politici e sociali del passato,
ovvero l'antico regime che economisti e illuministi desideravano riformare. Karl Marx riprese il termine
definendo “modo di produzione feudale” lo sfruttamento dei contadini da parte dei feudatari. Vassalli e
feudi esistettero quasi dovunque in Europa, nel medioevo e oltre, ma non corrispondono sempre alla stessa
cosa, né furono sempre così importanti come appare. Approfondendo lo studio del termine e delle sue
implicazioni, gli si può dare una duplice sfaccettatura:
- storico-giuridica: prende origine dal legame personale tra un signore e un guerriero. Tale legame,
detto vassallatico-beneficiario, è basato su uno scambio paritario: guerriero (vassallo) assicura al
signore fedeltà e servizio militare ⇆ il signore assicura al guerriero protezione e un beneficio, ovvero
il possesso terriero. Questo beneficio, poi detto feudo, non è un dono ma una concessione vitalizia
revocabile, fatta nel corso di una cerimonia detta “omaggio”.

- socio-antropologica: definisce globalmente un intero periodo storico caratterizzato dal ricorso alla
terra come strumento principale per stabilire legami personali (es. tra un contadino e il suo
padrone). Questo periodo è caratterizzato, inoltre, dal frazionamento dei poteri pubblici tra diversi
soggetti e dalla supremazia sociale dei guerrieri, che sviluppano una propria ideologia (quella
cavalleresca). In questo senso il feudalesimo sarebbe cominciato un po’ più tardi rispetto all'altro.
Alcuni studiosi hanno esteso ulteriormente questo concetto ad una radicale trasformazione della
società avvenuta intorno all'anno 1000. A fronte del collasso dei regni post-carolingi, i poteri
pubblici si frammentano finendo nelle mani di signori locali capaci di farsi obbedire grazie alla
propria forza, al sostegno dei propri vassalli e al controllo di un castello o di un villaggio fortificato.
Questi signori, definiti signori di banno o signori territoriali, riuscivano a trasmettere tali poteri ai
loro eredi. Da qui nacque la tripartizione funzionale, una rappresentazione ideologica della società
fondata sulla divisione dei compiti tra chi combatteva, chi pregava e chi lavorava.

Concetti chiave
- Il vincolo vassallatico-beneficiario compare in Gallia nella tarda età merovingia e si diffuse nei
domini carolingi tra VIII e IX secolo. Si trattava di un legame personale tra due guerrieri, basato
sullo scambio tra fedeltà militare e possesso terriero . Ovviamente il vassallaggio non esauriva tutte le
forme di legame tra i grandi dell'impero carolingio. Carlo Magno sceglieva spesso i conti (ufficiali
pubblici) tra i suoi vassalli, ma non tutti i suoi vassalli erano conti. Quindi il comitato non è da
assimilare al beneficio, né il beneficio aveva un contenuto politico, ma era una fonte di reddito.

- Signoria fondiaria: per signoria si intende il potere di un uomo su un altro uomo. Per signoria
fondiaria si intende il potere esercitato dal padrone di uno o più fondi rurali sui suoi dipendenti di
condizione libera, servile o mista.

- Signoria territoriale o di banno: nata tra il X e l’XI secolo a seguito della crisi dell’ordinamento
pubblico nei regni post-carolingi e consiste nell’appropriazione da parte di un signore fondiario dei
poteri pubblici senza autorizzazione formale da parte di un’autorità superiore.

- Feudo di signoria: a partire dall’XI e XII secolo il vassallaggio fu utilizzato per collegare non più
due persone, ma due poteri territoriali. Il feudo, per chiarezza chiamato feudo di signoria poiché
contiene il potere sugli uomini, è governato dal suo titolare con l'autorizzazione di un'autorità
superiore. Si parla anche di feudalesimo politico perché il feudo è un elemento importante nella
costruzione territoriale dello Stato.

- Signoria cittadina: nascono tra fine 1200 e 1300 in alcuni comuni italiani. Si tratta della nascita di
un potere personale nella città senza che ne risultassero sconvolte le istituzioni comunali. Ad
esempio, gli Estensi a Ferrara o i della Torre a Milano agivano in un contesto politico ed economico
urbano imparagonabile a quello in cui si collocano le signoria fondiaria e la signoria territoriale, che
continuarono comunque ad esistere per secoli. Anche i signori cittadini utilizzarono il feudo di
signoria per controllare meglio il territorio.

CAPITOLO 3
Le fonti
Per fonti si intendono tutti i resti del passato, materiali e immateriali, scritti e non scritti, prodotti
intenzionalmente da chi ci ha preceduto per lasciare memorie di sé o risultato meccanico delle varie attività
umane (leggi, lettere, poesie, monete, edifici, tombe). Esse sono spesso muto e ambigue e necessitano di
complesse tecniche per essere interpretate.

La fonte narrativa: Historia Langobardorum


I Longobardi invasero la penisola italiana nel 568, occupandone una buona parte. La storia di
quell'invasione ci è nota grazie a pochissime fonti, tra le quali spicca l'opera scritta più di 200 anni dopo da
un monaco longobardo Paolo Diacono. Egli apparteneva a una nobile famiglia longobarda radicata in Friuli
(Cividale 720/730), aveva vissuto alla corte di Pavia prima delle guerre tra Franchi e Longobardi. Divenuto
monaco benedettino a Montecassino, aveva assistito alla fine del regno e alla rovina della sua famiglia
(partecipazione ad una ribellione anti franca). Fu alla corte di Carlo Magno per cinque anni. L’opera fu
interrotta dalla sua morte. A differenza di un coccio di ceramica, una fonte come questa sembra di facile
interpretazione: si tratta infatti di un testo che è stato scritto con la precisa intenzione di raccontare una
storia.

