Sei sulla pagina 1di 10

Marco Dogo

I discutibili privilegi dell’arretratezza: Zog e il caso albanese

Scrive Barbara Jelavich nel secondo volume, dedicato al XX secolo, della sua History
of the Balkans1:
“The interwar history of Albania cannot easily be compared to that of the other Balkan
nations. Because of its late unification and its turbulent first years, this state was at a stage of
development similar to the Serbia of Prince Miloš or to Montenegro at the beginning of the
nineteenth century”.
La diversa sfumatura semantica dell’inglese to compare e dell’italiano comparare può
servire da introduzione al nostro tema. La Jelavich intende escludere che la storia dell’Albania
nel ventennio fra le due guerre presenti caratteristiche analoghe, paragonabili a quelle delle
altre nazioni balcaniche contemporanee; ma una comparazione è implicita nel suo giudizio, e
il risultato di essa è una differenza misurabile in termini cronologici: il ritardo rispetto alle
prime esperienze di individuazione, separazione statale dal comune background ottomano.
L’idea che un ritardo sia convertibile in vantaggio è al centro del pensiero populista
russo sullo sviluppo storico, e la troviamo irradiata nelle società rurali dei Balcani ovunque vi
sia un’inteligencija attenta alla dimensione europea della modernità. Al di sotto della soglia di
consapevolezza teorica, tuttavia, quell’idea è immanente al percorso storico degli stati
successori dell’impero ottomano, che non si formano in blocco ma in sequenza, ciascuno
alterando l’ipotetico contesto di partenza con una varietà di sperimentazioni riuscite o fallite.
Perché il concetto stesso di arretratezza possa delinearsi, e orientare in modo significativo le
opzioni di un determinato ambiente, occorre che questo venga a contatto con un altro
ambiente in cui appaiano già operative formule efficaci per far fronte a bisogni e soddisfare
finalità che il primo sta appena imparando a conoscere. E’ possibile che il contatto sia cercato,
perseguito con accanimento, come nel caso della fitta rete di rapporti imitativi che si
stabilirono nel corso dell’800 fra le nuove realtà socio-politiche dell’Europa sud-orientale e la
mainstream ideologica, istituzionale, letteraria europea. Ma è anche possibile che il contatto
avvenga per inatteso crollo del quadro istituzionale dato e improvvisa esposizione alla realtà
esterna, e che quindi il contatto si sviluppi all’insegna di un forzoso adattamento. E’ il caso
albanese, come è più in generale il caso dei gruppi etnici orfani degli imperi – non
necessariamente “piccoli” gruppi: si pensi ai turchi, il cui sviluppo politico-nazionale è
prodotto della disintegrazione imperiale assai più di quanto questa non sia prodotto della
nazionalizzazione dei turchi.

1
Vedi nota bibliografica alla fine del testo.
In ogni caso, che la arretratezza venga scoperta attraverso un deliberato
comportamento imitativo o per subita esposizione alle regole di un contesto nuovo, il
privilegio ad essa inerente è percepito consistere nella possibilità di importare, da esperienze
più avanzate2, tecnologia, istituzioni, forme organizzative. Ebbene, se c’era un privilegio che
ai tarde venientes nell’Europa sudorientale sembrava offrirsi come molto promettente
scorciatoia alla modernità, questo era la possibilità di accedere a una forma politica di
successo, lo stati-nazione, essa stessa mutuata nei Balcani da “più avanzati” modelli europei.
Non bastava, tuttavia, un nome “nazionale”, un territorio e su di esso un 90% o più di
omogeneità etnica, per garantirne la praticabilità nell’Albania indipendente. Il profilo
nazionale debole è propriamente ciò che rende l’Albania di Zog paragonabile alla Serbia di
Miloš, mentre è il contesto regionale ed europeo a fare la differenza. Discuterne non sarà del
tutto ozioso, visto che nella storiografia come nella letteratura divulgativa la mancata
unificazione esterna, assai più che la carente integrazione interna, è assunta quale campo
esplicativo della scarsa vitalità dell’Albania, al tempo di Zog, come stato nazionale e come
stato tout-court.

1. Arretratezza

L’importanza relativa dei diversi fattori di arretratezza in Albania varia secondo il


punto di vista adottato, ma il risultato è comunque un’impressionante convergenza di
inibizioni allo sviluppo. La risorsa elementare di un’economia primitiva, la terra, era scarsa e
male utilizzata. Appena il 9% della superficie del paese, al tempo di Zog, era coltivata: il che,
per un paese ancora quasi esclusivamente agricolo-pastorale, costituiva un notevole record.
Era questo il risultato della storica mancanza di sicurezza nelle campagne, nonché del
perdurare di un regime agrario che teneva bassa la produttività di quella poca terra coltivata. Il
çiftlik ereditato dalla tarda epoca ottomana era infatti una mezzadria non stimolante
all’innovazione per i conduttori, e da cui i grandi proprietari potevano aspettarsi un utile solo
attraverso il quasi-monopolio che la rendita in natura assicurava loro su alcuni generi.
La struttura sociale, poi, era poco articolata e al tempo stesso disomogenea: sistema di
clan al nord, notabilato e contadiname di mezzadri e braccianti al sud, struttura mista al
centro, con le città (salvo eccezioni al sud) troppo deboli sul piano demografico ed economico
per funzionare da centri gravitazionali di bacini di una certa ampiezza. La “disomogeneità”

2
Il termine deriva un’indubbia risonanza valutativa dall’evoluzionismo unilineare ottocentesco; qui possiamo
tranquillamente assumerlo come sinonimo di “precedenti” (“più avanzate” in quanto “iniziate prima”).
non si riferisce tanto alla diversità dei problemi che affliggevano il nord e il sud, quanto alle
diverse percezioni cui ciò poteva dar luogo, nelle élites intellettuali, circa le priorità di un
progetto comune di sviluppo. Negli ultimi anni prima delle guerre balcaniche e
dell’indipendenza albanese, l’amministrazione ottomana, per secoli indifferente alla
valorizzazione delle risorse economiche e umane delle province albanesi, si era fatta viva con
un’aggressiva riaffermazione di sovranità. Fisco e coscrizione militare avevano cercato di
normalizzare, “livellare” le province albanesi: senza riuscirvi, certo, ma non c’era da
aspettarsi, sul fronte opposto, che la resistenza in difesa delle tradizionali immunità costituisse
un terreno propizio per il superamento dei particolarismi.
Si dovrebbe inoltre tener conto che per gli elementi della popolazione albanese più
dotati nei diversi campi – dalle armi al commercio, dalla religione al governo – lo stato
ottomano attraverso i secoli non aveva significato soltanto un’indifferente assenza o una
saltuariamente oppressiva presenza, ma piuttosto una meta da raggiungere mediante
cooptazione nelle multietniche élites imperiali, concentrate nella capitale o nei grandi
capoluoghi di provincia, lontano dal territorio etnico albanese. Ovviamente il generale
drenaggio imperiale delle élites locali aveva toccato in modo assai più intenso un gruppo
etnico largamente islamizzato come gli albanesi. Sono appena gli intellettuali dell’ultima
generazione pre-indipendenza, impressionati dal minaccioso emergere degli stati-nazione
balcanici, ad elaborare un progetto protonazionale orientato al superamento della
frammentazione linguistica e amministrativa albanese – la prefigurazione di una patria
politica dentro alla cornice imperiale.

2. L’indipendenza e il principe

L’indipendenza politica, e quindi l’esposizione alle dure leggi ma anche ai “vantaggi