- La sorte dei romani: l'occupazione dell'Italia da parte dei Longobardi fu caratterizzata, secondo
Paolo Diacono, da assassini e depredazioni, le città furono distrutte, le popolazioni decimate e i
romani sottomessi. Dopo dieci anni senza un re (574-584, interregno), i capi longobardi elessero re
Autari, restauratore della monarchia. Visto l’utilizzo del termine hospites quando si parla dei
Longobardi (hospitalitas: ai barbari insediati all'interno dei confini dell'impero romano veniva
assegnata una parte di terre confiscate a proprietari romani o ⅓ dei proventi delle terre), si è
supposto che, nonostante molti romani furono trucidati, qualche proprietario terriero doveva pur
essere rimasto in vita per poter essere tassato. Paolo utilizza anche il termine nobili romanorum, in
riferimento, però, ai nobili del suo tempo (Longobardi e Franchi)che controllavano l'organizzazione
pubblica e possedevano grandi appezzamenti di terra. Si deduce, quindi,che il ceto senatorio fu
senz'altro decimato, costretto alla fuga o comunque privato del proprio ruolo politico, ma non si è
in grado di ricavare dalle parole di Paolo molte altre informazioni sui romani che erano rimasti e
sulla popolazione tutta. Per Alessandro Manzoni, che scrisse un celebre saggio storico sui
Longobardi nel 1822, l'invasione aveva provocato il totale assoggettamento dei romani (futuri
italiani) che non si fusero affatto con le popolazioni indigene. Questa conclusione aveva importanti
conseguenze politiche legate all'Unità d’Italia. Oggi la lettura manzoniana è giudicata scorretta: pur
essendo evidente che l'invasione causa la decimazione dell'aristocrazia senatoria, in nessun passaggio
si afferma esplicitamente che l'intera popolazione romana sia stata ridotta in schiavitù; Manzoni
compiva un'identificazione oggi rifiutata tra i romani di allora e gli italiani del suo tempo; i
Longobardi, pur bellicosi, non possono aver sterminato schiavizzato un'intera popolazione. Oggi si
ritiene che i Longobardi si resero presto conto della necessità di creare un potere territoriale dotato
di un apparato di uffici pubblici. I romani vennero privati dei loro diritti politici ed emarginati,
perché il controllo delle risorse passò nelle mani dei guerrieri Longobardi, ma non sterminati.
Culturalmente l’influenza latina è presente nell’uso dell’appellativo Flavius per designare il re.

- Le fonti e la filologia: c'è da chiedersi come facesse Paolo a sapere tutte queste cose scrivendo oltre
200 anni dopo i fatti. Purtroppo non si hanno molte informazioni riguardo le fonti che utilizzò. Gli
argomenti trattati e, soprattutto, quelli non trattati sono importanti per dedurre tratti delle sue
ideologie. Egli raccolse le tradizioni orali dei Longobardi, come la saga delle origini. Tuttavia,
nonostante l'avvicinamento alla cultura latina, loro non ebbero bisogno di inventarsi ascendenze
nobili antiche, ma gli bastava sentirsi parte di una stirpe (anche se ormai la lingua longobarda non
era più parlata e la religione ariana era stata abbandonata). Altra fonte fu Secondo di Trento che
narrò le fasi più difficili della conquista di cui ebbe esperienza diretta. Il testo è stato tramandato da
un centinaio di manoscritti, nessuno dei quali è quello approntato dall'autore direttamente o
tramite un copista. La filologia è la disciplina che ricostruisce un testo che aspira a essere più vicino
possibile a quello originale, definito archetipo. E’ stato fondamentale studiare la grafia, la
disposizione dei fascicoli, il copista che allestì il singolo manoscritto, il luogo in cui fu allestito, le
biblioteche che lo possedettero e gli errori comuni.

- Il rapporto con la cristianità: nonostante la condanna delle violenze anticattoliche, Paolo non
lascia un giudizio negativo dalla storia del suo popolo. In quanto monaco cattolico non poteva che
giudicare negativamente l'arianesimo dei primi Longobardi, gli eccidi dei romani e il saccheggio
delle chiese, era però fiero della storia del suo popolo e riteneva opportuno tramandarla.