differenziali” del sistema internazionale, non arriva, nel 1913, come sviluppo radicale del
protonazionalismo albanese. Arriva piuttosto come effetto collaterale dello sconvolgimento
militare e politico regionale, della distruzione del residuo dominio ottomano in Europa, del
contrasto e del compromesso fra le potenze. Lungi dall’essere una peculiarità albanese, questa
appare semmai come una variante dei precedenti percorsi di accesso alla indipendenza
politica nei Balcani, risolti dal momentaneo vettore dei rapporti di forza fra le potenze
europee più che dalla visione e iniziativa delle élites locali.
L’esperienza albanese dell’indipendenza politica dura appena un anno e mezzo; prima
di essere travolta dalla guerra europea essa ripropone modelli testati tre generazioni prima nei
paesi limitrofi. La figura di Esad Toptani richiama quella di Miloš Obrenović, despota scaltro
e violento, portatore di un’autorità costruita sulle convulsioni del vecchio regime; Ismail
Qemal bey ricorda il conte Ioannis Capodistrias, politico consumato e statista incerto fra
visione aristocratica e missione “nazionale”; ma le potenze europee optano alla fine per il
“modello Otto di Baviera”, che dovrebbe conferire stabilità ad un paese giudicato incapace di
auto governarsi. Allo scoppio della guerra europea il principe Wilhelm abbandona trono e
paese, e l’indipendenza albanese si sgretola nella belligeranza universale di gruppi armati
locali ed eserciti stranieri.
Le circostanze selezionano attitudini. La capacità di usare la forza era comune ad
innumerevoli capi-clan ed avventurieri. Uno fra loro si distinse per ambizione personale e
qualità politiche, e riuscì a fondare un suo principato sconfiggendo o neutralizzando i
concorrenti. Ahmed Zogu, già Zogolli, e che chiameremo col nome da lui assunto nel 1928
come re degli albanesi, Zog, non disponeva di grandi fortune; la sua tribù occupava una
posizione di rilievo, ma non dominante, nel centro-nord del paese; e nella sua famiglia si
contava più d’un funzionario, ma non di rango elevato, nella gerarchia ottomana. Nella
formazione di Zog erano confluite diverse esperienze: la violenza dei clan, l’assolutismo e
l’intrigo degli ultimi giorni di Abdülhamid, il modernismo dei Giovani Turchi, il formalismo
asburgico conosciuto e ammirato durante una sorta di confino di lusso a Vienna in tempo di
guerra. Sull’arco di vent’anni la parabola politica di Zog si identificò con quella del suo
paese. Non nel senso che egli si sentisse in qualche modo al servizio del suo paese, ma nel
senso che era questo – anziché il clan, poniamo, o l’accumulo di latifondi – lo strumento delle
sue ambizioni.
I compiti da Zog autoassegnatisi erano la conquista del potere e il suo consolidamento
in un principato. Per quanto possano apparire logicamente e cronologicamente distinti, i due
compiti sfumavano di fatto l’uno nell’altro, e in fin dei conti nessuno dei due poté dirsi
pienamente realizzato. Sebbene convenzionalmente lo si definisca come padrone assoluto, dal
dicembre 1924, del suo paese, Zog non poté mai sedere tranquillamente sul trono, e se alla
fine lo perse, il 7 aprile del 1939, fu per la drammatizzazione di fattori che fin dall’inizio
avevano minato il suo successo.

3. Costruire un principato

Finita la grande guerra, la competizione violenta fra gruppi armati, e rispettivi capi,
della popolazione albanese riprese entro il quadro della recuperata indipendenza, che metteva
in palio pezzi e funzioni di una struttura statale tutta da costruire. Impiegando mezzi adeguati
alla turbolenta situazione, Zog si curò di acquisire cariche come quella di ministro degli
Interni, della Guerra, di Primo ministro, che gli conferivano il monopolio legale dell’uso della
forza, e se ne servì contro i suoi nemici: rivali politici, irredentisti kosovari, capi-clan. briganti
comuni. Questa lotta aveva un preciso costo economico: si trattava 1. di armare uomini, e in
assenza di un esercito regolare ciò significava reclutare altre tribù oltre alla sua, e 2. di
neutralizzare tribù ostili pagandole e distribuendo mance, prebende e pensioni ai loro capi.
Inaugurata nel 1921, questa tattica fu di grande efficacia sedativa quando si sollevarono le
tribù cattoliche del nord, nel 1926. Essa finiva però per gravare pesantemente sul bilancio
statale, assorbendo una buona metà delle uscite.
Quanto alle entrate, le voci erano in tutto quattro, e riflettevano sia lo stato primitivo
dell’economia che lo squilibrio della società: la decima, riscossa con il sistema dell’appalto e
per 2/3 pagata da contadini poveri; i diritti di dogana, che gravavano su un’importazione per
lo più composta da generi alimentari; i classici monopoli di stato su sale, tabacchi e alcol; e la
tassa sugli animali – variante pastorale della decima agricola. Era del tutto improbabile che un
aumento delle risorse dello stato potesse venire dalla leva fiscale, in assenza di profonde
riforme.
Nel 1924 Zog fu sconfitto e scacciato da un’eterogenea coalizione di forze tradizionali
e di forze ingenuamente liberali; riparò a Belgrado, e di lì, sei mesi dopo, rientrò in patria alla
testa di un migliaio di mercenari pagati con i soldi dell’Anglo-Persian Oil Company (che Zog
avrebbe ricambiato con diritti di prospezione). Si combatteva come ai tempi degli ottomani, e
con mille uomini si poteva conquistare un paese; ma il vincitore, adesso, scopriva di essere
assai più che un super-capo-clan. Scopriva il valore d’uso della sovranità sul piano interno e il
suo valore di scambio sul piano internazionale. In quanto sovrano, il principe poteva fare
leggi e ridistribuire ricchezza; poteva perfino applicare l’autorità dello stato a far crescere la
ricchezza, o a far sì che qualcun altro la facesse crescere. Se all’interno del paese c’era
qualche risorsa da mobilitare – letteralmente: scuotere dall’immobilismo –, ciò non poteva
essere che nelle campagne. Si è detto del 9% di superficie coltivata. Occorre aggiungere che il
resto del territorio albanese era tenuto a pascolo per il 25%, il 33% era assolutamente
improduttivo, e il 33% era coperto da boschi e foreste.
Una condizione analoga del suolo, in Bulgaria e ancor più in Serbia, nel secolo
precedente, aveva consentito che mediante disboscamento e altri interventi labour intensive si
creasse abbondanza di terra e si generalizzasse la figura del piccolo e medio proprietario
contadino. Un simile sviluppo era impedito in Albania dalla classe dei bey, grandi proprietari
terrieri, gruppo minaccioso per Zog in quanto dotato di una base autonoma di sussistenza, e di
potere sociale non scalfito dal mutamento di regime politico. Culturalmente insensibili alla
modernizzazione dell’agricoltura di cui avrebbero invece potuto farsi protagonisti, i bey
osteggiavano la formazione di un settore agricolo fuori del loro controllo. Cosa essi
intendessero per intervento dello stato a sostegno dell’agricoltura, lo si vide quando imposero
al governo sedicente riformista di Fan Noli una tariffa alta sull’importazione di generi
alimentari! Tariffa, peraltro, che Zog non fu in grado di rimuovere, se anche l’avesse voluto.
Per sfidare i bey, Zog avrebbe dovuto promuovere nella campagne una rivoluzione dall’alto,
ciò che era estraneo alla sua cultura; si limitò dunque a servirsi della riforma agraria – peraltro
caldamente raccomandata dagli esperti internazionali – come strumento di intimidazione nei
confronti dei bey, senza spingere la ridistribuzione di terra, ad un bilancio finale, oltre un
mediocre 8% della terra demaniale e un marginalissimo 3% del latifondo privato.
Nel complesso, Zog sembrava considerare la società una liability assai più che un
asset. Non era di lì che si potevano spremere – o mobilitare – le risorse per la
modernizzazione, o più modestamente per il consolidamento, del suo principato. Ecco come
egli si espresse, al riguardo, in una intervista rilasciata nel 1928 al “Daily Telegraph”3:
“…we have to consider our position. We are centuries behind the rest of Europe in
civilization. The people can neither read or write; there are few written laws which are obeyed,
and blood feuds are still prevalent in many parts of the country. It is my determination to
civilise my people and make them as far as possible adopt Western habits and customs. Now
we cannto do this without assistance. Is there really any nation that can stand by itself,
independent of all others? We have had to make a start and adopt any methods which appeared
most convenient. We needed money more than anything else. How could we get it? Only by
borrowing from another power”.