La fonte materiale: sigillata africana D Hayes 109


Si tratta di un grande piatto rotondo di ceramica del diametro di 25,5 cm. E’ un oggetto molto comune,
usato per mangiare, prodotto nel VII secolo d.C. da officine africane nella regione corrispondente all'attuale
Tunisia (antica provincia romana dell'Africa). Il coccio in analisi è conosciuto col nome di sigillata per la
decorazione. Si tratta di prodotti che ebbero un grande successo commerciale e si diffusero in tutto il bacino
del Mediterraneo tra la fine del I e il VII secolo d.C.. A seconda di alcune differenze la sigillata africana è
distinta in periodi (D=ultimo periodo), mentre Hayes deriva dal nome di uno studioso inglese. Il piatto,
rotto, fu ritrovato nel 1993 insieme a moltissimi altri reperti nella cripta Balbi, luogo adibito a passeggiate
in caso di pioggia, adiacente al teatro costruito a Roma nel 13 a.C. da Lucio cornelio Balbo.
- La stratigrafia: il piatto e gli altri oggetti danno informazioni sulla datazione dello strato di terreno
ed economiche. Il metodo stratigrafico si basa sulla datazione degli strati del terreno in quanto, nel
corso del tempo, eventi naturali e umani hanno innalzato il livello del suolo, facendo sì che interi
edifici di epoche più antiche finissero sotto terra. L'archeologo identifica, innanzitutto, l'unità
stratigrafica grazie all'osservazione del colore e della consistenza del terreno, unità che non ha
necessariamente la stessa altezza ed estensione in tutta l'area di scavo. Viene fotografata e si comincia
a rimuovere il terreno, facendo attenzione a eventuali tracce del movimento dello stesso (può aver
ceduto nello strato inferiore o interventi dell’uomo hanno confuso gli strati). Tutti i reperti
vengono raccolti in cassette dotate del numero identificativo dell'unità stratigrafica. Si lavora,
quindi, dall'alto verso il basso e, dunque, a ritroso nella successione storica. Una volta suddivisi per
tipi, i reperti sono valutati quantitativamente. Prima della diffusione di questo metodo, si dava
importanza solo al recupero di frammenti di maggiori dimensioni e valore,ripristinando le forme
originarie degli edifici del passato classico, andando a svalutare tutto ciò che fosse medievale e
moderno. Attualmente, invece, non si privilegia nessuna epoca storica: studiare monumenti romani
occupandosi anche delle trasformazioni operate nel corso dei secoli permette di ampliare le
conoscenze sul passato. La stratigrafia permette di ricostruire le dieci fasi di trasformazione della
crypta balbi: latrine (II), abbandono, luogo di sepoltura (VI), abbandono, calcara (IX), terremoto
(IX), bagni, giardino (rinascimento), abbandono (1937). Bisogna, poi, capire perché quel materiale
sia finito lì. La forma del nostro strato corrisponde a un butto, ovvero una discarica, proveniente in
questo caso dal monastero di San Lorenzo in Pallacinis. L'eccessiva quantità di monete la datazione
omogenea di tutti i reperti fanno supporre che il butto sia avvenuto in un periodo breve, ecco
perché si pensa un'inondazione del Tevere e alla necessità di sgombrare il materiale accumulato dalle
acque nei locali del vicino monastero.

- L’economia a Roma e la questione pirenniana: la decadenza del monumento sembra confermare


l’idea del medioevo come epoca di degrado e abbandono, ma la presenza nel deposito di sigillata
proveniente dalla Tunisia e di reperti prodotti in Palestina, in Sicilia e da tutto il Mediterraneo
prova che questi centri di produzione erano attivi, che esisteva un commercio a lunghe distanze e
che Roma ne faceva parte. A Roma la situazione economica non era poi così drammatica se
qualcuno vi importava e qualcun altro vi comprava. Pirenne riteneva che il sistema economico e
commerciale antico non fosse finito con le invasioni germaniche (V), ma con l'espansione islamica
(seconda metà VII), in quanto le loro conquiste ruppero, a suo giudizio, l'unità economica del
Mediterraneo, mettendo fine ai commerci su lunga distanza con la conseguente scomparsa dei
mercati orientali e della moneta d'oro dall'occidente europeo, dove le città erano entrate in crisi
spopolandosi. Oggi, la tesi di la tesi di Pirenne è stata rifiutata perché: a) il commercio a lunga
distanza nel Mar Mediterraneo era sostenuto in primo luogo dalla domanda dello stato romano,
dunque la fine dell'impero d'occidente ebbe conseguenze anche economiche; b) tuttavia, l'uso della
sola moneta d'argento non può essere letto come segno di gravissima depressione economica; c)
Pirenne datava alla fine del VII secolo la scomparsa dell'oro e di prodotti provenienti dall'oriente,
come il papiro, sulla base di pochi documenti che sono del tutto insufficienti.
La fonte documentaria (diploma): Privilegium Othonis
Nel 962 il re di Germania Ottone I di Sassonia scese per la seconda volta in Italia, dove fu incoronato
imperatore dal pontefice romano. In quell'occasione, il 13 marzo del 962 a Lucca, fu emanato un diploma
dalla cancelleria, un ufficio che nel medioevo si occupava della produzione di documenti da parte di
imperatori, re, papi e di qualsiasi titolare di autorità pubblica. I diplomi medievali erano confezionati in
modo particolare, secondo le forme che ne garantissero l'autenticità: si prestava attenzione al materiale, al
sigillo, alla grafia e alle formule. Documenti come questo erano definiti litterae patents, ovvero lettere
aperte che dovevano essere esibite a terzi, a differenza delle litterae clausae,indirizzate al solo destinatario. Il
diploma di ottone è giunto nell'edizione che ne diede uno studioso italiano di metà Seicento, Ferdinando
Ughelli, sulla base di un manoscritto della biblioteca apostolica vaticana, non dell'originale disperso. Questa
versione è stata integrata e corretta dagli editori mediante il confronto con un diploma dell'imperatore
Enrico II, consistente in una conferma della donazione del 962.