4. Il valore di scambio della sovranità

Nel maggio del 1923, con Zog primo ministro, l’esperto finanziario J. J. Sederholm
diede parere positivo sulla richiesta di prestito avanzata dal governo albanese alla Società
delle Nazioni. Così egli scrisse nel suo rapporto4:
“Albania has achieved independence at a time when the whole world is impoverished
and she finds herself therefore financially at a disadvantage in comparison with the situation in
which the other Balkan states found themselves when they achieved independence. In their
case they generally found some Great Power able and willing to befriend them and to afford
them financial assistance. Albania depends on the League for impartial political support”.

3
Estratto dell’intervista riprodotto nella parte documentaria di B. J. Fischer, “Albanian Nationalism” (vedi nota
bibliografica alla fine del testo).
4
Citato in B. J. Fischer, King Zog (vedi nota bibliografica alla fine del testo).
Il prestito non arrivò mai, e Zog, per finanziare la costruzione dello stato – una
burocrazia, un esercito, una capitale che quando i soldi arrivarono avrebbe assorbito il 75%
del budget dei lavori pubblici – mise in vendita pezzi di sovranità. Chi poteva essere
interessato ad acquistarli? L’Italia di Mussolini, che offriva assistenza finanziaria in cambio di
influenza politica.
Come è noto, strumento della transazione fu la Società per lo Sviluppo Economico
dell’Albania, SVEA, attraverso la quale i crediti venivano erogati. Il presidente della SVEA
ammise in modo esplicito che l’operazione e la sua redditività andavano valutate in termini
politici. Concretamente, ciò significava che non era prioritario recuperare capitale e interessi
entro i tempi convenuti, ma che alla scadenza di una rata di rimborso una moratoria era
sempre possibile, contro adeguata compensazione politica. Zog, in effetti, tergiversava,
prendeva tempo, infine cedeva e negoziava nuovi crediti per pagare i debiti precedenti. Ad un
certo punto, nel 1931, Zog si lamentò con il ministro britannico a Tirana che l’Albania non
era assolutamente in grado di far fronte ai suoi obblighi, e gli italiani ben lo sapevano quando
avevano concesso i prestiti! La lagnanza di Zog può apparire molto ingenua, ma più
probabilmente era molto sofisticata. Era ovvio che i finanziamenti italiani, specialmente se ad
interesse zero, avessero un costo immateriale, e Zog stava appunto cercando nei britannici una
sponda politica che gli consentisse di sostenere quel costo.
Il gioco continuò per un paio d’anni, finché il governo italiano presentò all’incasso una
cambiale non proprio immateriale. Nel 1932, scaduti il debito principale, gli interessi su di
esso e il debito contratto per pagarli, l’Albania avrebbe dovuto versare annualità doppie di
rimborso. Altrettanto, per il caso di insolvenza, aumentavano le richieste compensative
italiane: unione doganale fra i due paesi, controllo italiano del porto di Durazzo. Per mettere
in chiaro che questa volta non si stava scherzando, da parte italiana si serrò il rubinetto di ogni
erogazione corrente, condizionandone la riapertura all’instaurarsi di una “sincera
collaborazione” fra i due governi. La situazione era davvero drammatica per Zog. Il prelievo
fiscale interno era rimasto quello di dieci anni prima, ma nel frattempo le spese statali erano
raddoppiate. Zog reagì, fra il 1933 e il 1935, come solo poteva, e cioè con feroci tagli al
bilancio.
Si noti che era questa, insieme alla riforma agraria, la ricetta suggerita dieci anni prima
da un esperto della Società delle Nazioni per il risanamento delle finanze albanesi; solo che
non si trattava, ora, di pareggiare il bilancio, bensì di sottrarsi alla morsa di Mussolini. La cura
dimagrante imposta da Zog alla spesa pubblica fu così drastica che, a giudizio del più
autorevole studioso dell’Albania interbellica, un paese appena più sviluppato
economicamente sarebbe andato in collasso.