- Il potere del vescovo: nel documento viene esplicitato quella che è l'entità del potere su Parma,
riassumibile in: deliberare, giudicare e ordinare. Non si può parlare di una anticipazione della
divisione di poteri di Montesquieu, infatti il testo si riferisce semplicemente alle tradizionali
attribuzioni di un conte carolingio, che erano tutte derivanti derivati dalla sua forza militare e dalla
capacità di costringere gli altri ad obbedirgli. Questa capacità era definita nel latino di documenti
giuridici medievali districtio, non nel senso di distretto, ma nel senso di distringere, ovvero
costringere. Il vescovo di Parma aveva il compito di occuparsi delle mura cittadine e delle strade
pubbliche, dunque ripararle e rinforzarle, imporre dazi a chi naviga nei corsi d'acqua e percorrere le
strade regie. Può esercitare il districtum e, quindi, arrestare, multare ed eseguire una sentenza. Per
quanto riguarda l'estensione del potere del vescovo si fa riferimento, prima, chiaramente alla città e
ad un'area che si estende per tre miglia fuori dalla citta; in altri punti ci si riferisce invece alle persone
e ai loro beni. Questi ultimi sono soggetti alla giurisdizione del vescovo dovunque si trovino, nella
contea di Parma o nelle contee vicine. Un uomo del vescovo di Parma (laico o chierico, libero o
servo) non obbedisce che a lui e a lui ricorrerà se un'autorità pubblica, anche oltre quel limite di tre
miglia, vorrà arrestarlo o multarlo. La concessione non è soggetta a nessun tipo di vincolo, dunque
non può essere revocata per nessun motivo: il potere pubblico su Parma è per sempre del vescovo e
dei suoi successori. Il potere è donato come se fosse una proprietà privata, ma il vescovo non diventa
un funzionario dell'imperatore (non è nominato conte, ma fa le stesse cose che farebbe un conte) né
è un feudatario, infatti il documento non contiene nessun termine che richiami il rapporto tra un
vassallo e il suo signore. Se fosse stato un funzionario, il vescovo avrebbe dovuto amministrare
Parma per conto di Ottone in qualità di suo rappresentante; se fosse stato feudatario, avrebbe
dovuto giurare di essere fedele a Ottone, pena la perdita del feudo. Tuttavia, non è corretto dire che
Ottone ceda una parte dello stato, in quanto Parma non costituisce uno stato autonomo. Giovanni
Tabacco ha definito questo fenomeno allodialità del potere. Il potere pubblico, che per sua natura
dovrebbe essere astratto e impersonale e che nel medioevo dovrebbe essere sempre riconducibile
all'autorità suprema dell'imperatore e per suo tramite Dio, è trattato come un allodio (termine
germanico per indicare la proprietà piena, alienabile e trasmissibile ad altri per vendita, donazione
eredità). Nel pieno della dissoluzione dell'ordinamento pubblico post carolingio, nacquero una serie
di poteri autonomi localizzati intorno a vescovi come Umberto o a potenti, per cui il documento
legittimava un potere che probabilmente Umberto già aveva ma che gli era contestato da altri
signori. Ottone non poté fare a meno di emanare questo documento per tenere insieme questi
poteri autonomi e mantenere il suo ruolo di protezione nei confronti della Chiesa.

- La cancelleria e la diplomatica: un documento del genere è utile per ricostruire il funzionamento


della cancelleria imperiale. Non bisogna pensare che l’imperatore intervenisse personalmente nella
composizione dell'atto di cui era autore giuridico, esso era composto dalla sua cancelleria secondo
una procedura rigida che ancora oggi le leggi, in parte, conservano.
a) invocazione (in questo caso alla Trinità) e intitolazione del re (rimane sempre la stessa per il
singolo sovrano a meno che non intervengano conquiste territoriali o acquisizioni di altri
titoli);
b) arenga: premessa al testo vero e proprio in cui vengono dichiarate le più generali
motivazioni dell'azione documentaria. Qui si afferma che compito precipuo del re è esaltare
le chiese di Dio ed è questo il motivo per cui egli è stato elevato al ruolo di imperatore;
c) narratio: si narra come si è giunti a quella specifica decisione. Si afferma che Umberto
stesso ha sollecitato la concessione;
d) dispositio: esplicitazione della concessione.
Tutte le azioni politiche delle autorità pubbliche dell'età medievale vengono costrette in questo schema.
Nonostante la sua fissità, un atto del genere può dare informazioni che verranno studiate dalla diplomatica.
Tale disciplina nell'analisi del documento e nella ricostruzione delle cancellerie che lo produssero è affiancata
da altre come la sigillografia. Ha in comune con la filologia l'attenzione al testo, ma se ne distacca perché ha
ha che fare generalmente con originali o con falsi in forma di originale.

La fonte documentaria: contratto notarile


Nell'archivio di stato di Napoli era conservata una pergamena scritta in una particolare grafia, detta curiale
amalfitana. Il documento è un contratto privato del 1034, si tratta di una permuta (scambio di beni) tra
Maria e suo padre Giovanni. Anna, madre di Maria e moglie di Giovanni, attraverso un testamento aveva
lasciato dei beni alle due figlie al marito senza dividerli. In questo atto Maria cede la parte di un mulino
d'acqua in cambio di una cassa e una coperta di lana. La parte finale contiene la sanzione prevista in caso di
inosservanza di quanto pattuito, necessaria per rendere valido l'atto.

- Il notaio: il contratto fu redatto da un notaio, una delle più originali creazioni del medioevo. Ad
Amalfi era chiamato scriba (come qui Giovanni) o, a partire dall'XI secolo, curiale. Nel medioevo i
notai si tramandavano l'un l'altro una serie di forme che garantivano l'autenticità dei loro atti, dalla
grafia (in questo caso la curiale amalfitana) difficilmente leggibile da parte di chi non apparteneva a
quella categoria, alle formule del testo. Ogni notaio imparava a scrivere a redigere contratti da
un'altro notaio in un rapporto privato di apprendistato. In altre aree e in altri periodi i notai
avevano anche un proprio segno di riconoscimento, come un disegno posto dopo la firma.
Documenti come questi permettono di conoscere il diritto privato dell'epoca. Era una materia di
cui il potere pubblico si disinteressava e che era regolato da consuetudini locali. Per esempio, Maria
compie la permuta in piena libertà, avendo la stessa capacità giuridica di un uomo, ma a Salerno (a
neanche 20 km di distanza) le donne, al pari dei minori, non potevano compiere transizioni
economiche senza la presenza di un tutore di sesso maschile. Il testo rispecchia le conoscenze
linguistiche dello scriba: si può notare la scorrettezza del latino se paragonato alla lingua classica o a
quella della cancelleria di Ottone. Giovanni sbaglia l'ortografia, non rispetta i casi, coniuga male i
verbi, introduce vocaboli inesistenti nel latino classico. Non si tratta di vero e proprio latino ma non
è neppure il volgare italiano che gli amalfitani parlavano tra di loro. Si tratta di una lingua artificiale,
inventata in una società che inizia ad avere bisogno della scrittura e a cui si inizia a ricorrere sempre
più abitualmente.