5. Risorse nazionali

Ci si può chiedere se l’esperienza angosciosa di essere quasi messo nell’angolo


insegnasse a Zog a cercare in patria, anziché a Roma, le risorse per il consolidamento del suo
principato. In effetti, provvisoriamente chiusa con l’ennesimo compromesso la crisi con
Mussolini, negli ultimi anni del suo regno Zog sembrò rivolgere maggiore attenzione che in
passato alle potenzialità interne, forse valorizzabili, del suo paese. Fu fondata una banca per il
credito agricolo, e il cooperativismo venne incoraggiato. I comportamenti “moderni” delle
sorelle di Zog fornirono esempi dall’alto e legittimarono misure di emancipazione sociale
delle donne. Non molto più di questo, a dire il vero. Ma c’era anche quella risorsa impalpabile
e non quantificabile dello stato che oggi chiameremmo “lealtà dei cittadini”, o anche
“coscienza nazionale” nel senso di identificazione con le istituzioni comuni (piuttosto che con
l’ethnos). A giudicare da un passo della già citata intervista del 1928, Zog non era privo di
visione al riguardo:
“I regard the army as an educational factor of the highest value. The country’s crying need is
education, and the men who are called up under the conscription will return to their homes
with very enlarged ideas. You must understand that the average Albanian knows nothing about
nationality. He had always looked up to the head of his tribe, or his Bey, as the supreme
authority. He has got to be taught gradually to transfer this local allegiance, admirable in itself,
to the central government. He must learn in fact that while remaining the member of the tribe,
he is also a citizen of the State”5.
Le cose sarebbero andate diversamente da quel lungimirante seppur vago disegno, e
l’educazione nazionale degli albanesi non arrivò ad accumulare un capitale politico spendibile
in tempo di crisi. L’esercito non fu organizzato in modo tale da poter funzionare da agenzia di
socializzazione politica come negli altri stati balcanici dopo il Congresso di Berlino. Come
strumento tecnico del monopolio della forza, Zog preferiva una gendarmeria a lui fedele, e
addestrata dai britannici, a un esercito infiltrato dagli italiani. Avrebbe voluto scioglierlo o
almeno ridimensionarlo, e invece fu costretto a svilupparlo sotto controllo italiano. La
coscrizione universale non fu mai adottata, ma in compenso l’esercito ebbe un corpo ufficiali
ipertrofico, con una componente italiana e il resto degli ufficiali, indigeni, consapevoli che la
loro esistenza professionale dipendeva dai finanziamenti italiani. Nel biennio dei tagli feroci
al bilancio, unica voce di spesa intatta furono gli stipendi agli ufficiali e le mance ai capi-clan.

5
V. n. 3.
Ad essa furono sacrificati persino i fondi destinati alla Banca agricola, la cui apertura di
conseguenza slittò di qualche anno.
La scuola non andò meglio dell’esercito, come strumento di educazione nazionale, né
il suo sviluppo valse più che ad intaccare appena l’analfabetismo di massa. Al tempo
dell’intervista di Zog al “Daily Telegraph”, come retaggio del regime ottomano non
esistevano in Albania che scuole religiose o straniere. Il concetto di istruzione pubblica era
ignoto. Fu Zog a impiantare una rete di scuole elementari, che nel 1930 risultavano
frequentate dal 3% circa della popolazione, una quota assai modesta per un paese dall’elevato
tasso di natalità e con una struttura d’età affollata nelle fasce giovanili. Come è facile
indovinare, handicap dell’istruzione di massa era la mancanza di risorse finanziarie. Le poche
scuole secondarie producevano un numero insufficiente di maestri, comunque destinati ad
essere sottopagati così come i loro stessi insegnanti magistrali. Stabilire l’istruzione
elementare obbligatoria – ciò che avvenne nel 1934 – era una proclamazione di principio poco
efficace contro i duri vincoli di bilancio, ma significativa nel contesto della nazionalizzazione
o chiusura delle scuole private religiose/straniere. Sembra peraltro che questo recupero di
sovranità in materia di istruzione fosse negativamente compensato dal degrado dei servizi
erogati.
Nel 1939, alla vigilia della caduta di Zog, la popolazione scolastica era quasi
raddoppiata, ma l’analfabetismo era sceso appena all’85% – da un livello di partenza
sconosciuto ma ipotizzabile attorno al 90%. Non esisteva nella società albanese,
semplicemente, un’inteligencija giovanile o anche solo una classe generazionale beneficata
dall’istruzione di massa, la quale percepisse che il suo proprio avanzamento culturale e
materiale fosse dovuto all’investimento di risorse da parte dello stato e del regime in
particolare.