- Altre informazioni ricavate: La sottoscrizione dei testimoni dà informazioni sul loro grado di
cultura, sia quando non sono autografe sia quando sono autografe, come pare avvenga in questo
caso. Si nota, inoltre, che non esistono ancora i cognomi ma solo i patronimici, attraverso i quali si
va indietro di ben cinque generazioni. I nomi presenti nell'atto potrebbero dare informazioni
sull'origine etnica di chi li porta o, in periodi più avanzati, sulla diffusione del culto di santi e di
opere letterarie. Qui i nomi sono latini o greci, frutto del legame con la tradizione greca e bizantina.
Il confronto con altri atti dello stesso genere prova che nel Ducato di Amalfi la proprietà dei mulini
era divisa in quote, indicate non in quantità ma in durata. I ricavi dell'attività del mulino erano
divisi tra i vari proprietari in ragione della quota posseduta. Vi sono casi in cui uno stesso
proprietario possedeva quote di mulini diversi così da ripartire il rischio dei suoi investimenti.

- La datazione e la cronologia: l’atto non contiene una datazione completa, ma solo a metà del mese
di Febbraio seconda indizione. Un altro atto redatto dallo stesso scriba Giovanni nell'agosto del 1033
ha la datazione completa, indicando però non l'anno ma l'anno di governo del duca di Amalfi. Per
calcolare l'anno esatto bisogna, dunque, conoscere la successione dei duchi di Amalfi e confrontarla
con l'indizione. Nel medioevo gli anni erano numerati da uno a quindici, poi ricominciavano, sulla
base di una consuetudine del fisco bizantino. L'anno indizionale non corrispondeva a quello solare,
perché cominciava il 1 settembre e finiva il 31 agosto dell'anno successivo. Accanto alla diplomatica
si pone la cronologia, necessaria per smascherare eventuali falsi: per un falsario era molto difficile
esprimere la datazione secondo l'uso corretto di una determinata località in un determinato periodo,
ogni parte d'Europa infatti si regolava in modo diverso.

- La conservazione: La pergamena per molti secoli passo da monastero in monastero, fino a quando
agli inizi del Novecento fu presa, insieme ad altri documenti, dall’ultima monaca dell’istituto di
Santa Maria di Fontanelle (Amalfi). Il documento finì in un monastero in quanto, quando un bene
passava ad un'altro proprietario, questi riceveva di norma tutta la documentazione legata al bene. Lo
stato italiano riuscì ad impossessarsene, fino a quando l’atto non venne distrutto nell'incendio del
1943, causato da una pattuglia di soldati tedeschi in circostanze poco chiare. Fortunatamente era
stato pubblicato da Riccardo Filangieri nel 1917 in una raccolta di documenti prodotti nel Ducato
di Amalfi che, prima della conquista normanna (1073) fu un minuscolo stato costiero resosi
autonomo dall'impero bizantino. Per studiare la storia europea fino all'XI secolo gli archivi di enti
ecclesiastici e religiosi hanno un ruolo fondamentale, perché sono state le uniche istituzioni in grado
di conservare documenti giuridici ininterrottamente. Le organizzazioni laiche (es. cancellerie dei
regni) svilupparono questa capacità più tardi.
La fonte legislativa: Liber Augustalis o Costituzioni di Melfi
Federico II di Svevia, imperatore del sacro romano impero e re di Sicilia, promulgò nel 1231 una raccolta
delle leggi del Regno di Sicilia. Vennero annullate tutte le leggi le consuetudini precedenti che risultassero
eventualmente in contrasto con le disposizioni del Liber. La promulgazione di un unico corpo legislativo che
ingloba le leggi dei precedenti re di Sicilia e dello stesso Federico è di per sé un'imitazione di Giustiniano, cosa
che avviene anche nell'indicazione dei regni. Questo è un aspetto assai importante perché, nella tradizione
germanica e altomedievale, il diritto non è prodotto da un'autorità superiore ma gemina dal popolo stesso: è
il patrimonio di tradizioni e consuetudini preesistenti al singolo sovrano. Questa concezione tradizionale
non è negata dal Liber, tuttavia nel basso medioevo i sovrani ampliarono moltissimo la loro sfera di
competenze, costruendo organizzazioni pubbliche assai articolate, affidate e ufficiali di nomina regia e a
specifiche magistrature.

- L’influsso della religione nel Proemio: nessuna delle fonti analizzate in precedenza è stata
prodotta da istituzioni ecclesiastiche o è legata direttamente a finalità religiose, tuttavia gli uomini di
Chiesa erano così importanti nella nelle società medievale e la fede pervadeva così intensamente ogni
aspetto della vita che, in ognuna delle fonti, è possibile riscontrare un riferimento alla religione. Il
premio del Liber Augustalis ne è un esempio perfetto. Federico II riflette sul senso dell'esistenza
umana, al fine di giustificare la propria azione legislativa. Il re di Sicilia, come qualsiasi altro
principe, ha il potere di legiferare perché ha ricevuto da Dio il compito di tenere a freno la malvagità
degli uomini, manifestatasi con il peccato originale di Adamo ed Eva e propagatasi poi a tutta la loro
discendenza. Il testo del proemio si può dividere in più nuclei principali: il primo è il racconto
biblico della genesi con la creazione del mondo (prima la creazione di Adamo ed Eva e poi la loro
ribellione); il secondo enuncia la giustificazione del potere imperiale; nel terzo si spiega perché si
promulgano le leggi. I tre nuclei sono inseriti nella struttura tradizionale di ogni documento
pubblico. Il proemio contiene alcune citazioni letterarie della Bibbia: a proposito del compito del re
vengono richiamate la parabola dell'amministratore cacciato dal suo padrone perché ne ha
dissipato i beni, a cui si contrappongono i principi che intendono rendere il buon conto del loro
operato a Dio, e quella dei talenti nascosti sotto terra che invece Federico farà fruttare. Come ogni
cristiano egli risponde alla propria vocazione, infatti, è stato chiamato al vertice dell'impero ed è
dotato da Gesù Cristo di particolari talenti che deve mettere a frutto. Sono derivate dalla Bibbia
anche alcune definizioni ed episodi. Il premio non ricorre soltanto alle sacre scritture, ma anche
agli scritti degli stessi sostenitori della superiorità papale e a documenti emanati dai Papi. Si hanno
però riferimenti anche alla filosofia di Aristotele, ad esempio nel vedere il potere temporale come
una necessità contingente.

- regnum e sacerdotium: viene ripreso l'episodio in cui Gesù, ai farisei che gli chiesero se bisognasse
pagare le tasse, rispose: “date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Ciò
implica la separazione concettuale e funzionale tra regnum e sacerdotium, potere politico e potere
religioso, affermata da Cristo stesso, una separazione che non è presente nei testi sacri delle altre due
grandi religioni monoteistiche. Riprendendo invece una delle lettere ai romani di Paolo di Tarso, in
cui si afferma che le autorità attuali sono stabilite da Dio, viene ribadito il fondamento divino di
ogni autorità temporale. La funzione politica e quella religiosa sono dunque separate, ma al tempo
stesso connesse, connessione che si farà sempre più fitta quando il cristianesimo nel corso del IV
secolo diverrà la religione dell'impero. Al tempo di Ottone regnum e sacerdotium si
sovrapponevano e si confondevano: il Papa romano restava l'interlocutore più importante di
Ottone ma non interferiva nella quotidiana collaborazione tra il potere pubblico i vescovi e gli
abbati. Al tempo di Federico, invece, il Papa romano aspirava, per la superiorità della propria
funzione, a indirizzare le opere dell'imperatore. La reazione a tale egemonia papale non poteva essere
la laicizzazione del potere temporale, che era al di là degli orizzonti mentali dell'epoca, ma la sua
accentuata sacralizzazione, come testimoniato dal premio del l'opera.

- La composizione: colore che composero l'opera avevano imparato a scrivere per imitazione
secondo una tecnica inventata nel basso medioevo che prende il nome di ars dictaminis (ecnica della
composizione). Quest'arte conferisce alla lingua una raffinatezza che è molto distante dal latino del
proemio di Ottone. La tecnica non rendeva impossibile essere innovativi ed originali: i materiali
linguistici e concettuali a disposizione erano numerosi e la rielaborazione di un'espressione
assumeva un preciso significato.

- La fama di Federico: erroneamente la figura e l'azione di Federico viene qualificata con aggettivi
quali laico e moderno, usati come giudizi di valore in opposizione all’uso generico e negativo dei loro
contrari (clericale e medievale). Nulla è però più lontano dal nostro concetto di laicità quanto il
proemio del Liber, la sacralizzazione del potere temporale è stato un punto di passaggio
fondamentale per la separazione completa tra sfera politica e sfera religiosa.

La fonte giudiziaria: condanna di Dante


Il 27 gennaio 1302 il potestà di Firenze, Cante Gabrielli, giudicò Dante Alighieri ed altri tre cittadini
fiorentini colpevoli di corruzione nell'amministrazione delle risorse pubbliche. La pena prevedeva il
pagamento di una somma enorme (5000 fiorini per ciascuno), il confino all'esterno della Toscana per due
anni e l'interdizione perenne dei pubblici uffici. Poiché nessuno versò la somma, il successivo 10 marzo la
pena fu commutata in condanna a morte. Dante, come è noto, non rientrò mai più a Firenze e lasciò il
partito dei Bianchi. Affermare che si trattò della vendetta del partito avversario di Dante, quello dei guelfi
neri, è vero ma è semplicistico, in quanto la sentenza è corretta dal punto di vista formale. Il registro da cui è
tratta la sentenza qui riportata non è quello originale, andato perduto, ma una copia fatta nel 1349 da un
ufficiale del comune. La copia aveva finalità politiche: in un periodo di rinnovato estremismo guelfo si
andarono a cercare tutte le sentenze contro i ghibellini al fine di escludere i loro discendenti dalle cariche
pubbliche.

- Il potestà: quest'atto è il prodotto di un'organizzazione amministrativa matura qual era il comune


di Firenze all'inizio del 300. La sentenza fu emanata dal podestà Cante Gabrielli, informazione
presente nell'esordio che contiene anche la datazione. Qui si richiama come autorità suprema Papa
Bonifacio VIII e non l'imperatore, ciò perché Firenze era una città guelfa. In realtà, in quel
momento un imperatore non c'era perché dopo la morte di Federico II nessun altro re di Germania
era stato incoronato imperatore dal Papa. D'altra parte Bonifacio non era certo il sovrano di Firenze,
ne era piuttosto il protettore e principale alleato, per il resto Firenze si reggeva da sé benché facesse
parte, in linea teorica, del regno italico e dunque dell'impero. Il potestà, che assicurava l'ordine
pubblico e presiedeva il tribunale, restava in carica per un semestre. Spesso capitava che non fosse
originario della città come garanzia, in linea di massima, di mancanza di interessi. L'operato del
potestà, come di qualsiasi altro ufficiale pubblico, era soggetto al controllo da parte dei fiorentini.
Carlo di Valois, vicino ai neri di Corso Donati, aveva ricevuto dal pontefice il ruolo di paciere ed
entrò in Firenze il 1 novembre 1301 con un contingente armato insieme ad altre forze guelfe e
Cante. Il 5 novembre un'assemblea pubblica conferì pieni poteri al Valois, giorno in cui i principali
esponenti dei neri rientrarono in città. Si scatenarono vendette e saccheggi contro i bianchi, non che
il pacere Carlo li impedì. Il 7 il governo della città si dimise, lasciando il campo un governo
controllato dai neri. Il 9 Cante Gabrielli, considerato vicino ai neri, fu eletto potestà. A Cante spettò
il compito di legalizzare la vendetta dei neri, mettendo sotto processo gran parte degli oppositori.
L'ufficio contro la corruzione era la sezione speciale di un tribunale ordinario creata apposta per
perseguire gli avversari.