6. La partita a poker perduta del principe

Fu così che all’attacco italiano oppose resistenza una struttura personale di Zog, la
gendarmeria, ma nessuna struttura nazionale: non l’esercito, non il parlamento, non gruppi
modernizzanti patriottici o radicali. Quanto ai capi-clan, erano stati da Zog disarmati e
addomesticati. Come capo di un paese arretrato, che sconvolgimenti regionali ed europei
avevano sbalzato nell’agone del sistema internazionale di stati, Zog aveva costruito il suo
potere interno sulle linee di un modello tradizionale: ministri e funzionari erano suoi
dipendenti, la società era una gerarchia di clienti, la corruzione era economicamente
funzionale e moralmente accettata. Ovvio che ne restasse inceppato lo sviluppo istituzionale,
e inibita la partecipazione politica. Nel momento critico, Zog si trovò solo, come solo aveva
governato, e dopo di lui fu il vuoto.
Zog aveva però anche scoperto che il nuovo contesto esterno, la dimensione
internazionale, offriva opportunità impensabili ai tempi degli ottomani, e aveva cercato di
coglierle con una spregiudicatezza che avrebbe dovuto compensare la debolezza estrema delle
sue carte. Nelle sue intenzioni, la partita sarebbe dovuta durare tanto, quanto necessario al suo
paese, al suo principato, per consolidarsi al di sopra della soglia di vitalità. Durò meno, e Zog
perse partita e principato. Non è affatto sorprendente che nella generazione successiva, a
partire da un retroterra culturale e con un bagaglio ideologico profondamente diversi, Enver
Hoxha facesse tesoro della lezione di Zog e riprendesse la partita dei “privilegi
dell’arretratezza” all’insegna del guadagnar tempo mediante un controllo tanto oculato quanto
dispotico del dosaggio esposizione/isolamento.

* * *

Questo breve contributo configura un ragionamento su dati comunemente accessibili nella


letteratura e di per sé non controversi. Di alcune idee qui sviluppate sono debitore a Bernd J.
Fischer. Quella che segue non è una bibliografia essenziale, ma piuttosto una lista di titoli utili
per ulteriori letture. Il testo di M. Vickers è incluso per la sua reperibilità nelle biblioteche, ma
il lettore sarà sorpreso nel constatare quanto a man bassa esso abbia attinto dalla monografia
di Fischer su Zog.

Richard J. Crampton, Eastern Europe in the Twentieth Century, London-New York, 1994
Marco Dogo, Albania, “Storia dell’oggi” (l’Unità), 11, 1991
Bernd J. Fischer, King Zog and the Struggle for Stability in Albania, Boulder, distr. Columbia
U. P., New York, 1984
id., “Albanian Nationalism in the Twentieth Century”, in Peter F. Sugar, ed., Eastern
European Nationalism in the Twentieth Century, Washington, 1995
id., Albania at war, 1939-1945, London, 1999
Francesco Jacomoni di San Savino, La politica dell’Italia in Albania, Cappelli Editore, 1965
Barbara Jelavich, History of the Balkans, 2 vols., Cambridge U. P., 1983
John Kolsti, “Albanianism: From the Humanists to Hoxha”, in George Klein, Milan J. Reban,
eds., The Politics of Ethnicity in Eastern Europe, Boulder, distr. Columbia U. P., New York,
1981
Roberto Morozzo della Rocca, Albania. Le radici della crisi, Milano, 1997
Alessandro Roselli, Italia e Albania: relazioni finanziarie nel ventennio fascista, Bologna,
1986
Joseph Rothschild, East Central Europe between the Two World Wars, Seattle-London, 1979
Örjan Sjöberg, Rural Change and Development in Albania, Boulder-Oxford, 1984
Miranda Vickers, The Albanians. A Modern History, London-New York, 1995

Potrebbero piacerti anche