- L’inchiesta: il giudice Paolo da Gubbio procedette per via di inchiesta. Tutt'oggi esiste la
distinzione tra il processo di tipo inquisitorio, che si diffuse in Europa nel corso del 200 ed è
considerato una tappa importante nella costruzione dello Stato che in questo modo si faceva carico
di garantire la giustizia anche in assenza di denunce dei singoli, e il processo di tipo accusatorio
generato dalla denuncia di chi ha subito un danno. Venne condotta un'inchiesta su tutti i priori
degli anni precedenti, l'inchiesta fu dunque retroattiva. Secondo alcuni studiosi, Paolo ricevette una
denuncia contro i sei priori in carica nel bimestre aprile-giugno 1300, da qui procedette a
incriminare i priori dei mandati precedenti e successivi presupponendo che fossero stati eletti in
maniera fraudolenta giungendo fino a Danti, priore nel giugno-agosto di quell'anno. Si sospettava
che tutta l'attività di governo dei priori fosse ispirata dallo stesso disegno criminoso.

- La sentenza: trattandosi di una sentenza non sono elencate le prove a carico degli imputati. Del
resto essi non si difesero e per questo furono condannati senza che ci fosse alcun dibattimento. Il
diritto che regolava il funzionamento della Chiesa prevedeva che non presentarsi al processo (essere
contumace) costituisse una prova di colpevolezza e questo principio era stato recepito dagli statuti
comunali. Non è facile stabilire la reale colpevolezza di Dante. Sia bianchi che neri si combattevano
con le stesse armi: escludevano il partito avversario con tutti i mezzi e usavano la giustizia ordinaria
come uno strumento di repressione politica, cosa che avevano fino a quel momento fatto i bianchi.
Paolo da Gubbio era arrivato a Dante, l'unico incriminato dei sei priori di quel mandato, perché lo
aveva collegato al traffico di influenze volto a escludere i neri dal governo. Dal punto di vista dei neri
cioè cioè era inaccettabile e si configurava come corruzione, anche se non c'era passaggio di denaro o
interesse personale, ma solo partecipazione a un progetto politico. Dal punto di vista dei bianchi
l'esclusione dei neri era necessaria per il bene della città, sia perché essi sostenevano alcuni grandi
banchieri già condannati per corruzione, sia perché essendo così vicini al Papa vedevano minacciata
l'autonomia politica di Firenze. Inoltre, tra le imputazioni a carico di Dante e degli altri c'era quella
di aver tramato contro Carlo di Valois, contro Firenze, contro Papa Bonifacio VIII e contro i neri di
Pistoia, alleati dei neri di Firenze. Accuse, come abbiamo visto, non del tutto infondate.
- Il popolo: era un'istituzione che esprimeva la seconda autorità di vertice del comune: il capitano del
popolo con i suoi consiglieri e i suoi istituti differenti da quelli del potestà. Nella sentenza vengono
nominati gli ordinamenti di giustizia di Giano della Bella (1293), sostenuti dagli esponenti più
intransigenti del popolo. Questi ordinamenti avevano escluso dalle cariche pubbliche comunali i
nobili. Questi, detti magnanti, erano coloro che avevano un cavaliere in famiglia o che
semplicemente erano ritenuti tali. Dante, che aveva un cavaliere tra i suoi antenati, poté accedere alle
cariche pubbliche dopo che gli ordinamenti furono moderati a seguito dell'esilio di Giano. Nel
1302 l'ideologia popolare, che aveva generato gli ordinamenti, era ancora forte nella società politica
fiorentina e la sentenza enunciava motivazioni moraleggianti tipiche del popolo. In quest'ottica la
corruzione dell'amministrazione era al crimine più odioso di tutti. Nella arenga si paragona
l'amministratore a un pastore e il popolo fiorentino al suo gregge, immagine che richiama le sacre
scritture. Come il pastore avido che non si cura delle sue pecore ma le espone al pericolo dei
predatori, così le malversazioni degli amministratori provocano il totale disorientamento della
popolazione, in cui si diffonde la discordia. Ciascuno dei quattro condannati del 27 gennaio
avrebbe condiviso senza imbarazzo questi principi, a cominciare da Dante che pose barattieri
nell'ottavo cerchio dell'inferno.

La fonte contabile: lettera di cambio


Francesco Datini fu un importante mercante di Prato morto nel 1410 che merita un posto particolare nella
storia dell'economia basso medievale sia per la vastità delle sue attività bancarie, sia perché il suo archivio ci è
giunto pressoché integro. In esso trova posto una lettera di piccole dimensioni, in origine chiusa e bloccata
da un sigillo di cera. In passato non si usava infatti la busta per la corrispondenza epistolare, l'indirizzo era
segnato sul retro del foglio. In questo caso mancano indicazioni come via, numero civico e nazione,
considerate superflue in quanto la lettera era recapitata da corrieri privati al servizio dei mercanti o dei
governi che sapevano sempre dove trovare il destinatario. Antonio di Neve da Montpellier scrive
all'azienda di Francesco Datini, residente a Prato, che si trova a Barcellona. L'azienda svolgeva attività
creditizie e commerciali, importando ed esportando in proprio e per conto di altri. Antonio di Neve emette
un ordine di pagamento a distanza a favore di Gerardo Cattani, un mercante residente a Barcellona, che
ritirerà il denaro presso il banco Datini, a cui è appunto indirizzata la lettera. Non è Antonio di Neve a
disporre da Montpellier un versamento a Cattani, ma un suo cliente Bartolino Bartolini di Parigi, il quale
aveva versato la somma ad Antonio di Neve. Non si ha un reale spostamento di denaro, ma virtuale basato
sulla fiducia tra banchieri, motivo per il quale una lettera di cambio poteva anche essere rifiutata, protestata.
In tal caso la lettera di cambio tornava indietro. Sia Antonio di Neve che la compagnia Datini di Barcellona
registrano l'operazione nei propri libri. Gerardo Cattani scrive che la somma accreditata dalla lettera di
cambio va girata Jacopo Accettanti, si tratta della prima attestazione della girata cambiaria, che consisteva
di passare ad altri la somma ricevuta utilizzando lo stesso documento, evitando così i costi di un'altro
trasferimento finanziario. A versare l'importo ad Accettani è la banca pubblica di Barcellona che
probabilmente aveva un debito con il banco Datini.

- I vantaggi: rispetto a una lettera privata, manca l'allocuzione al destinatario, questo perché era una
lettera di cambio, un documento che rendeva possibile il trasferimento di denaro a distanza. Il
nome fa riferimento al cambio tra due valute (in questo caso la lira di Barcellona e il franco della
Francia). I banchieri convertivano tutte le monete reali in monete convenzionali, che permettevano
loro di fare i conti. Tutte le operazioni erano registrate in monete di conto, la cui corrispondenza
con le monete reali cambiava nel tempo a seconda dell'andamento del mercato. La lettera di cambio
è un documento con immediati effetti giuridici, anche se non era emesso né da un'autorità
pubblica, né da un notaio. Solo i primi contratti di cambio erano stipulati da un notaio ma, a partire
dalla fine del XIII secolo, i mercanti si resero autonomi per l'enorme quantità di transazioni
effettuate ogni giorno. La somma è indicata prima in lettere e poi ripetuta per sicurezza in numeri
introdotti dal cioè, regola rispettata anche attualmente. L’attuale sistema bancario basato sul
collegamento tra diversi istituti risale proprio al medioevo. È scritta in un linguaggio tecnico e la
lingua usata è il volgare toscano. Grazie alla lettera di cambio era anche possibile mettersi in viaggio
senza portarsi appresso i contanti. L’operazione comportava un guadagno per gli istituti bancari
corrispondente al costo dell'operazione compreso nel cambio. Questo metodo era utilizzato anche
per pagare un creditore su una piazza il cui costo del denaro era inferiore. Ovviamente non si può
ancora parlare di globalizzazione in quanto era limitata ad alcuni prodotti e a poche regioni
particolarmente sviluppate dall'Europa. Oggigiorno questi documenti permettono di essere a
conoscenza delle tecniche di calcolo elaborate dai mercanti, della storia della banca e con essa del
capitalismo medievale. Si hanno informazioni anche sul motivo per il quale veniva fatto un certo
movimento, sulla merce che si comprava.

- L’influsso della religione: nella lettera di cambio non mancano i richiami alla fede: in alto al
centro del foglio si legge l'invocazione a Dio, sia simbolicamente attraverso la croce, che
letteralmente a nome di Dio. La breve comunicazione si chiude con un augurio che per molti secoli
è stato usato nella corrispondenza epistolare.

- La datazione: l'accettazione è datata al 15 febbraio 1409, mentre la lettera portava la data del 5
febbraio 1410; non è un errore ma l'utilizzo di una diversa datazione. Il banco Datini data secondo
lo stile di Firenze, dove si soleva far iniziare l'anno non il 1 gennaio, ma tre mesi più tardi, nel giorno
in cui il calendario liturgico fissa l'incarnazione di Gesù. L'anno iniziava in momenti diversi nelle
varie località d'Europa, non sempre il 1 gennaio, data della circoncisione di Gesù.

- L’importanza del banchiere: il sistema creditizio era a disposizione di numerosi clienti, in primo
luogo dello Stato. Numerosi furono gli imperatori che si rivolgevano abitualmente ai banchieri per
ottenere cospicui prestiti. Il re d'inghilterra per combattere contro il re di Francia durante la guerra
dei cent'anni si fece prestare somme ingenti dai mercati italiani, in particolare dai Bardi e dai Peruzzi,
che non riuscì tuttavia a rimborsare, provocando il loro fallimento. Non c'è una delle guerre
scoppiate tra il XIII e il XV secolo che non sia stata finanziata dai mercanti banchieri, non c'è
edificio monumentale delle città europee che non sia stato costruito grazie a loro. Le molte aree
regionali che non erano coperte dalla rete delle banche erano tagliate fuori dai grandi commerci
internazionali, restando a livello economico molto inferiore. Il mercante banchiere del basso
medioevo fu un innovatore non solo dal punto di vista dell'economia e della mentalità, ma anche da
quello culturale, una cultura laica che comunicava in volgare. Nelle loro città, i mercanti
organizzarono proprie scuole per l'istruzione primaria, mentre la formazione tecnica avveniva
mediante il tirocinio in un'azienda dove i figli dei mercanti cominciavano a lavorare già a 10 anni. I
primi manuali di economia aziendale e di diritto commerciale sono stati scritti dai mercanti che
raccolsero nei libri di mercatura regole generali e dati particolari sulle monete, sui cambi, sulle
usanze, sul fisco e sull'andamento dei mercati. Le meravigliose architetture e le splendide opere
d'arte delle città italiane testimoniano ancora oggi quali straordinarie ricchezze avessero accumulato
famiglie come i Medici e i Pazzi di Firenze.

Potrebbero piacerti anche